FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891
DIREZIONE
Ugo Finetti - Stefano Carluccio
(direttore responsabile)
Email: [email protected]
Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano
Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria
Anno CXXI – N. 10 / 2012
GIORNALISTI EDITORI scarl
Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano
Tel. +39 02 6070789 / 02 683984
Fax +39 02 89692452
Email: [email protected]
Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00
■ CINQUE FASCICOLI CON UN’ANTOLOGIA DI DOCUMENTI, DI ANALISI E DI DENUNCE MAI ASCOLTATE. MA OGGI PROFETICHE
STORIA DI VENTI ANNI/4
LA CRITICA SOCIALE E LA SECONDA REPUBBLICA
SOMMARIO
Selezione 1996 - 1998
CRITICA SOCIALE
pag. 7
Il neo-clientelismo
CRITICA SOCIALE
pag. 7
Sistema tedesco
rappresentanza e stabilità
ANTONIO VENIER
pag. 8
La Padania che non c’è
ANTONIO VENIER
pag. 8
Le Mani Pulite
sulle privatizzazioni
EDMOND DANTES
pag. 3
Elezioni, la riforma necessaria
STEFANO CARLUCCIO
pag. 9
Caso Pintus: “Non mi riconosco
in questa magistratura”
pag. 3
MAURO MELLINI
Sistema proporzionale
e assemblea costituente
G. TREMONTI E G. URBANI
GIANFRANCO PINNA
pag. 11
Il caso Tortora prepara
la macchina del giustizialismo
pag. 5
EDMOND DANTES
L’imbroglio del referendum
pag. 13
Diario leghista
CRITICA SOCIALE
pag. 6
CONGRESSO PSE
POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione
in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1
comma 1, DCB Milano - Mens.
778000 057003
9
ISSN 1827-4501
12010
Di maggioritario
c’è l’astensionismo
pag. 13
I socialisti italiani e il caso Craxi
PER ABBONARSI
Abbonamento annuo Euro 50,00
c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl
Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207
Banca Intesa: IBAN IT 06 O 0306901626100000066270
E-mail: [email protected]
Editore - Stefano Carluccio
La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250
Euro - 10,00
CRITICAsociale ■ 3
10 / 2012
■ 1998
LA RIFORMA NECESSARIA
tura. Ciò che occorre è ben altro. Bisognerebbe,saper pensare ad una riforma elettorale semplice e lineare capace di garantire ad un tempo
una effettiva rappresentatività e rappresentanza,
una corretta stabilità politica, una efficacia funzionale del sistema democratico.
Edmond Dantes
I
l bipolarismo è un conto, il bipartitismo è un altro. Un sistema
fondato su due o più partiti maggiori ma collocati attorno al 20%, contornati
da schiere di partiti minori, tutti elettoralmente
vincolati nelle possibilità e nella scelta della
rappresentanza, è un pluripartitismo camuffato
o un bipolarismo plurimo. Se nella realtà non
esiste un sistema bipartitico effettivo e dominante, la legge elettorale maggioritaria non lo
può imporre ed anzi sembra fatta apposta per
mantenere la atomizzazione delle forze ed il
moltiplicarsi delle formazioni. E’ perlomeno
singolare infatti che quando vigeva in Italia il
sistema elettorale fondato sul principio della
proporzionale pura esistevano un numero di
partiti di gran lunga inferiore a quello che attualmente esiste vigendo un sistema di maggioritario corretto. La realtà della società politica italiana ha caratteristiche sue proprie. Essa è fatta da una molteplicità di tradizioni, culture, specifiche identità ed interessi. E’ vero
che l’evolversi delle esperienze od esigenze e
interessi di natura varia forzano determinate
omologazioni, associazioni ed anche la nascita
di nuove identità più complesse, ma non è men
vero che la realtà politica non può essere modificata e trasformata mediante un eccesso di
forzature e di imposizioni. Da interventi di
questa natura scaturirebbero poi senz’altro e
sempre reazioni e conseguenze contraddittorie
e tutt’altro che positive. Le molteplicità e le
diversità dei fattori riversati nel collegio unico
maggioritario piuttosto che ricondurre il sistema alle unità volute possono essere generataci
di false rappresentanze, distorsioni, dispersioni
e trasformismi di genere vario.
Uno sbarramento imposto ad una legge proporzionale costituirebbe invece uno strumento
semplice ma molto efficace per ostacolare la
parcellizzazione delle forze. Mentre la proporzionale assicurerebbe una rappresentanza proporzionata ed effettiva, lo sbarramento alla base scoraggerebbe la frantumazione e il proliferare di piccole formazioni. La stabilità del sistema potrebbe allora essere meglio assicurata
da un secondo turno elettorale che si pronunciasse su coalizioni di governo alternative, assegnando alla coalizione vincente un consistente premio di maggioranza. Con un secondo turno siffatto si conseguirebbero unitariamente tre
scopi: la elezione diretta del Premier, la scelta
irreversibile per l’intera legislatura della coalizione di governo salvo infatti il ricorso a nuove
elezioni, l’ampiezza e quindi la stabilità della
maggioranza parlamentare. Da questo tipo di
riforma trarrebbero vantaggi politici e di principio sia i propor-zionalisti che i maggioritari,
che i Presidenzialisti. Ne risulterebbe un sistema molto forte ed equilibrato nella sua rappresentanza, nella sua funzionalità, nella chiarezza
dei suoi indirizzi politici. Certo bisognerebbe
farla finita con la demonizzazione retorica del
principio proporzionale che, benché carico di
difetti, resta il principio democratico per eccellenza. Un sistema elettorale perciò a due turni.
Il primo proporzionale con quota di sbarramento. Il secondo con elezione del premier, scelta
della coalizione e premio di maggioranza. Sarebbe una ottima soluzione. Non se ne farà certamente di nulla. Si marcia verso sistemi maggioritari che, rispetto alla realtà della società
politica italiana, rappresentano soluzioni violente o soluzioni pasticciate.
Un buon sistema
Solo in Italia la parola “proporzionale” in tema di leggi elettorali è considerata una bestemmia. Solo la confusione regnante, figlia di una
“falsa rivoluzione” e dei suoi molteplici e variopinti agitatori e sostenitori, può arrivare a
questo punto di mistificazione. In realtà sappiamo che si tratta invece di un principio e di una
regola democratica di prima grandezza. Identificare il sistema proporzionale con uno dei deplorevoli vizi connaturati al vecchio sistema
politico della Repubblica, non è altro che una
dimostrazione di memoria corta per non dire di
ignoranza lunga. In Europa ed anche in Italia
durante il Regno e prima del fascismo le campagne per l’affermazione del principio proporzionalistico hanno rappresentato una bandiera
che fu comune al pensiero politico socialista,
cattolico democratico e a scuole liberali. Da Ginevra, a New York, a Londra, sotto la ispirazione; di John Stuart Mill nascevano già nel secolo
scorso varie associazioni di orientamento proporzionalistico. Anche a Milano, nel 1871, nasce una associazione che intende battersi per la
conquista della proporzionale. La fonda e la
presiede Filippo Turati, e ad essa, oltre ai socialisti, aderiscono liberali, radicali, cattolici
popolari. Ne fanno parte uomini e personalità
come Filippo Meda e come Gaetano Salvemini.
Era un fervido sostenitore del principio proporzionalistico Luigi Sturzo, fondatore del Partito
Popolare e con lui si schiereranno nel dopoguerra Carlo Arturo Jemolo, Guido Ruggiero e
ancora Gaetano Salvemini che, per parte sua,
da un lato difendeva la proporzionale dall’altro
ne proponeva una correzione con l’introduzione di un “premio di maggioranza”. Nel lontano
1945, mentre l’Italia si riapriva alla democrazia, si potevano leggere sull’Avanti! riflessioni
che ancor oggi possono tornare utili: “Il collegio uninominale ci riporterebbe senza dubbio
alle vecchie clientele che sono il contrario della
democrazia. Tuttavia la pluralità dei partiti, il
loro frazionarsi in gruppetti molteplici causò
dopo le elezioni del ‘19 e del ‘21 l’instabilità
governativa. Il sistema clientelistico si riproduce sul piano della proporzionale pura. Proporzionale quindi ma non pura”. Il principio che
nell’Italia di oggigiorno, percorsa a destra e a
manca e disorientata da ondate demagogiche,
viene letteralmente demonizzato è considerato
invece democratico e regna sovrano in grandi
Paesi dell’Europa. Innanzi tutto in Germania,
dove infatti funziona con generale soddisfazione un sistema proporzionale corretto. In Francia
collegio uninominale a due turni e proporzionale si sono venuti alternando negli anni. In Inghilterra prima delle elezioni e ancora oggi,
constatati gli effetti antidemocratici del sistema
maggioritario vigente nel loro paese, i laburisti
stessi sono tornati sul tema di una possibile introduzione della proporzionale. In Italia, dove
il sistema maggioritario corretto ha già dimostrato di essere una grande forzatura rispetto alle caratteristiche reali e tradizionali della società politica italiana provocando in tal modo danni di non poco conto, non c’è invece nessuno
che osi discostarsi da questo terreno. E tuttavia
il maggioritario, nelle sue varie espressioni ivi
compresa la più radicale, non garantirà nel nostro paese un corretto funzionamento del sistema. Nasceranno infatti frantumazioni, clientelismi di piccolo e di alto bordo, dispersione di
forze e trasformismi di varia consistenza e na-
“Dai e dai”
La politica è bella quando è varia. Ma la politica è anche ballerina. Le posizioni cambiano, le idee evolvono, i politici si trasformano.
Bossi ha parlato della proporzionale come di
un principio sacro. Non c’è democrazia se non
con la proporzionale. Fini invece è per il maggioritario punto e basta. Non perde occasione
per ripeterlo. Nella Commissione per le riforme istituzionali nel Parlamento della Prima
Repubblica, Fini si era battuto per la proporzionale e Bossi aveva sposato il maggioritario.
Poco male. La notte dei tempi porta consiglio:
il peggiore dei consigli resta l’idea di un maggioritario radicale, collegio unico, uno o due
turni. Una riforma violenta che farebbe nascere solo contraccolpi non difficili da prevedere.
Una riforma elettorale non può non tener conto delle caratteristiche fondamentali di una società politica anche se su di essa si deve intervenire per correggerne le degenerazioni.
Salutato come la panacea di tutti i mali il
maggioritario corretto tuttora in vigore vede
da un lato le quotidiane esaltazioni del bipolarismo, dall’altro il progressivo proliferare di
formazioni politiche. Quelle di oggi sono già
più del doppio di quelle di ieri. Esiste un sistema elettorale bilanciato, equilibrato, in grado
di assicurare i due obiettivi fondamentali che
debbono essere perseguiti: una giusta rappresentanza, una sostanziale stabilità. Proporzionale corretta al primo turno, elezione del premier e della coalizione con premio di maggioranza al secondo turno. Dai e dai è qui che bisognerà arrivare a dispetto dei maggioritari
tutti d’un pezzo che tutto avranno, ma non di
certo la maggioranza in Parlamento.
No al maggioritario spazzatutto
Tutti gli alleati del PDS hanno bisogno di
una legge elettorale con quota proporzionale.
Ne hanno bisogno per la loro sopravvivenza e
per una relativa autonomia e indipendenza. Ne
hanno bisogno tutti e sono una lunga lista. Ne
ha bisogno il PPI che del resto non lo manda a
dire. La stessa cosa si può dire dei Verdi che
si oppongono con decisione ai maggioritari
spazzatutto. Ne hanno bisogno Dini e i socialisti bosellisti. L’uno tace, gli altri ogni tanto
si fanno vivi. In piedi, a viso aperto contro le
velleità maggioritarie estreme ad uno o due
turni, stanno sulla sinistra Bertinotti e sul lato
destro Bossi. L’uno e l’altro, a ben giusta ragione, difendendo a spada tratta la proporzionale difendono se stessi e il proprio partito.
L’UDR, il giorno che si collegasse più strettamente al PPI, non potrebbe più farsi fotografare a braccetto con Di Pietro. Hic rhodus hic
salta; anche se Cossiga è senatore a vita. Bertinotti e Bossi, non va dimenticato in caso di
emergenza sono potenziali alleati della maggioranza, anche se, soprattutto per Bossi, tra il
dire ed il fare si porrà di mezzo il mare. Non
potendo il PDS alla fine dei conti fare spallucce di fronte alle esigenze di una parte importante, qualificata e decisiva dei propri alleati
di governo, qualche cosa di nuovo lo dovrà pur
dire. La ricerca di una riforma equilibrata che
garantisca ad un tempo rappresentanza, stabilità e governabilità la si dovrà pur fare. Anche
Forza Italia dovrà staccarsi dalla disponibilità
incomprensibilmente già annunciata e ripetuta
verso la demagogia maggioritaria referendaria.
Anche Forza Italia del resto dovrà riflettere
meglio e ricercare il punto di intesa con gli altri schieramenti e con le posizioni che alla fine
dovranno farsi strada nella maggioranza di governo. E Fini lo si inviterà a non avere la memoria corta e a ricordarsi della sua battaglia
proporzionalistica in seno alla Commissione
per le riforme della Prima Repubblica. Da allora, non è passato un secolo. s
■ 1996 - NUMERO 3
SISTEMA PROPORZIONALE,
ASSEMBLEA COSTITUENTE
G
Stefano Carluccio
li italiani sono stati ingannati
quando i mass media li hanno
convinti che il referendum Segni
costruiva la seconda Repubblica e realizzava
le riforme istituzionali. Il referendum Segni ci
ha invece dato un sistema elettorale catastrofico e le riforme istituzionali ancora si attendono,
tanto è vero che ormai tutte le forze politiche e
il capo dello Stato gridano la loro indispensabilità e urgenza. Purtroppo, siamo in un vicolo
cieco. La prima Repubblica è stata distrutta, ma
gli apprendisti stregoni che hanno compiuto la
distruzione non sono stati capaci neppure di
immaginare la seconda, aprendo un vuoto istituzionale e politico nel quale tutte le peggiori
avventure sono possibili, compresa la disgregazione dell’unità nazionale fortemente incoraggiata anche dal sistema elettorale maggioritario, che privilegia le formazioni localistiche.
In quanto vuoto, l’unico potere politico forte è
rimasto quello del capo dello Stato, che si è attribuito ruoli addirittura impensabili per i suoi
predecessori paradossalmente, perché si tratta
del capo dello Stato eletto da un Parlamento
che rispondeva a equilibri politici ormai distan-
ti anni luce, dipinto all’opinione pubblica come
una assemblea di inquisiti e di corrotti.
Ormai è tardi, i danni compiuti rischiano di
essere irreversibili. Nella furia “rivoluzionaria” non si è pensato che un Parlamento eletto
con il sistema maggioritario, proprio perché
non rappresentava in modo proporzionale della volontà di tutti i cittadini, è legittimato a governare ma non a riformare la Costituzione.
Non si è ragionato sul fatto che è impossibile
ottenere forzatamente un risultato politico (e
cioè la riduzione a due dei partiti) attraverso
una legge elettorale, perché, al contrario, le
leggi sono il prodotto di una situazione politica. Abbiamo avuto così non una riduzione, ma
una moltiplicazione dei partiti e un caso unico
al mondo, all’origine della indecorosa rissa
sulle candidature. In nessun Paese al mondo
dove esistano collegi elettorali uninominali e
un sistema maggioritario il candidato nel collegio uninominale viene indicato, anziché da
un singolo partito, da una coalizione di partiti.
In Italia, e soltanto in Italia, accade anche questo ed esattamente per questo il sistema maggioritario e già fallito. Simbolo di questo fal-
4 ■ CRITICAsociale
limento è il fatto che proprio Segni e Pannella,
i paladini del sistema uninominale maggioritario, sono rimasti isolati ed emarginati. Abbandonando la politica il primo, candidandosi
soltanto nella quota proporzionale il secondo,
dopo che aveva chiesto per referendum l’abolizione di tale quota.
Rimediare al disastro istituzionale è ormai
difficile. Si può temere che gli apprendisti stregoni che volevano portare l’Italia in Gran Bretagna l’abbiano invece stabilmente portata in
Sud America. E infatti la personalizzazione
dello scontro elettorale, i ricatti, le intimidazioni, la strumentalizzazione della giustizia ai
fini di lotta politica, con l’obbiettivo ultimo
addirittura di vedere incriminato l’avversario,
tutto ricorda una campagna elettorale del peggiore sud America piuttosto che europea.
La proposta dei socialisti per uscire dal caos
è comunque sempre la stessa, quella che sin
dal 1979 hanno continuato ad avanzare prefigurando non un finto, ma un vero e profondo
rinnovamento delle istituzioni: quella che fu
definita la “grande riforma”.
Proponiamo l’elezione diretta di una assemblea costituente con il sistema proporzionale.
Proponiamo il ritorno al sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento del 5 per
cento allo scopo di evitare la proliferazione di
piccoli partiti. Proponiamo l’elezione diretta
del capo dello Stato, allo scopo di dare maggiore potere ai cittadini, di creare un punto fermo fortemente. legittimato dalla investitura
popolare. Tale da assicurare l’unità, governabilità e continuità dello Stato.
L’INFORMAZIONE
Le riforme istituzionali riguardano la democrazia, ma la piena realizzazione della democrazia si basa sulla possibilità per i cittadini essere informati e non sarà pertanto possibile
senza una profonda riforma dei mass media,
che costituiscono ormai la componente forse
più grave della crisi italiana. In nessun Paese
democratico al mondo i giornali appartengono,
anziché ad editori veri, a gruppi industriali che
hanno in altri settori la loro attività principale.
Sarebbe addirittura inimmaginabile, per gli
Stati Uniti, una General Motors o una Ibm che
si mettono a produrre quotidiani. In nessun
Paese al mondo esiste una simile concentrazione della proprietà. In nessuno, anziché osservatori neutrali o comunque distaccati della
lotta politica, i giornali sono. diventati protagonisti di tale lotta, militarizzati, trasformandosi in “giornali partito”, piegando ogni titolo,
riga di cronaca, ogni commento al fine della
propaganda di parte.
Il “partito” di Fiat e Mediobanca controlla
Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, settimanali e libri Rizzoli. Quello di De Benedetti, la Repubblica, i quotidiani locali di Caracciolo, l’Espresso. Quello di Berlusconi, tre reti
televisive, Panorama, Mondadori, Giornale
nuovo. Tmc e Video Music sono stati arruolati
nello schieramento “progressista”. La Rai è
terra di conquista per le fazioni contrapposte,
senza neppure il fair play della prima Repubblica. Caso unico al mondo, dei giornali, come
dei magistrati, ci si chiede innanzitutto a quale
partito ap-partengono. Ci vorrà una profonda
modifica del costume per ottenere un minimo
di neutralità dopo l’imbarbarimento intervenuto. Ma una proposta può e deve essere sin
d’ora avanzata.
Quella di impedire ai gruppi industriali e ai dirigenti politici di possedere giornali e reti televisive. Restituendo in tal modo, se non
l’obiettività, almeno i presupposti che rendono
possibili questa caratteristica, tipica della informazione in ogni Paese libero.
10 / 2012
LA POLITICA ECONOMICA
L’
apparato dello Stato è sempre più allo sfascio, anche per la decapitazione giudiziaria di
una intera classe dirigente e per l’incertezza
del diritto. I finti tecnici, che a ogni tornata
elettorale corrono a candidarsi a cominciare da
Dini, altro non sono che i consulenti e i commercialisti della grande impresa quando, come
Susanna Agnelli o Letizia Moratti, non sono
addirittura le sorelle e le mogli dei titolari della
grande impresa. I tecnici, ormai da quattro anni, e cioè della distruzione del sistema politico
e dei partiti, governano come possono e come
sanno, inseguendo le pagliuzze, provocando
su di essa polemiche demagogiche e confuse,
ma trascurando le travi. Le travi infatti non
possono essere rimossi dai tecnici, perché hanno origine politica e psicologica. Anche considerando il più alto livello di inflazione dell’Italia rispetto agli altri Paesi industriali avanzati, i nostri tassi di interesse sono da uno a
due punti più elevati di quanto dovrebbero. E
lo sono perché l’Italia è agli occhi dei mercati
mondiali un Paese politicamente inaffidabile
e instabile, simbolo di corruzione, mafia e ridicola presunzione. Ma un solo punto di tasso
di interesse in più significa 20 miliardi all’anno di maggiore esborso e quindi di maggiore
deficit dello Stato. 20-40 mila miliardi all’anno è dunque la tassa che i cittadini pagano alla
“rivoluzione” italiana.
I “politici ragionieri” tagliano spese e spremono i lavoratori (dipendenti e autonomi) ma
in pochi giorni, nel 1994, il governatore della
Banca d’Italia Ciampi, ha bruciato 80 mila miliardi nell’inutile tentativo di difendere la lira
dalla speculazione internazionale, che si è accanita contro l’Italia come fa un virus contro
un organismo già debilitato. La nostra moneta
si è svalutata del 30 per cento, in poche ore il
principale speculatore contro di essa, il finanziere americano Soros, ha guadagnato 1.600
miliardi di lire. I cittadini italiani sono diventati più poveri e soltanto le aziende esportataci
hanno avuto una momentanea boccata di ossigeno.
Queste sono le travi che è impossibile rimuovere senza il ritorno alla stabilità e alla democrazia. Nel frattempo, i governi che si sono
succeduti hanno tutti realizzato le stesse politiche economiche, facendo arricchire i grandi
gruppi finanziari e presentando il conto della
crisi esclusivamente alla parte più indifesa dei
cittadini.
Le difficoltà economiche dell’Occidente sono ovunque serie. Ma soltanto l’Italia, tra i
Paesi europei, ha sposato al 100 per cento la
filosofia iper liberista cara alla destra americana. L’iper liberismo è diventato addirittura
un dogma, propagandato senza spirito critico
da tutti i mass media, accettato dal governo di
destra nato dalle elezioni del 1994, come era
naturale, ma anche dal governo sostenuto dalle
sinistre che lo ha sostituito. Il ministro del Tesoro Dini e il presidente del Consiglio Dini,
almeno in questo, si sono dimostrati assolutamente coerenti.
Iper liberismo ha significato abbandonare il
Mezzogiorno a sé stesso, senza preoccuparsi
dei livelli esplosivi cui è giunta la disoccupazione.
Iper liberismo ha significato criminalizzare
prima e smontare poi il sistema di sicurezza
sociale costruito dai socialisti e dal centro sinistra a partire dagli anni ‘60, riducendo continuamente l’assistenza sanitaria e pensionistica pubblica.
Ha significato comprimere i salari reali e aumentare l’insicurezza per il posto di lavoro.
Ha significato consentire lo smantellamento
di quelle piccole aziende commerciali e artigiane che vengono messe in crisi dalla mac-
china fiscale, dai supermercati e dai grandi
gruppi, ma che costituiscono un freno alla disoccupazione, una preziosa rete di servizi e di
aggregazione sociale.
Iper liberismo ha significato privatizzare le
aziende pubbliche non valutando la convenienza caso per caso, ma per pregiudizio ideologico. E’ accaduto così che le banche pubbliche sono state vendute a prezzi stracciati ai
grandi gruppi intorno a Mediobanca e Fiat, aumentando il loro, strapotere e la concentrazione monopolistica. E’ accaduto e accadrà che
nei settori chiave per la ricerca scientifica, la
tecnologia e l’energia, l’Italia venga colonizzata dal capitale straniero, il quale chiude le
attività meno lucrose senza preoccuparsi dell’occupazione, porta all’estero le attività di direzione e di ricerca più sofisticata, relega l’Italia nel ruolo di Paese di serie B.
Ciò è particolarmente grave specialmente
nel momento in cui l’immagine negativa dell’Italia nel mondo e il ciclone di tangentopoli
sul sistema dei lavori pubblici hanno bloccato
gli investimenti sul territorio nazionale, precipitando nella crisi l’edilizia, e privato nel contempo il Paese dei mercati internazionali sui
quali si era affermato. L’impoverimento dell’Italia, l’aumento della disoccupazione, la
compressione dei redditi da lavoro dipendente
e autonomo risulta evidente a tutti nonostante
la propaganda di regime sui giornali e sulle televisioni. E d’altronde, questa politica iper liberista all’americana non sarebbe stata possibile in Italia senza una sostanziale sospensione
della democrazia e la delegittimazione del Parlamento, che ha lasciato mano libera ai sedicenti tecnici. Sino a che non sarà restaurata
una piena democrazia sarà perciò difficile risalire la china. Dalla destra come dalla finta
sinistra, continueranno a essere realizzate esattamente le stesse politiche economiche, che
non risolvono, ma anzi aggravano la malattia.
Non per caso, destra e finta sinistra si accusano reciprocamente di avere copiato il programma economico dell’altra.
Le risse tra i due poli sulle tasse, sugli immigrati o su altro sono soltanto sceneggiate prive
di sostanza. La sostanza è, ad esempio sulle
tasse, che i ministri delle Finanze di Berlusconi
e Dini, nei fatti, non si sono differenziati in nulla. La sostanza è, ad esempio sugli immigrati,
che la legge Martelli risultava equilibrata, simile a qualunque altra normativa europea, e
che soltanto l’inettitudine crescente dell’apparato dello Stato ha impedito di farla funzionare,
cosi come impedirà di funzionare a qualunque
altra legge. Ma la concorrenza per i lavoratori
italiani non è rappresentata dagli extra comunitari che stanno in Italia. E’ costituita dagli extra comunitari che stanno al loro Paese. E che,
poiché costano un decimo degli italiani, e poiché il capitale è senza frontiere e, attirano fabbriche e investimenti, a cominciare da quelli
delle grandi aziende italiane finanziate con decine di migliaia di miliardi dallo Stato, prodigo
nei loro confronti di interventi assistenziali mai
denunciati da quella stessa stampa che si dimostra invece sempre pronta ad aggredire le spese
sanitarie o pensionistiche. La deindustrializzazione dell’Italia proseguirà, sino a che il costo
del lavoro decuplicato, come in tutti i Paesi
avanzati, rispetto ai Paesi del terzo mondo non
sarà compensato da un surplus di ricerca scientifica, tecnologica e cultura. Un surplus che
soltanto la scuola e l’università, se non si trovassero in una crisi sempre più grave, potrebbero fornire ai giovani.
I socialisti torneranno ad avanzare proposte
analitiche e concrete quando torneranno a esistere. E tali proposte non potranno che assomigliare a quelle indicate dei socialisti europei. I quali respingono sia l’iper liberismo all’americana, sia lo statalismo di derivazione
comunista e marxista. Seguono pragmaticamente una via europea che ha dato a tutti i Paesi dell’Unione, e anche all’Italia, il massimo
di giustizia e di benessere mai raggiunto nella
loro storia, e nella storia dell’umanità. Naturalmente, la propaganda dei mass media tende
ad attribuire agli sperperi della prima Repubblica le difficoltà economiche, enfatizzando il
debito pubblico accumulato dallo Stato.
Osserviamo che non i militanti socialisti,
bensì Prodi, Ciampi e Dini erano rispettivamente presidente dell’Iri, governatore e vice
governatore della Banca d’Italia nella esecrata
prima Repubblica, e che loro innanzitutto, oggi campioni del rinnovamento, avrebbero dovuto conoscere e denunciare la situazione, ove
ciò fosse stato necessario. Ma la criminalizzazione del passato per nascondere gli errori del
presente non regge alla eloquenza delle cifre
e sempre meno inganna i cittadini. Dal 1983
al 1987, a esempio il governo Craxi ridusse
l’inflazione dal 16 al 6 per cento. Nel contempo i salari reali, sia al netto che al lordo del
prelievo fiscale, aumentarono più di qualunque altro Paese industrializzato.
Il marco valeva, all’inizio del 1987, 700 lire,
non oltre 1100; il dollaro valeva 1280 lire, non
oltre 1550. Il debito dello Stato era di 766 mila
miliardi, non due milioni di miliardi come
adesso. D’altronde esso non era, come in parte
non è neppure ora, una tragedia nazionale.
Infatti si trattava in parte si tratta, di una partita di giro, ancorché viziosa. Lo Stato italiano
è indebitato non con l’estero, come il Brasile
o la Polonia, ma con i suoi stessi cittadini. Non
abbiamo consumato risorse che mancavano,
caricando di debiti i nostri figli.
Semplicemente, lo Stato ha speso troppo, i
cittadini hanno guadagnato quanto bastava per
risparmiare molto e hanno pertanto prestato i
soldi allo Stato. Quando si poteva e si doveva
correggere ciò che era da correggere, comprimendo a poco a poco, senza drammi e allarmismi, il debito, la paralisi prima e il crollo poi
del sistema politico hanno condotto la crisi.
POLITICA ESTERA
L’
Italia semplicemente non più politica estera e non esiste più come protagonista sulla scena internazionale, anzi, rischia di vedere il
Nord riassorbito dall’area del marco e dalla
egemonia tedesca, come ai tempi dell’impero
austro-ungarico, e il Sud nell’area del sottosviluppo.
L’Italia è rimasta incredibilmente assente
nella crisi della ex Jugoslavia, che pure avrebbe dovuto riguardarla più di chiunque altro.
Si sta isolando dall’Europa per evidente incapacità a rispettare i criteri troppo rigidi imposti dal trattato di Maastricht.
I suoi governi ricercano in modo servile il
consenso delle grandi potenze, e innanzitutto
dagli Stati Uniti. Nel contempo, manifestano
velleitarismi che li rendono ridicoli e inaffidabili persine presso gli amici o gli alleati tradizionali. Così è accaduto quando l’Italia, unico
Paese occidentale, forse per accontentare i coniugi Ripa di Meana, ha duramente aggredito
polemicamente la Francia per i pur criticabili
esperimenti atomici. O quando il Presidente
Scalfaro ha aspramente polemizzato con le
Nazioni Unite e con i Paesi, Stati Uniti, che
esitano a sostenere la spesa dell’organizzazione internazionale. D’altronde, non giova alla
prudenza politica italiana la distruzione dei
partiti politici democratici e quindi dei legami
che i socialisti e i democristiani sviluppavano
in modo proficuo rispettivamente con i partiti
socialisti e democristiani europei, usando anche la credibilità e le relazioni personali dei
loro leaders.
CRITICAsociale ■ 5
10 / 2012
In questo quadro, appare patetica l’insistenza
strumentale sulla necessità di avere un governo
stabile durante il periodo della presidenza italiana all’Unione europea. E appare assolutamente ininfluente il ruolo del governo Dini.
Non sarà possibile alcuna politica estera sino a che non si ritornerà alla politica, alla piena democrazia e alla stabilità.
Tuttavia la storia corre in fretta e l’assenza
dell’Italia in anni decisivi costituisce un danno
irreversibile. Occorrerebbe rafforzare e riprendere la tradizionale politica che ci aveva resa
un interlocutore affidabile e ascoltato. Siamo
per la unità non soltanto economica, ma politica dell’Europa, e di una Europa dotata di forza militare autonoma. Siamo, all’interno
dell’Europa, per il rafforzamento del ruolo caratteristico dell’Italia, un ruolo cioè di ponte
verso i Paesi del Nord Africa e verso il Medi-
terraneo. In questo quadro, siamo per un paziente lavoro di mediazione e di distensione
tra Israele e mondo arabo, un lavoro che i socialisti italiani, amici dei laburisti israeliani come di Arafat, hanno condotto con risultati tali
da dar loro un grande merito per gli storici accordi intervenuti. Siamo per un mondo pacifico ma multipolare. Per questo, pur nella amicizia e nella alleanza con gli Stati Uniti, non
auspichiamo che la finanza internazionale insediata a Wall Street pianifichi e omogeneizzi
tutti i continenti, imponendo ovunque il modello anglosassone del liberismo puro. Il modello europeo ispirato alle conquiste socialdemocratiche e allo Stato sociale, è diverso. Altrettanto, va accertata la diversità delle altre
grandi culture, da quella cinese a quella islamica. s
Stefano Carluccio
■ 1999 - NUMERO 1
L’IMBROGLIO DEL REFERENDUM
Giulio Tremonti e Giuliano Urbani
I
l sistema politico italiano sta
nuovamente girando a vuoto,
sugli assi telemaici di troppi
egoismi, di troppe “lungimiranti” astuzie, di
troppe nostalgie interessate, di troppi giochi “a
somma zero”.
Non pare che il mandato principale affidato
dal paese al Parlamento - regolare la transizione dal “vecchio” al “nuovo” - sia stato eseguito. E non solo. Mentre nel paese cresce la domanda di “governance”, dal palazzo se ne diminuisce l’offerta.
All’opposto, la politica italiana sta implodendo nel minimalismo e nel “particularisme”.
Due legislature, al posto di una. Sei governi
in sette anni. Quarantaquattro partiti ammessi
al finanziamento pubblico. Quindici gruppi
parlamentari. Un governo reso possibile dal
sostegno di dieci diversi raggruppamenti politici. Due repentini ribaltamenti delle maggioranze parlamentari scelte dagli elettori (si legge sul Mulino: “un’operazione di rara violenza
politica ha abbattuto il governo Prodi”. E non
solo!).
Oltre ai numeri assoluti, ciò che in particolare impressiona è la proliferazione, l’evoluzione “darwinista” delle specie politiche: dai
municipi-partito ai partiti-azienda, dai pubblici
uffici capitalizzati come “futures” politici alle
liste antropomorfe, dai movimenti personalpopolari, ai cartelli di potere, si stanno moltiplicando ed ibridando, su scala crescente, specie politiche di tipo “nuovo”.
E’ così che il “laboratorio” italiano produce
e presenta al paese una fenomenologia politica
regressiva. Lo spettacolo di rappresentanze
senza governo a fronte di governi senza rappresentanza, di deleghe senza convinzioni e di
convinzioni senza deleghe.
In particolare, più è forte la “vitalità” politica, più è vuota l’agenda politica. In rapporto
di proporzione inversa, più si fa intenso il movimento delle specie politiche, più si fa alto il
numero delle cose non fatte, accantonate, fatte
male.
E’ difficile pensare che tutto ciò sia nell’interesse del paese. Soprattutto in questa fase
storica.
In questi termini è stato ed è ancora straordinariamente e lucidamente significativo il
messaggio inviato alle Camere dal Presidente
Cossiga (“La richiesta di riforme istituzionali,
di nuovi, moderni e più efficienti ordinamenti
e procedure, non è quindi una richiesta solo
“politica” o tanto meno “di ingegneria costituzionale”, ma è una richiesta civile, morale e
sociale di governo, di libertà, di ordine, di progresso”).
E’ essenziale, per un paese, avere un ordinamento politico forte, capace di produrre e di
offrire una “governance” efficace.
In assenza di questo fattore, un paese viene
infatti sistematicamente e progressivamente
spiazzato.
E’ proprio questo il rischio che si presenta,
nel caso dell’Italia.
Un paese, l’Italia, che come è stato giustamente notato (da Giovanni Sartori), ha il peggiore sistema politico che ci sia in Europa e
sembra destinato a deteriorarlo ulteriormente:
nel “caos democratico” e nel non governo
“post-moderno”, che consente a tutti gli altri
poteri di rafforzarsi nelle forme oblique ed occulte dell’appropriazione indiretta dell’essenziale economico e sociale, lasciando alla “politica” solo i falsi obiettivi.
In Europa i sistemi elettorali che hanno base
“proporzionale” sono presenti in 13 paesi.
Solo in 2 paesi, Inghilterra e Francia, i sistemi elettorali sono “uninominali-maggioritari”.
Ma con due specifiche differenziali, di enorme
rilevanza.
In Inghilterra, è stata la storia (non il sistema
elettorale) che, nel corso di almeno due secoli,
ha normalizzato e semplificato la vita politica,
rendendo così possibile il fascinoso e macchinoso funzionamento del sistema elettorale inglese.
Un sistema che si colloca su sfondi feudali
e si sviluppa in intensi rituali di tipo sportivo,
articolati nella forma ancestrale e primitiva
dell’”homo ludens”.
Non per caso il sistema si chiama “First past
the post”.
In sintesi, è il consolidamento storico dell’Inghilterra che consente un elevato tasso di
folklore elettorale. E’ la forza della storia che
influisce sulla meccanica politica inglese. Non
l’opposto.
In ogni caso, proprio in Inghilterra, sua patria di origine, l’”uninominale maggioritario”
è ora fortemente discusso, ed è in specie già
molto avanzata ed elaborata la proposta di abbandonarlo, per passare ad un sistema a base
“proporzionale”.
A prescindere dalle “chances” politiche
d’effettivo cambiamento, ciò prova il fatto che
non si tratta di un modello “assoluto”, dell’”ottimo” politico per definizione.
In Francia, il fattore-base (e/o il “prius”) del
meccanismo costituzionale, è costituito dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica. L’accessorio (e/o il “posterius”), esclusivamente strumentale (e non costituzionale),
è costituito dalla legge elettorale, contingentemente variabile (e storicamente variata) tra
maggioritario e proporzionale. Non viceversa.
E’ dunque evidente che “post-referendum”
si avrebbe, in Italia, un sistema elettorale solo
apparentemente e/o superficialmente simile ai
sistemi inglese e francese.
In realtà si avrebbe un sistema del tutto atipico, perché privo dei presupposti storici e politici, sistematici e costituzionali che hanno finora assicurato, ed ancora assicurano, la (relativa) funzionalità di quei sistemi politici, nel
loro specifico contesto di origine.
Avremmo, in Italia, il sistema inglese, senza
la storia inglese; il sistema francese, senza il
Presidente francese. In sintesi, “post referendum” saremmo gli unici in Europa ad avere un
sistema che (forse) soddisfa le “ragioni” formali della tecnica elettorale, ma non certo le
ragioni costituzionali della politica sostanziale.
Un sistema che solo “tecnicamente”, e perciò
solo superficialmente, può essere considerato
“autoapplicativo”.
In realtà, un sistema dimezzato che si limita
a disciplinare come si viene eletti, ma che non
disciplina affatto cosa possono (cosa devono)
fare gli eletti.
Dunque, un sistema più vuoto che pieno, basato come sarebbe su di un’”economia politica” illusoria.
Sull’illusione “tecnica” che il mezzo (elettorale) possa assorbire e sostituire il fine costituzionale fondamentale (la “governance”).
Un sistema che, è provato dall’esperienza di
questi sette lunghi anni di politica “nuova”, lascerebbe la scelta del governo alla inventiva
creatività e/o all’ambizione degli eletti, sottraendola agli elettori. In sostanziale violazione
della logica e del patto costituzionale.
Nè pare ragionevole ipotizzare che “post-referendum”, il sistema politico italiano possa
trovare al suo interno la forza per risanarsi, per
normalizzarsi, per semplificarsi.
Infatti, delle due l’una: o si pensa che il referendum sia fine a sè stesso, perché la legge
elettorale che ne deriva per abrogazione è già
la legge “ottima”, in quanto radicalmente “uninominale-maggioritaria”; o invece si pensa al
referendum solo come ad uno strumento dialettico sperimentale, come ad uno stimolo-provocazione, per arrivare poi ad una successiva
e finalmente decisiva “riforma”.
Entrambe queste due ipotesi sono presenti
all’interno del movimento referendario. Un
movimento che, in questi termini, si caratterizza per essere tanto numeroso quanto diviso.
In realtà, si tratta di due ipotesi contraddittorie, che hanno in comune un solo dato: sono
entrambe sbagliate. Dal referendum uscirà un
sistema elettorale apparentemente “nuovissimo”, ma in realtà vecchissimo, perché postabrogazione la legge elettorale generale italiana sarà sostanzialmente identica a quella per
l’elezione del Senato.
Dunque, mentre si pensa di rimuoverla, si
tornerebbe proprio alla “prima repubblica”.
Ma con una fortissima variante peggiorativa
e negativa. Infatti mentre il vecchio sistema
era, nel bene o nel male (nel male certamente,
almeno durante la seconda parte della “prima
repubblica”) comunque un sistema strutturato,
il “nuovo” sistema, senza partiti forti (come
prima), senza storia (come in Inghilterra), senza un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo (come in Francia), è un sistema destinato a sicura progressiva destrutturazione.
Nè sembrano razionali ipotesi “alla Rousseau”, basate sull’idea che il sistema elettorale
“uninominale-maggioritario” abbia in sè la
forza etica specifica necessaria per “educare”
tanto le masse elettrici, quanto le “elites” all’onesta efficienza intrinseca al “nuovo” modello politico.
Può forse anche essere così (e certamente
potrebbe essere così) nel lungo andare. Ma,
nel frattempo, il paese va a rotoli.
NESSUNA “RIFORMA”
DOPO IL REFERENDUM
Dopo un referendum che sarà plebiscitato da
un voto anti-partiti ed anti-politica, il sistema
politico italiano si troverà in una situazione di
tipo “day after”.
“Post-referendum”, il Parlamento attualmente eletto sarà infatti sostanzialmente delegittimato. Per due ragioni: perché è stato eletto
con la legge “vecchia”; perché non è stato capace di produrre una legge “nuova”.
Nè è prevedibile che le cose possano andare
meglio con il “nuovo” Parlamento.
Le “istituzioni” italiane sono infatti molto
diverse da quelle inglesi e francesi, la cui forza
non è creata dall’”uninominale-maggioritario”, ma all’opposto consente l’”uninominalemaggioritario”.
Il nuovo Parlamento italiano sarà eletto in
forma discontinua e casuale, antropomorfa.
Si avrà in Parlamento la proliferazione di
guaritori, tribuni della plebe, atleti, “disk jockey”, giustizieri, visionari, cuochi, sciamani,
etc. Dunque un Parlamento debole perché
composto ed anarchicamente “dominato” da
queste personalità “forti”.
Il Parlamento “nuovo” sarà dunque, a sua
volta, incapace, oltre che di esprimere una
“governance”, di votare una nuova, e finalmente efficiente, legge elettorale al servizio
del paese.
A maggior ragione, è infine da escludere che
“post-referendum” tanto il Parlamento attualmente eletto, quanto il “nuovo” Parlamento,
possano addirittura varare una efficace riforma
della Costituzione (che non si fa con maggioranze finzionali, basate su forti “leverage”
elettorali, come sono quelle espresse dall’”uninominale-maggioritario”).
In questo contesto, anche il nuovo Presidente della Repubblica sarà eletto in condizioni di
assoluto e drammatico vuoto politico.
Proseguirà dunque lo stato di fallimento della politica, che, dopo il tracollo della “prima
repubblica”, poteva legittimarsi solo costruendo regole nuove.
In sintesi, lo sperimentalismo referendario
non sembra capace di spingere il paese verso
un grado accettabile di forza e di stabilità politica. Sembra piuttosto destinato ad immetterlo in un ciclo irreversibile di progressiva ingovernabilità.
In questi termini, è davvero difficile sostenere che la soluzione “ottima” possa essere costituita dal prossimo referendum “pro maggioritario”.
Infatti, un referendum di questo tipo (a) mirato alla trasformazione radicale del sistema
elettorale italiano in sistema “uninominalemaggioritario”, (b) e magicamente identificato
come un bene in sè (con indifferenza rispetto
al fatto che si tratta di un sistema minoritario
in Europa ed in via di superamento proprio
nella sua terra di origine, l’Inghilterra), (c) in-
6 ■ CRITICAsociale
fine caricato di una fortissima valenza negativa, simbolica e propagandistica, anti-partiti ed
anti-politica (e proprio per questo destinato ad
essere plebiscitario, (d) porta in realtà con sè per le ragioni che sono state esposte sopra - il
rischio non marginale di un’accelerazione del
processo degenerativo in atto all’interno della
politica italiana.
In particolare se è vero che la conservazione
“tout court” del sistema elettorale attuale (che
scinde sistematicamente la rappresentanza dal
governo) è in ogni caso inaccettabile, è però
anche vero che inserendosi all’interno (di quel
che resta) del sistema politico italiano, la radicalizzazione maggioritaria prodotta dalla soluzione referendaria non costituisce affatto
l’”ottimo” politico e neppure un accettabile
“second best”.
Non è certo un caso che sui limiti della struttura puntiforme caratteristica dell’”uninominale-maggioritario”, sui rischi di immoralità
ed inefficienza tipici di un sistema elettorale
così destrutturato, sulla artificialità dei risultati
casualmente possibili collegio per collegio, si
sia espressa con forza la parte maggiore e migliore del pensiero politico democratico, da
Gobetti a Turati, da Salvemini a Sturzo (vedi
n° 8 di CRITICA SOCIALE).
All’opposto, non era forse Giolitti che le
elezioni con il proporzionale “non le sapeva
fare”?
L
e recenti elezioni amministrative, oltre al significato locale,
hanno fornito alcuni segnali
politici di un certo interesse. Una sostanziale
tenuta della coalizione di governo e una presenza non più infinitesimale dei socialisti. Sarà
per la debolezza dei candidati o per il minore
radicamento di “Forza Italia” nel territorio, ma
è certo che il Polo di centro destra ha subìto
una battuta d’arresto rispetto alla precedente
tornata elettorale amministrativa, nella quale
aveva avuto un successo. Il movimento di Di
Pietro ha marcato la sua presenza, mentre
l’UDR, come è stato rilevato da tutti i commentatori, ha conquistato voti nelle zone controllate da Mastella, però ha raccolto pochi
consensi al Nord. I DS, come già in altre occasioni, segnano il passo.
Cresce ulteriormente l’astensione (più per le
provinciali che per le comunali) che nelle elezioni provinciali di Roma ha toccato il 57%.
Questo la dice lunga sulla partecipazione dei
cittadini alla politica della cosiddetta “seconda
repubblica” e sull’efficacia del sistema elettorale maggioritario.
Si tratta infatti di un dato costante, in continuo aumento dal 1993 a oggi.
Un forte astensionismo cominciò a manifestarsi proprio a Milano, in occasione delle elezioni amministrative del “dopo Tangentopoli”,
in particolare al ballottaggio tra i due candidati
sindaci. Si disse allora che poteva essere un fenomeno limitato appunto al secondo turno
elettorale (tutti coloro che non sono soddisfatti
dei due candidati in lizza non votano o votano
scheda bianca). Non era invece un fatto episodico perché il partito del “non voto” ha continuato a crescere molto di più di tutti gli altri
partiti.
Anche per l’ultima tornata le spiegazioni e
le giustificazioni dell’astensionismo sono state
molte. C’è chi attribuisce la minore partecipazione al voto all’eccessivo numero dei partiti.
Altri al fatto che la “transizione” dalla prima
alla seconda repubblica è ancora in corso, e
quindi permane la confusione in una parte di
cittadini che non trovano più gli antichi riferimenti partitici e non vogliono o non sanno sce-
10 / 2012
L’ULTIMA “CHANCE”
I
l referendum del 1993 è stato una geniale intuizione “demolitoria”.
È naturale e tipica del resto, in strumenti di
questo tipo, proprio la prevalenza della “pars
destruens” sulla “pars construens”.
Ugualmente demolitorio, per le ragioni
esposte appena qui sopra, sarà il referendum
del 1999. Reso solo più equivoco dal “curiosum” per cui un referendum presentato come
anti-partiti ed anti-politica sembra essere
“sponsorizzato” proprio da numerosi partiti.
E anche da vari ambienti, oscillanti tra avventurismo e cinismo, forse nell’illusione che
“Plus ça chance, plus c’est la même chose”.
In realtà, c’è un tempo per la passione e c’è
un tempo per la ragione. C’è un tempo per la
protesta e c’è un tempo per la proposta. Questo
tempo è arrivato e, purtroppo, è un tempo molto breve.
Tra un referendum ed una riforma, la differenza è in realtà la stessa differenza che c’è tra
un grimaldello ed una chiave.
Il problema non è quello di entrare in una
casa che si sente “altrui”, ma piuttosto quello
di potere entrare in una casa che si vuole sia
da tutti sentita come “propria”.
La soluzione non è neppure costituita dall’ipotesi di riforma appena abbozzata dal Governo. Una ipotesi ibrida che (purtroppo) sin-
tetizza i difetti, senza pregi, dell’universo delle
ipotesi in circolazione: manca programmaticamente l’obiettivo elementare di ogni legge
elettorale (che vinca chi ha più voti), non garantisce rappresentanza, spinge ad aggregazioni elettorali casuali (le “ammucchiate”), non
produce governabilità.
Solo una riforma formulata ed articolata sulla base del modello tedesco, costituisce una alternativa, tanto rispetto al vecchio regime,
quanto al referendum.
Entrambi incapaci di soddisfare l’interesse
del paese alla “governance” e di offrire una
prospettiva riformatrice.
Siamo consapevoli del fatto che, formulando questa proposta, si va in “controtendenza”,
perché il referendum è stato configurato e viene popolarmente percepito come la metafora
moderna del cambiamento positivo, attiva all’interno di un meccano mentale che - si è già
notato - la valorizza come il bene rispetto al
male, come il nuovo rispetto all’antico, come
l’onesto rispetto al disonesto, come il popolo
rispetto ai partiti, come l’efficiente rispetto
all’inefficiente.
E che non sia così sarà comunque evidente,
appena dopo il referendum.
Basterà infatti aspettare poco tempo, per verificarlo. Quando, sparato l’ultimo colpo e finalmente eliminati i “nemici” (la “partitocrazia”, la “politica”), sarà evidente che la “vit-
■ 1998 – NUMERO 9
DI MAGGIORITARIO C’È L’ASTENSIONISMO
Critica Sociale
gliere tra le formazioni sorte in questi anni.
C’è chi vede nella indifferenza crescente verso
il voto una conseguenza della fine della contrapposizione ideologica che spingeva un tempo i cittadini alla “guerra elettorale”.
Tutte le analisi e i commenti critici evitano
però di considerare che il calo della partecipazione al voto coincide con l’abbandono del sistema proporzionale. Il sistema maggioritario
adottato per le elezioni politiche del 1994, sia
pure dopo il referendum e, prima ancora, quello per le elezioni dei sindaci, non ha ridotto il
numero dei partiti e dei movimenti che scendono in lizza, ed ha scoraggiato una parte dei
cittadini dall’andare a votare. Ciononostante
da quasi tutte le parti si invoca la necessità di
introdurre meccanismi elettorali ancora più
“maggioritari”.
Beninteso le modalità di elezione dei sindaci
presentano aspetti positivi: l’elettore riconosce
il candidato e può fare una scelta diretta.
Diverso è il caso delle elezioni politiche:
l’elettore non può scegliere il “leader” ed è costretto a votare tra candidati del collegio che
spesso non conosce. Alla fine la maggior parte
degli elettori sceglie sulla base dell’appartenenza. Tanto varrebbe allora ritornare ad una
proporzionale corretta, con sbarramento e premio di maggioranza e pensare alla elezione diretta del Capo dello Stato. Le forze politiche
potrebbero coalizzarsi per concorrere al premio di maggioranza (per garantire la “benedetta” stabilità) attorno ad un “leader”. I cittadini determinerebbero la composizione del
Parlamento e sceglierebbero con elezione diretta il Presidente della Repubblica, garante
della democrazia e dei suoi principii. Si andrà
certo in altra direzione e noi siamo i primi a
non farci illusioni.
ANCHE UN SOCIALISTA
IN BALLOTTAGGIO
I
n quel di Gorgonzola un ex sindaco socialista, Osvaldo Vallese, ha “sforato” la cortina
del maggioritario e ha avuto accesso al secondo turno. È l’emblema di un risultato che ha
avuto qua e là successi significativi (11% a
Brescia) e una media che supera il 5% alle comunali. Probabilmente questo dato elettorale
è il prodotto di un “ritorno” di una parte dei
voti socialisti che erano andati ad altre liste o
al partito dell’astensione. Non è ancora il frutto di una politica che non ha, come si dice oggi, “visibilità” e che ha perso molti contatti con
“il territorio”, dopo il “tornado” di Tangentopoli che ha penalizzato il Partito Socialista e i
socialisti. Tuttavia è un dato sul quale riflettere
e far riflettere.
La prima reazione che suscita è una voglia
di unione tra le diverse famiglie socialiste. Le
occasioni, politiche ed elettorali, non mancheranno, per cercare i punti di contatto tra formazioni che anche nelle ultime elezioni si sono presentate in schieramenti differenti. La ripresa socialista si deve, in questa occasione,
toria” non ha portato con sè gli effetti miracolosi e salvifici attesi e promessi.
Non ci vorrà molto tempo, per verificare
che, nonostante le promesse, sono ulteriormente ed enormemente cresciuti la discrezionalità nell’esercizio del “mandato” politico, la
deriva “antropomorfa”, il tasso complessivo di
ingovernabilità del paese.
Allora, dopo quelli del 1993 e del 1999, verrà
certamente un “terzo referendum”. Ma a rovescio. Quando non ci saranno più i vecchi “nemici”, cui attribuire le colpe, allora saranno i cittadini a capire che, ancora una volta, sono stati
strumentalizzati: chiamati solo a fare il “political
dressing” di un corpo in decomposizione.
Sempre nella vecchia logica, per cui non è
la politica al servizio dei cittadini, ma i cittadini al servizio della politica, per “nuova” che
questa sia.
Saranno allora (ed a ragione) i cittadini ad
individuare i “nuovi” colpevoli proprio nei
“nuovi” politici. E non sarà la rivoluzione. Sarà peggio. Sarà la dissoluzione.
L’astensionismo dal voto, che in Italia non
è silenziosa fiducia nel sistema, ma all’opposto disgusto per il sistema, si trasformerà infatti in “secessione dal voto”. E di qui in secessione dagli ideali e dall’idea stessa di nazione e di patria. s
Giulio Tremonti e Giuliano Urbani
allo SDI, che ha coagulato il ritorno di parte
dei voti socialisti. Ma ci sono altri voti che
possono rientrare, con l’aiuto di tutti i socialisti oggi attivi, per ricostruire una casa comune.
Un’altra considerazione da fare è che dove i
socialisti hanno presentato candidati forti il
successo è stato maggiore.
Bisogna avere molta pazienza e molta umiltà per contribuire a far rinascere una forza socialista che non sia marginale. Le condizioni
oggi forse non ci sono ancora, sia perché i sistemi elettorali sono penalizzanti per le forze
minori, sia perché la campagna infamante condotta nei confronti del PSI ha lasciato segni
profondi nell’opinione pubblica, sia perché,
infine, un intero gruppo dirigente è stato eliminato dalla scena politica e Craxi tolto di
mezzo come “capro espiatorio” di un sistema
da tutti praticato.
Ci sono tanti socialisti “senza tessere” che
sarebbero pronti a dare una mano per ricostruire. Bisogna offrire loro spirito unitario, obbiettivi politici e sociali, motivi per riprendere la
lotta.
Senza dimenticare il passato del socialismo
italiano, che è un pezzo di storia d’Italia di ieri
e di oggi, è necessario costruire il futuro agendo con gli stessi metodi e con gli stessi principi
che animarono i pionieri del riformismo, sia
pure essendo consapevoli che è mutata la realtà
economica e sociale nella quale ci muoviamo.
Occorre dare rappresentanza a chi non ce l’ha
(e sono i nuovi soggetti dell’economia, piccoli
produttori, “le partite IVA”); bisogna offrire solidarietà a chi viene emarginato nella società
della globalizzazione (e sono tanti: gli anziani,
i sottooccupati, i disoccupati); bisogna trovare
nuove forme di “welfare” nell’epoca dello
smantellamento del “welfare state” (le “società
di mutuo soccorso” non erano forme private di
assicurazione per la salute e la vecchiaia, promosse dal movimento dei lavoratori?).
Tutto questo è molto difficile, naturalmente,
con pochi mezzi e tanta discriminazione, ma
perché non tentare di ricostruire in questo modo? In ogni caso qualcosa resterà, se questo
sarà anche uno strumento per l’unità dei socialisti. s
CRITICAsociale ■ 7
10 / 2012
■ 1999 – NUMERO 1
IL NEO-CLIENTELISMO
Critica Sociale
S
ono mesi e mesi che viene sistematicamente ripetuto: con la
vittoria del “sì”, e con la “nuova” legge elettorale che ne deriverà, avremo
finalmente un “ordine nuovo”: vero bipolarismo, vere maggioranze parlamentari, governi
più stabili, drastica riduzione dei partiti (il cd.
bipartitismo), in definitiva una più forte sovranità dei cittadini.
Ma le cose stanno realmente così? Purtroppo no, e basta poco per verificare che l’eventuale nuovo sistema elettorale non potrebbe
produrre nessuno di questi risultati.
E’ abbastanza logico presumere che, al momento delle elezioni, siano in gara due sole
“coalizioni”.
Per una ragione abbastanza semplice: nessuno dei partiti attuali avrebbe possibilità di
vincere nei collegi elettorali, ottenendo da solo
percentuali mediamente non eccedenti il 30%.
Ma di quale unione si tratterebbe? Per l’appunto, di un’unione puramente “elettorale”.
Dunque, un’unione opportunistica, strumentale, prevedibilmente ricattatoria (io controllo
l’x per cento dei voti; se non candidate me, passo al campo avversario e voi perdete il seggio).
In ogni caso, un ‘unione del tutto provvisoria: oggi alleati, ma domani in Parlamento, di
nuovo ciascuno con le sue truppe (per contare
di più nella formazione di governi e nelle decisioni legislative quotidiane). In sintesi: un
bipolarismo puramente, semplicemente, dichiaratamente, geneticamente elettoralistico.
Che finirebbe per configurarsi come l’ambiente di coltura ideale del clientelismo parlamentare. Con fazioni di tutti i generi, ma sempre
“decisive” per la scelta delle candidature. Fazioni partitiche, ma anche localistiche, sindacali, clientelari.
Forse, dai bussolotti del sistema post-referendario potrebbe anche uscire una qualche
maggioranza numerica. Ma non certo una
maggioranza politica.
Verso questa ipotesi negativa spingono poche considerazioni, di buon senso.
Può essere opportuno ignorare certe incredibili “simulazioni” apparse in questi giorni
sui giornali. Lasciamole perdere, per l’assoluta
inattendibilità che le contraddistingue (come
si fa, infatti, ad immaginare una distribuzione
dei voti partendo dai risultati del 1996, quando
è chiaro che, col nuovo sistema, cambierebbero inevitabilmente anche candidati e comportamenti elettorali, cambierebbe cioè tanto l’offerta quanto la stessa domanda politica).
Facciamo invece un ragionamento più serio.
Per chi voterebbero gli elettori, con il nuovo
sistema? Solo e unicamente per i candidati del
proprio collegio, con la “logica”, precedentemente descritta, di formazione di candidature
manipolate “collegio per collegio”. Dunque,
non per il governo.
Certo, in sede elettorale il numero delle “coalizioni” dei contendenti si abbatterebbe a due
soltanto (o giù di lì), per le ragioni di convenienza elettoralistica esposte appena qui sopra.
Ma, dopo le elezioni? Il numero dei partiti,
delle fazioni e dei partitelli, finirebbe invece
con l’aumentare a dismisura in sede parlamentare, proprio per le citate ragioni genetiche che
accompagnerebbero il nascere di alleanze elettorali, all’insegna esclusiva dell’opportunismo
momentaneo.
Allora, dove sarebbe il guadagno per i cittadini?
Si avrebbe solo il passaggio dalla padella
(attuale” alla brace dei mille gruppuscoli, incentivati e non scoraggiati proprio dalle peculiarità del nuovo maggioritario secco. In sintesi, non ci sarebbe per i cittadini alcun autentico incremento di “sovranità elettorale”.
Infatti, quando la scelta elettorale nei collegi
uninominali viene presentata come “scelta dei
governi”, ciò che in realtà si fa è solo creare
un’illusione: in ragione della logica di formazione “collegio per collegio” delle coalizioni
elettorali, finirebbe infatti per sprigionarsi il
“peggio del peggio” della politica italiana di
sempre: opportunismo, cinismo, ricatti, trasformismo, clientelismo, campanilismo.
Francamente tutto ciò è un po’ diverso dalla
nuova cittadinanza europea che gli italiani
hanno invece il diritto di avere. Per cambiare,
è necessaria una ulteriore riflessione. s
■ 1999 - NUMERO 1
CON IL SISTEMA TEDESCO,
RAPPRESENTANZA E STABILITÀ
Critica Sociale
I
In Italia, dal 1993 in poi abbiamo via via negativamente sperimentato forme atipiche e/o improprie di bipolarismo. È bene che ce ne rendiamo conto fino in fondo: il “bipolarismo dei
44 partiti” così come “l’alternanza dei ribaltoni ricorrenti” fino al “maggioritario privo di
maggioranze capaci di governare” sono solo
le caricature di una politica moderna. Che non
può essere prodotta neppure dal referendum.
In questi termini, per ricostruire l’attuale sistema politico italiano, le priorità sono le seguenti:
a) ridurre la frammentazione della rappresentanza politica, attraverso disincentivi istituzionali (barriere di accesso) che siano tanto
realistici quanto equi;
b) garantire tuttavia l’elezione di un parlamento che sia ragionevolmente rappresentativo delle principali forze politiche presenti nella società italiana.
Non si tratta di “rappresentare tutti” (soluzione velleitaria e controproducente, perché
incentiverebbe pericolosamente la polverizzazione politica).
Si tratta piuttosto di evitare che nel Parla-
mento siano “assenti” le diversità principali,
le diversità che contano. Perché, se no, il deficit di rappresentatività minerebbe alla base la
legittimità stessa del Parlamento.
c) favorire la formazione di una moderna
competizione bipolare fra due coalizioni alternative di governo, caratterizzate dalla netta
prevalenza di orientamenti programmatici, che
siano al contempo moderati e costruttivi, consapevoli degli interessi che entrambe le alleanze devono porre in testa ai rispettivi programmi;
d) favorire e premiare la formazione di governi che siano quanto più possibile politicamente responsabili verso i propri elettori,
nell’osservanza degli impegni programmatici
assunti nelle varie occasioni elettorali. All’opposto, scoraggiare e punire la formazione di
governi “parlamentari” alternativi rispetto a
quello eletto dal popolo.
In questa logica, la proposta formulata ed articolata qui di seguito si basa essenzialmente
sul modello applicato nella Repubblica Federale Teedesca.
La struttura portante del modello tedesco è
data, come già notato, dal ricorso a un criterio
di rappresentatività popolare basato sulla proporzionale.
In base a questo criterio vengono eletti i
membri della “camera bassa”: metà attraverso
lo scrutinio di lista (senza preferenze) e metà
attraverso collegi uninominali su base regionale. A correzione della logica proporzionalistica e parlamentare intervengono due importanti istituti.
Il primo è quello della “clausola di esclusione” dal computo di assegnazione dei seggi di
tutte le liste (partiti) che non superano la soglia
del 5% dei voti validamente espressi.
Il secondo è quello della cosiddetta “sfiducia
costruttiva”. Un istituto che, consentendo al
Parlamento di sostituire un governo soltanto attraverso l’elezione di un altro e nuovo governo,
combatte nel modo più efficace eventuali “vuoti di potere” che si potrebbero produrre nella
condizione della politica nazionale.
Riassumendo, il modello tedesco è in questo
modo capace di centrare congiuntamente tre
fondamentali obiettivi politici: il massimo di
rappresentatività parlamentare; il massimo di
stabilità governativa; il minimo di frammentazione delle forze politiche (compatibile con
la salvaguardia del pluralismo democratico).
In Germania, nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo modello ha funzionato bene. La
nostra proposta è semplicemente quella di introdurre in Italia un complesso di istituzioni
che, compatibilmente con la nostra storia politica, con la nostra realtà sociale, con la nostra
Costituzione, consentano comunque di produrre un pari effetto di “governance”.
La proposta che segue ha, in specie, in coerenza al modello tedesco, tre caratteristiche
specifiche essenziali: a) evita ogni eccesso di
polverizzazione e/o di frazionismo politico, lasciando tuttavia ampio spazio alle diversità.
L’oggetto è principalmente ottenuto con la
clausola di sbarramento al 5%:
b) restituisce lo “scettro” al popolo e garantisce il “bipolarismo”.
Infatti, nell’economia di questa ipotesi, è il
popolo che vota direttamente le coalizioni che
si candidano al governo. In specie, è il popolo
che vota sui programmi di governo, sul capo
del governo e sulle squadre di governo.
In caso di fallimento, scatta un effetto automatico: il governo cade e si rivota, senza possibilità di soluzioni “parlamentari” alternative.
A rigore, per produrre costituzionalmente
questo effetto basterebbe che la nuova legge
elettorale sia chiara e non “mista” come l’attuale (nel ‘94 e nel ‘98 i “ribaltoni” sono stati
infatti “giustificati” proprio in base al carattere
non chiaro della legge elettorale).
Una legge elettorale chiara è infatti di per sè
pienamente sufficiente per generare l’obbligo
costituzionale di scioglimento del Parlamento
(come è stato scritto dalla migliore dottrina).
Ma è evidente che, per varie ragioni, questo
elemento sistematico può essere considerato
insufficiente. Per questo, si prevedono due ulteriori meccanismi di tutela della sovranità popolare, specificamente costituiti da:
1. revoca del finanziamento pubblico ai partiti politici che votano o sostengono maggioranze “ribaltiste”;
2. preclusione agi stessi partiti della possibilità di presentarsi con gli stessi simboli e
contrassegni alle successive elezioni.
In particolare, pare ragionevole assumere
che si tratti di strumenti non solo politicamente
opportuni (per dare al paese un messaggio di
garanzia in ordine al valore decisivo del voto
popolare, non impunemente espropriabile da
parte dei partiti), ma anche costituzionalmente
legittimi.
Nè varrebbe sostenere qualcosa di diverso,
focalizzando la lettura del testo costituzionale
solo sulle norme che garantiscono le “libertà”
parlamentari. Infatti il testo costituzionale, come tutti i testi normativi, va letto nel suo insieme, e non per parti staccate.
Tra l’altro, neppure avrebbe senso sostenere
che la legge elettorale non è la sede “adatta”
per introdurre questi istituti. Per due ragioni.
Perché è comunque una legge. Perché è anzi
una legge che applica la Costituzione (e perciò
non una legge qualsiasi). Dunque, se il suo
contenuto è sostanzialmente conforme alla
Costituzione (nel caso, lo è), la legge elettorale
è lo strumento legittimo per introdurre strumenti del tipo qui in oggetto;
c) non allontana ulteriormente il popolo dalla politica.
La nuova meccanica elettorale è infatti assolutamente semplificata: una scheda semplice, un solo giorno di votazione, minime possibilità di broglio.
E’ così che si evitano molte di quelle complessità “tecniche”, rituali e/o artificiali, molte
di quelle “sorprese”, che sono state e sono causa di crescente repulsione dei cittadini per la
politica. s
8 ■ CRITICAsociale
10 / 2012
■ 1996 – NUMERO 5
LA PADANIA CHE NON C’È
Antonio Venier
Da una analisi economica delle realtà regionali del Nord si comprende come il programma di Bossi non abbia le gambe per
camminare.
C
onviene ricordare che nazione
e Stato non sono la stessa cosa.
Infatti esistono alcuni Stati che
comprendono più di una “nazione”: è il caso
tipico delle federazioni o confederazioni, ed in
passato dagli imperi. Invece vi sono “nazioni”
che non sono organizzate come “Stato”, oppure che sono suddivise fra più di uno stato indipendente. Per farla breve, diciamo che gli Stati
esistenti attualmente sono quelli che appartengono all’ONU (qui il termine “nazioni” è totalmente fuori luogo). La definizione di nazione è più complessa: possiamo considerare Nazione, “...una comunità umana storicamente
evoluta, caratterizzata dall’unità del territorio,
dalla vita economica, dalla prospettiva storica,
dalla lingua e dall’atteggiamento mentale quale risulta dalla cultura” (rif. S. Salvi, “Le nazioni proibite”, Firenze 1973, pag. VII - La definizione è attribuita a Stalin).
Ricordiamo che lo stato unitario era stato articolato in province, sul modello dei dipartimenti francesi, in base ad un criterio razionale.
Le “regioni” risultanti dal raggruppamento
delle province sono risultate molto disomogenee per dimensioni, popolazione, interessi
economici, etc.
In particolare appare insostenibile mantenere l’unità “regionale” delle attuali Lombardia
ed Emilia-Romagna. Infatti nel primo caso sono messe insieme le province industriali del
Nord-Ovest (Varese e Como), in fase di rapida
decadenza, con quelle padane e quelle orientali, di vocazione agroalimentare e con industrie piccole e medie in progresso. Per inciso,
osserviamo che uno dei più duraturi confini è
stato quello dell’Oglio/Adda, fra il dominio
veneziano ed il Ducato milanese.
Altra regione formata con criteri artificiosi
è certo l’Emilia-Romagna, nata solo come
Emilia. Anche qui profonda disomogeneità fra
gli ex ducati dell’Ovest e la Romagna ex dominio papale.
Per finire l’esemplificazione, citiamo il
Friuli-Venezia Giulia: la Venezia Giulia non
esiste più da 50 anni, ma la città di Trieste, totalmente estranea al Friuli, ne è diventata il capoluogo.
Inoltre osserviamo che le grandi città in un
ordinamento federale ragionevole, per es. di tipo tedesco, debbono essere considerate come
entità separate. In Italia questa è certamente la
condizione di Milano, Torino, Roma e Napoli.
In conclusione, una ipotetica federazione
italiana dovrebbe razionalmente articolarsi su
circa 30 “regioni” o “cantoni”, in luogo delle
20 attuali, con popolazione e superficie non
enormemente diverse.
Non si riesce a comprendere quale criterio
razionale possa sostenere la proposta di “macro-regioni”, da taluni formulata. Infatti macro-regioni per es. come quelle utilizzate dalle
statistiche europee richiedono certamente una
suddivisione in province, e quindi ripropongono gli inconvenienti dello stato centralizzato
attuale. Ovviamente del tutto assurda, anzi a
parere nostro pura farneticazione, una proposta di tre enormi macro-regioni come Nord,
Centro, Sud/Isole, ciascuna con dimensioni
demografiche superiori alla media degli stati
dell’Europa.
Poiché tuttavia quest’ultima proposta sembra essere la base di un ipotetico progetto autonomista ed indipendentista denominato Padania; dedicheremo un esame particolare all’argomento. A parere nostro, la suddivisione
sia dell’Italia che degli altri paesi europei in
diversi stati indipendenti è impossibile nel caso di preesistente stato unitario, e difficile anche nel caso degli “Stati” costituiti artificiosamente (Jugoslavia, Cecoslovacchia) e degli
imperi (Urss). Poiché da tempo si parla della
Padania libera come obiettivo desiderabile per
una parte degli italiani, consideriamo come
potrebbe essere questo ipotetico Stato.
Appare evidente che non esiste, né mai è
esistita una “nazione padana” od una “nordnazione”, denominazione questa ancora più
fantasiosa. Pertanto dobbiamo considerare una
ipotetica “Padania” come una formazione statale, comprendente una parte della nazione italiana. Ricordiamo che fino a pochi anni fa la
nazione tedesca era organizzata in tre Stati indipendenti, cioè Repubblica Federale, Repubblica Democratica ed Austria, ora ridotti a due.
Quindi è certamente pensabile una struttura
politica italiana basata su diversi stati indipendenti: si tratta in sostanza della condizione precedente il 1861.
La “Padania” qui ipotizzata sarebbe costituita dalle attuali regioni dell’Italia Nord-Occidentale e Nord-Orientale: Piemonte, Valle
d’Aosta, Lombardia, Liguria, Trentino-Alto
Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, EmiliaRomagna. La popolazione risulterebbe di circa
25 milioni, cioè quella di uno Stato europeo
medio/grande.
Nella Padania resterebbero incluse tre regioni a statuto speciale, di cui almeno una con
non sopite velleità autonomiste o separatiste.
L’omogeneità etnica, linguistica, storica della
“Padania” non risulterebbe diversa da quella
attuale dell’intera Italia. In Padania troveremmo dialetti diversissimi, e pure sensibilmente
differenti tradizioni e storia.
Abbiamo ricordato prima il secolare confine, e le altrettanto secolari guerre, fra Venezia
e Milano. Ma lasciamo da parte storia, lingue
e tradizioni, e passiamo all’economia. Anche
in questo caso, si va da un estremo all’altro,
non meno che nell’intera Italia.
Infatti Piemonte e Liguria sono regioni in
piena decadenza economica, caratterizzate
dalla presenza di grandi industrie assistite con
prodotti di bassa tecnologia (Fiat, Olivetti,
aziende liguri ex PP.SS.) prevalentemente diretti al mercato interno (italiano, non della Padania!). La Lombardia presenta tutta una gamma, che va dalle province del Nord-Ovest già
fiorenti per industrie di alto livello ed ora in
piena decadenza, alla florida attività agro-alimentare delle zone padane, ed alla vivace attività industriale delle medie e piccole industrie delle province orientali e meridionali.
L’Emilia ed il Veneto sono più omogenei, con
forte agroalimentare ed aziende industriali medio/piccole. Tuttavia in nessuna parte di Padania troviamo industrie di alta tecnologia, tali
da poter spingere verso una prosperità almeno
sul medio termine
In conclusione, la Padania sarebbe in una
condizione di squilibrio già attualmente, non
dissimile da quella che i “filopadani” rimproverano all’Italia. Infatti il Veneto, la Lombardia orientale e meridionale (Brescia, Bergamo,
Mantova, Cremona) e l’Emilia Romagna dovrebbero sostenere con trasferimento consistente di risorse, diciamo brutalmente “mantenere”, le regioni in decadenza o già economicamente dissestate (Piemonte, Liguria, Lombardia Nord). Per finire, resta il problema del
sostegno al Trentino-Alto Adige, che è ora a
carico dello Stato italiano. Aggiungiamo a
questo quadro una ulteriore considerazione; la
parte prospera della Padania si sostiene prevalentemente, oltre che sull’agro-alimentare, sulla produzione delle industrie di piccole e medie dimensioni. Questa categoria di industrie
può dare consistenti utili sul breve periodo, ma
è molto fragile sul medio/lungo termine.
Infatti questa categoria di aziende industriali
ha gravi limitazioni intrinseche, che sono troppo spesso dimenticate, nell’entusiasmo per il
facile e rapido profitto. Queste limitazioni sono
la modesta capacità di innovazione tecnica, la
forte dipendenza dal credito e dai mercati di
esportazione (rapporti di cambio), ma soprattutto l’impossibilità per le piccole/medie industrie di operare nel campo dell’alta tecnologia
(aeronautica, nucleare, grande elettronica, trasporti). La prospettiva più seria per una ipotetica Padania, dal punto di vista economico industriale, sarebbe verosimilmente quella di
produttore di beni di consumo di basso o medio
valore, e di sub fornitore per la grande industria, necessariamente straniera. Una prospettiva piuttosto somigliante alla condizione presente dei paesi asiatici e dell’Est europeo, quindi non molto gratificante già al presente, e molto oscura sul medio/lungo termine. Vi sarebbero da prendere in considerazione numerosi altri
argomenti importanti, quali forze armate, ripartizione del debito pubblico, banca centrale e riserve valutarie, e molto altro. Ma ci sembra di
avere già preso troppo sul serio la Padania più
o meno indipendente. Questa è, a nostro avviso, nel migliore dei casi un raggiro ai danni di
pagatori creduli (speriamo di oltralpe), nel peggiore una beffa ai danni degli italiani del Nord.
Invece il discorso su di una ipotesi di riforma federale è certamente più serio, anche se
non semplice. Questo discorso, qui soltanto
accennato, meriterebbe un approfondimento,
sia dal punto di vista della fattibilità, che da
quello dei presunti benefici attribuiti al federalismo. s
■ 1996 - NUMERO 8
LE “MANI PULITE”
SULLE PRIVATIZZAZIONI
Antonio Venier
1. Osserviamo che fra la messa in atto dell’operazione “privatizzazione” (autunno 1993)
e l’attacco alla classe politica di Governo è trascorso circa un anno. In questo tempo i mezzi
d’informazione hanno insistito sull’argomento
del collegamento fra le aziende dello Stato ed
i finanziamenti illeciti ai partiti politici.
2. Le privatizzazioni sono quindi iniziate effettivamente dopo avere lungamente preparato
la cosiddetta opinione pubblica. Il passaggio a
pro-prietari privati delle aziende delle Partecipazioni Statali (PRSS.) è stato presentato come il principale mezzo per impedire il finanziamento dei “politici” (partiti, spese elettorali,
etc.) fuori dalle regole di legge.
3. In Italia si discute insistentemente e confusamente di privatizzazioni già dal 1990. Ricordiamo una proposta del Governo (1991) oltre che diversi disegni di legge e rapporto di
Commissione (1990). Nel 1991 era emersa
chiaramente la mancanza di una seria finalità
di utilità pubblica per le privatizzazioni oltre
che grande confusione sui possibili modi di
eseguirle.
4. Non vogliamo qui esporre più dettagliatamente le promesse e le diverse opinioni
sull’argomento. Ci limitiamo all’osservare che
la giustificazione presentata era in sostanza la
superiorità del “privato” sul “pubblico”, e
l’opportunità di avere una fonte di entrate straordinarie per l’Erario. Argomentazioni entrambe prive di adeguata dimostrazione: infatti
(In Italia almeno) la grande industria privata è
gestita non meglio di quella pubblica ed il ricavo presunto non è rilevante rispetto al bilancio dello Stato.
5. Sembra (a chi scrive) fuor di dubbio l’esistenza di una connessione fra l’operazione
“Tangentopoli” e la vendita delle aziende dello
Stato. Precisamente riteniamo che l’azione di
discredito e le innumerevoli accuse contro gli
uomini politici ed i partiti al Governo nel
1991, siano state una premessa necessaria alle
“privatizzazioni”. Infatti tali accuse e discredito, seguite dalla sostituzione con i cosiddetti
tecnici, hanno eliminato chi avrebbe potuto
ostacolare la privatizzazione senza regole né
garanzie (quindi senza una legge di privatizzazione, per esempio di tipo francese).
6. Inoltre, come già scritto nel punto I, nel
corso di “Tangentopoli” si è messa in evidenza
con insistenza l’azione di finanziamento illecito ai partiti fatta dalle aziende delle PRSS.,
particolarmente Eni. Invece non sì è insistito
altrettanto sui finanziamenti da parte delle
grandi imprese “private”, né su quelli di provenienza estera.
7. Da quanto esposto, si può ricavare che lo
scopo (od almeno lo scopo principale) delle
privatizzazioni sia quello di eliminare al più
presto possibile, ed a qualsiasi prezzo, l’influenza ed il controllo politico (cioè del Governo e dei partiti di Governo) sulle aziende
finora di proprietà pubblica. Questo evidentemente comporterà, come necessaria conseguenza, l’impossibilità di ogni finanziamento,
lecito od illecito alle forze politiche da parte
di queste aziende.
8. Chi scrive ritiene altamente probabile una
profonda riforma, in senso permissivo dell’attuale legislazione sul finanziamento dei partiti
non appena sarà stata trasferita ai “privati” una
porzione importante delle aziende dello Stato.
In questo modo si riaprirà una fonte di finanziamento assolutamente necessaria per il funzionamento di un sistema politico democratico-parlamentare. Ma tuttavia l’erogazione di
questo finanziamento dipenderà totalmente dai
grandi gruppi finanziari (presumibilmente in
maggioranza stranieri) “privati” nuovi proprietari di industrie, banche, imprese di servizi, etc.
9. Apriamo qui una parentesi nell’argomentazione, per ricordare le origini del sistema
delle Partecipazioni Statali, ora posto in liqui-
CRITICAsociale ■ 9
10 / 2012
dazione. In proposito ricordiamo che l’Iri fu
istituito (intorno al 1933 o ‘34) allo scopo di
mantenere in vita importanti industrie e banche, portate al dissesto dai proprietari precedenti. Ricordiamo inoltre che una parte molto
consistente delle industrie dell’Iri avevano
funzione strategica, riguardando armamenti,
prodotti di base ed alta tecnologia (ovviamente
all’epoca); inoltre lo Stato interveniva nell’approvvigionamento energetico (Agip). Essendo
il Governo di tipo autoritario-dittatoriale, ovviamente non esisteva alcuna necessità di usare l’Iri come fonte di finanziamento della contesa politica (elezioni, apparati di partito, etc.).
10. Fra il 1955 ed il I960 alcuni politici appartenenti alla sinistra Dc (Fanfani, Vanoni,
Mattei principalmente), decisero di utilizzare
gli enti ed industrie dello Stato come fonte di
finanziamento autonoma per la gestione del sistema politico (apparati di partito, spese elettorali, etc.). In questo modo si apriva una fonte
di finanziamento non più dipendente dalla
grande industria privata, né da potenze straniere (principalmente Urss, ma anche Usa).
11. Questa decisione comportava evidentemente un controllo politico molto più stretto
sugli enti delle PRSS., sia con la costituzione
di un apposito ministero che con l’uscita delle
industrie di Stato dalla Confindustria. Le
aziende di Stato si inserivano così nel sistema
politico, sia come fonte di risorse (come già
detto), che come strumento di politica estera
oltre che di pianificazione industriale. Sono
databili in tale periodo le azioni dell’Eni per
disporre di risorse petrolifere indipendenti
(cioè non attraverso il controllo anglo-americano), per esempio in Iran ed Algeria, azioni
certamente impossibili senza un qualche collegamento con il Governo.
12. Circa la questione, sempre ricorrente,
dell’alto costo del sistema politico italiano, ci
limitiamo all’osservare che: la presenza di un
enorme apparato del Pci (dal 1948 accettato
nel sistema con funzioni varie) disponente di
ampie risorse di provenienza Urss, rendeva necessaria la costituzione ed il mantenimento di
apparati comparabili da parte dei partiti anticomunisti, con i relativi costi. (Questo argomento potrebbe essere oggetto di una trattazione separata: scelta della Dc di mantenere il
Pci nella legalità, governo locale nelle regioni
rosse, etc.).
13. Ritorniamo all’argomento del paragrafo
8, cioè la dipendenza dai privati del funzionamento del sistema politico. La Presidenza del
Consiglio ha recentemente diffuso uno strano
opuscolo, L’Italia privatizza, dove con argomenti puerili è spiegato perché e come il risparmiatore italiano provvederà ad acquistare
le azioni “privatizzate”. Ma la sola cosa seria
dell’opuscolo è l’ignobile vignetta di copertina: l’Italia in veste di “Vu cumprà” che offre
fabbriche a stranieri d’ogni colore.
14. Le tre vendite importanti del 1993 confermano quanto illustrato in copertina dall’opuscolo Ciampi-Barucci. Gli acquirenti delle aziende Sma (Italgel, Cirio, etc.) e Nuovo
Pignone sono stranieri. Il che si spiega facilmente sia per il modesto prezzo pagato (molto
modesto se riferito al fatturato delle aziende),
che per la forte svalutazione della nostra moneta, opportunamente fatta nel 1992 dai futuri
privatizzatori. La terza privatizzazione del
1993 (Credito Italiano) appare veramente molto particolare, sia per procedure che per beneficiari, e non dovrebbe essere ripetuta. E’ ragionevole credere che le prossime grandi banche avranno acquirenti stranieri.
15. A privatizzazione conclusa, le attività industriali e di servizi, ora sotto controllo dello
Stato, avranno proprietari stranieri. Poiché il
funzionamento di un sistema politico del tipo
democratico-parlamentare necessariamente
comporta costi elevati (in Italia come in ogni
altro paese: Usa, Francia, Germania, Spagna,
Giappone, etc.), questo sistema sarà condizionato e/o dipendente dai suoi finanziatori.
16. Non si ritiene seriamente proponibile un
finanziamento pubblico completo, che dovrebbe essere (a stima) dell’ordine di 5/10 volte
l’attuale, e neppure un finanziamento per mezzo di quote d’iscrizione (non finte) ai partiti.
Pertanto il finanziamento dell’attività politica
dipenderà anche in futuro dal sistema economico. Se le attività principali (grandi industrie,
banche, servizi, energia, etc.) saranno sotto
controllo non italiano, il conseguente condizionamento verso il sistema politico potrà limitare considerevolmente l’indipendenza nazionale, oltre che favorire gli interessi dei “privati” (per esempio con normativa fiscale, tariffaria, di trasferimento capitali, etc.). s
■ 1999 - IL CASO DEL GIUDICE PINTUS
ORMAI NON MI RICONOSCO
IN QUESTA MAGISTRATURA
Gianfranco Pinna
U
n altro capitolo – e particolarmente amaro – è venuto ad
arricchire il tormentato momento della giustizia italiana: la lettera-denuncia al presidente della Repubblica e del Csm
Carlo Azeglio Ciampi, con cui il procuratore
della Repubblica di Cagliari Francesco Pintus
ha dato le dimissioni dalla magistratura.
In quattro cartelle e mezzo, il j’accuse del
procuratore Pintus: “Non riesco più a riconoscermi in una magistratura che troppe volte
mostra di aver rotto gli argini delle proprie
competenze e che vedo troppo frequentemente
straripare in settori che non le appartengono”.
È chiaro che il suo dissenso contro il protagonismo di alcuni magistrati amplificato da
una stampa compiacente, il ruolo ambiguo del
Csm e l’uso perverso dei pentiti che hanno ca-
ratterizzato il sistema giudiziario dell’era “Mani pulite”. Ma il suo atto d’accusa va ben oltre
e investe la sfera politica.
Nella lettera vengono elencati tutti i problemi
e le necessità della giustizia italiana: la separazione delle carriere, la terzietà del giudice, l’obbligatorietà dell’azione penale, la grande disponibilità di mezzi impiegati per istituire processi
eclatanti, puntualmente ribaltati dalle sentenze
in appello. Tutto questo a danno dei cittadini,
che non si sentono più tutelati da una giustizia
che rincorre i teoremi giudiziari a scapito dei
reati cosidetti minori che mettono in pericolo la
sicurezza sociale. Per non parlare dei tempi lunghi che oggi un procedimento richiede.
Ma ciò che maggiormente denuncia il procuratore Pintus è la condotta del CSM, “l’organo che dovrebbe tutelare tutti i magistrati”
e che invece “si comporta assai spesso in modo tale da far dubitare della sua soggezione ad
influenze di correnti, di amicizie e clientele, e
che adempie alle proprie funzioni praticamente al riparo da qualsiasi controllo”. Infatti, “casi analoghi, se non identici, vengono trattati in
modo differente, le “regole” vengono adattate
ai singoli casi oggetto di giudizio”. Insomma,
arbitrarietà dell’azione penale ed eccessiva politicizzazione.
E qui non si può non entrare nella sfera personale. Il procuratore Pintus infatti ha sperimentato sulla propria pelle che in magistratura
titoli e meriti oggi non sono più sufficienti. Ne
sono la riprova le sue mancate nomine alla
Procura Generale e alla Presidenza della Corte
d’Appello di Milano. “Per ragioni di opportunità (non mi si ritenne omogeneo al pool Mani
pulite)”.
Già, cosa ha a che fare Pintus col pool Mani
pulite? Niente. “Lui”, uno dei fondatori di Magistratura Democratica, è rimasto garantista,
ed è colpevole appunto per i suoi principi garantistici. Inoltre, ha avuto l’ardire di difendere
Corrado Carnevale.
Da lì la sua ascesa al calvario. Le iniziative
che si susseguono, l’inizio di un procedimento
paradisciplinare. Per piegarlo, umiliarlo e offenderlo. E alla fine, Pintus, “spinto soltanto
da amore per la verità e da esigenze di giustizia”, non ne può più. Esce dalla Magistratura
sbattendo la porta. Ma a testa alta. Perché la
verità non ha prezzo, e nessuno può fermarla.
La sua è una nuova sfida: respingere e contrastare definitivamente, prima che sia troppo
tardi, la demagogia e l’assalto di quel manipolo di “oltranzisti giustizialisti”, che per sete di
potere e con l’arma del ricatto oggi minacciano seriamente la democrazia e la libertà del
Paese.
Quella che segue è la sintesi di un colloquio,
durato oltre due ore, in cui, fra l’altro, si è parlato del tragico epilogo di Luigi Lombardini.
SA REPUBLICA - Dottor Pintus, la sua
lettera-denuncia al Presidente della Repubblica e del Csm Carlo Azeglio Ciampi, con
cui ha rassegnato le dimissioni dalla Magistratura, ha suscitato grande scalpore in tutta Italia. Perché questo gesto eclatante dopo
quarantacinque anni di attività di cui sette
come Procuratore Generale di Cagliari?
PINTUS - “Io non ho dato le dimissioni dall’ordine giudiziario. Ho semplicemente rinunciato a usufruire del biennio di proroga, dopo
la scadenza naturale dell’incarico che ha coinciso con il mio settantesimo anno di età. Per
quel che riguarda invece “lo scalpore” che
avrebbe suscitato la mia lettera, devo dire che
è calato un chiassosissimo silenzio, come succede sempre nel nostro Paese”.
SA REPUBLICA - Non ritiene che la sua
“rinuncia” possa essere considerata come
una resa?
PINTUS - “Io le battaglie le ho sempre combattute fino in fondo per questi due problemi
ineludibili: l’indipendenza della Magistratura
e la certezza del diritto”.
SA REPUBLICA - Tuttavia se ne va sbattendo la porta. C’è chi dice però che ha lasciato la toga per porre fine ai procedimenti
di “incompatibilità ambientale” avviati
contro di lei dal Csm...
PINTUS - “Per quanto riguarda quei procedimenti, devo dire che io stesso per accertare
la verità ne ho più volte sollecitato la conclusione. Ma sia l’allora ministro di Grazia e Giustizia Flick, sia il Procuratore Generale della
Cassazione hanno omesso di fare qualsiasi
passo per l’accertamento della verità... E lo
stesso Csm, pur sollecitato dal Presidente della
Repubblica Scalfaro, si è limitato a raccogliere
ulteriori elementi d’accusa contro di me”.
SA REPUBLICA - Sta dicendo che la sua
era una lotta impari che andava fatalmente
verso un’unica direzione, e che prescindeva
comunque dall’accertamento della verità?
PINTUS - “Sì, voglio dire proprio questo”.
SA REPUBLICA - Quindi quella di Procuratore Generale alla Corte di Appello di
Cagliari è una “poltrona” scomoda?
PINTUS - “È scomoda per chi fa il proprio
dovere. Per chi invece vuole gestire il posto di
Procuratore Generale come sede di partecipazione alle cerimonie è una poltrona comodissima”.
SA REPUBLICA - Dottor Pintus, lei ha
sperimentato sulla propria pelle che oggi
per far carriera in Magistratura titoli e meriti non sono sufficienti. Lo dimostrano le
sue mancate nomine alla Procura Generale
e alla Presidenza della Corte d’Appello di
Milano. Infatti, nessuna è andata in porto.
Anzi, da lì sono iniziati i suoi guai. Ci dica,
perché non la volevano a Milano?
PINTUS - “L’unica spiegazione che posso
dare è questa: non mi si considerava omogeneo al pool Mani pulite”.
SA REPUBLICA - A questo proposito, in
un’intervista rilasciata al Giornale, che è
stata riportata dallo scrittore Giancarlo
Lehner nel suo ultimo libro “Due pesi, due
misure - Il nodo della giustizia in Italia”, lei
disse: “Ho l’impressione che ci sia una continua ricerca dell’uomo giusto al posto giusto... mi limito a una banale considerazione:
a me è stato contestato che mio figlio eserciti
l’attività forense a Parma, mentre non è stato ritenuto ostativo per Borrelli il fatto che
la nuora faccia l’avvocato a Milano...”. Insomma, un vero e proprio doppiopesismo!
PINTUS - “Esattamente. Tra parentesi, la
nuora di Borrelli continua ancora nell’esercizio della professione forense a Milano, mentre
il suocero è stato nominato Procuratore Generale, e nella stessa città il marito è giudice civile. Ma non è l’unico ‘doppopesismo’. Di situazioni simili ne esistono tante altre, in diverse procure...”.
SA REPUBLICA - A Milano in particolare
chi non la voleva?
PINTUS - “Borrelli ha negato ogni suo intervento in tal senso. E Borrelli, come dice
Shakespeare, è uomo d’onore. Devo quindi
supporre che indipendentemente dalla sua volontà, il Csm ha voluto ‘fargli un favore’”.
SA REPUBLICA - Un fatto è certo. Oggi
in Italia gran parte della opinione pubblica
non crede più nella giustizia, non si sente
più garantita: ritiene che esiste una “Magistratura deviata”, una “Magistratura politica”. E questa convinzione, dopo le sentenze di Perugia e Palermo che hanno assolto
Andreotti, sentenze che hanno visto crollare
alcuni teoremi giudiziari, è notevolmente
cresciuta. D’altra parte, l’uso perverso dei
pentiti, la strumentalizzazione della custodia cautelare, le condizioni delle carceri, le
morti sempre più frequenti, il protagonismo
di alcuni magistrati amplificato da una
stampa compiacente e il ruolo ambiguo del
Csm sono questioni reali e gravi che fanno
riflettere.
PINTUS - “Sono problemi dolenti. Anche
questi ineludibili. D’altro canto, nella lettera
che ho inviato al capo dello Stato ne parlo
esplicitamente: ‘Il nuovo codice di procedura
penale ha creato figure nuove la cui opera ha
finito per incidere in modo determinante sulle
regole del processo’. Sottolineo che ‘quest’ultimo si celebra sulle pagine dei giornali e sugli
schermi televisivi’ e che ‘i mezzi di informazione creano nell’opinione pubblica convinzioni ed aspettative, con la conseguenza che
giorno dopo giorno diminuisce presso i cittadini la fiducia nei giudici’. Inoltre accuso quel-
10 ■ CRITICAsociale
la ‘limitata schiera di protagonisti che determina correnti di opinione che finiscono per influenzare la politica, e talvolta, perfino le decisioni giudiziarie’. Ma soprattutto accuso la
condotta del Csm, ‘l’organo che dovrebbe tutelare tutti i magistrati’ e che invece ‘si comporta assai spesso in modo tale da far dubitare
della sua soggezione ad influenze di correnti,
di amicizie e clientele, e che adempie alle proprie funzioni praticamente al riparo da qualsiasi controllo’”.
SA REPUBLICA - Dottor Pintus, lei ha
sempre condannato la giustizia-spettacolo e
ha trascorso una vita a tutelare le regole e
le garanzie. Le chiedo: quali iniziative occorre intraprendere per ripristinare la giustizia-giusta?
PINTUS - “Le cause di fondo stanno nel disfacimento della giustizia, nella incapacità
complessiva della macchina giudiziaria di
smaltire tutti i lavori e nella cosiddetta giustizia elefantiaca. Del resto – inutile negarlo –
quello che sta accadendo oggi in Italia è sotto
gli occhi di tutti: gli uffici giudiziari continuano a ‘macinare’ processi che saranno prescritti.
Pertanto, inevitabilmente, dovranno essere
spazzate via tutte le procedure, e sono moltissime, destinate fatalmente alla prescrizione. Si
chiamini Mani pulite o altro, la cosa non cambia. Finiranno prescritte anche le contravvenzioni, e i reati di maggiore gravità. Certo, io
non so quante prescrizioni stiano maturando
nelle varie Procure della Repubblica, nei vari
Tribunali e Corti d’Appello. La mia esperienza
è limitata agli uffici giudiziari della Sardegna.
Le posso garantire che il numero delle prescrizioni cresce in modo impressionante, e riguarda tutti i reati, per i quali la celebrazione del
processo coincide con una data a ridosso della
scadenza dei termini di prescrizione. Perciò
quando si celebra il giudizio di primo grado,
si sa già che il processo sarà destinato alla prescrizione”.
SA REPUBLICA - E quindi?
PINTUS - “Di conseguenza se non si incide
sulle cause dello sfascio, non si può parlare di
‘giustizia-giusta’, che viene assicurata mediante il rispetto rigoroso della obbligatorietà
dell’azione penale. Altrimenti sarebbe opportuno eliminare l’obbligatorietà, che sarebbe
soltanto una finzione, e introdurre la facoltatività dell’azione penale. Però questa volta non
affidata ai magistrati, bensì a organi che abbiano l’investitura del popolo sovrano.
Per questo ho sempre criticato la lentezza
dei processi, che ha causato una valanga di
prescrizioni, e quindi una surrettizia forma di
amnistia. Per questo ho sempre chiesto il rispetto della obbligatorietà dell’azione penale,
e ne ho criticato la facoltatività.
Questi sono i nodi da sciogliere, per ripristinare la certezza del diritto!”.
SA REPUBLICA - La storia della società
italiana è sempre stata costellata di consensi, rinunce, ricatti e compromessi. D’improvviso, con una sorta di cancellazione della storia, “certi magistrati, elevati dalla
piaggeria apologetica, dal conformismo
acritico a eroi e superuomini”, scoprono
“l’acqua calda”: tangentopoli. Quindi la degenerazione, giustizialismo e “giustizia a
orologeria”. Perché questa tardiva e, tutto
sommato, velleitaria sete di giustizia contro
una sola parte politica?
PINTUS - “Di fatto l’investitura della Magistratura come salvifica e taumaturgica operazione di bonifica morale del Paese ha creato
molte illusioni. Illusioni – ripeto – che oggi
stanno per naufragare in un mare di prescrizioni, mentre nel contempo si continua a trascurare l’esercizio dell’azione penale nei confronti di tutti gli altri reati.
Lei mi chiede: ‘Perché questa tardiva e, tutto
10 / 2012
sommato, velleitaria sete di giustizia contro
una sola parte politica?’. Beh, non saprei. Probabilmente occorrerà attendere l’apertura di
altri armadi”.
SA REPUBLICA - Resta comunque il fatto che a seguito della “Rivoluzione Mani
pulite” cinque partiti “storici” sono stati
cancellati dalla scena politica, mentre il PciPds-Ds è stato appena sfiorato. E D’Alema
è al governo con Cossutta, nonostante i dossier Mitrokhin, Havel e tanti altri in arrivo... Andreotti assolto. Forlani ai servizi sociali. Mentre Craxi, esule e ammalato ad
Hammamet, è l’unico pluricondannato con
sentenze definitive per questo teorema: non
poteva non sapere. Nonostante, dulcis in
fundo, le dichiarazioni di Gerardo D’Ambrosio: “Craxi non ha mai intascato soldi a
titolo personale. La storia gli ha dato ragione. I soldi li presero tutti”. Dottor Pintus, è
possibile risolvere il caso-Craxi?
PINTUS - “Il caso-Craxi ho il sospetto che
non sia risolvibile se non attraverso aggiustamenti che – a quanto mi è dato capire – l’on.
Craxi non gradisce. È certo che, se dovesse beneficiare di una grazia, l’on. Craxi potrebbe ritornare in Italia, ma non avrebbe la possibilità
di riprendere l’attività politica, perché sarebbe
ineleggibile finché esistono sentenze passate
in giudicato”.
SA REPUBLICA - Però esiste la possibilità della revisione dei processi, il caso-Sofri
docet...
PINTUS - “Sì, è vero. Ma è uno strumento
estremamente delicato, uno strumento lungo è
difficile da percorrere... Tuttavia c’è da dire
che la valutazione che Craxi ‘non poteva non
sapere’, si scontra con l’opinione di Nordio su
altri segretari di partito, che secondo lui invece
‘potevano non sapere’.
Un’altra possibilità infine è l’amnistia, che
però in questo momento pare che sia rifiutata
da tutte le forze politiche. Un’amnistia generalizzata che consenta ai fini giudiziari di togliere dagli armadi tutti i fascicoli che sono ormai sull’orlo della prescrizione. E dunque si
ricominci da zero. Io però vedo nerissimo
nell’avvenire della giustizia italiana...”.
SA REPUBLICA - Veniamo alla Sardegna. L’11 agosto dello scorso anno moriva
tragicamente Luigi Lombardini, Procuratore capo della Pretura di Cagliari, dopo un
estenuante interrogatorio durato oltre sei
ore condotto dal pool di Palermo, guidato
da Giancarlo Caselli.
L’accusa a Lombardini – cui in verità
nessuno ha mai creduto – era gravissima e
infamante: estorsione. Era accusato, come
è risaputo, di essersi appropriato del riscatto pagato per la liberazione di Silvia Melis
in concorso con l’editore Nicola Grauso,
l’ex presidente della Sardaleasing avv. Antonio Piras e l’avv. Luigi Garau. Inoltre di
aver tentato di estorcerne un altro al padre
di Silvia Melis.
Perché a distanza di tanto tempo il Tribunale di Palermo non ha ancora fissato
l’udienza per l’esame del rinvio a giudizio?
Perché questo ritardo? Perché tutto tace?
PINTUS - “Queste domande me le sono poste anch’io, ma finora non sono riuscito a darmi una risposta”.
SA REPUBLICA - Qual è il suo giudizio
su Lombardini?
PINTUS - “Un fatto è certo: neppure gli ultimi eventi sono riusciti a scalfire l’onestà intellettuale e morale del dottor Luigi Lombardini. Non c’è dubbio però, come ho riferito al
Ministro di Grazia e Giustizia, che Lombardini
fosse un magistrato ‘anomalo’, e che il suo
modo di operare non fosse in linea con i miei
principi garantistici. Ma i successi da lui ottenuti nella lotta contro la criminalità sarda in
genere e contro i sequestri di persona in particolare (da cinquanta dei primi anni ‘80, si erano ridotti a zero nel 1989), la totale dedizione
alla causa cui si era votato, anche al di là dei
doveri istituzionali, gli avevano valso un unanime apprezzamento...
Difatti, oggi in Sardegna c’è la consapevolezza che è venuto meno con lui un prezioso
contributo per la conoscenza della criminalità
sarda e delle sue specificità. E si legittima il
dubbio che l’intervento del pool di Caselli (verosimilmente con piena legittimità, data la mole ingentissima di denunce partite contro Lombardini da diversi uffici giudiziari sardi) su alcuni dei suoi supposti abusi, con il grande
spiegamento di forze (cinque magistrati e una
decina tra agenti e collaboratori giunti da Palermo con un volo della Compagnia privata
Aeronautica Italiana a bordo di un Falcom 50
I-SAME, operazione a dir poco inusuale per
gli uffici giudiziari sardi, e senza precedenti...)
e l’intensità dell’indagine, caratterizzata dalla
contemporanea partecipazione di tutti i pubblici ministeri di Palermo, abbia giocato un
ruolo non secondario sulla tragica morte di
Lombardini”.
SA REPUBLICA - A suo avviso, perché è
stato “rimosso” Caselli dalla Procura di Palermo?
PINTUS - “Guardi, io non so se Caselli sia
stato rimosso dalla Procura della Repubblica.
Non so se sia stato promosso con finalità di rimozione, rimosso con finalità di promozione,
oppure promosso indipendentemente dal fatto
che lui fosse suscettibile di rimozione.
Quel che mi lascia perplesso è il fatto che,
nonostante le promesse che aveva fatto, sia andato via dalla Procura di Palermo senza aver
concluso il processo sul quale aveva giocato
tutte le carte, cioè il processo Andreotti”.
SA REPUBLICA - Ancora: che fine hanno
fatto gli esposti da lei presentati?
PINTUS - “Per quel che so, non hanno avuto alcun esito: né quelli penali alla Procura della Repubblica di Palermo, né quelli disciplinari al Csm. Devo dire invece che la procedura
nei miei confronti è stata velocizzata oltre ogni
limite”.
SA REPUBLICA - Né si sa più nulla sulla
“struttura parallela”...
PINTUS - “Per la verità di ‘struttura paral-
lela’ si è parlato a livello giornalistico, e ne ha
parlato una relazione rispetto alla quale io ho
preso tutte le distanze: la commissione Antimafia e il sottocomitato, presieduto dal senatore Pardini, il quale ha detto pubblicamente
che io sapevo tutto dell’attività di Lombardini,
di questa ‘struttura parallela’. Invece io ribadisco che non sapevo assolutamente nulla, come ho ben dimostrato al Csm.
D’altra parte, l’unica volta che io sono stato
formalmente investito dell’attività di Lombardini, riguarda la vicenda Furianetto, ma puntualmente ne ho informato i titolari dell’azione
disciplinare, i quali hanno archiviato la pratica.
Mi pare poco prudente, quindi, che si dica che
io conoscevo l’esistenza della ‘struttura parallela’, che conoscevo l’attività svolta da Lombardini e non abbia fatto niente per impedirla.
Ripeto: non ne sapevo o non ne so assolutamente nulla. Ma mi viene il sospetto che anche
altri non ne sappiano assolutamente nulla”.
SA REPUBLICA - È vero o no che Luigi
Lombardini avrebbe dovuto ricoprire l’incarico di Procuratore capo di Palermo al
posto di Caselli?
PINTUS - “Tra la collocazione del ruolo di
anzianità di Lombardini e quella di Caselli vi
era una differenza di quattro anni. Quattro anni
di anzianità a favore di Lombardini. Ora lo so
– secondo quello che dice il Csm – che nell’assegnazione di incarichi di quel genere si
deve tener conto sia dell’anzianità sia del merito e sia delle attitudini. Ebbene, posso affermare che Lombardini sovrastava Caselli su
tutti e tre i piani...”.
SA REPUBLICA - C’è un altro caso su cui
è calato il silenzio... Il caso-Mario Fortunato
Piras di Arzana, la persona che Lombardini
riteneva fosse particolarmente informata
delle vicende del sequestro di Silvia Melis,
e che sinora nessuno a Palermo e a Cagliari
ha – per quel che si sa – mai interrogato.
Chi pagò la trasferma (andata e ritorno) –
si parla di decine di milioni – a Piras e ai carabinieri dal carcere vicino a Caserta a
Badd’e Carros e Arzana? Chi fece la richiesta? E per quale motivo?
PINTUS - “Questa domanda è stata oggetto
di una interrogazione a firma del senatore
Marcello Pera. Interrogazione alla quale il Ministro di Grazia e Giustizia a tutt’oggi non ha
dato alcuna risposta. Eppure dal momento della presentazione della interrogazione sono passati, salvo errori, sei mesi.
Un punto è certo. Per poter spostare un detenuto nelle forme in cui si è spostato Mario
Fortunato Piras sono necessarie due condizioni: o che paghi l’interessato, ma non risulta
che abbia pagato, oppure che paghi lo Stato.
In questo caso è lo Stato che deve spiegare
perché si è seguita quella strada”.
SA REPUBLICA - Un’ultima domanda.
Sempre più spesso oggi in Italia si parla di
un intreccio perverso tra Magistratura e
politica. A suo avviso, la Magistratura è indipendente dal potere politico?
PINTUS - “Dal potere politico penso che sia
assolutamente indipendente. Se qualche rischio c’è, invece, è che il potere politico sia
indipendente dagli organi della Magistratura,
soprattutto da quelli del Pm.
Di fatto è una situazione anomala che non
può proseguire ulteriormente. Infatti si corre
il rischio di sacrificare l’indipendenza della
Magistratura. Ma ne esiste un altro di pericolo:
‘oggi l’unico pericolo per la Magistratura è
rappresentato dal Csm!’. Non sono parole mie,
sono parole di Giovanni Falcone”. s
(ringraziamo il periodico “SA Republica”
e il suo direttore per averci consentito
di pubblicare l’intervista all’ex procuratore
di Cagliari Francesco Pintus)
CRITICAsociale ■ 11
10 / 2012
■ 1996 - NUMERO 3
IL CASO TORTORA
PREPARA IL GOLPE NELLA MAGISTRATURA
Mauro Mellini
C
elate agli occhi del gran pubblico negli ambienti giudiziali,
nella magistratura , andavano
maturando situazioni di autentica rivoluzione (di
ribaltamento di ruoli, di abbattimenti di situazioni istituzionali) destinate a consentire e a segnare il protagonismo giudiziario dal 1992 in
poi. Da allora si manifestarono come un’improvvisa realtà, ma erano fenomeni a lungo maturati e rispetto ai quali la classe dirigente dell’epoca aveva mostrato, nella sua gran parte, una
cecità e una inerzia degne veramente di quel
mummificato sopravvivere che ne caratterizzò
l’ultima presenza sulla scena. Quella fu la fase
preparatoria, iniziale del golpe.
Quando cominciarono la raffica degli arresti,
la messa alla gogna di tutta una classe politica,
e della politica stessa, il gioco, si può dire, era
fatto. In realtà, una parte della classe politica non
aveva “subito” quel golpe. L’aveva stimolato,
preparato, guidato. Aveva tramato con la fazione
oltranzista della magistratura, con i “magistrati
di partito” ? ormai divenuto il “partito dei magistrati” , ne aveva coperto le manovre, aveva
ottenuto per essi gli strumenti e lo spazio per
portare a fondo l’operazione. E ne era stata ripagata con l’impunità e con la patente di “novità” rispetto al vecchio che, anche indipendentemente dalla tempesta giudiziaria, era destinato
a scomparire dopo una così lunga e innaturale
conservazione.
Non è qui né ora che vogliamo analizzare il
“golpe dei giudici”. Lo abbiamo fatto giorno
per giorno con la parola e con gli scritti, raccogliendo poi quelli pubblicati su “Giustizia Giusta”, periodico dell’Associazione per la giustizia e il diritto Enzo Tortora, nel volume Il golpe
da giudici(Spirali/Vel, 1994). Il golpe dei magistrati non è un golpe tentato. E un golpe consumato. Se ne ha la prova proprio nell’averlo
accettato come fatto naturale, permanente, come preminenza della magistratura a come “potere”, come arbitro della contesa politica e ciò
al di là, nella misura e nel tempo, di quanto
comportassero la crisi e la caduta di un sistema
nel quale la prassi dell’illegalità aveva grande
e incontrastato spazio.
Del resto, il golpe giudiziario non era stato
improvvisato. Ne erano state fatte delle teorizzazioni, anch’esse sfuggite alla scarsa attenzione di gran parte del mondo politico e all’attenzione e alle analisi degli intellettuali e della
stampa (Dio ce ne guardi!). L’”uso alternativo
della giustizia” fu enunciato senza infingimenti,
sia pure in un contesto confusamente libertario
e rivoluzionario, da alcune frange estreme, destinate a divenire dominanti, della magistratura.
In termini più specifici dopo che la caduta del
regime consociativo sembrava fosse stata consacrata da un voto popolare espresso con l’adozione di un sistema elettorale che avrebbe dovuto consolidare la fine delle consociazioni , il
potere preminente della magistratura (ma in realtà del partito dei magistrati che ne costituisce
la frazione più spregiudicata e oltranzista) fu
riaffermato, addirittura rispetto al voto popolare, quale “correttivo” della volontà e della sovranità del popolo. Fu all’indomani delle elezioni del 27 marzo 1994 che si ebbe un chiaro
preavviso della fase più calda e manifesta del
golpe (quella che ebbe poi realizzazione e coronamento nel “ribaltone”), e ciò attraverso
quell’episodio di fondamentale importanza diagnostica e prognostica che fu l’intervista di Borrelli al “Corriere della Sera”, con la quale il capo della Procura di Milano annunciava che il
Pool non accettava di partecipare a quel governo, ma che, nel caso di un “cataclisma” che
avesse creato un vuoto politico, avrebbe potuto
accorrere alla chiamata del capo dello stato per
assumere la responsabilità delle sorti del Paese.
Che non si trattasse di una dichiarazione d’intenti, anche nella parte formulata come ipotesi,
è difficile sostenerlo. Del resto, da allora a Milano e in Procura non mancarono mai accadimenti che concorressero a determinare il “cataclisma” politico, il “vuoto” che potesse indurre
il presidente Scalfaro a chiamare a salvare il
Paese se non “quelli del pool” almeno qualche
altro tecnico della salvazione se non dello stesso
cataclisma. Il “ribaltone” è Erutto essenzialmente del “cataclisma”, della guerra del partito
dei magistrati contro Berlusconi. Ma il golpe
non comincia né si esaurisce nel ribaltone, tanto
meno nel “complotto”, di cui ha parlato di recente l’ex presidente del Consiglio, contro Berlusconi e la Fininvest.
Certamente le “rivelazioni”, provenienti da
verbali e intercettazioni telefoniche raccolte nel
processo di Brescia e riguardanti Di Pietro,
hanno consentito di dare concretezza ed evidenza almeno ad alcuni momenti di questo golpe. Ma quanto si da oggi per “rivelato” in quella sede era, nella sostanza, ben noto o, almeno,
facilmente conoscibile da chiunque avesse voluto mettere assieme cose che note e non contestate erano da tempo. Così pure ritenere che
il golpe ruotasse intorno a Di Pietro cosa assolutamente inesatta e, tutto sommato, riduttiva,
fuorviante e un tantino grottesca. Di Pietro il
“magistrato più amato dagli italiani”, lo “sportivo dell’anno”, il professore universitario d’incerti studi, l’opinionista del giornale della Fiat
(già da lui, sia pur benevolmente indagata),
l’aspirante capo dei Servizi segreti e candidato
al ministero dell’Interno per l’intervento dello
stesso presidente della repubblica è il prodotto
di un golpe già realizzato piuttosto che il suo
artefice o il suo progettista.
Quanto sta emergendo dal velo che la distrazione degli uni e i furori apologetici degli altri
avevano steso sulle qualità, i trascorsi, la collocazione e i rapporti sul passato e sul presente di
Di Pietro consente di porre interrogativi sconcertanti sul vero ruolo di Di Pietro in Mani pulite
stessa e sui personaggi che hanno ruotato attorno
a questa sorta di divo dell’antipolitica dietro cui
si è sviluppata, negli ultimi anni, la politica del
partito dei magistrati e dietro cui si sono scatenate le velleità politiche, le manovre e le manovrette di tanti squallidi protagonisti, attori e coristi della tragicommedia italiana. All’ombra del
potere reale delle toghe i minuetti della politica
di quella che sarebbe la Seconda repubblica (solo perché la Prima ha dato segni di decomposizione tali da lasciar presumere che sia morta) si
sono sbizzarriti con andamento grottesco. E le
vicende di Antonio Di Pietro, le offerte da lui ricevute, i progetti da lui vagheggiati, le ambiguità
dei suoi corteggiatori, le doppiezze dei suoi persecutori o presunti tali alcuni dei quali coinvolti
direttamente o indirettamente in operazioni in
cui non ha brillato la linearità e la trasparenza di
Di Pietro magistrato possono essere considerati
emblematici di questa Italia del dopogolpe giudiziario. Perché questa è la realtà. Viviamo il dopogolpe. Luciano Violante che fece arrestare
Edgardo Sogno non senza avere abusato in fatto
di prove, per molto meno di ciò che si attribuisce
a Di Pietro che combina incontri in stile “riservato” con questo aspirante capo dei Servizi segreti con licenza (e intanto con programma) di
far fuori l’esponente del partito di maggioranza
relativa. Il capo dell’Ispettorato del ministero di
Grazia e Giustizia, trasversalmente beneficiato
da Di Pietro inquirente, che avrebbe confidato a
un magistrato dell’Ispettorato, futuro ispettore
pentito, invischiato in una tresca con un altro sostituto della Procura di Brescia, di essere stato
esortato da un ministro (che tra l’altro aveva offerto un ministero e altre cariche a Di Pietro) che
occorreva distruggere Di Pietro.
Un presidente della repubblica che, scavalcando il presidente del Consiglio incaricato, offre al capo dell’Ufficio della Procura di Milano
un ministero per il suo sostituto come se si trattasse di un segretario di partito e di un suo aderente. Per non parlare dei giornali, in primo luogo quello della beneficiata Fiat, che offrono collaborazioni fisse al non eccellente letterato; il
“Corriere dello Sport” che lo elegge “sportivo
dell’anno”. E un’università, che, senza neppure
verificare i titoli di studio (non diciamo scientifici), mette quasi in cattedra l’ex uditore proposto per l’esclusione dalla qualifica di giudice
di Tribunale. E Prodi che combina incontri programmatico-conviviali con Di Pietro. E questi
che, dall’Estremo Oriente, invia in patria il suo
programma. E uomini politici, che vogliono
passare per seri, ma che si compiacciono di
compulsare il documento per riscontrare consonanze ed esibire apprezzamenti. E poi, quando anche per Di Pietro suona l’ora della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e dei
verbali d’interrogatorio metodo con il quale
erano stati messi alla gogna tanti da lui indagati
, ecco la presa di distanza perfino di Borrelli,
mentre la televisione di stato si adopera per sollecitare le adesioni al suo partito, quello che
aveva atteso troppo a lungo a varare forse per
aumentare l’attesa, forse per altro.
Ma, tutto sommato, Di Pietro è, rispetto al
partito dei magistrati, un personaggio allo stesso tempo emblematico e anomalo, quasi una
versione caricaturale, con la sua preoccupazione di “entrare in politica” non rendendosi conto
di averlo già fatto da lungo tempo , di fondare
un partito, di ufficializzare incontri e programmi. E, tuttavia, un personaggio obiettivamente
pericoloso: a causa di coloro che ha a fianco
ma, soprattutto, a causa di coloro che ha contro,
che sembrano fatti apposta per secondare questa sostanziale pochezza, pretendendo di sfruttarla o illudendosi di contrastarla. Ciò nonostante, se veramente dobbiamo parlare di golpe, allora non è al golpe attribuibile alle intenzioni di Di Pietro che dobbiamo pensare, ma a
quello già consumato, quello elle ha messo
l’Italia la sua politica, le sue istituzioni, la sua
economia nelle mani dei magistrati più spregiudicati, delle toghe da copertina, della frazione oltranzista della magistratura.
L’Italia in mano alle toghe è l’argomento di
una ormai lunga e monotona polemica, di
un’analisi puntigliosa che chi scrive sta portando
avanti da anni con il periodico “Giustizia Giusta”. Nel 1994 parlare di golpe sembrava una
forzatura, una provocazione. Oggi anche Berlusconi parla di complotto, che è cosa diversa e riduttiva rispetto al golpe. Ma molti sono meno
ottimisti e il termine non fa più scandalo. Ormai
sono in molti a parlare di un partito dei magistrati, e assai più sono quelli che preferiscono
non parlarne: proprio perché sono convintissimi
che esista, è preferibile far finta di non accorgersene. Del resto, il golpe delle toghe e la presenza
del partito dei magistrati non hanno avuto modo
di spiegarsi solo a Milano, né solo per le operazioni che, anche in altre parti d’Italia, vanno sotto la sigla Mani pulite. E anzi altrove e in altri
campi che il golpe ha cominciato a realizzarsi e
il partito dei magistrati a prendere corpo e a conquistarsi gli strumenti e le alleanze che gli hanno
consentito il successo.
La lotta antiterrorismo e la lotta antimafia sono state il banco di prova di un ruolo improprio
e sopraffattore della magistratura. Nelle zone
dove si è spiegata questa azione, l’incidenza sociale e politica dello spadroneggiare delle toghe
è ancora più forte che altrove, si fa sentire nel
tessuto sociale e provoca timori, sconcerto, reazioni inimmaginabili a Milano e a Roma. Così,
mentre ora si comincia a prendere coscienza del
golpe delle toghe, nell’ultimo anno, in una fase
che potremmo definire di “dopo golpe”, le battaglie di “Giustizia Giusta”, le sue denunce, le
sue analisi sono state dirette verso lo stato del
Paese, della sua politica, dell’amministrazione
della giustizia. Da dopogolpe è il governo Dini:
governo di tecnici come si addice a ogni governo che le giunte golpiste mettono in piedi dopo
il successo del colpo di stato.
Da dopogolpe è la stampa: ancora più allineata nell’adorazione dei golpisti, dopo che una parte di essa aveva collaborate con l’operazione
eversiva in piena coscienza e con grande efficienza. Da dopogolpe è persine l’opposizione o,
per meglio dire, quella parte del mondo politico
che aveva subito il golpe senza neppure rendersi
conto di subirlo e addirittura secondandolo e
che, magari, per assolversi da queste colpe e dispensarsi dal compito di opporsi al regime che
al golpe è seguito, si bea della negazione di
quanto è avvenuto e tira a campare cercando di
far finta che nulla sia accaduto. Dovendo quindi
dare una sintesi di quanto oggi sta accadendo,
potremmo parlare di “toghe padrone”. Padrone
della situazione politica, padrone delle nostre libertà, padrone della giustizia, del diritto, dei servizi, della stampa. E Toghe padroneriteniamo di
dovere intitolare questa raccolta di articoli, anzi,
questo lungo, interminabile articolo che fu frazionato in più numeri, sotto vari titoli, nel corso
di oltre un anno su “Giustizia Giusta”, con il
quale abbiamo affrontato fatti e situazioni man
mano che si andavano verificando ed evolvendo. La rilettura di gran parte di questi scritti, a
distanza di mesi, anziché la soddisfazione che il
tempo potrebbe assicurare con le conferme di
previsioni e valutazioni che allora potevano
sembrare azzardate, ci fa sentire ancora una volta lo sgomento di ritrovarci ad aver fatto la parte
di Cassandra. Ruolo tutt’altro che gratificante.
Non spetta a noi, ma al lettore dire se la nostra è
una visione pessimistica delle cose o se, magari,
è invece ottimistica.
Del resto, non sapremmo dire se a prevalere
in noi sia il pessimismo o rottimismo. Siamo
convinti che il golpe sia stato consumato, ma, al
contempo, che esso fosse resistibile, se coloro
che erano destinati a subirlo si fossero resi conto
di che cosa si trattava. E oggi lo spadroneggiare
delle toghe sarebbe anch’esso resistibile e la situazione creata dal golpe sarebbe reversibile se
chi ne subisce le conseguenze volesse decidersi
a non nascondersi dietro un dito, a prendere atto
di quanto è avvenuto e della realtà e gravità di
quanto avviene e a reagire, a parlare, a scrivere.
Per quel che ci riguarda tentiamo di farlo, anche
con questo libro. Ai lettori far sì che non sia vano
l’impegno. Scalfaro, regole, magistrati settembre 1995 Quelle di Cossiga si chiamavano, con
una sottolineatura decisamente ironica, “esternazioni”. Quelle di Scalfaro sono dichiarazioni,
ammonimenti, “bacchettate”, richiami. Niente
ironia. Il presidente detta i principi, le regole, i
particolari di governo. Tutto normale. I tempi
degli attacchi per il Sisde e per Novara sono passati. Nessuno gli contesta più neppure di avere
mancato di parola. Tanto meglio.
12 ■ CRITICAsociale
Ora (scriviamo il 4 settembre) Scalfaro ci fa
sapere: senza “par condicio”, senza le regole
non si vota. Non vogliamo ripetere i nostri esorcismi di fronte a questa insistenza per un istituto,
la “par condicio”, proprio del diritto fallimentare, né vogliamo sottolineare il fatto che le regole
non sono mai mancate, e fa un certo effetto vederle tornare di moda, quando a lungo non si è
badato a quelle che c’erano (e che ci sono). Da
parte nostra vorremmo ricordare a Scalfaro che,
se clamorose violazioni delle regole, della “par
condicio”, del buon senso e della decenza si sono avute in fatto di elezioni, esse sono state quelle operate da magistrati che non hanno esitato a
compiere le acrobazie più vergognose con i pretesti più assurdi per gettare il peso del loro potere
sulla bilancia delle consultazioni elettorali. Bisognerebbe anzitutto farla finita con le candidature di magistrati che passano direttamente dal
palazzo del tribunale o della Procura alla campagna elettorale nella stessa circoscrizione e che,
se non eletti, tornano nello stesso luogo a esercitare le loro funzioni e ciò grazie a interpretazioni di comodo delle leggi vigenti, consentite
dalle stesse Camere (che hanno convalidato le
loro elezioni) e dal Csm che ha deciso di non rimuoverli, come prescritto per legge, dopo
l’eventuale mancata elezione.
Ad esempio di rapporti selvaggi tra i poteri
1. Il risultato elettorale del 21-4-96 ha permesso la costituzione di un governo con ampia maggioranza parlamentare e quindi potenzialmente
in grado di operare su di un arco di tempo consistente, vale a dire di qualche anno. La posizione del governo appare ancora più rafforzata
dall’inconsistenza dell’opposizione, divisa e incapace di proporre un programma di azione alternativa a quello della maggioranza parlamentare, in particolare su argo menti di importanza
fondamentale, quali sono l’attività industriale,
la politica europea, la previdenza sociale. Questa
incapacità ed inerzia della opposizione non può
che stupire, se si tiene conto del fatto che tale
opposizione ha raccolto il consenso, in termini
di voti, della metà degli elettori italiani.
2. Tralasciamo di considerare qui i motivi che
possono spiegare l’incapacità dell’opposizione,
se questi siano contingenti (cioè dovuti a contrasti tra le sue varie componenti), oppure intrinsechi cioè attribuibili al modesto livello culturale e politico dell’opposizione stessa. Invece
rivolgiamo la nostra attenzione: a) alle condizioni attuali della economia italiana; b) alla prevedibile variazione di tali condizioni nel medio
termine; c) all’influenza dei provvedimenti governativi, già deliberati od annunciati per i prossimi mesi. Infine verranno indicate, dopo l’analisi critica della situazione e dei provvedimenti
governativi, alcune possibili linee d’azione per
contrastare il processo di decadenza dell’economia, e particolarmente del sistema industriale
in Italia.
3. Come è ben noto, l’economia italiana presentava alcune importanti peculiarità, che la distinguevano da quelle dei maggiori paesi europei: pochissimi gruppi di grandi dimensioni, le
aziende a partecipazione statale, ed un enorme
numero di piccole e piccolissime aziende. Negli
ultimi cinque anni è aumentato sia il peso dei
grandi gruppi, che quello delle micro imprese,
mentre è stato demolito il sistema delle partecipazioni statali. Le conseguenze di queste variazioni sono considerate generalmente positive,
anche se del tutto a tono. Si devono invece considerare come estremamente dannose per l’avvenire dell’Italia (e non soltanto dell’industria
italiana) sia la distruzione delle industrie PP.SS.,
che la proliferazione delle micro-imprese e la
concentrazione nei grandi “gruppi privati”.
10 / 2012
dello Stato possono essere portati gli interventi
della magistratura chiaramente finalizzati ad
avere ripercussioni sull’opinione pubblica sull’imminenza del voto. L’attività delle Procure
all’avvicinarsi della scadenza elettorale si fa
frenetica. Basti pensare alla campagna antiBerlusconi e antiFininvest, alla vigilia del voto del
27 marzo 1994, culminata con il grottesco sequestro (divenuto poi, per resipiscenza parziale,
“acquisizione”) delle liste elettorali e dell’elenco dei club di Forza Italia disposto dalla ineffabile dottoressa Omboni di Palmi alla ricerca di
prove dello “spostamento)” del legame tra la
massoneria “deviata” di Alliata di Montereale
con il movimento del colonnello Pappalardo
verso Forza Italia, “subentrata” a Pappalardo.
Che il ridicolo di tale provvedimento abbia fatto
guadagnare voti a Berlusconi anziché fargliene
perdere, significa solo che gli italiani sono più
seri dei magistrati della loro repubblica. E chi
non ricorda il gran lavorio delle Procure alla vigilia del voto per le regionali e amministrative
dell’aprile 1995, con le candidature “eccellenti”
di magistrati? E che dire degli arresti in casa Fininvest alla vigilia del voto referendario? Chi
può permettersi campagne elettorali a colpi di
incriminazioni, di ordinanze giudiziarie di custodia cautelare, d’intimidazioni giudiziarie non
è certo in condizioni pari a qualsiasi altro citta-
dino, candidato, partito. Ma il presidente Scalfaro non sembra preoccuparsi della “par condicio” tra partito dei magistrati e altre forze politiche che non sono nelle grazie e nelle alleanze
di tale potentissima forza politica. E ben vero
che la minaccia di Scalfaro “altrimenti non si
vota”, che già è una minaccia a senso unico, è
per il partito dei magistrati, non una minaccia
ma un ulteriore favore. La situazione d’incertezza politica e il governo dei tecnici (malgrado
l’”incidente” Mancuso) appoggiato da Pds e
Lega, sono infatti terreno ideale per il rafforzarsi senza ritegno della tracotanza del partito dei
magistrati e delle sue propaggini eversive. Ma
se si vuol parlare di regole nel nostro Paese, bisogna anzitutto stabilire regole certe per i magistrati, eliminando ogni supplenza, ristabilendo criteri concreti di responsabilità e impedendo il “golpe giudiziario”, poco importa se strisciante o fragoroso.
La “par condicio” per le elezioni presuppone
che i magistrati stiano al loro posto e che le elezioni non si facciano con le ordinanze di custodia cautelare e le propalazioni delle conferenze
stampa e delle fughe di notizie dai Palazzi di
giustizia. Irresponsabili maggio 1995 “L’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati è competenza del ministro della Giustizia e non del governo)”. Con questa ineffabile
■ 1996 - NUMERO 8
SISTEMA INDUSTRIALE,
UNA CRISI DI STRUTTURA
Antonio Venier
4. Nel prossimo semestre del 1996 il processo di deterioramento del sistema industriale non
si è accelerato, anzi ha forse mostrato un lieve
rallentamento. Questo effetto è da attribuire alla
stasi nell’attività di governo, dovuta alle elezioni. Tuttavia non si deve certo scambiare questo
andamento come una inversione di tendenza:
infatti il nuovo governo ha annunciato la sua intenzione di procedere entro breve termine ad alcune privatizzazioni importanti, quali le telecomunicazioni ed il resto dell’ENI. Inoltre il nuovo governo non ha mostrato finora nessuna intenzione di intraprendere una qualsivoglia azione di sostegno verso i resti dell’industria di alta/media tecnologia: ci riferiamo in particolare
al settore militare ed aeronautico, che dovrebbe
attendersi “risparmi”, cioè smobilitazioni, e non
certo aiuto.
5. La situazione dell’industria alla metà del
1996 può essere riassunta così:
a) La grande industria continua a perdere effettivi, mantenendo la produzione stazionaria o
leggermente decrescente;
b) La piccola/media industria sembra avere
esaurito una parte dei cosiddetti “vantaggi” di
competitività derivati dalle svalutazioni;
c) I prezzi all’interno rimangono alti, con aumenti reali su base annua superiori all’8%, assicurando quindi ampio margine di profitto anche con bassa produzione. Variazione
1995/1994 prezzi ingrosso Istat +10,3%. Al
consumo +5,2% (?);
d) I “piccoli” del mitizzato Nord-Est, e in generale tutte le piccole imprese, reagiscono fortemente alla prospettiva di dover pagare integralmente imposte e contributi previdenziali.
6. Nelle condizioni sopra descritte non sembra che vi sia alcuna necessità di nuovi investimenti nell’industria. Infatti la grande industria
(es. tipico automobile), considera razionalmente preferibile tenere prezzi e margini di profitto
elevati con produzioni stazionarie, piuttosto che
mirare a maggiore produzione con prezzi di
vendita (e margini unitari di profitto) più bassi.
La piccola/media industria ha forti margini di
profitto, alla condizione di potere avere una tolleranza su tassazione e contributi sociali, cosa
che finora è sempre stata accettata dalle autorità
di governo, ovviamente in modo implicito. Poiché questo settore ha prodotti di bassa tecnologia - e non può essere altrimenti - la sua competitività sui mercati esteri è basata in sostanza
sul prezzo, cioè sostanzialmente sul tasso di
cambio della lira e su costi contenuti per motivi
non tecnologici. Neppure nella piccola/media
industria appare necessario aumentare la capacità. produttiva con nuovi impianti, appunto
perché il volume di vendita dipende essenzialmente - e soprattutto per l’esportazione - da fattori esterni all’impresa, quali tasso di cambio e
tolleranza fiscale e previdenziale, fattori incontrollabili e soggetti a rapide variazioni.
7. La conseguenza logica di quanto sopra
esposto è che in Italia non vi è alcun motivo di
attendersi una diminuzione della disoccupazione. Al contrario il modesto apprezzamento della
moneta italiana riduce la “competitività” dei
prodotti medio/poveri esportati. Ma neppure
può continuare indefinitamente la condizione di
sotto valutazione del cambio, che comporta evidentemente una perdita netta di risorse per il
Paese, anche se questo effetto è dimenticato dai
tromboni che celebrano i successi dell’esportazione italiana.
8. Spendiamo solo poche parole per la proposta, cara ai sindacati, di riassorbire la disoccupazione per mezzo di una generalizzata riduzione dell’orario di lavoro, per es. a 30/32 ore
risposta a chi gli chiedeva cosa ne pensasse delle
dichiarazioni di Mancuso sul Pool di Milano, su
Caselli e Mannino, Dini ha “preso le distanze”
dal Guardasigilli del suo governo. E’ competenza del ministro. E chi è questo ministro? Di quale governo fa parte? Bohoh! Che il governo condivida solidalmente la responsabilità politica dei
vari ministri, almeno per gli atti più rilevanti da
essi compiuti, è principio ovvio e basilare non
solo nel nostro sistema costituzionale.
Ma Dini è presidente di un governo tecnico e
quindi ignora le responsabilità politiche. Inoltre
il suo è o non è il governo del presidente (della
repubblica)? Quindi D’Alema se la veda con
Scalfaro. E Mancuso, se anche Scalfaro si tira
fuori, anzi se dice chiaramente “non ci sto”, se
la veda personalmente con D’Alema e con i magistrati che, in fondo, vogliono solo essere irresponsabili anche loro. È a questo punto la sua
ritrovata responsabilità di capo dell’esecutivo gli
imporrà di dire a Mancuso di chiedere scusa. Ha
suscitato scandalo il fatto che gli alunni di una
scuola di Palermo usavano le parole “pentito” e
“Buscetta” come insulti contro i compagni traditorelli e un po’ spie? D’ora in avanti ai compagni che ti voltano le spalle quando qualcuno
ti aggredisce e dicono: “non mi riguarda”, potrai
dire: “Sei un Dini”. s
Mauro Mellini
in luogo delle attuali 40 ed oltre. Questo provvedimento sarebbe infatti distruttivo per le piccole imprese (che si basano su pochi addetti con
grande flessibilità di orario); le grandi industrie
potrebbero invece accettare una riduzione
dell’orario di lavoro senza troppi problemi, ovviamente scaricandone i maggiori costi sulle finanze pubbliche, per mezzo di cassa integrazione e riduzione di oneri sociali.
9. A nostro parere la sola via efficace - certo
più nel medio/lungo termine che nel breve - per
un grande paese industriale, quale vorremmo
fosse ancora l’Italia, è quella di orientarsi verso
pro dotti di alto valore, o comunque fuori dalle
capacità dei paesi con basso costo del lavoro.
Ci rendiamo conto che una proposta del genere
appare piuttosto velleitaria, perché da gran tempo la politica industriale del nostro Paese è rivolta verso i prodotti di livello medio e basso,
senza una strategia ed un sostegno verso l’alta
tecnologia, che ha la sua più chiara ed efficace
espressione nell’industria militare e nell’industria aeronautica che è di fatto “militare” anche
quando produce per impieghi civili.
10. Tuttavia una variazione tanto innovativa
non può essere certo decisa, e meno ancora messa in opera, da un governo privo di una chiara
visione degli interessi nazionali, qual è certa
mente l’attuale, in quanto non dissimile dai predecessori. Pertanto quanto si può chiedere nell’immediato deve essere molto di meno. Le
azioni necessarie nell’immediato futuro sono del
tutto ovvie, ma comunque qui le ripetiamo:
a) porre termine alla svendita del patrimonio
industriale di proprietà pubblica, sia per evidenti motivi di convenienza immediata, sia ancor
più per mantenere una base in vista di sviluppi
futuri verso l’alta tecnologia;
b) dare corso ad un massiccio programma di
opere pubbliche, principalmente nel settore dei
trasporti ed infrastrutture, attingendo per il relativo finanziamento al debito pubblico, cioè al risparmio interno ancora ampiamente disponibile,
anziché a disastrosi prestiti esteri o ad un aumento del gettito fiscale. Ricordando la recente
vicenda dell’Eurotunnel franco-inglese, è assolutamente da escludere il ricorso al finanziamento privato per opere pubbliche importanti.
11. A proposito di debito pubblico, sarebbe
utile confrontare seriamente quello italiano con
CRITICAsociale ■ 13
10 / 2012
quello di altri Paesi d’Europa, distinguendo finalmente il debito pubblico reale, che è quello
verso l’estero, dal debito pubblico interno, che
è soltanto una redistribuzione interna del reddito. Alla fine del 1993, secondo Eurostat, il debito pubblico estero dell’Italia era di 38.264 milioni di Ecu (circa 71.000 miliardi di lire), cioè
ben sette volte inferiore al debito estero della
Germania, che ammontava appunto a 266.261
milioni di Ecu.
Ovviamente non possiamo escludere che
l’indebitamento italiano verso l’estero sia peggiorato dal 1993 ad oggi, grazie all’azione governativa negli anni 1994 e 1995 guidata dai
tecnici, Banca d’Italia, ecc. Tuttavia, nonostante
gli sforzi per indebitare l’Italia, si può ragionevolmente ritenere che la nostra situazione sia
ancora di molto migliore di quella tedesca, almeno per quanto riguarda l’indebitamento verso l’estero.
12. Ritorniamo al tema di questa nota, per osservare che il sistema industria le italiano si trova inserito in un pro cesso di decadenza “strutturale” e non congiunturale. Abbiamo esposto
precedentemente le ragioni del successo della
piccola industria, che sono nello stesso tempo le
ragioni della sua estrema debolezza e fragilità.
Le grandi industrie private, cioè i tre grandi
gruppi Fiat, De Benedetti/Olivetti e Pirelli, non
sono mai state seriamente interessate ai settori
di alta tecnologia, e meno che mai ora. I profitti
di questi grandi gruppi privati sono sostanzialmente dovuti ai trasferimenti di denaro pubblico, a “delocalizzazioni” delle residue attività
produttive in Paesi stranieri, e ad operazioni finanziarie.
13. Per quanto sopra detto non dobbiamo certo considerare con entusiasmo gli eccedenti della bilancia commerciale rilevati dal 1993 in poi:
questi eccedenti sono infatti dovuti ad un artificioso tasso di scambio, cioè in sostanza sono
una perdita di risorse per il sistema economico
nazionale. Il nostro Paese deve quindi vendere
all’estero quantità crescenti di mezzi a
basso/medio valore, per approvvigionarsi a co-
stì elevati di materie prime, alimentari e prodotti
di alta tecnologia.
14. La sola via praticabile per un tentativo di
stabilizzazione a breve termine ci sembra essere
quella di un grande programma di spesa pubblica (rif. Par. 10 e 11). Non soltanto lavori pubblici in senso stretto quali miglioramento della
rete ferroviaria e stradale, ma anche commesse
alle industrie, con particolare sostegno a quelle
che hanno prodotti “ricchi”, di tecnologia medio/alta e con possibilità di esportazione non basata sui prezzi di liquidazione. Indispensabile è
a nostro parere un deciso aumento delle commesse per materiale militare, necessarie sia per
assicurare un livello ragionevole della capacità
difensiva dell’Italia, sia per assicurare la sopravvivenza di quanto resta nel settore, in attesa
del tanto sognato piano di sviluppo.
15. Allo scopo di evitare equivoci, affermiamo la necessità di assegnare la totalità delle spese pubbliche ad aziende non soltanto con sede
in Italia, ma soprattutto con progettazione e produzione localizzate in Italia. Questo ovviamente
per due motivi: il sostegno dell’occupazione e
il mantenimento della capacità realizzativa dei
prodotti.
N.B.: questa osservazione è motivata da un
fatto contingente: la notizia, speriamo non fondata, che il non disprezzabile nuovo Trevi, “treno veloce italiano” sia costruito parzialmente in
Francia (per la porzione Fiat), quindi perdendo
sia lavoro che conoscenza tecnologica.
16. Le considerazioni, proposte ed auspici
che abbiamo esposto in questa nota non hanno
certo pretesa di originalità: si tratta in buona sostanza di cose ovvie, la cui necessità appare evidente a tutti, od almeno a tutti coloro che uniscono una sia pure moderata conoscenza dell’argomento al desiderio di non vedere l’Italia
finire fra i Paesi “in via di sviluppo”, o per meglio dire veramente sottosviluppati, diventare
insomma il Paese di artigiani, visite turistiche a
buon mercato, lavoro in sub-fornitura, e quanto
altro possa piacere a chi sottosviluppato non
vorrà essere. s
■ 1995 - NUMERO 10
DIARIO LEGHISTA
Edmond Dantes
D
opo molte traversie, mi è stato
recapitato sull’isola, la copia di
un diario. Non so esattamente
di cosa si tratti. Non so se sia una costruzione
di pura fantasia. Un racconto romanzesco.
Una libera ricostruzione di fatti interpretati
e raccontati secondo il vezzo dell’autore. Non
so se si tratta di realtà effettivamente esistite e
di fatti realmente accaduti, di personaggi dipinti esattamente come sono.
E’ un diario che risale a due anni or sono, e
si riferisce anche a fatti ancora precedenti.
Dopo d’allora sono successe molte cose.
Tutte politiche e nessuna di carattere militare, almeno nel senso indicato nei diversi capitoli di questo diario. Infatti in questi si scriveva:
“Dopo le ultime politiche, i componenti del
vertice Lega Nord hanno sconsigliato prima e
vietato poi, quell’atmosfera ‘goliardica’ che da
sempre aveva contraddistinto i momenti politici, sociali e conviviali all’interno delle sedi.
Non interpreto questa mossa come una presa di maggior coscienza e maturità. Mi ritengo
un buon conoscitore del pensiero leghista. Non
credo perciò che le cose stiano in questo mo-
do. Questo comportamento è dettato unicamente dalla paura di possibili fughe involontarie di notizie in momenti euforici ai quali
tanto invita la goliardia.
Oramai Lega Nord è ben consapevole di essere controllata dai servizi di sicurezza e da
tutti i settori di polizia politica presenti nel
nord. Ho inoltre ragione di credere che parte
degli infiltrati a suo tempo inseriti nelle fila di
L.L. siano stati scoperti e che agli stessi, volutamente, vengano fatte pervenire informazioni fuorvianti anche se molto credibili.
Si rendono conto insomma che non possono
assolutamente più sbagliare se vogliono attuare i piani che si sono prefissati e raggiungere
gli obiettivi di eversione di cui tanto parlano.
Due anni orsono era abbastanza facile sentir
bisbigliare di depositi d’armi e di addestramenti per un efficiente uso delle stesse. Adesso no. Adesso che veramente sono pronti, guai
a chi tocca l’argomento. Solo ‘il senatur’, se
lo desidera, può fare qualche ambigua allusione in pubblico. Il senatur è consapevole che si
tratta di realtà e di strumenti certi sui quali può
contare. Non solo sono pronti ma dispongono
anche di possibilità concrete di riconversione,
pressoché immediata, di materiali industriali
adibiti ad impiego civile in materiale bellico.
Disseminate in tutta la zona nord vi sono società con officine nei settori di fonderia, trafilatura, minuteria metallica, prodotti plastici e
legname che, oltre a finanziare, sono pronte ad
intervenire. Tutto questo non è affatto strano.
Già due anni orsono ero stato informato, con
dovizia di dettagli, di che cosa la L.L. stesse
cercando di organizzare.
Mi riferisco ai fatti ‘svizzeri’, ed in particolare agli incontri di L.L. (arch. Gisberto Magri) con personaggi svizzeri, tra i quali era preminente la figura del prof. Proteus.
Ricordo oggi una relazione di allora nella
quale si parlava della mappa sulla quale era
stata tracciata la famosa linea Cisalpina che
delimitava un territorio entro il quale sarebbero nati i depositi d’armi, i punti armati e di difesa dell’allora L.L.
Era lo stesso periodo in cui si cominciò a
parlare della nascente Lega Nord. Temo, ora
più che mai, questa degenerazione.
L’oggi, se non verrà immediatamente fronteggiato, porterà in breve tempo a spiacevolissime sorprese ed a fatti inquietanti e tali da far
temere il peggio.
Nessuna forza politica, anche se rinnovata,
può illudersi di porre un’argine allo strapotere
che la Lega Nord va ogni giorno assumendo
sempre di più. Non è certo in termini percentualistici che bisogna ragionare. Il problema è
di rapporti di forze.
Bisogna agire, agire tempestivamente, per
non farsi trovare impreparati.
Penso che in breve si realizzeranno tutte le
sezioni di L.N. e nella realizzazione delle stesse verrà contemplata una cellula difensiva.
Questo significa che in brevissimo tempo L.N.
potrà contare su una fittissima rete logistica,
strategica ed operativa in tutta l’Italia del nord.
Queste cellule collegheranno in tempo reale
tutti gli addetti ai centri armati.
Sono convinto che L.N. gode del favore e
talune volte della complicità di molti esponenti
dell’Arma e gli stessi sono disseminati in tutte
le regioni del nord e guarda caso sono indigeni. Ci risulta inoltre che taluni di loro, occupino posizioni di rilievo nella gerarchia militare.
Anche questo è un fattore molto inquietante.
Ancora più inquietante, è la certezza che,
anche nell’ambiente dell’esercito, la L.N. ha
ormai raggiunto una penetrazione ancora maggiore. Naturalmente mi riferisco ad ufficiali e
graduati di carriera. Non so per la verità come
stiano le cose nella polizia, ma se tanto mi da
tanto, anche in. questo caso le cose dovrebbero
avere preso la stessa piega. Per il momento
continuo tuttavia a prendere tutto questo con
qualche beneficio d’inventario.
Questa settimana le mie indagini hanno segnato il passo, non certo per nostra volontà ma
per il ripetersi di quello strano gioco che le leghe hanno sempre attuato nei momenti che
precedono eventi di particolare rilievo.
Oramai l’esperienza ci insegna che in questi
frangenti le leghe si barricano dietro l’uso esasperato di una tecnica semplice: ‘Dico una cosa,
ne faccio un’altra e ne penso un’altra ancora’.
Qualsiasi informazione assunta in questi
momenti, anche se proveniente da fonti di provata attendibilità, deve essere valutata con la
più attenta considerazione critica.
Meglio ascoltare e attuare ulteriori verifiche.
Così non mancherò di comportarmi nella riunione prevista per venerdì. Già sono portato a
riflettere sulle cose dette dai capi di Lega Nord
nel corso di questa settimana.
Bossi dice: faremo arrivare dalla Slovenia e
dalla Croazia carichi di armi per rifornire il
blocco d’ordine delle leghe al fine di contrastare un ‘possibile’ golpe Dc; poi smentisce e
successivamente querela. E poi ancora: il 1995
sarà l’anno del samurai! Il samurai sono le leghe e nel ‘95 andremo al potere.
Formentini dice: tra quelle persone gira troppo alcool e... anche del crak da elezione e getta
così tutto in burla pesante. In sostanza forse un
‘nessun commento’ mascherato alla grande.
Tutti questi discorsi o rappresentano una generale farneticazione della Lega o nascondono
verità terribili non ancora emerse nella loro realtà concreta. Bossi si è reso conto che molti
‘sanno’ e che tener nascosto cose di questa natura è un’impresa senza speranza. Per prima
cosa scarica addosso alla De il proprio disegno
di golpe. In secondo luogo minaccia di far venire i tanto sbandierati ‘kalashnikov oliati’, distogliendo così l’attenzione e le possibili ricerche dai depositi già esistenti. Infine, parlando
di un non meglio identificato ‘blocco d’ordine’, avvisa il popolo leghista e non che esiste
una realtà di questo tipo pronta per qualsiasi
evenienza. Scusate se è poco! Che cosa significa poi ‘l’anno del samurai’?
Bossi sa molto bene che parlare di 1995 significa ancora una volta simulare e mentire
spudoratamente, ma ciò che importa per lui è
che tutti ci credano. Elettorato, partiti, parlamento e governo. Solo così può passare inosservata la manovra che invece nel primo semestre del ‘93 dovrebbe consolidare la sua
piattaforma in modo che attorno alla fine del
‘93 gli sia possibile spiccare il volo che deve
consentirgli di raggiungere una posizione di
controllo e di grande preminenza politica in
Italia. In pratica molti mesi prima dell’inizio
della scalata che tutti si attendono. Per ultimo
ricordo sempre che Bossi, nel parlare di armi
e di blocco d’ordine, ha sempre usato il termine leghe e mai una volta Lega Nord.
Le ipotesi e le supposizioni alle quali sto lavorando non sono affatto campate in aria.
Oggi sono più che mai consapevole che esse
hanno contenuti di verità tali da dover essere
presi nella più seria considerazione.
La prova mi è pervenuta in modo indiretto
mentre svolgevo altre ricerche e più specificatamente mentre cercavo di capire sia il momento di nascita che quello aggregativo dei
tanto chiacchierati depositi d’armi. In teoria
Lega Nord non annovera tra i suoi servizi realtà come quelle appena esposte, ma in pratica
essa vi ci può contare. L’apparente contradittorietà si spiega molto bene se prendiamo in
esame le leghe regionali che confluirono a suo
tempo in Lega Nord.
Queste, pur aderendo al momento consociativo ed accettando in toto: statuto, mandamenti
e capo storico della Lega Nord, rimasero nella
più completa autonomia per talune realtà come
quelle ad esempio di natura militare.
Ho sempre avvertito l’esistenza di un movimento parallelo e clandestino. Risulta chiaro
adesso, alla luce delle notizie pervenutemi, che
bisogna parlare di realtà clandestine e parallele
alle leghe R. ove la coagulante Lega Nord può
solo fruire e non stabilire.
E’ proprio da qui che nascono le grosse difficoltà di individuazione e smascheramento alle quali tutti indistintamente, servizi di sicurezza italiani compresi, hanno dovuto andar
incontro. Le realtà da scandagliare non si trovano in Lega Nord, ma bensì: Liga Veneta Lega Lombarda - Lega Piemontese - Lega Ligure - Lega Trentina A.A.;
Allo stato attuale delle cose chi gestisce i depositi sono ancora coloro i quali li hanno costituiti, avvalendosi sia a quel tempo, come oggi, della complicità di forze dell’ordine locali
d’estrazione non meridionale. Quanto alla Lega Nord, essa ha messo in atto l’accaparramento della simpatia prima, e della complicità
potenziale, poi, di ufficiali superiori dell’esercito appartenenti a divisioni alpine di fanteria,
14 ■ CRITICAsociale
tutto questo in forza ed avvalendosi delle singole realtà regionali.
Spiegato questo, penso che L.N. si aspetta
in qualsiasi momento manovre atte ad interrompere sia il consolidarsi di queste complicità che lo smascheramento dei depositi.
Tuttavia le cose sono messe in modo che,
quando questo dovesse accadere, alla stessa
non potrà essere addebitata nessuna responsabilità diretta. Qualsiasi addebito andrebbe alle
leghe regionali, le quali arbitrariamente avrebbero costituito illegali depositi d’armi.
A parer nostro la Liga Veneta per la costituzione di depositi di armi, adottò a suo tempo
particolari criteri. Le informazioni che sono
riuscito ad ottenere non sono complete, ma ritengo siano sufficienti per svolgere qualche
considerazione. Parlo di Liga Veneta e non di
Lega Lombarda o di altre leghe regionali. La
ragione è semplicissima: Liga Veneta fu la prima ad essere costituita e quindi la prima ad approntare ‘depositi’.
Questo successe molti anni prima che Brivio
e Bossi fondassero Alleanza Lombarda, dalla
quale poi, mediante scissione, nacque Lega
Lombarda che partorì a sua volta Lega Nord.
Costituire depositi d’armi, a parole è sicuramente facile, ma poi nei fatti si debbono fare i
conti con difficoltà d’ordine pratico-logistico e
di spazio fisico che sono di prima grandezza.
In un primo tempo i depositi potevano essere
collocati anche in superficie, data l’esiguità degli stessi. Successivamente, la quantità d’armi
accumulata rese indispensabile un cambiamento di ubicazione. Il criterio principale seguito
per questo fu la dislocazione sotterranea. Scavi
e movimentazione di terra avrebbero immediatamente portato alla localizzazione, bisognava
perciò utilizzare qualcosa di già in essere.
Cosa di meglio se non le carte del carsismo
che furono usate anche nelle guerre mondiali:
Prima Guerra Mondiale, debitamente attrezzate come depositi di armi e munizioni;
Seconda Guerra Mondiale, per un impiego
molto meno bellico: occultare i cadaveri degli
uomini della resistenza. Le tristemente note
‘foibe’. Nella zona carsica vi sono migliaia di
queste ‘carie’. Ricordiamo che nella zona del
Timavo, caverne e grotte sotterranee si contano a centinaia.
Per questo è necessario consultare carte topografiche militari specifiche del periodo
1915-1918. Queste dovrebbero riportare le segnalazioni relative ai depositi d’armi e munizioni di quei tempi. La consultazione delle
stesse, non solo sarebbe di grandissimo aiuto,
ma restringerebbe enormemente le ricerche in
zona. Il pensiero di chi ha costituito questi
nuovi depositi è stato questo: chi mai penserà
che per i nostri scopi si possano riutilizzare
strutture attrezzate settant’anni orsono e che
sono state soggette a bonifica?
Tutto quanto sin qui esposto si riferisce alle
zone carsiche. Veniamo adesso alle triangolazioni che hanno permesso di identificare il sistema. Ponte nelle Alpi - Bosco del Cansiglio
-Trichiana (Località in provincia di Belluno).
Montebelluna - Asolo - Bassano del Grappa
(Località in provincia, di Treviso). Tezze di
Vazzola - Sarano di Santa Lucia -Venegazzù.
(Località in provincia di Pordenone). Non pervenute (incompletezza del dato sottolineato in
apertura).
Per quanto appena detto vedasi cartine allegate. Risulta immediatamente chiaro che il sistema di dislocazione dei depositi e le linee nei
quali essi sono raccolti, si rifanno ad una vecchia tecnica militare caduta in disuso ovvero
quella del triangolo armato o ‘cuneo’.
Un altro fatto risulta chiarissimo. Dal momento che il Veneto non è tutta zona carsica,
per i rimanenti depositi saranno state utilizzate
aree di rifugio bellico come: casematte, rifugi
10 / 2012
antiaerei, piazzuole interrate di difesa antiaerea. A questo punto, se la nostra teoria è esatta
e crediamo proprio che sia vicinissima alla realtà, sarà opportuno consultare le carte militari
della Seconda Guerra Mondiale.
Per il momento non siamo in possesso degli
elementi e delle informazioni necessarie e sufficienti per consolidare e sviluppare la nostra
tesi. Abbiamo già visto le relazioni che tracciano gli scenari trascorsi e presenti di Lega
Nord e relative leghe regionali con contenuti
altamente attendibili.
Elenco ora di seguito in ordine cronologico
una serie di punti che permettono di sintetizzare i fatti con maggior chiarezza al fine di determinare la situazione reale: 1) a suo tempo nasce Liga Venera. Questa per tre quarti è composta da facinorosi della peggior specie estromessi dalle più disparate entità estremistiche e
terroristiche. Nel consolidamento della stessa
si decide che vengano formati anche gruppi armati; 2) da prima non si pone il problema
dell’occultamento delle armi, ma successivamente sì. Da qui la ricerca di nascondigli idonei
non in superficie. Vengono utilizzate le ‘carie
carsiche’; 3) sull’onda di Liga Veneta, nasce
Alleanza Lombarda e successivamente Lega
Lombarda. La stessa ottiene da personaggi
svizzeri gli indirizzi necessari per impostare
l’idea federalista; 4) gli ex brigatisti si conoscono tutti tra loro e così, Magri Gisberto, architetto in Zanica (Bg) ed anche noto brigatista
viene informato che Liga Veneta possiede depositi d’armi. Lo stesso parla con chi di dovere
ed ottiene di demandare ad alcuni fidi la costituzione di analoghi depositi in quel di Bergamo
e Varese. In questo caso la ricerca di luoghi ove
nascondere tali realtà diventa più ardua. Alla
fine si decide per piccole grotte e caverne montane. Successivamente si passerà a vecchie casematte in prossimità di ex aeroporti militari e
aviosuperfici abilitate nel periodo bellico della
Seconda Guerra Mondiale; 5) ben presto nascono altre leghe, quella piemontese, quella ligure ecc. Anche in questi casi non si tralascia
di costituire depositi d’armi. I criteri per l’occultamento sono sempre i medesimi, con una
variante per la Liguria, dal momento che la
stessa possiede decine e decine di ex postazioni
e di piazzuole interrate adibite a suo tempo alla
difesa costiera e che ormai sono andate in disuso ed abbandonate a sé stesse subito dopo il
termine del conflitto; 6) a questo punto, quanto
si era stabilito perché dovesse esservi una struttura militare all’interno della linea cisalpina è
divenuto una realtà. Questa realtà viene gestita
da pochissimi adepti, i quali agiscono autonomamente per ogni singola lega regionale; 7) i
risultati ottenuti, dopo le varie elezioni svoltesi,
fanno da catalizzatore alla nascita di Lega
Nord, la quale, pur riunendo tutti i suffragi leghisti, non fa venir meno le autonomie regionali; 8) chiaramente, nelle autonomie regionali
sono comprese le realtà armate. Nella ristesura
degli statuti si bada con molta attenzione a che
queste realtà non abbiano mai a comparire in
Lega Nord e, soprattutto, che le stesse non possano essere neppure collegate in un futuro più
o meno prossimo alla stessa Lega Nord. Nonostante ciò, è parimenti allo studio un sistema
per collegarle tra loro e per l’impiego delle
stesse qualora vi fosse necessità; 9) all’indomani delle ultime elezioni politiche, le percentuali raggiunte sono tali da giustificare l’apertura di nuove sezioni. Si presenta l’occasione
per attivare i collegamenti.
Il sistema deve essere efficiente anche se
scollegato da Lega Nord. Pertanto un’unica
cellula, là dove si rende necessario, sarà al corrente e, la stessa, pur frequentando la sezione,
di fatto apparterrà alla lega regionale. In questo modo, per qualsiasi eventualità, Lega Nord
non si assumerà nessuna responsabilità.
Prima di passare ad altro, anche in questa
sede ribadiamo due fatti importantissimi:
Per la realizzazione di quanto sin qui esposto si sono resi complici uomini appartenenti
alle forze dell’ordine. Le simpatie raccolte da
L.N. negli ambiti militari vanno lontano.
Il piano leghista prevedeva, una volta raggiunti gli obiettivi entro la linea cisalpina, che
si attuasse un’espansione graduale verso Emilia-Romagna e Toscana. Da fonti attendibilissime ci è dato sapere che questa fase è in stato
avanzato di compimento.
L’uomo scelto a suo tempo, e tuttora designato per questa operazione, è Alessandro Patelli, braccio destro di Bossi per ciò che riguarda l’attuazione del proselitismo.
Lo stesso a suo tempo rifiutò infatti la candidatura alla Camera dei Deputati ed accettò
di essere capo gruppo in Regione Lombardia
unicamente per avere piena libertà d’azione in
questo senso. Quando poi si avvide che le cose
assumevano una piega favorevole declinò la
carica in Regione dedicandosi a tempo pieno
agli obiettivi organizzativi di rafforzamento e
d’espansione.
Risultato: è tutto pronto per l’apertura ufficiale di Lega Emilia, Lega Romagnola e Lega
Toscana con relativa annessione a Lega Nord.
Abbiamo ragione di credere che tutto questo
si realizzerà subito dopo le votazioni che si terranno il 13 dicembre a Varese e Monza.
E’ inoltre ormai una certezza il raggiungimento di percentuali nell’ordine del 42% per
Lega Nord e di circa l’8% per Lega Alpina.
Esiste un’altra certezza: il raggiungimento
di simili risultati permetterebbe a Bossi di fare
tutto ciò che è necessario fare per provocare la
caduta della giunta milanese mandandola ad
elezioni anticipate, consapevole che la nuova
tornata di votazioni lo vedrebbe con una percentuale pari al 38%. I dati sin qui riportati sono stati ricavati dai tesseramenti avvenuti sino
ad ora. A suo tempo ero stato informato della
possibile esistenza di un gruppo di uomini, de-
signati dalla Lega Nord, per effettuare servizi
particolari del tipo: trasporto celere di documenti riservati, trasporto di danaro da una sede
all’altra o da un istituto di credito ad un altro,
scorta particolare ad esponenti maggioritari
della Lega e no (a questo proposito vi avevamo parlato di accompagnamento durante i trasferimenti di A.D.P.).
Oggi ho raccolto notizie più specifiche ed
anche più attendibili.
Le unità che formano questo contingente sono 84+3, gli automezzi 28+2. Ogni sede provinciale mette a disposizione un automezzo e
tre persone:
Lombardia: Varese, Sondrio, Mantova, Lecco, Como, Brescia, Cremona, Bergamo, Milano. Liguria: La Spezia, Savona, Genova, Imperia. Piemonte: Novara, Vercelli, Biella, Verbania, Cuneo, Asti, Alessandria, Torino. Triveneto: Venezia, Udine, Trieste, Trento. Emilia:
Calderara di Reno. Romagna: Forlì. Toscana:
Firenze (località non meglio identificata).
Chiaramente esiste una rotazione e il concetto della stessa; un servizio ogni tante settimane quante sono le località che appartengono
alla regione.
Emilia-Romagna-Toscana non ci è dato di
sapere come siano organizzate essendo di recentissima apertura. Possiamo comunque affermare che Lega Nord dispone ogni giorno di
5+1 automobili e di 15+1 persone per effettuare, qualora si rendesse necessario, tutti quei
servizi elencati in apertura.
Concludiamo asserendo, senza ombra di
dubbio, che più di una volta, unità come queste, si sono affiancate alla scorta tradizionale
durante i trasferimenti di A.D.P. sia che questi
fossero nell’hinterland lombardo sia che fossero effettuati per altre località come VeneziaFirenze-Roma ecc.”.
Sin qui il diario del “leghista pentito” che,
come tutte le cose anonime, vale per quello
che vale. s
Edmon Dantes
■ 1999 - NUMERO 1
I SOCIALISTI E IL CASO CRAXI
Critica Sociale
I socialisti italiani del PS e dello SDI hanno
inviato e sottoposto all’assise del Congresso
del Partito Socialista Europeo di Milano, un
documento sugli anni della “falsa rivoluzione”, sulla liquidazione del PSI e sul caso
Craxi. La Critica Sociale ha sottoscritto il
documento che pubblichiamo
A
i delegati del PSE. Care compagne e cari compagni, vogliamo portare all’attenzione
di voi tutti e del Partito Socialista Europeo la
questione del Partito Socialista Italiano e di Craxi, cioè il dramma di un partito, il PSI nato nel
1892 che é stato sempre, nella buona e nella cattiva sorte, uno dei partiti storici della democrazia
italiana ed una formazione politica radicata
nell’Internazionale Socialista, e di una personalità politica che é stata per molti anni Segretario
del PSI, Presidente del Consiglio, Presidente
della Comunità Europea, Vice Presidente della
stessa Internazionale Socialista. Molti di voi lo
ricorderanno certamente perché lo hanno direttamente conosciuto e lavorato con lui in grandi
battaglie democratiche del socialismo interna-
zionale. Ebbene, Craxi ed il PSI, nello spazio di
due anni, tra il 1992 e il 1994, sono stati investiti
da un’offensiva giudiziaria e massmediologica
di straordinaria violenza e di studiata unilateralità. Non c’é vicenda analoga nella storia delle
libere democrazie dell’intero secolo. Dopo due
anni di una offensiva devastante il PSI, partito
di più di mezzo milione di iscritti e rappresentante di cinque milioni e mezzo di elettori, é stato letteralmente disperso e distrutto. Alla diaspora socialista sono sopravvissute, percorrendo itinerari diversi due formazioni politiche che si rifanno esplicitamente alla storia del PSI e cioè lo
SDI e il Partito Socialista, ma purtroppo esse sono oggi molto lontane dall’avere la forza, il prestigio, la funzione politica che ha avuto il PSI
nella storia e nella vita politica italiana. Come
certamente saprete fino ad oggi Bettino Craxi ha
totalizzato in una serie di processi falsi organizzati senza prove e condotti con procedure tutt’affatto speciali, in aperta violazione delle leggi
dello Stato, dei principi della Costituzione e delle norme dei Trattati internazionali, a cominciare
da quelli europei, più di venticinque anni di condanne, di cui una definitiva, ed é costretto a vivere in esilio. Oltre a Craxi più di 1.000 dirigenti
CRITICAsociale ■ 15
10 / 2012
socialisti sono stati colpiti da avvisi di garanzia
e da arresti resi pubblici con grande clamore dalla stampa e dalla televisione.
Un vero e proprio massacro inumano, con innumerevoli suicidi e morti per infarto e cancro
da stress, con intere vite e famiglie distrutte non
solo nella vita pubblica ma anche nella vita sociale e lavorativa. Attraverso queste incriminazioni sistematicamente organizzate in tutte le
regioni d’Italia e riguardanti spesso oltre alle
prime, anche le seconde e le terze file del quadro dirigente socialista nazionale e locale, insieme a Craxi anche gran parte del PSI é stato
perseguitato, emarginato o comunque posto in
condizioni di eccezionale difficoltà. Oggi, a diversi anni di distanza, molti di questi dirigenti
socialisti vengono assolti in sede di giudizio,
dopo essere stati umiliati ed espulsi faziosamente dalla lotta politica e, sovente, con un insieme di drammatiche vicende personali. Tutto
ciò é stato reso possibile da una strumentalizzazione in sede politica dell’azione per altro
spesso unilaterale e pregiudiziale di clans ideologizzati e politicizzati della magistratura.
Una cosiddetta “rivoluzione” esaltata a sinistra soprattutto dal PDS con il sostegno di altri
gruppi della sinistra e dalle formazioni di destra, in particolare la Lega Nord che promuoveva la secessione e la destra proveniente dal
MSI. Con la distruzione del PSI e degli altri
tradizionali partiti di governo molti trovavano
l’occasione per uscire dalla condizione di isolamento nella quale le condizioni della democrazia in Italia li aveva mantenuti e per conseguire traguardi di potere che in passato non
avevano mai raggiunto.
L’arma che é stata usata é stata quella della
illegalità del finanziamento politico.
Il fenomeno del finanziamento illegale dei
partiti e delle attività politiche, diffuso, generalizzato e ben conosciuto in Italia da decenni é
stato identificato come un fenomeno di corruzione ed un furto ai danni della collettività. le
cose avrebbero preso un corso diverso se nel
contempo non avessero trionfato la selezione e
la discriminazione.
L’attacco é stato portato essenzialmente contro i partiti di governo. Ha dominato la regola
dei due pesi e delle due misure. Questo speciale
genere di giustizia, perseguendo evidentemente,
palesemente, e talvolta anche ostentatamente, fini politici, dopo decenni di silenzio su di un fenomeno che ben conosceva, si é accanita soprattutto in alcune direzioni. Altre in vece sono state
protette, trascurate, omesse. Una giustizia politica in piena regola che del resto ha tenuto e tuttora tiene in scacco poteri dello Stato ed anche
rappresentanti politici che si sono affermati sulle
macerie del vecchio sistema politico, determinando anche in questo modo uno squilibrio intollerabile tra i poteri dello Stato che, d’altra parte, oggi più che mai é sotto gli occhi di tutti.
Chi ha tentato di resistere é stato travolto, calpestato, perseguitato e demonizzato. Denunciando questa violenza italiana noi usiamo,
compagne e compagni del Partito Socialista Europeo, il linguaggio della verità e della correttezza. Lo usò in una seduta solenne della Camera dei deputati l’on. Craxi in un discorso che
fece il 29 aprile 1993: “In Italia buona parte del
finanziamento politico é irregolare ed illegale.
I partiti specie quelli che contano su apparati
grandi, medi e piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative,
hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare ed illegale. Se gran
parte di questa materia deve essere considerata
puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo
che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile
politico di organizzazioni importanti che possa
alzarsi e pronunciare un giuramento in senso
contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti
si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.
In quell’occasione tesa e drammatica nessuno
in Parlamento si alzò né per smentire, né per
confermare ciò che Craxi diceva con chiarezza.
Una parte dei parlamentari, quelli appartenenti
agli altri tradizionali partiti di governo (la DC,
il PLI, il PSDI, il PRI) erano bloccati dalla paura
di essere coinvolti anch’essi dallo stesso ciclone
giudiziario, come poi di fatto avvenne.
Quanto ai parlamentari del PDS e delle destre
essi stavano già attizzando ed utilizzando quella
bufera giudiziaria contro gli avversari politici.
In primo luogo contro Craxi che per anni aveva
conteso al PCI la leadership della sinistra italiana e aveva difeso e garantito l’equilibrio democratico del Paese. Il finanziamento irregolare,
del resto, non era stato per nulla una caratteristica esclusiva degli anni ‘90 e soltanto del PSI
e degli altri partiti di governo. Il finanziamento
irregolare nella vita politica italiana era iniziato
nei lontani anni del dopoguerra.
Poiché in Italia c’era il più forte partito comunista d’occidente, vi fu dapprima un finanziamento di carattere internazionale: la DC e gli altri partiti del centro (il PLI, il PRI, il PSDI) erano
finanziati dagli Stati Uniti, il PCI e per molti anni, sino al 1956, anno di separazione dai comunisti per i fatti di Ungheria, gli stessi socialisti
del Partito di cui era segretario Pietro Nenni erano sostenuti dall’URSS. Poi la DC e gli altri partiti di governo furono sostenuti anche da gruppi
industriali pubblici e privati ed il PCI dalle
aziende appartenenti alla Lega delle Cooperative, oltre anch’essi da finanziamenti illegali privati, pubblici e soprattutto dal finanziamento internazionale proveniente dall’URSS e dai paesi
dell’Est attraverso contributi diretti, flussi commerciali e rapporti organici con i servizi segreti.
In un terzo tempo anche il finanziamento irregolare divenne “consociativo” ed, in forme varie, coinvolse insieme imprese pubbliche, private ed aziende cooperative. Ne fanno fede tutti i
numerosi consorzi che con questo meccanismo
triangolare hanno realizzato i grandi lavori pubblici in Italia fino agli anni ’90.
In questa situazione che aveva caratteri di organicità, tutti i segretari politici dei partiti erano
nelle stesse condizioni: se D’Alema e prima di
lui Occhetto non poteva sapere, anche Craxi non
poteva sapere, se, al contrario, Craxi “non poteva non sapere” allora anche D’Alema “non poteva non sapere”. L’uso politico della giustizia
ha stravolto i caratteri di questa situazione. Un
sistema giudiziario fondato su “due pesi e due
misure” é arrivato al punto tale che in una occasione la stessa testimonianza rivolta negli stessi
termini nei confronti di ambedue é servita per
provocare la condanna di Craxi ad alcuni anni
di carcere ed invece a determinare il proscioglimento di D’Alema in fase istruttoria.
Come dicevamo tutto ciò é avvenuto per un
uso politico della giustizia realizzato in modo
accanito e sistematico. In Italia la gestione della
giustizia é stata caratterizzata da gravissime distorsioni anche per errori commessi a suo tempo dalla DC, dal PSI e dagli altri partiti di governo e per una scientifica operazione di inserimento e di utilizzazione dei corpi separati dello Stato messa in atto dai gruppi dirigenti comunisti. Il sistema giudiziario italiano é molto
lontano da quello europeo sotto molti punti di
vista. per un verso c’é una giustizia lenta e farraginosa, dai tempi lunghissimi che vede impuniti la maggior parte dei reati comuni, dagli
omicidi alle rapine ai furti. La giustizia civile é
ingolfata e segnata da tempi morti che durano
mesi ed addirittura anni, anche fra una udienza
e l’altra, per cui i cittadini non vedono tutelati
più i loro diritti privati. Di conseguenza accade
che spesso le società per azioni e singoli che
hanno larghe disponibilità economiche, ricorrano a forme private di arbitrato. L’unica cosa
che un settore molto policitizzato di magistrati
ha coltivato é stato lo sviluppo del proprio potere, la propria esposizione sui mezzi di comunicazione di massa, in un esibizionismo che é
oggi fatto oggetto di una critica crescente mentre si assiste ad un crollo della iniziale popolarità della magistratura, e infine il suo organico
rapporto con il PDS e con clans di questo partito, tanto alla Camera che al Senato.
In Italia, l’azione di una parte della magistratura ha così trasformato un ordine in un potere.
La corporazione dei pubblici ministeri finora ha
fatto di tutto per evitare lo sdoppiamento delle
carriere che é praticato in tutta l’Europa e che é
condizione essenziale di uno Stato di diritto vinto il concorso d’ingresso, oltre ad essere inamovibile é sottoposto al controllo di un organo che
per 4/5 egli stesso elegge, ha la certezza di arrivare automaticamente fino alla Cassazione, può
indifferentemente e alternativamente fare il magistrato inquirente ed il magistrato giudicante,
per cui può esaminare in sede di giudizio il processo che qualche tempo prima ha costruito come pubblico accusatore, può usare la carcerazione preventiva, grazie ad un giudice istruttore
quasi sempre acquiescente, per provocare confessioni che, una volta verbalizzate, vengono
usate come prove nei dibattimenti senza possibilità di contraddittorio da parte della difesa; può
utilizzare i pentiti con la massima discrezionalità
avendo la possibilità anche di servirsi dei loro
avvocati (ogni avvocato dei pentiti é una sorta
di dipendente della Procura ed in genere gestisce
30 o 40 di essi potendo coordinare le loro rivelazioni) e dei corpi di polizia che li controllano
e proteggono; può ricorrere in modo massiccio
(basti pensare che in Italia in un anno ci sono
stati circa 44.000 casi di intercettazioni telefoniche autorizzate, contro i 1.500 degli USA, le
intercettazioni non autorizzate non si contano)
a forme molteplici di intercettazioni; il tutto in
un rapporto molto stretto con i mezzi di comunicazione di massa. Ebbene il settore militante
di questa magistratura dotata di tali poteri, legata
a clans politici, ha alacremente lavorato per distruggere gli avversari del proprio partito e dei
propri gruppi preferiti e contemporaneamente
ha agito in modo da tutelarli da possibili ritorsioni, visto che il finanziamento irregolare aveva
storicamente coinvolto tutte le forze politiche.
Tutto ciò ha prodotto una operazione violenta
che si é tradotta, nel corso degli anni ’92/’94, ma
anche successivamente, in una profonda alterazione della dialettica politica democratica. Questa alterazione non é stata realizzata ricorrendo
a forme plateali ed improponibili di impiego della forza militare, ma utilizzando l’arma giudiziaria con l’effetto devastante degli avvisi di garanzia amplificati dai mezzi della comunicazione di massa, e gli arresti in diretta televisiva.
Con queste affermazioni non intendiamo sostenere che il PSI ed i suoi dirigenti non abbiano commesso errori ed in taluni casi anche illegalità.
Abbiamo più sopra ricordato come fin dal
1992 Craxi, a nome del PSI, con una sincerità
che gli viene riconosciuta dagli avversari più
leali, abbia ammesso le nostre responsabilità nel
ricorrere a forme illegali di finanziamento dell’attività politica che era peraltro il sistema comune a tutti i partiti. Quello che vogliamo denunciare, però, é da un lato la assoluta inaccettabilità di una logica dei due pesi e delle due
misure, e dall’altro l’applicazione al PSI ed ai
socialisti non già del principio della responsabilità penale personale, ma di un vero e proprio
teorema sulla base del quale si é ritenuto possibile applicarle ad una formazione politica i sistemi di indagine ed i criteri di giudizio, normalmente utilizzati nel caso delle grandi organizzazioni criminali. Vogliamo denunciare come si sia ritenuto di poter utilizzare le conclusioni di una azione giudiziaria così preconcetta,
selettiva e strumentale per dare scontato un giudizio morale e politico su di un’intera area politica ed il suo gruppo dirigente, rifiutando ogni
possibilità di difesa o di diversa interpretazione
dei fatti nella sede propria e cioè quella politico-parlamentare, attraverso una Commissione
di inchiesta parlamentare.
Gli elementi che possono concorrere a dimostrare la pregiudizialità e la strumentalità di ciò
che é accaduto sono numerosissimi. A questo
proposito basti ricordare come, proprio recentemente, uno sconvolgente documento di polizia giudiziaria relativo ad un indagine in corso
presso la Procura di Brescia, e relativo ai comportamenti di Antonio Di Pietro, l’eroe di questa “giustizia politica”.
In questo documento si afferma che Di Pietro fu guidato nella sua attività investigativa nel
quadro di Mani Pulite da un atteggiamento pregiudiziale ostile nei confronti del PSI e di Craxi
e diretto quindi a colpirli ed eliminarli dalla
scena politica. Il caso Craxi non é un episodio
ed un problema individuale, ma riguarda un
lungo periodo di storia di un intero partito, il
PSI, e per molti aspetti anche la storia della democrazia di tutto un paese.
Non é un caso che, malgrado la richiesta di
diverse forze dell’opposizione ed il deciso sostegno dei compagni dello SDI, guidati da Enrico Boselli, che pure fanno parte dell’attuale
maggioranza, é stata respinta la proposta di istituire una Commissione Parlamentare di inchiesta sul finanziamento della politica. Essa é stata
respinta in primo luogo dai DS perché i loro dirigenti che hanno oggi responsabilità di primo
piano nella politica italiana, non hanno voluto
che finalmente si facesse luce su ciò che é avvenuto realmente in Italia.
Compagne e compagni del Partito Socialista
Europeo davvero si può credere che per cinquant’anni l’Italia sia stata guidata da partiti
che erano in effetti delle associazioni a delinquere e che un personaggio come Bettino Craxi
sia un criminale? Di fronte a tutto questo, ed a
molto ancora, crediamo che il Partito Socialista
Europeo abbia il dovere di compiere esso stesso un’azione approfondita di chiarimento e di
accertamento della verità. per tutte queste ragioni ci auguriamo che il Partito Socialista Europeo istituisca una Commissione d’Inchiesta
sul “caso Craxi” che, oltre ad essere il “caso
Craxi”, é anche il “caso PSI”.
Crediamo che costituisca un atto di doverosa
giustizia verificare se, per molti anni, é stato Vicepresidente dell’Internazionale Socialista un
criminale, e se all’interno del Partito Socialista
Europeo, c’é stato un partito, il PSI, che era
nient’altro che un’associazione a delinquere.
Questa analisi, e la conseguente risposta, il
Partito Socialista Europeo la deve in primo luogo a se stesso, ma anche a quanti in Italia si
sentono socialisti e che poiché il loro partito é
stato distrutto e demonizzato, sono ora costretti
ad una partecipazione politica limitata attraverso il voto ai due partiti che sono derivati dalla
diaspora socialista, o che sono costretti a disperdersi in altre formazioni politiche o addirittura si rifugiano nell’astensione.
Ci auguriamo che il Partito Socialista Europeo affronti la questione in modo aperto e diretto, si misuri con un problema drammatico
che va considerato tale anche se in Italia i mezzi di comunicazione di massa tendono a mantenere, con poche eccezioni, una “cortina di silenzio” intorno alla questione socialista. Ma
proprio questa “cortina di silenzio” e la scientifica manipolazione delle notizie sono la dimostrazione più evidente che in Italia per molti
aspetti é stata costruita una situazione del tutto
anormale, con caratteristiche molto diverse da
quelle proprie delle democrazie europee e con
fattori avventuristici che, allo stato delle cose,
sono ancora imprevedibili. s
PUOI FARE TUTTO
DA SOLA.
O PUOI FARE VIAGGIA CON ME.
La polizza auto che ti assiste alla guida 24 ore su 24.
ViaggiaConMe è più di una semplice polizza auto perché ti offre ViaggiaConMe Box, un dispositivo satellitare
che, in caso di guasto o incidente, ti mette in contatto con i soccorsi 24 ore su 24 e agevola la ricostruzione
della dinamica dell’incidente. E con l’acquisto della copertura Assistenza, il Soccorso Stradale è sempre compreso.
Informati nelle Filiali del Gruppo Intesa Sanpaolo.
Messaggio Pubblicitario con finalità promozionale. ViaggiaConMe è una polizza di Intesa Sanpaolo Assicura S.p.A. che prevede l’installazione in auto di un dispositivo elettronico satellitare. Prima della sottoscrizione leggere il
Fascicolo Informativo disponibile presso le Banche del Gruppo Intesa Sanpaolo e sul sito intesasanpaoloassicura.com.
Scarica

storia di venti anni/4