FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891 DIREZIONE Ugo Finetti - Stefano Carluccio (direttore responsabile) Email: [email protected] Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria Anno CXXI – N. 10 / 2012 GIORNALISTI EDITORI scarl Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano Tel. +39 02 6070789 / 02 683984 Fax +39 02 89692452 Email: [email protected] Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 ■ CINQUE FASCICOLI CON UN’ANTOLOGIA DI DOCUMENTI, DI ANALISI E DI DENUNCE MAI ASCOLTATE. MA OGGI PROFETICHE STORIA DI VENTI ANNI/4 LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA REPUBBLICA SOMMARIO Selezione 1996 - 1998 CRITICA SOCIALE pag. 7 Il neo-clientelismo CRITICA SOCIALE pag. 7 Sistema tedesco rappresentanza e stabilità ANTONIO VENIER pag. 8 La Padania che non c’è ANTONIO VENIER pag. 8 Le Mani Pulite sulle privatizzazioni EDMOND DANTES pag. 3 Elezioni, la riforma necessaria STEFANO CARLUCCIO pag. 9 Caso Pintus: “Non mi riconosco in questa magistratura” pag. 3 MAURO MELLINI Sistema proporzionale e assemblea costituente G. TREMONTI E G. URBANI GIANFRANCO PINNA pag. 11 Il caso Tortora prepara la macchina del giustizialismo pag. 5 EDMOND DANTES L’imbroglio del referendum pag. 13 Diario leghista CRITICA SOCIALE pag. 6 CONGRESSO PSE POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1 comma 1, DCB Milano - Mens. 778000 057003 9 ISSN 1827-4501 12010 Di maggioritario c’è l’astensionismo pag. 13 I socialisti italiani e il caso Craxi PER ABBONARSI Abbonamento annuo Euro 50,00 c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207 Banca Intesa: IBAN IT 06 O 0306901626100000066270 E-mail: [email protected] Editore - Stefano Carluccio La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250 Euro - 10,00 CRITICAsociale ■ 3 10 / 2012 ■ 1998 LA RIFORMA NECESSARIA tura. Ciò che occorre è ben altro. Bisognerebbe,saper pensare ad una riforma elettorale semplice e lineare capace di garantire ad un tempo una effettiva rappresentatività e rappresentanza, una corretta stabilità politica, una efficacia funzionale del sistema democratico. Edmond Dantes I l bipolarismo è un conto, il bipartitismo è un altro. Un sistema fondato su due o più partiti maggiori ma collocati attorno al 20%, contornati da schiere di partiti minori, tutti elettoralmente vincolati nelle possibilità e nella scelta della rappresentanza, è un pluripartitismo camuffato o un bipolarismo plurimo. Se nella realtà non esiste un sistema bipartitico effettivo e dominante, la legge elettorale maggioritaria non lo può imporre ed anzi sembra fatta apposta per mantenere la atomizzazione delle forze ed il moltiplicarsi delle formazioni. E’ perlomeno singolare infatti che quando vigeva in Italia il sistema elettorale fondato sul principio della proporzionale pura esistevano un numero di partiti di gran lunga inferiore a quello che attualmente esiste vigendo un sistema di maggioritario corretto. La realtà della società politica italiana ha caratteristiche sue proprie. Essa è fatta da una molteplicità di tradizioni, culture, specifiche identità ed interessi. E’ vero che l’evolversi delle esperienze od esigenze e interessi di natura varia forzano determinate omologazioni, associazioni ed anche la nascita di nuove identità più complesse, ma non è men vero che la realtà politica non può essere modificata e trasformata mediante un eccesso di forzature e di imposizioni. Da interventi di questa natura scaturirebbero poi senz’altro e sempre reazioni e conseguenze contraddittorie e tutt’altro che positive. Le molteplicità e le diversità dei fattori riversati nel collegio unico maggioritario piuttosto che ricondurre il sistema alle unità volute possono essere generataci di false rappresentanze, distorsioni, dispersioni e trasformismi di genere vario. Uno sbarramento imposto ad una legge proporzionale costituirebbe invece uno strumento semplice ma molto efficace per ostacolare la parcellizzazione delle forze. Mentre la proporzionale assicurerebbe una rappresentanza proporzionata ed effettiva, lo sbarramento alla base scoraggerebbe la frantumazione e il proliferare di piccole formazioni. La stabilità del sistema potrebbe allora essere meglio assicurata da un secondo turno elettorale che si pronunciasse su coalizioni di governo alternative, assegnando alla coalizione vincente un consistente premio di maggioranza. Con un secondo turno siffatto si conseguirebbero unitariamente tre scopi: la elezione diretta del Premier, la scelta irreversibile per l’intera legislatura della coalizione di governo salvo infatti il ricorso a nuove elezioni, l’ampiezza e quindi la stabilità della maggioranza parlamentare. Da questo tipo di riforma trarrebbero vantaggi politici e di principio sia i propor-zionalisti che i maggioritari, che i Presidenzialisti. Ne risulterebbe un sistema molto forte ed equilibrato nella sua rappresentanza, nella sua funzionalità, nella chiarezza dei suoi indirizzi politici. Certo bisognerebbe farla finita con la demonizzazione retorica del principio proporzionale che, benché carico di difetti, resta il principio democratico per eccellenza. Un sistema elettorale perciò a due turni. Il primo proporzionale con quota di sbarramento. Il secondo con elezione del premier, scelta della coalizione e premio di maggioranza. Sarebbe una ottima soluzione. Non se ne farà certamente di nulla. Si marcia verso sistemi maggioritari che, rispetto alla realtà della società politica italiana, rappresentano soluzioni violente o soluzioni pasticciate. Un buon sistema Solo in Italia la parola “proporzionale” in tema di leggi elettorali è considerata una bestemmia. Solo la confusione regnante, figlia di una “falsa rivoluzione” e dei suoi molteplici e variopinti agitatori e sostenitori, può arrivare a questo punto di mistificazione. In realtà sappiamo che si tratta invece di un principio e di una regola democratica di prima grandezza. Identificare il sistema proporzionale con uno dei deplorevoli vizi connaturati al vecchio sistema politico della Repubblica, non è altro che una dimostrazione di memoria corta per non dire di ignoranza lunga. In Europa ed anche in Italia durante il Regno e prima del fascismo le campagne per l’affermazione del principio proporzionalistico hanno rappresentato una bandiera che fu comune al pensiero politico socialista, cattolico democratico e a scuole liberali. Da Ginevra, a New York, a Londra, sotto la ispirazione; di John Stuart Mill nascevano già nel secolo scorso varie associazioni di orientamento proporzionalistico. Anche a Milano, nel 1871, nasce una associazione che intende battersi per la conquista della proporzionale. La fonda e la presiede Filippo Turati, e ad essa, oltre ai socialisti, aderiscono liberali, radicali, cattolici popolari. Ne fanno parte uomini e personalità come Filippo Meda e come Gaetano Salvemini. Era un fervido sostenitore del principio proporzionalistico Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare e con lui si schiereranno nel dopoguerra Carlo Arturo Jemolo, Guido Ruggiero e ancora Gaetano Salvemini che, per parte sua, da un lato difendeva la proporzionale dall’altro ne proponeva una correzione con l’introduzione di un “premio di maggioranza”. Nel lontano 1945, mentre l’Italia si riapriva alla democrazia, si potevano leggere sull’Avanti! riflessioni che ancor oggi possono tornare utili: “Il collegio uninominale ci riporterebbe senza dubbio alle vecchie clientele che sono il contrario della democrazia. Tuttavia la pluralità dei partiti, il loro frazionarsi in gruppetti molteplici causò dopo le elezioni del ‘19 e del ‘21 l’instabilità governativa. Il sistema clientelistico si riproduce sul piano della proporzionale pura. Proporzionale quindi ma non pura”. Il principio che nell’Italia di oggigiorno, percorsa a destra e a manca e disorientata da ondate demagogiche, viene letteralmente demonizzato è considerato invece democratico e regna sovrano in grandi Paesi dell’Europa. Innanzi tutto in Germania, dove infatti funziona con generale soddisfazione un sistema proporzionale corretto. In Francia collegio uninominale a due turni e proporzionale si sono venuti alternando negli anni. In Inghilterra prima delle elezioni e ancora oggi, constatati gli effetti antidemocratici del sistema maggioritario vigente nel loro paese, i laburisti stessi sono tornati sul tema di una possibile introduzione della proporzionale. In Italia, dove il sistema maggioritario corretto ha già dimostrato di essere una grande forzatura rispetto alle caratteristiche reali e tradizionali della società politica italiana provocando in tal modo danni di non poco conto, non c’è invece nessuno che osi discostarsi da questo terreno. E tuttavia il maggioritario, nelle sue varie espressioni ivi compresa la più radicale, non garantirà nel nostro paese un corretto funzionamento del sistema. Nasceranno infatti frantumazioni, clientelismi di piccolo e di alto bordo, dispersione di forze e trasformismi di varia consistenza e na- “Dai e dai” La politica è bella quando è varia. Ma la politica è anche ballerina. Le posizioni cambiano, le idee evolvono, i politici si trasformano. Bossi ha parlato della proporzionale come di un principio sacro. Non c’è democrazia se non con la proporzionale. Fini invece è per il maggioritario punto e basta. Non perde occasione per ripeterlo. Nella Commissione per le riforme istituzionali nel Parlamento della Prima Repubblica, Fini si era battuto per la proporzionale e Bossi aveva sposato il maggioritario. Poco male. La notte dei tempi porta consiglio: il peggiore dei consigli resta l’idea di un maggioritario radicale, collegio unico, uno o due turni. Una riforma violenta che farebbe nascere solo contraccolpi non difficili da prevedere. Una riforma elettorale non può non tener conto delle caratteristiche fondamentali di una società politica anche se su di essa si deve intervenire per correggerne le degenerazioni. Salutato come la panacea di tutti i mali il maggioritario corretto tuttora in vigore vede da un lato le quotidiane esaltazioni del bipolarismo, dall’altro il progressivo proliferare di formazioni politiche. Quelle di oggi sono già più del doppio di quelle di ieri. Esiste un sistema elettorale bilanciato, equilibrato, in grado di assicurare i due obiettivi fondamentali che debbono essere perseguiti: una giusta rappresentanza, una sostanziale stabilità. Proporzionale corretta al primo turno, elezione del premier e della coalizione con premio di maggioranza al secondo turno. Dai e dai è qui che bisognerà arrivare a dispetto dei maggioritari tutti d’un pezzo che tutto avranno, ma non di certo la maggioranza in Parlamento. No al maggioritario spazzatutto Tutti gli alleati del PDS hanno bisogno di una legge elettorale con quota proporzionale. Ne hanno bisogno per la loro sopravvivenza e per una relativa autonomia e indipendenza. Ne hanno bisogno tutti e sono una lunga lista. Ne ha bisogno il PPI che del resto non lo manda a dire. La stessa cosa si può dire dei Verdi che si oppongono con decisione ai maggioritari spazzatutto. Ne hanno bisogno Dini e i socialisti bosellisti. L’uno tace, gli altri ogni tanto si fanno vivi. In piedi, a viso aperto contro le velleità maggioritarie estreme ad uno o due turni, stanno sulla sinistra Bertinotti e sul lato destro Bossi. L’uno e l’altro, a ben giusta ragione, difendendo a spada tratta la proporzionale difendono se stessi e il proprio partito. L’UDR, il giorno che si collegasse più strettamente al PPI, non potrebbe più farsi fotografare a braccetto con Di Pietro. Hic rhodus hic salta; anche se Cossiga è senatore a vita. Bertinotti e Bossi, non va dimenticato in caso di emergenza sono potenziali alleati della maggioranza, anche se, soprattutto per Bossi, tra il dire ed il fare si porrà di mezzo il mare. Non potendo il PDS alla fine dei conti fare spallucce di fronte alle esigenze di una parte importante, qualificata e decisiva dei propri alleati di governo, qualche cosa di nuovo lo dovrà pur dire. La ricerca di una riforma equilibrata che garantisca ad un tempo rappresentanza, stabilità e governabilità la si dovrà pur fare. Anche Forza Italia dovrà staccarsi dalla disponibilità incomprensibilmente già annunciata e ripetuta verso la demagogia maggioritaria referendaria. Anche Forza Italia del resto dovrà riflettere meglio e ricercare il punto di intesa con gli altri schieramenti e con le posizioni che alla fine dovranno farsi strada nella maggioranza di governo. E Fini lo si inviterà a non avere la memoria corta e a ricordarsi della sua battaglia proporzionalistica in seno alla Commissione per le riforme della Prima Repubblica. Da allora, non è passato un secolo. s ■ 1996 - NUMERO 3 SISTEMA PROPORZIONALE, ASSEMBLEA COSTITUENTE G Stefano Carluccio li italiani sono stati ingannati quando i mass media li hanno convinti che il referendum Segni costruiva la seconda Repubblica e realizzava le riforme istituzionali. Il referendum Segni ci ha invece dato un sistema elettorale catastrofico e le riforme istituzionali ancora si attendono, tanto è vero che ormai tutte le forze politiche e il capo dello Stato gridano la loro indispensabilità e urgenza. Purtroppo, siamo in un vicolo cieco. La prima Repubblica è stata distrutta, ma gli apprendisti stregoni che hanno compiuto la distruzione non sono stati capaci neppure di immaginare la seconda, aprendo un vuoto istituzionale e politico nel quale tutte le peggiori avventure sono possibili, compresa la disgregazione dell’unità nazionale fortemente incoraggiata anche dal sistema elettorale maggioritario, che privilegia le formazioni localistiche. In quanto vuoto, l’unico potere politico forte è rimasto quello del capo dello Stato, che si è attribuito ruoli addirittura impensabili per i suoi predecessori paradossalmente, perché si tratta del capo dello Stato eletto da un Parlamento che rispondeva a equilibri politici ormai distan- ti anni luce, dipinto all’opinione pubblica come una assemblea di inquisiti e di corrotti. Ormai è tardi, i danni compiuti rischiano di essere irreversibili. Nella furia “rivoluzionaria” non si è pensato che un Parlamento eletto con il sistema maggioritario, proprio perché non rappresentava in modo proporzionale della volontà di tutti i cittadini, è legittimato a governare ma non a riformare la Costituzione. Non si è ragionato sul fatto che è impossibile ottenere forzatamente un risultato politico (e cioè la riduzione a due dei partiti) attraverso una legge elettorale, perché, al contrario, le leggi sono il prodotto di una situazione politica. Abbiamo avuto così non una riduzione, ma una moltiplicazione dei partiti e un caso unico al mondo, all’origine della indecorosa rissa sulle candidature. In nessun Paese al mondo dove esistano collegi elettorali uninominali e un sistema maggioritario il candidato nel collegio uninominale viene indicato, anziché da un singolo partito, da una coalizione di partiti. In Italia, e soltanto in Italia, accade anche questo ed esattamente per questo il sistema maggioritario e già fallito. Simbolo di questo fal- 4 ■ CRITICAsociale limento è il fatto che proprio Segni e Pannella, i paladini del sistema uninominale maggioritario, sono rimasti isolati ed emarginati. Abbandonando la politica il primo, candidandosi soltanto nella quota proporzionale il secondo, dopo che aveva chiesto per referendum l’abolizione di tale quota. Rimediare al disastro istituzionale è ormai difficile. Si può temere che gli apprendisti stregoni che volevano portare l’Italia in Gran Bretagna l’abbiano invece stabilmente portata in Sud America. E infatti la personalizzazione dello scontro elettorale, i ricatti, le intimidazioni, la strumentalizzazione della giustizia ai fini di lotta politica, con l’obbiettivo ultimo addirittura di vedere incriminato l’avversario, tutto ricorda una campagna elettorale del peggiore sud America piuttosto che europea. La proposta dei socialisti per uscire dal caos è comunque sempre la stessa, quella che sin dal 1979 hanno continuato ad avanzare prefigurando non un finto, ma un vero e profondo rinnovamento delle istituzioni: quella che fu definita la “grande riforma”. Proponiamo l’elezione diretta di una assemblea costituente con il sistema proporzionale. Proponiamo il ritorno al sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento del 5 per cento allo scopo di evitare la proliferazione di piccoli partiti. Proponiamo l’elezione diretta del capo dello Stato, allo scopo di dare maggiore potere ai cittadini, di creare un punto fermo fortemente. legittimato dalla investitura popolare. Tale da assicurare l’unità, governabilità e continuità dello Stato. L’INFORMAZIONE Le riforme istituzionali riguardano la democrazia, ma la piena realizzazione della democrazia si basa sulla possibilità per i cittadini essere informati e non sarà pertanto possibile senza una profonda riforma dei mass media, che costituiscono ormai la componente forse più grave della crisi italiana. In nessun Paese democratico al mondo i giornali appartengono, anziché ad editori veri, a gruppi industriali che hanno in altri settori la loro attività principale. Sarebbe addirittura inimmaginabile, per gli Stati Uniti, una General Motors o una Ibm che si mettono a produrre quotidiani. In nessun Paese al mondo esiste una simile concentrazione della proprietà. In nessuno, anziché osservatori neutrali o comunque distaccati della lotta politica, i giornali sono. diventati protagonisti di tale lotta, militarizzati, trasformandosi in “giornali partito”, piegando ogni titolo, riga di cronaca, ogni commento al fine della propaganda di parte. Il “partito” di Fiat e Mediobanca controlla Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, settimanali e libri Rizzoli. Quello di De Benedetti, la Repubblica, i quotidiani locali di Caracciolo, l’Espresso. Quello di Berlusconi, tre reti televisive, Panorama, Mondadori, Giornale nuovo. Tmc e Video Music sono stati arruolati nello schieramento “progressista”. La Rai è terra di conquista per le fazioni contrapposte, senza neppure il fair play della prima Repubblica. Caso unico al mondo, dei giornali, come dei magistrati, ci si chiede innanzitutto a quale partito ap-partengono. Ci vorrà una profonda modifica del costume per ottenere un minimo di neutralità dopo l’imbarbarimento intervenuto. Ma una proposta può e deve essere sin d’ora avanzata. Quella di impedire ai gruppi industriali e ai dirigenti politici di possedere giornali e reti televisive. Restituendo in tal modo, se non l’obiettività, almeno i presupposti che rendono possibili questa caratteristica, tipica della informazione in ogni Paese libero. 10 / 2012 LA POLITICA ECONOMICA L’ apparato dello Stato è sempre più allo sfascio, anche per la decapitazione giudiziaria di una intera classe dirigente e per l’incertezza del diritto. I finti tecnici, che a ogni tornata elettorale corrono a candidarsi a cominciare da Dini, altro non sono che i consulenti e i commercialisti della grande impresa quando, come Susanna Agnelli o Letizia Moratti, non sono addirittura le sorelle e le mogli dei titolari della grande impresa. I tecnici, ormai da quattro anni, e cioè della distruzione del sistema politico e dei partiti, governano come possono e come sanno, inseguendo le pagliuzze, provocando su di essa polemiche demagogiche e confuse, ma trascurando le travi. Le travi infatti non possono essere rimossi dai tecnici, perché hanno origine politica e psicologica. Anche considerando il più alto livello di inflazione dell’Italia rispetto agli altri Paesi industriali avanzati, i nostri tassi di interesse sono da uno a due punti più elevati di quanto dovrebbero. E lo sono perché l’Italia è agli occhi dei mercati mondiali un Paese politicamente inaffidabile e instabile, simbolo di corruzione, mafia e ridicola presunzione. Ma un solo punto di tasso di interesse in più significa 20 miliardi all’anno di maggiore esborso e quindi di maggiore deficit dello Stato. 20-40 mila miliardi all’anno è dunque la tassa che i cittadini pagano alla “rivoluzione” italiana. I “politici ragionieri” tagliano spese e spremono i lavoratori (dipendenti e autonomi) ma in pochi giorni, nel 1994, il governatore della Banca d’Italia Ciampi, ha bruciato 80 mila miliardi nell’inutile tentativo di difendere la lira dalla speculazione internazionale, che si è accanita contro l’Italia come fa un virus contro un organismo già debilitato. La nostra moneta si è svalutata del 30 per cento, in poche ore il principale speculatore contro di essa, il finanziere americano Soros, ha guadagnato 1.600 miliardi di lire. I cittadini italiani sono diventati più poveri e soltanto le aziende esportataci hanno avuto una momentanea boccata di ossigeno. Queste sono le travi che è impossibile rimuovere senza il ritorno alla stabilità e alla democrazia. Nel frattempo, i governi che si sono succeduti hanno tutti realizzato le stesse politiche economiche, facendo arricchire i grandi gruppi finanziari e presentando il conto della crisi esclusivamente alla parte più indifesa dei cittadini. Le difficoltà economiche dell’Occidente sono ovunque serie. Ma soltanto l’Italia, tra i Paesi europei, ha sposato al 100 per cento la filosofia iper liberista cara alla destra americana. L’iper liberismo è diventato addirittura un dogma, propagandato senza spirito critico da tutti i mass media, accettato dal governo di destra nato dalle elezioni del 1994, come era naturale, ma anche dal governo sostenuto dalle sinistre che lo ha sostituito. Il ministro del Tesoro Dini e il presidente del Consiglio Dini, almeno in questo, si sono dimostrati assolutamente coerenti. Iper liberismo ha significato abbandonare il Mezzogiorno a sé stesso, senza preoccuparsi dei livelli esplosivi cui è giunta la disoccupazione. Iper liberismo ha significato criminalizzare prima e smontare poi il sistema di sicurezza sociale costruito dai socialisti e dal centro sinistra a partire dagli anni ‘60, riducendo continuamente l’assistenza sanitaria e pensionistica pubblica. Ha significato comprimere i salari reali e aumentare l’insicurezza per il posto di lavoro. Ha significato consentire lo smantellamento di quelle piccole aziende commerciali e artigiane che vengono messe in crisi dalla mac- china fiscale, dai supermercati e dai grandi gruppi, ma che costituiscono un freno alla disoccupazione, una preziosa rete di servizi e di aggregazione sociale. Iper liberismo ha significato privatizzare le aziende pubbliche non valutando la convenienza caso per caso, ma per pregiudizio ideologico. E’ accaduto così che le banche pubbliche sono state vendute a prezzi stracciati ai grandi gruppi intorno a Mediobanca e Fiat, aumentando il loro, strapotere e la concentrazione monopolistica. E’ accaduto e accadrà che nei settori chiave per la ricerca scientifica, la tecnologia e l’energia, l’Italia venga colonizzata dal capitale straniero, il quale chiude le attività meno lucrose senza preoccuparsi dell’occupazione, porta all’estero le attività di direzione e di ricerca più sofisticata, relega l’Italia nel ruolo di Paese di serie B. Ciò è particolarmente grave specialmente nel momento in cui l’immagine negativa dell’Italia nel mondo e il ciclone di tangentopoli sul sistema dei lavori pubblici hanno bloccato gli investimenti sul territorio nazionale, precipitando nella crisi l’edilizia, e privato nel contempo il Paese dei mercati internazionali sui quali si era affermato. L’impoverimento dell’Italia, l’aumento della disoccupazione, la compressione dei redditi da lavoro dipendente e autonomo risulta evidente a tutti nonostante la propaganda di regime sui giornali e sulle televisioni. E d’altronde, questa politica iper liberista all’americana non sarebbe stata possibile in Italia senza una sostanziale sospensione della democrazia e la delegittimazione del Parlamento, che ha lasciato mano libera ai sedicenti tecnici. Sino a che non sarà restaurata una piena democrazia sarà perciò difficile risalire la china. Dalla destra come dalla finta sinistra, continueranno a essere realizzate esattamente le stesse politiche economiche, che non risolvono, ma anzi aggravano la malattia. Non per caso, destra e finta sinistra si accusano reciprocamente di avere copiato il programma economico dell’altra. Le risse tra i due poli sulle tasse, sugli immigrati o su altro sono soltanto sceneggiate prive di sostanza. La sostanza è, ad esempio sulle tasse, che i ministri delle Finanze di Berlusconi e Dini, nei fatti, non si sono differenziati in nulla. La sostanza è, ad esempio sugli immigrati, che la legge Martelli risultava equilibrata, simile a qualunque altra normativa europea, e che soltanto l’inettitudine crescente dell’apparato dello Stato ha impedito di farla funzionare, cosi come impedirà di funzionare a qualunque altra legge. Ma la concorrenza per i lavoratori italiani non è rappresentata dagli extra comunitari che stanno in Italia. E’ costituita dagli extra comunitari che stanno al loro Paese. E che, poiché costano un decimo degli italiani, e poiché il capitale è senza frontiere e, attirano fabbriche e investimenti, a cominciare da quelli delle grandi aziende italiane finanziate con decine di migliaia di miliardi dallo Stato, prodigo nei loro confronti di interventi assistenziali mai denunciati da quella stessa stampa che si dimostra invece sempre pronta ad aggredire le spese sanitarie o pensionistiche. La deindustrializzazione dell’Italia proseguirà, sino a che il costo del lavoro decuplicato, come in tutti i Paesi avanzati, rispetto ai Paesi del terzo mondo non sarà compensato da un surplus di ricerca scientifica, tecnologica e cultura. Un surplus che soltanto la scuola e l’università, se non si trovassero in una crisi sempre più grave, potrebbero fornire ai giovani. I socialisti torneranno ad avanzare proposte analitiche e concrete quando torneranno a esistere. E tali proposte non potranno che assomigliare a quelle indicate dei socialisti europei. I quali respingono sia l’iper liberismo all’americana, sia lo statalismo di derivazione comunista e marxista. Seguono pragmaticamente una via europea che ha dato a tutti i Paesi dell’Unione, e anche all’Italia, il massimo di giustizia e di benessere mai raggiunto nella loro storia, e nella storia dell’umanità. Naturalmente, la propaganda dei mass media tende ad attribuire agli sperperi della prima Repubblica le difficoltà economiche, enfatizzando il debito pubblico accumulato dallo Stato. Osserviamo che non i militanti socialisti, bensì Prodi, Ciampi e Dini erano rispettivamente presidente dell’Iri, governatore e vice governatore della Banca d’Italia nella esecrata prima Repubblica, e che loro innanzitutto, oggi campioni del rinnovamento, avrebbero dovuto conoscere e denunciare la situazione, ove ciò fosse stato necessario. Ma la criminalizzazione del passato per nascondere gli errori del presente non regge alla eloquenza delle cifre e sempre meno inganna i cittadini. Dal 1983 al 1987, a esempio il governo Craxi ridusse l’inflazione dal 16 al 6 per cento. Nel contempo i salari reali, sia al netto che al lordo del prelievo fiscale, aumentarono più di qualunque altro Paese industrializzato. Il marco valeva, all’inizio del 1987, 700 lire, non oltre 1100; il dollaro valeva 1280 lire, non oltre 1550. Il debito dello Stato era di 766 mila miliardi, non due milioni di miliardi come adesso. D’altronde esso non era, come in parte non è neppure ora, una tragedia nazionale. Infatti si trattava in parte si tratta, di una partita di giro, ancorché viziosa. Lo Stato italiano è indebitato non con l’estero, come il Brasile o la Polonia, ma con i suoi stessi cittadini. Non abbiamo consumato risorse che mancavano, caricando di debiti i nostri figli. Semplicemente, lo Stato ha speso troppo, i cittadini hanno guadagnato quanto bastava per risparmiare molto e hanno pertanto prestato i soldi allo Stato. Quando si poteva e si doveva correggere ciò che era da correggere, comprimendo a poco a poco, senza drammi e allarmismi, il debito, la paralisi prima e il crollo poi del sistema politico hanno condotto la crisi. POLITICA ESTERA L’ Italia semplicemente non più politica estera e non esiste più come protagonista sulla scena internazionale, anzi, rischia di vedere il Nord riassorbito dall’area del marco e dalla egemonia tedesca, come ai tempi dell’impero austro-ungarico, e il Sud nell’area del sottosviluppo. L’Italia è rimasta incredibilmente assente nella crisi della ex Jugoslavia, che pure avrebbe dovuto riguardarla più di chiunque altro. Si sta isolando dall’Europa per evidente incapacità a rispettare i criteri troppo rigidi imposti dal trattato di Maastricht. I suoi governi ricercano in modo servile il consenso delle grandi potenze, e innanzitutto dagli Stati Uniti. Nel contempo, manifestano velleitarismi che li rendono ridicoli e inaffidabili persine presso gli amici o gli alleati tradizionali. Così è accaduto quando l’Italia, unico Paese occidentale, forse per accontentare i coniugi Ripa di Meana, ha duramente aggredito polemicamente la Francia per i pur criticabili esperimenti atomici. O quando il Presidente Scalfaro ha aspramente polemizzato con le Nazioni Unite e con i Paesi, Stati Uniti, che esitano a sostenere la spesa dell’organizzazione internazionale. D’altronde, non giova alla prudenza politica italiana la distruzione dei partiti politici democratici e quindi dei legami che i socialisti e i democristiani sviluppavano in modo proficuo rispettivamente con i partiti socialisti e democristiani europei, usando anche la credibilità e le relazioni personali dei loro leaders. CRITICAsociale ■ 5 10 / 2012 In questo quadro, appare patetica l’insistenza strumentale sulla necessità di avere un governo stabile durante il periodo della presidenza italiana all’Unione europea. E appare assolutamente ininfluente il ruolo del governo Dini. Non sarà possibile alcuna politica estera sino a che non si ritornerà alla politica, alla piena democrazia e alla stabilità. Tuttavia la storia corre in fretta e l’assenza dell’Italia in anni decisivi costituisce un danno irreversibile. Occorrerebbe rafforzare e riprendere la tradizionale politica che ci aveva resa un interlocutore affidabile e ascoltato. Siamo per la unità non soltanto economica, ma politica dell’Europa, e di una Europa dotata di forza militare autonoma. Siamo, all’interno dell’Europa, per il rafforzamento del ruolo caratteristico dell’Italia, un ruolo cioè di ponte verso i Paesi del Nord Africa e verso il Medi- terraneo. In questo quadro, siamo per un paziente lavoro di mediazione e di distensione tra Israele e mondo arabo, un lavoro che i socialisti italiani, amici dei laburisti israeliani come di Arafat, hanno condotto con risultati tali da dar loro un grande merito per gli storici accordi intervenuti. Siamo per un mondo pacifico ma multipolare. Per questo, pur nella amicizia e nella alleanza con gli Stati Uniti, non auspichiamo che la finanza internazionale insediata a Wall Street pianifichi e omogeneizzi tutti i continenti, imponendo ovunque il modello anglosassone del liberismo puro. Il modello europeo ispirato alle conquiste socialdemocratiche e allo Stato sociale, è diverso. Altrettanto, va accertata la diversità delle altre grandi culture, da quella cinese a quella islamica. s Stefano Carluccio ■ 1999 - NUMERO 1 L’IMBROGLIO DEL REFERENDUM Giulio Tremonti e Giuliano Urbani I l sistema politico italiano sta nuovamente girando a vuoto, sugli assi telemaici di troppi egoismi, di troppe “lungimiranti” astuzie, di troppe nostalgie interessate, di troppi giochi “a somma zero”. Non pare che il mandato principale affidato dal paese al Parlamento - regolare la transizione dal “vecchio” al “nuovo” - sia stato eseguito. E non solo. Mentre nel paese cresce la domanda di “governance”, dal palazzo se ne diminuisce l’offerta. All’opposto, la politica italiana sta implodendo nel minimalismo e nel “particularisme”. Due legislature, al posto di una. Sei governi in sette anni. Quarantaquattro partiti ammessi al finanziamento pubblico. Quindici gruppi parlamentari. Un governo reso possibile dal sostegno di dieci diversi raggruppamenti politici. Due repentini ribaltamenti delle maggioranze parlamentari scelte dagli elettori (si legge sul Mulino: “un’operazione di rara violenza politica ha abbattuto il governo Prodi”. E non solo!). Oltre ai numeri assoluti, ciò che in particolare impressiona è la proliferazione, l’evoluzione “darwinista” delle specie politiche: dai municipi-partito ai partiti-azienda, dai pubblici uffici capitalizzati come “futures” politici alle liste antropomorfe, dai movimenti personalpopolari, ai cartelli di potere, si stanno moltiplicando ed ibridando, su scala crescente, specie politiche di tipo “nuovo”. E’ così che il “laboratorio” italiano produce e presenta al paese una fenomenologia politica regressiva. Lo spettacolo di rappresentanze senza governo a fronte di governi senza rappresentanza, di deleghe senza convinzioni e di convinzioni senza deleghe. In particolare, più è forte la “vitalità” politica, più è vuota l’agenda politica. In rapporto di proporzione inversa, più si fa intenso il movimento delle specie politiche, più si fa alto il numero delle cose non fatte, accantonate, fatte male. E’ difficile pensare che tutto ciò sia nell’interesse del paese. Soprattutto in questa fase storica. In questi termini è stato ed è ancora straordinariamente e lucidamente significativo il messaggio inviato alle Camere dal Presidente Cossiga (“La richiesta di riforme istituzionali, di nuovi, moderni e più efficienti ordinamenti e procedure, non è quindi una richiesta solo “politica” o tanto meno “di ingegneria costituzionale”, ma è una richiesta civile, morale e sociale di governo, di libertà, di ordine, di progresso”). E’ essenziale, per un paese, avere un ordinamento politico forte, capace di produrre e di offrire una “governance” efficace. In assenza di questo fattore, un paese viene infatti sistematicamente e progressivamente spiazzato. E’ proprio questo il rischio che si presenta, nel caso dell’Italia. Un paese, l’Italia, che come è stato giustamente notato (da Giovanni Sartori), ha il peggiore sistema politico che ci sia in Europa e sembra destinato a deteriorarlo ulteriormente: nel “caos democratico” e nel non governo “post-moderno”, che consente a tutti gli altri poteri di rafforzarsi nelle forme oblique ed occulte dell’appropriazione indiretta dell’essenziale economico e sociale, lasciando alla “politica” solo i falsi obiettivi. In Europa i sistemi elettorali che hanno base “proporzionale” sono presenti in 13 paesi. Solo in 2 paesi, Inghilterra e Francia, i sistemi elettorali sono “uninominali-maggioritari”. Ma con due specifiche differenziali, di enorme rilevanza. In Inghilterra, è stata la storia (non il sistema elettorale) che, nel corso di almeno due secoli, ha normalizzato e semplificato la vita politica, rendendo così possibile il fascinoso e macchinoso funzionamento del sistema elettorale inglese. Un sistema che si colloca su sfondi feudali e si sviluppa in intensi rituali di tipo sportivo, articolati nella forma ancestrale e primitiva dell’”homo ludens”. Non per caso il sistema si chiama “First past the post”. In sintesi, è il consolidamento storico dell’Inghilterra che consente un elevato tasso di folklore elettorale. E’ la forza della storia che influisce sulla meccanica politica inglese. Non l’opposto. In ogni caso, proprio in Inghilterra, sua patria di origine, l’”uninominale maggioritario” è ora fortemente discusso, ed è in specie già molto avanzata ed elaborata la proposta di abbandonarlo, per passare ad un sistema a base “proporzionale”. A prescindere dalle “chances” politiche d’effettivo cambiamento, ciò prova il fatto che non si tratta di un modello “assoluto”, dell’”ottimo” politico per definizione. In Francia, il fattore-base (e/o il “prius”) del meccanismo costituzionale, è costituito dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica. L’accessorio (e/o il “posterius”), esclusivamente strumentale (e non costituzionale), è costituito dalla legge elettorale, contingentemente variabile (e storicamente variata) tra maggioritario e proporzionale. Non viceversa. E’ dunque evidente che “post-referendum” si avrebbe, in Italia, un sistema elettorale solo apparentemente e/o superficialmente simile ai sistemi inglese e francese. In realtà si avrebbe un sistema del tutto atipico, perché privo dei presupposti storici e politici, sistematici e costituzionali che hanno finora assicurato, ed ancora assicurano, la (relativa) funzionalità di quei sistemi politici, nel loro specifico contesto di origine. Avremmo, in Italia, il sistema inglese, senza la storia inglese; il sistema francese, senza il Presidente francese. In sintesi, “post referendum” saremmo gli unici in Europa ad avere un sistema che (forse) soddisfa le “ragioni” formali della tecnica elettorale, ma non certo le ragioni costituzionali della politica sostanziale. Un sistema che solo “tecnicamente”, e perciò solo superficialmente, può essere considerato “autoapplicativo”. In realtà, un sistema dimezzato che si limita a disciplinare come si viene eletti, ma che non disciplina affatto cosa possono (cosa devono) fare gli eletti. Dunque, un sistema più vuoto che pieno, basato come sarebbe su di un’”economia politica” illusoria. Sull’illusione “tecnica” che il mezzo (elettorale) possa assorbire e sostituire il fine costituzionale fondamentale (la “governance”). Un sistema che, è provato dall’esperienza di questi sette lunghi anni di politica “nuova”, lascerebbe la scelta del governo alla inventiva creatività e/o all’ambizione degli eletti, sottraendola agli elettori. In sostanziale violazione della logica e del patto costituzionale. Nè pare ragionevole ipotizzare che “post-referendum”, il sistema politico italiano possa trovare al suo interno la forza per risanarsi, per normalizzarsi, per semplificarsi. Infatti, delle due l’una: o si pensa che il referendum sia fine a sè stesso, perché la legge elettorale che ne deriva per abrogazione è già la legge “ottima”, in quanto radicalmente “uninominale-maggioritaria”; o invece si pensa al referendum solo come ad uno strumento dialettico sperimentale, come ad uno stimolo-provocazione, per arrivare poi ad una successiva e finalmente decisiva “riforma”. Entrambe queste due ipotesi sono presenti all’interno del movimento referendario. Un movimento che, in questi termini, si caratterizza per essere tanto numeroso quanto diviso. In realtà, si tratta di due ipotesi contraddittorie, che hanno in comune un solo dato: sono entrambe sbagliate. Dal referendum uscirà un sistema elettorale apparentemente “nuovissimo”, ma in realtà vecchissimo, perché postabrogazione la legge elettorale generale italiana sarà sostanzialmente identica a quella per l’elezione del Senato. Dunque, mentre si pensa di rimuoverla, si tornerebbe proprio alla “prima repubblica”. Ma con una fortissima variante peggiorativa e negativa. Infatti mentre il vecchio sistema era, nel bene o nel male (nel male certamente, almeno durante la seconda parte della “prima repubblica”) comunque un sistema strutturato, il “nuovo” sistema, senza partiti forti (come prima), senza storia (come in Inghilterra), senza un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo (come in Francia), è un sistema destinato a sicura progressiva destrutturazione. Nè sembrano razionali ipotesi “alla Rousseau”, basate sull’idea che il sistema elettorale “uninominale-maggioritario” abbia in sè la forza etica specifica necessaria per “educare” tanto le masse elettrici, quanto le “elites” all’onesta efficienza intrinseca al “nuovo” modello politico. Può forse anche essere così (e certamente potrebbe essere così) nel lungo andare. Ma, nel frattempo, il paese va a rotoli. NESSUNA “RIFORMA” DOPO IL REFERENDUM Dopo un referendum che sarà plebiscitato da un voto anti-partiti ed anti-politica, il sistema politico italiano si troverà in una situazione di tipo “day after”. “Post-referendum”, il Parlamento attualmente eletto sarà infatti sostanzialmente delegittimato. Per due ragioni: perché è stato eletto con la legge “vecchia”; perché non è stato capace di produrre una legge “nuova”. Nè è prevedibile che le cose possano andare meglio con il “nuovo” Parlamento. Le “istituzioni” italiane sono infatti molto diverse da quelle inglesi e francesi, la cui forza non è creata dall’”uninominale-maggioritario”, ma all’opposto consente l’”uninominalemaggioritario”. Il nuovo Parlamento italiano sarà eletto in forma discontinua e casuale, antropomorfa. Si avrà in Parlamento la proliferazione di guaritori, tribuni della plebe, atleti, “disk jockey”, giustizieri, visionari, cuochi, sciamani, etc. Dunque un Parlamento debole perché composto ed anarchicamente “dominato” da queste personalità “forti”. Il Parlamento “nuovo” sarà dunque, a sua volta, incapace, oltre che di esprimere una “governance”, di votare una nuova, e finalmente efficiente, legge elettorale al servizio del paese. A maggior ragione, è infine da escludere che “post-referendum” tanto il Parlamento attualmente eletto, quanto il “nuovo” Parlamento, possano addirittura varare una efficace riforma della Costituzione (che non si fa con maggioranze finzionali, basate su forti “leverage” elettorali, come sono quelle espresse dall’”uninominale-maggioritario”). In questo contesto, anche il nuovo Presidente della Repubblica sarà eletto in condizioni di assoluto e drammatico vuoto politico. Proseguirà dunque lo stato di fallimento della politica, che, dopo il tracollo della “prima repubblica”, poteva legittimarsi solo costruendo regole nuove. In sintesi, lo sperimentalismo referendario non sembra capace di spingere il paese verso un grado accettabile di forza e di stabilità politica. Sembra piuttosto destinato ad immetterlo in un ciclo irreversibile di progressiva ingovernabilità. In questi termini, è davvero difficile sostenere che la soluzione “ottima” possa essere costituita dal prossimo referendum “pro maggioritario”. Infatti, un referendum di questo tipo (a) mirato alla trasformazione radicale del sistema elettorale italiano in sistema “uninominalemaggioritario”, (b) e magicamente identificato come un bene in sè (con indifferenza rispetto al fatto che si tratta di un sistema minoritario in Europa ed in via di superamento proprio nella sua terra di origine, l’Inghilterra), (c) in- 6 ■ CRITICAsociale fine caricato di una fortissima valenza negativa, simbolica e propagandistica, anti-partiti ed anti-politica (e proprio per questo destinato ad essere plebiscitario, (d) porta in realtà con sè per le ragioni che sono state esposte sopra - il rischio non marginale di un’accelerazione del processo degenerativo in atto all’interno della politica italiana. In particolare se è vero che la conservazione “tout court” del sistema elettorale attuale (che scinde sistematicamente la rappresentanza dal governo) è in ogni caso inaccettabile, è però anche vero che inserendosi all’interno (di quel che resta) del sistema politico italiano, la radicalizzazione maggioritaria prodotta dalla soluzione referendaria non costituisce affatto l’”ottimo” politico e neppure un accettabile “second best”. Non è certo un caso che sui limiti della struttura puntiforme caratteristica dell’”uninominale-maggioritario”, sui rischi di immoralità ed inefficienza tipici di un sistema elettorale così destrutturato, sulla artificialità dei risultati casualmente possibili collegio per collegio, si sia espressa con forza la parte maggiore e migliore del pensiero politico democratico, da Gobetti a Turati, da Salvemini a Sturzo (vedi n° 8 di CRITICA SOCIALE). All’opposto, non era forse Giolitti che le elezioni con il proporzionale “non le sapeva fare”? L e recenti elezioni amministrative, oltre al significato locale, hanno fornito alcuni segnali politici di un certo interesse. Una sostanziale tenuta della coalizione di governo e una presenza non più infinitesimale dei socialisti. Sarà per la debolezza dei candidati o per il minore radicamento di “Forza Italia” nel territorio, ma è certo che il Polo di centro destra ha subìto una battuta d’arresto rispetto alla precedente tornata elettorale amministrativa, nella quale aveva avuto un successo. Il movimento di Di Pietro ha marcato la sua presenza, mentre l’UDR, come è stato rilevato da tutti i commentatori, ha conquistato voti nelle zone controllate da Mastella, però ha raccolto pochi consensi al Nord. I DS, come già in altre occasioni, segnano il passo. Cresce ulteriormente l’astensione (più per le provinciali che per le comunali) che nelle elezioni provinciali di Roma ha toccato il 57%. Questo la dice lunga sulla partecipazione dei cittadini alla politica della cosiddetta “seconda repubblica” e sull’efficacia del sistema elettorale maggioritario. Si tratta infatti di un dato costante, in continuo aumento dal 1993 a oggi. Un forte astensionismo cominciò a manifestarsi proprio a Milano, in occasione delle elezioni amministrative del “dopo Tangentopoli”, in particolare al ballottaggio tra i due candidati sindaci. Si disse allora che poteva essere un fenomeno limitato appunto al secondo turno elettorale (tutti coloro che non sono soddisfatti dei due candidati in lizza non votano o votano scheda bianca). Non era invece un fatto episodico perché il partito del “non voto” ha continuato a crescere molto di più di tutti gli altri partiti. Anche per l’ultima tornata le spiegazioni e le giustificazioni dell’astensionismo sono state molte. C’è chi attribuisce la minore partecipazione al voto all’eccessivo numero dei partiti. Altri al fatto che la “transizione” dalla prima alla seconda repubblica è ancora in corso, e quindi permane la confusione in una parte di cittadini che non trovano più gli antichi riferimenti partitici e non vogliono o non sanno sce- 10 / 2012 L’ULTIMA “CHANCE” I l referendum del 1993 è stato una geniale intuizione “demolitoria”. È naturale e tipica del resto, in strumenti di questo tipo, proprio la prevalenza della “pars destruens” sulla “pars construens”. Ugualmente demolitorio, per le ragioni esposte appena qui sopra, sarà il referendum del 1999. Reso solo più equivoco dal “curiosum” per cui un referendum presentato come anti-partiti ed anti-politica sembra essere “sponsorizzato” proprio da numerosi partiti. E anche da vari ambienti, oscillanti tra avventurismo e cinismo, forse nell’illusione che “Plus ça chance, plus c’est la même chose”. In realtà, c’è un tempo per la passione e c’è un tempo per la ragione. C’è un tempo per la protesta e c’è un tempo per la proposta. Questo tempo è arrivato e, purtroppo, è un tempo molto breve. Tra un referendum ed una riforma, la differenza è in realtà la stessa differenza che c’è tra un grimaldello ed una chiave. Il problema non è quello di entrare in una casa che si sente “altrui”, ma piuttosto quello di potere entrare in una casa che si vuole sia da tutti sentita come “propria”. La soluzione non è neppure costituita dall’ipotesi di riforma appena abbozzata dal Governo. Una ipotesi ibrida che (purtroppo) sin- tetizza i difetti, senza pregi, dell’universo delle ipotesi in circolazione: manca programmaticamente l’obiettivo elementare di ogni legge elettorale (che vinca chi ha più voti), non garantisce rappresentanza, spinge ad aggregazioni elettorali casuali (le “ammucchiate”), non produce governabilità. Solo una riforma formulata ed articolata sulla base del modello tedesco, costituisce una alternativa, tanto rispetto al vecchio regime, quanto al referendum. Entrambi incapaci di soddisfare l’interesse del paese alla “governance” e di offrire una prospettiva riformatrice. Siamo consapevoli del fatto che, formulando questa proposta, si va in “controtendenza”, perché il referendum è stato configurato e viene popolarmente percepito come la metafora moderna del cambiamento positivo, attiva all’interno di un meccano mentale che - si è già notato - la valorizza come il bene rispetto al male, come il nuovo rispetto all’antico, come l’onesto rispetto al disonesto, come il popolo rispetto ai partiti, come l’efficiente rispetto all’inefficiente. E che non sia così sarà comunque evidente, appena dopo il referendum. Basterà infatti aspettare poco tempo, per verificarlo. Quando, sparato l’ultimo colpo e finalmente eliminati i “nemici” (la “partitocrazia”, la “politica”), sarà evidente che la “vit- ■ 1998 – NUMERO 9 DI MAGGIORITARIO C’È L’ASTENSIONISMO Critica Sociale gliere tra le formazioni sorte in questi anni. C’è chi vede nella indifferenza crescente verso il voto una conseguenza della fine della contrapposizione ideologica che spingeva un tempo i cittadini alla “guerra elettorale”. Tutte le analisi e i commenti critici evitano però di considerare che il calo della partecipazione al voto coincide con l’abbandono del sistema proporzionale. Il sistema maggioritario adottato per le elezioni politiche del 1994, sia pure dopo il referendum e, prima ancora, quello per le elezioni dei sindaci, non ha ridotto il numero dei partiti e dei movimenti che scendono in lizza, ed ha scoraggiato una parte dei cittadini dall’andare a votare. Ciononostante da quasi tutte le parti si invoca la necessità di introdurre meccanismi elettorali ancora più “maggioritari”. Beninteso le modalità di elezione dei sindaci presentano aspetti positivi: l’elettore riconosce il candidato e può fare una scelta diretta. Diverso è il caso delle elezioni politiche: l’elettore non può scegliere il “leader” ed è costretto a votare tra candidati del collegio che spesso non conosce. Alla fine la maggior parte degli elettori sceglie sulla base dell’appartenenza. Tanto varrebbe allora ritornare ad una proporzionale corretta, con sbarramento e premio di maggioranza e pensare alla elezione diretta del Capo dello Stato. Le forze politiche potrebbero coalizzarsi per concorrere al premio di maggioranza (per garantire la “benedetta” stabilità) attorno ad un “leader”. I cittadini determinerebbero la composizione del Parlamento e sceglierebbero con elezione diretta il Presidente della Repubblica, garante della democrazia e dei suoi principii. Si andrà certo in altra direzione e noi siamo i primi a non farci illusioni. ANCHE UN SOCIALISTA IN BALLOTTAGGIO I n quel di Gorgonzola un ex sindaco socialista, Osvaldo Vallese, ha “sforato” la cortina del maggioritario e ha avuto accesso al secondo turno. È l’emblema di un risultato che ha avuto qua e là successi significativi (11% a Brescia) e una media che supera il 5% alle comunali. Probabilmente questo dato elettorale è il prodotto di un “ritorno” di una parte dei voti socialisti che erano andati ad altre liste o al partito dell’astensione. Non è ancora il frutto di una politica che non ha, come si dice oggi, “visibilità” e che ha perso molti contatti con “il territorio”, dopo il “tornado” di Tangentopoli che ha penalizzato il Partito Socialista e i socialisti. Tuttavia è un dato sul quale riflettere e far riflettere. La prima reazione che suscita è una voglia di unione tra le diverse famiglie socialiste. Le occasioni, politiche ed elettorali, non mancheranno, per cercare i punti di contatto tra formazioni che anche nelle ultime elezioni si sono presentate in schieramenti differenti. La ripresa socialista si deve, in questa occasione, toria” non ha portato con sè gli effetti miracolosi e salvifici attesi e promessi. Non ci vorrà molto tempo, per verificare che, nonostante le promesse, sono ulteriormente ed enormemente cresciuti la discrezionalità nell’esercizio del “mandato” politico, la deriva “antropomorfa”, il tasso complessivo di ingovernabilità del paese. Allora, dopo quelli del 1993 e del 1999, verrà certamente un “terzo referendum”. Ma a rovescio. Quando non ci saranno più i vecchi “nemici”, cui attribuire le colpe, allora saranno i cittadini a capire che, ancora una volta, sono stati strumentalizzati: chiamati solo a fare il “political dressing” di un corpo in decomposizione. Sempre nella vecchia logica, per cui non è la politica al servizio dei cittadini, ma i cittadini al servizio della politica, per “nuova” che questa sia. Saranno allora (ed a ragione) i cittadini ad individuare i “nuovi” colpevoli proprio nei “nuovi” politici. E non sarà la rivoluzione. Sarà peggio. Sarà la dissoluzione. L’astensionismo dal voto, che in Italia non è silenziosa fiducia nel sistema, ma all’opposto disgusto per il sistema, si trasformerà infatti in “secessione dal voto”. E di qui in secessione dagli ideali e dall’idea stessa di nazione e di patria. s Giulio Tremonti e Giuliano Urbani allo SDI, che ha coagulato il ritorno di parte dei voti socialisti. Ma ci sono altri voti che possono rientrare, con l’aiuto di tutti i socialisti oggi attivi, per ricostruire una casa comune. Un’altra considerazione da fare è che dove i socialisti hanno presentato candidati forti il successo è stato maggiore. Bisogna avere molta pazienza e molta umiltà per contribuire a far rinascere una forza socialista che non sia marginale. Le condizioni oggi forse non ci sono ancora, sia perché i sistemi elettorali sono penalizzanti per le forze minori, sia perché la campagna infamante condotta nei confronti del PSI ha lasciato segni profondi nell’opinione pubblica, sia perché, infine, un intero gruppo dirigente è stato eliminato dalla scena politica e Craxi tolto di mezzo come “capro espiatorio” di un sistema da tutti praticato. Ci sono tanti socialisti “senza tessere” che sarebbero pronti a dare una mano per ricostruire. Bisogna offrire loro spirito unitario, obbiettivi politici e sociali, motivi per riprendere la lotta. Senza dimenticare il passato del socialismo italiano, che è un pezzo di storia d’Italia di ieri e di oggi, è necessario costruire il futuro agendo con gli stessi metodi e con gli stessi principi che animarono i pionieri del riformismo, sia pure essendo consapevoli che è mutata la realtà economica e sociale nella quale ci muoviamo. Occorre dare rappresentanza a chi non ce l’ha (e sono i nuovi soggetti dell’economia, piccoli produttori, “le partite IVA”); bisogna offrire solidarietà a chi viene emarginato nella società della globalizzazione (e sono tanti: gli anziani, i sottooccupati, i disoccupati); bisogna trovare nuove forme di “welfare” nell’epoca dello smantellamento del “welfare state” (le “società di mutuo soccorso” non erano forme private di assicurazione per la salute e la vecchiaia, promosse dal movimento dei lavoratori?). Tutto questo è molto difficile, naturalmente, con pochi mezzi e tanta discriminazione, ma perché non tentare di ricostruire in questo modo? In ogni caso qualcosa resterà, se questo sarà anche uno strumento per l’unità dei socialisti. s CRITICAsociale ■ 7 10 / 2012 ■ 1999 – NUMERO 1 IL NEO-CLIENTELISMO Critica Sociale S ono mesi e mesi che viene sistematicamente ripetuto: con la vittoria del “sì”, e con la “nuova” legge elettorale che ne deriverà, avremo finalmente un “ordine nuovo”: vero bipolarismo, vere maggioranze parlamentari, governi più stabili, drastica riduzione dei partiti (il cd. bipartitismo), in definitiva una più forte sovranità dei cittadini. Ma le cose stanno realmente così? Purtroppo no, e basta poco per verificare che l’eventuale nuovo sistema elettorale non potrebbe produrre nessuno di questi risultati. E’ abbastanza logico presumere che, al momento delle elezioni, siano in gara due sole “coalizioni”. Per una ragione abbastanza semplice: nessuno dei partiti attuali avrebbe possibilità di vincere nei collegi elettorali, ottenendo da solo percentuali mediamente non eccedenti il 30%. Ma di quale unione si tratterebbe? Per l’appunto, di un’unione puramente “elettorale”. Dunque, un’unione opportunistica, strumentale, prevedibilmente ricattatoria (io controllo l’x per cento dei voti; se non candidate me, passo al campo avversario e voi perdete il seggio). In ogni caso, un ‘unione del tutto provvisoria: oggi alleati, ma domani in Parlamento, di nuovo ciascuno con le sue truppe (per contare di più nella formazione di governi e nelle decisioni legislative quotidiane). In sintesi: un bipolarismo puramente, semplicemente, dichiaratamente, geneticamente elettoralistico. Che finirebbe per configurarsi come l’ambiente di coltura ideale del clientelismo parlamentare. Con fazioni di tutti i generi, ma sempre “decisive” per la scelta delle candidature. Fazioni partitiche, ma anche localistiche, sindacali, clientelari. Forse, dai bussolotti del sistema post-referendario potrebbe anche uscire una qualche maggioranza numerica. Ma non certo una maggioranza politica. Verso questa ipotesi negativa spingono poche considerazioni, di buon senso. Può essere opportuno ignorare certe incredibili “simulazioni” apparse in questi giorni sui giornali. Lasciamole perdere, per l’assoluta inattendibilità che le contraddistingue (come si fa, infatti, ad immaginare una distribuzione dei voti partendo dai risultati del 1996, quando è chiaro che, col nuovo sistema, cambierebbero inevitabilmente anche candidati e comportamenti elettorali, cambierebbe cioè tanto l’offerta quanto la stessa domanda politica). Facciamo invece un ragionamento più serio. Per chi voterebbero gli elettori, con il nuovo sistema? Solo e unicamente per i candidati del proprio collegio, con la “logica”, precedentemente descritta, di formazione di candidature manipolate “collegio per collegio”. Dunque, non per il governo. Certo, in sede elettorale il numero delle “coalizioni” dei contendenti si abbatterebbe a due soltanto (o giù di lì), per le ragioni di convenienza elettoralistica esposte appena qui sopra. Ma, dopo le elezioni? Il numero dei partiti, delle fazioni e dei partitelli, finirebbe invece con l’aumentare a dismisura in sede parlamentare, proprio per le citate ragioni genetiche che accompagnerebbero il nascere di alleanze elettorali, all’insegna esclusiva dell’opportunismo momentaneo. Allora, dove sarebbe il guadagno per i cittadini? Si avrebbe solo il passaggio dalla padella (attuale” alla brace dei mille gruppuscoli, incentivati e non scoraggiati proprio dalle peculiarità del nuovo maggioritario secco. In sintesi, non ci sarebbe per i cittadini alcun autentico incremento di “sovranità elettorale”. Infatti, quando la scelta elettorale nei collegi uninominali viene presentata come “scelta dei governi”, ciò che in realtà si fa è solo creare un’illusione: in ragione della logica di formazione “collegio per collegio” delle coalizioni elettorali, finirebbe infatti per sprigionarsi il “peggio del peggio” della politica italiana di sempre: opportunismo, cinismo, ricatti, trasformismo, clientelismo, campanilismo. Francamente tutto ciò è un po’ diverso dalla nuova cittadinanza europea che gli italiani hanno invece il diritto di avere. Per cambiare, è necessaria una ulteriore riflessione. s ■ 1999 - NUMERO 1 CON IL SISTEMA TEDESCO, RAPPRESENTANZA E STABILITÀ Critica Sociale I In Italia, dal 1993 in poi abbiamo via via negativamente sperimentato forme atipiche e/o improprie di bipolarismo. È bene che ce ne rendiamo conto fino in fondo: il “bipolarismo dei 44 partiti” così come “l’alternanza dei ribaltoni ricorrenti” fino al “maggioritario privo di maggioranze capaci di governare” sono solo le caricature di una politica moderna. Che non può essere prodotta neppure dal referendum. In questi termini, per ricostruire l’attuale sistema politico italiano, le priorità sono le seguenti: a) ridurre la frammentazione della rappresentanza politica, attraverso disincentivi istituzionali (barriere di accesso) che siano tanto realistici quanto equi; b) garantire tuttavia l’elezione di un parlamento che sia ragionevolmente rappresentativo delle principali forze politiche presenti nella società italiana. Non si tratta di “rappresentare tutti” (soluzione velleitaria e controproducente, perché incentiverebbe pericolosamente la polverizzazione politica). Si tratta piuttosto di evitare che nel Parla- mento siano “assenti” le diversità principali, le diversità che contano. Perché, se no, il deficit di rappresentatività minerebbe alla base la legittimità stessa del Parlamento. c) favorire la formazione di una moderna competizione bipolare fra due coalizioni alternative di governo, caratterizzate dalla netta prevalenza di orientamenti programmatici, che siano al contempo moderati e costruttivi, consapevoli degli interessi che entrambe le alleanze devono porre in testa ai rispettivi programmi; d) favorire e premiare la formazione di governi che siano quanto più possibile politicamente responsabili verso i propri elettori, nell’osservanza degli impegni programmatici assunti nelle varie occasioni elettorali. All’opposto, scoraggiare e punire la formazione di governi “parlamentari” alternativi rispetto a quello eletto dal popolo. In questa logica, la proposta formulata ed articolata qui di seguito si basa essenzialmente sul modello applicato nella Repubblica Federale Teedesca. La struttura portante del modello tedesco è data, come già notato, dal ricorso a un criterio di rappresentatività popolare basato sulla proporzionale. In base a questo criterio vengono eletti i membri della “camera bassa”: metà attraverso lo scrutinio di lista (senza preferenze) e metà attraverso collegi uninominali su base regionale. A correzione della logica proporzionalistica e parlamentare intervengono due importanti istituti. Il primo è quello della “clausola di esclusione” dal computo di assegnazione dei seggi di tutte le liste (partiti) che non superano la soglia del 5% dei voti validamente espressi. Il secondo è quello della cosiddetta “sfiducia costruttiva”. Un istituto che, consentendo al Parlamento di sostituire un governo soltanto attraverso l’elezione di un altro e nuovo governo, combatte nel modo più efficace eventuali “vuoti di potere” che si potrebbero produrre nella condizione della politica nazionale. Riassumendo, il modello tedesco è in questo modo capace di centrare congiuntamente tre fondamentali obiettivi politici: il massimo di rappresentatività parlamentare; il massimo di stabilità governativa; il minimo di frammentazione delle forze politiche (compatibile con la salvaguardia del pluralismo democratico). In Germania, nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo modello ha funzionato bene. La nostra proposta è semplicemente quella di introdurre in Italia un complesso di istituzioni che, compatibilmente con la nostra storia politica, con la nostra realtà sociale, con la nostra Costituzione, consentano comunque di produrre un pari effetto di “governance”. La proposta che segue ha, in specie, in coerenza al modello tedesco, tre caratteristiche specifiche essenziali: a) evita ogni eccesso di polverizzazione e/o di frazionismo politico, lasciando tuttavia ampio spazio alle diversità. L’oggetto è principalmente ottenuto con la clausola di sbarramento al 5%: b) restituisce lo “scettro” al popolo e garantisce il “bipolarismo”. Infatti, nell’economia di questa ipotesi, è il popolo che vota direttamente le coalizioni che si candidano al governo. In specie, è il popolo che vota sui programmi di governo, sul capo del governo e sulle squadre di governo. In caso di fallimento, scatta un effetto automatico: il governo cade e si rivota, senza possibilità di soluzioni “parlamentari” alternative. A rigore, per produrre costituzionalmente questo effetto basterebbe che la nuova legge elettorale sia chiara e non “mista” come l’attuale (nel ‘94 e nel ‘98 i “ribaltoni” sono stati infatti “giustificati” proprio in base al carattere non chiaro della legge elettorale). Una legge elettorale chiara è infatti di per sè pienamente sufficiente per generare l’obbligo costituzionale di scioglimento del Parlamento (come è stato scritto dalla migliore dottrina). Ma è evidente che, per varie ragioni, questo elemento sistematico può essere considerato insufficiente. Per questo, si prevedono due ulteriori meccanismi di tutela della sovranità popolare, specificamente costituiti da: 1. revoca del finanziamento pubblico ai partiti politici che votano o sostengono maggioranze “ribaltiste”; 2. preclusione agi stessi partiti della possibilità di presentarsi con gli stessi simboli e contrassegni alle successive elezioni. In particolare, pare ragionevole assumere che si tratti di strumenti non solo politicamente opportuni (per dare al paese un messaggio di garanzia in ordine al valore decisivo del voto popolare, non impunemente espropriabile da parte dei partiti), ma anche costituzionalmente legittimi. Nè varrebbe sostenere qualcosa di diverso, focalizzando la lettura del testo costituzionale solo sulle norme che garantiscono le “libertà” parlamentari. Infatti il testo costituzionale, come tutti i testi normativi, va letto nel suo insieme, e non per parti staccate. Tra l’altro, neppure avrebbe senso sostenere che la legge elettorale non è la sede “adatta” per introdurre questi istituti. Per due ragioni. Perché è comunque una legge. Perché è anzi una legge che applica la Costituzione (e perciò non una legge qualsiasi). Dunque, se il suo contenuto è sostanzialmente conforme alla Costituzione (nel caso, lo è), la legge elettorale è lo strumento legittimo per introdurre strumenti del tipo qui in oggetto; c) non allontana ulteriormente il popolo dalla politica. La nuova meccanica elettorale è infatti assolutamente semplificata: una scheda semplice, un solo giorno di votazione, minime possibilità di broglio. E’ così che si evitano molte di quelle complessità “tecniche”, rituali e/o artificiali, molte di quelle “sorprese”, che sono state e sono causa di crescente repulsione dei cittadini per la politica. s 8 ■ CRITICAsociale 10 / 2012 ■ 1996 – NUMERO 5 LA PADANIA CHE NON C’È Antonio Venier Da una analisi economica delle realtà regionali del Nord si comprende come il programma di Bossi non abbia le gambe per camminare. C onviene ricordare che nazione e Stato non sono la stessa cosa. Infatti esistono alcuni Stati che comprendono più di una “nazione”: è il caso tipico delle federazioni o confederazioni, ed in passato dagli imperi. Invece vi sono “nazioni” che non sono organizzate come “Stato”, oppure che sono suddivise fra più di uno stato indipendente. Per farla breve, diciamo che gli Stati esistenti attualmente sono quelli che appartengono all’ONU (qui il termine “nazioni” è totalmente fuori luogo). La definizione di nazione è più complessa: possiamo considerare Nazione, “...una comunità umana storicamente evoluta, caratterizzata dall’unità del territorio, dalla vita economica, dalla prospettiva storica, dalla lingua e dall’atteggiamento mentale quale risulta dalla cultura” (rif. S. Salvi, “Le nazioni proibite”, Firenze 1973, pag. VII - La definizione è attribuita a Stalin). Ricordiamo che lo stato unitario era stato articolato in province, sul modello dei dipartimenti francesi, in base ad un criterio razionale. Le “regioni” risultanti dal raggruppamento delle province sono risultate molto disomogenee per dimensioni, popolazione, interessi economici, etc. In particolare appare insostenibile mantenere l’unità “regionale” delle attuali Lombardia ed Emilia-Romagna. Infatti nel primo caso sono messe insieme le province industriali del Nord-Ovest (Varese e Como), in fase di rapida decadenza, con quelle padane e quelle orientali, di vocazione agroalimentare e con industrie piccole e medie in progresso. Per inciso, osserviamo che uno dei più duraturi confini è stato quello dell’Oglio/Adda, fra il dominio veneziano ed il Ducato milanese. Altra regione formata con criteri artificiosi è certo l’Emilia-Romagna, nata solo come Emilia. Anche qui profonda disomogeneità fra gli ex ducati dell’Ovest e la Romagna ex dominio papale. Per finire l’esemplificazione, citiamo il Friuli-Venezia Giulia: la Venezia Giulia non esiste più da 50 anni, ma la città di Trieste, totalmente estranea al Friuli, ne è diventata il capoluogo. Inoltre osserviamo che le grandi città in un ordinamento federale ragionevole, per es. di tipo tedesco, debbono essere considerate come entità separate. In Italia questa è certamente la condizione di Milano, Torino, Roma e Napoli. In conclusione, una ipotetica federazione italiana dovrebbe razionalmente articolarsi su circa 30 “regioni” o “cantoni”, in luogo delle 20 attuali, con popolazione e superficie non enormemente diverse. Non si riesce a comprendere quale criterio razionale possa sostenere la proposta di “macro-regioni”, da taluni formulata. Infatti macro-regioni per es. come quelle utilizzate dalle statistiche europee richiedono certamente una suddivisione in province, e quindi ripropongono gli inconvenienti dello stato centralizzato attuale. Ovviamente del tutto assurda, anzi a parere nostro pura farneticazione, una proposta di tre enormi macro-regioni come Nord, Centro, Sud/Isole, ciascuna con dimensioni demografiche superiori alla media degli stati dell’Europa. Poiché tuttavia quest’ultima proposta sembra essere la base di un ipotetico progetto autonomista ed indipendentista denominato Padania; dedicheremo un esame particolare all’argomento. A parere nostro, la suddivisione sia dell’Italia che degli altri paesi europei in diversi stati indipendenti è impossibile nel caso di preesistente stato unitario, e difficile anche nel caso degli “Stati” costituiti artificiosamente (Jugoslavia, Cecoslovacchia) e degli imperi (Urss). Poiché da tempo si parla della Padania libera come obiettivo desiderabile per una parte degli italiani, consideriamo come potrebbe essere questo ipotetico Stato. Appare evidente che non esiste, né mai è esistita una “nazione padana” od una “nordnazione”, denominazione questa ancora più fantasiosa. Pertanto dobbiamo considerare una ipotetica “Padania” come una formazione statale, comprendente una parte della nazione italiana. Ricordiamo che fino a pochi anni fa la nazione tedesca era organizzata in tre Stati indipendenti, cioè Repubblica Federale, Repubblica Democratica ed Austria, ora ridotti a due. Quindi è certamente pensabile una struttura politica italiana basata su diversi stati indipendenti: si tratta in sostanza della condizione precedente il 1861. La “Padania” qui ipotizzata sarebbe costituita dalle attuali regioni dell’Italia Nord-Occidentale e Nord-Orientale: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, EmiliaRomagna. La popolazione risulterebbe di circa 25 milioni, cioè quella di uno Stato europeo medio/grande. Nella Padania resterebbero incluse tre regioni a statuto speciale, di cui almeno una con non sopite velleità autonomiste o separatiste. L’omogeneità etnica, linguistica, storica della “Padania” non risulterebbe diversa da quella attuale dell’intera Italia. In Padania troveremmo dialetti diversissimi, e pure sensibilmente differenti tradizioni e storia. Abbiamo ricordato prima il secolare confine, e le altrettanto secolari guerre, fra Venezia e Milano. Ma lasciamo da parte storia, lingue e tradizioni, e passiamo all’economia. Anche in questo caso, si va da un estremo all’altro, non meno che nell’intera Italia. Infatti Piemonte e Liguria sono regioni in piena decadenza economica, caratterizzate dalla presenza di grandi industrie assistite con prodotti di bassa tecnologia (Fiat, Olivetti, aziende liguri ex PP.SS.) prevalentemente diretti al mercato interno (italiano, non della Padania!). La Lombardia presenta tutta una gamma, che va dalle province del Nord-Ovest già fiorenti per industrie di alto livello ed ora in piena decadenza, alla florida attività agro-alimentare delle zone padane, ed alla vivace attività industriale delle medie e piccole industrie delle province orientali e meridionali. L’Emilia ed il Veneto sono più omogenei, con forte agroalimentare ed aziende industriali medio/piccole. Tuttavia in nessuna parte di Padania troviamo industrie di alta tecnologia, tali da poter spingere verso una prosperità almeno sul medio termine In conclusione, la Padania sarebbe in una condizione di squilibrio già attualmente, non dissimile da quella che i “filopadani” rimproverano all’Italia. Infatti il Veneto, la Lombardia orientale e meridionale (Brescia, Bergamo, Mantova, Cremona) e l’Emilia Romagna dovrebbero sostenere con trasferimento consistente di risorse, diciamo brutalmente “mantenere”, le regioni in decadenza o già economicamente dissestate (Piemonte, Liguria, Lombardia Nord). Per finire, resta il problema del sostegno al Trentino-Alto Adige, che è ora a carico dello Stato italiano. Aggiungiamo a questo quadro una ulteriore considerazione; la parte prospera della Padania si sostiene prevalentemente, oltre che sull’agro-alimentare, sulla produzione delle industrie di piccole e medie dimensioni. Questa categoria di industrie può dare consistenti utili sul breve periodo, ma è molto fragile sul medio/lungo termine. Infatti questa categoria di aziende industriali ha gravi limitazioni intrinseche, che sono troppo spesso dimenticate, nell’entusiasmo per il facile e rapido profitto. Queste limitazioni sono la modesta capacità di innovazione tecnica, la forte dipendenza dal credito e dai mercati di esportazione (rapporti di cambio), ma soprattutto l’impossibilità per le piccole/medie industrie di operare nel campo dell’alta tecnologia (aeronautica, nucleare, grande elettronica, trasporti). La prospettiva più seria per una ipotetica Padania, dal punto di vista economico industriale, sarebbe verosimilmente quella di produttore di beni di consumo di basso o medio valore, e di sub fornitore per la grande industria, necessariamente straniera. Una prospettiva piuttosto somigliante alla condizione presente dei paesi asiatici e dell’Est europeo, quindi non molto gratificante già al presente, e molto oscura sul medio/lungo termine. Vi sarebbero da prendere in considerazione numerosi altri argomenti importanti, quali forze armate, ripartizione del debito pubblico, banca centrale e riserve valutarie, e molto altro. Ma ci sembra di avere già preso troppo sul serio la Padania più o meno indipendente. Questa è, a nostro avviso, nel migliore dei casi un raggiro ai danni di pagatori creduli (speriamo di oltralpe), nel peggiore una beffa ai danni degli italiani del Nord. Invece il discorso su di una ipotesi di riforma federale è certamente più serio, anche se non semplice. Questo discorso, qui soltanto accennato, meriterebbe un approfondimento, sia dal punto di vista della fattibilità, che da quello dei presunti benefici attribuiti al federalismo. s ■ 1996 - NUMERO 8 LE “MANI PULITE” SULLE PRIVATIZZAZIONI Antonio Venier 1. Osserviamo che fra la messa in atto dell’operazione “privatizzazione” (autunno 1993) e l’attacco alla classe politica di Governo è trascorso circa un anno. In questo tempo i mezzi d’informazione hanno insistito sull’argomento del collegamento fra le aziende dello Stato ed i finanziamenti illeciti ai partiti politici. 2. Le privatizzazioni sono quindi iniziate effettivamente dopo avere lungamente preparato la cosiddetta opinione pubblica. Il passaggio a pro-prietari privati delle aziende delle Partecipazioni Statali (PRSS.) è stato presentato come il principale mezzo per impedire il finanziamento dei “politici” (partiti, spese elettorali, etc.) fuori dalle regole di legge. 3. In Italia si discute insistentemente e confusamente di privatizzazioni già dal 1990. Ricordiamo una proposta del Governo (1991) oltre che diversi disegni di legge e rapporto di Commissione (1990). Nel 1991 era emersa chiaramente la mancanza di una seria finalità di utilità pubblica per le privatizzazioni oltre che grande confusione sui possibili modi di eseguirle. 4. Non vogliamo qui esporre più dettagliatamente le promesse e le diverse opinioni sull’argomento. Ci limitiamo all’osservare che la giustificazione presentata era in sostanza la superiorità del “privato” sul “pubblico”, e l’opportunità di avere una fonte di entrate straordinarie per l’Erario. Argomentazioni entrambe prive di adeguata dimostrazione: infatti (In Italia almeno) la grande industria privata è gestita non meglio di quella pubblica ed il ricavo presunto non è rilevante rispetto al bilancio dello Stato. 5. Sembra (a chi scrive) fuor di dubbio l’esistenza di una connessione fra l’operazione “Tangentopoli” e la vendita delle aziende dello Stato. Precisamente riteniamo che l’azione di discredito e le innumerevoli accuse contro gli uomini politici ed i partiti al Governo nel 1991, siano state una premessa necessaria alle “privatizzazioni”. Infatti tali accuse e discredito, seguite dalla sostituzione con i cosiddetti tecnici, hanno eliminato chi avrebbe potuto ostacolare la privatizzazione senza regole né garanzie (quindi senza una legge di privatizzazione, per esempio di tipo francese). 6. Inoltre, come già scritto nel punto I, nel corso di “Tangentopoli” si è messa in evidenza con insistenza l’azione di finanziamento illecito ai partiti fatta dalle aziende delle PRSS., particolarmente Eni. Invece non sì è insistito altrettanto sui finanziamenti da parte delle grandi imprese “private”, né su quelli di provenienza estera. 7. Da quanto esposto, si può ricavare che lo scopo (od almeno lo scopo principale) delle privatizzazioni sia quello di eliminare al più presto possibile, ed a qualsiasi prezzo, l’influenza ed il controllo politico (cioè del Governo e dei partiti di Governo) sulle aziende finora di proprietà pubblica. Questo evidentemente comporterà, come necessaria conseguenza, l’impossibilità di ogni finanziamento, lecito od illecito alle forze politiche da parte di queste aziende. 8. Chi scrive ritiene altamente probabile una profonda riforma, in senso permissivo dell’attuale legislazione sul finanziamento dei partiti non appena sarà stata trasferita ai “privati” una porzione importante delle aziende dello Stato. In questo modo si riaprirà una fonte di finanziamento assolutamente necessaria per il funzionamento di un sistema politico democratico-parlamentare. Ma tuttavia l’erogazione di questo finanziamento dipenderà totalmente dai grandi gruppi finanziari (presumibilmente in maggioranza stranieri) “privati” nuovi proprietari di industrie, banche, imprese di servizi, etc. 9. Apriamo qui una parentesi nell’argomentazione, per ricordare le origini del sistema delle Partecipazioni Statali, ora posto in liqui- CRITICAsociale ■ 9 10 / 2012 dazione. In proposito ricordiamo che l’Iri fu istituito (intorno al 1933 o ‘34) allo scopo di mantenere in vita importanti industrie e banche, portate al dissesto dai proprietari precedenti. Ricordiamo inoltre che una parte molto consistente delle industrie dell’Iri avevano funzione strategica, riguardando armamenti, prodotti di base ed alta tecnologia (ovviamente all’epoca); inoltre lo Stato interveniva nell’approvvigionamento energetico (Agip). Essendo il Governo di tipo autoritario-dittatoriale, ovviamente non esisteva alcuna necessità di usare l’Iri come fonte di finanziamento della contesa politica (elezioni, apparati di partito, etc.). 10. Fra il 1955 ed il I960 alcuni politici appartenenti alla sinistra Dc (Fanfani, Vanoni, Mattei principalmente), decisero di utilizzare gli enti ed industrie dello Stato come fonte di finanziamento autonoma per la gestione del sistema politico (apparati di partito, spese elettorali, etc.). In questo modo si apriva una fonte di finanziamento non più dipendente dalla grande industria privata, né da potenze straniere (principalmente Urss, ma anche Usa). 11. Questa decisione comportava evidentemente un controllo politico molto più stretto sugli enti delle PRSS., sia con la costituzione di un apposito ministero che con l’uscita delle industrie di Stato dalla Confindustria. Le aziende di Stato si inserivano così nel sistema politico, sia come fonte di risorse (come già detto), che come strumento di politica estera oltre che di pianificazione industriale. Sono databili in tale periodo le azioni dell’Eni per disporre di risorse petrolifere indipendenti (cioè non attraverso il controllo anglo-americano), per esempio in Iran ed Algeria, azioni certamente impossibili senza un qualche collegamento con il Governo. 12. Circa la questione, sempre ricorrente, dell’alto costo del sistema politico italiano, ci limitiamo all’osservare che: la presenza di un enorme apparato del Pci (dal 1948 accettato nel sistema con funzioni varie) disponente di ampie risorse di provenienza Urss, rendeva necessaria la costituzione ed il mantenimento di apparati comparabili da parte dei partiti anticomunisti, con i relativi costi. (Questo argomento potrebbe essere oggetto di una trattazione separata: scelta della Dc di mantenere il Pci nella legalità, governo locale nelle regioni rosse, etc.). 13. Ritorniamo all’argomento del paragrafo 8, cioè la dipendenza dai privati del funzionamento del sistema politico. La Presidenza del Consiglio ha recentemente diffuso uno strano opuscolo, L’Italia privatizza, dove con argomenti puerili è spiegato perché e come il risparmiatore italiano provvederà ad acquistare le azioni “privatizzate”. Ma la sola cosa seria dell’opuscolo è l’ignobile vignetta di copertina: l’Italia in veste di “Vu cumprà” che offre fabbriche a stranieri d’ogni colore. 14. Le tre vendite importanti del 1993 confermano quanto illustrato in copertina dall’opuscolo Ciampi-Barucci. Gli acquirenti delle aziende Sma (Italgel, Cirio, etc.) e Nuovo Pignone sono stranieri. Il che si spiega facilmente sia per il modesto prezzo pagato (molto modesto se riferito al fatturato delle aziende), che per la forte svalutazione della nostra moneta, opportunamente fatta nel 1992 dai futuri privatizzatori. La terza privatizzazione del 1993 (Credito Italiano) appare veramente molto particolare, sia per procedure che per beneficiari, e non dovrebbe essere ripetuta. E’ ragionevole credere che le prossime grandi banche avranno acquirenti stranieri. 15. A privatizzazione conclusa, le attività industriali e di servizi, ora sotto controllo dello Stato, avranno proprietari stranieri. Poiché il funzionamento di un sistema politico del tipo democratico-parlamentare necessariamente comporta costi elevati (in Italia come in ogni altro paese: Usa, Francia, Germania, Spagna, Giappone, etc.), questo sistema sarà condizionato e/o dipendente dai suoi finanziatori. 16. Non si ritiene seriamente proponibile un finanziamento pubblico completo, che dovrebbe essere (a stima) dell’ordine di 5/10 volte l’attuale, e neppure un finanziamento per mezzo di quote d’iscrizione (non finte) ai partiti. Pertanto il finanziamento dell’attività politica dipenderà anche in futuro dal sistema economico. Se le attività principali (grandi industrie, banche, servizi, energia, etc.) saranno sotto controllo non italiano, il conseguente condizionamento verso il sistema politico potrà limitare considerevolmente l’indipendenza nazionale, oltre che favorire gli interessi dei “privati” (per esempio con normativa fiscale, tariffaria, di trasferimento capitali, etc.). s ■ 1999 - IL CASO DEL GIUDICE PINTUS ORMAI NON MI RICONOSCO IN QUESTA MAGISTRATURA Gianfranco Pinna U n altro capitolo – e particolarmente amaro – è venuto ad arricchire il tormentato momento della giustizia italiana: la lettera-denuncia al presidente della Repubblica e del Csm Carlo Azeglio Ciampi, con cui il procuratore della Repubblica di Cagliari Francesco Pintus ha dato le dimissioni dalla magistratura. In quattro cartelle e mezzo, il j’accuse del procuratore Pintus: “Non riesco più a riconoscermi in una magistratura che troppe volte mostra di aver rotto gli argini delle proprie competenze e che vedo troppo frequentemente straripare in settori che non le appartengono”. È chiaro che il suo dissenso contro il protagonismo di alcuni magistrati amplificato da una stampa compiacente, il ruolo ambiguo del Csm e l’uso perverso dei pentiti che hanno ca- ratterizzato il sistema giudiziario dell’era “Mani pulite”. Ma il suo atto d’accusa va ben oltre e investe la sfera politica. Nella lettera vengono elencati tutti i problemi e le necessità della giustizia italiana: la separazione delle carriere, la terzietà del giudice, l’obbligatorietà dell’azione penale, la grande disponibilità di mezzi impiegati per istituire processi eclatanti, puntualmente ribaltati dalle sentenze in appello. Tutto questo a danno dei cittadini, che non si sentono più tutelati da una giustizia che rincorre i teoremi giudiziari a scapito dei reati cosidetti minori che mettono in pericolo la sicurezza sociale. Per non parlare dei tempi lunghi che oggi un procedimento richiede. Ma ciò che maggiormente denuncia il procuratore Pintus è la condotta del CSM, “l’organo che dovrebbe tutelare tutti i magistrati” e che invece “si comporta assai spesso in modo tale da far dubitare della sua soggezione ad influenze di correnti, di amicizie e clientele, e che adempie alle proprie funzioni praticamente al riparo da qualsiasi controllo”. Infatti, “casi analoghi, se non identici, vengono trattati in modo differente, le “regole” vengono adattate ai singoli casi oggetto di giudizio”. Insomma, arbitrarietà dell’azione penale ed eccessiva politicizzazione. E qui non si può non entrare nella sfera personale. Il procuratore Pintus infatti ha sperimentato sulla propria pelle che in magistratura titoli e meriti oggi non sono più sufficienti. Ne sono la riprova le sue mancate nomine alla Procura Generale e alla Presidenza della Corte d’Appello di Milano. “Per ragioni di opportunità (non mi si ritenne omogeneo al pool Mani pulite)”. Già, cosa ha a che fare Pintus col pool Mani pulite? Niente. “Lui”, uno dei fondatori di Magistratura Democratica, è rimasto garantista, ed è colpevole appunto per i suoi principi garantistici. Inoltre, ha avuto l’ardire di difendere Corrado Carnevale. Da lì la sua ascesa al calvario. Le iniziative che si susseguono, l’inizio di un procedimento paradisciplinare. Per piegarlo, umiliarlo e offenderlo. E alla fine, Pintus, “spinto soltanto da amore per la verità e da esigenze di giustizia”, non ne può più. Esce dalla Magistratura sbattendo la porta. Ma a testa alta. Perché la verità non ha prezzo, e nessuno può fermarla. La sua è una nuova sfida: respingere e contrastare definitivamente, prima che sia troppo tardi, la demagogia e l’assalto di quel manipolo di “oltranzisti giustizialisti”, che per sete di potere e con l’arma del ricatto oggi minacciano seriamente la democrazia e la libertà del Paese. Quella che segue è la sintesi di un colloquio, durato oltre due ore, in cui, fra l’altro, si è parlato del tragico epilogo di Luigi Lombardini. SA REPUBLICA - Dottor Pintus, la sua lettera-denuncia al Presidente della Repubblica e del Csm Carlo Azeglio Ciampi, con cui ha rassegnato le dimissioni dalla Magistratura, ha suscitato grande scalpore in tutta Italia. Perché questo gesto eclatante dopo quarantacinque anni di attività di cui sette come Procuratore Generale di Cagliari? PINTUS - “Io non ho dato le dimissioni dall’ordine giudiziario. Ho semplicemente rinunciato a usufruire del biennio di proroga, dopo la scadenza naturale dell’incarico che ha coinciso con il mio settantesimo anno di età. Per quel che riguarda invece “lo scalpore” che avrebbe suscitato la mia lettera, devo dire che è calato un chiassosissimo silenzio, come succede sempre nel nostro Paese”. SA REPUBLICA - Non ritiene che la sua “rinuncia” possa essere considerata come una resa? PINTUS - “Io le battaglie le ho sempre combattute fino in fondo per questi due problemi ineludibili: l’indipendenza della Magistratura e la certezza del diritto”. SA REPUBLICA - Tuttavia se ne va sbattendo la porta. C’è chi dice però che ha lasciato la toga per porre fine ai procedimenti di “incompatibilità ambientale” avviati contro di lei dal Csm... PINTUS - “Per quanto riguarda quei procedimenti, devo dire che io stesso per accertare la verità ne ho più volte sollecitato la conclusione. Ma sia l’allora ministro di Grazia e Giustizia Flick, sia il Procuratore Generale della Cassazione hanno omesso di fare qualsiasi passo per l’accertamento della verità... E lo stesso Csm, pur sollecitato dal Presidente della Repubblica Scalfaro, si è limitato a raccogliere ulteriori elementi d’accusa contro di me”. SA REPUBLICA - Sta dicendo che la sua era una lotta impari che andava fatalmente verso un’unica direzione, e che prescindeva comunque dall’accertamento della verità? PINTUS - “Sì, voglio dire proprio questo”. SA REPUBLICA - Quindi quella di Procuratore Generale alla Corte di Appello di Cagliari è una “poltrona” scomoda? PINTUS - “È scomoda per chi fa il proprio dovere. Per chi invece vuole gestire il posto di Procuratore Generale come sede di partecipazione alle cerimonie è una poltrona comodissima”. SA REPUBLICA - Dottor Pintus, lei ha sperimentato sulla propria pelle che oggi per far carriera in Magistratura titoli e meriti non sono sufficienti. Lo dimostrano le sue mancate nomine alla Procura Generale e alla Presidenza della Corte d’Appello di Milano. Infatti, nessuna è andata in porto. Anzi, da lì sono iniziati i suoi guai. Ci dica, perché non la volevano a Milano? PINTUS - “L’unica spiegazione che posso dare è questa: non mi si considerava omogeneo al pool Mani pulite”. SA REPUBLICA - A questo proposito, in un’intervista rilasciata al Giornale, che è stata riportata dallo scrittore Giancarlo Lehner nel suo ultimo libro “Due pesi, due misure - Il nodo della giustizia in Italia”, lei disse: “Ho l’impressione che ci sia una continua ricerca dell’uomo giusto al posto giusto... mi limito a una banale considerazione: a me è stato contestato che mio figlio eserciti l’attività forense a Parma, mentre non è stato ritenuto ostativo per Borrelli il fatto che la nuora faccia l’avvocato a Milano...”. Insomma, un vero e proprio doppiopesismo! PINTUS - “Esattamente. Tra parentesi, la nuora di Borrelli continua ancora nell’esercizio della professione forense a Milano, mentre il suocero è stato nominato Procuratore Generale, e nella stessa città il marito è giudice civile. Ma non è l’unico ‘doppopesismo’. Di situazioni simili ne esistono tante altre, in diverse procure...”. SA REPUBLICA - A Milano in particolare chi non la voleva? PINTUS - “Borrelli ha negato ogni suo intervento in tal senso. E Borrelli, come dice Shakespeare, è uomo d’onore. Devo quindi supporre che indipendentemente dalla sua volontà, il Csm ha voluto ‘fargli un favore’”. SA REPUBLICA - Un fatto è certo. Oggi in Italia gran parte della opinione pubblica non crede più nella giustizia, non si sente più garantita: ritiene che esiste una “Magistratura deviata”, una “Magistratura politica”. E questa convinzione, dopo le sentenze di Perugia e Palermo che hanno assolto Andreotti, sentenze che hanno visto crollare alcuni teoremi giudiziari, è notevolmente cresciuta. D’altra parte, l’uso perverso dei pentiti, la strumentalizzazione della custodia cautelare, le condizioni delle carceri, le morti sempre più frequenti, il protagonismo di alcuni magistrati amplificato da una stampa compiacente e il ruolo ambiguo del Csm sono questioni reali e gravi che fanno riflettere. PINTUS - “Sono problemi dolenti. Anche questi ineludibili. D’altro canto, nella lettera che ho inviato al capo dello Stato ne parlo esplicitamente: ‘Il nuovo codice di procedura penale ha creato figure nuove la cui opera ha finito per incidere in modo determinante sulle regole del processo’. Sottolineo che ‘quest’ultimo si celebra sulle pagine dei giornali e sugli schermi televisivi’ e che ‘i mezzi di informazione creano nell’opinione pubblica convinzioni ed aspettative, con la conseguenza che giorno dopo giorno diminuisce presso i cittadini la fiducia nei giudici’. Inoltre accuso quel- 10 ■ CRITICAsociale la ‘limitata schiera di protagonisti che determina correnti di opinione che finiscono per influenzare la politica, e talvolta, perfino le decisioni giudiziarie’. Ma soprattutto accuso la condotta del Csm, ‘l’organo che dovrebbe tutelare tutti i magistrati’ e che invece ‘si comporta assai spesso in modo tale da far dubitare della sua soggezione ad influenze di correnti, di amicizie e clientele, e che adempie alle proprie funzioni praticamente al riparo da qualsiasi controllo’”. SA REPUBLICA - Dottor Pintus, lei ha sempre condannato la giustizia-spettacolo e ha trascorso una vita a tutelare le regole e le garanzie. Le chiedo: quali iniziative occorre intraprendere per ripristinare la giustizia-giusta? PINTUS - “Le cause di fondo stanno nel disfacimento della giustizia, nella incapacità complessiva della macchina giudiziaria di smaltire tutti i lavori e nella cosiddetta giustizia elefantiaca. Del resto – inutile negarlo – quello che sta accadendo oggi in Italia è sotto gli occhi di tutti: gli uffici giudiziari continuano a ‘macinare’ processi che saranno prescritti. Pertanto, inevitabilmente, dovranno essere spazzate via tutte le procedure, e sono moltissime, destinate fatalmente alla prescrizione. Si chiamini Mani pulite o altro, la cosa non cambia. Finiranno prescritte anche le contravvenzioni, e i reati di maggiore gravità. Certo, io non so quante prescrizioni stiano maturando nelle varie Procure della Repubblica, nei vari Tribunali e Corti d’Appello. La mia esperienza è limitata agli uffici giudiziari della Sardegna. Le posso garantire che il numero delle prescrizioni cresce in modo impressionante, e riguarda tutti i reati, per i quali la celebrazione del processo coincide con una data a ridosso della scadenza dei termini di prescrizione. Perciò quando si celebra il giudizio di primo grado, si sa già che il processo sarà destinato alla prescrizione”. SA REPUBLICA - E quindi? PINTUS - “Di conseguenza se non si incide sulle cause dello sfascio, non si può parlare di ‘giustizia-giusta’, che viene assicurata mediante il rispetto rigoroso della obbligatorietà dell’azione penale. Altrimenti sarebbe opportuno eliminare l’obbligatorietà, che sarebbe soltanto una finzione, e introdurre la facoltatività dell’azione penale. Però questa volta non affidata ai magistrati, bensì a organi che abbiano l’investitura del popolo sovrano. Per questo ho sempre criticato la lentezza dei processi, che ha causato una valanga di prescrizioni, e quindi una surrettizia forma di amnistia. Per questo ho sempre chiesto il rispetto della obbligatorietà dell’azione penale, e ne ho criticato la facoltatività. Questi sono i nodi da sciogliere, per ripristinare la certezza del diritto!”. SA REPUBLICA - La storia della società italiana è sempre stata costellata di consensi, rinunce, ricatti e compromessi. D’improvviso, con una sorta di cancellazione della storia, “certi magistrati, elevati dalla piaggeria apologetica, dal conformismo acritico a eroi e superuomini”, scoprono “l’acqua calda”: tangentopoli. Quindi la degenerazione, giustizialismo e “giustizia a orologeria”. Perché questa tardiva e, tutto sommato, velleitaria sete di giustizia contro una sola parte politica? PINTUS - “Di fatto l’investitura della Magistratura come salvifica e taumaturgica operazione di bonifica morale del Paese ha creato molte illusioni. Illusioni – ripeto – che oggi stanno per naufragare in un mare di prescrizioni, mentre nel contempo si continua a trascurare l’esercizio dell’azione penale nei confronti di tutti gli altri reati. Lei mi chiede: ‘Perché questa tardiva e, tutto 10 / 2012 sommato, velleitaria sete di giustizia contro una sola parte politica?’. Beh, non saprei. Probabilmente occorrerà attendere l’apertura di altri armadi”. SA REPUBLICA - Resta comunque il fatto che a seguito della “Rivoluzione Mani pulite” cinque partiti “storici” sono stati cancellati dalla scena politica, mentre il PciPds-Ds è stato appena sfiorato. E D’Alema è al governo con Cossutta, nonostante i dossier Mitrokhin, Havel e tanti altri in arrivo... Andreotti assolto. Forlani ai servizi sociali. Mentre Craxi, esule e ammalato ad Hammamet, è l’unico pluricondannato con sentenze definitive per questo teorema: non poteva non sapere. Nonostante, dulcis in fundo, le dichiarazioni di Gerardo D’Ambrosio: “Craxi non ha mai intascato soldi a titolo personale. La storia gli ha dato ragione. I soldi li presero tutti”. Dottor Pintus, è possibile risolvere il caso-Craxi? PINTUS - “Il caso-Craxi ho il sospetto che non sia risolvibile se non attraverso aggiustamenti che – a quanto mi è dato capire – l’on. Craxi non gradisce. È certo che, se dovesse beneficiare di una grazia, l’on. Craxi potrebbe ritornare in Italia, ma non avrebbe la possibilità di riprendere l’attività politica, perché sarebbe ineleggibile finché esistono sentenze passate in giudicato”. SA REPUBLICA - Però esiste la possibilità della revisione dei processi, il caso-Sofri docet... PINTUS - “Sì, è vero. Ma è uno strumento estremamente delicato, uno strumento lungo è difficile da percorrere... Tuttavia c’è da dire che la valutazione che Craxi ‘non poteva non sapere’, si scontra con l’opinione di Nordio su altri segretari di partito, che secondo lui invece ‘potevano non sapere’. Un’altra possibilità infine è l’amnistia, che però in questo momento pare che sia rifiutata da tutte le forze politiche. Un’amnistia generalizzata che consenta ai fini giudiziari di togliere dagli armadi tutti i fascicoli che sono ormai sull’orlo della prescrizione. E dunque si ricominci da zero. Io però vedo nerissimo nell’avvenire della giustizia italiana...”. SA REPUBLICA - Veniamo alla Sardegna. L’11 agosto dello scorso anno moriva tragicamente Luigi Lombardini, Procuratore capo della Pretura di Cagliari, dopo un estenuante interrogatorio durato oltre sei ore condotto dal pool di Palermo, guidato da Giancarlo Caselli. L’accusa a Lombardini – cui in verità nessuno ha mai creduto – era gravissima e infamante: estorsione. Era accusato, come è risaputo, di essersi appropriato del riscatto pagato per la liberazione di Silvia Melis in concorso con l’editore Nicola Grauso, l’ex presidente della Sardaleasing avv. Antonio Piras e l’avv. Luigi Garau. Inoltre di aver tentato di estorcerne un altro al padre di Silvia Melis. Perché a distanza di tanto tempo il Tribunale di Palermo non ha ancora fissato l’udienza per l’esame del rinvio a giudizio? Perché questo ritardo? Perché tutto tace? PINTUS - “Queste domande me le sono poste anch’io, ma finora non sono riuscito a darmi una risposta”. SA REPUBLICA - Qual è il suo giudizio su Lombardini? PINTUS - “Un fatto è certo: neppure gli ultimi eventi sono riusciti a scalfire l’onestà intellettuale e morale del dottor Luigi Lombardini. Non c’è dubbio però, come ho riferito al Ministro di Grazia e Giustizia, che Lombardini fosse un magistrato ‘anomalo’, e che il suo modo di operare non fosse in linea con i miei principi garantistici. Ma i successi da lui ottenuti nella lotta contro la criminalità sarda in genere e contro i sequestri di persona in particolare (da cinquanta dei primi anni ‘80, si erano ridotti a zero nel 1989), la totale dedizione alla causa cui si era votato, anche al di là dei doveri istituzionali, gli avevano valso un unanime apprezzamento... Difatti, oggi in Sardegna c’è la consapevolezza che è venuto meno con lui un prezioso contributo per la conoscenza della criminalità sarda e delle sue specificità. E si legittima il dubbio che l’intervento del pool di Caselli (verosimilmente con piena legittimità, data la mole ingentissima di denunce partite contro Lombardini da diversi uffici giudiziari sardi) su alcuni dei suoi supposti abusi, con il grande spiegamento di forze (cinque magistrati e una decina tra agenti e collaboratori giunti da Palermo con un volo della Compagnia privata Aeronautica Italiana a bordo di un Falcom 50 I-SAME, operazione a dir poco inusuale per gli uffici giudiziari sardi, e senza precedenti...) e l’intensità dell’indagine, caratterizzata dalla contemporanea partecipazione di tutti i pubblici ministeri di Palermo, abbia giocato un ruolo non secondario sulla tragica morte di Lombardini”. SA REPUBLICA - A suo avviso, perché è stato “rimosso” Caselli dalla Procura di Palermo? PINTUS - “Guardi, io non so se Caselli sia stato rimosso dalla Procura della Repubblica. Non so se sia stato promosso con finalità di rimozione, rimosso con finalità di promozione, oppure promosso indipendentemente dal fatto che lui fosse suscettibile di rimozione. Quel che mi lascia perplesso è il fatto che, nonostante le promesse che aveva fatto, sia andato via dalla Procura di Palermo senza aver concluso il processo sul quale aveva giocato tutte le carte, cioè il processo Andreotti”. SA REPUBLICA - Ancora: che fine hanno fatto gli esposti da lei presentati? PINTUS - “Per quel che so, non hanno avuto alcun esito: né quelli penali alla Procura della Repubblica di Palermo, né quelli disciplinari al Csm. Devo dire invece che la procedura nei miei confronti è stata velocizzata oltre ogni limite”. SA REPUBLICA - Né si sa più nulla sulla “struttura parallela”... PINTUS - “Per la verità di ‘struttura paral- lela’ si è parlato a livello giornalistico, e ne ha parlato una relazione rispetto alla quale io ho preso tutte le distanze: la commissione Antimafia e il sottocomitato, presieduto dal senatore Pardini, il quale ha detto pubblicamente che io sapevo tutto dell’attività di Lombardini, di questa ‘struttura parallela’. Invece io ribadisco che non sapevo assolutamente nulla, come ho ben dimostrato al Csm. D’altra parte, l’unica volta che io sono stato formalmente investito dell’attività di Lombardini, riguarda la vicenda Furianetto, ma puntualmente ne ho informato i titolari dell’azione disciplinare, i quali hanno archiviato la pratica. Mi pare poco prudente, quindi, che si dica che io conoscevo l’esistenza della ‘struttura parallela’, che conoscevo l’attività svolta da Lombardini e non abbia fatto niente per impedirla. Ripeto: non ne sapevo o non ne so assolutamente nulla. Ma mi viene il sospetto che anche altri non ne sappiano assolutamente nulla”. SA REPUBLICA - È vero o no che Luigi Lombardini avrebbe dovuto ricoprire l’incarico di Procuratore capo di Palermo al posto di Caselli? PINTUS - “Tra la collocazione del ruolo di anzianità di Lombardini e quella di Caselli vi era una differenza di quattro anni. Quattro anni di anzianità a favore di Lombardini. Ora lo so – secondo quello che dice il Csm – che nell’assegnazione di incarichi di quel genere si deve tener conto sia dell’anzianità sia del merito e sia delle attitudini. Ebbene, posso affermare che Lombardini sovrastava Caselli su tutti e tre i piani...”. SA REPUBLICA - C’è un altro caso su cui è calato il silenzio... Il caso-Mario Fortunato Piras di Arzana, la persona che Lombardini riteneva fosse particolarmente informata delle vicende del sequestro di Silvia Melis, e che sinora nessuno a Palermo e a Cagliari ha – per quel che si sa – mai interrogato. Chi pagò la trasferma (andata e ritorno) – si parla di decine di milioni – a Piras e ai carabinieri dal carcere vicino a Caserta a Badd’e Carros e Arzana? Chi fece la richiesta? E per quale motivo? PINTUS - “Questa domanda è stata oggetto di una interrogazione a firma del senatore Marcello Pera. Interrogazione alla quale il Ministro di Grazia e Giustizia a tutt’oggi non ha dato alcuna risposta. Eppure dal momento della presentazione della interrogazione sono passati, salvo errori, sei mesi. Un punto è certo. Per poter spostare un detenuto nelle forme in cui si è spostato Mario Fortunato Piras sono necessarie due condizioni: o che paghi l’interessato, ma non risulta che abbia pagato, oppure che paghi lo Stato. In questo caso è lo Stato che deve spiegare perché si è seguita quella strada”. SA REPUBLICA - Un’ultima domanda. Sempre più spesso oggi in Italia si parla di un intreccio perverso tra Magistratura e politica. A suo avviso, la Magistratura è indipendente dal potere politico? PINTUS - “Dal potere politico penso che sia assolutamente indipendente. Se qualche rischio c’è, invece, è che il potere politico sia indipendente dagli organi della Magistratura, soprattutto da quelli del Pm. Di fatto è una situazione anomala che non può proseguire ulteriormente. Infatti si corre il rischio di sacrificare l’indipendenza della Magistratura. Ma ne esiste un altro di pericolo: ‘oggi l’unico pericolo per la Magistratura è rappresentato dal Csm!’. Non sono parole mie, sono parole di Giovanni Falcone”. s (ringraziamo il periodico “SA Republica” e il suo direttore per averci consentito di pubblicare l’intervista all’ex procuratore di Cagliari Francesco Pintus) CRITICAsociale ■ 11 10 / 2012 ■ 1996 - NUMERO 3 IL CASO TORTORA PREPARA IL GOLPE NELLA MAGISTRATURA Mauro Mellini C elate agli occhi del gran pubblico negli ambienti giudiziali, nella magistratura , andavano maturando situazioni di autentica rivoluzione (di ribaltamento di ruoli, di abbattimenti di situazioni istituzionali) destinate a consentire e a segnare il protagonismo giudiziario dal 1992 in poi. Da allora si manifestarono come un’improvvisa realtà, ma erano fenomeni a lungo maturati e rispetto ai quali la classe dirigente dell’epoca aveva mostrato, nella sua gran parte, una cecità e una inerzia degne veramente di quel mummificato sopravvivere che ne caratterizzò l’ultima presenza sulla scena. Quella fu la fase preparatoria, iniziale del golpe. Quando cominciarono la raffica degli arresti, la messa alla gogna di tutta una classe politica, e della politica stessa, il gioco, si può dire, era fatto. In realtà, una parte della classe politica non aveva “subito” quel golpe. L’aveva stimolato, preparato, guidato. Aveva tramato con la fazione oltranzista della magistratura, con i “magistrati di partito” ? ormai divenuto il “partito dei magistrati” , ne aveva coperto le manovre, aveva ottenuto per essi gli strumenti e lo spazio per portare a fondo l’operazione. E ne era stata ripagata con l’impunità e con la patente di “novità” rispetto al vecchio che, anche indipendentemente dalla tempesta giudiziaria, era destinato a scomparire dopo una così lunga e innaturale conservazione. Non è qui né ora che vogliamo analizzare il “golpe dei giudici”. Lo abbiamo fatto giorno per giorno con la parola e con gli scritti, raccogliendo poi quelli pubblicati su “Giustizia Giusta”, periodico dell’Associazione per la giustizia e il diritto Enzo Tortora, nel volume Il golpe da giudici(Spirali/Vel, 1994). Il golpe dei magistrati non è un golpe tentato. E un golpe consumato. Se ne ha la prova proprio nell’averlo accettato come fatto naturale, permanente, come preminenza della magistratura a come “potere”, come arbitro della contesa politica e ciò al di là, nella misura e nel tempo, di quanto comportassero la crisi e la caduta di un sistema nel quale la prassi dell’illegalità aveva grande e incontrastato spazio. Del resto, il golpe giudiziario non era stato improvvisato. Ne erano state fatte delle teorizzazioni, anch’esse sfuggite alla scarsa attenzione di gran parte del mondo politico e all’attenzione e alle analisi degli intellettuali e della stampa (Dio ce ne guardi!). L’”uso alternativo della giustizia” fu enunciato senza infingimenti, sia pure in un contesto confusamente libertario e rivoluzionario, da alcune frange estreme, destinate a divenire dominanti, della magistratura. In termini più specifici dopo che la caduta del regime consociativo sembrava fosse stata consacrata da un voto popolare espresso con l’adozione di un sistema elettorale che avrebbe dovuto consolidare la fine delle consociazioni , il potere preminente della magistratura (ma in realtà del partito dei magistrati che ne costituisce la frazione più spregiudicata e oltranzista) fu riaffermato, addirittura rispetto al voto popolare, quale “correttivo” della volontà e della sovranità del popolo. Fu all’indomani delle elezioni del 27 marzo 1994 che si ebbe un chiaro preavviso della fase più calda e manifesta del golpe (quella che ebbe poi realizzazione e coronamento nel “ribaltone”), e ciò attraverso quell’episodio di fondamentale importanza diagnostica e prognostica che fu l’intervista di Borrelli al “Corriere della Sera”, con la quale il capo della Procura di Milano annunciava che il Pool non accettava di partecipare a quel governo, ma che, nel caso di un “cataclisma” che avesse creato un vuoto politico, avrebbe potuto accorrere alla chiamata del capo dello stato per assumere la responsabilità delle sorti del Paese. Che non si trattasse di una dichiarazione d’intenti, anche nella parte formulata come ipotesi, è difficile sostenerlo. Del resto, da allora a Milano e in Procura non mancarono mai accadimenti che concorressero a determinare il “cataclisma” politico, il “vuoto” che potesse indurre il presidente Scalfaro a chiamare a salvare il Paese se non “quelli del pool” almeno qualche altro tecnico della salvazione se non dello stesso cataclisma. Il “ribaltone” è Erutto essenzialmente del “cataclisma”, della guerra del partito dei magistrati contro Berlusconi. Ma il golpe non comincia né si esaurisce nel ribaltone, tanto meno nel “complotto”, di cui ha parlato di recente l’ex presidente del Consiglio, contro Berlusconi e la Fininvest. Certamente le “rivelazioni”, provenienti da verbali e intercettazioni telefoniche raccolte nel processo di Brescia e riguardanti Di Pietro, hanno consentito di dare concretezza ed evidenza almeno ad alcuni momenti di questo golpe. Ma quanto si da oggi per “rivelato” in quella sede era, nella sostanza, ben noto o, almeno, facilmente conoscibile da chiunque avesse voluto mettere assieme cose che note e non contestate erano da tempo. Così pure ritenere che il golpe ruotasse intorno a Di Pietro cosa assolutamente inesatta e, tutto sommato, riduttiva, fuorviante e un tantino grottesca. Di Pietro il “magistrato più amato dagli italiani”, lo “sportivo dell’anno”, il professore universitario d’incerti studi, l’opinionista del giornale della Fiat (già da lui, sia pur benevolmente indagata), l’aspirante capo dei Servizi segreti e candidato al ministero dell’Interno per l’intervento dello stesso presidente della repubblica è il prodotto di un golpe già realizzato piuttosto che il suo artefice o il suo progettista. Quanto sta emergendo dal velo che la distrazione degli uni e i furori apologetici degli altri avevano steso sulle qualità, i trascorsi, la collocazione e i rapporti sul passato e sul presente di Di Pietro consente di porre interrogativi sconcertanti sul vero ruolo di Di Pietro in Mani pulite stessa e sui personaggi che hanno ruotato attorno a questa sorta di divo dell’antipolitica dietro cui si è sviluppata, negli ultimi anni, la politica del partito dei magistrati e dietro cui si sono scatenate le velleità politiche, le manovre e le manovrette di tanti squallidi protagonisti, attori e coristi della tragicommedia italiana. All’ombra del potere reale delle toghe i minuetti della politica di quella che sarebbe la Seconda repubblica (solo perché la Prima ha dato segni di decomposizione tali da lasciar presumere che sia morta) si sono sbizzarriti con andamento grottesco. E le vicende di Antonio Di Pietro, le offerte da lui ricevute, i progetti da lui vagheggiati, le ambiguità dei suoi corteggiatori, le doppiezze dei suoi persecutori o presunti tali alcuni dei quali coinvolti direttamente o indirettamente in operazioni in cui non ha brillato la linearità e la trasparenza di Di Pietro magistrato possono essere considerati emblematici di questa Italia del dopogolpe giudiziario. Perché questa è la realtà. Viviamo il dopogolpe. Luciano Violante che fece arrestare Edgardo Sogno non senza avere abusato in fatto di prove, per molto meno di ciò che si attribuisce a Di Pietro che combina incontri in stile “riservato” con questo aspirante capo dei Servizi segreti con licenza (e intanto con programma) di far fuori l’esponente del partito di maggioranza relativa. Il capo dell’Ispettorato del ministero di Grazia e Giustizia, trasversalmente beneficiato da Di Pietro inquirente, che avrebbe confidato a un magistrato dell’Ispettorato, futuro ispettore pentito, invischiato in una tresca con un altro sostituto della Procura di Brescia, di essere stato esortato da un ministro (che tra l’altro aveva offerto un ministero e altre cariche a Di Pietro) che occorreva distruggere Di Pietro. Un presidente della repubblica che, scavalcando il presidente del Consiglio incaricato, offre al capo dell’Ufficio della Procura di Milano un ministero per il suo sostituto come se si trattasse di un segretario di partito e di un suo aderente. Per non parlare dei giornali, in primo luogo quello della beneficiata Fiat, che offrono collaborazioni fisse al non eccellente letterato; il “Corriere dello Sport” che lo elegge “sportivo dell’anno”. E un’università, che, senza neppure verificare i titoli di studio (non diciamo scientifici), mette quasi in cattedra l’ex uditore proposto per l’esclusione dalla qualifica di giudice di Tribunale. E Prodi che combina incontri programmatico-conviviali con Di Pietro. E questi che, dall’Estremo Oriente, invia in patria il suo programma. E uomini politici, che vogliono passare per seri, ma che si compiacciono di compulsare il documento per riscontrare consonanze ed esibire apprezzamenti. E poi, quando anche per Di Pietro suona l’ora della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e dei verbali d’interrogatorio metodo con il quale erano stati messi alla gogna tanti da lui indagati , ecco la presa di distanza perfino di Borrelli, mentre la televisione di stato si adopera per sollecitare le adesioni al suo partito, quello che aveva atteso troppo a lungo a varare forse per aumentare l’attesa, forse per altro. Ma, tutto sommato, Di Pietro è, rispetto al partito dei magistrati, un personaggio allo stesso tempo emblematico e anomalo, quasi una versione caricaturale, con la sua preoccupazione di “entrare in politica” non rendendosi conto di averlo già fatto da lungo tempo , di fondare un partito, di ufficializzare incontri e programmi. E, tuttavia, un personaggio obiettivamente pericoloso: a causa di coloro che ha a fianco ma, soprattutto, a causa di coloro che ha contro, che sembrano fatti apposta per secondare questa sostanziale pochezza, pretendendo di sfruttarla o illudendosi di contrastarla. Ciò nonostante, se veramente dobbiamo parlare di golpe, allora non è al golpe attribuibile alle intenzioni di Di Pietro che dobbiamo pensare, ma a quello già consumato, quello elle ha messo l’Italia la sua politica, le sue istituzioni, la sua economia nelle mani dei magistrati più spregiudicati, delle toghe da copertina, della frazione oltranzista della magistratura. L’Italia in mano alle toghe è l’argomento di una ormai lunga e monotona polemica, di un’analisi puntigliosa che chi scrive sta portando avanti da anni con il periodico “Giustizia Giusta”. Nel 1994 parlare di golpe sembrava una forzatura, una provocazione. Oggi anche Berlusconi parla di complotto, che è cosa diversa e riduttiva rispetto al golpe. Ma molti sono meno ottimisti e il termine non fa più scandalo. Ormai sono in molti a parlare di un partito dei magistrati, e assai più sono quelli che preferiscono non parlarne: proprio perché sono convintissimi che esista, è preferibile far finta di non accorgersene. Del resto, il golpe delle toghe e la presenza del partito dei magistrati non hanno avuto modo di spiegarsi solo a Milano, né solo per le operazioni che, anche in altre parti d’Italia, vanno sotto la sigla Mani pulite. E anzi altrove e in altri campi che il golpe ha cominciato a realizzarsi e il partito dei magistrati a prendere corpo e a conquistarsi gli strumenti e le alleanze che gli hanno consentito il successo. La lotta antiterrorismo e la lotta antimafia sono state il banco di prova di un ruolo improprio e sopraffattore della magistratura. Nelle zone dove si è spiegata questa azione, l’incidenza sociale e politica dello spadroneggiare delle toghe è ancora più forte che altrove, si fa sentire nel tessuto sociale e provoca timori, sconcerto, reazioni inimmaginabili a Milano e a Roma. Così, mentre ora si comincia a prendere coscienza del golpe delle toghe, nell’ultimo anno, in una fase che potremmo definire di “dopo golpe”, le battaglie di “Giustizia Giusta”, le sue denunce, le sue analisi sono state dirette verso lo stato del Paese, della sua politica, dell’amministrazione della giustizia. Da dopogolpe è il governo Dini: governo di tecnici come si addice a ogni governo che le giunte golpiste mettono in piedi dopo il successo del colpo di stato. Da dopogolpe è la stampa: ancora più allineata nell’adorazione dei golpisti, dopo che una parte di essa aveva collaborate con l’operazione eversiva in piena coscienza e con grande efficienza. Da dopogolpe è persine l’opposizione o, per meglio dire, quella parte del mondo politico che aveva subito il golpe senza neppure rendersi conto di subirlo e addirittura secondandolo e che, magari, per assolversi da queste colpe e dispensarsi dal compito di opporsi al regime che al golpe è seguito, si bea della negazione di quanto è avvenuto e tira a campare cercando di far finta che nulla sia accaduto. Dovendo quindi dare una sintesi di quanto oggi sta accadendo, potremmo parlare di “toghe padrone”. Padrone della situazione politica, padrone delle nostre libertà, padrone della giustizia, del diritto, dei servizi, della stampa. E Toghe padroneriteniamo di dovere intitolare questa raccolta di articoli, anzi, questo lungo, interminabile articolo che fu frazionato in più numeri, sotto vari titoli, nel corso di oltre un anno su “Giustizia Giusta”, con il quale abbiamo affrontato fatti e situazioni man mano che si andavano verificando ed evolvendo. La rilettura di gran parte di questi scritti, a distanza di mesi, anziché la soddisfazione che il tempo potrebbe assicurare con le conferme di previsioni e valutazioni che allora potevano sembrare azzardate, ci fa sentire ancora una volta lo sgomento di ritrovarci ad aver fatto la parte di Cassandra. Ruolo tutt’altro che gratificante. Non spetta a noi, ma al lettore dire se la nostra è una visione pessimistica delle cose o se, magari, è invece ottimistica. Del resto, non sapremmo dire se a prevalere in noi sia il pessimismo o rottimismo. Siamo convinti che il golpe sia stato consumato, ma, al contempo, che esso fosse resistibile, se coloro che erano destinati a subirlo si fossero resi conto di che cosa si trattava. E oggi lo spadroneggiare delle toghe sarebbe anch’esso resistibile e la situazione creata dal golpe sarebbe reversibile se chi ne subisce le conseguenze volesse decidersi a non nascondersi dietro un dito, a prendere atto di quanto è avvenuto e della realtà e gravità di quanto avviene e a reagire, a parlare, a scrivere. Per quel che ci riguarda tentiamo di farlo, anche con questo libro. Ai lettori far sì che non sia vano l’impegno. Scalfaro, regole, magistrati settembre 1995 Quelle di Cossiga si chiamavano, con una sottolineatura decisamente ironica, “esternazioni”. Quelle di Scalfaro sono dichiarazioni, ammonimenti, “bacchettate”, richiami. Niente ironia. Il presidente detta i principi, le regole, i particolari di governo. Tutto normale. I tempi degli attacchi per il Sisde e per Novara sono passati. Nessuno gli contesta più neppure di avere mancato di parola. Tanto meglio. 12 ■ CRITICAsociale Ora (scriviamo il 4 settembre) Scalfaro ci fa sapere: senza “par condicio”, senza le regole non si vota. Non vogliamo ripetere i nostri esorcismi di fronte a questa insistenza per un istituto, la “par condicio”, proprio del diritto fallimentare, né vogliamo sottolineare il fatto che le regole non sono mai mancate, e fa un certo effetto vederle tornare di moda, quando a lungo non si è badato a quelle che c’erano (e che ci sono). Da parte nostra vorremmo ricordare a Scalfaro che, se clamorose violazioni delle regole, della “par condicio”, del buon senso e della decenza si sono avute in fatto di elezioni, esse sono state quelle operate da magistrati che non hanno esitato a compiere le acrobazie più vergognose con i pretesti più assurdi per gettare il peso del loro potere sulla bilancia delle consultazioni elettorali. Bisognerebbe anzitutto farla finita con le candidature di magistrati che passano direttamente dal palazzo del tribunale o della Procura alla campagna elettorale nella stessa circoscrizione e che, se non eletti, tornano nello stesso luogo a esercitare le loro funzioni e ciò grazie a interpretazioni di comodo delle leggi vigenti, consentite dalle stesse Camere (che hanno convalidato le loro elezioni) e dal Csm che ha deciso di non rimuoverli, come prescritto per legge, dopo l’eventuale mancata elezione. Ad esempio di rapporti selvaggi tra i poteri 1. Il risultato elettorale del 21-4-96 ha permesso la costituzione di un governo con ampia maggioranza parlamentare e quindi potenzialmente in grado di operare su di un arco di tempo consistente, vale a dire di qualche anno. La posizione del governo appare ancora più rafforzata dall’inconsistenza dell’opposizione, divisa e incapace di proporre un programma di azione alternativa a quello della maggioranza parlamentare, in particolare su argo menti di importanza fondamentale, quali sono l’attività industriale, la politica europea, la previdenza sociale. Questa incapacità ed inerzia della opposizione non può che stupire, se si tiene conto del fatto che tale opposizione ha raccolto il consenso, in termini di voti, della metà degli elettori italiani. 2. Tralasciamo di considerare qui i motivi che possono spiegare l’incapacità dell’opposizione, se questi siano contingenti (cioè dovuti a contrasti tra le sue varie componenti), oppure intrinsechi cioè attribuibili al modesto livello culturale e politico dell’opposizione stessa. Invece rivolgiamo la nostra attenzione: a) alle condizioni attuali della economia italiana; b) alla prevedibile variazione di tali condizioni nel medio termine; c) all’influenza dei provvedimenti governativi, già deliberati od annunciati per i prossimi mesi. Infine verranno indicate, dopo l’analisi critica della situazione e dei provvedimenti governativi, alcune possibili linee d’azione per contrastare il processo di decadenza dell’economia, e particolarmente del sistema industriale in Italia. 3. Come è ben noto, l’economia italiana presentava alcune importanti peculiarità, che la distinguevano da quelle dei maggiori paesi europei: pochissimi gruppi di grandi dimensioni, le aziende a partecipazione statale, ed un enorme numero di piccole e piccolissime aziende. Negli ultimi cinque anni è aumentato sia il peso dei grandi gruppi, che quello delle micro imprese, mentre è stato demolito il sistema delle partecipazioni statali. Le conseguenze di queste variazioni sono considerate generalmente positive, anche se del tutto a tono. Si devono invece considerare come estremamente dannose per l’avvenire dell’Italia (e non soltanto dell’industria italiana) sia la distruzione delle industrie PP.SS., che la proliferazione delle micro-imprese e la concentrazione nei grandi “gruppi privati”. 10 / 2012 dello Stato possono essere portati gli interventi della magistratura chiaramente finalizzati ad avere ripercussioni sull’opinione pubblica sull’imminenza del voto. L’attività delle Procure all’avvicinarsi della scadenza elettorale si fa frenetica. Basti pensare alla campagna antiBerlusconi e antiFininvest, alla vigilia del voto del 27 marzo 1994, culminata con il grottesco sequestro (divenuto poi, per resipiscenza parziale, “acquisizione”) delle liste elettorali e dell’elenco dei club di Forza Italia disposto dalla ineffabile dottoressa Omboni di Palmi alla ricerca di prove dello “spostamento)” del legame tra la massoneria “deviata” di Alliata di Montereale con il movimento del colonnello Pappalardo verso Forza Italia, “subentrata” a Pappalardo. Che il ridicolo di tale provvedimento abbia fatto guadagnare voti a Berlusconi anziché fargliene perdere, significa solo che gli italiani sono più seri dei magistrati della loro repubblica. E chi non ricorda il gran lavorio delle Procure alla vigilia del voto per le regionali e amministrative dell’aprile 1995, con le candidature “eccellenti” di magistrati? E che dire degli arresti in casa Fininvest alla vigilia del voto referendario? Chi può permettersi campagne elettorali a colpi di incriminazioni, di ordinanze giudiziarie di custodia cautelare, d’intimidazioni giudiziarie non è certo in condizioni pari a qualsiasi altro citta- dino, candidato, partito. Ma il presidente Scalfaro non sembra preoccuparsi della “par condicio” tra partito dei magistrati e altre forze politiche che non sono nelle grazie e nelle alleanze di tale potentissima forza politica. E ben vero che la minaccia di Scalfaro “altrimenti non si vota”, che già è una minaccia a senso unico, è per il partito dei magistrati, non una minaccia ma un ulteriore favore. La situazione d’incertezza politica e il governo dei tecnici (malgrado l’”incidente” Mancuso) appoggiato da Pds e Lega, sono infatti terreno ideale per il rafforzarsi senza ritegno della tracotanza del partito dei magistrati e delle sue propaggini eversive. Ma se si vuol parlare di regole nel nostro Paese, bisogna anzitutto stabilire regole certe per i magistrati, eliminando ogni supplenza, ristabilendo criteri concreti di responsabilità e impedendo il “golpe giudiziario”, poco importa se strisciante o fragoroso. La “par condicio” per le elezioni presuppone che i magistrati stiano al loro posto e che le elezioni non si facciano con le ordinanze di custodia cautelare e le propalazioni delle conferenze stampa e delle fughe di notizie dai Palazzi di giustizia. Irresponsabili maggio 1995 “L’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati è competenza del ministro della Giustizia e non del governo)”. Con questa ineffabile ■ 1996 - NUMERO 8 SISTEMA INDUSTRIALE, UNA CRISI DI STRUTTURA Antonio Venier 4. Nel prossimo semestre del 1996 il processo di deterioramento del sistema industriale non si è accelerato, anzi ha forse mostrato un lieve rallentamento. Questo effetto è da attribuire alla stasi nell’attività di governo, dovuta alle elezioni. Tuttavia non si deve certo scambiare questo andamento come una inversione di tendenza: infatti il nuovo governo ha annunciato la sua intenzione di procedere entro breve termine ad alcune privatizzazioni importanti, quali le telecomunicazioni ed il resto dell’ENI. Inoltre il nuovo governo non ha mostrato finora nessuna intenzione di intraprendere una qualsivoglia azione di sostegno verso i resti dell’industria di alta/media tecnologia: ci riferiamo in particolare al settore militare ed aeronautico, che dovrebbe attendersi “risparmi”, cioè smobilitazioni, e non certo aiuto. 5. La situazione dell’industria alla metà del 1996 può essere riassunta così: a) La grande industria continua a perdere effettivi, mantenendo la produzione stazionaria o leggermente decrescente; b) La piccola/media industria sembra avere esaurito una parte dei cosiddetti “vantaggi” di competitività derivati dalle svalutazioni; c) I prezzi all’interno rimangono alti, con aumenti reali su base annua superiori all’8%, assicurando quindi ampio margine di profitto anche con bassa produzione. Variazione 1995/1994 prezzi ingrosso Istat +10,3%. Al consumo +5,2% (?); d) I “piccoli” del mitizzato Nord-Est, e in generale tutte le piccole imprese, reagiscono fortemente alla prospettiva di dover pagare integralmente imposte e contributi previdenziali. 6. Nelle condizioni sopra descritte non sembra che vi sia alcuna necessità di nuovi investimenti nell’industria. Infatti la grande industria (es. tipico automobile), considera razionalmente preferibile tenere prezzi e margini di profitto elevati con produzioni stazionarie, piuttosto che mirare a maggiore produzione con prezzi di vendita (e margini unitari di profitto) più bassi. La piccola/media industria ha forti margini di profitto, alla condizione di potere avere una tolleranza su tassazione e contributi sociali, cosa che finora è sempre stata accettata dalle autorità di governo, ovviamente in modo implicito. Poiché questo settore ha prodotti di bassa tecnologia - e non può essere altrimenti - la sua competitività sui mercati esteri è basata in sostanza sul prezzo, cioè sostanzialmente sul tasso di cambio della lira e su costi contenuti per motivi non tecnologici. Neppure nella piccola/media industria appare necessario aumentare la capacità. produttiva con nuovi impianti, appunto perché il volume di vendita dipende essenzialmente - e soprattutto per l’esportazione - da fattori esterni all’impresa, quali tasso di cambio e tolleranza fiscale e previdenziale, fattori incontrollabili e soggetti a rapide variazioni. 7. La conseguenza logica di quanto sopra esposto è che in Italia non vi è alcun motivo di attendersi una diminuzione della disoccupazione. Al contrario il modesto apprezzamento della moneta italiana riduce la “competitività” dei prodotti medio/poveri esportati. Ma neppure può continuare indefinitamente la condizione di sotto valutazione del cambio, che comporta evidentemente una perdita netta di risorse per il Paese, anche se questo effetto è dimenticato dai tromboni che celebrano i successi dell’esportazione italiana. 8. Spendiamo solo poche parole per la proposta, cara ai sindacati, di riassorbire la disoccupazione per mezzo di una generalizzata riduzione dell’orario di lavoro, per es. a 30/32 ore risposta a chi gli chiedeva cosa ne pensasse delle dichiarazioni di Mancuso sul Pool di Milano, su Caselli e Mannino, Dini ha “preso le distanze” dal Guardasigilli del suo governo. E’ competenza del ministro. E chi è questo ministro? Di quale governo fa parte? Bohoh! Che il governo condivida solidalmente la responsabilità politica dei vari ministri, almeno per gli atti più rilevanti da essi compiuti, è principio ovvio e basilare non solo nel nostro sistema costituzionale. Ma Dini è presidente di un governo tecnico e quindi ignora le responsabilità politiche. Inoltre il suo è o non è il governo del presidente (della repubblica)? Quindi D’Alema se la veda con Scalfaro. E Mancuso, se anche Scalfaro si tira fuori, anzi se dice chiaramente “non ci sto”, se la veda personalmente con D’Alema e con i magistrati che, in fondo, vogliono solo essere irresponsabili anche loro. È a questo punto la sua ritrovata responsabilità di capo dell’esecutivo gli imporrà di dire a Mancuso di chiedere scusa. Ha suscitato scandalo il fatto che gli alunni di una scuola di Palermo usavano le parole “pentito” e “Buscetta” come insulti contro i compagni traditorelli e un po’ spie? D’ora in avanti ai compagni che ti voltano le spalle quando qualcuno ti aggredisce e dicono: “non mi riguarda”, potrai dire: “Sei un Dini”. s Mauro Mellini in luogo delle attuali 40 ed oltre. Questo provvedimento sarebbe infatti distruttivo per le piccole imprese (che si basano su pochi addetti con grande flessibilità di orario); le grandi industrie potrebbero invece accettare una riduzione dell’orario di lavoro senza troppi problemi, ovviamente scaricandone i maggiori costi sulle finanze pubbliche, per mezzo di cassa integrazione e riduzione di oneri sociali. 9. A nostro parere la sola via efficace - certo più nel medio/lungo termine che nel breve - per un grande paese industriale, quale vorremmo fosse ancora l’Italia, è quella di orientarsi verso pro dotti di alto valore, o comunque fuori dalle capacità dei paesi con basso costo del lavoro. Ci rendiamo conto che una proposta del genere appare piuttosto velleitaria, perché da gran tempo la politica industriale del nostro Paese è rivolta verso i prodotti di livello medio e basso, senza una strategia ed un sostegno verso l’alta tecnologia, che ha la sua più chiara ed efficace espressione nell’industria militare e nell’industria aeronautica che è di fatto “militare” anche quando produce per impieghi civili. 10. Tuttavia una variazione tanto innovativa non può essere certo decisa, e meno ancora messa in opera, da un governo privo di una chiara visione degli interessi nazionali, qual è certa mente l’attuale, in quanto non dissimile dai predecessori. Pertanto quanto si può chiedere nell’immediato deve essere molto di meno. Le azioni necessarie nell’immediato futuro sono del tutto ovvie, ma comunque qui le ripetiamo: a) porre termine alla svendita del patrimonio industriale di proprietà pubblica, sia per evidenti motivi di convenienza immediata, sia ancor più per mantenere una base in vista di sviluppi futuri verso l’alta tecnologia; b) dare corso ad un massiccio programma di opere pubbliche, principalmente nel settore dei trasporti ed infrastrutture, attingendo per il relativo finanziamento al debito pubblico, cioè al risparmio interno ancora ampiamente disponibile, anziché a disastrosi prestiti esteri o ad un aumento del gettito fiscale. Ricordando la recente vicenda dell’Eurotunnel franco-inglese, è assolutamente da escludere il ricorso al finanziamento privato per opere pubbliche importanti. 11. A proposito di debito pubblico, sarebbe utile confrontare seriamente quello italiano con CRITICAsociale ■ 13 10 / 2012 quello di altri Paesi d’Europa, distinguendo finalmente il debito pubblico reale, che è quello verso l’estero, dal debito pubblico interno, che è soltanto una redistribuzione interna del reddito. Alla fine del 1993, secondo Eurostat, il debito pubblico estero dell’Italia era di 38.264 milioni di Ecu (circa 71.000 miliardi di lire), cioè ben sette volte inferiore al debito estero della Germania, che ammontava appunto a 266.261 milioni di Ecu. Ovviamente non possiamo escludere che l’indebitamento italiano verso l’estero sia peggiorato dal 1993 ad oggi, grazie all’azione governativa negli anni 1994 e 1995 guidata dai tecnici, Banca d’Italia, ecc. Tuttavia, nonostante gli sforzi per indebitare l’Italia, si può ragionevolmente ritenere che la nostra situazione sia ancora di molto migliore di quella tedesca, almeno per quanto riguarda l’indebitamento verso l’estero. 12. Ritorniamo al tema di questa nota, per osservare che il sistema industria le italiano si trova inserito in un pro cesso di decadenza “strutturale” e non congiunturale. Abbiamo esposto precedentemente le ragioni del successo della piccola industria, che sono nello stesso tempo le ragioni della sua estrema debolezza e fragilità. Le grandi industrie private, cioè i tre grandi gruppi Fiat, De Benedetti/Olivetti e Pirelli, non sono mai state seriamente interessate ai settori di alta tecnologia, e meno che mai ora. I profitti di questi grandi gruppi privati sono sostanzialmente dovuti ai trasferimenti di denaro pubblico, a “delocalizzazioni” delle residue attività produttive in Paesi stranieri, e ad operazioni finanziarie. 13. Per quanto sopra detto non dobbiamo certo considerare con entusiasmo gli eccedenti della bilancia commerciale rilevati dal 1993 in poi: questi eccedenti sono infatti dovuti ad un artificioso tasso di scambio, cioè in sostanza sono una perdita di risorse per il sistema economico nazionale. Il nostro Paese deve quindi vendere all’estero quantità crescenti di mezzi a basso/medio valore, per approvvigionarsi a co- stì elevati di materie prime, alimentari e prodotti di alta tecnologia. 14. La sola via praticabile per un tentativo di stabilizzazione a breve termine ci sembra essere quella di un grande programma di spesa pubblica (rif. Par. 10 e 11). Non soltanto lavori pubblici in senso stretto quali miglioramento della rete ferroviaria e stradale, ma anche commesse alle industrie, con particolare sostegno a quelle che hanno prodotti “ricchi”, di tecnologia medio/alta e con possibilità di esportazione non basata sui prezzi di liquidazione. Indispensabile è a nostro parere un deciso aumento delle commesse per materiale militare, necessarie sia per assicurare un livello ragionevole della capacità difensiva dell’Italia, sia per assicurare la sopravvivenza di quanto resta nel settore, in attesa del tanto sognato piano di sviluppo. 15. Allo scopo di evitare equivoci, affermiamo la necessità di assegnare la totalità delle spese pubbliche ad aziende non soltanto con sede in Italia, ma soprattutto con progettazione e produzione localizzate in Italia. Questo ovviamente per due motivi: il sostegno dell’occupazione e il mantenimento della capacità realizzativa dei prodotti. N.B.: questa osservazione è motivata da un fatto contingente: la notizia, speriamo non fondata, che il non disprezzabile nuovo Trevi, “treno veloce italiano” sia costruito parzialmente in Francia (per la porzione Fiat), quindi perdendo sia lavoro che conoscenza tecnologica. 16. Le considerazioni, proposte ed auspici che abbiamo esposto in questa nota non hanno certo pretesa di originalità: si tratta in buona sostanza di cose ovvie, la cui necessità appare evidente a tutti, od almeno a tutti coloro che uniscono una sia pure moderata conoscenza dell’argomento al desiderio di non vedere l’Italia finire fra i Paesi “in via di sviluppo”, o per meglio dire veramente sottosviluppati, diventare insomma il Paese di artigiani, visite turistiche a buon mercato, lavoro in sub-fornitura, e quanto altro possa piacere a chi sottosviluppato non vorrà essere. s ■ 1995 - NUMERO 10 DIARIO LEGHISTA Edmond Dantes D opo molte traversie, mi è stato recapitato sull’isola, la copia di un diario. Non so esattamente di cosa si tratti. Non so se sia una costruzione di pura fantasia. Un racconto romanzesco. Una libera ricostruzione di fatti interpretati e raccontati secondo il vezzo dell’autore. Non so se si tratta di realtà effettivamente esistite e di fatti realmente accaduti, di personaggi dipinti esattamente come sono. E’ un diario che risale a due anni or sono, e si riferisce anche a fatti ancora precedenti. Dopo d’allora sono successe molte cose. Tutte politiche e nessuna di carattere militare, almeno nel senso indicato nei diversi capitoli di questo diario. Infatti in questi si scriveva: “Dopo le ultime politiche, i componenti del vertice Lega Nord hanno sconsigliato prima e vietato poi, quell’atmosfera ‘goliardica’ che da sempre aveva contraddistinto i momenti politici, sociali e conviviali all’interno delle sedi. Non interpreto questa mossa come una presa di maggior coscienza e maturità. Mi ritengo un buon conoscitore del pensiero leghista. Non credo perciò che le cose stiano in questo mo- do. Questo comportamento è dettato unicamente dalla paura di possibili fughe involontarie di notizie in momenti euforici ai quali tanto invita la goliardia. Oramai Lega Nord è ben consapevole di essere controllata dai servizi di sicurezza e da tutti i settori di polizia politica presenti nel nord. Ho inoltre ragione di credere che parte degli infiltrati a suo tempo inseriti nelle fila di L.L. siano stati scoperti e che agli stessi, volutamente, vengano fatte pervenire informazioni fuorvianti anche se molto credibili. Si rendono conto insomma che non possono assolutamente più sbagliare se vogliono attuare i piani che si sono prefissati e raggiungere gli obiettivi di eversione di cui tanto parlano. Due anni orsono era abbastanza facile sentir bisbigliare di depositi d’armi e di addestramenti per un efficiente uso delle stesse. Adesso no. Adesso che veramente sono pronti, guai a chi tocca l’argomento. Solo ‘il senatur’, se lo desidera, può fare qualche ambigua allusione in pubblico. Il senatur è consapevole che si tratta di realtà e di strumenti certi sui quali può contare. Non solo sono pronti ma dispongono anche di possibilità concrete di riconversione, pressoché immediata, di materiali industriali adibiti ad impiego civile in materiale bellico. Disseminate in tutta la zona nord vi sono società con officine nei settori di fonderia, trafilatura, minuteria metallica, prodotti plastici e legname che, oltre a finanziare, sono pronte ad intervenire. Tutto questo non è affatto strano. Già due anni orsono ero stato informato, con dovizia di dettagli, di che cosa la L.L. stesse cercando di organizzare. Mi riferisco ai fatti ‘svizzeri’, ed in particolare agli incontri di L.L. (arch. Gisberto Magri) con personaggi svizzeri, tra i quali era preminente la figura del prof. Proteus. Ricordo oggi una relazione di allora nella quale si parlava della mappa sulla quale era stata tracciata la famosa linea Cisalpina che delimitava un territorio entro il quale sarebbero nati i depositi d’armi, i punti armati e di difesa dell’allora L.L. Era lo stesso periodo in cui si cominciò a parlare della nascente Lega Nord. Temo, ora più che mai, questa degenerazione. L’oggi, se non verrà immediatamente fronteggiato, porterà in breve tempo a spiacevolissime sorprese ed a fatti inquietanti e tali da far temere il peggio. Nessuna forza politica, anche se rinnovata, può illudersi di porre un’argine allo strapotere che la Lega Nord va ogni giorno assumendo sempre di più. Non è certo in termini percentualistici che bisogna ragionare. Il problema è di rapporti di forze. Bisogna agire, agire tempestivamente, per non farsi trovare impreparati. Penso che in breve si realizzeranno tutte le sezioni di L.N. e nella realizzazione delle stesse verrà contemplata una cellula difensiva. Questo significa che in brevissimo tempo L.N. potrà contare su una fittissima rete logistica, strategica ed operativa in tutta l’Italia del nord. Queste cellule collegheranno in tempo reale tutti gli addetti ai centri armati. Sono convinto che L.N. gode del favore e talune volte della complicità di molti esponenti dell’Arma e gli stessi sono disseminati in tutte le regioni del nord e guarda caso sono indigeni. Ci risulta inoltre che taluni di loro, occupino posizioni di rilievo nella gerarchia militare. Anche questo è un fattore molto inquietante. Ancora più inquietante, è la certezza che, anche nell’ambiente dell’esercito, la L.N. ha ormai raggiunto una penetrazione ancora maggiore. Naturalmente mi riferisco ad ufficiali e graduati di carriera. Non so per la verità come stiano le cose nella polizia, ma se tanto mi da tanto, anche in. questo caso le cose dovrebbero avere preso la stessa piega. Per il momento continuo tuttavia a prendere tutto questo con qualche beneficio d’inventario. Questa settimana le mie indagini hanno segnato il passo, non certo per nostra volontà ma per il ripetersi di quello strano gioco che le leghe hanno sempre attuato nei momenti che precedono eventi di particolare rilievo. Oramai l’esperienza ci insegna che in questi frangenti le leghe si barricano dietro l’uso esasperato di una tecnica semplice: ‘Dico una cosa, ne faccio un’altra e ne penso un’altra ancora’. Qualsiasi informazione assunta in questi momenti, anche se proveniente da fonti di provata attendibilità, deve essere valutata con la più attenta considerazione critica. Meglio ascoltare e attuare ulteriori verifiche. Così non mancherò di comportarmi nella riunione prevista per venerdì. Già sono portato a riflettere sulle cose dette dai capi di Lega Nord nel corso di questa settimana. Bossi dice: faremo arrivare dalla Slovenia e dalla Croazia carichi di armi per rifornire il blocco d’ordine delle leghe al fine di contrastare un ‘possibile’ golpe Dc; poi smentisce e successivamente querela. E poi ancora: il 1995 sarà l’anno del samurai! Il samurai sono le leghe e nel ‘95 andremo al potere. Formentini dice: tra quelle persone gira troppo alcool e... anche del crak da elezione e getta così tutto in burla pesante. In sostanza forse un ‘nessun commento’ mascherato alla grande. Tutti questi discorsi o rappresentano una generale farneticazione della Lega o nascondono verità terribili non ancora emerse nella loro realtà concreta. Bossi si è reso conto che molti ‘sanno’ e che tener nascosto cose di questa natura è un’impresa senza speranza. Per prima cosa scarica addosso alla De il proprio disegno di golpe. In secondo luogo minaccia di far venire i tanto sbandierati ‘kalashnikov oliati’, distogliendo così l’attenzione e le possibili ricerche dai depositi già esistenti. Infine, parlando di un non meglio identificato ‘blocco d’ordine’, avvisa il popolo leghista e non che esiste una realtà di questo tipo pronta per qualsiasi evenienza. Scusate se è poco! Che cosa significa poi ‘l’anno del samurai’? Bossi sa molto bene che parlare di 1995 significa ancora una volta simulare e mentire spudoratamente, ma ciò che importa per lui è che tutti ci credano. Elettorato, partiti, parlamento e governo. Solo così può passare inosservata la manovra che invece nel primo semestre del ‘93 dovrebbe consolidare la sua piattaforma in modo che attorno alla fine del ‘93 gli sia possibile spiccare il volo che deve consentirgli di raggiungere una posizione di controllo e di grande preminenza politica in Italia. In pratica molti mesi prima dell’inizio della scalata che tutti si attendono. Per ultimo ricordo sempre che Bossi, nel parlare di armi e di blocco d’ordine, ha sempre usato il termine leghe e mai una volta Lega Nord. Le ipotesi e le supposizioni alle quali sto lavorando non sono affatto campate in aria. Oggi sono più che mai consapevole che esse hanno contenuti di verità tali da dover essere presi nella più seria considerazione. La prova mi è pervenuta in modo indiretto mentre svolgevo altre ricerche e più specificatamente mentre cercavo di capire sia il momento di nascita che quello aggregativo dei tanto chiacchierati depositi d’armi. In teoria Lega Nord non annovera tra i suoi servizi realtà come quelle appena esposte, ma in pratica essa vi ci può contare. L’apparente contradittorietà si spiega molto bene se prendiamo in esame le leghe regionali che confluirono a suo tempo in Lega Nord. Queste, pur aderendo al momento consociativo ed accettando in toto: statuto, mandamenti e capo storico della Lega Nord, rimasero nella più completa autonomia per talune realtà come quelle ad esempio di natura militare. Ho sempre avvertito l’esistenza di un movimento parallelo e clandestino. Risulta chiaro adesso, alla luce delle notizie pervenutemi, che bisogna parlare di realtà clandestine e parallele alle leghe R. ove la coagulante Lega Nord può solo fruire e non stabilire. E’ proprio da qui che nascono le grosse difficoltà di individuazione e smascheramento alle quali tutti indistintamente, servizi di sicurezza italiani compresi, hanno dovuto andar incontro. Le realtà da scandagliare non si trovano in Lega Nord, ma bensì: Liga Veneta Lega Lombarda - Lega Piemontese - Lega Ligure - Lega Trentina A.A.; Allo stato attuale delle cose chi gestisce i depositi sono ancora coloro i quali li hanno costituiti, avvalendosi sia a quel tempo, come oggi, della complicità di forze dell’ordine locali d’estrazione non meridionale. Quanto alla Lega Nord, essa ha messo in atto l’accaparramento della simpatia prima, e della complicità potenziale, poi, di ufficiali superiori dell’esercito appartenenti a divisioni alpine di fanteria, 14 ■ CRITICAsociale tutto questo in forza ed avvalendosi delle singole realtà regionali. Spiegato questo, penso che L.N. si aspetta in qualsiasi momento manovre atte ad interrompere sia il consolidarsi di queste complicità che lo smascheramento dei depositi. Tuttavia le cose sono messe in modo che, quando questo dovesse accadere, alla stessa non potrà essere addebitata nessuna responsabilità diretta. Qualsiasi addebito andrebbe alle leghe regionali, le quali arbitrariamente avrebbero costituito illegali depositi d’armi. A parer nostro la Liga Veneta per la costituzione di depositi di armi, adottò a suo tempo particolari criteri. Le informazioni che sono riuscito ad ottenere non sono complete, ma ritengo siano sufficienti per svolgere qualche considerazione. Parlo di Liga Veneta e non di Lega Lombarda o di altre leghe regionali. La ragione è semplicissima: Liga Veneta fu la prima ad essere costituita e quindi la prima ad approntare ‘depositi’. Questo successe molti anni prima che Brivio e Bossi fondassero Alleanza Lombarda, dalla quale poi, mediante scissione, nacque Lega Lombarda che partorì a sua volta Lega Nord. Costituire depositi d’armi, a parole è sicuramente facile, ma poi nei fatti si debbono fare i conti con difficoltà d’ordine pratico-logistico e di spazio fisico che sono di prima grandezza. In un primo tempo i depositi potevano essere collocati anche in superficie, data l’esiguità degli stessi. Successivamente, la quantità d’armi accumulata rese indispensabile un cambiamento di ubicazione. Il criterio principale seguito per questo fu la dislocazione sotterranea. Scavi e movimentazione di terra avrebbero immediatamente portato alla localizzazione, bisognava perciò utilizzare qualcosa di già in essere. Cosa di meglio se non le carte del carsismo che furono usate anche nelle guerre mondiali: Prima Guerra Mondiale, debitamente attrezzate come depositi di armi e munizioni; Seconda Guerra Mondiale, per un impiego molto meno bellico: occultare i cadaveri degli uomini della resistenza. Le tristemente note ‘foibe’. Nella zona carsica vi sono migliaia di queste ‘carie’. Ricordiamo che nella zona del Timavo, caverne e grotte sotterranee si contano a centinaia. Per questo è necessario consultare carte topografiche militari specifiche del periodo 1915-1918. Queste dovrebbero riportare le segnalazioni relative ai depositi d’armi e munizioni di quei tempi. La consultazione delle stesse, non solo sarebbe di grandissimo aiuto, ma restringerebbe enormemente le ricerche in zona. Il pensiero di chi ha costituito questi nuovi depositi è stato questo: chi mai penserà che per i nostri scopi si possano riutilizzare strutture attrezzate settant’anni orsono e che sono state soggette a bonifica? Tutto quanto sin qui esposto si riferisce alle zone carsiche. Veniamo adesso alle triangolazioni che hanno permesso di identificare il sistema. Ponte nelle Alpi - Bosco del Cansiglio -Trichiana (Località in provincia di Belluno). Montebelluna - Asolo - Bassano del Grappa (Località in provincia, di Treviso). Tezze di Vazzola - Sarano di Santa Lucia -Venegazzù. (Località in provincia di Pordenone). Non pervenute (incompletezza del dato sottolineato in apertura). Per quanto appena detto vedasi cartine allegate. Risulta immediatamente chiaro che il sistema di dislocazione dei depositi e le linee nei quali essi sono raccolti, si rifanno ad una vecchia tecnica militare caduta in disuso ovvero quella del triangolo armato o ‘cuneo’. Un altro fatto risulta chiarissimo. Dal momento che il Veneto non è tutta zona carsica, per i rimanenti depositi saranno state utilizzate aree di rifugio bellico come: casematte, rifugi 10 / 2012 antiaerei, piazzuole interrate di difesa antiaerea. A questo punto, se la nostra teoria è esatta e crediamo proprio che sia vicinissima alla realtà, sarà opportuno consultare le carte militari della Seconda Guerra Mondiale. Per il momento non siamo in possesso degli elementi e delle informazioni necessarie e sufficienti per consolidare e sviluppare la nostra tesi. Abbiamo già visto le relazioni che tracciano gli scenari trascorsi e presenti di Lega Nord e relative leghe regionali con contenuti altamente attendibili. Elenco ora di seguito in ordine cronologico una serie di punti che permettono di sintetizzare i fatti con maggior chiarezza al fine di determinare la situazione reale: 1) a suo tempo nasce Liga Venera. Questa per tre quarti è composta da facinorosi della peggior specie estromessi dalle più disparate entità estremistiche e terroristiche. Nel consolidamento della stessa si decide che vengano formati anche gruppi armati; 2) da prima non si pone il problema dell’occultamento delle armi, ma successivamente sì. Da qui la ricerca di nascondigli idonei non in superficie. Vengono utilizzate le ‘carie carsiche’; 3) sull’onda di Liga Veneta, nasce Alleanza Lombarda e successivamente Lega Lombarda. La stessa ottiene da personaggi svizzeri gli indirizzi necessari per impostare l’idea federalista; 4) gli ex brigatisti si conoscono tutti tra loro e così, Magri Gisberto, architetto in Zanica (Bg) ed anche noto brigatista viene informato che Liga Veneta possiede depositi d’armi. Lo stesso parla con chi di dovere ed ottiene di demandare ad alcuni fidi la costituzione di analoghi depositi in quel di Bergamo e Varese. In questo caso la ricerca di luoghi ove nascondere tali realtà diventa più ardua. Alla fine si decide per piccole grotte e caverne montane. Successivamente si passerà a vecchie casematte in prossimità di ex aeroporti militari e aviosuperfici abilitate nel periodo bellico della Seconda Guerra Mondiale; 5) ben presto nascono altre leghe, quella piemontese, quella ligure ecc. Anche in questi casi non si tralascia di costituire depositi d’armi. I criteri per l’occultamento sono sempre i medesimi, con una variante per la Liguria, dal momento che la stessa possiede decine e decine di ex postazioni e di piazzuole interrate adibite a suo tempo alla difesa costiera e che ormai sono andate in disuso ed abbandonate a sé stesse subito dopo il termine del conflitto; 6) a questo punto, quanto si era stabilito perché dovesse esservi una struttura militare all’interno della linea cisalpina è divenuto una realtà. Questa realtà viene gestita da pochissimi adepti, i quali agiscono autonomamente per ogni singola lega regionale; 7) i risultati ottenuti, dopo le varie elezioni svoltesi, fanno da catalizzatore alla nascita di Lega Nord, la quale, pur riunendo tutti i suffragi leghisti, non fa venir meno le autonomie regionali; 8) chiaramente, nelle autonomie regionali sono comprese le realtà armate. Nella ristesura degli statuti si bada con molta attenzione a che queste realtà non abbiano mai a comparire in Lega Nord e, soprattutto, che le stesse non possano essere neppure collegate in un futuro più o meno prossimo alla stessa Lega Nord. Nonostante ciò, è parimenti allo studio un sistema per collegarle tra loro e per l’impiego delle stesse qualora vi fosse necessità; 9) all’indomani delle ultime elezioni politiche, le percentuali raggiunte sono tali da giustificare l’apertura di nuove sezioni. Si presenta l’occasione per attivare i collegamenti. Il sistema deve essere efficiente anche se scollegato da Lega Nord. Pertanto un’unica cellula, là dove si rende necessario, sarà al corrente e, la stessa, pur frequentando la sezione, di fatto apparterrà alla lega regionale. In questo modo, per qualsiasi eventualità, Lega Nord non si assumerà nessuna responsabilità. Prima di passare ad altro, anche in questa sede ribadiamo due fatti importantissimi: Per la realizzazione di quanto sin qui esposto si sono resi complici uomini appartenenti alle forze dell’ordine. Le simpatie raccolte da L.N. negli ambiti militari vanno lontano. Il piano leghista prevedeva, una volta raggiunti gli obiettivi entro la linea cisalpina, che si attuasse un’espansione graduale verso Emilia-Romagna e Toscana. Da fonti attendibilissime ci è dato sapere che questa fase è in stato avanzato di compimento. L’uomo scelto a suo tempo, e tuttora designato per questa operazione, è Alessandro Patelli, braccio destro di Bossi per ciò che riguarda l’attuazione del proselitismo. Lo stesso a suo tempo rifiutò infatti la candidatura alla Camera dei Deputati ed accettò di essere capo gruppo in Regione Lombardia unicamente per avere piena libertà d’azione in questo senso. Quando poi si avvide che le cose assumevano una piega favorevole declinò la carica in Regione dedicandosi a tempo pieno agli obiettivi organizzativi di rafforzamento e d’espansione. Risultato: è tutto pronto per l’apertura ufficiale di Lega Emilia, Lega Romagnola e Lega Toscana con relativa annessione a Lega Nord. Abbiamo ragione di credere che tutto questo si realizzerà subito dopo le votazioni che si terranno il 13 dicembre a Varese e Monza. E’ inoltre ormai una certezza il raggiungimento di percentuali nell’ordine del 42% per Lega Nord e di circa l’8% per Lega Alpina. Esiste un’altra certezza: il raggiungimento di simili risultati permetterebbe a Bossi di fare tutto ciò che è necessario fare per provocare la caduta della giunta milanese mandandola ad elezioni anticipate, consapevole che la nuova tornata di votazioni lo vedrebbe con una percentuale pari al 38%. I dati sin qui riportati sono stati ricavati dai tesseramenti avvenuti sino ad ora. A suo tempo ero stato informato della possibile esistenza di un gruppo di uomini, de- signati dalla Lega Nord, per effettuare servizi particolari del tipo: trasporto celere di documenti riservati, trasporto di danaro da una sede all’altra o da un istituto di credito ad un altro, scorta particolare ad esponenti maggioritari della Lega e no (a questo proposito vi avevamo parlato di accompagnamento durante i trasferimenti di A.D.P.). Oggi ho raccolto notizie più specifiche ed anche più attendibili. Le unità che formano questo contingente sono 84+3, gli automezzi 28+2. Ogni sede provinciale mette a disposizione un automezzo e tre persone: Lombardia: Varese, Sondrio, Mantova, Lecco, Como, Brescia, Cremona, Bergamo, Milano. Liguria: La Spezia, Savona, Genova, Imperia. Piemonte: Novara, Vercelli, Biella, Verbania, Cuneo, Asti, Alessandria, Torino. Triveneto: Venezia, Udine, Trieste, Trento. Emilia: Calderara di Reno. Romagna: Forlì. Toscana: Firenze (località non meglio identificata). Chiaramente esiste una rotazione e il concetto della stessa; un servizio ogni tante settimane quante sono le località che appartengono alla regione. Emilia-Romagna-Toscana non ci è dato di sapere come siano organizzate essendo di recentissima apertura. Possiamo comunque affermare che Lega Nord dispone ogni giorno di 5+1 automobili e di 15+1 persone per effettuare, qualora si rendesse necessario, tutti quei servizi elencati in apertura. Concludiamo asserendo, senza ombra di dubbio, che più di una volta, unità come queste, si sono affiancate alla scorta tradizionale durante i trasferimenti di A.D.P. sia che questi fossero nell’hinterland lombardo sia che fossero effettuati per altre località come VeneziaFirenze-Roma ecc.”. Sin qui il diario del “leghista pentito” che, come tutte le cose anonime, vale per quello che vale. s Edmon Dantes ■ 1999 - NUMERO 1 I SOCIALISTI E IL CASO CRAXI Critica Sociale I socialisti italiani del PS e dello SDI hanno inviato e sottoposto all’assise del Congresso del Partito Socialista Europeo di Milano, un documento sugli anni della “falsa rivoluzione”, sulla liquidazione del PSI e sul caso Craxi. La Critica Sociale ha sottoscritto il documento che pubblichiamo A i delegati del PSE. Care compagne e cari compagni, vogliamo portare all’attenzione di voi tutti e del Partito Socialista Europeo la questione del Partito Socialista Italiano e di Craxi, cioè il dramma di un partito, il PSI nato nel 1892 che é stato sempre, nella buona e nella cattiva sorte, uno dei partiti storici della democrazia italiana ed una formazione politica radicata nell’Internazionale Socialista, e di una personalità politica che é stata per molti anni Segretario del PSI, Presidente del Consiglio, Presidente della Comunità Europea, Vice Presidente della stessa Internazionale Socialista. Molti di voi lo ricorderanno certamente perché lo hanno direttamente conosciuto e lavorato con lui in grandi battaglie democratiche del socialismo interna- zionale. Ebbene, Craxi ed il PSI, nello spazio di due anni, tra il 1992 e il 1994, sono stati investiti da un’offensiva giudiziaria e massmediologica di straordinaria violenza e di studiata unilateralità. Non c’é vicenda analoga nella storia delle libere democrazie dell’intero secolo. Dopo due anni di una offensiva devastante il PSI, partito di più di mezzo milione di iscritti e rappresentante di cinque milioni e mezzo di elettori, é stato letteralmente disperso e distrutto. Alla diaspora socialista sono sopravvissute, percorrendo itinerari diversi due formazioni politiche che si rifanno esplicitamente alla storia del PSI e cioè lo SDI e il Partito Socialista, ma purtroppo esse sono oggi molto lontane dall’avere la forza, il prestigio, la funzione politica che ha avuto il PSI nella storia e nella vita politica italiana. Come certamente saprete fino ad oggi Bettino Craxi ha totalizzato in una serie di processi falsi organizzati senza prove e condotti con procedure tutt’affatto speciali, in aperta violazione delle leggi dello Stato, dei principi della Costituzione e delle norme dei Trattati internazionali, a cominciare da quelli europei, più di venticinque anni di condanne, di cui una definitiva, ed é costretto a vivere in esilio. Oltre a Craxi più di 1.000 dirigenti CRITICAsociale ■ 15 10 / 2012 socialisti sono stati colpiti da avvisi di garanzia e da arresti resi pubblici con grande clamore dalla stampa e dalla televisione. Un vero e proprio massacro inumano, con innumerevoli suicidi e morti per infarto e cancro da stress, con intere vite e famiglie distrutte non solo nella vita pubblica ma anche nella vita sociale e lavorativa. Attraverso queste incriminazioni sistematicamente organizzate in tutte le regioni d’Italia e riguardanti spesso oltre alle prime, anche le seconde e le terze file del quadro dirigente socialista nazionale e locale, insieme a Craxi anche gran parte del PSI é stato perseguitato, emarginato o comunque posto in condizioni di eccezionale difficoltà. Oggi, a diversi anni di distanza, molti di questi dirigenti socialisti vengono assolti in sede di giudizio, dopo essere stati umiliati ed espulsi faziosamente dalla lotta politica e, sovente, con un insieme di drammatiche vicende personali. Tutto ciò é stato reso possibile da una strumentalizzazione in sede politica dell’azione per altro spesso unilaterale e pregiudiziale di clans ideologizzati e politicizzati della magistratura. Una cosiddetta “rivoluzione” esaltata a sinistra soprattutto dal PDS con il sostegno di altri gruppi della sinistra e dalle formazioni di destra, in particolare la Lega Nord che promuoveva la secessione e la destra proveniente dal MSI. Con la distruzione del PSI e degli altri tradizionali partiti di governo molti trovavano l’occasione per uscire dalla condizione di isolamento nella quale le condizioni della democrazia in Italia li aveva mantenuti e per conseguire traguardi di potere che in passato non avevano mai raggiunto. L’arma che é stata usata é stata quella della illegalità del finanziamento politico. Il fenomeno del finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, diffuso, generalizzato e ben conosciuto in Italia da decenni é stato identificato come un fenomeno di corruzione ed un furto ai danni della collettività. le cose avrebbero preso un corso diverso se nel contempo non avessero trionfato la selezione e la discriminazione. L’attacco é stato portato essenzialmente contro i partiti di governo. Ha dominato la regola dei due pesi e delle due misure. Questo speciale genere di giustizia, perseguendo evidentemente, palesemente, e talvolta anche ostentatamente, fini politici, dopo decenni di silenzio su di un fenomeno che ben conosceva, si é accanita soprattutto in alcune direzioni. Altre in vece sono state protette, trascurate, omesse. Una giustizia politica in piena regola che del resto ha tenuto e tuttora tiene in scacco poteri dello Stato ed anche rappresentanti politici che si sono affermati sulle macerie del vecchio sistema politico, determinando anche in questo modo uno squilibrio intollerabile tra i poteri dello Stato che, d’altra parte, oggi più che mai é sotto gli occhi di tutti. Chi ha tentato di resistere é stato travolto, calpestato, perseguitato e demonizzato. Denunciando questa violenza italiana noi usiamo, compagne e compagni del Partito Socialista Europeo, il linguaggio della verità e della correttezza. Lo usò in una seduta solenne della Camera dei deputati l’on. Craxi in un discorso che fece il 29 aprile 1993: “In Italia buona parte del finanziamento politico é irregolare ed illegale. I partiti specie quelli che contano su apparati grandi, medi e piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare ed illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”. In quell’occasione tesa e drammatica nessuno in Parlamento si alzò né per smentire, né per confermare ciò che Craxi diceva con chiarezza. Una parte dei parlamentari, quelli appartenenti agli altri tradizionali partiti di governo (la DC, il PLI, il PSDI, il PRI) erano bloccati dalla paura di essere coinvolti anch’essi dallo stesso ciclone giudiziario, come poi di fatto avvenne. Quanto ai parlamentari del PDS e delle destre essi stavano già attizzando ed utilizzando quella bufera giudiziaria contro gli avversari politici. In primo luogo contro Craxi che per anni aveva conteso al PCI la leadership della sinistra italiana e aveva difeso e garantito l’equilibrio democratico del Paese. Il finanziamento irregolare, del resto, non era stato per nulla una caratteristica esclusiva degli anni ‘90 e soltanto del PSI e degli altri partiti di governo. Il finanziamento irregolare nella vita politica italiana era iniziato nei lontani anni del dopoguerra. Poiché in Italia c’era il più forte partito comunista d’occidente, vi fu dapprima un finanziamento di carattere internazionale: la DC e gli altri partiti del centro (il PLI, il PRI, il PSDI) erano finanziati dagli Stati Uniti, il PCI e per molti anni, sino al 1956, anno di separazione dai comunisti per i fatti di Ungheria, gli stessi socialisti del Partito di cui era segretario Pietro Nenni erano sostenuti dall’URSS. Poi la DC e gli altri partiti di governo furono sostenuti anche da gruppi industriali pubblici e privati ed il PCI dalle aziende appartenenti alla Lega delle Cooperative, oltre anch’essi da finanziamenti illegali privati, pubblici e soprattutto dal finanziamento internazionale proveniente dall’URSS e dai paesi dell’Est attraverso contributi diretti, flussi commerciali e rapporti organici con i servizi segreti. In un terzo tempo anche il finanziamento irregolare divenne “consociativo” ed, in forme varie, coinvolse insieme imprese pubbliche, private ed aziende cooperative. Ne fanno fede tutti i numerosi consorzi che con questo meccanismo triangolare hanno realizzato i grandi lavori pubblici in Italia fino agli anni ’90. In questa situazione che aveva caratteri di organicità, tutti i segretari politici dei partiti erano nelle stesse condizioni: se D’Alema e prima di lui Occhetto non poteva sapere, anche Craxi non poteva sapere, se, al contrario, Craxi “non poteva non sapere” allora anche D’Alema “non poteva non sapere”. L’uso politico della giustizia ha stravolto i caratteri di questa situazione. Un sistema giudiziario fondato su “due pesi e due misure” é arrivato al punto tale che in una occasione la stessa testimonianza rivolta negli stessi termini nei confronti di ambedue é servita per provocare la condanna di Craxi ad alcuni anni di carcere ed invece a determinare il proscioglimento di D’Alema in fase istruttoria. Come dicevamo tutto ciò é avvenuto per un uso politico della giustizia realizzato in modo accanito e sistematico. In Italia la gestione della giustizia é stata caratterizzata da gravissime distorsioni anche per errori commessi a suo tempo dalla DC, dal PSI e dagli altri partiti di governo e per una scientifica operazione di inserimento e di utilizzazione dei corpi separati dello Stato messa in atto dai gruppi dirigenti comunisti. Il sistema giudiziario italiano é molto lontano da quello europeo sotto molti punti di vista. per un verso c’é una giustizia lenta e farraginosa, dai tempi lunghissimi che vede impuniti la maggior parte dei reati comuni, dagli omicidi alle rapine ai furti. La giustizia civile é ingolfata e segnata da tempi morti che durano mesi ed addirittura anni, anche fra una udienza e l’altra, per cui i cittadini non vedono tutelati più i loro diritti privati. Di conseguenza accade che spesso le società per azioni e singoli che hanno larghe disponibilità economiche, ricorrano a forme private di arbitrato. L’unica cosa che un settore molto policitizzato di magistrati ha coltivato é stato lo sviluppo del proprio potere, la propria esposizione sui mezzi di comunicazione di massa, in un esibizionismo che é oggi fatto oggetto di una critica crescente mentre si assiste ad un crollo della iniziale popolarità della magistratura, e infine il suo organico rapporto con il PDS e con clans di questo partito, tanto alla Camera che al Senato. In Italia, l’azione di una parte della magistratura ha così trasformato un ordine in un potere. La corporazione dei pubblici ministeri finora ha fatto di tutto per evitare lo sdoppiamento delle carriere che é praticato in tutta l’Europa e che é condizione essenziale di uno Stato di diritto vinto il concorso d’ingresso, oltre ad essere inamovibile é sottoposto al controllo di un organo che per 4/5 egli stesso elegge, ha la certezza di arrivare automaticamente fino alla Cassazione, può indifferentemente e alternativamente fare il magistrato inquirente ed il magistrato giudicante, per cui può esaminare in sede di giudizio il processo che qualche tempo prima ha costruito come pubblico accusatore, può usare la carcerazione preventiva, grazie ad un giudice istruttore quasi sempre acquiescente, per provocare confessioni che, una volta verbalizzate, vengono usate come prove nei dibattimenti senza possibilità di contraddittorio da parte della difesa; può utilizzare i pentiti con la massima discrezionalità avendo la possibilità anche di servirsi dei loro avvocati (ogni avvocato dei pentiti é una sorta di dipendente della Procura ed in genere gestisce 30 o 40 di essi potendo coordinare le loro rivelazioni) e dei corpi di polizia che li controllano e proteggono; può ricorrere in modo massiccio (basti pensare che in Italia in un anno ci sono stati circa 44.000 casi di intercettazioni telefoniche autorizzate, contro i 1.500 degli USA, le intercettazioni non autorizzate non si contano) a forme molteplici di intercettazioni; il tutto in un rapporto molto stretto con i mezzi di comunicazione di massa. Ebbene il settore militante di questa magistratura dotata di tali poteri, legata a clans politici, ha alacremente lavorato per distruggere gli avversari del proprio partito e dei propri gruppi preferiti e contemporaneamente ha agito in modo da tutelarli da possibili ritorsioni, visto che il finanziamento irregolare aveva storicamente coinvolto tutte le forze politiche. Tutto ciò ha prodotto una operazione violenta che si é tradotta, nel corso degli anni ’92/’94, ma anche successivamente, in una profonda alterazione della dialettica politica democratica. Questa alterazione non é stata realizzata ricorrendo a forme plateali ed improponibili di impiego della forza militare, ma utilizzando l’arma giudiziaria con l’effetto devastante degli avvisi di garanzia amplificati dai mezzi della comunicazione di massa, e gli arresti in diretta televisiva. Con queste affermazioni non intendiamo sostenere che il PSI ed i suoi dirigenti non abbiano commesso errori ed in taluni casi anche illegalità. Abbiamo più sopra ricordato come fin dal 1992 Craxi, a nome del PSI, con una sincerità che gli viene riconosciuta dagli avversari più leali, abbia ammesso le nostre responsabilità nel ricorrere a forme illegali di finanziamento dell’attività politica che era peraltro il sistema comune a tutti i partiti. Quello che vogliamo denunciare, però, é da un lato la assoluta inaccettabilità di una logica dei due pesi e delle due misure, e dall’altro l’applicazione al PSI ed ai socialisti non già del principio della responsabilità penale personale, ma di un vero e proprio teorema sulla base del quale si é ritenuto possibile applicarle ad una formazione politica i sistemi di indagine ed i criteri di giudizio, normalmente utilizzati nel caso delle grandi organizzazioni criminali. Vogliamo denunciare come si sia ritenuto di poter utilizzare le conclusioni di una azione giudiziaria così preconcetta, selettiva e strumentale per dare scontato un giudizio morale e politico su di un’intera area politica ed il suo gruppo dirigente, rifiutando ogni possibilità di difesa o di diversa interpretazione dei fatti nella sede propria e cioè quella politico-parlamentare, attraverso una Commissione di inchiesta parlamentare. Gli elementi che possono concorrere a dimostrare la pregiudizialità e la strumentalità di ciò che é accaduto sono numerosissimi. A questo proposito basti ricordare come, proprio recentemente, uno sconvolgente documento di polizia giudiziaria relativo ad un indagine in corso presso la Procura di Brescia, e relativo ai comportamenti di Antonio Di Pietro, l’eroe di questa “giustizia politica”. In questo documento si afferma che Di Pietro fu guidato nella sua attività investigativa nel quadro di Mani Pulite da un atteggiamento pregiudiziale ostile nei confronti del PSI e di Craxi e diretto quindi a colpirli ed eliminarli dalla scena politica. Il caso Craxi non é un episodio ed un problema individuale, ma riguarda un lungo periodo di storia di un intero partito, il PSI, e per molti aspetti anche la storia della democrazia di tutto un paese. Non é un caso che, malgrado la richiesta di diverse forze dell’opposizione ed il deciso sostegno dei compagni dello SDI, guidati da Enrico Boselli, che pure fanno parte dell’attuale maggioranza, é stata respinta la proposta di istituire una Commissione Parlamentare di inchiesta sul finanziamento della politica. Essa é stata respinta in primo luogo dai DS perché i loro dirigenti che hanno oggi responsabilità di primo piano nella politica italiana, non hanno voluto che finalmente si facesse luce su ciò che é avvenuto realmente in Italia. Compagne e compagni del Partito Socialista Europeo davvero si può credere che per cinquant’anni l’Italia sia stata guidata da partiti che erano in effetti delle associazioni a delinquere e che un personaggio come Bettino Craxi sia un criminale? Di fronte a tutto questo, ed a molto ancora, crediamo che il Partito Socialista Europeo abbia il dovere di compiere esso stesso un’azione approfondita di chiarimento e di accertamento della verità. per tutte queste ragioni ci auguriamo che il Partito Socialista Europeo istituisca una Commissione d’Inchiesta sul “caso Craxi” che, oltre ad essere il “caso Craxi”, é anche il “caso PSI”. Crediamo che costituisca un atto di doverosa giustizia verificare se, per molti anni, é stato Vicepresidente dell’Internazionale Socialista un criminale, e se all’interno del Partito Socialista Europeo, c’é stato un partito, il PSI, che era nient’altro che un’associazione a delinquere. Questa analisi, e la conseguente risposta, il Partito Socialista Europeo la deve in primo luogo a se stesso, ma anche a quanti in Italia si sentono socialisti e che poiché il loro partito é stato distrutto e demonizzato, sono ora costretti ad una partecipazione politica limitata attraverso il voto ai due partiti che sono derivati dalla diaspora socialista, o che sono costretti a disperdersi in altre formazioni politiche o addirittura si rifugiano nell’astensione. Ci auguriamo che il Partito Socialista Europeo affronti la questione in modo aperto e diretto, si misuri con un problema drammatico che va considerato tale anche se in Italia i mezzi di comunicazione di massa tendono a mantenere, con poche eccezioni, una “cortina di silenzio” intorno alla questione socialista. Ma proprio questa “cortina di silenzio” e la scientifica manipolazione delle notizie sono la dimostrazione più evidente che in Italia per molti aspetti é stata costruita una situazione del tutto anormale, con caratteristiche molto diverse da quelle proprie delle democrazie europee e con fattori avventuristici che, allo stato delle cose, sono ancora imprevedibili. s PUOI FARE TUTTO DA SOLA. O PUOI FARE VIAGGIA CON ME. La polizza auto che ti assiste alla guida 24 ore su 24. ViaggiaConMe è più di una semplice polizza auto perché ti offre ViaggiaConMe Box, un dispositivo satellitare che, in caso di guasto o incidente, ti mette in contatto con i soccorsi 24 ore su 24 e agevola la ricostruzione della dinamica dell’incidente. E con l’acquisto della copertura Assistenza, il Soccorso Stradale è sempre compreso. Informati nelle Filiali del Gruppo Intesa Sanpaolo. Messaggio Pubblicitario con finalità promozionale. 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