IL FOGLIO Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XIII NUMERO 299 Morti e saccheggi a Goma Accuse incrociate tra il leader dei tutsi Nkunda e il presidente Kabila sui “padrini” a Pechino e a Washington Londra insiste per la missione Kinsasha. Il conflitto in Congo, con morti e saccheggi nella zona orientale del paese, ha fatto emergere uno scontro geopolitico, una “nuova guerra fredda” secondo la definizione di alcuni analisti, tra Cina e Stati Uniti sul continente africano. Da una parte c’è l’espansionismo, non soltanto economico, di Pechino a caccia di risorse energetiche e minerarie. Dall’altra c’è il contenimento americano, che prende il posto del ruolo storico giocato in Africa dai grandi paesi europei, sempre più spaccati e indecisi. Tre giorni fa, il capo dei ribelli tutsi, Laurent Nkunda, che ha conquistato ampie fette del nord Kivu ed è alle porte di Goma, capoluogo della strategica regione congolese, annunciava un cessate il fuoco unilaterale e la disponibilità a trattare con il governo di Kinshasa. Nkunda, accusato di crimini di guerra, ha fatto alcune rivendicazioni. Una di queste rivela i riflessi strategici del conflitto: Nkunda chiede al presidente congolose, Joseph Kabila, di rinegoziare il patto d’acciaio siglato pochi mesi fa con la Cina. Un accordo di 9 miliardi di dollari per la costruzione di infrastrutture in cambio dei diritti di sfruttamento delle risorse minerarie. L’intesa prevede un investimento di Pechino di sei miliardi di dollari per la costruzione, attraverso imprese cinesi, di oltre seimila chilometri di strade, tremila chilometri di linee ferroviarie, due dighe, ospedali e scuole. I rimanenti tre miliardi saranno investiti nel settore minerario. L’accordo configura la creazione di una joint venture, detenuta al 68 per cento dal gruppo di imprese cinesi Railway Group e Sinohydro Corporation e al 32 dalla società nazionale congolese Gécamines. I termini dell’intesa prevedono “l’esenzione totale” da qualsiasi tassa o imposta sullo sfruttamento e la commercializzazione dei minerali fino al rimborso dell’investimento iniziale. Un’inL. NKUNDA chiesta condotta dall’Onu ha stabilito che le guerre in Congo riguardano da vicino “l’accesso, il controllo e il commercio” dei cinque principali minerali che si trovano nel sottosuolo del paese (coltan, diamanti, rame, cobalto e oro). Lo sfruttamento di queste risorse da parte di forze straniere, spesso intervenute militarmente in Congo, è risultato “sistematico”. I vicini Uganda e Ruanda sono stati accusati di avere trasformato le loro forze armate in “eserciti d’affari”. Il Kivu, dove da anni combatte il generale Nkunda, è uno dei forzieri minerari del Congo. Il capo dei ribelli è un tutsi legato al Fronte patriottico ruandese fondato da Paul Kagame, padre-padrone del Ruanda. L’appoggio dell’esercito ruandese ai miliziani di Nkunda è un segreto che tutti sanno. Sul fronte opposto, le fatiscenti forze armate congolesi sono alleate con i resti degli hutu che si macchiarono del genocidio in Ruanda nel 1994. Laurent Kabila, il discusso padre dell’attuale presidente congolese, frequentò ai tempi della Guerra fredda una scuola militare in Cina per poi seminare guerriglia e verbo marxista in Africa. Il giovane erede, che ha perso la fiducia negli europei, punta ai cinesi per possibili forniture militari, come elicotteri d’attacco e addestramento. DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 - € 1 IL MONDO PERFETTO DI BARACK OBAMA oi, qui, non abbiamo un “sogno italiano”. Ci risulta difficile credere che il soN gno americano possa essere moneta corrente, non nei salotti di Manhattan, ma nel paese normale. E che il suo sgretolarsi abbia provocato un effetto simile a quello di un abbandono del tetto coniugale. Il miliardariofilantropo Carnegie scriveva che sfortunato è il riccone che muore avvinghiato ai suoi quattrini, senza aver permesso loro di riciclarsi in lubrificante sociale. Warren Buffett, un altro che a un certo punto ha scaricato il superfluo dal conto in banca nel circuito della produzione di opportunità, nei giorni del crollo di Wall Street invitava i connazionali a salvaguardare la dignità, contrariamente ai pirati della finanza americana. Barack Obama, in quelle stesse ore, al fatale incontro con Joe l’idraulico, usò l’espressione “distribuzione del benessere” per riassumere la sua visione per l’America che s’augurava di governare: un posto dove le possibilità tornino ad aprirsi, le vie per il paradiso siano praticabili e dove chi sta meglio, chi ha già conseguito un assodato benessere, accetti di pagare qualche soldo in più per aiutare chi sta peggio. Niente di nuovo in questo, niente che contraddica il credo nella buona volontà e nell’empatia su cui i Padri fondatori avvia- rono il loro progetto. Perfino l’espressione “distribuzione del benessere”, usata da Obama a Toledo, non è originale, è riciclata da un personaggio di Thornton Wilder che, a un certo punto, paragona il denaro al concime: non ha valore se non lo si usa. Eppure, nel rush della campagna, i repubblicani hanno selezionato il leit-motiv dell’“Obama socialista”, del redistributore che ti ficca le mani in saccoccia, per screditare l’avversario e spaventare l’America indecisa. Dimenticando che, come suggeriscono campioni del capitalismo tipo Carnegie e Buffett, la via americana non ha mai rischiato d’intingersi in tentazioni collettivistiche, pur provando a instaurare una logica e un’etica del pluralismo che ispirasse la crescita civile. Riallacciarsi a quel filo di generosità e attenzione è uno dei meriti della campagna di Obama per la presidenza, per come l’ha concertata e per come, interpretando i suoi desideri, David Axelrod l’ha orchestrata sul filo della grande rappresentazione. Non è un caso che, partendo da questa visione e dalla solennità con cui andava presentata, il senatore dell’Illinois abbia generato un movimento popolare che va oltre la questione dell’anacronistica persistenza dei partiti politici. Obama inizia una campagna improbabile senza quattrini e senza sponsor, ma travolge le “inevitabili” macchine elettorali avversarie, aggregando tecnologicamente un movimento spontaneo di base attorno alla proposta d’un nuovo vigore nazionale connesso con quello dell’età d’oro, al tempo stesso chiedendo ai seguaci i quattrini necessari a vincere – un pozzo di milioni che gli sarebbe stato puntualmente accordato. E se “promessa” e “movimento” sono le prime due parole-chiave che hanno permesso a Obama d’arrivare sulla soglia della vittoria, il terzo fattore è “razza”: la destabilizzazione di certezze preesistenti, la capacità di indurre gli americani a scegliere l’uomo “capace”, prima che l’uomo in scala cromatica prediletta, sono il prodotto di indubbio progresso. L’America, confrontandosi quotidianamente con Obama, ha intrapreso una seduta psicanalitica di massa Wedding Obama “A Obama è stato chiesto perché è contro le nozze gay pure se ha condannato tutte le leggi che avrebbero impedito il matrimonio tra suo padre nero e sua madre bianca. La dfferenza, ha detto Obama, è la religione. Come cristiano – è membro dell'United Church of Christ – Obama crede che il matrimonio sia un'unione sacra, una benedizione di Dio, intesa esclusivamente per un uomo e una donna”. New York Times, 1 novembre 2008 che, salvo sorprese, archivierà l’effetto Bradley, consegnando un paese che cerca leadership, anziché appartenenza, come ha ribadito ieri Obama nel suo appello alla radio: “Cambierò l’America”. L’estate s’è rivelato il momento in cui il candidato “rockstar” ha cominciato a esprimere il suo quarto valore assoluto: il proprio sistema di risposte. Obama ha esposto non soltanto la sua vasta competenza, ma la capacità di delega e di utilizzo delle competenze disponibili. L’Obama che chiama al suo fianco Paul Volcker o Larry Summers, l’Obama che ascolta i generali e ne soppesa le correzione di rotta per il medio oriente, l’Obama pronto a pescare contributi in tutte le classi anagrafiche e politiche, è prima un grande coordinatore che un frenetico decisionista, e ciò piace all’America amara di questi giorni. Obama alla Casa Bianca commetterà errori e sarà immortalato durante imprevisti inciampi. Il rapporto con un Congresso troppo democratico e bramoso di sprigionare potere, ormoni e vendette, sarà per lui una terribile insidia. Ma si percepisce un rassicurante ottimismo alla base d’un suo insediamento. La sensazione di una ripartenza invocata. Dove le distanze siano più riavvicinate, le spalle più coperte, gli estremi meno lontani, i figli più accuditi. Non è tutta materia prima con cui è stata costruita la più magnifica delle nazioni? “Lo sforzo finale” di John McCain Lo staff del candidato repubblicano non molla e segnala riprese negli stati in bilico New York. A due giorni dalle elezioni presidenziali – con i sondaggi che continuano a minacciare una débâcle, tranne uno Zogby che dà addirittura John McCain avanti di un punto – il manager della campagna elettorale di John McCain ha scritto un memorandum dal titolo “The Final Push - The State of the Campaign” per spiegare che in queste ultime ore il suo candidato sta recuperando e che, al contrario di chi lo considera già sconfitto, ha buone possibilità di farcela, martedì notte. Il fronte Obama sostiene l’esatto contrario e ieri, a dimostrazione che il candidato democratico è competitivo ovunque, ha cominciato a comprare spot televisivi in stati tradizionalmente repubblicani, come il Nord Dakota, la Georgia e addirittura l’Arizona, lo stato di McCain. Il manager del candidato repubblicano, Rick Davis, ha spiegato che un elettore su sette è ancora indeciso. Questo vuol dire che se martedì andranno alle urne 130 milioni di americani, come si crede, ce ne sono ancora 18 milioni e mezzo da convincere. McCain pensa di farcela perché finire alla grande, dopo che è stato dato per morto, è una sua antica caratteristica, ma anche perché i sondaggi cominciano a segnalare un avvicinamento dei due candidati. La settimana scorsa, ha scritto Davis, i sondaggi davano McCain indietro di dieci e rotti punti, a metà di questa settimana almeno quattro rilevazioni nazionali sono rientrate entro il margine di errore. A livello statale, dove per McCain sarà più difficile recuperare il vantaggio di Obama, Davis sostiene che si nota un fenomeno simile, come dimostra l’improvvisa competitività dello Iowa, uno stato considerato da mesi nella colonna Obama e dove invece venerdì il candidato democratico è stato costretto a fare tappa. Poi ci sono gli stati del South West – Nevada, New Mexico e Colorado – che in questi mesi sono sembrati l’obiettivo più facile di Obama. In particolare in Colorado la gara si è fatta più serrata, sostiene la campagna McCain, che vede una ripresa repubblicana anche in Ohio e Pennsylvania, due stati che insieme fanno 41 grandi elettori. Qui McCain e la sua vice, Sarah Palin, ma anche Arnold Schwarzenegger e Rudy Giuliani, stanno concentrando i loro ultimi sforzi, puntando proprio sugli indecisi e su chi resta scettico nei confronti delle ricette fiscali di Obama. In generale, sostiene il team McCain, Obama fatica a raggiungere quota 50 per cento anche nei sondaggi che lo segnalano in testa, ma si assesta sempre sul 45-48 per cento negli stati in bilico. Davis, inoltre, ricorda che alle primarie democratiche Obama ha spesso preso meno voti rispetto a quelli che gli assegnavano i sondaggi. Gli obamiani spiegano di avere un vantaggio strategico e demografico, grazie alla mobilitazione dei giovani e degli afroamericani che solitamente non votano. Ma le analisi di Davis su chi ha già votato (dove è consentito il voto anticipato o per posta) non mostrano un cambiamento della composizione dell’elettorato: “E’ gente che molto probabilmente avrebbe comunque votato, a prescindere dall’alto interesse suscitato da questa campagna”. Il team McCain sostiene inoltre che la mossa obamiana di spendere soldi nelle ultime ore di campagna in Nord Dakota, Georgia e Arizona è un segno di debolezza, un tentativo di allargare il campo di battaglia in extremis perché sono diventati a rischio alcuni stati considerati sicuri fino a pochi giorni fa. Le ultime ore di McCain e Palin saranno di fuoco, spiega Davis. Lunedì i due candidati repubblicani toccheranno quattordici stati e nelle ultime 72 ore scatteranno le delicate operazioni di “get out the vote”, quelle per convincere la gente a recarsi alle urne. I repubblicani sono maestri di questa tecnica, al punto che Obama sta adottando il modello bushiano del 2004. Davis però sostiene che la sua organizzazione sta facendo meglio di Bush 2004 e, a sorpresa, ha svelato che nei rush finali McCain trasmetterà più spot tv di Obama. Come uscire dai guai del Grand Old Party Dopo il voto i leader conservatori si riuniranno in Virginia per riconquistare l’anima del partito New York. Martedì è il giorno delle elezioni, ma per il Partito repubblicano, qualunque sarà l’esito elettorale, quelli decisivi sono i giorni successivi. Anche se John McCain THE WRONG NATION QUARTO DI UNA SERIE DI ARTICOLI dovesse riuscire a diventare presidente con un recupero prodigioso, il Partito repubblicano resta a corto di idee e incapace di tenere insieme l’antica coalizione di liberisti, conservatori sociali e neoconservatori che ha dominato intellettualmente gli ultimi 28 anni della politica americana. McCain non è un esponente tipico del suo partito e la sua invece probabile sconfitta contro Barack Obama ha già accelerato la resa dei conti e la battaglia dietro le quinte per ridefinire l’anima repubblicana. Il quotidiano online The Politico ha svelato che giovedì, due giorni dopo il voto presidenziale, numerosi leader conservatori si riuniranno per un lungo weekend in una casa di campagna della Vir- ginia per avviare la discussione su come rivitalizzare un partito che con ogni probabilità perderà la Casa Bianca e subirà un’ulteriore e pesante sconfitta al Congresso. La fonte anonima citata da The Politico sostiene che in caso di vittoria di McCain il gruppo di leader conservatori si porrà il problema di come confrontarsi con la nuova Amministrazione, ben sapendo che il conservatore alla Casa Bianca non sarà McCain, ma Sarah Palin. Una settimana dopo le elezioni, a Miami, si riunirà l’associazione dei governatori repubblicani e l’incontro, a cui parteciperanno intellettuali, politici, sondaggisti ed ex generali, è già considerato come il primo appuntamento ufficiale per discutere il futuro del partito, seguito qualche giorno dopo a Myrtle Beach da una riunione convocata dal presidente del Grand Old Party della Carolina del sud, Keaton Dawson, uno che è in lizza per diventare presidente del partito nazionale. A gennaio, infine, il partito che in caso di sconfitta di McCain si troverà privo di leadership dovrà scegliere il suo presidente. L’idea è che a essere nei guai è il Partito repubblicano, non il movimento conservatore, come dimostra la campagna di Obama centrata sul taglio delle tasse (e alla destra del Partito democratico su famiglia, matrimonio gay, politica estera, sicurezza nazionale, pena di morte). L’America resta un paese di centrodestra, chiunque vinca le elezioni, dicono i principali commentatori conservatori. Non c’è, però, una ricetta condivisa su come riconquistare la leadership del paese. L’istinto primario è quello di accusare George W. Bush, e per certi versi anche John McCain, di aver tradito i principi conservatori per aver perseguito una politica estera espansiva e tradizionalmente democratica, ampliato la presenza sociale dello stato, aumentato il debito pubblico, salvato Wall Street e aperto le frontiere all’immigrazione clandestina. I leader di questo fronte sono i rumorosi conduttori radiofonici, l’ala populista, isolazionista e tradiziona- lista del partito a cui pensano di rivolgersi il presidente del Gop della Carolina del sud e il governatore Mark Sanford. Secondo Sanford, i repubblicani devono ritrovare la loro identità e smetterla di imitare i democratici: “Quella era l’idea del conservatorismo compassionevole di Bush, ed è stato un disastro”. Il rischio, ha scritto Kimberley Strassel del Wall Street Journal, è che questa voglia di ritornare alle origini trasformi i repubblicani nel partito del “no”, relegandoli all’irrilevanza come i Tory inglesi ai tempi di Tony Blair. L’altra opzione è quella di puntare sull’anima riformatrice e moderna del partito, sull’apertura agli ispanici e agli afroamericani e su una nuova generazione di politici, come Charlie Crist, Eric Cantor e Paul Ryan, capaci di parlare non solo agli americani degli stati del sud e del mid-west, ma anche a chi vive nelle metropoli. Mitt Romney si propone come l’unico capace di unificare le due anime, ma mai sottovalutare Sarah Palin. Il grande capitalista (finalmente) s’è mosso. Murdoch contro Obama grande capitalista (finalmente) s’è mosso. IsolRupert Murdoch, proprietario di un colosdell’informazione mondiale, con le testate più vendute dall’Australia agli Stati Uniti andata e ritorno, è uscito dall’ortodossia obamiana imperante e ha dichiarato che la vittoria di Barack Obama alle elezioni di martedì può peggiorare la crisi finanziaria. “I presidenti spesso non mettono in pratica quel che promettono in campagna elettorale – ha premesso Murdoch parlando all’Australian (quotidiano di sua proprietà) – perché diventano prigionieri di molte cose, delle circostanze e degli eventi”, ma “negli ulti- mi anni parecchi democratici hanno minacciato di introdurre dazi contro le importazioni cinesi se Pechino non avesse messo mano alla sua valuta: se ciò dovesse accadere, scatenerebbe azioni di rappresaglia che danneggerebbero seriamente l’economia mondiale”. Che cosa farà Obama naturalmente non è dato sapere, ma se fa quel che ha annunciato “assisteremo a un reale tracollo della globalizzazione”. C’è già stato “il precedente di Smoot-Hawley”, ha ricordato il tycoon australiano, facendo riferimento a quella legge che, nel 1930, alzò le tariffe su ventimila prodotti americani scatenando la NON PROFUMA L’ALITO. LO AZZANNA. FISHERMAN’S FRIEND. LA PIÙ FORTE CHE C’È rappresaglia di tutti i principali partner commerciali degli Stati Uniti. “Non posso immaginare che Obama faccia una cosa tanto folle, ma qualsiasi azione in questa direzione può aggiungere tensione al sistema finanziario e commerciale globale, fino a impattare sull’occupazione”. Con queste parole, Murdoch si pone in contrapposizione con il pensiero unico di tutto l’establishment o di uno come Warren Buffett, tanto per fare un esempio, che ha tirato la volata al candidato democratico alla Casa Bianca, aiutandolo a incarnare il ruolo del salvatore degli americani in queste www.fishermansfriend.it L’addestramento dei ruandesi La penetrazione di Pechino in Congo e nel resto del continente africano è vista come una minaccia da Washington. Gli americani considerano alleati di ferro il Ruanda e l’Uganda, definiti i “prussiani” dell’Equatore. Kagame, nel 1990, frequentò un programma di addestramento a Fort Leavenworth in Kansas. Lo scorso gennaio, il governo americano ha stanziato 7 milioni di dollari per addestramento ed equipaggiamento militare alle truppe ruandesi. Consiglieri americani istruiscono gli ufficiali di Kigali. Sia per le missioni di pace cui partecipano, come quella in Darfur, che nell’ottica della guerra al terrorismo globale. Il Ruanda è uno degli alleati chiave sui quali punta il neonato Africom, il sesto comando americano sul teatro strategico globale. Non è un caso che nelle ore cruciali dell’avanzata di Nkunda su Goma il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, abbia telefonato al presidente ruandese Kagame per cercare di evitare le violenze. Francesi e belgi, vicini al governo congolese e odiati dai tutsi ruandesi, hanno ipotizzato l’invio di 1.500 soldati europei per sostituire i Caschi blu, già in fuga. Se ne discuterà domani a Marsiglia alla riunione dei capi delle diplomazie dell’Unione europea, ma ci sono già parecchie spaccature. Il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner e il suo collega britannico, David Miliband, sono in missione in Congo da sabato. Londra insiste per la missione, al momento l’accordo c’è soltanto sull’obiettivo di organizzare una conferenza di pace a Nairobi per far sedere allo stesso tavolo Kabila e Kagame. Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO Il cambiamento, la crisi, il rock e Wall Street. Così si è imposto l’american dream Le Balene colpiscono ancora Nello scontro tra governo del Congo e ribelli spunta la questione cinese quotidiano DIRETTORE GIULIANO FERRARA ultime, impanicate settimane. Murdoch no, non ci sta. Definisce la politica fiscale di Obama semplicemente “crazy”, folle, soprattutto il piano di aumentare le tasse per chi guadagna più di 250 mila dollari e quello di distribuire i rimborsi d’imposta al 95 per cento degli americani (quest’ultimo è, testuale, “rubbish”, spazzatura). “Il 50 per cento della popolazione non paga le tasse, come pensa di offrirgli un taglio? Puoi dare un assegno, come Obama ha promesso, un sussidio di 500 dollari, ma scomparirà molto velocemente. Non darà certo un contributo per invertire il corso della crisi”. Che cosa fare allora? Una ricetta, Murdoch, non ce l’ha (o comunque non la dice), ma è sicuro di due cose, una bella e una meno. L’ottimismo gli fa dire che il mondo “combatterà come un pazzo” per aver un mercato sempre più libero e per segnare il successo del Doha Round. Il pessimismo, invece, gli fa dire che le elezioni americane non calmeranno la crisi di fiducia che, “sotto un certo punto di vista, è al di fuori del margine di manovra della politica. I politici sono molto limitati: possono far peggiorare la crisi, ma non possono fermarla”. Tutti da Licio il sabato sera Allarme democratico per un Grande Vecchio finito su una tv locale Gelli torna in prima pagina per via di un programma. Per Di Pietro pure il decreto Gelmini “era nel piano P2” Baudo: “Non si fa più gavetta” Roma. L’Unità dedica alla notizia il titolo di apertura, sopra la foto che copre quasi tutta la prima pagina: “Venerabile Tv – Gelli su Odeon rivaluta il fascismo e chiama con sé Dell’Utri e Andreotti. ‘Chi è il mio erede? Berlusconi’”. Più o meno lo stesso fa Liberazione. Ma la notizia del ritorno sulla scena di Licio Gelli, capo della famigerata loggia massonica P2, desta allarme e indignazione su tutta la stampa nazionale. Peccato che sia Marcello Dell’Utri sia Giulio Andreotti abbiano subito smentito la propria partecipazione (“Licio Gelli? E’ ancora vivo?”, è stata la prima reazione del senatore a vita). Dettagli che non hanno fermato il dibattito. “Una volta si faceva la gavetta, c’era una progressione di carriera per i meritevoli che crescevano in autorità e autorevolezza. Oggi non mi pare che sia più così”, ha commentato Pippo Baudo, evidentemente amareggiato dalla pericolosa degenerazione dei palinsesti delle televisioni locali. “Visto quanto se ne parla, l’operazione ‘Gelli in tv’ parte già in vantaggio. Ma attenzione all’autogol: in televisione talvolta un’aspettativa troppo alta può essere foriera di successiva delusione”, ha ammonito Paolo Bonolis, forse preoccupato per il potenziale danno d’immagine a tutta la rete, caratterizzata da programmi quali “Basta un poco di zucchero” e “Il campionato dei campioni”. Al centro dell’attenzione sta però la definitiva ammissione di Licio Gelli sull’identità del suo erede: Silvio Berlusconi. “La scuola, dopo la giustizia e l’informazione, è un altro tassello del progetto del venerabile della P2 Licio Gelli, che Berlusconi sta realizzando”, rilancia subito Antonio Di Pietro. Non che in molti non l’avessero già insinuato sin dal 1994, a partire dalle analogie tra il programma di Forza Italia e il celebre Piano di rinascita democratica elaborato dalla P2, che tra molte altre cose (e non poche banalità) prevedeva – udite udite – presidenzialismo e separazione delle carriere. Per la stessa ragione, peraltro, anche Bettino Craxi fu accusato di essere il vero erede di Gelli. E anche Massimo D’Alema (per via della Bicamerale). E di recente pure Walter Veltroni (sempre per via del dialogo sulle riforme). In realtà, per dirne una, nel piano della P2 si parlava pure di abolizione del valore legale del titolo di studio, ma a nessuno è mai venuto in mente di denunciare i molti sostenitori di una simile scelta come burattini di Gelli. Né risulta che Marco Travaglio – tra gli ultimi e più affezionati cantori del ritornello sui “veri esecutori” del piano piduista – abbia mai fatto serie indagini su chi, nell’Italia di oggi, voglia segretamente “aumentare la redditività del risparmio postale elevando il tasso al 7 per cento” (nel piano era previsto anche questo). Fatto sta che da più di vent’anni sulla stampa è tutto un denunciare nuove e vecchie P2, occulti e palesi esecutori del diabolico disegno di Gelli. Il quale sarà stato pure il Grande Vecchio, l’oscuro burattinaio di tutti i misteri d’Italia, il grande capo della massoneria internazionale, ma se oggi è finito a illustrare le sue venerabili reliquie pseudostoriche al pubblico di Odeon tv, evidentemente, le cose sono due: o non se la passa tanto bene lui, o se la passano anche peggio la massoneria internazionale e tutti i servizi deviati del mondo. Sai che scandalo, sai che vulnus. Quando Gelli dice: “Se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza”, è quello che Prodi ha fatto. Quando dice, sul lodo Alfano: “L’immunità ai grandi dovrebbe essere esclusa, perché al governo dovrebbero andare persone senza macchia”, è quello che sostengono Travaglio, Scalfaro, Eco, Fo, Veltroni, Di Pietro, Finocchiaro e ci fermiamo qui per comodità. Quando dice di Fini: “Avevo molta fiducia in lui, oggi non sono più dello stesso avviso”, quel “molta” a parte, standing ovation. Se Gelli ripete: “In linea di massima sono d’accordo con la Gelmini perché ripristina un po’ d’ordine”, si tratta di un’ovvietà parecchio condivisa. Quel suo “molti ragazzi vanno in piazza perché non hanno voglia di studiare”, è quello che ci hanno ripetuto per decenni l’universalità dei rettori, dei baroni, dei professori associati, dei supplenti, dei primi della classe, dei farmacisti, dei fruttivendoli e le mamme del mondo praticamente al completo, con l’eccezione sempre di Lidia Ravera. “Se oggi in Italia c’è un potere forte, quello è la magistratura”, bé, del tutto una stronzata forse non si può dire. “I partiti veri non esistono più”, chiedete a Macaluso. Però è vero. E’ vero che quando Gelli afferma: “Se dovesse morire Berlusconi, Forza Italia non andrebbe avanti”, questo è soltanto per far venire un colpo al ministro del Tesoro. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 ANNO XIII NUMERO 299 - PAG 2 Sangue television Guardare Porta a Porta e capire che cosa si intende quando si parla di comunismo da prima serata iovedì sera, veglia in tv. Esce, ed è già G stroncato, il film “Il sangue dei vinti”, dal romanzo di Pansa. La televisione di Porta a Porta fissa un’altra volta lo sguardo LA FINESTRA DI FRONTE sul sangue versato in Italia alla caduta del fascismo. Fosca puntata di parole schiette e di parole doppie. 1945-1946, la guerra è finita. Il Duce è morto, italiani ancora tornano dalla Russia. In alcune zone del paese si scatena un anno di guerra con il silenziatore. Un’ecatombe di vinti: fascisti, cattolici, anche famiglie, uccisi da irriducibili bande partigiane. Una stima quieta ci dice: 30 mila morti. Non è certo in questione l’equiparazione tra resistenza e fascismo. Gli storici, e anche noi, gente di buona volontà, vorremmo capire se esistesse un piano per la rivoluzione italiana e quanta parte del Pci coinvolgesse; si vorrebbe capire se i corpi dei vinti e la pace su di loro possano essere considerati sacri. O se i vinti, in piena pace firmata, possano essere decimati in silenzio e non parlarne più se erano fascisti; mentre è naturale protestare se i vinti uccisi fan parte del fronte anti imperialista. In studio c’è Pansa, giornalista che non fa sconti, quasi umorista, ora coraggioso narratore. C’è Michele Placido, protagonista del film. Ci sono gli storici Lucio Villari ed Ernesto Galli della Loggia. E c’è un’anziana signora, che parla un poco da sola. Fu partigiana, è di Sant’Anna di Stazema. E c’è l’errore di unire gli eccidi delle bande partigiane al golem inumano del nazifascismo, che ristagna tra gli occhi della donna di Sant’Anna. Villari offre baci perugina con il bigliettino al tritolo. Sorride a Pansa: Sono sicuro che non pensi davvero quello che dici. Dice: non capisco questo vittimismo. Si vede bene come sia in gioco la patente del vecchio comunismo, licenza spesso autocertificata, di forza democratica, esente da tentativi di fuga dal recinto repubblicano. Abbiamo scritto la Costituzione, esclama il direttore di Rifondazione. Sì, ma non è agli atti cosa facevate con la mano libera dalla penna e per quanta parte della resistenza la guerra antifascista fosse un passaggio verso la rivoluzione. Villari sorride: “Cose vecchie, via, si sono sempre sapute”. Nei ristrettissimi circoli intellettuali Sì, ma sapute in ristretti circoli intellettuali dove avere differenti opzioni sulla realizzazione del socialismo fu parte fisiologica dello scontro dialettico con i compagni che sbagliano – a meno che le Brigate rosse siano nate sotto ai cavoli. Difficoltà psicanalitica della sinistra davanti agli eccidi di famiglia. Vespa si aggira paterno come un sacerdote della tv, ah se l’autocritica comunista avvenisse da lui! Quando Villari sorride a Pansa che certo non pensa quello che dice, il professor Della Loggia fa notare che se la discussione ha questo approccio, è difficile incontrarsi. Al margine dello studio, su una sedia a parte, la vecchia partigiana non capisce. Viene da Sant’Anna, sente parlare di questo sangue fascista e crede che la tv metta in dubbio la mostruosità del fascismo. Ode ancora la mitraglia crepitare alla chiesa, quando la gente di Sant’Anna muore. Lei ha negli occhi il fumo nero che sale al cielo e si forma una nube. La nube è rimasta su Sant’Anna e ora è in studio. In modo brusco, e sinistro, le responsabilità politiche ora s’invertono. C’è una vecchia partigiana lì, un’italiana ancora offesa che non capisce il senso della serata, e forse della vita. Non glielo fanno capire. Il fascismo è scomparso, e non può essere in studio, ma è come se la palla passasse nel campo della destra storica, dove gli eredi di Salò hanno appena fatto i primi conti con se stessi, mentre poco fa, nelle loro stanze e nelle piazze rivendicavano la gloria del Duce. Poi c’è che gran parte della popolazione non fu fascista: ma cos’era? Indossata la divisa da balilla come fosse una divisa sociale, furono accolti senza battere ciglio i discorsi alla radio, le leggi razziali, la soppressione del sindacato e della democrazia parlamentare. La fine della libertà. Nei treni, nei bar, dal dentista, dicono che purtroppo il fascismo si alleò con la Germania, ma non fece niente di male. La storia è un mare in vivo movimento, non fissabile in unico sguardo, e dalla fine del fascismo, per non dire dalla fine del comunismo, il tempo è ancora poco. Gridano i morti di Sant’Anna. Gridano i corpi degli italiani uccisi durante il primo tempo della pace omicida – nelle vie si gridava viva la libertà. Ancora stentano a cadere le pietre del Muro di Berlino. C’è tanto da fare, in Italia. Alessandro Schwed PREGHIERA di Camillo Langone “Vittorio, Vittorio! Sono Aldo! Sto bene! Sto bene!”. Vittorio Messori nel suo “Perché credo” racconta la telefonata di zio Aldo, in una lontana notte torinese. E’ una pagina che fa drizzare i capelli: lo zio Aldo era morto esattamente l’anno prima. Cari morti, avrei bisogno anch’io di una telefonata. Oggi vengo io da voi, al cimitero, ma vorrei che ogni tanto ricambiaste la visita. Il mondo moderno vi respinge (dai giacobini che nel 1804 vi espulsero dalle città ai nichilisti che oggi vi espellono dalla realtà con la cremazione) ma voi non fateci caso, venite lo stesso. Perché se non venite voi vengono gli spiriti di Halloween, festa maligna che sta occupando un vuoto (ennesima prova che non si può vivere senza religione: dove finisce il cristianesimo comincia sempre una qualche forma di satanismo). Cari morti, rifatevi vivi. IL FOGLIO QUOTIDIANO DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 IL 4 NOVEMBRE DEI “TREI CJANTÒNS DA CJASE” Storia delle mille donne che portarono sulle spalle gli eroi della Grande guerra MANUELA DI CENTA RACCONTA LA VITA SEGRETA DELLE VOLONTARIE CHE COMBATTERONO COSÌ NELLE TRINCEE DELLA CARNIA Pubblichiamo l’intervento al convegno della Camera dei deputati del 29 ottobre su “La Grande guerra nella memoria italiana” dell’onorevole Manuela di Centa, parlamentare del Pdl e campionessa olimpica di sci di fondo. uando ero impegnata nell’attività sportiva, erano quasi diecimila i chilometri Q che percorrevo ogni anno per fare, come si dice, fiato e gambe. Diecimila chilometri in prevalenza sugli sci, ma anche correndo e camminando su e giù lungo i sentieri delle montagne di casa, della terra dove sono nata, la Carnia. Sentieri che si inoltrano nei boschi di abeti, larici e faggi e aprono a pianori smeraldini, dove un tempo danzavano le fate, i diavoli goffi e le bizzarre streghe del Carducci, ma anche sentieri che in alta quota diventano impervi, pietraie sulle quali un appoggio sbagliato può essere davvero pericoloso. Cercavo di arrivare su, fino alla cima, per quei sentieri che erano stati i sentieri della Grande guerra, percorsi da mia nonna, “none Irme”, con il sole, la pioggia e la neve, per ventisei mesi di seguito. Mia nonna all’epoca non aveva ancora sedici anni! Non saliva e scendeva di corsa, perché non era lì per fare gambe e fiato e per quello, comunque, bastavano ed erano d’avanzo i quaranta chili che portava sulle spalle, nella gerla. Quaranta chili di viveri, medicinali e filo spinato, ma anche di proiettili e di bombe a mano, che facevano di quella gerla una vera e propria santabarbara, esposta per lunghi tratti al tiro del cecchino. Quattro, cinque ore di cammino al giorno, salendo oltre i duemila metri, fino alle trincee del Pal Piccolo, del Freikofel, e scendendo il più delle volte con il carico dolente di morti e feriti. E al momento del bisogno, a fine marzo del 1916, sotto i violentissimi attacchi del nemico, “none Irme” lasciava la gerla per fare da servente ai pezzi di artiglieria. Lei, come tante altre donne della mia terra, delle mie montagne, era una “Portatrice”. Donne non comuni, temprate da una vita difficile in luoghi di montagna dove ogni giorno sfamare la propria famiglia era una impresa. Donne che non a caso venivano definite i “trei cjantòns da cjase”, i tre angoli che sostenevano la casa. Sono quindi particolarmente grata al presidente Fini per l’opportunità che mi viene offerta di ricordare qui, oggi, l’abnegazione, il coraggio e l’eroismo delle Portatrici, di quel migliaio di donne che senza alcuna costrizione, ma del tutto volontariamente risposero un giorno all’appello del generale Lequio, comandante della Zona Carnia. Queste donne combatterono la loro guerra insieme ai Portatori più giovani, ragazzi pratici della zona e delle loro monta- gne, e a quelli più anziani, impegnati nella costruzione e manutenzione di mulattiere, gallerie, piazzali per l’artiglieria. Era, quello carnico, un settore del fronte italo-austriaco di particolare rilevanza strategica, in quanto comprensivo del valico di Monte Croce Carnico attraverso il quale passava l’antica via imperiale Julium Augusta, un valico che il nostro Comando Supremo paventava come uno dei possibili accessi per l’invasione dell’Italia da parte del nemico, ma era anche un settore lasciato colpevolmente privo di difese nella convinzione di nascondere così all’ex alleato austriaco le nostre vere intenzioni, cioè di entrare in guerra a fianco dell’Intesa. Insomma, nell’illusione di mantenere segreto il Patto che Sonnino aveva firmato a Londra il 26 aprile, e che ci impegnava a dichiarare guerra all’Austria entro un mese, non avevamo scavato una sola trincea, né predisposto una sola teleferica, a differenza degli austriaci che avevano preparato tutto nel migliore dei modi. Ma il nostro Comando Supremo aveva fatto d’altro: temendo possibili connivenze con il nemico, per via della presenza in Carnia di talune, piccole isole alloglotte, aveva dapprima predisposto la destinazione ad altri fronti – Carso e Isonzo – della maggior parte della leva locale, poi attuato la deportazione, seppure temporanea, della popolazione civile verso l’interno. Cadorna non aveva capito che, se in Carnia qualcuno sapeva parlare, oltre al friulano, anche una sorta di dialetto tedesco, non era perché “austriacante”, come si diceva allora, ma semplicemente perché da sempre l’Austria, più vicina e più facilmente raggiungibile di Udine, Trieste o Venezia, offriva opportunità di lavoro ai nostri muratori, ai nostri falegnami e ai nostri ambulanti. Settore Alta Valle del Bùt Oltre quindi a non aver predisposto rotabili e teleferiche per un adeguato rifornimento delle linee del fronte, possibile allora soltanto con trasporto a spalle lungo le mulattiere e i sentieri impervi già descritti, si era provveduto anche a trasferire altrove chi avrebbe potuto sopperire, con la conoscenza dei luoghi, alle difficoltà logistiche e alle insidie poste dal nemico. Il prezzo pagato nei primi mesi di guerra in vite umane e in salmerie finite nei crepacci o centrate dall’artiglieria nemica risultò talmente alto da costringere il Comando Supremo a fare marcia indietro con le comunità deportate, chiedendo loro aiuto, così come del resto a tutta la popolazione della Carnia. E poiché gli uomini validi erano già tutti alle armi, l’appello, espresso con tutta la drammaticità che la situazione obiettivamente richiedeva, fu raccolto con slancio commovente dalle donne, molte del- le quali avevano mariti e talvolta figli impegnati al fronte, dai ragazzi e dagli anziani del posto. Fu così costituito un vero e proprio Corpo di ausiliarie, la cui età andava dai quattordici anni delle più giovani, ai sessanta delle più anziane. Suddivise in squadre di 15-20 unità, furono dotate di un bracciale rosso sul quale erano stampigliati sia i dati identificativi dell’unità militare con la quale operavano in stretta simbiosi, sia il numero del libretto personale di lavoro del quale ogni Portatrice era stata dotata e dove il furiere del reparto riportava presenze, viaggi compiuti, natura del materiale trasportato. Partivano tutti i giorni all’alba, dai depositi e dai magazzini di fondo valle, dove avveniva il carico delle gerle, senza una guida, e imponendosi autonomamente una disciplina di marcia. In caso di necessità, dovevano essere disponibili anche di notte e per qualsiasi destinazione. Se le posizioni della Zona Carnia, settore Alta Valle del Bùt, non furono mai cedute al nemico, ma solo inevitabilmente abbandonate dopo Caporetto, lo si deve anche al coraggio, alla abnegazione e al sacrificio delle Portatrici. A una di loro, Maria Plozner Mentil, madre di quattro figli, colpita mortalmente da un cecchino austriaco, il presidente Scalfaro ha voluto concedere nel 1997 motu proprio, la Medaglia d’Oro al Valor Militare, appuntandola sul petto della figlia Dorina, orfana di guerra di entrambi i genitori, e a sua volta Portatrice. Con legge dello Stato del 1969 veniva conferita l’onorificenza del “Cavalierato di Vittorio Veneto” a tutte le Portatrici, senza distinzione delle zone in cui avevano prestato servizio durante il conflitto, con la singolare conseguenza che il mio paese, Paluzza, annovera il più alto numero di onorificenze al valor militare conferite alle donne. A loro in modo particolare, ma anche a tutte le Portatrici e i Portatori della grande Guerra, idealmente uniti dall’amore per la propria Patria, va oggi il mio commosso pensiero e, sono certa, di tutta questa Assemblea. Grazie. Manuela Di Centa L A B E F F A D I L I N A T E E L O S T R A N O C A S O D E L L’ H U B D I M A L P E N S A / 1 Comunque andrà a finire con Cai c’è un partito che ha già perso,quello del nord Roma. La partita Alitalia si avvia finalmente alla conclusione con l’offerta presentata venerdì sera dai diciannove capitani coraggiosi di Cai. Un romanzo popolare che si dipana da oltre due anni, dove le prime bozze sull’epilogo consentono di soffermarsi sugli sconfitti. Oltre al sindacalismo corporativo e ricattatorio, nella casella dei perdenti va annoverato un altro attore molto rumoroso come il partito del nord. La grande Malpensa, sognata da dieci anni, resterà un obiettivo di difficile attuazione non potendo poggiare sulla principale compagnia aerea del paese. Il progetto elaborato per Roberto Colaninno da Intesa Sanpaolo e Boston Consulting, noto come piano Fenice, prevede il ritorno in Lombardia dei voli di lungo raggio solo a condizione che si chiuda (o fortemente ridimensioni) lo scalo di Linate. In caso contrario, con un aeroporto dentro la città che cannibalizza Malpensa, Cai non trasferirà quelle risorse che erediterà dislocate a Fiumicino. L’esigenza di un nuovo assetto sui cieli sopra Milano è condiviso anche da Lufthansa e Air France-Klm (British Airways non si è ancora esposta a riguardo), i due partner industriali più accreditati per entrare nel capitale azionario della nuova Alita- lia. Entrambi gli scenari che si prospettano – Linate aperto o Linate chiuso – ridimensionano fortemente le ambizioni di quel partito del nord che annovera al suo interno vertici istituzionali (Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Filippo Penati) e mondo dell’impresa (Emma Marcegaglia, Diana Bracco). La soluzione “meno Linate, più Malpensa” non ha mai convinto i politici milanesi. O meglio, dopo averla appoggiata in principio, si accorsero che la chiusura del city airport sarebbe stata impopolare e hanno fatto tutti retromarcia. Nel 1999 l’ex sindaco Gabriele Albertini arrivò a sconfessare in tribunale l’operato dell’ad di Sea (da lui nominato), Tomaso Quattrin. Oltre al danno di una Linate ridimensionata, si prefigura anche la beffa di un investimento di risorse da parte di Cai non sufficienti a fare di Malpensa un hub di livello europeo. Il capo di Sea, Giuseppe Bonomi, ha già espresso severe riserve sul piano Fenice. Se lo schema di limitare Linate dovesse andare in porto però avrà il placet del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, cosa che metterebbe in imbarazzo Moratti e Formigoni – che più che esprimere dissensi e distinguo, dovranno presumibilmente gioire per una vittoria mutilata. Tutt’altro che remota, invece, la possibilità che i veti incrociati suggeriscano all’esecutivo di non dare corso a un ridisegno del traffico aereo su Milano. In questo scenario, nonostante le reiterate intenzioni di tornare al nord espresse a più riprese da Colaninno e da altri componenti della cordata, Cai non si discosterà dal vituperato piano Prato, quello del disinvestimento da Malpensa. La nuova Alitalia partirà con risorse limitate e non disporrà di una potenza di fuoco per dislocare aeroplanini, come in un Risiko, su tre scali (Malpensa, Linate e Fiumicino). Ecco, ma perché è così indispensabile tagliare le ali a Linate? L’idea di Corrado Passera e Roberto Colaninno non è inedita. Lo schema ricalca il piano elaborato nel 1996 dall’ex amministratore delegato Domenico Cempella, che aveva il suo sostentamento normativo nel decreto del ministro dei Trasporti, Claudio Burlando. Un piano che tre governi dal corto respiro – Prodi I, D’Alema, Amato II – non ebbero la forza di difendere a Bruxelles. Il ragionamento, di ieri e di oggi, è il seguente: i milanesi che volano (specie quelli di business class) per destinazioni brevi preferiscono utilizzare Linate, per cui non si può rinunciare ai viaggiatori d’affari autoemarginandosi a Malpensa. Al contempo se l’aeroporto varesino ambisce a diventare un hub necessita di voli dalla periferia per “alimentare” le tratte di lungo raggio. Nessun hub, a eccezione di Londra, può sopravvivere solamente con i residenti dell’area metropolitana. Come si fa dunque a riempire gli aerei da trecento e passa posti dei voli intercontinentali? La soluzione è obbligare tutti, anche i concorrenti, a trasferirsi a Malpensa. Certamente Cai non intende proseguire nello schema ibrido perseguito da Alitalia negli ultimi dieci anni, lasciando voli su entrambi gli aeroporti milanesi. Una strada inefficiente che comporta il raddoppio di costi fissi (due aerei utilizzati, due equipaggi, due turni di manutenzione). Un ex ex capoazienda di Alitalia, quando provava a persuadere i suoi interlocutori politici amava ricorrere al seguente esempio: “Se su Linate e Malpensa arrivano cinque voli al giorno e ne partono altrettanti, ogni aeroporto offre venticinque ipotetiche connessioni, cinquanta quindi in tutta l’area milanese. Se però, quei dieci voli in arrivo e in partenza si spostano in un solo scalo, le connessioni diventano cento”. Giuseppe Marchini LE MOSSE INGLESI SULLA COMPAGNIA E IL FUTURO DI LUFTHANSA /2 Cosa succede ai capitani coraggiosi se in Alitalia arriva British Airways Roma. Si apre un’aerovia per Londra. Ambienti vicini a Cai sottolineano come l’opzione British Airways si sia tramutata, nelle ultime ore, da plausibile a credibile. Fino a oggi, l’inedita alleanza anglo-italiana veniva considerata, dagli osservatori, come un’ipotesi di scuola, e le prudenti dichiarazioni d’interesse da parte di qualche manager inglese come semplici “manovre di disturbo” nei confronti di due antichi rivali: Air France e Lufthansa. In realtà, fonti qualificate rivelano come dai frequenti contatti tra gli emissari di Rocco Sabelli e di Willie Walsh, i due chief executive officers, sia nato un tavolo tecnico con l’obiettivo di stilare un documento da sottoporre ai rispettivi consigli di amministrazione. La parola chiave è “visione”, e alti dirigenti delle due delegazioni lavorano su una prospettiva di medio termine condivisa. Si tratta di un dossier molto ostico, anche perché da parte di BA è stato più volte ribadito che non c’è disponibilità a entrare nel capitale azionario di Cai. Una volontà che lascerebbe pensare a un tiepido interesse e che potrebbe far sbuffare diversi azionisti della cordata italiana, desiderosi di un impegno stringente da parte del partner straniero. A favore di Londra però gioca un aspetto non irrilevante legato alle prospettive di crescita. La compagnia inglese, infatti, sul mercato italiano ha un grado di penetrazione molto ridotto rispetto alle altre due major europee, e quindi potrebbe giovarsi di maggiori margini di crescita alleandosi con la prima compagnia aerea italiana. BA inoltre è leader del mercato sul traffico tra Europa e Stati Uniti, mentre la spagnola Iberia (per la cui acquisizione gli inglesi stanno incontrando alcuni problemi) detiene la palma per i voli diretti verso il sud e centro America. L’area del Mediterraneo è però poco presidiata, e maggiori spazi di crescita per Cai potrebbero nascere anche sui voli verso l’oriente. La strada inglese potrebbe quindi essere più profittevole per Colaninno e soci, ma anche più rischiosa. Il tavolo tecnico, nel suo documento sulla visione condivisa, non esclude lo scenario di una possibile fusione da compiere dopo il periodo di lock up – che vincola i soci Cai a non vendere le proprie azioni prima di un quinquennio. Un tempo che oltretutto farebbe comodo a Walsh per testare sul campo il valore che si creerebbe dall’apertura di un fronte italiano. Nel passato gli inglesi qualche tentativo di entrare in maniera più incisiva sul mercato nazionale l’avevano esperito. Nel ’95 avevano avviato fitti colloqui con il presidente Alitalia, Renato Riverso, che coinvolgevano anche American Airlines. Un dossier che seguì personalmente l’allora capo delle strategie, Daniele De Giovanni, divenuto poi stretto collaboratore di Romano Prodi durante la passata legislatura. Nel 2000 la compagnia inglese provò una strada più ambiziosa, dando vita alla controllata italiana National Jet, alla cui presidenza insediò l’ex presidente di Confcommercio, Sergio Billè. L’avventura non ebbe successo e la società chiuse i battenti. Ma un eventuale accordo Cai-Ba cosa potrebbe comportare? Lufthansa e Air France certamente non resterebbero ad aspettare il logoramento delle loro quote di mercato. La compagnia tedesca, come anticipato dal Foglio il 19 ottobre, ha creato una scatola societaria nuova, Lufthansa Italia spa, per poter sfruttare gli accordi open skies e lanciare nuovi collegamenti diretti senza passare per gli scali tedeschi. Jean-Cyril Spinetta potrebbe, al contrario, riallacciare i rapporti con il principe ismaelita Karim Aga Khan, per studiare una collaborazione con la sua Meridiana. LIBRI PRESIDENZIALI C’è una campana (letteraria) che suona sia per Obama che per McCain el 1992, salendo sull’aereo della camN pagna elettorale, Bill Clinton sventolò un libro del suo scrittore preferito. Le vendite dei romanzi di Walter Mosley, nero cresciuto nel ghetto di Los Angeles, triplicarono in una settimana. Eletto presidente, Bill Clinton confermò al Wall Street Journal il nome del suo scrittore prediletto, consigliandolo a tutti. Mosley commentò: “Adesso ogni giornalista al mondo sa chi sono”. Da noi – dove i libri si scrivono in dosi massicce ma si leggono in dosi omeopatiche, e dove una campagna elettorale è considerata iattura dai librai, perché le vendite calano a picco – il “cosa sta leggendo?” non sta tra le legittime curiosità (l’unica scrittrice che abbia tratto vantaggio dalla politica si chiama Catherine Dunne: “La metà di niente”, citato di striscio nella lettera a Silvio di Veronica Berlusconi, rientrò prontamente in classifica). Sul supplemento libri del New York Ti- mes, Jon Meacham raccoglie le letture dei candidati Obama e McCain. Vince McCain, prima ancor di nominare un solo titolo. Quand’era prigioniero in Vietnam, per tenere la mente sveglia recitava scene di romanzi o film. Più o meno quel che fa il carcerato Molina nel “Bacio della donna ragno” di Manuel Puig: per distrarre il compagno di cella, gli racconta “La donna pantera” e altri film di zombie. Ma siccome l’altro è un prigioniero politico – il narratore invece è stato messo dentro per omosessualità – litigano di continuo. Uno vorrebbe sapere se i personaggi hanno coscienza sociale, l’altro non vede neppure l’apologia di nazismo in un film dell’UFA, occupato com’è a godersi gli abiti scintillanti e le pettinature. John McCain – che ha avuto l’onore di un ritratto firmato David Foster Wallace, in “Considera l’aragosta”, Einaudi – legge e rilegge “Per chi suona la campana” di Hemingway. “Ho sempre pensato che Ro- bert Jordan, il protagonista, avesse tutte le caratteristiche che un uomo deve avere”. Gli piacciono i racconti di William Somerset Maugham, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Eric Maria Remarque, “L’ultimo dei Mohicani”. Anche William Faulkner, “purché a piccole dosi”: i titoli preferiti sono “L’orso” (in “La grande foresta”, Adelphi) e “Turnabout”, portato sullo schermo da Howard Hawks nel 1933, con Joan Crawford e Gary Cooper (“Today We Live”, ovvero “Rivalità eroica”: una ragazza e tre spasimanti durante la Seconda guerra mondiale). Nel reparto saggi, meno ricco, “Declino e caduta dell’Impero romano” di Edward Gibbon (letto due volte). Barack Obama manda per e-mail una lista con Jefferson, Emerson, Lincoln, Twain. Sullo scaffale degli afroamericani, il James Baldwin di “La prossima volta, il fuoco” e Toni Morrison. Gli piacciono Graham Greene – titoli segnalati: “Il pote- re e la gloria”, “Un americano tranquillo” –, “Il taccuino d’oro” di Doris Lessing, “Padiglione cancro” di Aleksandr Solzenicyn, l’autobiografia di Gandhi, John Steinbeck, e nell’elenco ritroviamo “Per chi suona la campana”. Entrambi i candidati amano Shakespeare, entrambi hanno letto “Tutti gli uomini del re” di Robert Penn Warren, ispirato alla storia vera di Huey P. Long, il democratico populista che divenne governatore della Louisiana e fu assassinato nel 1935 (un paio d’anni fa Steven Zaillian ne ha tratto un film, con il liberal Sean Penn nella parte del commesso viaggiatore che voleva candidarsi presidente contro Roosevelt). Tra i predecessori, il serio Abramo Lincoln leggeva la Bibbia e Shakespeare. Il giocherellone Franklin Roosevelt combatteva Hitler e recitava i limerick di Edward Lear a Winston Churchill, che rispondeva a tono. Mariarosa Mancuso Ritratto di un negro La vendita all’asta di un quadro spiega meglio di ogni altro sondaggio il futuro americano una vendita all’asta in cui si disperdeva A una celebre collezione di disegni del Settecento, un mercante francese cercava invano di aggiudicarsi almeno un foglio di STRAVAGANZE Antoine Watteau. Ogni volta veniva battuto da un collega americano. Il mercante francese non spingeva mai troppo la gara perché aveva deciso di puntare tutto su un piccolo foglio che giudicava particolarmente interessante. Era deciso a combattere, ma non si faceva molte illusioni. Tutto quello che poteva aspettarsi era di costringere il suo concorrente a sborsare più dollari di quanti avrebbe voluto. Vista la disinvoltura con cui inseguiva ogni lotto anche oltre ogni ragionevole quotazione di mercato, il mercante americano doveva evidentemente lavorare su mandato di un collezionista disposto a pagare qualsiasi cifra per un disegno di Watteau. Di certo non si sarebbe lasciato scappare il pezzo più interessante. Il pezzo più interessante, secondo il mercante francese, era uno studio in cui l’artista aveva disegnato per tre volte la testa di un moro, da tre prospettive diverse. La qualità del disegno era alta, ma quello che interessava il francese era soprattutto il soggetto. Quando un mercante d’arte acquista un’opera ha perlopiù in mente il cliente a cui offrirla. In quel caso il cliente era più di uno. Da anni tra arredatori e collezioni andava di modo l’esotismo. Gli artisti orientalisti, pur mediocri che fossero, spuntavano sempre prezzi interessanti. Gli africanisti, molto più rari, andavano ancora meglio. Non c’era dubbio che un foglio africanista di mano di un grande maestro non avrebbe fatto la polvere in bottega. Quando il commissaire-priseur propose il foglio, il mercante francese aspettò. Intimoriti dalla presenza dell’americano, gli altri commercianti non si muovevano. Ma neanche l’americano si faceva vivo. Prima che il lotto venisse ritirato, il francese si aggiudicò il disegno. Aveva ottenuto quello che voleva, ma non era tranquillo. Come mai l’americano si era lasciato scappare un pezzo così interessante? Forse vi aveva visto qualcosa che lui non aveva notato? La carta era buona, la filigrana era di quelle che si vedevano in trasparenza nei fogli prodotti dal maestro nel periodo al quale, secondo lui, PICCOLA POSTA di Adriano Sofri Marco Di Domenico ha raccolto un repertorio di “animali e piante senza permesso di soggiorno” (“Clandestini”, Bollati Boringhieri, 16 euro) che comprende 45 esemplari che si sono stabiliti di nascosto dalle parti nostre e hanno fatto fortuna. Sono voci svelte, di tre o quattro pagine al massimo, in ordine alfabetico, dunque casuale e modificabile a piacere. Mosso non da un interesse scientifico, ma dall’interesse privato e dal fatto personale io ho scelto dall’indice nell’ordine la zanzara tigre, la formica argentina, la nutria, il punteruolo rosso della palma, l’ailanto, il gambero rosso della Louisiana, il pesce siluro e la vongola filippina. Non so voi. apparteneva il disegno delle tre teste di moro. La mano era indiscutibilmente di Watteau, le tracce del tempo avevano tutta l’aria di essere autentiche e non prodotte ad arte. La provenienza del foglio poi era delle più sicure, delle più documentate. Era un’opera che era stata studiata e pubblicata più volte. Ma se l’americano non l’aveva degnata di attenzione, dopo essersi aggiudicato di forza tutti gli altri fogli, qualcosa che non andava doveva esserci. La sera stessa i due antiquari si trovarono a cenare insieme. Il francese non seppe attenersi alla buona regola di non parlare mai di lavoro a tavola. La prese alla larga. Si complimentò per i buoni acquisti del collega, cercò di farlo arrivare al suo foglio. Poiché non riusciva a portare il discorso dove voleva, abbandonò la prudenza professionale e gli fece esplicitamente la domanda. Perché non aveva neppure tentato di acquistare il disegno delle tre teste? Cosa c’era che non andava? Niente, non c’era niente che non andava, era un disegno bellissimo, forse il più bello di tutta la vendita. Se fosse stato per lui l’avrebbe comperato subito. Ma purtroppo era un mercante e non poteva permettersi di scommettere su un’opera poco commerciale. Quanti collezionisti c’erano in America disposti a sborsare un mucchio di quattrini per il ritratto di un negro? L’episodio mi è tornato in mente quando hanno chiesto a me di scommettere su chi avrebbe vinto le elezioni in America. Sandro Fusina ANNO XIII NUMERO 299 - PAG 3 EDITORIALI Il nero bastardo E’ vero che il fenomeno Obama è la negazione multietnica dell’identità? L a tesi di Gad Lerner, esposta su Repubblica di giovedì in un articolo pieno di cose interessanti, è questa: il fenomeno Obama è la negazione multietnica della radice culturale identitaria, una specie di consacrazione del multiculturalismo e di parola fine apposta al concetto di occidente. Potrebbe non essere la tesi giusta, sebbene Lerner cerchi di suffragarla vantando come argomento decisivo il fatto che il prossimo probabile presidente è figlio di un keniano e di una americana, e ha trascorso periodi formativi della sua vita alle Hawaii e in Indonesia. Barack Obama ha in realtà imposto se stesso come un mito personale superamericano e ultramericano. Il suo profilo è l’incarnazione del sogno, e il sogno si nutre certamente del meticciato etnico e culturale, come sempre avviene nei gran- di imperi globali, ma approda dopo una esplicita e tormentata ricerca all’identità nazionale e perfino a un patriottismo culturale e religioso che a un “multiculti” europeo alla Lerner, civettuolo “bastardo” che non è altro, farebbe venire i brividi. Pubblichiamo oggi in prima pagina, solo per un esempio, la citazione della ragione addotta da Obama per giustificare la sua avversione al matrimonio gay: sono cristiano, la mia è un’opposizione che nasce dal sentimento religioso. (Va da sé che qualunque leader europeo pronunci la stessa frase sarebbe seduta stante impiccato alla sua bigotteria e al suo disprezzo per i valori laici della Costituzione.) Obama è un insieme di differenze che si comprime in una fortissima identità culturale e civile: è un white liberal guy di pelle nera, un perfetto americano. Ricattini sindacali Il caso Alitalia dimostra che gli accordi si devono fare dopo, e non prima C ai non ha ceduto al ricatto di quelle cinque sigle sindacali di piloti e assistenti di volo di Alitalia che hanno deciso di non firmare i contratti per il personale della nuova Alitalia. E’ stata così rotta un’assurda regola non scritta per cui una società che rileva da un commissario un’azienda dovrebbe sottostare alle condizioni poste da una parte di quel personale che si trova coinvolto nella procedura pre fallimentare. Il commissario deve fare l’interesse dei creditori, e l’acquirente deve poter rispettare i criteri di economicità senza veti di chi non ha alcuna voce propria in questa procedura legale. Nella logica di rapporti sindacali (coerente con un sistema d’economia di mercato) gli accordi con i sindacati non si dovrebbero fare prima dell’acquisto dell’azienda, rilevata da una procedura commissariale, ma dopo. E quindi il metodo con cui la trattativa di Cai è stata condotta, e che l’attuale governo aveva ereditato dal precedente, è un metodo sbagliato. Si è perso così molto tempo, ma s’è anche potuto verificare che il consociativismo neocorporativo non regge se non ha l’appoggio del potere politico. La sottoscrizione dei nuovi contratti di lavoro (e dei criteri di selezione dei lavoratori della nuova compagnia che agevolano il governo nel fronteggiare le conseguenze future del ricatto dei sindacati che non hanno firmato) deriva dal fatto che le single sindacali si sono rese conto che il governo, col ritiro dell’offerta Cai, avrebbe lasciato che Alitalia fallisse – seguendo così le regole di una economia pubblica che rispetta le regole del mercato. La logica del mercato, dunque, ha finalmente prevalso su quella consociativista che ha creato tanti danni e ritardi alla nostra economia. Cai ha avuto coraggio. Ma nei riguardi dei piloti e degli assistenti di volo che non vorranno aderire ai nuovi contratti sarà aiutata, ancora una volta, dalla logica del mercato. Esiste, infatti, un’offerta nazionale e internazionale di personale di volo che può rimpiazzare quello che non accetterà le sue condizioni, che sono meramente quelle prevalenti nel mercato europeo. Muerte al capitale, anzi no Fronteggiare la crisi o dare il colpo di grazia? Il sud America si divide R iuniti nella capitale del Salvador, i i capi di stato e di governo dei 22 paesi del vertice iberoamericano, hanno dato vita a un confronto che è presto sfociato in una specie di dialogo tra sordi. La differenza tra quelli che cercano misure adatte a fronteggiare la crisi dei mercati per rinsaldare il sistema capitalistico e quelli che pensano che sia giunto finalmente il momento per dargli il colpo di grazia sono troppo ampie per consentire qualsiasi tipo di convergenza non puramente verbale. La demagogia dei leader di Bolivia, Nicaragua, Ecuador, per non parlare di Cuba, si concentra nella denuncia delle inenarrabili nequizie dell’imperialismo yankee, mentre gli altri si preoccupano di come evitare la ricaduta della crisi che ormai minaccia da vicino le loro economie, come mostrano i nuovi cedimenti del sistema creditizio argentino (che già era crollato rovinosamente anche quando da Wall Street non venivano venti di crisi). La proposta del presidente messicano Felipe Calderon, per un nuovo rapporto tra stato e mercato inserito in un ordine internazionale più stabile, è caduta nel vuoto, mentre le politiche di nazionalizzazione delle compagnie petrolifere straniere adottate dai vari caudillos di sinistra hanno perso il loro fascino contemporaneamente al crollo del prezzo del greggio. Il documento approvato, un invito a nuovi investimenti per combattere la povertà, è talmente generico da apparire del tutto inutile, com’era inevitabile visti i punti di partenza sostanzialmente inconciliabili degli estensori. La baruffa del Piave La Russa esagera un po’, ma la sinistra si ricordi del volontario Togliatti I l ministro La Russa ieri è tornato su un argomento che ha già suscitato qualche polemica. “Il 4 Novembre – ha detto – sta per ridiventare non solo festa nazionale, perché lo è già, ma giorno di vacanza, esattamente come lo è il 2 Giugno e come lo è il 25 Aprile”. Se però festa nazionale “lo è già”, viene da domandarsi che bisogno ci sia di agitarsi tanto. Dopodiché, si finisce per cedere all’impressione di un vago spirito di rivalsa, neanche troppo nascosto nel paragone con il 2 giugno e il 25 aprile, foriero di nuove polemiche sulla gerarchia delle vacanze, ancora più inutili delle precedenti sul carattere “razzista” della canzone del Piave, denunciato da Liberazione con ottantotto anni di ritardo. Nel celebrare il 4 novembre non c’è nulla di strano. E infatti lo si è sempre celebrato, e tutte le principali cariche istituzionali – indipendentemente dalla loro personale formazione – vi hanno partecipato con discorsi solenni e con parole adeguate. Non meno pervasi di spirito unitario e aspirazione alla concordia nazionale, per parte nostra, invitiamo dunque i colleghi di Liberazione a cercare migliori spunti; tanto più che di simili polemiche furono già bersaglio, a sinistra, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti (che alla Grande guerra partecipò da volontario nella Croce rossa, essendo stato dichiarato inabile per miopia). Ma al tempo stesso, certi della sua intelligente comprensione, invitiamo anche il ministro La Russa a ispirarsi nei suoi interventi ad analogo spirito di concordia. IL FOGLIO QUOTIDIANO DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 I giovani Cisl spiegano quali risposte si aspettano ora dalla Gelmini Roma. Dopo la trattativa Alitalia i sindacati non erano certo in cima classifica alle classifiche dei più amati del paese, ma il successo dello sciopero di giovedì, oltre ad avere aiutato la resurrezione di Veltroni, sembra aver ridato slancio anche alle tre sigle sindacali, tutte in piazza a braccetto per protestare contro il decreto sulla scuola voluto dal ministro Gelmini. A giorni il ministro dell’Istruzione renderà note le linee guida che daranno un quadro più completo dell’idea che in viale Trastevere si ha sul futuro degli atenei italiani. Di questo, delle proteste in piazza, dei blocchi della didattica e di quello che occorre fare per riformare il mondo universitario, parla al Foglio Mattia Pirulli, presidente nazionale dell’Associazione giovani della Cisl (che si occupa, tra l’altro, di accompagnare giovani che hanno terminato gli studi nella ricerca del lavoro). Ventiseienne laureando in Economia alla Sapienza di Roma e studente lavoratore da tre anni, Pirulli dice che “il punto di partenza per giudicare le manifestazio- ni di questi giorni sono le parole del presidente Napolitano, che ha invitato al dialogo le parti per trovare una soluzione”. Lo sciopero però non sembrava un invito al dialogo. “Non è vero – prosegue Pirulli – lo sciopero è un modo per richiamare alla contrattazione, ha come obiettivo proprio il dialogo”. Secondo Pirulli serve che ci si sieda attorno a un tavolo e si rivedano i punti critici dei tagli all’università: “Sono stati fatti tagli generalizzati a cui siamo assolutamente contrari”. Che soluzione ci sarebbe? “Intanto quella di andare a vedere quali sono gli atenei più virtuosi e premiarli, non togliere loro la stessa quantità di fondi che si tolgono a chi ha una gestione di bilancio dissennata”. C’è anche la previsione della trasformazione in fondazioni private da parte di alcune università. “Il problema non è se un università è pubblica o privata, ma se offre un servizio buono ed è accessibile a tutti. Non sono contrario a questa trasformazione, anche se diversi punti non sono chiari e non si capisce la ricaduta che avrà ad esempio sulla ricerca di base”. Alzare di molto le tasse a chi se lo può permettere e creare più borse di studio per i capaci e meritevoli non sarebbe una soluzione? “Certo, potrebbe essere una soluzione, a patto che l’accesso sia davvero garantito a tutti e la qualità sia alta”, risponde Pirulli. Così come molti rettori “virtuosi” in tutta Italia, anche il presidente dei giovani della Cisl aspetta le linee guida della Gelmini con grande attenzione. Perché finora i tagli previsti in Finanziaria non lo convincono. Anche se, non per questo, è d’accordo con certe forme di protesta e con il blocco della didattica attuato in alcuni atenei della penisola, spesso per volontà di professori e rettori: “E’ assurdo che si arrivi alla sospensione delle lezioni – dice Pirulli, e parla soprattutto da universitario – Questo non è uno strumento che va a vantaggio degli studenti, soprattutto quando è imposto, come nei giorni scorsi. La libertà di scelta deve essere lasciata sempre: chi vuole aderire a una protesta lo faccia, ma per questo non penalizzi chi a lezione ci vuole andare”. Continua Pirulli: “Che molte università italiane siano in crisi è sotto gli occhi di tutti, e non solo dal punto di vista dei bilanci. Un cambiamento serve, ma è ovvio che se imposto dall’alto sarà difficilmente digerito; per questo dico che serve il dialogo, altrimenti non se ne esce”. La Gelmini avrà ben parlato con qualcuno delle linee guida, no? “Che io sappia non ha parlato con nessuno, questo è il problema”. Secondo Pirulli “è ottuso pensare che non serva una riforma, ma lo è altrettanto farla in modo unilaterale”. E’ vero, conclude Pirulli, “che la situazione attuale è anche eredità delle vecchie riforme, ma a maggior ragione bisogna parlare del ruolo che l’università oggi deve avere. Per questo dico: calma tutti, capiamo insieme come deve cambiare, avendo la preoccupazione che il livello della didattica sia elevato e l’università sia sempre accessibile a tutti”. E se bisogna fare dei tagli? “Si facciano pure, purché sensati e non generalizzati”. Maradona, quello nuovo, uscito dal massacro del maradonismo “LA NAZIONALE HA BISOGNO DI UN UOMO CHE FACCIA RIDERE E NON PIANGERE”, HA DETTO IL NUOVO CT DELL’ARGENTINA iego si stupisce dello stupore. Forse D fa finta: con lui non sai mai dove s’incrociano spontaneità e sovrastruttura. Vero, falso, sincero, costruito, sobrio, alteraDI BEPPE DI CORRADO to: si tira a caso. Va come va, perché questo è Maradona. Cioè tutto: il romanzo eterno di uno che a un certo punto è stato morto da vivo e che adesso torna non si capisce se per ritrovarsi o per avere una nuova scusa per autodistruggersi. Che s’aspettava, il silenzio? Lo sapeva, lo voleva. Allenatore lui. Dai. Le polemiche sono parte dello show, accompagnano il personaggio e il suo mondo, qualunque sia e qualunque sia stato. Poi è stato lui a cominciare, come sempre: “Quanto mi piacerebbe rubare il posto a Carlos Bianchi. Sarebbe come battere con un ko Tyson, Foreman o Monzon”. Adesso che vuoi, Diego? L’anonimato? Uno che non ha mai di fatto vissuto da anonimo non può chiederlo agli altri. Non lo vuole, comunque: è tutta scena, tutta coreografia di uno spettacolo che ha lui come protagonista anche quando non l’ha chiesto. Stavolta sì: s’è preso la panchina dell’Argentina e adesso si prende i se, i ma, i forse. Fanno parte del gioco: prendi sta palla, Diego, e comincia a palleggiare. Bisognava aspettarlo, perché Maradona non finisce mai. Questo è un capitolo, un altro. Prevede nemici, perché senza quelli Diego non sa stare: a Barcellona aveva i difensori, a Napoli prima la stampa, poi Ferlaino, a Buenos Aires tutto il mondo, a Cuba tutto il mondo più Bush. Adesso la gente. Cioè quel pezzetto di Argentina che l’ha schiaffeggiato l’altro giorno quando Clarin ha chiesto se fosse giusto dare la panchina della Nazionale a Dieguito: 50 mila no, il 73 per cento delle persone che ha votato. E’ uno stadio intero. Per Maradona sarà quello del River, da sempre pieno di gente che lo detesta. Cerca un pretesto e combatti. Però sa che dentro c’è gente del Boca, dell’Indipendiente, del Newell’s, gente che lo amava e che non si fida. E’ così, Diego. Adesso può esaltarsi o deprimersi, affari suoi: se ti rimetti in gioco accetti di uscire dalla protezione collettiva, dal rispetto infinito verso uno che stava per andarserne, dall’adorazione di un vincente che ha rischiato di perdere tutto. Il Diego drogato, quello malato, quello in clinica avevano compattato il mondo nella pietà, nella preghiera isterica degli orfani. I sit-in fuori dall’ospedale, i santini, le tv di tutto il mondo a fare stand-up di fronte all’ingresso del reparto: “Ecco l’ultimo bollettino medico sulle condizioni del Pibe de Oro”. Da allenatore non è più un resuscitato: è vero, toccabile, insultabile. E’ l’oleogramma che torna umano per l’ennesima volta. La risposta al cellulare Quanti ritorni ha avuto Diego? Non si contano più, non ci è riuscita neanche l’ex moglie Claudia, che a un certo punto se ne è andata. Questo è l’ultimo, per quelli che adorano la retorica è anche il più bello: Maradona in campo, anzi in panchina, comunque dentro, protagonista, sano, al lavoro. Sorridente, anche. Questa è la maradoneide: felice al pensiero che l’uomo sbagliato non ci sia più, cancellato da questo signore tirato e improvvisamente magro, lucido, normale. Uno che risponde al telefono ai giornalisti dalla macchina un’ora dopo aver avuto la notizia di essere stato scelto come commissario tecnico: “Mi possibile scrivere un opuscolo turistico su un paese in cui non siete mai E’ stati? Forse sì, se vi chiamate Erlend Loe e avete il suo senso dell’umorismo, la sua abilità nel cogliere il risvolto ironico della banalità quotidiana, la sua capacità di fare di un dettaglio usuale il punto di partenza di girandole che costringono a sorridere del grottesco che così spesso si nasconde nell’ovvio. In quest’ultima fatica, Loe aggiunge alla galleria degli stralunati protagonisti dei suoi romanzi l’improbabile figura di un redattore di brochure. Trentenne, single, senza amici, libero professionista attualmente disoccupato e squattrinato, si vede proporre da due funzionari dell’ambasciata finlandese la stesura di un pieghevole sul loro paese. Non c’è mai stato, lui, in Finlandia. Ma proprio quella mattina gli hanno rimosso l’auto in divieto di sosta, non ha nemmeno i soldi per ritirarla dal deposito. E allora si inventa sui due piedi una nonna finlandese, improvvisa un’infanzia trascorsa nel paese dei mille laghi, millanta una competen- sento come nei giorni nei quali sono nate Dalma e Giannina… Oddio sto commettendo un’infrazione ed è mancato poco che un camion mi schiacciasse”. Il cellulare, ec- tario potranno raccontare davvero. Non c’è perdono, non c’è comprensione. Il maradonismo ha massacrato Maradona, trasformandolo in un’icona, l’ha banalizza- Sono vent’anni che il campo da calcio non c’entra più niente con Diego, diventato il totem dei diseredati a caccia di un sogno da vivere. Diego personaggio che sovrasta Diego calciatore è stato un insulto incancellabile. Ora si ricomincia dalla panchina, dove non sempre vincono i più bravi co. Dicono non sia un dettaglio se risponde direttamente lui. Perché mentre guariva, glielo avevano proibito. Lo teneva un amico che stava sempre con lui. Non Cop- to, ha offuscato la grandezza dei suoi gesti tecnici, la bellezza del suo calcio, la straordinaria capacità di far vedere che cosa si possa fare con un pallone tra i piedi. Die- pola, un altro. Rispondeva e filtrava le chiamate per evitare di farlo parlare con qualcuno che lo tentasse, con qualcun altro che gli offrisse la sua gioia in polvere. Se adesso risponde lui senza bisogno di nessuno, allora vuol dire che quell’epoca è finita. Anche quella. E chi l’ha visto conferma: il look, lo spirito, la voglia sono da uomo, non da clown a caccia di uno scopo per fare pena. Non si parla di soldi nel suo contratto. Non ancora. Diego non ha problemi economici, è tornato una piccola azienda da tre milioni l’anno di sole comparsate e pubblicità. La federazione pagherà, certo. Quanto è ancora da vedere perché pare che Maradona abbia accettato senza neanche sapere quanto fosse l’offerta. Ha fame di se stesso, evidentemente. Lui più dei gufi che hanno sempre alimentato il suo mondo da eroe-sbagliato: perché c’era tanta gente che lo adorava rovinato? Perché hanno cercato sempre di prenderlo come esempio della rivincita, del riscatto, del sud che ce la fa? E’ così che s’è rovinato, Diego. Sapendo che c’era un mondo adorante a prescindere, che c’era chi era pronto a stare con lui senza riserve. Dicevano fosse perché in campo era stato un dio. Invece sono vent’anni che il campo non c’entra nulla, che Maradona è stato preso per il totem dei diseredati a caccia di un sogno da vivere. Il suo è stato un incubo fatto di fantasmi che nessun film e nessun documen- go personaggio che sovrasta Diego calciatore è stato un insulto incancellabile. Chi ha avuto pietà delle sue follie non s’è reso conto di aver ridotto a persona normale, uno che normale non era. Adesso sì. A 48 anni si può, forse si deve. Normale, ma eroe, perché sennò non sarebbe Diego. Ci dev’essere sempre un pretesto, ci dev’essere sempre un contesto. Ora c’è: l’Argentina pallonara che barcolla, arranca, si piega. Sconfitte, sconfitte, sconfitte. Diego è il salvatore, come nell’86, come ogni volta. I nemici non sono gli inglesi delle Malvinas, non sono gli italiani che fischiano l’inno argentino nella finale di Italia 90. I nemici sono ex amici: el pueblo, il suo. E’ incerto, dubbioso, scettico. Diego è Diego, sì. Ma la panchina? LIBRI Erlend Loe TUTTO SULLA FINLANDIA 233 pp., Iperborea, euro 14 za immaginaria, esce dall’ambasciata col contratto in tasca, in testa il miraggio di scrivere “la madre di tutte le brochure, quella che si legge comodamente seduti nella poltrona buona e poi si mette in libreria, accanto ai classici”. Impresa eroicomica che Loe mostra dall’interno, in presa diretta, squadernando un ininterrotto flusso di coscienza che continuamente si impegola in infinite digressioni tra il lavoro – c’è da stupirsi che proceda a rilento? – e i mille inciampi che la vita mette davanti. E pensare che il nostro La formazione l’ha sempre fatta lui Qui non servono numeri, non servono i piedi, non serve la testa, non serve vedere dove gli altri non vedono. La panchina è un casino, dove non sempre vincono i più bravi. Non sono passati neanche due anni da quando gli chiesero quante chance avesse di fare l’allenatore della Nazionale. “Zero direi. Non diventerò mai commissario tecnico, perché non so se chiamarmi conviene ai dirigenti”. Allora Diego allenatore è una scommessa alla quale forse non crede neanche lui. “La formazione la faccio io”, ha detto. Il che suona paradossale, visto che Ferlaino dice che la faceva scrittore di brochure si era presentato con una tirata contro l’acqua, suo incubo ricorrente, simbolo di instabilità e cambiamento, “siamo in molti a provare disagio per l’acqua, perché non la si può fermare, come il tempo, al diavolo entrambi”. Suo unico anelito, confessa, sono stabilità e certezze. Ma le certezze non sono che luoghi comuni, la stabilità è un sogno che continuamente gli viene sottratto, l’imprevisto irrompe: l’impiegata dell’ufficio cui si rivolge per riavere l’auto si rivela tanto gentile che lui passa una notte in un bosco solo per parlarle, in men che non si dica si ritrova a occuparsi del di lei inquieto fratellino, finisce per doverlo recuperare avventurandosi lungo un fiume su uno sgangherato kayak, costretto a vincere la guerra contro la propria fobia per l’acqua. E così via, in un caleidoscopio di situazioni di surreale quotidianità che invariabilmente sgretolano le povere sicurezze del nostro e lo obbligano a fare i conti con quel che accade. Moderno bildungsroman nordico col dono dell’autoironia e della levità. anche quando era giocatore. Il che suona paradossale al quadrato se pensi che Diego non avrebbe mai potuto allenare Maradona, perché sennò chi l’avrebbe fatta la formazione? Ha fatto sapere che farà fuori Zanetti, Cambiasso e Abbondanzieri. Non si sa di Aguero, cioè il genero, il fidanzato della figlia, che Diego considerava una mezza tacca fino a poco prima che scoprisse di ritrovarlo in casa per la cena di Natale. Giocherà, perché è forte. Giocherà perché fila con Messi, cioè il pupillo di Diego. Il resto è un’incognita che non sa risolvere nessuno. Sappiamo solo che la prima frase da commissario tecnico è stata questa: “La Nazionale ha bisogno di un uomo che faccia ridere e non piangere, di uno che renda felici e non tristi”. Anche lui ha bisogno delle stesse cose. Vuole ridere, vuole gioire. Gli altri ex compagni della generazione 86 lo aiuteranno: la federazione li sta chiamando uno a uno per farli entrare nel gruppo. Gli hanno messo Carlos Bilardo a fare da tutore. Avrà un vice, poi forse anche una squadra di consulenti: la protezione contro il rischio, l’assicurazione anti follia. Diego sceglierà, gli altri consiglieranno. Perché tutti sanno dei precedenti. Maradona ha allenato la prima volta nel 1994, subito dopo il Mondiale degli Stati Uniti: prese il Mandiyú, fece 12 partite 3 punti. Poi il Racing di Avellaneda: 11 partite 3 sconfitte, 6 pareggi e 2 vittorie. Due appena e una di queste forse neanche voluta: alla Bombonera contro il suo Boca. Il Racing non lo batteva in trasferta da vent’anni, ci voleva Diego per farlo. Non c’è altro, non ci sono avventure successive, prove con altre squadre, in altri paesi. C’è stata soltanto quella mezza frase del 1996, poi dimenticata: “Tornerò in Italia e lo farò per allenare il Napoli”. All’epoca era un’uscita così. Oggi? Oggi se chiedi in giro, non aspettano altro. Un capitolo ancora. Il romanzo, l’anti-Gomorra di Napoli: la faccia di Diego in copertina. Prima, durante e dopo. Futuro, questo. Mentre qui qualcuno sta pensando ancora al passato, ai numeri, alle esperienze, alle pazzie. Perché dopo quelle prove da mister, c’è stato il Diego folle, quello che alla Bombonera stava sul suo palco privato a petto nudo, mentre volteggiava la maglia del Boca come una ballerina di un night da quattro soldi. Quello con gli occhi spiritati e poi depressi, spenti, bui. Questo Diego ce li ha normali. Allora che fai, non gli credi? Non costa molto, in fondo. Se non ti illudi, Maradona è ancora il massimo della vita, è sempre quell’immagine del pallone attaccato al piede, è lo spot del calcio, il più bello che si possa avere. Dove lo trovi un altro che si divertiva a sporcarsi nel fango? Dov’è un altro che non cadeva mai, che barcollava dopo un fallo, ma restava in piedi? Dov’è chi calciava come lui, chi dribblava come lui? Bisogna tenersi tutto: videocassette, dvd, ricordi, foto, ritagli di giornale. Diego è un altro, ora. Il terzo, il quarto, il quinto Diego della sua vita. La panchina, la Nazionale, venti chili in meno, assomiglia a quello di metà anni Ottanta: non s’è capito se vuole provare a diventare adulto, o se cerca il modo per restare piccolo per sempre. Non sappiamo se il ritorno nel calcio è il ritorno all’inferno. Bisogna aspettare. Guardare. Spettatori di uno show che tanto va in onda lo stesso, anche se non lo vede nessuno. Se tradisce, peggio per lui. Qui ci sono le immagini. Qui c’è lui. Eterno. Può fallire Diego, chissenefrega. Noi avremo sempre Maradona. IL FOGLIO ORGANO DELLA quotidiano CONVENZIONE PER LA GIUSTIZIA Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara Vicedirettore Esecutivo: Daniele Bellasio Vicedirettore: Alessandro Giuli Redazione: Michele Arnese, Annalena Benini, Claudio Cerasa, Maurizio Crippa, Francesco Cundari, Stefano Di Michele, Giulio Meotti, Paola Peduzzi, Daniele Raineri, Marianna Rizzini, Christian Rocca, Nicoletta Tiliacos, Vincino. Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato) Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa Largo Corsia dei Servi 3 - 20122 Milano Tel. 02.771295.1 - Fax 02.781378 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 Presidente: Giuseppe Spinelli Direttore Generale: Michele Buracchio Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c 00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499 Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995 Telestampa Centro Italia srl - Loc. Colle Marcangeli - Oricola (Aq) STEM Editoriale spa - Via Brescia, 22 - Cernusco sul Naviglio (Mi) S.T.S. spa V Strada 35 - Loc. Piano D’Arci - Catania Centro Stampa L’Unione Sarda - Via Omodeo - Elmas (Ca) Distribuzione: Società Europea di Edizioni Spa Via G. Negri 4, 20123 Milano Tel. 02/85661 Pubblicità: P.R.S. Stampa Srl Via B. 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In una nota i rappresentanti di piloti e hostess hanno ribadito la loro contrarietà all’accordo con Cai alle attuali condizioni e hanno detto che “la resa incondizionata di Cgil, Cisl, Uil e Ugl rappresenta un’azione diretta contro i lavoratori” e che è in atto “una campagna mediatica piena di falsità” contro di loro. Lunedì il commissario straordinario di Alitalia, Augusto Fantozzi, esaminerà l’offerta Cai e a Fiumicino si svolgerà un’assemblea dei piloti e degli assistenti di volo. Anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, è intervenuto sulla vicenda chiedendo che “piloti e assistenti di volo si assumano le proprie responsabilità”. Secondo Pierluigi Bersani, ministro ombra dell’Economia del Pd “il problema di fondo è che l’offerta Cai è troppo debole per risolvere le esigenze reali del lavoro e per garantire un servizio adeguato interno ed internazionale”. Per Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, “è l’ennesima fregatura”. * * * “Veltroni ammetta i suoi errori”. Così Emma Bonino ha commentato l’assenza del segretario del Pd al congresso dei Radicali italiani a Chianciano. “Alle elezioni hai scambiato la tua fretta con l’urgenza del Paese – ha detto Bonino rivolgendosi metaforicamente a Veltroni – Ammettilo, o ti troverai a rincorrere un populismo che non porta da nessuna parte”. Sul ruolo dei radicali nel Pd, Bonino ha aggiunto: “Non c’è un contatto di partito”. E sul referendum sul dl Gelmini: “Ci avete sempre detto che i referendum si fanno sulle grandi questioni di principio. E ora su cosa lo facciamo, sul grembiule?”. Su Alitalia: “Il governo ha detto bugie colossali. Non so come andrà a finire” Per Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Partito democratico, “i rapporti tra gli eletti radicali e il Pd sono improntati a una collaborazione positiva”. * * * “Prezzo della pasta troppo alto”. Il garante dei prezzi ha convocato i maggiori produttori: “Gli operatori adottino comportamenti virtuosi per ridurre i listini”, ha detto. * * * Quattro feriti a Pordenone per un’esplosione al poligono di tiro. IL FOGLIO QUOTIDIANO DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 Combattenti pro McCain, un appello fervoroso per voi tutti Al direttore - E dopo i piloti kamikaze speriamo in un finale col botto. Maurizio Crippa già hanno manifestato qualche giorno fa i docenti del liceo Manini di Roma. Stefano Viale, Torino Al direttore - Spero solo che tra quaranta anni non ci saranno articoli commemorativi del vergognoso 2007+1. Maurizio Genoese Zerbi, Roma Mi sarei aspettato anch’io una manovra selettiva, e proteste favorevoli all’uniformità corporativa. E’ andata altrimenti. I tagli, si sa, non hanno anima. Al direttore - Molti tra i critici della protesta di sinistra sui decreti Gelmini commentano che l’opposizione avrebbe invece potuto responsabilmente attaccare la formula indiscriminata dei tagli alle università. Siamo d’accordo. Il modello scelto dal governo è sempre quello frusto dell’egalitarismo, alla faccia delle chiacchiere sulla meritocrazia. Solo che è difficile trovare un esempio più clamoroso di suggerimento rivolto al soggetto sbagliato. Se il governo avesse mai distinto tra università virtuose e no, la protesta a sinistra si sarebbe arricchita di tutto il repertorio di allarmi contro la spirale discriminazione-razzismo. Con la benedizione del Pd. Di sicuro tra i 250 milioni di manifestanti al Circo Massimo avrebbero sfilato sotto il palco di Veltroni un po’ di professori e studenti, più qualche bambino, con appuntata la stella gialla. Così come Al direttore - Penso, direttore, che Berlusconi debba rassegnarsi. O se ne va, scioglie il Pdl e, vista la maggioranza di cui dispone, fa votare un provvedimento con il quale i partiti del centrodestra vengono messi fuori legge (e quindi sono impediti dal partecipare alle elezioni) oppure deve mettere in conto e sopportare gli scioperi della Cgil. Giuliano Cazzola, deputato del Pdl Al direttore - Dopo sono tutti buoni. Io, invece, le dico prima che, secondo i miei personali sondaggi, è assolutamente certo che il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà McCain (e, se Dio vuole, gli succederà Sarah Palin per otto anni, salvo imprevisti imprevedibili). Non può che essere così: solo una mutazione antropologica del popolo americano potrebbe indurlo, an- che semplicemente disertando le urne (ed è invero questa l’unica chance di Obama), a bersi un altro “prodotto Carter”. E dei “Clinton” e dei clintonismi gli americani hanno fatto ormai esperienza. Cioè, né l’Obama visionario e sognatore, né quello calcolatore e opportunista, hanno la speranza di vincere. Certo, potrebbe perdere McCain. Ma poiché in tal caso vincerebbe Obama, non accadrà: il popolo americano – quello vero, non quello un po’ polverizzato e poi massificato che vive tra New York e Los Angeles – non può permetterlo. Perché non può permettere che venga confermata, o addirittura consolidata, per un decennio ancora, la maggioranza che volle la sentenza “Roe vs Wade”, Alta Società Weekend a Milano. Penna stilografica, inchiostro blu, calligrafia affettuosa, dediche mirate. Alberto Arbasino ha mandato agli amici il suo meraviglioso “La vita è bassa”. Da leggere, per rallegrarsi, in queste uggiose giornate novembrine. ma anzi vuole che venga finalmente rovesciata, e quindi vuole McCain-Palin. E non può succedere nulla di diverso. E quando avrà vinto McCain, licenzierete finalmente quel disfattista alla Colin Powell di David Frum (un’altra Sua ‘nziria alla Vito Mancuso), che sono almeno quattro anni che ci frantuma il frantumabile sulla crisi della right nation, sul declino dei social conservative, sulla perdita di peso delle issues antropologiche (vita, famiglia, matrimonio, libertà d’educazione), sui fallimenti di Bush e sul tramonto della coalizione reaganiana. Naturalmente, se a essere smentito, il 4 novembre, non sarà il disfattista – e con lui tutto l’obamismo planetario (godo già al solo pensiero, soprattutto se lo rivolgo a quello italico, e in particolare ai neo-obamisti di Alleanza nazionale) – ma il sottoscritto, allora sarò io ad aver meritato il licenziamento. Ma non credo. Cordialmente Giovanni Formicola, via Web Mi piace la sua combattività. In ogni combattente deve esserci una parte di immaginazione, di fervore, perfino di delirio. Diciamo che nella sua lettera questi ingredienti non mancano. Il nuovo idraulico Joe è un giornalista-pilota che non può che votare McCain T ra i pasticci di Alitalia, le elezioni americane e una certa sconclusionatezza per il futuro non resta che rivolgersi a un esperto e sperare in bene, e cioè che l’esperto riL’AEROPLANINO DI CARTA DI EDOARDO CAMURRI sponda. Per i fatti miei, quando tento di stabilire uno scenario, mi lascio andare a fantasie speranzose tipo: per quanto riguarda il trasporto aereo, considerando anche la crisi di Alitalia, generalizzandola un po’, come sbloccare definitivamente la situazione? Ecco, a domande del genere, se mi si lascia solo, cioè senza l’esperto che risponde, immagino che il futuro non potrà che essere pneumatico, cioè volto all’esplorazione gnostica di nuovi sistemi di trasporto, privi di ali, ma ancor più veloci e efficaci. Penso infatti alla posta pneumatica su larga scala, a grandi capsule dentro le quali chiudere i passeggeri da spedire di qua e di là all’interno di tubazioni con basso attrito (la propulsione delle capsule potrebbe essere realizzata per mezzo di motori lineari sincroni, il sostentamento e la guida invece si realizzerebbero attraverso sistemi a sublimazione e levitazione magnetica). Faccio anche i miei calcoli: un sistema di questo tipo (che ovviamente, essendo quasi tutto automatizzato, farebbe a meno di molti rompiscatole come piloti e assistenti di volo) consentirebbe di percorrere la tratta New York-Los Angeles in quarantacinque minuti, la tratta Washington-Pechino in due ore circa, eccetera. Così su due piedi mi sembrerebbe una soluzione efficace e insomma mi verrebbe da chiedere come mai pochi ci abbiano pensato mentre la maggior parte degli esperti s’incaponisce con le solite soluzioni. Penso, volendo tenere insieme i sempreverdi problemi di Alitalia, il trasporto aereo e anche le elezioni americane, a uno dei più famosi esperti aerei del pianeta, cioè a Patrick Smith, pilota e autore della fortunata rubrica “Ask the Pilot” della rivista americana Salon.com. Ecco, Smith è famoso per rispondere periodicamente a questioni piuttosto semplici come: “Quando un aereo atterra, sembra quasi che appena tocINNAMORATO FISSO DI MAURIZIO MILANI Oggi lei mi ha lasciato perché le ho detto che ho fatto due anni in uno. Cioè terza e quarta geometra in un anno scolastico, per rimediare una bocciatura e tirarmi in pari. Lei: “Dovevi dirmelo la prima sera che ci siamo conosciuti, anzi era la prima notizia che dovevi darmi su di te”. Io: “Sì, sta attento che io adesso conosco una in spiaggia e la prima cosa che le dico non è il mio no- ca la pista i motori vadano su di giri. Non è che per caso i motori vanno in retromarcia?”, oppure “Perché i voli transcontinentali notturni vanno solo verso est e non viceversa?”, oppure “E’ vero che il contenuto delle toilette viene scaricato durante il volo? Nessuno si è mai lamentato di essere stato investito dai liquami?”. Ecco, quando Smith affronta questi argomenti è bravo, sensibile e arguto. Diverso il caso, come anche insegna l’esperienza italiana, quando trasporto aereo e politica si intrecciano gordianamente. Nell’ultimo numero di Salon, Smith, discutendo del rapporto tra voli aeme, non dove lavoro o in che albergo soggiorno, ma: ‘Senti bella, venticinque anni fa alle superiori sono stato bocciato in terza, per cui…”. Le donne in effetti sono un po’ strane. Nemmeno tanto. Il massimo è quando credono di essere originali e dicono: “A me quelli belli non piacciono”. Alcune arrivano al colmo di dire: “A me piacciono i brutti, sono sempre stata fidanzata con uomini bruttissimi”. Senti, donna che pensa di essere eccentrica, se ti passa di fianco George Clooney e per sbaglio ti invita a bere un aperitivo, portatelo a casa. Poi con le amiche discuti se pensavo meglio, peggio; ma intanto te lo blindi tu. rei e nuovo presidente degli Stati Uniti, prima spiega che per i piloti sarebbe auspicabile una vittoria di Obama, poi nota come invece molti piloti finiscano con il preferire McCain. Scrive: “I piloti appartengono a quel tipo di americani che si caratterizza per il fatto di votare contro i propri interessi. (…) Ho chiesto a un mio amico pilota, un conservatore evangelico, come fa a votare per un candidato che, molto più dell’altro, minaccia i suoi mezzi di sussistenza. ‘Quello che i miei colleghi liberal non capiscono’ mi ha risposto ‘è che io non voto contro quelli che considero i miei interessi più importanti. Gli interessi per la mia carriera non sono superiori alla mia fede conservatrice, al mio desiderio per un governo più leggero, per tasse più basse, per un esercito forte, eccetera”. Quasi come l’idraulico Joe, questo pilota è un uomo tutto d’un pezzo e Patrick Smith non riesce a farsene una ragione. Si capisce che ne rimane sconvolto. Al punto che, verso la fine del suo articolo, perdendo la calma, il bravo esperto smarrisce pure ogni residuo di buon senso. Diventa superstizioso. Ammette che tutti i candidati democratici alla presidenza che negli ultimi anni sono stati sconfitti, lui, Patrick Smith, li aveva incontrati poco prima di ogni elezione. Insomma, l’esperto teme di portare sfortuna. E scrive: “Mi chiedo se la cosa più sicura da fare non sia, in questi giorni, di barricarmi in cantina”. Per un pilota è il massimo. La Giornata * * * Nel mondo L’IRAQ HA DESTINATO 15 MILIARDI DI DOLLARI ALLA RICOSTRUZIONE. Il ministro delle Finanze di Baghdad, Bayan Jabr, ha annunciato ieri che il 25 per cento della Finanziaria del 2009 (che è ancora una bozza) è destinato alle infrastrutture. Secondo uno studio del governo, l’Iraq ha bisogno di 400 miliardi di dollari per la ricostruzione. “Ecco perché abbiamo bisogno di investimenti nel paese, in molti settori, inclusi quello dell’elettricità, della raffineria, del petrolio, delle case e delle banche”, ha detto Jabr. I trenta istituti di credito del paese sono a corto di capitale a causa della crisi e il governo segnala che, dipendendo al 90 per cento dal petrolio, l’economia irachena è in un periodo delicato. Il Times ha rivelato ieri che Saddam Hussein sarebbe stato accoltellato sei volte prima dell’impiccagione. La fonte è il capo delle guardie alla tomba dell’ex rais. Il governo ha smentito. * * * La tenda di Gheddafi al Cremlino. Il leader libico Gheddafi si è recato ieri a Mosca, dove ha incontrato il presidente russo Medvedev. Al centro dell’incontro la cooperazione energetica per gas e petrolio. Secondo una fonte vicina agli ambienti della Difesa russa, citata da Interfax, saranno anche discusse vendite di armamenti per oltre 1,5 miliardi di euro. Medvedev ha nominato Yunus-Bek Yevkurov, un paracadutista, come presidente dell’Inguscezia a sostituzione di Zyazikov, fedele a Mosca. La nomina segnala la difficoltà della Russia a controllare i ribelli di tutto il Caucaso del nord. * * * Scissione dell’Anc in Sudafrica. I dissidenti dell’Anc, fedeli all’ex presidente Mbeki, sono pronti a lanciare un nuovo partito per opporsi a Zuma e hanno aperto una convention a Johannesburg. La nuova formazione sarà lanciata il 16 dicembre. * * * Aveva 13 anni la ragazza lapidata in Somalia ed era stata violentata. Amnesty ha rivelato che è questa l’età della ragazza uccisa a pietrate a Chisimaio, la settimana scorsa, con l’accusa di adulterio. E’ rientrato in Somalia un capo delle Corti islamiche, Sheik Ahmed. Aveva trovato asilo politico in Yemen. * * * Morales sospende le attività della Dea. Il presidente boliviano si è mosso contro ll’agenzia antidroga statunitense, accusandola di aver fomentato la rivolta civile nel paese. * * * Thaksin telefona alla folla in uno stadio a Bangkok. Novantamila sostenitori dell’ex premier thailandese hanno applaudito contro “la sentenza politica” di due settimane fa: “Non posso tornare a casa perché mi hanno condannato a due anni di prigione”. ANNO XIII NUMERO 299 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 UNA CHIESA MALATA DI BIOLOGISMO Mancuso vede “una strana convergenza” tra neodarwinisti e gerarchie ecclesiastiche, a scapito della libertà di Vito Mancuso S empre più mi vado convincendo di una strana convergenza, l’esposizione della quale costituisce la tesi di questo articolo. Si tratta di qualcosa di inaspettato e di sorprendente che riguarda due attori molto distanti l’uno dall’altro, anzi in continua reciproca polemica: mi riferisco al pensiero neodarwinista ortodosso da un lato e alle prese di posizione della gerarchia cattolica in tema di bioetica dall’altro. A prima vista sembra non ci debba essere nulla di più distante, ma le cose, forse, non stanno così. Martedì scorso, 28 ottobre, ho assistito all’inaugurazione dell’anno accademico della mia università, l’Università Vita Salute San Raffaele di Milano, ascoltando nell’occasione la lectio magistralis che il rettore don Luigi Verzé aveva affidato per quest’anno al genetista di fama internazionale Luca Cavalli Sforza, professore emerito nell’Università americana di Stanford e docente presso la mia stessa facoltà di Filosofia. L’aula era gremita da studenti, docenti, autorità. Benché arrivato in orario, a me è toccato assistere in piedi all’intera celebrazione, avendo però la fortuna di condividere la non Se per la vita biologica siamo quasi identici alla scimmia, per la nostra vita spirituale non abbiamo nessuna analogia con il mondo animale comoda posizione con il collega Andrea Tagliapietra, insigne filosofo e vulcanico creatore di motti di spirito. Cavalli Sforza ha esordito dicendo che la vita “non è più un mistero” perché ora noi sappiamo bene che cosa essa è, sappiamo che è Dna, cioè una molecola in grado di replicare se stessa. Sappiamo anche, ha continuato Cavalli Sforza, come la vita si evolve: si evolve mediante errori di copiatura che avvengono casualmente nella replicazione del Dna. Senza errori, niente evoluzione. Ma grazie agli errori l’evoluzione si mette in moto, essendo l’evoluzione nient’altro che il progressivo adattamento degli organismi mutanti e mutati all’ambiente circostante. Nulla di nuovo in tutto ciò, sia chiaro, solo una brillante riproposizione del paradigma ortodosso del neodarwinismo. Ciò che a me qui preme sottolineare è il fatto che la tesi naturalista colloca la verità di noi stessi nelle molecole di Dna del nostro patrimonio genetico. Ovvero: l’uomo è definito dalla sua biologia, l’uomo è bios. A Cavalli Sforza, e in genere al pensiero che lui rappresenta (che nella nostra facoltà è portato avanti anche da Edoardo Boncinelli), non è difficile replicare che è evidente che l’uomo è vita biologica, ma che è altrettanto evidente che l’uomo non è solo vita biologica. Il contesto stesso nel quale Cavalli Sforza affermava l’equivalenza dell’uomo a mero bios, cioè la luce). Qualunque realtà si nomini dicendo “Dio” o “divino”, l’intuizione esistenziale cui questa categoria rimanda è la libertà spirituale dell’uomo rispetto alla sua biologia e alla sua socialità. Noi siamo bios, noi siamo relazioni sociali, è evidente; ma né il bios né le relazioni sociali ci definiscono ultimamente: ognuno di noi, ultimamente, è la sua libertà, la sua anima spirituale, la sua irripetibile individualità. E’ per questo ed è in questo che siamo, come dice il libro biblico della Genesi, “a immagine e somiglianza di Dio”. Dio infatti è spirito, insegna il Vangelo, e noi siamo a sua immagine non in quanto bios, ma in quanto pneuma, in quanto spirito, cioè libertà. Le occasioni della vita hanno voluto che il giorno prima di sentire Cavalli Sforza al San Raffaele io partecipassi alla nota trasmissione televisiva di Gad Lerner, “L’Infedele”, dedicata al caso di Eluana Englaro. Questa volta ero seduto, ma devo confessare che il giorno dopo in piedi accanto a Tagliapietra mi sarei sentito più comodo che non lì, su una poltroncina rossa accanto a Beppino Englaro, straordinario esempio di dedizione paterna, e all’onorevole Eugenia Roccella sottosegretario con delega alla Salute. Quali esponenti della dottrina cattolica ufficiale in tema di bioetica vi erano Marina Casini e Gian Luigi Gigli, autorevoli esponenti di “Scienza e vita”, l’organismo emanazione della Conferenza episcopale italiana. In quella occasione mi sono ritrovato ad ascoltare argomentazioni che, nella sostanza antropologica, il giorno dopo avrei ritrovato nella lectio magistralis di Cavalli Sforza. Per Marina Casini e il professor Gigli, e in genere per l’impostazione bioetica assunta in questi anni dalla gerarchia cattolica, la dignità dell’uomo è altra cosa dalla sua libertà, nel senso che tale dignità non consiste nell’esercizio della libertà ma nella sua dimensione biologica. La vita umana è sacra non in quanto spirito libero, ma in quanto vita biologica. Per questo, si sostiene, all’uomo non spetta l’ultima parola sulla sua vita. “Non spetta alla persona decidere”, ha dichiarato mons. Giuseppe Betori il 30 settembre scorso nel suo ultimo intervento da segretario della Cei, specificando di parlare “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”. Dire questo equivale a sostenere che la verità dell’uomo non sta in alto, cioè nella libertà descritta classicamente con i termini di anima e di spirito, ma in basso, cioè nella sua biologia. I vertici della Cei negano alla libertà potere sulla biologia, e affermano che è piuttosto la biologia a vincolare la libertà: infatti “non spetta alla persona decidere”. A chi spetta allora? Ai medici, risponde la gerarchia. Ma qual è il criterio in base al quale i medici decidono? La biologia, è evidente, e non può che essere così, se i medici fanno il loro me- un’aula universitaria, così come la musica del grande Händel che aveva accompagnato l’ingresso del senato accademico, sono una prova del suo contrario, una prova cioè che l’uomo, oltre a essere bios, è anche psyché e pneuma, vita dell’anima e dello spirito. Senza il Dna, niente anima e niente spirito, è chiaro. Ma siccome l’anima e lo spirito si danno (oltre all’università e alla musica, prova ne sia il giornale che ora tenete in mano e il desiderio di conoscere che vi porta a leggerlo, e centomila altre cose che è sufficiente alzare la testa per individuare) ne viene che l’essere umano è maggiore del suo patrimonio genetico, non è riducile alla vita biologica. I genetisti dicono che condividiamo con lo scimpanzé il 98,5 per cento del dna. Bene. Essendo sotto gli occhi di tutti che (con tutto il rispetto per lo scimpanzé) la storia e la civiltà dell’essere umano sono abbastanza diverse da quella dello scimpanzé, molto probabilmente non è il nostro Dna con quel suo piccolo 1,5 per cento di differenza a spiegare l’evoluzione che ci ha differenziato, e ci differenzierà sempre più, dallo scimpanzé. Il Dna è la base necessaria da cui emergono livelli superiori dell’essere-energia che ci costituisce, per designare i quali la filosofia classica ha coniato altri termini oltre a “bios”: ha parlato di “zoé”, “psyché”, “pneuma”, “nous”. La tradizione cristiana e anche quella ebraica (Tommaso d’Aquino per la prima, Mosè Maimonide per la seconda) hanno accolto totalmente questa visione antropologica, ponendo la verità ultima dell’uomo non in basso, cioè nella sua vita biologica, ma in alto, cioè nella sua vita spirituale. Se infatti per la vita biologica siamo quasi identici allo scimpanzé, per la nostra vita spirituale non abbiamo nessuna, non dico identità, ma neppure analogia, col resto del mondo animale. E’ questo più alto livello dell’essere a fare dell’essere umano qualcosa di unico, qualcosa di così stupefacente nel mondo dei viventi davanti a cui la mente umana di tutti i tempi e di tutti i luoghi, per poterne dare conto, ha inferito un suo legame con una sfera del tutto particolare dell’essere, non rintracciabile nella dimensione naturale, e chiamata convenzionalmente “Dio” (termine che deriva dalla realtà più pura di cui abbiamo esperienza, stiere. Negare il principio di autodeterminazione della persona suppone quindi un’antropologia che, al pari del paradigma naturalistico, pone lo specifico umano nella biologia. Questa è la strana convergenza antropologica che riscontro tra l’attuale vertice della chiesa cattolica italiana e il più agguerrito naturalismo neodarwinista. E’ chiaro che poi se ne traggono conseguenze opposte, perché per gli uni la natura non ha altra logica che non sia quella che consegue dagli errori di copiatura e dall’adattamento all’ambiente, mentre per gli altri la natura è lo strumento tramite cui Dio esercita direttamente la sua sovranità; la base antropologica però (ovvero: uomo = bios) è la medesima. Il che un po’ mi inquieta e mi porta a chiedere come mai il pensiero cattolico ufficiale si stia tanto pericolosamente trasformando all’insegna di un biologismo che la tradizione non ha mai conosciuto – prova ne sia che l’affermazione di monsignor Betori con il consenso del cardinal Bagnasco, secondo cui “non spetta alla persona decidere”, è contraria rispetto all’articolo 2278 del Catechismo (“le decisioni devono essere prese dal paziente”); è contraria rispetto al documento “Iura et bona” della Congregazione per la dottrina della fede (“prendere Questa bioetica ecclesiastica conosce solo il corpo e la sua necessità, e ignora l’anima e la sua libertà. Contro Vangelo e tradizione delle decisioni spetterà in ultima istanza alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici”, laddove tutti vedono chi viene al primo posto per il documento magisteriale del 1980); è contraria rispetto al fondamento della coscienza morale delineato dal Vaticano II in “Gaudium et spes” 16-17 (“L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà”), è contraria all’architettura del giudizio morale elaborata da Tommaso d’Aquino, ed è soprattutto contraria all’immenso rispetto per la libertà umana da parte di Dio come emerge dalla Bibbia: “Egli da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’essere fedele dipenderà dal tuo buonvolere. Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua; la dove vuoi, stenderai la tua mano” (Siracide 15,14-16). Mi chiedo il motivo di questa scivolosa trasformazione dell’antropologia sottesa alla bioetica oggi maggioritaria nella chiesa cattolica, e non so rispondere. Vedo solo una chiesa la cui bioetica è sempre meno capace di rendere conto delle parole di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Matteo 10,28). Questa bioetica ecclesiastica, in singolare armonia con il neodarwinismo, conosce solo il corpo e la sua necessità, e ignora l’anima e la sua libertà. L’Osservatore non lo sa, ma l’ID è un parente abbastanza stretto della Provvidenza T ra scienza e fede è in corso un duello appassionante. In palio nientemeno che la parola definitiva sull’uomo e il mondo. Gli spettatori sono pregati di schierarsi per l’una o per l’altra squadra, senza farsi distrarre da alcunché. Stando a certe cronache, all’assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, l’altroieri, è accaduto qualcosa del genere. Finalmente scienziati e uomini di chiesa si sono messi gli uni di fronte agli altri, ognuno con la propria verità ben scolpita ma in qualche modo da condividere dal momento che l’epoca delle contrapposizioni sanguinose, grazie al cielo, è finita. Purché, da una parte e dall’altra, non ci si scambi colpi bassi e nessuno si azzardi a invasioni di campo. In questo senso c’è da registrare la strana convergenza tra Repubblica e Osservatore Romano nel mettere fuori gioco l’Intelligent Design (ID) come elemento di disturbo di un dialogo-serio-ecostruttivo. La fretta con cui si vuole sgombrare il campo dai guastatori d’Oltreoceano insinua però qualche dubbio. Forse le esigenze del religiosamente corretto impongono una politica della distensione nei confronti dell’establishment scientifico, e di conseguenza un aggiustamento delle posizioni espresse anche da autorevoli esponenti ecclesiastici. Come il cardinale di Vienna, Cristoph Schoenborn, teologo di vaglia (è stato uno dei più brillanti allievi del professor Ratzinger), che nel luglio del 2005 scrisse un editoriale sul New York Times, intitolato “Scoprire il progetto nella natura”, in cui sosteneva che “i difensori del dogma neodarwiniano hanno spesso invocato la supposta accettazione – o almeno acquiescenza – del cattolicesimo romano quando essi difendono la loro teoria come fosse compatibile con la fede cristiana. Ma questo non è vero. La chiesa cattolica, mentre lascia alla scienza molti dettagli circa la storia della vita sulla terra, proclama che con la luce della ragione l’intelletto umano può chiaramente discernere uno scopo e un progetto nel mondo naturale e negli esseri viventi. Potrebbe essere fondata un’evoluzione intesa come discendenza comune; ma non un’evoluzione concepita in senso neodarwiniano, come processo non guidato, che non risponde a un progetto, ed è mossa soltanto dalla selezione naturale e dalle variazioni casuali. Ogni sistema di pensiero che neghi o cerchi di rifiutare l’imponente evidenza di progetto in biologia è ideologia non scienza. (…) Ora all’inizio del XXI secolo, in contrapposizione a posizioni scientifiche come il neo-darwinismo e l’ipotesi del multiverso in cosmologia inventato per evitare la sovrabbondante evidenza di scopo e progetto che si trova nella scienza moderna, la chiesa cattolica difenderà di nuovo la ragione umana proclamando che il progetto immanente che è evidente nella natura è reale. Teorie scientifiche che cercano di negare l’evidenza di progetto come il risultato di caso e necessità non sono per niente scientifiche, ma, come affermato da Gio- vanni Paolo II, un’abdicazione dell’intelligenza umana”. Lo stesso Joseph Ratzinger nel 1969 tenne su questo tema una lezione, “Fede nella creazione e teoria dell’evoluzione”, in cui osservava che “effettivamente il passaggio alla contemplazione evolutiva del mondo rappresenta il passo verso quella forma positiva della scienza che si limita consapevolmente a ciò che è dato, concreto, dimostrabile all’uomo ed esclude dalla sfera della scienza la riflessione sulle vere ragioni del reale come una riflessione sterile. In questo, fede nella creazione e idea dell’evoluzione indicano non appena due diverse dimensioni di ricerca, ma due diverse forme di pensiero”. Più nello specifico, il professor Ratzinger formulava una diagnosi sull’“umanazione”, cioè il momento in cui l’uomo diventa tale: “Il primo tu che fu pronunciato – balbettando come sempre – nei confronti di Dio dalle labbra dell’uomo, indica l’istante in cui lo spirito era nato nel mondo. Qui fu attraversato il Rubicone dell’umanazione. (…) Questo stabilisce la dottrina della particolare creazione dell’uomo. Soprattutto qui sta il centro della fede nella creazione. Sta qui anche la ragione per cui l’istante dell’umanazione non può essere fissato dalla paleontologia: l’umanazione è l’insorgenza dello spirito, che non si può dissotterrare con la vanga”. Sull’Osservatore Romano dell’altro giorno, invece, dettava la linea proprio un paleontologo, don Fiorenzo Facchini dell’Università di Bologna, nemico dichiarato dell’ID che vede come un intralcio al dialogo serio tra addetti ai lavori, addirittura una minaccia al bene supremo dell’“armonia delle conoscenze”. Repubblica coglieva al volo l’assist e sentenziava la fine di nocive “invenzioni” come l’ID. Scongiurate le “invasioni di campo autoritarie”, finalmente si può celebrare la lezione sull’origine dell’universo gentilmente impartita da Hawking e soci agli alti prelati. Il giorno dopo uno di loro, monsignor Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, si è spinto a dire che “la teoria dell’evoluzione non solo non è incompatibile con il progetto di Dio, ma è più vicina a quanto leggiamo nella Bibbia di tante altre teorie”. Eppure la molteplicità delle immagini del mondo, catalogo di cui la stessa Bibbia è ben fornita, sconsiglierebbe di escluderne qualcuna, anche la più eterodossa e inclassificabile. Qualcuno ha notato l’ironia di un manipolo di scientisti, quali in fondo sono i sostenitori duri e puri dell’ID, che corrode dall’interno i precetti dell’evoluzionismo. Prendendo più o meno alla lettera alcuni passi della Bibbia, hanno voluto vedere un intervento diretto e puntuale del divino nel corso dell’evoluzione. Forse non ci sono riusciti, ma intanto hanno ottenuto molto di più incrinando i due pilastri del darwinismo: la modificazione genetica frutto del puro caso e la selezione naturale con il suo corollario di ingegneria genetica. Con l’ID gli americani, pragmatici anche nelle loro investigazioni epistemologiche, hanno senza dubbio smosso le acque di un sapere scientifico spesso arroccato in pseudodogmi che l’informazione provvede poi a rivendere. In realtà, le continue e inevitabili pretese di senso che gli scienziati avanzano non possono essere ignorate dai credenti in nome del fair play o del quieto convivere, a tal punto che l’incontro tra il Papa e Stephen Hawking si riduce a una photo op. Eppure su Repubblica si legge che “Hawking nel suo discorso non entra in queste questioni. Non fa ideologia né filosofia, neanche di tipo scientista. Traccia socraticamente il percorso delle scoperte, delle ipotesi, degli errori, dei risultati aggiunti. Evidenzia ciò che si sa e ciò che si ignora”. Socrate, però, ci porta nei pressi della filosofia e la frase successiva dell’astrofisico inglese è illuminante: “Il mio è un approccio positivista”. Positivista, dice, e non positivo. C’è quindi tutta una teoria dietro, una visione del mondo – e non delle più brillanti. La chiesa ha uno sguardo più ampio, e lo chiama Provvidenza. Se lo dimentica scivola nella retorica del dialogo, dove i contendenti si pongono in maniera così perfettamente speculare che il rischio di confonderli è altissimo. Il che spiega il vantaggio argomentativo che si prende la tesi del professor Vito Mancuso sul biologismo che accomuna chiesa e scienza. Marco Burini ANNO XIII NUMERO 299 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 LA GRANDE CRISI MONDIALE DEI FUMETTI Weeklypedia. Dove si parla delle strisce americane, del più bel disco della stagione, di Maus e delle migliori cento meteore Il fumetto Opus è stato disegnato da Berkeley Breathed tra il 2003 e il 2008 di Luca Sofri Opus era il titolo di una tavola domenicale disegnata da Berkeley Breathed per circa cinque anni tra il 2003 e il 2008. Fu la quarta striscia di Breathed, dopo Academia Waltz, Bloom County e Outland. Ambientata nella Bloom County, la striscia raccontava le avventure del popolare pinguino Opus, prendendo in giro parallelamente temi della cultura pop e della politica. All’inizio di ottobre 2008 l’autore ha dichiarato che avrebbe chiuso la serie in seguito ai suoi timori di tempi duri in arrivo per gli Stati Uniti e al suo desiderio di separarsi dal suo personaggio più famoso “con leggerezza”. Dice Berkeley Breathed che sono tempi grami per le strisce a fumetti. Berkeley Breathed dice che il momento così così dei giornali rappresenta la principale minaccia per il mondo dei fumetti Anche in America, dove lo spazio offerto ai comics è una tradizone dei quotidiani, di tutti i quotidiani. Dice Berkeley Breathed che la crisi dei giornali di carta travolge le strisce, che sono difficilmente convertibili alle abitudini di lettura sul Web. Dice Berkeley Breathed che è da un quarto di secolo – ovvero dalla nascita di Calvin & Hobbes – che il fumetto a strisce non crea qualcosa di “storico”, che rimane. Dice Berkeley Breathed che poi si annunciano tempi grami in generale, e allora meglio andarsene prima di doverli raccontare: “Ho una parte Michael Moore di me che mi fa diventare cattivo”. E insomma, Opus, l’ultima serie delle strisce di Breathed col pinguino omonimo chiude oggi. Oggi esce l’ultima tavola domenicale sui quotidiani che lo pubblicano. In Italia arrivò tramite Linus, come tutte le grandi strisce americane. Opus deve il suo nome a una canzone dei Kansas: “E se siete troppo giovani per sapere chi fossero i Kansas, beh, peggio per voi”, ha detto Breathed. Ivor Churchill Guest, primo Visconte di Wimborne (16 gennaio 1873 – 14 giugno 1939) fu un politico britannico e uno degli ultimi Lords Luogotenenti di Irlanda, titolare della carica ai tempi della Rivolta di Pasqua. In realtà io non cercavo questo Ivor Guest: quello che cercavo io è il produttore del nuovo disco di Grace Jones e suo fidanzato (per quanto si possa essere “fidanzati” con Grace Jones). Ma non ha una pagina su Wikipedia, e su di lui ho trovato poco. Se non che dev’essere un aristocratico discendente di questo Ivor Guest (è quarto Visconte di Wimborne), oltreché imparentato con la famiglia reale. Però, siccome tutto si tiene, il fu Ivor Churchill Guest è risultato essere il terzultimo rappresentante della Corona sul Regno d’Irlanda prima dell’indipendenza, ovvero quello in carica all’inizio del film Michael Collins, che già fu raccontato in una pagina di Weeklypedia, ad agosto. “What I am” è una canzone scritta da Edie Brickell e Kenny Withrow e incisa da Edie Brickell & the New Bohemians nel loro primo disco, Shooting rubberbands at the stars (1988). Arrivò al numero trentuno in Inghilterra e al settimo posto nella classifica di Billboard negli Stati Uniti. Fu classificata al settantunesimo posto nella lista delle migliori 100 Meteore della rete VH1, ed era stata usata in un episodio del 1989 di Miami Vice. Edie Brickell fece un bel colpo con “What I am” e con un’altra bella canzone in quel disco: “Circles”. E poi, meteora appunto, scomparve. Aveva ventidue anni ed era di Dallas. Quest’anno ha pubblicato un nuovo disco con il suo figliastro, ma non se n’è accorto nessuno. Comunque, capita a molte coppie di avere una canzone con la quale ci si è innamorati. Ma la canzone con sui si innamorò Edie Brickell era sua, e la stava cantando lei: e questo non capita a molti. Successe che l’avevano invitata a cantare “What I am” al Saturday Night Live, in televisione. Quando venne il loro momento, lei e la band attaccarono la canzone: ma a un certo punto fu distratta da una faccia, un uomo in piedi davanti a un cameraman, e quasi sbagliò le parole. Quell’uomo era un altro ospite dello show, Paul Simon. Paul Simon di Simon & Garfunkel, insomma. Aveva venticinque anni più di lei. Si sposarono quattro anni dopo e stanno ancora assieme. Cesare Cardini (24 febbraio 1896 – 3 novembre 1956) era un ristoratore e albergatore di origine italiana a cui è attribuita l’invenzione della Caesar Salad. Era nato sul lago Maggiore e aveva almeno quattro fratelli: Alessandro, Carlotta, Caudencio e Maria. Mentre le sorelle rimasero in Italia, i tre fratelli emigrarono in America. Alessandro e Caudencio entrarono nella ristorazione a Città del Messico. Alessandro poi divenne socio di Cesare a Tijuana. Cesare aveva lavorato in Europa e si era trasferito negli Stati Uniti a vent’anni. Aprì un ristorante a Sacramento, e poi si spostò a San Diego. Contemporaneamente aprì anche a Tijuana, dove si poteva sfuggire alle regole del proibizionismo. Dice il New York Times che il ristorante di Tijuana fa fatica a vendere le sue leggendarie insalate. La Caesar Salad sarebbe stata inventata da Cardini una sera del 1924 che non c’era più niente da dare ai clienti: così aveva preso quel che c’era – insalata, pezzi di pane, aglio – e l’aveva buttato in una scodella. Le acciughe le avrebbe aggiunte Alessandro, secondo una versione. Il problema è che oggi ai turisti americani è sconsigliato di mangiare verdure crude in Messico, per timore che l’acqua con cui sono lavate non sia sufficientemente pulita. E così l’attuale gestore del ri- storante di Tijuana che ha ereditato il nome cerca di proporre il piatto ai clienti che arrivano dall’altra parte del confine, ma loro sono diffidenti. Il cronista del New York Times si è fidato e l’ha trovata buonissima (adesso ha dentro anche parmigiano, aceto, salsa Worcester, uova e senape). Nessuna corrispondenza nei titoli delGabriel Kahane” le pagine. La pagina “G non esiste. E’ possibile crearla ora. Attenzione! L’indice del database viene aggiornato ogni 40 ore circa: le pagine scritte recentemente potrebbero non comparire ancora tra i risultati della ricerca. Niente: la pagina su Gabriel Kahane non c’è. Eppure a me il suo sembra il più bel disco di questa stagione. Ho dovuto fare senza Wikipedia: Il musicista americano Gabriel Kahane è stato elogiato la scorsa settimana dal Wsj esperienza straniante. Ho scoperto che vive a Brooklyn, fa anche l’attore e l’autore teatrale, si attacca a ricche e colte citazioni letterarie, ma prima aveva anche messo in musica degli annunci trovati sul sito web Craigslist. Aveva suonato il piano e cantato con Sufjan Stevens, genio creativo musicale di gran culto in questi anni, e un po’ si sente. Il Wall Street Journal gli ha fatto un sacco di complimenti, due settimane fa, ricordando che è figlio di un grande pianista classico e direttore dell’Orchestra Sinfonica del Colorado. Io intanto sono diventato suo fan su Facebook: siamo ottantadue. Art Spiegelman (Stoccolma, 1948) è un autore di fumetti statunitense. Spiegelman è codirettore della rivista di fumetti e grafica Raw, di cui è stato uno dei fondatori, ed è tra gli artisti che hanno compilato e illustrato graficamente i lemmi del Futuro dizionario d’America (The Future Dictionary of America, pubblicato da McSweeney’s nel 2005). Ha pubblicato svariati lavori su riviste statunitensi come New York Times, Village Voice e New Yorker. In Italia le sue storie sono pubblicate dal settimanale Internazionale. Nel 1982 ha ricevuto il Premio Yellow Kid a Lucca. Attualmente insegna alla School of Visual Arts di New York. Art Spiegelman deve la sua fama principalmente ad un’unica opera, Maus, un romanzo (auto)biografico in fumetti pubblicato tra il 1973 ed il 1991, dove si narra la storia del padre, Vladek Spiegelman, un ebreo polacco sopravvissuto alla Shoah. Maus, appunto. Qualche giorno fa Slate, il giornale online, ha analizzato la sua opera per cercare di capire se sia possibile per Spiegelman disegnare qualcos’altro di valido dopo Maus (che vinse un Pulitzer nel 1992). Di recente è stata ripubblicata una sua vecchia raccolta di storie, Breakdowns. Secondo Slate la metà della storia mancante in Maus (il diario di sua madre, bruciato da suo padre) è anche la metà della storia che manca a Spiegelman: Anja si suicidò nel 1968. Spiegelman ne parla nell’introduzione a Breakdowns, e racconta di come lei gli comprò la sua prima rivista a fumetti (era Mad): “Ma non dirlo a tuo padre”. Nella postfazione, Spiegelman dice di avere nostalgia per quel disegnatore più eclettico e arrogante che era ai tempi delle storie di Breakdowns, prima di Maus. Secondo l’articolo di Slate è un’invidia che cela un senso di colpa, quello di ogni grande artista che ha creato una grande opera raccontando le sofferenze dei suoi cari. E gli schizzi che aveva dato al penultimo numero di McSweeney’s, la rivista di Dave Eggers, sembrano raccontare un uomo pieno di ansie e consapevolezza di sé e delle sue inadeguatezze. “Se la tua opera è l’Olocausto”, dice Slate, “dopo che fai?”. Fiorenzo Bava Beccaris (Fossano, 17 marzo 1831 – Roma, 8 aprile 1924) è stato un generale italiano, noto soprattutto per la feroce repressione dei moti milanesi da lui guidata nel 1898. Dopo aver partecipato alla Guerra di Crimea e alle Guerre d’Indipendenza del 1859 e del 1866 (ottenendo il 6 dicembre 1866 il Cavalierato dell’Ordine Militare d’Italia), divenne Direttore generale d’artiglieria e genio al ministero della Guerra, e tenne il comando del VII° e del III° Corpo d’Armata. Nel maggio 1898, in occasione dei Art Spiegelman è un disegnatore americano, ha vinto il Pulitzer e la rivista Slate si chiede se sarà in grado di creare un nuovo Maus gravi tumulti milanesi – passati alla storia come la “Protesta dello stomaco” – il governo guidato da Antonio di Rudinì proclamò lo Stato d’Assedio e il generale, in qualità di Regio Commissario Straordinario, ordinò di sparare cannonate sulla folla provocando una strage. In segno di riconoscimento per quella che dalla monarchia fu giudicata una brillante azione militare, Bava-Beccaris ricevette il 5 giugno 1898 dal re Umberto I la Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia, e il 16 giugno 1898 ottenne un seggio al Senato. Il 29 luglio del 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l’offesa della decorazione a Bava Beccaris, il quale definì il regicida “Un folle che meriterebbe di subire lo squartamento”. Fu collocato a riposo nel 1902. Bava Beccaris almeno lo collocarono a riposo, mica lo fecero senatore a vita. Altre voci che ho cercato questa settimana Lala.com Songs of faith and devotion Filippo Turati Apollo 11 Prima Base Judith Miller Ascensori ANSA Gipi Tampa Bay