Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Il Dio che divide Nigeria: Povertà e petrolio Etica politica economia: Politeismo dei valori e ricerca del fondamento Metafora del nuovo genitore educativo $# ANNO NUMERO 6 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia e 2,00 Che cos’è democrazia Occupazione: Un po’ di conti Pistola facile Violenza sessuale: Una sentenza clamorosa Teologia: Libertà di ricerca e stile di verità la nuova piazza TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE 15 marzo 2006 ISSN 0391 – 108X novità Un nuovo servizio ai lettori. A grande richiesta la raccolta in volume degli articoli più significativi di uno stesso Autore con particolare riferimento alle tematiche più dibattute a livello sociale, etico, politico e religioso Carlo Molari CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pagg. 168 - E 20,00 RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO La speranza nei tempi della disperazione Decadenza della fede, relativismo, religione civile La fede in Dio nella pratica politica Politica e profezia Guai a voi! Secolarizzazione e dialogo interreligioso La nuova Europa: radici e identità Le Chiese in difesa dell’ambiente FEDE E CULTURA Le tracce di Dio nella cultura umana Scienza e trascendenza L’azione di Dio in un contesto evolutivo Creazionisti e neodarwinisti Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male per i lettori di Rocca e 15 anziché e 20 RICHIEDERE A ROCCA c.p. 94-06081 Assisi e-mail: [email protected] conto corrente postale 15157068 NEL VORTICE DELLA STORIA La crisi della Chiesa Come e perché cambiare Le componenti della conversione Transizioni traumatiche Letture divergenti del Concilio La missione della Chiesa nel mondo attuale Ritrovare l’essenziale I laici nella Chiesa I laici nel mondo Il primato della coscienza Funzioni e limiti del Magistero UOMINI NUOVI L’esperienza religiosa Le emozioni nell’esperienza di fede Cammini di libertà Spiritualità del gratuito Leggi umane e fedeltà alla vita Spiritualità della liberazione 4 7 11 sommario Libri Rocca 13 14 17 18 20 22 25 26 29 15 marzo 2006 34 36 38 6 41 42 Ci scrivono i lettori Anna Portoghese Primi Piani Attualità 45 48 Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace Il Dio che divide 50 Maurizio Salvi Nigeria Paese ricco di povertà e di petrolio 52 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Pistola facile 54 Filippo Gentiloni Politica Che cos’è democrazia 56 Aldo Eduardo Carra Occupazione italiana Un po’ di conti 57 Giancarlo Ferrero Violenza sessuale Una sentenza clamorosa 58 Romolo Menighetti Parole chiave Fondamentalismo 58 Fiorella Farinelli Lavoro Tempi difficili per i neolaureati 59 Giannino Piana Etica politica economia Politeismo dei valori e ricerca del fondamento 59 Claudio Cagnazzo Società La Nuova Piazza 60 Manuel Tejera de Meer Io e gli altri Invito a pranzo 60 Rosella De Leonibus Terapie Curare con l’arte Vincenzo Andraous Sbarre e dintorni Ingiustizia dell’indifferenza Daniele Novara Ascolto Metafora del nuovo genitore educativo 61 62 63 Giuliano Della Pergola Simone Weil Santità laica e marginalità sociale Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Hans Blumenberg La costruzione di un mondo comune Maurizio Di Giacomo Verso Sibiu Un momento non facile del dialogo Arturo Paoli Cercate ancora Il Cristo inedito del Regno Carlo Molari Teologia Libertà di ricerca e stile di verità Lidia Maggi Eva e le sue sorelle Il coraggio di Sara Giacomo Gambetti Cinema A qualsiasi prezzo Münich Roberto Carusi Teatro Dialogo nel buio Renzo Salvi RF&TV Damasco Mariano Apa Arte P. Costantino Ruggeri Michele De Luca Fotografia Flavio Faganello Enrico Romani Musica Il futuro del rock Giovanni Ruggeri Siti Internet E-mail mania Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Etiopia Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 6 – 15 marzo 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 15 MARZO 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 28/02/2006 e spedito da Città di Castello il 03/03/2006 4 Città di Dio e città dell’Uomo Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute In una lunga lettera pubblicata sul n. 3 di Rocca il prof. Gianni Savoldi esprime alcune osservazioni sulla linea editoriale della rivista che si conclude con l’appello a favore «di una Chiesa Madre esigente piuttosto che assistente sociale». Le problematiche sollevate dal professore sono complesse. Quella che emerge è tra l’altro l’esigenza di un cristianesimo che sia «annuncio di salvezza da comunicare agli altri, fatica tenace di fronte ai pericoli del mondo e bellezza di segni visibili come la liturgia e la musica sacra». Una sorta di cristianesimo integrale che condivido ed ho auspicato anche in una lettera pubblicata recentemente su questa rivista. Per quanto personalmente mi riguarda, ho sempre cercato di ispirarmi all’insegnamento della Gaudium et Spes la quale ricorda che «i cristiani in cammino verso la città celeste devono ricercare le cose di lassù anche se questo non diminuisce anzi aumenta l’importanza del loro dovere di collaborare con tutti gli uomini per la costruzione di un mondo più umano». Lo stesso Pontefice in più di un’occasione ha messo in guardia contro il rischio di ridurre la fede cristiana a semplice filosofia e invitato ad andare alla riscoperta della essenzialità del messaggio evangelico che è annuncio di salvezza eterna da proclamare alle genti. E tuttavia, specie nella sua prima enciclica, il richiamo del Papa alla dottrina sociale della Chiesa come fulcro della azione del cristiano nel mondo, specie ora che è tramontata la ideologia e direi anche il comodo alibi del marxismo, è un chiaro ammonimento a non chiudersi nella torre di avorio del trascendente, trascurando il dovere fondamentale della carità, che è atto personale e della giusti- zia che è atto sociale. Detto questo, affermare che nella rivista di cui siamo affezionati lettori la auspicata sintesi sia compiutamente realizzata potrebbe sembrare atto di presunzione e tuttavia, se si va a rileggere l’indice degli articoli, si potrà forse scoprire il motivo per il quale Rocca riscuote una diffusa simpatia. Mi chiedo infatti se le denunce contro le ingiustizie del mondo non implichino, come auspicato dal professore, anche «un giudizio su ciò che è bene e ciò che è male» e se le riflessioni teologiche, le meditazioni spirituali e la esegesi biblica non siano esse stesse una «manifestazione di un amore esigente che non indulge a forme di “sentimentalismo zuccheroso”». Io credo che la visione cristiana di Rocca, che condivido e faccio mia, non sia né manifestazione di una anacronistica spiritualità né espressione di una sociologia alla moda. Naturalmente, essendo tutti impegnati in un percorso verso la perfezione, sono sicuro che la redazione non mancherà di fare tesoro di tutte le proposte e le osservazioni che perveranno dai lettori. Aldo Abenavoli Roma Gay: una modalità pesante da vivere Apprezzo molto la vostra rivista, che leggo da una vita, per l’apertura ai problemi più scottanti, sia sul piano personale sia su quello politico. La lettera «Cosa significa essere normali» (sul n. 2) suscita in me alcune riflessioni, essendo madre di un ragazzo gay. Sebbene sia positivo che oggi si parli più di prima di questo problema, tuttavia ci vorrà ancora molto tempo per fare dei progressi sul piano della consapevolezza in questo campo. È senz’altro un obiettivo importante quello individuato dal lettore: il rispet- to di sé e degli altri, come anche è indubitabile che c’è da augurarsi che la ricerca progredisca per arrivare a capire sempre meglio questa condizione. Io mi permetto di sottolineare un aspetto che ho colto leggendo il saggio di P. Rigliano, «Amori senza scandalo», edito da Feltrinelli, e cioè che questa modalità (mi piace usare questo termine) è pesante da vivere anche per chi la riconosce per tempo e abbia la forza di manifestarla senza tabù. È in se stessa problematica, e così è vissuta dallo stesso soggetto, anche se situato nelle migliori condizioni soggettive e sociali. Lo è perché la società la riconosce come condizione «diversa» rispetto alla maggioranza? Cioè è un riflesso della considerazione sociale, presa nella sua medietà, o è in se stessa problematica da vivere, essendo, in fondo, la condizione di una minoranza? Si potrebbe uscire dal problema, affermando che la problematicità del vivere è ugualmente distribuita tra eterosessuali e omosessuali, ma sembra che così non sia, a parere anche degli studiosi che si sono inoltrati nell’analisi di questa modalità di vita. Molto, quindi, resta ancora da fare. Lettera firmata Legittima difesa A proposito della legge sulla legittima difesa e dell’intervento di Enrico Peyretti di Torino, critico verso il cardinale Martino, che ha definito sacrosanto il principio della legittima difesa. Immagino che il signor Peyretti sia un cattolico praticante. Anch’io presumo di esserlo. Ebbene, a titolo personale, di fronte a un ladro invasore della nostra casa e se, in quel momento fossimo soli in casa, potremmo offrire anche l’altra guancia a questo mascalzone che si permette di violare la nostra casa. Ma se con noi ci fos- sero anche altre persone care come la moglie ed eventuali figlie, potremmo ancora farlo, dato il pericolo immediato di un eventuale stupro in attesa che si apra la cassaforte? Non saremmo autorizzati ad usare quanto ci capita a tiro, bottiglie, vasi di fiori, coltelli da cucina, etc., per difendere quanto ci è più caro, come moglie e figlie? Non sto parlando di ipotesi strane, ma di fatti avvenuti. Il principio di proporzionalità mi fa sorridere, dato che si tratta di fatti drammatici ed improvvisi e imprevisti. Se un altro mi attacca, dovrei prima pensare a non fargli troppo male... con il mio atto istintivo di difesa della mia legittima incolumità. Se i ladri e gli altri criminali non vogliono essere ammazzati, che stiano a casa e vadano a lavorare, e smettano di insidiare i beni e la vita altrui. Bruno Dequal Trieste Un insulto alla decenza Durante la campagna elettorale del 2001 Berlusconi, a nome della sua coalizione, promise un milione di lire a tutti i pensionati che percepivano una cifra inferiore. La «solenne promessa» è stata mantenuta solo per il 6% degli invalidi civili, quelli, «fortunati loro», che hanno superato i 60 anni di età. Considerata la precarietà della salute di queste persone – spesso afflitte da patologie gravissime come la distrofia muscolare, la sclerosi laterale amiotrofica, l’amiotrofia spinale e tante altre ancora – solo un esiguo numero (cinicamente calcolato?) riesce a raggiungere l’età fatidica. Oltre un milione di persone sotto i 60 anni devono accontentarsi di 238,07 euro al mese. Nei giorni scorsi Prodi ha presentato il programma dell’Unione. Sulla stampa non abbiamo rilevato alcun cenno di impegno per mi- gliorare le prestazioni economiche relative agli invalidi civili. Temiamo di continuare a non essere rappresentati da nessuno... Saremmo lieti di essere smentiti. Attendiamo risposte. Innocentino Chiandetti Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare sezione di Udine Che pena! La recente sentenza della magistratura ha derubricato il Crocifisso nelle scuole da simbolo religioso a simbolo etico-culturale, come il Codice di Giustiniano o il Davide di Michelangelo. Mi aspettavo la reazione indignata dei cattolici per i quali, fino a prova contraria, il Crocifisso è il Figlio di Dio. La gerarchia tace; i teo-con applaudono. Ho il sospetto che quel simbolo sacro sia messo lì per «marcare il territorio» e proclamare a gran voce: qui comandiamo noi! Che pena! Giuseppina Patti Binasco (Mi) Un brivido ai limiti della follia Cari amici, vorrei comunicarvi la mia angoscia per l’aumento di violenze omicide-suicide in famiglia. Da qualche anno, si sta scatenando qualcosa di grosso e di orribile. Le cause possono essere tante. Ognuno può anche ipotizzare qualche rimedio. Ma non voglio dilungarmi. Per ora, come comunicazione e-mail, sento solo il bisogno di dirvi che sono profondamente sconvolto dalla lunga catena di omicidi-suicidi che a volte distruggono tutto un nucleo familiare. In questa settimana la cronaca ci presenta almeno una strage al giorno (nel veronese, dove vivo, sono assai frequenti). Cosa sta succedendo? Come genitore e insegnante che cer- ROCCA 15 MARZO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI 5 CI SCRIVONO I LETTORI UN CLIC su un titolo ed ecco il testo, stampabile, dell’articolo prescelto UN CLIC su una tematica o una rubrica ed ecco tutti gli articoli che Rocca ha pubblicato nell’anno sull’argomento TUTTA ROCCA nello spazio di 5 millimetri al costo di soli 10 E spese di spedizione comprese ROCCA 15 MARZO 2006 richiedere a [email protected] o a mezzo conto corrente postale 15157068 Sono disponibili anche copie limitate del CD-ROM ROCCA 2004 a E 10 spese comprese 6 Sergio Paronetto Walter Loddi [email protected] [email protected] Azionismo cristiano Sono abbonato alla rivista da anni, condivido lo spirito e la lettera e, soprattutto, gradisco l’atmosfera ideale-mentale che la vostra presenza animativa e lievitante ha garantito negli ultimi vent’anni (nonostante il super-riflusso). Detto questo, aggiungo a beneficio di quanti vorranno eventualmente scatenare il loro elucubrio socio-psicologico circa quanto andrò brevemente dicendo, che ho 38 anni, insegno (Filosofia e Storia) in un Liceo (Classico) e I cistiano sociali sono molti attivi in ambito Ds. Dibattito e confronto sono pienamente in atto e hanno come centro focale proprio i Convegni annuali alla Cittadella di Assisi. L’incontro del settembre scorso ha avuto come tema: «Laicità, etica pubblica, democrazia: la sinistra democratica e le sfide della coscienza». Abbiamo pubblicato su Rocca (n. 23/2005) la relazione di Giannino Piana «Una nuova etica pubblica: libertà, responsabilità, bene comune». Stato/Religioni proteste estranee alle fedi Porto Alegre nona assemblea del Cec «Per favorire la pace e la comprensione tra i popoli e gli uomini – ha detto Benedetto XVI il 20 febbraio ricevendo il nuovo ambasciatore del Marocco Alì Achour – è necessario e urgente che le religioni e i simboli religiosi siano rispettati, e che i credenti non siano oggetto di provocazioni che feriscono il loro atteggiamento e i loro sentimenti religiosi». Ha ripreso così la condanna già espressa nei giorni precedenti dalla Santa Sede alle vignette contro Maometto. «Tuttavia – ha continuato il Papa – l’intolleranza e la violenza non possono mai trovare giustificazione in quanto risposte alle offese, perché non sono risposte compatibili con i principi sacri della religione; non possiamo dunque non deplorare le azioni di quanti approfittano deliberatamente dell’offesa arrecata ai sentimenti religiosi per fomentare azioni violente, tanto più che ciò viene fatto a fini estranei alla religione». Rifiutando la legge del taglione, «per i credenti come per tutti gli uomini di buona volontà, ha ribadito il Papa, la sola via che può condurre alla pace e alla fraternità è quella del rispetto delle convinzioni e delle pratiche religiose altrui, affinché sia realmente garantito a ciascuno – in modo reciproco, in tutte le società – l’esercizio della religione liberamente scelta». Nell’incontro coi musulmani il 20 agosto a Colonia, Benedetto XVI aveva fatto un discorso di notevole portata programmatica e detto tra l’altro: «Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi a una scelta stagionale: esso è una necessità vitale, da cui dipende gran parte del nostro futuro». Aperti a Porto Alegre il 14 febbraio i lavori della IX assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) che ha come tema (e leit motiv) l’invocazione: «Trasforma il mondo, Dio, nella tua grazia». Partendo dal fenomeno della globalizzazione, il Presidente del Comitato centrale, il catholicos Aram 1° della Chiesa armena di Cilicia, ha parlato ai quattromila partecipanti di ogni parte del mondo dei nuovi sistemi di valori e paradigmi in atto come tentativi di trasformare il mondo, e richiamato la necessità di «una riflessione creatrice» da parte delle Chiese. Papa Benedetto XVI, in un messaggio di saluto all’Assemblea, ha riespresso il suo impegno per l’unità cristiana: «Siamo felici, scrive, di continuare questo pellegrinaggio di speranza e di promesse, mentre intensifichiamo i nostri sforzi allo scopo di giungere al giorno in cui i cristiani saranno uniti per proclamare il messaggio di salvezza per tutti contenuto nell’Evangelo». La Chiesa cattolica non è membro del Cec, che da parte sua raduna oltre 340 chiese di 100 paesi con le principali tradizioni protestanti e ortodosse e conta oltre 550 milioni di membri. Tuttavia, essa partecipa ad alcune commissioni di questo organismo. Papa Benedetto – allora professor Ratzinger – è stato dal 1968 al 1975 membro della Commissione «Fede e Costituzione» per il dialogo teologico. Anche il Patriarca ecumenico Bartolomeo, primus inter pares della gerarchia della Chiesa ortodossa, ha confermato all’Assemblea l’impegno del Patriarcato verso il Cec e verso il movimento ecumenico nel suo insieme. Haiti tregua dopo la tensione Sarà René Préval il nuovo presidente di Haiti (nella foto). Il paese sembra aver superato la prova delle urne il 7 febbraio, nonostante la confusione, i ritardi, i tafferugli e i due morti alla periferia di Port-auPrince. Ma non è andato tutto liscio. Pur avendo il candidato René Préval ottenuto la maggioranza dei voti, questi non erano sufficienti per la presidenza. Si sarebbe andati al ballottaggio se la scoperta di una montagna di schede elettorali in una delle discariche che contornano la capitale, a favore dello stesso Préval, non avesse infiammato gli animi e non si fossero affacciati sinistri bagliori di guerra civile. Le schede ritrovate e le pressioni internazionali hanno decretato che il 29 marzo Préval giurerà sulla Costituzione, sapendo di avere una lunga agenda di problemi da risolvere. A lui gli haitiani chiedono quella fine della violenza che nemmeno la presenza di ottomila caschi blu dell’Onu è riuscita a contenere, e la fine della fame perché il 70% degli abitanti vive sotto la soglia della povertà. ROCCA 15 MARZO 2006 UN CLIC sul nome di un Autore ed ecco i titoli di tutti i suoi articoli Anna Portoghese i 23 NUMERI 2005 con relativi INDICI per numero per Autore per tematiche principali per rubriche a cura di in CD-Rom vivo in un piccolo paese di provincia. Le righe sottostanti, dunque, per una domanda e un appello: La domanda: potete dirmi/ dirci voi che fine hanno fatto i «cristiano-sociali»? Sia detto senza punta polemica, ma qualche anno fa sulle colonne di Rocca se ne riceveva cenno – oggi, non più. Fatto salvo una specie di dossier (risalente credo al 2004) intorno ad un convegno assisiate, non riesco a reperire traccia di: dibattito, confronto, resoconto, che abbia come protagonisti gli esponenti di questo allora vivace gruppo pur entro i confusi scenari allestitici dai Democratici di sinistra. L’appello consiste in questo: chiedo a tutti gli elettori cristiani (e cattolici) che non accettano di veder ridotta la loro dignità al rango di consumatori televisivi di plastopolitica (politica di plastica), di adoperarsi per aprire nei loro ambiti d’azione un dibattito sul senso del loro voto ad una o all’altra forza politica, magari recuperando la storia e le matrici culturali di gruppi minoritari (come lo sono i cristiani di sinistra oggi, come lo furono gli azionisti allora) e confrontandole con il panorama della politica e della società italiana odierne. primipiani OCCA ca di essere-fare pace, avverto che gli operatori di pace devono interrogarsi, devono pensare pensieri efficaci e quotidiani di pace, devono fare qualcosa di concreto nel concreto. Anche il poco può essere moltissimo. Non si può annunciare la pace senza mettere a fuoco la violenza quotidiana-interiore-familiare-sociale. Senza introdurre qualche novità visibile in tale contesto. A volte ho proprio l’impressione «un brivido ai limiti della follia». Sento che i gesti più disperati possano maturare in persone e ambienti che riteniamo «normali». Mi viene un gran magone. E sento tanta tanta indifferenza. Molte vite ci sfuggono di mano così al volo, in un attimo, per un secondo, per un centimetro, per un soffio di vento... E poi e poi: chi si prende cura di chi rimane solo, profondamente ferito? Chi accompagna i sopravvissuti? Chi aiuta ad elaborare il lutto? Come proporre il perdono? Ho quasi paura a pronunciare una parola così eversiva; è così grande da sembrare disumana, forse perché troppo umana. Per ora rileggo con sofferta fiducia il brano di Tonino Bello sulla «famiglia come laboratorio trinitario della pace» (che traggo da «Le mie notti insonni», S. Paolo, Milano 1996). Grazie per l’attenzione. Shalom. ATTUALITÀ 7 ATTUALITÀ Hebron una scuola della speranza Vaticano dialogo coi lefebvriani Firenze un amico più di una medicina Inaugurata il 18 febbraio una scuola di ceramica a Hebron, in Palestina, messa in piedi da un gruppo di enti e associazioni dell’Umbria. Una realtà e una metafora la ceramica, di bellezza e anche di fragilità, di festa per i suoi boccali… Ma parliamo di questa nuova scuola in Palestina perché è grazie all’impegno organizzativo e finanziario della provincia di Perugia, del Coordinamento degli Enti locali per la Pace e altri enti della Regione Umbria che questa scuola prende il posto di una piccola struttura di produzione per uso quotidiano e per attività artistiche. Per la prima volta anche le ragazze palestinesi potranno frequentarla. «Non servirà solo a riqualificare e ad estendere l’insegnamento della ceramica, ma anche a ridare la speranza e il futuro a centinaia di ragazze e ragazzi – ha dichiarato Flavio Lotti, direttore del Coordinamento Nazionale per la pace e i diritti. – Non è boicottando i nuovi eletti palestinesi che si potrà ottenere la pace. Oggi più di ieri abbiamo bisogno che l’Italia e l’Europa si rendano protagonisti di un intenso negoziato che porti al riconoscimento dei due popoli e dei loro diritti». Il 13 febbraio per la prima volta Benedetto XVI ha riunito i responsabili del ministeri della Curia romana per discutere il caso dei tradizionalisti eredi del vescovo francese ribelle Marcel Lefebvre (19051991), scomunicato nel 1988 insieme ai quattro vescovi consacrati da lui senza l’accordo col Papa. La cancellazione delle scomuniche sarebbe il primo passo da fare, ma i tradizionalisti non hanno mai riconosciuto di essere scomunicati, oltre a continuare a essere fortemente ostili alle riforme del Concilio Vaticano II. Si sa che all’interno della Curia c’è una linea che porta a una grande «generosità» riguardo all’uso del latino nella liturgia, mentre resta grave il contenzioso sulla libertà religiosa, il dialogo con giudaismo, con l’Islam e la riconciliazione con altre confessioni cristiane e con l’ecumenismo in genere dal cui impegno papa Benedetto non intende recedere e che i tradizionalisti decisamente rifiutano. Dall’incontro romano dei «ministri» non è scaturito alcun comunicato. Sulla rivista di cardiologia «Circulation» è stata pubblicata una ricerca, unica nel suo genere, riguardante l’incidenza delle visite familiari e amicali per i malati di cuore: positiva. Meno ansia, si dimezzano le complicazioni e non crescono le infezioni. Nel corso di due anni i medici dell’unità geriatrica dell’ ospedale Careggi di Firenze hanno alternato sei mesi di rigore (mezz’ora di visita due volte al giorno) a due mesi di libertà con porte aperte senza limiti di tempo. L’osservazione e l’assiduo controllo dei 226 pazienti transitati, hanno portato, sia dal punto di vista vascolare che da quello dello stress, a testare scientificamente i benefici delle visite anche nell’asettica unità di terapia intensiva. «Un’assistenza migliore – dice il professor Nicolò Marchionni dell’Università di Firenze – non vuol dire solo medici più preparati e tecniche avanzate, ma anche serenità di malato e familiari. Penso soprattutto ai pazienti anziani, i più esposti alla solitudine». Groenlandia i ghiacciai fondono rapidamente ROCCA 15 MARZO 2006 Le coste della Groelandia, che furono abitate per qualche secolo dai vichinghi, si stanno scomponendo in una moltitudine di iceberg a motivo della fusione dei ghiacciai. Cambia lo scenario delle acque e se ne studiano le conseguenze per il territorio e per gli umani. Sulla rivista Science del 16 febbraio due scienziati, E. Rignot e P. Kanagaratnam hanno reso noti i risultati delle loro ricerche e delle conseguenze spettacolari che dal 1980 in poi si riscontrano con riscaldamento di 2 o 3 gradi dell’atmosfera. Il ghiacciaio Kangerdlugssuaq Gletscher (est Groelandia) sta sciogliendosi ormai alla velocità di 14 km all’anno, ossia 38 metri al giorno, velocità tre volte superiore a quella di 10 anni fa. Secondo i ricercatori, il fenomeno osservato in Groelandia è riscontrabile anche all’Antartico dove la perdita di masse è quasi equivalente. Inoltre, fondono anche i ghiacciai dell’Himalaya e minacciano lo scioglimento anche quelli delle Ande e della Patagonia. 8 notizie seminari & convegni Firenze. È morto a Settignano il 15 febbraio, all’età di 92 anni, Don Divo Barsotti, teologo, poeta e mistico, autore di oltre 150 opere di spiritualità, fondatore dell’opera dei «Figli di Dio», che comprende diversi stili di vita: monastico, famigliare, laicale. Venezia. A proposito della polemica sul Crocifisso nelle scuole, seguita alla recente sentenza del Consiglio di Stato che ne stabilisce la perma- nenza, il filosofo Massimo Cacciari è dell’avviso che il segno resti, e che invece si cambi il modo di insegnare religione ai ragazzi: «Sono favorevole, dice, a una materia fondamentale, obbligatoria, sulle tradizioni europee giudaico-cristiane. Con insegnanti selezionati con gli stessi metodi con cui si scelgono gli insegnanti di storia e filosofia. Naturalmente non indicati dalla Curia». Torino. I Valdesi hanno ricordato con particolare solennità il 17 febbraio, data in cui Carlo Alberto re di Sardegna riconobbe i pieni diritti civili e politici ai sudditi di fede valdese ed ebraica, allora soggetti a un regime di discriminazione. In occasione della ricorrenza l’Associazione «Più dell’oro» ha rilanciato la proposta di fare del 17 febbraio la giornata della libertà di coscienza e di religione. 19 marzo. Camposampiero (Pd). Incontro di spiritualità coniugale sul tema: «Condizioni per la buona riuscita della vita di coppia» diretto da don Chino Biscontin. Informazioni: Casa spiritualità dei Santuari Antoniani, 35012 Camposampiero tel.049 930 3003. 24 marzo. San Domenico di Fiesole (Fi). Alla sala capitolare di Badia Fiesolana Sergio Moravia parla sul tema «Sensibilità e dolore nel pensiero moderno e contemporaneo» per la serie di incontri a cura della Fondazione Balducci, via dei Roccettini 9, 50016 S. Domenico di Fiesole, tel. 055 599 240. 24-25 marzo. Modica (Rg). Seminario di studio organizzato dalla Scuola di formazione di Noto e dal Cenacolo di studi «Dietrich Bonhoeffer» sul tema: «Da Gesù al Cristo». Relatori i biblisti Giuseppe Barbaglio e Romano Penna. Sede: Modica, Domus Petri, ore 19. 24-26 marzo. Crotone. La cooperativa sociale «Gettini di Villalba», in collaborazione con la Cittadella di Assisi, organizza un seminario di Arte Terapia: «Fare Arte-Arte del fare» (Palazzo Berlingieri, Piazza santa Veneranda,6). Alle relazioni degli esperti seguiranno esperienze laboratoriali di tecnica di incisione, collage, comunicazione non verbale, ciclo e riciclo: diritto e rovescio della persona. Il seminario è rivolto a docenti di ogni ordine di scuola, operatori sociali e sanitari, psicologi, genitori… e a quanti vogliono sperimentare tecniche espressive. Informazioni: 0962 25105 – 333 7432 092 – 3387875188: e-mail: [email protected]. 27 marzo. Vercelli. Per il ciclo «l’esperienza del credere oggi» il teologo Franco Giulio Brambilla parlerà sul tema: «Forza della religiosità, debolezza della fede?». Seminario P.S. Eusebio 10, Vercelli, ore 21. 27 marzo. Macerata. Per il percorso «La scuola di Pace», organizzato da un gruppo di Associazioni in collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione, incontro sul tema: «Educarsi all’interculturalità: L’Islam e la Pace», con Mohamed Nour Dachan e Paola Nicolini (Aula 1° della Facoltà, ore 17,30). 27-30 marzo. Bologna. Nell’ambito della Fiera del libro per ragazzi, Mostra degli illustratori 2006, vetrina delle tendenze, degli artisti e delle novità del mondo dell’illustrazione. Informazioni: [email protected], tel..051 282 111. 30 marzo. Milano. Presso la Cappella san Francesco dell’Università cattolica (Largo Gemelli, 1 – Milano) l’associazione «L’Asina di Balaam» e i gruppi Fuci e Meic in collaborazione con il Centro Pastorale e il Dipartimento di Scienze religiose, organizza una giornata (dalle 9,30 alle 17,30) sul tema: «La salvezza. Un approccio interdisciplinare». Intervengono: G. Borgonovo, D. D’Alessio, E. Mazza, A. Persic, A. Ghisalberti, M. Aletti, V.M. Cerutti, L.Eusebi, A. Grillo, M. Marassi, S. Petrosino. Informazioni: tel. 02 7234 2238, e-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected]. 31 marzo-2 aprile. Seveso (Mi) e Monguzzo (Co). Due brevi corsi di esercizi spirituali per giovani, il primo, diretto da don Fabio Verga al Seminario di San Pietro Martire (tel. 0362 6471), il secondo al Centro studi Fatebenefratelli, diretto da don Federico Papini (tel. 031 650 118). Informazioni: [email protected]. 13 aprile. Venezia. Presentazione del Corso che il Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia) apre a 35 psicologi con esperienza e/o interesse nel campo della formazione. Riguarda gli ausiliari nell’audizione protetta durante il processo penale e nelle deposizioni di fronte alle forze dell’ordine dei minori abusati sessuali o comunque vittime. Il Corso è strutturato in cinque giornate (13 e 28 aprile, 11 e 26 maggio, 9 giugno) e si avvale di un cast di specialisti del settore. Informazioni: Marghera, Fondazione Materdomini, via V: Cafassi 2, fax 055603234; email: [email protected]. 22-25 aprile. Abano Laziale (Rm). Organizzato dai gruppi di credenti omosessuali del Centro sud, incontro sul tema «Il visibile e l’invisibile» Con me, con gli altri, con l’Altro: il processo di consapevolezza di sé in rapporto al «dirsi» al mondo. L’incontro è curato dai gruppi di Nuova Proposta di Roma e Ponti sospesi di Napoli e rivolto a gay e lesbiche, credenti e non credenti. Sede: Casa di accoglienza San Girolamo Emiliani, via Rufelli 14 (Ariccia), 00041 Abano Laziale. Informazioni: cell. 329 139 4621, e-mail: [email protected]; cell. 333 188 9014, e-mail: [email protected]. ROCCA 15 MARZO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 10 È noto che il problema del disarmo nucleare è ritornato con prepotenza sul tavolo degli organismi internazionali. Se ne è parlato anche nel corso della IX assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) a Porto Alegre (v. altra notizia), da parte del pastore Samuel Tobia, segretario generale del Cec. In un rapporto presentato il 15 febbraio, dopo aver qualificato la proliferazione nucleare «oltraggio a tutta l’umanità», egli ha indicato il Sudafrica come Paese che, a suo giudizio, dovrebbe essere a capo di un dispositivo internazionale di lotta contro la proliferazione di tali armi. Perché, «se la leadership che si sforza di impedire a certi paesi di costruire tali armi è formata da paesi che hanno già queste armi, non è una leadership credibile». Tobia si riferiva chiaramente agli sforzi messi in atto da Gran Bretagna, Cina, Francia, da Russia e Stati Uniti, tutti membri permanenti delle Nazioni Unite, ma tutti potenze nucleari dichiarate. Un Paese come il Sudafrica invece sarebbe credibile perché possiede tutta la tecnologia per costruire armi nucleari, ma ha deciso di non farlo. (Si ricorderà che il programma era stato messo in piedi dal regime di apartheid in Sudafrica nel 1980, ma fu smantellato durante la transizione verso la democrazia all’inizio del 1990). Purtroppo, ha concluso Tobia: «I recenti rapporti che riguardano la tecnologia che permettono di realizzare le armi nucleari sono terrificanti. Ma è anche scandaloso che i paesi che dispongono di arsenali nucleari non siano disposti a rinunciare al loro utilizzo». (Eni) Il Consiglio d’Europa ha reso noto il rapporto n.1720 dal titolo «Scuola e Religione» che reca una serie di raccomandazioni sul tema, rivolte alle autorità politiche della scuola e ai governi dei Paesi membri. Mosso dalla pressione attuale degli eventi, il rapporto considera la religione – con la diversità delle esperienze ed espressioni comunitarie – come un complesso di significati di particolare peso e incisività nella stabilizzazione di forme di mentalità collettive. Di qui la ripresa di intenzionalità già accennate nel rapporto n. 1396 del 1999 sul medesimo tema. In 14 punti vengono espressi i legami che dovrebbero intercorrere tra scuola, religione e politica, cominciando col dare importanza agli aspetti cognitivi e comportamentali dell’educazione, perché gli stereotipi e i pregiudizi si vincono con la diffusione di conoscenze chiare e articolate e con la pratica di un pensiero relazionale e dialogico. Sfortunatamente – nota il testo al n.10 – in Europa mancano insegnanti sufficienti ad assicurare lo studio comparato delle religioni, benché vi siano in atto diverse sperimentazioni. Il rapporto auspica (al n.13) la creazione di un Istituto europeo di tali studi e ne esplicita le finalità: «Deve consistere nel far scoprire agli alunni le religioni che si praticano nel loro paese e quelle dei loro vicini, nel mostrare loro che ciascuno ha il diritto di credere che la sua religione ‘è la vera’ e che il fatto che gli altri abbiano una differente religione, o non abbiano religione, non li rende per questo differenti in quanto umani». L’ipotesi è che tale educazione possa aver ragione dei fondamentalismi. OCCA 2005 Colombia la pacificazione nazionale non procede In Colombia non va avanti la «politica di pacificazione con ogni mezzo» posta in atto dal presidente Alvaro Uribe: continuano attentati, imboscate, azioni militari, nonostante le diverse strategie messe in atto dallo stesso Uribe che si candida alle presidenziali del 28 maggio. Il 13 febbraio il Rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani constata che il processo di scioglimento delle milizie paramilitari (Auc, estrema destra) non ha posto termine alle loro estorsioni. È vero che oltre 22.000 ex-combattenti hanno deposto le armi, ma l’Onu denuncia «i legami tra alcuni membri della funzione pubblica, specialmente delle forze armate, e i gruppi paramilitari». Rileva pure le pressioni esercitate dalle Auc sulla pubblica amministrazione e la politica. Secondo tale rapporto, la legge del luglio 2005, cosiddetta di «giustizia e pace», fissa un massimo di pena di otto anni per i paramilitari che smobilitano. Alcuni di loro, però, sono colpevoli di crimini atroci . Problematico tendere loro la mano? della quindicina Strasburgo estremismi scuola e religioni il meglio Nucleare Sudafrica leader contro le armi? vignette ATTUALITÀ da IL CORRIERE DELLA SERA, 12 febbraio da IL CORRIERE DELLA SERA, 17 febbraio da L’UNITÀ, 20 febbraio da LA REPUBBLICA, 14 febbraio da IL CORRIERE DELLA SERA, 19 febbraio da LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, 23 febbraio da IL CORRIERE DELLA SERA, 20 febbraio ROCCA 15 MARZO 2006 ROCCA 15 MARZO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ da L’UNITÀ, 24 febbraio 11 Cittadella Ospitalità PASQUA IN CITTADELLA Raniero La Valle conversazioni sul Mistero pasquale, fondamento della fede cristiana, di mons. Luigi BETTAZZI; liturgie del Triduo; tradizionale processione cittadina del Cristo morto 28° seminario LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA 28 aprile - 1° maggio DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA il maschile e il femminile alla prova, oggi per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali i relatori: Luigi BOVO, psicoanalista; Giancarlo BRUNI, biblista, di Bose; Francesco COMINA, editorialista de ‘L’Adige’; Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Cornelia DELL’EVA, giornalista; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra 4° Convegno Terza Età 14-17 maggio PADRI E FIGLI... NEL FLUIRE DELLE GENERAZIONI 'proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che ti sei coltivato' (Salmo 80, 16) per adulti/anziani, docenti e allievi università terza età, operatori socio-sanitari, assistenti sociali, psicologi, volontari di cooperative, giovani studenti domenica 14 ore 17.30 lunedì 15 9.15 15.30 martedì 16 9.00 mercoledì 17 9.00 11.00 14,30 visita alla Galleria d’Arte della Cittadella isolamento-silenzio-conflittualità-violenza: effetti di una società mutata? Roberto SEGATORI – sociologo presentazione indagine “Dizionario di vita”: parole/chiave ai giovani il succedersi delle generazioni nelle civiltà umane: un confronto antropologico Tullio SEPPILLI – antropologo laboratori Armonizzazione corporea (Forghieri – Paliani) Artigianato in cammino (Ferrovecchio); Musica e danza (Seppoloni) Prosa e poesia (De Leonibus); Comunicare con i sentimenti (Galli) in-tendersi: le connotazioni del comunicare Rosella DE LEONIBUS – psicologa e psicoterapeuta microfono aperto: “le politiche di integrazione giovani/anziani” realtà istituzionali a confronto. Conduce Tonio Dell’Olio laboratori (come giorno precedente) presentazione risultati dei laboratori 15.30 il Dio che divide 13-17 aprile quando il dialogo si fa preghiera Tonio DELL’OLIO - teologo pregando…danzando: interpretazione dell’artista indiana Juliet CHRISTOPHER celebrazione eucaristica visita facoltativa alla Galleria “A. Burri”, a Città di Castello/PG il 15 e il 16 mattina, alle ore 8.30, spazio di preghiera animato dai convegnisti con il Patrocinio dell’Associazione Nazionale delle Università Terza Età UNITRE 64° Corso internazionale di Studi cristiani 20-25 agosto SENZA I SANDALI DELL’IDENTITÀ? informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] l di là del giudizio politico, che bisogna pur dare, sul conflitto triangolare che coinvolge Occidente, Israele e mondo arabo, il dato che più di tutti sconcerta è il ruolo crescente che la religione assume in tale conflitto. Come mai le religioni, che solo qualche lustro fa apparivano chiamate a un grande dialogo, e addirittura candidate a fornire un’etica mondiale che finalmente fosse al pari del balzo in avanti compiuto dalla tecnologia e dalla comunicazione globale, sono diventate il segno e il linguaggio della contraddizione, e la materia stessa dell’incendio che divampa? Il giudizio politico non si può pretermettere nell’analisi delle cause, quando ad esempio si vede che l’attuale irrompere del cosiddetto fondamentalismo islamico è il figlio diretto del fallimento delle politiche laiche. In Iran la politica dell’Occidente sconfisse il riformismo laico di Mossadeq, e ci volle Komeini per aver ragione della dittatura modernizzante e filooccidentale dello Scià. Egualmente sconfitto fu il socialismo panarabo di Nasser, che aveva tentato di fondare la rinascita araba non sulla religione ma su motivi nazionalistici e culturali. In Palestina un movimento laico e religiosamente pluralistico come quello palestinese, è stato sconfitto dall’alleanza tra un movimento religioso ebraico, fattosi Stato con Israele, e gli Stati laici dell’Occidente; e se Hamas ha vinto le elezioni in Palestina, è solo dopo che la leadership laica di Arafat è stata delegittimata di fronte al mondo e bruciata agli occhi del suo popolo dal diniego assoluto opposto anche alle sue più moderate istanze politiche. Per non parlare dell’estremismo islamico in Afghanistan, eccitato dall’invasione russa e fomentato dall’esterno in funzione antisovietica, nonché della sconfitta del regime autocratico ma laico di Saddam in Iraq, nelle circostanze che sappiamo, finite ora nella guerra delle moschee. Ciò non basta tuttavia a rendere ragione del fatto che religioni di salvezza stiano diventando potenti fattori di divisione, di conflitto e di perdizione. E sul fronte che si è aperto con l’Islam c’è ora in atto una spinta a far scendere in campo l’Occidente non come soggetto politico o come civiltà, ciò che sarebbe già grave, ma proprio come religione, attraverso l’appello alle radici giudeo-cristiane, e in sostanza alla rivendicazione identitaria dell’Occidente come nuova cristianità. Il Papa per fortuna non ci sta; ma una cro- A ciata si può predicare anche senza il Papa e contro il Papa. Ora qui ci sono da dire due cose. La prima è che se il Dio degli eserciti è uno, ma questi eserciti si combattono tra loro, vuol dire che o quegli eserciti in realtà sono atei, oppure che il loro Dio non è lo stesso Dio. Questo pone un problema alle religioni: qual è il Dio che è male rappresentato, qual è il Dio che si deve convertire? L’uno, l’altro o tutti e tre? Questa domanda vale anche nel nostro piccolo. Il giudice Scarpinato di Palermo ha detto in una conferenza a Roma che ci sono mafiosi assai devoti di Dio, anche e ancora di più quando uccidono. Questo porta a chiedersi che Dio è quel Dio. E poiché non si tratta di un Dio privato, la questione è come mai la Chiesa siciliana abbia mediato e rappresentato un Dio che va bene anche per i mafiosi. Più in generale, come mai dopo millenni di ebraismo, e poi di cristianesimo e di Islam, sia ancora mediato dalle grandi rappresentazioni religiose un Dio nemico, dal quale voltare la faccia. Oserei dire che è venuto il tempo di una nuova conoscenza di Dio; ogni grande tradizione ne dovrebbe riaprire le sorgenti che porta dentro di sé. La seconda cosa è che se l’Occidente va come tale alla guerra di religioni, è destinato alla sconfitta. Perché l’Occidente ha fallito sia nella pretesa di mettere Dio tra parentesi, e con un Dio tra parentesi non ha nulla da dire a un mondo che ancora crede in un Dio che sia al centro di tutto, sia nella pretesa di definire un Dio «entro i limiti della sola ragione», nel che sta il culmine dell’illuminismo. In realtà in tutto il mondo, compreso il nostro, erompe un Dio che attraversa tutto l’umano, ben oltre la ragione; e intanto i pallidi epigoni degli illuministi ripudiano la ragione violandone il cruciale principio di non contraddizione. Essi infatti (e già c’è il proclama di Pera, ispirato alla Fallaci, firmato da Berlusconi e interpretato da Calderoli) cadono nella più grande delle contraddizioni: come atei suonano la squilla per il partito di Dio, e nel nome del Dio cristiano in cui non credono affatto bandiscono la crociata contro il Dio in cui i musulmani credono troppo. E senza apparente imbarazzo fanno appello ai lumi che l’Occidente stesso sta spegnendo uno ad uno, dall’universalità del diritto al culto della dignità umana, al ripudio della guerra, mentre con i fumi dei campi di battaglia vorrebbero squarciare le tenebre dell’oscurantismo che denunciano negli altri. ❑ 13 ROCCA 15 MARZO 2006 giornate di spiritualità RESISTENZA E PACE NIGERIA ROCCA 15 MARZO 2006 Maurizio Salvi 14 M ilioni di persone se ne sono state simbolicamente con il naso all’insù il 27 settembre 2003 quando un razzo vettore partito dal cosmodromo russo di Plesetsk ha portato nello spazio il primo satellite della Nigeria, costato 13 milioni di dollari, a cui è stato assegnato il compito di vigilare con accuratezza le risorse petrolifere e idriche di uno dei paesi più poveri del mondo. «È stata una impresa eccezionale – ha detto per l’occasione Joseph Akinyede, responsabile dell’Agenzia nazionale per la ricerca e lo sviluppo spaziali – perché abbiamo marcato una nostra presenza nello spazio». Una presenza nello spazio della Nigeria. Sì di quella nazione che secondo la Banca Mondiale ha il 66% della popolazione estremamente povera che vive con meno di un euro al giorno, con un reddito medio annuo procapite di circa 300 euro e con il 30% di analfabeti. E, per venire ad episodi più vicini a noi nella storia, del paese preso di petto dall’influenza aviaria che ha investito a partire dall’8 febbraio 2006 otto dei 36 Stati nigeriani, e di quello che è stato teatro, come già avvenuto in passato, di violenti scontri che spes- so troppo frettolosamente sono stati attribuiti a dissidi religiosi musulmani-cristiani legati alla triste vicenda delle vignette satiriche su Maometto e che in ogni caso hanno causato solo nella settimana fra il 17 e il 24 febbraio 150 morti, 1.000 feriti e 16.000 profughi interni, oltre a decine di luoghi di culto devastati. rivalità religiose ma non solo Non vi è dubbio che come in Libia o in Egitto, le violenze avvenute in Nigeria possono essere spiegate con la forte rivalità fra musulmani (nel nord) e cristiani (nel sud), ma monsignor Matthew Man-Oso Ndagoso, vescovo di Maiduguri (città dove è morta la maggior parte di nigeriani cristiani) si è premurato di dichiarare all’agenzia Misna che «non è corretto ed utile parlare di caccia al cristiano», perché quello che ha portato alle violenze di febbraio è una mescolanza di differenze etniche e politiche, di povertà e, certamente anche di diversità di credi religiosi. Anche per Emeka Umeh, responsabile dell’Organizzazione per le libertà civili di Onitsha (Nigeria meridionale), «questo tipo di proteste hanno una spinta implicita di ca- rattere politico». Questo non ci impedisce di ossevare che comunque in 12 Stati del Nord nigeriano è stata introdotta la Sharia islamica, ossia il rispetto della legge coranica, che certamente non ha ridotto il fossato fra le due metà del paese. Retta da regimi militari golpisti fino al 1999 la Nigeria è entrata in una stagione democratica con il presidente Olusegun Obasanjo, che nel 2007 concluderà il suo secondo mandato. L’interessato ha assicurato di voler togliere il disturbo alla scadenza del termine previsto, ma quasi nessuno gli crede, perchè forze governative del Parlamento stanno operando da tempo per sondare gli umori delle varie formazioni politiche sull’ipotesi di una modifica della Costituzione che permetta ad un capo dello Stato di concorrere per un terzo, inedito, mandato. Per molti analisti, le tensioni generate da questo progetto non tanto segreto, si sono mescolate con le frizioni religiose generando la miscela esplosiva che ha causato i disordini e l’alto numero di vittime. Al riguardo ha detto la sua anche il capo della Cia statunitense, John Negroponte, secondo cui «le speculazioni secondo cui il presidente Obasanjo cercherà di cambiare la Costituzione per candidarsi 15 ROCCA 15 MARZO 2006 un paese ricco di povertà e di petrolio il paese più corrotto del mondo ROCCA 15 MARZO 2006 Oltre ad avere il primato di nazione più popolosa d’Africa, la Nigeria ne ha altri meno invidiabili: ha l’incredibile cifra di 3,5 milioni di malati di Aids ed è, dopo Bangladesh e Haiti, il paese più corrotto del mondo, con una impressionante attività di funzionari statali e privati che cercano, e per lo più vi riescono, di riempirsi le tasche di denaro pubblico. La classifica di Transparency International sulla corruzione è stata criticata dal Ministro delle Finanze nigeriano, signora Ngozi Okonjo-Iweala. «Non ci sembra – ha detto alla Bbc – che l’organizzazione basata a Berlino abbia sufficientemente preso in considerazione i nostri sforzi per invertire la tendenza. Ci sono voluti 20 anni a successivi governi militari per diventare corrotti a livelli mai visti, e quindi ci vorrà molto tempo per riportare il fenomeno sotto controllo». Per cercare di arginare in qualche modo la situazione, il presidente Obasanjo ha creato numerosi organismi finanziari e giudiziari che però per il momento hanno potuto solo graffiare il fenomeno. Per il Forum del Segretariato cattolico, che pubblica periodicamente sulla stampa nigeriana analisi sul delicato tema, «la corruzione è in larga misura responsabile delle promesse andate in frantumi, delle speranze vanificate e dei sogni strampalati che hanno caratterizzato l’esistenza di una moltitudine di nigeriani negli ultimi decenni. La scelta davanti a noi è chiara: o partiamo in guerra contro la corruzione in tutte le sue ramificazioni o noi tutti saremo presto consumati da questa sorta di drago dalle molte teste come una Idra». Comunque, resta il fatto che la Nigeria è il 16 principale produttore di petrolio del Continente nero, con 2,8 milioni di barili al giorno. Inutile dire che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, questa potenzialità energetica è passata al centro dell’attenzione delle Grandi potenze ed in particolare degli Stati Uniti, che ha varato un denso programma di formazione militare che coinvolge molti paesi dell’Africa maghrebina e nera. È in questo ambito che ha messo a punto un programma denominato Assistenza all’addestramento in operazioni di contingenza in Africa (Acota), da cui è nato il Sistema di addestramento congiunto di armi combinate (Jcats) che è stato aperto il 25 novembre 2003 ad Abuja, capitale della Nigeria. Tutto questo per accompagnare la strategia della Casa Bianca di curare i paesi produttori di energia, nella prospettiva che, come sostengono molti analisti, nel prossimo decennio il continente africano diventerà, dopo il Medio Oriente, la seconda zona fornitrice di greggio, ed eventualmente di gas naturale, degli Stati Uniti. assalto al petrolio Attraverso numerose compagnie multinazionali petrolifere, gli Usa hanno aumentato la loro influenza non solo in Nigeria, ma anche in altri paesi che posseggono importanti riserve di ‘oro nero’, come Angola, Ghana, Camerun ed il minuscolo Sao Tomé e Principe. Tutto sembrava funzionare per il meglio per Washington, ma da qualche mese i piani statunitensi sono stati rimessi in discussione non solo dai disordini etnico-religioso-politici, ma anche dall’azione del Mend, un movimento guerrigliero separatista della regione del delta del Niger, dove si estrae praticamente tutto il petrolio nigeriano. Questa regione è stata teatro negli anni ’70 di un boom energetico-finanziario che però non ha portato alcun beneficio ai 20 milioni di abitanti che la popolano. Dopo aver attaccato in particolare la compagnia Shell (anglo-olandese), ma anche l’italiana Agip, il Mend ha preso in ostaggio numerosi cittadini stranieri, fra cui alcuni cittadini americani, ponendo come condizione per il loro rilascio il ritiro delle forze militari federali dalla zona e la trasmissione del controllo sui pozzi del delta alle forze di liberazione. Il governo nigeriano si mostra ottimista e invita a non drammatizzare, ma molti pensano che non sarà facile venire a capo della crisi, vista l’instabilità che ha ormai conquistato numerose zone strategiche del mondo. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA pistola facile Romolo Menighetti C osa cambia, a proposito di legittima difesa, a causa della modifica all’articolo 52 del Codice Penale, approvata in modo definitivo dalla Camera il 24 gennaio scorso? Tale modifica non amplia i limiti di principio della legittima difesa. Infatti, la precedente normativa già consentiva la difesa, non solo dell’incolumità personale, ma anche dei beni patrimoniali propri e altrui, nonché il diritto all’inviolabilità del domicilio. Il tutto «sempreché la difesa sia proporzionale all’offesa». Si tenga conto poi che l’articolo 59 del vigente Codice Penale estende la non punibilità anche ai casi in cui chi agisce crede per errore di essere aggredito, e che l’articolo 55 ridimensiona la responsabilità nel caso di eccesso colposo di legittima difesa. La novità introdotta dalla modifica all’articolo 52 sta nella presunzione che la reazione dell’aggredito, quando il fatto avvenga nel suo domicilio o nel suo luogo di lavoro, sia sempre e comunque proporzionata all’offesa minacciata. Ciò nell’intento di sottrarre al giudice la valutazione della proporzione tra offesa e difesa, e al fine di ridurre, conseguentemente, tempi e modalità di accertamento dei fatti, onde attenuare le sofferenze che causa all’aggredito il normale iter processuale innescato dall’atto di legittima difesa. Ora, la modifica recentemente approvata lascia perplessi per diversi motivi. Innanzitutto è illogico equiparare comportamenti diversi tra loro, solo perché avvenuti in un determinato luogo. Non si può trattare allo stesso modo chi neutralizza un rapinatore armato e chi spara freddamente a un ladruncolo sorpreso a rubare qualche pianta nel giardino di casa. È poi illusorio pensare che l’aggredito, nel caso ci siano morti o feriti, possa sottrarsi alla penosa teoria di deposizioni, accertamenti e quant’altro, che necessariamente fanno seguito a un atto di legittima difesa. La nuova norma poi, essendo di tipo casistico, è più simile a una «grida» di manzoniana memoria piuttosto che a una legge propria del diritto moderno, essendo priva di respiro generale ed astratto. Inoltre, da un lato, con il ricorso alla presunzione, si mortifica in via di principio il ruolo del giudice, mentre dall’altro si apre la strada a molte controversie. Ad esempio, in caso di lite violenta tra vicini di casa, trovandosi i protagonisti nell’ambito del proprio domicilio, come si stabilirà chi è l’aggressore e chi l’aggredito? Senza contare che potrebbero instaurarsi prassi malavitose, consistenti in agguati predisposti attirando il proprio nemico in casa propria. Dal punto di vista ideologico, inoltre, la nuova norma afferma implicitamente il diritto che in casa propria e sulla soglia della propria bottega, tutto sia lecito. Si torna così ai tempi in cui erano le pistole a dettar legge, e il grilletto facile e veloce prevaleva sulle regole dello stato di diritto. Questa modifica della legge sulla legittima difesa costituisce anche una implicita ammissione, da parte governativa, del fallimento delle sue politiche in materia di sicurezza. Essa, infatti, scarica sbrigativamente il problema sui cittadini, mettendogli in mano un’arma. Tale situazione però finirà col produrre le conseguenze più gravi su questi, in quanto – si sa – i criminali hanno maggiore dimestichezza con le armi da fuoco rispetto ai cittadini onesti. Ma perché allora, ci si può chiedere, il Governo ha varato questa norma che, secondo Massimo Brutti, responsabile della Giustizia per i Ds, fa «scempio del diritto, e in particolare dell’istituto della legittima difesa»? Perché la Lega, che ha fortemente voluto il provvedimento, aveva bisogno di sbandierare, agli occhi dei suoi elettori a qualche settimana dalle elezioni, qualcosa che la consacrasse come forza politica totalmente schierata dalla parte dei cittadini. Da qui l’ennesimo scambio di favori tra i partiti della Casa della Libertà. E pazienza per chi morirà a causa di questa trovata elettorale. Giustamente perciò più di cinquanta docenti di Diritto e Procedura penale hanno sottoscritto, fin dall’ottobre dello scorso anno, a discussione ancora in corso, un documento (www.magistraturademocratica.it) nel quale, a fronte della ventilata modifica dell’articolo 52, affermano non sapersi «dove finisca l’analfabetismo giuridico e dove inizi la malafede». ❑ 17 ROCCA 15 MARZO 2006 NIGERIA ad un terzo mandato stanno facendo crescere la tensione politica e, se provate, possono generare disordini e conflitti di grandezza imprevedibile». Soltanto negli ultimi sei anni di democrazia, le vittime della violenza sono state più di 14.000. La questione divide lo stesso Partito democratico del popolo nigeriano che per metà è favorevole ad una permanenza del capo dello Stato al potere e per metà spinge le ambizioni del vicepresidente Atiku Abubakar, che appartiene ad una etnìa del nord del paese. Oltre ad una richiesta di Washington affinché la Costituzione non sia cambiata, vi è stata anche la presa di posizione del generale Yakubu Gowon, che guidò la Nigeria per undici anni fra il 1966 ed il 1975. «Dobbiamo evitare – ha detto – la tendenza della leadership a perpetuarsi o a prolungare la propria accettabilità». POLITICA che cos’è democrazia S non basta votare ROCCA 15 MARZO 2006 Limiti, distinzioni che i secoli hanno ripetuto e spesso esasperato, nonostante i momenti di maggiore spinta democratica, come quelli delle rivoluzioni borghesi dei secoli XVII e XVIII. Basti pensare al momento più noto, ma anche più limitato, quello della rivoluzione francese. Libertà, eguaglianza, fraternità: ma 18 per chi e fino a che punto? Tornando a noi e alle nostre scadenze, se parliamo di democrazia vengono subito in mente le elezioni. Necessarie, ma insufficienti. Necessarie: rappresentano un primo passo, insostituibile. Senza elezioni, niente democrazia. Ma è chiaro che non bastano, e per molti motivi che ci possono introdurre ad una democrazia più vera. Senza dimenticare che di elezioni esistono molti tipi, più o meno democratici. Ce lo ha confermato anche il recente dibattito parlamentare che ha modificato il sistema elettorale del nostro paese. In un senso, ci dicono i competenti, che non esclude certamente e radicalmente la democrazia, ma che la rende meno limpida, meno efficace. Forse meno democratica. Il voto finisce per sfuggire, anche se non del tutto, dalle mani e dalla penna del singolo elettore per essere afferrato sempre più dalla direzione di qualche gruppo o partito. Un voto che, a scapito della «vera» democrazia, diviene espressione di qualche potente o potentato. È il grande limite, il grande ostacolo che ogni democrazia dovrebbe cercare di superare se vuole essere «vera». Ma è difficile, come il mondo moderno sta dimostrando. Sempre più forti i mass media e sempre più dipendenti dal denaro. È una realtà che non può non limitare la «verità» della espressione democratica e con la quale è sempre più difficile fare i conti. Lo confermano i dibattiti di questi giorni, con l’importanza che, da una parte e dall’altra, viene attribuita addirittura a un giorno di voce nei media, a qualche ora di radio o Tv. Gli stessi «comizi» democratici di appena qualche decennio fa appaiono ormai inutili o quasi. potere del denaro Sempre più stretto, quindi, il rapporto fra la democrazia e il denaro. Vince, come sempre, chi ha più voti ma il numero dei voti dipende in maniera sempre più diretta da chi ha più denaro. Un limite, questo, che si evidenzia ancora di più quando la democrazia dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – addirittura essere esportata. Il caso Irak è tristemente esemplare. Qui, come altrove, al problema economico si aggiungono i problemi politici che la democrazia, per lo meno a breve, non riesce a risolvere. Come rimediare? Come procedere verso una democrazia vera o più vera? È facile dare risposte generiche, ma è molto difficile metterle in pratica. cultura eguaglianza impegno Più cultura: in gioco, in primo piano, le scuole e anche le chiese. Più eguaglianza economica, senza la quale i risultati elettorali sono sempre falsi: ma è anche vero che la eguaglianza economica è un cammino che produce democrazia ma che anche la richiede. Una specie di circolo vizioso. Un cammino, dunque, che esige un impegno forte e continuo. Senza scoraggiarsi ma anche senza l’illusione di avere raggiunto la democrazia vera, quella autentica che permetterebbe di mettersi a sedere in una stazione di arrivo. La democrazia ce la dobbiamo conquistare giorno per giorno e non soltanto nella grandi e solenni scadenze elettorali. A partire dalla vita quotidiana: il lavoro, il sindacato, addirittura il condominio. ROCCA 15 MARZO 2006 Filippo Gentiloni iamo tutti democratici: almeno nel nostro occidente, almeno a parole. Ma è proprio vero? E quali sono le caratteristiche della vera democrazia? Sono sufficienti le elezioni? Interrogativi ai quali è importante cercare di rispondere, e non soltanto in vista delle prossime scadenze elettorali. Di democrazia si parla da sempre, per lo meno dal tempo della antica Grecia. Che ci dice, prima di tutto, di non demitizzare e di evitare le esaltazioni troppo facili. La democrazia di Atene esaltata da Tucidide era molto relativa, a dir poco. Relativa e limitata: uomini e donne, ateniesi e immigrati, soprattutto ricchi e poveri. Filippo Gentiloni 19 OCCUPAZIONE ITALIANA un po’ di conti 20 N regole del lavoro avesse creato occupazione, ma gli stranieri che analizzano la nostra economia avranno pensato si trattasse di un altro dei «miracoli italiani» di un governo che di miracoli agli italiani ne aveva promessi tanti. vero non vero Pochi, però si sono posti un’altra domanda: ma sarà poi vero che l’occupazione è cresciuta e cresce? Qualche dubbio doveva pure nascere se l’Istat, nel pubblicare i dati, da qualche tempo avvertiva sempre che essi risentivano della regolarizzazione dei lavoratori stranieri. È vero che l’Istat non ha mai quantificato gli effetti di questo fenomeno, ma il messaggio era chiaro. A coglierlo era stato l’Ires a giugno e poi l’Ufficio Studi della Banca d’Italia che a novembre aveva avvertito che in realtà l’aumento dell’occupazione allora stimato in 437mila unità era dovuto per 337mila al fenomeno stranieri e che quindi l’aumento vero era solo di 100.000 occupati. Adesso, dopo i dati Istat del terzo trimestre del 2005 ci ha pensato un recente studio dell’Ires a provare che l’occupazione, negli ultimi tre anni, non solo non era aumentata, ma è addirittura diminuita. Per fare luce su questo mistero italiano sono sufficienti quattro dati: gli occupati rilevati dall’indagine sulle forze di lavoro sono stati 21.381mila ad inizio 2001, 22.077mila nel terzo trimestre 2002, 22.542mila nel terzo trimestre 2005; gli stranieri che si sono regolarizzati sono stati 642mila. Vediamo di leggerli correttamente. Nel primo biennio c’è una crescita di 696mila occupati. Essa è credibile e spiegabile perché il Pil cresceva ancora e si dispiegavano ancora gli effetti della legge Treu. record negativo La crescita registrata negli ultimi tre anni è, invece, meno credibile e spiegabile anche perché proprio dalla fine del 2002 è cominciata la regolarizzazione dei lavoratori stranieri. Che cosa è accaduto allora? È accaduto che questi lavoratori prima non venivano rilevati dall’indagine sulle forze di lavoro perché essa è basata sull’anagrafe della popolazione residente. Poi, con la regolarizzazione, gradualmente, essi sono entrati nella rilevazione ed hanno fatto crescere l’occupazione. È evidente, però, che non si tratta di occupazione nuova, ma di occupazione prima sommersa ed adesso emersa e che se non ci fosse stata nessuna variazione negli occupati, per il solo fatto di questa emersione, avremmo dovuto registrare 642mila occupati in più. Invece confrontando gli occupati della fine del 2002, cioè prima che cominciasse la regolarizzazione, con quelli della fine del 2005, quando tutti i regolarizzati sono entrati nella rilevazione, si scopre che l’occupazione rilevata è aumentata solo di 465mila unità. Ciò significa che, tolti i regolarizzati, prima sommersi e poi emersi, ma sempre occupati, non c’è stato nell’ultimo triennio un aumento, ma una diminuzione dell’occupazione di 177mila unità. miracolo-disastro Questo dato rappresenta la realtà meglio di quanto non sia stato fatto finora, ci fornisce un quadro più negativo di quello che ci è stato mostrato, ci aiuta a capire alcuni fenomeni interni alla realtà dell’occupazione nel nostro paese. Il primo riguarda l’evoluzione del tasso di attività, cioè la percentuale di popolazione in età lavorativa che lavora o cerca lavoro rispetto alla popolazione in età lavorativa totale: alla fine del 2005 il tasso di attività ha toccato il record negativo del periodo. Il secondo riguarda la flessione dell’occupazione femminile nel Sud: 138mila occupati in meno in tre anni. Così quel leggero incremento di occupazione femminile al Sud che si era registrato negli anni passati è stato vanificato e si è verificato un vero e proprio ritorno indietro. Insomma più che un miracolo italiano c’è stato un disastro italiano. ROCCA 15 MARZO 2006 ROCCA 15 MARZO 2006 Aldo Eduardo Carra on pochi si sono chiesti in questi ultimi anni: come mai in Italia l’occupazione aumenta mentre l’economia ristagna? Fino ad un anno fa la domanda se la ponevano in pochi perché il governo era riuscito a far passare il messaggio che la crisi non c’era e, quindi, l’aumento dell’occupazione appariva naturale. Ad un certo punto, però, anche i più ostinati negazionisti hanno dovuto ammettere che la crisi c’era. È vero che hanno cercato fino all’ultimo di dire che essa non era italiana, ma europea, ma poi di fronte alla Spagna che corre, alla Francia ed alla Germania che hanno ripreso a crescere, con una Italia indiscutibilmente ferma, hanno dovuto ammettere che la crisi c’era, magari provando a dire un giorno sì ed un giorno no che, però, abbiamo già imboccato la strada della ripresa. Una volta ammessa da tutti l’esistenza della crisi, la domanda si è riproposta: come mai l’occupazione cresce? La risposta del governo era pronta: l’aumento dell’occupazione in una fase di crisi dimostra la bontà della legge Biagi che ha creato tante nuove forme di lavoro (siamo arrivati fino a 48) e che ha stimolato le imprese ad assumere. In realtà non era mai successo in nessuna economia che in presenza di una crisi ed in assenza di una politica di intervento per lo sviluppo, una semplice modifica delle Aldo Eduardo Carra 21 svende e disprezza il proprio corpo e la propria intimità va considerata una vittima delle condizioni ambientali create dagli adulti, quindi ancora più fragile e meritevole di tutela di una sua coetanea cresciuta in un contesto familiare sano. Attribuirle maturità e coscienza sessuale maggiore, con una più o meno implicita connotazione negativa (la ragazzina era so- VIOLENZA SESSUALE vviamente diritto e giudici non possono ignorare il triste fenomeno della violenza sessuale, ma entrambi debbono accostarsi al delicatissimo problema con grande sensibilità, molta prudenza, umano rispetto e piena coscienza dei propri limiti. Qualsiasi espressione o semplice parola non assolutamente necessaria per individuare i fatti ed eventualmente punirne l’azione deve essere accantonata e fermata sulla soglia della sua esternazione. Nella motivazione delle sentenze il rigore argomentativo legato alla più obiettiva o provata ricostruzione dei fatti non tollera cedimenti e reazioni emotive o valutazioni soggettive. A maggior ragione quando si tratta di sentenza della Cassazione, che è giudice di legittimità e non di merito e può quindi sindacare le decisioni impugnate solo se affette da vizi giuridici sostanziali o processuali. Per questo di norma, quando cassa (annulla) la sentenza la Cassazione invia il processo ad altro giudice di merito per la nuova decisione. attenuanti facili ROCCA 15 MARZO 2006 Nel triste caso della ragazza sarda la terza sezione della Cassazione non si è completamente attenuta agli accennati criteri, ma ha ceduto alla tentazione di arricchire la motivazione della sentenza con proprie valutazioni etico-psicologiche non indispensabili, poco opportune e di dubbia esattezza. Ciò non toglie che la sentenza sia stata spregiudicatamente e scorrettamente gettata in pasto all’opinione pubblica, purtroppo facilmente suggestionabile, a volte persino manipolabile e particolarmente attenta a certe notizie scandalistiche. Af22 fermazione scritta a titolo cubitale «la violenza è meno grave se la vittima non è vergine» sono tanto volgari e pruriginose quanto poco veritiere. Di una simile proposizione o di altre simili «se aveva avuto rapporti» non vi è traccia nella decisione incriminata. Compito della Cassazione è anche quello di valutare se la motivazione della sentenza impugnata sia completa e congrua in ogni sua parte, ivi compresa quella relativa alla concessione di attenuanti e di determinazione della pena. Su questo punto i Consiglieri della terza sezione hanno ritenuto insufficiente la motivazione e, quindi, l’hanno cassata, come era nel loro potere-dovere e rinviato il processo ad un’altra Corte che, nonostante l’opinione espressa dai giudici di legittimità, sarà libera di valutare la gravità del fatto, ma sarà tenuta a darne una più congrua e completa motivazione. La sentenza non ha, dunque, alcuna portata generale e non costituisce un vero precedente con l’autorevolezza propria del classico precedente (non vincolante, ma che non si può ignorare). Il clamore suscitato dalla discutibile pronuncia è dunque certamente dovuto alla modalità in gran parte esasperata ed ipertrofica con cui, quantomeno colposamente, gli organi di informazione hanno dato la notizia, non preoccupandosi troppo dei suoi aspetti tecnici e dei suoi effetti giuridici. Non è certo la prima volta che una sentenza viene cassata dai giudici di legittimità perché la sua motivazione è insufficiente o contradditoria. Non risponde però all’ortodossia motivazionale della Cassazione ed alle regole di prudenza e sensibilità che debbono essere seguite da ogni giudice, la manifestazione di opinioni e valutazione SCHEDA Si riporta, per informazione dei lettori, una breve scheda storico-normativa della dott.ssa Flavia Risso, cultrice di Diritto pubblico all’Università di Torino, sullo spinoso problema. dei fatti nel contesto della breve decisione. Non erano necessarie o comunque potevano essere diverse e meno aggressive le espressioni utilizzate per dimostrare la incongruità della motivazione della decisione impugnata. Certe affermazioni riportate nella parte finale della sentenza di Cassazione rivelano una superficialità psicologica ed una arretratezza culturale che portano inevitabilmente ad una reazione di biasimo, quando non di indignazione, nell’opinione pubblica più avvertita e soprattutto in quella più specializzata. dove sta l’errore Nel Settecento l’attività sessuale non era vista come espressione di una libertà individuale, ed era punito il c.d. stupro semplice, consistente nel solo fatto della congiunzione carnale con una donna nubile e di onesti costumi, l’adulterio con donna coniugata, il c.d. stupro qualificato caratterizzato dalla seduzione della donna e lo stupro violento. Nella legislazione ottocentesca i reati sessuali erano collocati tra «i reati che attaccano la pace e l’onore delle famiglie» (Codice Napoletano del 1819), tra i «delitti contro il pudore e contro l’ordine delle famiglie» (Codice Toscano del 1853), tra i «reati contro l’ordine delle famiglie» (Codice Sardo-Italiano del 1859). Nel Codice Zanardelli del 1889 tali reati vengono inseriti nel titolo VIII «dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie». Nel Codice Rocco del 1930 i delitti contro la libertà sessuale vengono collocati nel titolo IX del Codice Penale relativo ai reati contro la moralità pubblica e il buon costume. Si riteneva cioè che l’oggetto dell’ offesa non fosse «la persona» in quanto tale, ma solo il sentimento del pudore e la morale pubblica. Dopo la riforma avvenuta con la legge del 15 febbraio 1996, n. 66, tali delitti sono stati finalmente collocati nel titolo XII del secondo libro del Codice Penale, tra i delitti contro la persona e, in particolare, contro la libertà personale. La norma non si è limitata ad inquadrare giuridicamente in modo diverso i delitti sessuali, ma ha modificato profondamente i tipi di illecito e la relativa disciplina. L’innovazione più importante è senza dubbio l’unificazione dei reati di «violenza carnale» e di «atti di libidine violenti» nella più generica fattispecie di reato di «violenza sessuale». Si arriva infine alla recentissima legge 6/2/ 2006, n. 38 che prosegue il cammino normativo di estremo rigore contro qualsiasi forma di attività sessuale o di sfruttamento di persone minori. Una ragazzina che a poco più di 13 anni 23 ROCCA 15 MARZO 2006 Giancarlo Ferrero una sentenza clamorosa O quanto conta l’età della vittima ROCCA 15 MARZO 2006 Il delitto richiede un cosciente atto di violenza che verso il minore di 14 anni e per gli infrasedicenni (commesso da coloro che hanno un posizione di supremazia come genitori, tutori) si presume. Una presunzione più che giustificata addirittura ovvia, che si ha per il semplice fatto dell’età della vittima. L’art. 609 bis, terzo comma, prevede un’attenuante speciale con forte diminuzione della pena (sino a 2/3) quando il fatto sia «di minore gravità», formula criticata dalla dottrina per la sua eccessiva genericità e che rischia di reintrodurre l’eliminata e superata distinzione tra atti di libidine e la violenza carnale e che comunque conferisce al giudice di merito un’ampia discrezionalità. L’interpretazione che appare più seria e coerente con la profonda riforma è quella che limita l’applicazione dell’attenuante speciale ai soli casi di molestia sessuale, molto meno lesivi del bene protetto. I giudici della terza sezione sembra non abbiano preso atto di questa fondamentale trasformazione del delitto da violenza carnale che si muoveva nella sfera della moralità pubblica a quella ben più ampia della violenza sessuale (in qualsiasi forma attuata e di qualsiasi tipo esso sia) che attiene alla libertà ed integrità psico-fisica della persona. Così e senza che fosse loro richiesto (rientrasse cioè nei loro precisi compiti istituzionali) essendo giudici di legittimità, hanno ceduto alla tentazione di esprimere una (personale) valutazione di merito sul fatto, sia pure «giustificata» dal fine di evidenziare l’incongruità e contraddittorietà della motivazione della sen24 tenza della Corte di Appello (giudice di merito di secondo grado). È proprio qui che i giudici si sono lasciati andare ad affermazioni psicologicamente errate e giuridicamente superficiali: «la ragazza già a partire dall’età di 13 anni aveva avuto numerosi rapporti sessuali…è lecito ritenere che già al momento dell’incontro… la sua personalità dal punto di vista sessuale fosse molto più sviluppata di quanto ci si può normalmente aspettare da una ragazza della sua età». A parte la gratuità dell’affermazione (si ripete, non indispensabile in un giudizio di mera legittimità) i giudici della terza sezione non sono stati neppure sfiorati dal dubbio che proprio per questo il vissuto degradato di cui era incolpevole vittima la ragazza accentuava quello stato di fragilità psichica che spiega e giustifica la particolare norma di protezione voluta dal legislatore penale. Vittima da difendere contro la brutalità del mondo adulto in cui si è venuta a trovare, non scarto umano, non bene già deteriorato e quindi giuridicamente di minor valore! passi avanti verso la civiltà È pensare che da un po’ di anni la Cassazione, dimostrandosi sensibile ed all’altezza dei tempi, ha riconosciuto come risarcibile il danno esistenziale, quello cioè costituito dalla sofferenza esistenziale, dalla perdita di realizzazione sociale, dalla tensione emotiva ecc. ecc… Il male subito dalla ragazza sarda non merita che silenzio e rispetto; è il male provocato a dover essere stigmatizzato e punito. È opportuno inoltre ricordare ai più spregiudicati e complessati maschi italiani che da poche settimane è entrata in vigore la legge 06/02/2006, n. 38 sulla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia. L’art. 1 punisce (quando non vi è la più grave violenza) chiunque compia atti sessuali con una minore di età compresa tra i 14 ed i 18 anni in cambio di denaro ed altra utilità. Si tratta di una modifica di grande respiro che segna un giro di boa del nostro ordinamento ed un significativo passo in avanti verso la civiltà e la protezione dei soggetti più deboli. È inoltre un altro non piccolo segnale per rammentare, che con il denaro si possono comprare molte cose, ma non tutte e che in certi casi, contrariamente alla massima qualunquista, il denaro «olet» e l’odore può essere nauseante. fondamentalismo PAROLE CHIAVE Romolo Menighetti uesto termine indica un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti di testi e teorie di riferimento. Più precisamente è considerato fondamentalista ogni approccio a un testo, di cui si accetta l’analisi critica di tipo filologico solo quando questa si accorda con i dogmi tradizionali. Diversi possono essere i fondamentalismi. C’è quello religioso: islamico, ebraico, induista, cristiano; circa quest’ultimo, di notevoli proporzioni è il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti. Ci può essere anche un fondamentalismo politico-culturale (i nazionalismi, il laicismo) e un fondamentalismo etnico (esaltazione di una razza o di un popolo). Si può parlare pure di un fondamentalismo economico, quando un sistema economico, ad esempio il marxismo o il neoliberismo, vengono considerati come l’unica forma di organizzazione e gestione dell’economia, e imposti anche sacrificando i diritti delle persone. Ma c’è anche un aspetto psicologico del fondamentalismo. Si tratta della reazione negativa, un insieme di chiusura ed aggressività, al declino del sistema di valori fino al momento dominante. Considerando in particolare il mondo islamico è importante – al fine di comprendere la dialettica che c’è all’interno dell’Islam, e favorire così l’isolamento dei terroristi – distinguere tra i diversi atteggiamenti religiosi in esso presenti. Tale distinzione è fatta in riferimento a come gli individui e i gruppi si pongono di fronte al rapporto fede e politica, fede e cultura. Ci sono i progressisti, cioè coloro che concordano con la distinzione tra fede e politica. Entro questi si possono annoverare anche quelli che, pur accettando la distinzione, si impegnano perché non diventi separazione. Questa, ad esempio, è anche la posizione del Magistero cattolico, del Primo ministro turco Erdogan, e dei partiti religiosi di tipo democratico che in quel paese stanno compiendo un itinerario simile a quello che fu della Democrazia Cristiana in Italia. Ci sono poi i fondamentalisti che sono, in teoria, per una stretta unità tra fede e vita pubblica, anche se in pratica accettano compromessi (ad esempio, i Fratelli Musulmani egiziani). Infine Q ci sono gli ultrafondamentalisti (Al Qaeda, Bin Laden, i Fratelli Musulmani palestinesi di Hamas) i quali asseriscono in modo assoluto la coincidenza tra fede e politica, fede e cultura. Non coincidendo però queste nella realtà, essi giudicano negativamente quest’ultima, per cui decidono di cambiare il mondo con il terrorismo. Appare dunque errata la lettura marxista che interpreta la rivoluzione e il terrorismo come la ribellione dei poveri contro i ricchi. Nel terrorismo islamico le motivazioni prevalenti non sono economiche, ma ideologiche e religiose. I terroristi di Hamas hanno reddito e scolarizzazione più alti della media dei palestinesi, Bin Laden è miliardario, Mohamed Atta, il capo del commando dell’11 settembre, conseguì il Dottorato in Urbanistica all’Università di Amburgo. Storicamente, le origini dell’ultrafondamentalismo affondano nel fallimento dei tentativi di dar vita a un nazionalismo arabo, negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il partito Baath in Siria ed Iraq, Nasser in Egitto, Ben Bella in Algeria, Bourghiba in Tunisia cercarono di mettere i loro rispettivi paesi al passo con l’Occidente. Non avendo però tale nazionalismo mantenuto le promesse, anzi avendo prevalentemente prodotto corruzione, sopraffazione dei diritti umani e sconfitte militari, prevalse in seno all’Islam il convincimento che la causa dell’arretratezza del mondo islamico stesse nell’aver voluto imitare l’Occidente nelle sue degenerazioni. Da qui l’appello a tornare al Profeta e al Corano. Ma l’attuale ondata di ultrafondamentalismo non è un semplice ritorno alla tradizione. È un miscuglio di antimodernità e modernità rivoluzionaria, che usa spregiudicatamente i più sofisticati mezzi tecnologici. È questo connubio che oggi fa del fondamentalismo estremo «un nemico di tutta l’umanità civilizzata», come hanno affermato, nel primo anniversario dell’11 settembre, le militanti della Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan). Tale giudizio è particolarmente qualificato, in quanto è espresso da una categoria di persone che hanno dovuto subire sulla loro pelle l’oppressione e le violenze, prima da parte dei fondamentalisti dell’Alleanza del Nord, e poi dei Talebani. Giancarlo Ferrero 25 ROCCA 15 MARZO 2006 VIOLENZA SESSUALE stanzialmente corrotta, valeva quindi di meno…!) costituisce un errore giuridico oltre a segnalare una «forma mentis» poco evoluta. Va ricordato, per i non addetti al lavoro, che sul delicato punto si è fortunatamente realizzato un processo di civilizzazione ed evoluzione che ha portato a seppellire l’antica figura giuridica della violenza carnale come delitto contro la morale pubblica per trasformarla in violenza sessuale come delitto contro la persona, la sola vera parte offesa. Il bene protetto dalla norma diviene, dunque, esclusivamente l’integrità psichica e fisica della persona che subisce comunque una violenza a sfondo sessuale, indipendentemente dal tipo di atto sessuale commesso (anche quindi di mera libidine). LAVORO tempi difficili per i neolaureati L porte chiuse nel pubblico impiego Il rapporto non esamina le cause di questa situazione e l’osservatore distratto potreb26 be pensare che alla radice di tutto ciò ci sia solo la famosa legge 30/2003 sul mercato del lavoro, quella con cui il governo ha regalato agli enti e alle aziende una tale varietà di contratti instabili da produrre qualche imbarazzo perfino nei direttori del personale più appassionati alla flessibilità. Errore. Se la legge 30 offre gli strumenti di legittimazione e regolazione della precarietà, a tagliare il lavoro stabile nel settore pubblico sono state piuttosto le leggi finanziarie, i patti di stabilità, i vincoli imposti alla spesa pubblica che da anni impediscono di assumere nuovo personale e di bandire concorsi, o che riducono tali facoltà a dosi omeopatiche. Così, per rimpiazzare il personale che esce per pensione o per altri motivi, e per coprire le esigenze che derivano spesso dalle nuove competenze attribuite agli enti, non c’è altra possibilità che ricorrere a marchingegni di vario tipo, i contratti di collaborazione, gli incarichi di consulenza, l’affidamento tramite gare e convenzioni di parte dei compiti ad agenzie, società, cooperative: le quali agenzie, società, cooperative, in quanto titolari di attività solo temporanee, hanno buoni argomenti – se non vere e proprie ragioni – per non accendere contratti di lavoro a tempo indeterminato. Si tratta, in molti Enti pubblici, di quote di lavoro consistenti ma ancora minoritarie, non oltre il 10-15% del totale del lavo- sa a dura prova da competenze che vanno e vengono senza sedimentarsi e dai disturbi organizzativi che ne derivano. crisi del sistema economico-produttivo ro dipendente. Ma può capitare anche di peggio. Proprio pochi giorni fa è rimbalzato sulla grande stampa il caso di un Ministero, quello dei beni culturali, in cui si è verificato il sorpasso, con un numero di lavoratori instabili più alto di quello dei dipendenti inseriti stabilmente in organico. Un disastro, non solo per chi è costretto a salire e scendere le scale degli incarichi temporanei, ma per la qualità e l’efficienza stessa degli enti e dei servizi pubblici, mes- Tempi difficili, del resto, per tutti i giovani laureati, sia nel pubblico che nel privato. È ancora il rapporto Alma Laurea a segnalare dati alla mano che, se il lavoro atipico dei neolaureati è cresciuto in cinque anni, a partire dal 1999, del 10%, fino a interessare il 48,5% dei laureati del 2004, è più in generale l’accesso al lavoro a presentare grandissime difficoltà. A un anno dalla laurea gli occupati sono il 53,7% (con un leggero calo rispetto all’anno 2003), e anche a distanza di tre anni dalla laurea risultano essere senza lavoro un terzo circa dei laureati. Che, com’è noto, non sono di solito giovanissimi, visto che l’età media di uscita dall’università è ancora attestata sui 27-28 anni. E che, in moltissimi casi, non sono neppure del tutto digiuni di esperienze lavorative, visto che dal 1999 al 2003 è cresciuta di otto punti – dal 56% al 64% – la percentuale di quanti, già da studenti, sono entrati, con occupazioni solitamente precarie, nel mondo del lavoro. Su tutto questo incidono anche le caratteristiche attuali del nostro sistema economico produttivo, assai poco propenso ad assumere giovani con alto livello di quali27 ROCCA 15 MARZO 2006 ROCCA 15 MARZO 2006 Fiorella Farinelli avorare nelle amministrazioni pubbliche era, una volta, sinonimo di tranquilla stabilità. Fin troppo tranquilla, per certi versi, e diffusamente sospettata infatti di pigra inefficienza. È ancora così? Non per tutti. Se resta della massima stabilità – ma non per questo sempre e comunque inefficiente – il lavoro di chi nelle autonomie locali, nei ministeri, nella scuola è entrato da tempo, per i giovani laureati oggi le cose sono molto cambiate. Secondo il rapporto Alma Laurea (1), che ha coinvolto in un’indagine oltre 74.000 laureati di trentasei atenei degli anni 2004, 2002, 2000, il lavoro pubblico sembra essere diventato assai più agro di quello del settore privato. Non solo perché le retribuzioni sono mediamente inferiori, ma sopratutto perchè, a cinque anni dal conseguimento del titolo di studio, l’occupazione stabile è ridottissima: su cento occupati, infatti, solo 31 hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre nel settore privato la stabilità è molto più alta, con 74 contratti a tempo indeterminato su cento. 28 granché propense neppure a migliorare le competenze professionali dei dipendenti già inseriti negli organici. L’ultimo Rapporto al Parlamento sulla formazione continua, presentato qualche giorno fa, conferma che non è superiore al 20% la quota di imprese che formano ricorrentemente i propri lavoratori (a fronte di una media europea superiore al doppio e di paesi come la Francia e il Regno Unito che corrono verso il 60%), che dal 2002 ad oggi c’è stato un calo di circa quattro punti, e che le esperienze più virtuose sono per lo più circoscritte alle grandi imprese, che sono non più del 10% del totale. Non è dunque difficile da capire perché, se in numerosi settori produttivi esportiamo sempre meno prodotti, esportiamo però sempre di più in altri paesi i nostri migliori cervelli. ETICA POLITICA ECONOMIA una priorità non più eludibile È la fotografia di una situazione di crisi quella che ci presenta l’indagine di Alma Laurea. Da cui emerge che la disoccupazione giovanile, sebbene oscurata dalla tendenza dei giovani ad investire nei percorsi di istruzione più lunghi (anche gran parte dei diplomati «triennali» prosegue per ottenere la laurea quinquennale specialistica), tende a restare consistente; che le imprese faticano ad apprezzare e valorizzare le risorse pregiate prodotte dall’ università; che le ragazze continuano ad avere le migliori performances universitarie, ma ad incontrare le maggiori difficoltà nell’inserimento lavorativo coerente con il proprio livello formativo; che nel Mezzogiorno tutti gli elementi negativi si presentano in forma più acuta e tutti gli elementi positivi in forma più debole. Eppure non ci sono dubbi che dalla crisi non si può uscire se non investendo nei settori strategici della ricerca, della formazione, dell’innovazione; se non invertendo la situazione che ha portato alle crisi di vocazioni nei campi scientifici e tecnologici; se non mettendosi nelle condizioni di collaborare, in questi settori, nello spazio europeo. Qualsiasi sia la coalizione che avrà la meglio nelle prossime elezioni politiche, si tratta di priorità non più eludibili. Fiorella Farinelli (1) Alma Laurea è un consorzio universitario, che associa la maggior parte degli atenei italiani. Il rapporto presentato il 22 febbraio scorso è l’ottavo svolto dal consorzio. politeismo dei valori e ricerca del fondamento Giannino Piana L ’aspetto più rilevante della crisi che caratterizza oggi la politica è costituito dalla oggettiva difficoltà di conferire ad essa un fondamento etico. Le teorie fondative del passato risultano infatti anacronistiche, mentre i tentativi promossi in questi ultimi decenni (nei quali peraltro l’etica pubblica si è grandemente sviluppata) ripiegano di fatto su teorie di stampo neocontrattualista e neoutilitarista; teorie che eludono del tutto (mettendola tra parentesi) la questione dei valori accontentandosi di un approccio procedurale, cioè della sola produzione di «regole del gioco» destinate a fissare, in termini pragmatici, le condizioni per una convivenza civile ordinata. Le ragioni di questo stato di impasse non sono addebitabili alla sola politica; devo- no essere ricercate, più radicalmente, nel venire meno, all’interno della società, di valori condivisi sui quali edificare la vita associata. Ciò che sta, in altre parole, alla base della crisi (e che la alimenta) è il fenomeno del «politeismo dei valori» (così lo ha definito Max Weber), frutto del processo, sempre più accentuato, di «disincantamento del mondo» (l’espressione è ancora di Weber), che ha avuto luogo a partire dagli inizi della modernità. le vie impraticabili Nonostante l’importanza delle indicazioni normative, il problema dei valori non è eludibile; e questo non solo perché ad essi è necessario ricorrere quando si affrontano questioni che riguardano la crescita umana (personale e collettiva), ma anche 29 ROCCA 15 MARZO 2006 ROCCA 15 MARZO 2006 LAVORO ficazione. L’ultima indagine ExcelsiorUnioncamere 2005, che accerta le intenzioni delle imprese private sulla quantità e sulle tipologie delle assunzioni considerate indispensabili o probabili nei dodici mesi successivi alle interviste, non lascia margini di dubbio. La maggioranza delle aziende prevede di assumere sopratutto personale non qualificato (con titoli di studio non superiori alla licenza media); quanto al personale qualificato e con specifiche competenze, la scelta cade più sui diplomati con titolo di studio di scuola secondaria superiore che sui laureati. Non solo: se sono molto apprezzate, ai fini dell’inserimento lavorativo, le esperienze di stage che assicurano di un’avvenuta familiarizzazione con il lavoro e le conoscenze informatiche, non è così – lo precisa Alma Laurea – per i master di specializzazione post laurea e neppure per le esperienze di studio e di lavoro all’estero che pure sono diffusamente vantati, nella retorica politica sull’economia della conoscenza così come nel marketing universitario, come la carta vincente. Niente affatto, non è così. Sono le conseguenze di un mondo imprenditoriale italiano ancora in larga parte ancorato all’idea che la concorrenza nel mondo globale si affronta con la riduzione del costo del lavoro (magari tramite le delocalizzazioni produttive nei paesi da cinque dollari al giorno) e con l’incremento della produttività, e ancora assai lontano dalla scommessa dell’innovazione e della qualità del prodotto: dalla cultura del rischio d’impresa, dall’investimento proiettato sul lungo periodo che rinuncia al rientro immediato. Non è una novità. Una delle caratteristiche – negative – del caso italiano consiste, come ormai tutti sanno, nei bassi investimenti economici nel campo della ricerca, di base ed applicata. Ma c’è di più, ed è vera e propria anomalia, che, della poca ricerca che si fa nel nostro paese, la parte assolutamente maggioritaria sia in verità delle università e degli enti pubblici di ricerca, e non del privato imprenditoriale. A cosa dovrebbero servire, in questo quadro di annunciato declino economico e produttivo le competenze pregiate dei master e delle specializzazioni? E perché assumere laureati o dottori di ricerca, che costerebbero sicuramente di più, se bastano e avanzano, in molte aziende non proprio eccelse in termini di innovazione tecnologica ed organizzativa, competenze di profilo decisamente più modesto? Le imprese italiane, del resto, non sono ETICA POLITICA ECONOMIA il confronto come metodo ROCCA 15 MARZO 2006 La possibilità di superare le due vie ricordate, rispettando il pluralismo esistente e non rinunciando a ricercare, nello stesso tempo, un terreno etico comune, è costituita dallo sforzo di ricuperare l’ethos condiviso dalla maggioranza dei cittadini per farlo diventare il presupposto degli ordinamenti istituzionali e delle scelte sociali. Non è, infatti, compito della politica elaborare in proprio un’etica – si incorrerebbe altrimenti nel pericolo dello Stato etico –; è invece suo compito creare le condizioni per un confronto allargato tra le varie componenti sociali, culturali e religiose, spingendole a definire una piattaforma valoriale per farla diventare il supporto degli interventi, sia di ordine strut30 turale che legislativo, che ad essa competono. In questo quadro grande importanza assume l’apertura di un dibattito pubblico permanente, che fornisca le basi per affrontare correttamente le grandi questioni riguardanti la conduzione della vita associata. Ma la possibilità che tale dibattito si sviluppi in termini corretti è legata al realizzarsi di un alto livello di partecipazione e alla creazione di un clima di leale collaborazione tra le forze sociali; un clima nel quale la ricerca del bene comune o dell’interesse generale prevalga sul perseguimento del proprio tornaconto o sulla imposizione del proprio punto di vista. È come dire che i processi orientati a individuare i presupposti valoriali devono sviluppare un forte senso dell’appartenenza collettiva (un «sentirsi parte») e la disponibilità a contribuire con il proprio apporto personale (un «prendere parte») all’edificazione della «casa comune». Non è questo, d’altronde, il senso vero della partecipazione che – come affermava J.J. Rousseau – costituisce, insieme all’uguaglianza, il valore fondativo della democrazia? Il modello cui fare appello per dare vita a tale prassi è quello dell’etica del discorso (Habermas), la quale non si limita a sottolineare l’importanza della comunicazione – in una società come l’attuale in cui sono cresciute a dismisura le possibilità di informazione si assiste purtroppo a una crescente dequalificazione del comunicare – ma indica anche i requisiti perché la comunicazione si sviluppi correttamente e conduca ad esiti fecondi. Fiducia nel dialogo come strumento di reciproco arricchimento, disponibilità a sottoporre a vaglio critico le proprie posizioni (e superamento, di conseguenza, della presunzione di possedere in modo esclusivo la verità), apertura all’altro in quanto portatore di un messaggio che ha in sé elementi preziosi di conoscenza della realtà, ricerca di un terreno comune attorno al quale convergere nell’intento di servire l’interesse della comunità sono i presupposti per un dialogo promettente. A dover essere abbandonate non sono soltanto le pregiudiziali ideologiche, ma anche gli atteggiamenti di diffidenza, che hanno un peso determinante nel modo di affrontare le relazioni. La situazione ita- liana presenta, al riguardo, aspetti emblematici: clericalismo e laicismo (quest’ultimo con i connotati di un clericalismo rovesciato) favoriscono il «muro contro muro», con il rischio di decisioni che, nascendo in un contesto di esasperazione delle rispettive posizioni, sono lontane dal sentire dei cittadini. Liberarsi da questa eredità è condizione essenziale per vincere resistenze, che impediscono la comprensione dei processi in atto e la ricerca di forme di mediazione adeguate. quale fondamento? La questione del fondamento non può, tuttavia, essere risolta sul terreno puramente metodologico. Se non ci si accontenta del ricorso a un consenso basato su motivazioni utilitariste, ma si crede nella possibilità di convergere attorno ad un polo valoriale, assume grande importanza l’individuazione di un punto di riferimento universalizzabile, che trascenda l’ambito strettamente etico per approdare a quello antropologico. L’attuale disagio della politica è infatti dovuto alla persistenza di un’antropologia individualista, che ha avuto il sopravvento nella modernità. Alla fondazione del sociale (e dunque della politica) sulla «natura», perciò su ciò che appartiene intrinsecamente all’uomo – è questa la posizione della filosofia classica e medioevale (da Aristotile a Tommaso d’Aquino) – è infatti subentrata, fin dagli inizi dell’epoca moderna, la necessità di fare appello ad un processo esterno – è questo il significato della prospettiva contrattualista – volto alla fissazione di «regole» che obbligano ciascuno a rinunciare a una parte della propria libertà perché il suo esercizio venga garantito a tutti. I limiti dell’antropologia individualista si sono fatti sempre più evidenti. Il ricupero del soggetto nella sua singolare dignità si è accompagnato al suo scorporo dal tessuto delle relazioni sociali, con la conseguente impossibilità di favorire la crescita di un contesto solidale. È questa la ragione per cui si assiste oggi alla riscoperta della «persona» come perno essenziale della vita associata. Dire «persona» significa alludere infatti a una soggettività unica e irripetibile, ma affermare anche il costituirsi di una soggettività relazionale, dunque «sociale»; significa postulare, in altre parole, l’esigenza della comunicazione e dello scambio, non per ragioni utilitariste, ma per un doveroso rispetto dello statuto dell’umano. La politica non risulta così imposta dall’esterno, ma si presenta come una realtà connaturata all’essere umano e alle dinamiche della sua crescita, avendo come suo principio orientativo il rispetto e la promozione della dignità personale. Le differenze culturali, per quanto marcate e largamente influenti, non possono cancellare l’esistenza di una humanitas comune (e pertanto di una comune dignità) che garantisce, anche nel mondo attuale caratterizzato da una forma allargata di multiculturalità – si pensi alla compresenza di culture diverse sullo stesso territorio e all’accentuarsi delle difficoltà di comunicazione –, la possibilità di un confronto positivo ed arricchente, e rende plausibile l’identificazione di un terreno comune, che orienti la politica verso fini umanizzanti. La ricerca del fondamento non si sostituisce, certo, all’impegnativo compito di rintracciare assetti normativi adeguati; garantisce piuttosto a tale compito il supporto necessario perché possa svilupparsi in modo corretto. Il passaggio dal livello trascendentale – quello dei valori –, che ha un carattere prevalentemente formale, al livello categoriale – quello delle «regole» –, che tende a definire i comportamenti nei loro contenuti effettivi, non è immediato e non può essere demandato a un semplice processo dall’alto. Fondamentale è l’attenzione alla storicità della condizione umana, perciò al variare delle situazioni, e l’adozione di un criterio valutativo ispirato al modello weberiano della etica della responsabilità, attento cioè a misurare, di volta in volta, le conseguenze delle azioni. Per ricuperare la propria dimensione etica, la politica ha oggi bisogno di mantenere aperta la dialettica tra questi due livelli: di non dimenticare i valori comuni (che rinviano alla sua fondazione antropologica), ma di saperli, nello stesso tempo, mediare con coerenza nel vivo delle situazioni alla ricerca del «bene possibile» e, in alcuni casi, anche del semplice «male minore». ROCCA 15 MARZO 2006 perché la presunta neutralità delle teorie ricordate è in realtà soltanto apparente: la scelta di un determinato assetto normativo nasconde infatti (implicitamente) il riferimento a una concezione della vita e a una visione del mondo che rinvia ad un preciso quadro valoriale. La ricerca del fondamento etico non può, tuttavia, avvenire percorrendo vie anacronistiche o, in ogni caso, impraticabili. La situazione di pluralismo culturale ed etico (non si tratta soltanto di valori diversi ma di diversità degli stessi sistemi valoriali) rende assolutamente impercorribile la via deduttiva ipotizzata da Kant, che, postulando l’esistenza di una ragione universale, riteneva del tutto naturale far discendere da essa un’etica universale, valida cioè per tutti gli uomini. Ciò che appare evidente oggi (per il motivo ricordato) è infatti l’assenza di una «ragione», e la sua sostituzione con una molteplicità di «ragioni» dalle quali derivano sistemi etici diversi (non sempre tra loro compatibili). La tentazione che può affiorare, in questa situazione e che si presenta come una facile scorciatoia – è questa l’altra via da non percorrere – è costituita dal ricorso ad un’etica particolare, di matrice religiosa o laica (fondata cioè su presupposti ideologici o culturali fatti propri da qualche gruppo sociale); si tratta in questo caso di una scelta pericolosa, che conduce inevitabilmente alla negazione radicale del principio di laicità. Giannino Piana 31 1. Romolo Menighetti LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa La polis L’umanità come comunità Lo stato nazionale Il liberalismo Marxismo e comunismo Nazionalsocialismo e fascismo La democrazia Delusione e speranze per la democrazia Libri pagg. 112 – • 13,00 2. Pietro Greco BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecniche biomediche verso quale umanità? Ritorna Frankestein? Potenzialità e rischi della genetica Piante e cibi transgenici Terapie geniche La nuova frontiera della biomedicina Clonazione terapeutica Fecondazione assistita Il dibattito all’Onu Chi è l’embrione? Armi biologiche e genetiche Bioetica e bioetiche Tecnologia scienza e sviluppo umano Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici Un nuovo servizio ai lettori. A grande richiesta la raccolta in volume degli articoli più significativi di uno stesso Autore con particolare riferimento alle tematiche più dibattute del nostro tempo pagg. 128 – • 15,00 3. Marco Gallizioli LA RELIGIONE FAI DA TE il fascino del sacro nel postmoderno IL FASCINO DELL’ORIENTE L’Oriente come metafora Paramahansa Yogananda: la vita come abbandono mistico Krishnamurti, un profeta del nostro tempo Gandhi: il sentiero dell’azione ROCCA 15 MARZO 2006 ESPLORANDO LA GALASSIA NEW AGE New Age: un caleidoscopio religioso L’etica della New Age L’emozione religiosa di Paulo Coelho e James Redfield RICHIEDERE A ROCCA cas. postale 94-06081 Assisi e-mail: [email protected] conto corrente postale 15157068 ALCUNE SUGGESTIONI DAI MONDI RELIGIOSI CONTEMPORANEI La reincarnazione nel mondo delle religioni Carlos Castaneda: il fascino dello sciamanesimo Il Candomblé: la trance come festa Apocalisse: un’idea perduta? New global: una provocazione anche religiosa pagg. 112 – • 13,00 4. 5. Rosella De Leonibus PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO AMORE E DINTORNI Vorrei che fosse amore Coppia, il catalogo è questo L’amore gay Il romanzo della coppia tra parole e silenzi L’altro/a: un mistero da riscoprire Uno più uno uguale tre Il nido vuoto Padri cercansi, disperatamente Figlie di madri Adulti ed adolescenti: cinque parole per dirlo PSICHE E DINTORNI E se l’io diventasse meno ingombrante? Sulle tracce dei cambiamenti Convivere col caos Malati immaginari? Fuggire col fumo Mi gioco tutto Magra per rabbia, magra per amore Desiderare il futuro Siamo rete-dipendenti? CONVIVENZA SOCIALE E DINTORNI Appunti per un io postmoderno Dietro le quinte della persuasione Il marketing delle idee Tempo per vivere Del Più e del Meno Le scorciatoie del pensiero Fare la differenza Le sfide dell’intercultura I frutti della paura Fiducia o buon senso? La cura della relazione Desiderio di “noi” pagg. 168 – • 20,00 Giannino Piana ETICA SCIENZA SOCIETÀ i nodi critici emergenti LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE L’uomo e il suo corpo Che cos’è la natura La vita mistero e dono La morte e il morire Salute e cura nel contesto del limite umano I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO Non uccidere La responsabilità morale oggi L’etica del rischio La gerarchia dei beni Quattro principi-base della bioetica I Comitati di bioetica Bioetica e biodiritto I cattolici, la bioetica e la legge LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA L’embrione è persona? La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale Referendum procreazione assistita: perché sì perché no Vita e qualità della vita La clonazione terapeutica Diritto a morire? Il testamento di vita Tra eutanasia passiva e accanimento terapeutico LA CURA DELLA SALUTE Il diritto alla salute Il rapporto medico-paziente La verità al malato Il consenso informato: come, perché, chi Non esistono malati incurabili Salute e risorse: a chi la precedenza? ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA Il rapporto uomo-natura Gli animali soggetto di diritti OGM: risorsa o rischio? pagg. 152 – • 18,00 i volumi 1-2-3 i volumi 4-5 SPECIALE a soli 15 E a soli 10 E PER ciascuno ciascuno I LETTORI DI ROCCA spese di spedizione comprese la Nuova Piazza ROCCA 15 MARZO 2006 Claudio Cagnazzo na volta c’era la piazza. Luogo di sintesi architettonica e sentimentale. Dentro i suoi confini si riversavano storia e cronaca. Passato e presente, sotto forma di minute esistenze. Poi la piazza svanì sotto il peso della modernità. Macchine in strada, donne al lavoro, vecchi rinchiusi in piccoli lager domestici. Anche se confortevoli. Ma la piazza è prima di tutto un luogo dell’anima, un desiderio d’incontro. Per questo rinasce, in televisione o su Internet. Incontro di massa mediatico è la tv, specialmente quella popolare. Si comunica a distanza. Si spiano le vite degli altri. Si parla di loro con i vicini, prima di panchina o di tavolino da bar, ora di divano. Come incontro, anche se più elitario, è anche la casella postale di Internet. Piccole piazze globali sono nate. Con dei piccoli eroi, chiamati con nomi di fantasia. Ma incontri mediatici e telematici hanno l’anima virtuale. Non hanno corpo. Mentre noi tutti della fisicità abbiamo bisogno, anche solo visiva, ma nella sua immediatezza concreta. Abbiamo bisogno di evadere sognando, non solo fantasticando. E la piazza ci faceva sognare, con quelle donne o quegli uomini, inseguiti con lo sguardo. Con le chiacchiere al riparo del sole lucente, sempre a rincorrere ciò che non eravamo e mai saremmo stati. Non come la piazza virtuale dove si può solo fantasticare, talora al confine dell’incubo. Come la cronaca nera ci insegna. Di Tv e di Internet si può morire, di piazza mai. U il Centro Commerciale Per questo cerchiamo sempre di ricostitu34 ire la piccola o grande comunità della vecchia piazza. Da questo il successo dei nuovi Centri Commerciali. Certo, snodi facilmente accessibili per rifornirsi di tutto. Utili contenitori di merce per chi, come noi, sfugge ansiosamente da se stesso dietro le regole della nuova economia. Ma anche decisamente luoghi dove si ricrea in qualche modo la piazza, seppur narcotizzata, del nuovo millennio. Andiamo in piazza si diceva. Ora si dice andiamo al Centro Commerciale. E nel primo caso come nell’altro s’intendeva decisamente un luogo poliforme. C’è in entrambi i casi l’incontro con gli amici, la rassegna delle vetrine. C’è il girovagare senza meta e la possibilità di sedersi, soli o in compagnia. Tra gli altri, ma distanti. Non soli, ma solitari. Liberi di isolarsi tra il calore necessario del mondo circostante. C’è ancora l’incontro-confronto in entrambi i casi. In piazza difatti ci si incontrava e ci si confrontava. Il tuo essere e l’essere degli altri. Materiale e spirituale. Il tuo Stato delle Cose e quello degli altri. Talora per apprezzare, tal’altra per invidiare. Perché di più cose è fatto il tessuto sentimentale degli uomini. In fondo la famiglia seduta al bar dell’angolo gustava il nettare dell’eguaglianza. Come tutti gli abitatori della piazza. Sia che mangiassero gelato, o entrassero in libreria, o guardassero gli zampilli della fontana centrale. Uguali nella diversità degli impegni. Così nel mangiare panna e cioccolato sul ripiano delle nuove cattedrali del consumo. O a comprare vestiti o ninnoli. Uguali. Con le diversità, di reddito, stile di vita e quant’altro, temporaneamente annullate. Si andava in piazza e si va nella Cattedrale del consumo per uniformarsi agli altri. Per sentirsi parte di una storia. Di un mondo. Del resto in entrambe le piazze appunto ci sono e talvolta vivono anche gli esclusi. Sulle panchine di marmo di una piazza di una città qualsiasi o su quelle plastificate del nuovo agglomerato di merci e uomini, stazionano i poveri. Immancabile e necessario corollario al vivere degli integrati: «se stanno con noi, sopravvivono e in qualche modo li sosteniamo». piazza senza storia Tutto è stato travasato dal vecchio al nuovo. Ma come in ogni travaso, qualcosa si perde. Un odore, un profumo, un essenza. Si perde ad esempio in questo caso, la luce. Perché nell’apertura della piazza cittadina era la luce dei luoghi a favorire l’incontro dell’uomo col divino. E’ la luce la vera protagonista dell’incontro del Papa con i fedeli. E’ la luce che garantisce la partecipazione in qualsiasi manifestazione di chi ascolta l’oratore e lo rende soggetto attivo. Nella luce c’è il trascendente della religione e dell’ideale politico che accomuna gli astanti. E dell’amore. Chi di noi infatti non ha mai provato il piacere di un incontro con la persona amata, sui gradoni o sul porticato affacciati su di una piazza. La luce che inonda tutto, sia con il sole che senza, ci fa sentire che l’assoluto è lì, presso di noi. La luce, dunque. Quella luce, che nella nuova tecnologica piazza non c’è. E mai vi sarà. Poi la verticalità. Già perché nella vecchia piazza, ciò che ci stava sopra era la nostra storia. Il monumento equestre o gli stemmi patrizi dei palazzi. O gli antichi terrazzi fioriti ci dominavano e ancora ci dominerebbero se fre- quentassimo le vecchie piazze con il pathos necessario. Dominavano e rassicuravano. Si poteva anche spettegolare all’ombra della storia. Era questa ad assolverci. Negli edifici del commercio continuo questo non è possibile. La verticalità è sempre uguale a se stessa. Piani concentrici ed uguali. Niente passato dunque. E di conseguenza niente futuro. Un eterno, mercificato presente. Infine l’aspetto psicologico. Perché nelle nuove piazze, o Centri Commerciali, non ci sono ad esempio passanti, ma solo clienti. Era il passante, colui che entrava ed usciva frettolosamente dalla piazza, a darti l’idea del collegamento col mondo. Era lui, forma in movimento, a farti sentire attaccato alla vita che pulsava dovunque. Entrava ed usciva, talvolta affascinandoti e lasciandoti il desiderio di rincorrerlo. Ma, lei o lui che fosse, si perdeva rapidamente nel reticolato delle strade e probabilmente non l’avresti più incontrato. Restando un mistero. Che il Centro Commerciale invece rifiuta a favore dell’illusione che lo domina. Del benessere e della libertà. Aspetto psicologico che si presenta in una sorta di spaesamento. Chi difatti in queste cattedrali mercantili non si è mai sentito a disagio? Stai in un negozio di dischi e ti senti precario. Come se fosse un’esperienza frammentaria. Entri in un bar e la spremuta di arancia non finisce mai, mentre tu vorresti andare da un’altra parte. Ecco, in questi luoghi non puoi indugiare troppo a lungo. Nella vecchia piazza sì. Qui sei precario tra i precari. Cosa tra cose. Ma la sensazione è inevitabile, perché questi non sono luoghi, ma semplicemente posti. Perché il luogo ha anima e storia. I posti no, sono semplicemente sedi di qualcosa. Ed in fondo è giusto così, visto che anche nelle vecchie piazze cittadine ormai è il Posto-macchina a dominare la scena. E’ lui la meta dei nostri sogni. L’Araba Fenice che tutti rincorriamo. Un quadratino di due metri circoscritto da striscioline blu. Mentre i monumenti ci guardano e, prima o poi, un Garibaldi piangente, o un Galileo dallo sguardo angosciato, qualcuno, in qualche benedetta piazza, lo dovrà notare. Per comunicarlo a tutti noi. Anche se stiamo girovagando all’interno di una Cattedrale nel deserto. O Centro Commerciale che dir si voglia. Claudio Cagnazzo 35 ROCCA 15 MARZO 2006 SOCIETÀ 36 IO E GLI ALTRI la prossimità dei fornelli, degli odori che creano calore umano. Questa dimensione sociale del fuoco, della cucina e del mangiare insieme, godendo di odori e di sapori tradizionali, esiste in tutte le culture ed appartiene alla cultura stessa di ogni popolo». Quasi che gli usi gastronomici contaminassero e a loro volta fossero influenzati dall’anima stessa delle civiltà che si sono «stratificate» nei luoghi diversi. Fino al punto da poter affermare che «le umane vicende si siano riflesse nella pentola». Carlo Cambi, noto enogastronomo italiano, al quale appartengono le frasi prima riportate, nel suo simpatico «Il gambero rozzo» – Newton Company editori –, mette in rilievo lo specialissimo rapporto che esiste» tra la cultura e la cultura della cucina», tra la cucina e l’ambiente socio-familiare. Si può, pertanto, affermare che nel clima disteso o meno di un gruppo di persone conviventi influisca in modo determinante il cibo che si mangia ed il modo di cucinarlo. Per tale motivo, un noto psicoterapeuta dell’infanzia, Donald Winnicott, soleva visitare per prima cosa la cucina in ogni istituto nel quale si recava. celebrazioni a tavola invito a pranzo Manuel Tejera de Meer È così radicata nell’animo umano l’idea più o meno riconosciuta che il cibo costituisca un elemento di unione tra gli uomini, che ogni situazione gioiosa, e non solo quelle religiose, si celebra con un banchetto. Si potrebbe affermare che, per rendere la gioia più completa, si richieda, col mangiare assieme, la soddisfazione di tutti i sensi. L’occhio vuole la sua parte, nella presentazione di una pietanza, l’udito viene esercitato nel piacere della conversazione durante il pasto, perché, come dicevo prima, non si concepisce un mangiare solitario; gli odori, poi, sono componenti essenziali del buon mangiare, ed il gusto è la quintessenza della funzione gastronomica. Il tatto ha la sua espressione più concreta in tutte quelle occasioni in cui «si può» mangiare con le dita, aggiungendo al sapore una speciale e piacevole sensazione. Il senso sociale del mangiare trova, inoltre, espressione in tante circostanze in cui, per affrontare un problema o per chiarire una situazione, ci si incontri in un ristorante, attorno ad un tavolo imbandito. Si parla anche di pranzi o di cene «di lavoro». Non tutti vedono di buon occhio che la dimensione professionale venga mischiata con la gastronomia; tuttavia, penso che il risultato di un pranzo di lavoro, lontano dagli spazi e dai tempi lavorativi, possa servire a smorzare la distanza gerar- chica tra capi e dipendenti ed a stimolare l’armonia tra tutti. E non tanto perché il vino possa scorrere abbondantemente o perché il cibo sia squisito, ma per la condizione di condivisione e di vicinanza emotiva tra i partecipanti allo stesso pasto. Mangiando assieme si stimola un livellamento benefico nelle relazioni umane. Si racconta che Lutero (notizia ricavata sempre da Carlo Cambi) era solito discutere le sue tesi proprio a tavola. A mio parere, un buon pasto è un’occasione per tentare di evitare contrasti e dissidi, per affrontare conflitti e cercare di risolverli. Non vorrei che si pensasse al mangiare insieme come se fosse la panacea per risolvere tutto quello che non va nelle relazioni umane. Voglio solo sottolineare l’enorme opportunità che offre il cercare di incontrarsi in armonia, intorno ad un tavolo, tra buoni e genuini sapori, deliziosi al palato, perché il mangiare insieme crea intimità e fiducia tra i commensali. i ricordi Nella vita di ognuno di noi, soprattutto quando si va avanti negli anni, contano molto i ricordi. È vero che non ha senso vivere soltanto di ricordi, ma è pur vero che certi ricordi di cose belle del passato possono creare spinte nuove per vivere meglio il presente. Molti ricordi belli, contrapposti alle frustrazioni ed alle vicissitudini del vivere quotidiano, tendono, però, a sparire ed a sfumare nel tempo. Secondo il parere degli studiosi, i ricordi di odori e di sapori del passato sono i più difficili a sparire o ad essere modificati attraverso il tempo. Piuttosto, il risentire nella nostra mente questi odori e questi sapori fa rivivere sensazioni ed emozioni legati ad essi. Marcel Proust ha scritto che quando si perdono i ricordi e «di un passato antico niente più sussiste», sono i sapori e gli odori a restare a lungo ed a diventare i ricordi più fedeli e più persistenti, quelli che, come dicevo poc’anzi, fanno rivivere episodi e periodi gratificanti di un passato lontano. Episodi e periodi in cui appaiono nell’immaginazione, persone significative dal punto di vista emotivo: la nonna, la mamma il papà culinario… o quell’amico di famiglia che si dilettava in cucina. Si presentano, così, alla mente persone con cui i buoni sapori ed i bei odori venivano condivisi. Emergono i ricordi di quei contatti sociali che hanno dato senso alla nostra vita di allora e che possono dare un impulso positivo al nostro mondo relazionale di oggi. ROCCA 15 MARZO 2006 ROCCA 15 MARZO 2006 U n invito a pranzo non è un semplice invito a mangiare. È, soprattutto, un invito a partecipare, con altre persone (o soltanto con la persona che invita) ad un pasto dove emerge, con maggiore o minore forza, il desiderio ed il piacere della compagnia. Un bel pasto non viene connotato soltanto dal cibo che si gusta, ma anche dalle persone con cui si mangia quel cibo. Ciò va detto per sottolineare il grande valore sociale del mangiare in compagnia. Un pasto consumato da soli serve soltanto a soddisfare l’appetito; ma forse nemmeno si sentirà soddisfatto chi, pur mangiando cibi genuini e ben cucinati, non abbia accanto qualche persona amica con cui scambiare due parole o fare conversazione. Non è raro che, quando due persone si trovano da sole in un ristorante, ognuno per proprio conto, in tavoli vicini, si stabilisca un contatto verbale che può finire in un dialogo progressivamente più confidenziale. Addirittura, come succede qualche volta, può nascere un’amicizia. Mangiare insieme, intorno ad una tavola ben imbandita, è, perciò, uno dei modi migliori per socializzare e per sviluppare ed aumentare il proprio capitale sociale. Ciò non significa che, essendo la compagnia la cosa più importante, si sia indifferenti alla qualità di ciò che si mangi. Anzi, una cucina prelibata costituisce pure un buon motivo per incontrarsi. Si stabilisce, così, un circuito che conduce ad un unico risultato: ci si incontra per mangiare insieme e si mangia insieme per incontrarsi. Il valore sociale degli incontri intorno ad un tavolo ben imbandito è stato l’impulso che ha contribuito a creare quella consuetudine ancestrale a curare la cucina, presente in tutte le culture fin dalla notte dei tempi. La diffusione di ricette, trasmesse da generazione in generazione per via orale, ed oggi attraverso la pubblicazione di grossi libri, è una prova di quanto detto. Si ricordi l’importanza che davano i romani al «convivium», quell’incontro prolungato durante i pasti con lo scambio di parole e discorsi in armonia. Pensiamo al senso del focolare, all’unione cordiale tra chi condivide uno stesso pasto costituito da cibi naturali e genuini. È significativo il fatto che, dopo un periodo in cui la classe borghese si allontanò dalla stanza della cucina per consumare i pasti nella «sala da pranzo», si sia tornati a mangiare tutti in cucina. E questo non solo per la comodità della vicinanza, senza perciò doversi alzare per cambiare piatti e cibi; e nemmeno per risparmiare tempo, in questa società frenetica dove trionfa in molti il faast food ed il panino rapido. Ciò avviene, soprattutto, per Manuel Tejera de Meer 37 TERAPIE ROCCA 15 MARZO 2006 Rosella De Leonibus 38 n tempo e uno spazio concentrato, colori, pennelli, tele, colla, sabbia, sale, carta, spugne, creta, scalpelli, legno, pietra… e due persone. L’una traccia, segna la materia, approssima e crea i suoi alfabeti di immagini, forma, colori. L’altra la accompagna, come Virgilio con Dante, testimone attento e partecipe, ad attraversare i nuovi e antichi mondi che sotto le mani della prima vanno prendendo forma. E i materiali vengono trans-form-ati, diventano metafore vive, simboli, ponti per tenere insieme mondi a volte separati da anni luce, a volte muti l’uno all’altro dalla notte dei tempi. I frammenti si aggregano, l’insieme prende senso, costruisce senso, ricompone senso e unità nell’animo umano, in shuttle tra il mondo interno e il contatto sociale, e si riallacciano gli estremi di questa speciale posizione esistenziale dell’umano nel mondo, a ponte tra la materia e il trascendente, in bilico tra una coscienza – a volte cieca, a volte troppo piena – e i suoi piani bassi, abitati da energie potentissime, generatrici di passioni e angosce, di vita e di morte. Questo è il modo in cui l’arte cura. Rende visibile un processo vitale della psiche, lo ordina, lo traduce in uno spazio, un tempo, un segno. L’energia psichica ha uno spazio per emergere, ma anche viene ridirezionata e ridistribuita e, come intuiva Shakespeare, che di energia psichica se ne intendeva, l’informe può prendere forma, trovare un nome e un volto. In questo «prendere forma», c’è una liberazione di un quantum di energia psichica, che ora può essere riconosciuta e pian piano utilizzata dalla persona. Con la trasformazione delle immagini interne in colori, forme, volumi, questi segnali dell’anima non sono più fuggevoli e nebbiosi, come nei sogni. Diceva Jolande Jacobi, una delle più illustri allieve di Jung, che attraverso l’esperienza artistica le immagini U diventano visibili nel mondo esterno e vivono una doppia funzione: espressiva, perché emergono dal mondo interno e lo «traslano» all’esterno, e anche impressiva, perché il loro creatore è indotto a guardarle, in modo concentrato e duraturo, a confrontarsi con quanto emerge dalla sua interiorità. Il suo testimone privilegiato è l’arte-terapeuta. Questa scoperta ed esplorazione non sarebbero possibili senza una guida che accompagna e protegge e contiene nella solida cornice della relazione terapeutica le immani forze e gli attriti, i blocchi e le fughe in avanti e le zone inesplorate che emergono in questo processo. E che aiuta a mantenere la strada, a tornare a casa, a poter raccontare il viaggio. «Nulla si sa, tutto s’immagina» (F. Fellini) L’esperienza artistica tocca le corde dell’anima, e per accedervi transita dalla porta dell’immaginario. Il mondo immaginale è quel luogo psichico che, prima e accanto allo sviluppo delle competenze logiche e linguistiche, ospita il primo gradino dei processi di pensiero, il primo luogo di elaborazione delle emozioni, il primo luogo di espressione in cui l’essere umano racconta il mondo a partire dal suo punto di vista, a partire da una funzione psichica che «si rappresenta» e «rappresenta» la realtà, e così varca il confine tra l’esperienza interiore e il mondo esterno, e l’esperienza interiore diventa comunicabile. C’è una densissima espressione della lingua araba, àlam al mithàl, che indica questo mondo intermedio, a mezza via tra quello dell’ esperienza materiale, della percezione, dei sensi, e quello dell’intuizione e dell’intelletto. Questo mondo, così come quello materiale, ha anch’esso la sua funzione percettiva: è la funzione immaginativa, altrettanto reale di quanto lo sono le percezioni dei sensi o l’intuizione intellettuale. E il potere dell’immaginario sta nella sua tensione intrinseca verso la manifestazione, una forma di epifanìa, quel movimento che va da uno stato di potenza ancora inespresso ad uno stato manifesto e rivelato. La prima forma di racconto del mondo dal proprio punto di vista è proprio una delle funzioni del mondo immaginale, ed abita nello spazio che sta tra il mondo interno e il mondo esterno, e questi luoghi psichici diventano comunicanti quando il mondo immaginario si manifesta in traccia creativa. Il potere dell’arte sull’anima umana è tutto in questo movimento, nel passaggio da un’idea ancora immateriale ad un vettoresegno, che contiene il movimento della mano che lo compie, la vista, il tatto, e l’idea viene trasportata (metaforizzata, perché trasporto è la traduzione letterale della parola metafora) nel mondo tangibile, acquista una grandezza, una posizione nello spazio, un verso. Lungo questo passaggio, arato e arato di nuovo da attraversamenti successivi, attecchiscono semi di piante preziose: l’autenticità, il dubbio, l’ integrazione degli opposti, l’intuizione, la possibilità di scegliere. Sono semi di libertà, libertà di esistere nel mondo in modo comunicante, lasciando tracce di sé, contro la passività di ogni alienazione. «spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente» (C. G. Jung) Il linguaggio dell’arte racconta al suo autore e al mondo lo spazio interno, le sue potenzialità, energie, incubi, emozioni. Ma è anche struttura e veicolo che dà forma all’informe, supportando e organizzando i contenuti psichici. L’immagine prodotta dal gesto attivo della persona è assai potente. Esprime ciò che ancora le parole non possono dire, ed è in sé riparatrice e condivisibile, proprio per il suo potere di transitare, come forma visibile e percepibile, dal soggettivo all’intersoggettivo. Allora la persona e l’arteterapeuta possono incontrarsi, con la parola o con un gesto grafico dialogante, ed attivare una comunicazione evocativa, subito connessa alle emozioni, non mediata. Ogni azione umana è prodotto, ed è anche processo che realizza quel prodotto. Ci sono dei passaggi, dentro l’esperienza del lavoro di arte terapia, altrettanto importanti rispetto all’immagine finale. Una prima fase è il contatto con i materiali. L’immersione, il contatto sensoriale con la materia, sono già un passaggio che cura. La possibilità di esplorare, di manipolare, di imparare un gesto e lasciare una traccia sono già cura. Poi c’è l’emozione che arriva quando la materia comincia a prendere forma, quando comincia a lasciar trapelare l’immagine interna che l’ha guidata. Cerchiamolo anche qui un altro «fattore terapeutico», perchè l’immagine interna che incontra i materiali diventa tutto insieme forma, contenuto e processo, e simbolo, e messaggio, e prodotto del mio lavoro. È parte di me, prolungamento del gesto della mia mano, ma anche traccia esterna del mio fare, e anche oggetto separato da me dotato di una sua vita, e quindi posso osservarlo, mi può parlare, ne posso fare esperienza. Già dal primo contatto coi materiali ho la possibilità di accorgermi di come mi relaziono con la realtà esterna, quanto mi permetto di esplorarla, conoscerla nelle sue caratteristiche, manipolarla, assimilarla come parte di me. Col mettere mano ai materiali e poi dare forma all’immagine, tengo insieme due livelli, uno logico/fattuale e uno emotivo e pulsionale. È già cura. Allora l’atto creativo con cui l’immagine si cala nella forma materiale che le ho preparato è già me: il mio mondo interno, il mio ROCCA 15 MARZO 2006 curare con l’arte 39 «I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione che le appartiene» (Eraclito) ROCCA 15 MARZO 2006 L’altro passaggio che segue è riconoscere il senso, costruire il significato, rielaborare con l’arte-terapeuta o in gruppo quel percorso a onde, a ponti sospesi, tra mondo interno e realtà tangibile, tra buio e luce, tra riconoscimento e sorpresa. Davanti all’opera creata, la mente logica ora deve arrestarsi, e lasciar entrare in campo la mente narrativa, che accoglie, osserva, comprende, descrive, evoca, allude, cerca il senso, scioglie le emozioni condensate nell’immagine, e le emozioni del mostrare, del raccontare, e le emozioni che gli interlocutori vivono davanti a questo. Il significato allora non deriverà da spiegazioni più o meno codificate, non è un rebus da risolvere. Si presenterà da sé, dall’ apertura che avremo realizzato nell’accoglierlo, nel lasciarlo parlare, e diventerà forte e chiaro e ben formato attraverso passaggi multipli: globali e frammentati, addensamenti di senso, coaguli di emozioni, aggregati di altre immagini-ricordi-evocazioni che si connettono in rete con l’opera creativa. E il significato emergerà anche come sviluppo narrativo, da me che mostro e dall’altro che mi chiede, dal sentimento che viviamo, da ciò che insieme troviamo, scopriamo, costruiamo, mentre tuttavia restiamo cauti davanti al mistero che ogni individuo ha il diritto di conservare per sé. L’ultima fase è il distacco. L’opera che era me, è nata, è fuori di me, l’ho data alla luce, l’ho condivisa, l’ho colorata dei miei significati, mi appartiene, ma su un livello diverso. 40 Me ne posso ora distaccare, perchè mi sono riconosciuta in essa. La sua natura di tramite, di ponte, di testimone di un viaggio, si è compiuta. «L’immaginazione è la più scientifica delle facoltà, perché essa sola comprende l’analogia universale» (C. Baudelaire) Se seguiamo questi passaggi di processo, se ricordiamo la potenza evocatrice del prodotto, diventa molto chiaro che solo un operatore che abbia accolto e sviluppato in se stesso questa area psichica, che l’abbia nutrita con precisi, adeguati, raffinati strumenti, sarà in grado di coglierla e valorizzarla nelle persone con cui lavora ogni giorno. Solo attraverso questo passaggio di esperienza, operativa e concettuale, diretta prima e di elaborazione personale poi, si può attivare la consapevolezza della enorme portata dei processi comunicativi, relazionali ed emotivi che attraverso questo tipo di lavoro si mettono in movimento. E quindi solo su questa base si può articolare la gamma di vastissime possibilità che l’arteterapia apre, dal campo psicoterapico a quello della prevenzione primaria, dalla comunicazione interculturale alla riabilitazione psichiatrica, dalla integrazione sociale alla crescita delle relazioni umane nelle comunità sociali e nei gruppi di lavoro, dalla elaborazione dei conflitti alla formazione del saper essere. Ci vuole una scuola, con tutti i crismi. È proprio su questo pensiero, ormai condensato in forma di progetto, che si è concluso domenica 5 febbraio in Cittadella il secondo seminario di arte terapia, che ha raccolto i contributi di professionisti della psiche, docenti universitari, arte-terapeuti di livello internazionale, e stimolanti conduttori di laboratori esperienziali. Il programma dei lavori – presentato per esteso nel n. 2 di Rocca – ha messo in rete queste conoscenze e queste prassi professionali, ed ha sottolineato l’importanza di un percorso formativo specifico, solido e coerente, che accompagni e sostenga la costruzione di una identità professionale dove si incrociano competenze artistiche, competenze pedagogiche, psicologiche e psicopatologiche, e dove il focus del percorso formativo sia incentrato sulla doppia elica del saper fare e del saper essere. Perché l’arte possa diventare strumento di cura, occorre un’attenta cura del progetto formativo. E una cura attenta della prassi professionale. SBARRE E DINTORNI ingiustizia dell’indifferenza Vincenzo Andraous F inché qualcosa di grave non ci tocca da vicino, potrebbe cadere il mondo, noi ci spostiamo di quel tanto, da non rimanerne coinvolti. Sarà pure un meccanismo di difesa, ma è anche un atteggiamento che incrina la convivenza civile e logora il mantenimento di una coscienza civile non subordinata all’indifferenza di turno. È ciò che ho pensato quando un amico che non incontravo da alcuni anni mi ha raccontato di essere finito in carcere per due mesi. Ho ricordato le sue battute di un tempo, quasi mi veniva da ridere, proprio lui, che in più di una occasione mi aveva ribadito con tono liquidatorio che non avrebbe mai avuto a che fare con il carcere, figuriamoci con i carcerati, ebbene proprio lui ci era finito dentro testa e piedi. Il mio amico ricordava quell’esperienza di offese, di umiliazioni, di dignità svendute a poco prezzo nei metri a perdere perché mancanti, le serrature chiuse a sbattere, le grida e le ristrettezze, la libertà scomparsa e la sopravvivenza concessa con il contagocce. Parlava di uomini diventati invisibili, di catene strette alla vita, di parole al macero, di dialoghi dispersi, di ascolto dimenticato, di un abbandono scelto per non avere altre scelte. Parlava di cose mai viste; purtroppo vissute tragicamente in accezioni che mai possono essere confermate, di filosofie disarmate al punto da apparire «umane, troppo umane» in miserie disumane inenarrabili. Il mio amico parlava ed io pensavo a quanto è importante la Giustizia per i politici che fanno le leggi, per i magistrati che condannano, per tutti gli uomini perbene… tranne che per chi in carcere ne invoca uno spicchio, avendone infranto la parte più alta. Ho pensato a come contenere e incapa- citare non significhi prevenire, tanto meno rieducare, risocializzare, soprattutto non sottenda sperare. Il mio amico balbettava di Dio fatto a pezzi e di Santi costretti alla diaspora, io pensavo ad una equazione e al danno che ne deriva, nella richiesta di una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato lacerato, di contro alla ingiusta e indoverosa esigenza di indifferenza nei riguardi di chi in carcere è obbligato a sopravvivere. Colpevoli e innocenti, per due giorni, per due mesi, per vent’anni, varcano i cancelli di un carcere, opera sgangherata eretta a difesa della vita umana e nell’illusione di migliorare gli uomini, affinché non ritornino a delinquere. Penso che debba esistere, sì, un dazio da pagare, ma in un percorso e in un tragitto per ritornare a essere uomini nuovi. E invece quanti in quelle celle non raggiungeranno alcuna consapevolezza, alcun equilibrio, alcuna conoscenza di se stessi, perché sconosciuti se non distaccati. Mi chiedo allora se c’è attenzione e intervento per chi annega nella propria nevrosi, al punto da arrampicarsi nella psicosi, oppure questo contenitore disturbato chiamato prigione, è dichiaratamente terra di nessuno, dove i numeri sono la somma che conta e non la fatica dell’accompagnare. Sto osservando il mio amico fare ritorno a ciò che resta della sua vita, lo guardo salire in macchina e scomparire oltre la curva, e mi rendo conto di non avere fatto caso ai motivi che l’hanno condotto in una cella, ma la risposta è lì, in superficie. Avevo di fronte una persona, che mi parlava di un tempo e di uno spazio lunghi due mesi, dove il mondo era sprofondato ben al di sotto della sua colpa, del reato che aveva commesso. Ma forse è questa la Giustizia che ci assolve dalla nostra indifferenza. Rosella De Leonibus 41 ROCCA 15 MARZO 2006 TERAPIE sentimento, il mio rapporto con lo spaziotempo e con i limiti, e la qualità di questo rapporto, che attivo qui, adesso, in questa cornice di relazione che cura. C’è poi un’altra fase, in cui la forma che è emersa è ormai una immagine riconoscibile, il gesto cinestesico ha lasciato una traccia comunicante, che esprime per me, ma anche per l’altro. Prendo consapevolezza dell’immagine prodotta, la ripercorro con lo sguardo, vedo cosa il gesto ha prodotto, e il gesto è ancora lì, testimonianza visibile e concreta di me nello spazio e nel tempo condiviso della relazione di cura. Emergono sentimenti: serenità, scoperta, condivisione, gioco, ma anche emozioni più complesse, più difficili da decifrare. Altre volte l’immagine mi parla con chiarezza assoluta, imperiosa. E porta con sé echi lontanissimi. ASCOLTO 42 P festava la sostanzialità del fatto che i genitori avevano una profonda influenza anche nelle scelte matrimoniali dei figli. Negli ultimi decenni invece si impone una visione dei genitori come depositari unici e assoluti dell’educazione dei figli e delle figlie. La famiglia privatizza fortemente l’educazione, anche se poi è costretta in qualche modo a delegare questa stessa educazione a varie istituzioni, ma sempre con un atteggiamento controllante, al punto che i conflitti fra famiglia e istituzioni educative sono oggi all’ordine del giorno. In un certo senso si può dire che c’è una correlazione positiva fra l’assenza dei genitori dal focolare domestico, legata in particolar modo al lavoro femminile, e la volontà di definire in maniera molto articolata e pedissequa l’educazione dei figli e delle figlie. È una situazione che presenta dei tratti quasi paradossali, con i genitori che diventano spesso registi assenti di un’organizzazione perfetta; dove i tempi sono scanditi in modo automatico, senza spazio per la noia, la socializzazione spontanea o comunque la necessità della vita infantile in quanto tale. Non è solo questo. I genitori sono oggi in realtà le figure educative più sensibili ai contenuti pedagogici, più intenzionalmente orientate a dare un significato alle scelte che compiono in funzione dei figli, anzitutto spezzando il meccanismo di continuità genealogica. Sono i libri oppure i consulenti i primi riferimenti dei genitori, non certo la mamma, il papà, i nonni o i bisnonni. L’abbandono della tradizione dei nomi reiterati di generazione in generazione segnala in realtà l’abbandono delle prassi educative reiterate di generazione in generazione. Questo è un nuovo territorio dove va a sperimentarsi una figura genitoriale sostanzialmente inedita a livello storico, che vuole prendersi cura dei figli non semplicemente sotto un profilo materiale né tanto meno sotto un profilo genealogico, quanto nella ricerca della miglior educazione possibile. Nasce quindi una nuova figura di genitore educativo, che può raggiungere i suoi obiettivi se riesce a superare in maniera trasformativa alcuni nodi essenziali e comunque storici di questa sfida. coesione educativa Il primo punto su cui occorre avviare una riflessione parte dalla criticità di questa sfida educativa che vede il padre e la madre separati nelle loro scelte educative, se non a volte addirittura in competizione. Nel momento in cui il padre e la madre interpretano il loro ruolo in maniera inedita e quindi educativa, ciascuno di essi è fortemente propenso a svilupparlo secondo caratteristiche di rapporto privilegiato con il figlio e la figlia, di rapporto diretto, senza mediazioni particolari. Si crea una specie di isolamento, dove ciascuno vive il suo ruolo a prescindere da quella solidarietà educativa che può generare scelte adeguate. La coesione educativa è un fatto imprescindibile, perché implica la necessità di comunicare fra i genitori, la capacità di prendere tempo prima di ogni decisione in modo da poterla adeguatamente definire ROCCA 15 MARZO 2006 ROCCA 15 MARZO 2006 Daniele Novara arlare di genitori educativi appare quasi scontato. In effetti da vari punti di vista i genitori educano, ma è la consapevolezza pedagogica del genitore odierno a segnare la netta separazione con l’identico ruolo genitoriale svolto dalle generazioni precedenti. Fino all’epoca in cui l’autorità aveva una funzione regolativa sostanzialmente assoluta (anni ’60 del secolo scorso) il mondo adulto sosteneva in maniera compatta la funzione dei genitori e delle famiglie nella crescita dei figli, sempre nella logica di un’azione volta a tutelare l’ingresso – sostanzialmente conformistico – dei figlioli nell’età adulta, e quindi nella comunità sociale. A partire dagli anni ’60 questo quadro si è modificato radicalmente. Sono prevalsi i valori della creatività individuale e dell’espressività personale, legati alla possibilità che l’individuo potesse realizzare una strada propria e originale. Basti pensare che ancora fino agli anni ’60 era in uso il costume del «consenso» prima delle nozze, come prassi rituale che mani- metafora del nuovo genitore educativo 43 le regole spazio di libertà ROCCA 15 MARZO 2006 Un’emergenza tipicamente italiana è quella delle regole educative. La difficoltà dei genitori di stabilire regole chiare, sostenibili, sufficientemente consensuali, è sintomatica di una mentalità fortemente basata sulla dipendenza, ossia sullo sgridare e sul rimproverare, che sottintendono la necessità che i figli si adeguino ai genitori a prescindere da un contratto riconosciuto, basato su delle regole chiare e comprensibili. Da questo punto di vista nella cultura italiana la regola evoca oggi la rigidità, la subordinazione e l’autoritarismo, creando pertanto un atteggiamento pregiudizialmente critico e respingente. La regola educativa in realtà segnala la capacità dei genitori di offrire uno spazio chiaro di limiti dentro cui però si possano realizzare delle azioni di libertà. La regola è uno spazio di libertà, perché definisce un campo di azioni possibili e un campo di azioni impossibili. La capacità del genitore educativo si situa quindi prioritariamente nel costruire regole chiare, sostenibili e consensuali, insieme al partner. È un’azione difficile perché proveniamo da una cultura spontaneistica, o meglio fortemente basata sull’as44 sioma per cui i figli devono cogliere gli ordini impliciti dei genitori a prescindere dalla chiarezza con cui sono stati esplicitati. È come se si chiedesse ai figli di avere la capacità telepatica di intercettare i desideri dei genitori stessi rispetto ai loro comportamenti. Nascono situazioni grottesche facilmente immaginabili che necessitano di un cambiamento nell’ordine della predisposizione di un patto educativo chiaro con i figli, basato sulle regole. ascolto come separazione evolutiva L’ascolto è spesso interpretato come una dimensione affettiva, come una dimensione psicologica. Ritengo che il genitore possa fare tanto ma non certo situarsi in un’area psicologica rispetto ai figli, e che l’ascolto non possa essere confuso con azioni di altra natura che necessitano di altre competenze. L’ascolto che offre il genitore ai figli è la capacità di creare una distanza emotiva adeguata che favorisce la separazione evolutiva, ossia la capacità del figlio di sviluppare la propria autonomia, il proprio essere persona originalmente separata dal destino genitoriale. L’ascolto è la capacità del genitore di accettare la profonda differenza dei propri figli, di vivere questo come terreno di trasformazione genealogica, di rinnovamento, e quindi di gratitudine nei confronti dei figli che permettono di acquisire nuovi spazi e nuovi territori. Si tratta di stare nella relazione con un profondo atteggiamento di rispetto della diversità filiale, con una profonda accettazione anche conflittuale della storia che la nuova nascita produce all’interno della famiglia e della collettività. Non è facile in un contesto in cui le istanze simbiotiche diventano sempre più tiranniche, rafforzate anche da una forte dominanza di figli unici, fortemente coccolati, iperprotetti, appiccicosamente riveriti, che giungono a tiranneggiare e a comandare i genitori, come se fosse un elemento normale di questa simbiosi in cui i ruoli finiscono con lo scambiarsi facilmente e drammaticamente. L’ascolto è invece la capacità del genitore di accettare il proprio ruolo e di porre la propria autorità al servizio della crescita originale del figlio o della figlia. Una sfida enorme, storicamente inedita, ma che ci dà la speranza che il cambiamento in corso sia segnato da una profonda adesione alle ragioni di un futuro diverso. Daniele Novara SIMONE WEIL santità laica e marginalità sociale S Giuliano Della Pergola e ancora oggi la figura di Simone Weil (Parigi, 3.2.1909 – Ashford, 24.8.1943) tanto ci affascina, non è per una sua presunta attualità, visto che le aziende industriali stanno chiudendo, e che dunque la sua testimonianza, al pari di altre, è già consegnata alla storia operaia, ma per come ella seppe coniugare la sua vita interiore con i grandi temi del suo periodo, in particolare con quelli dell’oppressione sociale, delle conseguenze del colonialismo, col dispotismo delle tirannie moderne e con quello diffuso, legittimato durante tutta la stagione industriale, dalle macchine produttive e dalle gerarchie d’impresa. La sua presenza nella storia del secolo appena concluso è quella di un’appassionata studiosa che non s’accontentava d’essere una lettrice o un topo di biblioteca: la sua indole era quella derivata dall’esistenzialismo vitale, dal patire nell’intimo per poi trovare le parole per giudicare. Era nata ebrea, ma aveva rifiutato l’ebraismo della famiglia da cui proveniva; forse era cristiana ma restò sempre sulla soglia dei misteri teologici, era stata operaia ma senza tacere delle inevitabili volgarità che vivono tra le persone del popolo. Era stata sindacalista, ma discutendo sempre della natura dei compromessi sindacali; non era marxista, eppure era prossima alle posizioni di Trotzkij. Era anti stalinista e sebbene avesse avuto anche l’opportunità di ospitare Trotzkij a Parigi, il suo fu sempre un rapporto difficile e conflittuale con questo capo della rivoluzione russa. Quando ne parla (raramente per la verità), più che altro è per prenderne le distanze, senza pensarlo come uno stabile punto di riferimento. una moderna figura dell’ebreo errante La Weil fu un’intellettuale, questo sì, una donna in difesa delle donne, ma senza che tale posizione minimamente potesse confondersi con il femminismo: la sua polemica con Simone De Beauvoir, accusata dalla Weil di essere ideologicamente dalla parte giusta, ma sopita tra gli allori dei borghesi, lo sta a dimostrare. Simone Weil interpreta in panni moderni la figura dell’ebreo errante, di colui che non ha casa, che passa per il mondo senza lasciare traccia, ma suscitando una maggiore vita là dove abita. Non è uno che mette radici in qualche posto, perché le sue radici sono altrove, e quest’altrove è forse una terra agognata, o forse solo un’ottica irrituale con cui osservare il mondo, un punto di vista eccentrico, critico e autocritico (lo stesso che impegna il soggetto a svuotarsi completamente e incessantemente di sé, che in sant’Agostino si confonde con la Gerusalemme celeste e nella teologia della rivoluzione con l’Ecclesia pauperum). Ma questi riferimenti, per quanto sfumati possano essere, sono già tuttavia impropri. Era nata a Parigi nel 1909. La sua vita sarebbe stata breve, solo una meteora. Sarebbe morta nel Kent a trentadue anni, dopo avere visto salire al potere Hitler e dopo avere lucidamente intuito il conflitto che si sarebbe aperto in Europa tra le democrazie e le dittature. Era una democratica e una francese, ma 45 ROCCA 15 MARZO 2006 ASCOLTO con il partner. In una logica di forte compiacenza il genitore tende invece a dedicare tempo direttamente ai figli e a mettere in secondo piano la necessità di un dialogo serrato con il coniuge – anche separato – nella ricerca delle regole, delle decisioni, delle prospettive migliori di crescita per il proprio figliolo. È una situazione che genera ovviamente una forte sofferenza. Ad esempio i genitori separati sono spesso convinti che non si possa avere coesione educativa; in realtà altrettanto spesso si trovano coppie di genitori separati che paradossalmente riescono ad avere più coesione educativa delle stesse coppie coniugali in quanto maggiormente in grado di capire l’importanza – specialmente di fronte a figli preadolescenti e adolescenti – di avere posizioni educative comuni. La coesione educativa è un appuntamento prioritario per i nuovi genitori. Occorre dedicarci tempo, in modo che le decisioni educative siano assunte in termini di coppia, a meno che uno dei due genitori deleghi all’altro le proprie funzioni, ma questo da vari punti di vista non è auspicabile: diminuisce la ricchezza della coppia genitoriale. SIMONE WEIL la linea del male ROCCA 15 MARZO 2006 Quanto al libro sulla Germania, esso venne scritto dopo un viaggio a Berlino nel 1932, qualche mese prima che Hitler prendesse il potere nel gennaio del 1933. È un libro a tesi: «un filone del male» attraversa la storia. Inizia con la crudeltà feroce e senza remissione dell’impero romano, per proseguire con la creazione dello Stato moderno (il card. Richelieu), con Napoleone per infine approdare al nazismo tedesco (pag. 243). Scritto quando i movimenti hitleriani già si permettevano un linguaggio politico ignoto alla tradizione tedesca, per quel loro atteggiamento squadrista, violento, sfrontato, pieno di un vitalismo debordante, allusivo di un ordine politico fondato sulla razza, sul territorio e sul capo, Sulla Germania totalitaria compie una diagnosi impietosamente perfetta di quanto stava succedendo nella patria di Beethoven. Quella stessa perfidia dei romani, la stessa asprezza sferzante e violenta, la stessa aggressiva spietatezza nel soggiogare con attacchi a sorpresa i popoli (e, una volta vinti, renderli politicamente marginali e deprezzati), nei movimenti nazisti si trovano talmente evidenti da fare credere che Hitler abbia «copiato» Cesare. Per i romani un nemico vinto era un colpevole da punire. In ciò la categoria teorica «greco-romana» 46 è tutta da rivedere. Più nessun confronto è possibile tra i greci e i romani, così come una violenta discontinuità sarebbe sorta tra l’impero romano e i comuni dell’Italia medioevale, nessun confronto è possibile tra le popolazioni germaniche arcaiche e il movimento nazista. L’impero dei cesari consacrava a norma la forza, la spietatezza e l’oltraggio dell’altrui sovranità. Questi stessi programmi politici pervadevano i movimenti nazisti prima della presa del potere, e Simone Weil capisce l’epilogo quando la scena era solamente agli inizi. Simone Weil sarebbe morta prima di vedere il precipizio in cui il pensiero nazista s’era infilato, ma in compenso tutta la parte finale della sua vita fu intimamente intaccata dalla brutalità di Hitler vittorioso. Lei lucidamente aveva previsto fin dove avrebbe portato il compimento della «linea del male». Charlot e Tempi moderni Su La condizione operaia bisogna ricordare innanzi tutto che questo «libro-diarioepistolario» venne scritto durante gli otto mesi in cui lei si fece operaia. Si trattò volontaristicamente di una scelta compiuta dalla Weil per comprendere dal di dentro la condizione di vita in fabbrica. Il suo metodo d’indagine, dall’interno e dal basso, fu sempre quello della testimone in prima persona. Non solo mai s’accontentò dei «si dice», ma neppure degli studi dei sapientoni che analizzavano la condizione operaia soltanto dall’esterno. Scelse di farsi lei stessa parte di una categoria sociale cui non apparteneva né per nascita, né per educazione. In questo tratto sta la verità della sua scrittura e anche il motivo del perché quanto lei scrisse rappresenta ancora per noi una rara testimonianza. Soleva raccomandare che s’andasse a vedere Tempi moderni, il film di Chaplin uscito in quel periodo. Ripeteva che Chaplin aveva spiegato meglio di tutti il dominio della macchina sull’operaio, la subordinazione di quest’ultimo ai ritmi produttivi; era rimasta folgorata dalla metafora della macchina che s’ingoia Charlot, che lo stritola nei suoi sordi meccanismi. Questo della subordinazione dell’uomo alla macchina fu per lei una delle tre chiavi con cui leggere la condizione operaia. Le altre due furono a) l’esagerata rilevanza nell’azienda della burocrazia e, b) la presenza dominante e asfissiante del padrone, soprattutto attraverso la presenza dei cronometristi. Pagine straordinarie scrisse sulla propria incapacità di tenere il ritmo degli ottocento pezzi all’ora previsto per il ruolo che svolgeva nella fabbrica. A mala pena riusciva a produrre la metà del previsto e, cottimista, di conseguenza aveva una paga ridotta proporzionata a quel che riusciva a fare. Le sue mani da intellettuale non possedevano la forza di quelle degli operai, mentre invece la sua testa s’andava svuotando del suo amato greco, della letteratura e dei riferimenti storici e tutto in lei s’inoltrava nel mondo della produzione che le appariva quello di automi destinati a vendersi. La più ridotta paga quindicinale si trasferiva poi in modeste possibilità di mangiare adeguatamente e di abitare decentemente. Il degrado iniziò a impossessarsi di lei, mettendo in evidenza tutta la verità delle differenze di classe. Quell’affievolirsi delle associazioni mentali, quella perdita della memoria intellettuale che è necessaria all’operaio per potere «produrre bene senza pensare» era l’inverso del suo canone morale. E forse proprio questo fu il passaggio decisivo per cogliere il senso della sua scelta. Volle dimostrare a se stessa e ai lettori dei suoi libri che le classi sociali non sono un’astratta condizione di vita inventata per spiegare i mali del capitalismo, ma precisamente la condizione pratica, quotidiana e materiale, di milioni di persone e quelli che parlano degli operai senza avere mai fatto l’esperienza di fabbrica, necessariamente, ne restano esterni, separati. Sindacalisti e operatori sociali, sociologi e intellettuali di sinistra tutti compresi. pellegrina dell’Assoluto Franco Ferrarotti, fin dal titolo del suo eccellente volume dedicato a Simone Weil (edizioni Messaggero di sant’Antonio, 1996), identifica il senso del suo agire nel mondo: la chiama «pellegrina dell’Assoluto» e sembra a me che nessun’altra defini- zione possa essere altrettanto precisa. Quel suo andare verso una fede pura ed intoccata dalle religioni, verso una «religione senza dogmi» e quindi radicalmente priva d’ogni proiezione umana su Dio, rende il cammino interiore di Simone Weil depurato da mille polemiche ideologiche. Lei attuò, soffrendola nella sua carne, tutt’intera la lezione di K. Barth relativa alla necessaria contrapposizione tra fede e religione. In questo senso scrissi più su che la Weil era anche prossima al pensiero di sant’Agostino (da cui invece per tanti altri versi se ne sarebbe distaccata). Ma decisivo sarebbe stato capire il suo distacco dall’ebraismo e il suo limitarsi a restare sulla soglia del cristianesimo. Si separò dall’ebraismo della sua famiglia perché pensò che «gli ebrei hanno chiamato la propria anima Dio, fingendo e persuadendosi che essa aveva creato e governava il cielo e la terra» (Quaderni, volume 4, Adelphi 1993, pag. 244). La sua passione per Gesù invece rimane un confronto diretto, da anima a anima. Scrive: «Il Cristo ha respinto la tentazione del diavolo che gli offriva i regni di questo mondo. Ma la sua sposa, la Chiesa, ha ceduto ad essa. Le porte dell’inferno non hanno prevalso contro di lei?» (Quaderni, volume 4, pag. 347). Come Clitennestra, la Chiesa è sposa, usurpatrice e adultera, preciserà più avanti. Quando la fede produce lo spazio del consenso sociale e diventa legame tra appartenenti ad una stessa comunità, è la natura della fede che già viene meno: Barth torna a pronunciare la sua tesi. Senza la contrapposizione tra fede e religione, è la fede che viene deprivata della sua più pura natura, mentre la religione si trasforma necessariamente in perbenismo sociale a fini integratori. Svuotarsi di sé per fare apparire la verità nella sua pienezza, si direbbe essere questo l’insegnamento morale più alto di Simone Weil, alla cui umile testimonianza è importante rifarsi, soprattutto quando i rigurgiti integralisti dei tempi più bui tornano sulla scena della storia. ROCCA 15 MARZO 2006 invano in lei si troverebbe del nazionalismo o, peggio, il benché minimo accenno alla difesa della politica colonialista della sua patria. Semmai, all’inverso, la Weil fu una furente, accanita, violenta critica della storia francese. Era sempre all’opposizione in ogni situazione, ma senza mai tirare fuori la grinta dell’oppositrice ad ogni costo. Di tutta la sua opera, grande parte sotto forma di Diari e Quaderni, e per lo più composta da scritti brevi, concisi, molto stringati, quasi che alla sua scrittura dovesse applicarsi lo stesso rigore ascetico della sua esistenza, a parere mio due sono i libri più importanti: quello Sulla Germania totalitaria (Adelphi 1990) e La condizione operaia (Mondadori 1952, poi negli Oscar 1990. Traduzione di F. Fortini). Giuliano Della Pergola 47 ROCCA 15 MARZO 2006 logos e mithos Ora – ed è questa la novità radicale della riflessione di Blumenberg – noi ci costruiamo un mondo comune ricorrendo sia a descrizioni che a narrazioni. Nel primo caso utilizziamo strumenti logici (concetti, deduzioni, principi, tassonomie, leggi, teorie), nel secondo caso strumenti mitici (simboli, figure, allegorie, storie, immagini e soprattutto metafore). Diversamente dalla tradizione razionalistica che interpreta gli sviluppi del pensiero occidentale come il progressivo affrancarsi del logos dal mithos e della verità dall’errore, Blumemberg considera logos e mithos come due discorsi dotati di pari dignità, destinati a integrarsi più che a escludersi. Basta sfogliare uno dei suoi lavori dedicati alle metafore per rendersi conto dei numerosi, imprevedibili, modi in cui logos e mithos si implicano. Un mito può generare una teoria, e una teoria precisare, sviluppare, portare a compimento un mito. Un concetto 48 MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO Hans Blumenberg la costruzione di un mondo comune può essere illustrato tramite una metafora ma anche nutrito, integrato, ripensato a partire da una metafora. La loro differenza non è logica ma morfologica. Riguarda non il contenuto di verità che esprimono ma la forma con cui parlano della realtà e la organizzano in costrutti dotati di senso. In un suo libro, intitolato Naufragio con spettatore, Blumenberg ha dimostrato che uno dei temi ricorrenti della filosofia e della scienza, quello della sfida dell’uomo all’ignoto e al pericolo, può essere trattato non solo in modo astratto, ma anche con la concretezza e la vivacità della metafora lucreziana del mare in tempesta che spaventa e nello stesso tempo seduce l’osservatore esterno. Una metafora, continuamente ripresa e rivisitata, che parla della costitutiva finitezza dell’esistenza ma anche del desiderio, se non della possibilità, di trascenderla. Ebbene, proprio le metafore non sono concetti di serie B, vie secondarie e imperfette di conoscenza del mondo, inganni della ragione che, secondo un’ingenua visione illuministica, la scienza sarebbe destinata prima smascherare e poi a spazzare via. Anche se non nascono dall’esperienza, le metafore «creano esperienza». Anzi possono mostrare, raccontare, rivelare molto più di quanto i concetti, legati alla realtà, riescono a descrivere. E a differenza dei concetti, che hanno un solo senso, le metafore ne hanno molti e questa moltitudine semantica, lascia intendere Blumemberg, non costituisce un difetto dell’attività riflessiva e rappresentativa ma la sua ricchezza, la sua forza, la sua estensione di fronte alla povertà e all’insufficienza di senso del mondo. Da qui un’interrogazione rivolta a ridiscutere la vocazione stessa dell’indagine filosofica e ad allargarne il campo sino a comprendere i prodotti della ragione e quelli dell’immaginazione, il vero e il verosimile, la logica del pensiero e quella della fantasia, il discorso della scienza e quello della letteratura, della poesia, dell’arte, del mito. Quello della filosofia, sulla scia di Gadamer e di Cassirer, diventa un lavoro di analisi delle forme simboliche e dei concetti a partire dal contesto che li ha generati perché le espressioni culturali, si tratti di teorie o miti, non sono assoluti extrastorici, evidenze della ragione ma elementi di dialogo e di accordo intersoggettivo. Il mondo è quello che, di generazione in generazione, di epoca in epoca, viene descritto e raccontato, non è un insieme di fatti ma un insieme di interpretazioni di cui la più adeguata è quella più condivisa, più radicata, più resistente: cioè l’interpretazione che è diventata una tradizione. il libro come metafora Stefano Cazzato A tal proposito, prezioso e affascinante è lo sforzo ermeneutico condotto da Blumenberg ne La leggibilità del mondo, dove ha analizzato il problema della conoscenza umana attraverso la metafora itinerante del libro: prima il libro di Dio, poi il libro dell’universo e infine il libro dell’uomo. In epoca medievale, definita dalla teologia e dal principio di autorità, si poteva leggere il mondo attraverso gli occhi della Bibbia, a partire dalla rivelazione. In epoca moderna, definita dalla scienza e dal principio della laicità e della libertà della ricerca, si inizia a leggere il mondo con gli occhi della natura, a partire dai suoi stessi principi i quali, se correttamente indagati, sono in grado di rivelarci verità di fronte alle quali i libri scolastici impallidiscono. In epoca romantica, definita dalla storia e dal principio dell’azione, il mondo viene letto attraverso le scelte, le decisioni, la capacità degli uomini di costruire il proprio destino. Tre metafore che stanno per altrettanti scrittori, lettori, percorsi di conoscenza, epoche, realtà, paradigmi epistemologici, interpretazioni. Tre metafore, ciascuna delle quali ci racconta il mondo in un modo diverso, facendoci scoprire da un’angolazione quello che da un’altra è nascosto o negato. Un’ulteriore prova della fecondità del mito quale generatore e moltiplicatore dell’esperienza conoscitiva del soggetto che resta, tuttavia, legata a una prospettiva, a un orizzonte limitato, al punto da cui si guardano le cose e al modo con cui si guardano. Come ha scritto Blumenberg in Tempo della vita e tempo del mondo «l’uomo è soltanto un episodio del mondo», il tempo della sua esistenza è ridicolo se paragonato a quello dell’evoluzione e della storia. Che egli «acquisti conclusivamente la conoscenza e possegga istantaneamente la verità» è una possibilità che non esiste. Più realisticamente la conoscenza a cui può ambire somiglia a quella degli uomini prigionieri nella caverna platonica: accontentarsi di immagini, di figure, e sperare, soltanto sperare, che, al di fuori della caverna, esista un mondo vero e ideale. Stefano Cazzato Bibliografia Paradigmi per una metaforologia, Bologna, 1969 La leggibilità del mondo, Bologna, 1984 La realtà in cui viviamo, Milano, 1987 Elaborazione del mito, Bologna, 1991 Il futuro del mito, Milano, 1992 La legittimità dell’età moderna, Genova, 1992 Passione secondo Matteo, Bologna, 1992 Tempo della vita e tempo del mondo, Bologna, 1996 Naufragio con spettatore, Bologna, 2001 Concetti in storia, Milano, 2004 ROCCA 15 MARZO 2006 H ans Blumenberg (Lubecca 19201996) è stato professore di filosofia in molte università tedesche tra cui Amburgo e Munster. Studioso di retorica, ritenuto il fondatore della metaforologia (la scienza delle metafore viste non tanto come ornamenti del discorso ma come strumenti del pensiero), la sua opera si sviluppa attraverso un confronto serrato con la fenomenologia husserliana ed approda a una critica della conoscenza come rispecchiamento obiettivo e diretto della realtà. Tra l’uomo e il mondo esiste, secondo Blumenberg, un rapporto mediato dal linguaggio al punto che il mondo, per dirla con Aristotele, «è ciò di cui tutti siamo convinti». Il contenuto di questa convinzione, però, non è scontato e apriori ma costruito attraverso procedure retoriche di negoziazione il cui fine è quello di realizzare il più ampio accordo possibile tra gli esseri umani. Il mondo si dà e si rende comprensibile nelle diverse elaborazioni linguistiche e culturali che gli uomini hanno creato nel corso del tempo. E sulle quali hanno raggiunto un così alto grado di condivisione da farle sembrare quasi naturali. In realtà nulla può nascondere il carattere storico e provvisorio di queste produzioni che sono il risultato di una mediazione ottenuta attraverso il confronto e la persuasione. La retorica, scrive Blumenberg ne La realtà in cui viviamo, «è la faticosa produzione» di concordanze e comunanze per far fronte proprio alla mancanza di un’intesa originaria. Codici comuni vengono prodotti per orientarsi in un mondo che difetta di significati stabili e oggettivi. La cultura provvede a creare un consenso precario per sopperire al nonsenso sostanziale della natura. 49 verso Sibiu L un momento non facile del dialogo ROCCA 15 MARZO 2006 Maurizio Di Giacomo 50 a prima tappa del pellegrinaggio ecumenico, tenutasi a Roma dal 24 al 27 gennaio 2006, su iniziativa congiunta del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee) e del Consiglio delle Chiese– Kek – (che raccoglie le varie denominazioni protestanti e gli ortodossi), in vista della terza assemblea ecumenica europea a Sibiu (Romania) nel settembre 2007, ha confermato il momento non facile che vive il dialogo ecumenico. La partecipazione è stata qualificata: 150 tra delegati e delegate da 44 nazioni, aldilà dei confini istituzionali dell’attuale Unione Europea a 25, che proprio nel 2007, dovrebbe salire a 27, se Bulgaria e Romania vi saranno ammesse. Il cardinale Camillo Ruini nella sua qualità di presidente della Conferenza Episcopale Italiana ha invitato le tradizioni religiose lì presenti a una maggiore convergenza per dare più forza allo slancio missionario, in un’Europa, a suo avviso, troppo incline al «secolarismo». In un tale contesto ancora Ruini ha invitato a fare i conti con la realtà dei musulmani in Europa, in crescita e destinata a pesare, fra l’altro, sul versante dei «matrimoni misti» (cattolici-musulmani), rispetto ai quali nel corso del 2005. Una nota della commissione episcopale per il dialogo e l’ecumenismo ha invitato a atteggiarsi con molta prudenza, viste anche le differenze tra il diritto matrimoniale italiano e quello di matrice islamica sul tema della famiglia. Gianni Long, presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) ha tracciato un minibilancio della collaborazione tra cattolici e chiese della Riforma in Italia. Con luci nel comune interessamento a immigrati/te e ai rifugiati, con ombre legate al dibattito sul referendum circa la legge sulla procreazione medicalmente assistita svoltosi il 12/13 giugno 2005. Il vescovo svizzero mons. Amedeo Graab, attuale presidente del Ccee, pur usando toni soffici, ha sottolineato che un salto di qualità nell’ecumenismo in Europa non può poggiare solo sulla buona volontà dei singoli e delle «reti» che ogni giorno contribuiscono a radicarlo. «È molto rischioso – ha affermato – stare nella contrapposizione verità o dialogo, verità o amore. Non possiamo illuderci di essere noi, con le nostre forze a essere capaci di portare avanti il dialogo ecumenico. Ma per il Risorto tutto è possibile». Il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio Consiglio per la promozione dell’unità tra i cristiani, ha messo in guardia nei confronti di un dialogo ecumenico dispersivo: «Oggi a volte non sappiamo più cosa dobbiamo volere, corriamo il rischio di andare in troppe direzioni con la conseguenza di trovarci più lontani di prima». Kasper, osservato che un pizzico di «disincanto» può giovare all’ecumenismo, ha concluso: «Occorre lavorare in modo pulito e puntare sulle convergenze». tre priorità Nella sostanza sulla medesima linea è apparso il vescovo evangelico luterano Margot Kassmann, da alcuni anni decano di una chiesa in Svezia, quando ha invitato le chiese cristiane europee a «rafforzare la fede» in un continente descritto come poco ospitale: «Molti non conoscono più la Bibbia, i bambini non vengono più educati a credere, i giovani sono disorientati». Jean Arnold De Clemont, presidente del Kek e della Federazione protestante di Francia ha indicato tre priorità. Prima e «la più importante è la sfida della secolarizzazione del mondo contemporaneo di fronte alla quale le Chiese devono rispondere insieme». «Spesso si perde troppo tempo – ha proseguito – a lavorare sulle sfumature ecclesiologiche mentre diventa sempre più urgente approfondire la teologia biblica e il modo in cui i cristiani possono mettere in pratica la Parola di Dio». Seconda priorità «mettere in pratica con l’approfondimento teologico e spirituale e con l’impegno sul versante sociale i temi messi in agenda dalla Carta Ecumenica firmata dalle Chiese a Straburgo nel 2001». Terza priorità «Superare le frontiere. Siamo trop- l’approfondimento dei temi della Carta Ecumenica del 2001. A Sibiu – ha anticipato mons. Aldo Giordano – «puntiamo come obiettivo massimo a elaborare una ‘dichiarazione’ indirizzata alle chiese in Europa e al mondo intero. Non abbiamo di fronte a noi il compito di scrivere una nuova Carta Ecumenica». Quell’assemblea in Romania, nell’anno che Sibiu sarà «capitale europea della cultura», in un contesto a maggioranza ortodosso, conta di toccare 3000 tra delegati e delegate, il livello più alto rispetto alla prima assemblea ecumenica europea a Basilea (1989) e a Graz (Austria) nel 1997. i dubbi Dopo la descrizione della prima tappa di questo «pellegrinaggio spirituale» i dubbi. Come mai la rappresentanza del dialogo ecumenico in Italia, in questo convegno, nei fatti è apparsa ristretta alla Comunità di S. Egidio e all’esperienza del Movimento dei Focolari? Tra i delegati ufficiali al convegno figurava don Marco Gnavi, santegidino e da alcuni anni responsabile dell’ufficio per il dialogo e l’ecumenismo della diocesi di Roma. Nell’ambito del convegno è circolato in maniera abbondante il numero speciale del settimanale «Città Nuova», espressione del Movimento dei Focolari dedicato all’incontro tenutosi a Stoccarda nel 2004 (era stato presente anche Romano Prodi in quel momento ancora commissiario dell’Ue) e massicciamente promosso dal movimento fondato da Chiara Lubich. Senza dimenticare che lo stesso mons. Aldo Giordano è un focolarino. Nessuna traccia invece di un organismo come il Segretariato per le Attività Ecumeniche (Sae) che spesso riflette su temi ecumenici spinosi. Al momento conclusivo si è affacciato don Gianni Novelli, animatore del Centro interconfessionale per la Pace (Cipax) di Roma: a titolo di curiosità o abusivo? In fondo alla sala del convegno un minuscolo opuscolo con un mini-organigramma della conferenza episcopale e degli enti cattolici attivi in Turchia. E proprio dalla Turchia è arrivato con l’assassinio a Trebisonda di un missionario italiano don Andrea Santoro, attento al dialogo con l’Islam locale, un segnale che non può essere ignorato per il futuro: il dialogo ecumenico e interreligioso, se preso sul serio e messo soprattutto in pratica, può incrociarsi con la coordinata estrema del mettere in gioco la propria vita, sessantuno anni dopo la sconfitta e il crollo del regime hitleriano e nazista in Germania. ROCCA 15 MARZO 2006 ECUMENISMO pi chiusi nei nostri ambienti ecumenici nazionali. Dobbiamo invece entrare in rete e invitare i cristiani d’Europa ad incontrarsi, a conoscersi, a lavorare insieme». Il 24 sera tutti i delegati/e hanno partecipato ai vespri nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, a Roma e a un successivo momento conviale offerto dalla Comunità di S. Egidio. I lavori di approfondimento nei vari gruppi fino alla conclusione del 27 gennaio all’ora di pranzo si sono mossi nel solco del contributo redatto da Sarah Numico, collaboratrice di mons. Aldo Giordano, segretario del Ccee e da Vlorel Ionita del centro studi del Kek che hanno illustrato il percorso tematico che condurrà in Romania, dopo una seconda tappa prevista per il febbraio 2007, in Germania, in un comprensorio a forte tradizione luterana-evangelica. La prospettiva di avvicinamento a Sibiu è stata sintetizzata nel contributo sopra richiamato in sette punti. Appello «all’unità nella fede», partecipare alla costruzione dell’Europa «al fine di evitare l’eurocentrismo o l’utilizzo abusivo della religione nei confronti politici, etici o nazionalisti». Essere presenti dentro il crescente fenomeno delle «migrazioni» che stanno rimescolando le basi sociologiche delle stesse chiese. Salvaguardare la creazione, in vista di uno sviluppo socialmente sostenibile e condiviso mettendo in campo, a fini di sensibilizzazione, «il simbolismo liturgico e i costumi cristiani». Coltivare «il dialogo con l’Islam» mossi dalla convinzione dell’«assoluta necessità di un dialogo interreligioso e interculturale considerato e invocato come incontrovertibile per preservare la pace nel mondo». Agire in Europa non smarrendo la consapevolezza che essa è immersa nella «mondializzazione». Uno scenario destinato a crescere e dentro il quale le chiese possono porsi come «riserva critica» in virtù del proprio patrimonio etico per evitare che il mondo diventi sempre più piccolo ma solo per realizzare maggiori guadagni e profitti. I due diversi momenti di contatto con Benedetto XVI il 25 pomeriggio, a San Paolo fuori le Mura sulla via Ostiense, al termine della settimana di preghiere per l’unità dei cristiani e l’udienza privata del 26 mattina in Vaticano, si possono riassumere in due indicazioni: proseguire nell’ecumenismo spirituale e continuare a pregare Dio perché sostenga i cristiani nel lungo cammino per giungere alla piena unità. Il che significa arrivare a celebrare l’eucarestia insieme salvaguardando la specificità della propria tradizione religiosa di provenienza. Una «lettera ai cristiani» diffusa al termine dell’incontro ha invitato a proseguire nel- Maurizio Di Giacomo 51 il Cristo inedito del Regno ROCCA 15 MARZO 2006 Arturo Paoli 52 on sono un habitué della Tv, ma anche senza volerlo, in casa di amici l’occhio si scontra con uno schermo televisivo. Mi pare di avere sentito la parola odio nel linguaggio politico. Mi ha colpito il vocabolo «odio» che è rimasto fisso nella mia mente e non è stato travolto nella corrente di altre notizie e continua a martellarmi. Ricordo una lontana udienza in cui Pio XI faceva riflettere i fucini (universitari cattolici) su questa parola odio, troppo usata negli ambienti fascisti. Con il suo indimenticabile metodo di girare intorno faticosamente ad un concetto spinto dal bisogno di farcelo assimilare, faceva scoprire quanto di antievangelico contiene questa parola. Il pensiero di essere ricevuti in udienza ci metteva nell’attesa quasi ansiosa per la rarità di assistere quasi ad una apparizione non concessa a molti, e uscivamo con l’impressione di avere assistito a una seria lezione universitaria: gli inglesi non sono persone da odiare, il capo dello stato vuol mettere la gioventù in assetto di guerra, e la guerra è contro Dio. Eravamo pochi all’università in quel tempo a portare questo divieto, quasi un’obiezione di coscienza: un cristiano non può, non deve odiare, anche se l’odio pare un ingrediente necessario per assicurare la vittoria sull’avversario. Eppure il verbo misein ricorre spesso nella bibbia e nel vangelo e mi ci sono indugiato nel tempo natalizio. «Nessuno può servire due padroni perché, o amerà l’uno e odierà l’altro, oppure preferirà il primo e disprezzerà il secondo. Così non potete servire nello stesso tempo Dio e i soldi» (Mc 6,24). Nell’ebraismo il sentimento o il pensiero non sono mai separati dall’azione, dalle scelte concrete. Non si ama e non si odia solo con il cuore inteso come centro dei sentimenti, ma con le mani, con i piedi, con tutto l’essere. Io ho molti soldi ma sono staccato dai beni della terra è un discorso al quale Gesù e uno del suo tempo N e della sua razza direbbe: non lo capisco. Tu non sei le tue mani, le tue gambe, la tua testa? Ricchi di soldi e di molti soldi e poveri di spirito è una trovata umoristica che cerca di ingannare lo Spirito Santo. Come chi raccomanda come un buon cattolico uno che accumula e distribuisce il denaro come si trattasse di un gioco alla roulette. Mentre l’inverso è un fatto molto serio: si può essere poveri di soldi e non di spirito. In questo senso il cardinale Lercaro nel 1964 esprimeva l’esigenza di una povertà culturale della chiesa come rinunzia al geloso possesso di un sistema culturale costruito e chiuso. andarci piano con le intenzioni Già che odio e amore ci hanno messo sulle tracce del vangelo, che è il luogo migliore per riflettere su due sentimenti della nostra esistenza, si può ripensare al denaro come oggetto di odio e allo stesso tempo di amore. Un passaggio del vangelo di Marco riportato anche da Luca, coglie Gesù seduto presso il luogo di raccolta del denaro offerto al tempio. Dall’ostentazione con cui i ricchi tirano fuori dai loro mantelli il copioso denaro si scopre che questo denaro è superfluo, mentre quello spicciolo della vedova è il simbolo stesso della sua vita. Non è chiaro in queste parole il giudizio di Dio sul denaro? O è simbolo di vita o di morte. O contiene la soddisfazione dei bisogni essenziali dell’essere umano o è vuoto di senso, superfluo e reclama un senso qualunque, può servire per le armi, per un oggetto di consumo, o lo faccio crescere a dismisura, così diventa molto simile a un tumore, energia che uccide. La conclusione è che il denaro non è nulla, una foglia secca che si stacca da un albero come pensano molti religiosi e se dà la vita o la morte contiene odio o amore, sterminio o crescita vitale. Quindi un consiglio da impartire a coloro che usano la parola odio come arma politica è di andarci piano, perché Gesù pensa da il Regno che diviene L’esteriorità è presentata nel vangelo come il Regno di Dio. Platone, Aristotele e tutto il pensiero occidentale disceso dai greci fondatori hanno offerto l’impianto alla riflessione teologica da cui parte una cristologia che ha isolato la persona di Gesù dal suo progetto storico temporale, che costituisce il vero centro della buona notizia sotto il nome di Regno di Dio o regno dei cieli. Così più che sulla vita di Gesù nel tempo con noi e fra noi il pensiero teologico si è fermato sul crocifisso e sul Resuscitato. Gesù espiatore del peccato piuttosto che costruttore del Regno nel tempo. L’identità del verbo incarnato separato dal progetto Regno è uno dei tanti prodotti del dualismo separatista, fenomeno tipico della nostra cultura occidentale. Per cui è possibile parlare di odio e di amore come sentimenti soggettivi indipendenti dagli atti. Un soggetto di operazioni bancarie che sono la causa diretta della fame e dello sterminio di milioni di esseri umani può sentirsi e proclamarsi fedelissimo figlio di Dio e della chiesa. Uno stratega di guerre di sterminio che sogni armi di potere distruttivo sempre maggiore, può partecipare ai funerali di un papa pensando che al massimo gli tirerebbe un orecchio come a un monello un po’ troppo vivace, ma in fondo in fondo capirebbe i suoi eccessi perché la paura di un’arma invincibile è la sola che può scoraggiare il sorgere di rivoluzioni. L’onnipotente Re della gloria è sullo sfondo di una verità fatta contenuto di potere e talvolta di prepotenza. Queste conseguenze che in sintesi allontanano sempre di più l’avvento della pace hanno svuotato la filosofia dell’essere, fino al punto da cancellarla come ipotesi della storia e hanno gettato discredito sul cristianesimo come proposta di pace. Il nuovo indirizzo del pensiero occidentale sarà sicuramente l’impianto di una cristologia centrata sul Regno. Il Cristo non solo annunziatore del Regno ma egli stesso fatto Regno di Dio: Cristo – Regno di Dio – verità presente nel tempo – verità che diviene. Verità nella carne del Figlio e verità nella carne di coloro che come il beato Charles De Foucauld scoprono la verità nella vita. Verità che è amorizzare il mondo e lo mettono in preghiera semplice, espressione del vero bisogno umano. Fa di me ciò che ti piace (De Foucauld), fa di me strumento della tua pace (Francesco di Assisi). Un laico che vorrebbe potersi dire cristiano, Alberto Asor Rosa, si rivolge a quelli che vorrebbero un Cristo universale ma lo trattengono prigioniero in una cella, e mantengono strette le chiavi: «sarebbe ora che qualcuno lo staccasse di lì – cioè dalla croce – per rimetterlo sulla terra e curargli le piaghe delle mani e dei piedi. Ciò di cui abbiamo bisogno è questo semplice gesto umano, un gesto di gratificazione e di risarcimento. Il giorno in cui fossimo in grado di riumanizzare il Cristo avremmo cominciato finalmente a estinguere la storia dell’occidente in quella del mondo e non viceversa» (1). Parole profetiche in sintonia con quelli che attendono l’alba di una umanità fatta capace di accogliere il Cristo e di camminare con Lui verso una comunità umana guardata dallo sguardo sorridente del Padre. ROCCA 15 MARZO 2006 CERCATE ANCORA ebreo e non da greco: è vero che giudica a partire dalle intenzioni, ma non coglie mai le intenzioni separate dai fatti. Questa separazione è stata possibile per noi occidentali discendenti dai greci per molti secoli, fino ad oggi, spingendo alla sua ultima conseguenza una tendenza schizoide che ha svuotato, come un tarlo nel legno, religione e pensiero. I responsabili della nostra chiesa non possono tardare ad accogliere l’esortazione del cardinale Lercaro. Non è vero che la rinunzia a una certa ricchezza rappresenterebbe una rinunzia alla verità, ma metterebbe allo scoperto tutto il senso contenuto nella umanizzazione della verità proposta dal vangelo. Io sono la verità e con queste parole Gesù annunzia che quando la verità si stacca dalla carne dell’uomo impazzisce. Anche la verità separata dall’esistenza concreta diventa un’arma di oppressione, ha autorizzato i roghi, condannato uomini di pensiero, spesso ‘poveri giusti’ (Dante), e chiuso le porte alla profezia. L’idolatria di mercato instaurata dalla globalizzazione è l’attacco più feroce che sia stato sferrato contro l’umanità, per cui le parole circolano fra noi svuotate di contenuto. Non vedo altra salvezza di quella proposta dal vangelo che crea un unico centro teologico – antropologico che è raccolto nell’identità di Gesù, che si definisce come la via, la verità, la vita. Arturo Paoli (1) A. Asor Rosa, Fuori dall’occidente, Einaudi, Torino, pp. 125. 53 libertà di ricerca e stile di verità ROCCA 15 MARZO 2006 Carlo Molari 54 l breve ricordo della Costituzione pastorale del Concilio (Gaudium et spes) presentato nel numero 1 «Scienza e linguaggio nella Gaudium et Spes» ha potuto solo sfiorare le sue ricchezze dottrinali. Ci sono altri aspetti che meritano un minimo accenno, perché rappresentano indicazioni feconde per il futuro della Chiesa. Credo, infatti, sia riconosciuto da tutti che la Gaudium et spes è rimasta ai margini dell’attenzione e delle scelte concrete delle comunità ecclesiali. Erick Borgman, un laico domenicano fiammingo, ha parlato de Il futuro mancato di un documento rivoluzionario (Borgman E., Gaudium et Spes: in «Concilium» 41 (2005) n. 4, pp. 64-75 [554565]). Egli sostiene che «Nell’assimilazione del concilio Vaticano II, la rivoluzione teologica significata da Gaudium et spes sembra aver avuto ben di rado un’effettiva rilevanza» (p. 69). Credo che sia utile riflettere su questo ritardo. Richiamo, come esempio, il tema della libertà di ricerca e il corrispettivo stile di verità nella chiesa. Il numero 36 della Costituzione pastorale esamina il problema della libertà, necessaria alla ricerca della verità. Vi si dice: «Molti nostri contemporanei… sembrano temere che, se si stabiliscono troppo stretti legami tra l’attività umana e la religiosa, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze». Ma, continua il testo, non vi è ragione di timore perché «la ricerca metodica in ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio». La redazione stessa di questo numero è la prova delle difficoltà esistenti nella chiesa in merito alla libertà di ricerca e al I un caso emblematico Per capire bene i fatti e la loro portata occorre fare alcuni passi indietro. Nel 1941 la Pontificia Accademia delle scienze, presieduta allora da Padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’Università cattolica, in vista del centenario della morte di Galileo (1942), commissionò una ricerca «scientifica e storica» al Prof. Pio Paschini, rettore e docente di storia ecclesiastica nell’Ateneo Lateranense. L’opera, terminata nel 1945, fu bloccata dal S. Uffizio perché troppo favorevole a Galileo. Nel frattempo l’autore, eletto vescovo titolare da Giovanni XXIII e morto nel 1962, aveva lasciato il manoscritto in eredità a mons. Michele Maccarrone, suo successore nella Cattedra di storia ecclesiastica. Questi si mobilitò, sia presso l’Accademia delle scienze che presso la Segreteria di Stato, per ottenere il permesso di pubblicare il volume. In un primo momento trovò ancora resistenze e rifiuti da parte del S. Uffizio, giustificati dal fatto che l’opera non «aggiungeva nulla di nuovo», e che sarebbe stato «inopportuno» insistere sulle colpe della Chiesa. Tornato alla carica sotto Paolo VI, con cui era in rapporto di amicizia, egli ottenne dal S. Uffizio il 4 marzo 1964 il permesso di procedere alla stampa. Anche la Pontificia Accademia delle scienze si mostrò favorevole a patto che l’opera venisse introdotta dal gesuita Edmond Lamalle, dell’Archivio storico della Compagnia di Gesù, esperto di studi galileiani. Egli avrebbe dovuto spiegare perché l’opera veniva pubblicata dopo 20 anni e senza possibilità di un completo aggiornamento. Il consenso alla stampa del libro di Paschini coincise con la petizione rivolta a Paolo VI, verso la fine di marzo dello stesso anno, dal presidente internazionale di Pax Christi e firmata da molti scienziati, per chiedere una solenne riabilitazione di Galileo. Il 15 maggio 1964 il S. Uffizio, investito da Paolo VI della questione, aveva risposto che la riabilitazione di Galileo era già avvenuta implicitamente da molto tempo. Fin dal 1757, infatti, era stato tolto dall’Indice dei libri proibiti quel riferimento generico a «tutti i libri che insegnano la mobilità della terra e l’immobilità del sole», contenuto nelle edizioni precedenti, e inoltre nell’edizione del 1835 era stato anche espunto il libro di Galileo. Si aggiungeva inoltre che si era già provveduto a dare il consenso per la pubblicazione dell’opera storica di Pio Paschini a cura della Pontificia Accademia delle scienze. Può sembrare strano che l’opera bloccata nel 1945 e nuovamente ritenuta inopportuna nel 1962, tre anni dopo venisse considerata degna di essere citata dal Concilio a conferma del riconoscimento dell’errore compiuto con la condanna di Galilei. La ragione di questo cambiamento sta nel fatto che nel frattempo il libro aveva subìto numerose e profonde modifiche da parte di Edmond Lamalle. Il quale tuttavia nella Nota introduttiva affermava che i suoi interventi nel testo e nelle note erano stati «volontariamente discretissimi, limitandosi ad alcune modifiche... sembrate indispensabili e ad un minimo di aggiornamento bibliografico». In realtà le modifiche, non indicate da nessuna nota, erano più di un centinaio nel testo e una sessantina circa nelle note. Alcune di queste modificavano completamente la valutazione data dall’autore ai fatti (cfr. Simoncelli P., Storia di una censura. «Vita di Galileo» e Concilio Vaticano II, F. Angeli, Milano 1992; Fantoli A., pp. 468-471). Sicché il Concilio nel proporre come ideale nella Chiesa, la necessaria libertà di ricerca, portava come conferma del proprio insegnamento, senza averne consapevolezza, un’opera che era stata ostacolata mentre l’autore era vivo e modificata dopo la sua morte, prima di essere pubblicata. Scrive giustamente Annibale Fantoli: «Rincresce veramente dover constatare che le preoccupazioni di salvare «il decoro della Chiesa» restassero, anche nel nuovo clima del Concilio Vaticano II, così forti e radicate da portare alla citazione, da parte del medesimo Concilio (e per di più nell’ambito di una solenne dichiarazione sulla libertà della ricerca scientifica!) di un’opera che, nella sua travagliata storia e con le ‘correzioni’ con cui usciva, non costituiva davvero una prova di tale libertà e che il suo autore certamente avrebbe rifiutato di riconoscere come sua» (o. c., p. 471). Negli stessi anni (3 agosto 1952) il gesuita paleoantropologo Teilhard de Chardin, commentando alcune analoghe sue disavventure, in una lettera ad un amico, scriveva dell’«ulteriore prova degli inconvenienti della tattica romana recente: togliere alle persone che cercano sia la possibilità di difendersi, sia quella di spiegarsi... Sotto questo coperchio, tutto fermenta e si corrompe. Non era così dal tempo di S. Tommaso» (Lettres intimes de Teilhard de Chardin, Aubier 1974). L’insegnamento che possiamo trarre da questi fatti riguarda anche noi. Non possiamo infatti immaginare che il cambiamento di sensibilità nella chiesa avvenga senza una reale trasformazione di tutti. Il rinnovamento si realizza solo se si diffonde nella chiesa uno stile di sincerità e di trasparenza per cui, riconoscendo gli errori del passato, tutti ne assumono la piena responsabilità. Nel senso che rinnovano continuamente l’impegno ad operare in modo diverso, così che, partendo dalla dichiarazione esplicita del male compiuto, aprono nuovi cammini di verità. Sono passi lenti, ma necessari e urgenti. A tutti coloro che amano la chiesa è chiesto di compierli con sollecitudine. ROCCA 15 MARZO 2006 TEOLOGIA necessario stile di trasparenza conseguente. La discussione relativa a questo testo si svolse nella Commissione incaricata, dal 30 ottobre al 4 novembre 1964. Il Vescovo ausiliare di Strasburgo mons. Arturo Elchinger chiese di introdurvi anche l’esplicito riconoscimento dell’errore compiuto nel 1616 con il decreto della Congregazione dell’Indice che inserì il «Dialogo sui due massimi sistemi del mondo» di Galileo Galilei nell’elenco dei libri proibiti, e ancora più della condanna del grande scienziato da parte del S. Uffizio nel 1633. Durante la discussione Pietro Parente, assessore del S. Uffizio, espresse la convinzione che sarebbe stato «inopportuno parlarne in questo documento per non chiedere alla chiesa di dire: “ho sbagliato”» (Fantoli A., Galileo: per il copernicanismo e per la chiesa, Specola Vaticana-Libreria editrice vaticana, 19972, p. 470. Egli traduce dal latino il breve resoconto della segreteria). In seguito a questo intervento la Commissione accolse solo in parte la proposta di Elchinger con queste parole: «A questo punto ci sia concesso di deprecare certi atteggiamenti mentali che talvolta non mancano nemmeno tra i cristiani, derivanti dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro» (GSp n. 36). Un riferimento, come si vede, molto generico. In nota però, quale conferma, si fa riferimento al volume di Pio Paschini, Vita e opere di Galileo Galilei (1964), di cui si accelerò la stampa per poterla citare. Ora proprio quest’opera costituisce un esempio delle resistenze profonde che ancora esistevano ed esistono in ambito ecclesiale a riconoscere pubblicamente gli errori del Magistero e a esercitare quella trasparenza che è la condizione della verità di vita. L’opera, infatti, di Paschini fu pubblicata postuma (Città del Vaticano 1964) per le difficoltà opposte fino a quel momento dal S. Uffizio e per di più con numerose modifiche, anche sostanziali, introdotte senza una loro precisa indicazione. Carlo Molari 55 CINEMA EVA E LE SUE SORELLE ROCCA 15 MARZO 2006 Lidia Maggi 56 a Bibbia è un gioco di rimandi. Le storie vengono narrate da un autore e poi riprese e rivisitate da un altro. A volte le citazioni sono esplicite, come quando Matteo richiama i profeti. Più spesso sono velate: in questo caso il gioco delle somiglianze è più sottile e permette la comprensione del racconto anche senza i possibili richiami. L’accostamento di vicende diverse molte volte è affidato al lettore che riconosce in una storia i tratti di un’altra. È quanto accade nel libro di Tobia a proposito di Sara. Si notano, infatti, alcune somiglianze con la vicenda di Tamar, narrata nella Genesi. Tamar, dopo aver perso due mariti, senza riuscire a concepire un figlio, si vede negare un terzo matrimonio. Giuda, suo suocero, sospetta che sia lei ad aver causato la morte dei suoi figli e, per proteggere la vita dell’ultimo, lo nega alla nuora. L’ingiustizia, che la donna ha subìto, diventa colpa, condanna sociale. Solo il coraggio e l’intraprendenza di Tamar saranno in grado di mutare le sorti della propria vita. Questa riuscirà con l’inganno ad unirsi a Giuda e a concepire il figlio necessario per la sua riabilitazione sociale. La vicenda di Sara è accomunata a quella di Tamar dallo stesso tragico destino. Per ben sette volte è stata data in sposa a mariti morti prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli (Tobia 3,8). Questo a causa di uno spirito diabolico che uccide tutti coloro che si avvicinano alla ragazza. Sara viene compatita. Una compassione pesante, che non le permette di rompere le catene della sua condizione. Anche lei conosce, dunque, i meccanismi sociali che portano a trasformare la disgrazia in colpa. La compassione si trasforma presto in disprezzo: Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti... vattene con loro che da te non abbiamo mai a vedere né figlio né figlia, le dice con stizza una delle serve. E, nella disperazione, Sara si rivolge a Dio che si fa carico della sua richiesta. La vicenda di Sara è presentata nel libro di Tobia in parallelo con quella di un altro infelice che prega il Signore: Tobi cieco, marito di Anna e padre di Tobia. Entrambe le preghiere di disperazione salgono al cielo. E siccome non c’è un conflitto di interessi, ecco che Dio decide di accoglierle insieme. La risposta alla rispettive preghiere intreccerà i destini dei due oranti. L Tobia, il figlio di Tobi, è ignaro di quanto è stato deciso nei cieli quando si mette in viaggio e giunge nella casa di Sara. È lui lo strumento scelto da Dio per liberare la ragazza dalla condanna sociale. Egli vede la fanciulla e la chiede in moglie. Viene informato sui trascorsi della ragazza, ma non desiste dal suo proposito. I due passano la notte assieme e la tomba, scavata segretamente nel giardino per accogliere il corpo dell’ottavo marito, rimane vuota. Tobia è vivo e Sara è finalmente libera. Che ragazzo coraggioso è Tobia! Audace come tutti gli innamorati. Disposto per amore a farsi carico di grandi rischi e fatiche, come Giacobbe che lavorò sette anni e ancora sette per sposare la donna amata. Ma Sara? La storia sottolinea pure il suo coraggio: Sara è una ragazza seria, coraggiosa e molto bella (Tobia 6,12). Ma lei, a differenza di Tamar, non si ingegna per cambiare il suo destino dopo i fallimenti passati. Dove abita, allora, il suo coraggio? La risposta la intuisce il filosofo danese Kierkegaard che, nell’evocare questo episodio, parla dell’eroismo di Sara. Sara è coraggiosa perché non si lascia paralizzare dall’atteggiamento clemente dei familiari i quali, nel consolarla, tacciono l’ingiustizia subita. Né si rassegna al disprezzo di chi la trasforma nella versione femminile di Barbablù, attribuendole una colpa che non ha commesso. Ma Sara è coraggiosa soprattutto perché osa rischiare nuovamente di aprirsi all’amore e di credere nell’improbabile. Questa sua ostinazione ha qualcosa di eroico: il rifiuto di arrendersi ad un destino che lei non ha scelto. Una speranza contro ogni evidenza. Evocando la storia di Tamar, accanto alla vicenda di Sara, è più facile comprendere che quanto Sara sta subendo non è affatto una disgrazia, ma un vero atto di ingiustizia. Essa è la vittima innocente di un piano diabolico. Non ha bisogno della compassione dei familiari, ma di giustizia. Deve essere liberata da chi la tiene segregata al suo status di ragazza inaffidabile. Anche Sara si dimostra coraggiosa, perché non soccombe passivamente e si ribella al disprezzo e alla pietà. Lo è, tuttavia, in modo diverso da Tamar, dal momento che non si fa giustizia da sola. Più simile, in questo, a Giobbe che urla a Dio la propria innocenza e lo chiama in causa affinché faccia la sua parte. S e il titolo di questo film di Steven Spielberg – Münich, anche nell’originale – cita semplicemente il nome della città, la vicenda è quella dell’attentato terroristico che, nel corso delle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972, portò alla uccisione di undici componenti della squadra di Israele da parte del gruppo palestinese «Settembre Nero». D’altronde il film è stato premurosamente fatto uscire in Italia nella immediata vigilia delle Olimpiadi di Torino. Le prime sequenze, che ricordano, come altre immagini, le riprese televisive dell’epoca, sono appunto quelle della irruzione notturna dei terroristi nel villaggio olimpico, della cattura degli ostaggi, infine uccisi dopo trattative – non si sa fino a che punto sincere – addirittura in un aereoporto della città. Il film continua poi – comincia, si può dire – più o meno romanzescamente, con l’individuazione da parte del governo di Israele e del Primo Ministro, la signora Golda Meyer, di un agente del Mossad, il Servizio Segreto, scelto a capo di un estemporaneo gruppo speciale che deve eliminare ad uno ad uno gli otto terroristi di Monaco. Il giovane Avner viene visto nella intimità della famiglia, molto innamorato della moglie che di lì a due mesi avrà un figlio. Avner, nato in Germania, è figlio di un valoroso generale di Israele e di una madre anch’essa molto autorevole; ed aveva fatto parte della scorta personale della signora Meyer, che gli è affezionata come a un figlio. Avner accetta senza obiezioni, pur molto affezionato ai suoi cari, consapevole di entrare in una impresa quanto mai difficile, pericolosa e non ufficiale e non pubblica, che lo porterà in A qualsiasi prezzo Münich tutta Europa per uccidere i componenti del «commando» di Monaco. Avner – che deve dare le dimissioni dal Mossad – ufficialmente non «esiste», così come il suo gruppo, e disporrà di molto denaro. Un po’ alla volta si abbandona però la strada della ricerca degli «obiettivi»: d’altra parte sullo schermo i vari interventi si somigliano monotonamente. Quindi si sceglie di guardare un po’ anche all’interno del gruppo di Avner. Spielberg sottolinea così che le informazioni che Avner ottiene per raggiungere i suoi scopi sono a pagamento, in una sorta di mercato internazionale dell’informazione (dello spionaggio), a disposizione non di una causa scelta per meriti, ma di chi paga meglio: e Avner paga ben duecentomila dollari per ogni «soffiata» e quindi per ogni vittima. Si scopre anche che qualcuno dei «ricercati» è strumentalmente protetto addirittura dalla Cia americana. E c’è anche un incontro di Avner con un palestinese il quale non sa della sua vera identità (mentre Avner probabilmente conosce quella del suo interlocutore, che però non rientra nei suoi compiti), nel corso del quale vengono dette, pressoché alla pari, le ragioni degli uni e degli altri, israeliani e palestinesi alla ricerca entrambi di una terra, di una loro nazione, concreta e sicura. Via via Avner sembra perdere non poco della sicurezza e della tranquillità iniziali. Fa trasferire da Israele a Brooklyn la moglie e la figlioletta che nel frattempo è nata e alla fine – un po’ bruscamente, in verità – l’azione del suo gruppo, nel luglio 1973, si conclude, pur senza – sembra –, che sia stato raggiunto il risultato completo che era stato previsto. In sostanza il film segue sia la linea dell’azione sia quella del ripensamento interiore (addirittura – si ricorda per dovere di cronaca – in alcuni ambienti è stato accusato di eccessiva accondiscendenza verso i palestinesi). È girato in un bianco e nero sgranato, di cronaca, efficace ed espressivo. Spielberg è regista e produttore di collaudate qualità e di opere importanti non soltanto spettacolari, ed è notoriamente un esponente di grandissimo rilievo nella comunità ebrea di Hollywood, ha dato il via a fondamentali iniziative per ricordare l’Olocausto (ricerca di testimonianze filmate in tut- to il mondo, di documenti, eccetera) ed è quindi superiore a ogni sospetto. Il film ha comunque una indubbia apertura verso forme di tolleranza o addirittura di pacifismo che qualsiasi persona di buona fede non può che condividere. Non a caso Avner si domanda dove sia finito un principio fondamentale della sua religione che richiama Israele alla osservanza rigida dei princìpi di giustizia. Per Eichmann – dice pressappoco Avner – siamo andati alla sua cattura, ma non per ucciderlo, bensì lo abbiamo portato in tribunale. E se Avner ancora si duole di avere ammazzato qualcuno, gli viene sottolineato che centinaia di persone, israeliti e non, sono state vittime in quei mesi di varie azioni terroristiche. A titolo di pura osservazione diremo che non ci si aspettava da Spielberg una trascuratezza così evidente nelle scene ambientate a Roma (girate in realtà a Budapest): nel 1972/73 non esistevano, sui marciapiedi, i distributori automatici dei tagliandi di parcheggio, né erano in uso strani e neri apparecchi telefonici pubblici, così come quelle targhe automobilistiche intraviste per le strade. Ancora segno di una indispensabile anche se pignola precisione, va rilevato che, nella edizione italiana, i sottotitoli di alcuni dialoghi sono illeggibili perché scritti sulla pellicola in bianco su fondo bianco, così come è illeggibile una lunga (e si presume importante) didascalia finale, anch’essa tutta in bianco: il proiezionista della primaria sala pubblica di Roma in cui abbiamo visto il film ha aggiunto del suo, comunque, accendendo le luci diversi minuti prima della fine dell’ultimo rullo. ❑ 57 ROCCA 15 MARZO 2006 il coraggio di Sara Giacomo Gambetti RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Dialogo nel buio ROCCA 15 MARZO 2006 U na volta ancora, una mostra (questo Dialogo nel buio) che ha modalità di uno spettacolo. Eppure, se uno spettacolo è da vedere e altrettanto una mostra, qui da vedere c’è davvero poco, anzi nulla. E tuttavia se ne esce pieni di sensazioni del tutto nuove. Allestita in un’apposita struttura nell’elegante cortile di Palazzo Barozzi a Milano (dove ha sede l’Istituto dei Ciechi), la mostra non permette di vedere, installata com’è nel buio fitto, e chi guida i visitatori è una persona detta «non vedente». Lo spazio, ideato e realizzato ad Amburgo da Andreas Heinecke e già presente in molte capitali europee ed extraeuropee, torna a Milano e ci resterà a lungo: aperto, oltre che ai singoli visitatori, a scolaresche, gruppi aziendali ecc. Ciò che sorprende di questa mostra da ascoltare, toccare, annusare senza vedere è che non sai se tu sei spettatore o attore: forse l’uno e l’altro. Si entra in gruppi di otto alla volta (non di più) e il giro – depositati eventuali telefonini e orologi luminosi ed impugnato il tipico bastoncino bianco – dura un’ora e un quarto. Si passa così da un ambiente boschivo, in cui urti le frasche dai penetranti odori, ad una barca a motore che affronta il mare tra lo sciabordio delle acque, il vento in faccia e nelle orecchie le strida dei gabbiani, fino a un interno di casa cittadina e, buon ultimo, un bar. E qui comincia il dialogo nel buio vero e proprio. Finora infatti erano poche e 58 strettamente funzionali le frasi scambiate chiamandosi coi nomi che si sono imparati pochi minuti prima e ormai si riconoscono dal timbro delle voci (più sicura di tutte quella della guida). C’è quella del giovanotto che arriva sempre prima là dove deve, e l’altra – un po’ esitante ma senza timore – della persona anziana. Ma al bar (completamente al buio anch’esso, al banco un’altra persona non vedente) comincia – dicevamo – una conversazione durante la quale ci si apre un po’ di più e ci si scambia domande per conoscersi meglio. Ti stupisci intanto – senza dirlo – di scoprire che sa proprio di pera il succo che ti hanno invitato a scegliere tra i vari gusti, così come non manca neppure un centesimo nel resto sollecitamente dato alla tua banconota. Dialogo nel buio è una simulazione da cui tuttavia scaturisce una ritrovata autenticità. La materia, non vista ma sentita, è predisposta in modo che ne nasca una spiritualità che la nostra cosiddetta civiltà sembra aver perso di vista. È una inusitata sinestesia che riconduce alla primordiale unità dei quattro elementi costitutivi dell’universo. Ma, al di là di tali suggestioni, la valenza più significativa è la capacità di immedesimarsi in una situazione del tutto insolita e di adattarsi ad essa senza falsi pietismi, piuttosto con una profonda condivisione: al punto che alla fine il congedo dal gruppo pare quello di una bella vacanza comune, che lascia il segno. ❑ Damasco È su RadioTre Rai per i primi cinque giorni della settimana. Dura 45 minuti, iniziando alle 18. Damasco – l’intenzione rimanda alla via sulla quale è accaduto d’esser folgorati – fa parte del modo particolare di configurare il palinsesto di questa rete radiofonica indicato col nome di «anello»: il Terzo Anello Musica e il Terzo Anello Programmi. Di Damasco l’idea non è nuovissima: una persona di qualche rilievo in ambiti che spaziano dalla letteratura, alla critica, all’arte, alla scienza, alla comunicazione, viene posta per cinque giorni sola davanti ad un microfono e, senza intervistatori, senza conduzione, senza interlocutori o contraddittori – la scelta è pensata ed apprezzabile – racconta cinque testi che sono stati fondamentali (apportatori di folgorazioni) nella sua vita. Le competenze, di cultura e professione, sono le più svariate e nessuna, comunque, si limita a narrare folgorazioni di stretto campo specialistico. Così accade di poter seguire, ogni giorno, la lettura di passi di narrativa, o di brani di saggistica, o di versi poetici attorno ai quali si annodano i ricordi personali di un incontro con… un certo insieme di parole. E c’è chi racconta, come Sergio Givone, filosofo e docente universitario, di essere stato spinto a scrivere un romanzo, il primo e per ora il solo, dalla lettura del nonromanzo (Vite di uomini non illustri) di un narratore, grande e contemporaneo, come Pontiggia; altri – è il caso di Alessandro Portelli – dedica una delle sue puntate alla «confessione» del suo incontro con Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer, per raccontare come da quell’impatto e dallo studio dei suoi retroscena, pur dopo aver scritto un libro sull’esperienza della sua prima visita al Auschwitz, ha trovato modo di ri/osservare le vicende dello Sterminio in chiave di una speranza capace di confrontarsi con l’odio. È appena da dire questa programmazione è seguita da un pubblico ad alta motivazione specifica: RadioTre è sovente ardua da sintonizzare, risulta impegnativa da seguire, chiede una sorta di applicazione all’ascolto nello scorrer dei giorni. È una modalità di radiofonia e di palinsesto che ha caratteri «antichi» – ben lontana dalla cosiddetta radio di flusso dominante nella post-liberalizzazione dell’etere – e che anche della cultura ha e svela una visione remota: persino un po’ classista. Qui sintonizzano, infatti, il loro ascolto le fruizioni che scelgono in nome di competenze e interessi già acquisiti; sicché qui si esplicita anche il rischio di una programmazione «culturale» per definizione (quando non per presunzione) che può condurre l’anello a diventare un circolo. Di fatto un po’ esclusivo. Ma è una proposta – quella di Damasco e quella complessiva di RadioTre – che ha ragion d’essere nel contesto di un Servizio Pubblico radiotelevisivo che non limita il concetto di cultura a questa sola modalità e che, anche per l’ambito della radiofonia, gestisce, sull’insieme delle reti Rai, un’offerta non meno colta e non meno culturale nella sostanza, ancorché diversa nella forma e nello stile del suo proporsi. Fuori dallo stereotipo del «culturale» per definizione, cioè, e comunque, ed in ogni caso, ben degna del nome di proposta culturale e formativa. ❑ FOTOGRAFIA Michele De Luca P. Costantino Ruggeri T ra Piero della Francesca e Paolo Uccello – «figure che non sono mai più uscite dalla mia mente» –, tra Beato Angelico e Matisse riflessi negli affreschi «puri e trasparenti» della chiesetta nel cimitero di Adro, vicino Brescia, dove padre Costantino Ruggeri è nato nel 1925, quella emozione di purezza e trasparenza si saziò alla veranda del cielo metafisico di De Chirico; e si saziò nella tragedia dei bituminosi colori di Sironi e nelle terracotte di Fontana così come nell’aurea stagione della Milano di Cardazzo e Ghiringhelli, nella cultura dell’Informale e dello Spazialismo. E la formazione culturale artistica, così ben testimoniata dalle opere e dal racconto del prezioso volume che fu curato da p. Nazareno Fabretti nel 1990, «Soltanto un fiore. Genesi di un artista cristiano»; confluisce ora in questa bellissima mostra, a cura di Giuseppe Marchetti, in un itinerario in diverse sedi, dal Palazzo Bargnani di Adro al palazzo Martinengo di Brescia, con un ottimo catalogo dell’editore Skira (per la cura di Antonio Sabatucci e importanti numerosi scritti, di Ravasi, Caramel, Billi, De Carli, Lorenzi, Gresleri, Marchetti, Valdinoci, Montalto, Romagnano, Abrami, Monatti, D’Agostini), riuscendo ad emozionarci come quando si entra in una sua chiesa così che si esalta la poetica della luce quale identità sacra della sua opera, come benissimo ha spiegato Mons. Gianfranco Ravasi nel suo testo: «La luce, simbolo del divino, nello spazio mistico di Costantino Ruggeri», in catalogo: «Potremmo dire che padre Costantino edifica le sue chiese a partire da una cellula di luce, da una vetrata. Diversamente dagli altri architetti che conside- rano la vetrata come strumento per affascinanti giochi di luce all’interno del progetto d’insieme, padre Ruggeri considera la luce come sorgente da cui scaturisce e si dispiega il tempio, il suo germe, il grembo fecondo. E le grandiose, indimenticabili vetrate e gli altri squarci di luce delle sue chiese sono la prova, sperimentabile da tutti, di questa intuizione. Si tratta di pareti di luce e di sole più che di finestre. Esse non sono solo «diafane» perché si lasciano trafiggere e trapassare dalla luce cosmica, ma sono anche «epifaniche» perché la luce che le attraversa è quella celeste e divina e in esse si attua quasi un’epifania di Dio». Da padre Gemelli a padre Favaro e a padre Turoldo, da don Giovanni Rossi al Card. Lercaro, da Luigi Santucci a padre Ernesto Balducci e al Card. Martini; tra «Art Sacré» e «Chiesa & Quartiere», tra Chartres e Vence: l’arte di padre Ruggeri si offre analogica di uno stile ecclesiale dell’inventio artisticoculturale che dispiega la dinamica dello spazio liturgico e che nella testimonia educa alla testimonianza. Tra le numerose chiese e interventi artistici che negli anni ha edificato padre Ruggeri, da Alessandria a Roma, da Milano a Pavia, da Varese al Burundi e alla recente bellissima costruzione del Santuario della madonna della Grotta del latte a Betlemme; ci si può porre in pellegrinaggio e risalire fino ai monti vicino Biella, per visitare il cenobio di Bose ed entrare nella cappellina dove, sopra l’altare, compare la riproposta preziosa dell’icona francescana del Crocifisso di S. Damiano e, alle pareti vicino, le significative vetrate di padre Ruggeri indicano la Luna e il Sole e così siamo catapultati qui ad Assisi. ❑ Flavio Faganello N on oso esprimermi sulla bravura di Flavio Faganello là dove carpisce immagini di montagne cieli acque boschi neve. Ciò che mi commuove e mi conquista l’animo è quello che lui riesce a esprimere con le fotografie in bianco e nero dove le persone e il paesaggio sono come un racconto cechoviano… A parte la sua istintiva intuizione e la conquistata bravura, di Flavio è caro il ricordo come persona: la sua discrezione, la sua serietà operativa, il suo approccio all’uomo e alla natura mi fanno dire che oggi non v’è fotografo, o scrittore, o pittore che sappia raccontare la vita della gente di montagna come ha fatto lui. Ha testimoniato un tempo e un mondo non ripetibili». Miglior apprezzamento ad un narratore che si serve della scrittura con la luce, e comunque ad un narratore tout court, non poteva giungere al compianto fotografo trentino (1933 – 2005), specie se firmato da uno scrittore, che di racconti ben se ne intende, come Mario Rigoni Stern, presentando il catalogo (Marsilio) di una bella (quanto doverosa) mostra antologica attualmente agli Scavi Scaligeri di Verona, per essere poi trasferita al Mart di Trento, nella suggestiva cornice di Palazzo delle Albere, che fa seguito vent’anni dopo alla esposizione che la stessa istituzione gli dedicò con la presentazione di Arturo Carlo Quintavalle. Una cospicua raccolta di stampe originali (in tutto centottanta), quella che viene proposta, con cui si configura, oltre all’omaggio a pochi mesi dalla scomparsa, una sorta di bilancio definitivo, sottolineato in catalogo a più voci, tra cui quelle di Gianni Mura e di Carlos Aguilar; otto sezioni che cronologicamente tracciano l’intera produzione del fotografo, con particolare attenzione ai temi legati alla sua regione, che dal mirino della sua fotocamera ha scrutato, con amore, per decenni: il mondo contadino, il difficile ruolo della donna di montagna, il paesaggio, in cui si riflette comunque il suo spirito ironico e disincantato. Fedele alla lezione del neorealismo cinematografico, e formatosi negli anni ’50 in una regione che era stata stimolante luogo di ricerca e di azione di una «scuola» fotografica di importante livello, Faganello ha saputo esaltare le potenzialità narrative e suggestive del bianco e nero, coniugando con poetica sensibilità le sue storie con l’interesse etnografico, l’urgenza di documentazione, la ricchezza umana dei protagonisti, la specificità e la scabra ed essenziale bellezza della sua terra. Il suo sguardo, pur mediato dalla «freddezza» della macchina fotografica, «partecipa» di ciò che osserva e storicizza; come dice ancora l’autore di Ritorno sul Don e di Soldato Tonle, nel suo lavoro «Faganello ha messo la sua anima dietro l’oculare e dentro l’obiettivo». ❑ 59 ROCCA 15 MARZO 2006 TEATRO SITI INTERNET MUSICA Enrico Romani Giovanni Ruggeri ROCCA 15 MARZO 2006 L 60 sparato a bruciapelo sulla fantasia dei giovani di allora. Ma nossignori, più forti di prima, le stagioni del progressive, del rock duro, del ritorno di grandi rocker, come Bruce Springsteen, caratterizzarono i primi anni ’70, fino all’unica, vera ferita letale inferta al rock come si era evoluto fino allora. Il 1977 e il punk furono infatti il vero punto di rottura e di non ritorno del rock. Mentre Elvis «The King» si spegneva, scoppiava la rabbia iconoclasta, nichilista e anarchica dei Sex Pistols, il combat-punk dei Clash, il «no future» del Patti Smith Group e dei Ramones, cantori tutti di una generazione senza sogni, senza più ideali né illusioni, che suonando sgraziatamente a martelletto tre accordi, gridavano la loro disperazione, stretti tra la Tatcher da una parte e Reagan dall’altra. E se gli anni ’80 sono ricordati per l’avvento di Mtv, delle videoclip e dell’edonismo «cocainomane» germogliato dal riflusso del punk e della new wave, è pur vero che quegli anni furono pieni di grandi dischi, molto meno di grandi gruppi, perché oltre a U2, Cure, Prince e R.E.M. non ci sono altri nomi da ricordare assolutamente. Nel 1992 però il «grunge» di Nirvana, soprattutto, e Pearl Jam fu anch’esso rivoluzionario: per la prima volta, infatti, il vecchio hard rock si mescolava al punk, e la chitarra e la voce micidiali di Kurt Cobain sintetizzavano forse ai massimi livelli quaranta anni di rock. Che doveva conoscere ancora trip-hop, brit-pop e tantissime altre sigle. Insomma, come declamava nel 1979 Neil Young in «Hey Hey, My My (Into The Black)»: «... rock’n’roll can never die ...», e non c’è motivo per dubitarne. ❑ E-mail mania F acile profeta fu colui che preconizzò che la mail sarebbe diventata l’applicazione più diffusa e utilizzata della rete. Dati statistici confermano da tempo la crescita esponenziale dell’impiego di questo agevole ed economico strumento di comunicazione, in grado di attraversare milioni di chilometri di autostrade informatiche in un batter di ciglia per recapitare privati messaggi, transazioni commerciali, e, ultima frontiera, comunicazioni certificate come la tradizionale raccomandata. Meno facile, forse, era prevedere la deriva che questo mezzo di comunicazione avrebbe potuto conoscere, con fenomeni ascrivibili a quelli che i nuovi trattati di psichiatria definiscono come «net addiction», ossia dipendenza da Internet. A rivelare usi e abusi dell’email è una recente indagine realizzata da Dynamic Market per conto di Symantec (nota società specializzata soprattutto in software antivirus) su un campione di 1.700 utenti, da cui emerge che un utente su cinque manifesta comportamenti compulsivi, di vera e propria dipendenza, nei confronti della posta elettronica. La ricerca schematizza in quattro categorie le tipologie generali di utenti dell’e-mail. La prima, quella dei «disciplinati», comprende un cospicuo 49% di utenti che si comportano in modo pragmaticamente responsabile, limitandosi a usare la mail nell’orario di ufficio, e comunque nelle fascia cosiddetta attiva della giornata. Vi è poi un consistente 21% di «dipendenti totali», i quali confessano di controllare l’e-mail in maniera compulsiva più volte nel corso della giornata: sono connessi a Internet in media 2,6 ore al giorno ed effettuano il loro primo controllo dell’e-mail non più tar- di delle 9 del mattino. Il restante 30% è ripartito tra coloro che provano addirittura fastidio nell’usare la posta elettronica, preferendo quella tradizionale, e coloro che invece si trovano in grande impaccio con la tecnologia, subiscono l’e-mail e hanno difficoltà ad adattarsi a questo strumento. Il dato più macroscopico è l’affermazione crescente dell’e-mail nel nostro stile di vita quotidiana. Lo studio Symantec segnala che per il 91% delle aziende il volume di messaggi di posta elettronica negli ultimi 12 mesi è aumentato del 12%, da cui il maggior tempo dedicato alla gestione dei messaggi elettronici: il 52% degli intervistati spende infatti almeno 2 ore al giorno tra invio e ricezione di e-mail, mentre il 15% arriva fino a 4 ore al giorno. Rilevanti anche altri dettagli: il 54% delle persone controlla l’email prima delle 9 del mattino, molti altri fanno un ultimo controllo alle 17 ma non manca chi si spinge addirittura alla mezzanotte. Il 31% gestisce la sua posta elettronica anche via cellulare, mentre il 40% legge e scrive mail anche quando è in vacanza o addirittura – è il 38% – quando è malato. Non mancano poi le «chicche» di costume, tra cui la diffusione di sistemi di email abilitati a inviare messaggi in date molto spostate nel futuro: si scrive oggi programmando la data di ricezione, magari anche a morte avvenuta del mittente (www.futureme.org, www.maylastemail.com, www.lastwishes.com). Che dire? L’e-mail è utilissima, le sue derive patologiche e trash si commentano da sole già oggi. Senza che – letteralmente – si debbano aspettare… i posteri per l’ardua sentenza. ❑ Hans Küng Islam Rizzoli, Milano 2005 pp. 900 Dopo quasi quindici anni di lavoro Hans Küng conclude la sua grande trilogia delle religioni monoteistiche. Dopo «Ebraismo» (1991) e «Cristianesimo» (1994), esce ora, anche in traduzione italiana, «Islam». Il libro, di novecento dense pagine, è un’esposizione della religione islamica, ampia, accurata e sostanzialmente completa. Tra i tanti manuali sull’Islam che ormai da anni si trovano nelle nostre librerie, l’opera di Küng presenta qualità e meriti unici. Non solo infatti fornisce al lettore una buona e approfondita conoscenza dell’Islam, sia sul piano storico che su quello teologico, penetrando anche nel ricco mondo della civiltà arabo-islamica (realtà ben più vasta e variegata dell’Islam inteso solo come religione), ma è anche e soprattutto un libro per interrogarsi e per riflettere. Lo dice l’autore stesso nell’introduzione: «Io scrivo questo mio libro non come storico delle civiltà, storico della religione, storico della politica o del diritto. Lo scrivo per rendere gli uomini capaci di dialogare». Il noto teologo tedesco si propone infatti, innanzi tutto, di sfatare i comuni e gretti pregiudizi che molti di noi nutrono verso l’Islam, generalmente per ignoranza. Interessanti ed acute ad esempio le pagine in cui «confuta» l’accusa secondo la quale il Profeta Maometto (Muhammad) sarebbe stato un dissoluto. Anzi, va ben più in là: nel suo costante e approfondito confronto con la teologia cristiana, arriva addirittu ra a proporre alla Chiesa di «riconoscere Muhammad come Profeta» (p. 158), nella linea della tradizione biblica. L’opera è dunque ricca di notizie, di spunti di riflessione, di provocazioni ardite. La personalità intellettuale e teologica dell’autore è costantemente presente nelle pagine del libro, con il suo appassionato richiamo alla pace tra le fedi e alla creazione di un’etica mondiale, e con la prospettiva evoluzionistica con cui egli espone l’Islam non come sistema rigido e assoluto, ma come corpo vivente che si è evoluto lungo la storia e che ancor oggi si evolve. All’oggi dell’Islam, del resto, sono dedicate molte pagine: Küng ci presenta i grandi pensatori dell’Islam odierno, ci espone le problematiche allo stesso tempo teologiche e socio-politiche che lo attraversano e non risparmia neppure questioni apparentemente secondarie, ma in realtà di grande rilevanza nel mondo globale, quali l’abbigliamento «islamico», il velo delle donne e l’uso dei megafoni sui minareti delle moschee. Dag Tessore Ryszard Kapusciñski In viaggio con Erodoto I Narratori Feltrinelli, Milano 2005, pp. 264 Il polacco Kapusciñski, autore di numerosi reportages di successo, presenta ora un volume di sapore autobiografico, dove i suoi primi viaggi da inviato all’estero, veri e propri salti nel buio, si intrecciano all’appassionata lettura del primo reporter della storia, Erodoto di Alicarnasso. Due donne lo introducono alla conoscenza dello storico greco: una professoressa universitaria che cerca di incuriosire un centinaio di studenti ignoranti e una gentile caporedattrice, che gli fa il dono preziosissimo di una rara traduzione polacca delle Storie. È con questo viatico che parte il giovane inviato al primo incarico (siamo nel 1956), spedito in India, un Paese in cui non riesce inizialmente neppure a comunicare in inglese (che ignora e finirà per studiare da autodidatta), e di cui rifiuta sdegnosamente le usanze «servili» (farsi trasportare in risciò da esseri scheletrici!). Tale esperienza gli insegna per prima cosa che viaggiare significa studiare, cercare, interrogarsi su ogni nuova cultura cui si va incontro: solo in questo modo l’autore sente di potere se non altro affrontare quel senso umiliante di ignoranza che lo fa sentire inadeguato di fronte a ogni Paese che visita. Da qui la curiosità appassionata che lo prende per la filosofia indiana, l’Hatha Yoga, Tagore. È lo stesso atteggiamento che sembra guidare anche Erodoto, uomo di confine tra cultura greca e asiatica, e forse per questo sempre volto a superarli, i confini, mosso dalla curiositas che gli fa cercare e riferire fatti e leggende, spesso perplesso su quanto è venuto a sapere, ma disposto comunque ad accettarlo e trasmetterlo a chi lo legge (e lo ascolta). Così fa il giovane inviato, spedito all’improvviso nella Cina di Mao, la cui «politica dei cento fiori» apre – assai relativamente – le porte a qualche giornalista straniero, sorvegliato letteralmente a vista da inquietanti colleghi locali. E la Grande Muraglia gli appare, certo, una delle meraviglie del mondo, ma soprattutto «il sintomo dell’aberrazione umana... dell’incapacità di questo popolo di mettersi d’accordo e... decidere come sfruttare le risorse di energia e di intelligenza dell’uomo». Un problema non solo cinese, purtroppo. Così il giovane giornalista invia le sue cronache da Paesi sempre diversi, Iran, Congo, perché, come ricorda Erodoto, «le imprese degli uomini con il tempo non siano dimenticate». In fondo, in qualche modo, le ambizioni umane, le passioni sono sempre le stesse, non cambiano gli errori, né cambia il desiderio di alcuni uomini di viaggiare per conoscere, di conoscere per capire, di capire per raccontare. E questo tipo di viaggio non finisce mai, continua a ripetersi nei ricordi, a spingere altrove, come «una malattia sostanzialmente incurabile». Il libro di Kapusciñski è una lettura piacevole, non appassionante ma garbatamente coinvolgente, e ti porta in viaggio con sé e con il reporter Erodoto, sempre in movimento, sempre irrequieto, sempre curioso di questa varia e assurda umanità. Laura Pizzetti Giuseppe Fatati La farmacista di Collestatte Thyrus, Arrone (Tr) 2005 pp. 173 Il ritratto di una donna ricca di profonda identità morale, di spiccata sensibilità, di forte carattere e umanità è quello che ci fornisce suo figlio Giuseppe Fatati nel libro di recente pubblicazione. L’autore descrive il personaggio materno cogliendolo nel contesto del suo aprirsi all’altro che le si rivolge durante lo svolgimento della professione di farmacista, una sorta di rievocazione storica di una donna, Egle, che intreccia la sua professione con la storia stessa del luogo dove è chiamata a operare. La popolazione di Collestatte (Tr), infatti, vede in lei il fiducioso approdo per qualsiasi consiglio inerente la salvaguardia e la cura della propria salute. Non solo, la «dottoressa Egle» rappresenta un punto di riferimento sociale, ineludibile, come nel libro/racconto viene evidenziato attraverso la cronaca e la biografia dei vari soggetti. Ernesto Luzi 61 ROCCA 15 MARZO 2006 Il futuro del rock ’ultima volta ci siamo occupati del passato, presente e futuro del supporto musicale: ora rivolgiamo l’attenzione ai contenuti, che poi sono la cosa di gran lunga più importante. Se andiamo a vedere tutte le volte che il rock (e musiche connesse) è stato dato per spacciato, gli auspici sono più che ottimistici. Già nel 1958, ad appena quattro anni dal suo inizio, la partenza di Elvis Presley per il servizio militare fu vissuta dai fan come la fine di un’epoca. E in effetti il 1959 fu davvero l’anno del «De profundis» per il rock’n’roll delle origini, dovuto soprattutto però alle disavventure personali di Jerry Lee Lewis e Chuck Berry, alla crisi mistica che travolse Little Richard e alla prima rockstar vittima di un incidente aereo, Buddy Holly. Le canzoni di Roy Orbison e Dion Di Mucci, ultimi esponenti di un genere già in fase di transizione, furono il ponte tra il vecchio e il nuovo. Già, perché ci pensarono i Beach Boys, Dylan e i Beatles a salvare dal tracollo il salvabile, e a ridargli nuova e innovativa linfa vitale. Il rock era morto ma era subito risorto, plasmandosi in forme diverse e trasformando, come i primi due album dei «Fab Four» testimoniano, la musica delle origini in qualcosa di nuovo che ne conservava però le radici. E a queste si attaccarono anche i Rolling Stones e tutti gli altri, dando vita al decennio più favoloso che la musica «giovane» ricordi. Poi la fine della «Summer Of Love» e le morti delle tre «J», Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison (questa volta dovute agli eccessi anche questi connaturati purtroppo con il rock), schioccarono come un colpo di pistola LIBRI Etiopia ROCCA 15 MARZO 2006 S tato dell’Africa orientale, privo di sbocchi sul mare, l’Etiopia confina a nord-est con l’Eritrea e il Gibuti, a est con la Somalia, a sud con il Kenya e a ovest con il Sudan. Nella Rift Valley etiope, nota come la culla dell’umanità, nel 1974 vennero rinvenuti i resti fossili del più antico ominide eretto «Lucy», vissuto tre milioni e mezzo di anni fa. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869, la costa del Mar Rosso divenne oggetto d’interesse delle potenze europee. L’Italia concentrò la propria attenzione sull’Etiopia, occupando Assab e Massaua e siglando nel 1889 il trattato degli Uccialli con il quale il «negus» (imperatore) Menelik si impegnava a concedere il possesso dell’Eritrea, ma non il protettorato sull’Etiopia. Nel 1895 i due paesi entrarono in conflitto e l’anno successivo l’Italia subì una pesante sconfitta ad Adua. Con l’ascesa al potere di Benito Mussolini, le mire italiane sull’Etiopia furono rivitalizzate e nel 1935 l’Italia invase il Paese e proclamò l’anno seguente il re Vittorio Emanuele III imperatore d’Etiopia. A seguito della sconfitta dell’esercito italiano (1941), l’Inghilterra assunse il controllo dell’Etiopia e venne restaurata l’autorità dell’imperatore Hailé Selassié. Nel 1947 le Nazioni Unite, in mancanza di un accordo tra le parti in causa, votarono in favore di una federazione dell’Eritrea con l’Etiopia. Quando però Selassié decise di ridurre l’autonomia dell’Eritrea, trasformando- 62 la in provincia, la reazione del Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea fu violenta e culminò in un conflitto che si protrasse per oltre trenta anni. I buoni intenti di Selassié di modernizzare il Paese si infransero in una esacerbata guerra intestina e in una grave carestia che non permisero al Paese di conseguire il desiderato sviluppo economico e sociale. Nel 1974 il negus venne deposto da un colpo di stato militare che condusse il colonnello Menghistu Hailé Mariam al potere. Durante questa fase, l’orientamento capitalista del Paese venne sostituito con quello marxista. Vennero così espulse le truppe americane, arrestati i leader dei sindacati, bandita la religione e il nuovo dittatore si rivolse all’ Unione Sovietica in cerca di aiuti economici. Nel caos generale in cui piombò il Paese, gli eritrei e i somali ne approfittarono per invadere il Paese. Con il ritiro delle truppe sovietiche, a cui si aggiunse il crollo del prezzo del caffé, che provocò una forte carestia, il Paese precipitò in una grave crisi interna. Nel 1991 Menghistu fu costretto a fuggire nello Zimbabwe e il suo posto fu occupato da una coalizione di ribelli capeggiata da Meles Zenawi, il quale, in seguito alle prime elezioni libere del 1995, venne confermato alla guida del Paese. Nel frattempo, nel 1993, l’Eritrea riuscì a ottenere l’indipendenza. Sul fronte delle relazioni con l’Eritrea, dopo che venne comunemente affermata la straordinarietà dei rapporti fra i due paesi, una scaramuccia avvenuta tra guardie frontaliere, si trasformò nel 1998 in un vero e proprio conflitto che causò la morte di migliaia di persone. Solo grazie alla mediazione dell’Unione Africana, i due paesi sono convenuti al tavolo delle trattative, firmando nel dicembre 2000 il trattato di pace. Nonostante la definizione del nuovo confine, decisa dalla Commissione internazionale dell’Aja nel 2002, proseguono le tensioni con l’Eritrea per l’attribuzione a quest’ultima della località di Badmé, contesa da entrambi i paesi. Popolazione: su una popolazione di 73 milioni di abitanti, l’84% vive in zone rurali. Gli insediamenti più popolosi si trovano nel cuore del Paese, dove è situata anche la capitale Addis Abeba. Il gruppo etnico più importante è quello abissino, costituito da diversi gruppi etnici, tra cui gli Amhara, gli Eritrei e gli Shoa. Vi sono anche altre razze formate da piccoli gruppi nomadi alla continua ricerca di terre fertili e di nuovi pascoli e da gruppi più estesi e compatti. Religione: circa il 55% della popolazione segue la Chiesa ortodossa etiopica, strettamente legata alla Chiesa copta d’Egitto e religione di stato fino al 1974. I musulmani rappresentano il 35% dei credenti, mentre la parte restante professa l’animismo tradizionale. Economia: l’Etiopia, malgrado le riforme, continua ad essere una nazione estremamente povera. Ciò è principalmente dovuto alla dipendenza dell’economia da fattori atmosferici: l’agricoltura infatti rappresenta l’attività FRATERNITÀ Nello Giostra principale del Paese (praticata dall’80% della popolazione), ma l’incombente siccità degli ultimi anni hanno indotto il Paese a importare prodotti alimentari di base. Sebbene esista un gran numero di giacimenti minerari, gli spessi strati di lava vulcanica ne rendono difficile il processo di estrazione. Vengono tuttavia estratti ferro, piombo e rame e recentemente sono stati scoperti importanti depositi di oro, platino, petrolio e gas naturale. Il comparto industriale si contraddistingue soprattutto per la lavorazione dei prodotti alimentari e tessili. Situazione politica e relazioni internazionali: nel maggio 2005 si sono tenute le elezioni considerate le più libere della storia dell’Etiopia, nonostante che Human Rights Watch abbia denunciato violenze ed intimidazioni al fine di neutralizzare i dissidenti. Riconfermato alla guida del Paese, Meles Zenawi, ha rinnovato il suo impegno politico nell’intento di dare un scossone alla condizione di sottosviluppo causata dalla crisi alimentare e dalla cronica carestia. Le riforme fatte dal Premier nell’ultimo decennio non sono state sufficienti per far uscire il Paese dal tunnel dell’indigenza. L’Unione europea e il World Food Programme dell’Onu continuano a finanziare aiuti alimentari, sebbene il Paese si trovi in uno stato di continua emergenza. Continua, nel contempo, la disputa tra l’Etiopia e l’Eritrea per la demarcazione del confine tra i due paesi, nonostante che le Nazioni Unite abbiano inviato nella regione Lloyd Axworthy come mediatore per dirimere la controversia. Carlo Timio Si è fatta seria Spero di non essere sgradito se vengo a chiedere un aiuto economico. La richiesta non è per me, ma per una madre di famiglia con due figli a carico che, a causa del marito e varie avversità, non sa più dove sbattere la testa per andare avanti. È molto depressa anche per un grosso debito che le si è venuto accumulando negli ultimi anni. Il medico che la sta curando mi ha detto in privato che la signora è molto logora e, se non vi si pone rimedio, può finire in suicidio. A questo punto non so più cosa fare; sono il padre spirituale e spero che questo non avvenga mai... L’ho aiutata moltissimo, ma ora non ne ho più la possibilità. Ho chiesto aiuto a varie persone, ma non ho avuto risposta. Ora però la cosa si è fatta seria e non posso tacere. Per essere creduto devo forse fare qualche gesto clamoroso e finire sui giornali per salvare questa famiglia? Aiutatemi, cari amici di «Fraternità», ad evitare un’altra tragedia familiare... Con Maria e la sua famiglia vi ringrazio fin da ora moltissimo. Padre G.C. Sono tantissime e allora? Mi chiamo Grazia, ho 39 anni, sono sposata da 21 e abbiamo sei figli. Mio marito è disoccupato e le spese di affitto, di bollette, di generi alimentari si accumulano. Rischiamo lo sfratto perché da tre mesi non paghiamo (250 euro al mese) e in più ho la luce da pagare (200 euro) con urgenza altrimenti tra quindici giorni la staccano. In una famiglia numerosa come la nostra ogni giorno c’è da comperare qual- «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 cosa di necessario! Il Parroco, di cui vi accludo la lettera di presentazione, fa quello che può con alcuni generi alimentari, ma in questo paese le persone bisognose sono tantissime e come può aiutare tutte? Spero con tutto il cuore di ricevere un vostro aiuto e intanto vi ringrazio per aver ascoltato i miei problemi e le mie ansie. G.C. nitenza e per vivere la resurrezione del Signore nel nostro cuore. Preghiamo perché Gesù ci benedica e ci conceda la forza di fare quello che dobbiamo fare per Dio e per la Chiesa. Mi ricordo sempre di tutti i benefattori nelle preghiere e vi ringrazio fin da ora. Padre G.R. Solo un miracolo... È sempre caro per i poveri Tanti auguri e saluti dal Bangladesh dove mi trovo da qualche anno. È Quaresima e in questo periodo noi sacerdoti e suore andiamo nei nostri cento villaggi per preparare la gente alla Pasqua. La nostra gente è poverissima soprattutto per le calamità naturali e per l’analfabetismo. Ha tanta volontà di lavorare, ma non ha mezzi e iniziativa. Le persone vanno aiutate, seguite, istruite, ma occorrono tanti soldi perché bisogna mantenerli in tutto. Non hanno case per vivere, soffrono il freddo e il cibo è sempre più caro per i poveri. Aiutiamo i bambini a cominciare ad andare a scuola... Anche gli 80 seminaristi che con profitto seguono gli studi hanno bisogno di tutto. Qui è molto forte la voglia di imparare, di sapere anche perché la gente si sta rendendo conto che alla base di tutto c’è la cultura. Quest’anno siamo fino ad ora fortunati perché non c’è stato alcun disastro mortale a causa del maltempo... La Quaresima è il periodo per riflettere, per fare pe- Vi abbraccio con affetto e sarei contenta se nelle preghiere vi ricordaste anche di Matteo, mio marito morto tre anni fa, dopo un intervento allo stomaco. Già conoscete la situazione della mia famiglia. Dei cinque figli tre sono sposati e hanno la loro famiglia. I due ammalati sono in casa e viviamo assai miseramente. Il maschio di 32 anni ha gravi problemi di intestino e vescica da quando rimase miracolosamente vivo dopo essersi gettato dal terrazzo cinque anni fa; è distrutto psicologicamente e va tenuto d’occhio perché i medici mi hanno detto che potrebbe ritentare il suicidio. La figlia di 30 anni è handicappata fin dalla nascita e richiede cura e assistenza continua. Purtroppo anche la mia salute va peggiorando e se riesco a trovare qualcuno per aiutarmi vuole essere ben pagato perché in casa c’è da fare tantissimo. Solo un miracolo potrebbe farci migliorare. I miei figli ed io non siamo sacchi di patate; anche se siamo ridotti così abbiamo bisogno di mangiare, di prendere medicinali, di acqua, di luce, di assistenza, di vestirci. Non è facile vivere giorno e notte in questa situazione! Grazie per qualsiasi cosa vorreste offrirci. V.P. *** Guardiamo con preoccupazione il calendario e contiamo i giorni che precedono la Pasqua: 16 aprile! Questo numero di «Rocca» arriverà ai nostri lettori un mese prima. Intanto le supplichevoli e commoventi lettere dei poveri, degli ammalati, dei vecchi dimenticati, di molte mamme che da sole lottano per mantenere i figli continuamente ci arrivano e chiedono un aiuto, un conforto. Siamo certi che i nostri amici non dimenticheranno i più bisognosi con un affettuoso dono pasquale. La Quaresima sarà così vissuta come periodo di maggior attenzione verso il prossimo sofferente e renderà più lieti e più vicini alla realtà degli avvenimenti. All’ammucchiarsi delle richieste non ci perdiamo d’animo e siamo sicuri, come sempre fino ad ora, che i Rocchigiani risponderanno con generosità e soprattutto con tanto cuore. A tutti ripetiamo il nostro grazie e da questa pagina lo diciamo ai benefattori ai quali non possiamo mai scrivere perché inviano anonime le offerte come P.P. da Padova, L.M: da Verona; B.R. da Montelupo Fiorentino, O.O. da Roma, A.L. da Marina di Pietrasanta, da Cinisello Balsamo, da Milano, R.R. da Spoleto ecc. Il Signore conceda a ciascuno il bene più desiderato. Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 15 MARZO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede tutti parlano di autonomia una rivista alternativa fai conoscere occa informazione oltre gli steccati per presentarla sono disponibili COPIE SAGGIO degli ultimi numeri richiederle specificando la quantità desiderata a Rocca - cas. post. 94 - 06081 Assisi (Pg) oppure e-mail: [email protected]