la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vi
Milano
n.1 – gennaio 2014
BIBLIOFILIA
«Questi non
sono tempi
per libri»
di giancarlo petrella
SUL ‘PRINCIPE’
Niccolò
Machiavelli,
primo costituente
di teodoro klitsche
de la grange
LETTERATURA
J.R.R. Tolkien
signore
della fantasia
di errico passaro
LIBRO DEL MESE
Augusto, la vita
raccontata
da lui stesso
di lorenzo braccesi
FEDERICO FELLINI
Un sommo
regista nel
ricordo di un
grande scrittore
di piero meldini
Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione
la Biblioteca di via Senato – Milano
MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VI – N.1/47 – MILANO, GENNAIO 2014
Sommario
6 BvS: Letteratura del Novecento
J.R.R. TOLKIEN, SIGNORE
DELLA FANTASIA
Errico Passaro
10 Bibliofilia
«QUESTI NON SONO
TEMPI PER LIBRI»
Giancarlo Petrella
21 Editoria
MONDADORI, EDITORE
A VOLTE “NON VENALE”
di Massimo Gatta
quarta e ultima parte
25 Sul Principe
NICCOLÒ MACHIAVELLI,
PRIMO COSTITUENTE
Teodoro Klitsche de la Grange
seconda e ultima parte
33 IN SEDICESIMO – Le rubriche
LE MOSTRE – LA NOTIZIA –
L’EDITORE DEL MESE
a cura di Luca Pietro Nicoletti,
Mario Bernardi Guardi
e Tommaso Piccone
50 Punture di penna
CONSIGLI INTELLETTUALI
PER IL VERO MAÎTRE À PENSER
di Luigi Mascheroni
54 Il libro del mese
AUGUSTO, LA VITA
RACCONTATA
DA LUI STESSO
di Lorenzo Braccesi
59 L’Altro scaffale
RARITÀ LETTERARIE:
EDITORIALI E
GIORNALISTICHE
di Alberto Cesare Ambesi
63 Il Ricordo
UN SOMMO REGISTA
NEL RICORDO
DI UN GRANDE SCRITTORE
di Piero Meldini
66 Filosofia delle parole e delle cose
L’ORDINE PERFETTO
E IL DESIDERIO INFINITO
di Daniele Gigli
70 BvS: il ristoro del buon lettore
GITA AI BALZI ROSSI
di Gianluca Montinaro
72 HANNO COLLABORATO
A QUESTO NUMERO
Fondazione Biblioteca di via Senato
Biblioteca di via Senato – Mostre
Biblioteca di via Senato – Edizioni
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Marcello Dell’Utri
- Mostra del Libro Antico
- Salone del Libro Usato
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Immagine di copertina
J.R.R. Tolkien in una foto del 1945
L’Editore si dichiara disponibile a regolare
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Stampato in Italia
© 2014 – Biblioteca di via Senato
Edizioni – Tutti i diritti riservati
Reg. Trib. di Milano n. 104 del
11/03/2009
Editoriale
N
uovo anno. Nuovi propositi.
Nuove sfide. Il 2014 si presenta,
per tutti, difficile ma stimolante.
Anche per la Biblioteca di via Senato.
La nostra fondazione si impegnerà su un
doppio fronte. Da una parte proseguirà nelle
abituali attività di studio e catalogazione
dei tanti volumi che giornalmente entrano
nei Fondi, oltre che nella pubblicazione
di questo mensile. Dall’altra (attraverso
un programma di incontri, conferenze
e presentazioni che presto sarà reso noto)
si dedicherà alla divulgazione del proprio
patrimonio librario e al ricordo di alcune
fra le tante ricorrenze che cadono quest’anno
(fra le quali il centenario dell’attentato
di Sarajevo e dello scoppio della I Guerra
Mondiale e il bicentenario della morte
del grande filosofo tedesco Johann Gottlieb
Fichte). Sarà quindi un 2014
di pieno lavoro, con rinnovato vigore ed
entusiasmo. Un augurio che ci permettiamo
di rivolgere anche ai nostri lettori.
Gianluca Montinaro
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la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
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BvS: Letteratura del Novecento
J.R.R. TOLKIEN, SIGNORE
DELLA FANTASIA
Riflessioni sul creatore del Signore degli Anelli
ERRICO PASSARO
S
coccano i quaranta anni
dalla morte di J.R.R. Tolkien (1892-1973), e la ricorrenza diventa l’occasione
propizia per una messa a punto
sull’attualità del professore di
Oxford.
Tolkien figura fra gli scrittori più influenti dello scorso secolo. La scelta dell’aggettivo “influenti” non è casuale: si possono
citare decine di romanzieri più
talentuosi, o più impegnati politicamente, o più attenti alle problematiche sociali o
anche solo più vincenti nelle classifiche di vendita;
ma pochi autori come l’inventore della Terra di
Mezzo hanno saputo influire su generazioni successive di lettori in tutto il mondo, segnando l’immaginario collettivo in un virtuoso connubio di spessore
letterario e leggibilità. Ne è la riprova il perdurante
successo delle opere ispirate al Signore degli Anelli in
ogni forma mediatica, a testimoniare la straordinaria modernità del “sub-creazione” tolkieniana.
In campo letterario, i romanzi e i racconti di
Tolkien (che la Biblioteca di via Senato conserva in
discreto numero nel fondo dedicato alla letteratura
del Novecento, assieme a svariati volumi di critica,
Sopra: L’universo di Tolkien, illustrazione di Emilia
Di Stefano. Accanto: J.R.R. Tolkien in una foto del 1945
per lo più in lingua inglese) sono
l’esempio di scuola di “long-seller”, ovvero di libri che continuano a essere ristampati e venduti a
distanza di decenni dalla loro prima uscita senza necessità di costosi traini pubblicitari: il gusto per le
avventure di Frodo, Bilbo, Gandalf, Aragorn si comunica in virtù
di un passaparola planetario, tramandandosi verticalmente di padre in figlio e orizzontalmente di
amico in amico. Intorno alla riproposizione dell’“opera omnia” in formato classico, fioriscono mille iniziative di alta gamma, come le
rinomate edizioni illustrate, a riprova che accanto al
libro elettronico può continuare a sopravvivere un
artigianato di qualità sempre ben accolto da acquirenti di ogni età. A ciò si aggiungano le decine e decine di romanzi di continuatori dell’opera di Tolkien,
che dell’originale mutuano la struttura drammaturgica e il retroterra mitologico: fra gli ultimi usciti, citiamo La caduta dei Tre Regni di Morgan Rhodes
(Nord), che narra le storie parallele di tre giovani in
un terra sull’orlo di una guerra finale, o Elantris di
Brandon Sanderson (Fanucci), che parla della caduta di una città divina a causa di una maledizione.
In campo cinematografico è uscito nelle sale
italiane il secondo episodio della trilogia de L’Hobbit, che promette di confermare il successo di botte-
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la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
ghino arriso a quella incentrata su The Lord of the
Rings. In campo ludico, furoreggiano i giochi da tavolo e i videogiochi ispirati direttamente al legendarium tolkieniano, ma quasi tutta la produzione internazionale è una derivazione di quel prototipo. In
campo teatrale e musicale, dilagano le versioni sceniche della saga: solo a citare le rappresentazioni tenute in Italia, potremmo segnalare la sinfonia Il Signore degli Anelli, composta e diretta da Howard
Shore nel sala Santa Cecilia dell’Auditorium - Parco della Musica di Roma nel non lontano 2009, e lo
spettacolo di teatro e musica Ricordi di un Hobbit tra
le note di Keith Jarrett, inscenato nella Casa del Jazz
di Roma nel 2012 con i testi di Sebastiano Fusco e
Gianfranco de Turris. Nel campo dell’oggettistica,
esiste un fiorente mercato di magliette, costumi,
miniature ed altri gadget che i lettori più fanatici
usano per vere e proprie ricostruzioni dal vivo delle
battaglie di Uomini, Elfi, Nani e Gnomi – una sorta
di soft-air in salsa medioevale.
Fin qui, si potrebbe pensare a Tolkien come ad
un mero fenomeno commerciale, ma così non è. Accanto alla produzione destinata alla massa, esiste un
vasto apparato di studi accademici che sviscera i significati più riposti del corpus tolkieniano, fra certosine ricerche di archivio e vulcaniche diatribe scientifiche. Non c’è qui lo spazio né l’interesse ad una
puntigliosa rassegna bibliografica dei saggi usciti in
Italia sull’argomento: ci limitiamo a mettere a confronto due saggi di diversa impostazione ideologica.
Il primo, di fresca uscita, è Tradizione e modernità ne ‘Il Signore degli Anelli’ di Stefano Giuliano
(Bietti). Secondo l’autore, il viaggio nella contrada
dell’Oscuro Signore, oltre che un recupero della
tradizione della “discesa negli inferi”, rappresenta
la proiezione della società industriale (sfruttamento
delle risorse, inquinamento) e un viaggio nella modernità, colta nei suoi aspetti più nefasti. L’opera
pone particolare attenzione alle somiglianze e le divergenze dei personaggi con gli eroi della mitologia
e dell’epica: non mancano riferimenti alti a locuzioni proprie della storia della religione (“morte inizia-
TOLKIEN: LIBRI, EDIZIONI E DEDICHE IN LINGUA ELFICA
La prima edizione italiana de Il Signore degli
Anelli si deve all’editore
romano Astrolabio nel
1967, ma si ferma alla
pubblicazione del primo
volume della trilogia. Nel
1974 Rusconi pubblica i
tre romanzi, ma separatamente, con la traduzione di Alliata di Villafranca Vicky. Solo nel 1977 la
casa editrice milanese ristampa la trilogia nella
sua interezza, in tre versioni: brossura, rilegata e
rilegatura di lusso (que-
st’ultima al prezzo di
160.000 lire, che per l’epoca sono una somma rilevante). Nel 1982 la De
Agostini scolastica ritorna ai volumi separati, a
cura di A. Lugli. Nel 1993
fa la sua apparizione nel
circuito della vendita per
corrispondenza un’ulteriore versione in tre volumi per i tipi del Club degli
Editori. Nel 1997 si giunge alla trentesima edizione completa, sempre accompagnata dalla storica
introduzione di Quirino
Principe. Nel 2000 è la
volta delle prime delle
molte edizioni Bompiani.
Fin qui, quanto è disponibile nelle librerie e nel
mercato del collezionismo; ma chi vuole rifarsi
gli occhi con memorabilia
tolkieniane deve fare una
visita al Greisinger Museum (Jenins, Svizzera): il
primo museo interamente dedicato alla Terra di
Mezzi. Vi si trova una prima edizione del Signore
degli Anelli con una dedica autografa di Tolkien in
elfico «Elainen tarin Periandion ar meldenya anyaran» («a Elaine, regina
degli Hobbit e mia cara
vecchia amica»): il suo
valore attuale è di
73.800 euro ed è il libro
tolkieniano più costoso al
mondo. Altre rarità una
prima edizione Usa
(1955), che Tolkien firmò
per Deirdre Levinson e
una prima edizione della
traduzione italiana, che
lo scrittore dedicò al suo
amico professor Talbot
D’Alessandro.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
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J.R.R Tolkien in un’illustrazione di Anna Emilia Falcone (disegno creato per «la Biblioteca di via Senato»)
tica”, “funzione guerriera”, “itinerario ascetico”),
ma l’analisi condotta secondo gli strumenti più affilati della dottrina non rimane nel contesto di un sapere chiuso, ma rimanda costantemente alla crisi
d’identità dell’uomo contemporaneo e propone ai
lettori modelli di comportamento utili ad affrontare la deriva morale del presente.
Di segno diametralmente opposto è Difendere
la Terra di Mezzo di Wu Ming 4 (uscito per i tipi della
casa editrice bolognese Odoya), un libello animato
da una feroce vis polemica, la stessa che l’anonimo
redattore riserva a chiunque non la pensi come lui.
Ne fa le spese proprio Giuliano, reo – come tanti altri – di aver voluto dare un interpretazione da destra
dell’immaginario tolkieniano. Sotto gli strali di Wu
Ming 4 i riferimenti all’interpretazione neosimbolista e, in particolare, al l’interpretazione del romanzo
di Tolkien come viaggio oltremondano e l’utilizzo
della “tripartizione funzionale” di Dumezil.
Sempre per intenditori è l’uscita de La caduta di
Artù (Bompiani), curato dal figlio Christopher e introdotto da Gianfranco de Turris, tratto dalla congerie di magmatico materiale finora inedito, ma già
conosciuto dagli studiosi. Un poema inedito, incompiuto, 956 versi in quattro canti finiti ed un
quinto lasciato poco oltre gli inizi, a cui il Maestro
pose mano pochi anni prima dello Hobbit ispirandosi al ciclo della Tavola Rotonda. Il mitico re diventa
qui il cavaliere dell’ultima resistenza all’invasione
del male, il campione del Bene nello scontro con il
Male. Nel tentativo di restituire ritmi e metriche
dell’inglese antico in un lessico più moderno, Tolkien si apparenta a un MacPherson novecentesco,
o, se si preferisce un paragone più vicino alla nostra
esperienza, un Carducci che, invece della mitologia
classica greco-latina, si riferisce all’epica nordica.
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Bibliofilia
«QUESTI NON SONO
TEMPI PER LIBRI»
Conti da libraio dietro i Rerum Italicarum Scriptores
GIANCARLO PETRELLA
«S
o che questi non sono tempi per libri,
pure io non ho altro
pane che questo, e farò prezzi da
invogliare chichesia». Così Filippo Argelati, quasi a schernirsi, reclamizzando il suo ultimo catalogo in una missiva a Muratori del
1733, all’indomani dello scoppio
della guerra di Successione Polacca. In effetti, chi volesse farsi
un’idea concreta delle difficoltà
del mestiere di libraio/editore è
invitato a leggere tutte le circa
settecentocinquanta lettere che
compongono la corrispondenza tra Ludovico Antonio Muratori e Filippo Argelati.1 Non erano ancora i tempi delle librerie di catena che soffocano i
librai indipendenti o di Amazon che sconvolge il
mercato della distribuzione, né si profilava minacciosa all’orizzonte la (presunta) quarta rivoluzione
Nella pagina accanto: frontespizio del primo tomo dei
Rerum Italicarum Scriptores. Sopra: L. Castelvetro, Opere
varie critiche di Lodovico Castelvetro gentiluomo modenese non
piu stampate, colla Vita dell’autore scritta dal sig. proposto
Lodovico Antonio Muratori, Berna, [i.e. Milano], nella
stamperia di Pietro Foppens, 1727: esemplare dell’edizione
delle opere di Castelvetro fatta stampare a Milano
dall’Argelati col falso luogo di Berna.
del libro, eppure i problemi nel
comparto libro erano gli stessi:
costi di produzione, copie che
giacciono in magazzino, debitori
insolventi, il libro merce che non
si vende. Le lamentele per una
cronica penuria economica e i
maneggi per ottenere pensioni e
regali da personaggi influenti
rappresentano l’autentico leitmotiv della trentennale corrispondenza tra Muratori e Argelati, capace altresì di svelare umanissimi
e fin qui inediti retroscena di una
delle più gloriose imprese editoriali del Settecento italiano, ossia la pubblicazione a
Milano coi tipi della Società Palatina dei monumentali Rerum Italicarum Scriptores. Se il modenese
Muratori è unanimemente noto, non è invece superfluo presentare al lettore il libraio bolognese Filippo Argelati (1685-1755), figura assai discussa e
addirittura preceduta, a livello storiografico, da
pessima fama di avido mercante, sebbene, alla prova
dei fatti, ancora poco tratteggiata se si esula da qualche contributo e dalla voce a lui riservata nel Dizionario Biografico degli Italiani, peraltro non immune
da qualche inesattezza.2 Nato a Bologna nel 1685,
studiò prima dai Gesuiti, poi si trasferì a Firenze dove ebbe occasione di stringere un forte legame con
l’erudito Antonio Magliabechi e iniziare una corri-
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Dedica dei Rerum Italicarum Scriptores all’imperatore Carlo VI con suo ritratto in antiporta
spondenza, appunto, con Ludovico Antonio Muratori. Tornato a casa nel 1708, ereditò la florida attività libraria dello zio e da qui prese avvio la sua vicenda. Libraio già piuttosto affermato, nel 1720 si
trasferì precipitosamente a Milano. Ufficialmente
per seguire in prima persona le trattative che avrebbero portato alla pubblicazione dei Rerum Italicarum Scriptores di Muratori. Nell’impresa si era invece buttato anima e corpo per recuperare liquidità e
credibilità dopo una brutta vicenda privata. L’Argelati era stato costretto a lasciare Bologna nel 1718 in
seguito a un processo per tentato omicidio e uxoricidio: «Nel anno 1718 habitando Filippo Argellati
libraro ammogliato nel istessa casa dove habitava il
medico Antonio Sebastiano Trombella pure ammogliato, con tal occasione pratticavano assieme
con le loro mogli, uno nel appartamento del altro,
et allora d. Argellati s’innamorò della moglie di d.
medico e perciò fece venire da Firenze Gioseppe
Filisini e Marco Pasquali per occidere il medico
suddetto e poi dar il veleno alla sua moglie e sposarsi con la vedova di d. medico. Scopertosi da questa
corte il mandato prima che fosse eseguito, fu carcerato Marco Pasquali e compito il processo [...] d.
Argellati mandante condannato pure in contumacia alla galera in vita». Quantunque il medico
Trombella, della cui consorte l’Argelati pare dunque si fosse invaghito al punto da prezzolare due si-
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cari per ucciderlo, nel 1720 avesse fatto «la pace al
Argellati esistente in processo e rogata per mano di
notaro», la condanna non fu mai revocata così che
ogni volta che doveva recarsi a Bologna per seguire
gli affari della libreria di famiglia, era costretto a
munirsi di salvacondotto. A Milano, non senza il
fondamentale sostegno del conte Carlo Archinto,
del marchese Teodoro Alessandro Trivulzio e di altri notabili riuscì a fondare la Società Palatina che si
sarebbe occupata della stampa dei Rerum. All’Argelati, che da solo aveva sottoscritto la metà del capitale mentre il rimanente venne diviso nei restanti dieci soci con le relative quote di partecipazione, sarebbe spettato l’onore della direzione tipografica e
editoriale dell’impresa, alla quale collaboravano parecchi eruditi, tra cui il prefetto della Biblioteca
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Ambrosiana Giovanni Antonio Sassi, oltre all’intera responsabilità della vendita dei volumi.
Quali erano i proventi su cui poteva fare affidamento tanto da accollarsi il rischio maggiore? Innanzitutto l’Argelati anche dopo il trasferimento a
Milano, nonostante si confessasse totalmente assorbito dall’impresa dei Rerum e, quasi a scrollarsi
di dosso una fama da mercante, manifestasse la volontà di presentarsi nelle nobili vesti di editore piuttosto che di libraio, continuò a trarre profitto da
quest’ultima attività. Seppure a distanza, gestiva la
libreria di Bologna e durante gli anni trascorsi a Milano aveva intensificato la sua rete di rapporti personali e commerciali, a cominciare da Muratori. A lui
segnalava infatti le novità editoriali d’Oltralpe e inviava costantemente i suoi cataloghi aggiornati,
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Nella pagina accanto: ritratto del Castelvetro
e Vita del Castelvetro composta da Muratori nell’edizione
delle opere del Castelvetro stampata dall’Argelati.
A destra: Incipit della lettera ai lettori premessa dall’Argelati
al primo tomo dei Rerum
pregandolo di voler scegliere qualcosa fra i volumi
selezionati: «Accludo una copia del mio novo indice, dal quale se ella non fa una grossa scelta, sarà segno troppo evidente che non mi vuol più bene»
scrive nel 1724. E quando ciò non accadeva, il libraio se ne doleva assai, lamentando la propria triste
condizione economica: «Non avrei mai creduto
che ella nulla avesse scelto dal mio cattalogo [...] anche questo è un modo di aiutarmi senza lei scapito».
Eccolo allora, nove anni dopo, reclamizzare l’ennesimo catalogo alla stregua di un venditore ambulante qualunque: «quattro esemplari del mio nuovo
cattalogo di libri che raccomando a V.S illustrissima
con tutto il mio cuore. So che questi non sono tempi per libri, pure io non ho altro pane che questo, e
farò prezzi da invogliare chichesia». Persino in anni
di guerra, quando il libro è tutt’altro che una necessità e torna a essere bene voluttuario per eccellenza,
il libraio insiste a proporre la propria lista. D’altronde non sa e può fare altro, confessa con spudorato candore. Nei primi mesi del 1727 a Milano andò all’incanto la straordinaria raccolta libraria (nell’ordine di alcune migliaia di volumi, dal XV al
XVIII secolo) appartenuta al poeta ed erudito milanese Carlo Maria Maggi († 1699). L’Argelati, fiutando l’affare, si offrì di seguirne la vendita per conto di Muratori e di altri collezionisti. L’affare non
andò però come preventivato. I frutti li raccoglievano piuttosto gli eredi «vendendosi tutti allo sproposito e più assai della stima». Alla fine, dopo le consuete lamentele («sono stanchissimo affatto di questo imbroglio Maggico, né veggo l’hora d’uscirne»), presentò un conto di 37,10 lire per quanto
aveva comprato per Muratori e un altro cliente, allegando una lista di 11 lotti acquistati, con rinvio al
corrispettivo numero del catalogo: «gli altri non si
sono presi perché sono andati a prezzi altissimi et a
concorrenza di vogliosi assai, onde si spera gradimento d’averla ben servita ne’ pochi pigliati a prezzi
onestissimi». Nonostante le rassicurazioni finali,
anche in quest’occasione Muratori si mostrò non
soddisfatto del suo operato, temendo che il libraio
avesse gonfiato la nota spese per il proprio tornaconto. La vicenda si protrasse fino a ottobre quando
l’Argelati, infastidito per l’ennesima mancanza di
fiducia nei suoi confronti, invitò Muratori a consultare gli atti ufficiali di vendita per verificare il prezzo cui erano stati battuti i singoli lotti: «per la compra all’asta, non si rende raggione che quella del libro pubblico ove sono notati uno per uno, e chichessia può andare o mandare a vedere il vero; si è
pagato L. 6.4 il libro De sepulcris, è segno che vi era
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Carlo Sigonio, Opera, Milano, Società Palatina, 1732:
frontespizio del primo tomo
chi ha offerto sino a L. 6.3 [...] non ci ho un quattrino d’utile». Fino a prova contraria, almeno il mestiere di libraio sapeva ancora farlo: «né occorre che
almeno in questo insegni se sia caro o no, perché il
mio obbligo è di saperlo e so effettivamente cosa si
paga per averlo da Ollanda»!
Per avviarsi al nuovo e rischioso mestiere di
editore non era però sufficiente reinvestire i proventi derivanti da una pur solida attività di libraio:
«nella grande impresa ove sono, per la quale restano già sborsati per mia parte 100 luigi d’oro, ho bisogno di fare negozii, onde farò di tutto» scrive nel
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
novembre 1721 quando si era ancora in pieni preparativi per l’impresa dei Rerum. E due anni dopo,
nell’ottobre 1723, allorché già si lavorava ai primi
tomi, confessa: «ho fuori seicento luigi, ch’era tutto
il contante che mi trovavo avere in questo mondo».
Nei primi anni milanesi l’Argelati aveva dovuto affrontare una dura contrattazione con i soci palatini
al fine di ottenere un sostegno annuo che gli permettesse di mantenersi. La prima offerta si rivelò
insufficiente: «vengo ora all’offerta che questi cavalieri mi fanno di L. 200 milanesi l’anno e L. 100 per
una volta sola, al che replico essere ciò non bastevole per cooperare al mio trattenimento qui, tanto più
che vorrebbero dare le sudette partite non in dennaro ma in libri, cioé tante copie dell’opera, onde
ben vede V.S. illustrissima che se queste non si esitano, io sarei in angustie, oltre di che sono 3 anni e
mezzo che spendo il mio denaro nella posta, avrò
fuori di borsa ben più di mille lire. Oh vegga se 100
scudi in libri compensano le spese e la fattica fatta
sin qui». Dopo lunghe trattative nel maggio 1726
ottenne finalmente da Carlo VI d’Asburgo una
pensione annua, che gli permise di ricongiungersi
alla famiglia lasciata a Bologna. Neppure così cessarono però le doglianze di natura economica e i maneggi per nuovi guadagni. Dodici anni dopo, nel
1739, ci si imbatte in una lettera a Muratori nella
quale afferma che «sono 34 mesi che non ho avuto
un solo denaro delle mie pensioni sicché non veggo
il modo di tirare avanti». Il mestiere di editore palesa tutti i suoi rischi («son pieno di carta agli occhi e
non un soldo») e quello di libraio non porta alcun
guadagno («un indice che pensavo dovesse portarmi dennaro molto, non veggo la minima commissione»).
Parecchie missive rivelano soprattutto baruffe, screzi e meschinità dietro le altisonanti lettere di
dedica di parecchi tomi dei Rerum.3 In effetti, già
agli esordi dell’impresa, nel 1720, uno dei nodi della trattativa era stato a chi spettasse «il benefizio
della dedicatoria» generale, che di norma si traduceva da parte del dedicatario in un dono conforme
18
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
nome a Sua Maestà Cesarea, e perciò mossi i cavaglieri a retrocedere da un fatto loro proprio sollenemente mecco giurato». Dal canto suo l’Argelati,
scrivendo a Muratori, forza un po’ i toni, riservando
a sé il ruolo di vittima e aggiornando, di anno in anno, la lista spese: «et io che ho havuto a perdere tutta la salute nella fattica di porre a suo luogo le varie
lezioni de’ quattro codici di Anastasio in meno di
quattro mesi, non dovrò comparire? Oltre a 9500 lire di questa moneta che ho fuori di borsa sino al
giorno d’oggi, devo ancora fatticare così aspramente per gli altri?».
Carlo Sigonio, Opera, Milano, Società Palatina, 1732: dedica
all’imperatore Carlo VI a firma Filippo Argelati
al suo stato sociale e all’omaggio ricevuto. In un primo momento l’Argelati, che pure in una missiva al
marchese Capponi del 1728 giurava che «quello
proviene dalle dedicatorie va alla cassa commune
della Società e non a me privatamente», riuscì a
strappare a Muratori la promessa di riservare a lui il
privilegio. Ai primi di maggio del 1722, nel corso di
una riunione straordinaria, si vide invece costretto,
suo malgrado, a rinunciare alla già promessa dedica
all’imperatore. Del voltafaccia fu ritenuto responsabile il prefetto Sassi: «io ho in mano documenti
incontrastabili di essere stato egli che ha scrito a
Vienna non star bene la dedicatoria segnata col mio
A discolpa dell’Argelati, non va però trascurato che a fronte di un forte esborso iniziale, su di lui
gravava anche la responsabilità del buon esito della
stampa dei singoli volumi, il periodico rendiconto
economico all’intera Società, nonché la ricerca dei
migliori canali per la distribuzione e la vendita della
collana. Capitava che alcuni librai fossero insolventi anche a distanza di anni. Dalla Francia «non si
può avere più né risposta né dennari» lamentava in
data 28 novembre 1725. Notizie peggiori giungevano da Londra e da Hannover, dove nell’agosto
1726 erano stati spediti due corpi dei Rerum che il
libraio si rifiutava però di pagare. La questione andò per le lunghe, tanto da coinvolgere addirittura
l’ambasciatore imperiale a Londra e si risolse solo
nel 1730 dopo un’asfissiante trattativa e la minaccia
di rivolgersi fino all’imperatore. Sulla piazza romana risultavano debitori di oltre 400 scudi i librai Pagliarini, che pure gli erano stati raccomandati dal
marchese Capponi in persona («abbiamo un grosso
imbroglio a Roma: quei Pagliarini librai devono alla
Società 400 e più scudi romani per tomi dell’opera
inviatigli e fra vari mendicati pretesti negano il pagamento»). Si aggiungano poi le copie di pregio, in
carta grande e con legature ad hoc, donate a personaggi influenti ma che spesso non venivano pagate,
fonte di ulteriori preoccupazioni, oltre che ovviamente perdita di denaro. È il caso di tutti i volumi
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
dei Rerum a quella data pubblicati offerti nel 1729,
nobilmente legati, al cardinale Agostino Cusani
«senza passare più in là d’un bellissimo ringraziamento», o l’intero corpo dell’opera fatto recapitare
a Vienna all’imperatore nel 1739 col rischio che
«andasse in perdizione un dono di più di L. 1000
nostre senza neanche un ti ringrazio». Ce n’era abbastanza per prendere in mano la penna e scrivere:
«oltre il dennaro ci metto un pezzo di salute».
Quando nel dicembre 1728 accadde invece
che fosse Muratori a far intendere di essere stanco
dei Rerum, l’Argelati per distoglierlo dal cattivo
proposito promise che l’impresa si sarebbe conclusa entro un paio d’anni e con pragmatismo mercantile ricordava al suo corrispondente, conti alla mano, che finora ne aveva ricevuto solo vantaggi: «animo dunque, signor prevosto mio riveritissimo e già
che lei non spende un soldo, ma anzi ha 100 scudi
ogni tomo et a quest’ora ne ha avuti 1400, non si
stanchi sul più bello, protestandole da uomo onorato che non avrà più sino al fine né da me né da altri
alcun disgusto [...] e però in due anni e mezzo al più
gliela do finita». Le cose sarebbero andate invece
diversamente. Per concludere la pubblicazione dei
Rerum (28 volumi in folio articolati in 25 tomi) ci sarebbero voluti altri dieci anni: il tomo XXIV apparve nel 1738; l’ultimo della serie, il XXV, fu stampato
invece solo nel 1751, un anno dopo la morte di Muratori.
C’è infine un episodio che illumina assai bene
il clima di sospetti e invidie reciproche che circondava l’impresa dei Rerum a Milano. Ancora una volta il pretesto è una dedica e il suo controvalore economico. Il 18 agosto 1727, sul far della sera, all’Ave
Maria, l’Argelati era riuscito finalmente ad avere
udienza presso sua Altezza il duca di Parma Antonio
Farnese (1679-1731), al quale presentò l’intero corpo dell’opera fino a quel momento pubblicato appositamente rilegato («11 volumi legati magnificamente»). Il duca «gradì al sommo», ricambiando
19
Grande incisione posta in apertura dei volumi dei Rerum
Italicarum Scriptores
con un anello «del valore di 14 o 15 doppie» che lasciò molto insoddisfatto l’Argelati, giudicandolo
non soddisfacente rispetto al valore del volumi offerti e alla dedica dell’ultimo appena ultimato: «ritorno a Milano con un regalo [...] d’un anello del valore di 14 o 15 doppie: oh, vegga V.S. reverendissima se meritava il mio scommodo per questi tempi e
con poca salute, doppo aver spesi molti dennari nella legatura magnifica del corpo d’11 tomi in carta
massima». Il peggio accadde al rientro a Milano,
dove si diffuse la calunnia che l’Argelati, per guadagnarci, avesse cambiato il vero anello regalatogli da
Sua Altezza, del valore di almeno 60 doppie, con
20
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
uno del valore inferiore da dividersi fra i soci palatini («non so chi possa aver publicato costà il valere da
60 doppie l’annello mandatomi [...] che non ne vale
le 12 o 14 al più: me ne spiace, perché V.S. reverendissima sa che ho che fare con cavalieri di tal razza
che qualch’uno d’essi potrebbe figurarsi che lo
avessi io cangiato; ma men male che lo mostrai subito [...] che tutti restarono morti di tal vergognosa
cosa»). L’Argelati, nell’occasione ragionando davvero da mercante, lamentò senza troppi giri di parole la spilorceria del duca, difendendo al tempo stesso gli investimenti suoi e dell’intera società, cui era
chiamato a rendere ragione. Non valeva la pena di
omaggiare alcuno dell’intero corpo, spendendo
inoltre per una superba legatura, se non si era sicuri
di una ricompensa adeguata: «se non siamo moralmente sicuri di qualche ricompensa, invece del corpo intero io mando solo il tomo: perché spendere
nella legatura 10 doppie et altrettante i più vaglienti
tomi e poi averne una dessenteria è sproposito». A
dicembre l’affare non doveva essersi ancora risolto,
se l’Argelati si sentiva in obbligo di supplicare Muratori di intercedere presso Sua Altezza perché conoscesse «lo sbaglio preso di dare un anello di 12
doppie per un regalo di 150 lire nostre, oltre le spe-
NOTE
1
L. A. MURATORI, Carteggio con Filippo
Argelati, a cura di C. Vianello, Firenze, L. S.
Olschki, 1976; Carteggio muratoriano: corrispondenti e bibliografia, a cura di F. MISSERE FONTANA – R. TURRICCHIA, Bologna, Istituto
per i beni artistici culturali e naturali, 2008,
pp. 42-43.
2
I. ZICARI, in Dizionario Biografico degli
Italiani, IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 112-114; poco attendibile anche il ritratto fattone da C. GARIBOTTO, L’editore dei RR. II. SS., «Atti e Memorie
della Deputazione di Storia Patria per le an-
se del viaggio, non mancando tutt’ora chi crede di
esser stato cambiato esso anello».
L’atteggiamento dell’Argelati, al quale, dopo
tanta frequentazione, va almeno un buona dose
della mia comprensione, non era in realtà difforme da quella di eruditi di ben altro tenore mai tacciati di mercanteggiare. Antonio Vallisneri in data
7 settembre 1721 aveva manifestato il proprio patema d’animo proprio a Muratori per il mancato
sostegno ricevuto sempre dall’imperatore Carlo
VI cui aveva presentato il 24 luglio la copia di dedica della sua Istoria della generazione dell’uomo e
degli animali (Venezia, G.G. Ertz, 1721): «Non
fruttano a’ nostri tempi le dedicatorie né a’ grandi
né a’ piccoli». In quel caso, alla fine, l’agognato
premio, pur in ritardo, sarebbe arrivato e Muratori avrebbe potuto brindare al rinnovato mecenatismo: «Lodato Dio che non è finita la stirpe dei
principi liberali».4 A pubblicazione terminata,
l’Argelati avrebbe invece confidato, ma non è forse da prestargli troppa fede, che i vantaggi economici si erano rivelati modestissimi: «di 24 dediche
sole 4 o sei siano state d’utile».
tiche provincie modenesi», IX, 1957, pp.
241-245. Si veda per il periodo bolognese
M. G. TAVONI, Filippo Argelati libraio a Bologna (1702-1720), «Quaderni storici», LXXII,
1989, pp. 787-819, cui mi permetto di aggiungere il mio più recente contributo, da
cui riprendo con taglio divulgativo alcuni
degli spunti qui offerti, G. PETRELLA, Splendori e miserie degli uomini del libro a Milano
nel Settecento. Filippo Argelati libraio ed
editore, in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento. Discontinuità e permanenze, a cura di R. Carpani, A.
Cascetta, D. Zardin, Roma, Bulzoni, 2010,
pp. 203-263.
3
Sul tema della dedica si veda M. PAOLI,
La dedica. Storia di una strategia editoriale
(Italia, secoli XVI-XIX), prefazione di L. Bolzoni, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009.
4
L. A. MURATORI, Carteggi con Ubaldini ...
Vannoni, a cura di M. L. Nichetti Spanio, Firenze, L. S. Olschki, 1978, pp. 235, 240, 247;
Carteggio muratoriano: corrispondenti, p.
176. Un’interessante casistica di dediche
più o meno fruttuose nel Settecento offre
M. PAOLI, La dedica. Storia di una strategia,
pp. 315-320.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
21
Editoria
MONDADORI, EDITORE
A VOLTE “NON VENALE”
Sui volumi fuori commercio della Mondadori
MASSIMO GATTA
– quarta e ultima parte. La prima, la seconda e la
terza parte sono state pubblicate sui numeri di
ottobre, novembre e dicembre 2013
V
ediamo come, trattando di un grande e
complesso editore, si rischia di finire
spesso in una specie di rizoma editoriale,
una rete intricata e osmotica fatta di collane, autori, riviste, titoli, collaboratori58. Quest’ultimo aspetto è d’importanza centrale nell’evoluzione mondadoriana: solo per citare qualche nome a caso: Vittorio Sereni, Cesare Zavattini, Mario Soldati, Elio
Vittorini, Niccolò Gallo, Aldo Gabrielli59, Remo
Cantoni, Carlo Bernari60, Cesare Garboli, Dino Buzzati, Enzo Siciliano61, oltre a un ricco corredo di
scambio epistolare con l’editore62.
Un ultimo settore di questa produzione editoriale not for sale riguarda quei volumi stampati «in ricordo di», quindi essenzialmente a carattere privato: per lo stesso Arnoldo, per Remo, Alberto e Leonardo Mondadori. Vediamoli ora meglio in dettaglio.
Il 13 ottobre del ’37 si spegne, a soli 45 anni, Remo
Mondadori, fratello di Arnoldo e direttore delle Officine Grafiche di Verona, fondate dal fratello nel ‘09.
Per ricordarne la figura e l’opera Mondadori
fa stampare il 9 aprile del ’39 un elegante volume
a tiratura limitata che raccoglie i ricordi e le testimonianze di chi lo conobbe. In fine viene anche riprodotto il testo della targa marmorea, scritto da
Francesco Pastonchi, e posta nell’azienda veronese a ricordo dei 28 anni di attività svolti in essa da
Remo Mondadori63.
Altro importante volume celebrativo è quello stampato nel ‘63 in occasione delle nozze d’oro
di Arnoldo e Andreina Mondadori. Libro assolutamente privato, stampato su carta a mano in pochi esemplari di cui non si conosce la tiratura. La
lunga introduzione è firmata da Marino Moretti e
precede un’ampia sequenza fotografica, con immagini di famiglia e di lavoro. E’ tra i celebrativi mondadoriani tra i più rari in assoluto, frutto di un attento lavoro grafico e stampato impeccabilmente64.
Interrogando l’Indice dell’ICCU non risultano
presenti copie in biblioteche italiane.
L’8 giugno del ‘71 si spegneva, invece, il fondatore della più grande impresa editoriale italiana
del Novecento (era nato a Poggio Rusco, nel
Mantovano, il 2 novembre 1889). Una perdita immensa che la famiglia volle onorare, a un anno di
distanza, stampando un volume di grande bellezza,
rigoroso e impeccabile. Pubblicato in 800 esemplari non numerati era destinato alla famiglia e agli amici dell’editore. Un biglietto inserito all’interno avvertiva «Da Andreina Mondadori e dai suoi figli».
Si tratta di un’ampia raccolta di testimonianze di
scrittori e amici ristampate per l’occasione65. Anche
in questo caso alla parte rievocativa segue un ampio corpus fotografico.
22
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Anche in occasione della morte del figlio Alberto, avvenuta improvvisamente a Venezia il 14 febbraio del ’76 (era nato a Ostiglia l’8 dicembre del
’14), fondatore nel ’39 del settimanale «Tempo» che
dirigerà fino al ‘4366, nel ’50 di «Epoca»67 e nel ’58
delle edizioni Il Saggiatore, egli stesso letterato e
poeta68, verrà stampato l’anno successivo un sobrio
volume che raccoglieva testimonianze di amici e collaboratori (intense quelle di Vittorio Sereni e Giulio Einaudi), anch’esso corredato da molte fotografie69. La complessa figura di Alberto Mondadori, la
sua ampia opera editoriale e il non semplice rapporto col padre, vengono fuori dalla monumentale raccolta di lettere resa disponibile e pubblicata nel ‘96
dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori70,
così come ad un agile ed elegante libretto illustrato, a tiratura numerata fuori commercio, verrà affidato il compito di documentare la lunga e proficua collaborazione tra Il Saggiatore e il celebre poeNOTE
Cfr. Annalisa Gimmi, Mondadori: collane, autori e tendenze dagli esordi agli anni Quaranta, in
Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, a cura
di Luisa Finocchi, Ada Gigli Marchetti, Milano,
Franco Angeli, 2004.
59
Sul quale rimando a Irene Pivetti, Comprate il
mio libro. Aldo Gabrielli e la Mondadori negli anni
Trenta, Firenze, Giunti, 1996.
60
Cfr. Carlo Bernari, Otto notti d’insonnia nella
Mondadori, in Editoria e cultura a Milano fra le due
guerre (1920-1940), cit., pp. 112-114.
61
Segnalo solo qualche riferimento utile per
approfondire la questione, che esula comunque
dal tema di questo articolo: Gian Carlo Ferretti,
Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di
Vittorio Sereni, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Il Saggiatore, 1999; Alberto Cadioli, Letterati editori. Papini, Prezzolini, Debenedetti, Calvino. L’editoria come progetto culturale e
letterario, Milano, Il Saggiatore, 1995; Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti,
Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
1994; Il mestiere di leggere. La narrativa italiana
nei pareri di lettura della Mondadori (1950-1971), a
cura di Annalisa Gimmi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Il Saggiatore, 2002; Mi58
ta beat Allen Ginsberg71. Per rievocare la nascita e
l’evoluzione de Il Saggiatore, la casa editrice da lui
fondata, fu pubblicato nel ‘93, fuori commercio, un
agile volumetto di Alberto Cadioli72. Della casa editrice fondata da Alberto faceva parte la celebre collana «Biblioteca delle Silerchie» le cui note editoriali erano opera di Giacomo Debenedetti, anch’esse riunite e di recente pubblicate73. In occasione,
poi, dei 75 anni della fondazione della casa editrice venne stampato nel 1982 un elegante giubilare74a
cui seguì, qualche anno dopo, un altro volume analogo corredato da molte immagini75.
Infine nel dicembre del 2002 scompare anche
Leonardo Mondadori, l’erede della grande azienda
di famiglia. A tre mesi di distanza la sua casa editrice invitò all’Auditorium Mondadori familiari, amici e collaboratori dello scomparso per un ricordo attraverso le loro testimonianze. Nella tradizione
mondadoriana anche questa circostanza verrà cele-
chela Carpi, Cesare Zavattini direttore editoriale,
Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi-Archivio Cesare
Zavattini- Aliberti editore, 2002 ; Leda Cavalmoretti, Arnoldo Mondadori e Dino Buzzati: un editore
e un autore «col cuore», in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in cento anni di Mondadori,
cit., pp. 210-226 e infine Scrivere a tempo pieno.
Mario Soldati autore Mondadori, a cura di Bruno
Falcetto, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto
Mondadori, 2007.
62
Cfr. Diario Mondadori 1995. Lettere all’Editore, Milano, Mondadori, 1995.
63
Un poeta del libro. In memoriam Remo Mondadori 1891-1937, Verona, Mondadori, 9 aprile
1938, ediz. f.c.
64
Per le nozze d’oro di Arnoldo e Andreina Mondadori VI ottobre MCMLXIII, con uno scritto di Marino Moretti, Verona, Mondadori, MCMLXIII. Per un
refuso il colophon indica il IV ottobre invece che il
VI.
65
Ricordo di Arnoldo Mondadori. Testimonianze di scrittori e di amici riunite per il primo anniversario della Sua scomparsa (8 giugno 1972), Vicenza, Arti Grafiche delle Venezie, maggio 1972, stampato in 800 copie numerate per i familiari e gli amici.
66
Cfr. Oreste del Buono, Alberto Mondadori insegna: chi ha Tempo non aspetti Life, «La Stampa-
Tuttolibri», sabato, 26 agosto 1995, p.6. Molto bello
è anche il ricordo dello stesso del Buono, Alberto
Mondadori, in Id., Amici, amici degli amici, maestri..., Milano, Baldini & Castoldi, 1994, pp. 165170. Cfr. ancora Raffaele Crovi, L’immaginazione
editoriale. Personaggi e progetti dell’editoria italiana del secondo Novecento. Dialogo con Angelo
Gaccione, Torino, Nino Aragno, 2001, pp. 59-60,
200-201, e infine Enrico Decleva, Alberto Mondadori a vent’anni dalla morte, «Acme», n. 1, 1996, pp.
263-271.
67
Sul quale segnalo la tesi di Alessandra Bonetti, Il settimanale “Epoca” negli anni Cinquanta: nascita e sviluppo di un rotocalco, rel. Rita Cambria,
Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e
Filosofia, a.a.1989-1990.
68
Alberto Mondadori, Quasi una vicenda, Verona, Mondadori, 1957 [Lo Specchio. I poeti del nostro tempo]. Di questa edizione verrà stampata una
tiratura a parte su carta speciale in 410 esemplari
numerati firmati dall’autore, dei quali 11 non venali con numerazione romana e 399 con numerazione araba.
69
Alberto Mondadori, Milano, Il Saggiatore,
1977, stampato in 1000 copie non numerate f.c.
70
Alberto Mondadori, Lettere di una vita 19221975, cit.
71
Allen Ginsberg e Il Saggiatore, con un testo di
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
brata con un volume, anch’esso rigorosamente fuori commercio, che idealmente chiude il cerchio76.
Facendo un passo indietro non possiamo, però,
non ricordare altre due testimonianze del fare editoria senza scopo di lucro: nel ‘73 la Mondadori pubblica un elegante volumetto, a tiratura limitata fuori
commercio per gli «Amici della Mondadori», dedicato interamente alla tipografia, rilegato in mezza pelle, con al piatto, riprodotto in oro, il torchio ottocentesco Amos Dell’Orto con il quale Arnoldo aveva iniziato il suo cammino. Il libro è stampato con
caratteri e fregi bodoniani nella migliore tradizione
tipografica italiana77. L’anno successivo un nuovo
omaggio al libro, nella medesima veste tipografica,
la pubblicazione di un classico dell’ex librismo italiano del Novecento, opera di Gianni Mantero, il
grande collezionista e studioso, un libretto ormai di
una certa rarità78. Anche ai luoghi mondadoriani verranno infine dedicati due volumi di una certa rariLuca Formenton, Milano, Il Saggiatore, 1997, con
bella sovraccoperta in carta traslucida col volto del
poeta beat, edizione numerata fuori commercio; il
volume è stato quindi ristampato all’interno della
recente raccolta di Allen Ginsberg, Saluti cosmopoliti. Poesie 1986-1992, trad. di Luca Fontana,
premessa di Luca Formenton, con l’inedito Allen
Ginsberg e Il Saggiatore, Milano, Il Saggiatore,
2011.
72
Alberto Cadioli, Sono un esploratore mi piace
navigare nel tempo. Breve storia del Saggiatore dal
1958 a oggi, Milano, Il Saggiatore, 1993. Cfr. anche
Casa editrice Il Saggiatore. Catalogo generale
1958-1987, a cura di Marco Mondadori e Salvatore
Veca, Milano, Il Saggiatore, 1987; Scrittura e libertà. Il Saggiatore 1958-1998. Catalogo generale, a
cura di Alberto Cadioli, Giulio Giorello, Alessandro
Nova, Milano, Il Saggiatore, 1998; Oreste del Buono, Alberto Mondadori il signor oscar. Dai primi tascabili alla nascita del Saggiatore, «La Stampa-Tuttolibri». Infine di estremo interesse è Gli anni ’60: intellettuali e editoria, a cura di Franco Brioschi, prefazione di Cesare Segre, Atti del Convegno, Milano
7-8 maggio 1984, Milano, Fondazione Arnoldo e
Alberto Mondadori, 1987. Interessante è anche
Giorgio Alberti, Linder e Il Saggiatore: editoria e cultura tra Italia e Stati Uniti nel carteggio di Erich Linder e Alberto Mondadori, rel. Mario Infelise, cor.
23
tà: il primo, interamente fotografico, ha il pregio di
essere stato impaginato da un grande artista come
Walter Valentini79, mentre il secondo è una plaquette promozionale non datata (ma presumibilmente del
1964), sconosciuto alle bibliografie consultate e
che riporta in apertura la composizione del consiglio
d’amministrazione della Arnoldo Mondadori S.p.A.,
oltre ad una serie di interessanti foto d’epoca delle
officine tipografiche mondadoriane di Verona80 e di
alcune cartiere appartenenti al gruppo.
Con questi due ultimi «Omaggi dell’Editore»
chiudiamo il nostro discorso su questo particolare settore editoriale, purtroppo trascurato.
Una prima versione di questo articolo, ridotto e col titolo
«Omaggio dell’Editore». Volumi celebrativi e fuori commercio della
Mondadori, firmato con lo pseudonimo Marco Page, è stato pubblicato su «Wuz». Per questa occasione il testo è stato completamente rivisto, ampliato e aggiornato. Si ringrazia la rivista
«Wuz» e il suo direttore Ambrogio Borsani, per avere autorizzato la ristampa, anche se parziale, dell’articolo.
Anna Boschetti, Venezia, Università degli Studi Cà
Foscari, a.a. 2002-2003; cfr. inoltre Id., Il ruolo dell’agente letterario italiano nell’editoria di ricerca: il
carteggio fra Erich Linder e Alberto Mondadori, «La
Fabbrica del Libro. Bollettino di storia dell’editoria
in Italia», a. XI (2005), n. 1, Milano, Franco Angeli,
pp. 39-46. Di Erich Linder segnalo Autori, editori, librai, lettori, a cura di Martino Marazzi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2003. Sul
ruolo dell’agente letterario resta poi centrale L’agente letterario da Erich Linder a oggi, a cura della
Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano,
Sylvestre Bonnard, 2004.
73
Giacomo Debenedetti, Preludi. Le note editoriali alla “Biblioteca delle Silerchie”, introduzione di
Edoardo Sanguineti, a cura di Michele Galinucci,
Roma-Napoli, Theoria, 1991, ristampato da Sellerio nel 2012 con introduzione di Raffaele Manica.
Sul ruolo di Debenedetti come consulente editoriale cfr. Franco Contorbia, Debenedetti e l’editoria,
«Nuovi Argomenti», 15, luglio-settembre 2001, pp.
204-216 [Numero monografico su Giacomo Debenedetti e il secolo della critica]. Sulla “Biblioteca
delle Silerchie” segnalo anche la tesi di Eleonora
Col, La “Biblioteca delle Silerchie” 1958-1967: analisi di un progetto editoriale, rel. Alberto Cadioli, cor.
Mauro Novelli, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2004-2005.
74
Arnoldo Mondadori editore. Storia di una crescita. Nel 75° anniversario della fondazione, Verona, Officine Grafiche Arnoldo Mondadori, 1982.
75
Arnoldo Mondadori editore. Fatti e immagini
1988, Milano, Mondadori, 1988.
76
In ricordo di Leonardo, Milano, Mondadori,
dicembre 2003, tiratura limitata non indicata. Trattasi della raccolta degli interventi del 13 marzo
2003, a tre mesi dalla scomparsa di Leonardo Mondadori del quale vedi anche il suo ultimo libro, Conversione, una storia personale, scritto con Vittorio
Messori, Milano, Mondadori, 2002.
77
[Alessandra Oleotti, Riccardo Mezzanotte],
Breve storia dell’arte della stampa, Verona, Mondadori, novembre 1973, stampato in 3890 esemplari numerati. Il volume verrà ristampato a Roma
da Biblioteca del Vascello nel 1993.
78
[Gianni Mantero], Ex libris italiani e stranieri,
Verona, Mondadori, ottobre 1974, stampato per gli
Amici della Mondadori in 3998 esemplari numerati
fuori commercio.
79
Mondadori, impaginazione a cura di Walter
Valentini, Verona, Mondadori, 1960. Il titolo è riportato solo sulla sovraccoperta; due sole localizzazioni bibliotecarie in SBN.
80
Mondadori (in copertina), s.n.t., Verona, s.d.
(anni Settanta). Opuscolo non segnalato in SBN e
sconosciuto alle bibliografie consultate.
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gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
25
Sul Principe
NICCOLÒ MACHIAVELLI,
PRIMO COSTITUENTE
Il Segretario fiorentino e il primato della politica
TEODORO KLITSCHE
DE LA GRANGE
oggi, le regolarità del politico, i
problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi: «come dimostrano
tutti coloro che ragionano del vicrive Machiavelli nel proevere civile, e come ne è piena di
mio dei Discorsi che, contraesempi ogni istoria, è necessario a
riamente a quanto accade
chi dispone una repubblica ed ordina
per il diritto (le “leggi civili”), per
leggi in quella, presupporre tutti gli
la medicina, per le arti «nell’ordiuomini rei, e che li abbiano semnare le republiche, nel mantenepre a usare la malignità dello anire li stati, nel governare e’ regni,
mo loro qualunque volta ne abnello ordinare la milizia ed ambiano libera occasione».6 Per cui,
ministrare la guerra, nel iudicare
e’ sudditi, nello accrescere l’im- Antonio Maria Crespi (1580 ca.– 1630), chi ordinasse uno Stato presupperio, non si trova principe né repu- Ritratto di Niccolò Machiavelli, Milano,
ponendo i cittadini tutti virtuosi,
blica che agli esempi degli antiqui ri- Pinacoteca Ambrosiana
i popoli (e i governi) vicini tutti
corra»; e continua scrivendo che,
benevoli, realizzerebbe un pessia suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di com- mo prodotto (peraltro di durata breve).
prensione («non avere vera cognizione delle storie
Ma cos’è oggi quella “immaginazione della coper non trarne leggendola quel senso… che le han- sa” che il Segretario fiorentino addita come la via
no in se»). E si meraviglia perché «infiniti che le leg- maestra per ordinare male gli Stati?
gono, pigliono piacere di udire quella varietà degli
L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delaccidenti che in esse si contengono, senza pensare le più varie; proviamo a ricordarne alcune, le prinaltrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non cipali.
solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li
La prima è quella, direttamente opposta alla
elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che
potenza da quello che gli erano antiquamente». In altri Raymond Aron chiamava “principio di perennità”)
termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura e cioè che si può trovare la formula per cambiare la
umana sempre la stessa, di conseguenza, si direbbe natura umana o quanto meno correggerla ed elimi-
Seconda parte.
La prima parte è stata pubblicata
sul numero 12 (dicembre 2013)
S
26
nare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne
abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che
mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata
anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del
politico con l’economico.7 Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del Deutero - Isaia, continua - anche se meno
rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già
manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato
d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è
quello che fare politica equivale a legiferare; e che i
problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando
che buona parte dell’attività dello Stato è politica
“pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un
contenuto normativo applicabile). È una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? O l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto,
che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in
modo decisivo sul diritto effettivamente osservato?
Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o
punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista
ha risentito di tale illusione che Julien Freund chiama “dell’imperialismo giuridico”: discute quasi
sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni
sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro
si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più
importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è
anche la sovranità da quando (nella Germania di
Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della co-
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
stituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe
sembrata una boutade).
L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Gianfranco Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e
delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero
di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo
(sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed
è poi conseguenza logica del principio di corruzione - e dei “cicli politici” - di ogni regime.8 La corruzione fa si che «se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per
poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario». Per cui
dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via).9 «E questo è il cerchio nel
quale girando tutte le repubbliche si sono governate
e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi
medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per
queste mutazioni e rimanere in piede»: perché per
lo più viene assoggettata.
Tutte tali forme di governo sono di breve durata: «sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita
che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei». A
Roma il tutto fu risolto «sendo in una medesima
città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare». D’altra parte, scrive Machiavelli, «sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde,
conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità;
talmente che avendo ordinata una republica atta a
mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fonda-
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
menti suoi ed a farla rovinare più tosto». È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni
concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa.
Quindi l’aspirazione - pretesa a costruire un
“ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il quale lo ripete spesso «perché a simili disordini che nascono nelle repubbliche
non si può dare certo rimedio, né seguito che gli è
impossibile ordinare una repubblica perpetua, perché per
mille inopinate vie si causa la sua rovina»;10 onde cambiando situazione «che fa sorgere nuovi accidenti, è
necessario a questo con nuovi ordini provvedere».11
Machiavelli lo ripete spesso anche perché consegue al rapporto tra fortuna e virtù, con questa che
serve a parare quella «dove gli uomini hanno poca
virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua: e perché
lo è varia, variano le repubbliche e gli stati spesso».12 Il
Segretario fiorentino orienta il proprio pensiero all’emergenza, la necessità «se si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà molte volte
nascere cose e venire accidenti a quali i cieli al tutto
non hanno voluto che si provvegga».13
L’incapacità di provvedere alle innovazioni
necessarie in tempi e situazioni mutate, porta alla
rovina: «nascono ancora le rovine della città, per
come si variano gli ordine delle repubbliche co’
tempi»,14 perché la fortuna «dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle».15
Il Segretario fiorentino, contrariamente a
quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione
un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno
prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo
il fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento
dello Stato, e non se è conforme a impostazioni
ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale
dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo
27
Frontespizio della raccolta aldina delle opere di Niccolò
Machiavelli, stampata a Venezia, dalla celebre tipografia
Manuzio, nel 1540 (Milano, Biblioteca di via Senato)
mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si
considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranee al pensiero di
Machiavelli (o considerate secondarie); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma
durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”.
Machiavelli ritorna più volte sul carattere dinamico delle istituzioni umane: evolvendosi, cambiando, riformandosi, guadagnano in durata: la ca-
28
Raymond Aron (1905-1983), in una foto degli anni Sessanta
pacità di mutare (di adattamento all’ambiente), è una
dote essenziale16.
Anche qui il pensiero sul punto del Segretario
fiorentino sarà ripreso da Hauriou17 il quale considerava l’istituzione come in movimento (un esercito in marcia) e criticava le concezioni del diritto
“statiche” come, a di esso giudizio, quelle di Kelsen e Duguit. Ovviamente, specie quella del primo, molto seguita.
Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre
ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così
“integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti
più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei
tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono
una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe.18
Nel Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze
a instanza di Papa Leone delinea una nuova Costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che «la cagione perché Firenze ha
sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché
in quella non è stato mai né republica né principato che
abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che vuole uno e si deliberano con il consenso
di molti: né si può credere quella republica esser per
durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
si satisfacendo le republiche rovinano» e delinea un
nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri,
cariche e competenze dando un ruolo nel governo
della città «a tre diverse qualità di uomini che sono
in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi»;
ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e
competenze perché «senza satisfare all’universale,
non si fece mai alcuna republica stabile», il tutto
mantenendo ai Medici «tanta autorità… quanto ha
tutto il popolo di Firenze».
Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale
fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone
partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi”
sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non
(o preferibilmente che) con le norme.
Il che fa del Segretario fiorentino anche uno
dei “precursori” del concetto di costituzione materiale;19 ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione
«come un ordine vitale, che cerca di realizzare
un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche».20 A servirsi della terminologia e dei concetti di Rudolf Smend la concezione di
Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si
realizza attraverso l’integrazione: «lo Stato esiste
solo perché e in quanto si integra continuamente, si
costruisce nei e a partire dai singoli - e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale»21 e come scrive Smend: «l’effetto di
integrazione esercitato dagli organi può derivare
dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione
e dal loro funzionamento». E prosegue: «l’effetto di
integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza
- cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto».22
Peraltro il Segretario fiorentino ritiene che l’elemento fondamentale per la conservazione del potere è il consenso dei sudditi, cioè (la predisposizione a) l’obbedienza; uno dei passi più chiari è nel cap.
XXV del Principe dove valutando l’utilità delle for-
30
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
tezze, scrive che per il principe «la migliore fortezza
che sia è non essere odiato dal popolo».
Diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il
testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli
presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato
apertis verbis da Joseph De Maistre, che nella costituzione «ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto».23 In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente
necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna
delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché
una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge:24 anche in questo si
manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al
diritto, alla costituzione, a precetti religiosi. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di
questa come strumento della politica, che la giudi-
NOTE
cava soprattutto come fondamento della città ben
ordinata: «dove manca il timore di Dio, conviene o
che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore
d’uno principe che sopperisca ai difetti della religione».25 Nel disinteresse odierno rispetto al rapporto
tra religione (teologia) e politica, è emerso anche
qualche curioso tentativo che vorrebbe rimpiazzarla con un surrogato prescindendo da “sacro” e da
“Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica
verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare
(e mantenere) una società pubblica.
Nulla è più lontano di ciò dal rapporto tra religione e ordine comunitario delineato dal Segretario fiorentino; in particolare per le repubbliche «intra tutti gli uomini laudati, sono i laudatissimi quelli
che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o republiche
o regni»;26 e paragonando Romolo e Numa Pompilio sottolinea l’importanza del secondo, così riconoscendo il carattere fondamentale della religione.
Per cui «mai fu alcuno ordinatore di leggi straordi-
rannie moderne, Roma 1998, p. 104.
Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di co-
6
Discorsi I, III (i corsivi sono nostri).
9
7
Si noti che il rapporto tra costanti (pe-
10
Discorsi, III, XVII.
stantino Mortati che ne coniò il termine «Ri-
rennità) e variabili (storiche) in Machiavelli è
11
Idem, III, XI.
manendo nell’ordine di idee per ultimo
proprio l’inverso di quanto si riscontra in
12
Discorsi, II, XXX.
esposte di una raffigurazione della costitu-
(alcune) concezioni moderne e contempo-
13
Discorsi, II, XIX.
zione che colleghi strettamente in sé la so-
ranee: per il Segretario fiorentino la natura
14
Discorsi, III, IX.
cietà e lo stato, è da ribadire quanto si è det-
umana è sempre la stessa e non la si può
15
Principe, XXV.
to sull’esigenza che la prima sia intesa come
cambiare; le costituzioni, determinate da si-
16
Discorsi, III, I.
entità già in sé dotata di una propria strut-
tuazioni storiche, possono e (quasi sempre
17
v. Prècis de droit constitutionnel, p. 79.
tura, in quanto ordinata secondo un parti-
debbono) cambiare. L’essenza dell’uomo è
18
v. Discorsi 1, III.
colare assetto in cui confluiscano, accanto
sottratta alle vicende umane, queste ne so-
19
v. Discorsi, 1, II.
ordinare, organizzare detti rapporti) e a Co-
Il quale, come noto si deve - nell’epoca
ad un sistema di rapporti economici, fattori
no la conseguenza. All’inverso, nella moder-
moderna - a Lassalle “Gli effettivi rapporti di
vari di rafforzamento, di indole culturale,
nità si crede (spesso) di possedere la formu-
potere che sussistono in ogni società sono
religioso ecc., che trova espressione in una
la magica per cambiare la natura umana, ed
quella forza effettivamente in vigore che
particolare visione politica, cioè in un certo
ancor più quella per l’ordinamento perfetto
determina tutte le leggi e le istituzioni giuri-
modo d’intendere e di avvertire il bene co-
delle società umane. La prima diventa modi-
diche di questa società, cosicché queste ul-
mune e risulti sostenuta da un insieme di
time essenzialmente non possono essere di-
forze collettive che siano portatrici della vi-
verse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in
sione stessa e riescano a farla prevalere
ficabile, il secondo definitivo (ed eterno).
8
v. R. Aron, trad. it. in Machiavelli e le ti-
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
narie in uno popolo che non ricorresse a Dio».
Qualche secolo dopo, Maurice Hauriou
avrebbe scritto del rapporto tra teologia e diritto,
con la prima che è il fond e il secondo la couche. E
nelle circostanze straordinarie il nucleo, se è solido, rifonda anche l’involucro.27
Anche il rapporto tra religione e ordinamento (e spirito) militare secondo Machiavelli vede
quella determinare questo «dov’è religione facilmente si possono introdurre armi», ma dove vi sono quelle e non religione, «con difficoltà si può introdurre quella».
Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che
di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di
Machiavelli.
Le idee generali che li caratterizzano sono
quelle del realismo (giuridico) il quale individua
nella realtà - e nelle leggi naturali, anche sociali un dato non modificabile dell’uomo; nell’esistenza della comunità e dell’istituzione lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e
31
congruità (anche interna) dell’istituzione: non si
può costituire una forma politica durevole che
non abbia coerenza e congruità sia nella forma che
rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza
qui considerare altro).
Il che è connesso al carattere “tecnico” del
pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato
ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del
potere.28 Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme.29 È la
situazione concreta a determinare quale sia la forma
di governo più adatta30 a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio
di validità di una forma politica è dato - come sopra
scritto - della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a norme, valori e principi. Anche questa
concezione condivisa nei secoli successivi da tanti.31
consuetudine, anzi a maggior ragione, data
sociale traditionnelle (ora in Écrits sociolo-
nazione, cioè ad un vero assetto fondamen-
la sua maggiore energia la necessità è fonte
giques, Paris 2010, pp. 233 ss.) scrive che a
tale», v. Istituzioni di diritto pubblico, Pado-
autonoma del diritto, superiore alla legge.
rifondare una comunità dopo una crisi epo-
va, 1975, vol. I, p. 30.
dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordi-
Essa può implicare la materiale e assoluta
cale occorre una nuova religione, come av-
v. R. Smend ora in Costituzione e dirit-
impossibilità di applicare, in certe condizio-
venuto nel passaggio tra il mondo classico e
to costituzionale (raccolta di scritti) trad. it.
ni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dir-
quello cristiano.
Milano 1988, p. 287.
si che “necessitas non hablet legem”. Può
20
28
“L’organizzazione politica del potere e
21
Op. cit., p. 76.
anche implicare l’imprescindibile esigenza
la tecnica per conservarlo ed estenderlo dif-
22
Op. cit., p. 162.
di agire secondo nuove norme da essa de-
feriscono a seconda delle forme statuali, ri-
23
Des Constitutions politiques, I.
terminate e, in questo senso, come dice un
mangono però sempre qualcosa che può
24
V. «Talvolta le leggi scritte accordano,
altro comune aforisma, la necessità fa leg-
essere prodotto con tecniche pratiche, così
in casi di necessità, al potere esecutivo la fa-
ge. In ogni caso, “salus rei publicae suprema
come l’artista produce, secondo la conce-
coltà di emanare decreti o ordinanze … Ma
lex”». v. Diritto costituzionale generale, Mi-
zione razionalistica, l’opera d’arte. Con il va-
anche quando tali leggi scritte mancano, o
lano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è
riare delle condizioni concrete – posizione
sono inadeguate alla situazione che si è for-
nostro).
geografica, carattere del popolo, concezioni
mata, e persino quando espressamente vie-
25
Discorsi I, XI.
religiose, struttura dei gruppi sociali domi-
tano che si faccia uso di poteri eccezionali e
26
Discorsi I, XI.
nanti, tradizioni – varia anche il metodo e si
straordinari questi potranno essere assunti
27
V. M. Hauriou Précis de droit constitu-
costruiscono strutture diverse” in “Die Dik-
tionel Paris 1929, p. 29; altrove ne La science
tatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006,
ed esercitati in forza della necessità. Come la
32
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Litografia di Joseph de Maistre
(eseguita da Francois Villain),
posta come ritratto in antiporta
della prima edizione delle Serate
di San Pietroburgo (1821)
D’altra parte la razionalità
del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di
taluni contemporanei è provato
da una constatazione: che una
costituzione “bellissima” colma
di enunciazioni accattivanti di
principi e valori condivisi ma
inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei
principi e quei valori che vi sono proclamati (e
spesso branditi contro gli avversari politici). Più
prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme
di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della
p. 29 (il corsivo è nostro).
29
“Il Principe dal canto suo non preten-
finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica).
Ma se la costituzione è congrua,
anche la protezione di quelli è
(meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il
modo di esistenza di un popolo,
a conservare il quale (e con esso i
relativi rapporti, valori, leggi
fondamentali) serve.
L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il
secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova «più
presto la ruina che la perservazione sua».
Fine seconda e ultima parte
diversamente non si conseguirebbe il risul-
piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più
tato voluto” op. cit. p. 30.
imprevedibili con i mezzi più insospettati, e
31
Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale
non potendo perdersi che per una mancan-
che, ma semplicemente suggerire la tecni-
scrisse, in polemica con un libro di M.me de
za di fiducia nella propria fortuna” ed ag-
ca razionale dell’assolutismo politico” op.
Staël che “La costituzione di un popolo è il
giunge “Una costituzione completa e ben
cit., p. 30.
modo della sua esistenza; e chiedersi se un
congegnata non è quella che si arresta da-
30
de fornire giustificazioni morali o giuridi-
“Supponiamo per esempio di avere
popolo con quattordici secoli di storia, un
vanti ad ogni difficoltà, che le passioni uma-
degli uomini dotati della virtù, che è il prin-
popolo che esiste, ha una costituzione, è co-
ne e la varietà degli eventi possono far na-
cipio indispensabile per la costruzione di un
me interrogarsi, quando esiste, se ha il ne-
scere, ma quella che prevede il mezzo di ri-
ordinamento sociale repubblicano: in que-
cessario per esistere; è come chiedere ad un
solverli quando questi si presentano: come
sto caso la monarchia non sarebbe neppure
arzillo ottuagenario se è costituito per vive-
il fisico robusto non è quello che impedisce e
tollerata. Il tipo di energia politica che si
re… La nazione era costituita, e così ben co-
previene le malattie, ma quello che da la for-
esterna nella virtù è incompatibile con for-
stituita, che essa non ha mai chiesto a nes-
za di resistervi, e di ripararne prontamente i
me di governo assolutistiche, ma ammette
suna nazione vicina la protezione della sua
danni” v. Louis de Bonald Observations sur
unicamente un regime repubblicano. Il ma-
costituzione… proprio perché la Francia
l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad.
teriale umano con il quale ha da fare i conti il
aveva una costituzione ed una costituzione
it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, ,
procedimento tecnico dev’essere dunque
solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, an-
Roma 1985, pp. 35-36.
diverso a seconda che ci si prefigga di stabi-
che quando questi erano dei deboli, sempre
lire un principato assoluto o una repubblica;
invidiata mai scalfita; spesso turbata mai
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
33
inSEDICESIMO
LE MOSTRE – LA NOTIZIA – L’EDITORE DEL MESE
LA MOSTRA/1
L’INTRANSIGENZA DI SCALARINI
Una mostra al Museo del Novecento
a cura di luca pietro nicoletti
iuseppe Scalarini (1873-1948)
è stato «un italiano senza
retorica»: è con queste parole
che Mario De Micheli conclude nel
1962 la prima e impegnativa
monografia sul caricaturista politico
mantovano (ripubblicata da Feltrinelli
nel 1978). Socialista e antimilitarista,
con una graffiante ironia, il
disegnatore satirico che si firmava
con l’anagramma di una scala seguita
dal suffisso “-rini” è infatti fra i più
interessanti interpreti della caricatura
“sociale” della prima metà del
Novecento. In lui, faceva notare il
critico milanese, l’aperta denuncia
sociale non lasciava spazio al
pietismo: «può anche darsi», scriveva,
«che ci si accorga come, nell’ambito di
un’arte impegnata, i disegni di
Scalarini siano andati molto più
avanti e resistano al tempo meglio di
tante altre opere del verismo sociale,
indebolite dalla visione pietistica o
genericamente umanitaristica dei
problemi. Non c’è dubbio che Scalarini
avesse il senso storico del movimento
rivoluzionario. È perciò che nei suoi
disegni non si riscontra mai quel vago
evangelismo che risolve le situazioni
G
in pura chiave sentimentale, anche se
il sentimento era tanta parte della sua
personalità». Il suo, infatti, era un
disegno asciutto, secco: il disegno di
un moralista, secondo il critico, che
come tale non va per il sottile con
sfumature e delicatezze, ma punta al
messaggio senza mezze misure. Il
mondo, a quel punto, non poteva che
risultare diviso fra sfruttati e
sfruttatori.
Tutto questo doveva essere chiaro
nella mente di Scalarini fin da subito,
già dai tempi - a contatto con i
fermenti socialisti fiorentini, bolognesi
e della sua città natale - della
fondazione, a Mantova, del foglio
GIUSEPPE SCALARINI
(1873-1948). IL SEGNO
INTRANSIGENTE.
GRAFICA POLITICA, SATIRA
E ILLUSTRAZIONE
a cura di Giovanna Ginex
MILANO,
MUSEO DEL NOVECENTO
15 novembre 2013
9 marzo 2014
La guerra trasforma gli uomini in bruti, 1911
satirico “Merlin Cocai”. Ma il suo
valore è legato soprattutto alle 3764
vignette disegnate, entro il 1926, per
l’“Avanti!”. La prima, il 22 ottobre
1911, esce quasi in contemporanea
con l’inizio della campagna di Libia
giolittiana. La denuncia è feroce, e
contrasta con la retorica delle
cartoline sulla guerra bella ed eroica:
c’è, in Scalarini, la piena
consapevolezza che sarebbero state le
classi meno abbienti a fare le spese
della guerra. Tutto questo,
naturalmente, gli procurerà inimicizie
nel corso della sua vita, da quando
viene processato nel marzo 1914,
insieme a Mussolini, direttore
dell’“Avanti!”, e alla redazione del
giornale, per le vignette denunciatarie
delle violenze perpetrate dall’esercito
italiano in Libia, fino al confino nella
34
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Sopra: La casa del Fascio, 1924.
A sinistra: Si gettino via le armi, si colmi con
esse la frana, per modo che la Civiltà possa
riprendere il suo cammino, 1918
colonia penale di Ustica fra 1927 e
1928.
A sostenerlo è una fantasia
combinatoria sfrenata, fatta di
associazioni di idee e di metafore
verbali tradotte in immagine
attraverso procedimenti di montaggio.
Scalarini, infatti, non disegna su carta
da disegno, ma su carta lucida, sul
retro delle copertine di cataloghi, e su
altri materiali di recupero. Come
ricordava nel 1965 un altro
illustratore satirico, Enrico Gianeri (in
arte GEC, 1900-1984), Scalarini «quasi
mai disegnava la vignetta completa;
ma la componeva come un collage
satirico, con elementi ricavati da altre
sue precedenti vignette, da sfumini di
suoi vecchi clichés». Frequente è
anche il ricorso a un repertorio di
immagini, a un suo personale
“vocabolario” composto da circa 1.800
piccoli disegni (le “miniature”) raccolti
dall’artista in 302 fogli: da questi
attinge idee e soggetti, lavorando per
combinazione e per ingrandimento.
Un procedimento assai moderno, in
fondo, che piacerà ai pittori: è stato
notato, infatti, che la sua vignetta su
L’occhio del prefetto (“Avanti!”, 13
agosto 1924), con un occhio
gigantesco che spia dalla finestra un
interno d’ufficio, anticipa
l’Annunciazione di Alberto Savinio del
1932.
Ma per lui questi meccanismi
hanno un fine espressamente politico.
In questi anni, del resto, Scalarini
assiste alla fine della guerra, alle
paure della borghesia affamatrice e
all’ascesa del fascismo. Basta una sola
immagine a riassumere i meccanismi
inventivi e associativi del suo lavoro:
ne Il figlio della guerra (“Avanti!”, 24
dicembre 1920) si vede la
personificazione scheletrica della
guerra, avvolta nel drappo tricolore
della bandiera, deporre il figlioletto in
fasce (il Fascismo) nella mangiatoia
del capitalismo; il contrasto non
poteva essere più stridente,ma
Scalarini aggiunge una nota crudele,
trascrivendo in esergo l’incipit del
Vangelo di Luca (2,7). Nella sua
inventiva eccitata, che non disdegna i
toni del grottesco, pur nella
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
modernità della costruzione
dell’immagine, il messaggio rimane
sempre inequivocabile e premonitore:
La riforma del regolamento della
Camera (“Avanti!”, 10 maggio 1024),
per esempio, vede una
personificazione della Lex
imbavagliata; La casa del fascio
(“Avanti!”, 12 gennaio 1924), invece,
da elementare casetta con una
porticina e due finestre simmetriche
al primo piano si trasforma nelle
orbite cave e le fauci spalancate di un
teschio minaccioso. Al contempo, fra i
palloni gonfiati della borghesia
industriale, i tentacoli neri della curia
romana e gli scheletri degli orrori
della guerra, prende un suo spazio
sempre maggiore, nella critica al
Fascismo, la figura del Duce. Il nostro
artista naturalmente lo conosceva
bene, da quando era stato il direttore
del suo giornale, e per primo aveva
colto la trasformazione del
contestatore socialista nel pericoloso
dittatore. Non lascia spazio a
fraintendimenti, in tal senso, una
vignetta dal titolo lapidario: Giuda
(“Avanti!”, 23 novembre 1914), in cui
un minuscolo Mussolini armato di
pugnale si inerpica su un’altura per
aggredire alle spalle un Cristo solenne
e benedicente. Un mese prima (20
ottobre), Mussolini si era dimesso
dalla direzione dell’“Avanti!”, e il 15
novembre aveva inaugurato “Il Popolo
d’Italia”; il giorno dopo la vignetta
prima citata, invece, il partito
decideva, in una drammatica riunione,
la sua espulsione. Mussolini non si
sarebbe dimenticato di lui: nel
novembre del 1926 manda a casa sua
una missione punitiva. È l’ultimo atto
di un attacco del duce nei suoi
confronti, a cui seguirà il confino e
l’interdizione dalla stampa. Scalarini
non può più esporsi, né disegnare per
i giornali, trovandosi obbligato a un
sofferto silenzio. In questi anni
pubblica, sotto la firma di una delle
sue tre figlie, un libro per bambini: Le
avventure di Miglio, pubblicato da
Vallardi 1933 (ripubblicato, per
La riforma del regolamento della Camera, 1924
35
interessamento di De Micheli, da
Bompiani nel 1980). I tempi, tuttavia,
stavano cambiando: finita la guerra,
dopo il Duce, sarà l’avvento della
fotografia giornalistica a privarlo del
suo principale campo d’azione. La
grande stagione della caricatura e
della satira politica era ormai finita. E
anche la vita di Scalarini, poco dopo,
volgeva al suo termine. (l.p.n.)
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
LA MOSTRA/2
VESTIRE IL PENSIERO
Le edizioni Tallone
alla Biblioteca Nazionale di Torino
sattamente allo scadere del
bicentenario della scomparsa
di Giambattista Bodoni, il
grande stampatore e creatore di tipi
tipografici di Saluzzo, l’Editore Tallone,
di cui la Biblioteca di via Senato
conserva una delle più ricche
collezioni, porta a compimento la
serie in quattro volumi dei suoi
Manuali Tipografici, in cui si potrà
trovare compendio dei propri concetti
estetici, grafici e filologici. Celebra
E
questa coincidenza la mostra delle
edizioni Tallone la mostra presso la
Biblioteca Nazionale Universitaria di
Torino, dove si potranno vedere
esposti i preziosi volumi. Concepiti in
senso bodoniano, poiché ogni
descrizione trova riscontro negli
specimen originali stampati a Parigi e
in patria dagli anni Trenta ad oggi, i
primi tre tomi sono stati dedicati
rispettivamente all’estetica dei
frontespizi e dei caratteri maiuscoli
37
(Manuale I), degli indici, colophon e
prospetti editoriali (Complemento al
Manuale I), dei caratteri da testo,
impaginazioni e formati (Manuale II),
infine all’estetica delle carte, delle
filigrane e degli inchiostri nel tomo
appena pubblicato. Esposti ora
insieme a una selezione di preziosi
fogli di carta intonsi della più alta
tradizione cartaria europea e asiatica
dall’Ottocento ad oggi, e a una
selezioni di classici del catalogo
Tallone su di essi impressi, i Manuali
ripercorrono l’insieme progettuale
sviluppato nel corso di ottant’anni di
ricerca del rigore filologico e della
chiarezza, onde favorire la “musica
silenziosa” della lettura, ritmata
dall’equilibrio dei bianchi e dei neri.
VESTIRE IL PENSIERO.
Tipografia e editoria nei
Manuali Tipografici di Alberto
e Enrico Tallone. Bicentenario
bodoniano (1813-2013).
TORINO, BIBLIOTECA NAZIONALE
UNIVERSITARIA
7 dicembre 2013
11 gennaio 2014
38
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
LA MOSTRA/3
IL COLORE-SEGNO DI SONEGO
Da Arte Invernizzi a Milano
NELIO SONEGO.
ORIZZONTALEVERTICALE
MILANO, A ARTE INVERNIZZI
5 dicembre 2013
5 febbraio 2014
a pittura di Nelio Sonego è
un’improvvisa apparizione di
puro colore che attraversa il
campo immacolato della tela, sulla
L
quale si spande per impressione
visiva, in quanto delinea una
traiettoria dinamico-cromatica con
sottile gioco percettivo. Modulo e
gesto potrebbero essere termini
appropriati per decifrare la sua
pittura: termini da intendere in una
fluttuante dimensione ambientale,
come mostra la bella mostra presso lo
studio Invernizzi di Milano presentata
da Paolo Bolpagni. All’interno di un
procedimento codificato, Sonego si
avvicina alla tela “alla prima”,
Sopra: Nelio Sonego, (da sinistra a destra),
Orizzontaleverticale 2013, Acrilico su tela
200x135 cm, Orizzontaleverticale 2013,
Acrilico su tela 200x135 cm, Courtesy
A arte Studio Invernizzi, Milano,
Foto Bruno Bani, Milano.
Sotto: Nelio Sonego, Veduta parziale
dell’esposizione 2013, A arte Invernizzi,
Milano, Courtesy A arte Studio Invernizzi,
Milano, Foto Bruno Bani, Milano
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
operando per sovrapposizione di
segni, fino a creare un ordito in
movimento come una scia luminosa.
Egli delinea i propri tracciati cromatici
con gesto rapido e ripetuto, che usa il
braccio come il raggio di un compasso
e non lascia spazio a incertezze: nella
sua ascetica reiterazione di un atto
dinamico, infatti, non è possibile un
margine di ripensamento, se non a
patto di compromettere l’esito finale.
Come annota Bolpagni, «il segnocolore scaturisce da un gesto unitario,
subitaneo, deciso, non preordinato
dalla razionalità, bensì determinato
dal movimento del braccio, cosicché
la stessa rotazione dell’articolazione
della spalla si traduce nella traiettoria
curva del pennello sulla tela».
Bisogna però resistere alla
tentazione di classificare questa
ricerca in ambito informale, a cui
indurrebbe una riflessione su
reiterazione e impressione istantanea
del gesto. Bolpagni fa notare infatti
una radice “orientale” di quel modo di
procedere: «quel gesto non è violento
o impetuoso, non è esplosione si
soggettivismo, né frutto della
casualità o di uno scatto spontaneo,
ma manifestazione di un’energia
coltivata nella concentrazione e nello
sguardo interiore.
Quasi come un calligrafo zen […],
Sonego non si lascia agitare dalla
passione, ma raduna con assoluto
autocontrollo le forze psicologiche e
fisiche, e le ‘preordina’ a innescarsi in
un istante senza tempo, a concretarsi
in un gesto che erompe infallibile,
sotto l’impulso di una carica vitale
disciplinata, e di una forma ideale
inscritta nella mente».
39
LA MOSTRA/4
BACCIGRAFIA CREMONESE
Opere di Orazio Bacci a Cremona
n una intervista del 2003 per la
mostra alla Galleria Scoglio di
Quarto e intitolata Baccigrafia
andamentale, Orazio Bacci confidava a
Tommaso Trini di aver dipinto righe per
trent’anni, a partire dal 1965: lavorava
in negativo, mascherando le figure che
voleva lasciare bianche e riempiendo la
campitura del fondo. Era già arrivato al
pieno compimento della sua pittura
costruttivista, basata sui tre colori
fondamentali, senza la minima
inflessione “sentimentale” della pittura
tonale: da allora, Bacci ha seguito
piuttosto la strada del rigore
compositivo geometrico, della riduzione
I
cm 100x100 acrilico su tela anno 1966
della pittura ai minimi termini,
scegliendo come sintassi della sua
pittura la modulazione lineare e i soli
tre colori primari, spesso usati uno solo
alla volta, a fare da negativo alle sue
forme bianche.
A questo proposito Tommaso Trini,
ORAZIO BACCI
a cura di Gabriella Brembati
CREMONA, GALLERIA DELLE ARTI
14 novembre 2013
13 febbraio 2014
40
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
stesse maschere sono diventate una
base per l’inchiostratura di campiture di
colore uniforme. Non si tratta di un
banale sistema di ingrandimento
meccanico, perché Bacci si serve del
mezzo tecnologico per operare
variazioni in corso d’opera, dando
A sinistra: cm 90x90 acrilico su tela anno
1867; sotto: cm 90x90 acrilico su tela 1968
nel 2000, affermava che «I suoi quadri
perfezionano moduli per meglio
trasgredirli […]», e che Bacci era arrivato
alle DMS (la sigla seriale con cui
titolava i propri quadri: Dimensione
Modulare Spaziale) in un periodo in cui
«Fontana lo incoraggiava, Nigro lo
segnalava e Mondrian lo proteggeva dal
paradiso dei pigmenti puri». In questi
tre nomi, il critico aveva efficacemente
enucleato le coordinate di riferimento
del lavoro dell’artista milanese, il primo
conosciuto e ammirato, il secondo
frequentato in un lungo sodalizio
amicale, il terzo come padre spirituale a
cui guardare per intraprendere la strada
del costruttivismo (lo stesso che lo
condurrà ad amare ancora di più, in
breve tempo, le istanze russe proposte
da Malevic). Il rapporto fra pittura e
fotografia, per Bacci, non si limita a
questa convivenza di due realtà
professionali distinte nel suo percorso
artistico, ma è determinante per via di
una felice ibridazione di linguaggi
espressivi che hanno luogo nel suo
lavoro: la fotografia, in un certo senso,
ha determinato un certo approccio ai
mezzi della pittura, suggerito repertori
di forme se non addirittura, con i dovuti
adattamenti, determinati processi
operativi. C’è infatti una stretta affinità
fra le D.M.S. ottenute mascherando le
linee bianche e colorando i fondi a
campiture uniformi e le cosiddette
“baccigrafie” (omaggio alle “rayografie”
di Man Ray) ottenute in camera oscura.
Il passo successivo, che porta alle opere
più recenti, è stato quello di recuperare
alcune delle quarantacinque
“baccigrafie” del 2004 per dare vita,
attraverso un complesso sistema
meccanico di stampa su tele di grande
formato, alle “Baccicromie”, in cui le
precise istruzioni all’operatore circa i
colori da inserire in luogo delle forme
bianche su fondo nero: allo stesso
tempo, risemantizza l’opera non solo
attraverso il cambio di dimensione, ma
anche attraverso una rielaborazione che
sfrutta le peculiarità tecniche del nuovo
mezzo utilizzato, le qualità del denso
colore da stampa di cui si serve.
Senza dubbio non è la pittura che si
intende come segno della mano che si
imprime su un supporto pittorico, ma è
pur vero che quella di Bacci è sempre
stata una pittura di progetto, tutta
mentale e poco incline a divagazioni
sentimentali e all’improvvisazione, anzi
misurata sulla valutazione degli
equilibri compositivi in maniera
accuratissima. Tuttavia, come ricordava
Sergio Dangelo, «il rigore non elude la
poesia, (sia pure essa un cantico di
ghiaccio)».
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42
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
LA NOTIZIA
Il Premio Acqui Storia e l’intollerante
attacco dell’ANPI ai vincitori
di mario bernardi guardi
i sia consentito un “incipit”
tutto d’impeto e che in
qualche modo costeggia
l’enfasi: noi crediamo nella libertà. E ci
prendiamo la libertà di dirlo e di
ribadirlo.
Ancora: noi vogliamo la verità.
Dichiarazione “bella e impossibile”,
dietro cui fa sempre capolino un
Ponzio Pilato che chiede a Gesù messo
in ceppi: “Che cos’è la verità?”
Può darsi. Diciamo allora che senza
inerpicarci sui frastagliati percorsi di
morale, etica, teologia ecc. ecc.,
aspiriamo a verità piccole piccole,
quelle che, ad esempio, possono venire
da una ricerca storica serena,
obbiettiva e spassionata. Oddio, non è
detto che ci si arrivi a ricostruire
questo o quell’altro “fatto”, ma se ci si
applica, “sine ira et studio” e con
“intelletto d’amore”, possiamo per lo
meno lavorare intorno a delle ipotesi,
prospettarle, dibatterci sopra, ampliare
uno scenario, provare a rispondere ad
alcuni interrogativi e a porne altri,
tenere desta la coscienza civile, lo
spirito critico, la voglia di democrazia
senza se e senza ma, al di là di tutte le
ideologie, al di sopra e contro ogni
nostra “riserva” personale, al di sopra e
contro il nostro stesso “vissuto” col suo
carico di bandiere, di scelte, di
emozioni e il suo vario cromatismo
bianco, rosso, nero o come vi pare.
Se ci impegniamo a “fare” la storia,
C
dobbiamo avere il coraggio di farla,
sentire il dovere di farla, anche contro
noi stessi, anche contro, per dirla con
Franco Cardini, gli “antenati” che ci
siamo scelti.
Infatti, se è legittimo “proiettare”
noi stessi in quello o quell’altro campo
e quindi scegliere, a colpi di letture
(soprattutto quelle che ci hanno
segnato da adolescenti) e di
“complicità” sentimentale (che, la si
metta come si vuole, ha una sua
franca “immediatezza), la parte di
Ettore o quella di Achille, degli spartani
o degli ateniesi, dei romani o dei
cartaginesi, dei giacobini o dei
vandeani, dei sabaudi o dei borbonici,
dei pellerossa o dei cowboy, dei
partigiani o - possiamo dirlo? - dei
fascisti; è illegittimo deformare,
uniformare, occultare, enfatizzando
quel che ci fa comodo e minimizzando
o ignorando quel che ci disturba. E non
è cosa simpatica rimuovere,
nascondere, imporre verità di partito,
scendere in campo lancia in resta
contro chi si permette di discutere
questo o quell’aspetto della “vulgata”,
urtando la sensibilità degli arcigni e
permalosissimi “gendarmi della
mamoria” (per usare un’espressione di
Giampaolo Pansa).
A tutti i custodi delle verità
rivelate- e a costo di farli arrabbiare
ancora di più- noi diciamo: stiamo
dalla parte della revisione. E che
nessuno provi a intimidirci utilizzando
il terrorismo verbale. Noi siamo con
Renzo De Felice che scrive: “Per sua
natura lo storico non può che essere
revisionista, dato che il suo lavoro
prende le mosse da ciò che è stato
acquisito dai suoi predecessori e tende
ad approfondire, correggere, chiarire, la
loro ricostruzione dei fatti (…). Lo
sforzo deve essere quello di
emancipare la storia dall’ideologia, di
scindere le ragioni della verità storica
dalle esigenze della ragion politica”
(Cfr. Rosso e nero, a cura di Pasquale
Chessa, Baldini&Castoldi, 1995, p. 17
sgg.).
Questo vale anche quando, più che
mai quando, si parla e si scrive di
Sopra: grandi nomi della cultura italiana al
Teatro Ariston di Acqui Terme. A sinistra:
Antonia Varini, qui con Carlo Sburlati, e Franco
Di Mare presentatori dell’Acqui Storia 2013. A
destra: Dario Fertilio riceve il Premio di 6500
euro nella sezione romanzo storico.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
Resistenza. Sempre De Felice: “La
Resistenza è stata un grande evento
storico. Nessun ‘revisionismo’ riuscirà
mai a negarlo. Ma la storia, al contrario
dell’ideologia e della fede, si basa sulla
verità dei fatti piuttosto che sulle
certezze assolute. Descrive il mondo
come è stato, non come si vorrebbe
che fosse stato. Una ‘vulgata’
storiografica, aggressivamente
egemonica, costruita per ragioni
ideologiche (legittimare la nuova
democrazia con l’antifascismo), ma
usata spesso per scopi politici
(legittimare la sinistra comunista con
la democrazia), ha creato, invece, una
serie di stereotipi che ci hanno
impedito di dipanare quell’intricata
matassa in cui si aggrovigliano i nodi
irrisolti degli ultimi cinquant’anni: la
sconfitta dell’Italia e la crisi
dell’identità nazionale, il ruolo decisivo
per la vittoria degli eserciti inglese e
americano e le frustrazioni
dell’antifascismo, i limiti militari della
Resistenza e la realpolitik del partito
comunista e del partito cattolico,
l’inconsistenza storica della monarchia
e l’inadeguatezza etico-politica della
borghesia…(op. cit., pp.45-46, sgg.).
All’elenco di De Felice ci
permettiamo di aggiungere: le
“resistenze” nella Resistenza; la
Resistenza come “guerra civile”,
“guerra patriottica”, “guerra di classe”
(cfr. Claudio Pavone Una guerra civile,
Bollati Boringhieri, 1991); la
conflittualità dura, a volte sanguinosa,
tra la Resistenza targata PCI e quella
democratica (socialista, azionista,
monarchica, liberale ecc.); l’altrettanto
aspra, anche se meno nota,
conflittualità, stavolta all’interno del
“fronte rosso”, tra i comunisti
d’obbedienza PCI e gli “irregolari”; il
prolungamento della “resa dei conti” e non solo con fascisti o presunti tali,
ma anche con “compagni che
sbagliavano” - dopo la Liberazione e
fin quasi al ‘48…
Ci fermiamo qui, anche se i
“materiali” su cui lavorare sono molti,
molti di più. E tutti scottanti. Ma, da
studiosi, dobbiamo aver paura di
bruciarci le mani? O sono mente e
cuore a non reggere all’urto della
complessità? A chi si sforza di
ragionare chiediamo: quanto abbiamo
osservato è “giusto”? È “giusto” che i
giurati di un premio storico a cui tocca
di scegliere tra un bel po’ di saggi in
cui il Novecento e dunque il Fascismo
e la Resistenza hanno il loro bel peso,
osservino tutto con scrupolo e non
attraverso le lenti deformate
dall’ideologia?
Entriamo nel merito: è “giusto” che
il Premio Acqui Storia, intitolato alla
memoria della Divisione Acqui che, a
Cefalonia e a Corfù scrisse la prima
pagina della Resistenza, si ispiri ai
suddetti criteri di “revisione” (lo
ripetiamo ancora: chi vuol crocifiggere
gli altri alle parole terroristiche, di fatto
43
crocifigge se stesso alle proprie paure)?
E’ “giusto” che si diano dei
riconoscimenti a chi si è più segnalato
per intelligenza, obbiettività, capacità
di rielaborazione critica, gusto della
ricerca anche “scomoda”, serena
volontà di confronto e di dibattito?
Ovviamente, per qualcuno non è
giusto.
Ad esempio, per l’ANPI di
Alessandria. Che ha elevato una vibrata
protesta contro il Premio Acqui Storia,
Edizione 2013, accusandolo, ma guarda
un po’, di revisionismo. Lo stesso ha
fatto con tanto di denuncia alla
Procura Distrettuale di Torino un certo
Fulvio Castellani di Prato,
cinquantenne ed anche lui dell’ANPI
(dove c’è posto per gli ex- che hanno
fatto la Resistenza - e per i neo -, che
non l’hanno fatta perché non avevano
l’età, ma, potendo, la farebbero), il
quale - facendo leva su avvocatesche
competenze - ha ipotizzato per
organizzatori e giurati del Premio le
accuse più pesanti, dalla diffamazione
della Resistenza all’attentato alla
Costituzione, dalla ricostituzione (“con
metodi raffinati”) del disciolto partito
fascista al “peculato per distrazione”.
Addirittura! Sì, perché “i fondi
44
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Sopra: Carlo Sburlati con il regista Pupi Avati e Franco Cardini. A destra: l’ambasciatore Serra
premiato dal Prefetto di Alessandria.
pubblici ricevuti per organizzare un
premio comunque a impronta
antifascista sarebbero stati autorizzati
per assegnare riconoscimenti ad autori
di testi di inclinazione del tutto
opposta” (Cfr. P.C., Quel libro disonora i
sette fratelli Cervi e io querelo gli
organizzatori del Premio, “La Nazione”,
Cronaca di Prato, 27-10-13).
A parte il fatto che ci inquieta non
poco la definizione di premio
“comunque a impronta antifascista”,
come ci inquieterebbe un premio
“comunque” ideologicamente
orientato, lo scenario è questo: expartigiani e neopartigiani dichiarati
contro neofascisti presunti.
Ma chi sarebbero, poi, questi
“neofascisti”?
Cominciamo da quello contro cui
Castellani sembra avercela di più. E
cioè Dario Fertilio, responsabile delle
pagine culturali del “Corriere della
Sera” e vincitore nella sezione del
romanzo storico con un libro che,
coniugando documenti e intreccio
narrativo e ripercorrendo itinerari su
cui si erano già mossi altri cercatori
(tra cui un “bieco fascista” come
Giorgio Pisanò), ipotizza che dietro la
fucilazione dei sette fratelli Cervi,
comunisti, sì, ma “disorganici”, cristiani
e non violenti, possa esserci stata la
mano del PCI, duro e puro nella sua
ferrea ortodossia (L’ultima notte dei
fratelli Cervi, Marsilio).
Il che fa arrabbiare Fulvio
Castellani che così si indigna sulla
citata “Nazione”: “I fratelli Cervi furono
uccisi con fucili e pallottole fasciste.
Che si riscriva la storia - romanzandola
quanto si voglia -, mi pare
un’operazione scorretta. Se poi a quel
libro si attribuisce un premio letterario,
nato nel solco di una chiara etica
resistenziale, no, non potevo proprio
far finta di niente”. Castellani evoca
Cefalonia, ricordando che il Premio
“sorse nel ’69 in ricordo di quell’eccidio
e con un’impronta chiaramente
resistenziale, antifascista” e
ulteriormente si indigna notando:” E
invece vedo premiato un testo che sia pur romanzato - getta discredito
sui fratelli Cervi, mettendone in dubbio
l’appartenenza, se non al comunismo,
almeno al socialismo. Loro, contadini, il
socialismo lo praticarono nel lavoro,
nella vita quotidiana”.
Invece Fertilio “riconduce i fratelli
Cervi nell’ambito dell’anarchismo, li
descrive come insofferenti all’ordine e
alla gerarchia che la Resistenza
imponeva. Azzarda che la loro
esecuzione - che non nega essere
avvenuta per mano fascista - avrebbe
rappresentato una punizione indiretta
di fronde ribelli interne alla Resistenza.
No, i Cervi sono un punto fermo della
storia e non è accettabile nessuna
rilettura”.
“Non è accettabile”? Ma, caro
Castellani, non si accorge che qui
siamo alla censura, all’ipse dixit, alla
didattica di regime? Cosa vuol dire “un
punto fermo della storia”? Che quel
che si è dato per “buono” una volta,
creando un mito e poi via via
rielaborandolo a seconda delle
opportunità politiche, deve essere
considerato “sacro e inviolabile”? Ma
lei non ha mai sentito parlare di
“fronde ribelli all’interno della
Resistenza”? Si è mai informato su
come agiva il PCI d’obbedienza
moscovita nei confronti degli
“irregolari”, anarchici, anarcoidi,
trotzskisti o comunque non
inquadrabili, a partire dalla guerra
civile spagnola in poi? Ancora: Fertilio
“toglie” qualcosa all’eroismo
antifascista dei fratelli Cervi, se si
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
sforza di illuminare qualche zona
d’ombra relativa al modo con cui
furono catturati? Toglie qualcosa se
ipotizza che, nella strategia della
guerra civile, il loro martirio servì
“politicamente” al PCI?
Andiamo avanti. Un altro
neofascista sarebbe Maurizio Serra,
attualmente ambasciatore d’Italia
all’UNESCO, premiato nella sezione
storico-scientifica come autore di uno
scintillante profilo di uno scintillante
personaggio: Curzio Malaparte. Il suo
saggio (Malaparte. Vita e leggende,
Marsilio), apparso in prima edizione in
lingua francese, è stato premiato col
Goncourt: e scusate se è poco. La colpa
di Serra? Secondo i compagni dell’ANPI
e di Fulvio Castellani è quella di essersi
consacrato alla biografia celebrativa di
un fascistone, per di più spione e
doppiogiochista, al servizio di tutti
quelli che, di volta in volta, gli
facevano comodo.
Ora, Malaparte fu “di tutto e di più”.
Un Narciso geniale, valorizzatore e
dissipatore degli infiniti talenti che gli
aveva dato Madre Natura, fascista e
antifascista, comunista e
anticomunista, militante sotto le più
svariate bandiere, soldato valoroso,
intellettuale trepidante e timoroso di
perdere le sue rendite di posizione,
confinato di lusso, forse
collaborazionista, forse spia (ma Serra,
che pure non fa sconti a Malaparte,
scavando tra i documenti, mostra
come l’accusa non stia in piedi),
sicuramente grande investigatore nella
carne e nello spirito, nel sangue e nelle
viscere del Novecento e grande
narratore della sua fastosa e atroce
decadenza. Per un personaggio del
genere, ci voleva uno che rifiutasse gli
“esercizi di ammirazione”, ma fosse
comunque consapevole di accostarsi a
una figura cruciale nell’interventismo
culturale dello scorso secolo. Ci voleva
Maurizio Serra, insomma. Bene,
provate a dirlo a Castellani. Il nostro
neopartigiano l’ha letto il libro? Noi
abbiamo qualche dubbio: infatti ignora
che tra le testimonianze in appendice
di “simpatizzanti” malapartiani c’è
anche quella di Giorgio Napolitano. In
essa, il Presidente, con molta serenità,
rievoca i contatti tra il PCI - in prima
linea, Palmiro Togliatti - e Malaparte, al
tempo dell’armistizio e nel primo
dopoguerra. Non è una questione
interessante, che sollecita la curiosità
storica? Evidentemente, per Castellani,
no. Il concittadino di Curzio, poi, se la
prende in particolar modo con uno dei
capitoli finali della Pelle dove
Malaparte “esalterebbe” i giovanissimi
franchi tiratori fiorentini che
“sparavano sulla gente dai tetti dopo
45
essere stati lasciati soli dai tedeschi e
dai gerarchi fuggiti dalla città”.
Insomma, Malaparte - che allora
non aveva scelto la RSI ma stava dalla
parte dei liberatori, risaliva la Penisola
con loro e indossava una divisa
americana - sarebbe un fascista o giù
di lì perché presenta dei ragazzi e
anche una ragazza che vanno incontro
alla morte (fucilati dai partigiani sui
gradini di Santa Maria Novella) pieni di
spavalderia e sbeffeggiando chi spara
loro addosso. Castellani è toscano:
dovrebbe saperlo che i toscani- anche
se fascisti- sono fatti così. Sì, Castellani
è toscano, ma soprattutto è un
neopartigiano. Sembra allora di capire
che se Curzio avesse presentato dei
luridi “topi di fogna”, schifosi e
piagnucolosi, sanguinari assassini
prima e al momento della morte
carogne che se la fanno sotto,
implorando la salvezza, a quest’ora la
materia del contendere non ci sarebbe.
E invece quei fascisti con la loro
“bella morte”! Hanno sparato
rannicchiati sui tetti, ma ora muoiono
in piedi, pigliando per il culo i loro
giustizieri! Uno scandalo!
Ci fermiamo qui, saturi di un
“politicamente corretto” che ci dà il
voltastomaco. Chi ha avuto la pazienza
di leggerci tenga però presente che tra
i neofascisti premiati dai revisionisti
dell’Acqui Storia e ovviamente
contestati dall’ANPI e dal Castellani
compaiono altri due loschi figuri:
Giampaolo Pansa, Testimone del
Tempo, e Franco Cardini, Premio alla
Carriera.
Magari ne parleremo alla prossima
puntata.
46
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
L’EDITORE DEL MESE
Bietti: per un elogio dell’incoscienza
Una casa editrice piccola e coraggiosa
di tommaso piccone
d oggi, si può dire che la casa
editrice Bietti sia una delle più
antiche realtà editoriali
italiane. Nata nel lontano 1870 ad
opera dello stampatore Angelo Bietti, si
afferma nel corso della prima metà del
Novecento pubblicando classici come
Verne, Dumas e Dovstoevskij, nonché la
prima edizione dello Zingarelli: è negli
anni Sessanta che raggiunge il suo
momento apicale, divenendo uno dei
punti di riferimento dell’editoria
nazionale. Dopo una lunga serie di
peripezie, alla fine degli anni Novanta il
marchio viene rilevato da Federico
Milesi e la direzione assunta da Valerio
Riva. Il primo è tra i fondatori del
circolo liberale “Società della critica”, il
cui nome va ad aggiungersi a quello
storico, come simbolo di una nuova
A
linea editoriale che si batte per la libera
circolazione delle idee e il dibattito –
dicitura che tuttora accompagna il
marchio.
Agli inizi del nuovo millennio a
Carlo Milesi, figlio di Federico, si
affianca Tommaso Piccone. La nuova
linea direzionale decide di rilanciare
l’iniziativa, facendosi carico dell’eredità
della pluridecennale casa editrice ma
innovandone al contempo il raggio
d’azione. Da qui la ripresa di alcune
delle collane “storiche”, ma anche la
fondazione di nuovi contenitori di idee.
La collana “Biblioteca Bietti”
costituisce oggi una piattaforma per la
promozione di fantascienza e
fantastoria italiane, ospitando autori
usualmente adombrati dai loro
concorrenti d’oltreoceano. Vuole infatti
farsi supporto di quella che è stata
definita in più occasioni “scuola
italiana del fantastico”, nella
persuasione che si possa creare
letteratura di genere anche prendendo
le mosse da scenari e personaggi
nostrani. Perché, ad esempio, utilizzare
le consuete landscapes americane,
laddove il nostro Paese dispone di
scenari altrettanto pittoreschi e di
misteri altrettanto affascinanti e
versatili, nel loro essere spunto
narrativo? Un esempio? Nekros,
romanzo di ispirazione lovecraftiana –
con tanto di frontespizio e capitoli di
un Necronomicon realizzato
artigianalmente – firmato da Ugo
Ciaccio, non ambientato a Providence o
ad Arkham, bensì in una Napoli dai toni
gotici e inquietanti, finanche esoterici.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
Ultime per ordine ma non per
importanza, le numerose antologie, sia
della scuola di Gianfranco de Turris sia
firmate da Gianfilippo Pizzo e Walter
Catalano, dedicate a fantascienza,
fantastoria e ucronia.
La collana “Caleidoscopio” è invece
dedicata a profili letterari, biografie e
antologie: tra i titoli, di particolare
importanza le raccolte complete dei
corpus poetici di Antonia Pozzi e
Amalia Guglielminetti, corredati da
apparati critici e biografici che
restituiscono la complessa personalità
delle due poetesse all’interno del loro
tempo. Da segnalarsi anche gli scritti
teorici di Howard Phillips Lovecraft,
raccolti per la prima volta in un unico
volume sotto la prestigiosa tutela di
studiosi del solitario di Providence del
calibro di Gianfranco de Turris, S. T.
Joshi e Claudio de Nardi.
Il vecchio catalogo si arricchisce
altresì di nuove collane, come
“Heterotopia”, dedicata interamente al
mondo del cinema, che ospita sia
monografie critiche sia documenti
“primari”, come il diario di David
Carradine, documento “in presa diretta”
della realizzazione del celebre Kill Bill di
Quentin Tarantino. Rilanciata grazie
all’impegno di un gruppo di giovani
critici cinematografici – Claudio
Bartolini, Ilaria Floreano e Giulio
Sangiorgio – la collana si articola in
studi su registi e cinematografie di
culto, privilegiando quelli di cui in Italia
nessuno ha scritto, ma anche sul
linguaggio della Settima Arte, per
addetti ai lavori, nonché per quei
curiosi che vogliano accedervi con
qualche strumento critico in più
rispetto a quelli – invero, piuttosto
scarni – offerti dai media.
A partire dal 2012, sotto la
direzione editoriale di Andrea
Scarabelli, viene diffusa “Antarès –
prospettive antimoderne”, rivista a
scansione quadrimestrale. Sette
fascicoli, fino ad ora, dedicati a
tematiche che spaziano dalla
spiritualità del camminare alle critiche
alla modernità da parte di autori e
intellettuali del rango di Carl Schmitt,
47
Julius Evola ed Ernst Jünger; con
monografie dedicate a Howard Phillips
Lovecraft e J. R. R. Tolkien. Nata
nell’Università degli Studi di Milano,
viene ora distribuita in forma gratuita
in una serie di librerie fiduciarie e –
sempre gratis et amore Dei, come ripete
spesso il suo direttore responsabile,
Gianfranco de Turris – in rete.
Il periodico è affiancato dalla
collana “l’Archeometro”, dedicata a
tematiche analoghe: una critica della
modernità che non si risolva
semplicemente nel rimescolarne le
carte – come avviene per molti
improvvisati interpreti del presente –
ma che abbia una marca
essenzialmente mitografica e
metafisica. A fianco di questa lettura
critica del moderno (che vede i nomi di
Giorgio Galli, Stefano Giuliano, Luca
Gallesi, Stenio Solinas e Davide Bigalli
affiancati a classici come Guido
Morselli, Ezra Pound e Gustav Meyrink)
la collana – anch’essa diretta da
Scarabelli – intende mettere a
disposizione testi “politicamente
48
scorretti” e sistematicamente
dimenticati o ignorati dalla critica
nostrana. Da qui, ad esempio, l’edizione
(appena approntata) di Salazar e la
rivoluzione in Portogallo di Mircea
Eliade, di cui si è parlato poco – e male.
Prima della sua edizione critica,
appunto, messa a punto attraverso una
serie di saggi che contestualizzano gli
appelli eliadiani alla “rivoluzione
spirituale” salazariana sia all’interno dei
primi decenni del “secolo breve” sia
nell’orizzonte delle pubblicazioni dello
storico delle religioni romeno.
Di marca narrativa è invece
“Caledonia”, appena avviata sotto la
direzione del giovane studioso
Giovanni Calarco. Dedicata alla
narrativa di viaggio e paesaggistica
inglese, riprende il progetto della
Penguin English Journey, promuovendo
un genere letterario assai raffinato e
altrettanto diffuso – dall’età
elisabettiana sino ai giorni nostri – che
vanta nomi di grandissimo rilievo, e
purtuttavia del tutto ignorato dalla
critica nostrana.
Il “Fuori collana”, infine, ospita
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
pamphlet e studi eccentrici e non
allineati, come i recenti volumi di Paolo
Bianchi e Giuseppe Magnarapa. Il
primo, Inchiostro antipatico, è un
j’accuse di quella moda pennaiola delle
scuole di scrittura creativa, attraverso
le quali chiunque – leggasi chiunque –
può accedere alla produzione letteraria.
Con risultati che ormai sono sotto gli
occhi di tutti – e che definire grotteschi
è forse limitativo. Il secondo – di
grandissima attualità, come dimostra
ad esempio il dibattito promosso dalle
colonne di questa stessa rivista – è
invece dedicato a certo
antiberlusconismo, e alla componente
pregiudiziale, prerazionale ed emotiva
che spesso e volentieri scatena talune
levate di scudi contro quello che è
ormai diventato un mito, Silvio
Berlusconi, che vede irriducibili
detrattori opporsi – ma solo
apparentemente – ad acritici esaltatori.
Il nemico assoluto. Fenomenologia
dell’antiberlusconismo militante non
intende essere una difesa dell’operato
dell’ex premier ma prende di petto chi
con la critica del suo operato ha fatto
carriera. Il recentissimo Wikipedia.
L’enciclopedia libera e l’egemonia
dell’informazione, firmato da Emanuele
Mastrangelo (Storia in Rete) ed Enrico
Petrucci, mette invece in discussione un
ennesimo tabù dei nostri tempi,
mostrando come dietro alla
“enciclopedia collettiva”, da tutti
osannata come “liberazione” della
cultura dalle grinfie delle élites, gravino
ipoteche orwelliane, si stagli l’ombra
sinistra del “Ministero della Verità” di
1984. A svariati anni dal rilancio di
questo progetto, è possibile stilare un
bilancio provvisorio di quella che non è
una mera manovra editoriale ma
un’autentica visione del mondo, la cui
quintessenza, potremmo dire in modo
abbastanza polemico, è all’insegna
dell’incoscienza.
Ma è una incoscienza che spesso e
volentieri salva la cultura, quando
quest’ultima è preda di un Pensiero
Unico il cui esercizio avviene assai
sovente con strumenti coercitivi. Come
dire, quando la coscienza diventa
censoria, spetta all’incoscienza dire la
verità...
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la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Punture di penna
Consigli intellettuali per
il vero Maître à penser
Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte terza
LUIGI MASCHERONI
ALCOL Per scrivere, si può
AGGETTIVI Da evitare
assolutamente: “suggestivo”,
“carino”, “intrigante”, fanno
troppo giornalistese. Si può usare “pernicioso”. Da abolire “intellettuale”.
abusarne. Vedi Hemingway, o
Fitzgerald. Ricordarsi di Raymond Carver, per il quale l’alcol
era l’unico rifugio ai tormenti.
Quindi anche per i vostri. Comunque, da preferire la wodka al
whisky. Niente birra. Fa troppo
Mauro Corona.
ELOGI Elogiarli.
CRUSCA, ACCADEMIA
ARBASINO, ALBERTO
Parlarne sempre benissimo. Perché? Non si sa.
PINKETTS, G. ANDREA
Meglio non frequentarlo. Perché? Non si sa. E comunque non
avete mai capito che cazzo significa quella “G” puntata. E forse
neanche lui.
“MASTERPIECE” Trasmissione televisiva pensata per
gente che scrive libri e vista soltanto da quelli che li leggono,
quindi pochissimi. Dire per primi: “È la dimostrazione che twitter e la televisione sono due pianeti diversi”. Parlarne malissimo.
Però se incontrate Andrea De
Carlo ditegli che non è colpa sua,
Sopra: Luigi Mascheroni.
Nella pagina accanto: Jean François
de Troy (1679-1752), Lecture de
Molière (1728 circa), collezione
dei marchesi di Cholmondeley,
Houghton House (Bedfordshire)
è il format che non funziona, lui è
bravissimo. Perché? Non sia sa.
OPTIONAL/1 La lettura
dei libri è un optional. Anche per
recensirli.
OPTIONAL/2 Optional
che piacciono all’intellettuale: le
pochette, le pochade, le pashmine, il
navigatore, lo spoiler, il satinato,
a volte anche l’italiano, spesso la
coerenza…
DELLA A voi nessuno vi deve
insegnare nulla.
“DRIVE IN” Perentori:
“Da lì è iniziata la rovina del Paese”. Se lo vedevate, non ditelo.
FUTURO Ricordarsi che è
nei classici.
MAÎTRESSE-À-PENSER Non è un refuso. Significa
un Maître à penser un po’ più disposto a vendersi.
POETI/1 Meravigliosi, in
teoria.
POETI/2 Insopportabili, in
pratica.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
51
DAVID FOSTER WALLACE Avere un’opinione molto precisa, in positivo o in negativo, su Infinite Jest. Libro che
non serve assolutamente leggere davvero.
CAZZATE Molto frequenti nell’ambiente.
Ad esempio: “Dietro Checco
Zalone si nasconde Roland
Barthes”. Insomma cose del
genere.
LUOGHI COMUNI
CONTROCORRENTE
L’intellettuale per statuto va solo
controcorrente. Ma succede che
a volte vada a corrente alternata,
altre che la corrente la segua, altre ancora che sia titolare di conti
correnti, spesso però è un’isola
nella corrente, ancora più spesso
si lava le mani con acqua corrente, e tutte le altre volte non gli resta che correre. Come il coniglio.
Quale peraltro solitamente è.
DECOSTRUZIONISMO
Concetto da decostruire.
SOCIAL NETWORK
Fanno solo perdere tempo, se
non parlano di voi.
CÔTE D’AZUR Elsa Max-
well, Cole Porter, Juliette Gréco, Boris Vian, Roger Vadim,
Brigitte Bardot… E voi, naturalmente.
Abusarne: “coscienza critica”,
“annosa questione”, “rivoluzione del web”, “la carta è destinata
a morire”, “Quelli di Fabio Volo
non sono veri libri”...
MONOLOGO Se non lo
fate voi, vi annoia.
DIBATTITO Se non parla
di voi, è inutile.
FELLINI, FEDERICO
Dire di averlo conosciuto. Come
tutti.
MAESTRI I veri, non han- MONTANELLI, INDRO
no mai voluto discepoli.
DISCEPOLI I migliori,
non hanno mai avuto maestri.
Dire di averlo conosciuto (“Un
granissimo giornalista, ma
umanamente…”). Come tutti.
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la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
SCIASCIA, LEONARDO MUTI, RICCARDO Par-
Ormai fa più chic dire di non
averlo conosciuto.
PANNI SPORCHI L’intellettuale comunque li cambia
spesso.
MATURITÀ (esame di)
Quando l’avete fatto voi, si portavano tutte le materie. Con
l’intero programma. Con una
commissione severissima. Si
preparava per mesi. Nessuno
poteva copiare. I commissari
erano terribili. Quello sì che era
un esame. Poi c’è stato il Sessantotto che ha iniziato a cambiare
le cose. E poi sono arrivati Drive
In e Berlusconi ed diventato tutto una farsa. Come tutte le altre
cose in Italia.
BIENNALE Voi è anni che
non ci andate più. “Ormai è un
luna park”.
PROGETTI Di solito rimangono sempre tali.
larne solo benissimo, bravissimo, bellissimo, eccelso, “trionfo”, “commozione”, stending
ovation, “delirio”. Sì, in effetti è
un delirio.
ANTIBERLUSCONISMO Sussurrare: “Ha fatto la
fortuna di molta gente”.
FRASE PREFERITA “Sedurre con verità, ingannare con
menzogne”. Ma anche viceversa.
AMICI L’intellettuale non
ha amici. Giusto qualche collega,
per il resto moltissimi lettori (a
questo proposito, sbilanciarsi:
“Sono loro i mie veri amici”).
HARRY POTTER Voi ne
avete parlato benissimo fin dall’inizio. Citare l’articolo di Michiko Kakutani sul New York Times che lo paragona ai grandi
classici della letteratura infantile, dal Mago di Oz al Signore degli
Anelli. Farete un figurone anche
fra i più critici.
PASSIONI L’intellettuale
non conosce passioni, solo ragioni.
TANTI SOLDI Al cinema e
BUONE IDEE Al cinema e
POMPEI “Tutta colpa di
Bondi”.
in tv, meglio le buone idee.
in tv, meglio tanti soldi.
PEPPA PIG Voi siete sem- GENIALITÀ Il confine con
pre stati per i Barbapapà.
il bluff è molto labile.
GRASSO, ALDO Astioso. CRITICO LETTERARIO
Non leggerlo.
(e anche cinematografico) Quel-
lo vero, non va per il sottile. Si
vende e basta.
AFFARI La destra è bravissima a farsi i propri. La sinistra
quelli degli altri.
TELEVISIONE Incompatibile con la letteratura.
LETTERATURA Incompatibile con la televisione.
LIBERTÀ DI PENSIERO
Sì, purché sia il più possibile simile al vostro.
FILOSOFI Casta tanto superflua, ormai, da diventare indispensabile.
DEMAGOGO Un intellettuale qualunque.
LIBRI DA CITARE SEN-
ZA LEGGERE Oltre la Recherche di Proust e l’Ulisse di Joyce, I miserabili di Hugo, Il rosso e
il nero di Stendhal, La montagna
incantata di Mann, L’uomo senza
qualità di Musil, L’urlo e il furore
di Faulkner, Vineland di Thomas Pynchon (al cui confronto
Infinite Jest di David Foster
Wallace è una passeggiata rilassante). Tra gli italiani, Lo Zibaldone di Leopardi, La cognizione
del dolore di Gadda, Fratelli d’Italia di Arbasino, Petrolio di Pasolini e Gomorra di Saviano. Come
diceva quel tale: “Formidabile!
Ma chi lo legge?”.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
55
Il libro del mese
Augusto, la vita raccontata
da lui stesso
La figura del padre dell’Impero nelle Res gestae
LORENZO BRACCESI
Q
uesto libro, come indica il sottotitolo, ha per
filo conduttore la vita
di Ottaviano Augusto come ci è
raccontata da lui stesso nelle Res
gestae, che sono, prima ancora di
un resoconto delle sue imprese,
un vero e proprio testamento
politico da lui redatto in età matura e divulgato solo post
mortem. Un documento che fu
inciso, in Roma, su due pilastri
bronzei collocati innanzi al suo
mausoleo e poi inviato in copie
fedeli nelle province, donde da
Ankara, l’antica Ancyra, l’esemplare più completo è ritornato a
noi in una monumentale epigrafe marmorea - regina inscriptionum – dal testo bilingue, latino e
greco.
Rileggiamone subito l’incipit che, in forma succinta e incalzante, ci proietta sul teatro
dei frenetici accadimenti che, in
Roma, si susseguono alla morte
di Cesare:
All’età di diciannove anni, di
mia iniziativa e a mie spese, allestii
un esercito, con il quale restituii alla
libertà la Repubblica oppressa dalla
dominazione di una fazione. Per
questo motivo, sotto il consolato di
Gaio Pansa e Aulo Irzio, il senato con
un decreto onorifico mi incluse nel
proprio ordine, attribuendomi dirit-
Lorenzo Braccesi,
“Augusto, la vita raccontata
da lui stesso”, Napoli, Edises,
2013, pp. 146, 9.80 euro
to di parola quale consolare, e mi conferì il comando militare. Mi ordinò,
inoltre, di provvedere in qualità di
propretore, insieme con i consoli, a
che la Repubblica non dovesse subire
danno alcuno. Nello stesso anno il popolo mi creò poi console, poiché entrambi i consoli erano caduti in guerra, nonché triumviro per rinnovare
la costituzione dello stato.
Con queste parole, riandando con la mente alla sua turbinosa ascesa politica, Augusto,
che allora si chiamava Ottaviano, getta un velo di ombra, e
quindi di rassicurante silenzio,
sull’atto rivoluzionario che, a
diciannove anni, nel 43 a.C., lo
rende protagonista di tumultuosi accadimenti eversivi. I
quali l’affiancano, con un comando militare, ai consoli in carica e quindi, morti questi ultimi, lo portano a divenire egli
stesso console e infine, siglata la
tregua con altri signori della
guerra, l’inducono a istituire
con essi il triumvirato quale su-
56
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Antoine Caron (1521-1599), Augusto e la Sibilla tiberina (1578 circa), Parigi, Museo del Louvre
prema magistratura dello stato.
In queste poche righe il suo
sforzo è tutto volto a imbrigliare
dentro una cornice di apparente
legalità ciò che legalitario proprio non fu, bensì un gesto sovversivo che segnava l’inizio della più grande rivoluzione che la
storia di Roma avesse mai conosciuto: quale il passaggio dalla
Repubblica al principato o, se si
vuole, all’impero. Non solo; ma
il fi ne è anche un altro. Quello
di evocare sulla ribalta della scena politica la comparsa - fulminea e quasi messianica - dell’uomo della provvidenza! Ragione
per cui costui, a rivoluzione
compiuta, ricorre nel testamen-
to politico a una strumentale
semplificazione espositiva della
memoria degli avvenimenti per
giustificare la propria turbinosa
e incostituzionale ascesa al potere. Non falsa del tutto la realtà, ma provoca nel lettore del
documento un’alterazione nella
percezione della prassi istituzionale. L’espressione “restituii
alla libertà la Repubblica oppressa dalla dominazione di una
fazione” è sì un’esplicita allusione all’illegale sopraffazione
esercitata da Antonio; ma, apposto in posizione proemiale, il
participio “oppressa” mira a ricordare l’accadimento che poteva essere più ricco di carica
emozionale e poteva meglio servire ad accentuare la crisi profonda delle istituzioni: la soppressione della “libertà” per la
tirannia esercitata da un signore
della guerra che, non a caso, è il
suo più diretto rivale.
Il fine era uno solo, ed era
raggiunto: quello, cioè, di suscitare in tutto l’impero un clima di
profondo smarrimento istituzionale che fosse preludio alla
comparsa provvidenziale del
giovane Ottaviano sullo sconsolato teatro degli eventi. Le Res
gestae, come manifesto politico,
mistificano la storia, ma anche
testimoniano una profonda verità: l’assoluto trionfo di una ra-
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
gione di stato che spontaneamente legittima l’operato del
giovane condottiero, senza attribuirgli connotazione rivoluzionaria, bensì in un’apparente
immobilità delle strutture istituzionali. Di fatto, egli, riandando con la memoria al passato, non altera la trama degli accadimenti; ma tace su tutto ciò
che, a processo rivoluzionario
concluso, non è più opportuno
ricordare: come l’iniziale intesa
con il senato, la guerra civile
contro Antonio, la sua marcia su
Roma, l’estorsione del consolato, l’intesa con il rivale, la creazione extra legem della magistratura triumvirale, la crudeltà e il
cinismo e il sangue delle proscrizioni.
Tutto ciò su cui ora dobbiamo richiamare l’attenzione. Alle idi di marzo dell’anno precedente, del 44 a.C., Cesare cadeva sotto il ferro dei congiurati
guidati da Bruto e da Cassio. La
tradizione di marca stoicheggiante dipinge il primo come un
intellettuale travagliato, mosso
da nobili impulsi, ma incerto sul
da farsi, teorico e responsabile
morale della congiura, mentre il
secondo come un uomo pronto
all’azione, istigatore e animatore del moto anticesariano. Ma
entrambi furono uomini del
passato anziché del presente,
travolti da avvenimenti che non
seppero dominare, in fondo assai più reazionari che rivoluzionari. Certamente non furono
subdoli traditori votati al compromesso disonorante e all’accentramento dei poteri, ma
neanche tirannicidi nel senso
classico della parola, cioè interpreti di esigenze sociali largamente sentite e condivise. Avevano sperato che assassinando
Cesare avrebbero all’improvviso potuto arrestare il corso della
storia, sicché dal loro gesto sofferto e disperato potesse nascere un’insurrezione di popolo
per il ripristino delle libere istituzioni, ma libertas repubblicana significava allora egemonia
dell’oligarchia senatoria, forte
del possesso del grande latifondo agrario, e non certo apertura
alle classi subalterne.
L’oligarchia senatoria, la
nobilitas, poteva perciò plaudire
al loro gesto e al loro programma; non il popolo e l’esercito,
che reclamano subito con tu-
57
multi di piazza la vendetta contro gli uccisori di Cesare, dittatore certamente, ma al servizio
di interessi democratici. La
concentrazione in forma autocratica dei poteri politici, più
che un sogno ambizioso, diventava una necessità. Cesare non
era riuscito a piegare le resistenze dell’ordine senatorio, mentre
sull’ordine minore, l’equestre, e
sulla plebe agivano spinte contrastanti che ne impedivano una
collaborazione, favorendo di
fatto il gioco meschino dei singoli con conseguente disgregazione dello stato. Non si potevano ignorare più oltre le spinte
che venivano dal basso e solo un
programma
rivoluzionario
avrebbe forse potuto arginare
una siffatta situazione di crisi;
non certo l’anacronistica restaurazione dei privilegi della
vecchia nobilitas.
Jean-Joseph Taillasson (1745-1809), Virgilio legge ‘L’Eneide’ a Augusto, Livia e
Ottavia, Londra, National Gallery
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
59
L’Altro scaffale
Rarità letterarie:
editoriali e giornalistiche
Piccole ma preziose proposte di collezionismo
ALBERTO CESARE AMBESI
L’
opera ha singolari caratteristiche editoriali: è
una prima edizione postuma del 1929, recante una nota
introduttiva di Eugenio Montale
(1896-1981), più una coeva nota
manoscritta al foglio di guardia.
Si tratta, per la precisione, del volume La novella del buon vecchio e
della bella fanciulla e altri scritti di
Italo Svevo (1861-1928) pubblicato da Giuseppe Morreale, editore in Milano (volume che pure
la Biblioteca di via Senato possiede), ricordato a malapena dai soli
specialisti, ma che ebbe l’indubbio merito, nei primi decenni
dello scorso secolo, di presentare
le prime versioni italiane, per
esempio, del romanzo Tonio Kroger di Thomas Mann (18751955) e di Bestie, Uomini e Dei,
l’inverosimile diario di una credibile avventura nelle terre dell’Asia centrale di Ferdinando Ossendowski (1876-1945 ), giornalista e scrittore piuttosto addentro a certo “demi-monde”, spionistico e occultistico.
Il motivo per il quale ho vo-
luto ricordare l’esistenza della
prima edizione La novella del buon
vecchio e della bella fanciulla? In linea preliminare, grazie ad una
duplice ragione: a) perché si tratta di un libro, in 8°, piuttosto raro
e offerto dalla Libreria Antiquaria
Monte della Farina di Roma al ragionevole prezzo di 70 euro; b) in
quanto si tratta di un esemplare
che conserva l’originale copertina in brossura, con poche, lievi
imperfezioni, ma del tutto integro nelle 316 pagine di testo (+4).
Per quanto concerne poi l’artico-
lazione dell’opera, sarei tentato
di asserire che, sotto un profilo
cronologico, essa comprende un
preludio (la novella, La Madre
del 1910) un allegretto e un allegro iniziali, strettamente congiunti (le novellette Una burla riuscita e Vino generoso, ambedue
del 1926), un ampio largo espressivo (il racconto che dà il titolo all’opera (risalente anch’esso al
1926) ed un finale del 1928 (Il Vecchione) carico d’interrogativi, ma
che sembra anche preludere ad
una narrazione che l’Autore non
scriverà mai.
Un’altra, interessante offerta della Libreria Monte della Farina è rappresentata dall’opera che
racchiude una buona parte delle
primissime annate di Tuttolibri, il
supplemento letterario de «La
Stampa», allora alquanto ricco
d’informazioni e di variegate riflessioni critiche, sia pure con
qualche instabilità di orientamento. Grosso modo: dall’uscita
del primo numero, il 1° novembre 1975, a tutto giugno 1999.
Non per nulla, si riconosce oggi,
60
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
da più parti, che le annate iniziali
di Tuttolibri ebbero non pochi
meriti nel documentare le fasi di
una stagione culturale troppo
breve e che già si comincia rimpiangere. Proprio come lasciano
presagire i sette volumi, in folio,
rilegati in similpelle verde, che riuniscono le annate complete
1976 e 1977, più tre semestri,
estratti, rispettivamente, dalle
annate 1978, 1979 e 1980. Da aggiungersi che si tratta di una raccolta in perfetto stato di conservazione che è richiesta per essa il
giusto importo di 100 euro.
Duecento euro sono invece
richiesti, sempre dalla stessa libreria romana, per la impeccabile
e completa ristampa anastatica
della famosa rivista Lacerba, fondata a Firenze, nel 1913, da Ardengo Soffici e Giovanni Papini
con l’esplicito scopo di sostenere
qualsiasi gesto creativo che fosse
capace di frantumare i tradizio-
nali codici della letteratura e delle
arti, in genere. Orientamento,
codesto, in aperta contrapposizione alla Voce, l’altra autorevole
testata fiorentina dalla quale purtuttavia provenivano i dioscuri di
Lacerba. Dapprima strettamente
collaboratrice delle esperienze
futuriste e aperta al dialogo con le
contemporanee avanguardie europee (soprattutto parigine), Lacerba ebbe il merito, in tale perio-
BLOCK NOTES
APPUNTI ELEMENTARI
DI BIBLIOLOGIA
sesta puntata
Abbreviazioni usuali, in sede di
catalogo
tab./tabb.: tabella/tabelle.
tass.: tassello (etichetta sul dorso
del volume riportante autore e titolo dell’opera).
tav./tavv.: tavola/tavole (illustrazione/i a piena pagina, nel testo o
fuori testo).
timbrino: timbro di biblioteca o di
proprietà.
tit.oro: titolo dorato, solitamente
sul dorso.
tr.d’uso: tratti d’uso (sottolineature delle righe, firme, orecchie alle
pagine).
vol./voll.: volume/i
do, (grosso modo, per poco più di
un anno) di proporre autori come
Apollinaire (1880-1918) e Marinetti (1876-1944), Max Jacob
(1876-1944)
e
Govoni
(1884–1965), Remi de Gourmont (1858-1915) e Ungaretti
(188-1970), pur senza sottrarsi,
peraltro, anche a polemiche che
appaiono oggi, almeno in alcuni
casi, o superflue o provinciali.
Poi sopraggiunsero la “tentazione” nazionalista e il contradditorio fenomeno dell’interventismo, senza che alcuno avesse bastante voce persuasiva, nell’uno e nell’altro campo, per avvertire con quel veniente conflitto l’Europa avrebbe volontariamente messo in discussione, per
la prima volta, il proprio ruolo di
cardine della storia mondiale.
Superfluo precisare che qui si allude non soltanto alle concordanti posizioni “combattentistiche” assunte dalle due riviste fiorentine, pur rivali, ma bensì e soprattutto alla parallela e colpevole miopia politica e metapolitica
di tutti gli stati europei dell’inizio
del XX secolo. Pubblicata nel
1970 dall’Editore Mazzotta di
Milano, la riedizione di Lacerba
che qui si è voluta segnalare ha caratteristiche di non comune interesse. Basti ricordare, in primo
luogo e sotto il profilo editoriale,
che comprende soltanto settecento esemplari numerati (il numero posto in vendita è il 26°) e
che presenta con una legatura in
marocchino rosso, recante un
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
dorso con nervi e titoli in oro,
nonchè una custodia rigida rivestita da carta marmorizzata. Ulteriori pregi dell’opera: il fascicolo di 28 pagine di “Introduzione a
Lacerba”, a cura di Raffaele de
Grada, e i molti disegni intercalati nel testo dovuti all’inventiva di
Picasso (1881-1973), Michel Larionov (1881-1962), fondatore
del “raggismo”, e Alexander Arcipenko (1887-1964), versatile
scultore ucraino.
Qualcuno ricorda qualche
fu il più grande merito del Giornale per i bambini uscito a Roma
dal 1° luglio 1881 al 26 giugno
1889, quando venne assorbito dal
Giornale dei fanciulli di Milano?
Non può esservi alcun dubbio:
l’avere ospitato, ovviamente a
puntate, la prima edizione, anzi
l’anteprima, della più riuscita
opera di Carlo Collodi (18261890), ricorrendo ai due diversi
titoli de La storia di un burattino
dal 1° al 17° numero del giornale
(anno I, 1° luglio-27 ottobre
1881) e Le avventure di Pinocchio
dal 16 febbraio 1882 (n° 7 dell’
anno II) al 25 gennaio 1883 (n° 4
dell’anno III). Perché ho voluto
rammentare questo evento ottocentesco che si colloca entro il
particolare riquadro che abbraccia la cronistoria del giornalismo
e della letteratura per l’infanzia?
Le ragioni sono svariate.
Per esempio, potrei sottolineare
che l’iniziale collaborazione di
INDIRIZZO E RECAPITI
LIBRERIA ANTIQUARIA
MONTE DELLA FARINA
Via Monte della Farina, 35
00186 Roma
Tel.: 06/68806844
LIBRERIA ANTIQUARIA
MALAVASI
Largo Schuster, 1
20122 Milano
Tel.: 02/804607
Collodi al Giornale per i bambini
avvenne sotto gli auspici del direttore Ferdinando Martini
(1841-1928), scrittore di successo, accorto uomo politico e futuro governatore dell’Eritrea
(1897-1900). Inoltre, avrei più di
una ragione per rilevare che già
nel 1883, il romanzo Pinocchio veniva pubblicato in versione libraria, per una collana scolastica,
dall’Editore Felice Paggi di Firenze e con le illustrazioni di Enrico Mazzanti (1850-1910). Notizie che potrebbero portarmi
molto lontano, al fervido tempo
in cui proprio Ferdinando Martini, in veste di direttore del Fanfulla della Domenica, proponeva
Giosuè Carducci ad un numeroso pubblico di lettori. Ho invece
il più modesto dovere di rilevare
che, di recente, la Libreria Malavasi di Milano ha posto in vendita
l’originale, multipla serie “collodiana” collazionata in tre perfetti
volumi in 4° (mm.315x225),
aventi le seguenti caratteristiche:
61
il primo rilegato nell’originale
tela rossa; i restanti due in mezzo
marocchino rosso coevo. La foliazione è integra e conta: pp. (4),
416 - (2), 848 (4) - (6), 848. Molte
e accurate le illustrazioni xilografiche racchiuse in ognuno dei tre
volumi. Il prezzo? Poco meno di
quanto si ottenne in un’asta di
due anni addietro: 9.500 euro.
Se taluno affermasse in pubblico che vi è un invisibile filo che
collega il romanzo I Promessi sposi
di Alessandro Manzoni (17851873) ai Fatti e detti memorabili di
Valerio Massimo (sec.I d.C.) è
verosimile che gli astanti resterebbero perplessi, molto perlplessi. Eppure l’apparente paradosso ha una facile spiegazione,
quando si pensi che una riedizione del romanzo mazoniano aveva inaugurato, alla fine del 1949,
“ Biblioteca Universale Rizzoli”
e il testo dello storico romano
venne chiamato, nel 1972, a concludere la fortunata e meritevole
collana, racchiudente, in edizioni integrali, le principali opere
letterarie di tutti i tempi, nonché
numerosi libri di cultura e divulgazione generale. È dunque un
vero avvenimento che la menzionata e famosa libreria milanese abbia recentemente messo in
vendita la completa raccolta della “Biblioteca” (912 volumi in
16°, due dei quali in pelle editoriale blu; i restanti in brossura
originale ben conservata ,a parte
i dorsi ingialliti) e al prezzo allettante di 5.500 euro.
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
63
Il Ricordo
Un sommo regista nel ricordo
di un grande scrittore
A vent’anni dalla morte una memoria di Federico Fellini
PIERO MELDINI
F
ederico Fellini (19201993), che non era uno
storico né ha mai manifestato un particolare interesse per
la storia, si è misurato ripetutamente con quell’Altrove che è il
passato, servendosi di mappe e di
metodi d’esplorazione del tutto
singolari e - aggiungo - non troppo lontani da quelli usati da
Freud per esplorare l’«interno
paese straniero». Nell’interesse
del regista per la storia non c’era
niente di accademico. Resuscitare il passato non era per lui un’operazione culturale, quanto piuttosto una specie di seduta medianica, di rito negromantico, dal
momento che si trattava di mettersi in comunicazione con un
universo parallelo abitato dai
morti. E tuttavia Fellini ha precorso più d’una volta gli storici di
professione.
In cosa consiste, in estrema
sintesi, il lavoro dello storico? Io
credo nel cogliere le differenze
fra il presente e il passato; nel misurare la distanza e talora l’estraneità tra questi mondi. La ten-
denza comune è di appiattire il
passato sul presente, perché pensare che la storia si ripete, che negli anni e nei secoli cambia poco o
nulla, è molto rassicurante. È
proprio invece tanto dello storico
di razza quanto dell’artista sorprendere, spiazzare, mettere in
crisi luoghi comuni e certezze
consolidate.
Prendiamo Satyricon. Scopo
dichiarato del film era mostrare
la distanza abissale, l’inconcilia-
bilità tra il mondo pagano, che
non possedeva ancora il senso del
peccato, e la civiltà successiva alla
rivoluzione cristiana, alla quale
noi apparteniamo. Nelle intenzioni di Fellini si sposavano dunque un mito - il mito di un’Età
dell’oro a cui era ignoto ed estraneo il senso di colpa - e una formidabile intuizione storiografica.
Mi spiego. Satyricon è stato
girato come una sorta di reportage. Si ricorderà che in alcune sequenze - quella della Suburra o
del banchetto di Trimalcione - le
comparse guardano dritto in
macchina, contravvenendo alla
prima e più rigorosa regola del cinema di fiction. È come se negli
archivi di qualche inesplorata cineteca, insomma, fossero stati ritrovati prodigiosamente spezzoni di un documentario girato
duemila anni fa. Ora, in questo
fantomatico reportage qualcosa
ci sfugge: ci sono parole, gesti, situazioni di cui non riusciamo ad
afferrare il senso. Ci rendiamo
conto che quegli uomini parlavano un’altra lingua: un linguaggio
64
non solo verbale, ma anche corporeo, che si è in tutto o in parte
estinto.
Qual è stata l’intuizione di
Fellini? Quella che le fonti storiche possano risultare incomprensibili o essere fraintese, anche gravemente, per un mutamento dei codici e dei significati.
Questa intuizione è eccezionalmente acuta. Aggiungo che la
rappresentazione di Roma imperiale come una società multietnica, multilinguistica e multisessuale era profetica. Per Fellini rivolgere lo sguardo al passato significava, in effetti, scrutare anche il futuro.
Un film che ho sempre considerato gravemente sottovalutato è Casanova, un’opera magistrale sul piano figurativo, dove il
Fellini visionario ha dato il me-
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
glio di sé. Siamo nella prima metà
del XVIII secolo. Il quadro tradizionale del Settecento, imposto
dalla vulgata scolastica (e non solo), è quello del “secolo dei Lumi”, del trionfo della Ragione. La
ricerca storica più avanzata, prodotta in anni perlopiù successivi
al Casanova, ha viceversa insistito
sui tratti irrazionalistici, esoterici, notturni e sentimentali del
Settecento, che è certamente il
secolo degli Enciclopedisti, ma è
anche quello degli avventurieri,
degli occultisti, del mesmerismo
e della “magia naturale”; dell’epidemia di vampirismo e del lungo
dibattito che ne seguì; delle sette
segrete, delle logge iniziatiche,
dell’«invenzione della tradizione» ermetica, templare e rosacruciana; del libertinismo religioso e laico; della sensiblerie.
Quello che ci rappresenta
Fellini è per l’appunto un Settecento “notturno” in cui si aggira
un uomo - Giacomo Casanova che è un pesce fuor d’acqua, uno
sradicato, un insoddisfatto perenne per questa precisa ragione:
che possiede già una sensibilità
romantica. Il Casanova felliniano
è un apolide, un vagabondo che
concepisce l’amore come passione e ha un altissimo concetto di
sé: che pensa, vive e ama, insomma, come un eroe romantico. Altro che recordman e forzato del
sesso: Casanova è un amante appassionato e anche sdolcinato, un
romantico ante litteram.
La rappresentazione del
Settecento che ci dà Fellini troverebbe d’accordo, oggi, la maggior parte degli storici. Si veda,
per esempio, il bel saggio di Robert Darnton1 sulle lettere inviate a Rousseau dai lettori della
Nouvelle Heloïse, forse il maggior
best-seller del XVIII secolo. È un
autentico nubifragio di «lacrime
deliziose», «dolci sospiri», insostenibili tormenti, violenti singulti, scioglimenti dell’anima,
provocati tutti - commenta malignamente Darnton - dalla lettura
di un romanzo in sei tomi dove
«non si incontra un episodio di
violenza, una scena erotica o
qualcosa che somigli a una trama». Oggi – ripeto – la maggioranza degli storici condividerebbe il quadro del Settecento proposto da Fellini. Trent’anni fa il
regista era in perfetta solitudine
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
(o quasi).
In genere i registi di film
storici, così come gli scrittori di
romanzi storici, tendono, volenti
o nolenti, ad attualizzare il passato. Fellini fa l’opposto: guarda al
presente con gli occhi dello storico. Da questo punto di vista sono
per me film storici non solo Satyricon, Casanova, E la nave va,
Amarcord, ma anche Roma, Prova
d’orchestra e soprattutto La dolce
vita. Film “storici del presente”,
se mi si passa questa definizione:
capaci, cioè, di guardare al presente con la spregiudicatezza, la
lucidità, il distacco e la capacità di
cogliere i tratti significativi che
hanno (non sempre) i posteri.
Accennavo alla Dolce vita. Il
lettore non me ne voglia se ricorrerò, a questo punto, a un ricordo
personale. Nel 1959, l’anno in cui
il film uscì nelle sale, avevo diciotto anni e frequentavo l’ultimo anno di liceo: lo stesso liceo
“Giulio Cesare” di Rimini che
aveva frequentato a suo tempo
Fellini. Di lui avevo già visto I vitelloni, La strada e Le notti di Cabiria. Il primo mi era piaciuto; gli
altri due, se debbo essere sincero,
mi erano sembrati un po’ troppo
sentimentali. Consideravo Fellini un regista molto dotato e altrettanto scaltro. Andai a vedere
La dolce vita alla prima proiezione
pomeridiana di un giorno feriale.
In sala, nonostante lo scandalo
che stava montando sul film, c’erano più o meno una decina di
persone.
La visione della Dolce vita mi
procurò un’emozione fortissima,
quasi uno shock: uno dei pochissimi “shok culturali” che ho subìto nella mia vita. Era un film che
non assomigliava a nessun altro
sia per quello che raccontava che
per il modo in cui lo raccontava.
Era una lettura della realtà spietatamente laica: priva, cioè, del
più tenue velo ideologico e del
più remoto intento consolatorio.
La dolce vita era forse il primo film
che guardava il mondo con occhi
davvero adulti. Al paragone, tutto il cinema italiano del dopoguerra, a cominciare da quello
neorealista, appariva estetizzante
e manierato, e anche il cinema
americano sembrava sostanzialmente conformista e reticente.
La dolce vita mi fece perdere
definitivamente l’ingenuità. Dopo quel film il mondo mi sembrò
65
diverso: non più ordinato e comprensibile, come lo dipingeva
certo marxismo scolastico e sempliciotto, né governato dalla Divina Provvidenza, ma caotico,
babelico e indecifrabile: «il sogno di un pazzo pieno di urla e di
furore», per dirla con Shakespeare. Quell’anno a scuola traducevamo Tacito. Ebbi questa precisa
sensazione: che guardare La dolce
vita fosse come leggere le storie
di Tacito: non per noi moderni,
però, ma per un suo contemporaneo. Vidi il film per intero due
volte di seguito. Il giorno dopo ripagai il biglietto e lo vidi per la
terza volta.
NOTE
1
R. Darnton, I lettori rispondono a
Rousseau, in Il grande massacro dei gatti,
Milano, Adelphi, 1988, pp. 267-319.
66
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
Filosofia delle parole e delle cose
L’ordine perfetto
e il desiderio infinito
Come nascono i desideri? E che cos’è che chiamiamo pace?
DANIELE GIGLI
C
apita di rado, ma capita
ancora, persino in questo nostro mondo, di ricevere un ordine. Capita così di
rado da farci sentire, quando accade, terribilmente strozzati.
Ché se è vero che le nostre vite
sono fitte di doveri, pare oggi
che tali doveri – e le richieste
che li accompagnano – non abbiano un’origine oggettiva, necessaria, ma siano mere convenzioni, per cui una cosa non va ac-
cettata in quanto esistente ma in
quanto la ritengo giusta. Viene
da qui la vena moralistica che
spessissimo accompagna le richieste che gli uomini si fanno
gli uni gli altri, anche le più oggettive. Perciò non basta che io
ti chieda di non fumare a tavola
perché mi dà fastidio: no, debbo
convincerti che fumare a tavola
sia male e scandalizzarmi se tu
non te ne rendi conto. Del pari,
non basta che io ti chieda un re-
Carlo Carrà (1881-1966), Nuotatori (1929), Milano, collezione privata
port di lavoro entro il giovedì
sera perché sono il tuo capo e
voglio usare il venerdì mattina
per guardarlo: no, debbo convincerti che sia importante che
tu me lo dia e scandalizzarmi se
non ne sei convinto. Ed io, che
ho da fare il report al mio capo
entro il venerdì sera, non mi accontento di sapere che a lui necessiti così: no, debbo convincermi che sia giusto, opportuno,
fondamentale e scandalizzarmi
se non me ne convinco e lo faccio un po’ controvoglia.
Vale per tutto: per i grassi
saturi, per il semaforo rosso, per
le tasse, per la corsa al parco.
Ragioni, ragioni, ragioni, continuamente a chiederci e darci
ragioni che tuttavia ragioni non
sono, ma indottrinamenti reciproci, tentativi di spiegarci l’un
l’altro la «verdità» di una foglia
o la «pietrità» di una pietra. Il
che non sarebbe affatto male,
sarebbe anzi un segno della
meravigliosa esigenza di ragionevolezza dell’uomo, se non
68
gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
69
A sinistra: Vincent Van Gogh
(1853-1890), Il mandorlo in fiore
(alla maniera di Hiroshige) (1887).
A destra: Vassilij Kandinskij
(1866-1944), Il canto del Volga (1906),
Museée National d’Art Moderne,
Centre Georges Pompidou, Parigi
fosse che tutti questi tentativi di
spiegazione precedono e annichiliscono l’esperienza delle
cose, il primitivo e necessario
ordine che sta nel loro essere
date. Quando le cose sono a
posto, quando «vanno bene»,
quando «funzionano», quando
«tutto è come dev’essere»: sono
tutte espressioni del nostro parlare che ci svelano l’ordine
come condizione desiderata
dall’uomo. Ed è come al solito il
distacco tra l’astratto e il concreto, tra il principio e la sua
incarnazione, che tanta fatica ci
ingenera. Perché vi sia l’ordine,
infatti, è necessario che passi
attraverso un ordine, e poi un
altro ordine, e un altro ancora.
Appare elementare, eppure
normalmente di fronte a un
ordine prevale in noi il sentimento di coercizione a quello di
necessità, tanto che il massimo
cui spesso arriviamo è l’indottrinamento reciproco. E dove
l’indottrinamento non basti, o
non sia assecondato da un servile autoindottrinamento, ecco
esplodere la violenza coercitiva
del potere che ha perso il suo
oggetto: i piccoli dispetti in
ufficio o in casa – tra marito e
moglie, tra padri e figli – o, in
maiore, le deportazioni di massa
dei totalitarismi.
Ma il desiderio dell’ordine
è una convenzione? Come ogni
aspirazione intima degli uomini, è da noi deciso o riconosciuto? E se è riconosciuto, non
dovrà giocoforza essere dato? Il
desiderio di pace, quel desiderio
che tante volte contraiamo
nello «starmene in pace» o
nella richiesta di «lasciarmi in
pace», da dove lo traiamo, in
che modo ne scopriamo l’esistenza?
Scrive
Eliot:
«Quell’istante di felicità – non
il senso di benessere,/ l’appagamento, il culmine, la sicurezza o
l’affezione,/ né una cena proprio bella, ma l’illuminazione
improvvisa –/ di cui si ha l’esperienza e perso il senso,/ quel
senso che accostato rende l’esperienza/ in una nuova forma,
al di là di ogni senso/ che potessimo dare alla felicità». Lo scopriamo così: dato e inatteso. È
un desiderio cui, come tutti i
desideri, non sapremmo dare
una forma se non lo avessimo
prima incontrato e incipientemente sperimentato. Ed è per
questa ragione, per coerenza
con l’origine che ce l’ha fatto
riconoscere – data, indipendente da noi e da noi riconosciuta e
accettata – che non possiamo
considerarlo una nostra decisione o un nostro possesso, né distaccare il suo sviluppo da condizioni altrettanto date, indipendenti da noi e che a noi tocca
accettare e riconoscere.
Ordine e disciplina, fine e
strumento. A noi decidere che
forma assuma la disciplina: se
debba essere una morale convenzionale e a noi ultimamente
estranea o la morale impostaci
dal nostro stesso desiderio.
70
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
BvS: il ristoro del buon lettore
Gita ai Balzi Rossi
Le emozioni di una cucina e il tempo che non passa
GIANLUCA MONTINARO
«E
cco, le case scomparirono, ed essi si
affacciarono sulla
banchina e tutta la baia si aprì davanti a loro, e la signora Ramsay
non poté fare a meno di esclamare: “Oh, com’è bello!”». Che
emozione vedere la distesa blu e
verde del mare. E il faro, laggiù,
nella distanza, perso fra le onde.
Tanto agognavano i componenti
della famiglia Ramsay (i protagonisti del romanzo di Virginia
Woolf Al faro, che la Biblioteca di
via Senato conserva nella edizione della prestigiosa collana Meridiani Mondadori, datata 1998) a
questa gita. Tanta era l’attesa. Soprattutto per il giovane James al
quale l’annuncio, la sera prima,
della gita dell’indomani, «aveva
comunicato una gioia straordinaria». Tanta quanta quella di coloro che si apprestano a godere di
uno spettacolo ugualmente incantevole: la vista della baia di
Mentone. Tenendo il piede ancora sul patrio suolo, a cento metri
dalla vecchia dogana, sorge un ristorante che ha fatto la storia della
cucina: Balzi Rossi. Seduti sulla
sua terrazza, o dalle ampie vetrate
della sala interna, l’occhio indugia sulla splendida baia. Mentre i
Ristorante Balzi Rossi
Via Balzi Rossi, 2
Frontiera San Ludovico
Ventimiglia (Im)
Tel. 0184/38132
sensi del gusto e dell’olfatto vengono rapiti dai magistrali piatti di
Giuseppina e Rita Beglia.
Fremeva James. Ma alla fine
il maltempo non consentì alla famiglia Ramsay la traversata della
baia e l’attracco al faro. La gita
dovette necessariamente essere
rimandata. Non così l’attracco ai
Balzi Rossi, approdo sempre sicuro per quella «grande categoria di persone che non riescono a
tenere le emozioni separate le
une dalle altre» e che dalle sfumature traggono i toni del colore,
«cristallizzando e trafiggendo i
momenti dai quali dipendono la
tristezza o la radiosità».
La vita scorre per la famiglia Ramsay, nell’attesa di riprogrammare l’andata «al Faro»,
mentre si intrecciano la vita e la
morte. Così come ai Balzi Rossi
ove tutto procede con regolarità,
da sempre e per sempre, perché
la vita «necessita innanzi tutto di
coraggio, verità e capacità di sopportazione». Così come la cucina che, attraverso piatti come
l’insalata di carciofi e crostacei al
vapore, i gamberi di Sanremo
crudi al tartufo bianco, la zuppa
di pesce e la rana pescatrice cotta
nella verza con carciofi e suo brodo, racconta storie di una Liguria
di confine. Narra di eleganza e
senso della misura. Di ricerca e
tradizione. Il viandante, consigliato da Franco, marito di Rita e
infaticabile maestro di casa, potrà ordinare, come compagno di
gita, uno champagne, magari il
Brut Premier di Louis Roederer
(in assoluto uno dei migliori sans
année in commercio). Suadente
negli aromi, centrato in bocca e
con una invidiabile scia minerale
saprà regalare incomparabili
emozioni. E il passato e il presente finalmente si incontreranno,
nell’approdo al Faro.
MAL DI GOLA? PUOI PROVARE ZERINOL GOLA.
IL PRIMO IN PASTIGLIE A FARSI IN DUE.
Mal di gola? Eccomi qui. Sono Zerinol,
Zerinol Gola. Sono nato per svolgere due
azioni contemporaneamente, infatti sono il primo
in pastiglie a doppio effetto, anestetico e
antinfiammatorio: rapido addormento il dolore
e, nello stesso tempo, combatto l’infiammazione.
E da oggi puoi trovarmi anche ai nuovi aromi
limone e ribes nero. Insomma, quando hai
bisogno puoi contare pure su di me.
RAPIDO SOLLIEVO DAL MAL DI GOLA.
È un medicinale per il mal di gola a base di Ambroxol, leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 18/07/2013
72
la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
LORENZO BRACCESI
Lorenzo
Braccesi
(1941) ha insegnato storia
antica nelle Università di
Torino, di Venezia e di Padova, dove oggi insegnano
suoi allievi. Tre gli interessi
di fondo della sua ricerca:
colonizzazione greca e sue
aree periferiche, ideologia e
propaganda nel mondo antico, eredità della cultura
classica nelle letterature
moderne. Ha pubblicato
con i principali editori italiani (Bompiani, Cappelli,
Carocci, L’Erma, Giunti, Laterza, Liguori, Marsilio,
Mondadori, Monduzzi, Il
Mulino). Il suo ultimo libro,
edito da Laterza, è Giulia, la
fi glia di Augusto (2012).
MARIO BERNARDI
GUARDI
Mario Bernardi Guardi, per trentacinque anni
docente di lettere nei licei,
è giornalista e scrittore. Si
interessa soprattutto al dibattito politico e intellettuale del Novecento. Tra i
suoi libri: L’Io plurale. Borges et Borges; Il caos e la
stella. Nietzsche e la trasgressione necessaria; Austria Infelix. Itinerari nella
coscienza mitteleuropea;
Italia loro. Sinistri, sinistresi, sinistrati. Collabora con
« Libero» e con «Il Tempo».
Ha curato numerose iniziative culturali a carattere
nazionale (tra cui “I Percorsi del Novecento” e “Gli Incontri con la Storia” della
“Versiliana”).
MASSIMO GATTA
LUIGI MASCHERONI
PIERO MELDINI
Massimo Gatta (1959)
ricopre l’incarico, dal 2001,
di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche
dedicate a editori, editoria
aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris).
Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore»
e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa
editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui
libri” (books about books), e
fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri».
Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli.
Luigi Mascheroni ha
lavorato per «Il Sole24
Ore», «Il Foglio» e, dal 2001,
per «il Giornale».
Scrive soprattutto di
Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di
Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano.
Fra i suoi libri, il pamphlet
Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli
una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi
letterari e giornalistici. È
fra i fondatori del blog
“Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/.
Dal 2011 ha un videoblog,
primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni.
Piero Meldini è nato e
vive a Rimini. Già direttore
della biblioteca riminese intitolata ad Alessandro
Gambalunga e autore di
numerosi saggi di storia
contemporanea e storia
dell’alimentazione e della
cucina, ha scritto cinque romanzi, i primi tre pubblicati
da Adelphi e gli altri da
Mondadori: L’avvocata delle vertigini (1994), L’antidoto della malinconia (1996),
Lune (1999), La falce dell’ultimo quarto (2004) e Italia.
Una storia d’amore (2012). I
romanzi sono stati tradotti
in francese, spagnolo, tedesco, polacco, greco e turco.
ERRICO PASSARO
GIANCARLO PETRELLA
TOMMASO PICCONE
DANIELE GIGLI
GIANLUCA MONTINARO
Errico Passaro (Roma,
1966) ha collaborato con
oltre 1700 articoli a pubblicazioni professionali, fra
cui «Secolo d’Italia», «Area»,
«Roma», «L’Eternauta», «Il
Borghese». Ha scritto il saggio Paganesimo e cristianesimo in Tolkien (2004). Ha
pubblicato i romanzi: Il delirio (1988); Nel solstizio del
tempo (1992); Gli anni dell’Aquila (1996); Le maschere del potere (1999); Il Regno Nascosto (2008); Inferni (2010); Zodiac (2010) e La
Guerra delle Maschere
(2012), nonché oltre 100
racconti su vari periodici.
Giancarlo Petrella insegna discipline del libro
presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Si occupa di letteratura geografico-antiquaria fra Medioevo e Rinascimento (L’officina del geografo. La Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, 2004) e
di storia del libro a stampa
fra Quattro e Cinquecento
in numerosi articoli e monografie (fra cui l’ultimo
L’oro di Dongo ovvero per
una storia del patrimonio librario del convento dei Frati
Minori di Santa Maria del
Fiume, 2012). Collabora
con il «Giornale di Brescia» e
con la «Domenica del Sole
24 ore».
Tommaso Piccone è
nato a Milano nel 1974. Dopo aver compiuto studi
scientifici, nel 2006 approda all’editoria, affiancando
Carlo Milesi nella proprietà
di Edizioni Bietti - Società
della Critica. Amministratore e direttore editoriale a
partire dal 2008, supervisiona con maniacale precisione la produzione dei suoi
libri, essendo un amante
della carta stampata anzitutto come lettore.
Daniele Gigli (Torino,
1978) lavora nella conservazione dei beni culturali.
Studioso di T.S. Eliot, ne ha
curato alcune traduzioni,
tra cui quelle di The Hollow
Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita.
Ha pubblicato le plaquette
Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro
Fuoco unanime.
Gianluca Montinaro
(Milano, 1979) è docente a
contratto presso l’università IULM di Milano. Storico
delle idee, si interessa ai
rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali
del quotidiano «il Giornale».
Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000);
Il carteggio di Guidobaldo II
della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario
di Ludovico Agostini (2006);
Fra Urbino e Firenze: politica
e diplomazia nel tramonto
dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero
(2013).
LUCA PIETRO NICOLETTI
Luca Pietro Nicoletti,
storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia
e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un
editore italiano a Parigi
(Macerata 2013).
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