PROLOGO
Museo del Cairo, Egitto.
Inaugurazione del museo.
20:00.
Le urla squarciarono il silenzio della notte.
Ajnis estrasse la pistola puntandola verso un folto gruppo di
turisti che correvano a destra e a manca.
<<Bloccateli!>> ordinò alle guardie armate che sorvegliavano
l’ingresso della sala 22 al secondo piano del museo.
Ajnis si mosse verso l’interno della sala tenendo la pistola
ben stretta tra le mani e la testa bassa per puntare attraverso il
mirino.
Quella pistola gli era stata data quando fu ingaggiato dalla
polizia egiziana del Cairo dopo anni di servizio nel corpo
militare di Luxor. Adesso non era in servizio, ma la pistola
l’aveva ugualmente. “Affari segreti del governo” si diceva mentre
percorreva l’ingresso della sala, cercando di ritenersi fortunato,
cercando di pensare che quello che stava per trovare non era
reale, non poteva essere reale. “Sono implicato in segreti affari di
governo”.
Le guardie armate avevano bloccato i turisti che si erano
trovati sulla scena del reato e cercavano di recingere quelli che,
attratti e incuriositi dalle urla, si accalcavano sbirciando davanti
l’ingresso della sala e lungo tutto il corridoio.
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Ajnis passò lento e silenzioso accanto alla statua di Anubi,
Dio e giudice dei morti, dalla testa di sciacallo. Un brivido lo
percorse passando accanto a quella statua. La gamba sinistra in
avanti, il busto ben equilibrato e robusto tipico dei modelli
idealizzati greci, la mano destra avanzata a sorreggere un lungo
bastone in oro 18 carati; la statua del dio sembrava volergli
impedire l’accesso con quei suoi occhi enigmatici e colore della
pece. Si sentiva già abbastanza agitato per quello che si
aspettava di trovare, per il fatto che reggeva quella pistola che
non usava più da molto tempo; e si sentiva tremare quasi le
gambe a dover passare accanto al giudice dei morti, quando
magari, da un momento all’altro, ne avrebbe trovato uno…
Improvvisamente Ajnis si bloccò e le braccia gli caddero
lungo il corpo, inerti.
Sapeva che poteva succedere, ma adesso non credeva ai suoi
occhi, era una scena agghiacciante ed era ancora più
agghiacciante il fatto che altre persone l’avessero visto.
Ripose la pistola e uscì correndo dalla sala. I turisti
bloccavano l’ingresso; non sarebbe stato facile fare più in fretta
possibile.
<<Non fate entrare nessuno. Che nessuno veda>> gridò alle
guardie che bloccavano l’ingresso da ambo i lati della sala 22,
mentre si buttava tra la folla.
Sentì pesante il suo stesso passo che ad ogni gran falcata gli
spingeva le vesti su e giù lungo la pelle del collo e delle braccia.
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Estrasse nuovamente la pistola e allora sì che si aprirono le
acque: la folla gli lasciò una lunga, larga via che si apriva verso il
corridoio che portava a tutte le alee della parte sinistra
dell’edificio.
Percorse il freddo corridoio mentre altri turisti si
accasciavano contro le pareti alla vista della sua pistola che
teneva ancora in mano.
Un rivolo di sudore freddo gli imperlò leggermente la fronte
mentre il sangue che gli fluiva sempre più velocemente al
cervello gli procurava strani mancamenti di visuale. Girò
l’angolo e prese le scale saltando più gradini che poteva; sotto di
lui vedeva parte della sala 42 dove turisti francesi ammiravano la
pala votiva di Narmer (3100 ca. a.C.), proveniente da
Hieraconpolis, realizzata per celebrare l'unificazione del Basso e
dell'Alto Egitto.
Finalmente il primo piano si aprì davanti ai suoi occhi: la sala
centrale, e le alee destre e sinistre.
Ajnis si tuffò attraverso un gruppo di turisti giapponesi e si
trovò a correre nell’immensa sala d’ingresso.
Il museo era stato inaugurato quella sera dopo un lungo
periodo di ricostruzione di una parte dell’edificio dovuta ad un
crollo.
Non c’era modo migliore per compiere un simile delitto in
pubblico. Un’opportunità da non lasciarsi scappare per mettere
in cattiva luce il governo e il suo modo di sbrigare le faccende.
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Ajnis sapeva che il governo taceva su certe notizie per soli
motivi di lucro, ma dubitava che non pensasse anche solo
minimamente al suo popolo. Gran parte del paese aveva
bisogno di soldi per sfamare la popolazione e proteggere le
opere d’arte.
In effetti tutto si collegava al turismo.
Ajnis correva, correva a più non posso, mentre il sudore gli
imperlava il viso, e tutti si stupivano nel vederlo così affannato,
pensavano a chissà quale cosa fosse potuta accadere.
Già in fondo alla gigantesca sala vedeva la statua di Amenofi
III e sua moglie Ty.
All’ingresso, finalmente, vide Gamal El-Asmar capo del
governo e proprietario del Museo Egizio del Cairo.
C’erano persone importanti, alcune che Ajnis non conosceva,
erano tutti in smoking e alcuni anche in morbidi abiti
drappeggianti con turbanti, cappucci e scialli che mantengono
fresco il corpo e proteggono il capo dalla sabbia. Tipici abiti dei
nomadi e dei cammellieri.
El-Asmar lo vide correre affannato verso di lui e il sorriso
sparì dal suo volto. Era un uomo dalle spalle larghe, basso e
tarchiato.
Ajnis afferrò il capo del governo per le braccia respirando a
pieni polmoni.
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<<È successo, signore>> disse tra un sospiro e l’altro <<è
successo>> ripeté come se una volta non fosse sufficiente.
El-Asmar esitò qualche momento come se quello che aveva
appena sentito, che aveva pensato appena aveva visto Ajnis
correre verso di lui, fosse solo fantasia, uno scherzo
dell’immaginazione, un brutto pensiero.
Il bicchiere di champagne che stringeva tra le mani prese a
tremare.
<<Ci sono testimoni?>>
<<Li ho fatti accerchiare>>
Il capo del governo tremò convulsamente e il bicchiere gli
cadde infrangendosi al suolo e rovesciando il liquido. I cocci si
sparsero così fragorosamente che solo allora Ajnis si accorse che
nella sala era calato un afoso silenzio.
Gamal El-Asmar aveva spalancato gli occhi, mentre le
eleganti persone che lo circondavano in un ampio semicerchio,
sconoscendo la lingua, restavano impassibili in ascolto delle
sillabe per loro senza alcun nesso.
Un rumore assordante piombò come un avvoltoio sulla sua
preda con le zanne delle zampe ben aperte e spalancate sulle
alee del museo.
Ajnis adesso sentiva le urla anche da lì. Dovevano agire in
fretta.
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1
Plaza de Toros Monumental, Madrid.
Maria D’Aragona stava seduta sull’ala destra dell’arena della
Plaza de Toros, con le gambe accavallate e il viso sorretto dalle
mani; il bloc-notes aperto sul ventre e una penna nella mano
sinistra.
Maria era un’apprendista archeologa italiana.
Aveva lunghi capelli dorati a boccoli qua e là su una spalla
rilucenti al calore del sole mattutino e molleggianti alla fresca
brezza aspra sapor mandarino, occhi castani e una bella pelle
abbronzata tipica dell’Italia del sud.
L’avevano chiamata in Spagna per recuperare un’antica
scultura appartenente al periodo della fondazione di Roma, che
il governo italiano voleva assolutamente vantare in uno dei suoi
musei nazionali.
La statua l’aveva recuperata e spedita, ma lei aveva preferito
restare in Spagna ancora per qualche periodo: a convincerla il
fatto che le avevano offerto un piccolo lavoro ben pagato.
Il capo di una rete televisiva spagnola le aveva chiesto di
stilare un breve resoconto delle tradizioni spagnole, in modo
positivo ovviamente, che poi sarebbe stato trascritto sul
Bodegón, giornale scientifico specializzato nel risolvere i misteri
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di tutto il mondo, e sul quale si sarebbe dovuto fare un articolo
giornalistico per un documentario spagnolo.
Quel giorno si era convinta ad andare a vedere la corrida,
cosa che non aveva mai fatto e non avrebbe mai voluto fare se
non per una ragione precisa: esprimere più adeguatamente tutto
il disprezzo che provava per quelle futili prove di forza contro
animali innocenti. Maria si era però documentata con
scrupolosità sull’argomento.
Prese il bloc-notes e cominciò a scrivere, tralasciando per il
momento gli aspetti più sgradevoli: “La corrida moderna nacque
nel XVIII secolo nella regione meridionale della Spagna
chiamata Andalusia. Madrid e Siviglia sono considerate i centri
principali della corrida in Spagna…”
Fissò l’arena: il toro scorrazzava avanti e indietro il velo rosso
del Caballeros senza tregua, senza sosta, innalzando lievi
grovigli si sabbia che poi a mo’ di velo semitrasparente si
ricongiungeva con il suolo sabbioso.
Poi un suono basso e prolungato le incise i timpani
interrompendo il suo pensiero che già si stava perdendo tra
nuvole cotonate d’arancio e tiepido profumo di terra arsa. Prese
di fretta la borsa ed estrasse il cellulare osservando il numero
sullo schermo: chi la stava chiamando non era certo uno
spagnolo o un italiano. Il prefisso era straniero.
<<Pronto?>> chiese mentre una ola di persone scattavano dai
loro posti esultando per il torero che era appena montato sulla
groppa dell’animale dopo che questo l’aveva incornato.
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<<Signorina D’Aragona?>> chiese una voce roca dall’altra
parte dell’apparecchio <<abbiamo bisogno del suo aiuto>>.
<<Chi è?>>
<<È qualcuno che ha bisogno di essere salvato>>
Maria non capiva cosa l’uomo le stesse dicendo: pensava che
il sole cocente le avesse dato alla testa.
<<Sono Ajnis, restauratore e proprietario della biblioteca
nazionale del Museo del Cairo. La chiamo dall’Egitto>> aveva
continuato Ajnis con la voce che cominciava a tremare.
Maria non aveva mai avuto contatti con egiziani, tanto meno
con persone importanti.
<<Deve venire qui immediatamente. Mi sono permesso di
prenotarle un volo per domani alle 16:00 all’aeroporto di
Madrid-Barajas; è un diretto. Arriverà all’aeroporto del CairoHeliopolis per le 15:00>>
<<Cosa? Io non so nemmeno chi lei sia>> disse Maria
alzando la voce per cercare di sovrastare le urla degli spettatori.
<<So di prenderla alla sprovvista, ma la prego, la supplico di
aiutarci>>
<<Aiutare lei e chi altri?>>
<<Il governo ha messo in grave pericolo la propria posizione.
Se la cosa si venisse a sapere il turismo cesserebbe e la
popolazione finirebbe nella più totale e completa povertà…>>
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Ajnis cominciò a perdere fiato e capì che le sue chiacchiere
erano inutili. Quella donna voleva sapere troppo, e per il
momento non poteva rivelarle ogni cosa. Ormai però era la sua
unica speranza di salvezza: meno persone sapevano e meglio
era. Ormai le aveva detto troppo e non poteva tirarsi indietro.
Maria esitò per qualche momento: non capiva se quello che
l’egiziano le stava dicendo era reale o una presa in giro.
<<E mi dica: come fa a sapere cosa fa o non fa il governo?>>
chiese in tono sarcastico.
<<Sono stato incastrato, ma la prego, la prego di credermi.
Ormai non c’è più tempo. Potrebbero uccidermi da un
momento all’altro!>> La sua voce era così ansante e affaticata
che sembrava stesse correndo in quell’istante una corsa
frenetica e senza sosta.
Maria si sentì passare una scarica elettrica lungo tutta la
colonna vertebrale: <<Chi la vuole uccidere?>>
<<A circa 20 Km dalla città del Cairo inizia il deserto
arabico>> disse Ajnis cercando di mantenere la calma <<Cerchi
un cammelliere. Avrò cinque cammelli bianchi, per non destar
sospetti. La prego si segni questi indirizzi>>
<<Destare
l’interruppe.
sospetti?
Cammelliere?>>
ma
già
Ajnis
<<La prego!>> disse quasi gridando. Poi cercò di controllarsi.
L’ansia, la pressione e la soffocante aria pesante del suo respiro
erano percepibili anche dall’altra parte del ricevitore del
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telefono. <<La prego>> emise tremando per controllare
l’irrequietezza.
<<D’accordo>> sussurrò la donna mentre una signora alla
sua destra girò il viso verso di lei con la bocca spalancata in un
grido di sussulto, notando con ambiguità che Maria non stava
esultando seguendo la folla.
L’uomo dettò una serie di informazioni stradali, vie e
indicazioni per trovare il posto. Poi Ajnis la salutò frettoloso
augurandole di prendere la giusta decisione e staccò la
conversazione.
La donna fissò il cellulare mentre la chiamata terminava e il
numero spariva dal display.
Si alzò, mise carta e penna nella borsa, e uscì dalla Plaza de
Toros. Adesso le urla erano lontane, anche se le rimbombavano
leggermente nelle orecchie.
Rilesse di nuovo il numero che l’aveva appena chiamata:
Egitto!
Doveva andare?
L’Egitto era sempre stato la sua passione; era stata questa
terra di faraoni, maledizioni e leggende a portarla sulla via
dell’archeologia.
“Ma sì” si disse “una scusa per fare un viaggio”.
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2
Maria stava seduta sul sedile posteriore del taxi che la stava
portando alla sua residenza spagnola, con lo sguardo perso nel
vuoto oltre il finestrino aperto per cercare di arieggiare l’interno.
Fuori c’erano almeno trentacinque gradi e dentro i mezzi di
trasporto non era certo meglio.
Stava ancora pensando a quella chiamata: Ajnis, restauratore
e proprietario della Biblioteca Nazionale del Cairo aveva chiesto
aiuto a lei. Aiuto per cosa? Aveva anche parlato di uccisioni.
Domani sarebbe andata in aeroporto e lì avrebbe verificato se
c’era davvero un volo prenotato a suo nome.
Il taxi procedeva dritto per la strada fiancheggiata da alte
palme mentre il tassista ascoltava musica spagnola a tutto
volume.
Dallo specchietto Maria intravide un altro taxi con a bordo
un passeggero interamente nascosto da veli neri. Pareva un
tipico uomo del deserto: copricapo, lunga tunica, velo su parte
del volto; a distinguerlo, due singolari disegni realizzati con
inchiostro nero, sotto gli occhi. I disegni erano uguali e uno
opposto all’altro; rappresentavano due avvoltoi con le ali piegate
verso il basso, il corpo frontale e il volto di profilo.
Si capiva a colpo d’occhio che era un simbolo egizio.
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Maria riconobbe quel simbolo: era il disegno, in nero, del
pettorale egizio proveniente dalla tomba del faraone
Tutankhamon della XVIII dinastia.
L’uomo alzò gli occhi verso di lei, e Maria tornò subito a
concentrarsi sulla telefonata.
Il taxi svoltò verso una stradella asfaltata e penetrò all’interno
di un grosso portone: Avila.
La città della Spagna centrale, capoluogo della provincia
omonima, compresa nella regione di Castiglia-León; a nordovest di Madrid.
Il taxi percorse strette vie e viottoli, tipici in quelle città
medievali, e si fermò sotto un grande edificio: il Castello Fuerte
Ventura.
Il castello era stato costruito circa un secolo prima da un
nobile spagnolo e adesso era proprietà di Pedro Los Agnos, che
aveva ospitato Maria. Pedro offriva soggiorno ad archeologi di
tutto il mondo, infatti il suo castello era conosciuto da molti
come La Casa de lo buscadores.
Maria scese e pagò il tassista.
Mentre stava per entrare, vide che l’altro taxi era dietro di lei
e posteggiava per fare scendere l’egiziano. Doveva essere un
archeologo anche lui.
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Il castello era immenso: arazzi dovunque, poltrone e mobili
antichi, candelabri a corrente, lampadari enormi e finestre
larghe e circondate da tendaggi vellutati.
Maria prese a salire lungo una lussuosa rampa di scale in
mogano in direzione del terzo piano dove c’era la sua camera.
Sentì chiudersi il portone e capì che l’egiziano era dentro
l’edificio, ma prima di quando se l’aspettasse, egli prese a salire
le scale a passo svelto. La donna accelerò e al secondo piano
svoltò l’angolo a destra entrando in un vicolo stretto con le
porte delle camere ben distanziate ad almeno 12m l’una
dall’altra.
Era seguita? “Magari sono solo paranoica” si disse.
Ma era certo una bizzarra coincidenza che poco dopo aver
ricevuto una così strana telefonata dall’Egitto un uomo egiziano
adesso sembrasse seguirla.
Ma i passi andavano nella sua direzione; cominciò a correre
fin quando, alla fine del corridoio, non intravide un’altra rampa
di scale e scattò per il terzo piano.
Non si guardò indietro, ma sapeva che quell’uomo la stava
seguendo; ne era certa.
La sua stanza era alla destra, così corse verso il salone dal
quale partivano i vari corridoi che portavano alle stanze dell’ala
ovest.
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Improvvisamente sentì altri passi dall’angolo di fronte a lei
ma ormai era troppo tardi e lei correva a velocità massima. Non
poteva essere l’egiziano perché un attimo prima era dietro di lei.
Come aveva fatto a precederla?
Urtò contro l’uomo e per la paura emise un grido soffocato.
<<Marì!>> si spaventò l’uomo dinanzi a lei.
Maria alzò lo sguardo: le stava davanti Michelangelo.
Michelangelo era un uomo scuro e rugoso. Poteva avere sì e
no sessant’anni; aveva baffi e un lungo pizzetto neri ed era
avvolto, da capo a piedi, da una tunica bianca che si fermava alle
caviglie lasciando intravedere due piccole scarpe dalla punta
arrotondata verso l’alto. Michelangelo era il fratello adottivo di
sua madre e l’aveva sempre viziata e coccolata.
Era un archeologo professionista oltre ad essere un esperto di
scrittura antica. Maria viaggiava con suo zio ormai da sette anni.
Prima, secondo lo zio, era ancora una ragazzina per occuparsi di
archeologia; e poi viaggiando in continuazione finiva, come lui,
a non trovare amici stabili.
Lo zio era stato in tutto il mondo tranne che negli Stati Uniti,
in Kazakistan, Ucraina, Gabon e in Antartide; ma le sue mete
preferite rimanevano l’Egitto e la Tunisia (la sua terra d’origine).
Michelangelo aveva insegnato a Maria tutto quello che c’era
da sapere sull’Egitto, i geroglifici, la religione e la cultura egizia.
Forse era anche per questo che Maria amava l’Egitto più di
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qualunque altra terra. Lo zio l’aveva solo spronata a perseguire il
suo sogno.
Maria sperava che tra tutti i viaggi dello zio, ci fosse pure
quella meta e così l’aveva seguito diventando la sua ombra e
allieva. Ma da quando viaggiava con Michelangelo, non aveva
mai visto le piramidi, la sfinge, il deserto… l’Egitto!
Però con questa scusa si era fatta piacere il mestiere di
archeologa diventandolo a sua volta. Anche se a volte pensava
che forse non avrebbe mai messo piede nella terra dei faraoni,
era felice di quella vita, perché aveva visitato posti che altri non
hanno mai visto e sapeva cose sconosciute a molti.
Maria si guardò alle spalle, ma l’egiziano non c’era.
<<Come è stata la corrida?>>chiese Michelangelo.
<<Oh… Stupenda. Perché non vai a vedertela qualche giorno
con gli amici?>> rispose lei ancora voltandosi a destra e a
manca, priva dell’interesse necessario per la conversazione.
Michelangelo rise: <<Ci sono già stato. Vai a pranzo prima
che sir Los Agnos faccia chiudere il ristorante>> e proseguì in
direzione della sua stanza.
Maria stava per fermarlo per dirgli della telefonata, quando si
bloccò, temendo che l’uomo egiziano del taxi potesse essere nei
paraggi, e proseguì per la sala da pranzo pregustando le raffinate
cibarie dei cuochi spagnoli di Pedro Los Agnos.
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Ma voltato l’angolo per il primo piano, dove c’era l’enorme
salone da pranzo, Maria non si accorse che un volto era affiorato
nascosto dietro di lei.
Era un volto scuro, con due occhi castani vividi e guizzanti su
quel tutto che lo circondava, e due avvoltoi neri come la pece
che parevano voler volar via dall’inchiostro sul suo volto.
Sul mento la barba incolta gli creava piccole ombreggiature
accentuando il chiaroscuro della sua pelle abbastanza chiara del
basso Egitto.
L’uomo di nome Samir, si abbassò il velo dal viso e si portò il
telefono all’orecchio. Qualcuno gli rispose. Parlavano in
egiziano.
<<L’ho trovata>> disse Samir.
<<Bene>> gli rispose la voce dall’altra parte del telefono
<<non lasciartela scappare>>.
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3
Samir era solo un bambino quando seppe il suo compito, e
affrontò il suo passato. La sua vita di adolescente non fu
semplice: tra prove per la sua fede, coraggio e lealtà verso la
Regina non si era mai creato una sua vita, degli amici, una
famiglia. Il suo unico scopo, come gli altri suoi compagni, era
proteggere il Faraone come aveva ordinato la Regina.
Era sempre vissuto in completa solitudine, lontano dal
mondo, dalle persone, dalla sua famiglia, se ne aveva una.
Ma dopo anni d’insegnamento e sacrifici, aveva perso di vista
che il mondo esterno potesse accoglierlo; gli importava solo
della sua missione, come gli era sempre stato insegnato. E
avrebbe rischiato la vita pur di portare a compimento il suo
dovere.
Erano rimasti in pochi fedeli all’Ordine: una ragione in più
per fare il proprio lavoro al 200%!
Ora mentre era appiattito alla parete con il ricevitore
all’orecchio e ben attento a non farsi scoprire, ascoltava l’altro
uomo al telefono e gli pareva di sentire in sottofondo, il soffio
del vento del deserto. Il deserto dove era vissuto. Dove aveva
passato gran parte della sua vita, forse tutta la sua esistenza.
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E sentiva che gli mancava quel suono, quel vento, il caldo
afoso.
Non l’avrebbe mai detto, ma gli mancava la sua terra.
<<Sa qualcosa?>> chiese l’uomo dall’altra parte del telefono.
<<Ha ricevuto una telefonata questa mattina alla Plaza de
Toros, ma non ha citato niente e nessuno al suo tutore>>
rispose Samir preoccupato di aver parlato troppo.
<<Non è che si è accorta di te?>> chiese convincente l’uomo.
In effetti Samir non era riuscito a trattenersi; doveva imparare a
mettere da parte la sua ambizione e procedere con calma per
non rischiare di compromettere il piano. Aveva detto al suo taxi
di seguire quello sul quale era salita Maria e arrivati al Castello
aveva esagerato correndole dietro per le scale.
Samir rimase in silenzio “Chi tace, acconsente”.
<<Vedi-di-non-commettere-errori>>
aveva
scandito
lentamente l’uomo cogliendo il silenzio tra lui e Samir.
Dopo poco il telefono si staccò e Samir sentì svanire, insieme
alla brezza sabbiosa, una parte di se stesso.
Era stato mandato in missione; era stato scelto. Voleva dire che
si fidavano di lui, che si aspettavano portasse a compimento il
lavoro di una vita, di molte vite, più di quelle che Samir stesso
riusciva a immaginare.
E adesso, mentre guardava la donna italiana sparire giù dalle
scale, capiva che era la missione che aspettava da tutta la vita,
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che il suo nome sarebbe rimasto come una impronta indelebile,
che avrebbe reso onore ai suoi antenati, che avrebbe risanato le
ferite di una terra, e avrebbe ripagato tutte le sue sofferenze.
Tutto quello che aveva passato, sofferto, odiato, faticato, subito,
patito fino allo stremo, pareva adesso lontano; un ricordo
lontano che non sembrava più così angoscioso.
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4
<<El vuelo en llegada de Roma ha padecido un retraso de treinta
minutos. The upcoming flight from Rome has suffered a delay of
thirty minutes. Il volo in arrivo da Roma ha subito un ritardo di
trenta minuti>> ripeteva una voce di donna dall’altoparlante
dell’aeroporto di Madrid-Barajas.
Michelangelo stava cercando di convincere un impiegato
dietro lo sportello a farsi dare un biglietto per l’Egitto. Il volo era
stato prenotato da Ajnis solo per una persona e a lui Maria non
aveva pensato, anche per il fatto che la sua conversazione con
Ajnis era durata pochi minuti. Quindi lo zio doveva pagarsi il
viaggio di tasca sua.
In quanto a Maria, stava appoggiata al carrello portabagagli
ricolmo di valige e borsoni, persa in un opuscolo sui viaggi in
Egitto che conservava da quando aveva intrapreso la carriera di
archeologa e aveva seguito lo zio. Sapeva che forse non vi
sarebbe andata per motivi archeologici, ma sperava che
accumulando una piccola fortuna, avrebbe potuto farsi un
viaggio di piacere.
Sulle spalle sentiva il peso del suo zaino: un po’ come
un’archeologa avventuriera.
D’un tratto fu svegliata dai suoi pensieri da un uomo
corpulento che le venne incontro sbattendole di fianco.
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<<Me justificación>> fece l’uomo massaggiandosi il fianco
accanto alle tasche del pantalone, e sparì tra la folla.
Maria prese convulsamente a cercare i suoi biglietti per il
viaggio che teneva in tasca, quelli che Ajnis le aveva prenotato e
fatto trovare all’aeroporto, ma non c’erano. Erano spariti.
Maria conosceva il trucco: avevano cercato di derubarla
decine di volte quando con Michelangelo era andata in Costa
d’Avorio per poi proseguire in Mali e in Niger. Un mese in
Africa, il più pericoloso che avesse trascorso fuori d’Europa.
Abbandonò il carrello, tanto era vicino a suo zio, anche se
probabilmente questi non si era accorto praticamente di niente,
intento a gridare al ragazzo per il suo biglietto, e partì
all’inseguimento dell’uomo. Probabilmente si era infilato i
biglietti nella tasca dei pantaloni quando aveva finto di
massaggiarsi il fianco.
L’aeroporto era affollato e si faceva fatica a camminare,
soprattutto a correre all’inseguimento di un ladro. Ma di sicuro
l’uomo che l’aveva derubata era molto più robusto di lei e quindi
faceva molta più fatica. L’uomo si accorse di lei e cominciò a
dirigersi verso l’uscita. Maria non si preoccupava di spingere e
farsi spazio tra la persone, e a un certo punto le parve perfino di
urtare contro un uomo alto e coperto da veli neri; i due avvoltoi
ben distinti sul volto.
Non se ne curò perché il suo futuro era in quel biglietto che
stava per fuggire dall’uscita dell’aeroporto.
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Il ladro era certo più impacciato e affaticato di lei, ma
certamente più vicino all’uscita. Maria poteva non farcela.
Si accasciò alla parete accanto a una cassa di vetro
contenente un’ascia per la sicurezza pubblica, si fasciò il gomito
con la giacca e colpì forte sul vetro. La cabina si ruppe e i cocci
le caddero addosso. Una sirena insopportabilmente acuta prese
a suonare e tutte le porte si sigillarono.
Aveva sentito alla televisione che recentemente in Spagna,
Francia e Inghilterra avevano istallato un programma di
sicurezza pubblica contro il terrorismo, quindi era molto facile
far scattare un allarme anche inconsapevolmente.
L’edificio restò nel buio quasi completo, adesso che porte e
finestre erano completamente oscurate e tappate, se non fosse
stato per le luci rosse istallate ovunque all’interno della
struttura.
Le persone erano tutte piegate in due per schiacciarsi le mani
contro le orecchie e qualcuno era disteso in terra come se ci
fossero persone armate.
Il ladro si era appena scontrato contro la pesante saracinesca
che aveva chiuso l’ingresso e si era voltato preoccupato.
Maria gli corse incontro ma, prima ancora che lo
raggiungesse, l’uomo aveva già preso i biglietti dalla tasca dei
pantaloni e li aveva lasciati in terra fuggendo alla rinfusa. Di
certo non voleva essere accusato per una sciocchezza e finire in
prigione.
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Maria recuperò i biglietti e tornò al carrello come se nulla
fosse successo e ignorando completamente il fastidioso strillo
acuto dell’allarme.
La cosa si risolse in quindici minuti: arrivò la polizia, chiese
perché era scattato l’allarme e, appurato che era stato uno
scherzo di poco gusto, lasciò l’edificio.
L’orario era perfetto per imbarcarsi, così Maria non si era
annoiata durante il tempo che la separava dal suo volo per
l’Egitto.
<<Non posso lasciarti sola un momento>> aveva affermato
Michelangelo, sistemandosi il copricapo che gli era scivolato
mentre si accasciava sul pavimento al suono dell’allarme.
Il volo arrivò verso le 16:30 e appena tutti furono a bordo,
l’aereo partì per le 17:00.
Non era certo il suo primo volo, anzi, aveva perso il conto di
quanti voli avesse fatto: per andare a Mosca, in Costa d’Avorio,
in Turchia, in India, in Francia e in Spagna dalla quale adesso si
allontanava… a malincuore.
Aveva chiamato il redattore del giornale che voleva il suo
articolo, e lui l’aveva talmente supplicata, che alla fine Maria gli
aveva promesso che l’avrebbe stilato e l’avrebbe spedito da
qualunque parte del mondo non appena l’avesse terminato.
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Maria ricordava il suo primo volo: lo zio era stato chiamato
in India per fornire il suo aiuto negli scavi di Ellora. Nella città
indiana di Ellora si trova un complesso di templi rupestri scavati
nella roccia tra il V e il XIII secolo.
Maria l’aveva seguito e d’allora non era più tornata alla solita,
monotona vita.
Ricordò che per l’eccitazione del primo viaggio, aveva fatto
una serie di ricerche sull’India, su Ellora e anche sugli aerei,
visto che non ne aveva mai preso uno in vita sua; e mentre
volavano sopra l’Iran stava assillando lo zio con le sue scoperte:
<<In base a un'analisi delle statistiche riguardanti gli incidenti
aerei, si è potuto stabilire che nella maggior parte dei casi i
disastri aerei hanno cause precise, molto spesso prevedibili o
evitabili: tra queste, un cattivo funzionamento della
strumentazione di volo o del velivolo; difficoltà operative;
attentati terroristici. Non mancano tuttavia le fatalità, come
possono essere i fulmini, l'impatto con un uccello in volo o un
malore improvviso del pilota.
Le fasi più pericolose del volo sono quelle in cui l'aereo si
trova in prossimità del suolo, durante il decollo e l'atterraggio>>
diceva mentre Michelangelo, che non aveva mai sofferto di
aereo, cominciava ad assumere un colorito verdognolo sul volto.
Il peggio era venuto quando Maria si era ritrovata sola per il
ritiro dei bagagli, perché lo zio era chiuso a chiave in bagno
(non accennò ad uscire per almeno una mezz’ora) e lei doveva
recuperare tutti i suoi bagagli e quelli della zio, che nel
complesso non erano certo pochi e soprattutto non erano
leggeri e alla sua portata.
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Da allora Maria aveva notato che Michelangelo portava
sempre con sè il solito libro della classificazione della piante,
per cercare di distrarsi e soprattutto per non sentire le possibili
cause d’incidenti di Maria.
Il viaggio sembrò durare un’eternità: i sedili dopo un po’
risultavano scomodi, ed erano insopportabili per dormire; il
corpo pareva aver perso la sensibilità, e i biscotti e i succhi che
portavano le hostess non riempivano lo stomaco.
Ma per le 21:00 erano già all’aeroporto del Cairo e l’emozione
e l’eccitazione ricompensavano le fatiche passate.
Maria e Michelangelo scesero dall’aereo e respirando l’afosa
aria egiziana si sentirono a casa. Per Michelangelo era naturale,
essendo della Tunisia quello era l’odore tipico del caldo, del
deserto, della giornate trascorse a trainare cammelli sotto il
magnifico, giovane sole che non conosce limiti.
Ma Maria. Non era mai stata in Egitto, eppure l’amava così
tanto, l’aveva sognato così tante volte, che forse era sempre stata
egiziana. Una specie di vita passata. Sentiva, anzi sapeva di
essere legata a quella terra.
Tutti i passeggeri si diressero verso il nastro trasportatore per
il ritiro dei bagagli e a turno c’era chi prendeva e chi aspettava
che il proprio bagaglio arrivasse. Maria si era portata solo due
valigie di vestiti, adatti al clima spagnolo, e una valigia
contenente tutti i libri dei maggiori poeti della Spagna, ricevuti
quando aveva consegnato la statua ritrovato nei suoi scavi, al
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Museo del Prado di Madrid dove sarebbe stata riposta accanto al
quadro del suo stesso artista.
Le avevano regalato anche la borsa nella quale li portava con
tanto di scritte in grassetto Spagna, Madrid, Museo del
Prado.
Michelangelo, come gran parte delle persone, aveva ritirato
tutti i suoi bagagli e li aveva riposti sul carrello, ma lo zaino
contenente i libri spagnoli di Maria non arrivava.
<<Chiami questo numero e le darò il mio indirizzo per poter
spedire la valigia>> aveva detto senza troppi giri di parole Maria
ad un impiegato dietro la cassa, consegnandogli un cartellino
dove era scritto il suo numero di cellulare insieme al suo grado
di archeologa e vari servizi; un biglietto da visita, praticamente.
Il resto dei bagagli erano sotto custodia dell’aeroporto che li
avrebbe trasportati direttamente all’indirizzo dell’hotel che
Michelangelo aveva prenotato.
Ajnis l’aspettava là fuori e a lei, francamente, importava più
l’Egitto che dei libri di poesia spagnola. Tanto gli sarebbero
arrivati comunque, prima o poi.
Uscirono di fretta dall’aeroporto e la città immersa nella
notte e nel pieno della sua vita li accolse con le sue brezze al
profumo di sabbia accaldata e spezie raffinate.
Erano le 15:40 ora legale: in Spagna c’era il fuso orario di
un’ora così come in Italia.
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Nonostante le tenebre fossero ormai scese e avessero coperto
silenziosamente la città, il Cairo si presentò agli occhi di Maria
come un affollato mercato di profumi, spezie e tessuti pregiati
che coloravano e adornavano ogni angolo e meandro della città.
Uomini e donne in gruppi o soli, nei bar o nei mercatini in
viuzze strette e affollate a cercare di vendere ogetti fatti a mano,
a contrattare il prezzo, a mostrare le essenze e le erbe
medicinali.
In lontananza le luci verdastre di due torrioni di una grossa e
cupolosa moschea seguite da una luminosa scia di fari di
automobili e di finestrelle a doppie volte senza sportelli; tappeti
appesi a penzolare senza vento adagiati alle sporche mura delle
casupole; i lampioni che facevano cornice alle strade
rispecchiavano i vecchi lampioni a lume di candela con la
classica casseruola in vetro smerigliato e decorato finemente
anche se la luce si spargeva pallida e rada a causa della sporca e
permanente sabbia che li riempiva.
Michelangelo la guidò verso la strada dove un taxi ferroso e
arrugginito si fermò frenando all’istante e rombando
rumorosamente.
I due salirono e Maria diede le varie indicazioni che Ajnis le
aveva dettato per telefono.
Il tassista, in tunica e lunga sciarpa attorno al volto, partì a
tutta forza agitando di tanto in tanto le dita sul volante quando
il traffico si fermava o perché erano davanti ad un semaforo
rosso o perché qualcuno voleva la precedenza. Molte auto
passarono a luci spente: probabilmente per risparmiare le
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PROLOGO Museo del Cairo, Egitto. Inaugurazione del museo. 20