Je suis Charlie
Per i primi trentaquattro anni della propria vita, Jean-Ive Le Léap era stato un vignettista, nel
vero senso della parola: quando qualche fumettista era a corto di vignette o quando c’era bisogno di
ricorrere a una grafia particolare per firmare, lui ci metteva del proprio.
L’opinione pubblica francese ha di recente dovuto riconoscere di non aver saputo della sua
carriera da vignettista, finché egli non è diventato oggetto di una frenetica cronaca nazionale.
Sebbene scrivesse per Charlie Hebdo, settimanale satirico piuttosto quotato, Jean-Ive Le Léap non
era infatti nato con la vocazione per il giornalismo a nessun livello, come ha meticolosamente fatto
notare Douglas Anderson in un saggio pubblicato quest’anno sull’ormai celeberrimo cittadino
dell’hexagone, dal significativo titolo L’ossessione per la bellezza. Il saggio, com’è noto, non è
incentrato sulla sua attività di redattore, eppure l’autore ha dedicato un lungo capitolo della propria
opera a spiegare in che modo la frustrazione lavorativa di Le Léap sia da ricollegarsi alla singolare
vicenda che l’ha ormai reso famoso in tutto il mondo. La ragione è presto detta: se quella all’interno
della redazione fosse stata un’attività per Le Léap più stimolante, quest’ultimo non avrebbe
probabilmente avuto il tempo materiale per elaborare malesseri di alcun tipo.
Nel caso specifico, la patologia di Jean-Ive Le Léap, nato sotto il segno dei pesci nella
cittadina di Besançon (Francia Contea), era di un tipo ben preciso. Di un tipo quasi anomalo, anzi.
Quasi unico. E si era manifestata per la prima volta il 27 marzo del 2013, come ha fedelmente
ricostruito per la prima volta lo scrittore e psichiatra Mathieu Adagio a pagina 11 del proprio La
verità sul caso Le Léap, i cui riferimenti sono stati dichiarati i più fedeli all’autobiografica del
Nostro:
«Non tutto può accadere dappertutto, né sempre, né a chiunque. Esistono luoghi che
sembrano rimanere immobili, quasi finti, esistenti solo in potenza, finché un trentaquattrenne
passato di lì per caso o per necessità, di fretta o a passo lento, per la prima volta o per l’ennesima,
non realizza che il colore del cielo e l’odore del caffè sono improvvisamente diventati qualcosa di
inedito, di beffardamente diverso dalla normalità delle mattine feriali. E cosa, dunque? E perché
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sembravano d’un tratto diverse le strade, le case, le espressioni delle donne – o solo l’asfalto, forse,
solo l’erba superstite fra due blocchi di cemento e tre vetrine di pasticceria – o forse anche i colori
dei pantaloni che aveva addosso la gente, e il modo che avevano tutti di trascinarsi da qualche parte,
e i sacchi di silenzio che riempivano mentre riflettevano su qualche dettaglio non meglio noto della
loro terrestrità? Quella mattina, Jean-Ive non poté fare a meno di chiederselo. A voler essere onesti,
prima ancora si era chiesto che giorno fosse. Di solito riusciva a rispondere in un intervallo medio
di tre secondi, grazie a cui si assicurava di essere sufficientemente presente allo scorrere del tempo,
al proprio stato di veglia e alle necessità pratiche che avrebbero potuto riguardarlo da un momento
all’altro. Quella volta impiegò poco più di due secondi a collocarsi mentalmente in Rue du Temple,
nella capitale francese dove era andato ad abitare tre anni, quattro mesi e diciotto giorni prima. Il
numero civico davanti a cui si trovava oscillava fra il 54 e il 56, perché rimanere immancabilmente
fermo mentre si lasciava andare a questo o a quel pensiero avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo
del proprio autocontrollo.
Era allora quello il luogo, quello il giorno. Quello il mutevole hic et nunc della persona
giusta arrivata nel posto giusto. Per quale motivo, dunque? Jean-Ive se l’era domandato dopo aver
provato invano a capire cosa ci fosse di diverso nel suo modo di percepire sé stesso e gli spazi che
lo circondavano. Non sospettava ancora la finalità di un tale combaciare impeccabile nel piano
tridimensionale delle coincidenze di cui si sentiva protagonista. Poteva avere certezza solo del
perché fosse arrivato lì proprio allora, proprio lui, proprio con la camicia verde macchiata di caffè e
con una sete considerevolmente maggiore rispetto agli standard cui era abituato alle 7:47 del
mattino.»
La spiegazione seguente è stata illustrata con lucida e quasi inquietante consapevolezza nella
prima edizione del volumetto pubblicato il 5 giugno scorso da Cécile Martignon, Le Léap: prima e
dopo l’epifania. Al terzo capitolo, pagine 25-33, l’autrice scrive:
«Rue du Temple, sebbene non di molto, era fuori asse rispetto al tragitto Rue Léon Fort –
Rue Nicola Appert, dove Jean-Ive Le Léap lavorava. Eppure, l’attrazione per qualche insolita
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costruzione architettonica intravista da lontano doveva averlo spinto ad arrivare fino a lì, a distrarsi
al punto da rovesciare il caffè che stava bevendo e a realizzare, poi, che a condurlo in quella fatidica
via era stato l’ultimo rimasuglio di soggezione che provava per lo splendore imponente di Parigi.
Così sottile da essersi ormai estinto, eppure così prezioso per Le Léap da fargli desiderare di amare
la capitale francese da capo, re-imparando da zero, ritrovando la capacità di stupirsi davanti a
qualsiasi chiesa e ai palazzi apparentemente insignificanti di Rue du Temple. Si era assuefatto alla
bellezza al punto da non percepirla più, o quasi, e rendersene conto lo aveva improvvisamente fatto
impazzire di dolore, proprio lì, il 27 marzo, poco prima delle otto del mattino, mentre avrebbe
dovuto già essere a lavoro. [...]
Andarsene! Questa era l’unica soluzione per guarire! Ma verso dove, poi? E per quanto
tempo? E da che parte? Verso il continente, forse? O giù fra i Pirenei, o oltre l’Atlantico? E lui da
solo, così com’era? Con Lechat, certo, e con una grossa valigia. Ma solo, dopotutto. Si sentiva
pronto a farlo? Lo trovava già giusto? Anzi, lo accettava già? Com’era possibile che lo accettasse?
Si diceva allora che non lo accettava affatto: lo constatava con una certa svolazzante stizza e
lasciava poi che il resto venisse da sé. La noia per i boulevard, prima di tutto. E subito dopo i colori
appiattiti al suo passaggio, i tetti deformati dall’abitudine, i profumi a tratti perfino odiosi.
Ma sì, doveva disintossicarsi! Smettere di stare davanti a tutta quella bellezza come se
potesse sopportarla! Farsi una doccia fredda di normalità, non importava sotto quale governo o per
quanti cicli lunari. Aveva bisogno di una casa normalissima in una città normalissima, che non fosse
la Parigi sempre vestita a festa, ormai nauseante con le sue forme senza veli, con il suo trucco
troppo forte, con i capelli sempre puliti e l’andatura raffinata di chi da anni sa come stregare
qualunque malcapitato.
Diede corpo a questa risoluzione facendosi recapitare per posta una serie di mappe stradali
europee – uscire dall’appartamento che aveva affittato in Rue Léon Fort numero 14 avrebbe
significato peggiorare la propria malattia, risvegliare l’insofferenza, stuzzicare l’impassibilità che si
sforzava di mantenere finché non fosse stato pronto a partire. Arrivò a collezionarne una ventina,
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senza riuscire a scegliere da quale strada cominciare per allontanarsi dalla capitale. Prendeva nota di
eventuali deviazioni, di metropoli da evitare, della durata di ogni tratta. E telefonava in stazione
perché gli garantissero che no, non ci sarebbe stato nessuno sciopero dei treni nei giorni seguenti,
nessuno aveva ancora trovato un buon motivo per organizzarne uno. Spesso se ne pentiva nell’arco
di pochi minuti, così metteva da parte le cartine e dava un’occhiata ai voli diretti per i diversi Paesi
europei, controllando che gli orari fossero compatibili con i pasti di Lechat e con un traffico che non
gli impedisse di arrivare in tempo all’aeroporto.
A quel punto, però, gli veniva in mente il lavoro. Il lavoro, maledizione! Non avrebbe potuto
lasciarlo da un giorno all’altro. Voglio dire, avrebbe potuto senz’altro. Ma come spiegarlo al
direttore? Come giustificarsi? Come evitare di essere deriso, preso per matto o perseguitato?
Nessuno si sarebbe licenziato per un motivo simile. E no, lui non aveva parenti né vicini né lontani
cui affibbiare qualche neonata malattia. Avrebbe potuto coinvolgere solo i genitori, ma non se la
sarebbe sentita. E, d’altra parte, attorno alla propria solitudine aveva sempre fabbricato battute,
lamentele e giochi di parole proverbiali. Né poteva fingersi malato in prima persona: con quali
sintomi, con quale preavviso? E verso quale meta di guarigione più adatta di Parigi?
Una vacanza? E da cosa? Se lui non aveva che Lechat a cui badare! Pagava regolarmente
affitto e bollette varie, non rientrava tardi dal lavoro, non aveva grosse distrazioni di sorta, né donne
con le quali cacciarsi più o meno consapevolmente nei guai. C’era solo Parigi, per lui. E una
vacanza da Parigi non era concepibile. Non per qualcuno che non fosse Jean-Ive Le Léap.
Rassegnato, scivolava allora giù dalle sbarre della trappola che si era costruito con le proprie
mani. Arrampicarsi nel tentativo di distruggerla non sarebbe servito. E così continuava a consegnare
vignette al lavoro, a muoversi in metropolitana, a mangiare succo d’arancia e pane tostato a
colazione, a telefonare a qualche conoscente prima che finisse il weekend, a mormorare fra sé un
rosario blasfemo con cui malediceva in ordine sparso il Trocadero, il Quartiere Latino, la Rue des
Artistes e tutto quanto di Parigi aveva un tempo idolatrato. Di tanto in tanto telefonava ugualmente
in stazione, ma quasi non si informava più sugli scioperi e chiedeva solo di poter parlare con
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Michel, sì, il signore che rispondeva alle telefonate alla Gare de Bercy, sì, dalle quattro del
pomeriggio di solito, tante grazie. Si scambiavano qualche notizia sul tempo, poi Jean-Ive gli
domandava come stesse la moglie, che aveva partorito da poco la quarta rappresentante di una prole
tutta al femminile, e Michel gli raccomandava a propria volta di non viziare troppo Lechat con tutte
quelle scatolette di tonno che si ostinava a fargli slinguazzare fuori pasto.
Probabilmente avrebbe continuato in questo modo finché non fosse impazzito, se una
mattina Philippe Honoré, suo vicino di scrivania e di orientamento politico internazionale, non gli
avesse inconsapevolmente servito sullo stesso piattino in cui gli offrì un caffè la chiave perfetta per
aprire la gabbia invisibile dentro cui lui nuotava ancora.
– Per Dio, Jean! – gli aveva detto battendogli una pacca sulla spalla per scuoterlo un po’. –
Che ti prende ultimamente? Sembra che la tua ispirazione sia un po’ arrugginita! Se hai un
problema con qualche vignetta ti aiuto volentieri, io con le mie sono addirittura in anticipo, questa
settimana.
– Come hai detto? – farfugliò Jean-Ive.
– Che posso scrivere per te qualche vignetta, se qualcosa non va. Se oggi stesso mi dài...
– No, no! Cosa hai detto prima delle vignette? Sulla mia ispirazione?
– Che sembra la tua si sia un po’ arrugginita, ragazzo!
Jean-Ive si passò distrattamente una mano sulla fronte. Gli si era liberato qualcosa dentro,
qualcosa dalle dimensioni gigantesche. Un’intuizione tremenda. Proprio a forma di chiave.
Ma certo! Un vuoto dello scrittore! Ecco quale sarebbe stato il suo alibi! Chi, più di uno
pseudo-fumettista come lui, avrebbe avuto diritto a cambiare aria prima di riprendere a consegnare
le proprie vignette? Chi sarebbe stato più legittimato a lasciare Parigi per toccare con mano una
realtà diversa? Chi, se non uno scrittore a corto di argomenti? Chi, se non Jean-Ive, che già
nell’aspetto sembrava a tutti ancora meno entusiasta e ispirato del consueto?
Sarebbe bastato inventarsi l’esistenza di un libro. Avrebbe detto al direttore che si trattava di
un reportage fotografico su alcuni fra i più bizzarri monumenti della Ville Lumière. Che da mesi
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cercava un filo conduttore scritto da accompagnare ai propri scatti, senza però trovarlo. Che aveva
bisogno di una pausa per trovare il luogo giusto da cui lasciarsi dettare le parole magiche del
compendio, preferibilmente a distanza di sicurezza dal luogo di cui si era occupato, per essere il più
oggettivo possibile. E se qualcuno avesse insistito perché tornasse a breve senza dare le dimissioni?
Jean-Ive avrebbe accampato qualche scusa strada facendo, si sarebbe trovato un editore inetto e
difficilmente contattabile cui affibbiare tutte le colpe e i ritardi del caso. Avrebbe scritto delle e-mail
piene di ottimismo e di nostalgia a tutti i colleghi, li avrebbe rassicurati dicendo che nel frattempo
era stato assunto da qualche testata satirica locale e che stava riuscendo a far quadrare i conti a fine
mese. E se il direttore gli avesse chiesto di fargli da corrispondente a distanza, no, santo cielo,
avrebbe trovato qualche buona ragione per rifiutare l’offerta, per dirsi quasi sulla via del ritorno, per
distrarre tutti con stralci improvvisati del proprio libro, per chiedere di informare i lettori
dell’imminente pubblicazione con questa o con quella newsletter. Come aveva fatto a non pensarci
prima? Come aveva fatto a non pensarci da solo?
Per fortuna non era così grave, comunque. Il caro Philippe gli aveva dato il la in maniera
impeccabile. Ora gli sarebbe bastato volgere a proprio favore la situazione e lasciare che il corso
degli eventi facesse il resto.
Perciò, alla fine, sembra che Jean-Ive abbia sospirato con aria teatrale e risposto:
– Non so come abbia fatto ad accorgertene, Philippe, ma ci hai preso in pieno. Da qualche
tempo mi sento senza energie e voglia di scrivere, non riesco a stare al passo né con le vignette né
con il libro.
– Con quale libro, scusa, Jean-Ive?
– Come! Non ti ho ancora detto che sto finendo di lavorare a un reportage fotografico sui
monumenti più bizzarri di Parigi?
– Un reportage fotografico? Proprio tu, Jean?
Organizzare il seguito fu facile. La notizia aveva fatto il giro della redazione in meno di due
giorni e Jean-Ive si era ritrovato circondato da domande curiose su questo o quell’aspetto del
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progetto. Non perché qualcuno lo trovasse eccezionalmente originale, né perché ci fossero lettori
già appassionati alla tematica. A stupire gran parte dei redattori era stato il fatto stesso che Jean-Ive
stesse scrivendo qualcosa che superasse le 100 battute e il cui argomento non fosse stato deciso per
lui da qualche superiore, da qualche disegnatore indietro con il proprio lavoro o dal direttore stesso.
Jean-Ive Le Léap non era affatto un uomo dall’estro vivace, dopotutto. Era la brutta copia di
un fumettista affermato e la bella copia di uno scrivano, l’umana evoluzione di un elaborato
factotum, il tacito compromesso fra un segretario e un robot. Ci si sarebbe potuto scommettere che
non era tagliato per fare lo scrittore. Stava alla scrittura come un criceto starebbe alla risoluzione di
un’equazione matematica: c’era fra lui e il mondo verbale scritto un rapporto di tesissima
convivenza, di sofferta accettazione. Quasi di masochistico piacere senza uscita.»
Eppure, a fine maggio, Le Léap se ne uscì con quella storia del reportage fotografico. Il
direttore ne fu compiaciuto al punto che incoraggiò egli stesso l’immediata partenza di Jean-Ive,
promettendogli che l’avrebbe accolto a braccia aperte non appena fosse tornato, raccomandandogli
di non badare a tempo e a spese per ultimare il libro, incoraggiandolo a credere nelle proprie
capacità scrittorie anche di fronte a eventuali difficoltà e – ultimo ma non meno importante –
organizzando una festa in suo onore la sera prima della partenza per Lentini.
Com’è stato notoriamente registrato, il lettore medio francese si è parecchio stupito
nell’apprendere la destinazione finale scelta dal Nostro. Non è facile che la Francia senta parlare di
Lentini, meno che mai a Parigi. Meno che mai da parte di un cittadino che a stento si era spinto fino
alla Corsica, nel poco riuscito tentativo di confrontarsi con una cultura diversa dalla propria. Le
Léap stesso, in una lettera inviata Al signor Michel Brédoteau, impiegato alla Gare de Bercy di
Parigi, pregasi consegnare personalmente il prima possibile, grazie, aveva scritto:
«Gentile signor Michel B.,
Mi perdonerà se ho infine deciso di non passare dalla sua stazione per spostarmi dalla
capitale. Ho intenzione di fare un viaggio più lungo di quanto pensassi all’inizio. Ricorda il finto
reportage di cui le ho parlato al telefono? Due sere fa, sfogliando un mio vecchio manuale
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scolastico di filosofia, mi sono imbattuto in un paesino siciliano dall’aria sperduta. Quantomeno mi
auguro che lo sia abbastanza. Qualche millennio fa l’hanno reso famoso alcuni importanti pensatori
greci (lei forse avrà sentito parlare di Gorgia; se no, gliene parlerò durante la nostra prossima
telefonata). A proposito: oltre che per scusarmi di averla importunata tante volte al lavoro per nulla,
le ho scritto per chiederle il suo numero di telefono. Quello di casa sua, intendo, non della Gare. Mi
piacerebbe chiamarla di tanto in tanto, quando sarò in Italia. È probabile che mi tratterrò lì a lungo e
potrebbe mancarmi qualcuno con cui chiacchierare. Lei è un uomo molto a modo, specialmente
curioso. Potrebbe trovare interessante scoprire qualcosa in più sulla Sicilia orientale, soprattutto se a
raccontarglielo saranno un francese di Besançon e il suo gatto (Lechat ha deciso di seguirmi,
naturalmente, così ci imbarcheremo insieme fra due giorni e tre notti, con il volo diretto delle ore
09:56, aeroporto d’Orly). Le lascerei volentieri il mio, ma temo dovrò comprare una scheda
telefonica direttamente a Lentini. Le faccio presente che si pronuncia “Lentíni”, comunque, con
l’accento sulla “i”. Gli italiani hanno uno strano modo di pronunciare i nomi propri. Lo stesso
filosofo di cui le ho scritto sopra pare si chiami “Górgia”.
Ad ogni modo, non la annoio oltre. Aspetto sua risposta e recapito, mi scriva pure al mio
indirizzo di Parigi (lo trova sulla busta), ho incaricato il postino di rispedirmi tutto nella mia nuova
casa, non appena ne troverò una. A quel punto la chiamerò volentieri, se vorrà.
Un saluto cordiale a lei, a sua moglie e alle vostre quattro figlie,
Suo amico J.-I. L.L. (non mi firmo per esteso per una questione di riservatezza, lei mi
capisce, vero?)»
Come hanno riscontrato in molti, a partire da Douglas Anderson medesimo, tanta
riservatezza era di fatto inutile, una volta appuntato in bella grafia l’indirizzo dello scrivente sulla
busta. Ammesso che qualcuno avesse intercettato la missiva e si fosse insospettito nel leggere del
falso reportage, gli sarebbe bastato arrivare a Rue Léon Fort numero 14 per scoprire l’identità di J.I. L.L., in partenza per la non meglio nota località di Lentini.
A facilitare la pubblicazione del testo integrale della lettera era stato Michel Brédoteau in
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persona. Il dottor Roman Henriet, che aveva avuto in cura Le Léap nell’ultimo mese di vita, aveva
pubblicato da qualche giorno la prima analisi sul bizzarro paziente defunto il mese precedente,
quando alla porta dello studio aveva bussato un cinquantenne stempiato, che si torceva le mani in
continuazione.
Il caso Le Léap sarebbe definitivamente esploso dopo quell’episodio, anche se né Michel
Brédoteau né Roman Henriet avrebbero potuto prevederlo con precisione. Il paziente non aveva
dichiarato ad anima viva la falsità del reportage, fatta eccezione per il proprio amico della Gare de
Bercy. Questo aveva indotto lo psicanalista a supporre che le conseguenze del viaggio a Lentini
fossero state del tutto casuali, quasi imprevedibili, e che lo spostamento di Le Léap fin laggiù fosse
stato dettato dalla reale intenzione di portare a compimento l’opera. Considerato un simile stato
delle cose, la sua patologia era apparsa meno grave di come si sarebbe poi rivelata e la ricostruzione
medico-saggistica che ne è stata fatta è da considerarsi in toto successiva alle prime curiosità sorte
attorno alla persona di Jean-Ive Le Léap.
Tornando a quest’ultimo, testimoni oculari hanno dichiarato che in Sicilia, tutto sommato, si
fosse ambientato bene. Aveva affittato un grande appartamento in via Giotto numero 8, a ridosso di
via Conte Alaimo e a due passi da Navarria, il bar-pasticceria più rinomato del paese da decenni. Lì
Jean-Ive Le Léap aveva assaggiato per la prima volta un arancino al ragù e Lechat un cannolo alla
ricotta con granella di pistacchio e gocce di cioccolato. Una recente ricerca di Mark J. Harbecke ha
dimostrato che gatto e padrone, sebbene nostalgici e poco atti ai cambiamenti come gran parte dei
turisti francesi lontani da bistrot e réstaurants, erano sempre stati piuttosto soddisfatti dal punto di
vista culinario, dopo l’atterraggio in terra italica. In La Sicilia di Le Léap è stata addirittura riportata
una statistica esattissima sulle volte in cui il Nostro ha ordinato almeno uno dei propri pasti
giornalieri da Navarria. Scontrini alla mano, la media calcolata è stata di 1,45 volte al giorno.
La fortuna di Le Léap si è però spinta più lontano: Lentini si è rivelato il posto ideale per la
stesura del fantomatico reportage, in quanto popolato per l’82% da cittadini superiori ai 65 anni di
età, da qualche innocuo cane randagio e da sporadici ragazzini non troppo rumorosi. Il 73% della
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popolazione totale soleva trascorrere le giornate dentro qualche caffè, nella piazza principale, in
uffici vari o alla villa Comunale. Il restante 27% usciva di casa solo per una visita al cimitero, per
fare colazione o per comprare il quotidiano. Bastava, quindi, evitare strategicamente alcuni punti
centrali di Lentini per passeggiare in solitudine e concentrarsi sulla scrittura.
Al riguardo va specificato che se, da un lato, Le Léap aveva preso a inviare e-mail a destra e
a manca per tenere aggiornata la redazione di Charlie Hebdo sui propri finti progressi, dall’altro
lato egli si era risolto davvero a impugnare la penna per più ore al giorno.
Non essendo granché portato per l’apprendimento dell’italiano – e tanto meno del siciliano
stretto – aveva, infatti, impiegato un intero trimestre per trovare una forma di comunicazione
gestuale rapida ed efficace in caso di necessità. Si era a quel punto accordato con un edicolante per
ricevere ogni giorno Le Monde fresco di stampa dalla patria, con i camerieri di Navarria per le
parole-chiave che al telefono gli avrebbero permesso di ordinare canólo, tiramissoú, aranscín o
pástal forn e con una smacchiatoria per il prezzo da pagare di volta in volta in euró. I rapporti con il
farmacista erano ancora da definire, quando Jean-Ive Le Léap, terminate gran parte delle attività di
cui sopra, aveva realizzato di possedere una quantità industriale di tempo libero, che se fosse stata
una moneta di scambio lo avrebbe reso milionario nell’arco di sei mesi, quattro investimenti in
Borsa e un solo prestito in banca.
Cosicché, non aveva potuto fare a meno di mettersi a scrivere.
Tutto era iniziato quasi per gioco. Il Nostro trovava irritante la televisione italiana, non tanto
per la qualità per lui impossibile da valutare delle trasmissioni, quanto perché a stento ne capiva i
motivetti sonori o i contenuti pubblicitari. Questo lo faceva tenere alla larga anche dai notiziari, dai
numerosi talk-show che avevano l’aria di commuovere di volta in volta gran parte del pubblico
presente in studio, e perfino dai rari film dell’hexagone mandati in onda in prima serata. Cosa
avrebbe potuto ricostruire dei dialoghi de Les Intouchables o de Le pianiste, se tutto era recitato in
impeccabile italiano, senza nemmeno un sottotitolo in lingua straniera? Un problema simile gli era
capitato con libri e riviste. Certo, in Italia erano arrivate alcune vette della stampa francese, prima
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fra tutti Elle, ma né quest’ultima né le altre proposte di acquisto avanzategli dall’edicolante
incontrarono l’entusiasmo di Le Léap, e fra alcuni mensili scientifici che gli erano sembrati
interessanti non c’era un solo inserto in inglese o in francese cui accedere. Lo stesso dicasi per
romanzi e raccolte di poesie: la letteratura estera era contemplata solo in traduzione e solo nella
ristretta cartolibreria Amore S.r.l., unico faro per i millenari discendenti della Sofistica che ancora si
interessavano alla cultura nel Comune di Lentini.
L’isolamento non aveva, tuttavia, messo a disagio Jean-Ive Le Léap. Il digitale terrestre gli
consentiva quantomeno di vedere a ogni ora del giorno e della notte France24, che ben si
accoppiava al Le Monde di ogni giorno. Nella propria lingua aveva inoltre trovato alcune guide
turistiche dedicate alla provincia di Catania e di Siracusa, con copertina rilegata e immagini che
valevano senza dubbio i disciótt euró pagati ad Amore S.r.l. Infine, si era dato ai sudoku e aveva
addirittura provato a risolvere un’enigmistica in italiano per bambini, con soluzioni a pagina 29. Se
non sarebbe mai stato scambiato per un nativo del luogo, quantomeno poteva ambire così a
imparare qualche nome di animale domestico, di portaoggetti o di elementi della natura.
Per incorniciare questa sfilza di distrazioni giornaliere, aveva comprato un lettore cd-audio e
aveva ordinato presso un internet-point scovato a Carlentini un paio di album di musica classica e di
soft rock anni 2000. Dopodiché, si era detto: perché non provare anche a buttare giù qualche riga, di
tanto in tanto? E così aveva fatto.
All’inizio solo per gioco, com’è già stato precisato. Si limitava a qualche riscrittura ironica
degli articoli di maggiore interesse che trovava su Le Monde, o a piccole creazioni di cruciverba in
francese, su ispirazione di quelli acquistati in italiano. Altre volte usciva di casa, risaliva la via
Conte Alaimo, percorreva poi la via Garibaldi fino alla rotonda, scendeva a sinistra per raggiungere
via Dello Stadio e si sedeva sulle panchine vicino al chiosco per osservare il lieve via vai che gli
scorreva davanti. Lentini era affollata di rado, ma la domenica mattina sembrava ravvivarsi un
minimo, in mezzo alle campane che suonavano ogni mezz’ora e ai bambini che trascinavano i
genitori verso la villa lì vicino. Quell’intima allegria inconsapevole lo faceva sentire più vicino a
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Rue Léon Fort numero 14, ma senza fastidi o rimorsi di sorta. Lo faceva sentire meno irriverente, lo
spingeva a comporre dei versi in fila indiana, per quanto sgangherati e approssimativi, di
osservazione del mondo così com’era, delicato e sporco, plebeo e frivolo, sproporzionato e pietoso.
Non superava mai i dieci versi, più buttava via il foglio e si alzava. Dava un’occhiata attorno, in via
Dello Stadio, e s’incamminava di nuovo verso casa, pensosamente, senza dire niente a sé stesso.
Chi lo osservava procedere a passo lento gli avrebbe dato non meno di quarantotto anni. La sua vita
solitaria gli faceva invecchiare lo sguardo, per quanto sereno Le Léap dovesse allora sentirsi.
Non passò neanche qualche mese che quest’ultimo si armò di coraggio, guardò in faccia la
realtà e capì che avrebbe potuto fare molto di più, che c’era una storia in punta di penna pronta per
essere raccontata, che nessun altro l’avrebbe mai pubblicata al suo posto, se non l’avesse fatto lui, e
che il tempo stringeva. Non tanto perché Le Léap credesse di averne poco, quanto perché nessun
momento sarebbe stato altrettanto giusto per cominciare.
A 1641,738 chilometri dalla redazione di Charlie Hebdo, quasi non si sentiva in colpa a
confessare su un quaderno a quadretti marca Pigna che il suo nome era Jean-Ive Le Léap, nato a
Besançon nel 1977 da Gustave Le Léap e Charlotte Le Febvre, e che si era allontanato da Parigi con
la scusa di scrivere un reportage fotografico, quando la sua intenzione più recondita era ricreare un
approccio meno morboso con la bellezza, disintossicato dallo sfarzo soffocante della capitale.
Anche la sua autobiografia, ora arrivata alla terza edizione e pubblicata sotto il titolo di Le
Léap in prima persona (13€ in Francia, iva inclusa), fu presa lì per lì per un gioco, forse. Fonti non
certe sostengono che Le Léap abbia dubitato a lungo prima di concludere i capitoli dedicati alla
propria infanzia, quelli sulla formazione scolastica e universitaria e, infine, quelli su tirocinio
giornalistico e gavetta che lo avevano portato a lavorare per Charlie Hebdo. A quel punto avrebbe
dovuto finalmente mettere nero su bianco la propria fissazione sull’eccessivo fascino esercitato su
di lui dalla Ville Lumière e argomentare in maniera quantomeno priva di contraddizioni il punto di
vista che aveva maturato, le decisioni che aveva preso, l’esilio volontario che si era scelto e le
conseguenze fino ad allora tangibili di una tale condotta.
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Non ultimo, ci sarebbe stato da spiegare in che modo stava riuscendo a mantenere in Italia
un tenore di vita abbastanza alto, comprensivo di affitto, canone televisivo, tre-quattro pasti al
giorno e altre piccole spese cui noi abbiamo già fatto cenno. Era forse mantenuto dai genitori,
entrambi ancora vivi? Riceveva forse una busta paga ogni mese, nonostante non stesse
ufficialmente lavorando più per il settimanale di Stéphane Charbonnier? Aveva portato con sé una
carta di credito rimpinguata non si sa bene come e ben lontana dall’esaurire il proprio saldo?
Certo, va riconosciuto che la questione economica era ed è sicuramente meno enigmatica del
chiodo fermo di Jean-Ive Le Léap per l’influenza nefasta della bellezza parigina: il punto nevralgico
dell’intera autobiografica era quest’ultimo, e il suo autore lo sapeva bene.
Lo scorso aprile, con una tempestività senz’altro degna di nota, Antoine Scève ha pubblicato
un lungo articolo – o un saggio breve – intitolato La difficoltà di parlare con sé stessi, con
particolare riferimento al caso Le Léap e alle vicende che lo hanno condotto ad abbandonare il
manoscritto prima ancora di averlo stabilito compiutamente.
Una volta arrivato al settimo capitolo, come si fosse trattato dell’anno problematico per
eccellenza di una relazione d’amore, il Nostro aveva attraversato un classico blocco dello scrittore,
durante il quale aveva intensificato le e-mail ottimistiche da inviare alla redazione di Charlie Hebdo
e ridotto al minimo i contatti con il mondo esterno. Lui e Lechat ordinavano sempre meno pietanze
da Navarria (la media giornaliera era scesa a 0,4), numerosi numeri di Le Monde erano rimasti
invenduti su una mensola dell’edicola in via Conte Alaimo che stava di fronte alla traversa di via
Giotto e perfino le lettere in linguaggio cifrato che oramai Jean-Ive Le Léap inviava almeno un paio
di volte al mese all’amico Michel Brédoteau si ridussero per lunghezza e frequenza. Nonostante le
suddette misure precauzionali, più Le Léap si incarogniva nel tentativo di non distrarsi e di
terminare in fretta e bene il proprio lavoro, più l’ispirazione andava a fare il bagno lontano da
Lentini, lasciandolo in un’insolita e rassegnata indolenza.
Ne L’ossessione per la bellezza, Douglas Anderson ha brillantemente ricostruito le probabili
sensazioni di Le Léap in quel periodo cruciale:
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«La fitta maglia dei giorni doveva essersi stretta attorno alle sue giornate. […] Il gatto per il
quale una volta stravedeva doveva essergli venuto a noia. I suoi dischi musicali dovevano essere
rimasti inascoltati per un bel pezzo, e così la televisione lasciata accesa su Rai 2 o su Mediaset
Extra. Le tende dei balconi semichiuse, in un’atmosfera di claustrofobica privazione, com’è tipico
di un francese che si senta fuori posto – e non tanto perché Le Léap non si trovasse in patria, quanto
perché non riusciva a rintracciare dentro di sé un baricentro attorno a cui rimanere in equilibrio,
ruotare perfino, e scrivere. […] Non era pronto a parlare di bellezza, eppure si era sforzato di andare
fino in fondo e lo aveva verosimilmente fatto, se l’edizione incompleta della sua biografia che
abbiamo recuperato è un’attestazione sufficiente a dimostrarlo. Lo scoglio più difficile era adesso
dover parlare del distacco dalla bellezza, della propria volontaria rinuncia. […]
Le Léap si era convinto di aver preso un aereo dall’aeroporto d’Orly perché esausto
dell’attrazione quasi assuefacente di cui era rimasto vittima. Non sarebbe mai riuscito a dire, penna
alla mano, in maniera inequivocabile e definitiva, che ora provava una nostalgia selvaggia per
quella stessa bellezza da lui tanto disprezzata. Non avrebbe mai ammesso di sentirsi in terra
straniera a Lentini proprio perché dello charme di Parigi lì non c’era traccia.
Eppure, cominciavano a mancargli le prime comodità del vivere in suolo natio.
Cominciavano a mancargli i genitori, cui prese a telefonare più spesso. Cominciava a provare forse
vergogna nei confronti dei colleghi di lavoro, il che spiegherebbe il sempre maggior numero di
messaggi elettronici che mandò loro non per rassicurarli, bensì per sentirsi a propria volta
confortato dalle parole di risposta che di certo doveva aspettare con tensione ogni mattina,
controllando forsennatamente la posta in arrivo dall’internet-point di Carlentini. […]
Va fatto presente che di tutto ciò non abbiamo che indizi sparsi, supposizioni più o meno
fondate e fantasie applicabili a distanza ormai di più di un anno, poiché Le Léap non ha lasciato
tracce esplicite – né vagamente evidenti – del proprio stato d’animo. Ci sentiamo, nondimeno,
incoraggiati a pensarlo dalla corrispondenza alla quale abbiamo avuto accesso e dalle stesse parole
dei coniugi Le Léap, genitori dell’ormai defunto Jean-Ive. In più di un’occasione, costoro hanno
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confermato la percezione avuta, nel ricevere le chiamate del figlio, che egli covasse un qualche
scomodo segreto, di cui era sempre lì lì per disfarsi e che poi, invece, finiva per tenere gelosamente
per sé.» (vd. pag. 78-79 e 83-85, seconda edizione, 2015)
Si sono occupati dell’argomento anche il dottor Roman Henriet e alcuni altri saggisti minori,
pur non avendo fornito un quadro altrettanto limpido e credibile della condizione interiore del
Nostro. Perciò, preferiamo procedere nel complessivo resoconto del caso Le Léap senza soffermarci
oltre su questa tappa specifica della vicenda.
Basterà dire che, già a partire dall’agosto 2014, Jean-Ive Le Léap doveva avere maturato la
risoluzione liberatoria di tornare nella Ville Lumière, a suo dire per terminare il reportage – o
l’autobiografia che fosse, nei fatti – nonostante gli eventi lo abbiano poi palesemente smentito.
Una bizzarra euforia fin nei più consueti atteggiamenti di Le Léap è stata notata non solo dai
suoi corrispondenti in Francia, anzi, specialmente dai pochi con cui egli riprese a intrattenere degli
scambi quotidiani più o meno brevi: edicolante, cassiere di Navarria, commessa della
smacchiatoria, fattorino a domicilio, postino e, specialmente, guardia medica.
Quest’ultima venne contattata da Le Léap per la prima volta il 22 agosto 2014 alle ore
16:34, come riportato senza equivoci nei tabulati telefonici e nella cronologia del cordless in
possesso della guardia medica medesima, tale Concetta di Dio. Da allora, la donna era stata
costretta settimanalmente a far visita al sanissimo Jean-Ive Le Léap, sempre preoccupato che
l’eccessivo caldo siciliano potesse compromettere senza preavviso la propria salute e impedirgli di
ritornare a Parigi, dove sa, signora Cettina, io ho vissuto per tre anni prima di venire qui, e che devo
dire sembra molto più – Esca la lingua per favore – Uolto iù uedda ella Sisilia – Come ha detto? –
Molto più fredda della Sicilia, anche d’estate.
Il responso era sempre uguale: salute di ferro, nessun raffreddore, niente effetti collaterali
del caldo, arrivederci. Per Jean-Ive Le Léap, tuttavia, era difficile fidarsi e risolversi a prenotare un
volo di ritorno. Dal momento che il tarlo del rimpatrio si era impossessato di ogni metro quadrato
dell’appartamento, egli cercava in continuazione pretesti per restare e scuse per andarsene, buone
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ragioni per rimettere mano all’autobiografia e altrettanti motivi validi per strappare i sei quaderni
marca Pigna che aveva fino ad allora riempito, per dedicarsi nuovamente a qualche vignetta satirica
da mandare via fax a Charlie Hebdo o al più perfetto ozio perenne.
Non ci fu verso, però, di vincere la guerra contro i tarli. Probabilmente si erano riprodotti
con una velocità inimmaginata, con un’efficienza mai vista prima, con una meticolosità
spaventosamente fantascientifica, che lasciò attonito Jean-Ive Le Léap e che lo portò a dormire
sempre peggio, sempre meno, sempre più di rado.
Che fare, dunque, se non scegliere una data propizia per rimettere piede a Parigi, magari
dopo il solstizio d’autunno, quando l’alta stagione poteva dirsi ormai terminata e i prezzi dei
biglietti al ribasso? Jean-Ive Le Léap aspettò, ammazzando l’attesa come meglio poté, e il 22
settembre arrivò a piedi fino a Carlentini, pagò quarantacinque minuti di utilizzo di internet e si
sedette alla scrivania più a sinistra dell’internet-point da dove di lì a poco avrebbe pagato il proprio
volo di ritorno per Parigi, aeroporto da definire.
Trovò un aereo ai primi di ottobre che avrebbe facilmente risposto a tutti i suoi criteri e che
teneva anche conto degli spostamenti necessari da Lentini per raggiungere l’aeroporto più vicino,
quello di Catania Fontanarossa. Già dopo l’atterraggio in Sicilia Le Léap aveva appurato che i
mezzi di trasporto pubblici del meridione, oltre a essere straordinariamente arretrati, vantavano
anche un’aleatorietà di orari quasi impareggiabile, a causa della quale il neocittadino aveva
impiegato ben due ore e mezza per spostarsi di 32 km, quando press’a poco nello stesso lasso
temporale aveva raggiunto il suolo italico arrivando dal nord della Francia.
Per il ritorno, dunque, era indispensabile tenere conto anche della combinazione treno più
autobus urbano o autobus interurbano singolo tramite cui raggiungere Fontanarossa. Data la
partenza alle 14:57, avrebbe avuto un’intera mattinata per riuscirci e la previsione, per quanto
ottimistica, rispondeva in gran parte anche a un successo realistico di fare in tempo per il check-in.
Così, Le Léap si risolse a prenotare un biglietto, adulti 1, bagaglio in stiva, check-in a
Fontanarossa, destinazione Parigi Charles de Gaulle. E dodici giorni dopo arrivava effettivamente
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nella capitale francese con soli nove minuti di ritardo, salute in buone condizioni, bagaglio ancora
da ritirare al check-out, Lechat anche lui in stiva e carta d’identità nella tasca del cappotto, che ora
Le Léap era stato costretto a indossare perché la temperatura era vertiginosamente scesa rispetto a
quella lasciata a Catania poche ore prima.
La prima cosa che fece una volta uscito da Charles de Gaulle fu chiamare un taxi e chiedere
di essere portato fino a Rue du Temple, numero civico oscillante fra il 54 e il 56. Il tassista gli
lanciò probabilmente un’occhiataccia per l’ultima precisazione, ma Le Léap era già proiettato con la
mente a destinazione, con le mani al proprio settimo quaderno marca Pigna, con gli occhi ai palazzi
altissimi che gli vorticavano intorno man mano che l’auto si faceva largo nel traffico metropolitano,
tant’è che a stento si accorse del momento in cui il taxi si fermò, sostenendo di non potersi spingere
oltre perché la circolazione era bloccata.
– Rue du Temple è a due minuti a piedi da qui, le dispiace se la faccio scendere ora? Lo dico
anche nel suo interesse, ci metteremmo molto di più ad arrivare in macchina.
Jean-Ive replicò a stento. Si frugò in tasca alla ricerca di qualche contante, pagò il tassista
insistendo perché tenesse per sé una lauta mancia e si affrettò a scendere, bagaglio e Lechat al
seguito. Rue du Temple era effettivamente dietro l’angolo: gli bastò tornare al numero civico giusto
e respirare a pieni polmoni per riappropriarsi di un sentimento epifanico profondissimo, che in
maniera capillare sfiorava ogni sua percezione mentale, sensoriale ed emotiva. Era la presa di
coscienza del proprio attaccamento alla bellezza, l’adorazione per l’atmosfera parigina,
l’accettazione stessa di tali inevitabili pulsioni, l’abbandono e la dimenticanza di ogni
allontanamento dalla capitale. In altre parole, la sua catena invisibile alla prigione dell’estetica.
Nei primi tempi non riuscì a contenersi. Si ubriacò di bellezza, ben più di quanto avrebbe
previsto prima di lasciare Lentini. Dimenticò di rispondere al telefono per settimane e di proseguire
con la propria biografia, non rispose alle lettere di Michel Brédoteau e non diede sue notizie ai
genitori. Men che mai alla redazione di Charlie Hebdo, di cui sembrava aver rimosso ogni ricordo,
come se questa nuova esistenza a Parigi fosse una gigantesca gomma da cancellare, che con un solo
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gesto magnificente gli aveva tolto dal cuore le radici di quell’altra vita, precedente al suo viaggio in
Italia.
Era capace di una sola azione continuata e instancabile, così lineare da apparire a tratti
inumana. O sovrumana, forse, quasi divina. Faceva avanzare una gamba dopo l’altra sull’asfalto,
senza lo straccio di una meta, e teneva la testa ben alta, gli occhi fissi su qualsiasi costruzione gli si
parasse davanti, sulle facce della gente, sulle gradinate, sui tram, sulle insegne dei pub, sui venditori
africani ambulanti, davanti ai musei, dietro gli ospedali e sotto gli archi di Trionfo, nei giardini e
nelle piazze, dappertutto, sbattendo a stento le palpebre per evitare fastidiose secchezze oculari di
sorta. Si fermava solo quando la piccola sveglia che aveva comprato un pomeriggio a Place des
Vosges segnava le nove della sera. A quel punto, dovunque fosse, si fermava letteralmente. Faceva
eccezione solo se per caso stava attraversando la strada. Dopodiché, cercava l’hotel più vicino e
pagava una singola per una notte, senza discutere né sul prezzo né sulle condizioni dei sanitari.
Pagava sempre in anticipo e specificava di avere con sé un gatto. Cenava in camera, facendosi
portare qualche piatto poco caro scelto a caso dal menù e che andasse bene anche per Lechat,
sballottato notte e giorno dove lo trascinava il padrone, poi si metteva a letto e si svegliava solo
quando la piccola sveglia che aveva comprato un pomeriggio a Place des Vosges segnava le nove
del mattino. A quel punto, si alzava immancabilmente, si lavava e vestiva, e mezz’ora dopo lasciava
la camera, salutando sbadatamente chiunque trovasse di turno alla reception.
Quello che il dottor Roman Henriet trovò preoccupante, quando Jean-Ive Le Léap gli
raccontò che tale condotta era proseguita per oltre tre mesi, fu l’impeccabilità con cui il paziente era
riuscito a proseguire nella propria routine, senza annoiarsi, stancarsi, ammalarsi e, soprattutto, senza
diventare matto. In pochi avrebbero retto al peso di tante meraviglie viste casualmente per intere ore
al giorno, con una sola pausa notturna e un’altra per pranzare, quando la piccola sveglia che aveva
comprato un pomeriggio a Place des Vosges segnava mezzogiorno. In pochi, ha inoltre fatto notare
Cécile Martignon – attenta studiosa del patrimonio dilapidato dal già citato Le Léap prima e dopo
l’epifania – avrebbero potuto permettersi l’ammontare di tali spese quotidiane.
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È verosimile anche credere che in molti avrebbero cambiato regime per cause ben diverse da
quelle che agirono (in)direttamente su Jean-Ive Le Léap il 7 gennaio 2015. Alle undici e trenta
antimeridiane, mentre lui si trovava in estasi proprio davanti alla Tour Montparnasse, un commando
di tre uomini armati con fucili d’assalto kalashnikov (uno dei quali alla guida di un’auto pronta per
la fuga) attaccava la sede di Charlie Hebdo di Rue Nicola Appert durante la riunione settimanale di
redazione. Tra le vittime, il direttore e diversi collaboratori storici del periodico, non ultimo
Philippe Honoré, il caro Philippe. Morti anche due poliziotti e ferite circa altre otto persone. Dopo
l’attentato, il commando, che durante l’azione aveva gridato frasi inneggianti ad Allah e alla
punizione del periodico, era fuggito. Per quanto Jean-Ive Le Léap non fosse più solito informarsi
sulle notizie fresche di giornata, gli fu impossibile non venire a sapere dell’episodio.
Il lutto, l’indignazione contro l’accaduto, la consapevolezza che delitti ben più atroci erano
sempre in procinto di accadere in qualunque altra parte della terra, sebbene quello avesse minato
proprio la quiete dell’unico luogo del mondo in cui lui, Jean-Ive Le Léap, si sentiva protetto da una
bolla di fascino inattaccabile e di natura necessariamente buona, la fierezza di far parte dell’Ordine
dei giornalisti e l’impotenza di non avere per questo preservato neanche una vita umana
dall’omicidio, la delusione per un fascino parigino che non era più riuscito a vedere da nessuna
parte dopo il 7 gennaio, tutto questo era stato elaborato da Jean-Ive Le Léap solo quando si era
risolto ad andare in terapia dal dottor Roman Henriet, nel mese di febbraio inoltrato. Com’è ormai
noto, non è però riuscito a elaborare allo stesso modo il senso di colpa di non aver rivisto i colleghi
prima dell’uccisione pur di vagabondare dentro la propria mistica e ormai vuota idolatria estetica, e
la rabbia e la vergogna di non essere stato presente in prima persona, per pagare come avrebbe
meritato tutti i fumetti cui aveva dato lui una vignetta, forse offendendo qualcuno senza che si
sapesse chi ci fosse realmente dietro l’una o l’altra parola di satira.
Gli sforzi del dottor Henriet, peraltro messi in discussione in un recente opuscolo redatto a
quattro mani da Thérèse Val e Stéphane Biard, non hanno saputo salvarlo da sé stesso, motivo per
cui Jean-Ive Le Léap si è ucciso nell’appartamento di Rue Léon Fort numero 14 – che nel frattempo
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aveva ripreso in affitto – alle ore 23:42 del 27 marzo scorso, soffocandosi con un sacco della
spazzatura. Ai funerali hanno assistito i genitori, l’amico Michel Brédoteau, alcuni colleghi di
Charlie Hebdo sopravvissuti al massacro, il Sindaco di Parigi e altre personalità di tutto rispetto.
L’opinione pubblica si è poi avventata sul suo cadavere fin dall’indomani, schierandosi
alternativamente pro o contro “il falso sopravvissuto”, man mano che la sua vicenda è stata
ricostruita da inviati speciali in Italia, intervistatori, curiosi, psicanalisti e forze dell’ordine. Incerto
il verdetto finale sul suo conto, in particolare ora che la stampa ne ha fatto un vero e proprio caso
editoriale e che, in un cassetto del suo appartamento, inspiegabilmente ispezionato solo la scorsa
settimana, è stato ritrovato un biglietto la cui calligrafia è stata attribuita con certezza al deceduto
Le Léap, riportato qui di seguito in esclusiva mondiale:
«Moi, je n’ai pas été Charlie depuis longtemps, mais j’aurais bien voulu l’être. Pas de faux
reportages, pas de voyages. Pas d’obsession pour cette beauté que l’on ne voit plus nulle part, même
pas ici à Paris. J’aurais dû rester ici, j’aurais déjà dû être mort. Voilà, enfin, j’y vais remédier dans
une minute. Je vais redevenir Charlie, peut-être pour la première fois.»1
Astenendomi da qualsiasi commento in merito, vi ricordo, piuttosto, l’appuntamento di
sabato 10 luglio con lo speciale Le Léap: è Charlie o no?, in diretta alle ore 21:10 su France 2. Gli
ultimi posti disponibili per assistere alla trasmissione sono prenotabili al numero: 00331234567890. Inoltre, telefonando o inviando un SMS al numero 800-78822, sarà possibile per i
telespettatori intervenire da casa al dibattito, dicendo la propria sul caso Le Léap. La direzione del
programma ha dichiarato fin da ora che si riserverà il diritto di trasmettere solo chiamate e messaggi
ritenuti idonei, come da buon manuale della libertà di pensiero e di parola contrario al fanatismo.
François Picard, Le Léap: breve storia di un altro Charlie, Les Sans Papier, Parigi, 20152;
1 «Io non sono stato Charlie per molto tempo, ma avrei voluto esserlo volentieri. Niente finti reportage, niente viaggi.
Niente ossessione per questa bellezza che non si vede più da nessuna parte, neanche a Parigi. Avrei dovuto restare
qui, avrei dovuto essere già morto. Ecco, finalmente fra un minuto rimedio. Torno a essere Charlie, forse per la
prima volta.» (ndt.)
2 Breve saggio originariamente pubblicato come inserto speciale sulla rivista La Voix, anno XVII, n°.7 (ndt.)
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Traduzione italiana a cura di E. M., Papergun Edizioni, Roma, 2015
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