Je suis Charlie Per i primi trentaquattro anni della propria vita, Jean-Ive Le Léap era stato un vignettista, nel vero senso della parola: quando qualche fumettista era a corto di vignette o quando c’era bisogno di ricorrere a una grafia particolare per firmare, lui ci metteva del proprio. L’opinione pubblica francese ha di recente dovuto riconoscere di non aver saputo della sua carriera da vignettista, finché egli non è diventato oggetto di una frenetica cronaca nazionale. Sebbene scrivesse per Charlie Hebdo, settimanale satirico piuttosto quotato, Jean-Ive Le Léap non era infatti nato con la vocazione per il giornalismo a nessun livello, come ha meticolosamente fatto notare Douglas Anderson in un saggio pubblicato quest’anno sull’ormai celeberrimo cittadino dell’hexagone, dal significativo titolo L’ossessione per la bellezza. Il saggio, com’è noto, non è incentrato sulla sua attività di redattore, eppure l’autore ha dedicato un lungo capitolo della propria opera a spiegare in che modo la frustrazione lavorativa di Le Léap sia da ricollegarsi alla singolare vicenda che l’ha ormai reso famoso in tutto il mondo. La ragione è presto detta: se quella all’interno della redazione fosse stata un’attività per Le Léap più stimolante, quest’ultimo non avrebbe probabilmente avuto il tempo materiale per elaborare malesseri di alcun tipo. Nel caso specifico, la patologia di Jean-Ive Le Léap, nato sotto il segno dei pesci nella cittadina di Besançon (Francia Contea), era di un tipo ben preciso. Di un tipo quasi anomalo, anzi. Quasi unico. E si era manifestata per la prima volta il 27 marzo del 2013, come ha fedelmente ricostruito per la prima volta lo scrittore e psichiatra Mathieu Adagio a pagina 11 del proprio La verità sul caso Le Léap, i cui riferimenti sono stati dichiarati i più fedeli all’autobiografica del Nostro: «Non tutto può accadere dappertutto, né sempre, né a chiunque. Esistono luoghi che sembrano rimanere immobili, quasi finti, esistenti solo in potenza, finché un trentaquattrenne passato di lì per caso o per necessità, di fretta o a passo lento, per la prima volta o per l’ennesima, non realizza che il colore del cielo e l’odore del caffè sono improvvisamente diventati qualcosa di inedito, di beffardamente diverso dalla normalità delle mattine feriali. E cosa, dunque? E perché 1 Je suis Charlie sembravano d’un tratto diverse le strade, le case, le espressioni delle donne – o solo l’asfalto, forse, solo l’erba superstite fra due blocchi di cemento e tre vetrine di pasticceria – o forse anche i colori dei pantaloni che aveva addosso la gente, e il modo che avevano tutti di trascinarsi da qualche parte, e i sacchi di silenzio che riempivano mentre riflettevano su qualche dettaglio non meglio noto della loro terrestrità? Quella mattina, Jean-Ive non poté fare a meno di chiederselo. A voler essere onesti, prima ancora si era chiesto che giorno fosse. Di solito riusciva a rispondere in un intervallo medio di tre secondi, grazie a cui si assicurava di essere sufficientemente presente allo scorrere del tempo, al proprio stato di veglia e alle necessità pratiche che avrebbero potuto riguardarlo da un momento all’altro. Quella volta impiegò poco più di due secondi a collocarsi mentalmente in Rue du Temple, nella capitale francese dove era andato ad abitare tre anni, quattro mesi e diciotto giorni prima. Il numero civico davanti a cui si trovava oscillava fra il 54 e il 56, perché rimanere immancabilmente fermo mentre si lasciava andare a questo o a quel pensiero avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo del proprio autocontrollo. Era allora quello il luogo, quello il giorno. Quello il mutevole hic et nunc della persona giusta arrivata nel posto giusto. Per quale motivo, dunque? Jean-Ive se l’era domandato dopo aver provato invano a capire cosa ci fosse di diverso nel suo modo di percepire sé stesso e gli spazi che lo circondavano. Non sospettava ancora la finalità di un tale combaciare impeccabile nel piano tridimensionale delle coincidenze di cui si sentiva protagonista. Poteva avere certezza solo del perché fosse arrivato lì proprio allora, proprio lui, proprio con la camicia verde macchiata di caffè e con una sete considerevolmente maggiore rispetto agli standard cui era abituato alle 7:47 del mattino.» La spiegazione seguente è stata illustrata con lucida e quasi inquietante consapevolezza nella prima edizione del volumetto pubblicato il 5 giugno scorso da Cécile Martignon, Le Léap: prima e dopo l’epifania. Al terzo capitolo, pagine 25-33, l’autrice scrive: «Rue du Temple, sebbene non di molto, era fuori asse rispetto al tragitto Rue Léon Fort – Rue Nicola Appert, dove Jean-Ive Le Léap lavorava. Eppure, l’attrazione per qualche insolita 2 Je suis Charlie costruzione architettonica intravista da lontano doveva averlo spinto ad arrivare fino a lì, a distrarsi al punto da rovesciare il caffè che stava bevendo e a realizzare, poi, che a condurlo in quella fatidica via era stato l’ultimo rimasuglio di soggezione che provava per lo splendore imponente di Parigi. Così sottile da essersi ormai estinto, eppure così prezioso per Le Léap da fargli desiderare di amare la capitale francese da capo, re-imparando da zero, ritrovando la capacità di stupirsi davanti a qualsiasi chiesa e ai palazzi apparentemente insignificanti di Rue du Temple. Si era assuefatto alla bellezza al punto da non percepirla più, o quasi, e rendersene conto lo aveva improvvisamente fatto impazzire di dolore, proprio lì, il 27 marzo, poco prima delle otto del mattino, mentre avrebbe dovuto già essere a lavoro. [...] Andarsene! Questa era l’unica soluzione per guarire! Ma verso dove, poi? E per quanto tempo? E da che parte? Verso il continente, forse? O giù fra i Pirenei, o oltre l’Atlantico? E lui da solo, così com’era? Con Lechat, certo, e con una grossa valigia. Ma solo, dopotutto. Si sentiva pronto a farlo? Lo trovava già giusto? Anzi, lo accettava già? Com’era possibile che lo accettasse? Si diceva allora che non lo accettava affatto: lo constatava con una certa svolazzante stizza e lasciava poi che il resto venisse da sé. La noia per i boulevard, prima di tutto. E subito dopo i colori appiattiti al suo passaggio, i tetti deformati dall’abitudine, i profumi a tratti perfino odiosi. Ma sì, doveva disintossicarsi! Smettere di stare davanti a tutta quella bellezza come se potesse sopportarla! Farsi una doccia fredda di normalità, non importava sotto quale governo o per quanti cicli lunari. Aveva bisogno di una casa normalissima in una città normalissima, che non fosse la Parigi sempre vestita a festa, ormai nauseante con le sue forme senza veli, con il suo trucco troppo forte, con i capelli sempre puliti e l’andatura raffinata di chi da anni sa come stregare qualunque malcapitato. Diede corpo a questa risoluzione facendosi recapitare per posta una serie di mappe stradali europee – uscire dall’appartamento che aveva affittato in Rue Léon Fort numero 14 avrebbe significato peggiorare la propria malattia, risvegliare l’insofferenza, stuzzicare l’impassibilità che si sforzava di mantenere finché non fosse stato pronto a partire. Arrivò a collezionarne una ventina, 3 Je suis Charlie senza riuscire a scegliere da quale strada cominciare per allontanarsi dalla capitale. Prendeva nota di eventuali deviazioni, di metropoli da evitare, della durata di ogni tratta. E telefonava in stazione perché gli garantissero che no, non ci sarebbe stato nessuno sciopero dei treni nei giorni seguenti, nessuno aveva ancora trovato un buon motivo per organizzarne uno. Spesso se ne pentiva nell’arco di pochi minuti, così metteva da parte le cartine e dava un’occhiata ai voli diretti per i diversi Paesi europei, controllando che gli orari fossero compatibili con i pasti di Lechat e con un traffico che non gli impedisse di arrivare in tempo all’aeroporto. A quel punto, però, gli veniva in mente il lavoro. Il lavoro, maledizione! Non avrebbe potuto lasciarlo da un giorno all’altro. Voglio dire, avrebbe potuto senz’altro. Ma come spiegarlo al direttore? Come giustificarsi? Come evitare di essere deriso, preso per matto o perseguitato? Nessuno si sarebbe licenziato per un motivo simile. E no, lui non aveva parenti né vicini né lontani cui affibbiare qualche neonata malattia. Avrebbe potuto coinvolgere solo i genitori, ma non se la sarebbe sentita. E, d’altra parte, attorno alla propria solitudine aveva sempre fabbricato battute, lamentele e giochi di parole proverbiali. Né poteva fingersi malato in prima persona: con quali sintomi, con quale preavviso? E verso quale meta di guarigione più adatta di Parigi? Una vacanza? E da cosa? Se lui non aveva che Lechat a cui badare! Pagava regolarmente affitto e bollette varie, non rientrava tardi dal lavoro, non aveva grosse distrazioni di sorta, né donne con le quali cacciarsi più o meno consapevolmente nei guai. C’era solo Parigi, per lui. E una vacanza da Parigi non era concepibile. Non per qualcuno che non fosse Jean-Ive Le Léap. Rassegnato, scivolava allora giù dalle sbarre della trappola che si era costruito con le proprie mani. Arrampicarsi nel tentativo di distruggerla non sarebbe servito. E così continuava a consegnare vignette al lavoro, a muoversi in metropolitana, a mangiare succo d’arancia e pane tostato a colazione, a telefonare a qualche conoscente prima che finisse il weekend, a mormorare fra sé un rosario blasfemo con cui malediceva in ordine sparso il Trocadero, il Quartiere Latino, la Rue des Artistes e tutto quanto di Parigi aveva un tempo idolatrato. Di tanto in tanto telefonava ugualmente in stazione, ma quasi non si informava più sugli scioperi e chiedeva solo di poter parlare con 4 Je suis Charlie Michel, sì, il signore che rispondeva alle telefonate alla Gare de Bercy, sì, dalle quattro del pomeriggio di solito, tante grazie. Si scambiavano qualche notizia sul tempo, poi Jean-Ive gli domandava come stesse la moglie, che aveva partorito da poco la quarta rappresentante di una prole tutta al femminile, e Michel gli raccomandava a propria volta di non viziare troppo Lechat con tutte quelle scatolette di tonno che si ostinava a fargli slinguazzare fuori pasto. Probabilmente avrebbe continuato in questo modo finché non fosse impazzito, se una mattina Philippe Honoré, suo vicino di scrivania e di orientamento politico internazionale, non gli avesse inconsapevolmente servito sullo stesso piattino in cui gli offrì un caffè la chiave perfetta per aprire la gabbia invisibile dentro cui lui nuotava ancora. – Per Dio, Jean! – gli aveva detto battendogli una pacca sulla spalla per scuoterlo un po’. – Che ti prende ultimamente? Sembra che la tua ispirazione sia un po’ arrugginita! Se hai un problema con qualche vignetta ti aiuto volentieri, io con le mie sono addirittura in anticipo, questa settimana. – Come hai detto? – farfugliò Jean-Ive. – Che posso scrivere per te qualche vignetta, se qualcosa non va. Se oggi stesso mi dài... – No, no! Cosa hai detto prima delle vignette? Sulla mia ispirazione? – Che sembra la tua si sia un po’ arrugginita, ragazzo! Jean-Ive si passò distrattamente una mano sulla fronte. Gli si era liberato qualcosa dentro, qualcosa dalle dimensioni gigantesche. Un’intuizione tremenda. Proprio a forma di chiave. Ma certo! Un vuoto dello scrittore! Ecco quale sarebbe stato il suo alibi! Chi, più di uno pseudo-fumettista come lui, avrebbe avuto diritto a cambiare aria prima di riprendere a consegnare le proprie vignette? Chi sarebbe stato più legittimato a lasciare Parigi per toccare con mano una realtà diversa? Chi, se non uno scrittore a corto di argomenti? Chi, se non Jean-Ive, che già nell’aspetto sembrava a tutti ancora meno entusiasta e ispirato del consueto? Sarebbe bastato inventarsi l’esistenza di un libro. Avrebbe detto al direttore che si trattava di un reportage fotografico su alcuni fra i più bizzarri monumenti della Ville Lumière. Che da mesi 5 Je suis Charlie cercava un filo conduttore scritto da accompagnare ai propri scatti, senza però trovarlo. Che aveva bisogno di una pausa per trovare il luogo giusto da cui lasciarsi dettare le parole magiche del compendio, preferibilmente a distanza di sicurezza dal luogo di cui si era occupato, per essere il più oggettivo possibile. E se qualcuno avesse insistito perché tornasse a breve senza dare le dimissioni? Jean-Ive avrebbe accampato qualche scusa strada facendo, si sarebbe trovato un editore inetto e difficilmente contattabile cui affibbiare tutte le colpe e i ritardi del caso. Avrebbe scritto delle e-mail piene di ottimismo e di nostalgia a tutti i colleghi, li avrebbe rassicurati dicendo che nel frattempo era stato assunto da qualche testata satirica locale e che stava riuscendo a far quadrare i conti a fine mese. E se il direttore gli avesse chiesto di fargli da corrispondente a distanza, no, santo cielo, avrebbe trovato qualche buona ragione per rifiutare l’offerta, per dirsi quasi sulla via del ritorno, per distrarre tutti con stralci improvvisati del proprio libro, per chiedere di informare i lettori dell’imminente pubblicazione con questa o con quella newsletter. Come aveva fatto a non pensarci prima? Come aveva fatto a non pensarci da solo? Per fortuna non era così grave, comunque. Il caro Philippe gli aveva dato il la in maniera impeccabile. Ora gli sarebbe bastato volgere a proprio favore la situazione e lasciare che il corso degli eventi facesse il resto. Perciò, alla fine, sembra che Jean-Ive abbia sospirato con aria teatrale e risposto: – Non so come abbia fatto ad accorgertene, Philippe, ma ci hai preso in pieno. Da qualche tempo mi sento senza energie e voglia di scrivere, non riesco a stare al passo né con le vignette né con il libro. – Con quale libro, scusa, Jean-Ive? – Come! Non ti ho ancora detto che sto finendo di lavorare a un reportage fotografico sui monumenti più bizzarri di Parigi? – Un reportage fotografico? Proprio tu, Jean? Organizzare il seguito fu facile. La notizia aveva fatto il giro della redazione in meno di due giorni e Jean-Ive si era ritrovato circondato da domande curiose su questo o quell’aspetto del 6 Je suis Charlie progetto. Non perché qualcuno lo trovasse eccezionalmente originale, né perché ci fossero lettori già appassionati alla tematica. A stupire gran parte dei redattori era stato il fatto stesso che Jean-Ive stesse scrivendo qualcosa che superasse le 100 battute e il cui argomento non fosse stato deciso per lui da qualche superiore, da qualche disegnatore indietro con il proprio lavoro o dal direttore stesso. Jean-Ive Le Léap non era affatto un uomo dall’estro vivace, dopotutto. Era la brutta copia di un fumettista affermato e la bella copia di uno scrivano, l’umana evoluzione di un elaborato factotum, il tacito compromesso fra un segretario e un robot. Ci si sarebbe potuto scommettere che non era tagliato per fare lo scrittore. Stava alla scrittura come un criceto starebbe alla risoluzione di un’equazione matematica: c’era fra lui e il mondo verbale scritto un rapporto di tesissima convivenza, di sofferta accettazione. Quasi di masochistico piacere senza uscita.» Eppure, a fine maggio, Le Léap se ne uscì con quella storia del reportage fotografico. Il direttore ne fu compiaciuto al punto che incoraggiò egli stesso l’immediata partenza di Jean-Ive, promettendogli che l’avrebbe accolto a braccia aperte non appena fosse tornato, raccomandandogli di non badare a tempo e a spese per ultimare il libro, incoraggiandolo a credere nelle proprie capacità scrittorie anche di fronte a eventuali difficoltà e – ultimo ma non meno importante – organizzando una festa in suo onore la sera prima della partenza per Lentini. Com’è stato notoriamente registrato, il lettore medio francese si è parecchio stupito nell’apprendere la destinazione finale scelta dal Nostro. Non è facile che la Francia senta parlare di Lentini, meno che mai a Parigi. Meno che mai da parte di un cittadino che a stento si era spinto fino alla Corsica, nel poco riuscito tentativo di confrontarsi con una cultura diversa dalla propria. Le Léap stesso, in una lettera inviata Al signor Michel Brédoteau, impiegato alla Gare de Bercy di Parigi, pregasi consegnare personalmente il prima possibile, grazie, aveva scritto: «Gentile signor Michel B., Mi perdonerà se ho infine deciso di non passare dalla sua stazione per spostarmi dalla capitale. Ho intenzione di fare un viaggio più lungo di quanto pensassi all’inizio. Ricorda il finto reportage di cui le ho parlato al telefono? Due sere fa, sfogliando un mio vecchio manuale 7 Je suis Charlie scolastico di filosofia, mi sono imbattuto in un paesino siciliano dall’aria sperduta. Quantomeno mi auguro che lo sia abbastanza. Qualche millennio fa l’hanno reso famoso alcuni importanti pensatori greci (lei forse avrà sentito parlare di Gorgia; se no, gliene parlerò durante la nostra prossima telefonata). A proposito: oltre che per scusarmi di averla importunata tante volte al lavoro per nulla, le ho scritto per chiederle il suo numero di telefono. Quello di casa sua, intendo, non della Gare. Mi piacerebbe chiamarla di tanto in tanto, quando sarò in Italia. È probabile che mi tratterrò lì a lungo e potrebbe mancarmi qualcuno con cui chiacchierare. Lei è un uomo molto a modo, specialmente curioso. Potrebbe trovare interessante scoprire qualcosa in più sulla Sicilia orientale, soprattutto se a raccontarglielo saranno un francese di Besançon e il suo gatto (Lechat ha deciso di seguirmi, naturalmente, così ci imbarcheremo insieme fra due giorni e tre notti, con il volo diretto delle ore 09:56, aeroporto d’Orly). Le lascerei volentieri il mio, ma temo dovrò comprare una scheda telefonica direttamente a Lentini. Le faccio presente che si pronuncia “Lentíni”, comunque, con l’accento sulla “i”. Gli italiani hanno uno strano modo di pronunciare i nomi propri. Lo stesso filosofo di cui le ho scritto sopra pare si chiami “Górgia”. Ad ogni modo, non la annoio oltre. Aspetto sua risposta e recapito, mi scriva pure al mio indirizzo di Parigi (lo trova sulla busta), ho incaricato il postino di rispedirmi tutto nella mia nuova casa, non appena ne troverò una. A quel punto la chiamerò volentieri, se vorrà. Un saluto cordiale a lei, a sua moglie e alle vostre quattro figlie, Suo amico J.-I. L.L. (non mi firmo per esteso per una questione di riservatezza, lei mi capisce, vero?)» Come hanno riscontrato in molti, a partire da Douglas Anderson medesimo, tanta riservatezza era di fatto inutile, una volta appuntato in bella grafia l’indirizzo dello scrivente sulla busta. Ammesso che qualcuno avesse intercettato la missiva e si fosse insospettito nel leggere del falso reportage, gli sarebbe bastato arrivare a Rue Léon Fort numero 14 per scoprire l’identità di J.I. L.L., in partenza per la non meglio nota località di Lentini. A facilitare la pubblicazione del testo integrale della lettera era stato Michel Brédoteau in 8 Je suis Charlie persona. Il dottor Roman Henriet, che aveva avuto in cura Le Léap nell’ultimo mese di vita, aveva pubblicato da qualche giorno la prima analisi sul bizzarro paziente defunto il mese precedente, quando alla porta dello studio aveva bussato un cinquantenne stempiato, che si torceva le mani in continuazione. Il caso Le Léap sarebbe definitivamente esploso dopo quell’episodio, anche se né Michel Brédoteau né Roman Henriet avrebbero potuto prevederlo con precisione. Il paziente non aveva dichiarato ad anima viva la falsità del reportage, fatta eccezione per il proprio amico della Gare de Bercy. Questo aveva indotto lo psicanalista a supporre che le conseguenze del viaggio a Lentini fossero state del tutto casuali, quasi imprevedibili, e che lo spostamento di Le Léap fin laggiù fosse stato dettato dalla reale intenzione di portare a compimento l’opera. Considerato un simile stato delle cose, la sua patologia era apparsa meno grave di come si sarebbe poi rivelata e la ricostruzione medico-saggistica che ne è stata fatta è da considerarsi in toto successiva alle prime curiosità sorte attorno alla persona di Jean-Ive Le Léap. Tornando a quest’ultimo, testimoni oculari hanno dichiarato che in Sicilia, tutto sommato, si fosse ambientato bene. Aveva affittato un grande appartamento in via Giotto numero 8, a ridosso di via Conte Alaimo e a due passi da Navarria, il bar-pasticceria più rinomato del paese da decenni. Lì Jean-Ive Le Léap aveva assaggiato per la prima volta un arancino al ragù e Lechat un cannolo alla ricotta con granella di pistacchio e gocce di cioccolato. Una recente ricerca di Mark J. Harbecke ha dimostrato che gatto e padrone, sebbene nostalgici e poco atti ai cambiamenti come gran parte dei turisti francesi lontani da bistrot e réstaurants, erano sempre stati piuttosto soddisfatti dal punto di vista culinario, dopo l’atterraggio in terra italica. In La Sicilia di Le Léap è stata addirittura riportata una statistica esattissima sulle volte in cui il Nostro ha ordinato almeno uno dei propri pasti giornalieri da Navarria. Scontrini alla mano, la media calcolata è stata di 1,45 volte al giorno. La fortuna di Le Léap si è però spinta più lontano: Lentini si è rivelato il posto ideale per la stesura del fantomatico reportage, in quanto popolato per l’82% da cittadini superiori ai 65 anni di età, da qualche innocuo cane randagio e da sporadici ragazzini non troppo rumorosi. Il 73% della 9 Je suis Charlie popolazione totale soleva trascorrere le giornate dentro qualche caffè, nella piazza principale, in uffici vari o alla villa Comunale. Il restante 27% usciva di casa solo per una visita al cimitero, per fare colazione o per comprare il quotidiano. Bastava, quindi, evitare strategicamente alcuni punti centrali di Lentini per passeggiare in solitudine e concentrarsi sulla scrittura. Al riguardo va specificato che se, da un lato, Le Léap aveva preso a inviare e-mail a destra e a manca per tenere aggiornata la redazione di Charlie Hebdo sui propri finti progressi, dall’altro lato egli si era risolto davvero a impugnare la penna per più ore al giorno. Non essendo granché portato per l’apprendimento dell’italiano – e tanto meno del siciliano stretto – aveva, infatti, impiegato un intero trimestre per trovare una forma di comunicazione gestuale rapida ed efficace in caso di necessità. Si era a quel punto accordato con un edicolante per ricevere ogni giorno Le Monde fresco di stampa dalla patria, con i camerieri di Navarria per le parole-chiave che al telefono gli avrebbero permesso di ordinare canólo, tiramissoú, aranscín o pástal forn e con una smacchiatoria per il prezzo da pagare di volta in volta in euró. I rapporti con il farmacista erano ancora da definire, quando Jean-Ive Le Léap, terminate gran parte delle attività di cui sopra, aveva realizzato di possedere una quantità industriale di tempo libero, che se fosse stata una moneta di scambio lo avrebbe reso milionario nell’arco di sei mesi, quattro investimenti in Borsa e un solo prestito in banca. Cosicché, non aveva potuto fare a meno di mettersi a scrivere. Tutto era iniziato quasi per gioco. Il Nostro trovava irritante la televisione italiana, non tanto per la qualità per lui impossibile da valutare delle trasmissioni, quanto perché a stento ne capiva i motivetti sonori o i contenuti pubblicitari. Questo lo faceva tenere alla larga anche dai notiziari, dai numerosi talk-show che avevano l’aria di commuovere di volta in volta gran parte del pubblico presente in studio, e perfino dai rari film dell’hexagone mandati in onda in prima serata. Cosa avrebbe potuto ricostruire dei dialoghi de Les Intouchables o de Le pianiste, se tutto era recitato in impeccabile italiano, senza nemmeno un sottotitolo in lingua straniera? Un problema simile gli era capitato con libri e riviste. Certo, in Italia erano arrivate alcune vette della stampa francese, prima 10 Je suis Charlie fra tutti Elle, ma né quest’ultima né le altre proposte di acquisto avanzategli dall’edicolante incontrarono l’entusiasmo di Le Léap, e fra alcuni mensili scientifici che gli erano sembrati interessanti non c’era un solo inserto in inglese o in francese cui accedere. Lo stesso dicasi per romanzi e raccolte di poesie: la letteratura estera era contemplata solo in traduzione e solo nella ristretta cartolibreria Amore S.r.l., unico faro per i millenari discendenti della Sofistica che ancora si interessavano alla cultura nel Comune di Lentini. L’isolamento non aveva, tuttavia, messo a disagio Jean-Ive Le Léap. Il digitale terrestre gli consentiva quantomeno di vedere a ogni ora del giorno e della notte France24, che ben si accoppiava al Le Monde di ogni giorno. Nella propria lingua aveva inoltre trovato alcune guide turistiche dedicate alla provincia di Catania e di Siracusa, con copertina rilegata e immagini che valevano senza dubbio i disciótt euró pagati ad Amore S.r.l. Infine, si era dato ai sudoku e aveva addirittura provato a risolvere un’enigmistica in italiano per bambini, con soluzioni a pagina 29. Se non sarebbe mai stato scambiato per un nativo del luogo, quantomeno poteva ambire così a imparare qualche nome di animale domestico, di portaoggetti o di elementi della natura. Per incorniciare questa sfilza di distrazioni giornaliere, aveva comprato un lettore cd-audio e aveva ordinato presso un internet-point scovato a Carlentini un paio di album di musica classica e di soft rock anni 2000. Dopodiché, si era detto: perché non provare anche a buttare giù qualche riga, di tanto in tanto? E così aveva fatto. All’inizio solo per gioco, com’è già stato precisato. Si limitava a qualche riscrittura ironica degli articoli di maggiore interesse che trovava su Le Monde, o a piccole creazioni di cruciverba in francese, su ispirazione di quelli acquistati in italiano. Altre volte usciva di casa, risaliva la via Conte Alaimo, percorreva poi la via Garibaldi fino alla rotonda, scendeva a sinistra per raggiungere via Dello Stadio e si sedeva sulle panchine vicino al chiosco per osservare il lieve via vai che gli scorreva davanti. Lentini era affollata di rado, ma la domenica mattina sembrava ravvivarsi un minimo, in mezzo alle campane che suonavano ogni mezz’ora e ai bambini che trascinavano i genitori verso la villa lì vicino. Quell’intima allegria inconsapevole lo faceva sentire più vicino a 11 Je suis Charlie Rue Léon Fort numero 14, ma senza fastidi o rimorsi di sorta. Lo faceva sentire meno irriverente, lo spingeva a comporre dei versi in fila indiana, per quanto sgangherati e approssimativi, di osservazione del mondo così com’era, delicato e sporco, plebeo e frivolo, sproporzionato e pietoso. Non superava mai i dieci versi, più buttava via il foglio e si alzava. Dava un’occhiata attorno, in via Dello Stadio, e s’incamminava di nuovo verso casa, pensosamente, senza dire niente a sé stesso. Chi lo osservava procedere a passo lento gli avrebbe dato non meno di quarantotto anni. La sua vita solitaria gli faceva invecchiare lo sguardo, per quanto sereno Le Léap dovesse allora sentirsi. Non passò neanche qualche mese che quest’ultimo si armò di coraggio, guardò in faccia la realtà e capì che avrebbe potuto fare molto di più, che c’era una storia in punta di penna pronta per essere raccontata, che nessun altro l’avrebbe mai pubblicata al suo posto, se non l’avesse fatto lui, e che il tempo stringeva. Non tanto perché Le Léap credesse di averne poco, quanto perché nessun momento sarebbe stato altrettanto giusto per cominciare. A 1641,738 chilometri dalla redazione di Charlie Hebdo, quasi non si sentiva in colpa a confessare su un quaderno a quadretti marca Pigna che il suo nome era Jean-Ive Le Léap, nato a Besançon nel 1977 da Gustave Le Léap e Charlotte Le Febvre, e che si era allontanato da Parigi con la scusa di scrivere un reportage fotografico, quando la sua intenzione più recondita era ricreare un approccio meno morboso con la bellezza, disintossicato dallo sfarzo soffocante della capitale. Anche la sua autobiografia, ora arrivata alla terza edizione e pubblicata sotto il titolo di Le Léap in prima persona (13€ in Francia, iva inclusa), fu presa lì per lì per un gioco, forse. Fonti non certe sostengono che Le Léap abbia dubitato a lungo prima di concludere i capitoli dedicati alla propria infanzia, quelli sulla formazione scolastica e universitaria e, infine, quelli su tirocinio giornalistico e gavetta che lo avevano portato a lavorare per Charlie Hebdo. A quel punto avrebbe dovuto finalmente mettere nero su bianco la propria fissazione sull’eccessivo fascino esercitato su di lui dalla Ville Lumière e argomentare in maniera quantomeno priva di contraddizioni il punto di vista che aveva maturato, le decisioni che aveva preso, l’esilio volontario che si era scelto e le conseguenze fino ad allora tangibili di una tale condotta. 12 Je suis Charlie Non ultimo, ci sarebbe stato da spiegare in che modo stava riuscendo a mantenere in Italia un tenore di vita abbastanza alto, comprensivo di affitto, canone televisivo, tre-quattro pasti al giorno e altre piccole spese cui noi abbiamo già fatto cenno. Era forse mantenuto dai genitori, entrambi ancora vivi? Riceveva forse una busta paga ogni mese, nonostante non stesse ufficialmente lavorando più per il settimanale di Stéphane Charbonnier? Aveva portato con sé una carta di credito rimpinguata non si sa bene come e ben lontana dall’esaurire il proprio saldo? Certo, va riconosciuto che la questione economica era ed è sicuramente meno enigmatica del chiodo fermo di Jean-Ive Le Léap per l’influenza nefasta della bellezza parigina: il punto nevralgico dell’intera autobiografica era quest’ultimo, e il suo autore lo sapeva bene. Lo scorso aprile, con una tempestività senz’altro degna di nota, Antoine Scève ha pubblicato un lungo articolo – o un saggio breve – intitolato La difficoltà di parlare con sé stessi, con particolare riferimento al caso Le Léap e alle vicende che lo hanno condotto ad abbandonare il manoscritto prima ancora di averlo stabilito compiutamente. Una volta arrivato al settimo capitolo, come si fosse trattato dell’anno problematico per eccellenza di una relazione d’amore, il Nostro aveva attraversato un classico blocco dello scrittore, durante il quale aveva intensificato le e-mail ottimistiche da inviare alla redazione di Charlie Hebdo e ridotto al minimo i contatti con il mondo esterno. Lui e Lechat ordinavano sempre meno pietanze da Navarria (la media giornaliera era scesa a 0,4), numerosi numeri di Le Monde erano rimasti invenduti su una mensola dell’edicola in via Conte Alaimo che stava di fronte alla traversa di via Giotto e perfino le lettere in linguaggio cifrato che oramai Jean-Ive Le Léap inviava almeno un paio di volte al mese all’amico Michel Brédoteau si ridussero per lunghezza e frequenza. Nonostante le suddette misure precauzionali, più Le Léap si incarogniva nel tentativo di non distrarsi e di terminare in fretta e bene il proprio lavoro, più l’ispirazione andava a fare il bagno lontano da Lentini, lasciandolo in un’insolita e rassegnata indolenza. Ne L’ossessione per la bellezza, Douglas Anderson ha brillantemente ricostruito le probabili sensazioni di Le Léap in quel periodo cruciale: 13 Je suis Charlie «La fitta maglia dei giorni doveva essersi stretta attorno alle sue giornate. […] Il gatto per il quale una volta stravedeva doveva essergli venuto a noia. I suoi dischi musicali dovevano essere rimasti inascoltati per un bel pezzo, e così la televisione lasciata accesa su Rai 2 o su Mediaset Extra. Le tende dei balconi semichiuse, in un’atmosfera di claustrofobica privazione, com’è tipico di un francese che si senta fuori posto – e non tanto perché Le Léap non si trovasse in patria, quanto perché non riusciva a rintracciare dentro di sé un baricentro attorno a cui rimanere in equilibrio, ruotare perfino, e scrivere. […] Non era pronto a parlare di bellezza, eppure si era sforzato di andare fino in fondo e lo aveva verosimilmente fatto, se l’edizione incompleta della sua biografia che abbiamo recuperato è un’attestazione sufficiente a dimostrarlo. Lo scoglio più difficile era adesso dover parlare del distacco dalla bellezza, della propria volontaria rinuncia. […] Le Léap si era convinto di aver preso un aereo dall’aeroporto d’Orly perché esausto dell’attrazione quasi assuefacente di cui era rimasto vittima. Non sarebbe mai riuscito a dire, penna alla mano, in maniera inequivocabile e definitiva, che ora provava una nostalgia selvaggia per quella stessa bellezza da lui tanto disprezzata. Non avrebbe mai ammesso di sentirsi in terra straniera a Lentini proprio perché dello charme di Parigi lì non c’era traccia. Eppure, cominciavano a mancargli le prime comodità del vivere in suolo natio. Cominciavano a mancargli i genitori, cui prese a telefonare più spesso. Cominciava a provare forse vergogna nei confronti dei colleghi di lavoro, il che spiegherebbe il sempre maggior numero di messaggi elettronici che mandò loro non per rassicurarli, bensì per sentirsi a propria volta confortato dalle parole di risposta che di certo doveva aspettare con tensione ogni mattina, controllando forsennatamente la posta in arrivo dall’internet-point di Carlentini. […] Va fatto presente che di tutto ciò non abbiamo che indizi sparsi, supposizioni più o meno fondate e fantasie applicabili a distanza ormai di più di un anno, poiché Le Léap non ha lasciato tracce esplicite – né vagamente evidenti – del proprio stato d’animo. Ci sentiamo, nondimeno, incoraggiati a pensarlo dalla corrispondenza alla quale abbiamo avuto accesso e dalle stesse parole dei coniugi Le Léap, genitori dell’ormai defunto Jean-Ive. In più di un’occasione, costoro hanno 14 Je suis Charlie confermato la percezione avuta, nel ricevere le chiamate del figlio, che egli covasse un qualche scomodo segreto, di cui era sempre lì lì per disfarsi e che poi, invece, finiva per tenere gelosamente per sé.» (vd. pag. 78-79 e 83-85, seconda edizione, 2015) Si sono occupati dell’argomento anche il dottor Roman Henriet e alcuni altri saggisti minori, pur non avendo fornito un quadro altrettanto limpido e credibile della condizione interiore del Nostro. Perciò, preferiamo procedere nel complessivo resoconto del caso Le Léap senza soffermarci oltre su questa tappa specifica della vicenda. Basterà dire che, già a partire dall’agosto 2014, Jean-Ive Le Léap doveva avere maturato la risoluzione liberatoria di tornare nella Ville Lumière, a suo dire per terminare il reportage – o l’autobiografia che fosse, nei fatti – nonostante gli eventi lo abbiano poi palesemente smentito. Una bizzarra euforia fin nei più consueti atteggiamenti di Le Léap è stata notata non solo dai suoi corrispondenti in Francia, anzi, specialmente dai pochi con cui egli riprese a intrattenere degli scambi quotidiani più o meno brevi: edicolante, cassiere di Navarria, commessa della smacchiatoria, fattorino a domicilio, postino e, specialmente, guardia medica. Quest’ultima venne contattata da Le Léap per la prima volta il 22 agosto 2014 alle ore 16:34, come riportato senza equivoci nei tabulati telefonici e nella cronologia del cordless in possesso della guardia medica medesima, tale Concetta di Dio. Da allora, la donna era stata costretta settimanalmente a far visita al sanissimo Jean-Ive Le Léap, sempre preoccupato che l’eccessivo caldo siciliano potesse compromettere senza preavviso la propria salute e impedirgli di ritornare a Parigi, dove sa, signora Cettina, io ho vissuto per tre anni prima di venire qui, e che devo dire sembra molto più – Esca la lingua per favore – Uolto iù uedda ella Sisilia – Come ha detto? – Molto più fredda della Sicilia, anche d’estate. Il responso era sempre uguale: salute di ferro, nessun raffreddore, niente effetti collaterali del caldo, arrivederci. Per Jean-Ive Le Léap, tuttavia, era difficile fidarsi e risolversi a prenotare un volo di ritorno. Dal momento che il tarlo del rimpatrio si era impossessato di ogni metro quadrato dell’appartamento, egli cercava in continuazione pretesti per restare e scuse per andarsene, buone 15 Je suis Charlie ragioni per rimettere mano all’autobiografia e altrettanti motivi validi per strappare i sei quaderni marca Pigna che aveva fino ad allora riempito, per dedicarsi nuovamente a qualche vignetta satirica da mandare via fax a Charlie Hebdo o al più perfetto ozio perenne. Non ci fu verso, però, di vincere la guerra contro i tarli. Probabilmente si erano riprodotti con una velocità inimmaginata, con un’efficienza mai vista prima, con una meticolosità spaventosamente fantascientifica, che lasciò attonito Jean-Ive Le Léap e che lo portò a dormire sempre peggio, sempre meno, sempre più di rado. Che fare, dunque, se non scegliere una data propizia per rimettere piede a Parigi, magari dopo il solstizio d’autunno, quando l’alta stagione poteva dirsi ormai terminata e i prezzi dei biglietti al ribasso? Jean-Ive Le Léap aspettò, ammazzando l’attesa come meglio poté, e il 22 settembre arrivò a piedi fino a Carlentini, pagò quarantacinque minuti di utilizzo di internet e si sedette alla scrivania più a sinistra dell’internet-point da dove di lì a poco avrebbe pagato il proprio volo di ritorno per Parigi, aeroporto da definire. Trovò un aereo ai primi di ottobre che avrebbe facilmente risposto a tutti i suoi criteri e che teneva anche conto degli spostamenti necessari da Lentini per raggiungere l’aeroporto più vicino, quello di Catania Fontanarossa. Già dopo l’atterraggio in Sicilia Le Léap aveva appurato che i mezzi di trasporto pubblici del meridione, oltre a essere straordinariamente arretrati, vantavano anche un’aleatorietà di orari quasi impareggiabile, a causa della quale il neocittadino aveva impiegato ben due ore e mezza per spostarsi di 32 km, quando press’a poco nello stesso lasso temporale aveva raggiunto il suolo italico arrivando dal nord della Francia. Per il ritorno, dunque, era indispensabile tenere conto anche della combinazione treno più autobus urbano o autobus interurbano singolo tramite cui raggiungere Fontanarossa. Data la partenza alle 14:57, avrebbe avuto un’intera mattinata per riuscirci e la previsione, per quanto ottimistica, rispondeva in gran parte anche a un successo realistico di fare in tempo per il check-in. Così, Le Léap si risolse a prenotare un biglietto, adulti 1, bagaglio in stiva, check-in a Fontanarossa, destinazione Parigi Charles de Gaulle. E dodici giorni dopo arrivava effettivamente 16 Je suis Charlie nella capitale francese con soli nove minuti di ritardo, salute in buone condizioni, bagaglio ancora da ritirare al check-out, Lechat anche lui in stiva e carta d’identità nella tasca del cappotto, che ora Le Léap era stato costretto a indossare perché la temperatura era vertiginosamente scesa rispetto a quella lasciata a Catania poche ore prima. La prima cosa che fece una volta uscito da Charles de Gaulle fu chiamare un taxi e chiedere di essere portato fino a Rue du Temple, numero civico oscillante fra il 54 e il 56. Il tassista gli lanciò probabilmente un’occhiataccia per l’ultima precisazione, ma Le Léap era già proiettato con la mente a destinazione, con le mani al proprio settimo quaderno marca Pigna, con gli occhi ai palazzi altissimi che gli vorticavano intorno man mano che l’auto si faceva largo nel traffico metropolitano, tant’è che a stento si accorse del momento in cui il taxi si fermò, sostenendo di non potersi spingere oltre perché la circolazione era bloccata. – Rue du Temple è a due minuti a piedi da qui, le dispiace se la faccio scendere ora? Lo dico anche nel suo interesse, ci metteremmo molto di più ad arrivare in macchina. Jean-Ive replicò a stento. Si frugò in tasca alla ricerca di qualche contante, pagò il tassista insistendo perché tenesse per sé una lauta mancia e si affrettò a scendere, bagaglio e Lechat al seguito. Rue du Temple era effettivamente dietro l’angolo: gli bastò tornare al numero civico giusto e respirare a pieni polmoni per riappropriarsi di un sentimento epifanico profondissimo, che in maniera capillare sfiorava ogni sua percezione mentale, sensoriale ed emotiva. Era la presa di coscienza del proprio attaccamento alla bellezza, l’adorazione per l’atmosfera parigina, l’accettazione stessa di tali inevitabili pulsioni, l’abbandono e la dimenticanza di ogni allontanamento dalla capitale. In altre parole, la sua catena invisibile alla prigione dell’estetica. Nei primi tempi non riuscì a contenersi. Si ubriacò di bellezza, ben più di quanto avrebbe previsto prima di lasciare Lentini. Dimenticò di rispondere al telefono per settimane e di proseguire con la propria biografia, non rispose alle lettere di Michel Brédoteau e non diede sue notizie ai genitori. Men che mai alla redazione di Charlie Hebdo, di cui sembrava aver rimosso ogni ricordo, come se questa nuova esistenza a Parigi fosse una gigantesca gomma da cancellare, che con un solo 17 Je suis Charlie gesto magnificente gli aveva tolto dal cuore le radici di quell’altra vita, precedente al suo viaggio in Italia. Era capace di una sola azione continuata e instancabile, così lineare da apparire a tratti inumana. O sovrumana, forse, quasi divina. Faceva avanzare una gamba dopo l’altra sull’asfalto, senza lo straccio di una meta, e teneva la testa ben alta, gli occhi fissi su qualsiasi costruzione gli si parasse davanti, sulle facce della gente, sulle gradinate, sui tram, sulle insegne dei pub, sui venditori africani ambulanti, davanti ai musei, dietro gli ospedali e sotto gli archi di Trionfo, nei giardini e nelle piazze, dappertutto, sbattendo a stento le palpebre per evitare fastidiose secchezze oculari di sorta. Si fermava solo quando la piccola sveglia che aveva comprato un pomeriggio a Place des Vosges segnava le nove della sera. A quel punto, dovunque fosse, si fermava letteralmente. Faceva eccezione solo se per caso stava attraversando la strada. Dopodiché, cercava l’hotel più vicino e pagava una singola per una notte, senza discutere né sul prezzo né sulle condizioni dei sanitari. Pagava sempre in anticipo e specificava di avere con sé un gatto. Cenava in camera, facendosi portare qualche piatto poco caro scelto a caso dal menù e che andasse bene anche per Lechat, sballottato notte e giorno dove lo trascinava il padrone, poi si metteva a letto e si svegliava solo quando la piccola sveglia che aveva comprato un pomeriggio a Place des Vosges segnava le nove del mattino. A quel punto, si alzava immancabilmente, si lavava e vestiva, e mezz’ora dopo lasciava la camera, salutando sbadatamente chiunque trovasse di turno alla reception. Quello che il dottor Roman Henriet trovò preoccupante, quando Jean-Ive Le Léap gli raccontò che tale condotta era proseguita per oltre tre mesi, fu l’impeccabilità con cui il paziente era riuscito a proseguire nella propria routine, senza annoiarsi, stancarsi, ammalarsi e, soprattutto, senza diventare matto. In pochi avrebbero retto al peso di tante meraviglie viste casualmente per intere ore al giorno, con una sola pausa notturna e un’altra per pranzare, quando la piccola sveglia che aveva comprato un pomeriggio a Place des Vosges segnava mezzogiorno. In pochi, ha inoltre fatto notare Cécile Martignon – attenta studiosa del patrimonio dilapidato dal già citato Le Léap prima e dopo l’epifania – avrebbero potuto permettersi l’ammontare di tali spese quotidiane. 18 Je suis Charlie È verosimile anche credere che in molti avrebbero cambiato regime per cause ben diverse da quelle che agirono (in)direttamente su Jean-Ive Le Léap il 7 gennaio 2015. Alle undici e trenta antimeridiane, mentre lui si trovava in estasi proprio davanti alla Tour Montparnasse, un commando di tre uomini armati con fucili d’assalto kalashnikov (uno dei quali alla guida di un’auto pronta per la fuga) attaccava la sede di Charlie Hebdo di Rue Nicola Appert durante la riunione settimanale di redazione. Tra le vittime, il direttore e diversi collaboratori storici del periodico, non ultimo Philippe Honoré, il caro Philippe. Morti anche due poliziotti e ferite circa altre otto persone. Dopo l’attentato, il commando, che durante l’azione aveva gridato frasi inneggianti ad Allah e alla punizione del periodico, era fuggito. Per quanto Jean-Ive Le Léap non fosse più solito informarsi sulle notizie fresche di giornata, gli fu impossibile non venire a sapere dell’episodio. Il lutto, l’indignazione contro l’accaduto, la consapevolezza che delitti ben più atroci erano sempre in procinto di accadere in qualunque altra parte della terra, sebbene quello avesse minato proprio la quiete dell’unico luogo del mondo in cui lui, Jean-Ive Le Léap, si sentiva protetto da una bolla di fascino inattaccabile e di natura necessariamente buona, la fierezza di far parte dell’Ordine dei giornalisti e l’impotenza di non avere per questo preservato neanche una vita umana dall’omicidio, la delusione per un fascino parigino che non era più riuscito a vedere da nessuna parte dopo il 7 gennaio, tutto questo era stato elaborato da Jean-Ive Le Léap solo quando si era risolto ad andare in terapia dal dottor Roman Henriet, nel mese di febbraio inoltrato. Com’è ormai noto, non è però riuscito a elaborare allo stesso modo il senso di colpa di non aver rivisto i colleghi prima dell’uccisione pur di vagabondare dentro la propria mistica e ormai vuota idolatria estetica, e la rabbia e la vergogna di non essere stato presente in prima persona, per pagare come avrebbe meritato tutti i fumetti cui aveva dato lui una vignetta, forse offendendo qualcuno senza che si sapesse chi ci fosse realmente dietro l’una o l’altra parola di satira. Gli sforzi del dottor Henriet, peraltro messi in discussione in un recente opuscolo redatto a quattro mani da Thérèse Val e Stéphane Biard, non hanno saputo salvarlo da sé stesso, motivo per cui Jean-Ive Le Léap si è ucciso nell’appartamento di Rue Léon Fort numero 14 – che nel frattempo 19 Je suis Charlie aveva ripreso in affitto – alle ore 23:42 del 27 marzo scorso, soffocandosi con un sacco della spazzatura. Ai funerali hanno assistito i genitori, l’amico Michel Brédoteau, alcuni colleghi di Charlie Hebdo sopravvissuti al massacro, il Sindaco di Parigi e altre personalità di tutto rispetto. L’opinione pubblica si è poi avventata sul suo cadavere fin dall’indomani, schierandosi alternativamente pro o contro “il falso sopravvissuto”, man mano che la sua vicenda è stata ricostruita da inviati speciali in Italia, intervistatori, curiosi, psicanalisti e forze dell’ordine. Incerto il verdetto finale sul suo conto, in particolare ora che la stampa ne ha fatto un vero e proprio caso editoriale e che, in un cassetto del suo appartamento, inspiegabilmente ispezionato solo la scorsa settimana, è stato ritrovato un biglietto la cui calligrafia è stata attribuita con certezza al deceduto Le Léap, riportato qui di seguito in esclusiva mondiale: «Moi, je n’ai pas été Charlie depuis longtemps, mais j’aurais bien voulu l’être. Pas de faux reportages, pas de voyages. Pas d’obsession pour cette beauté que l’on ne voit plus nulle part, même pas ici à Paris. J’aurais dû rester ici, j’aurais déjà dû être mort. Voilà, enfin, j’y vais remédier dans une minute. Je vais redevenir Charlie, peut-être pour la première fois.»1 Astenendomi da qualsiasi commento in merito, vi ricordo, piuttosto, l’appuntamento di sabato 10 luglio con lo speciale Le Léap: è Charlie o no?, in diretta alle ore 21:10 su France 2. Gli ultimi posti disponibili per assistere alla trasmissione sono prenotabili al numero: 00331234567890. Inoltre, telefonando o inviando un SMS al numero 800-78822, sarà possibile per i telespettatori intervenire da casa al dibattito, dicendo la propria sul caso Le Léap. La direzione del programma ha dichiarato fin da ora che si riserverà il diritto di trasmettere solo chiamate e messaggi ritenuti idonei, come da buon manuale della libertà di pensiero e di parola contrario al fanatismo. François Picard, Le Léap: breve storia di un altro Charlie, Les Sans Papier, Parigi, 20152; 1 «Io non sono stato Charlie per molto tempo, ma avrei voluto esserlo volentieri. Niente finti reportage, niente viaggi. Niente ossessione per questa bellezza che non si vede più da nessuna parte, neanche a Parigi. Avrei dovuto restare qui, avrei dovuto essere già morto. Ecco, finalmente fra un minuto rimedio. Torno a essere Charlie, forse per la prima volta.» (ndt.) 2 Breve saggio originariamente pubblicato come inserto speciale sulla rivista La Voix, anno XVII, n°.7 (ndt.) 20 Je suis Charlie Traduzione italiana a cura di E. M., Papergun Edizioni, Roma, 2015 21