la Biblioteca di via Senato mensile, anno vi Milano n.1 – gennaio 2014 BIBLIOFILIA «Questi non sono tempi per libri» di giancarlo petrella SUL ‘PRINCIPE’ Niccolò Machiavelli, primo costituente di teodoro klitsche de la grange LETTERATURA J.R.R. Tolkien signore della fantasia di errico passaro LIBRO DEL MESE Augusto, la vita raccontata da lui stesso di lorenzo braccesi FEDERICO FELLINI Un sommo regista nel ricordo di un grande scrittore di piero meldini Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione la Biblioteca di via Senato – Milano MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VI – N.1/47 – MILANO, GENNAIO 2014 Sommario 6 BvS: Letteratura del Novecento J.R.R. TOLKIEN, SIGNORE DELLA FANTASIA Errico Passaro 10 Bibliofilia «QUESTI NON SONO TEMPI PER LIBRI» Giancarlo Petrella 21 Editoria MONDADORI, EDITORE A VOLTE “NON VENALE” di Massimo Gatta quarta e ultima parte 25 Sul Principe NICCOLÒ MACHIAVELLI, PRIMO COSTITUENTE Teodoro Klitsche de la Grange seconda e ultima parte 33 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – LA NOTIZIA – L’EDITORE DEL MESE a cura di Luca Pietro Nicoletti, Mario Bernardi Guardi e Tommaso Piccone 50 Punture di penna CONSIGLI INTELLETTUALI PER IL VERO MAÎTRE À PENSER di Luigi Mascheroni 54 Il libro del mese AUGUSTO, LA VITA RACCONTATA DA LUI STESSO di Lorenzo Braccesi 59 L’Altro scaffale RARITÀ LETTERARIE: EDITORIALI E GIORNALISTICHE di Alberto Cesare Ambesi 63 Il Ricordo UN SOMMO REGISTA NEL RICORDO DI UN GRANDE SCRITTORE di Piero Meldini 66 Filosofia delle parole e delle cose L’ORDINE PERFETTO E IL DESIDERIO INFINITO di Daniele Gigli 70 BvS: il ristoro del buon lettore GITA AI BALZI ROSSI di Gianluca Montinaro 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Fondazione Biblioteca di via Senato Biblioteca di via Senato – Mostre Biblioteca di via Senato – Edizioni Presidente Marcello Dell’Utri - Mostra del Libro Antico - Salone del Libro Usato Consiglio di Amministrazione Marcello Dell’Utri Giuliano Adreani Fedele Confalonieri Ennio Doris Fabio Pierotti Cei Fulvio Pravadelli Carlo Tognoli Organizzazione Ines Lattuada Margherita Savarese Redazione Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Ufficio Stampa Ex Libris Comunicazione Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Segretario Generale Angelo de Tomasi Coordinamento pubblicità Margherita Savarese Collegio dei Revisori dei conti Presidente Achille Frattini Revisori Gianfranco Polerani Francesco Antonio Giampaolo Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Referenze fotografiche Saporetti Immagine d’Arte - Milano Immagine di copertina J.R.R. Tolkien in una foto del 1945 L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Stampato in Italia © 2014 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Editoriale N uovo anno. Nuovi propositi. Nuove sfide. Il 2014 si presenta, per tutti, difficile ma stimolante. Anche per la Biblioteca di via Senato. La nostra fondazione si impegnerà su un doppio fronte. Da una parte proseguirà nelle abituali attività di studio e catalogazione dei tanti volumi che giornalmente entrano nei Fondi, oltre che nella pubblicazione di questo mensile. Dall’altra (attraverso un programma di incontri, conferenze e presentazioni che presto sarà reso noto) si dedicherà alla divulgazione del proprio patrimonio librario e al ricordo di alcune fra le tante ricorrenze che cadono quest’anno (fra le quali il centenario dell’attentato di Sarajevo e dello scoppio della I Guerra Mondiale e il bicentenario della morte del grande filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte). Sarà quindi un 2014 di pieno lavoro, con rinnovato vigore ed entusiasmo. Un augurio che ci permettiamo di rivolgere anche ai nostri lettori. Gianluca Montinaro 6 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 BvS: Letteratura del Novecento J.R.R. TOLKIEN, SIGNORE DELLA FANTASIA Riflessioni sul creatore del Signore degli Anelli ERRICO PASSARO S coccano i quaranta anni dalla morte di J.R.R. Tolkien (1892-1973), e la ricorrenza diventa l’occasione propizia per una messa a punto sull’attualità del professore di Oxford. Tolkien figura fra gli scrittori più influenti dello scorso secolo. La scelta dell’aggettivo “influenti” non è casuale: si possono citare decine di romanzieri più talentuosi, o più impegnati politicamente, o più attenti alle problematiche sociali o anche solo più vincenti nelle classifiche di vendita; ma pochi autori come l’inventore della Terra di Mezzo hanno saputo influire su generazioni successive di lettori in tutto il mondo, segnando l’immaginario collettivo in un virtuoso connubio di spessore letterario e leggibilità. Ne è la riprova il perdurante successo delle opere ispirate al Signore degli Anelli in ogni forma mediatica, a testimoniare la straordinaria modernità del “sub-creazione” tolkieniana. In campo letterario, i romanzi e i racconti di Tolkien (che la Biblioteca di via Senato conserva in discreto numero nel fondo dedicato alla letteratura del Novecento, assieme a svariati volumi di critica, Sopra: L’universo di Tolkien, illustrazione di Emilia Di Stefano. Accanto: J.R.R. Tolkien in una foto del 1945 per lo più in lingua inglese) sono l’esempio di scuola di “long-seller”, ovvero di libri che continuano a essere ristampati e venduti a distanza di decenni dalla loro prima uscita senza necessità di costosi traini pubblicitari: il gusto per le avventure di Frodo, Bilbo, Gandalf, Aragorn si comunica in virtù di un passaparola planetario, tramandandosi verticalmente di padre in figlio e orizzontalmente di amico in amico. Intorno alla riproposizione dell’“opera omnia” in formato classico, fioriscono mille iniziative di alta gamma, come le rinomate edizioni illustrate, a riprova che accanto al libro elettronico può continuare a sopravvivere un artigianato di qualità sempre ben accolto da acquirenti di ogni età. A ciò si aggiungano le decine e decine di romanzi di continuatori dell’opera di Tolkien, che dell’originale mutuano la struttura drammaturgica e il retroterra mitologico: fra gli ultimi usciti, citiamo La caduta dei Tre Regni di Morgan Rhodes (Nord), che narra le storie parallele di tre giovani in un terra sull’orlo di una guerra finale, o Elantris di Brandon Sanderson (Fanucci), che parla della caduta di una città divina a causa di una maledizione. In campo cinematografico è uscito nelle sale italiane il secondo episodio della trilogia de L’Hobbit, che promette di confermare il successo di botte- 8 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 ghino arriso a quella incentrata su The Lord of the Rings. In campo ludico, furoreggiano i giochi da tavolo e i videogiochi ispirati direttamente al legendarium tolkieniano, ma quasi tutta la produzione internazionale è una derivazione di quel prototipo. In campo teatrale e musicale, dilagano le versioni sceniche della saga: solo a citare le rappresentazioni tenute in Italia, potremmo segnalare la sinfonia Il Signore degli Anelli, composta e diretta da Howard Shore nel sala Santa Cecilia dell’Auditorium - Parco della Musica di Roma nel non lontano 2009, e lo spettacolo di teatro e musica Ricordi di un Hobbit tra le note di Keith Jarrett, inscenato nella Casa del Jazz di Roma nel 2012 con i testi di Sebastiano Fusco e Gianfranco de Turris. Nel campo dell’oggettistica, esiste un fiorente mercato di magliette, costumi, miniature ed altri gadget che i lettori più fanatici usano per vere e proprie ricostruzioni dal vivo delle battaglie di Uomini, Elfi, Nani e Gnomi – una sorta di soft-air in salsa medioevale. Fin qui, si potrebbe pensare a Tolkien come ad un mero fenomeno commerciale, ma così non è. Accanto alla produzione destinata alla massa, esiste un vasto apparato di studi accademici che sviscera i significati più riposti del corpus tolkieniano, fra certosine ricerche di archivio e vulcaniche diatribe scientifiche. Non c’è qui lo spazio né l’interesse ad una puntigliosa rassegna bibliografica dei saggi usciti in Italia sull’argomento: ci limitiamo a mettere a confronto due saggi di diversa impostazione ideologica. Il primo, di fresca uscita, è Tradizione e modernità ne ‘Il Signore degli Anelli’ di Stefano Giuliano (Bietti). Secondo l’autore, il viaggio nella contrada dell’Oscuro Signore, oltre che un recupero della tradizione della “discesa negli inferi”, rappresenta la proiezione della società industriale (sfruttamento delle risorse, inquinamento) e un viaggio nella modernità, colta nei suoi aspetti più nefasti. L’opera pone particolare attenzione alle somiglianze e le divergenze dei personaggi con gli eroi della mitologia e dell’epica: non mancano riferimenti alti a locuzioni proprie della storia della religione (“morte inizia- TOLKIEN: LIBRI, EDIZIONI E DEDICHE IN LINGUA ELFICA La prima edizione italiana de Il Signore degli Anelli si deve all’editore romano Astrolabio nel 1967, ma si ferma alla pubblicazione del primo volume della trilogia. Nel 1974 Rusconi pubblica i tre romanzi, ma separatamente, con la traduzione di Alliata di Villafranca Vicky. Solo nel 1977 la casa editrice milanese ristampa la trilogia nella sua interezza, in tre versioni: brossura, rilegata e rilegatura di lusso (que- st’ultima al prezzo di 160.000 lire, che per l’epoca sono una somma rilevante). Nel 1982 la De Agostini scolastica ritorna ai volumi separati, a cura di A. Lugli. Nel 1993 fa la sua apparizione nel circuito della vendita per corrispondenza un’ulteriore versione in tre volumi per i tipi del Club degli Editori. Nel 1997 si giunge alla trentesima edizione completa, sempre accompagnata dalla storica introduzione di Quirino Principe. Nel 2000 è la volta delle prime delle molte edizioni Bompiani. Fin qui, quanto è disponibile nelle librerie e nel mercato del collezionismo; ma chi vuole rifarsi gli occhi con memorabilia tolkieniane deve fare una visita al Greisinger Museum (Jenins, Svizzera): il primo museo interamente dedicato alla Terra di Mezzi. Vi si trova una prima edizione del Signore degli Anelli con una dedica autografa di Tolkien in elfico «Elainen tarin Periandion ar meldenya anyaran» («a Elaine, regina degli Hobbit e mia cara vecchia amica»): il suo valore attuale è di 73.800 euro ed è il libro tolkieniano più costoso al mondo. Altre rarità una prima edizione Usa (1955), che Tolkien firmò per Deirdre Levinson e una prima edizione della traduzione italiana, che lo scrittore dedicò al suo amico professor Talbot D’Alessandro. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 9 J.R.R Tolkien in un’illustrazione di Anna Emilia Falcone (disegno creato per «la Biblioteca di via Senato») tica”, “funzione guerriera”, “itinerario ascetico”), ma l’analisi condotta secondo gli strumenti più affilati della dottrina non rimane nel contesto di un sapere chiuso, ma rimanda costantemente alla crisi d’identità dell’uomo contemporaneo e propone ai lettori modelli di comportamento utili ad affrontare la deriva morale del presente. Di segno diametralmente opposto è Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4 (uscito per i tipi della casa editrice bolognese Odoya), un libello animato da una feroce vis polemica, la stessa che l’anonimo redattore riserva a chiunque non la pensi come lui. Ne fa le spese proprio Giuliano, reo – come tanti altri – di aver voluto dare un interpretazione da destra dell’immaginario tolkieniano. Sotto gli strali di Wu Ming 4 i riferimenti all’interpretazione neosimbolista e, in particolare, al l’interpretazione del romanzo di Tolkien come viaggio oltremondano e l’utilizzo della “tripartizione funzionale” di Dumezil. Sempre per intenditori è l’uscita de La caduta di Artù (Bompiani), curato dal figlio Christopher e introdotto da Gianfranco de Turris, tratto dalla congerie di magmatico materiale finora inedito, ma già conosciuto dagli studiosi. Un poema inedito, incompiuto, 956 versi in quattro canti finiti ed un quinto lasciato poco oltre gli inizi, a cui il Maestro pose mano pochi anni prima dello Hobbit ispirandosi al ciclo della Tavola Rotonda. Il mitico re diventa qui il cavaliere dell’ultima resistenza all’invasione del male, il campione del Bene nello scontro con il Male. Nel tentativo di restituire ritmi e metriche dell’inglese antico in un lessico più moderno, Tolkien si apparenta a un MacPherson novecentesco, o, se si preferisce un paragone più vicino alla nostra esperienza, un Carducci che, invece della mitologia classica greco-latina, si riferisce all’epica nordica. 10 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 11 Bibliofilia «QUESTI NON SONO TEMPI PER LIBRI» Conti da libraio dietro i Rerum Italicarum Scriptores GIANCARLO PETRELLA «S o che questi non sono tempi per libri, pure io non ho altro pane che questo, e farò prezzi da invogliare chichesia». Così Filippo Argelati, quasi a schernirsi, reclamizzando il suo ultimo catalogo in una missiva a Muratori del 1733, all’indomani dello scoppio della guerra di Successione Polacca. In effetti, chi volesse farsi un’idea concreta delle difficoltà del mestiere di libraio/editore è invitato a leggere tutte le circa settecentocinquanta lettere che compongono la corrispondenza tra Ludovico Antonio Muratori e Filippo Argelati.1 Non erano ancora i tempi delle librerie di catena che soffocano i librai indipendenti o di Amazon che sconvolge il mercato della distribuzione, né si profilava minacciosa all’orizzonte la (presunta) quarta rivoluzione Nella pagina accanto: frontespizio del primo tomo dei Rerum Italicarum Scriptores. Sopra: L. Castelvetro, Opere varie critiche di Lodovico Castelvetro gentiluomo modenese non piu stampate, colla Vita dell’autore scritta dal sig. proposto Lodovico Antonio Muratori, Berna, [i.e. Milano], nella stamperia di Pietro Foppens, 1727: esemplare dell’edizione delle opere di Castelvetro fatta stampare a Milano dall’Argelati col falso luogo di Berna. del libro, eppure i problemi nel comparto libro erano gli stessi: costi di produzione, copie che giacciono in magazzino, debitori insolventi, il libro merce che non si vende. Le lamentele per una cronica penuria economica e i maneggi per ottenere pensioni e regali da personaggi influenti rappresentano l’autentico leitmotiv della trentennale corrispondenza tra Muratori e Argelati, capace altresì di svelare umanissimi e fin qui inediti retroscena di una delle più gloriose imprese editoriali del Settecento italiano, ossia la pubblicazione a Milano coi tipi della Società Palatina dei monumentali Rerum Italicarum Scriptores. Se il modenese Muratori è unanimemente noto, non è invece superfluo presentare al lettore il libraio bolognese Filippo Argelati (1685-1755), figura assai discussa e addirittura preceduta, a livello storiografico, da pessima fama di avido mercante, sebbene, alla prova dei fatti, ancora poco tratteggiata se si esula da qualche contributo e dalla voce a lui riservata nel Dizionario Biografico degli Italiani, peraltro non immune da qualche inesattezza.2 Nato a Bologna nel 1685, studiò prima dai Gesuiti, poi si trasferì a Firenze dove ebbe occasione di stringere un forte legame con l’erudito Antonio Magliabechi e iniziare una corri- 12 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Dedica dei Rerum Italicarum Scriptores all’imperatore Carlo VI con suo ritratto in antiporta spondenza, appunto, con Ludovico Antonio Muratori. Tornato a casa nel 1708, ereditò la florida attività libraria dello zio e da qui prese avvio la sua vicenda. Libraio già piuttosto affermato, nel 1720 si trasferì precipitosamente a Milano. Ufficialmente per seguire in prima persona le trattative che avrebbero portato alla pubblicazione dei Rerum Italicarum Scriptores di Muratori. Nell’impresa si era invece buttato anima e corpo per recuperare liquidità e credibilità dopo una brutta vicenda privata. L’Argelati era stato costretto a lasciare Bologna nel 1718 in seguito a un processo per tentato omicidio e uxoricidio: «Nel anno 1718 habitando Filippo Argellati libraro ammogliato nel istessa casa dove habitava il medico Antonio Sebastiano Trombella pure ammogliato, con tal occasione pratticavano assieme con le loro mogli, uno nel appartamento del altro, et allora d. Argellati s’innamorò della moglie di d. medico e perciò fece venire da Firenze Gioseppe Filisini e Marco Pasquali per occidere il medico suddetto e poi dar il veleno alla sua moglie e sposarsi con la vedova di d. medico. Scopertosi da questa corte il mandato prima che fosse eseguito, fu carcerato Marco Pasquali e compito il processo [...] d. Argellati mandante condannato pure in contumacia alla galera in vita». Quantunque il medico Trombella, della cui consorte l’Argelati pare dunque si fosse invaghito al punto da prezzolare due si- 14 cari per ucciderlo, nel 1720 avesse fatto «la pace al Argellati esistente in processo e rogata per mano di notaro», la condanna non fu mai revocata così che ogni volta che doveva recarsi a Bologna per seguire gli affari della libreria di famiglia, era costretto a munirsi di salvacondotto. A Milano, non senza il fondamentale sostegno del conte Carlo Archinto, del marchese Teodoro Alessandro Trivulzio e di altri notabili riuscì a fondare la Società Palatina che si sarebbe occupata della stampa dei Rerum. All’Argelati, che da solo aveva sottoscritto la metà del capitale mentre il rimanente venne diviso nei restanti dieci soci con le relative quote di partecipazione, sarebbe spettato l’onore della direzione tipografica e editoriale dell’impresa, alla quale collaboravano parecchi eruditi, tra cui il prefetto della Biblioteca la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Ambrosiana Giovanni Antonio Sassi, oltre all’intera responsabilità della vendita dei volumi. Quali erano i proventi su cui poteva fare affidamento tanto da accollarsi il rischio maggiore? Innanzitutto l’Argelati anche dopo il trasferimento a Milano, nonostante si confessasse totalmente assorbito dall’impresa dei Rerum e, quasi a scrollarsi di dosso una fama da mercante, manifestasse la volontà di presentarsi nelle nobili vesti di editore piuttosto che di libraio, continuò a trarre profitto da quest’ultima attività. Seppure a distanza, gestiva la libreria di Bologna e durante gli anni trascorsi a Milano aveva intensificato la sua rete di rapporti personali e commerciali, a cominciare da Muratori. A lui segnalava infatti le novità editoriali d’Oltralpe e inviava costantemente i suoi cataloghi aggiornati, gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 15 Nella pagina accanto: ritratto del Castelvetro e Vita del Castelvetro composta da Muratori nell’edizione delle opere del Castelvetro stampata dall’Argelati. A destra: Incipit della lettera ai lettori premessa dall’Argelati al primo tomo dei Rerum pregandolo di voler scegliere qualcosa fra i volumi selezionati: «Accludo una copia del mio novo indice, dal quale se ella non fa una grossa scelta, sarà segno troppo evidente che non mi vuol più bene» scrive nel 1724. E quando ciò non accadeva, il libraio se ne doleva assai, lamentando la propria triste condizione economica: «Non avrei mai creduto che ella nulla avesse scelto dal mio cattalogo [...] anche questo è un modo di aiutarmi senza lei scapito». Eccolo allora, nove anni dopo, reclamizzare l’ennesimo catalogo alla stregua di un venditore ambulante qualunque: «quattro esemplari del mio nuovo cattalogo di libri che raccomando a V.S illustrissima con tutto il mio cuore. So che questi non sono tempi per libri, pure io non ho altro pane che questo, e farò prezzi da invogliare chichesia». Persino in anni di guerra, quando il libro è tutt’altro che una necessità e torna a essere bene voluttuario per eccellenza, il libraio insiste a proporre la propria lista. D’altronde non sa e può fare altro, confessa con spudorato candore. Nei primi mesi del 1727 a Milano andò all’incanto la straordinaria raccolta libraria (nell’ordine di alcune migliaia di volumi, dal XV al XVIII secolo) appartenuta al poeta ed erudito milanese Carlo Maria Maggi († 1699). L’Argelati, fiutando l’affare, si offrì di seguirne la vendita per conto di Muratori e di altri collezionisti. L’affare non andò però come preventivato. I frutti li raccoglievano piuttosto gli eredi «vendendosi tutti allo sproposito e più assai della stima». Alla fine, dopo le consuete lamentele («sono stanchissimo affatto di questo imbroglio Maggico, né veggo l’hora d’uscirne»), presentò un conto di 37,10 lire per quanto aveva comprato per Muratori e un altro cliente, allegando una lista di 11 lotti acquistati, con rinvio al corrispettivo numero del catalogo: «gli altri non si sono presi perché sono andati a prezzi altissimi et a concorrenza di vogliosi assai, onde si spera gradimento d’averla ben servita ne’ pochi pigliati a prezzi onestissimi». Nonostante le rassicurazioni finali, anche in quest’occasione Muratori si mostrò non soddisfatto del suo operato, temendo che il libraio avesse gonfiato la nota spese per il proprio tornaconto. La vicenda si protrasse fino a ottobre quando l’Argelati, infastidito per l’ennesima mancanza di fiducia nei suoi confronti, invitò Muratori a consultare gli atti ufficiali di vendita per verificare il prezzo cui erano stati battuti i singoli lotti: «per la compra all’asta, non si rende raggione che quella del libro pubblico ove sono notati uno per uno, e chichessia può andare o mandare a vedere il vero; si è pagato L. 6.4 il libro De sepulcris, è segno che vi era 16 Carlo Sigonio, Opera, Milano, Società Palatina, 1732: frontespizio del primo tomo chi ha offerto sino a L. 6.3 [...] non ci ho un quattrino d’utile». Fino a prova contraria, almeno il mestiere di libraio sapeva ancora farlo: «né occorre che almeno in questo insegni se sia caro o no, perché il mio obbligo è di saperlo e so effettivamente cosa si paga per averlo da Ollanda»! Per avviarsi al nuovo e rischioso mestiere di editore non era però sufficiente reinvestire i proventi derivanti da una pur solida attività di libraio: «nella grande impresa ove sono, per la quale restano già sborsati per mia parte 100 luigi d’oro, ho bisogno di fare negozii, onde farò di tutto» scrive nel la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 novembre 1721 quando si era ancora in pieni preparativi per l’impresa dei Rerum. E due anni dopo, nell’ottobre 1723, allorché già si lavorava ai primi tomi, confessa: «ho fuori seicento luigi, ch’era tutto il contante che mi trovavo avere in questo mondo». Nei primi anni milanesi l’Argelati aveva dovuto affrontare una dura contrattazione con i soci palatini al fine di ottenere un sostegno annuo che gli permettesse di mantenersi. La prima offerta si rivelò insufficiente: «vengo ora all’offerta che questi cavalieri mi fanno di L. 200 milanesi l’anno e L. 100 per una volta sola, al che replico essere ciò non bastevole per cooperare al mio trattenimento qui, tanto più che vorrebbero dare le sudette partite non in dennaro ma in libri, cioé tante copie dell’opera, onde ben vede V.S. illustrissima che se queste non si esitano, io sarei in angustie, oltre di che sono 3 anni e mezzo che spendo il mio denaro nella posta, avrò fuori di borsa ben più di mille lire. Oh vegga se 100 scudi in libri compensano le spese e la fattica fatta sin qui». Dopo lunghe trattative nel maggio 1726 ottenne finalmente da Carlo VI d’Asburgo una pensione annua, che gli permise di ricongiungersi alla famiglia lasciata a Bologna. Neppure così cessarono però le doglianze di natura economica e i maneggi per nuovi guadagni. Dodici anni dopo, nel 1739, ci si imbatte in una lettera a Muratori nella quale afferma che «sono 34 mesi che non ho avuto un solo denaro delle mie pensioni sicché non veggo il modo di tirare avanti». Il mestiere di editore palesa tutti i suoi rischi («son pieno di carta agli occhi e non un soldo») e quello di libraio non porta alcun guadagno («un indice che pensavo dovesse portarmi dennaro molto, non veggo la minima commissione»). Parecchie missive rivelano soprattutto baruffe, screzi e meschinità dietro le altisonanti lettere di dedica di parecchi tomi dei Rerum.3 In effetti, già agli esordi dell’impresa, nel 1720, uno dei nodi della trattativa era stato a chi spettasse «il benefizio della dedicatoria» generale, che di norma si traduceva da parte del dedicatario in un dono conforme 18 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 nome a Sua Maestà Cesarea, e perciò mossi i cavaglieri a retrocedere da un fatto loro proprio sollenemente mecco giurato». Dal canto suo l’Argelati, scrivendo a Muratori, forza un po’ i toni, riservando a sé il ruolo di vittima e aggiornando, di anno in anno, la lista spese: «et io che ho havuto a perdere tutta la salute nella fattica di porre a suo luogo le varie lezioni de’ quattro codici di Anastasio in meno di quattro mesi, non dovrò comparire? Oltre a 9500 lire di questa moneta che ho fuori di borsa sino al giorno d’oggi, devo ancora fatticare così aspramente per gli altri?». Carlo Sigonio, Opera, Milano, Società Palatina, 1732: dedica all’imperatore Carlo VI a firma Filippo Argelati al suo stato sociale e all’omaggio ricevuto. In un primo momento l’Argelati, che pure in una missiva al marchese Capponi del 1728 giurava che «quello proviene dalle dedicatorie va alla cassa commune della Società e non a me privatamente», riuscì a strappare a Muratori la promessa di riservare a lui il privilegio. Ai primi di maggio del 1722, nel corso di una riunione straordinaria, si vide invece costretto, suo malgrado, a rinunciare alla già promessa dedica all’imperatore. Del voltafaccia fu ritenuto responsabile il prefetto Sassi: «io ho in mano documenti incontrastabili di essere stato egli che ha scrito a Vienna non star bene la dedicatoria segnata col mio A discolpa dell’Argelati, non va però trascurato che a fronte di un forte esborso iniziale, su di lui gravava anche la responsabilità del buon esito della stampa dei singoli volumi, il periodico rendiconto economico all’intera Società, nonché la ricerca dei migliori canali per la distribuzione e la vendita della collana. Capitava che alcuni librai fossero insolventi anche a distanza di anni. Dalla Francia «non si può avere più né risposta né dennari» lamentava in data 28 novembre 1725. Notizie peggiori giungevano da Londra e da Hannover, dove nell’agosto 1726 erano stati spediti due corpi dei Rerum che il libraio si rifiutava però di pagare. La questione andò per le lunghe, tanto da coinvolgere addirittura l’ambasciatore imperiale a Londra e si risolse solo nel 1730 dopo un’asfissiante trattativa e la minaccia di rivolgersi fino all’imperatore. Sulla piazza romana risultavano debitori di oltre 400 scudi i librai Pagliarini, che pure gli erano stati raccomandati dal marchese Capponi in persona («abbiamo un grosso imbroglio a Roma: quei Pagliarini librai devono alla Società 400 e più scudi romani per tomi dell’opera inviatigli e fra vari mendicati pretesti negano il pagamento»). Si aggiungano poi le copie di pregio, in carta grande e con legature ad hoc, donate a personaggi influenti ma che spesso non venivano pagate, fonte di ulteriori preoccupazioni, oltre che ovviamente perdita di denaro. È il caso di tutti i volumi gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano dei Rerum a quella data pubblicati offerti nel 1729, nobilmente legati, al cardinale Agostino Cusani «senza passare più in là d’un bellissimo ringraziamento», o l’intero corpo dell’opera fatto recapitare a Vienna all’imperatore nel 1739 col rischio che «andasse in perdizione un dono di più di L. 1000 nostre senza neanche un ti ringrazio». Ce n’era abbastanza per prendere in mano la penna e scrivere: «oltre il dennaro ci metto un pezzo di salute». Quando nel dicembre 1728 accadde invece che fosse Muratori a far intendere di essere stanco dei Rerum, l’Argelati per distoglierlo dal cattivo proposito promise che l’impresa si sarebbe conclusa entro un paio d’anni e con pragmatismo mercantile ricordava al suo corrispondente, conti alla mano, che finora ne aveva ricevuto solo vantaggi: «animo dunque, signor prevosto mio riveritissimo e già che lei non spende un soldo, ma anzi ha 100 scudi ogni tomo et a quest’ora ne ha avuti 1400, non si stanchi sul più bello, protestandole da uomo onorato che non avrà più sino al fine né da me né da altri alcun disgusto [...] e però in due anni e mezzo al più gliela do finita». Le cose sarebbero andate invece diversamente. Per concludere la pubblicazione dei Rerum (28 volumi in folio articolati in 25 tomi) ci sarebbero voluti altri dieci anni: il tomo XXIV apparve nel 1738; l’ultimo della serie, il XXV, fu stampato invece solo nel 1751, un anno dopo la morte di Muratori. C’è infine un episodio che illumina assai bene il clima di sospetti e invidie reciproche che circondava l’impresa dei Rerum a Milano. Ancora una volta il pretesto è una dedica e il suo controvalore economico. Il 18 agosto 1727, sul far della sera, all’Ave Maria, l’Argelati era riuscito finalmente ad avere udienza presso sua Altezza il duca di Parma Antonio Farnese (1679-1731), al quale presentò l’intero corpo dell’opera fino a quel momento pubblicato appositamente rilegato («11 volumi legati magnificamente»). Il duca «gradì al sommo», ricambiando 19 Grande incisione posta in apertura dei volumi dei Rerum Italicarum Scriptores con un anello «del valore di 14 o 15 doppie» che lasciò molto insoddisfatto l’Argelati, giudicandolo non soddisfacente rispetto al valore del volumi offerti e alla dedica dell’ultimo appena ultimato: «ritorno a Milano con un regalo [...] d’un anello del valore di 14 o 15 doppie: oh, vegga V.S. reverendissima se meritava il mio scommodo per questi tempi e con poca salute, doppo aver spesi molti dennari nella legatura magnifica del corpo d’11 tomi in carta massima». Il peggio accadde al rientro a Milano, dove si diffuse la calunnia che l’Argelati, per guadagnarci, avesse cambiato il vero anello regalatogli da Sua Altezza, del valore di almeno 60 doppie, con 20 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 uno del valore inferiore da dividersi fra i soci palatini («non so chi possa aver publicato costà il valere da 60 doppie l’annello mandatomi [...] che non ne vale le 12 o 14 al più: me ne spiace, perché V.S. reverendissima sa che ho che fare con cavalieri di tal razza che qualch’uno d’essi potrebbe figurarsi che lo avessi io cangiato; ma men male che lo mostrai subito [...] che tutti restarono morti di tal vergognosa cosa»). L’Argelati, nell’occasione ragionando davvero da mercante, lamentò senza troppi giri di parole la spilorceria del duca, difendendo al tempo stesso gli investimenti suoi e dell’intera società, cui era chiamato a rendere ragione. Non valeva la pena di omaggiare alcuno dell’intero corpo, spendendo inoltre per una superba legatura, se non si era sicuri di una ricompensa adeguata: «se non siamo moralmente sicuri di qualche ricompensa, invece del corpo intero io mando solo il tomo: perché spendere nella legatura 10 doppie et altrettante i più vaglienti tomi e poi averne una dessenteria è sproposito». A dicembre l’affare non doveva essersi ancora risolto, se l’Argelati si sentiva in obbligo di supplicare Muratori di intercedere presso Sua Altezza perché conoscesse «lo sbaglio preso di dare un anello di 12 doppie per un regalo di 150 lire nostre, oltre le spe- NOTE 1 L. A. MURATORI, Carteggio con Filippo Argelati, a cura di C. Vianello, Firenze, L. S. Olschki, 1976; Carteggio muratoriano: corrispondenti e bibliografia, a cura di F. MISSERE FONTANA – R. TURRICCHIA, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali, 2008, pp. 42-43. 2 I. ZICARI, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 112-114; poco attendibile anche il ritratto fattone da C. GARIBOTTO, L’editore dei RR. II. SS., «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le an- se del viaggio, non mancando tutt’ora chi crede di esser stato cambiato esso anello». L’atteggiamento dell’Argelati, al quale, dopo tanta frequentazione, va almeno un buona dose della mia comprensione, non era in realtà difforme da quella di eruditi di ben altro tenore mai tacciati di mercanteggiare. Antonio Vallisneri in data 7 settembre 1721 aveva manifestato il proprio patema d’animo proprio a Muratori per il mancato sostegno ricevuto sempre dall’imperatore Carlo VI cui aveva presentato il 24 luglio la copia di dedica della sua Istoria della generazione dell’uomo e degli animali (Venezia, G.G. Ertz, 1721): «Non fruttano a’ nostri tempi le dedicatorie né a’ grandi né a’ piccoli». In quel caso, alla fine, l’agognato premio, pur in ritardo, sarebbe arrivato e Muratori avrebbe potuto brindare al rinnovato mecenatismo: «Lodato Dio che non è finita la stirpe dei principi liberali».4 A pubblicazione terminata, l’Argelati avrebbe invece confidato, ma non è forse da prestargli troppa fede, che i vantaggi economici si erano rivelati modestissimi: «di 24 dediche sole 4 o sei siano state d’utile». tiche provincie modenesi», IX, 1957, pp. 241-245. Si veda per il periodo bolognese M. G. TAVONI, Filippo Argelati libraio a Bologna (1702-1720), «Quaderni storici», LXXII, 1989, pp. 787-819, cui mi permetto di aggiungere il mio più recente contributo, da cui riprendo con taglio divulgativo alcuni degli spunti qui offerti, G. PETRELLA, Splendori e miserie degli uomini del libro a Milano nel Settecento. Filippo Argelati libraio ed editore, in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento. Discontinuità e permanenze, a cura di R. Carpani, A. Cascetta, D. Zardin, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 203-263. 3 Sul tema della dedica si veda M. PAOLI, La dedica. Storia di una strategia editoriale (Italia, secoli XVI-XIX), prefazione di L. Bolzoni, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009. 4 L. A. MURATORI, Carteggi con Ubaldini ... Vannoni, a cura di M. L. Nichetti Spanio, Firenze, L. S. Olschki, 1978, pp. 235, 240, 247; Carteggio muratoriano: corrispondenti, p. 176. Un’interessante casistica di dediche più o meno fruttuose nel Settecento offre M. PAOLI, La dedica. Storia di una strategia, pp. 315-320. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 21 Editoria MONDADORI, EDITORE A VOLTE “NON VENALE” Sui volumi fuori commercio della Mondadori MASSIMO GATTA – quarta e ultima parte. La prima, la seconda e la terza parte sono state pubblicate sui numeri di ottobre, novembre e dicembre 2013 V ediamo come, trattando di un grande e complesso editore, si rischia di finire spesso in una specie di rizoma editoriale, una rete intricata e osmotica fatta di collane, autori, riviste, titoli, collaboratori58. Quest’ultimo aspetto è d’importanza centrale nell’evoluzione mondadoriana: solo per citare qualche nome a caso: Vittorio Sereni, Cesare Zavattini, Mario Soldati, Elio Vittorini, Niccolò Gallo, Aldo Gabrielli59, Remo Cantoni, Carlo Bernari60, Cesare Garboli, Dino Buzzati, Enzo Siciliano61, oltre a un ricco corredo di scambio epistolare con l’editore62. Un ultimo settore di questa produzione editoriale not for sale riguarda quei volumi stampati «in ricordo di», quindi essenzialmente a carattere privato: per lo stesso Arnoldo, per Remo, Alberto e Leonardo Mondadori. Vediamoli ora meglio in dettaglio. Il 13 ottobre del ’37 si spegne, a soli 45 anni, Remo Mondadori, fratello di Arnoldo e direttore delle Officine Grafiche di Verona, fondate dal fratello nel ‘09. Per ricordarne la figura e l’opera Mondadori fa stampare il 9 aprile del ’39 un elegante volume a tiratura limitata che raccoglie i ricordi e le testimonianze di chi lo conobbe. In fine viene anche riprodotto il testo della targa marmorea, scritto da Francesco Pastonchi, e posta nell’azienda veronese a ricordo dei 28 anni di attività svolti in essa da Remo Mondadori63. Altro importante volume celebrativo è quello stampato nel ‘63 in occasione delle nozze d’oro di Arnoldo e Andreina Mondadori. Libro assolutamente privato, stampato su carta a mano in pochi esemplari di cui non si conosce la tiratura. La lunga introduzione è firmata da Marino Moretti e precede un’ampia sequenza fotografica, con immagini di famiglia e di lavoro. E’ tra i celebrativi mondadoriani tra i più rari in assoluto, frutto di un attento lavoro grafico e stampato impeccabilmente64. Interrogando l’Indice dell’ICCU non risultano presenti copie in biblioteche italiane. L’8 giugno del ‘71 si spegneva, invece, il fondatore della più grande impresa editoriale italiana del Novecento (era nato a Poggio Rusco, nel Mantovano, il 2 novembre 1889). Una perdita immensa che la famiglia volle onorare, a un anno di distanza, stampando un volume di grande bellezza, rigoroso e impeccabile. Pubblicato in 800 esemplari non numerati era destinato alla famiglia e agli amici dell’editore. Un biglietto inserito all’interno avvertiva «Da Andreina Mondadori e dai suoi figli». Si tratta di un’ampia raccolta di testimonianze di scrittori e amici ristampate per l’occasione65. Anche in questo caso alla parte rievocativa segue un ampio corpus fotografico. 22 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Anche in occasione della morte del figlio Alberto, avvenuta improvvisamente a Venezia il 14 febbraio del ’76 (era nato a Ostiglia l’8 dicembre del ’14), fondatore nel ’39 del settimanale «Tempo» che dirigerà fino al ‘4366, nel ’50 di «Epoca»67 e nel ’58 delle edizioni Il Saggiatore, egli stesso letterato e poeta68, verrà stampato l’anno successivo un sobrio volume che raccoglieva testimonianze di amici e collaboratori (intense quelle di Vittorio Sereni e Giulio Einaudi), anch’esso corredato da molte fotografie69. La complessa figura di Alberto Mondadori, la sua ampia opera editoriale e il non semplice rapporto col padre, vengono fuori dalla monumentale raccolta di lettere resa disponibile e pubblicata nel ‘96 dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori70, così come ad un agile ed elegante libretto illustrato, a tiratura numerata fuori commercio, verrà affidato il compito di documentare la lunga e proficua collaborazione tra Il Saggiatore e il celebre poeNOTE Cfr. Annalisa Gimmi, Mondadori: collane, autori e tendenze dagli esordi agli anni Quaranta, in Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, a cura di Luisa Finocchi, Ada Gigli Marchetti, Milano, Franco Angeli, 2004. 59 Sul quale rimando a Irene Pivetti, Comprate il mio libro. Aldo Gabrielli e la Mondadori negli anni Trenta, Firenze, Giunti, 1996. 60 Cfr. Carlo Bernari, Otto notti d’insonnia nella Mondadori, in Editoria e cultura a Milano fra le due guerre (1920-1940), cit., pp. 112-114. 61 Segnalo solo qualche riferimento utile per approfondire la questione, che esula comunque dal tema di questo articolo: Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Il Saggiatore, 1999; Alberto Cadioli, Letterati editori. Papini, Prezzolini, Debenedetti, Calvino. L’editoria come progetto culturale e letterario, Milano, Il Saggiatore, 1995; Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1994; Il mestiere di leggere. La narrativa italiana nei pareri di lettura della Mondadori (1950-1971), a cura di Annalisa Gimmi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Il Saggiatore, 2002; Mi58 ta beat Allen Ginsberg71. Per rievocare la nascita e l’evoluzione de Il Saggiatore, la casa editrice da lui fondata, fu pubblicato nel ‘93, fuori commercio, un agile volumetto di Alberto Cadioli72. Della casa editrice fondata da Alberto faceva parte la celebre collana «Biblioteca delle Silerchie» le cui note editoriali erano opera di Giacomo Debenedetti, anch’esse riunite e di recente pubblicate73. In occasione, poi, dei 75 anni della fondazione della casa editrice venne stampato nel 1982 un elegante giubilare74a cui seguì, qualche anno dopo, un altro volume analogo corredato da molte immagini75. Infine nel dicembre del 2002 scompare anche Leonardo Mondadori, l’erede della grande azienda di famiglia. A tre mesi di distanza la sua casa editrice invitò all’Auditorium Mondadori familiari, amici e collaboratori dello scomparso per un ricordo attraverso le loro testimonianze. Nella tradizione mondadoriana anche questa circostanza verrà cele- chela Carpi, Cesare Zavattini direttore editoriale, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi-Archivio Cesare Zavattini- Aliberti editore, 2002 ; Leda Cavalmoretti, Arnoldo Mondadori e Dino Buzzati: un editore e un autore «col cuore», in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in cento anni di Mondadori, cit., pp. 210-226 e infine Scrivere a tempo pieno. Mario Soldati autore Mondadori, a cura di Bruno Falcetto, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2007. 62 Cfr. Diario Mondadori 1995. Lettere all’Editore, Milano, Mondadori, 1995. 63 Un poeta del libro. In memoriam Remo Mondadori 1891-1937, Verona, Mondadori, 9 aprile 1938, ediz. f.c. 64 Per le nozze d’oro di Arnoldo e Andreina Mondadori VI ottobre MCMLXIII, con uno scritto di Marino Moretti, Verona, Mondadori, MCMLXIII. Per un refuso il colophon indica il IV ottobre invece che il VI. 65 Ricordo di Arnoldo Mondadori. Testimonianze di scrittori e di amici riunite per il primo anniversario della Sua scomparsa (8 giugno 1972), Vicenza, Arti Grafiche delle Venezie, maggio 1972, stampato in 800 copie numerate per i familiari e gli amici. 66 Cfr. Oreste del Buono, Alberto Mondadori insegna: chi ha Tempo non aspetti Life, «La Stampa- Tuttolibri», sabato, 26 agosto 1995, p.6. Molto bello è anche il ricordo dello stesso del Buono, Alberto Mondadori, in Id., Amici, amici degli amici, maestri..., Milano, Baldini & Castoldi, 1994, pp. 165170. Cfr. ancora Raffaele Crovi, L’immaginazione editoriale. Personaggi e progetti dell’editoria italiana del secondo Novecento. Dialogo con Angelo Gaccione, Torino, Nino Aragno, 2001, pp. 59-60, 200-201, e infine Enrico Decleva, Alberto Mondadori a vent’anni dalla morte, «Acme», n. 1, 1996, pp. 263-271. 67 Sul quale segnalo la tesi di Alessandra Bonetti, Il settimanale “Epoca” negli anni Cinquanta: nascita e sviluppo di un rotocalco, rel. Rita Cambria, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a.1989-1990. 68 Alberto Mondadori, Quasi una vicenda, Verona, Mondadori, 1957 [Lo Specchio. I poeti del nostro tempo]. Di questa edizione verrà stampata una tiratura a parte su carta speciale in 410 esemplari numerati firmati dall’autore, dei quali 11 non venali con numerazione romana e 399 con numerazione araba. 69 Alberto Mondadori, Milano, Il Saggiatore, 1977, stampato in 1000 copie non numerate f.c. 70 Alberto Mondadori, Lettere di una vita 19221975, cit. 71 Allen Ginsberg e Il Saggiatore, con un testo di gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano brata con un volume, anch’esso rigorosamente fuori commercio, che idealmente chiude il cerchio76. Facendo un passo indietro non possiamo, però, non ricordare altre due testimonianze del fare editoria senza scopo di lucro: nel ‘73 la Mondadori pubblica un elegante volumetto, a tiratura limitata fuori commercio per gli «Amici della Mondadori», dedicato interamente alla tipografia, rilegato in mezza pelle, con al piatto, riprodotto in oro, il torchio ottocentesco Amos Dell’Orto con il quale Arnoldo aveva iniziato il suo cammino. Il libro è stampato con caratteri e fregi bodoniani nella migliore tradizione tipografica italiana77. L’anno successivo un nuovo omaggio al libro, nella medesima veste tipografica, la pubblicazione di un classico dell’ex librismo italiano del Novecento, opera di Gianni Mantero, il grande collezionista e studioso, un libretto ormai di una certa rarità78. Anche ai luoghi mondadoriani verranno infine dedicati due volumi di una certa rariLuca Formenton, Milano, Il Saggiatore, 1997, con bella sovraccoperta in carta traslucida col volto del poeta beat, edizione numerata fuori commercio; il volume è stato quindi ristampato all’interno della recente raccolta di Allen Ginsberg, Saluti cosmopoliti. Poesie 1986-1992, trad. di Luca Fontana, premessa di Luca Formenton, con l’inedito Allen Ginsberg e Il Saggiatore, Milano, Il Saggiatore, 2011. 72 Alberto Cadioli, Sono un esploratore mi piace navigare nel tempo. Breve storia del Saggiatore dal 1958 a oggi, Milano, Il Saggiatore, 1993. Cfr. anche Casa editrice Il Saggiatore. Catalogo generale 1958-1987, a cura di Marco Mondadori e Salvatore Veca, Milano, Il Saggiatore, 1987; Scrittura e libertà. Il Saggiatore 1958-1998. Catalogo generale, a cura di Alberto Cadioli, Giulio Giorello, Alessandro Nova, Milano, Il Saggiatore, 1998; Oreste del Buono, Alberto Mondadori il signor oscar. Dai primi tascabili alla nascita del Saggiatore, «La Stampa-Tuttolibri». Infine di estremo interesse è Gli anni ’60: intellettuali e editoria, a cura di Franco Brioschi, prefazione di Cesare Segre, Atti del Convegno, Milano 7-8 maggio 1984, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1987. Interessante è anche Giorgio Alberti, Linder e Il Saggiatore: editoria e cultura tra Italia e Stati Uniti nel carteggio di Erich Linder e Alberto Mondadori, rel. Mario Infelise, cor. 23 tà: il primo, interamente fotografico, ha il pregio di essere stato impaginato da un grande artista come Walter Valentini79, mentre il secondo è una plaquette promozionale non datata (ma presumibilmente del 1964), sconosciuto alle bibliografie consultate e che riporta in apertura la composizione del consiglio d’amministrazione della Arnoldo Mondadori S.p.A., oltre ad una serie di interessanti foto d’epoca delle officine tipografiche mondadoriane di Verona80 e di alcune cartiere appartenenti al gruppo. Con questi due ultimi «Omaggi dell’Editore» chiudiamo il nostro discorso su questo particolare settore editoriale, purtroppo trascurato. Una prima versione di questo articolo, ridotto e col titolo «Omaggio dell’Editore». Volumi celebrativi e fuori commercio della Mondadori, firmato con lo pseudonimo Marco Page, è stato pubblicato su «Wuz». Per questa occasione il testo è stato completamente rivisto, ampliato e aggiornato. Si ringrazia la rivista «Wuz» e il suo direttore Ambrogio Borsani, per avere autorizzato la ristampa, anche se parziale, dell’articolo. Anna Boschetti, Venezia, Università degli Studi Cà Foscari, a.a. 2002-2003; cfr. inoltre Id., Il ruolo dell’agente letterario italiano nell’editoria di ricerca: il carteggio fra Erich Linder e Alberto Mondadori, «La Fabbrica del Libro. Bollettino di storia dell’editoria in Italia», a. XI (2005), n. 1, Milano, Franco Angeli, pp. 39-46. Di Erich Linder segnalo Autori, editori, librai, lettori, a cura di Martino Marazzi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2003. Sul ruolo dell’agente letterario resta poi centrale L’agente letterario da Erich Linder a oggi, a cura della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004. 73 Giacomo Debenedetti, Preludi. Le note editoriali alla “Biblioteca delle Silerchie”, introduzione di Edoardo Sanguineti, a cura di Michele Galinucci, Roma-Napoli, Theoria, 1991, ristampato da Sellerio nel 2012 con introduzione di Raffaele Manica. Sul ruolo di Debenedetti come consulente editoriale cfr. Franco Contorbia, Debenedetti e l’editoria, «Nuovi Argomenti», 15, luglio-settembre 2001, pp. 204-216 [Numero monografico su Giacomo Debenedetti e il secolo della critica]. Sulla “Biblioteca delle Silerchie” segnalo anche la tesi di Eleonora Col, La “Biblioteca delle Silerchie” 1958-1967: analisi di un progetto editoriale, rel. Alberto Cadioli, cor. Mauro Novelli, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2004-2005. 74 Arnoldo Mondadori editore. Storia di una crescita. Nel 75° anniversario della fondazione, Verona, Officine Grafiche Arnoldo Mondadori, 1982. 75 Arnoldo Mondadori editore. Fatti e immagini 1988, Milano, Mondadori, 1988. 76 In ricordo di Leonardo, Milano, Mondadori, dicembre 2003, tiratura limitata non indicata. Trattasi della raccolta degli interventi del 13 marzo 2003, a tre mesi dalla scomparsa di Leonardo Mondadori del quale vedi anche il suo ultimo libro, Conversione, una storia personale, scritto con Vittorio Messori, Milano, Mondadori, 2002. 77 [Alessandra Oleotti, Riccardo Mezzanotte], Breve storia dell’arte della stampa, Verona, Mondadori, novembre 1973, stampato in 3890 esemplari numerati. Il volume verrà ristampato a Roma da Biblioteca del Vascello nel 1993. 78 [Gianni Mantero], Ex libris italiani e stranieri, Verona, Mondadori, ottobre 1974, stampato per gli Amici della Mondadori in 3998 esemplari numerati fuori commercio. 79 Mondadori, impaginazione a cura di Walter Valentini, Verona, Mondadori, 1960. Il titolo è riportato solo sulla sovraccoperta; due sole localizzazioni bibliotecarie in SBN. 80 Mondadori (in copertina), s.n.t., Verona, s.d. (anni Settanta). Opuscolo non segnalato in SBN e sconosciuto alle bibliografie consultate. Mindshare Italia Assago (MI) Viale del Mulino, 4 Roma Via C.Colombo, 163 Verona Via Leoncino, 16 +39 02480541 +39 06518391 +39 0458057211 www.mindshare.it www.mindshareworld.com gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 25 Sul Principe NICCOLÒ MACHIAVELLI, PRIMO COSTITUENTE Il Segretario fiorentino e il primato della politica TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE oggi, le regolarità del politico, i problemi da risolvere sono sempre i medesimi e quindi assai simili i rimedi: «come dimostrano tutti coloro che ragionano del vicrive Machiavelli nel proevere civile, e come ne è piena di mio dei Discorsi che, contraesempi ogni istoria, è necessario a riamente a quanto accade chi dispone una repubblica ed ordina per il diritto (le “leggi civili”), per leggi in quella, presupporre tutti gli la medicina, per le arti «nell’ordiuomini rei, e che li abbiano semnare le republiche, nel mantenepre a usare la malignità dello anire li stati, nel governare e’ regni, mo loro qualunque volta ne abnello ordinare la milizia ed ambiano libera occasione».6 Per cui, ministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’im- Antonio Maria Crespi (1580 ca.– 1630), chi ordinasse uno Stato presupperio, non si trova principe né repu- Ritratto di Niccolò Machiavelli, Milano, ponendo i cittadini tutti virtuosi, blica che agli esempi degli antiqui ri- Pinacoteca Ambrosiana i popoli (e i governi) vicini tutti corra»; e continua scrivendo che, benevoli, realizzerebbe un pessia suo giudizio ciò dipende dalla mancanza di com- mo prodotto (peraltro di durata breve). prensione («non avere vera cognizione delle storie Ma cos’è oggi quella “immaginazione della coper non trarne leggendola quel senso… che le han- sa” che il Segretario fiorentino addita come la via no in se»). E si meraviglia perché «infiniti che le leg- maestra per ordinare male gli Stati? gono, pigliono piacere di udire quella varietà degli L’immaginazione è feconda d’illusioni, e delaccidenti che in esse si contengono, senza pensare le più varie; proviamo a ricordarne alcune, le prinaltrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non cipali. solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li La prima è quella, direttamente opposta alla elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di concezione delle “regolarità” sopra ricordate (e che potenza da quello che gli erano antiquamente». In altri Raymond Aron chiamava “principio di perennità”) termini Machiavelli sostiene che, essendo la natura e cioè che si può trovare la formula per cambiare la umana sempre la stessa, di conseguenza, si direbbe natura umana o quanto meno correggerla ed elimi- Seconda parte. La prima parte è stata pubblicata sul numero 12 (dicembre 2013) S 26 nare o ridurre l’incidenza di alcune “regolarità”. Ne abbiamo avuto un esempio nel secolo scorso col comunismo, il cui nucleo consisteva nel credere che mutando i rapporti di produzione sarebbe mutata anche la natura umana. Un tipo di sostituzione del politico con l’economico.7 Abbiamo visto com’è finito. Ma l’aspirazione a sostituire la politica (e il politico) con altro, che s’intravede già in un noto passo biblico del Deutero - Isaia, continua - anche se meno rumorosamente, in altre forme, provando con altri tipi di attività umane. Soprattutto col diritto: sono già manifeste aspirazioni di ciò nel testo (ma soprattutto nelle carenze del testo) costituzionale (ad esempio la mancata previsione e disciplina dello stato d’eccezione); ma che comunque sono poca cosa rispetto a quanto circola a livello di opinione pubblica, e in non poche concezioni degli “addetti ai lavori”. Ad esempio tra gli idola tribus il più frequentato è quello che fare politica equivale a legiferare; e che i problemi si risolvono con le leggi. Dimenticando che buona parte dell’attività dello Stato è politica “pura” non riconducibile a norme (e ancor più a un contenuto normativo applicabile). È una legge (in senso formale) una dichiarazione di guerra? O l’approvazione di un trattato? O l’applicazione del diritto, che è distinta dalla legiferazione, ma che incide in modo decisivo sul diritto effettivamente osservato? Una tale aspirazione ha portato, inversamente, a promulgare delle leggi essenzialmente per il loro carattere (e il relativo benefico ritorno) propagandistico; ben sapendo che sarebbero state poco o punto applicate. Anche la dottrina costituzionalista ha risentito di tale illusione che Julien Freund chiama “dell’imperialismo giuridico”: discute quasi sempre di “norme” e di “principi” (con variazioni sui valori) e assai poco di “organizzazione”, di “poteri” e di “principi (di forma politica)”; sembra peraltro si sia dimenticato che, nella costituzione la cosa più importante è chi la possa abolire, abrogare, sospendere. Cioè il potere costituente. Poco frequentata è anche la sovranità da quando (nella Germania di Weimar) ha cominciato a diffondersi l’idea della co- la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 stituzione senza Sovrano (che a Machiavelli sarebbe sembrata una boutade). L’altra fallacia ricorrente e quella della Costituzione per sempre, come le tavole mosaiche (scriveva Gianfranco Miglio con ironia). Nel duplice senso della perennità e dell’immodificabilità. Che è proprio l’inverso della storicità degli ordinamenti (e delle costituzioni) e della necessità di conformarsi alle situazioni concrete. E che oltre che col pensiero di Machiavelli è proprio all’opposto del dato storico. Machiavelli lo ripete spesso, non solo nel passo (sopra citato) dei Discorsi sulla dittatura romana; ed è poi conseguenza logica del principio di corruzione - e dei “cicli politici” - di ogni regime.8 La corruzione fa si che «se un ordinatore di repubblica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario». Per cui dalla monarchia si passa all’aristocrazia e poi alla democrazia: ogni passaggio è preceduto dalla conversione dello Stato nella forma degenere (da monarchia a tirannide e così via).9 «E questo è il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede»: perché per lo più viene assoggettata. Tutte tali forme di governo sono di breve durata: «sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei». A Roma il tutto fu risolto «sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati e il governo Popolare». D’altra parte, scrive Machiavelli, «sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità; talmente che avendo ordinata una republica atta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fonda- gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano menti suoi ed a farla rovinare più tosto». È la (necessità dell’) esistenza politica (cioè le situazioni concrete) a determinare l’ordinamento costituzionale e non viceversa. Quindi l’aspirazione - pretesa a costruire un “ordine” valido per sempre è contraria alla concezione di Machiavelli. Il quale lo ripete spesso «perché a simili disordini che nascono nelle repubbliche non si può dare certo rimedio, né seguito che gli è impossibile ordinare una repubblica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina»;10 onde cambiando situazione «che fa sorgere nuovi accidenti, è necessario a questo con nuovi ordini provvedere».11 Machiavelli lo ripete spesso anche perché consegue al rapporto tra fortuna e virtù, con questa che serve a parare quella «dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua: e perché lo è varia, variano le repubbliche e gli stati spesso».12 Il Segretario fiorentino orienta il proprio pensiero all’emergenza, la necessità «se si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà molte volte nascere cose e venire accidenti a quali i cieli al tutto non hanno voluto che si provvegga».13 L’incapacità di provvedere alle innovazioni necessarie in tempi e situazioni mutate, porta alla rovina: «nascono ancora le rovine della città, per come si variano gli ordine delle repubbliche co’ tempi»,14 perché la fortuna «dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle».15 Il Segretario fiorentino, contrariamente a quanto spesso oggi opinato, dava della Costituzione un giudizio storico-oggettivo, mentre oggigiorno prevale uno ideologico-soggettivo. Ossia, secondo il fiorentino, una costituzione è valida quando consente la durevole conservazione e l’accrescimento dello Stato, e non se è conforme a impostazioni ideologiche e conseguenti norme e/o principi (ancor più se è “bella” o, più spesso, “buona”). La costituzione romana, il “compromesso” costituzionale dei tre principi (monarchico, aristocratico e democratico) è ammirato dal fiorentino perché ha consentito a Roma di espandersi e dominare il mondo 27 Frontespizio della raccolta aldina delle opere di Niccolò Machiavelli, stampata a Venezia, dalla celebre tipografia Manuzio, nel 1540 (Milano, Biblioteca di via Senato) mediterraneo per diversi secoli, e ancor più se si considera la successiva costituzione imperiale. Valori, principi, norme-manifesto, disposizioni programmatiche e altro sono estranee al pensiero di Machiavelli (o considerate secondarie); d’altra parte non si capisce a che titolo un ordinamento costituzionale costruito con tante buone intenzioni ma durato qualche decennio e magari finito in catastrofe, possa essere apprezzato perché “bello”. Machiavelli ritorna più volte sul carattere dinamico delle istituzioni umane: evolvendosi, cambiando, riformandosi, guadagnano in durata: la ca- 28 Raymond Aron (1905-1983), in una foto degli anni Sessanta pacità di mutare (di adattamento all’ambiente), è una dote essenziale16. Anche qui il pensiero sul punto del Segretario fiorentino sarà ripreso da Hauriou17 il quale considerava l’istituzione come in movimento (un esercito in marcia) e criticava le concezioni del diritto “statiche” come, a di esso giudizio, quelle di Kelsen e Duguit. Ovviamente, specie quella del primo, molto seguita. Altro carattere decisivo della costituzione (dell’ordinamento) secondo Machiavelli è che occorre ordinare la comunità, di guisa da coinvolgere e così “integrare”, in particolare nelle repubbliche, quanti più cittadini possibile. Parimenti l’elogio che fa dei tribuni della plebe è perché gli stessi costituiscono una magistratura di mediazione (e quindi d’integrazione) tra patriziato e plebe.18 Nel Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze a instanza di Papa Leone delinea una nuova Costituzione per Firenze, che assicuri il potere al Papa Medici. Riteneva che «la cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue; perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori a’ quali non la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 si satisfacendo le republiche rovinano» e delinea un nuovo assetto costituzionale che, conservando l’essenza del potere a casa Medici, distribuisse poteri, cariche e competenze dando un ruolo nel governo della città «a tre diverse qualità di uomini che sono in tutte le città; cioè i primi, i mezzani e gli ultimi»; ordinandoli in tre collegi, con differenti poteri e competenze perché «senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna republica stabile», il tutto mantenendo ai Medici «tanta autorità… quanto ha tutto il popolo di Firenze». Distribuendo potere e competenze, il Segretario fiorentino delinea un modello costituzionale fondato sull’integrazione di forze reali, rendendone partecipi gli uomini più in vista delle relative “classi” sociali. Machiavelli integra col (e nel) potere e non (o preferibilmente che) con le norme. Il che fa del Segretario fiorentino anche uno dei “precursori” del concetto di costituzione materiale;19 ma è parimenti vero che Machiavelli comprenda lo Stato come realtà vitale e la costituzione «come un ordine vitale, che cerca di realizzare un’immagine determinata di una realtà e di una totalità di vita politiche».20 A servirsi della terminologia e dei concetti di Rudolf Smend la concezione di Machiavelli è, come quella del giurista tedesco, basata sullo Stato come unione di volontà e questa si realizza attraverso l’integrazione: «lo Stato esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli - e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale»21 e come scrive Smend: «l’effetto di integrazione esercitato dagli organi può derivare dalla loro esistenza, dal loro processo di formazione e dal loro funzionamento». E prosegue: «l’effetto di integrazione degli organi deriva dalla loro esistenza - cioè in prima istanza dall’esistenza di organi politici in senso stretto».22 Peraltro il Segretario fiorentino ritiene che l’elemento fondamentale per la conservazione del potere è il consenso dei sudditi, cioè (la predisposizione a) l’obbedienza; uno dei passi più chiari è nel cap. XXV del Principe dove valutando l’utilità delle for- 30 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 tezze, scrive che per il principe «la migliore fortezza che sia è non essere odiato dal popolo». Diversamente da molti costituzionalisti contemporanei i quali pensano che la costituzione sia il testo scritto e solo quello, il pensiero di Machiavelli presuppone quello che sarà secoli dopo enunciato apertis verbis da Joseph De Maistre, che nella costituzione «ciò che è più fondamentale ed essenzialmente costituzionale non potrebbe (ne saurait) esserci scritto».23 In particolare il precetto fondamentale salus rei publicae suprema lex (con la conseguente necessità e legittimazione delle “rotture” della legalità anche costituzionale) non è scritto in nessuna delle costituzioni: ciò non toglie che, almeno finché una sintesi politica voglia esistere, lo si debba osservare. Santi Romano perciò riteneva la necessità fonte di diritto, superiore alla legge:24 anche in questo si manifesta la “discendenza” da Machiavelli, che proprio dalla necessità, legittima “rotture” e deroghe al diritto, alla costituzione, a precetti religiosi. A proposito della quale, è noto, oltre alla concezione di questa come strumento della politica, che la giudi- NOTE cava soprattutto come fondamento della città ben ordinata: «dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca ai difetti della religione».25 Nel disinteresse odierno rispetto al rapporto tra religione (teologia) e politica, è emerso anche qualche curioso tentativo che vorrebbe rimpiazzarla con un surrogato prescindendo da “sacro” e da “Dio”, e sostituendoli con un misto di morale privata e imperativi categorici. Una concezione strabica verso il privato e, proprio perciò inadatta a fondare (e mantenere) una società pubblica. Nulla è più lontano di ciò dal rapporto tra religione e ordine comunitario delineato dal Segretario fiorentino; in particolare per le repubbliche «intra tutti gli uomini laudati, sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o republiche o regni»;26 e paragonando Romolo e Numa Pompilio sottolinea l’importanza del secondo, così riconoscendo il carattere fondamentale della religione. Per cui «mai fu alcuno ordinatore di leggi straordi- rannie moderne, Roma 1998, p. 104. Behemoth n. 20 p. 6 (da qui l’esigenza di co- 6 Discorsi I, III (i corsivi sono nostri). 9 7 Si noti che il rapporto tra costanti (pe- 10 Discorsi, III, XVII. stantino Mortati che ne coniò il termine «Ri- rennità) e variabili (storiche) in Machiavelli è 11 Idem, III, XI. manendo nell’ordine di idee per ultimo proprio l’inverso di quanto si riscontra in 12 Discorsi, II, XXX. esposte di una raffigurazione della costitu- (alcune) concezioni moderne e contempo- 13 Discorsi, II, XIX. zione che colleghi strettamente in sé la so- ranee: per il Segretario fiorentino la natura 14 Discorsi, III, IX. cietà e lo stato, è da ribadire quanto si è det- umana è sempre la stessa e non la si può 15 Principe, XXV. to sull’esigenza che la prima sia intesa come cambiare; le costituzioni, determinate da si- 16 Discorsi, III, I. entità già in sé dotata di una propria strut- tuazioni storiche, possono e (quasi sempre 17 v. Prècis de droit constitutionnel, p. 79. tura, in quanto ordinata secondo un parti- debbono) cambiare. L’essenza dell’uomo è 18 v. Discorsi 1, III. colare assetto in cui confluiscano, accanto sottratta alle vicende umane, queste ne so- 19 v. Discorsi, 1, II. ordinare, organizzare detti rapporti) e a Co- Il quale, come noto si deve - nell’epoca ad un sistema di rapporti economici, fattori no la conseguenza. All’inverso, nella moder- moderna - a Lassalle “Gli effettivi rapporti di vari di rafforzamento, di indole culturale, nità si crede (spesso) di possedere la formu- potere che sussistono in ogni società sono religioso ecc., che trova espressione in una la magica per cambiare la natura umana, ed quella forza effettivamente in vigore che particolare visione politica, cioè in un certo ancor più quella per l’ordinamento perfetto determina tutte le leggi e le istituzioni giuri- modo d’intendere e di avvertire il bene co- delle società umane. La prima diventa modi- diche di questa società, cosicché queste ul- mune e risulti sostenuta da un insieme di time essenzialmente non possono essere di- forze collettive che siano portatrici della vi- verse da come sono” v. trad. it. di C. Forte in sione stessa e riescano a farla prevalere ficabile, il secondo definitivo (ed eterno). 8 v. R. Aron, trad. it. in Machiavelli e le ti- gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano narie in uno popolo che non ricorresse a Dio». Qualche secolo dopo, Maurice Hauriou avrebbe scritto del rapporto tra teologia e diritto, con la prima che è il fond e il secondo la couche. E nelle circostanze straordinarie il nucleo, se è solido, rifonda anche l’involucro.27 Anche il rapporto tra religione e ordinamento (e spirito) militare secondo Machiavelli vede quella determinare questo «dov’è religione facilmente si possono introdurre armi», ma dove vi sono quelle e non religione, «con difficoltà si può introdurre quella». Quanto sopra ricordato è solo parte di ciò che di costituzionalistico si può ricavare dagli scritti di Machiavelli. Le idee generali che li caratterizzano sono quelle del realismo (giuridico) il quale individua nella realtà - e nelle leggi naturali, anche sociali un dato non modificabile dell’uomo; nell’esistenza della comunità e dell’istituzione lo scopo (finale), che relativizza norme, principi, valori, interessi particolari. Secondariamente della coerenza e 31 congruità (anche interna) dell’istituzione: non si può costituire una forma politica durevole che non abbia coerenza e congruità sia nella forma che rispetto alla “materia” cioè alla situazione concreta, sociologica e geopolitica in primo luogo (senza qui considerare altro). Il che è connesso al carattere “tecnico” del pensiero di Machiavelli. Carl Schmitt scrive al riguardo che il “nocciolo vero” del pensiero di Machiavelli è di essere “dominato da un interesse prevalentemente tecnico”; tale aspetto non è limitato ad attività e risultati più strettamente politici (guerre, alleanze, trattati), ma anche all’ordinamento del potere.28 Questa “tecnicità” fa si che passino in secondo piano sia “principi” che valori e norme.29 È la situazione concreta a determinare quale sia la forma di governo più adatta30 a una sintesi politica in un determinato momento storico. D’altra parte il criterio di validità di una forma politica è dato - come sopra scritto - della durata e dai risultati e non dalla corrispondenza a norme, valori e principi. Anche questa concezione condivisa nei secoli successivi da tanti.31 consuetudine, anzi a maggior ragione, data sociale traditionnelle (ora in Écrits sociolo- nazione, cioè ad un vero assetto fondamen- la sua maggiore energia la necessità è fonte giques, Paris 2010, pp. 233 ss.) scrive che a tale», v. Istituzioni di diritto pubblico, Pado- autonoma del diritto, superiore alla legge. rifondare una comunità dopo una crisi epo- va, 1975, vol. I, p. 30. dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordi- Essa può implicare la materiale e assoluta cale occorre una nuova religione, come av- v. R. Smend ora in Costituzione e dirit- impossibilità di applicare, in certe condizio- venuto nel passaggio tra il mondo classico e to costituzionale (raccolta di scritti) trad. it. ni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dir- quello cristiano. Milano 1988, p. 287. si che “necessitas non hablet legem”. Può 20 28 “L’organizzazione politica del potere e 21 Op. cit., p. 76. anche implicare l’imprescindibile esigenza la tecnica per conservarlo ed estenderlo dif- 22 Op. cit., p. 162. di agire secondo nuove norme da essa de- feriscono a seconda delle forme statuali, ri- 23 Des Constitutions politiques, I. terminate e, in questo senso, come dice un mangono però sempre qualcosa che può 24 V. «Talvolta le leggi scritte accordano, altro comune aforisma, la necessità fa leg- essere prodotto con tecniche pratiche, così in casi di necessità, al potere esecutivo la fa- ge. In ogni caso, “salus rei publicae suprema come l’artista produce, secondo la conce- coltà di emanare decreti o ordinanze … Ma lex”». v. Diritto costituzionale generale, Mi- zione razionalistica, l’opera d’arte. Con il va- anche quando tali leggi scritte mancano, o lano 1947 p. 92 (il corsivo non virgolettato è riare delle condizioni concrete – posizione sono inadeguate alla situazione che si è for- nostro). geografica, carattere del popolo, concezioni mata, e persino quando espressamente vie- 25 Discorsi I, XI. religiose, struttura dei gruppi sociali domi- tano che si faccia uso di poteri eccezionali e 26 Discorsi I, XI. nanti, tradizioni – varia anche il metodo e si straordinari questi potranno essere assunti 27 V. M. Hauriou Précis de droit constitu- costruiscono strutture diverse” in “Die Dik- tionel Paris 1929, p. 29; altrove ne La science tatur” trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, ed esercitati in forza della necessità. Come la 32 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Litografia di Joseph de Maistre (eseguita da Francois Villain), posta come ritratto in antiporta della prima edizione delle Serate di San Pietroburgo (1821) D’altra parte la razionalità del pensiero del Segretario fiorentino, e l’illusorietà di quello di taluni contemporanei è provato da una constatazione: che una costituzione “bellissima” colma di enunciazioni accattivanti di principi e valori condivisi ma inadatta all’azione e all’esistenza politica non serve neppure a conservare quei principi e quei valori che vi sono proclamati (e spesso branditi contro gli avversari politici). Più prima che poi guerre, rivoluzioni, o quelle forme di ostilità “parabelliche” (come gli attacchi della p. 29 (il corsivo è nostro). 29 “Il Principe dal canto suo non preten- finanza internazionale) costringeranno a eliminarla o riformarla (o a perdere la sintesi politica). Ma se la costituzione è congrua, anche la protezione di quelli è (meglio) assicurata. Bonald sosteneva che la costituzione è il modo di esistenza di un popolo, a conservare il quale (e con esso i relativi rapporti, valori, leggi fondamentali) serve. L’esistente prevale sul normativo (senza il primo viene meno il secondo: ma non è vero l’inverso): è questa la lezione che Machiavelli (e il realismo) ci da ancora oggi. A non capirlo o a volerlo non capire, anche nell’organizzare le istituzioni si trova «più presto la ruina che la perservazione sua». Fine seconda e ultima parte diversamente non si conseguirebbe il risul- piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più tato voluto” op. cit. p. 30. imprevedibili con i mezzi più insospettati, e 31 Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale non potendo perdersi che per una mancan- che, ma semplicemente suggerire la tecni- scrisse, in polemica con un libro di M.me de za di fiducia nella propria fortuna” ed ag- ca razionale dell’assolutismo politico” op. Staël che “La costituzione di un popolo è il giunge “Una costituzione completa e ben cit., p. 30. modo della sua esistenza; e chiedersi se un congegnata non è quella che si arresta da- 30 de fornire giustificazioni morali o giuridi- “Supponiamo per esempio di avere popolo con quattordici secoli di storia, un vanti ad ogni difficoltà, che le passioni uma- degli uomini dotati della virtù, che è il prin- popolo che esiste, ha una costituzione, è co- ne e la varietà degli eventi possono far na- cipio indispensabile per la costruzione di un me interrogarsi, quando esiste, se ha il ne- scere, ma quella che prevede il mezzo di ri- ordinamento sociale repubblicano: in que- cessario per esistere; è come chiedere ad un solverli quando questi si presentano: come sto caso la monarchia non sarebbe neppure arzillo ottuagenario se è costituito per vive- il fisico robusto non è quello che impedisce e tollerata. Il tipo di energia politica che si re… La nazione era costituita, e così ben co- previene le malattie, ma quello che da la for- esterna nella virtù è incompatibile con for- stituita, che essa non ha mai chiesto a nes- za di resistervi, e di ripararne prontamente i me di governo assolutistiche, ma ammette suna nazione vicina la protezione della sua danni” v. Louis de Bonald Observations sur unicamente un regime repubblicano. Il ma- costituzione… proprio perché la Francia l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. teriale umano con il quale ha da fare i conti il aveva una costituzione ed una costituzione it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, , procedimento tecnico dev’essere dunque solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, an- Roma 1985, pp. 35-36. diverso a seconda che ci si prefigga di stabi- che quando questi erano dei deboli, sempre lire un principato assoluto o una repubblica; invidiata mai scalfita; spesso turbata mai gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 33 inSEDICESIMO LE MOSTRE – LA NOTIZIA – L’EDITORE DEL MESE LA MOSTRA/1 L’INTRANSIGENZA DI SCALARINI Una mostra al Museo del Novecento a cura di luca pietro nicoletti iuseppe Scalarini (1873-1948) è stato «un italiano senza retorica»: è con queste parole che Mario De Micheli conclude nel 1962 la prima e impegnativa monografia sul caricaturista politico mantovano (ripubblicata da Feltrinelli nel 1978). Socialista e antimilitarista, con una graffiante ironia, il disegnatore satirico che si firmava con l’anagramma di una scala seguita dal suffisso “-rini” è infatti fra i più interessanti interpreti della caricatura “sociale” della prima metà del Novecento. In lui, faceva notare il critico milanese, l’aperta denuncia sociale non lasciava spazio al pietismo: «può anche darsi», scriveva, «che ci si accorga come, nell’ambito di un’arte impegnata, i disegni di Scalarini siano andati molto più avanti e resistano al tempo meglio di tante altre opere del verismo sociale, indebolite dalla visione pietistica o genericamente umanitaristica dei problemi. Non c’è dubbio che Scalarini avesse il senso storico del movimento rivoluzionario. È perciò che nei suoi disegni non si riscontra mai quel vago evangelismo che risolve le situazioni G in pura chiave sentimentale, anche se il sentimento era tanta parte della sua personalità». Il suo, infatti, era un disegno asciutto, secco: il disegno di un moralista, secondo il critico, che come tale non va per il sottile con sfumature e delicatezze, ma punta al messaggio senza mezze misure. Il mondo, a quel punto, non poteva che risultare diviso fra sfruttati e sfruttatori. Tutto questo doveva essere chiaro nella mente di Scalarini fin da subito, già dai tempi - a contatto con i fermenti socialisti fiorentini, bolognesi e della sua città natale - della fondazione, a Mantova, del foglio GIUSEPPE SCALARINI (1873-1948). IL SEGNO INTRANSIGENTE. GRAFICA POLITICA, SATIRA E ILLUSTRAZIONE a cura di Giovanna Ginex MILANO, MUSEO DEL NOVECENTO 15 novembre 2013 9 marzo 2014 La guerra trasforma gli uomini in bruti, 1911 satirico “Merlin Cocai”. Ma il suo valore è legato soprattutto alle 3764 vignette disegnate, entro il 1926, per l’“Avanti!”. La prima, il 22 ottobre 1911, esce quasi in contemporanea con l’inizio della campagna di Libia giolittiana. La denuncia è feroce, e contrasta con la retorica delle cartoline sulla guerra bella ed eroica: c’è, in Scalarini, la piena consapevolezza che sarebbero state le classi meno abbienti a fare le spese della guerra. Tutto questo, naturalmente, gli procurerà inimicizie nel corso della sua vita, da quando viene processato nel marzo 1914, insieme a Mussolini, direttore dell’“Avanti!”, e alla redazione del giornale, per le vignette denunciatarie delle violenze perpetrate dall’esercito italiano in Libia, fino al confino nella 34 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Sopra: La casa del Fascio, 1924. A sinistra: Si gettino via le armi, si colmi con esse la frana, per modo che la Civiltà possa riprendere il suo cammino, 1918 colonia penale di Ustica fra 1927 e 1928. A sostenerlo è una fantasia combinatoria sfrenata, fatta di associazioni di idee e di metafore verbali tradotte in immagine attraverso procedimenti di montaggio. Scalarini, infatti, non disegna su carta da disegno, ma su carta lucida, sul retro delle copertine di cataloghi, e su altri materiali di recupero. Come ricordava nel 1965 un altro illustratore satirico, Enrico Gianeri (in arte GEC, 1900-1984), Scalarini «quasi mai disegnava la vignetta completa; ma la componeva come un collage satirico, con elementi ricavati da altre sue precedenti vignette, da sfumini di suoi vecchi clichés». Frequente è anche il ricorso a un repertorio di immagini, a un suo personale “vocabolario” composto da circa 1.800 piccoli disegni (le “miniature”) raccolti dall’artista in 302 fogli: da questi attinge idee e soggetti, lavorando per combinazione e per ingrandimento. Un procedimento assai moderno, in fondo, che piacerà ai pittori: è stato notato, infatti, che la sua vignetta su L’occhio del prefetto (“Avanti!”, 13 agosto 1924), con un occhio gigantesco che spia dalla finestra un interno d’ufficio, anticipa l’Annunciazione di Alberto Savinio del 1932. Ma per lui questi meccanismi hanno un fine espressamente politico. In questi anni, del resto, Scalarini assiste alla fine della guerra, alle paure della borghesia affamatrice e all’ascesa del fascismo. Basta una sola immagine a riassumere i meccanismi inventivi e associativi del suo lavoro: ne Il figlio della guerra (“Avanti!”, 24 dicembre 1920) si vede la personificazione scheletrica della guerra, avvolta nel drappo tricolore della bandiera, deporre il figlioletto in fasce (il Fascismo) nella mangiatoia del capitalismo; il contrasto non poteva essere più stridente,ma Scalarini aggiunge una nota crudele, trascrivendo in esergo l’incipit del Vangelo di Luca (2,7). Nella sua inventiva eccitata, che non disdegna i toni del grottesco, pur nella gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano modernità della costruzione dell’immagine, il messaggio rimane sempre inequivocabile e premonitore: La riforma del regolamento della Camera (“Avanti!”, 10 maggio 1024), per esempio, vede una personificazione della Lex imbavagliata; La casa del fascio (“Avanti!”, 12 gennaio 1924), invece, da elementare casetta con una porticina e due finestre simmetriche al primo piano si trasforma nelle orbite cave e le fauci spalancate di un teschio minaccioso. Al contempo, fra i palloni gonfiati della borghesia industriale, i tentacoli neri della curia romana e gli scheletri degli orrori della guerra, prende un suo spazio sempre maggiore, nella critica al Fascismo, la figura del Duce. Il nostro artista naturalmente lo conosceva bene, da quando era stato il direttore del suo giornale, e per primo aveva colto la trasformazione del contestatore socialista nel pericoloso dittatore. Non lascia spazio a fraintendimenti, in tal senso, una vignetta dal titolo lapidario: Giuda (“Avanti!”, 23 novembre 1914), in cui un minuscolo Mussolini armato di pugnale si inerpica su un’altura per aggredire alle spalle un Cristo solenne e benedicente. Un mese prima (20 ottobre), Mussolini si era dimesso dalla direzione dell’“Avanti!”, e il 15 novembre aveva inaugurato “Il Popolo d’Italia”; il giorno dopo la vignetta prima citata, invece, il partito decideva, in una drammatica riunione, la sua espulsione. Mussolini non si sarebbe dimenticato di lui: nel novembre del 1926 manda a casa sua una missione punitiva. È l’ultimo atto di un attacco del duce nei suoi confronti, a cui seguirà il confino e l’interdizione dalla stampa. Scalarini non può più esporsi, né disegnare per i giornali, trovandosi obbligato a un sofferto silenzio. In questi anni pubblica, sotto la firma di una delle sue tre figlie, un libro per bambini: Le avventure di Miglio, pubblicato da Vallardi 1933 (ripubblicato, per La riforma del regolamento della Camera, 1924 35 interessamento di De Micheli, da Bompiani nel 1980). I tempi, tuttavia, stavano cambiando: finita la guerra, dopo il Duce, sarà l’avvento della fotografia giornalistica a privarlo del suo principale campo d’azione. La grande stagione della caricatura e della satira politica era ormai finita. E anche la vita di Scalarini, poco dopo, volgeva al suo termine. (l.p.n.) gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano LA MOSTRA/2 VESTIRE IL PENSIERO Le edizioni Tallone alla Biblioteca Nazionale di Torino sattamente allo scadere del bicentenario della scomparsa di Giambattista Bodoni, il grande stampatore e creatore di tipi tipografici di Saluzzo, l’Editore Tallone, di cui la Biblioteca di via Senato conserva una delle più ricche collezioni, porta a compimento la serie in quattro volumi dei suoi Manuali Tipografici, in cui si potrà trovare compendio dei propri concetti estetici, grafici e filologici. Celebra E questa coincidenza la mostra delle edizioni Tallone la mostra presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, dove si potranno vedere esposti i preziosi volumi. Concepiti in senso bodoniano, poiché ogni descrizione trova riscontro negli specimen originali stampati a Parigi e in patria dagli anni Trenta ad oggi, i primi tre tomi sono stati dedicati rispettivamente all’estetica dei frontespizi e dei caratteri maiuscoli 37 (Manuale I), degli indici, colophon e prospetti editoriali (Complemento al Manuale I), dei caratteri da testo, impaginazioni e formati (Manuale II), infine all’estetica delle carte, delle filigrane e degli inchiostri nel tomo appena pubblicato. Esposti ora insieme a una selezione di preziosi fogli di carta intonsi della più alta tradizione cartaria europea e asiatica dall’Ottocento ad oggi, e a una selezioni di classici del catalogo Tallone su di essi impressi, i Manuali ripercorrono l’insieme progettuale sviluppato nel corso di ottant’anni di ricerca del rigore filologico e della chiarezza, onde favorire la “musica silenziosa” della lettura, ritmata dall’equilibrio dei bianchi e dei neri. VESTIRE IL PENSIERO. Tipografia e editoria nei Manuali Tipografici di Alberto e Enrico Tallone. Bicentenario bodoniano (1813-2013). TORINO, BIBLIOTECA NAZIONALE UNIVERSITARIA 7 dicembre 2013 11 gennaio 2014 38 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 LA MOSTRA/3 IL COLORE-SEGNO DI SONEGO Da Arte Invernizzi a Milano NELIO SONEGO. ORIZZONTALEVERTICALE MILANO, A ARTE INVERNIZZI 5 dicembre 2013 5 febbraio 2014 a pittura di Nelio Sonego è un’improvvisa apparizione di puro colore che attraversa il campo immacolato della tela, sulla L quale si spande per impressione visiva, in quanto delinea una traiettoria dinamico-cromatica con sottile gioco percettivo. Modulo e gesto potrebbero essere termini appropriati per decifrare la sua pittura: termini da intendere in una fluttuante dimensione ambientale, come mostra la bella mostra presso lo studio Invernizzi di Milano presentata da Paolo Bolpagni. All’interno di un procedimento codificato, Sonego si avvicina alla tela “alla prima”, Sopra: Nelio Sonego, (da sinistra a destra), Orizzontaleverticale 2013, Acrilico su tela 200x135 cm, Orizzontaleverticale 2013, Acrilico su tela 200x135 cm, Courtesy A arte Studio Invernizzi, Milano, Foto Bruno Bani, Milano. Sotto: Nelio Sonego, Veduta parziale dell’esposizione 2013, A arte Invernizzi, Milano, Courtesy A arte Studio Invernizzi, Milano, Foto Bruno Bani, Milano gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano operando per sovrapposizione di segni, fino a creare un ordito in movimento come una scia luminosa. Egli delinea i propri tracciati cromatici con gesto rapido e ripetuto, che usa il braccio come il raggio di un compasso e non lascia spazio a incertezze: nella sua ascetica reiterazione di un atto dinamico, infatti, non è possibile un margine di ripensamento, se non a patto di compromettere l’esito finale. Come annota Bolpagni, «il segnocolore scaturisce da un gesto unitario, subitaneo, deciso, non preordinato dalla razionalità, bensì determinato dal movimento del braccio, cosicché la stessa rotazione dell’articolazione della spalla si traduce nella traiettoria curva del pennello sulla tela». Bisogna però resistere alla tentazione di classificare questa ricerca in ambito informale, a cui indurrebbe una riflessione su reiterazione e impressione istantanea del gesto. Bolpagni fa notare infatti una radice “orientale” di quel modo di procedere: «quel gesto non è violento o impetuoso, non è esplosione si soggettivismo, né frutto della casualità o di uno scatto spontaneo, ma manifestazione di un’energia coltivata nella concentrazione e nello sguardo interiore. Quasi come un calligrafo zen […], Sonego non si lascia agitare dalla passione, ma raduna con assoluto autocontrollo le forze psicologiche e fisiche, e le ‘preordina’ a innescarsi in un istante senza tempo, a concretarsi in un gesto che erompe infallibile, sotto l’impulso di una carica vitale disciplinata, e di una forma ideale inscritta nella mente». 39 LA MOSTRA/4 BACCIGRAFIA CREMONESE Opere di Orazio Bacci a Cremona n una intervista del 2003 per la mostra alla Galleria Scoglio di Quarto e intitolata Baccigrafia andamentale, Orazio Bacci confidava a Tommaso Trini di aver dipinto righe per trent’anni, a partire dal 1965: lavorava in negativo, mascherando le figure che voleva lasciare bianche e riempiendo la campitura del fondo. Era già arrivato al pieno compimento della sua pittura costruttivista, basata sui tre colori fondamentali, senza la minima inflessione “sentimentale” della pittura tonale: da allora, Bacci ha seguito piuttosto la strada del rigore compositivo geometrico, della riduzione I cm 100x100 acrilico su tela anno 1966 della pittura ai minimi termini, scegliendo come sintassi della sua pittura la modulazione lineare e i soli tre colori primari, spesso usati uno solo alla volta, a fare da negativo alle sue forme bianche. A questo proposito Tommaso Trini, ORAZIO BACCI a cura di Gabriella Brembati CREMONA, GALLERIA DELLE ARTI 14 novembre 2013 13 febbraio 2014 40 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 stesse maschere sono diventate una base per l’inchiostratura di campiture di colore uniforme. Non si tratta di un banale sistema di ingrandimento meccanico, perché Bacci si serve del mezzo tecnologico per operare variazioni in corso d’opera, dando A sinistra: cm 90x90 acrilico su tela anno 1867; sotto: cm 90x90 acrilico su tela 1968 nel 2000, affermava che «I suoi quadri perfezionano moduli per meglio trasgredirli […]», e che Bacci era arrivato alle DMS (la sigla seriale con cui titolava i propri quadri: Dimensione Modulare Spaziale) in un periodo in cui «Fontana lo incoraggiava, Nigro lo segnalava e Mondrian lo proteggeva dal paradiso dei pigmenti puri». In questi tre nomi, il critico aveva efficacemente enucleato le coordinate di riferimento del lavoro dell’artista milanese, il primo conosciuto e ammirato, il secondo frequentato in un lungo sodalizio amicale, il terzo come padre spirituale a cui guardare per intraprendere la strada del costruttivismo (lo stesso che lo condurrà ad amare ancora di più, in breve tempo, le istanze russe proposte da Malevic). Il rapporto fra pittura e fotografia, per Bacci, non si limita a questa convivenza di due realtà professionali distinte nel suo percorso artistico, ma è determinante per via di una felice ibridazione di linguaggi espressivi che hanno luogo nel suo lavoro: la fotografia, in un certo senso, ha determinato un certo approccio ai mezzi della pittura, suggerito repertori di forme se non addirittura, con i dovuti adattamenti, determinati processi operativi. C’è infatti una stretta affinità fra le D.M.S. ottenute mascherando le linee bianche e colorando i fondi a campiture uniformi e le cosiddette “baccigrafie” (omaggio alle “rayografie” di Man Ray) ottenute in camera oscura. Il passo successivo, che porta alle opere più recenti, è stato quello di recuperare alcune delle quarantacinque “baccigrafie” del 2004 per dare vita, attraverso un complesso sistema meccanico di stampa su tele di grande formato, alle “Baccicromie”, in cui le precise istruzioni all’operatore circa i colori da inserire in luogo delle forme bianche su fondo nero: allo stesso tempo, risemantizza l’opera non solo attraverso il cambio di dimensione, ma anche attraverso una rielaborazione che sfrutta le peculiarità tecniche del nuovo mezzo utilizzato, le qualità del denso colore da stampa di cui si serve. Senza dubbio non è la pittura che si intende come segno della mano che si imprime su un supporto pittorico, ma è pur vero che quella di Bacci è sempre stata una pittura di progetto, tutta mentale e poco incline a divagazioni sentimentali e all’improvvisazione, anzi misurata sulla valutazione degli equilibri compositivi in maniera accuratissima. Tuttavia, come ricordava Sergio Dangelo, «il rigore non elude la poesia, (sia pure essa un cantico di ghiaccio)». LA PIASTRA A ROTANTE TA DI NUOVA N VA GENERAZIONE GENERAZIONE La certezza di realizzare la pettinatura che ogni donna ha sempre sognato to per pe i suoi capelli, nel modo più facile e veloce, nel pieno rispetto dei capelli. elli. Una U nuova esperienza, un passo in avanti nel fascino e nella tecnologia.. Innovativa tecnologia automatica per capelli modellati e lucenti in una sola passata BELLISSIMA REVOLUTION regala ad ogni donna il suo stile www.bellissima.imetec.com 42 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 LA NOTIZIA Il Premio Acqui Storia e l’intollerante attacco dell’ANPI ai vincitori di mario bernardi guardi i sia consentito un “incipit” tutto d’impeto e che in qualche modo costeggia l’enfasi: noi crediamo nella libertà. E ci prendiamo la libertà di dirlo e di ribadirlo. Ancora: noi vogliamo la verità. Dichiarazione “bella e impossibile”, dietro cui fa sempre capolino un Ponzio Pilato che chiede a Gesù messo in ceppi: “Che cos’è la verità?” Può darsi. Diciamo allora che senza inerpicarci sui frastagliati percorsi di morale, etica, teologia ecc. ecc., aspiriamo a verità piccole piccole, quelle che, ad esempio, possono venire da una ricerca storica serena, obbiettiva e spassionata. Oddio, non è detto che ci si arrivi a ricostruire questo o quell’altro “fatto”, ma se ci si applica, “sine ira et studio” e con “intelletto d’amore”, possiamo per lo meno lavorare intorno a delle ipotesi, prospettarle, dibatterci sopra, ampliare uno scenario, provare a rispondere ad alcuni interrogativi e a porne altri, tenere desta la coscienza civile, lo spirito critico, la voglia di democrazia senza se e senza ma, al di là di tutte le ideologie, al di sopra e contro ogni nostra “riserva” personale, al di sopra e contro il nostro stesso “vissuto” col suo carico di bandiere, di scelte, di emozioni e il suo vario cromatismo bianco, rosso, nero o come vi pare. Se ci impegniamo a “fare” la storia, C dobbiamo avere il coraggio di farla, sentire il dovere di farla, anche contro noi stessi, anche contro, per dirla con Franco Cardini, gli “antenati” che ci siamo scelti. Infatti, se è legittimo “proiettare” noi stessi in quello o quell’altro campo e quindi scegliere, a colpi di letture (soprattutto quelle che ci hanno segnato da adolescenti) e di “complicità” sentimentale (che, la si metta come si vuole, ha una sua franca “immediatezza), la parte di Ettore o quella di Achille, degli spartani o degli ateniesi, dei romani o dei cartaginesi, dei giacobini o dei vandeani, dei sabaudi o dei borbonici, dei pellerossa o dei cowboy, dei partigiani o - possiamo dirlo? - dei fascisti; è illegittimo deformare, uniformare, occultare, enfatizzando quel che ci fa comodo e minimizzando o ignorando quel che ci disturba. E non è cosa simpatica rimuovere, nascondere, imporre verità di partito, scendere in campo lancia in resta contro chi si permette di discutere questo o quell’aspetto della “vulgata”, urtando la sensibilità degli arcigni e permalosissimi “gendarmi della mamoria” (per usare un’espressione di Giampaolo Pansa). A tutti i custodi delle verità rivelate- e a costo di farli arrabbiare ancora di più- noi diciamo: stiamo dalla parte della revisione. E che nessuno provi a intimidirci utilizzando il terrorismo verbale. Noi siamo con Renzo De Felice che scrive: “Per sua natura lo storico non può che essere revisionista, dato che il suo lavoro prende le mosse da ciò che è stato acquisito dai suoi predecessori e tende ad approfondire, correggere, chiarire, la loro ricostruzione dei fatti (…). Lo sforzo deve essere quello di emancipare la storia dall’ideologia, di scindere le ragioni della verità storica dalle esigenze della ragion politica” (Cfr. Rosso e nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini&Castoldi, 1995, p. 17 sgg.). Questo vale anche quando, più che mai quando, si parla e si scrive di Sopra: grandi nomi della cultura italiana al Teatro Ariston di Acqui Terme. A sinistra: Antonia Varini, qui con Carlo Sburlati, e Franco Di Mare presentatori dell’Acqui Storia 2013. A destra: Dario Fertilio riceve il Premio di 6500 euro nella sezione romanzo storico. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Resistenza. Sempre De Felice: “La Resistenza è stata un grande evento storico. Nessun ‘revisionismo’ riuscirà mai a negarlo. Ma la storia, al contrario dell’ideologia e della fede, si basa sulla verità dei fatti piuttosto che sulle certezze assolute. Descrive il mondo come è stato, non come si vorrebbe che fosse stato. Una ‘vulgata’ storiografica, aggressivamente egemonica, costruita per ragioni ideologiche (legittimare la nuova democrazia con l’antifascismo), ma usata spesso per scopi politici (legittimare la sinistra comunista con la democrazia), ha creato, invece, una serie di stereotipi che ci hanno impedito di dipanare quell’intricata matassa in cui si aggrovigliano i nodi irrisolti degli ultimi cinquant’anni: la sconfitta dell’Italia e la crisi dell’identità nazionale, il ruolo decisivo per la vittoria degli eserciti inglese e americano e le frustrazioni dell’antifascismo, i limiti militari della Resistenza e la realpolitik del partito comunista e del partito cattolico, l’inconsistenza storica della monarchia e l’inadeguatezza etico-politica della borghesia…(op. cit., pp.45-46, sgg.). All’elenco di De Felice ci permettiamo di aggiungere: le “resistenze” nella Resistenza; la Resistenza come “guerra civile”, “guerra patriottica”, “guerra di classe” (cfr. Claudio Pavone Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1991); la conflittualità dura, a volte sanguinosa, tra la Resistenza targata PCI e quella democratica (socialista, azionista, monarchica, liberale ecc.); l’altrettanto aspra, anche se meno nota, conflittualità, stavolta all’interno del “fronte rosso”, tra i comunisti d’obbedienza PCI e gli “irregolari”; il prolungamento della “resa dei conti” e non solo con fascisti o presunti tali, ma anche con “compagni che sbagliavano” - dopo la Liberazione e fin quasi al ‘48… Ci fermiamo qui, anche se i “materiali” su cui lavorare sono molti, molti di più. E tutti scottanti. Ma, da studiosi, dobbiamo aver paura di bruciarci le mani? O sono mente e cuore a non reggere all’urto della complessità? A chi si sforza di ragionare chiediamo: quanto abbiamo osservato è “giusto”? È “giusto” che i giurati di un premio storico a cui tocca di scegliere tra un bel po’ di saggi in cui il Novecento e dunque il Fascismo e la Resistenza hanno il loro bel peso, osservino tutto con scrupolo e non attraverso le lenti deformate dall’ideologia? Entriamo nel merito: è “giusto” che il Premio Acqui Storia, intitolato alla memoria della Divisione Acqui che, a Cefalonia e a Corfù scrisse la prima pagina della Resistenza, si ispiri ai suddetti criteri di “revisione” (lo ripetiamo ancora: chi vuol crocifiggere gli altri alle parole terroristiche, di fatto 43 crocifigge se stesso alle proprie paure)? E’ “giusto” che si diano dei riconoscimenti a chi si è più segnalato per intelligenza, obbiettività, capacità di rielaborazione critica, gusto della ricerca anche “scomoda”, serena volontà di confronto e di dibattito? Ovviamente, per qualcuno non è giusto. Ad esempio, per l’ANPI di Alessandria. Che ha elevato una vibrata protesta contro il Premio Acqui Storia, Edizione 2013, accusandolo, ma guarda un po’, di revisionismo. Lo stesso ha fatto con tanto di denuncia alla Procura Distrettuale di Torino un certo Fulvio Castellani di Prato, cinquantenne ed anche lui dell’ANPI (dove c’è posto per gli ex- che hanno fatto la Resistenza - e per i neo -, che non l’hanno fatta perché non avevano l’età, ma, potendo, la farebbero), il quale - facendo leva su avvocatesche competenze - ha ipotizzato per organizzatori e giurati del Premio le accuse più pesanti, dalla diffamazione della Resistenza all’attentato alla Costituzione, dalla ricostituzione (“con metodi raffinati”) del disciolto partito fascista al “peculato per distrazione”. Addirittura! Sì, perché “i fondi 44 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Sopra: Carlo Sburlati con il regista Pupi Avati e Franco Cardini. A destra: l’ambasciatore Serra premiato dal Prefetto di Alessandria. pubblici ricevuti per organizzare un premio comunque a impronta antifascista sarebbero stati autorizzati per assegnare riconoscimenti ad autori di testi di inclinazione del tutto opposta” (Cfr. P.C., Quel libro disonora i sette fratelli Cervi e io querelo gli organizzatori del Premio, “La Nazione”, Cronaca di Prato, 27-10-13). A parte il fatto che ci inquieta non poco la definizione di premio “comunque a impronta antifascista”, come ci inquieterebbe un premio “comunque” ideologicamente orientato, lo scenario è questo: expartigiani e neopartigiani dichiarati contro neofascisti presunti. Ma chi sarebbero, poi, questi “neofascisti”? Cominciamo da quello contro cui Castellani sembra avercela di più. E cioè Dario Fertilio, responsabile delle pagine culturali del “Corriere della Sera” e vincitore nella sezione del romanzo storico con un libro che, coniugando documenti e intreccio narrativo e ripercorrendo itinerari su cui si erano già mossi altri cercatori (tra cui un “bieco fascista” come Giorgio Pisanò), ipotizza che dietro la fucilazione dei sette fratelli Cervi, comunisti, sì, ma “disorganici”, cristiani e non violenti, possa esserci stata la mano del PCI, duro e puro nella sua ferrea ortodossia (L’ultima notte dei fratelli Cervi, Marsilio). Il che fa arrabbiare Fulvio Castellani che così si indigna sulla citata “Nazione”: “I fratelli Cervi furono uccisi con fucili e pallottole fasciste. Che si riscriva la storia - romanzandola quanto si voglia -, mi pare un’operazione scorretta. Se poi a quel libro si attribuisce un premio letterario, nato nel solco di una chiara etica resistenziale, no, non potevo proprio far finta di niente”. Castellani evoca Cefalonia, ricordando che il Premio “sorse nel ’69 in ricordo di quell’eccidio e con un’impronta chiaramente resistenziale, antifascista” e ulteriormente si indigna notando:” E invece vedo premiato un testo che sia pur romanzato - getta discredito sui fratelli Cervi, mettendone in dubbio l’appartenenza, se non al comunismo, almeno al socialismo. Loro, contadini, il socialismo lo praticarono nel lavoro, nella vita quotidiana”. Invece Fertilio “riconduce i fratelli Cervi nell’ambito dell’anarchismo, li descrive come insofferenti all’ordine e alla gerarchia che la Resistenza imponeva. Azzarda che la loro esecuzione - che non nega essere avvenuta per mano fascista - avrebbe rappresentato una punizione indiretta di fronde ribelli interne alla Resistenza. No, i Cervi sono un punto fermo della storia e non è accettabile nessuna rilettura”. “Non è accettabile”? Ma, caro Castellani, non si accorge che qui siamo alla censura, all’ipse dixit, alla didattica di regime? Cosa vuol dire “un punto fermo della storia”? Che quel che si è dato per “buono” una volta, creando un mito e poi via via rielaborandolo a seconda delle opportunità politiche, deve essere considerato “sacro e inviolabile”? Ma lei non ha mai sentito parlare di “fronde ribelli all’interno della Resistenza”? Si è mai informato su come agiva il PCI d’obbedienza moscovita nei confronti degli “irregolari”, anarchici, anarcoidi, trotzskisti o comunque non inquadrabili, a partire dalla guerra civile spagnola in poi? Ancora: Fertilio “toglie” qualcosa all’eroismo antifascista dei fratelli Cervi, se si gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano sforza di illuminare qualche zona d’ombra relativa al modo con cui furono catturati? Toglie qualcosa se ipotizza che, nella strategia della guerra civile, il loro martirio servì “politicamente” al PCI? Andiamo avanti. Un altro neofascista sarebbe Maurizio Serra, attualmente ambasciatore d’Italia all’UNESCO, premiato nella sezione storico-scientifica come autore di uno scintillante profilo di uno scintillante personaggio: Curzio Malaparte. Il suo saggio (Malaparte. Vita e leggende, Marsilio), apparso in prima edizione in lingua francese, è stato premiato col Goncourt: e scusate se è poco. La colpa di Serra? Secondo i compagni dell’ANPI e di Fulvio Castellani è quella di essersi consacrato alla biografia celebrativa di un fascistone, per di più spione e doppiogiochista, al servizio di tutti quelli che, di volta in volta, gli facevano comodo. Ora, Malaparte fu “di tutto e di più”. Un Narciso geniale, valorizzatore e dissipatore degli infiniti talenti che gli aveva dato Madre Natura, fascista e antifascista, comunista e anticomunista, militante sotto le più svariate bandiere, soldato valoroso, intellettuale trepidante e timoroso di perdere le sue rendite di posizione, confinato di lusso, forse collaborazionista, forse spia (ma Serra, che pure non fa sconti a Malaparte, scavando tra i documenti, mostra come l’accusa non stia in piedi), sicuramente grande investigatore nella carne e nello spirito, nel sangue e nelle viscere del Novecento e grande narratore della sua fastosa e atroce decadenza. Per un personaggio del genere, ci voleva uno che rifiutasse gli “esercizi di ammirazione”, ma fosse comunque consapevole di accostarsi a una figura cruciale nell’interventismo culturale dello scorso secolo. Ci voleva Maurizio Serra, insomma. Bene, provate a dirlo a Castellani. Il nostro neopartigiano l’ha letto il libro? Noi abbiamo qualche dubbio: infatti ignora che tra le testimonianze in appendice di “simpatizzanti” malapartiani c’è anche quella di Giorgio Napolitano. In essa, il Presidente, con molta serenità, rievoca i contatti tra il PCI - in prima linea, Palmiro Togliatti - e Malaparte, al tempo dell’armistizio e nel primo dopoguerra. Non è una questione interessante, che sollecita la curiosità storica? Evidentemente, per Castellani, no. Il concittadino di Curzio, poi, se la prende in particolar modo con uno dei capitoli finali della Pelle dove Malaparte “esalterebbe” i giovanissimi franchi tiratori fiorentini che “sparavano sulla gente dai tetti dopo 45 essere stati lasciati soli dai tedeschi e dai gerarchi fuggiti dalla città”. Insomma, Malaparte - che allora non aveva scelto la RSI ma stava dalla parte dei liberatori, risaliva la Penisola con loro e indossava una divisa americana - sarebbe un fascista o giù di lì perché presenta dei ragazzi e anche una ragazza che vanno incontro alla morte (fucilati dai partigiani sui gradini di Santa Maria Novella) pieni di spavalderia e sbeffeggiando chi spara loro addosso. Castellani è toscano: dovrebbe saperlo che i toscani- anche se fascisti- sono fatti così. Sì, Castellani è toscano, ma soprattutto è un neopartigiano. Sembra allora di capire che se Curzio avesse presentato dei luridi “topi di fogna”, schifosi e piagnucolosi, sanguinari assassini prima e al momento della morte carogne che se la fanno sotto, implorando la salvezza, a quest’ora la materia del contendere non ci sarebbe. E invece quei fascisti con la loro “bella morte”! Hanno sparato rannicchiati sui tetti, ma ora muoiono in piedi, pigliando per il culo i loro giustizieri! Uno scandalo! Ci fermiamo qui, saturi di un “politicamente corretto” che ci dà il voltastomaco. Chi ha avuto la pazienza di leggerci tenga però presente che tra i neofascisti premiati dai revisionisti dell’Acqui Storia e ovviamente contestati dall’ANPI e dal Castellani compaiono altri due loschi figuri: Giampaolo Pansa, Testimone del Tempo, e Franco Cardini, Premio alla Carriera. Magari ne parleremo alla prossima puntata. 46 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 L’EDITORE DEL MESE Bietti: per un elogio dell’incoscienza Una casa editrice piccola e coraggiosa di tommaso piccone d oggi, si può dire che la casa editrice Bietti sia una delle più antiche realtà editoriali italiane. Nata nel lontano 1870 ad opera dello stampatore Angelo Bietti, si afferma nel corso della prima metà del Novecento pubblicando classici come Verne, Dumas e Dovstoevskij, nonché la prima edizione dello Zingarelli: è negli anni Sessanta che raggiunge il suo momento apicale, divenendo uno dei punti di riferimento dell’editoria nazionale. Dopo una lunga serie di peripezie, alla fine degli anni Novanta il marchio viene rilevato da Federico Milesi e la direzione assunta da Valerio Riva. Il primo è tra i fondatori del circolo liberale “Società della critica”, il cui nome va ad aggiungersi a quello storico, come simbolo di una nuova A linea editoriale che si batte per la libera circolazione delle idee e il dibattito – dicitura che tuttora accompagna il marchio. Agli inizi del nuovo millennio a Carlo Milesi, figlio di Federico, si affianca Tommaso Piccone. La nuova linea direzionale decide di rilanciare l’iniziativa, facendosi carico dell’eredità della pluridecennale casa editrice ma innovandone al contempo il raggio d’azione. Da qui la ripresa di alcune delle collane “storiche”, ma anche la fondazione di nuovi contenitori di idee. La collana “Biblioteca Bietti” costituisce oggi una piattaforma per la promozione di fantascienza e fantastoria italiane, ospitando autori usualmente adombrati dai loro concorrenti d’oltreoceano. Vuole infatti farsi supporto di quella che è stata definita in più occasioni “scuola italiana del fantastico”, nella persuasione che si possa creare letteratura di genere anche prendendo le mosse da scenari e personaggi nostrani. Perché, ad esempio, utilizzare le consuete landscapes americane, laddove il nostro Paese dispone di scenari altrettanto pittoreschi e di misteri altrettanto affascinanti e versatili, nel loro essere spunto narrativo? Un esempio? Nekros, romanzo di ispirazione lovecraftiana – con tanto di frontespizio e capitoli di un Necronomicon realizzato artigianalmente – firmato da Ugo Ciaccio, non ambientato a Providence o ad Arkham, bensì in una Napoli dai toni gotici e inquietanti, finanche esoterici. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Ultime per ordine ma non per importanza, le numerose antologie, sia della scuola di Gianfranco de Turris sia firmate da Gianfilippo Pizzo e Walter Catalano, dedicate a fantascienza, fantastoria e ucronia. La collana “Caleidoscopio” è invece dedicata a profili letterari, biografie e antologie: tra i titoli, di particolare importanza le raccolte complete dei corpus poetici di Antonia Pozzi e Amalia Guglielminetti, corredati da apparati critici e biografici che restituiscono la complessa personalità delle due poetesse all’interno del loro tempo. Da segnalarsi anche gli scritti teorici di Howard Phillips Lovecraft, raccolti per la prima volta in un unico volume sotto la prestigiosa tutela di studiosi del solitario di Providence del calibro di Gianfranco de Turris, S. T. Joshi e Claudio de Nardi. Il vecchio catalogo si arricchisce altresì di nuove collane, come “Heterotopia”, dedicata interamente al mondo del cinema, che ospita sia monografie critiche sia documenti “primari”, come il diario di David Carradine, documento “in presa diretta” della realizzazione del celebre Kill Bill di Quentin Tarantino. Rilanciata grazie all’impegno di un gruppo di giovani critici cinematografici – Claudio Bartolini, Ilaria Floreano e Giulio Sangiorgio – la collana si articola in studi su registi e cinematografie di culto, privilegiando quelli di cui in Italia nessuno ha scritto, ma anche sul linguaggio della Settima Arte, per addetti ai lavori, nonché per quei curiosi che vogliano accedervi con qualche strumento critico in più rispetto a quelli – invero, piuttosto scarni – offerti dai media. A partire dal 2012, sotto la direzione editoriale di Andrea Scarabelli, viene diffusa “Antarès – prospettive antimoderne”, rivista a scansione quadrimestrale. Sette fascicoli, fino ad ora, dedicati a tematiche che spaziano dalla spiritualità del camminare alle critiche alla modernità da parte di autori e intellettuali del rango di Carl Schmitt, 47 Julius Evola ed Ernst Jünger; con monografie dedicate a Howard Phillips Lovecraft e J. R. R. Tolkien. Nata nell’Università degli Studi di Milano, viene ora distribuita in forma gratuita in una serie di librerie fiduciarie e – sempre gratis et amore Dei, come ripete spesso il suo direttore responsabile, Gianfranco de Turris – in rete. Il periodico è affiancato dalla collana “l’Archeometro”, dedicata a tematiche analoghe: una critica della modernità che non si risolva semplicemente nel rimescolarne le carte – come avviene per molti improvvisati interpreti del presente – ma che abbia una marca essenzialmente mitografica e metafisica. A fianco di questa lettura critica del moderno (che vede i nomi di Giorgio Galli, Stefano Giuliano, Luca Gallesi, Stenio Solinas e Davide Bigalli affiancati a classici come Guido Morselli, Ezra Pound e Gustav Meyrink) la collana – anch’essa diretta da Scarabelli – intende mettere a disposizione testi “politicamente 48 scorretti” e sistematicamente dimenticati o ignorati dalla critica nostrana. Da qui, ad esempio, l’edizione (appena approntata) di Salazar e la rivoluzione in Portogallo di Mircea Eliade, di cui si è parlato poco – e male. Prima della sua edizione critica, appunto, messa a punto attraverso una serie di saggi che contestualizzano gli appelli eliadiani alla “rivoluzione spirituale” salazariana sia all’interno dei primi decenni del “secolo breve” sia nell’orizzonte delle pubblicazioni dello storico delle religioni romeno. Di marca narrativa è invece “Caledonia”, appena avviata sotto la direzione del giovane studioso Giovanni Calarco. Dedicata alla narrativa di viaggio e paesaggistica inglese, riprende il progetto della Penguin English Journey, promuovendo un genere letterario assai raffinato e altrettanto diffuso – dall’età elisabettiana sino ai giorni nostri – che vanta nomi di grandissimo rilievo, e purtuttavia del tutto ignorato dalla critica nostrana. Il “Fuori collana”, infine, ospita la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 pamphlet e studi eccentrici e non allineati, come i recenti volumi di Paolo Bianchi e Giuseppe Magnarapa. Il primo, Inchiostro antipatico, è un j’accuse di quella moda pennaiola delle scuole di scrittura creativa, attraverso le quali chiunque – leggasi chiunque – può accedere alla produzione letteraria. Con risultati che ormai sono sotto gli occhi di tutti – e che definire grotteschi è forse limitativo. Il secondo – di grandissima attualità, come dimostra ad esempio il dibattito promosso dalle colonne di questa stessa rivista – è invece dedicato a certo antiberlusconismo, e alla componente pregiudiziale, prerazionale ed emotiva che spesso e volentieri scatena talune levate di scudi contro quello che è ormai diventato un mito, Silvio Berlusconi, che vede irriducibili detrattori opporsi – ma solo apparentemente – ad acritici esaltatori. Il nemico assoluto. Fenomenologia dell’antiberlusconismo militante non intende essere una difesa dell’operato dell’ex premier ma prende di petto chi con la critica del suo operato ha fatto carriera. Il recentissimo Wikipedia. L’enciclopedia libera e l’egemonia dell’informazione, firmato da Emanuele Mastrangelo (Storia in Rete) ed Enrico Petrucci, mette invece in discussione un ennesimo tabù dei nostri tempi, mostrando come dietro alla “enciclopedia collettiva”, da tutti osannata come “liberazione” della cultura dalle grinfie delle élites, gravino ipoteche orwelliane, si stagli l’ombra sinistra del “Ministero della Verità” di 1984. A svariati anni dal rilancio di questo progetto, è possibile stilare un bilancio provvisorio di quella che non è una mera manovra editoriale ma un’autentica visione del mondo, la cui quintessenza, potremmo dire in modo abbastanza polemico, è all’insegna dell’incoscienza. Ma è una incoscienza che spesso e volentieri salva la cultura, quando quest’ultima è preda di un Pensiero Unico il cui esercizio avviene assai sovente con strumenti coercitivi. Come dire, quando la coscienza diventa censoria, spetta all’incoscienza dire la verità... MOMENTACT_168x216.indd 1 15/05/13 11:11 50 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Punture di penna Consigli intellettuali per il vero Maître à penser Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte terza LUIGI MASCHERONI ALCOL Per scrivere, si può AGGETTIVI Da evitare assolutamente: “suggestivo”, “carino”, “intrigante”, fanno troppo giornalistese. Si può usare “pernicioso”. Da abolire “intellettuale”. abusarne. Vedi Hemingway, o Fitzgerald. Ricordarsi di Raymond Carver, per il quale l’alcol era l’unico rifugio ai tormenti. Quindi anche per i vostri. Comunque, da preferire la wodka al whisky. Niente birra. Fa troppo Mauro Corona. ELOGI Elogiarli. CRUSCA, ACCADEMIA ARBASINO, ALBERTO Parlarne sempre benissimo. Perché? Non si sa. PINKETTS, G. ANDREA Meglio non frequentarlo. Perché? Non si sa. E comunque non avete mai capito che cazzo significa quella “G” puntata. E forse neanche lui. “MASTERPIECE” Trasmissione televisiva pensata per gente che scrive libri e vista soltanto da quelli che li leggono, quindi pochissimi. Dire per primi: “È la dimostrazione che twitter e la televisione sono due pianeti diversi”. Parlarne malissimo. Però se incontrate Andrea De Carlo ditegli che non è colpa sua, Sopra: Luigi Mascheroni. Nella pagina accanto: Jean François de Troy (1679-1752), Lecture de Molière (1728 circa), collezione dei marchesi di Cholmondeley, Houghton House (Bedfordshire) è il format che non funziona, lui è bravissimo. Perché? Non sia sa. OPTIONAL/1 La lettura dei libri è un optional. Anche per recensirli. OPTIONAL/2 Optional che piacciono all’intellettuale: le pochette, le pochade, le pashmine, il navigatore, lo spoiler, il satinato, a volte anche l’italiano, spesso la coerenza… DELLA A voi nessuno vi deve insegnare nulla. “DRIVE IN” Perentori: “Da lì è iniziata la rovina del Paese”. Se lo vedevate, non ditelo. FUTURO Ricordarsi che è nei classici. MAÎTRESSE-À-PENSER Non è un refuso. Significa un Maître à penser un po’ più disposto a vendersi. POETI/1 Meravigliosi, in teoria. POETI/2 Insopportabili, in pratica. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 51 DAVID FOSTER WALLACE Avere un’opinione molto precisa, in positivo o in negativo, su Infinite Jest. Libro che non serve assolutamente leggere davvero. CAZZATE Molto frequenti nell’ambiente. Ad esempio: “Dietro Checco Zalone si nasconde Roland Barthes”. Insomma cose del genere. LUOGHI COMUNI CONTROCORRENTE L’intellettuale per statuto va solo controcorrente. Ma succede che a volte vada a corrente alternata, altre che la corrente la segua, altre ancora che sia titolare di conti correnti, spesso però è un’isola nella corrente, ancora più spesso si lava le mani con acqua corrente, e tutte le altre volte non gli resta che correre. Come il coniglio. Quale peraltro solitamente è. DECOSTRUZIONISMO Concetto da decostruire. SOCIAL NETWORK Fanno solo perdere tempo, se non parlano di voi. CÔTE D’AZUR Elsa Max- well, Cole Porter, Juliette Gréco, Boris Vian, Roger Vadim, Brigitte Bardot… E voi, naturalmente. Abusarne: “coscienza critica”, “annosa questione”, “rivoluzione del web”, “la carta è destinata a morire”, “Quelli di Fabio Volo non sono veri libri”... MONOLOGO Se non lo fate voi, vi annoia. DIBATTITO Se non parla di voi, è inutile. FELLINI, FEDERICO Dire di averlo conosciuto. Come tutti. MAESTRI I veri, non han- MONTANELLI, INDRO no mai voluto discepoli. DISCEPOLI I migliori, non hanno mai avuto maestri. Dire di averlo conosciuto (“Un granissimo giornalista, ma umanamente…”). Come tutti. 52 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 SCIASCIA, LEONARDO MUTI, RICCARDO Par- Ormai fa più chic dire di non averlo conosciuto. PANNI SPORCHI L’intellettuale comunque li cambia spesso. MATURITÀ (esame di) Quando l’avete fatto voi, si portavano tutte le materie. Con l’intero programma. Con una commissione severissima. Si preparava per mesi. Nessuno poteva copiare. I commissari erano terribili. Quello sì che era un esame. Poi c’è stato il Sessantotto che ha iniziato a cambiare le cose. E poi sono arrivati Drive In e Berlusconi ed diventato tutto una farsa. Come tutte le altre cose in Italia. BIENNALE Voi è anni che non ci andate più. “Ormai è un luna park”. PROGETTI Di solito rimangono sempre tali. larne solo benissimo, bravissimo, bellissimo, eccelso, “trionfo”, “commozione”, stending ovation, “delirio”. Sì, in effetti è un delirio. ANTIBERLUSCONISMO Sussurrare: “Ha fatto la fortuna di molta gente”. FRASE PREFERITA “Sedurre con verità, ingannare con menzogne”. Ma anche viceversa. AMICI L’intellettuale non ha amici. Giusto qualche collega, per il resto moltissimi lettori (a questo proposito, sbilanciarsi: “Sono loro i mie veri amici”). HARRY POTTER Voi ne avete parlato benissimo fin dall’inizio. Citare l’articolo di Michiko Kakutani sul New York Times che lo paragona ai grandi classici della letteratura infantile, dal Mago di Oz al Signore degli Anelli. Farete un figurone anche fra i più critici. PASSIONI L’intellettuale non conosce passioni, solo ragioni. TANTI SOLDI Al cinema e BUONE IDEE Al cinema e POMPEI “Tutta colpa di Bondi”. in tv, meglio le buone idee. in tv, meglio tanti soldi. PEPPA PIG Voi siete sem- GENIALITÀ Il confine con pre stati per i Barbapapà. il bluff è molto labile. GRASSO, ALDO Astioso. CRITICO LETTERARIO Non leggerlo. (e anche cinematografico) Quel- lo vero, non va per il sottile. Si vende e basta. AFFARI La destra è bravissima a farsi i propri. La sinistra quelli degli altri. TELEVISIONE Incompatibile con la letteratura. LETTERATURA Incompatibile con la televisione. LIBERTÀ DI PENSIERO Sì, purché sia il più possibile simile al vostro. FILOSOFI Casta tanto superflua, ormai, da diventare indispensabile. DEMAGOGO Un intellettuale qualunque. LIBRI DA CITARE SEN- ZA LEGGERE Oltre la Recherche di Proust e l’Ulisse di Joyce, I miserabili di Hugo, Il rosso e il nero di Stendhal, La montagna incantata di Mann, L’uomo senza qualità di Musil, L’urlo e il furore di Faulkner, Vineland di Thomas Pynchon (al cui confronto Infinite Jest di David Foster Wallace è una passeggiata rilassante). Tra gli italiani, Lo Zibaldone di Leopardi, La cognizione del dolore di Gadda, Fratelli d’Italia di Arbasino, Petrolio di Pasolini e Gomorra di Saviano. Come diceva quel tale: “Formidabile! Ma chi lo legge?”. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 55 Il libro del mese Augusto, la vita raccontata da lui stesso La figura del padre dell’Impero nelle Res gestae LORENZO BRACCESI Q uesto libro, come indica il sottotitolo, ha per filo conduttore la vita di Ottaviano Augusto come ci è raccontata da lui stesso nelle Res gestae, che sono, prima ancora di un resoconto delle sue imprese, un vero e proprio testamento politico da lui redatto in età matura e divulgato solo post mortem. Un documento che fu inciso, in Roma, su due pilastri bronzei collocati innanzi al suo mausoleo e poi inviato in copie fedeli nelle province, donde da Ankara, l’antica Ancyra, l’esemplare più completo è ritornato a noi in una monumentale epigrafe marmorea - regina inscriptionum – dal testo bilingue, latino e greco. Rileggiamone subito l’incipit che, in forma succinta e incalzante, ci proietta sul teatro dei frenetici accadimenti che, in Roma, si susseguono alla morte di Cesare: All’età di diciannove anni, di mia iniziativa e a mie spese, allestii un esercito, con il quale restituii alla libertà la Repubblica oppressa dalla dominazione di una fazione. Per questo motivo, sotto il consolato di Gaio Pansa e Aulo Irzio, il senato con un decreto onorifico mi incluse nel proprio ordine, attribuendomi dirit- Lorenzo Braccesi, “Augusto, la vita raccontata da lui stesso”, Napoli, Edises, 2013, pp. 146, 9.80 euro to di parola quale consolare, e mi conferì il comando militare. Mi ordinò, inoltre, di provvedere in qualità di propretore, insieme con i consoli, a che la Repubblica non dovesse subire danno alcuno. Nello stesso anno il popolo mi creò poi console, poiché entrambi i consoli erano caduti in guerra, nonché triumviro per rinnovare la costituzione dello stato. Con queste parole, riandando con la mente alla sua turbinosa ascesa politica, Augusto, che allora si chiamava Ottaviano, getta un velo di ombra, e quindi di rassicurante silenzio, sull’atto rivoluzionario che, a diciannove anni, nel 43 a.C., lo rende protagonista di tumultuosi accadimenti eversivi. I quali l’affiancano, con un comando militare, ai consoli in carica e quindi, morti questi ultimi, lo portano a divenire egli stesso console e infine, siglata la tregua con altri signori della guerra, l’inducono a istituire con essi il triumvirato quale su- 56 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Antoine Caron (1521-1599), Augusto e la Sibilla tiberina (1578 circa), Parigi, Museo del Louvre prema magistratura dello stato. In queste poche righe il suo sforzo è tutto volto a imbrigliare dentro una cornice di apparente legalità ciò che legalitario proprio non fu, bensì un gesto sovversivo che segnava l’inizio della più grande rivoluzione che la storia di Roma avesse mai conosciuto: quale il passaggio dalla Repubblica al principato o, se si vuole, all’impero. Non solo; ma il fi ne è anche un altro. Quello di evocare sulla ribalta della scena politica la comparsa - fulminea e quasi messianica - dell’uomo della provvidenza! Ragione per cui costui, a rivoluzione compiuta, ricorre nel testamen- to politico a una strumentale semplificazione espositiva della memoria degli avvenimenti per giustificare la propria turbinosa e incostituzionale ascesa al potere. Non falsa del tutto la realtà, ma provoca nel lettore del documento un’alterazione nella percezione della prassi istituzionale. L’espressione “restituii alla libertà la Repubblica oppressa dalla dominazione di una fazione” è sì un’esplicita allusione all’illegale sopraffazione esercitata da Antonio; ma, apposto in posizione proemiale, il participio “oppressa” mira a ricordare l’accadimento che poteva essere più ricco di carica emozionale e poteva meglio servire ad accentuare la crisi profonda delle istituzioni: la soppressione della “libertà” per la tirannia esercitata da un signore della guerra che, non a caso, è il suo più diretto rivale. Il fine era uno solo, ed era raggiunto: quello, cioè, di suscitare in tutto l’impero un clima di profondo smarrimento istituzionale che fosse preludio alla comparsa provvidenziale del giovane Ottaviano sullo sconsolato teatro degli eventi. Le Res gestae, come manifesto politico, mistificano la storia, ma anche testimoniano una profonda verità: l’assoluto trionfo di una ra- gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano gione di stato che spontaneamente legittima l’operato del giovane condottiero, senza attribuirgli connotazione rivoluzionaria, bensì in un’apparente immobilità delle strutture istituzionali. Di fatto, egli, riandando con la memoria al passato, non altera la trama degli accadimenti; ma tace su tutto ciò che, a processo rivoluzionario concluso, non è più opportuno ricordare: come l’iniziale intesa con il senato, la guerra civile contro Antonio, la sua marcia su Roma, l’estorsione del consolato, l’intesa con il rivale, la creazione extra legem della magistratura triumvirale, la crudeltà e il cinismo e il sangue delle proscrizioni. Tutto ciò su cui ora dobbiamo richiamare l’attenzione. Alle idi di marzo dell’anno precedente, del 44 a.C., Cesare cadeva sotto il ferro dei congiurati guidati da Bruto e da Cassio. La tradizione di marca stoicheggiante dipinge il primo come un intellettuale travagliato, mosso da nobili impulsi, ma incerto sul da farsi, teorico e responsabile morale della congiura, mentre il secondo come un uomo pronto all’azione, istigatore e animatore del moto anticesariano. Ma entrambi furono uomini del passato anziché del presente, travolti da avvenimenti che non seppero dominare, in fondo assai più reazionari che rivoluzionari. Certamente non furono subdoli traditori votati al compromesso disonorante e all’accentramento dei poteri, ma neanche tirannicidi nel senso classico della parola, cioè interpreti di esigenze sociali largamente sentite e condivise. Avevano sperato che assassinando Cesare avrebbero all’improvviso potuto arrestare il corso della storia, sicché dal loro gesto sofferto e disperato potesse nascere un’insurrezione di popolo per il ripristino delle libere istituzioni, ma libertas repubblicana significava allora egemonia dell’oligarchia senatoria, forte del possesso del grande latifondo agrario, e non certo apertura alle classi subalterne. L’oligarchia senatoria, la nobilitas, poteva perciò plaudire al loro gesto e al loro programma; non il popolo e l’esercito, che reclamano subito con tu- 57 multi di piazza la vendetta contro gli uccisori di Cesare, dittatore certamente, ma al servizio di interessi democratici. La concentrazione in forma autocratica dei poteri politici, più che un sogno ambizioso, diventava una necessità. Cesare non era riuscito a piegare le resistenze dell’ordine senatorio, mentre sull’ordine minore, l’equestre, e sulla plebe agivano spinte contrastanti che ne impedivano una collaborazione, favorendo di fatto il gioco meschino dei singoli con conseguente disgregazione dello stato. Non si potevano ignorare più oltre le spinte che venivano dal basso e solo un programma rivoluzionario avrebbe forse potuto arginare una siffatta situazione di crisi; non certo l’anacronistica restaurazione dei privilegi della vecchia nobilitas. Jean-Joseph Taillasson (1745-1809), Virgilio legge ‘L’Eneide’ a Augusto, Livia e Ottavia, Londra, National Gallery gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 59 L’Altro scaffale Rarità letterarie: editoriali e giornalistiche Piccole ma preziose proposte di collezionismo ALBERTO CESARE AMBESI L’ opera ha singolari caratteristiche editoriali: è una prima edizione postuma del 1929, recante una nota introduttiva di Eugenio Montale (1896-1981), più una coeva nota manoscritta al foglio di guardia. Si tratta, per la precisione, del volume La novella del buon vecchio e della bella fanciulla e altri scritti di Italo Svevo (1861-1928) pubblicato da Giuseppe Morreale, editore in Milano (volume che pure la Biblioteca di via Senato possiede), ricordato a malapena dai soli specialisti, ma che ebbe l’indubbio merito, nei primi decenni dello scorso secolo, di presentare le prime versioni italiane, per esempio, del romanzo Tonio Kroger di Thomas Mann (18751955) e di Bestie, Uomini e Dei, l’inverosimile diario di una credibile avventura nelle terre dell’Asia centrale di Ferdinando Ossendowski (1876-1945 ), giornalista e scrittore piuttosto addentro a certo “demi-monde”, spionistico e occultistico. Il motivo per il quale ho vo- luto ricordare l’esistenza della prima edizione La novella del buon vecchio e della bella fanciulla? In linea preliminare, grazie ad una duplice ragione: a) perché si tratta di un libro, in 8°, piuttosto raro e offerto dalla Libreria Antiquaria Monte della Farina di Roma al ragionevole prezzo di 70 euro; b) in quanto si tratta di un esemplare che conserva l’originale copertina in brossura, con poche, lievi imperfezioni, ma del tutto integro nelle 316 pagine di testo (+4). Per quanto concerne poi l’artico- lazione dell’opera, sarei tentato di asserire che, sotto un profilo cronologico, essa comprende un preludio (la novella, La Madre del 1910) un allegretto e un allegro iniziali, strettamente congiunti (le novellette Una burla riuscita e Vino generoso, ambedue del 1926), un ampio largo espressivo (il racconto che dà il titolo all’opera (risalente anch’esso al 1926) ed un finale del 1928 (Il Vecchione) carico d’interrogativi, ma che sembra anche preludere ad una narrazione che l’Autore non scriverà mai. Un’altra, interessante offerta della Libreria Monte della Farina è rappresentata dall’opera che racchiude una buona parte delle primissime annate di Tuttolibri, il supplemento letterario de «La Stampa», allora alquanto ricco d’informazioni e di variegate riflessioni critiche, sia pure con qualche instabilità di orientamento. Grosso modo: dall’uscita del primo numero, il 1° novembre 1975, a tutto giugno 1999. Non per nulla, si riconosce oggi, 60 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 da più parti, che le annate iniziali di Tuttolibri ebbero non pochi meriti nel documentare le fasi di una stagione culturale troppo breve e che già si comincia rimpiangere. Proprio come lasciano presagire i sette volumi, in folio, rilegati in similpelle verde, che riuniscono le annate complete 1976 e 1977, più tre semestri, estratti, rispettivamente, dalle annate 1978, 1979 e 1980. Da aggiungersi che si tratta di una raccolta in perfetto stato di conservazione che è richiesta per essa il giusto importo di 100 euro. Duecento euro sono invece richiesti, sempre dalla stessa libreria romana, per la impeccabile e completa ristampa anastatica della famosa rivista Lacerba, fondata a Firenze, nel 1913, da Ardengo Soffici e Giovanni Papini con l’esplicito scopo di sostenere qualsiasi gesto creativo che fosse capace di frantumare i tradizio- nali codici della letteratura e delle arti, in genere. Orientamento, codesto, in aperta contrapposizione alla Voce, l’altra autorevole testata fiorentina dalla quale purtuttavia provenivano i dioscuri di Lacerba. Dapprima strettamente collaboratrice delle esperienze futuriste e aperta al dialogo con le contemporanee avanguardie europee (soprattutto parigine), Lacerba ebbe il merito, in tale perio- BLOCK NOTES APPUNTI ELEMENTARI DI BIBLIOLOGIA sesta puntata Abbreviazioni usuali, in sede di catalogo tab./tabb.: tabella/tabelle. tass.: tassello (etichetta sul dorso del volume riportante autore e titolo dell’opera). tav./tavv.: tavola/tavole (illustrazione/i a piena pagina, nel testo o fuori testo). timbrino: timbro di biblioteca o di proprietà. tit.oro: titolo dorato, solitamente sul dorso. tr.d’uso: tratti d’uso (sottolineature delle righe, firme, orecchie alle pagine). vol./voll.: volume/i do, (grosso modo, per poco più di un anno) di proporre autori come Apollinaire (1880-1918) e Marinetti (1876-1944), Max Jacob (1876-1944) e Govoni (1884–1965), Remi de Gourmont (1858-1915) e Ungaretti (188-1970), pur senza sottrarsi, peraltro, anche a polemiche che appaiono oggi, almeno in alcuni casi, o superflue o provinciali. Poi sopraggiunsero la “tentazione” nazionalista e il contradditorio fenomeno dell’interventismo, senza che alcuno avesse bastante voce persuasiva, nell’uno e nell’altro campo, per avvertire con quel veniente conflitto l’Europa avrebbe volontariamente messo in discussione, per la prima volta, il proprio ruolo di cardine della storia mondiale. Superfluo precisare che qui si allude non soltanto alle concordanti posizioni “combattentistiche” assunte dalle due riviste fiorentine, pur rivali, ma bensì e soprattutto alla parallela e colpevole miopia politica e metapolitica di tutti gli stati europei dell’inizio del XX secolo. Pubblicata nel 1970 dall’Editore Mazzotta di Milano, la riedizione di Lacerba che qui si è voluta segnalare ha caratteristiche di non comune interesse. Basti ricordare, in primo luogo e sotto il profilo editoriale, che comprende soltanto settecento esemplari numerati (il numero posto in vendita è il 26°) e che presenta con una legatura in marocchino rosso, recante un gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano dorso con nervi e titoli in oro, nonchè una custodia rigida rivestita da carta marmorizzata. Ulteriori pregi dell’opera: il fascicolo di 28 pagine di “Introduzione a Lacerba”, a cura di Raffaele de Grada, e i molti disegni intercalati nel testo dovuti all’inventiva di Picasso (1881-1973), Michel Larionov (1881-1962), fondatore del “raggismo”, e Alexander Arcipenko (1887-1964), versatile scultore ucraino. Qualcuno ricorda qualche fu il più grande merito del Giornale per i bambini uscito a Roma dal 1° luglio 1881 al 26 giugno 1889, quando venne assorbito dal Giornale dei fanciulli di Milano? Non può esservi alcun dubbio: l’avere ospitato, ovviamente a puntate, la prima edizione, anzi l’anteprima, della più riuscita opera di Carlo Collodi (18261890), ricorrendo ai due diversi titoli de La storia di un burattino dal 1° al 17° numero del giornale (anno I, 1° luglio-27 ottobre 1881) e Le avventure di Pinocchio dal 16 febbraio 1882 (n° 7 dell’ anno II) al 25 gennaio 1883 (n° 4 dell’anno III). Perché ho voluto rammentare questo evento ottocentesco che si colloca entro il particolare riquadro che abbraccia la cronistoria del giornalismo e della letteratura per l’infanzia? Le ragioni sono svariate. Per esempio, potrei sottolineare che l’iniziale collaborazione di INDIRIZZO E RECAPITI LIBRERIA ANTIQUARIA MONTE DELLA FARINA Via Monte della Farina, 35 00186 Roma Tel.: 06/68806844 LIBRERIA ANTIQUARIA MALAVASI Largo Schuster, 1 20122 Milano Tel.: 02/804607 Collodi al Giornale per i bambini avvenne sotto gli auspici del direttore Ferdinando Martini (1841-1928), scrittore di successo, accorto uomo politico e futuro governatore dell’Eritrea (1897-1900). Inoltre, avrei più di una ragione per rilevare che già nel 1883, il romanzo Pinocchio veniva pubblicato in versione libraria, per una collana scolastica, dall’Editore Felice Paggi di Firenze e con le illustrazioni di Enrico Mazzanti (1850-1910). Notizie che potrebbero portarmi molto lontano, al fervido tempo in cui proprio Ferdinando Martini, in veste di direttore del Fanfulla della Domenica, proponeva Giosuè Carducci ad un numeroso pubblico di lettori. Ho invece il più modesto dovere di rilevare che, di recente, la Libreria Malavasi di Milano ha posto in vendita l’originale, multipla serie “collodiana” collazionata in tre perfetti volumi in 4° (mm.315x225), aventi le seguenti caratteristiche: 61 il primo rilegato nell’originale tela rossa; i restanti due in mezzo marocchino rosso coevo. La foliazione è integra e conta: pp. (4), 416 - (2), 848 (4) - (6), 848. Molte e accurate le illustrazioni xilografiche racchiuse in ognuno dei tre volumi. Il prezzo? Poco meno di quanto si ottenne in un’asta di due anni addietro: 9.500 euro. Se taluno affermasse in pubblico che vi è un invisibile filo che collega il romanzo I Promessi sposi di Alessandro Manzoni (17851873) ai Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo (sec.I d.C.) è verosimile che gli astanti resterebbero perplessi, molto perlplessi. Eppure l’apparente paradosso ha una facile spiegazione, quando si pensi che una riedizione del romanzo mazoniano aveva inaugurato, alla fine del 1949, “ Biblioteca Universale Rizzoli” e il testo dello storico romano venne chiamato, nel 1972, a concludere la fortunata e meritevole collana, racchiudente, in edizioni integrali, le principali opere letterarie di tutti i tempi, nonché numerosi libri di cultura e divulgazione generale. È dunque un vero avvenimento che la menzionata e famosa libreria milanese abbia recentemente messo in vendita la completa raccolta della “Biblioteca” (912 volumi in 16°, due dei quali in pelle editoriale blu; i restanti in brossura originale ben conservata ,a parte i dorsi ingialliti) e al prezzo allettante di 5.500 euro. gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 63 Il Ricordo Un sommo regista nel ricordo di un grande scrittore A vent’anni dalla morte una memoria di Federico Fellini PIERO MELDINI F ederico Fellini (19201993), che non era uno storico né ha mai manifestato un particolare interesse per la storia, si è misurato ripetutamente con quell’Altrove che è il passato, servendosi di mappe e di metodi d’esplorazione del tutto singolari e - aggiungo - non troppo lontani da quelli usati da Freud per esplorare l’«interno paese straniero». Nell’interesse del regista per la storia non c’era niente di accademico. Resuscitare il passato non era per lui un’operazione culturale, quanto piuttosto una specie di seduta medianica, di rito negromantico, dal momento che si trattava di mettersi in comunicazione con un universo parallelo abitato dai morti. E tuttavia Fellini ha precorso più d’una volta gli storici di professione. In cosa consiste, in estrema sintesi, il lavoro dello storico? Io credo nel cogliere le differenze fra il presente e il passato; nel misurare la distanza e talora l’estraneità tra questi mondi. La ten- denza comune è di appiattire il passato sul presente, perché pensare che la storia si ripete, che negli anni e nei secoli cambia poco o nulla, è molto rassicurante. È proprio invece tanto dello storico di razza quanto dell’artista sorprendere, spiazzare, mettere in crisi luoghi comuni e certezze consolidate. Prendiamo Satyricon. Scopo dichiarato del film era mostrare la distanza abissale, l’inconcilia- bilità tra il mondo pagano, che non possedeva ancora il senso del peccato, e la civiltà successiva alla rivoluzione cristiana, alla quale noi apparteniamo. Nelle intenzioni di Fellini si sposavano dunque un mito - il mito di un’Età dell’oro a cui era ignoto ed estraneo il senso di colpa - e una formidabile intuizione storiografica. Mi spiego. Satyricon è stato girato come una sorta di reportage. Si ricorderà che in alcune sequenze - quella della Suburra o del banchetto di Trimalcione - le comparse guardano dritto in macchina, contravvenendo alla prima e più rigorosa regola del cinema di fiction. È come se negli archivi di qualche inesplorata cineteca, insomma, fossero stati ritrovati prodigiosamente spezzoni di un documentario girato duemila anni fa. Ora, in questo fantomatico reportage qualcosa ci sfugge: ci sono parole, gesti, situazioni di cui non riusciamo ad afferrare il senso. Ci rendiamo conto che quegli uomini parlavano un’altra lingua: un linguaggio 64 non solo verbale, ma anche corporeo, che si è in tutto o in parte estinto. Qual è stata l’intuizione di Fellini? Quella che le fonti storiche possano risultare incomprensibili o essere fraintese, anche gravemente, per un mutamento dei codici e dei significati. Questa intuizione è eccezionalmente acuta. Aggiungo che la rappresentazione di Roma imperiale come una società multietnica, multilinguistica e multisessuale era profetica. Per Fellini rivolgere lo sguardo al passato significava, in effetti, scrutare anche il futuro. Un film che ho sempre considerato gravemente sottovalutato è Casanova, un’opera magistrale sul piano figurativo, dove il Fellini visionario ha dato il me- la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 glio di sé. Siamo nella prima metà del XVIII secolo. Il quadro tradizionale del Settecento, imposto dalla vulgata scolastica (e non solo), è quello del “secolo dei Lumi”, del trionfo della Ragione. La ricerca storica più avanzata, prodotta in anni perlopiù successivi al Casanova, ha viceversa insistito sui tratti irrazionalistici, esoterici, notturni e sentimentali del Settecento, che è certamente il secolo degli Enciclopedisti, ma è anche quello degli avventurieri, degli occultisti, del mesmerismo e della “magia naturale”; dell’epidemia di vampirismo e del lungo dibattito che ne seguì; delle sette segrete, delle logge iniziatiche, dell’«invenzione della tradizione» ermetica, templare e rosacruciana; del libertinismo religioso e laico; della sensiblerie. Quello che ci rappresenta Fellini è per l’appunto un Settecento “notturno” in cui si aggira un uomo - Giacomo Casanova che è un pesce fuor d’acqua, uno sradicato, un insoddisfatto perenne per questa precisa ragione: che possiede già una sensibilità romantica. Il Casanova felliniano è un apolide, un vagabondo che concepisce l’amore come passione e ha un altissimo concetto di sé: che pensa, vive e ama, insomma, come un eroe romantico. Altro che recordman e forzato del sesso: Casanova è un amante appassionato e anche sdolcinato, un romantico ante litteram. La rappresentazione del Settecento che ci dà Fellini troverebbe d’accordo, oggi, la maggior parte degli storici. Si veda, per esempio, il bel saggio di Robert Darnton1 sulle lettere inviate a Rousseau dai lettori della Nouvelle Heloïse, forse il maggior best-seller del XVIII secolo. È un autentico nubifragio di «lacrime deliziose», «dolci sospiri», insostenibili tormenti, violenti singulti, scioglimenti dell’anima, provocati tutti - commenta malignamente Darnton - dalla lettura di un romanzo in sei tomi dove «non si incontra un episodio di violenza, una scena erotica o qualcosa che somigli a una trama». Oggi – ripeto – la maggioranza degli storici condividerebbe il quadro del Settecento proposto da Fellini. Trent’anni fa il regista era in perfetta solitudine gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano (o quasi). In genere i registi di film storici, così come gli scrittori di romanzi storici, tendono, volenti o nolenti, ad attualizzare il passato. Fellini fa l’opposto: guarda al presente con gli occhi dello storico. Da questo punto di vista sono per me film storici non solo Satyricon, Casanova, E la nave va, Amarcord, ma anche Roma, Prova d’orchestra e soprattutto La dolce vita. Film “storici del presente”, se mi si passa questa definizione: capaci, cioè, di guardare al presente con la spregiudicatezza, la lucidità, il distacco e la capacità di cogliere i tratti significativi che hanno (non sempre) i posteri. Accennavo alla Dolce vita. Il lettore non me ne voglia se ricorrerò, a questo punto, a un ricordo personale. Nel 1959, l’anno in cui il film uscì nelle sale, avevo diciotto anni e frequentavo l’ultimo anno di liceo: lo stesso liceo “Giulio Cesare” di Rimini che aveva frequentato a suo tempo Fellini. Di lui avevo già visto I vitelloni, La strada e Le notti di Cabiria. Il primo mi era piaciuto; gli altri due, se debbo essere sincero, mi erano sembrati un po’ troppo sentimentali. Consideravo Fellini un regista molto dotato e altrettanto scaltro. Andai a vedere La dolce vita alla prima proiezione pomeridiana di un giorno feriale. In sala, nonostante lo scandalo che stava montando sul film, c’erano più o meno una decina di persone. La visione della Dolce vita mi procurò un’emozione fortissima, quasi uno shock: uno dei pochissimi “shok culturali” che ho subìto nella mia vita. Era un film che non assomigliava a nessun altro sia per quello che raccontava che per il modo in cui lo raccontava. Era una lettura della realtà spietatamente laica: priva, cioè, del più tenue velo ideologico e del più remoto intento consolatorio. La dolce vita era forse il primo film che guardava il mondo con occhi davvero adulti. Al paragone, tutto il cinema italiano del dopoguerra, a cominciare da quello neorealista, appariva estetizzante e manierato, e anche il cinema americano sembrava sostanzialmente conformista e reticente. La dolce vita mi fece perdere definitivamente l’ingenuità. Dopo quel film il mondo mi sembrò 65 diverso: non più ordinato e comprensibile, come lo dipingeva certo marxismo scolastico e sempliciotto, né governato dalla Divina Provvidenza, ma caotico, babelico e indecifrabile: «il sogno di un pazzo pieno di urla e di furore», per dirla con Shakespeare. Quell’anno a scuola traducevamo Tacito. Ebbi questa precisa sensazione: che guardare La dolce vita fosse come leggere le storie di Tacito: non per noi moderni, però, ma per un suo contemporaneo. Vidi il film per intero due volte di seguito. Il giorno dopo ripagai il biglietto e lo vidi per la terza volta. NOTE 1 R. Darnton, I lettori rispondono a Rousseau, in Il grande massacro dei gatti, Milano, Adelphi, 1988, pp. 267-319. 66 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 Filosofia delle parole e delle cose L’ordine perfetto e il desiderio infinito Come nascono i desideri? E che cos’è che chiamiamo pace? DANIELE GIGLI C apita di rado, ma capita ancora, persino in questo nostro mondo, di ricevere un ordine. Capita così di rado da farci sentire, quando accade, terribilmente strozzati. Ché se è vero che le nostre vite sono fitte di doveri, pare oggi che tali doveri – e le richieste che li accompagnano – non abbiano un’origine oggettiva, necessaria, ma siano mere convenzioni, per cui una cosa non va ac- cettata in quanto esistente ma in quanto la ritengo giusta. Viene da qui la vena moralistica che spessissimo accompagna le richieste che gli uomini si fanno gli uni gli altri, anche le più oggettive. Perciò non basta che io ti chieda di non fumare a tavola perché mi dà fastidio: no, debbo convincerti che fumare a tavola sia male e scandalizzarmi se tu non te ne rendi conto. Del pari, non basta che io ti chieda un re- Carlo Carrà (1881-1966), Nuotatori (1929), Milano, collezione privata port di lavoro entro il giovedì sera perché sono il tuo capo e voglio usare il venerdì mattina per guardarlo: no, debbo convincerti che sia importante che tu me lo dia e scandalizzarmi se non ne sei convinto. Ed io, che ho da fare il report al mio capo entro il venerdì sera, non mi accontento di sapere che a lui necessiti così: no, debbo convincermi che sia giusto, opportuno, fondamentale e scandalizzarmi se non me ne convinco e lo faccio un po’ controvoglia. Vale per tutto: per i grassi saturi, per il semaforo rosso, per le tasse, per la corsa al parco. Ragioni, ragioni, ragioni, continuamente a chiederci e darci ragioni che tuttavia ragioni non sono, ma indottrinamenti reciproci, tentativi di spiegarci l’un l’altro la «verdità» di una foglia o la «pietrità» di una pietra. Il che non sarebbe affatto male, sarebbe anzi un segno della meravigliosa esigenza di ragionevolezza dell’uomo, se non 68 gennaio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 69 A sinistra: Vincent Van Gogh (1853-1890), Il mandorlo in fiore (alla maniera di Hiroshige) (1887). A destra: Vassilij Kandinskij (1866-1944), Il canto del Volga (1906), Museée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Parigi fosse che tutti questi tentativi di spiegazione precedono e annichiliscono l’esperienza delle cose, il primitivo e necessario ordine che sta nel loro essere date. Quando le cose sono a posto, quando «vanno bene», quando «funzionano», quando «tutto è come dev’essere»: sono tutte espressioni del nostro parlare che ci svelano l’ordine come condizione desiderata dall’uomo. Ed è come al solito il distacco tra l’astratto e il concreto, tra il principio e la sua incarnazione, che tanta fatica ci ingenera. Perché vi sia l’ordine, infatti, è necessario che passi attraverso un ordine, e poi un altro ordine, e un altro ancora. Appare elementare, eppure normalmente di fronte a un ordine prevale in noi il sentimento di coercizione a quello di necessità, tanto che il massimo cui spesso arriviamo è l’indottrinamento reciproco. E dove l’indottrinamento non basti, o non sia assecondato da un servile autoindottrinamento, ecco esplodere la violenza coercitiva del potere che ha perso il suo oggetto: i piccoli dispetti in ufficio o in casa – tra marito e moglie, tra padri e figli – o, in maiore, le deportazioni di massa dei totalitarismi. Ma il desiderio dell’ordine è una convenzione? Come ogni aspirazione intima degli uomini, è da noi deciso o riconosciuto? E se è riconosciuto, non dovrà giocoforza essere dato? Il desiderio di pace, quel desiderio che tante volte contraiamo nello «starmene in pace» o nella richiesta di «lasciarmi in pace», da dove lo traiamo, in che modo ne scopriamo l’esistenza? Scrive Eliot: «Quell’istante di felicità – non il senso di benessere,/ l’appagamento, il culmine, la sicurezza o l’affezione,/ né una cena proprio bella, ma l’illuminazione improvvisa –/ di cui si ha l’esperienza e perso il senso,/ quel senso che accostato rende l’esperienza/ in una nuova forma, al di là di ogni senso/ che potessimo dare alla felicità». Lo scopriamo così: dato e inatteso. È un desiderio cui, come tutti i desideri, non sapremmo dare una forma se non lo avessimo prima incontrato e incipientemente sperimentato. Ed è per questa ragione, per coerenza con l’origine che ce l’ha fatto riconoscere – data, indipendente da noi e da noi riconosciuta e accettata – che non possiamo considerarlo una nostra decisione o un nostro possesso, né distaccare il suo sviluppo da condizioni altrettanto date, indipendenti da noi e che a noi tocca accettare e riconoscere. Ordine e disciplina, fine e strumento. A noi decidere che forma assuma la disciplina: se debba essere una morale convenzionale e a noi ultimamente estranea o la morale impostaci dal nostro stesso desiderio. 70 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 BvS: il ristoro del buon lettore Gita ai Balzi Rossi Le emozioni di una cucina e il tempo che non passa GIANLUCA MONTINARO «E cco, le case scomparirono, ed essi si affacciarono sulla banchina e tutta la baia si aprì davanti a loro, e la signora Ramsay non poté fare a meno di esclamare: “Oh, com’è bello!”». Che emozione vedere la distesa blu e verde del mare. E il faro, laggiù, nella distanza, perso fra le onde. Tanto agognavano i componenti della famiglia Ramsay (i protagonisti del romanzo di Virginia Woolf Al faro, che la Biblioteca di via Senato conserva nella edizione della prestigiosa collana Meridiani Mondadori, datata 1998) a questa gita. Tanta era l’attesa. Soprattutto per il giovane James al quale l’annuncio, la sera prima, della gita dell’indomani, «aveva comunicato una gioia straordinaria». Tanta quanta quella di coloro che si apprestano a godere di uno spettacolo ugualmente incantevole: la vista della baia di Mentone. Tenendo il piede ancora sul patrio suolo, a cento metri dalla vecchia dogana, sorge un ristorante che ha fatto la storia della cucina: Balzi Rossi. Seduti sulla sua terrazza, o dalle ampie vetrate della sala interna, l’occhio indugia sulla splendida baia. Mentre i Ristorante Balzi Rossi Via Balzi Rossi, 2 Frontiera San Ludovico Ventimiglia (Im) Tel. 0184/38132 sensi del gusto e dell’olfatto vengono rapiti dai magistrali piatti di Giuseppina e Rita Beglia. Fremeva James. Ma alla fine il maltempo non consentì alla famiglia Ramsay la traversata della baia e l’attracco al faro. La gita dovette necessariamente essere rimandata. Non così l’attracco ai Balzi Rossi, approdo sempre sicuro per quella «grande categoria di persone che non riescono a tenere le emozioni separate le une dalle altre» e che dalle sfumature traggono i toni del colore, «cristallizzando e trafiggendo i momenti dai quali dipendono la tristezza o la radiosità». La vita scorre per la famiglia Ramsay, nell’attesa di riprogrammare l’andata «al Faro», mentre si intrecciano la vita e la morte. Così come ai Balzi Rossi ove tutto procede con regolarità, da sempre e per sempre, perché la vita «necessita innanzi tutto di coraggio, verità e capacità di sopportazione». Così come la cucina che, attraverso piatti come l’insalata di carciofi e crostacei al vapore, i gamberi di Sanremo crudi al tartufo bianco, la zuppa di pesce e la rana pescatrice cotta nella verza con carciofi e suo brodo, racconta storie di una Liguria di confine. Narra di eleganza e senso della misura. Di ricerca e tradizione. Il viandante, consigliato da Franco, marito di Rita e infaticabile maestro di casa, potrà ordinare, come compagno di gita, uno champagne, magari il Brut Premier di Louis Roederer (in assoluto uno dei migliori sans année in commercio). Suadente negli aromi, centrato in bocca e con una invidiabile scia minerale saprà regalare incomparabili emozioni. E il passato e il presente finalmente si incontreranno, nell’approdo al Faro. MAL DI GOLA? PUOI PROVARE ZERINOL GOLA. IL PRIMO IN PASTIGLIE A FARSI IN DUE. Mal di gola? Eccomi qui. Sono Zerinol, Zerinol Gola. Sono nato per svolgere due azioni contemporaneamente, infatti sono il primo in pastiglie a doppio effetto, anestetico e antinfiammatorio: rapido addormento il dolore e, nello stesso tempo, combatto l’infiammazione. E da oggi puoi trovarmi anche ai nuovi aromi limone e ribes nero. Insomma, quando hai bisogno puoi contare pure su di me. RAPIDO SOLLIEVO DAL MAL DI GOLA. È un medicinale per il mal di gola a base di Ambroxol, leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 18/07/2013 72 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2014 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO LORENZO BRACCESI Lorenzo Braccesi (1941) ha insegnato storia antica nelle Università di Torino, di Venezia e di Padova, dove oggi insegnano suoi allievi. Tre gli interessi di fondo della sua ricerca: colonizzazione greca e sue aree periferiche, ideologia e propaganda nel mondo antico, eredità della cultura classica nelle letterature moderne. Ha pubblicato con i principali editori italiani (Bompiani, Cappelli, Carocci, L’Erma, Giunti, Laterza, Liguori, Marsilio, Mondadori, Monduzzi, Il Mulino). Il suo ultimo libro, edito da Laterza, è Giulia, la fi glia di Augusto (2012). MARIO BERNARDI GUARDI Mario Bernardi Guardi, per trentacinque anni docente di lettere nei licei, è giornalista e scrittore. Si interessa soprattutto al dibattito politico e intellettuale del Novecento. Tra i suoi libri: L’Io plurale. Borges et Borges; Il caos e la stella. Nietzsche e la trasgressione necessaria; Austria Infelix. Itinerari nella coscienza mitteleuropea; Italia loro. Sinistri, sinistresi, sinistrati. Collabora con « Libero» e con «Il Tempo». Ha curato numerose iniziative culturali a carattere nazionale (tra cui “I Percorsi del Novecento” e “Gli Incontri con la Storia” della “Versiliana”). MASSIMO GATTA LUIGI MASCHERONI PIERO MELDINI Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. Luigi Mascheroni ha lavorato per «Il Sole24 Ore», «Il Foglio» e, dal 2001, per «il Giornale». Scrive soprattutto di Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Fra i suoi libri, il pamphlet Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi letterari e giornalistici. È fra i fondatori del blog “Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/. Dal 2011 ha un videoblog, primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni. Piero Meldini è nato e vive a Rimini. Già direttore della biblioteca riminese intitolata ad Alessandro Gambalunga e autore di numerosi saggi di storia contemporanea e storia dell’alimentazione e della cucina, ha scritto cinque romanzi, i primi tre pubblicati da Adelphi e gli altri da Mondadori: L’avvocata delle vertigini (1994), L’antidoto della malinconia (1996), Lune (1999), La falce dell’ultimo quarto (2004) e Italia. Una storia d’amore (2012). I romanzi sono stati tradotti in francese, spagnolo, tedesco, polacco, greco e turco. ERRICO PASSARO GIANCARLO PETRELLA TOMMASO PICCONE DANIELE GIGLI GIANLUCA MONTINARO Errico Passaro (Roma, 1966) ha collaborato con oltre 1700 articoli a pubblicazioni professionali, fra cui «Secolo d’Italia», «Area», «Roma», «L’Eternauta», «Il Borghese». Ha scritto il saggio Paganesimo e cristianesimo in Tolkien (2004). Ha pubblicato i romanzi: Il delirio (1988); Nel solstizio del tempo (1992); Gli anni dell’Aquila (1996); Le maschere del potere (1999); Il Regno Nascosto (2008); Inferni (2010); Zodiac (2010) e La Guerra delle Maschere (2012), nonché oltre 100 racconti su vari periodici. Giancarlo Petrella insegna discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Si occupa di letteratura geografico-antiquaria fra Medioevo e Rinascimento (L’officina del geografo. La Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, 2004) e di storia del libro a stampa fra Quattro e Cinquecento in numerosi articoli e monografie (fra cui l’ultimo L’oro di Dongo ovvero per una storia del patrimonio librario del convento dei Frati Minori di Santa Maria del Fiume, 2012). Collabora con il «Giornale di Brescia» e con la «Domenica del Sole 24 ore». Tommaso Piccone è nato a Milano nel 1974. Dopo aver compiuto studi scientifici, nel 2006 approda all’editoria, affiancando Carlo Milesi nella proprietà di Edizioni Bietti - Società della Critica. Amministratore e direttore editoriale a partire dal 2008, supervisiona con maniacale precisione la produzione dei suoi libri, essendo un amante della carta stampata anzitutto come lettore. Daniele Gigli (Torino, 1978) lavora nella conservazione dei beni culturali. Studioso di T.S. Eliot, ne ha curato alcune traduzioni, tra cui quelle di The Hollow Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita. Ha pubblicato le plaquette Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro Fuoco unanime. Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013). LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013).