il contemporaneo SUPPLEMENTO monografico di AURORA numero 12 – novembre 2009 Ottobre rosso C per l’unità comunista ar* compagn*, il nostro Paese sta attraversando un momento veramente particolare. È una frase che si dice spesso, ma in questo è di particolare attualità e gravità. Si vogliono mettere a tacere le Istituzioni che la nostra Costituzione pone a suprema garanzia della vita democratica. Si dichiara che Esse non sarebbero più “super partes”. Ascoltiamo quasi giornalmente provocazioni inaudite, INTOLLERABILI, che incitano a non accettare decisioni della magistratura e di essere pronti a contrastarle con ogni mezzo, quando sono contrarie ai propri interessi, anche ai più meschini. Un tempo per cose del genere si sarebbe finiti immediatamente in galera, per vilipendio delle Istituzioni, per incitamento all’odio se non alla guerra civile. Roba d’altri tempi, appunto. Dal punto di vista economico non possiamo far altro che stendere un velo pietoso. Molti strati della società sono vicini alla fame, tante persone sono oramai sotto la soglia di povertà, mentre invece i nostri governanti ci accusano di allucinazioni e disfattismo e fanno sfoggio sfacciato della loro ricchezza e dei loro vizi. Certi dell’impunità e di un fantomatico “sostegno del popolo”: in realtà il sostegno dei poteri forti economici e militari che impongono il loro dominio senza alcuna legittimazione democratica. È in questo momento che la Federazione Comunista che si va costituendo, in Italia e in Europa, può e deve porsi, e ne ha le potenzialità, come unica forza in grado di essere veramente alternativa a questo tipo di società che sfrutta, rende i ricchi più ricchi ed i poveri più poveri, è debole con i forti e forte con i deboli, distrugge le risorse della natura e mette in pericolo la stessa sostenibilità e sopravvivenza del genere umano. Questo succede nel mondo “civile”; nel nostro Paese, oltre a questo, non si tiene più assolutamente conto dei bei principi della nostra Carta; al contrario, incita a disobbedire alle regole e si premiano i disobbedienti con scudi e condoni, in un dilagare di abusi, scandali, arbitrii e vergogne. Il mondo, anche il resto del mondo capitalista, ci ride dietro per questo. La Federazione Comunista, che nasce dai due maggiori Partiti comunisti esistenti in Italia, può e deve coinvolgere anche le persone che non si riconoscevano in essi, tornando nei posti dove è necessario essere, nei posti di lavoro, di studio, di lotta, di emarginazione. Anche per noi emigrati. Anche noi, come in Italia, siamo chiamati a preparare in tempi rapidi – ci viene chiesto di farlo nelle prossime settimane – le assemblea territoriali che, a loro volta, i condurranno all’Assemblea nazionale di fine novembre, l’evento che darà di fatto il via alla fase costituente vera e propria della “Federazione” con il PRC, il PdCI, Socialismo 2000, Lavoro e Solidarietà, Rete dei Comunisti e altre realtà politiche e sociali della Sinistra comunista, anticapitalista, alternativa. È un appuntamento importante, che dobbiamo preparare bene quindi anche in Europa, anche qui nelle nostre Federazioni, nei Circoli, nelle Sezioni, in tutte le realtà dove siamo presenti e attivi. Rivolgiamo un fraterno invito a tutte le compagne e a tutti i compagni in Europa, affinché ci si impegni in questo appuntamento e in questo programma di lavoro. E spiegare a quelli che interverranno che riteniamo questo passo una tappa tattica, e spiegare loro, se vogliamo essere credibili, che questo non avrebbe senso se dietro l’angolo – e quindi aldilà della Federazione – non ci fosse la creazione di un unico Partito Comunista, perché ogni compagn* è convinto che questa divisione non ha più alcun senso da tanto, troppo tempo. E su questo sicuramente la base è molto più avanti di determinati vertici, perché non vuole saperne delle solite alchimie politiciste o di difesa di rendite di posizione. Già da tempo, questo è vero in Europa e lo sappiamo da vicino, ma è vero anche in tantissime realtà in Italia, dove le/i militanti dei nostri due Partiti lavorano di fatto già insieme, a tutti gli effetti, nell’organizzazione come nella presenza e le attività nei territori. Stiamo parlando finalmente di realizzare l’Unità Comunista, che è il passaggio obbligato, necessario anche se non sufficiente naturalmente, per la trasformazione della nostra società in senso davvero democratico, dove trovi dimora la presenza pubblica, dei cittadini al servizio dei cittadini, nei settori cruciali della vita economica e produttiva, nell’istruzione, nella sanità, nell’energia, nei trasporti, nelle comunicazioni. Dove trovino dimora le politiche e le pratiche della democrazia, della giustizia sociale, della solidarietà e dell’accoglienza. Contro ogni fascismo e xenofobia, contro ogni oscurantismo clericale, contro ogni discriminazione e ogni ingiustizia. Per uscire dal capitalismo e dallo sfruttamento della persona sulla persona! Mettiamoci al lavoro car* compagn* ! Massimo Recchioni Mario Gabrielli Cossellu (Federazione Europa del PdCI) (Coordinamento Europeo del PRC) Perché uniti di M. Congiu Costruiamo una Federazione o costruiamo un Partito? di M. Gabrielli Cossellu Se non ora, quando? di S. Rossi ...alle pagine 3 – 4 – 5 il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 2 Ai Segretari provinciali PdCI e PRC Ai Segretari regionali PdCI e PRC Roma 25 settembre 2009 Oggetto: convocazione assemblee provinciali per far partire il processo costituente della federazione Cari compagni e compagne, Come vi è noto a fine novembre si terrà l’assemblea nazionale che darà via formalmente e sostanzialmente al processo costituente della federazione. Per dare corpo e sostanza a questo processo vi chiediamo di organizzare sul territorio di ogni federazione provinciale una assemblea di lancio del progetto della federazione che abbia le stesse caratteristiche dell’assemblea tenutasi a Roma il 18 luglio. Al fine di garantire il carattere aperto della federazione, che coinvolga i compagni e le compagne di sinistra che oggi non sono iscritti a rifondazione o al PdCI, vi chiediamo di organizzare le assemblee provinciali nel seguente modo: 1) Raccogliere firme di convocazione dell’assemblea su testo di convocazione del 18 luglio lavorando a coinvolgere le realtà e i soggetti interessati non iscritti ai nostri partiti. 2) Convocazione dell’assemblea non da parte dei due partiti ma da parte delle persone che hanno firmato l’appello in cui ovviamente devono esserci i segretari provinciali dei nostri partiti, rappresentanti di socialismo 2000 e di lavoro e solidarietà. 3) Parallelamente la convocazione dell’assemblea provinciale può essere fatta anche con materiali che contengano il simbolo unitario presentato alle elezioni europee. In questo modo si dovrebbe riuscire a caratterizzare il processo di costruzione della federazione come processo partecipato, unitario, rivolto a tutta l’area della sinistra anticapitalista e comunista. La convocazione dell’assemblea ovviamente va proposta – come abbiamo fatto a livello nazionale - anche ai rappresentanti delle altre forze di sinistra alternativa presenti sul territorio. Orazio Licandro Claudio Grassi Responsabile Organizzazione PdCI Responsabile Organizzazione PRC - SE il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 3 Perché uniti di Massimo Congiu (H) È un imperativo, è condizione imprescindibile per il nostro futuro: bisogna unirsi, ritrovare un percorso comune e riproporsi, in questo modo, su una scena politica attualmente priva di un unico soggetto veramente capace di esprimere i valori storici e culturali della sinistra. Per noi comunisti non c’è altra strada: dobbiamo ricompattare le nostre energie e riprendere a fare quello che facevamo: osservare attentamente la realtà, interpretarla, rappresentare istanze sociali oggi ignorate e lottare per la dignità umana. Tutto sollecita a realizzare questa operazione vitale per noi, per la nostra sopravvivenza. Contrariamente a quanto dicono certi poco attenti osservatori politici, i comunisti ci sono ancora e non sono pochi, non sono pochi gli ambienti e i movimenti che si collocano entro un orizzonte culturale di derivazione marxista. Il punto è riunire tali soggetti, trovare una sintesi politica, un denominatore comune. Occorre andare oltre qualsiasi particolarismo e rendersi conto del fatto che le “diverse” anime della sinistra possono convivere in un progetto unitario che consideri le differenze come altrettante possibilità di arricchimento. I tempi sono cambiati, le trasformazioni epocali di vent’anni fa hanno determinato lo stabilirsi di nuovi equilibri politici e di una situazione generale che ha fatto venir meno le certezze in precedenza acquisite. Viviamo in un mondo da reinterpretare, occorre una nuova chiave di lettura delle dinamiche realizzatesi in questi ultimi due decenni. Noi abbiamo gli strumenti per operare in tal senso; essi ci sono offerti dall’importante eredità culturale che ci accomuna: quella marxista. L’analisi degli equilibri socio- economici e quindi culturali, effettuata dal pensatore tedesco è dotata degli strumenti per rinnovare se stessa; sta a noi attivarli e operare per l’adeguamento del pensiero marxista alla realtà che conosciamo. C’è bisogno di noi e delle nostre peculiarità per realizzare delle società più giuste, per gettare le basi di sistemi economici sostenibili e in grado di produrre benessere diffuso, per combattere contro le numerose forme di sfruttamento tuttora esistenti a livello globale. C’è bisogno di noi uniti e compatti, di noi, tornati a essere una forza veramente rappresentativa delle istanze che vengono dal basso. Dobbiamo ritrovarci, confrontarci e riflettere profondamente sul nostro ruolo politico e culturale. Dobbiamo sviluppare capacità progettuale, attitudine alla concretezza, dobbiamo essere presenti sul territorio sia fisico che elettronico, e rendere visibili le nostre iniziative. Tutto il resto è frammentazione, dispersione di forze e dilapidazione di un patrimonio culturale (il nostro) che ha segnato la storia del mondo. Ravviso, oggi, la necessità di realizzare una sorta di rivoluzione dei costumi che riguardi il nostro rapporto con le istituzioni, con l’economia, con i mezzi di comunicazione di massa, con la pubblicità, con i consumi, con la politica, con la scuola. Ritengo che solo un movi- mento comunista forte e unito possa farsi interprete di tale bisogno e guidare quanti intendano mettersi in marcia verso la realizzazione di nuove condizioni di vita. Disuniti, siamo più vulnerabili, privi della massa critica necessaria per affrontare una lotta politica e culturale concreta. Divisi in numerosi partiti, per lo più di piccole dimensioni, non abbiamo potere contrattuale e capacità rappresentativa. La nostra è una strada obbligata: uniamoci, stimoliamo il dibattito, le nostre capacità critiche, l’attitudine all’osservazione, mobilitiamoci contro l’apatia, diamo luogo a provocazioni. Stiamo attenti ai più giovani, alla loro formazione, alla loro percezione del mondo e degli equilibri sociali. Proviamo a coinvolgerli in un progetto che metta al centro la politica come attività caratterizzata da passione sociale e civile. Non sarà facile, ma è importante provarci. Il lavoro che ci attende è complesso e presuppone un investimento a lungo termine, questo è bene saperlo. Ma i più attenti saranno in grado di intravedere già da ora delle possibilità di intervento: attualmente esistono sistemi di comunicazione capaci di accorciare le distanze tra interlocutori operanti in città e paesi diversi. Questo è uno degli aspetti positivi della globalizzazione. Con l’aiuto di tali sistemi messi a disposizione di idee forti c’è la possibilità di confrontare contesti culturali diversi, di dialogare a distanza ed elaborare progetti comuni. Forse, grazie anche alla tecnologia, ci si può avvicinare alla realizzazione di una nuova internazionale socialista, cosa che ritengo necessaria. Bisogna fare dei passi avanti nell’elaborazione del concetto di “socialismo del XXI secolo”, per questo dobbiamo guardarci intorno e ripartire da noi, dalle nostre esigenze e dalla nostra identità culturale. Torniamo a essere un movimento forte e unito. 4 il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 Costruiamo una Federazione o costruiamo un Partito? di Mario Gabrielli Cossellu (B) D opo le esperienze della Lista Comunista e Anticapitalista e del relativo Coordinamento dopo le elezioni europee, ora stiamo costruendo quella che in Italia è stata definita “Federazione della Sinistra di Alternativa”, tra i due maggiori partiti comunisti italiani – PRC/SE e PdCI – e i movimenti “Socialismo 2000” e “Lavoro e Solidarietà”, la Rete dei Comunisti e altri soggetti politici e sociali della sinistra comunista, anticapitalista e alternativa, appunto. Qui in Europa, anche sulla base del lavoro già svolto da alcuni anni a questa parte, preferiamo parlare di Federazione Comunista, non solo per l’oggettiva mancanza di corrispondenti in Europa delle altre forze italiane che partecipano al progetto, ma specialmente perché abbiamo un progetto e una prospettiva molto più chiara di quella che sembra esserci in Italia: la (ri)costruzione di un unico più grande e più forte soggetto unitario dei comunisti italiani, un Partito Comunista degno di questo nome nei principi e nelle pratiche, per il passato, il presente e il futuro. Nel supplemento “Il Contemporaneo” di questo numero di AURORA riproduciamo una lettera/ appello unitario alle compagne e ai compagni in Europa per continuare a lavorare insieme e prepararci al momento importantissimo dell’Assemblea nazionale della Federazione in Italia a fine novembre, per partecipare attivamente ad essa e portarci le nostre idee, proposte ed esperienze. Ma intanto, chiediamoci appunto: cosa stiamo costruendo, o meglio, cosa ne vale la pena veramente costruire, una Federazione o un Partito? Qui in Europa, a giudizio di chi scrive e di tanti compagni e compagne, quello che stiamo facendo è cercare di rispondere all’oggettiva necessità politica e storica di costruire un Partito che si definisca finalmente sui propri principi e non in funzione di altri o di espressioni geometriche: cioè, non “di sinistra” (pura convenzione di collocazione dei primi parlamenti storici), né “di alternativa” (a che e per che cosa?), né “anticapitalista” (come “legittimando” il capitalismo) né nessun altro “anti” (definizione in negativo senza una chiara connotazione propositiva), ma semplicemente: comunista. Con tutto ciò che questo comporta per il passato, il presente e il futuro, e i riferimenti teorici e pratici di Marx, Engels, Lenin, Luxemburg, Gramsci... Spesso, in Italia e in Europa, vediamo che la nostra opzione politica “di sinistra” è l’unica che non si presenta con un riferimento chiaro di identità e principi. Per esempio nelle recenti elezioni in Germania, abbiamo visto come ci siano i cristiano-democratici, i socialdemocratici, i liberali, i verdi – tutti facendo quindi riferimento a qualcosa, anche mille e più mille volte usati per fini molto diversi dagli ideali base, e in certi casi addirittura a scopi di oppressione o criminali, non meno anzi sicuramente di più di quanto siano stati usati in questo modo il socialismo e il comunismo -, eppure continuano, giustamente, a tenerlo quanto meno come riferimento ideale che sappia essere riconosciuto. E poi c’è... “la sinistra”. Che in principio critica alla radice il sistema capitalista e propugna l’uscita da esso verso un altro tipo di sistema più umano e più giusto, ma spesso non ha bene le idee chiare su cosa voglia dire essere veramente “anticapitalista” e se si tratta di costruire una società socialista e comunista, o semplicemente di “migliorare il capitalismo” come hanno cercato di fare da sempre tutti i vari “socialdemocratici” e “riformisti”, con i bei risultati che abbiamo tutti sotto gli occhi oggi. Questa indeterminatezza sia nell’identità e nei principi, sia negli stessi contenuti e pratiche, sono un sintomo chiarissimo di perché poi succedono, e sono successe, certe cose, all’interno dei nostri partiti, e perché abbiamo perso tanto peso e influenza. Ritornando alla situazione italiana, a mio avviso potrebbe non servire a nulla voler fare una “Federazione della Sinistra di Alternativa” che già nel nome si vede inevitabilmente come un qualcosa di subalterno a qualcos’altro e che neanche si distingue bene da quello di altri gruppi che più o meno si rifanno alla “sinistra” – anche chi in realtà è interessato solo all’occupazione del potere di piccolo o grande cabotaggio che sia, creando tra l’altro ancora più confusione e sconcerto tra tanta gente e specialmente tra la “nostra” gente. Allora, quello che invece bisogna fare una buona e santa volta e per tutte è un Partito Comunista che sia serio, coerente e conseguente nella teoria e nella prassi, nelle grandi e nelle piccole cose, e che non si “vergogni” di esserlo; e per questo possiamo e dobbiamo lavorare tutti insieme e ciascuno di noi nel nostro piccolo e nel nostro grande, non solo delegando ai nostri dirigenti: dirigenti che tra l’altro spesso sono ancora in sella da vent’anni o più collezionando perle una dopo l’altra e che però continuano a voler menare il can per l’aia, ripetendo ancora e sempre gli stessi errori e sollevando mille problemi e obiezioni – spesso pretestuose o fuorvianti – al percorso dell’unità comunista. Ma i dirigenti non solo non sono infallibili, ma neanche eterni e, se è necessario, si cambiano: noi comunisti dobbiamo ricordare quella bella frase dei compagni latinoamericani, “el pueblo irá con los dirigentes a la cabeza o con la cabeza de los dirigentes”. Sicuramente non vi è alcun bisogno di traduzione… Costruiamo un Partito dunque, e che sia un Partito Comunista! il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 5 Se non ora, quando? di Simone Rossi (UK) I l premio Nobel per la Fisica andrebbe, a buon diritto, assegnato alla Sinistra, italiana e non, per la propria abilità nello scindere l’atomo nella sua millesima parte, ed oltre. A titolo di esempio, in Italia si contano almeno cinque partiti marxisti e/o rivoluzionari, in Gran Bretagna otto (senza contare le formazioni a carattere regionale), in Francia quattro. Per questioni strategiche e per pragmatismo o, all’inverso, per semplice velleitarismo e dogmatismo, i partiti ed i movimenti che si collocano a Sinistra hanno mostrato nel corso dei decenni una tendenza alla frammentazione in entità sempre più lontane dai cittadini, in termini di adesioni come dal punto di vista di un’efficace rappresentatività politica. Soffermando lo sguardo sull’Italia, a partire dall’avvento della Repubblica abbiamo assistito alla nascita di molti movimenti o partiti, frequentemente per scissioni dovute a divergenze di vedute su temi strategici in momenti cruciali della storia nazionale. Eventi come l’avvio della Guerra Fredda, le prime esperienze dei governi di CentroSinistra, la contestazione studentesca ed operaia, il Crollo del Muro di Berlino (1989) marcarono fratture tra riformisti e massimalisti all’interno della Sinistra italiana, portando alla proliferazione di piccolo formazioni le cui differenze spesso erano poco chiare ai più. Tuttavia la classe lavoratrice, i pensionati e le categorie sociali più deboli in genere avevano una forte rappresentatività e spazio nel dibattito politico, grazie al PCI ed al PSI che, forti di un peso complessivo mediamente oscillante intorno al 40% dell’elettorato, contribuivano all’introduzione di norme progressiste, volte alla creazione di un’uguaglianza sociale in termini di accesso ai servizi essenziali ed ai diritti. Questa situazione venne meno dopo l’89, con l’accettazione del modello economico neoliberista da parte della maggioranza del PCI e lo scioglimento del PSI, ormai ridotto a comitato di affari sotto la guida di Bettino Craxi. Il Partito della Rifondazione Comunista raccolse il testimone del PCI, rappresentando una alternativa al modello dominante, senza però riuscire, in quasi venti anni, a raccogliere oltre il 10% dei consensi elettorali su scala nazionale. In diciotto anni di vita, per contro, il partito ha subito dodici scissioni, talora in seguito ad un dibattito su temi dirimenti, come la partecipazione alle coalizioni di CentroSinistra ed il sostegno ai relativi governi. La separazione più significativa fu quella tra il PRC ed il PdCI, come causa e conseguenza della caduta del primo Governo di Romano Prodi: divergenze sull’opportunità o meno nel continuare l’appoggio all’Esecutivo portarono alla scissione di un partito con un peso elettorale non marginale in due entità sicuramente più deboli. A prescindere dalle situazioni contingenti e dai giudizi di merito su questo evento storico, l’indebolimento dell’ultimo bastione dell’alternativa al capitalismo all’interno delle istituzioni ha privato la fasce deboli della società e la classe lavoratrice di una sponda con un reale potenziale di incidere sul piano politico, aprendo una stagione di smantellamento dello Stato Sociale, di privatizzazioni e di avanzamento nell’affermazione del pensiero unico alla base dell’attuale regime autoritario in Italia. Tutto ciò assume un sapore amaro se i fatti del 1998 sono letti alla luce della partecipazione attiva del PRC al secondo Governo Prodi, insieme al PdCI. Venuto meno il motivo del dissidio tra le due forze, la logica avrebbe voluto che si ponesse termine alla separazione, per ricostituire un unico e forte partito comunista che rafforzasse la voce del mondo del lavoro nel dibattito politico; nonostante le numerose dichi- arazioni di intenti in questo senso ed accordi elettorali, tre anni sono trascorsi senza che questo soggetto abbia preso corpo. Nel frattempo l’ennesima bolla speculativa è scoppiata, dando luogo ad una crisi finanziaria ed economica di grande portata, tanto da essere definita la peggiore dal 1929. In questo contesto, i lavoratori e le fasce disagiate si trovano privi di un riferimento politico che possa finalmente portare la richiesta di diritti sociali in primo piano, smontando le tesi menzognere sulle virtù del libero mercato. Al contrario, ad un anno dai primi fallimenti nel settore finanziario, temi quali la limitazione ai flussi migratori, il taglio della spesa pubblica e le privatizzazioni continuano a tenere banco, mentre i partiti comunisti appaiono concentrati su questioni interne, oppure, nella migliore delle ipotesi, sul dibattito in merito a se, quando e come avviare un processo di unificazione. Per il bene comune, è auspicabile che quest’ultimo proceda speditamente, con l’obiettivo di riaffermare la voce ed i diritti del mondo del lavoro, senza che esso sia oscurato dalla difesa di identità molto prossime tra loro, cui spesso sottende la preservazione di apparati interni. 6 il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 Da Stato e rivoluzione, Vladimir Iľič Uľjanov “Lenin” L’opuscolo è stato scritto nel settembre del 1917, un mese prima della rivoluzione ed è andato in stampa nel mese di novembre dello stesso anno. Il passo che pubblichiamo è tratto da un’edizione italiana dell’epoca curata dalla Federazione Comunista Napoletana e stampata a Napoli nella Tipografia degli Artigianelli l’elzeviro a cura di Mariarosaria Sciglitano La prima fase della società comunista N ella sua critica al programma di Gotha, Marx combatte acutamente l’idea di Lassalle, secondo cui nel socialismo il lavoratore riceverebbe “l’intero ricavo del lavoro, senza decurtazione”. Marx dimostra che dalla produzione totale dell’intera società deve essere detratto un fondo di riserva, un fondo per l’ampliamento della produzione, un fondo d’ammortamento e di rinnovazione per lo sciupio delle macchine ecc., mentre dai mezzi di consumo bisogna detrarre le spese d’amministrazione, il costo delle scuole, degli ospedali, dei ricoveri vecchi ecc. In luogo della frase lassalliana, nebulosa, oscura, generica (l’intero ricavo del lavoro al lavoratore), Marx offre un calcolo assennato del modo con cui l’economia socialista sarà costretta ad agire. Marx inizia l’analisi delle condizioni di vita della società socialista e dice: “Noi anzitutto (esaminando il programma del partito dei lavoratori) abbiamo da fare con una società comunista non quale essa si è sviluppata dai suoi specifici principi, ma, al contrario, quale deriva appunto dalla società capitalista; la quale quindi in tutti i riguardi economici, morali, spirituali è an- cora affetta da tutti i vizi materni della specifica società dal cui grembo proviene”. Questa società comunista, uscita appena alla luce dalle profondità del capitalismo, che sotto ogni rapporto reca in sé l’impronta dell’antica società, è designata da Marx come “prima” o inferiore fase della società comunista. Già i mezzi di produzione non sono più proprietà privata di singoli individui. I mezzi di produzione appartengono all’intera società. Ogni membro della società che ha compiuto una certa parte del lavoro sociale necessario riceve dalla società un attestato del lavoro prestato. Sulla base di questa attestazione egli riceve la corrispondente quantità di prodotti dalle provviste sociali di mezzi di consumo. Così il lavoratore, dopo che è stata detratta una certa parte per il fondo comune, riceve dalla società tanto quanto le ha dato. Apparentemente domina l’“uguaglianza”. Ma quando Lassalle che ha presente un simile ordinamento pubblico (che ordinariamente è designato come socialismo, mentre Marx lo designa come prima fase del comunismo), dice che questa sarebbe una ripartizione “equa”, cioè “lo stesso diritto allo stesso frutto del lavoro”, egli erra, e Marx lo proclama in errore. Noi abbiamo certamente qui – dice Marx – uguaglianza di diritto, ma è ancora “diritto borghese”, che, come ogni diritto, presuppone ineguaglianza. Ogni diritto significa applicazione di una uguale misura a individui non uguali, che in realtà non sono della stessa maniera e dello stesso valore. Il “diritto uguale” è pertanto un’offesa all’uguaglianza e una iniquità. In realtà ciascuno, dopo aver fornito un determinato lavoro, consegue uguale diritto sulla produzione sociale (fatte le già accennate detrazioni). Ma a questo riguardo i singoli individui non sono uguali. Un uomo è più forte, l’altro più debole: uno è ammogliato, l’altro no; l’uno ha più figli, l’altro meno, ecc. “…Data la stessa prestazione di lavoro – continua Marx – e quindi la stessa quota di compartecipazione al fondo sociale dei consumi, l’uno riceve effettivamente più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per impedire tutte queste iniquità, il diritto anziché uguale, dovrebbe essere disuguale”. Quindi questa prima fase del comunismo non può ancor dare equità ed uguaglianza. Rimangono superstiti differenze di benessere, e differenze inique. Ma è reso impossibile lo sfruttamento di un uomo per opera d’un altro, poiché non è più possibile impadronirsi, come proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni ecc. Marx, respingendo anzitutto la frase piccolo-borghese di Lassalle sulla “uguaglianza” ed “equità”, mostra il processo evolutivo della società comunista, che è costretta anzitutto a eliminare soltanto l’”iniquità”, derivante dal fatto che i singoli individui si sono appropriati i mezzi di produzione. La società comunista in un primo tempo non è in grado di eliminare anche le altre iniquità, risultanti dal fatto che i mezzi di consumo si ripartiscono secondo il lavoro prestato (e non secondo i bisogni). Gli economisti volgari, compresi i professori borghesi, tra cui anche il nostro Turgan-Baranovsk, rimproverano continuamente ai socialisti di dimenticare la disparità tra gli uomini e di “sognare” l’eliminazione di tale disparità. Tale rimprovero dimostra soltanto, come si vede, la grande ignoranza dei signori ideologi borghesi. Marx non soltanto tiene il più preciso conto dell’inevitabile disparità tra gli uomini, ma considera anche che il trapasso dei mezzi di produzione in possesso dell’intera società (“socialismo” secondo la comune accezione della parola) non elimina le deficienze della ripartizione e le “iniquità del diritto borghese”, il quale continua a prevalere, fin che i mezzi di consumo sono ripartiti secondo il lavoro. (…) il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 I 10 giorni che sconvolsero il mondo di john Reed di Andrea Albertazzi (B) “Ho letto con enorme interesse e con costante attenzione il libro di John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Lo raccomando vivamente ai lavoratori di tutti i paesi. Vorrei che quest’opera fosse diffusa in milioni di esemplari e tradotta in tutte le lingue, perché in essa vi sono esposti in forma vivida e precisa avvenimenti estremamente significativi per comprendere che cosa sono in realtà la rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato. Tali questioni sono oggi assai discusse, ma, prima di accettare o di respingere le idee che esse rappresentano, è indispensabile comprendere tutto il valore della decisione che si prenderà. Senza alcun dubbio il libro di John Reed aiuterà a chiarire questo problema, nodo fondamentale per il movimento operaio mondiale”. Sono le parole con le quali Vladimir Ilyich Ulyanov, detto Lenin, commenta l’opera di John Reed, il cui titolo “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, lo ha reso celebre in tutto il mondo. La delicata scelta tra accettare o respingere le idee rappresentate dalla Rivoluzione d’Ottobre, cui Lenin accenna, è oggi quanto mai attuale, se soltanto si pensa a quanto spazio hanno il revisionismo e l’anticomunismo sui media tradizionali. Ma l’importanza del breve ma importante commento di Lenin sta anche nel rivolgersi a un pubblico ampio, invitandolo, prima di giudicare, ad informarsi su ciò che la Rivoluzione d’Ottobre ha significato e rappresentato. Il libro di John Reed è molto utile da questo punto di vista perché si tratta di una cronaca appassionata dei passaggi chiave della rivoluzione ed ha il merito di farne emergere i lati più “umani” e concreti, senza mai cadere in narrazioni astratte di una certa iconografia. La storia di John Reed, giornalista comunista statunitense, è affascinante: nel 1913 è in Messico per raccontare la rivoluzione messicana e le gesta di Pancho Villa, che riesce ad intervistare. Durante la prima guerra mondiale è in Europa dalla quale scrive articoli dai fronti tedeschi, russi, serbi, rumeni e bulgari. Gli sviluppi della situazione in Russia non lo lasciano indifferente: Reed decide di partire per la capitale San Pietroburgo, dalla quale è capace di descrivere un clima dove le tensioni di classe sono straordinariamente visibili e riconoscibili. Memorabile a questo proposito è la sua intervista al rockfeller russo Liazanov, ripresa anche 7 recensione nel libro, dove il magnate definisce la rivoluzione una malattia, richiedendo l’intervento delle potenze straniere per fermare il contagio del bolscevismo ed elenca quali sono le attività controrivoluzionarie dei padroni: inondazione delle miniere, distruzione dei macchinari nelle fabbriche e nelle officine, sabotaggio delle linee ferroviarie, ecc. Nel libro si parla sempre di pace, delle condizioni inumane dei soldati russi al fronte e del loro ruolo fondamentale nella rivoluzione e si sottolinea l’ipocrisia e le distanze tra parole e fatti del governo di Kerensky, espressione dei poteri dominanti. Il mancato raggiungimento della pace e delle riforme promesse, in campo agrario ed industriale, da parte del governo corrotto di Kerensky hanno di fronte la coerenza della politica dei bolscevichi che hanno risposte chiare e radicali e che denunciano il tradimento degli ideali rivoluzionari. Reed, nel suo libro, è capace di raccogliere le reali aspirazioni del proletariato russo in tutte le sue componenti: soldati, contadini ed operai e descrive come questi raggiungano una consapevolezza di classe riunendosi sotto le bandiere dei bolscevichi. “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” è un narrazione appassionata, di taglio giornalistico, della Rivoluzione d’Ottobre e ha molto da insegnare anche ai lettori di oggi: dall’egemonia che i bolscevichi riescono ad avere alla questione morale rispetto alla situazione del governo, dal pericolo dei compromessi socialdemocratici che servono soltanto ai poteri dominanti al ruolo della stampa e delle manipolazioni mediatiche. Il libro si trova abbastanza facilmente sia nuovo che usato. È inoltre possibile leggerlo e scaricarlo integralmente e in italiano all’indirizzo: http://www.marxists.org/italiano/reed/10giorni/index. htm. il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 8 I bolscevichi devono prendere il potere 1 Lettera al Comitato centrale e ai comitati di Pietrogrado e di Mosca del POSDR da Lenin, Opere Complete, vol. 26, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 9-11 trascrizione a cura del CCDP nel 90° anniversario della rivoluzione d’ottobre Scritto il 12-14 (25-27) settembre 1917. Pubblicato per la prima volta in Proletarskaia Revoliutsia. n. 2, 1921. I bolscevichi, avendo ottenuto la maggioranza nei soviet dei deputati degli operai e dei soldati delle due capitali, possono e devono prendere il potere statale nelle proprie mani. Possono farlo, perché la maggioranza attiva degli elementi rivoluzionari popolari delle due capitali basta a trascinare le masse, a vincere la resistenza dell’avversario, a schiacciarlo, a conquistare il potere e a conservarlo. Perché, proponendo immediatamente una pace democratica, dando immediatamente la terra ai contadini, restaurando le istituzioni democratiche e le libertà mutilate e distrutte da Kerenski, i bolscevichi formeranno un governo che nessuno potrà rovesciare. La maggioranza del popolo è per noi. La strada lunga e aspra percorsa dal 6 maggio al 31 agosto e al 12 settembre2 lo ha dimostrato: la maggioranza dei soviet nelle capitali è il frutto dell’evoluzione del popolo verso di noi. Le esitazioni dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi e il rafforzarsi degli internazionalisti nelle loro file lo dimostrano egualmente. La Conferenza democratica non rappresenta la maggioranza del popolo rivoluzionario, ma solo i gruppi dirigenti piccolo-borghesi conciliatori. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle cifre delle elezioni; la questione non sta nelle elezioni: paragonate le elezioni delle Dume municipali di Pietrogrado o di Mosca con le elezioni dei soviet. Paragonate le elezioni di Mosca con lo sciopero del 12 agosto nella stessa città: ecco i dati obiettivi sulla maggioranza degli elementi rivoluzionari, che guidano le masse. La Conferenza democratica inganna i contadini, perché non dà loro né la pace né la terra. Solamente un governo bolscevico darà soddisfazione ai contadini. Perché i bolscevichi devono prendere il potere proprio in questo momento? Perché l’imminente resa di Pietrogrado diminuirà di cento volte le nostre probabilità. Ora, con un esercito comandato da Kerenski e compagni noi non siamo in grado di impedire la resa. E non si può «attendere» l’Assemblea costituente, perché, con la resa di Pietrogrado, Kerenski e compagni potranno sempre toglierla di mezzo. Solamente il nostro partito, preso il potere, potrà assicurare la convocazione di una Assemblea costituente e, preso il potere, accuserà gli altri partiti di averla ritardata e proverà questa accusa.3 Solo un’azione pronta può e deve impedire la conclusione di una pace separata tra gli imperialisti inglesi e tedeschi. Le lettere di Lenin I bolscevichi debbono prendere il potere e I! marxismo e l’insurrezione furono discusse dal Comitato centrale del partito bolscevico nella seduta del 15 (28) settembre 1917. Il Comitato centrale decise di convocare a breve scadenza una nuova riunione dedicata alle questioni tattiche. Fu posto in votazione il problema se si dovesse conservare un solo esemplare delle lettere di Lenin. I voti furono sei a favore, quattro contro, sei astenuti. Kamenev, che avversava la linea del partito volta alla rivoluzione socialista. propose al CC un progetto di risoluzione contrario alle direttive di Lenin di organizzare l’insurrezione armata. Il CC respinse la risoluzione di Kamenev. 2 Il 6 maggio fu annunciata la formazione del primo governo provvisorio di coalizione; il 31 agosto il Soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado approvò una risoluzione bolscevica che esigeva la creazione di un governo dei soviet; il 12 settembre è la data fissata per la convocazione della Conferenza democratica dal Comitato esecutivo centrale dei soviet dei deputati operai e dal Comitato esecutivo del soviet dei deputati contadini di Russia, due organismi nei quali prevalevano i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi. La Conferenza si tenne a Pietrogrado dal 14 al 22 settembre (27 settembre-5 ottobre) 1917. Per quanto riguarda la Conferenza democratica cfr. il presente volume pp. 33-47. 3 Il governo provvisorio aveva annunciato la convocazione dell’Assemhlea costituente in una dichiarazione del 2 (15) marzo 1917; le elezioni erano state fissate per il 17 (30) settembre 1917. Tuttavia il governo provvisorio aggiornò la convocazione, dopo aver annunciato che le elezioni erano state rinviate al 12 (25) novembre 1917. L’Assemblea costituente fu inaugurata dal governo dei soviet il 5 (18) gennaio 1918 a Pietrogrado. Essendosi rifiutata di esaminare la Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato e diconfermare i decreti sulla pace. sulla terra e sul passaggio del potere ai soviet, approvati dal II Congresso dei soviet. essa fu sciolta il 6 (19) gennaio 1918, per decisione del Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia. 1 il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 Il popolo è stanco delle esitazioni dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari. Solo il nostro trionfo nelle capitali trascinerà i contadini al nostro seguito. Non si tratta né del « giorno » né del «momento» dell’insurrezione, nel senso stretto della parola. Questo lo deciderà solo il voto generale di coloro che sono in contatto con gli operai e con i soldati, con le masse. Si tratta di questo, che il nostro partito, oggi, alla Conferenza democratica, tiene di fatto il proprio congresso e questo congresso deve decidere (deve, voglia o non voglia) il destino della rivoluzione. Si tratta di rendere evidente a tutto il partito il suo compito, che è di porre all’ordine del giorno l’insurrezione armata a Pietrogrado e a Mosca (e nella regione di Mosca), la conquista del potere, il rovesciamento del governo. Riflettere sul modo di fare propaganda per questo senza esprimersi così sulla stampa. Ricordare, meditare profondamente le parole di Marx sull’insurrezione: «L’insurezione è un’arte»4 ecc. 1 bolscevichi sarebbero degli ingenui se attendessero di avere «formalmente» la maggioranza: nessuna rivoluzione aspetta questo. Kerenski e compagni non attendono, ma preparano la resa di Pietrogrado. Sono appunto le pietose esitazioni della «Conferenza democratica» che devono far perdere e faranno perdere la pazienza 9 agli operai di Pietrogrado e di Mosca! Se non prendiamo il potere adesso, la storia non ci perdonerà. Non vi è apparato? L’apparato c’è: i soviet e le organizzazioni democratiche. E la situazione internazionale appunto oggi, alla vigilia della pace separata tra inglesi e tedeschi, è per noi. Proporre, proprio in questo momento, la pace ai popoli significa vincere. Prendendo il potere subito e a Mosca e a Pietrogrado (poco importa chi comincerà; forse anche Mosca può cominciare), noi vinceremo assolutamente e indubitabilmente. N. Lenin Cfr. F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, in K Marx-F Engels, Opere scelte. Roma. Editori Riuniti. 1966, p 589. 4 Lo scoppio della rivoluzione in letteratura L o scoppio della rivoluzione d’ottobre del 1917, con la conseguente trasformazione dello stato da monarchia a repubblica socialista, comporta fondamentali trasformazioni in tutti i campi della vita economica, politica, sociale e culturale della Russia. Anche in letteratura, la necessità di dare una svolta di centottanta gradi si manifesta con forza sempre crescente. Già nella produzione letteraria degli anni immediatamente precedenti il 1917 si avverte un mutamento di rotta: l’acquisita rinomanza delle avanguardie rivoluzionarie, capeggiate da Majakòvskij; l’importanza raggiunta dalla letteratura proletaria e dalla critica letteraria legata a quel movimento, ambedue vicine a Gòr’kij; e la crisi decisa della letteratura che non tratta temi sociali, come quella del movimento simbolista. Anche le frange non rivoluzionarie della vita culturale russa si avvicinano al mondo della rivoluzione, e l’accettazione della rivoluzione diviene un fatto comune tra i letterati russi. Gli irriducibili avversari del nuovo ordine sono costretti ad emigrare e chi osteggia in maniera fattiva la rivoluzione viene immancabilmente boicottato. La letteratura proletaria comincia ad assumere una posizione di supremazia: su riviste e giornali cominciano ad uscire critiche negative riguardo agli scrittori meno allineati. Una notevole libertà creativa si mantiene peraltro fino all’epoca del primo piano quinquennale, allorché la pressione del regime sull’arte comincia a farsi pesante, e, dal primo congresso degli scrittori sovietici (1934), non sarà più ammessa nessuna forma d’arte svincolata dalla politica del partito o che fuoriesca dall’ambito del realismo socialista. Dopo la rivoluzione del 1917 nascono alcuni gruppi di letterati desiderosi di imporsi come portavoce della rivoluzione in letteratura. Questi gruppi, denominati “proletari”, acquistano un’importanza sempre maggiore grazie al sostegno dei funzionari sovietici addetti alla cultura e ai maggiori critici letterari del periodo. Alla fine degli anni Venti in URSS si ha quasi soltanto letteratura proletaria, opere costruite per glorificare le masse lavoratrici e la costruzione della nuova società sovietica. Ne fanno le spese gli autori non allineati, come nel caso di Michaìl Bulgàkov, e anche i gruppi d’avanguardia di sinistra, come il LEF di Majakòvskij. Nel 1932 avviene la costituzione della “Unione degli scrittori sovietici”. il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 10 20 anni dal crollo del muro di Berlino “Non ci appartengono i muri, accettiamo la complessità della storia” di Davide Rossi, direttore del Centro Studi “Anna Seghers” (www.annaseghers.it) Riportiamo il testo della lettera che Davide Rossi scrisse lo scorso gennaio a Liberazione, direttore, allora, l’anticomunista Sansonetti L eggo su “Liberazione”, senza condividerle, critiche rivolte ad un giovane dirigente di Rifondazione, Simone Oggionni, per aver espresso l’opinione che la caduta del muro di Berlino non sia un buon simbolo per i comunisti. Ho letto gli interventi del direttore Sansonetti e di Rina Gagliardi, e pur nel rispetto di idee differenti, dissento fortemente da entrambi. Nella mia qualità di direttore del centro studi “Anna Seghers” mi sento di proporre alcune considerazioni. In quel novembre del 1989 ho compiuto diciotto anni, ero appena stato eletto nel consiglio di istituto del Virgilio di Milano, la nostra “lista culturale”, questo il nome, creata contro le altre tre che da anni dominavano la scuola, quella anomala che univa fascisti e arrivisti, quella dei ciellini e quella residuale “Ribellarsi è giusto”, abbiamo ottenuto tutti e quattro i seggi. Era il tempo triste della “Milano da bere” e dei “fighetti”, noi abbiamo portato a scuola dibattiti sul Cile, stava finendo la dittatura, con una studentessa di ritorno da Santiago e ancora con il console sudafricano, mentre Mandela, febbraio 1990, ritrovava la libertà. Intanto la DDR crollava. Ricordo che anche io ho partecipato ad una manifestazione studentesca per “festeggiare” l’avvenimento, nel mio archivio ancora devo avere copia dei quotidiani di quei giorni. Oggi che insieme a tanti, come docente, lotto dentro l’Onda, di quella mia manifestazione del novembre ’89 mi vergogno e chiedo scusa. Cercherò di spiegare perché. Dall’estate del 1991 per diversi anni, mentre studiavo Lettere, ma soprattutto storia, all’università, ho viaggiato per tutto l’Est. Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia (allora si chiamava così) e dentro quegli stati che erano sorti dall’Unione Sovietica: Estonia, Ucraina e soprattutto Russia, con il mio russo precario e accidentato e oggi purtroppo quasi dimenticato. Più tardi ex – DDR, Albania, i mille rivoli della ex- Jogoslavia, … Viaggiavo per ostelli, ospite di russi, polacchi, …, di giovani italiani che avevano lasciato un bigliettino attaccato ad un pannello della Statale offrendo ospitalità per l’estate, a indirizzi trovati per caso da inserzioni su “Avvenimenti”, rivista che leggevamo, come “Cuore”, nella stagione della nostra rabbia contro la tangentopoli di allora. A ripensarci, io e i miei coetanei, faremmo ridere i diciottenni di oggi, noi, senza internet, senza mail, senza cellulare. Il viaggio, i viaggi, soprattutto verso Est, erano delle vere e proprie avventure, con qualche contante in tasca e molta buona volontà. Di ritorno da ogni viaggio sono stato attraversato da una furia matta che mi ha portato a studiare e a conoscere la storia di quei paesi socialisti. Lo confesso avevo creduto al segretario generale del PCUS, Gorbaciov, che aveva scritto in un suo libro “Casa comune europea”, bello e del tutto irrealistico, che avremmo messo insieme il meglio dell’Occidente, le libertà e i diritti civili, e il meglio dell’Est, le libertà e i diritti sociali. Nel 1989 non c’era in Occidente crisi come oggi, ma le preoccupazioni di noi giovani occidentali erano il lavoro difficile da trovare e mal pagato, la casa sempre più costosa e inarrivabile, i costi crescenti per la cultura, la scuola e la sanità. Tutto questo a Est, sino a quel 1989 era garantito, per carità, tra mille limiti e incongruenze, ma garantito. Eppure io mi sforzavo di credere che la “casa comune” fosse una buona idea, ma i viaggi, di anno in anno, smentivano Gorbaciov e le mie convinzioni. A Est sempre più poveri, sempre più disoccupati, sempre più tristi e non parlo di persone astratte, non faccio macroanalisi sociologica, parlo di ragazzi in carne ed ossa, come me, che se nel 1991 si esaltavano per tutto quello che odorava d’Occidente, tra il nostro stupore e il nostro invito alla cautela, tre anni dopo mostravano sguardi opachi, perplessi, rassegnati. Se uno di loro si era arricchito, ci era riuscito fregando gli altri. Il mito pure della “libertà di stampa” occidentale vacillava, milioni di libri stampati, migliaia di film girati, una ricchezza espressa per anni dai paesi socialisti, era scomparsa, la censura del denaro si era mostrata per quello che è, più grande e peggiore di quella del partito. Pure i cosiddetti “dissidenti” di prima ora non servivano più alla propaganda occidentale, ne ricordo uno moscovita, che consolava con la vodka, in una serata da amici comuni, in un quartiere della periferia meridionale di Mosca, quello che lui riteneva “un tradimento” dell’Occidente. Negli stessi anni mi documentavo sulla libertà dell’Occidente. Ho scoperto che non era e non è poi così autentica, potrei citare decine di scrittori che il nostro Occidente censura ferocemente nel 1989, come nel 2008. Anna Seghers, è una di loro, presidentessa degli scrittori della DDR, ha costruito quella nazione dopo l’esilio, dopo che i na- il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 zisti hanno cercato di ucciderla e hanno bruciato i suoi libri nel rogo del 10 maggio 1933 a Berlino. Di Anna Seghers il nostro centro studi edita qualche libro, ci rimettiamo di tasca nostra, lo facciamo perché crediamo nella libertà, perché ci piace vedere chi ha quindici o diciotto anni oggi, mettere in tasca un suo libro. Eppure alcuni testi di Anna sono di tale bellezza che potrebbero interessare qualche editore occidentale, ma qui nel mondo libero, accade molto, molto raramente. Noi la editiamo perché frequentando spesso Berlino e in particolare la parte orientale di quella città, conoscendo, ascoltando tanti amici che di quella nazione, la DDR, hanno fatto parte scopriamo quello che non si vuole dire o ricordare. I muri sono sempre odiosi e vanno tutti abbattuti, ma quello di Berlino, certo tra i più disgraziati della storia, ha una vicenda tanto complessa che occorrerebbe un libro, che vorrei scrivere, ma che poi non scrivo mai perché tanto non lo pubblicherebbe nessuno. Intanto la Germania Ovest nel 1945 aveva mantenuto funzionari, docenti, militari nazisti ai loro posti, la DDR no, allontanandoli. Anna Seghers o Bertolt Brechet quando tornano dall’esilio non hanno dubbi, scelgono di vivere in DDR. Berlino Ovest è stata poi l’arma pacifica con la quale l’Occidente ha vinto la guerra fredda. Non solo per i negozi stracolmi di prodotti e tenuti volontariamente a prezzi più bassi che nel resto della Germania Ovest, ma è stata la sola città in cui i ragazzi che fossero scappati da Est avrebbero potuto evitare il militare, obbligatorio nelle due Germanie. Berlino Ovest era la città in cui i medici della DDR potevano esercitare la professione con stipendi astronomici e pochissimi pazienti, un grande incentivo alle fughe. Nella primavera del 1961 diverse bombe scoppiano a Berlino Est, messe dai servizi segreti occidentali con basi a Berlino Ovest, le più sanguinose in un mercato di quartiere e all’università Humboldt. Altro problema per i cittadini di Berlino Est, la spesa, infatti le cameriere dell’Ovest venivano mandate a est di buon mattino per fare incetta di frutta e ver- dura di migliore qualità e buon prezzo, le massaie di Berlino Est nell’agosto del 1961 hanno organizzato vere e proprie manifestazioni di gioia, spontanee, per l’erezione del muro. Può bastare questo per giustificare il muro? Certo no, ma dalle massaie arrabbiate, alle bombe sanguinarie piazzate dall’Ovest, alla libera circolazione tra le due Berlino che favoriva la “campagna acquisti” dei laureati provenienti della DDR, “acquistati” e pagati lautamente per un lavoro minimo, ma utili per sbandierare il concetto chiave della guerra fredda: la libertà dell’Occidente contro la repressione dell’Est, tutto giocava, in quella guerra, che guerra è stata, anche se fredda, a svantaggio della DDR. In un altro mio viaggio, questa volta dall’altra parte del mondo, nel febbraio 1999, ospite dei giovani del partito comunista cileno, conosciuti a Cuba nel 1997 al Festival mondiale della Gioventù, ho incontrato donne e uomini che grazie alla DDR hanno trovato scampo alla dittatura fascista di Pinochet e grazie ai soldi ricevuti nel 1989 dalla DDR, come liquidazione dopo avervi lavorato per 15 anni, avevano una possibilità di integrazione delle misere pensioni del Cile liberista di dieci anni fa. Dire DDR per loro era parlare di una seconda patria e avevano le lacrime agli occhi. A Milano la compagna Carla, che oggi lavora in bar adiacente al Piccolo, può raccontarvi delle sue estati nei campi dei pionieri della DDR, con emozione uguale ad allora, qurant’anni dopo. La DDR, mentre la Germania Ovest intratteneva scambi commerciali con i politici razzisti del Sudafrica (la Baviera negli anni ottanta era il primo partner per scambi commerciali della nazione dell’apartheid), inviava aiuti di ogni tipo a Cuba e ai sandinisti in Nicaragua, ricevendone caffé, zucchero e banane, assolutamente “eque e solidali”, come diremmo oggi. Trovo allora che parlare male della DDR e dei paesi socialisti, definirli come il direttore Sansonetti “un sistema di dittature”, sia una semplificazione dannosa per provare a riflettere sul passato. Torno a ripetere che con questo non voglio giustificare il muro di Berlino, ma ci sentiamo in 11 obbligo, almeno noi del centro studi, di restituire la complessità di luoghi e avvenimenti che anche Rina Gagliardi, parlando dell’autostrada che veniva da ovest, sembra non voler prendere in considerazione. La notte del 9 novembre 1989 e quelle dei giorni seguenti, la metà di Berlino Est che non si è mai riconosciuta nei valori del socialismo ha invaso Berlino Ovest, comperato e festeggiato l’accesso al consumismo. Credo che i comunisti, come coloro che si iscrivono a Rifondazione, debbano ricordare quell’altra metà di berlinesi di quella mezza città che era la capitale della DDR, che in quei giorni non festeggiavano e non hanno festeggiato nei giorni e negli anni seguenti. La storia della DDR non è la storia del paese degli orrori, è la storia dolorosa e complessa di un pezzo di Germania che tra mille contraddizioni ha provato a fare, forse malamente, forse riuscendoci o forse no, il socialismo. Ma questo è un interessante tema di ricerca storica, uno tra i tanti che noi del centro studi cerchiamo di condurre, ci pare che il muro e la DDR abbiano poco a che vedere con la quotidianità politica. Il muro che cade a Berlino nel novembre 1989 e sancisce la fine della DDR tuttavia non mi pare possa essere annoverato tra i simboli per coloro che in cuor loro credono nei valori di giustizia, uguaglianza e fratellanza. La caduta del muro di Berlino ha portato con sé problemi, ambiguità, speranze deluse e sogni traditi. È forse, insieme ad essere il simbolo della vittoria della destra liberista sul nemico storico del socialismo, più o meno di aderenza sovietica, nella guerra fredda, il simbolo di un’Europa che non ha saputo diventare subito, nei giorni di allora, Europa dei popoli e che oggi tanto fatica e arranca per affermarsi come tale. Non mi azzardo ad entrare nel merito di socialismo e comunismo, idee meravigliose e ancora più grandi, ma se possiamo discutere e approfondire quale sia stata eventualmente la loro relazione con la DDR, di un fatto sono sufficientemente convinto, comunismo e socialismo non abitano le macerie del muro e della DDR. il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 12 “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso” Ernesto “Che” Guevara “Che” Guevara è stato assassinato in Bolivia il 9 ottobre 1967 I l soprannome di “Che” venne attribuito a Guevara dai compagni di lotta cubani, e deriva dal fatto che Guevara, come tutti gli argentini, pronunciava spesso l’allocuzione “che”. La parola deriva dalla lingua mapuche (gli indio nativi) e significa “uomo” o “persona”, e venne ripresa nello spagnolo parlato in Argentina ed Uruguay, per chiamare l’attenzione di un interlocutore, o più in generale, come un’esclamazione simile a “ehi”. “He nacido en la Argentina; no es un secreto para nadie. Soy cubano y también soy argentino y, si no se ofenden las ilustrísimas señorías de Latinoamérica, me siento tan patriota de Latinoamérica, de cualquier país de Latinoamérica, como el que más y, en el momento en que fuera necesario, estaría dispuesto a entregar mi vida por la liberación de cualquiera de los países de Latinoamérica, sin pedirle nada a nadie, sin exigir nada, sin explotar a nadie.” Sintesi biogrAfica di Ernesto Che Guevara de la Serna D estacado revolucionario, expedicionario del Granma, una de las más notables figuras de la Revolución Cubana y combatiente internacionalista. Nació en Rosario, Argentina, el 14 de junio de 1928. Se graduó de médico en 1953 y por segunda vez viajó por las Américas. En 1954, se encuentra en Guatemala, donde ejercía sus primeras armas revolucionarias, oponiéndose a los planes de la CIA contra el pueblo guatemalteco. Al ser derrocado el gobierno de Jacobo Arbenz, emigró a México donde conoció a Fidel Castro y se enroló en 1956 como médico en la expedición del yate Granma. Durante la Guerra de liberación nacional en Cuba, que se inició en diciembre de 1956 en la Sierra Maestra, se destacó por su valor y arrojo, por lo que llegó a obtener el grado de comandante. En julio de 1957, se le designa Jefe de la Segunda Columna creada, la No. 4 del I Frente y a finales de agosto de 1958, jefe de la Columna Invasora No. 8 “Ciro Redondo”, después del Frente Sur y Centro en Las Villas y jefe de todas la unidades rebeldes del Movimiento 26 de Julio en esa provincia, tanto en las zonas rurales como urbanas y con il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 la misión de integrar al resto de las fuerzas revolucionarias del territorio. Dirigió el combate de la toma de Santa Clara, tercera ciudad en importancia de Cuba, en diciembre de 1958. Después del triunfo revolucionario, desempeñó distintos cargos, entre los que se destacan la presidencia del Banco Nacional de Cuba y el de titular de Ministro de Industrias. Además, representó a nuestro país en diferentes eventos internacionales, tales como la Asamblea General de la ONU y la Reunión en Punta del Este, Uruguay, en 1961. Impulsor y ejemplo del trabajo voluntario y cronista de la Revolución, entre sus escritos más notables se encuentran: Pasajes de la guerra revolucionaria, La guerra de guerrillas, Mensaje a la Tricontinental, El Socialismo y el hombre en Cuba. En 1965, se despide de Fidel Castro y del pueblo cubano para ir a otras tierras del mundo a combatir por el triunfo de los humildes y contra el imperialismo yanqui. Ese mismo año, a solicitud de Gastón Soumialot del movimiento “Patricio Lumumba”, brinda ayuda en el Congo (hoy Zaire), al movimiento antiimperialista allí fundado, donde estuvo al frente de un destacamento con voluntarios cubanos. 13 De noviembre de 1966 a octubre de 1967, dirige el movimiento guerrillero en Bolivia, que había de ser el inicio de la lucha por la liberación americana. Capturado el 8 de octubre de 1967 en la Quebrada del Yuro es conducido a la escuelita de La Higuera donde es asesinado el día 9. Arquetipo de intelectual revolucionario, sus trabajos sobre la acción y teoría revolucionaria son sumamente valiosos. El Diario del Che en Bolivia –su diario de campaña nos ofrece una rica información sobre los meses finales de su ejemplar y heroica vida. Hasta siempre Comandante Carlos Puebla (1965) Aprendimos a quererte desde la histórica altura donde el sol de tu bravura le puso un cerco a la muerte. Tu amor revolucionario te conduce a nueva empresa donde esperan la firmeza de tu brazo libertario. Aquí se queda la clara, la entrañable transparencia, de tu querida presencia Comandante Che Guevara. Aquí se queda la clara, la entrañable transparencia, de tu querida presencia Comandante Che Guevara. Tu mano gloriosa y fuerte sobre la historia dispara cuando todo Santa Clara se despierta para verte. Seguiremos adelante como junto a ti seguimos y con Fidel te decimos: hasta siempre Comandante. Aquí se queda la clara, la entrañable transparencia, de tu querida presencia Comandante Che Guevara. Aquí se queda la clara, la entrañable transparencia, de tu querida presencia Comandante Che Guevara. Vienes quemando la brisa con soles de primavera para plantar la bandera con la luz de tu sonrisa. Aquí se queda la clara, la entrañable transparencia, de tu querida presencia Comandante Che Guevara. Quando saprai che sono morto di Ernesto Che Guevara Quando saprai che sono morto non pronunciare il mio nome perché si fermerebbe la morte e il riposo. Quando saprai che sono morto di sillabe strane. Pronuncia fiore, ape, lagrima, pane, tempesta. Non lasciare che le tue labbra trovino le mie undici lettere. Ho sonno, ho amato, ho raggiunto il silenzio. il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 14 Rivoluzione cinese: 60 anni fa Il passaggio dell’esercito popolare di liberazione all’offensiva strategica Il programma politico ed economico del Partito Comunista Cinese da Accademia delle Scienze dell’URSS, Storia universale vol. XI, Teti Editore, Milano, 1975. A sessanta anni dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (01/10/1949) – trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare, dal sito www.resistenze.org I l passaggio dell’esercito popolare di liberazione all’offensiva generale, che ebbe luogo nel giugno 1947, incominciò con un possente attacco delle truppe comandate da Liu Po-cheng. Attraversato il Fiume Giallo esse sostennero una serie di vittoriosi combattimenti con il nemico e occuparono estesi territori a sud del fiume. Le avanguardie di questo esercito si spinsero fino alle rive dello Yangtze. A questo successo contribuirono le azioni militari delle truppe della Cina orientale, che avevano respinto gli attacchi dell’esercito di Chiang Kai-shek e aperto la strada alle regioni della 27 settembre 1949. Mao annuncia alla radio la costituzione della Repubblica popolare cinese. pianura centrale. Nell’agosto 1947 il gruppo di armate di Chen Keng forzava il Fiume Giallo, tagliava la strada ferrata di Lunghai e, battendo le truppe del Kuomintang, si spingeva nell’Honan occidentale. Grazie a questa marcia le regioni liberate dello Shansi, Shantung, Honan e Anchoi venivano a costituire un tutto unico, ciò che creava condizioni favorevoli per l’estensione delle operazioni militari. Una grande importanza ha avuto l’offensiva del gruppo di armate di Chen Yi, incominciata nel settembre 1947 e coronata da un successo che consentì alle unità dell’esercito popolare l’esercito popolare durante la lungamarcia che ha portato al potere il popolo cinese. di liberazione di liberare immensi territori nelle province dell’Honan, Anchoi e Shensi. Grazie a queste operazioni tre gruppi di armate si riunivano e nel dicembre 1947 le regioni liberate, prima isolate, si fondevano in un unico massiccio: il territorio libero della Pianura centrale. Parecchie città e villaggi erano rimasti nelle mani del Kuomintang ma, essendo bloccati, non costituivano una seria minaccia militare. I contrattacchi delle truppe del Kuomintang venivano respinti con successo. Nell’agosto e settembre 1947 passarono all’offensiva le truppe dei gruppi di armate nord-occidentali al comando di Pen Teh-huai e unità dell’esercito popolare di liberazione dei gruppi dello Shantung e nord-orientale, al comando di Lin Piao. Nel dicembre 1947 il gruppo di truppe nord-orientale passò all’offensiva e nell’aprile 1948, sconfitte le divisioni del Kuomintang, liberò quasi tutta la Cina nord-orientale, isolando le città di Shenyang (Mukden) e Changchun. Nell’inverno 1947 e nella primavera 1948 l’esercito popolare di liberazione passò a vittoriose azioni offensive anche su altri fronti, eliminando il Kuomintang non solo dalle zone rurali, ma anche da grandi città. L’offensiva vittoriosa dell’esercito popolare di liberazione allarmò i circoli dirigenti degli USA. Già nel luglio 1947 era stata inviata in Cina una missione speciale guidata dal generale Wedemeyer il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 che aveva il compito di studiare le misure atte a salvare il regime del Kuomintang. Dopo un mese di lavoro la missione giunse a conclusioni poco rassicuranti. Gli esperti americani riconobbero che il Kuomintang non era in grado di vincere i comunisti con la forza militare, che il governo del Kuomintang era incompetente e corrotto, che era necessario risanarlo e rafforzarlo con provvedimenti d’urgenza. La missione affermò anche di ritenere che senza l’attuazione di riforme politiche e economiche, tra cui la riforma agraria, non c’era neanche da pensare al rafforzamento del regime del Kuomintang ormai imputridito. Nello stesso tempo, però, Wedemeyer riteneva che Chiang Kai-shek fosse una figura insostituibile e che non ci fossero in Cina altri capi capaci di far fronte ai comunisti. Nonostante le critiche rivolte all’attività del Kuomintang, Wedemeyer raccomandò l’aumento degli aiuti militari ed economici a Chiang Kai-shek. Tenendo conto che il suo governo non era in grado di utilizzare da solo in modo efficace l’aiuto americano, egli suggeriva altresì l’accrescimento del controllo dei rappresentanti statunitensi sull’attività dell’apparato militare e amministrativo di Chiang Kai-shek. Il governo statunitense respinse formalmente le proposte di Wedemeyer, temendo che un suo intervento diretto e aperto nelle vicende interne della Cina potesse condurre a un pericoloso confronto con l’Unione Sovietica in Asia. Ma gli USA continuarono ad aiutare il regime di Chiang Kai-shek, anche se il loro aiuto non poteva più esercitare un’influenza sull’esito della guerra civile. Nell’ottobre 1947 il governo del Kuomintang dichiarò fuori legge la Lega democratica e ne vietò l’attività. Questo passo veniva a dimostrare una volta di più agli strati oscillanti degli intellettuali e della piccola borghesia che il Kuomintang non intendeva affatto rinunciare alla sua politica reazionaria. Alla Lega democratica e agli altri gruppi intermedi non rimaneva altra via che quella di schierarsi con il partito comunista, accettando le sue proposte di fronte unico. Nell’autunno 1947, basandosi sulle vittorie conseguite sui campi di battaglia, il partito comunista Mao Tze Tung 15 incita l’esercito popolare alla lotta. iniziò un’attiva offensiva politica. Nella nuova situazione di generale ascesa rivoluzionaria e di disfacimento del regime del Kuomintang, il Comitato centrale del partito comunista pose l’obiettivo di completare la rivoluzione democraticopopolare. Il programma politico ed economico del partito nella fase finale della rivoluzione fu formulato nella dichiarazione dell’esercito popolare di liberazione della Cina, pubblicata il 10 ottobre 1947. Nella dichiarazione venivano indicati obiettivi generali nazionali e democratici. Nel campo politico era prevista l’eliminazione del regime dittatoriale marcio di Chiang Kai-shek con mezzi militari e l’instaurazione di un regime popolare democratico nel quale sarebbe garantita al popolo la libertà di stampa, di parola, di riunione e di organizzazione, la fine delle concussioni e delle malversazioni, e la creazione di un’amministrazione onesta e disinteressata; il riconoscimento del diritto all’autonomia di tutte le minoranze nazionali; l’annullamento di tutti i contratti e degli accordi capestro conclusi dal governo di Chiang Kai-shek e l’avvio di una politica estera indipendente. Nel campo economico era prevista la confisca di tutto il grande capitale monopolistico di Stato (“burocratico”); lo sviluppo dell’industria e del commercio nazionali; il miglioramento delle condizioni di vita degli operai e degli impiegati; assistenza ai colpiti dalle calamità e a tutti i bisognosi; liquidazione del sistema agricolo feudale e passaggio della terra in proprietà dei contadini. La dichiarazione faceva appello all’unione di tutte le classi e gli strati oppressi della popolazione - operai, contadini, soldati, intellettuali, piccoli commercianti in un unico fronte nazionale il cui programma generale sarebbe consistito nelle rivendicazioni avanzate dalla dichiarazione stessa. Questo programma, per il suo contenuto economico e sociale, non usciva dal quadro di una rivoluzione democratico-borghese e quindi era accettabile anche per la borghesia nazionale. Il pilastro sociale fondamentale dell’esercito e la sua base di massa continuavano a essere rappresentati dai contadini, perciò l’attuazione di una radicale riforma agraria antifeudale era considerata dalla direzione del partito comunista come “la premessa più fondamentale per una lunga lotta e il conseguimento della vittoria in tutto il paese”. Perciò il Comitato centrale del partito, contemporaneamente alla dichiarazione dell’esercito popolare di liberazione, rese di pubblica ragione i lineamenti generali di una legge fondiaria per la Cina, elaborati dalla conferenza agraria pancinese del partito comunista, che aveva avuto luogo nel 16 settembre 1947. In questo documento si prevedeva la completa liquidazione delle proprietà degli agrari con la distribuzione egualitaria della terra, in base al numero dei componenti la famiglia, soprattutto ai contadini più poveri. Risultato inevitabile di questa ripartizione era l’esproprio dei contadini ricchi. Grande importanza politica rivestiva 1’articolo 10 dei lineamenti generali, che prevedeva la distribuzione delle terre delle famiglie dei soldati e degli ufficiali dell’esercito Chou En Lai, primo Primo ministro del governo della Repubblica Popolare cinese, numero due del Paese e grande diplomatico. il contemporaneo – supplemento AURORA n. 12 – novembre 2009 del Kuomintang, dei funzionari del governo del Kuomintang, dei membri del Kuomintang e di quanti altri si erano schierati con il nemico. Con questa politica il partito comunista attrasse dalla sua parte una grande quantità di uomini che erano stati avvelenati dalla propaganda del Kuomintang, contribuì a provocare divisioni nell’esercito del Kuomintang e indebolì il fronte nemico. Inoltre i traditori e i criminali di guerra, i responsabili dello scatenamento della guerra, venivano privati del diritto alla terra. I lineamenti generali riconoscevano il diritto allo sfruttamento della terra, alla sua compravendita e, in determinate circostanze, anche il diritto di affittarla. Le proprietà e le imprese degli industriali e dei commercianti che avevano gestito le loro aziende con i metodi capitalistici non erano soggette a confisca, ed erano tutelate dalla legge. Questa politica era appoggiata dalla borghesia nazionale, i cui interessi erano stati lesi dal regime del Kuomintang. Nel corso delle trasformazioni agrarie nelle campagne si erano create le unioni dei contadini poveri che, congiungendo i loro sforzi a quelli dei contadini medi, avevano fatto crollare il regime dei grandi proprietari fondiari. Dal febbraio al maggio 1948 il Comitato centrale del partito comunista limitò la distribuzione delle terre alle sole zone liberate prima dell’offensiva Mao Tze Tung al Congresso de Partito Comunista Cinese del 1927. generale dell’esercito popolare di liberazione. Nelle zone di nuova liberazione la riforma agraria fu rinviata alla fine della guerra. Contemporaneamente furono prese decisioni intese a salvaguardare gli interessi della borghesia nazionale e a conservare nelle mani degli agrari le loro imprese industriali e commerciali. Sullo sviluppo della rivoluzione antifeudale e antimperialistica, i lineamenti generali, con le modifiche apportatevi nel 1948, hanno avuto una grande funzione per la mobilitazione delle masse contadine per abbattere il regime del Kuomintang e instaurare il potere democraticopopolare. Il Libretto rosso di Mao viene pubblicato a Pechino Citazioni dalle Opere del presidente Mao Zedong (毛主席 语录 Pinyin: Máo Zhǔxí Yǔlù), meglio noto come Libretto Rosso o Il libro delle Guardie Rosse, fu pubblicato la prima volta nel 1966. Si compone di una antologia di citazioni tratte dagli scritti e dai discorsi di Mao Zedong. Il titolo “Libretto Rosso” gli fu dato in occidente a causa del colore della copertina e dal formato, adatto ad essere infilato in una tasca superiore della giacca cinese allora maggiormente in uso: la zhongshanzhuang, cosiddetta “giacca maoista”. In Cina però questo titolo alternativo non fu mai impiegato.