STEFANO VERDINO
Gli amici del Marchese
(*)
Il S. Padre uscito a diporto, sabato scorso [13 maggio], ha onorato
la deliziosa Villetta del sig. Marchese Gio: Carlo Di Negro. S.S. è parsa
compiacersi molto dei variati e bellissimi punti di vista che vi si presentano ad ogni tratto. Passando per la biblioteca e percorrendo qualche
bella edizione, il sig. Gio: Carlo gli ha fatto la sorpresa, o per meglio dire il complimento di fargli trovare stampato il seguente sonetto, di cui
poi sono state distribuite delle copie ai circostanti. Lo stesso giorno è
stato onorato da SAR la principessa di Galles, per la quale improvvisò
sull’arpa alcune strofe esprimendole il dispiacere della sua partenza da
Genova (GG 17 maggio 1815).
Il sonetto riprodotto dalla fida «Gazzetta» (1) costituisce – a
quanto si sa – il battesimo a stampa dell’improvvisante Marchese (2); al
di la delle dubbie qualità del testo, è il contesto qui versificato ad intri(*) Si è fatto uso delle seguenti sigle: GG = «Gazzetta di Genova»; EN = Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini, Imola, Galeati, 1906- 1943; DBI =
Dizionario biografico degli Italiani.
(1) «Se nuove incomprensibili vicende, / Serve al cenno di Dio, volgon l’etade,
/ E se dubbio d’Europa il fato pende / Perché Gallia sconvolta in fallo cade; // E se
Rege guerriero in campo offende / La regale d’Ausonia maestade, / E l’Italo accecar
d’astute bende / Osa, al suon menzogner di libertade; // SANTO SIRE, offre a te
commosso Giano / Securo scampo, ed al tuo piè curvato / Tutto sente l’onor del Vaticano, // E fra gli Eroi del tempo trapassato / Addita al mondo dall’eterna mano /
Astro nuovo nel Ciel per te fissato».
(2) Cfr.E.COSTA, G.C.D, in Dizionario biografico ligure, VI, Genova, Consulta
ligure, 2007, pp. 158-64 e relativa bibliografia; molti riferimenti in Magasin pittoresque. Una Genova di primo Ottocento, a cura di G. Marcenaro, Genova, Sagep, 1989;
Italie, il sogno di Stendhal, a cura di G. Marcenaro e P. Boragina, Genova-Milano,
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gare: siamo in pieni Cento Giorni, con «Ausonia» nuovamente in tumulto «al suon menzogner di libertade» e conseguentemente il Papa
di nuovo in fuga dai suoi territori: «securo scampo» è offerto dal
«commosso Giano», in quel bimestre in cui Genova fu riparo a più di
un sovrano legittimo, curiosa sorte di una città «repubblicana» per
più versi malcontenta della bruciante annessione di pochi mesi primi e
probabilmente scissa nella sua classe dirigente e nel ceto intellettuale,
come ben mostrerà il romanzo genovese di Conrad, ambientato pochi
mesi prima, nella vigilia della fuga elbana (3).
In questa Genova la Villetta costituiva la principale nuova attrattiva per visitatori illustri, capillarmente rubricati dal cortese ospite,
che fu eminentemente un collezionista di illustri e anche di amicizie,
tanto da farne lo scopo stesso della propria esistenza, come in limine
egli stesso dice nella propria Vita in versi:
È la mia vita
In sen dell’amistade più gradita.
Principi, Duchi, Papi, Imperatori
Visitar questa mia Tempe di fiori,
E a loro umilemente espressi in rima
L’ossequio rispettoso e l’alta stima (4).
Alla «Tempe di fiori» sono saliti quasi tutti i letterati europei,
deliziati o suppliziati dall’inarginabile estro improvvisatorio del Marchese. Nella Vita – per limitarci ai poeti italiani – si citano Monti,
Manzoni, Torti, Mamiani (questi ultimi di frequentazione post-quarantottesca, come noto), ma il Di Negro ultraottuagenario, su tutti,
resta fedele al maestro della sua giovinezza, quel Francesco Gianni,
che da fine Settecento fu parzialmente adottato in città, e che nello
specifico fu il Virgilio del Nostro come egli dichiara espressamente:
Banco di Chiavari-Silvana, 2000; G. MARCENARO, Genova e le sue storie, Milano, Bruno Mondadori, 2004.
(3) Su Suspense (1925) cfr. G. SERTOLI, Genova 1815 e il “romanzo napoleonico”
di Joseph Conrad, in in Studi di Letteratura e Linguistica dedicati a Anna Lucia Giavotto, a cura di S. Spazzarini, Genova, Università degli Studi, 2010 (Quaderni di Palazzo
Serra 18), pp. 293-304.
(4) G. C. DI NEGRO. Vita scritta da esso, Genova, Sordomuti, 1854, p. 39.
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«Gianni mi disse: È in te visibil estro; / Io ti sarò, se il vuoi, duce e
maestro» (5).
Anche se non onorato di busti (forse perché figura controversa e
non sufficientemente bipartisan), Gianni fu onorato da una «visione»
in versi del discepolo, posizionandosi sul piano più alto della gerarchia
degli suoi omaggi ad amici e maestri, rispetto a sonetti e odi:
Nessun più di me godeva in terra,
L’eco in udir dell’improvviso canto,
Che suona ancor in ogni labbro ed erra.
Per lo valor dei duo, che amai cotanto,
Di Mnemosine l’un figlio diletto,
L’altro che al par di Maro e Flacco ha il vanto (6).
Ad illustrazione di questi versi merita dar conto della nota in calce:
Si allude ad una straordinaria conversazione nel palazzo di S.E. il
Marchese Antonio Brignole Sale, nella quale pregati l’un dopo l’altro,
immediatamente il Gianni cantò ottave improvvise sorprendenti, il Gagliuffi le tradusse in versi latini al solito elegantissimi, e l’Ardizzoni, il
celebre Giureconsulto, ripeté colla prodigiosa forza della memoria i versi e dell’Italiano e del Latino Poeta, fenomeno unico, che forse non si
vedrà mai più (7).
Ecco, siamo nel bel mezzo del mondo prediletto di Di Negro: la
tenzone improvvisatoria, che si configura come Accademia vera e propria, nell’ambito di una sontuosa sala di Palazzo Rosso. E abbiamo qui
(5) G. C. DI NEGRO,Vita, p. 12.
(6) G. C. DI NEGRO, Alla memoria di Francesco Gianni poeta estemporaneo. Visione, Genova, Ponthenier, 1830, p. 10. Cfr. nella Premessa alle Poesie del Gianni:
«Giunto l’Autore appena in questa Metropoli per fermarvisi alcuni giorni fu da qualche erudito salutato, e conosciuto. Si ravvisò in esso non dallo splendore il fumo, ma
dal fumo la luce; la stima occupò il luogo dell’urbanità: il Patrizio Gian Carlo Di-Negro lo vide, lo ascoltò, lo trattenne, e gli dichiarò quell’amicizia, che dichiarò un giorno Scipione ad Ennio, Pollione a Virgilio, Mecenate ad Orazio. Cominciarono da quest’epoca a rendersi frequenti le Adunate nelle quali correvano a gara i dotti, gl’indotti,
i i maligni per ascoltarne il canto i primi lo ammirarono, i secondi rispettarono il giudizio de’ primi e gli ultimi ammutolirono» (F. GIANNI, Poesie, Napoli 1806, p. 11).
(7) Ibid., p. 11.
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citati anche i più assidui compagni genovesi di passione, in particolare
il Gagliuffi, improvvisatore in latino e il «tanto fastoso» (8) papà della
Duchessa di Galliera. Di Gagliuffi oggi non si può che rinviare ai recenti atti di questa Accademia, mentre sul Marchese di Groppoli ci
vorrebbe una bella ricostruzione biografica, che vedesse non solo l’alto diplomatico o il politico filo-papalino, “testimone” della Chiesa, ma
il promotore di cultura, dedicatario di non poche opere, non soltanto
genovesi, se si pensa che proprio ad Antonio Brignole Sale Michele
Leoni dedicò una delle prime versioni da Byron, Il lamento di Tasso,
già nel 1818 (9). Un notevole ritratto del personaggio si ha in una lettera di Mazzini a Luigi Amedeo Melegari del ’35:
bell’uomo, fronte alta, calvo, dignitoso oltremodo […] so il suo rôle
d’opposizione senza pericolo al governo – i suoi impieghi che lo pongono a contatto del popolo – le sue ricchezze, e più quelle del marito della
figlia, che sono considerabili – la stima ch’egli ispira a certa classe di
gente, etc. – Ha tutte le qualità, meno una, che potrebbero farne un
Fiesco – ma quell’una è il coraggio (Berna, 16 [febbraio 1835], EN, X,
1911, p. 350) (10).
(8) Così Maria Mazzini al figlio il 23 aprile 1836 sulla nomina del Brignole ad
Ambasciatore sardo in Parigi: «80 mila franchi è la pensione di quell’ambasciata: pensiamo quanti di più ne spenderà quell’uomo tanto fastoso! Cose da ridere pensando
alla sciocchezza di lui che spenderà per mantenersi 4 spie ad hoc e va bene» (Lettere a
Mazzini di familiari ed amici 1834-1839, a cura di S. Gallo e E. Melossi, Imola, Galeati, 1986, p. 232). Su Brignole Sale Cfr. G. Locorotondo, DBI.
(9) G. G. BYRON, Lamento del Tasso, recato in italiano da Michele Leoni, Pisa,
Capurro, 1818: «Non vi sarà discara l’offerta che io ve ne fo come contrassegno di
mia devozione, ben sapendo non esser ella da un animo generoso misurata secondo
l’importanza e la mole del dono. D’altronde il testo inglese da me aggiunto vi porrà in
istato di trarle quella soddisfazione che non troverete forse ne’ versi italiani;poiché mi
sembra, che per l’original tempra poetica e il calore della passione, un sì fatto componimento mirabilmente corrisponda alla fiera calamità dell’Epico sommo, che ne forma
il soggetto» (p. [iv]).
(10) In seguito – per Brignole Sale – Mazzini sostituirà la maschera dell’ambiguo
eroe schilleriano con una più sbrigativa definizione di «gesuita», per via della sua cauta presidenza del celebre congresso degli Scienziati a Genova nel 1846. Così alla Madre, il 16 ottobre 1846: «La parte fatta dal Brignole non mi sorprende: i diplomatici
son sempre un po’ gesuiti» (EN, XXX, 1919, p. 227), ed anche altrove, a Filippo De
Boni il 18 dicembre 1846: «Malgrado il linguaggio gesuitico del presidente Brignole,
le sedute acquistarono colore deliberatamente politico» (Appendice – Epistolario, III,
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Gagliuffi, Brignole Sale e Lorenzo Costa di Beverino (11) furono i
principali sodali del Marchese per quanto riguarda il suo più noto rito
in Villetta: l’inaugurazione dei busti agli illustri italiani, a mo’ di variante ligustica e bucolica di santa Croce, nel condiviso gusto monumentale dell’epoca (12).
La meravigliosa prosa del Giordani, con l’architettura dorica della sua sintassi, ci fa da autorevolissima guida, anche retrospettiva (siamo nel ’40), di un rito intermittente, ma già di trilustre collaudo:
Assai è noto con quanto di magnifica eleganza il marchese Giancarlo di Negro abbia date molte solenni feste nella sua Villetta di Genova all’onore or di Eroi italiani, or di suoi amici illustri. Innumerabili
EN, 1939, p. 160). E questi nel suo periodico specifica, tuttavia con indulgenza: «Al
congresso di Genova un uomo solo fu biasimato, il Brignole-Sale, e questi per essere
stato incolpato di gesuitici andari. Al buon diplomatico, che tutti accolse nel suo palazzo con la squisita delicatezza d’un antico gentiluomo, il principe di Canino – mi si
dice – diede un rabbuffo, non so se per ridere o in sul serio. Tuttavia il Brignole poteva largamente rispondere colle ultime raccomandazioni di Luigi-Filippo, il quale gl’insinuava prudenza» (F. DE BONI, Così la penso, Losanna, Bonamici, 1846, I, p. 324).
(11) Su Costa vi fu un convegno di studi a Beverino nel 1992 (cfr. Omaggio a
Lorenzo Costa: Beverino Castello, 16 maggio 1992, La Spezia, Luna, 1992, con lettere a
Di Negro) i cui atti non furono editi, ma cfr. la relazione di G. PONTE, Il Cosmo di Lorenzo Costa classicista ligure dell’Ottocento, in «Atti dell’Accademia Ligure di Scienze
e Lettere», S. 5, V. 53, 1996, pp. 379-86; G. AMORETTI, Il Canzoniere di Lorenzo
Costa, ibid., pp. 387-94; vedi anche B. MONTALE, Lorenzo Costa nella Genova del Risorgimento, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s., XXXIV, 1994, pp. 379-392.
(12) Una bella sintesi in Celesia: «Fra i più splendidi ospitatori de’ dotti dessi
ben a ragione annoverare il marchese Gian Carlo Di Negro, il cui nome suonava già illustre per tutta Europa. Fra gli ombrosi viridari della sua aerea Villetta che signoreggia il vasto emiciclo delle nostre costiere, quasi novella Tempe aperta a tutte le arti del
bello, si piaceva l’onorando patrizio raccogliere quanto di più eletto e gentile albergava in Liguria non solo, ma quanto di più pellegrino concorrea d’ogni banda del mondo a visitare la nostra penisola. E in questo suo paradiso, pagando, come di lui scriveva il Giordani, una più che virile porzione dell’enorme debito che Genova aveva contratto verso i suoi Grandi, or con improvvisi or con meditati modi ne inneggiava le
glorie e i simulacri ne inaugurava; e in queste festive dedicazioni a Colombo, a Canova, a Perticari, a Biondi, a Gagliuffi e a Paganini s’udiano echeggiare pei vocali laureti
le melodie del Costa, del Maffei, del Bellotti, del Sanvitale e d’altri degni cantori. Votive e ad un tempo civili festività, che tenean desto il pensiero italiano in tanta nequizia di tempi accasciato, e gli additavano un lampo di più felice avvenire» (E. CELESIA,
Storia dell’Università di Genova, 1867, II, p. 376).
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persone, in tutta Italia e fuori, conoscono la rara amenità del luogo, e
quel maraviglioso prospetto di città e di mare, che il possessore cortesissimo concede liberalmente di godere ogni giorno a tanti: ed è famoso lo spettacolo ch’essa rende illuminata copiosissimamente in quelle
notti festose; al quale concorre plaudente un popolo numeroso nel
sottoposto passeggio dell’Acquasola. Similmente noto, poichè più volte ripetuto, è il rito della festa; e con qual pompa si porti e si accompagni alla sua destinata sede nel giardino il busto marmoreo di colui
che si celebra; cantandosi dai musici un inno che il Sire della Villetta
ha composto. E ciò suol farsi dopo che alquanti poeti, che il marchese
poetando precede, e prima di essi un oratore, hanno lodato il soggetto
di tale solennità (13).
È una prosa che merita qualche commento: Giordani qualifica il
«rito» dei busti come reso «all’onore» di «Eroi italiani» (oltre che di
«amici illustri»). Vige – cioè – un sentimento nazionale, che al più servile Michele Giuseppe Canale fa esclamare «La Villetta del Marchese
Gian Carlo Di Negro è, per cosi dire, la Santa Croce di Genova» (14);
al di là dell’improbabile paragone è pur vero che i riti dei busti in Villetta obbedivano al clima monumentale nazionale promosso dai Sepolcri foscoliani. E questo fu il significativo aggiornamento di una kermesse poetica geneticamente posta tra arcadia e poesia all’improvviso,
in un tipico gusto tardo settecentesco.
Una riprova che queste feste estive non fossero solo un residuo
arcadico viene – sempre nella prosa del Giordani – dall’osservazione
del concorso del popolo numeroso e plaudente del «sottoposto passeggio»; vi è in qualche modo un margine “pubblico” (di canti, suoni
e luci) offerto alla città fuori dei giardini e che spiega anche il continuo rendiconto sulla «Gazzetta di Genova» di tali riti, “recensiti” come feste spettacolari offerte alla città.
Infatti con molta minor eleganza, rispetto a Giordani, si possono
trovare affini descrizioni sulla «Gazzetta di Genova» a partire dal primo busto per Giulio Perticari, varato la sera di domenica 21 agosto
(13) P. GIORDANI, Scritti editi e postumi, a cura di A. Gussalli, Milano, Sanvito,
V, p. 277.
(14) Inaugurazione del busto di Paganini, in «Magazzino pittorico universale»,
1835, 30, p. 120.
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1825 (15). La serie delle inaugurazioni consegnate alle stampe disegna
una sfilza di «eroi» di qualche eterogeneità, a parte il genio italico: abbiamo tre busti di illustri di recente decesso come Perticari, Gagliuffi,
Biondi; due di distanziata memoria, dal più lontano Colombo al Canova ad un ventennio dalla morte; uno addirittura vivente, con grande
scandalo di Francesca Mazzini (16), ovvero Paganini; sul piano territoriale tre genovesi (l’immigrato Gagliuffi, Paganini, Colombo), tre “foresti”. Abbastanza standardizzata la formula degli opuscoli, con l’orazione in apertura, la serie degli omaggi in versi metricamente scanditi
(Sonetti, Odi, Terzine, ecc), infine i versi della Cantata, in un itinera(15) «In mezzo a uno di questi [ridotti] erasi stabilito sul tronco d’una colonna greca il Busto marmoreo, di grandezza naturale, opera dell’egregio nostro scultore Gaggini. Sull’imbrunire della sera e viale e grotte e boschetti illuminati con più
migliaja di lampioncini di diverse forme e colori in vaga simmetria disposti, presentarono uno spettacolo delizioso e sorprendente agli invitati. […]. Succedette a questi [l’oratore Brignole Sale] una Cantata, posta in musica da un bravo nostro Dilettante, in cui s’invitava l’assemblea a recarsi a sparger di fiori il ben augurato Busto;
e tosto tutte le dame sfilarono co’ loro cavalieri facendo il giro del giardino, e per
nuovi praticati sentieri giunsero al tempietto, nella cui nicchia tutta sfolgorante di
lumi, era intanto stato riposto il Busto e circondato di fiori. Rientrata la bella comitiva nella prima sala, cominciarono le danze al suono di scelta musica, che stava celata negli attigui boscherecci recinti, e cominciò nel tempo stesso il più splendido
servizio. Verso la mezzanotte rinfrescandosi l’aria, la schiera danzante si condusse in
casa, e quivi ripigliò il ballo con nuovo ardore, né cessò che quando ritirandosi potè
esclamare: Bell’alba è questa!» (GG 24 agosto 1825). Cfr. anche il lungo rendiconto
di Benedetto Mojon Festa celebrata in Genova in onore di Giulio Perticari, in forma
di lettera a Luigi Biondi; interessante l’elenco delle effigi illustri già presenti: «Sotto
di una nicchia verdeggiante si vedeva innalzato su tronco di colonna l’effigie del ligure Colombo: e tra varii oggetti di belle arti, d’istoria e di letteratura scorgevansi i
busti dell’autore dell’Aristodemo, quello dell’Asarotti ben degno emolo dei Lepè e
dei Sicard, e quello di Wasington. Là fra i cipressi mostravasi la tomba di Laura: e
qua un’iscrizione ci rammentava il cantore Di donne, cavalìer, arme ed amori. Ne
debbo tacere, anche a dispetto della vostra modestia, che fra queste si illustri imagini era a vedersi anche la vostra, scolpita in marmo da quel medesimo esperto artefice che fedelmente ei ritrasse i lineamenti del nostro Giulio» («Giornale arcadico»
XXVII, luglio-settembre 1825, p. 351).
(16) Francesca Mazzini a Giuseppe: «Non so darmi pace come un bravo suonatore possa meritarsi una statua ed ancor vivente e che cosa al mondo ha egli mai fatto
per l’umanità di bene? » (Lettere a Mazzini, p. 51).
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rio dalla prosa con cursus alla parola per musica (17). Indubbiamente i
libretti rimasti sono un po’ come i libretti per l’opera, manchevoli della performatività, che era lo scopo primario di versi e discorsi.
L’omaggio al Perticari cade nell’ultima stagione della battaglia
classico-romantico e la «Gazzetta» registra in quell’estate, in piena
contiguità il busto in Villetta e la stampa genovese del Sermone sulla
mitologia, dono di nozze per il giovane marchese Costa. La compagnia
della Villetta propendeva decisamente per il versante classicista e ne
era ben segno l’alta valorizzazione del genero del Monti; proprio l’oratore ufficiale, il Marchese di Groppoli, nella sua magniloquente orazione ha un passaggio in cui – a petto delle lodi per l’estinto – si scaglia furoreggiando contro «i traviati novatori»:
Quel Grande, cui sovra ogni altro essa [l’Italia] va debitrice del ristabilimento delle buone discipline nella difficile arte del dire, non che
della conservazione in sua natia purezza dell’idioma sonante e gentile,
unico tesoro a lei intatto lasciato dalle ingiurie dei tempi e che nondimeno alcuni traviati novatori, indegni di esserle figli, voleano ad ogni
patto barbaramente difformare e corrompere (18).
Queste motivazioni antiromantiche non sono nuove, ma di originalità inquisitoria è il tono, che sembra guardare con dispetto le suggestioni oltramontane, anche per la potenzialità o contiguità eversiva
con il sistema vigente, sulla linea di quanto scriveva in quell’anno il
Pagani Cesa (19). La strategia dell’antipatriotismo è troppo sospetta di
uno sconfinamento nel politico, in fondo motivato a pensare cosa vagheggiavano allora in città Fantasio e gli amici del Lorenzo Benoni.
(17) Questa la sequenza secondo il libretto a stampa Per l’inaugurazione del busto
di Giulio Perticari, Genova, s. e., 1825: Sonetto di G.B. de Negri; sonetto di Nic. Nervi;
Due Odi (di Antonio Cazzaniga e di Giuseppe Crocco), una Canzone (di Felice Bellotti); seguono le Terzine di Di Negro e la sua Cantata; chiude l’elegia in latino di Lorenzo
Costa. Sul cremonese Cazzaniga, poeta e giornalista liberale, che visse poi a Genova nel
1827-28, vedi G. ALBERGONI, I mestieri delle lettere tra istituzioni e mercato: vivere e scrivere a Milano nella prima metà dell’Ottocento, Milano, Angeli, 2006, pp. 365-405.
(18) Ivi, p. 6.
(19) «Le sovversive idee del romanticismo sono (a chi ben intende) sintomi di
maggior sovversione» (G.U. PAGANI CESA, Sovra il teatro tragico italiano, 1825 in Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), reprint a cura di A. M. Mutterle,
Bari, Laterza, 1975, II, p. 271).
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Dieci anni dopo è ancora Brignole Sale a tenere l’orazione per il
busto di Paganini, dieci anni non da poco, e questa volta la polemica è
invece rivolta contro un alfiere del classicismo come Carlo Botta non
nominato, ma riconoscibile nella perifrasi «Un vivente accreditatissimo storico» (20), e fa riferimento ad un passaggio assai aspro verso la
presente «età pessimamente corrotta» che vuole «nella musica il fracasso», da poco leggibile nel decimo volume della Storia continuata da
quella del Guicciardini fino al 1789:
Questa è una età pessimamente corrotta: nel morale vuole la forza,
nella musica il fracasso. I compositori sono diventati servi delle orchestre, le
quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran rumore, e far vedere, che
sanno sonare le difficoltà ed eseguire il concerto, i cantanti sono soffocati
ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha perduto il cuore, ed è divenuto tutto orecchie, applaude; gente veramente da tamburi e da cannoni (21).
Di fronte a tanta sconoscenza dei fasti dell’Ottocento musicale
italiano, Brignole Sale rammenta ovviamente «Le opere dell’immortal
Pesarese» e compiange o subodora un qualche maleficio ai danni del
Botta se egli è sordo a Bellini e Paganini:
Il compiango se non gli scesero al cuore le melodie di Bellini. E
mentre Paganini è in vita, qual genio malefico e ingannatore poté ispirargli contro l’odierna musica sì dura condannagione? (22)
(20) Per l’inaugurazione del busto di Nicolò Paganini, Genova, Pagano, 1835, p.
12. Una recensione fu scritta da Felice Romani per la «Gazzetta piemontese» e ripresa in F. ROMANI, Miscellanee tratte dalla Gazzetta Piemontese, Torino, Favale, 1837,
pp. 480-1. Di seconda fila, ma simpatizzante: «Amo la Poesia Anacreontica» proclama
esaltando i versi dell’amico Marchese Gian Carlo Di Negro, nel 1845 (cfr. F. ROMANI,
Critica letteraria, Torno, Loescher, 1883, vol.II, pp. 163-66); sulla consuetudine con
Di Negro al Mazziniano di Genova si conserva un biglietto (senza data) di Lazzaro
Rebizzo con un invito opzionale o per la Villetta Di Negro o per un comune minestrone: sullo stesso foglio Romani, evidentemente in soggiorno a Genova, annota: «È
troppo freddo per andar da G.C. Il minestrone sarà miglior partito». A Casa Di Negro il menù prevedeva invece un «solito ‘piatto di ravioli’, un piatto che il suo cuoco
aveva fama di preparare assai bene», secondo la tarda testimonianza di A. G. BARRILI,
Sorrisi di gioventù. Ricordi e note, Milano, Treves, 1912, p. 102.
(21) C. BOTTA, Storia continuata da quella del Guicciardini fino al 1789, Parigi
1837, 10, p. 252.
(22) Per l’inaugurazione del busto di Nicolò Paganini, p. 13.
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Ci possiamo gustare un lemma disusato (caro a S. Caterina) e malignamente notare il silenzio sul già celebre, ma troppo romantico (sedizioso?) Donizetti, ben caro in quello stesso anno al Mazzini di Filosofia della musica, ma vale la citazione una curiosa promozione della
musica suonata da «giovin donzella», che se da un lato ha un’apparentamento alla foscoliana «vergine romita», dall’altro prospetta il vantaggio di un tour de force alla tastiera rispetto ai dubbi sull’esercizio fisico, ancorchè modesto:
È parimenti notevole come la musica sostenga di continuo in moto per l’intiero corso di una notte, e talvolta più ancora, la frale macchina di giovin donzella che il semplice lento diporto di un’ora lascia bene
spesso fiacca e spossata (23).
Una privata recensione di questa Paganiniana (24) fu fatta da Francesca Mazzini all’esule fratello, su fonti di prima mano, come il padre,
il dottor Giacomo, medico curante del Marchese, e di Filippo Bettini,
detto il Bue Muto:
Eccomi a dirti ogni ragguaglio sulla inaugurazione del Paganini, io
l’ebbi dal Bacano della tua compagna, quale vi stette fin passato la mezzanotte ed indi si ritirò. Vi fu illuminazione di tutta la villetta, banda militare ghiacci a profusione, etc. Il sig. Brignole-Sale fece la prolusione,
che dicono un pasticcio, indi il Gian Carlo Di Negro recitò una breve
poesia; ma chi colse tutti tutti gli elogi della radunanza fu Costa di Beverino per un componimento in versi sciolti e, questa è relazione del
Bue Muto, assai bello in cui figura il Paganini che suona e poi fece vedere che l’Italia era sempre la prima e signora di tutte le arti e per il genio che sempre la distingue, quantunque mesta ed afflitta che sia (25).
(23) Ivi, p. 14.
(24) Questa la sequenza, secondo l’indice della plaquette: Sonetto (G.B. Martelli), Terzine (Di Negro), Carme (Costa), Il genio, Canzone (G. Crocco), Cantico (G.
Morro), A Paganini, Canto [Ottave] (A. Crocco), Carme (P. Isola), Ottave (A. Amoretti), Ode libera (G. Ponta), Sonetto (F. Maestri), Canzone (G. Magnini), Fragment
d’un quart d’heure de rêverie (Sibilla Mertens). Per la cronaca della nottata, dalle nove
di sera all’alba, cfr GG 1 agosto 1835, pp. 1-2, e Canale sul «Magazzino pittorico universale» (II, 1835, 30, p.120): «Stava il busto di Paganini collocato sopra un tavoliere,
sedevano cerchio i poeti», tra cui l’estensore esalta soprattutto Lorenzo Costa.
(25) Lettere a Mazzini, p. 53.
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Lo slogan delle Accademie in Villetta è dunque il medesimo di
dieci anni prima: l’Italia è mesta politicamente, forse anche serva, ma
rimane signora delle arti, e scopo della collezione di busti è il promuoverlo e rammentarlo, con evidente funzione consolatoria o surrogatoria. Siamo in anni di ebollizione, in una Genova già sensibilmente
mazziniana, e questa postulazione risulta davvero accademicamente
asettica, se non oggettivamente antipatriottica, come – di risposta alla
sorella – stigmatizza spazientito l’apostolo della nazionale Unità:
Bravo il Di Negro, e il Costa e il Morro! Certo, l’Italia è la più
grande fra tutte le nazioni, dacchè Paganini suona bene il violino – stolidi quelli che non si contentano di questo, e cercano altro (EN, XI,
1911, pp. 48-9).
Ma a scompaginare la bucolica sequenza dei busti due anni dopo
giungerà l’orazione su Colombo di Pietro Giordani, che «venne
espressamente da Parma» (26) la cui pubblicazione fu proibita. Fu
stampata quasi un ventennio dopo, morto l’autore, ed anche raccolta
in una sorta di postumo rendiconto dell’evento con il solito corredo di
liriche e con l’indicazione di nuovi poeti per Colombo (27). L’orazione
(26) Così Maria Mazzini al figlio il 27 luglio 1837 (Lettere a Mazzini, p. 413), ma
in realtà Giordani partiva da Torino, soggiorno più grato (cfr. Lettera da Torino del
19 luglio 1837 ad Alessandra Tommasini, Parma: «Domenica mattina partirò per Genova, ma voglio ritornar presto», P. GIORDANI, Lettere, a cura di G. Ferretti, Bari, Laterza, 1937, II, p. 128). «Una splendida illuminazione folgorava in ogni parte di quel
fioritissimo colle, e le musiche militari lo faceano risuonare di frequenti, liete armonie» (GG 29 luglio 1837); il giornale ufficiale di città non cita né la presenza né il discorso di Giordani, ricordato invece dal Canale sul «Magazzino pittorico universale»
(IV, 1837, 8, p. 32): «Dopo la prefazione di Pietro Giordani che rese più augusta
quella lieta adunanza ed al quale tornerebbe vana ogni parola d’encomio, come a tale
che Italia tutta ha in cima d’ogni pensiero, il Dinegro intonò il primo poema dell’onorata corona».
(27) Nuove liriche d’illustri italiani in lode di Cristoforo Colombo, Genova, Garbarino, 1855, senza indicazioni di sorta, che si apre con il discorso del Giordani del
1837; seguono le poesie: Il monastero di S. Maria della rapida (G.B. Cereseto), Per la
solenne dedicazione del monumento di Colombo (J. Doria), Cristoforo Colombo - sonetto (G.C. Di Negro), Le ultime parole di Cristoforo Colombo (A. Crocco); Cristoforo
Colombo - canzone (G. Morro), Cristoforo Colombo - canzone (P. Giuria), La scoperta
di America (traduzione da Angelo di Saavedra duca di Rivas), Cristoforo Colombo -
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STEFANO VERDINO
non sembra certo sovversiva, tuttavia astiosa verso il proprio tempo
per un cenno sul misconoscimento del Genio, come in altri tempi capitò a Colombo e Galilei, i due simboli eminenti di “martirio” clericale per il laicismo ottocentesco:
Pur troppo non mi vien da temere crudeltà di viventi contra Colombi e Galilei, i quali non abbiamo, né potremmo aver noi, generazione prosontuosa di desiderii, paralitica di volontà. Ben potrebbe qualche
Galileo forse o Colombo nascere tra i nostri nipoti. E credete voi che
troverebbe affatto spenta la rea e sempre vivace semenza degli avversarii
d’ogni bene e d’ogni buono? Credete voi che il portatore di luce sarebbe almeno difeso potentemente contro gli amorosi delle tenebre; per le
quali tanto ingrassano quanto ingannano, e tanto ardiscono quanto non
temono? Giova pertanto che gli amici del vero e del buono sieno fatti
vergognare di lasciarlo incatenare e torturare, abbandonato alla compassione e reverenza dei posteri.
O mio buon Marchese Di Negro, tanto caro ai vostri amici molti,
non perirà il vostro nome: e sarete presso i futuri lodato anche di pio alla
santa memoria dell’uomo grandissimo, di cui la terra vostra e sua contese
già, con ambiziose ed oziose dispute, l’onore di esser madre; la quale certo non gli fu nudrice. Quanto cara e speciosa eredità di nome lascerete ai
nipoti! Quanto si compiaceranno di udirsi rammentare come nel tempo
di loro fanciullezza, nel giorno 26 di luglio dell’anno 1837, l’Avolo amato
a felice in questo paradiso della Villetta, ornamento caro della bellissima
Genova, radunasse splendidamente il flore della città e de’ forestieri, non
tanto per celebrare il gran Genovese (al quale credo poco abbisognino i
nostri applausi), quanto per consacrare ad eterna oblivione i suoi nemici;
e spaventare colle solenni esecrazioni gli eredi (che non son tutti morti) di
quella ignoranza insolente e di quella feroce viltà (28).
Orazione «bella assai e franca anche un poco», per dirla con
Francesca Mazzini, che la riassumeva il 4 agosto per l’esule ingleode (F. Maestri), Cristoforo Colombo - canto (E. Celesia), Cristoforo Colombo (G. Parini), Due sonetti (G. Crocco), Cristoforo Colombo (G. Guacci Nobile), Sonetto (G.
C. Di Negro), Trois jours de Christophe Colomb aux américains (C. Delavigne). Si può
presumere che gran parte dei testi (tranne Cereseto, Giuria, Celesia) fossero quelli del
rito in Villetta del ’37. Il discorso del Giordani è poi compreso nel V volume degli
Scritti a cura di A. Gussalli (Milano, Sanvito, 1857).
(28) Nuove liriche d’illustri italiani in lode di Cristoforo Colombo, pp. 7-8.
GLI AMICI DEL MARCHESE
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se (29), a segno di soddisfazione condivisa dai progressisti di città. Come la data esibisce ci troviamo a quaranta giorni soli di distanza dalla
morte di Leopardi ed è probabile che Giordani, fresco di un lutto
pressoché filiale, abbia sfogato – pure senza far nomi – la sua rabbia
per la misconoscenza dei tempi pensando proprio al malpensante amico (30). Ad onore di Di Negro sta il fatto di avere reiterato l’invito allo
stilista di Piacenza tre anni dopo, ma questa volta a distanza, come
prefatore del nuovo opuscolo (31). Questa volta il busto era per un
(29) «All’incirca disse che se Galileo aveva regolato il mondo, esser più grande
quegli che uno ne scopriva; ma più gli uomini faceano opre a vantaggio dell’umanità,
più erano inventurati e finivano sui roghi od in esilio, etc. Non si sa se sarà permessa
la stampa» (Lettere a Mazzini, pp. 416-7).
(30) Se ne ha implicita conferma dall’epistolario del Giordani, nella scelta del
Ferrucci: a vari interlocutori (Paolo Toschi, la citata Tommasini, Pietro Zambelli, Caterina Franceschi Ferrucci, Pietro Brighenti) nel luglio ‘37 da Torino esprime il suo dolore, «disperato» di non poter omaggiare degnamente Leopardi nelle «tante miserie
d’Italia» (Lettere, cit., II, p. 129). In particolare nella già citata lettera alla Tommasini:
«Mi venne anche subito in mente di scriverne un piccolo elogio; ma è una disperazione
il pensare che non si può quasi nulla dire di quello che più si dovrebbe, perché è quasi
impossibile di stampare in Italia un pensiero ragionevole, o un fatto importante» (Lettere, cit., p. 128). E sulla misconoscenza dei tempi per Leopardi a Caterina Franceschi
Ferrucci il 22 luglio: «Avrà intesa la morte del povero Leopardi. Tanto ingegno e tanto
infelice! Mi assedia e mi stringe questo pensier doloroso, e mi empie di tristezza profonda, che non mi lascia goder niente del molto bene che trovo in questo magnifico
paese. Non è da dolere che siasi liberato di questo mondo non degno di lui, ma che abbia dovuto per 40 anni desiderare di uscirne» (Lettere, cit., p.130).
(31) Nitido è il profilo di Biondi evidenziato anche con la modestia del suo spicco intellettuale, senza alcun camuffamento, e puntando a una «decenza» che sarà poi
un requisito essenziale anche per Montale: «Poichè a Luigi Biondi non fu impedito il
farsi agiato, e conte e marchese. Nè per ottener amore e riverenza dagli uomini liberi
gli fu necessario di astenersi dalle invidiate (e invidiose) Corti; com’era consiglio del
poeta cortigiano di Augusto. Per acquistare benefizi di principi e grazia di tre re, non
gli bisognarono odiosi o turpi servigi, nè viltà di adulazioni: gli valsero quelle arti medesime che gli procacciarono in ogni parte d’Italia tante amicizie d’uomini lodati; l’ingegno polito e ornato di lettere,piuttosto amene che gravi; la conversazione urbanissima, la moderazione e decenza de’ costumi, l’equabile perseveranza nelle affezioni. A
lui (come si direbbe in istil vecchio, e consenso virgiliano) furono sopra ogni cosa dolci
le Muse: provossi in varii generi di poesia; fece del suo; volgarizzò de’ primarii latini:
piacque a coloro che sino ad oggi si ostinarono di avere in riverenza ed amore gli
esempi sommi dell’arte; nè si smossero al sentire vituperata quasi servile e caduca ti-
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STEFANO VERDINO
contemporaneo di fresca morte, oratore fu Lorenzo Costa (32). Se non
c’è molto da dire sull’ultimo busto celebrato in versi per il Canova (33),
dove tutto a questa data è retrò, vale forse la pena, a postilla, ricordare
altri tributi, questa volta del tutto in proprio, senza apparati scenografici in Villetta. Il collezionista di amici si mostrò sempre generoso non
solo con gli illustri ospiti forestieri, ma anche con i propri concittadini,
a partire dal sodale Brignole Sale, più volte volto in versi (34), a Corvetto (35) ai fratelli Serra (36) e al padre Assarotti, tanto sconvolto per la
«morte di lui ch’era mia vita» (37), da svenire ai suoi funerali, come attesta il Banchero (38); purtroppo gli elogi e le Odi ai suoi concittadini
midezza la vereconda osservanza del vero o verisimile. e tra i veri la scelta amorevole e
giudiziosa del buono e bello» (P. GIORDANI, Scritti, cit., p. 278).
(32) Per cui vedi quanto ne scrive Franco Arato in questi Atti.
(33) Per la solenne dedicazione del busto di Antonio Canova, Genova, Sordo-muti, 1842; tra i poetastri, ricordiamo il Ponta.
(34) Ad esempio per la nomina a Sindaco di Genova: «L’aura popolar or ne fa
fede, / E il cenno amico del regale ciglio / Per cui sparve l’idea d’ogni periglio / Qui
u’ secura l’arti han bella sede» (GG 1 gennaio 1825). Nelle tarde sestine di bentornato vi si dipinge il condiviso moderatismo politico: «Nelle discordi idee, / Che agitavan
d’Europa le contrade, / Utili in parte e ree, / Senza confin in preda a libertade, / Era
pensier maturo / In te di preveder l’urto futuro» (Per il felice ritorno in patria del marchese Antonio Brignole-Sale canzone, Genova, Sordo-Muti, s.d., p. 6).
(35) Con menzione dell’astro napoleonico: «un astro apparve / Di gran luce
e speranza / Nel disordine politico del mondo, / E che dei sofi le sognate larve / Di libertà e uguaglianza / In pria fugò di molto ben fecondo: / Ma spinto il corso suo troppo lontano / Sparve, infausta cometa, al guardo umano» (Odi I, p.34).
(36) Cfr. l’ode in memoria di Gio. Carlo Serra in Odi I, mentre Gerolamo Serra
fu omaggiato con l’epitome versificata della sua Storia: «Le tue bell’orme, d’amor patrio dono, / seguo da lunge e riverente adoro; / So che le laudi nuove a te non sono, /
Bello ti cinse un dì civico alloro, / Ora in fronte il regal raggio ti splende / In queste
dell’età varie vicende» (G.C. Di Negro, Le storie di Genova scritte dal marchese Girolamo Serra e da Carlo Varese, Genova, Pagano, 1837, p. 5).
(37) In morte di Ottavio Assarotti – visione, Genova, Ponthenier, 1829, ristampa
Genova, Sordomuti, 1901 (da cui si cita), p. 6; «Entro la claustrale angusta cella, / Degl’infelici mutoli a conforto, / Tu il vedresti crear nuova favella; // E a guisa di parlar veloce e corto, / Con figure alfabetiche segnate, / Vincer di lor caducitade il torto» (p. 8).
(38) «Ma più di ogni altro affezionatissimo apparve il M. Gian Carlo Di Negro,
che nel giorno del funerale svenne di tenerezza e di ambascia durante il servizio funebre» (G. BANCHERO, Genova e le due riviere, Genova, Pellas, 1846 p. 142).
GLI AMICI DEL MARCHESE
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(1828-29) (39), plauditi anche da un giovane Mazzini (40), sono viziati da
una magniloquenza pass-partout che trattiene ben poco di uno specifico del commemorato, ma va comunque ascritto a sua lode che in lui la
smania commemorativa è più forte di altre remore di cautela politica,
penso in particolare a due odi del ‘28 indirizzate a due reprobi giansenisti come il Palmieri (41) e soprattutto il Degola, condannato davvero
al silenzio nella Genova dell’Arcivescovo Lambruschini:
(39) Brignole Sale è anche il dedicatario delle Odi liriche alla memoria di alcuni suoi ottimi concittadini, Genova, 1828-29 (in due volumi): Prima serie, 1828: Giuseppe Solari, Luigi Serra, Bernardo Laviosa, Giacomo Filippo Durazzo, Gio Carlo
Serra, Anna Brignole, Luigi Corvetto, Eustachio Degola, Luigi Carbonara, Luca Solari, Vincenzo Palmieri, Giuseppe Cambiaso. Seconda serie, 1829: Agostino Lomellini, Pietro Paolo Celesia, Giuseppe Biamonti, Francesco Pezzi, Ippolito Durazzo,
Gaetano Marré, Angelo Bancheri, Michelangelo Monti, Niccolò Traverso, card.
Giuseppe Spina.
(40) «Lode a chi sente il tacito voto della patria, e coraggiosamente lo appaga!
Gloria a chi onora di libero carme gli estinti a conforto, ed incitamento dei buoni che
sono! A sì nobile fine tendono le odi liriche consecrate dall’illustre di Negro alla memoria di alcuni suoi ottimi concittadini, e noi ammiriamo in esse l’utile Poeta, e applaudiamo al buon cittadino, che sa giovar coll’esempio ai bisogni della nazione»
(«Indicatore Genovese» 27, 8 novembre 1828, p. 103); ripreso dalla governativa
«Gazzetta Piemontese» (15 novembre 1828, p. 1053) con questo amichevole cappello:
«Era nostro pensiero di rendere un giusto tributo di lode all’egregio letterato Genovese, il Marchese Gian Carlo di Negro, per alcune sue Odi liriche alla memoria di varii
fra i suoi più illustri concittadini; ma ci troviamo con piacere antivenuti in quest’uffizio tutto patrio dai Compilatori dell’Indicatore Genovese, che nelle poche linee seguenti hanno toccato nobilmente del pregio principale di esse poesie, e sciolto col
Ch.mo A. il debito della riconoscenza». Che l’autore di questa encomiastica nota fosse Mazzini fu già supposizione di F. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del
suo pensiero letterario, Milano, Risorgimento 1919, p. 92. Una implicita riprova viene
da una lettera di Francesca Mazzini al fratello su un articolo dell’Apostolo su poesie
di Di Negro, poi non giunto alle stampe: «Ricordo [...] un articolo che mi leggesti
quando eravamo assieme da te composto sulle poesie del sig. Di Negro [...]. Io non
saprei precisare più, ma ricordo sempre tale tuo articolo che doveva inserirsi sull’Indicatore Livornese ma che nol fu perché venne soppresso» (Lettere a Mazzini, p. 358).
L’opera fu recensita anche dal pretesco «Giornale Ligustico» (1828, II, 5, pp. 47582), con una nota assai digressiva, generiche lodi e qualche appunto.
(41) «E ad impugnar secura / Di Voltaire, e Wolney l’empia dottrina, / Che indarno i dardi affina / Contro quel che la genesi racchiude, / Unica norma e pura / In
cui l’opre di Dio schierate stanno, / Valse la tua virtude, / Che con mirabil’arte / Tu
brillar festi nelle dotte carte» (Odi I, cit., p. 45).
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STEFANO VERDINO
Quanto l’uman Pensiero
Misurar può di Dio l’alta possanza,
Il sommo magistero,
E da questo mar di pena e di speranza,
Dai tuoi libri traspar, ed è argomento
Del tuo verace ardor unqua non spento.
Or più non fia che opprima
Invidia il cener tuo, che posa in pace (42).
Va dato atto al Di Negro di un tratto generoso, anche se temperato sempre dal suo ingombrante narcisismo necrofilo, che fece perdere la pazienza a Mazzini, deluso dalla mancata protezione (economica)
dal suo antico padrone di casa, tanto da sfogarsi con la madre sull’eccesso di cerimonialità funebre:
Sento della Villetta, e del busto di Colombo, e del Giordani, e di
tutto. Mi figuro l’entusiasmo pel Giordani; e mi piace s’onori Colombo;
ma Colombo moriva di stento all’estero per l’incuria e per l’avarizia del
suo paese; e mille altri figli della sua terra muoiono di stento e di dolore
lontano, in esilio o in prigione: e non s’onorerebbe meglio un uomo
grande cercando di ridonare bei giorni di libertà alla sua patria, e agli
uomini che nacquero sul suolo stesso che lo ebbe fanciullo? Oggi, onorando i morti, noi ci svincoliamo benissimo da ogni debito verso i vivi
(9 agosto 1837, EN, XIV, 1912, p. 59).
Ragguardevole la risposta della veneranda madre dell’apostolo al
proposito:
Dici ottimamente parlando degli onori che il Di Negro fa agli
estinti ed in genere sai tu perché ciò si prodighi: per ambizione propria,
invece che impiegando i denari a pro di tanti eroi infelici ed esuli e per
cose più intrinsecamente e più sacre e sante gli parrebbe denaro gettato.
(42) Odi I, cit., p. 36. Sulla censura della stampa genovese per la morte del Degola cfr. l’introduzione di E. CODIGNOLA, Carteggi di Giansenisti liguri, Firenze, Le
Monnier, 1941, I, pp. ccli – ccl- cclix, dove si ricorda il vano tentativo del Marchese
Di Negro di stampare un Sonetto “in morte”; solo sulla «Gazzetta piemontese» del 16
febbraio uscì un «anodino necrologio» (p. cclii), redatto dallo stesso Di Negro, oggetto di uno scambio di lettere tra il Gally e l’abate Luigi Boselli, il “vice” di Assarotti (si
leggono alle pp. cclii- ccliv).
GLI AMICI DEL MARCHESE
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Oh, caro mio, l’uomo è di fango e sente del pari e colui che si sublimi
scostandosi dalla sfera comune non è compreso a giusto valore che da
quei che sanno che significhi dignità propria e vera sublimità dell’uomo.
Ma! Lo ripeto, in massa siam fango e poi fango. Declamerei tanto su
questo articolo e quando mi penetro di tale verità, schiaccerei tutto il
genere umano (43).
Tanta giansenistica durezza – che sarebbe stata assai cara al Degola – comporta una sorta di impietoso parallelo tra la sublimità del
martire figlio e la fangosa vanità del facoltoso Marchese, minando la
credibilità del suo mecenatismo. Per Casa Mazzini il paziente del dottor Giacomo era oggetto – si è visto a più riprese – di “ceto” tra ironico e bonario (44), probabilmente i suoi ex-inquilini con il tempo s’irritarono di non riuscire – nonostante la confidenza – a guadagnarlo con
risorse alla causa, ma da questo lato, anche da ben altro versante, il disponibilissimo Marchese aveva dato prova di evanescenza pecuniaria (45). È significativo perciò che la prima citazione di Di Negro nel(43) Lettere a Mazzini, p. 422.
(44) Vedi ad esempio la lettera dell’8 dicembre ’37: «Il sig. Gian Carlo Di Negro
facea un sonetto in onore della presa di Costantina che venne trasmesso a Luigi Filippo dal ministro francese a Torino ed in benemerenza gli fu mandata dal Re cittadino
una medaglia in oro del valore di 400 franchi coi ritratti del Re e Regina ed inciso il
nome del marchese Di Negro con non so che altro motto di gratitudine. Figuriamoci
il contento del Di Negro! Oltre che pranzando egli qui col Sovrano dicesi avergli detto che gli volea tanto e tanto bene: quante mai gioie per quel buon uomo! Se la sig.
Laura fosse in piena salute saprei ogni dettaglio di fatti cotanto avventurosi per essa,
ma per quanto dessa pare in miglioramento non è certo ancora nel caso di trattenersi
delle glorie di suo padre. Per quanto poi sia vero fumo il pascolo di taluni, io ne godo
col Di Negro essendo egli un benemerito amatore delle scienze non che degli scienziati. Altro non fosse che la sola tendenza che dimostra ad onore del bello è sufficiente
per aver un certo diritto agli affetti d’ogni buona persona e così facessero lo stesso tutti quei ricchi patrizi che forse il deridono di più per non aver la virtù d’imitarlo. Se ne
saprò in seguito te ne dirò, posto il mio stile di dirti quel ch’io sappia in generale d’ogni cosa e d’altronde se facessimo conversazione a viva voce non parleremmo d’ogni
bagatella?» (Lettere a Mazzini p. 457).
(45) Anche il Cesari ne farà prova, per cui vedi il mio studio La mano del padre
Cesari nella Miscellanea di Studi per Gian Paolo Marchi, Pisa, ETS, 2011. Il Cesari fu
ammirato ospite della città e della Villetta nell’autunno del ’27 come scrive il 25 ottobre ‘27 ad Antonio Chersa a Ragusa: «Genova superò ogni mia aspettazione, e mi
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STEFANO VERDINO
l’epistolario mazziniano sia in una lettera al Melegari del marzo ’34 in
cui il nome patrizio è il primo di una lista di persone cui mandare la
stampa della Lettera a Ramorino (46) (EN IX, 1910, pp. 232-3) e l’ultima, invece, sia in una lettera alla Madre in cui chiede di ringraziarlo per l’ospitalità verso propri amici inglesi in visita a Genova (EN,
XXXII, p. 99) (47).
Peraltro la delusione di Mazzini riguarda tutta la vecchia aristocrazia genovese, che nell’avvio della sua attività politica aveva pensato
di coinvolgere, puntando sull’insofferenza verso l’annessione sabauda:
cospireranno cent’anni, e non faranno mai nulla – di più, non sono né
possono essere con noi – non temono, benché lo dicano, leggi agrarie,
ma la parola eguaglianza è antipatica – sognano, senz’ardire di formularla, la repubblichetta antica del patriziato (48).
scosse di meraviglia della bellezza del suo porto, magnificenza de’ palagi, postura del
sito e vaghezza di deliziosi prospetti. Se non che debbo dire; quello che a pezza me la
rendette più cara e più bella, fu la cortesia smisurata e le infinite carezze fattemi dal
vostro Sig. Gian Carlo Di Negro, che mi beatificò della sua meravigliosa villetta posta
dentro della Città, che è veramente un fascino ed un teatro di tutte eleganze» (A. CESARI, Delle lettere, a cura di G. Manuzzi, Firenze, Passigli, 1845, I, p. 154); il Cesari compose anche un Sonetto d’omaggio per la Villetta, qui citato nel saggio di Franco Arato.
(46) Lettera della Congrega Centrale della Giovane Italia al Generale Ramorino,
13 febbraio 1834, scritta dopo il fallimento del moto mazziniano in Savoia.
(47) Interessanti alcune lettere alla Madre su Di Negro, al momento della fondazione dell’«Espero»: «Se il profitto del giornale proposto dal Dinegro è destinato ai
Sordo-muti, la sua è una bella e buona azione» (20 febbraio 1840, EN, XIX, 1914, p.
4); poi tra curiosa attesa e dubbi sull’arcadismo del finanziatore: «Se mai venisse ad
escire l’Espero, ne vedrei volentieri il primo numero almeno; e sono convinto che il
Signor Dinegro medesimo non avrà difficoltà, se ne venisse richiesto, d’inviarne una
copia […]. Confesso nello stesso tempo che ne auguro poco bene. Sarà letteratura
fredda, arcadica, di punti e virgole, che non fa al caso nostro» (26 febbraio 1840,
ibid., p. 13). Infine: «Vedo anche l’incertezza del Signor Dinegro quanto al giornale, e
penso che farà meglio a smetterne l’idea, meglio far nulla che fare male» (19 aprile
1840, EN, XIX, 1914, p.32). Rimase pur sempre aperto un rapporto privato, come il
25 giugno ’42: «Lodo l’interesse di Giancarlo Dinegro, benché tutto ciò che sa di dimanda di grazia mi noia» (EN, XXIII, 1915, p. 198). Di Negro sarà poi sottoscrittore
delle opere di Carlo Bini, promosse da Mazzini (Cfr. alla Madre, 5 marzo 1844, EN,
XXVI, 1917, p.90), ma scriverà anche un epigramma antimazziniano, che si legge nella raccolta del 1848 ed è citato dal Mannucci, p. 92 e qui da Beltrami.
(48) A Melegari, cit.
GLI AMICI DEL MARCHESE
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La frase è spesa all’indirizzo di Antonio Brignole Sale, ma di evidente estensione agli amici della Villetta, che era indubbiamente il versante del patriziato a un tempo più influente e avvicinabile da Mazzini. Ma è anche il segno di un irreversibile declino di una classe dirigente, avviata a ruoli solo rappresentativi e non più politici, tutta impegnata anzi a incrementare la propria dimensione “scenica” su ogni
altra dimensione. E la concentrazione e l’identificazione dei riti in Villetta può essere in qualche modo l’ultimo sigillo di una voluta scelta di
fatuità e disimpegno, rispetto a quanto bolliva a pieno fuoco in pentola.
Nel febbraio del ’39, rendicontando della scarsa attività letteraria
in città, Maria Mazzini ha una perfida indulgenza nel qualificare, alla
fine, come «il più onesto» Di Negro per via di una non esaltante equivalenza della sua attività: «inezie, poesie»:
Non puoi credere quanto siam barbari circa alle nostre cose letterarie. Nessuno se ne occupa e quelli che lo fanno, sono inezie, poesie
come lo fa Gian Carlo Di Negro, ed è il più onesto. Altri si occupano di
stampe, scritti, etc. non solo in senso della corrente, ma ben anco, che è
peggio, per brighe, mire d’interesse proprio o spirito pravo di partito,
molla tanto esercitata a questi tempi e credo io diretta e fomentata dai
Gran Neri regnanti ovunque, ma in grande da noi (49).
Qui sono significativamente presenti tre Genova intellettuali: la
sentinella mazziniana, le “brighe” gesuitiche, e comunque del partito
reazionario, ed infine la Villetta, inutile con onestà.
I vari luoghi di Genova, dal porto alla Berio ai ripari mazziniani
ai Sordo-muti alla Villetta, sono tutti presenti anche in una memoria
di un Tommaseo quanto mai fuggiasco pronto a bersi il suo soggiorno
per poche ore: ma nel suo caso la celebre Villetta fu vista solo dal di
fuori, dal momento che – osserva Tommaseo – «Non tutti i marchesi
letterati sono impunemente accessibili» e tutto sommato gli risultava
più congeniale chiacchierare col nemico padre Spotorno:
Marsiglia 6-7 febbraio 1834.
A Genova conobbi il padre Spotorno, gli domandai del suo giornale. rispose che i librai lo tradiscono – «E quali altri giornali sono al
presente in Italia?» Ne nominò qualcuno – Ma l’Antologia che cos’era?
(49) Lettere a Mazzini, p. 617.
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STEFANO VERDINO
– copiosa e varia. per queste due doti il migliore d’Italia. – Ma lo spirito? – Lo spirito (sorridendo) pare che non piacesse. Poi soggiunse: ora
dicono sarà soppresso del pari il Progresso.[...] Domandai poscia de’
giovani genovesi d’alcuna speranza. Rispose: male. – Domandai del
Mazzini. «Gente senza studii, buona a montare una nave e andare a
combattere». E sorrideva. Interrogato quindi circa il governo di Carlo
Alberto e lo stato di Genova, disse cose soavissime, e vorrei che tutti i
frati d’Italia somigliassero un poco al nemico dell’Antologia di Vieusseux. Dopo un lungo discorso, anzi esame, venne a lui voglia di scoprire
il mio nome. «Oscuro nome, ch’Ella non ha sentito mai certamente
rammentare. Nicomede Tessini» (50).
Andai per conoscere il Boselli (51): non v’era. Del Marchese di
Negro mi contentai guardare le delizie al di fuori. Non tutti i marchesi
letterati sono impunemente accessibili. Ammirai il porto e il prospetto
della città, e gli animosi e svegliati uomini, e le donne piacevoli, e studiai gli uni e gli altri in una festucciaccia da un franco, e fino il dialetto
non mi dispiacque; e Genova mi parve città di non vane speranze (52).
La Villetta è il luogo elevato e distaccato da una città e per
quanto il Marchese ne volesse essere il cantore, è pur vero che molta
Genova gli sfuggiva o risultava più o meno lontana dei suoi bastioni.
Sarebbe interessante una mappa dei luoghi di cultura della Genova
della restaurazione che ci configurerebbe una Genova policentrica e
(50) Il padre Spotorno a quella data aveva una ben chiara idea di Tommaseo, citato – con simpatia – già sul primo numero del «Giornale Ligustico», perché chiamato in causa per una sua nota dantesca contro il «censore» del Cesari sulla «Biblioteca
italiana»: «Ora il Sig. Niccolò Tommaseo, e qualche articolo eziandio dell’Antologia
di Firenze, potranno far vedere al Censore, che nulla ebbe di comune la politica di
Dante con quella de’ moderni; e che il Perticari non mostrò giammai qual sia la forza
dell’eloquenza, come allorquando potè far credere a molti essere stato il petto dell’Alfieri caldo di un santo e purissimo amor d’Italia». Inusualmente civile, dato il caratteraccio del padre Spotorno, la successiva polemica con il Tommaseo a proposito dell’interpretazione del verso dantesco «al tempo degli dei falsi e bugiardi» sul «Nuovo
giornale ligustico» del 1831, in cui si omaggia «il nobile ingegno del commentatore»
perché «egli merita per le sue utili fatiche a benefizio degli studiosi» (p. 476).
(51) Probabilmente Luigi Boselli, discepolo di Assarotti, suo successore come
direttore dell’Istituto Sordo-Muti, cfr. P. Tamagnini Piras, DBI.
(52) N. TOMMASEO, Un affetto - Memorie politiche, a cura di M. Cataudella,
Roma, Storia e Letteratura 1974, p.55.
GLI AMICI DEL MARCHESE
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anche per più parti giustapposta: da un lato il laboratorio reazionario dell’Arcivescovado e della varia preteria, annidata con il padre
Spotorno anche nella Civica Biblioteca; dall’altra la fucina mazziniana e i gabinetti di lettura dei librai Ricci e Gravier (53) e Beuf, infine
il Carlo Felice, l’Acquasola e l’Istituto dei Sordo-muti, le tre assai diverse pubbliche postazioni in cui le diverse Genova potevano incontrarsi. Tra questi luoghi la Villetta per un quarantennio fu un sito di
passaggio obbligato per il visitatore illustre ed anche la sede di Accademie dei notabili di città, che giocavano alla letteratura, in una città
priva di tradizione letterarie e di robustezza pubblicistica, tanto da
sembrare una «cloaca» ad una milanese, più volte ospite della Villetta, come Bianca Milesi. Nella consueta latitanza genovese di istituzioni culturali la Villetta del Marchese bene o male è stata un simbolo nazionale ed internazionale, con un meritato prestigio di messa in
scena più che di altro. D’altronde cosa pretendere di diverso da una
Villetta?
(53) Su cui Mannucci, cit., p. 11.
An. Veduta dell’Acquasola e della Villetta, 1830 c.
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Verdino pp. 45-66 - Accademia Ligure di Scienze e Lettere