Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Il Dio che divide Nigeria: Povertà e petrolio
Etica politica economia: Politeismo dei valori e ricerca del fondamento
Metafora del nuovo genitore educativo
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ANNO
NUMERO
6
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
e 2,00
Che cos’è democrazia Occupazione: Un po’ di conti
Pistola facile Violenza sessuale: Una sentenza clamorosa
Teologia: Libertà di ricerca e stile di verità
la nuova piazza
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
15 marzo 2006
ISSN 0391 – 108X
novità
Un nuovo servizio ai lettori.
A grande richiesta
la raccolta in volume degli articoli
più significativi di uno stesso Autore
con particolare riferimento
alle tematiche più dibattute
a livello sociale, etico, politico
e religioso
Carlo Molari
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
pagg. 168 - E 20,00
RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO
La speranza nei tempi della disperazione
Decadenza della fede, relativismo, religione civile
La fede in Dio nella pratica politica
Politica e profezia
Guai a voi!
Secolarizzazione e dialogo interreligioso
La nuova Europa: radici e identità
Le Chiese in difesa dell’ambiente
FEDE E CULTURA
Le tracce di Dio nella cultura umana
Scienza e trascendenza
L’azione di Dio in un contesto evolutivo
Creazionisti e neodarwinisti
Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male
per i lettori
di Rocca
e 15
anziché
e 20
RICHIEDERE A ROCCA
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NEL VORTICE DELLA STORIA
La crisi della Chiesa
Come e perché cambiare
Le componenti della conversione
Transizioni traumatiche
Letture divergenti del Concilio
La missione della Chiesa nel mondo attuale
Ritrovare l’essenziale
I laici nella Chiesa
I laici nel mondo
Il primato della coscienza
Funzioni e limiti del Magistero
UOMINI NUOVI
L’esperienza religiosa
Le emozioni nell’esperienza di fede
Cammini di libertà
Spiritualità del gratuito
Leggi umane e fedeltà alla vita
Spiritualità della liberazione
4
7
11
sommario
Libri
Rocca
13
14
17
18
20
22
25
26
29
15 marzo
2006
34
36
38
6
41
42
Ci scrivono i lettori
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
45
48
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Il Dio che divide
50
Maurizio Salvi
Nigeria
Paese ricco di povertà e di petrolio
52
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Pistola facile
54
Filippo Gentiloni
Politica
Che cos’è democrazia
56
Aldo Eduardo Carra
Occupazione italiana
Un po’ di conti
57
Giancarlo Ferrero
Violenza sessuale
Una sentenza clamorosa
58
Romolo Menighetti
Parole chiave
Fondamentalismo
58
Fiorella Farinelli
Lavoro
Tempi difficili per i neolaureati
59
Giannino Piana
Etica politica economia
Politeismo dei valori e ricerca del fondamento
59
Claudio Cagnazzo
Società
La Nuova Piazza
60
Manuel Tejera de Meer
Io e gli altri
Invito a pranzo
60
Rosella De Leonibus
Terapie
Curare con l’arte
Vincenzo Andraous
Sbarre e dintorni
Ingiustizia dell’indifferenza
Daniele Novara
Ascolto
Metafora del nuovo genitore educativo
61
62
63
Giuliano Della Pergola
Simone Weil
Santità laica e marginalità sociale
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Hans Blumenberg
La costruzione di un mondo comune
Maurizio Di Giacomo
Verso Sibiu
Un momento non facile del dialogo
Arturo Paoli
Cercate ancora
Il Cristo inedito del Regno
Carlo Molari
Teologia
Libertà di ricerca e stile di verità
Lidia Maggi
Eva e le sue sorelle
Il coraggio di Sara
Giacomo Gambetti
Cinema
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Roberto Carusi
Teatro
Dialogo nel buio
Renzo Salvi
RF&TV
Damasco
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Arte
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Michele De Luca
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Musica
Il futuro del rock
Giovanni Ruggeri
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Libri
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Rocca schede
Paesi in primo piano
Etiopia
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 6 – 15 marzo 2006
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ANNO
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Editore: Pro Civitate Christiana
ROCCA 15 MARZO 2006
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono
riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati
non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 28/02/2006 e spedito da
Città di Castello il 03/03/2006
4
Città di Dio
e città dell’Uomo
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
In una lunga lettera pubblicata sul n. 3 di Rocca il prof.
Gianni Savoldi esprime alcune osservazioni sulla linea editoriale della rivista
che si conclude con l’appello a favore «di una Chiesa
Madre esigente piuttosto
che assistente sociale».
Le problematiche sollevate
dal professore sono complesse. Quella che emerge
è tra l’altro l’esigenza di un
cristianesimo che sia «annuncio di salvezza da comunicare agli altri, fatica
tenace di fronte ai pericoli
del mondo e bellezza di segni visibili come la liturgia
e la musica sacra». Una sorta di cristianesimo integrale che condivido ed ho auspicato anche in una lettera pubblicata recentemente su questa rivista.
Per quanto personalmente
mi riguarda, ho sempre cercato di ispirarmi all’insegnamento della Gaudium
et Spes la quale ricorda che
«i cristiani in cammino verso la città celeste devono
ricercare le cose di lassù
anche se questo non diminuisce anzi aumenta l’importanza del loro dovere di
collaborare con tutti gli
uomini per la costruzione
di un mondo più umano».
Lo stesso Pontefice in più
di un’occasione ha messo
in guardia contro il rischio
di ridurre la fede cristiana
a semplice filosofia e invitato ad andare alla riscoperta della essenzialità del
messaggio evangelico che è
annuncio di salvezza eterna da proclamare alle genti. E tuttavia, specie nella
sua prima enciclica, il richiamo del Papa alla dottrina sociale della Chiesa come
fulcro della azione del cristiano nel mondo, specie
ora che è tramontata la
ideologia e direi anche il
comodo alibi del marxismo,
è un chiaro ammonimento
a non chiudersi nella torre
di avorio del trascendente,
trascurando il dovere fondamentale della carità, che è
atto personale e della giusti-
zia che è atto sociale.
Detto questo, affermare che
nella rivista di cui siamo affezionati lettori la auspicata
sintesi sia compiutamente
realizzata potrebbe sembrare atto di presunzione e tuttavia, se si va a rileggere l’indice degli articoli, si potrà
forse scoprire il motivo per
il quale Rocca riscuote una
diffusa simpatia. Mi chiedo
infatti se le denunce contro
le ingiustizie del mondo non
implichino, come auspicato
dal professore, anche «un
giudizio su ciò che è bene e
ciò che è male» e se le riflessioni teologiche, le meditazioni spirituali e la esegesi biblica non siano esse stesse
una «manifestazione di un
amore esigente che non indulge a forme di “sentimentalismo zuccheroso”». Io credo che la visione cristiana di
Rocca, che condivido e faccio mia, non sia né manifestazione di una anacronistica spiritualità né espressione di una sociologia alla
moda. Naturalmente, essendo tutti impegnati in un percorso verso la perfezione,
sono sicuro che la redazione non mancherà di fare tesoro di tutte le proposte e le
osservazioni che perveranno
dai lettori.
Aldo Abenavoli
Roma
Gay: una modalità
pesante
da vivere
Apprezzo molto la vostra rivista, che leggo da una vita,
per l’apertura ai problemi
più scottanti, sia sul piano
personale sia su quello politico.
La lettera «Cosa significa
essere normali» (sul n. 2)
suscita in me alcune riflessioni, essendo madre di un
ragazzo gay. Sebbene sia
positivo che oggi si parli più
di prima di questo problema,
tuttavia ci vorrà ancora molto tempo per fare dei progressi sul piano della consapevolezza in questo campo.
È senz’altro un obiettivo
importante quello individuato dal lettore: il rispet-
to di sé e degli altri, come
anche è indubitabile che c’è
da augurarsi che la ricerca
progredisca per arrivare a
capire sempre meglio questa condizione.
Io mi permetto di sottolineare un aspetto che ho colto
leggendo il saggio di P. Rigliano, «Amori senza scandalo», edito da Feltrinelli, e
cioè che questa modalità
(mi piace usare questo termine) è pesante da vivere
anche per chi la riconosce
per tempo e abbia la forza
di manifestarla senza tabù.
È in se stessa problematica,
e così è vissuta dallo stesso
soggetto, anche se situato
nelle migliori condizioni
soggettive e sociali. Lo è perché la società la riconosce
come condizione «diversa»
rispetto alla maggioranza?
Cioè è un riflesso della considerazione sociale, presa
nella sua medietà, o è in se
stessa problematica da vivere, essendo, in fondo, la condizione di una minoranza?
Si potrebbe uscire dal problema, affermando che la
problematicità del vivere è
ugualmente distribuita tra
eterosessuali e omosessuali, ma sembra che così non
sia, a parere anche degli
studiosi che si sono inoltrati nell’analisi di questa modalità di vita.
Molto, quindi, resta ancora da fare.
Lettera firmata
Legittima difesa
A proposito della legge sulla legittima difesa e dell’intervento di Enrico Peyretti
di Torino, critico verso il
cardinale Martino, che ha
definito sacrosanto il principio della legittima difesa.
Immagino che il signor
Peyretti sia un cattolico praticante. Anch’io presumo di
esserlo. Ebbene, a titolo personale, di fronte a un ladro
invasore della nostra casa e
se, in quel momento fossimo soli in casa, potremmo
offrire anche l’altra guancia
a questo mascalzone che si
permette di violare la nostra
casa. Ma se con noi ci fos-
sero anche altre persone
care come la moglie ed
eventuali figlie, potremmo
ancora farlo, dato il pericolo immediato di un eventuale stupro in attesa che si
apra la cassaforte?
Non saremmo autorizzati
ad usare quanto ci capita a
tiro, bottiglie, vasi di fiori,
coltelli da cucina, etc., per
difendere quanto ci è più
caro, come moglie e figlie?
Non sto parlando di ipotesi
strane, ma di fatti avvenuti.
Il principio di proporzionalità mi fa sorridere, dato che
si tratta di fatti drammatici
ed improvvisi e imprevisti.
Se un altro mi attacca, dovrei prima pensare a non fargli troppo male... con il mio
atto istintivo di difesa della
mia legittima incolumità.
Se i ladri e gli altri criminali non vogliono essere
ammazzati, che stiano a
casa e vadano a lavorare, e
smettano di insidiare i beni
e la vita altrui.
Bruno Dequal
Trieste
Un insulto alla
decenza
Durante la campagna elettorale del 2001 Berlusconi, a
nome della sua coalizione,
promise un milione di lire a
tutti i pensionati che percepivano una cifra inferiore.
La «solenne promessa» è stata mantenuta solo per il 6%
degli invalidi civili, quelli,
«fortunati loro», che hanno
superato i 60 anni di età.
Considerata la precarietà
della salute di queste persone – spesso afflitte da patologie gravissime come la distrofia muscolare, la sclerosi laterale amiotrofica,
l’amiotrofia spinale e tante
altre ancora – solo un esiguo numero (cinicamente
calcolato?) riesce a raggiungere l’età fatidica. Oltre un
milione di persone sotto i 60
anni devono accontentarsi
di 238,07 euro al mese.
Nei giorni scorsi Prodi ha
presentato il programma
dell’Unione. Sulla stampa
non abbiamo rilevato alcun
cenno di impegno per mi-
gliorare le prestazioni economiche relative agli invalidi civili. Temiamo di continuare a non essere rappresentati da nessuno... Saremmo lieti di essere smentiti. Attendiamo risposte.
Innocentino Chiandetti
Unione Italiana Lotta
alla Distrofia Muscolare
sezione di Udine
Che pena!
La recente sentenza della
magistratura ha derubricato il Crocifisso nelle scuole
da simbolo religioso a simbolo etico-culturale, come
il Codice di Giustiniano o
il Davide di Michelangelo.
Mi aspettavo la reazione
indignata dei cattolici per i
quali, fino a prova contraria, il Crocifisso è il Figlio
di Dio. La gerarchia tace; i
teo-con applaudono. Ho il
sospetto che quel simbolo
sacro sia messo lì per «marcare il territorio» e proclamare a gran voce: qui comandiamo noi! Che pena!
Giuseppina Patti
Binasco (Mi)
Un brivido
ai limiti
della follia
Cari amici, vorrei comunicarvi la mia angoscia per
l’aumento di violenze omicide-suicide in famiglia. Da
qualche anno, si sta scatenando qualcosa di grosso e
di orribile. Le cause possono essere tante. Ognuno
può anche ipotizzare qualche rimedio. Ma non voglio
dilungarmi. Per ora, come
comunicazione e-mail, sento solo il bisogno di dirvi che
sono profondamente sconvolto dalla lunga catena di
omicidi-suicidi che a volte
distruggono tutto un nucleo
familiare. In questa settimana la cronaca ci presenta almeno una strage al giorno
(nel veronese, dove vivo,
sono assai frequenti). Cosa
sta succedendo? Come genitore e insegnante che cer-
ROCCA 15 MARZO 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
5
CI SCRIVONO I LETTORI
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su un titolo
ed ecco il testo, stampabile, dell’articolo
prescelto
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su una tematica
o una rubrica
ed ecco tutti gli articoli
che Rocca ha pubblicato
nell’anno sull’argomento
TUTTA ROCCA
nello spazio di 5 millimetri
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ROCCA 15 MARZO 2006
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ROCCA 2004
a E 10
spese comprese
6
Sergio Paronetto
Walter Loddi
[email protected]
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Azionismo
cristiano
Sono abbonato alla rivista da
anni, condivido lo spirito e la
lettera e, soprattutto, gradisco l’atmosfera ideale-mentale che la vostra presenza animativa e lievitante ha garantito negli ultimi vent’anni
(nonostante il super-riflusso).
Detto questo, aggiungo a beneficio di quanti vorranno
eventualmente scatenare il
loro elucubrio socio-psicologico circa quanto andrò brevemente dicendo, che ho 38
anni, insegno (Filosofia e Storia) in un Liceo (Classico) e
I cistiano sociali sono
molti attivi in ambito Ds.
Dibattito e confronto sono
pienamente in atto e hanno come centro focale proprio i Convegni annuali
alla Cittadella di Assisi.
L’incontro del settembre
scorso ha avuto come
tema: «Laicità, etica pubblica, democrazia: la sinistra democratica e le sfide della coscienza». Abbiamo pubblicato su
Rocca (n. 23/2005) la relazione di Giannino Piana «Una nuova etica pubblica: libertà, responsabilità, bene comune».
Stato/Religioni
proteste
estranee
alle fedi
Porto Alegre
nona
assemblea
del Cec
«Per favorire la pace e la comprensione tra i popoli e gli
uomini – ha detto Benedetto
XVI il 20 febbraio ricevendo
il nuovo ambasciatore del
Marocco Alì Achour – è necessario e urgente che le religioni e i simboli religiosi siano
rispettati, e che i credenti non
siano oggetto di provocazioni
che feriscono il loro atteggiamento e i loro sentimenti religiosi». Ha ripreso così la condanna già espressa nei giorni
precedenti dalla Santa Sede
alle vignette contro Maometto.
«Tuttavia – ha continuato il
Papa – l’intolleranza e la violenza non possono mai trovare giustificazione in quanto
risposte alle offese, perché
non sono risposte compatibili con i principi sacri della religione; non possiamo dunque non deplorare le azioni di
quanti approfittano deliberatamente dell’offesa arrecata ai
sentimenti religiosi per fomentare azioni violente, tanto più che ciò viene fatto a fini
estranei alla religione».
Rifiutando la legge del taglione, «per i credenti come per
tutti gli uomini di buona volontà, ha ribadito il Papa, la
sola via che può condurre alla
pace e alla fraternità è quella
del rispetto delle convinzioni
e delle pratiche religiose altrui, affinché sia realmente
garantito a ciascuno – in
modo reciproco, in tutte le
società – l’esercizio della religione liberamente scelta».
Nell’incontro coi musulmani
il 20 agosto a Colonia, Benedetto XVI aveva fatto un discorso di notevole portata programmatica e detto tra l’altro:
«Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e
musulmani non può ridursi a
una scelta stagionale: esso è
una necessità vitale, da cui
dipende gran parte del nostro
futuro».
Aperti a Porto Alegre il 14 febbraio i lavori della IX assemblea del Consiglio ecumenico
delle Chiese (Cec) che ha
come tema (e leit motiv) l’invocazione: «Trasforma il mondo, Dio, nella tua grazia». Partendo dal fenomeno della globalizzazione, il Presidente del
Comitato centrale, il catholicos Aram 1° della Chiesa armena di Cilicia, ha parlato ai
quattromila partecipanti di
ogni parte del mondo dei nuovi sistemi di valori e paradigmi in atto come tentativi di
trasformare il mondo, e richiamato la necessità di «una
riflessione creatrice» da parte delle Chiese.
Papa Benedetto XVI, in un
messaggio di saluto all’Assemblea, ha riespresso il suo impegno per l’unità cristiana:
«Siamo felici, scrive, di continuare questo pellegrinaggio di
speranza e di promesse, mentre intensifichiamo i nostri
sforzi allo scopo di giungere
al giorno in cui i cristiani saranno uniti per proclamare il
messaggio di salvezza per tutti
contenuto nell’Evangelo».
La Chiesa cattolica non è
membro del Cec, che da parte sua raduna oltre 340 chiese di 100 paesi con le principali tradizioni protestanti e
ortodosse e conta oltre 550
milioni di membri. Tuttavia,
essa partecipa ad alcune commissioni di questo organismo.
Papa Benedetto – allora professor Ratzinger – è stato dal
1968 al 1975 membro della
Commissione «Fede e Costituzione» per il dialogo teologico.
Anche il Patriarca ecumenico
Bartolomeo, primus inter pares della gerarchia della Chiesa ortodossa, ha confermato
all’Assemblea l’impegno del
Patriarcato verso il Cec e verso il movimento ecumenico
nel suo insieme.
Haiti
tregua
dopo la
tensione
Sarà René Préval il nuovo presidente di Haiti (nella foto). Il
paese sembra aver superato la
prova delle urne il 7 febbraio,
nonostante la confusione, i
ritardi, i tafferugli e i due
morti alla periferia di Port-auPrince. Ma non è andato tutto liscio. Pur avendo il candidato René Préval ottenuto la
maggioranza dei voti, questi
non erano sufficienti per la
presidenza. Si sarebbe andati
al ballottaggio se la scoperta
di una montagna di schede
elettorali in una delle discariche che contornano la capitale, a favore dello stesso Préval,
non avesse infiammato gli
animi e non si fossero affacciati sinistri bagliori di guerra civile. Le schede ritrovate
e le pressioni internazionali
hanno decretato che il 29
marzo Préval giurerà sulla Costituzione, sapendo di avere
una lunga agenda di problemi da risolvere. A lui gli haitiani chiedono quella fine della violenza che nemmeno la
presenza di ottomila caschi
blu dell’Onu è riuscita a contenere, e la fine della fame
perché il 70% degli abitanti
vive sotto la soglia della povertà.
ROCCA 15 MARZO 2006
UN CLIC
sul nome di un Autore
ed ecco i titoli
di tutti i suoi articoli
Anna Portoghese
i 23 NUMERI 2005
con relativi
INDICI
per numero
per Autore
per tematiche principali
per rubriche
a cura di
in CD-Rom
vivo in un piccolo paese di
provincia.
Le righe sottostanti, dunque, per una domanda e un
appello:
La domanda: potete dirmi/
dirci voi che fine hanno fatto i «cristiano-sociali»? Sia
detto senza punta polemica,
ma qualche anno fa sulle colonne di Rocca se ne riceveva cenno – oggi, non più.
Fatto salvo una specie di dossier (risalente credo al 2004)
intorno ad un convegno assisiate, non riesco a reperire
traccia di: dibattito, confronto, resoconto, che abbia
come protagonisti gli esponenti di questo allora vivace
gruppo pur entro i confusi
scenari allestitici dai Democratici di sinistra.
L’appello consiste in questo:
chiedo a tutti gli elettori cristiani (e cattolici) che non
accettano di veder ridotta la
loro dignità al rango di consumatori televisivi di plastopolitica (politica di plastica),
di adoperarsi per aprire nei
loro ambiti d’azione un dibattito sul senso del loro
voto ad una o all’altra forza
politica, magari recuperando la storia e le matrici culturali di gruppi minoritari
(come lo sono i cristiani di
sinistra oggi, come lo furono gli azionisti allora) e confrontandole con il panorama della politica e della società italiana odierne.
primipiani
OCCA
ca di essere-fare pace, avverto che gli operatori di pace
devono interrogarsi, devono
pensare pensieri efficaci e
quotidiani di pace, devono
fare qualcosa di concreto nel
concreto. Anche il poco può
essere moltissimo.
Non si può annunciare la
pace senza mettere a fuoco
la violenza quotidiana-interiore-familiare-sociale. Senza
introdurre qualche novità visibile in tale contesto. A volte ho proprio l’impressione
«un brivido ai limiti della follia». Sento che i gesti più disperati possano maturare in
persone e ambienti che riteniamo «normali». Mi viene
un gran magone. E sento tanta tanta indifferenza. Molte
vite ci sfuggono di mano così
al volo, in un attimo, per un
secondo, per un centimetro,
per un soffio di vento... E poi
e poi: chi si prende cura di
chi rimane solo, profondamente ferito? Chi accompagna i sopravvissuti? Chi aiuta ad elaborare il lutto? Come
proporre il perdono? Ho quasi paura a pronunciare una
parola così eversiva; è così
grande da sembrare disumana, forse perché troppo umana. Per ora rileggo con sofferta fiducia il brano di Tonino Bello sulla «famiglia come
laboratorio trinitario della
pace» (che traggo da «Le mie
notti insonni», S. Paolo, Milano 1996). Grazie per l’attenzione. Shalom.
ATTUALITÀ
7
ATTUALITÀ
Hebron
una scuola
della
speranza
Vaticano
dialogo
coi
lefebvriani
Firenze
un amico
più di
una medicina
Inaugurata il 18 febbraio una
scuola di ceramica a Hebron,
in Palestina, messa in piedi da
un gruppo di enti e associazioni dell’Umbria. Una realtà e una
metafora la ceramica, di bellezza e anche di fragilità, di festa
per i suoi boccali… Ma parliamo di questa nuova scuola in
Palestina perché è grazie all’impegno organizzativo e finanziario della provincia di Perugia,
del Coordinamento degli Enti
locali per la Pace e altri enti
della Regione Umbria che questa scuola prende il posto di
una piccola struttura di produzione per uso quotidiano e per
attività artistiche. Per la prima
volta anche le ragazze palestinesi potranno frequentarla.
«Non servirà solo a riqualificare e ad estendere l’insegnamento della ceramica, ma anche a
ridare la speranza e il futuro a
centinaia di ragazze e ragazzi
– ha dichiarato Flavio Lotti, direttore del Coordinamento Nazionale per la pace e i diritti. –
Non è boicottando i nuovi eletti palestinesi che si potrà ottenere la pace. Oggi più di ieri abbiamo bisogno che l’Italia e
l’Europa si rendano protagonisti di un intenso negoziato che
porti al riconoscimento dei due
popoli e dei loro diritti».
Il 13 febbraio per la prima
volta Benedetto XVI ha riunito i responsabili del ministeri
della Curia romana per discutere il caso dei tradizionalisti
eredi del vescovo francese ribelle Marcel Lefebvre (19051991), scomunicato nel 1988
insieme ai quattro vescovi
consacrati da lui senza l’accordo col Papa. La cancellazione
delle scomuniche sarebbe il
primo passo da fare, ma i tradizionalisti non hanno mai
riconosciuto di essere scomunicati, oltre a continuare a
essere fortemente ostili alle
riforme del Concilio Vaticano
II. Si sa che all’interno della
Curia c’è una linea che porta
a una grande «generosità» riguardo all’uso del latino nella
liturgia, mentre resta grave il
contenzioso sulla libertà religiosa, il dialogo con giudaismo, con l’Islam e la riconciliazione con altre confessioni
cristiane e con l’ecumenismo
in genere dal cui impegno
papa Benedetto non intende
recedere e che i tradizionalisti decisamente rifiutano. Dall’incontro romano dei «ministri» non è scaturito alcun comunicato.
Sulla rivista di cardiologia
«Circulation» è stata pubblicata una ricerca, unica nel suo
genere, riguardante l’incidenza delle visite familiari e amicali per i malati di cuore: positiva. Meno ansia, si dimezzano le complicazioni e non
crescono le infezioni.
Nel corso di due anni i medici dell’unità geriatrica dell’
ospedale Careggi di Firenze
hanno alternato sei mesi di
rigore (mezz’ora di visita due
volte al giorno) a due mesi
di libertà con porte aperte
senza limiti di tempo. L’osservazione e l’assiduo controllo dei 226 pazienti transitati, hanno portato, sia dal
punto di vista vascolare che
da quello dello stress, a testare scientificamente i benefici delle visite anche nell’asettica unità di terapia intensiva. «Un’assistenza migliore – dice il professor Nicolò Marchionni dell’Università di Firenze – non vuol
dire solo medici più preparati e tecniche avanzate, ma
anche serenità di malato e
familiari. Penso soprattutto
ai pazienti anziani, i più
esposti alla solitudine».
Groenlandia
i ghiacciai fondono rapidamente
ROCCA 15 MARZO 2006
Le coste della Groelandia, che furono abitate per qualche secolo dai vichinghi, si stanno scomponendo in una moltitudine di
iceberg a motivo della fusione dei ghiacciai. Cambia lo scenario
delle acque e se ne studiano le conseguenze per il territorio e
per gli umani.
Sulla rivista Science del 16 febbraio due scienziati, E. Rignot e
P. Kanagaratnam hanno reso noti i risultati delle loro ricerche e
delle conseguenze spettacolari che dal 1980 in poi si riscontrano con riscaldamento di 2 o 3 gradi dell’atmosfera. Il ghiacciaio
Kangerdlugssuaq Gletscher (est Groelandia) sta sciogliendosi
ormai alla velocità di 14 km all’anno, ossia 38 metri al giorno,
velocità tre volte superiore a quella di 10 anni fa. Secondo i
ricercatori, il fenomeno osservato in Groelandia è riscontrabile
anche all’Antartico dove la perdita di masse è quasi equivalente.
Inoltre, fondono anche i ghiacciai dell’Himalaya e minacciano
lo scioglimento anche quelli delle Ande e della Patagonia.
8
notizie
seminari
&
convegni
Firenze. È morto a Settignano il 15 febbraio, all’età di 92
anni, Don Divo Barsotti, teologo, poeta e mistico, autore
di oltre 150 opere di spiritualità, fondatore dell’opera dei
«Figli di Dio», che comprende diversi stili di vita: monastico, famigliare, laicale.
Venezia. A proposito della polemica sul Crocifisso nelle
scuole, seguita alla recente
sentenza del Consiglio di Stato che ne stabilisce la perma-
nenza, il filosofo Massimo
Cacciari è dell’avviso che il segno resti, e che invece si cambi il modo di insegnare religione ai ragazzi: «Sono favorevole, dice, a una materia
fondamentale, obbligatoria,
sulle tradizioni europee giudaico-cristiane. Con insegnanti selezionati con gli stessi metodi con cui si scelgono
gli insegnanti di storia e filosofia. Naturalmente non indicati dalla Curia».
Torino. I Valdesi hanno ricordato con particolare solennità il 17 febbraio, data in cui
Carlo Alberto re di Sardegna
riconobbe i pieni diritti civili
e politici ai sudditi di fede valdese ed ebraica, allora soggetti a un regime di discriminazione. In occasione della ricorrenza l’Associazione «Più dell’oro» ha rilanciato la proposta di fare del 17 febbraio la
giornata della libertà di coscienza e di religione.
19 marzo. Camposampiero
(Pd). Incontro di spiritualità
coniugale sul tema: «Condizioni per la buona riuscita della
vita di coppia» diretto da don
Chino Biscontin. Informazioni: Casa spiritualità dei Santuari Antoniani, 35012 Camposampiero tel.049 930 3003.
24 marzo. San Domenico di
Fiesole (Fi). Alla sala capitolare di Badia Fiesolana Sergio
Moravia parla sul tema «Sensibilità e dolore nel pensiero moderno e contemporaneo» per la
serie di incontri a cura della
Fondazione Balducci, via dei
Roccettini 9, 50016 S. Domenico di Fiesole, tel. 055 599 240.
24-25 marzo. Modica (Rg).
Seminario di studio organizzato dalla Scuola di formazione
di Noto e dal Cenacolo di studi «Dietrich Bonhoeffer» sul
tema: «Da Gesù al Cristo». Relatori i biblisti Giuseppe Barbaglio e Romano Penna. Sede:
Modica, Domus Petri, ore 19.
24-26 marzo. Crotone. La
cooperativa sociale «Gettini di
Villalba», in collaborazione
con la Cittadella di Assisi, organizza un seminario di Arte
Terapia: «Fare Arte-Arte del
fare» (Palazzo Berlingieri,
Piazza santa Veneranda,6).
Alle relazioni degli esperti seguiranno esperienze laboratoriali di tecnica di incisione,
collage, comunicazione non
verbale, ciclo e riciclo: diritto
e rovescio della persona. Il seminario è rivolto a docenti di
ogni ordine di scuola, operatori sociali e sanitari, psicologi, genitori… e a quanti vogliono sperimentare tecniche
espressive. Informazioni: 0962
25105 – 333 7432 092 –
3387875188:
e-mail:
[email protected].
27 marzo. Vercelli. Per il ciclo
«l’esperienza del credere oggi»
il teologo Franco Giulio Brambilla parlerà sul tema: «Forza
della religiosità, debolezza della fede?». Seminario P.S. Eusebio 10, Vercelli, ore 21.
27 marzo. Macerata. Per il
percorso «La scuola di Pace»,
organizzato da un gruppo di
Associazioni in collaborazione
con la Facoltà di Scienze della
Formazione, incontro sul
tema: «Educarsi all’interculturalità: L’Islam e la Pace», con
Mohamed Nour Dachan e Paola Nicolini (Aula 1° della Facoltà, ore 17,30).
27-30 marzo. Bologna. Nell’ambito della Fiera del libro
per ragazzi, Mostra degli illustratori 2006, vetrina delle
tendenze, degli artisti e delle
novità del mondo dell’illustrazione. Informazioni:
[email protected],
tel..051 282 111.
30 marzo. Milano. Presso la
Cappella san Francesco dell’Università cattolica (Largo Gemelli, 1 – Milano) l’associazione «L’Asina di Balaam» e i gruppi Fuci e Meic in collaborazione con il Centro Pastorale e il
Dipartimento di Scienze religiose, organizza una giornata (dalle 9,30 alle 17,30) sul tema: «La
salvezza. Un approccio interdisciplinare». Intervengono: G.
Borgonovo, D. D’Alessio, E.
Mazza, A. Persic, A. Ghisalberti, M. Aletti, V.M. Cerutti,
L.Eusebi, A. Grillo, M. Marassi, S. Petrosino. Informazioni:
tel. 02 7234 2238, e-mail:
[email protected];
[email protected];
[email protected].
31 marzo-2 aprile. Seveso
(Mi) e Monguzzo (Co). Due
brevi corsi di esercizi spirituali per giovani, il primo, diretto da don Fabio Verga al
Seminario di San Pietro
Martire (tel. 0362 6471), il
secondo al Centro studi Fatebenefratelli, diretto da
don Federico Papini (tel.
031 650 118). Informazioni:
[email protected].
13 aprile. Venezia. Presentazione del Corso che il Cismai
(Coordinamento italiano dei
servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia)
apre a 35 psicologi con esperienza e/o interesse nel campo della formazione. Riguarda gli ausiliari nell’audizione
protetta durante il processo
penale e nelle deposizioni di
fronte alle forze dell’ordine
dei minori abusati sessuali o
comunque vittime. Il Corso è
strutturato in cinque giornate (13 e 28 aprile, 11 e 26 maggio, 9 giugno) e si avvale di un
cast di specialisti del settore.
Informazioni: Marghera, Fondazione Materdomini, via V:
Cafassi 2, fax 055603234; email: [email protected].
22-25 aprile. Abano Laziale (Rm). Organizzato dai
gruppi di credenti omosessuali del Centro sud, incontro sul tema «Il visibile e l’invisibile» Con me, con gli altri, con l’Altro: il processo di
consapevolezza di sé in rapporto al «dirsi» al mondo.
L’incontro è curato dai gruppi di Nuova Proposta di
Roma e Ponti sospesi di Napoli e rivolto a gay e lesbiche, credenti e non credenti. Sede: Casa di accoglienza
San Girolamo Emiliani, via
Rufelli 14 (Ariccia), 00041
Abano Laziale. Informazioni: cell. 329 139 4621, e-mail:
[email protected];
cell. 333 188 9014, e-mail:
[email protected].
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a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
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È noto che il problema del
disarmo nucleare è ritornato con prepotenza sul tavolo
degli organismi internazionali. Se ne è parlato anche
nel corso della IX assemblea
generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) a
Porto Alegre (v. altra notizia), da parte del pastore
Samuel Tobia, segretario generale del Cec. In un rapporto presentato il 15 febbraio,
dopo aver qualificato la proliferazione nucleare «oltraggio a tutta l’umanità», egli ha
indicato il Sudafrica come
Paese che, a suo giudizio, dovrebbe essere a capo di un dispositivo internazionale di
lotta contro la proliferazione di tali armi. Perché, «se
la leadership che si sforza di
impedire a certi paesi di costruire tali armi è formata da
paesi che hanno già queste
armi, non è una leadership
credibile». Tobia si riferiva
chiaramente agli sforzi messi in atto da Gran Bretagna,
Cina, Francia, da Russia e
Stati Uniti, tutti membri permanenti delle Nazioni Unite, ma tutti potenze nucleari
dichiarate. Un Paese come il
Sudafrica invece sarebbe
credibile perché possiede
tutta la tecnologia per costruire armi nucleari, ma ha
deciso di non farlo. (Si ricorderà che il programma era
stato messo in piedi dal regime di apartheid in Sudafrica nel 1980, ma fu smantellato durante la transizione
verso la democrazia all’inizio
del 1990).
Purtroppo, ha concluso Tobia:
«I recenti rapporti che riguardano la tecnologia che permettono di realizzare le armi
nucleari sono terrificanti. Ma
è anche scandaloso che i paesi che dispongono di arsenali
nucleari non siano disposti a
rinunciare al loro utilizzo».
(Eni)
Il Consiglio d’Europa ha reso
noto il rapporto n.1720 dal titolo «Scuola e Religione» che
reca una serie di raccomandazioni sul tema, rivolte alle
autorità politiche della scuola e ai governi dei Paesi
membri. Mosso dalla pressione attuale degli eventi, il
rapporto considera la religione – con la diversità delle
esperienze ed espressioni comunitarie – come un complesso di significati di particolare peso e incisività nella
stabilizzazione di forme di
mentalità collettive. Di qui la
ripresa di intenzionalità già
accennate nel rapporto n.
1396 del 1999 sul medesimo
tema. In 14 punti vengono
espressi i legami che dovrebbero intercorrere tra scuola,
religione e politica, cominciando col dare importanza
agli aspetti cognitivi e comportamentali dell’educazione, perché gli stereotipi e i
pregiudizi si vincono con la
diffusione di conoscenze
chiare e articolate e con la
pratica di un pensiero relazionale e dialogico. Sfortunatamente – nota il testo al n.10
– in Europa mancano insegnanti sufficienti ad assicurare lo studio comparato delle religioni, benché vi siano
in atto diverse sperimentazioni. Il rapporto auspica (al
n.13) la creazione di un Istituto europeo di tali studi e ne
esplicita le finalità: «Deve
consistere nel far scoprire
agli alunni le religioni che si
praticano nel loro paese e
quelle dei loro vicini, nel
mostrare loro che ciascuno
ha il diritto di credere che la
sua religione ‘è la vera’ e che
il fatto che gli altri abbiano
una differente religione, o
non abbiano religione, non li
rende per questo differenti in
quanto umani». L’ipotesi è
che tale educazione possa
aver ragione dei fondamentalismi.
OCCA 2005
Colombia
la pacificazione
nazionale
non procede
In Colombia non va avanti la
«politica di pacificazione con
ogni mezzo» posta in atto dal
presidente Alvaro Uribe: continuano attentati, imboscate,
azioni militari, nonostante le
diverse strategie messe in atto
dallo stesso Uribe che si candida alle presidenziali del 28
maggio. Il 13 febbraio il Rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani constata
che il processo di scioglimento delle milizie paramilitari
(Auc, estrema destra) non ha
posto termine alle loro estorsioni. È vero che oltre 22.000
ex-combattenti hanno deposto le armi, ma l’Onu denuncia «i legami tra alcuni membri della funzione pubblica,
specialmente delle forze armate, e i gruppi paramilitari».
Rileva pure le pressioni esercitate dalle Auc sulla pubblica amministrazione e la politica. Secondo tale rapporto, la
legge del luglio 2005, cosiddetta di «giustizia e pace», fissa
un massimo di pena di otto
anni per i paramilitari che
smobilitano. Alcuni di loro,
però, sono colpevoli di crimini atroci . Problematico tendere loro la mano?
della quindicina
Strasburgo
estremismi
scuola
e religioni
il meglio
Nucleare
Sudafrica
leader contro
le armi?
vignette
ATTUALITÀ
da IL CORRIERE DELLA SERA, 12 febbraio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 17 febbraio
da L’UNITÀ, 20 febbraio
da LA REPUBBLICA, 14 febbraio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 19 febbraio
da LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, 23 febbraio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 20 febbraio
ROCCA 15 MARZO 2006
ROCCA 15 MARZO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
da L’UNITÀ, 24 febbraio
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Cittadella Ospitalità
PASQUA IN CITTADELLA
Raniero
La Valle
conversazioni sul Mistero pasquale, fondamento della fede cristiana, di mons. Luigi BETTAZZI;
liturgie del Triduo; tradizionale processione cittadina del Cristo morto
28° seminario
LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA
28 aprile - 1° maggio
DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA
il maschile e il femminile alla prova, oggi
per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali
i relatori: Luigi BOVO, psicoanalista; Giancarlo BRUNI, biblista, di Bose; Francesco COMINA, editorialista de ‘L’Adige’; Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta;
Cornelia DELL’EVA, giornalista; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra
4° Convegno Terza Età
14-17 maggio
PADRI E FIGLI... NEL FLUIRE DELLE GENERAZIONI
'proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che ti sei coltivato' (Salmo 80, 16)
per adulti/anziani, docenti e allievi università terza età, operatori socio-sanitari,
assistenti sociali, psicologi, volontari di cooperative, giovani studenti
domenica 14
ore 17.30
lunedì 15
9.15
15.30
martedì 16
9.00
mercoledì 17
9.00
11.00
14,30
visita alla Galleria d’Arte della Cittadella
isolamento-silenzio-conflittualità-violenza: effetti di una società mutata? Roberto SEGATORI – sociologo
presentazione indagine “Dizionario di vita”: parole/chiave ai giovani
il succedersi delle generazioni nelle civiltà umane: un confronto antropologico Tullio SEPPILLI – antropologo
laboratori
Armonizzazione corporea (Forghieri – Paliani) Artigianato in cammino (Ferrovecchio); Musica e danza (Seppoloni)
Prosa e poesia (De Leonibus); Comunicare con i sentimenti (Galli)
in-tendersi: le connotazioni del comunicare
Rosella DE LEONIBUS – psicologa e psicoterapeuta
microfono aperto: “le politiche di integrazione giovani/anziani” realtà istituzionali a confronto. Conduce Tonio Dell’Olio
laboratori (come giorno precedente)
presentazione risultati dei laboratori
15.30
il Dio che divide
13-17 aprile
quando il dialogo si fa preghiera Tonio DELL’OLIO - teologo
pregando…danzando: interpretazione dell’artista indiana Juliet CHRISTOPHER
celebrazione eucaristica
visita facoltativa alla Galleria “A. Burri”, a Città di Castello/PG
il 15 e il 16 mattina, alle ore 8.30, spazio di preghiera animato dai convegnisti
con il Patrocinio dell’Associazione Nazionale delle Università Terza Età UNITRE
64° Corso internazionale di Studi cristiani
20-25 agosto
SENZA I SANDALI DELL’IDENTITÀ?
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
l di là del giudizio politico, che bisogna pur dare, sul conflitto triangolare che coinvolge Occidente,
Israele e mondo arabo, il dato che
più di tutti sconcerta è il ruolo crescente che la religione assume in
tale conflitto.
Come mai le religioni, che solo qualche lustro fa apparivano chiamate a un grande dialogo, e addirittura candidate a fornire un’etica mondiale che finalmente fosse al pari del
balzo in avanti compiuto dalla tecnologia e
dalla comunicazione globale, sono diventate il segno e il linguaggio della contraddizione, e la materia stessa dell’incendio che divampa?
Il giudizio politico non si può pretermettere
nell’analisi delle cause, quando ad esempio
si vede che l’attuale irrompere del cosiddetto fondamentalismo islamico è il figlio diretto del fallimento delle politiche laiche. In
Iran la politica dell’Occidente sconfisse il riformismo laico di Mossadeq, e ci volle Komeini per aver ragione della dittatura modernizzante e filooccidentale dello Scià.
Egualmente sconfitto fu il socialismo panarabo di Nasser, che aveva tentato di fondare
la rinascita araba non sulla religione ma su
motivi nazionalistici e culturali. In Palestina un movimento laico e religiosamente pluralistico come quello palestinese, è stato
sconfitto dall’alleanza tra un movimento religioso ebraico, fattosi Stato con Israele, e
gli Stati laici dell’Occidente; e se Hamas ha
vinto le elezioni in Palestina, è solo dopo che
la leadership laica di Arafat è stata delegittimata di fronte al mondo e bruciata agli occhi del suo popolo dal diniego assoluto opposto anche alle sue più moderate istanze
politiche. Per non parlare dell’estremismo
islamico in Afghanistan, eccitato dall’invasione russa e fomentato dall’esterno in funzione antisovietica, nonché della sconfitta del
regime autocratico ma laico di Saddam in
Iraq, nelle circostanze che sappiamo, finite
ora nella guerra delle moschee.
Ciò non basta tuttavia a rendere ragione del
fatto che religioni di salvezza stiano diventando potenti fattori di divisione, di conflitto e di perdizione. E sul fronte che si è aperto con l’Islam c’è ora in atto una spinta a far
scendere in campo l’Occidente non come
soggetto politico o come civiltà, ciò che sarebbe già grave, ma proprio come religione,
attraverso l’appello alle radici giudeo-cristiane, e in sostanza alla rivendicazione identitaria dell’Occidente come nuova cristianità.
Il Papa per fortuna non ci sta; ma una cro-
A
ciata si può predicare anche senza il Papa e
contro il Papa.
Ora qui ci sono da dire due cose. La prima è
che se il Dio degli eserciti è uno, ma questi
eserciti si combattono tra loro, vuol dire che
o quegli eserciti in realtà sono atei, oppure
che il loro Dio non è lo stesso Dio. Questo
pone un problema alle religioni: qual è il Dio
che è male rappresentato, qual è il Dio che si
deve convertire? L’uno, l’altro o tutti e tre?
Questa domanda vale anche nel nostro piccolo. Il giudice Scarpinato di Palermo ha detto in una conferenza a Roma che ci sono
mafiosi assai devoti di Dio, anche e ancora
di più quando uccidono. Questo porta a chiedersi che Dio è quel Dio. E poiché non si
tratta di un Dio privato, la questione è come
mai la Chiesa siciliana abbia mediato e rappresentato un Dio che va bene anche per i
mafiosi. Più in generale, come mai dopo
millenni di ebraismo, e poi di cristianesimo
e di Islam, sia ancora mediato dalle grandi
rappresentazioni religiose un Dio nemico,
dal quale voltare la faccia. Oserei dire che è
venuto il tempo di una nuova conoscenza di
Dio; ogni grande tradizione ne dovrebbe riaprire le sorgenti che porta dentro di sé.
La seconda cosa è che se l’Occidente va come
tale alla guerra di religioni, è destinato alla
sconfitta. Perché l’Occidente ha fallito sia
nella pretesa di mettere Dio tra parentesi, e
con un Dio tra parentesi non ha nulla da dire
a un mondo che ancora crede in un Dio che
sia al centro di tutto, sia nella pretesa di definire un Dio «entro i limiti della sola ragione», nel che sta il culmine dell’illuminismo.
In realtà in tutto il mondo, compreso il nostro, erompe un Dio che attraversa tutto
l’umano, ben oltre la ragione; e intanto i pallidi epigoni degli illuministi ripudiano la ragione violandone il cruciale principio di non
contraddizione. Essi infatti (e già c’è il proclama di Pera, ispirato alla Fallaci, firmato
da Berlusconi e interpretato da Calderoli)
cadono nella più grande delle contraddizioni: come atei suonano la squilla per il partito di Dio, e nel nome del Dio cristiano in cui
non credono affatto bandiscono la crociata
contro il Dio in cui i musulmani credono
troppo. E senza apparente imbarazzo fanno
appello ai lumi che l’Occidente stesso sta spegnendo uno ad uno, dall’universalità del diritto al culto della dignità umana, al ripudio
della guerra, mentre con i fumi dei campi di
battaglia vorrebbero squarciare le tenebre
dell’oscurantismo che denunciano negli altri.
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ROCCA 15 MARZO 2006
giornate di spiritualità
RESISTENZA E PACE
NIGERIA
ROCCA 15 MARZO 2006
Maurizio
Salvi
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M
ilioni di persone se ne sono
state simbolicamente con il
naso all’insù il 27 settembre
2003 quando un razzo vettore
partito dal cosmodromo russo di Plesetsk ha portato nello
spazio il primo satellite della Nigeria, costato 13 milioni di dollari, a cui è stato assegnato il compito di vigilare con accuratezza le
risorse petrolifere e idriche di uno dei paesi
più poveri del mondo. «È stata una impresa
eccezionale – ha detto per l’occasione Joseph Akinyede, responsabile dell’Agenzia nazionale per la ricerca e lo sviluppo spaziali –
perché abbiamo marcato una nostra presenza nello spazio». Una presenza nello spazio
della Nigeria. Sì di quella nazione che secondo la Banca Mondiale ha il 66% della popolazione estremamente povera che vive con
meno di un euro al giorno, con un reddito
medio annuo procapite di circa 300 euro e
con il 30% di analfabeti.
E, per venire ad episodi più vicini a noi nella
storia, del paese preso di petto dall’influenza aviaria che ha investito a partire dall’8
febbraio 2006 otto dei 36 Stati nigeriani, e
di quello che è stato teatro, come già avvenuto in passato, di violenti scontri che spes-
so troppo frettolosamente sono stati attribuiti a dissidi religiosi musulmani-cristiani
legati alla triste vicenda delle vignette satiriche su Maometto e che in ogni caso hanno
causato solo nella settimana fra il 17 e il 24
febbraio 150 morti, 1.000 feriti e 16.000 profughi interni, oltre a decine di luoghi di culto devastati.
rivalità religiose ma non solo
Non vi è dubbio che come in Libia o in Egitto, le violenze avvenute in Nigeria possono
essere spiegate con la forte rivalità fra musulmani (nel nord) e cristiani (nel sud), ma
monsignor Matthew Man-Oso Ndagoso, vescovo di Maiduguri (città dove è morta la
maggior parte di nigeriani cristiani) si è premurato di dichiarare all’agenzia Misna che
«non è corretto ed utile parlare di caccia al
cristiano», perché quello che ha portato alle
violenze di febbraio è una mescolanza di
differenze etniche e politiche, di povertà e,
certamente anche di diversità di credi religiosi. Anche per Emeka Umeh, responsabile dell’Organizzazione per le libertà civili di
Onitsha (Nigeria meridionale), «questo tipo
di proteste hanno una spinta implicita di ca-
rattere politico». Questo non ci impedisce
di ossevare che comunque in 12 Stati del
Nord nigeriano è stata introdotta la Sharia
islamica, ossia il rispetto della legge coranica, che certamente non ha ridotto il fossato
fra le due metà del paese.
Retta da regimi militari golpisti fino al 1999
la Nigeria è entrata in una stagione democratica con il presidente Olusegun Obasanjo,
che nel 2007 concluderà il suo secondo mandato. L’interessato ha assicurato di voler togliere il disturbo alla scadenza del termine
previsto, ma quasi nessuno gli crede, perchè
forze governative del Parlamento stanno
operando da tempo per sondare gli umori
delle varie formazioni politiche sull’ipotesi
di una modifica della Costituzione che permetta ad un capo dello Stato di concorrere
per un terzo, inedito, mandato. Per molti
analisti, le tensioni generate da questo progetto non tanto segreto, si sono mescolate
con le frizioni religiose generando la miscela esplosiva che ha causato i disordini e l’alto numero di vittime. Al riguardo ha detto la
sua anche il capo della Cia statunitense, John
Negroponte, secondo cui «le speculazioni secondo cui il presidente Obasanjo cercherà
di cambiare la Costituzione per candidarsi
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ROCCA 15 MARZO 2006
un paese ricco
di povertà e di petrolio
il paese più corrotto del mondo
ROCCA 15 MARZO 2006
Oltre ad avere il primato di nazione più popolosa d’Africa, la Nigeria ne ha altri meno
invidiabili: ha l’incredibile cifra di 3,5 milioni di malati di Aids ed è, dopo Bangladesh e
Haiti, il paese più corrotto del mondo, con
una impressionante attività di funzionari
statali e privati che cercano, e per lo più vi
riescono, di riempirsi le tasche di denaro
pubblico.
La classifica di Transparency International
sulla corruzione è stata criticata dal Ministro delle Finanze nigeriano, signora Ngozi
Okonjo-Iweala. «Non ci sembra – ha detto
alla Bbc – che l’organizzazione basata a Berlino abbia sufficientemente preso in considerazione i nostri sforzi per invertire la tendenza. Ci sono voluti 20 anni a successivi
governi militari per diventare corrotti a livelli mai visti, e quindi ci vorrà molto tempo
per riportare il fenomeno sotto controllo».
Per cercare di arginare in qualche modo la
situazione, il presidente Obasanjo ha creato
numerosi organismi finanziari e giudiziari
che però per il momento hanno potuto solo
graffiare il fenomeno. Per il Forum del Segretariato cattolico, che pubblica periodicamente sulla stampa nigeriana analisi sul delicato tema, «la corruzione è in larga misura
responsabile delle promesse andate in frantumi, delle speranze vanificate e dei sogni
strampalati che hanno caratterizzato l’esistenza di una moltitudine di nigeriani negli
ultimi decenni. La scelta davanti a noi è chiara: o partiamo in guerra contro la corruzione in tutte le sue ramificazioni o noi tutti
saremo presto consumati da questa sorta di
drago dalle molte teste come una Idra».
Comunque, resta il fatto che la Nigeria è il
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principale produttore di petrolio del Continente nero, con 2,8 milioni di barili al giorno. Inutile dire che, soprattutto dopo l’11
settembre 2001, questa potenzialità energetica è passata al centro dell’attenzione delle
Grandi potenze ed in particolare degli Stati
Uniti, che ha varato un denso programma
di formazione militare che coinvolge molti
paesi dell’Africa maghrebina e nera. È in
questo ambito che ha messo a punto un programma denominato Assistenza all’addestramento in operazioni di contingenza in Africa (Acota), da cui è nato il Sistema di addestramento congiunto di armi combinate
(Jcats) che è stato aperto il 25 novembre 2003
ad Abuja, capitale della Nigeria. Tutto questo per accompagnare la strategia della Casa
Bianca di curare i paesi produttori di energia, nella prospettiva che, come sostengono
molti analisti, nel prossimo decennio il continente africano diventerà, dopo il Medio
Oriente, la seconda zona fornitrice di greggio, ed eventualmente di gas naturale, degli
Stati Uniti.
assalto al petrolio
Attraverso numerose compagnie multinazionali petrolifere, gli Usa hanno aumentato la
loro influenza non solo in Nigeria, ma anche in altri paesi che posseggono importanti riserve di ‘oro nero’, come Angola, Ghana,
Camerun ed il minuscolo Sao Tomé e Principe. Tutto sembrava funzionare per il meglio per Washington, ma da qualche mese i
piani statunitensi sono stati rimessi in discussione non solo dai disordini etnico-religioso-politici, ma anche dall’azione del Mend,
un movimento guerrigliero separatista della regione del delta del Niger, dove si estrae
praticamente tutto il petrolio nigeriano.
Questa regione è stata teatro negli anni ’70
di un boom energetico-finanziario che però
non ha portato alcun beneficio ai 20 milioni
di abitanti che la popolano. Dopo aver attaccato in particolare la compagnia Shell
(anglo-olandese), ma anche l’italiana Agip,
il Mend ha preso in ostaggio numerosi cittadini stranieri, fra cui alcuni cittadini americani, ponendo come condizione per il loro
rilascio il ritiro delle forze militari federali
dalla zona e la trasmissione del controllo sui
pozzi del delta alle forze di liberazione. Il
governo nigeriano si mostra ottimista e invita a non drammatizzare, ma molti pensano che non sarà facile venire a capo della
crisi, vista l’instabilità che ha ormai conquistato numerose zone strategiche del mondo.
Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
pistola facile
Romolo
Menighetti
C
osa cambia, a proposito di legittima difesa, a causa della modifica
all’articolo 52 del Codice Penale,
approvata in modo definitivo dalla Camera il 24 gennaio scorso?
Tale modifica non amplia i limiti
di principio della legittima difesa. Infatti,
la precedente normativa già consentiva la
difesa, non solo dell’incolumità personale, ma anche dei beni patrimoniali propri
e altrui, nonché il diritto all’inviolabilità
del domicilio. Il tutto «sempreché la difesa sia proporzionale all’offesa». Si tenga
conto poi che l’articolo 59 del vigente Codice Penale estende la non punibilità anche ai casi in cui chi agisce crede per errore di essere aggredito, e che l’articolo 55
ridimensiona la responsabilità nel caso di
eccesso colposo di legittima difesa.
La novità introdotta dalla modifica all’articolo 52 sta nella presunzione che la reazione dell’aggredito, quando il fatto avvenga nel suo domicilio o nel suo luogo di lavoro, sia sempre e comunque proporzionata all’offesa minacciata. Ciò nell’intento di
sottrarre al giudice la valutazione della
proporzione tra offesa e difesa, e al fine di
ridurre, conseguentemente, tempi e modalità di accertamento dei fatti, onde attenuare le sofferenze che causa all’aggredito il
normale iter processuale innescato dall’atto di legittima difesa.
Ora, la modifica recentemente approvata
lascia perplessi per diversi motivi.
Innanzitutto è illogico equiparare comportamenti diversi tra loro, solo perché avvenuti in un determinato luogo. Non si può
trattare allo stesso modo chi neutralizza
un rapinatore armato e chi spara freddamente a un ladruncolo sorpreso a rubare
qualche pianta nel giardino di casa. È poi
illusorio pensare che l’aggredito, nel caso
ci siano morti o feriti, possa sottrarsi alla
penosa teoria di deposizioni, accertamenti e quant’altro, che necessariamente fanno seguito a un atto di legittima difesa.
La nuova norma poi, essendo di tipo casistico, è più simile a una «grida» di manzoniana memoria piuttosto che a una legge
propria del diritto moderno, essendo priva di respiro generale ed astratto. Inoltre,
da un lato, con il ricorso alla presunzione,
si mortifica in via di principio il ruolo del
giudice, mentre dall’altro si apre la strada
a molte controversie. Ad esempio, in caso
di lite violenta tra vicini di casa, trovandosi i protagonisti nell’ambito del proprio
domicilio, come si stabilirà chi è l’aggressore e chi l’aggredito? Senza contare che
potrebbero instaurarsi prassi malavitose,
consistenti in agguati predisposti attirando il proprio nemico in casa propria.
Dal punto di vista ideologico, inoltre, la
nuova norma afferma implicitamente il
diritto che in casa propria e sulla soglia
della propria bottega, tutto sia lecito. Si
torna così ai tempi in cui erano le pistole a
dettar legge, e il grilletto facile e veloce
prevaleva sulle regole dello stato di diritto.
Questa modifica della legge sulla legittima difesa costituisce anche una implicita
ammissione, da parte governativa, del fallimento delle sue politiche in materia di
sicurezza. Essa, infatti, scarica sbrigativamente il problema sui cittadini, mettendogli in mano un’arma. Tale situazione però
finirà col produrre le conseguenze più gravi
su questi, in quanto – si sa – i criminali
hanno maggiore dimestichezza con le armi
da fuoco rispetto ai cittadini onesti.
Ma perché allora, ci si può chiedere, il
Governo ha varato questa norma che, secondo Massimo Brutti, responsabile della
Giustizia per i Ds, fa «scempio del diritto,
e in particolare dell’istituto della legittima
difesa»?
Perché la Lega, che ha fortemente voluto
il provvedimento, aveva bisogno di sbandierare, agli occhi dei suoi elettori a qualche settimana dalle elezioni, qualcosa che
la consacrasse come forza politica totalmente schierata dalla parte dei cittadini.
Da qui l’ennesimo scambio di favori tra i
partiti della Casa della Libertà. E pazienza per chi morirà a causa di questa trovata
elettorale.
Giustamente perciò più di cinquanta docenti di Diritto e Procedura penale hanno sottoscritto, fin dall’ottobre dello scorso anno,
a discussione ancora in corso, un documento (www.magistraturademocratica.it) nel
quale, a fronte della ventilata modifica dell’articolo 52, affermano non sapersi «dove
finisca l’analfabetismo giuridico e dove inizi la malafede».
❑
17
ROCCA 15 MARZO 2006
NIGERIA
ad un terzo mandato stanno facendo crescere la tensione politica e, se provate, possono
generare disordini e conflitti di grandezza
imprevedibile». Soltanto negli ultimi sei anni
di democrazia, le vittime della violenza sono
state più di 14.000.
La questione divide lo stesso Partito democratico del popolo nigeriano che per metà è
favorevole ad una permanenza del capo dello Stato al potere e per metà spinge le ambizioni del vicepresidente Atiku Abubakar, che
appartiene ad una etnìa del nord del paese.
Oltre ad una richiesta di Washington affinché la Costituzione non sia cambiata, vi è
stata anche la presa di posizione del generale Yakubu Gowon, che guidò la Nigeria per
undici anni fra il 1966 ed il 1975. «Dobbiamo evitare – ha detto – la tendenza della leadership a perpetuarsi o a prolungare la propria accettabilità».
POLITICA
che cos’è
democrazia
S
non basta votare
ROCCA 15 MARZO 2006
Limiti, distinzioni che i secoli hanno ripetuto e spesso esasperato, nonostante i
momenti di maggiore spinta democratica, come quelli delle rivoluzioni borghesi dei secoli XVII e XVIII. Basti pensare
al momento più noto, ma anche più limitato, quello della rivoluzione francese. Libertà, eguaglianza, fraternità: ma
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per chi e fino a che punto?
Tornando a noi e alle nostre scadenze,
se parliamo di democrazia vengono subito in mente le elezioni. Necessarie, ma
insufficienti. Necessarie: rappresentano
un primo passo, insostituibile. Senza
elezioni, niente democrazia. Ma è chiaro che non bastano, e per molti motivi
che ci possono introdurre ad una democrazia più vera. Senza dimenticare che
di elezioni esistono molti tipi, più o
meno democratici. Ce lo ha confermato
anche il recente dibattito parlamentare
che ha modificato il sistema elettorale
del nostro paese. In un senso, ci dicono
i competenti, che non esclude certamente e radicalmente la democrazia, ma che
la rende meno limpida, meno efficace.
Forse meno democratica. Il voto finisce
per sfuggire, anche se non del tutto, dalle mani e dalla penna del singolo elettore per essere afferrato sempre più dalla
direzione di qualche gruppo o partito.
Un voto che, a scapito della «vera» democrazia, diviene espressione di qualche potente o potentato. È il grande limite, il grande ostacolo che ogni democrazia dovrebbe cercare di superare se
vuole essere «vera».
Ma è difficile, come il mondo moderno
sta dimostrando. Sempre più forti i mass
media e sempre più dipendenti dal denaro. È una realtà che non può non limitare la «verità» della espressione democratica e con la quale è sempre più
difficile fare i conti. Lo confermano i dibattiti di questi giorni, con l’importanza
che, da una parte e dall’altra, viene attribuita addirittura a un giorno di voce
nei media, a qualche ora di radio o Tv.
Gli stessi «comizi» democratici di appena qualche decennio fa appaiono ormai
inutili o quasi.
potere del denaro
Sempre più stretto, quindi, il rapporto
fra la democrazia e il denaro. Vince,
come sempre, chi ha più voti ma il numero dei voti dipende in maniera sempre più diretta da chi ha più denaro.
Un limite, questo, che si evidenzia ancora di più quando la democrazia dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – addirittura essere esportata. Il caso Irak è tristemente esemplare. Qui, come altrove,
al problema economico si aggiungono i
problemi politici che la democrazia, per
lo meno a breve, non riesce a risolvere.
Come rimediare? Come procedere verso
una democrazia vera o più vera? È facile
dare risposte generiche, ma è molto difficile metterle in pratica.
cultura eguaglianza impegno
Più cultura: in gioco, in primo piano, le
scuole e anche le chiese. Più eguaglianza
economica, senza la quale i risultati elettorali sono sempre falsi: ma è anche vero che
la eguaglianza economica è un cammino
che produce democrazia ma che anche la
richiede. Una specie di circolo vizioso.
Un cammino, dunque, che esige un impegno forte e continuo. Senza scoraggiarsi ma anche senza l’illusione di avere raggiunto la democrazia vera, quella autentica che permetterebbe di mettersi a sedere in una stazione di arrivo. La democrazia ce la dobbiamo conquistare giorno per giorno e non soltanto nella grandi e solenni scadenze elettorali. A partire dalla vita quotidiana: il lavoro, il sindacato, addirittura il condominio.
ROCCA 15 MARZO 2006
Filippo
Gentiloni
iamo tutti democratici: almeno
nel nostro occidente, almeno a parole. Ma è proprio vero? E quali
sono le caratteristiche della vera
democrazia? Sono sufficienti le
elezioni? Interrogativi ai quali è
importante cercare di rispondere, e non
soltanto in vista delle prossime scadenze elettorali.
Di democrazia si parla da sempre, per lo
meno dal tempo della antica Grecia. Che
ci dice, prima di tutto, di non demitizzare e di evitare le esaltazioni troppo facili. La democrazia di Atene esaltata da Tucidide era molto relativa, a dir poco. Relativa e limitata: uomini e donne, ateniesi e immigrati, soprattutto ricchi e poveri.
Filippo Gentiloni
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OCCUPAZIONE ITALIANA
un po’
di conti
20
N
regole del lavoro avesse creato occupazione, ma gli stranieri che analizzano la nostra economia avranno pensato si trattasse di un altro dei «miracoli italiani» di un
governo che di miracoli agli italiani ne aveva promessi tanti.
vero non vero
Pochi, però si sono posti un’altra domanda: ma sarà poi vero che l’occupazione è
cresciuta e cresce?
Qualche dubbio doveva pure nascere se
l’Istat, nel pubblicare i dati, da qualche
tempo avvertiva sempre che essi risentivano della regolarizzazione dei lavoratori
stranieri.
È vero che l’Istat non ha mai quantificato
gli effetti di questo fenomeno, ma il messaggio era chiaro.
A coglierlo era stato l’Ires a giugno e poi
l’Ufficio Studi della Banca d’Italia che a
novembre aveva avvertito che in realtà l’aumento dell’occupazione allora stimato in
437mila unità era dovuto per 337mila al
fenomeno stranieri e che quindi l’aumento vero era solo di 100.000 occupati.
Adesso, dopo i dati Istat del terzo trimestre del 2005 ci ha pensato un recente studio dell’Ires a provare che l’occupazione,
negli ultimi tre anni, non solo non era aumentata, ma è addirittura diminuita.
Per fare luce su questo mistero italiano
sono sufficienti quattro dati: gli occupati
rilevati dall’indagine sulle forze di lavoro
sono stati 21.381mila ad inizio 2001,
22.077mila nel terzo trimestre 2002,
22.542mila nel terzo trimestre 2005; gli
stranieri che si sono regolarizzati sono stati 642mila.
Vediamo di leggerli correttamente.
Nel primo biennio c’è una crescita di
696mila occupati. Essa è credibile e spiegabile perché il Pil cresceva ancora e si
dispiegavano ancora gli effetti della legge
Treu.
record negativo
La crescita registrata negli ultimi tre anni
è, invece, meno credibile e spiegabile anche perché proprio dalla fine del 2002 è
cominciata la regolarizzazione dei lavoratori stranieri.
Che cosa è accaduto allora?
È accaduto che questi lavoratori prima
non venivano rilevati dall’indagine sulle
forze di lavoro perché essa è basata sull’anagrafe della popolazione residente.
Poi, con la regolarizzazione, gradualmente, essi sono entrati nella rilevazione ed
hanno fatto crescere l’occupazione.
È evidente, però, che non si tratta di occupazione nuova, ma di occupazione prima
sommersa ed adesso emersa e che se non
ci fosse stata nessuna variazione negli occupati, per il solo fatto di questa emersione, avremmo dovuto registrare 642mila
occupati in più.
Invece confrontando gli occupati della fine
del 2002, cioè prima che cominciasse la
regolarizzazione, con quelli della fine del
2005, quando tutti i regolarizzati sono entrati nella rilevazione, si scopre che l’occupazione rilevata è aumentata solo di
465mila unità.
Ciò significa che, tolti i regolarizzati, prima sommersi e poi emersi, ma sempre
occupati, non c’è stato nell’ultimo triennio
un aumento, ma una diminuzione dell’occupazione di 177mila unità.
miracolo-disastro
Questo dato rappresenta la realtà meglio
di quanto non sia stato fatto finora, ci fornisce un quadro più negativo di quello che
ci è stato mostrato, ci aiuta a capire alcuni
fenomeni interni alla realtà dell’occupazione nel nostro paese.
Il primo riguarda l’evoluzione del tasso di
attività, cioè la percentuale di popolazione in età lavorativa che lavora o cerca lavoro rispetto alla popolazione in età lavorativa totale: alla fine del 2005 il tasso di
attività ha toccato il record negativo del
periodo.
Il secondo riguarda la flessione dell’occupazione femminile nel Sud: 138mila occupati in meno in tre anni. Così quel leggero
incremento di occupazione femminile al
Sud che si era registrato negli anni passati
è stato vanificato e si è verificato un vero e
proprio ritorno indietro.
Insomma più che un miracolo italiano c’è
stato un disastro italiano.
ROCCA 15 MARZO 2006
ROCCA 15 MARZO 2006
Aldo Eduardo
Carra
on pochi si sono chiesti in questi
ultimi anni: come mai in Italia
l’occupazione aumenta mentre
l’economia ristagna?
Fino ad un anno fa la domanda
se la ponevano in pochi perché il
governo era riuscito a far passare il messaggio che la crisi non c’era e, quindi, l’aumento dell’occupazione appariva naturale.
Ad un certo punto, però, anche i più ostinati negazionisti hanno dovuto ammettere che la crisi c’era.
È vero che hanno cercato fino all’ultimo
di dire che essa non era italiana, ma europea, ma poi di fronte alla Spagna che corre, alla Francia ed alla Germania che hanno ripreso a crescere, con una Italia indiscutibilmente ferma, hanno dovuto ammettere che la crisi c’era, magari provando a dire un giorno sì ed un giorno no che,
però, abbiamo già imboccato la strada della ripresa.
Una volta ammessa da tutti l’esistenza della
crisi, la domanda si è riproposta: come mai
l’occupazione cresce?
La risposta del governo era pronta: l’aumento dell’occupazione in una fase di crisi dimostra la bontà della legge Biagi che
ha creato tante nuove forme di lavoro (siamo arrivati fino a 48) e che ha stimolato le
imprese ad assumere.
In realtà non era mai successo in nessuna
economia che in presenza di una crisi ed
in assenza di una politica di intervento per
lo sviluppo, una semplice modifica delle
Aldo Eduardo Carra
21
svende e disprezza il proprio corpo e la
propria intimità va considerata una vittima delle condizioni ambientali create dagli adulti, quindi ancora più fragile e meritevole di tutela di una sua coetanea cresciuta in un contesto familiare sano. Attribuirle maturità e coscienza sessuale maggiore, con una più o meno implicita connotazione negativa (la ragazzina era so-
VIOLENZA SESSUALE
vviamente diritto e giudici non
possono ignorare il triste fenomeno della violenza sessuale, ma entrambi debbono accostarsi al delicatissimo problema con grande
sensibilità, molta prudenza, umano rispetto e piena coscienza dei propri limiti. Qualsiasi espressione o semplice parola non assolutamente necessaria per individuare i fatti ed eventualmente punirne l’azione deve essere accantonata e fermata sulla soglia della sua esternazione.
Nella motivazione delle sentenze il rigore
argomentativo legato alla più obiettiva o
provata ricostruzione dei fatti non tollera
cedimenti e reazioni emotive o valutazioni soggettive. A maggior ragione quando
si tratta di sentenza della Cassazione, che
è giudice di legittimità e non di merito e
può quindi sindacare le decisioni impugnate solo se affette da vizi giuridici sostanziali o processuali. Per questo di norma,
quando cassa (annulla) la sentenza la Cassazione invia il processo ad altro giudice
di merito per la nuova decisione.
attenuanti facili
ROCCA 15 MARZO 2006
Nel triste caso della ragazza sarda la terza
sezione della Cassazione non si è completamente attenuta agli accennati criteri, ma
ha ceduto alla tentazione di arricchire la
motivazione della sentenza con proprie
valutazioni etico-psicologiche non indispensabili, poco opportune e di dubbia
esattezza.
Ciò non toglie che la sentenza sia stata
spregiudicatamente e scorrettamente gettata in pasto all’opinione pubblica, purtroppo facilmente suggestionabile, a volte
persino manipolabile e particolarmente
attenta a certe notizie scandalistiche. Af22
fermazione scritta a titolo cubitale «la violenza è meno grave se la vittima non è vergine» sono tanto volgari e pruriginose
quanto poco veritiere. Di una simile proposizione o di altre simili «se aveva avuto
rapporti» non vi è traccia nella decisione
incriminata. Compito della Cassazione è
anche quello di valutare se la motivazione
della sentenza impugnata sia completa e
congrua in ogni sua parte, ivi compresa
quella relativa alla concessione di attenuanti e di determinazione della pena. Su
questo punto i Consiglieri della terza sezione hanno ritenuto insufficiente la motivazione e, quindi, l’hanno cassata, come
era nel loro potere-dovere e rinviato il processo ad un’altra Corte che, nonostante
l’opinione espressa dai giudici di legittimità, sarà libera di valutare la gravità del fatto, ma sarà tenuta a darne una più congrua e completa motivazione. La sentenza
non ha, dunque, alcuna portata generale e
non costituisce un vero precedente con
l’autorevolezza propria del classico precedente (non vincolante, ma che non si può
ignorare).
Il clamore suscitato dalla discutibile pronuncia è dunque certamente dovuto alla
modalità in gran parte esasperata ed ipertrofica con cui, quantomeno colposamente, gli organi di informazione hanno dato
la notizia, non preoccupandosi troppo dei
suoi aspetti tecnici e dei suoi effetti giuridici.
Non è certo la prima volta che una sentenza viene cassata dai giudici di legittimità
perché la sua motivazione è insufficiente
o contradditoria. Non risponde però all’ortodossia motivazionale della Cassazione ed
alle regole di prudenza e sensibilità che
debbono essere seguite da ogni giudice, la
manifestazione di opinioni e valutazione
SCHEDA
Si riporta, per informazione dei lettori, una
breve scheda storico-normativa della dott.ssa
Flavia Risso, cultrice di Diritto pubblico all’Università di Torino, sullo spinoso problema.
dei fatti nel contesto della breve decisione. Non erano necessarie o comunque potevano essere diverse e meno aggressive le
espressioni utilizzate per dimostrare la
incongruità della motivazione della decisione impugnata. Certe affermazioni riportate nella parte finale della sentenza di
Cassazione rivelano una superficialità psicologica ed una arretratezza culturale che
portano inevitabilmente ad una reazione
di biasimo, quando non di indignazione,
nell’opinione pubblica più avvertita e soprattutto in quella più specializzata.
dove sta l’errore
Nel Settecento l’attività sessuale non era vista come espressione di una libertà individuale, ed era punito il c.d. stupro semplice,
consistente nel solo fatto della congiunzione
carnale con una donna nubile e di onesti costumi, l’adulterio con donna coniugata, il c.d.
stupro qualificato caratterizzato dalla seduzione della donna e lo stupro violento.
Nella legislazione ottocentesca i reati sessuali
erano collocati tra «i reati che attaccano la
pace e l’onore delle famiglie» (Codice Napoletano del 1819), tra i «delitti contro il pudore e
contro l’ordine delle famiglie» (Codice Toscano del 1853), tra i «reati contro l’ordine delle
famiglie» (Codice Sardo-Italiano del 1859).
Nel Codice Zanardelli del 1889 tali reati vengono inseriti nel titolo VIII «dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie».
Nel Codice Rocco del 1930 i delitti contro la
libertà sessuale vengono collocati nel titolo
IX del Codice Penale relativo ai reati contro
la moralità pubblica e il buon costume.
Si riteneva cioè che l’oggetto dell’ offesa non
fosse «la persona» in quanto tale, ma solo il
sentimento del pudore e la morale pubblica.
Dopo la riforma avvenuta con la legge del 15
febbraio 1996, n. 66, tali delitti sono stati finalmente collocati nel titolo XII del secondo libro
del Codice Penale, tra i delitti contro la persona e, in particolare, contro la libertà personale.
La norma non si è limitata ad inquadrare giuridicamente in modo diverso i delitti sessuali, ma ha modificato profondamente i tipi di
illecito e la relativa disciplina.
L’innovazione più importante è senza dubbio
l’unificazione dei reati di «violenza carnale» e
di «atti di libidine violenti» nella più generica
fattispecie di reato di «violenza sessuale».
Si arriva infine alla recentissima legge 6/2/
2006, n. 38 che prosegue il cammino normativo di estremo rigore contro qualsiasi forma di attività sessuale o di sfruttamento di
persone minori.
Una ragazzina che a poco più di 13 anni
23
ROCCA 15 MARZO 2006
Giancarlo
Ferrero
una sentenza
clamorosa
O
quanto conta l’età della vittima
ROCCA 15 MARZO 2006
Il delitto richiede un cosciente atto di violenza che verso il minore di 14 anni e per
gli infrasedicenni (commesso da coloro che
hanno un posizione di supremazia come
genitori, tutori) si presume. Una presunzione più che giustificata addirittura ovvia, che si ha per il semplice fatto dell’età
della vittima.
L’art. 609 bis, terzo comma, prevede un’attenuante speciale con forte diminuzione
della pena (sino a 2/3) quando il fatto sia
«di minore gravità», formula criticata dalla dottrina per la sua eccessiva genericità
e che rischia di reintrodurre l’eliminata e
superata distinzione tra atti di libidine e
la violenza carnale e che comunque conferisce al giudice di merito un’ampia discrezionalità. L’interpretazione che appare più seria e coerente con la profonda riforma è quella che limita l’applicazione
dell’attenuante speciale ai soli casi di molestia sessuale, molto meno lesivi del bene
protetto.
I giudici della terza sezione sembra non
abbiano preso atto di questa fondamentale trasformazione del delitto da violenza
carnale che si muoveva nella sfera della
moralità pubblica a quella ben più ampia
della violenza sessuale (in qualsiasi forma
attuata e di qualsiasi tipo esso sia) che attiene alla libertà ed integrità psico-fisica
della persona. Così e senza che fosse loro
richiesto (rientrasse cioè nei loro precisi
compiti istituzionali) essendo giudici di
legittimità, hanno ceduto alla tentazione
di esprimere una (personale) valutazione
di merito sul fatto, sia pure «giustificata»
dal fine di evidenziare l’incongruità e contraddittorietà della motivazione della sen24
tenza della Corte di Appello (giudice di
merito di secondo grado).
È proprio qui che i giudici si sono lasciati
andare ad affermazioni psicologicamente
errate e giuridicamente superficiali: «la
ragazza già a partire dall’età di 13 anni
aveva avuto numerosi rapporti sessuali…è
lecito ritenere che già al momento dell’incontro… la sua personalità dal punto di
vista sessuale fosse molto più sviluppata
di quanto ci si può normalmente aspettare da una ragazza della sua età». A parte la
gratuità dell’affermazione (si ripete, non
indispensabile in un giudizio di mera legittimità) i giudici della terza sezione non
sono stati neppure sfiorati dal dubbio che
proprio per questo il vissuto degradato di
cui era incolpevole vittima la ragazza accentuava quello stato di fragilità psichica
che spiega e giustifica la particolare norma di protezione voluta dal legislatore penale. Vittima da difendere contro la brutalità del mondo adulto in cui si è venuta a
trovare, non scarto umano, non bene già
deteriorato e quindi giuridicamente di
minor valore!
passi avanti verso la civiltà
È pensare che da un po’ di anni la Cassazione, dimostrandosi sensibile ed all’altezza dei tempi, ha riconosciuto come risarcibile il danno esistenziale, quello cioè costituito dalla sofferenza esistenziale, dalla
perdita di realizzazione sociale, dalla tensione emotiva ecc. ecc…
Il male subito dalla ragazza sarda non merita che silenzio e rispetto; è il male provocato a dover essere stigmatizzato e punito.
È opportuno inoltre ricordare ai più spregiudicati e complessati maschi italiani che
da poche settimane è entrata in vigore la
legge 06/02/2006, n. 38 sulla lotta contro
lo sfruttamento sessuale dei bambini e la
pedopornografia. L’art. 1 punisce (quando
non vi è la più grave violenza) chiunque
compia atti sessuali con una minore di età
compresa tra i 14 ed i 18 anni in cambio di
denaro ed altra utilità.
Si tratta di una modifica di grande respiro
che segna un giro di boa del nostro ordinamento ed un significativo passo in avanti
verso la civiltà e la protezione dei soggetti
più deboli. È inoltre un altro non piccolo
segnale per rammentare, che con il denaro si possono comprare molte cose, ma non
tutte e che in certi casi, contrariamente alla
massima qualunquista, il denaro «olet» e
l’odore può essere nauseante.
fondamentalismo
PAROLE CHIAVE
Romolo
Menighetti
uesto termine indica un atteggiamento acritico e dogmatico nei
confronti di testi e teorie di riferimento. Più precisamente è considerato fondamentalista ogni approccio a un testo, di cui si accetta l’analisi critica di tipo filologico
solo quando questa si accorda con i dogmi tradizionali.
Diversi possono essere i fondamentalismi.
C’è quello religioso: islamico, ebraico, induista, cristiano; circa quest’ultimo, di notevoli
proporzioni è il fondamentalismo cristiano
negli Stati Uniti. Ci può essere anche un fondamentalismo politico-culturale (i nazionalismi, il laicismo) e un fondamentalismo etnico (esaltazione di una razza o di un popolo). Si può parlare pure di un fondamentalismo economico, quando un sistema economico, ad esempio il marxismo o il neoliberismo, vengono considerati come l’unica forma di organizzazione e gestione dell’economia, e imposti anche sacrificando i diritti
delle persone. Ma c’è anche un aspetto psicologico del fondamentalismo. Si tratta della reazione negativa, un insieme di chiusura
ed aggressività, al declino del sistema di valori fino al momento dominante.
Considerando in particolare il mondo islamico è importante – al fine di comprendere la dialettica che c’è all’interno dell’Islam,
e favorire così l’isolamento dei terroristi –
distinguere tra i diversi atteggiamenti religiosi in esso presenti. Tale distinzione è fatta in riferimento a come gli individui e i
gruppi si pongono di fronte al rapporto fede
e politica, fede e cultura.
Ci sono i progressisti, cioè coloro che concordano con la distinzione tra fede e politica. Entro questi si possono annoverare
anche quelli che, pur accettando la distinzione, si impegnano perché non diventi separazione. Questa, ad esempio, è anche la
posizione del Magistero cattolico, del Primo ministro turco Erdogan, e dei partiti
religiosi di tipo democratico che in quel
paese stanno compiendo un itinerario simile a quello che fu della Democrazia Cristiana in Italia. Ci sono poi i fondamentalisti che sono, in teoria, per una stretta
unità tra fede e vita pubblica, anche se in
pratica accettano compromessi (ad esempio, i Fratelli Musulmani egiziani). Infine
Q
ci sono gli ultrafondamentalisti (Al Qaeda, Bin Laden, i Fratelli Musulmani palestinesi di Hamas) i quali asseriscono in
modo assoluto la coincidenza tra fede e politica, fede e cultura. Non coincidendo però
queste nella realtà, essi giudicano negativamente quest’ultima, per cui decidono di
cambiare il mondo con il terrorismo.
Appare dunque errata la lettura marxista che
interpreta la rivoluzione e il terrorismo come
la ribellione dei poveri contro i ricchi. Nel
terrorismo islamico le motivazioni prevalenti
non sono economiche, ma ideologiche e religiose. I terroristi di Hamas hanno reddito
e scolarizzazione più alti della media dei
palestinesi, Bin Laden è miliardario, Mohamed Atta, il capo del commando dell’11 settembre, conseguì il Dottorato in Urbanistica all’Università di Amburgo.
Storicamente, le origini dell’ultrafondamentalismo affondano nel fallimento dei tentativi di dar vita a un nazionalismo arabo,
negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il
partito Baath in Siria ed Iraq, Nasser in
Egitto, Ben Bella in Algeria, Bourghiba in
Tunisia cercarono di mettere i loro rispettivi paesi al passo con l’Occidente. Non avendo però tale nazionalismo mantenuto le
promesse, anzi avendo prevalentemente
prodotto corruzione, sopraffazione dei diritti umani e sconfitte militari, prevalse in
seno all’Islam il convincimento che la causa dell’arretratezza del mondo islamico stesse nell’aver voluto imitare l’Occidente nelle
sue degenerazioni. Da qui l’appello a tornare al Profeta e al Corano.
Ma l’attuale ondata di ultrafondamentalismo
non è un semplice ritorno alla tradizione. È
un miscuglio di antimodernità e modernità
rivoluzionaria, che usa spregiudicatamente
i più sofisticati mezzi tecnologici.
È questo connubio che oggi fa del fondamentalismo estremo «un nemico di tutta
l’umanità civilizzata», come hanno affermato, nel primo anniversario dell’11 settembre, le militanti della Rawa (Associazione
rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan). Tale giudizio è particolarmente qualificato, in quanto è espresso da una categoria di persone che hanno dovuto subire
sulla loro pelle l’oppressione e le violenze,
prima da parte dei fondamentalisti dell’Alleanza del Nord, e poi dei Talebani.
Giancarlo Ferrero
25
ROCCA 15 MARZO 2006
VIOLENZA
SESSUALE
stanzialmente corrotta, valeva quindi di
meno…!) costituisce un errore giuridico
oltre a segnalare una «forma mentis» poco
evoluta.
Va ricordato, per i non addetti al lavoro,
che sul delicato punto si è fortunatamente
realizzato un processo di civilizzazione ed
evoluzione che ha portato a seppellire l’antica figura giuridica della violenza carnale
come delitto contro la morale pubblica per
trasformarla in violenza sessuale come
delitto contro la persona, la sola vera parte offesa. Il bene protetto dalla norma diviene, dunque, esclusivamente l’integrità
psichica e fisica della persona che subisce
comunque una violenza a sfondo sessuale, indipendentemente dal tipo di atto sessuale commesso (anche quindi di mera libidine).
LAVORO
tempi difficili
per i
neolaureati
L
porte chiuse nel pubblico impiego
Il rapporto non esamina le cause di questa
situazione e l’osservatore distratto potreb26
be pensare che alla radice di tutto ciò ci
sia solo la famosa legge 30/2003 sul mercato del lavoro, quella con cui il governo
ha regalato agli enti e alle aziende una tale
varietà di contratti instabili da produrre
qualche imbarazzo perfino nei direttori del
personale più appassionati alla flessibilità. Errore. Se la legge 30 offre gli strumenti di legittimazione e regolazione della precarietà, a tagliare il lavoro stabile nel settore pubblico sono state piuttosto le leggi
finanziarie, i patti di stabilità, i vincoli
imposti alla spesa pubblica che da anni
impediscono di assumere nuovo personale e di bandire concorsi, o che riducono
tali facoltà a dosi omeopatiche. Così, per
rimpiazzare il personale che esce per pensione o per altri motivi, e per coprire le
esigenze che derivano spesso dalle nuove
competenze attribuite agli enti, non c’è altra possibilità che ricorrere a marchingegni di vario tipo, i contratti di collaborazione, gli incarichi di consulenza, l’affidamento tramite gare e convenzioni di parte
dei compiti ad agenzie, società, cooperative: le quali agenzie, società, cooperative,
in quanto titolari di attività solo temporanee, hanno buoni argomenti – se non vere
e proprie ragioni – per non accendere contratti di lavoro a tempo indeterminato.
Si tratta, in molti Enti pubblici, di quote
di lavoro consistenti ma ancora minoritarie, non oltre il 10-15% del totale del lavo-
sa a dura prova da competenze che vanno
e vengono senza sedimentarsi e dai disturbi organizzativi che ne derivano.
crisi del sistema economico-produttivo
ro dipendente. Ma può capitare anche di
peggio. Proprio pochi giorni fa è rimbalzato sulla grande stampa il caso di un Ministero, quello dei beni culturali, in cui si è
verificato il sorpasso, con un numero di lavoratori instabili più alto di quello dei dipendenti inseriti stabilmente in organico. Un disastro, non solo per chi è costretto
a salire e scendere le scale degli incarichi
temporanei, ma per la qualità e l’efficienza
stessa degli enti e dei servizi pubblici, mes-
Tempi difficili, del resto, per tutti i giovani laureati, sia nel pubblico che nel privato. È ancora il rapporto Alma Laurea a segnalare dati alla mano che, se il lavoro atipico dei neolaureati è cresciuto in cinque
anni, a partire dal 1999, del 10%, fino a
interessare il 48,5% dei laureati del 2004,
è più in generale l’accesso al lavoro a presentare grandissime difficoltà. A un anno
dalla laurea gli occupati sono il 53,7% (con
un leggero calo rispetto all’anno 2003), e
anche a distanza di tre anni dalla laurea
risultano essere senza lavoro un terzo circa dei laureati. Che, com’è noto, non sono
di solito giovanissimi, visto che l’età media di uscita dall’università è ancora attestata sui 27-28 anni. E che, in moltissimi
casi, non sono neppure del tutto digiuni
di esperienze lavorative, visto che dal 1999
al 2003 è cresciuta di otto punti – dal 56%
al 64% – la percentuale di quanti, già da
studenti, sono entrati, con occupazioni solitamente precarie, nel mondo del lavoro.
Su tutto questo incidono anche le caratteristiche attuali del nostro sistema economico produttivo, assai poco propenso ad
assumere giovani con alto livello di quali27
ROCCA 15 MARZO 2006
ROCCA 15 MARZO 2006
Fiorella
Farinelli
avorare nelle amministrazioni
pubbliche era, una volta, sinonimo di tranquilla stabilità. Fin
troppo tranquilla, per certi versi, e diffusamente sospettata infatti di pigra inefficienza. È ancora così? Non per tutti. Se resta della
massima stabilità – ma non per questo
sempre e comunque inefficiente – il lavoro di chi nelle autonomie locali, nei ministeri, nella scuola è entrato da tempo, per
i giovani laureati oggi le cose sono molto
cambiate.
Secondo il rapporto Alma Laurea (1), che
ha coinvolto in un’indagine oltre 74.000
laureati di trentasei atenei degli anni 2004,
2002, 2000, il lavoro pubblico sembra essere diventato assai più agro di quello del
settore privato. Non solo perché le retribuzioni sono mediamente inferiori, ma
sopratutto perchè, a cinque anni dal conseguimento del titolo di studio, l’occupazione stabile è ridottissima: su cento occupati, infatti, solo 31 hanno un contratto
a tempo indeterminato, mentre nel settore privato la stabilità è molto più alta, con
74 contratti a tempo indeterminato su cento.
28
granché propense neppure a migliorare le
competenze professionali dei dipendenti
già inseriti negli organici. L’ultimo Rapporto al Parlamento sulla formazione continua, presentato qualche giorno fa, conferma che non è superiore al 20% la quota di
imprese che formano ricorrentemente i
propri lavoratori (a fronte di una media
europea superiore al doppio e di paesi
come la Francia e il Regno Unito che corrono verso il 60%), che dal 2002 ad oggi
c’è stato un calo di circa quattro punti, e
che le esperienze più virtuose sono per lo
più circoscritte alle grandi imprese, che
sono non più del 10% del totale. Non è
dunque difficile da capire perché, se in
numerosi settori produttivi esportiamo
sempre meno prodotti, esportiamo però
sempre di più in altri paesi i nostri migliori cervelli.
ETICA POLITICA ECONOMIA
una priorità non più eludibile
È la fotografia di una situazione di crisi
quella che ci presenta l’indagine di Alma
Laurea. Da cui emerge che la disoccupazione giovanile, sebbene oscurata dalla tendenza dei giovani ad investire nei percorsi
di istruzione più lunghi (anche gran parte
dei diplomati «triennali» prosegue per ottenere la laurea quinquennale specialistica), tende a restare consistente; che le imprese faticano ad apprezzare e valorizzare
le risorse pregiate prodotte dall’ università; che le ragazze continuano ad avere le
migliori performances universitarie, ma ad
incontrare le maggiori difficoltà nell’inserimento lavorativo coerente con il proprio
livello formativo; che nel Mezzogiorno tutti
gli elementi negativi si presentano in forma più acuta e tutti gli elementi positivi in
forma più debole.
Eppure non ci sono dubbi che dalla crisi
non si può uscire se non investendo nei
settori strategici della ricerca, della formazione, dell’innovazione; se non invertendo
la situazione che ha portato alle crisi di
vocazioni nei campi scientifici e tecnologici; se non mettendosi nelle condizioni di
collaborare, in questi settori, nello spazio
europeo. Qualsiasi sia la coalizione che
avrà la meglio nelle prossime elezioni politiche, si tratta di priorità non più eludibili.
Fiorella Farinelli
(1) Alma Laurea è un consorzio universitario,
che associa la maggior parte degli atenei italiani. Il rapporto presentato il 22 febbraio scorso
è l’ottavo svolto dal consorzio.
politeismo dei valori
e ricerca del fondamento
Giannino
Piana
L
’aspetto più rilevante della crisi
che caratterizza oggi la politica è
costituito dalla oggettiva difficoltà di conferire ad essa un fondamento etico. Le teorie fondative
del passato risultano infatti anacronistiche, mentre i tentativi promossi in
questi ultimi decenni (nei quali peraltro
l’etica pubblica si è grandemente sviluppata) ripiegano di fatto su teorie di stampo neocontrattualista e neoutilitarista; teorie che eludono del tutto (mettendola tra
parentesi) la questione dei valori accontentandosi di un approccio procedurale, cioè
della sola produzione di «regole del gioco» destinate a fissare, in termini pragmatici, le condizioni per una convivenza civile ordinata.
Le ragioni di questo stato di impasse non
sono addebitabili alla sola politica; devo-
no essere ricercate, più radicalmente, nel
venire meno, all’interno della società, di
valori condivisi sui quali edificare la vita
associata. Ciò che sta, in altre parole, alla
base della crisi (e che la alimenta) è il fenomeno del «politeismo dei valori» (così
lo ha definito Max Weber), frutto del processo, sempre più accentuato, di «disincantamento del mondo» (l’espressione è ancora di Weber), che ha avuto luogo a partire dagli inizi della modernità.
le vie impraticabili
Nonostante l’importanza delle indicazioni normative, il problema dei valori non è
eludibile; e questo non solo perché ad essi
è necessario ricorrere quando si affrontano questioni che riguardano la crescita
umana (personale e collettiva), ma anche
29
ROCCA 15 MARZO 2006
ROCCA 15 MARZO 2006
LAVORO
ficazione. L’ultima indagine ExcelsiorUnioncamere 2005, che accerta le intenzioni delle imprese private sulla quantità
e sulle tipologie delle assunzioni considerate indispensabili o probabili nei dodici
mesi successivi alle interviste, non lascia
margini di dubbio. La maggioranza delle
aziende prevede di assumere sopratutto
personale non qualificato (con titoli di studio non superiori alla licenza media);
quanto al personale qualificato e con specifiche competenze, la scelta cade più sui
diplomati con titolo di studio di scuola secondaria superiore che sui laureati.
Non solo: se sono molto apprezzate, ai fini
dell’inserimento lavorativo, le esperienze
di stage che assicurano di un’avvenuta familiarizzazione con il lavoro e le conoscenze informatiche, non è così – lo precisa
Alma Laurea – per i master di specializzazione post laurea e neppure per le esperienze di studio e di lavoro all’estero che
pure sono diffusamente vantati, nella retorica politica sull’economia della conoscenza così come nel marketing universitario, come la carta vincente. Niente affatto, non è così.
Sono le conseguenze di un mondo imprenditoriale italiano ancora in larga parte ancorato all’idea che la concorrenza nel mondo globale si affronta con la riduzione del
costo del lavoro (magari tramite le delocalizzazioni produttive nei paesi da cinque
dollari al giorno) e con l’incremento della
produttività, e ancora assai lontano dalla
scommessa dell’innovazione e della qualità del prodotto: dalla cultura del rischio
d’impresa, dall’investimento proiettato sul
lungo periodo che rinuncia al rientro immediato. Non è una novità. Una delle caratteristiche – negative – del caso italiano
consiste, come ormai tutti sanno, nei bassi investimenti economici nel campo della
ricerca, di base ed applicata.
Ma c’è di più, ed è vera e propria anomalia, che, della poca ricerca che si fa nel
nostro paese, la parte assolutamente maggioritaria sia in verità delle università e
degli enti pubblici di ricerca, e non del privato imprenditoriale. A cosa dovrebbero
servire, in questo quadro di annunciato
declino economico e produttivo le competenze pregiate dei master e delle specializzazioni? E perché assumere laureati o dottori di ricerca, che costerebbero sicuramente di più, se bastano e avanzano, in
molte aziende non proprio eccelse in termini di innovazione tecnologica ed organizzativa, competenze di profilo decisamente più modesto?
Le imprese italiane, del resto, non sono
ETICA POLITICA ECONOMIA
il confronto come metodo
ROCCA 15 MARZO 2006
La possibilità di superare le due vie ricordate, rispettando il pluralismo esistente e
non rinunciando a ricercare, nello stesso
tempo, un terreno etico comune, è costituita dallo sforzo di ricuperare l’ethos
condiviso dalla maggioranza dei cittadini
per farlo diventare il presupposto degli
ordinamenti istituzionali e delle scelte sociali. Non è, infatti, compito della politica
elaborare in proprio un’etica – si incorrerebbe altrimenti nel pericolo dello Stato
etico –; è invece suo compito creare le condizioni per un confronto allargato tra le
varie componenti sociali, culturali e religiose, spingendole a definire una piattaforma valoriale per farla diventare il supporto degli interventi, sia di ordine strut30
turale che legislativo, che ad essa competono.
In questo quadro grande importanza assume l’apertura di un dibattito pubblico
permanente, che fornisca le basi per affrontare correttamente le grandi questioni riguardanti la conduzione della vita associata. Ma la possibilità che tale dibattito si sviluppi in termini corretti è legata al
realizzarsi di un alto livello di partecipazione e alla creazione di un clima di leale
collaborazione tra le forze sociali; un clima nel quale la ricerca del bene comune o
dell’interesse generale prevalga sul perseguimento del proprio tornaconto o sulla
imposizione del proprio punto di vista.
È come dire che i processi orientati a individuare i presupposti valoriali devono sviluppare un forte senso dell’appartenenza
collettiva (un «sentirsi parte») e la disponibilità a contribuire con il proprio apporto personale (un «prendere parte») all’edificazione della «casa comune». Non è questo, d’altronde, il senso vero della partecipazione che – come affermava J.J. Rousseau – costituisce, insieme all’uguaglianza, il valore fondativo della democrazia?
Il modello cui fare appello per dare vita a
tale prassi è quello dell’etica del discorso
(Habermas), la quale non si limita a sottolineare l’importanza della comunicazione
– in una società come l’attuale in cui sono
cresciute a dismisura le possibilità di informazione si assiste purtroppo a una crescente dequalificazione del comunicare –
ma indica anche i requisiti perché la comunicazione si sviluppi correttamente e
conduca ad esiti fecondi. Fiducia nel dialogo come strumento di reciproco arricchimento, disponibilità a sottoporre a vaglio critico le proprie posizioni (e superamento, di conseguenza, della presunzione
di possedere in modo esclusivo la verità),
apertura all’altro in quanto portatore di un
messaggio che ha in sé elementi preziosi
di conoscenza della realtà, ricerca di un
terreno comune attorno al quale convergere nell’intento di servire l’interesse della
comunità sono i presupposti per un dialogo promettente.
A dover essere abbandonate non sono soltanto le pregiudiziali ideologiche, ma anche gli atteggiamenti di diffidenza, che
hanno un peso determinante nel modo di
affrontare le relazioni. La situazione ita-
liana presenta, al riguardo, aspetti emblematici: clericalismo e laicismo (quest’ultimo con i connotati di un clericalismo rovesciato) favoriscono il «muro contro
muro», con il rischio di decisioni che, nascendo in un contesto di esasperazione
delle rispettive posizioni, sono lontane dal
sentire dei cittadini. Liberarsi da questa
eredità è condizione essenziale per vincere resistenze, che impediscono la comprensione dei processi in atto e la ricerca di
forme di mediazione adeguate.
quale fondamento?
La questione del fondamento non può,
tuttavia, essere risolta sul terreno puramente metodologico. Se non ci si accontenta del ricorso a un consenso basato su
motivazioni utilitariste, ma si crede nella
possibilità di convergere attorno ad un
polo valoriale, assume grande importanza l’individuazione di un punto di riferimento universalizzabile, che trascenda
l’ambito strettamente etico per approdare
a quello antropologico. L’attuale disagio
della politica è infatti dovuto alla persistenza di un’antropologia individualista, che
ha avuto il sopravvento nella modernità.
Alla fondazione del sociale (e dunque della politica) sulla «natura», perciò su ciò
che appartiene intrinsecamente all’uomo
– è questa la posizione della filosofia classica e medioevale (da Aristotile a Tommaso d’Aquino) – è infatti subentrata, fin dagli inizi dell’epoca moderna, la necessità
di fare appello ad un processo esterno – è
questo il significato della prospettiva contrattualista – volto alla fissazione di «regole» che obbligano ciascuno a rinunciare a una parte della propria libertà perché
il suo esercizio venga garantito a tutti.
I limiti dell’antropologia individualista si
sono fatti sempre più evidenti. Il ricupero
del soggetto nella sua singolare dignità si
è accompagnato al suo scorporo dal tessuto delle relazioni sociali, con la conseguente impossibilità di favorire la crescita di un contesto solidale. È questa la ragione per cui si assiste oggi alla riscoperta
della «persona» come perno essenziale
della vita associata. Dire «persona» significa alludere infatti a una soggettività unica e irripetibile, ma affermare anche il costituirsi di una soggettività relazionale,
dunque «sociale»; significa postulare, in
altre parole, l’esigenza della comunicazione e dello scambio, non per ragioni utilitariste, ma per un doveroso rispetto dello
statuto dell’umano. La politica non risulta
così imposta dall’esterno, ma si presenta
come una realtà connaturata all’essere
umano e alle dinamiche della sua crescita,
avendo come suo principio orientativo il
rispetto e la promozione della dignità personale.
Le differenze culturali, per quanto marcate e largamente influenti, non possono cancellare l’esistenza di una humanitas comune (e pertanto di una comune dignità) che
garantisce, anche nel mondo attuale caratterizzato da una forma allargata di multiculturalità – si pensi alla compresenza di
culture diverse sullo stesso territorio e all’accentuarsi delle difficoltà di comunicazione –, la possibilità di un confronto positivo ed arricchente, e rende plausibile
l’identificazione di un terreno comune, che
orienti la politica verso fini umanizzanti.
La ricerca del fondamento non si sostituisce, certo, all’impegnativo compito di rintracciare assetti normativi adeguati; garantisce piuttosto a tale compito il supporto
necessario perché possa svilupparsi in
modo corretto. Il passaggio dal livello trascendentale – quello dei valori –, che ha un
carattere prevalentemente formale, al livello
categoriale – quello delle «regole» –, che
tende a definire i comportamenti nei loro
contenuti effettivi, non è immediato e non
può essere demandato a un semplice processo dall’alto. Fondamentale è l’attenzione alla storicità della condizione umana,
perciò al variare delle situazioni, e l’adozione di un criterio valutativo ispirato al
modello weberiano della etica della responsabilità, attento cioè a misurare, di volta
in volta, le conseguenze delle azioni.
Per ricuperare la propria dimensione etica, la politica ha oggi bisogno di mantenere aperta la dialettica tra questi due livelli:
di non dimenticare i valori comuni (che
rinviano alla sua fondazione antropologica), ma di saperli, nello stesso tempo, mediare con coerenza nel vivo delle situazioni alla ricerca del «bene possibile» e, in
alcuni casi, anche del semplice «male minore».
ROCCA 15 MARZO 2006
perché la presunta neutralità delle teorie
ricordate è in realtà soltanto apparente: la
scelta di un determinato assetto normativo nasconde infatti (implicitamente) il riferimento a una concezione della vita e a
una visione del mondo che rinvia ad un
preciso quadro valoriale.
La ricerca del fondamento etico non può,
tuttavia, avvenire percorrendo vie anacronistiche o, in ogni caso, impraticabili. La
situazione di pluralismo culturale ed etico
(non si tratta soltanto di valori diversi ma
di diversità degli stessi sistemi valoriali)
rende assolutamente impercorribile la via
deduttiva ipotizzata da Kant, che, postulando l’esistenza di una ragione universale, riteneva del tutto naturale far discendere da essa un’etica universale, valida cioè
per tutti gli uomini. Ciò che appare evidente oggi (per il motivo ricordato) è infatti l’assenza di una «ragione», e la sua
sostituzione con una molteplicità di «ragioni» dalle quali derivano sistemi etici
diversi (non sempre tra loro compatibili).
La tentazione che può affiorare, in questa
situazione e che si presenta come una facile scorciatoia – è questa l’altra via da non
percorrere – è costituita dal ricorso ad
un’etica particolare, di matrice religiosa o
laica (fondata cioè su presupposti ideologici o culturali fatti propri da qualche gruppo sociale); si tratta in questo caso di una
scelta pericolosa, che conduce inevitabilmente alla negazione radicale del principio di laicità.
Giannino Piana
31
1.
Romolo Menighetti
LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA
linee di storia
dalla polis alla democrazia
partecipativa
La polis
L’umanità come comunità
Lo stato nazionale
Il liberalismo
Marxismo e comunismo
Nazionalsocialismo e fascismo
La democrazia
Delusione e speranze per la democrazia
Libri
pagg. 112 – • 13,00
2.
Pietro Greco
BIOTECNOLOGIE
scienza e nuove tecniche biomediche
verso quale umanità?
Ritorna Frankestein?
Potenzialità e rischi della genetica
Piante e cibi transgenici
Terapie geniche
La nuova frontiera della biomedicina
Clonazione terapeutica
Fecondazione assistita
Il dibattito all’Onu
Chi è l’embrione?
Armi biologiche e genetiche
Bioetica e bioetiche
Tecnologia scienza e sviluppo umano
Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici
Un nuovo servizio ai lettori.
A grande richiesta la raccolta
in volume degli articoli
più significativi di uno stesso Autore
con particolare riferimento
alle tematiche più dibattute
del nostro tempo
pagg. 128 – • 15,00
3.
Marco Gallizioli
LA RELIGIONE FAI DA TE
il fascino del sacro nel postmoderno
IL FASCINO DELL’ORIENTE
L’Oriente come metafora
Paramahansa Yogananda: la vita come abbandono mistico
Krishnamurti, un profeta del nostro tempo
Gandhi: il sentiero dell’azione
ROCCA 15 MARZO 2006
ESPLORANDO LA GALASSIA NEW AGE
New Age: un caleidoscopio religioso
L’etica della New Age
L’emozione religiosa di Paulo Coelho e James Redfield
RICHIEDERE A ROCCA
cas. postale 94-06081 Assisi
e-mail: [email protected]
conto corrente postale 15157068
ALCUNE SUGGESTIONI
DAI MONDI RELIGIOSI CONTEMPORANEI
La reincarnazione nel mondo delle religioni
Carlos Castaneda: il fascino dello sciamanesimo
Il Candomblé: la trance come festa
Apocalisse: un’idea perduta?
New global: una provocazione anche religiosa
pagg. 112 – • 13,00
4.
5.
Rosella De Leonibus
PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO
AMORE E DINTORNI
Vorrei che fosse amore
Coppia, il catalogo è questo
L’amore gay
Il romanzo della coppia tra parole e silenzi
L’altro/a: un mistero da riscoprire
Uno più uno uguale tre
Il nido vuoto
Padri cercansi, disperatamente
Figlie di madri
Adulti ed adolescenti: cinque parole per dirlo
PSICHE E DINTORNI
E se l’io diventasse meno ingombrante?
Sulle tracce dei cambiamenti
Convivere col caos
Malati immaginari?
Fuggire col fumo
Mi gioco tutto
Magra per rabbia, magra per amore
Desiderare il futuro
Siamo rete-dipendenti?
CONVIVENZA SOCIALE E DINTORNI
Appunti per un io postmoderno
Dietro le quinte della persuasione
Il marketing delle idee
Tempo per vivere
Del Più e del Meno
Le scorciatoie del pensiero
Fare la differenza
Le sfide dell’intercultura
I frutti della paura
Fiducia o buon senso?
La cura della relazione
Desiderio di “noi”
pagg. 168 – • 20,00
Giannino Piana
ETICA SCIENZA SOCIETÀ
i nodi critici emergenti
LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE
L’uomo e il suo corpo
Che cos’è la natura
La vita mistero e dono
La morte e il morire
Salute e cura nel contesto del limite umano
I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO
Non uccidere
La responsabilità morale oggi
L’etica del rischio
La gerarchia dei beni
Quattro principi-base della bioetica
I Comitati di bioetica
Bioetica e biodiritto
I cattolici, la bioetica e la legge
LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA
L’embrione è persona?
La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale
Referendum procreazione assistita: perché sì perché
no
Vita e qualità della vita
La clonazione terapeutica
Diritto a morire?
Il testamento di vita
Tra eutanasia passiva e accanimento terapeutico
LA CURA DELLA SALUTE
Il diritto alla salute
Il rapporto medico-paziente
La verità al malato
Il consenso informato: come, perché, chi
Non esistono malati incurabili
Salute e risorse: a chi la precedenza?
ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA
Il rapporto uomo-natura
Gli animali soggetto di diritti
OGM: risorsa o rischio?
pagg. 152 – • 18,00
i volumi 1-2-3
i volumi 4-5
SPECIALE
a soli 15 E
a soli 10 E
PER
ciascuno
ciascuno
I LETTORI DI ROCCA
spese di spedizione comprese
la Nuova
Piazza
ROCCA 15 MARZO 2006
Claudio
Cagnazzo
na volta c’era la piazza. Luogo di
sintesi architettonica e sentimentale. Dentro i suoi confini si riversavano storia e cronaca. Passato e presente, sotto forma di
minute esistenze. Poi la piazza
svanì sotto il peso della modernità. Macchine in strada, donne al lavoro, vecchi rinchiusi in piccoli lager domestici. Anche se
confortevoli. Ma la piazza è prima di tutto
un luogo dell’anima, un desiderio d’incontro. Per questo rinasce, in televisione o su
Internet. Incontro di massa mediatico è la
tv, specialmente quella popolare. Si comunica a distanza. Si spiano le vite degli altri. Si parla di loro con i vicini, prima di
panchina o di tavolino da bar, ora di divano. Come incontro, anche se più elitario, è
anche la casella postale di Internet. Piccole piazze globali sono nate. Con dei piccoli
eroi, chiamati con nomi di fantasia. Ma incontri mediatici e telematici hanno l’anima virtuale. Non hanno corpo. Mentre noi
tutti della fisicità abbiamo bisogno, anche
solo visiva, ma nella sua immediatezza
concreta. Abbiamo bisogno di evadere sognando, non solo fantasticando. E la piazza ci faceva sognare, con quelle donne o
quegli uomini, inseguiti con lo sguardo.
Con le chiacchiere al riparo del sole lucente, sempre a rincorrere ciò che non eravamo e mai saremmo stati. Non come la piazza virtuale dove si può solo fantasticare,
talora al confine dell’incubo. Come la cronaca nera ci insegna. Di Tv e di Internet si
può morire, di piazza mai.
U
il Centro Commerciale
Per questo cerchiamo sempre di ricostitu34
ire la piccola o grande comunità della vecchia piazza. Da questo il successo dei nuovi
Centri Commerciali. Certo, snodi facilmente accessibili per rifornirsi di tutto. Utili
contenitori di merce per chi, come noi,
sfugge ansiosamente da se stesso dietro le
regole della nuova economia. Ma anche
decisamente luoghi dove si ricrea in qualche modo la piazza, seppur narcotizzata,
del nuovo millennio. Andiamo in piazza si
diceva. Ora si dice andiamo al Centro Commerciale. E nel primo caso come nell’altro
s’intendeva decisamente un luogo poliforme. C’è in entrambi i casi l’incontro con
gli amici, la rassegna delle vetrine. C’è il
girovagare senza meta e la possibilità di
sedersi, soli o in compagnia. Tra gli altri,
ma distanti. Non soli, ma solitari. Liberi
di isolarsi tra il calore necessario del mondo circostante. C’è ancora l’incontro-confronto in entrambi i casi. In piazza difatti
ci si incontrava e ci si confrontava. Il tuo
essere e l’essere degli altri. Materiale e spirituale. Il tuo Stato delle Cose e quello degli altri. Talora per apprezzare, tal’altra per
invidiare. Perché di più cose è fatto il tessuto sentimentale degli uomini. In fondo
la famiglia seduta al bar dell’angolo gustava il nettare dell’eguaglianza. Come tutti
gli abitatori della piazza. Sia che mangiassero gelato, o entrassero in libreria, o guardassero gli zampilli della fontana centrale. Uguali nella diversità degli impegni.
Così nel mangiare panna e cioccolato sul
ripiano delle nuove cattedrali del consumo. O a comprare vestiti o ninnoli. Uguali. Con le diversità, di reddito, stile di vita
e quant’altro, temporaneamente annullate. Si andava in piazza e si va nella Cattedrale del consumo per uniformarsi agli
altri. Per sentirsi parte di una storia. Di un
mondo. Del resto in entrambe le piazze
appunto ci sono e talvolta vivono anche
gli esclusi. Sulle panchine di marmo di una
piazza di una città qualsiasi o su quelle
plastificate del nuovo agglomerato di merci e uomini, stazionano i poveri. Immancabile e necessario corollario al vivere degli integrati: «se stanno con noi, sopravvivono e in qualche modo li sosteniamo».
piazza senza storia
Tutto è stato travasato dal vecchio al nuovo. Ma come in ogni travaso, qualcosa si
perde. Un odore, un profumo, un essenza.
Si perde ad esempio in questo caso, la luce.
Perché nell’apertura della piazza cittadina era la luce dei luoghi a favorire l’incontro dell’uomo col divino. E’ la luce la vera
protagonista dell’incontro del Papa con i
fedeli. E’ la luce che garantisce la partecipazione in qualsiasi manifestazione di chi
ascolta l’oratore e lo rende soggetto attivo. Nella luce c’è il trascendente della religione e dell’ideale politico che accomuna
gli astanti. E dell’amore. Chi di noi infatti
non ha mai provato il piacere di un incontro con la persona amata, sui gradoni o
sul porticato affacciati su di una piazza.
La luce che inonda tutto, sia con il sole
che senza, ci fa sentire che l’assoluto è lì,
presso di noi. La luce, dunque. Quella luce,
che nella nuova tecnologica piazza non c’è.
E mai vi sarà. Poi la verticalità. Già perché nella vecchia piazza, ciò che ci stava
sopra era la nostra storia. Il monumento
equestre o gli stemmi patrizi dei palazzi.
O gli antichi terrazzi fioriti ci dominavano e ancora ci dominerebbero se fre-
quentassimo le vecchie piazze con il pathos necessario. Dominavano e rassicuravano. Si poteva anche spettegolare all’ombra della storia. Era questa ad assolverci. Negli edifici del commercio continuo questo non è possibile. La verticalità è sempre uguale a se stessa. Piani concentrici ed uguali. Niente passato dunque. E di conseguenza niente futuro. Un
eterno, mercificato presente. Infine
l’aspetto psicologico. Perché nelle nuove
piazze, o Centri Commerciali, non ci
sono ad esempio passanti, ma solo clienti. Era il passante, colui che entrava ed
usciva frettolosamente dalla piazza, a
darti l’idea del collegamento col mondo.
Era lui, forma in movimento, a farti sentire attaccato alla vita che pulsava dovunque. Entrava ed usciva, talvolta affascinandoti e lasciandoti il desiderio di rincorrerlo. Ma, lei o lui che fosse, si perdeva rapidamente nel reticolato delle strade e probabilmente non l’avresti più incontrato. Restando un mistero. Che il
Centro Commerciale invece rifiuta a favore dell’illusione che lo domina. Del
benessere e della libertà. Aspetto psicologico che si presenta in una sorta di spaesamento. Chi difatti in queste cattedrali mercantili non si è mai sentito a disagio? Stai in un negozio di dischi e ti senti precario. Come se fosse un’esperienza
frammentaria. Entri in un bar e la spremuta di arancia non finisce mai, mentre
tu vorresti andare da un’altra parte. Ecco,
in questi luoghi non puoi indugiare troppo a lungo. Nella vecchia piazza sì. Qui
sei precario tra i precari. Cosa tra cose.
Ma la sensazione è inevitabile, perché
questi non sono luoghi, ma semplicemente posti. Perché il luogo ha anima e storia. I posti no, sono semplicemente sedi
di qualcosa. Ed in fondo è giusto così,
visto che anche nelle vecchie piazze cittadine ormai è il Posto-macchina a dominare la scena. E’ lui la meta dei nostri
sogni. L’Araba Fenice che tutti rincorriamo. Un quadratino di due metri circoscritto da striscioline blu. Mentre i monumenti ci guardano e, prima o poi, un
Garibaldi piangente, o un Galileo dallo
sguardo angosciato, qualcuno, in qualche benedetta piazza, lo dovrà notare.
Per comunicarlo a tutti noi. Anche se
stiamo girovagando all’interno di una
Cattedrale nel deserto. O Centro Commerciale che dir si voglia.
Claudio Cagnazzo
35
ROCCA 15 MARZO 2006
SOCIETÀ
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IO E GLI ALTRI
la prossimità dei fornelli, degli odori che creano calore umano. Questa dimensione sociale del fuoco, della cucina e del mangiare
insieme, godendo di odori e di sapori tradizionali, esiste in tutte le culture ed appartiene alla cultura stessa di ogni popolo». Quasi
che gli usi gastronomici contaminassero e a
loro volta fossero influenzati dall’anima stessa delle civiltà che si sono «stratificate» nei
luoghi diversi. Fino al punto da poter affermare che «le umane vicende si siano riflesse
nella pentola». Carlo Cambi, noto enogastronomo italiano, al quale appartengono le frasi prima riportate, nel suo simpatico «Il gambero rozzo» – Newton Company editori –,
mette in rilievo lo specialissimo rapporto che
esiste» tra la cultura e la cultura della cucina», tra la cucina e l’ambiente socio-familiare. Si può, pertanto, affermare che nel clima
disteso o meno di un gruppo di persone conviventi influisca in modo determinante il cibo
che si mangia ed il modo di cucinarlo. Per
tale motivo, un noto psicoterapeuta dell’infanzia, Donald Winnicott, soleva visitare per
prima cosa la cucina in ogni istituto nel quale
si recava.
celebrazioni a tavola
invito
a pranzo
Manuel Tejera de Meer
È così radicata nell’animo umano l’idea più
o meno riconosciuta che il cibo costituisca un elemento di unione tra gli uomini,
che ogni situazione gioiosa, e non solo
quelle religiose, si celebra con un banchetto. Si potrebbe affermare che, per rendere
la gioia più completa, si richieda, col mangiare assieme, la soddisfazione di tutti i
sensi. L’occhio vuole la sua parte, nella presentazione di una pietanza, l’udito viene
esercitato nel piacere della conversazione
durante il pasto, perché, come dicevo prima, non si concepisce un mangiare solitario; gli odori, poi, sono componenti essenziali del buon mangiare, ed il gusto è la
quintessenza della funzione gastronomica.
Il tatto ha la sua espressione più concreta
in tutte quelle occasioni in cui «si può»
mangiare con le dita, aggiungendo al sapore una speciale e piacevole sensazione.
Il senso sociale del mangiare trova, inoltre, espressione in tante circostanze in cui,
per affrontare un problema o per chiarire
una situazione, ci si incontri in un ristorante, attorno ad un tavolo imbandito. Si
parla anche di pranzi o di cene «di lavoro». Non tutti vedono di buon occhio che
la dimensione professionale venga mischiata con la gastronomia; tuttavia, penso che il risultato di un pranzo di lavoro,
lontano dagli spazi e dai tempi lavorativi,
possa servire a smorzare la distanza gerar-
chica tra capi e dipendenti ed a stimolare
l’armonia tra tutti. E non tanto perché il
vino possa scorrere abbondantemente o
perché il cibo sia squisito, ma per la condizione di condivisione e di vicinanza emotiva tra i partecipanti allo stesso pasto.
Mangiando assieme si stimola un livellamento benefico nelle relazioni umane. Si
racconta che Lutero (notizia ricavata sempre da Carlo Cambi) era solito discutere le
sue tesi proprio a tavola. A mio parere, un
buon pasto è un’occasione per tentare di
evitare contrasti e dissidi, per affrontare
conflitti e cercare di risolverli.
Non vorrei che si pensasse al mangiare
insieme come se fosse la panacea per risolvere tutto quello che non va nelle relazioni umane. Voglio solo sottolineare
l’enorme opportunità che offre il cercare
di incontrarsi in armonia, intorno ad un
tavolo, tra buoni e genuini sapori, deliziosi al palato, perché il mangiare insieme
crea intimità e fiducia tra i commensali.
i ricordi
Nella vita di ognuno di noi, soprattutto
quando si va avanti negli anni, contano molto i ricordi. È vero che non ha senso vivere
soltanto di ricordi, ma è pur vero che certi
ricordi di cose belle del passato possono creare spinte nuove per vivere meglio il presente. Molti ricordi belli, contrapposti alle
frustrazioni ed alle vicissitudini del vivere
quotidiano, tendono, però, a sparire ed a
sfumare nel tempo. Secondo il parere degli
studiosi, i ricordi di odori e di sapori del
passato sono i più difficili a sparire o ad essere modificati attraverso il tempo. Piuttosto, il risentire nella nostra mente questi
odori e questi sapori fa rivivere sensazioni
ed emozioni legati ad essi. Marcel Proust ha
scritto che quando si perdono i ricordi e «di
un passato antico niente più sussiste», sono
i sapori e gli odori a restare a lungo ed a diventare i ricordi più fedeli e più persistenti,
quelli che, come dicevo poc’anzi, fanno rivivere episodi e periodi gratificanti di un passato lontano. Episodi e periodi in cui appaiono nell’immaginazione, persone significative dal punto di vista emotivo: la nonna, la
mamma il papà culinario… o quell’amico di
famiglia che si dilettava in cucina. Si presentano, così, alla mente persone con cui i
buoni sapori ed i bei odori venivano condivisi. Emergono i ricordi di quei contatti sociali che hanno dato senso alla nostra vita di
allora e che possono dare un impulso positivo al nostro mondo relazionale di oggi.
ROCCA 15 MARZO 2006
ROCCA 15 MARZO 2006
U
n invito a pranzo non è un semplice invito a mangiare. È, soprattutto, un invito a partecipare, con altre persone (o soltanto con la persona che invita) ad un pasto dove emerge, con maggiore
o minore forza, il desiderio ed il piacere della compagnia. Un bel pasto non viene connotato soltanto dal cibo che si gusta, ma anche dalle persone con cui si mangia quel cibo.
Ciò va detto per sottolineare il grande valore
sociale del mangiare in compagnia. Un pasto consumato da soli serve soltanto a soddisfare l’appetito; ma forse nemmeno si sentirà soddisfatto chi, pur mangiando cibi genuini e ben cucinati, non abbia accanto qualche persona amica con cui scambiare due
parole o fare conversazione. Non è raro che,
quando due persone si trovano da sole in un
ristorante, ognuno per proprio conto, in tavoli vicini, si stabilisca un contatto verbale
che può finire in un dialogo progressivamente più confidenziale. Addirittura, come succede qualche volta, può nascere un’amicizia.
Mangiare insieme, intorno ad una tavola ben
imbandita, è, perciò, uno dei modi migliori
per socializzare e per sviluppare ed aumentare il proprio capitale sociale. Ciò non significa che, essendo la compagnia la cosa
più importante, si sia indifferenti alla qualità di ciò che si mangi. Anzi, una cucina prelibata costituisce pure un buon motivo per
incontrarsi. Si stabilisce, così, un circuito che
conduce ad un unico risultato: ci si incontra
per mangiare insieme e si mangia insieme
per incontrarsi.
Il valore sociale degli incontri intorno ad un
tavolo ben imbandito è stato l’impulso che
ha contribuito a creare quella consuetudine
ancestrale a curare la cucina, presente in
tutte le culture fin dalla notte dei tempi. La
diffusione di ricette, trasmesse da generazione in generazione per via orale, ed oggi attraverso la pubblicazione di grossi libri, è una
prova di quanto detto. Si ricordi l’importanza che davano i romani al «convivium», quell’incontro prolungato durante i pasti con lo
scambio di parole e discorsi in armonia. Pensiamo al senso del focolare, all’unione cordiale tra chi condivide uno stesso pasto costituito da cibi naturali e genuini. È significativo il fatto che, dopo un periodo in cui la
classe borghese si allontanò dalla stanza della
cucina per consumare i pasti nella «sala da
pranzo», si sia tornati a mangiare tutti in
cucina. E questo non solo per la comodità
della vicinanza, senza perciò doversi alzare
per cambiare piatti e cibi; e nemmeno per
risparmiare tempo, in questa società frenetica dove trionfa in molti il faast food ed il
panino rapido. Ciò avviene, soprattutto, per
Manuel Tejera de Meer
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TERAPIE
ROCCA 15 MARZO 2006
Rosella
De Leonibus
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n tempo e uno spazio concentrato, colori, pennelli, tele, colla, sabbia, sale, carta, spugne, creta, scalpelli, legno, pietra… e due persone. L’una traccia, segna la materia, approssima e crea i suoi alfabeti di immagini, forma, colori. L’altra la accompagna, come Virgilio con Dante, testimone attento e partecipe, ad attraversare i
nuovi e antichi mondi che sotto le mani della prima vanno prendendo forma.
E i materiali vengono trans-form-ati, diventano metafore vive, simboli, ponti per tenere insieme mondi a volte separati da anni
luce, a volte muti l’uno all’altro dalla notte
dei tempi. I frammenti si aggregano, l’insieme prende senso, costruisce senso, ricompone senso e unità nell’animo umano, in
shuttle tra il mondo interno e il contatto sociale, e si riallacciano gli estremi di questa
speciale posizione esistenziale dell’umano
nel mondo, a ponte tra la materia e il trascendente, in bilico tra una coscienza – a
volte cieca, a volte troppo piena – e i suoi
piani bassi, abitati da energie potentissime,
generatrici di passioni e angosce, di vita e di
morte. Questo è il modo in cui l’arte cura.
Rende visibile un processo vitale della psiche, lo ordina, lo traduce in uno spazio, un
tempo, un segno. L’energia psichica ha uno
spazio per emergere, ma anche viene ridirezionata e ridistribuita e, come intuiva Shakespeare, che di energia psichica se ne intendeva, l’informe può prendere forma, trovare
un nome e un volto.
In questo «prendere forma», c’è una liberazione di un quantum di energia psichica, che
ora può essere riconosciuta e pian piano utilizzata dalla persona.
Con la trasformazione delle immagini interne in colori, forme, volumi, questi segnali
dell’anima non sono più fuggevoli e nebbiosi, come nei sogni. Diceva Jolande Jacobi,
una delle più illustri allieve di Jung, che attraverso l’esperienza artistica le immagini
U
diventano visibili nel mondo esterno e vivono una doppia funzione: espressiva, perché
emergono dal mondo interno e lo «traslano» all’esterno, e anche impressiva, perché
il loro creatore è indotto a guardarle, in modo
concentrato e duraturo, a confrontarsi con
quanto emerge dalla sua interiorità. Il suo
testimone privilegiato è l’arte-terapeuta.
Questa scoperta ed esplorazione non sarebbero possibili senza una guida che accompagna e protegge e contiene nella solida cornice della relazione terapeutica le immani
forze e gli attriti, i blocchi e le fughe in avanti e le zone inesplorate che emergono in questo processo.
E che aiuta a mantenere la strada, a tornare
a casa, a poter raccontare il viaggio.
«Nulla si sa, tutto s’immagina»
(F. Fellini)
L’esperienza artistica tocca le corde dell’anima, e per accedervi transita dalla porta dell’immaginario.
Il mondo immaginale è quel luogo psichico
che, prima e accanto allo sviluppo delle competenze logiche e linguistiche, ospita il primo gradino dei processi di pensiero, il primo luogo di elaborazione delle emozioni, il
primo luogo di espressione in cui l’essere
umano racconta il mondo a partire dal suo
punto di vista, a partire da una funzione psichica che «si rappresenta» e «rappresenta»
la realtà, e così varca il confine tra l’esperienza interiore e il mondo esterno, e l’esperienza interiore diventa comunicabile.
C’è una densissima espressione della lingua
araba, àlam al mithàl, che indica questo
mondo intermedio, a mezza via tra quello
dell’ esperienza materiale, della percezione,
dei sensi, e quello dell’intuizione e dell’intelletto. Questo mondo, così come quello materiale, ha anch’esso la sua funzione percettiva: è la funzione immaginativa, altrettanto
reale di quanto lo sono le percezioni dei sensi
o l’intuizione intellettuale.
E il potere dell’immaginario sta nella sua
tensione intrinseca verso la manifestazione,
una forma di epifanìa, quel movimento che
va da uno stato di potenza ancora inespresso ad uno stato manifesto e rivelato.
La prima forma di racconto del mondo dal
proprio punto di vista è proprio una delle
funzioni del mondo immaginale, ed abita
nello spazio che sta tra il mondo interno e il
mondo esterno, e questi luoghi psichici diventano comunicanti quando il mondo immaginario si manifesta in traccia creativa.
Il potere dell’arte sull’anima umana è tutto
in questo movimento, nel passaggio da
un’idea ancora immateriale ad un vettoresegno, che contiene il movimento della mano
che lo compie, la vista, il tatto, e l’idea viene
trasportata (metaforizzata, perché trasporto è la traduzione letterale della parola metafora) nel mondo tangibile, acquista una
grandezza, una posizione nello spazio, un
verso.
Lungo questo passaggio, arato e arato di
nuovo da attraversamenti successivi, attecchiscono semi di piante preziose: l’autenticità, il dubbio, l’ integrazione degli opposti,
l’intuizione, la possibilità di scegliere. Sono
semi di libertà, libertà di esistere nel mondo
in modo comunicante, lasciando tracce di
sé, contro la passività di ogni alienazione.
«spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si
affanna inutilmente»
(C. G. Jung)
Il linguaggio dell’arte racconta al suo autore e al mondo lo spazio interno, le sue potenzialità, energie, incubi, emozioni. Ma è
anche struttura e veicolo che dà forma all’informe, supportando e organizzando i contenuti psichici. L’immagine prodotta dal gesto attivo della persona è assai potente. Esprime ciò che ancora le parole non possono
dire, ed è in sé riparatrice e condivisibile,
proprio per il suo potere di transitare, come
forma visibile e percepibile, dal soggettivo
all’intersoggettivo. Allora la persona e l’arteterapeuta possono incontrarsi, con la parola o con un gesto grafico dialogante, ed attivare una comunicazione evocativa, subito
connessa alle emozioni, non mediata.
Ogni azione umana è prodotto, ed è anche
processo che realizza quel prodotto. Ci sono
dei passaggi, dentro l’esperienza del lavoro
di arte terapia, altrettanto importanti rispetto
all’immagine finale.
Una prima fase è il contatto con i materiali.
L’immersione, il contatto sensoriale con la
materia, sono già un passaggio che cura. La
possibilità di esplorare, di manipolare, di
imparare un gesto e lasciare una traccia sono
già cura. Poi c’è l’emozione che arriva quando la materia comincia a prendere forma,
quando comincia a lasciar trapelare l’immagine interna che l’ha guidata. Cerchiamolo
anche qui un altro «fattore terapeutico»,
perchè l’immagine interna che incontra i
materiali diventa tutto insieme forma, contenuto e processo, e simbolo, e messaggio, e
prodotto del mio lavoro. È parte di me, prolungamento del gesto della mia mano, ma
anche traccia esterna del mio fare, e anche
oggetto separato da me dotato di una sua
vita, e quindi posso osservarlo, mi può parlare, ne posso fare esperienza.
Già dal primo contatto coi materiali ho la
possibilità di accorgermi di come mi relaziono con la realtà esterna, quanto mi permetto di esplorarla, conoscerla nelle sue caratteristiche, manipolarla, assimilarla come
parte di me.
Col mettere mano ai materiali e poi dare forma all’immagine, tengo insieme due livelli,
uno logico/fattuale e uno emotivo e pulsionale. È già cura.
Allora l’atto creativo con cui l’immagine si
cala nella forma materiale che le ho preparato è già me: il mio mondo interno, il mio
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curare con l’arte
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«I confini dell’anima, nel tuo andare, non
potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione che
le appartiene»
(Eraclito)
ROCCA 15 MARZO 2006
L’altro passaggio che segue è riconoscere il
senso, costruire il significato, rielaborare con
l’arte-terapeuta o in gruppo quel percorso a
onde, a ponti sospesi, tra mondo interno e
realtà tangibile, tra buio e luce, tra riconoscimento e sorpresa. Davanti all’opera creata, la mente logica ora deve arrestarsi, e lasciar entrare in campo la mente narrativa,
che accoglie, osserva, comprende, descrive,
evoca, allude, cerca il senso, scioglie le emozioni condensate nell’immagine, e le emozioni del mostrare, del raccontare, e le emozioni che gli interlocutori vivono davanti a
questo.
Il significato allora non deriverà da spiegazioni più o meno codificate, non è un rebus
da risolvere. Si presenterà da sé, dall’ apertura che avremo realizzato nell’accoglierlo,
nel lasciarlo parlare, e diventerà forte e chiaro e ben formato attraverso passaggi multipli: globali e frammentati, addensamenti di
senso, coaguli di emozioni, aggregati di altre immagini-ricordi-evocazioni che si connettono in rete con l’opera creativa.
E il significato emergerà anche come sviluppo narrativo, da me che mostro e dall’altro
che mi chiede, dal sentimento che viviamo,
da ciò che insieme troviamo, scopriamo,
costruiamo, mentre tuttavia restiamo cauti
davanti al mistero che ogni individuo ha il
diritto di conservare per sé.
L’ultima fase è il distacco. L’opera che era
me, è nata, è fuori di me, l’ho data alla luce,
l’ho condivisa, l’ho colorata dei miei significati, mi appartiene, ma su un livello diverso.
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Me ne posso ora distaccare, perchè mi sono
riconosciuta in essa.
La sua natura di tramite, di ponte, di testimone di un viaggio, si è compiuta.
«L’immaginazione è la più scientifica delle
facoltà, perché essa sola comprende l’analogia universale»
(C. Baudelaire)
Se seguiamo questi passaggi di processo,
se ricordiamo la potenza evocatrice del prodotto, diventa molto chiaro che solo un operatore che abbia accolto e sviluppato in se
stesso questa area psichica, che l’abbia nutrita con precisi, adeguati, raffinati strumenti, sarà in grado di coglierla e valorizzarla
nelle persone con cui lavora ogni giorno.
Solo attraverso questo passaggio di esperienza, operativa e concettuale, diretta prima e di elaborazione personale poi, si può
attivare la consapevolezza della enorme
portata dei processi comunicativi, relazionali ed emotivi che attraverso questo tipo
di lavoro si mettono in movimento. E quindi solo su questa base si può articolare la
gamma di vastissime possibilità che l’arteterapia apre, dal campo psicoterapico a
quello della prevenzione primaria, dalla
comunicazione interculturale alla riabilitazione psichiatrica, dalla integrazione sociale
alla crescita delle relazioni umane nelle
comunità sociali e nei gruppi di lavoro, dalla
elaborazione dei conflitti alla formazione
del saper essere.
Ci vuole una scuola, con tutti i crismi.
È proprio su questo pensiero, ormai condensato in forma di progetto, che si è concluso domenica 5 febbraio in Cittadella il
secondo seminario di arte terapia, che ha
raccolto i contributi di professionisti della
psiche, docenti universitari, arte-terapeuti di livello internazionale, e stimolanti conduttori di laboratori esperienziali. Il programma dei lavori – presentato per esteso
nel n. 2 di Rocca – ha messo in rete queste
conoscenze e queste prassi professionali,
ed ha sottolineato l’importanza di un percorso formativo specifico, solido e coerente, che accompagni e sostenga la costruzione di una identità professionale dove si
incrociano competenze artistiche, competenze pedagogiche, psicologiche e psicopatologiche, e dove il focus del percorso
formativo sia incentrato sulla doppia elica
del saper fare e del saper essere. Perché
l’arte possa diventare strumento di cura,
occorre un’attenta cura del progetto formativo. E una cura attenta della prassi professionale.
SBARRE E DINTORNI
ingiustizia dell’indifferenza
Vincenzo
Andraous
F
inché qualcosa di grave non ci tocca da vicino, potrebbe cadere il
mondo, noi ci spostiamo di quel
tanto, da non rimanerne coinvolti.
Sarà pure un meccanismo di difesa, ma è anche un atteggiamento che incrina la convivenza civile e logora il mantenimento di una coscienza
civile non subordinata all’indifferenza di
turno.
È ciò che ho pensato quando un amico
che non incontravo da alcuni anni mi ha
raccontato di essere finito in carcere per
due mesi.
Ho ricordato le sue battute di un tempo, quasi mi veniva da ridere, proprio
lui, che in più di una occasione mi aveva ribadito con tono liquidatorio che non
avrebbe mai avuto a che fare con il carcere, figuriamoci con i carcerati, ebbene proprio lui ci era finito dentro testa e
piedi.
Il mio amico ricordava quell’esperienza
di offese, di umiliazioni, di dignità svendute a poco prezzo nei metri a perdere
perché mancanti, le serrature chiuse a
sbattere, le grida e le ristrettezze, la libertà scomparsa e la sopravvivenza concessa con il contagocce.
Parlava di uomini diventati invisibili, di
catene strette alla vita, di parole al macero, di dialoghi dispersi, di ascolto dimenticato, di un abbandono scelto per
non avere altre scelte.
Parlava di cose mai viste; purtroppo vissute tragicamente in accezioni che mai
possono essere confermate, di filosofie
disarmate al punto da apparire «umane,
troppo umane» in miserie disumane inenarrabili.
Il mio amico parlava ed io pensavo a
quanto è importante la Giustizia per i
politici che fanno le leggi, per i magistrati che condannano, per tutti gli uomini perbene… tranne che per chi in
carcere ne invoca uno spicchio, avendone infranto la parte più alta.
Ho pensato a come contenere e incapa-
citare non significhi prevenire, tanto
meno rieducare, risocializzare, soprattutto non sottenda sperare.
Il mio amico balbettava di Dio fatto a
pezzi e di Santi costretti alla diaspora,
io pensavo ad una equazione e al danno
che ne deriva, nella richiesta di una giusta e doverosa esigenza di giustizia per
chi è stato lacerato, di contro alla ingiusta e indoverosa esigenza di indifferenza nei riguardi di chi in carcere è obbligato a sopravvivere.
Colpevoli e innocenti, per due giorni, per
due mesi, per vent’anni, varcano i cancelli di un carcere, opera sgangherata
eretta a difesa della vita umana e nell’illusione di migliorare gli uomini, affinché non ritornino a delinquere.
Penso che debba esistere, sì, un dazio da
pagare, ma in un percorso e in un tragitto per ritornare a essere uomini nuovi.
E invece quanti in quelle celle non raggiungeranno alcuna consapevolezza, alcun equilibrio, alcuna conoscenza di se
stessi, perché sconosciuti se non distaccati.
Mi chiedo allora se c’è attenzione e intervento per chi annega nella propria nevrosi, al punto da arrampicarsi nella psicosi, oppure questo contenitore disturbato chiamato prigione, è dichiaratamente terra di nessuno, dove i numeri
sono la somma che conta e non la fatica
dell’accompagnare.
Sto osservando il mio amico fare ritorno a ciò che resta della sua vita, lo guardo salire in macchina e scomparire oltre
la curva, e mi rendo conto di non avere
fatto caso ai motivi che l’hanno condotto in una cella, ma la risposta è lì, in superficie.
Avevo di fronte una persona, che mi parlava di un tempo e di uno spazio lunghi
due mesi, dove il mondo era sprofondato ben al di sotto della sua colpa, del reato che aveva commesso. Ma forse è questa la Giustizia che ci assolve dalla nostra indifferenza.
Rosella De Leonibus
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TERAPIE
sentimento, il mio rapporto con lo spaziotempo e con i limiti, e la qualità di questo
rapporto, che attivo qui, adesso, in questa
cornice di relazione che cura.
C’è poi un’altra fase, in cui la forma che è
emersa è ormai una immagine riconoscibile, il gesto cinestesico ha lasciato una traccia comunicante, che esprime per me, ma
anche per l’altro. Prendo consapevolezza
dell’immagine prodotta, la ripercorro con lo
sguardo, vedo cosa il gesto ha prodotto, e il
gesto è ancora lì, testimonianza visibile e
concreta di me nello spazio e nel tempo condiviso della relazione di cura.
Emergono sentimenti: serenità, scoperta,
condivisione, gioco, ma anche emozioni più
complesse, più difficili da decifrare. Altre
volte l’immagine mi parla con chiarezza assoluta, imperiosa. E porta con sé echi lontanissimi.
ASCOLTO
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P
festava la sostanzialità del fatto che i genitori avevano una profonda influenza anche nelle scelte matrimoniali dei figli.
Negli ultimi decenni invece si impone una
visione dei genitori come depositari unici
e assoluti dell’educazione dei figli e delle
figlie. La famiglia privatizza fortemente
l’educazione, anche se poi è costretta in
qualche modo a delegare questa stessa educazione a varie istituzioni, ma sempre con
un atteggiamento controllante, al punto
che i conflitti fra famiglia e istituzioni educative sono oggi all’ordine del giorno.
In un certo senso si può dire che c’è una
correlazione positiva fra l’assenza dei genitori dal focolare domestico, legata in
particolar modo al lavoro femminile, e la
volontà di definire in maniera molto articolata e pedissequa l’educazione dei figli e
delle figlie. È una situazione che presenta
dei tratti quasi paradossali, con i genitori
che diventano spesso registi assenti di
un’organizzazione perfetta; dove i tempi
sono scanditi in modo automatico, senza
spazio per la noia, la socializzazione spontanea o comunque la necessità della vita
infantile in quanto tale.
Non è solo questo. I genitori sono oggi in
realtà le figure educative più sensibili ai
contenuti pedagogici, più intenzionalmente orientate a dare un significato alle scelte che compiono in funzione dei figli, anzitutto spezzando il meccanismo di continuità genealogica. Sono i libri oppure i
consulenti i primi riferimenti dei genitori,
non certo la mamma, il papà, i nonni o i
bisnonni. L’abbandono della tradizione dei
nomi reiterati di generazione in generazione segnala in realtà l’abbandono delle prassi educative reiterate di generazione in
generazione.
Questo è un nuovo territorio dove va a sperimentarsi una figura genitoriale sostanzialmente inedita a livello storico, che vuole prendersi cura dei figli non semplicemente sotto un profilo materiale né tanto
meno sotto un profilo genealogico, quanto nella ricerca della miglior educazione
possibile.
Nasce quindi una nuova figura di genitore
educativo, che può raggiungere i suoi
obiettivi se riesce a superare in maniera
trasformativa alcuni nodi essenziali e comunque storici di questa sfida.
coesione educativa
Il primo punto su cui occorre avviare una
riflessione parte dalla criticità di questa
sfida educativa che vede il padre e la madre separati nelle loro scelte educative, se
non a volte addirittura in competizione.
Nel momento in cui il padre e la madre
interpretano il loro ruolo in maniera inedita e quindi educativa, ciascuno di essi è
fortemente propenso a svilupparlo secondo caratteristiche di rapporto privilegiato
con il figlio e la figlia, di rapporto diretto,
senza mediazioni particolari. Si crea una
specie di isolamento, dove ciascuno vive il
suo ruolo a prescindere da quella solidarietà educativa che può generare scelte
adeguate.
La coesione educativa è un fatto imprescindibile, perché implica la necessità di comunicare fra i genitori, la capacità di prendere tempo prima di ogni decisione in
modo da poterla adeguatamente definire
ROCCA 15 MARZO 2006
ROCCA 15 MARZO 2006
Daniele
Novara
arlare di genitori educativi appare
quasi scontato. In effetti da vari
punti di vista i genitori educano, ma
è la consapevolezza pedagogica del
genitore odierno a segnare la netta
separazione con l’identico ruolo
genitoriale svolto dalle generazioni precedenti.
Fino all’epoca in cui l’autorità aveva una
funzione regolativa sostanzialmente assoluta (anni ’60 del secolo scorso) il mondo
adulto sosteneva in maniera compatta la
funzione dei genitori e delle famiglie nella
crescita dei figli, sempre nella logica di
un’azione volta a tutelare l’ingresso – sostanzialmente conformistico – dei figlioli
nell’età adulta, e quindi nella comunità
sociale. A partire dagli anni ’60 questo quadro si è modificato radicalmente. Sono
prevalsi i valori della creatività individuale e dell’espressività personale, legati alla
possibilità che l’individuo potesse realizzare una strada propria e originale. Basti
pensare che ancora fino agli anni ’60 era
in uso il costume del «consenso» prima
delle nozze, come prassi rituale che mani-
metafora
del nuovo
genitore
educativo
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le regole spazio di libertà
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Un’emergenza tipicamente italiana è quella
delle regole educative. La difficoltà dei genitori di stabilire regole chiare, sostenibili, sufficientemente consensuali, è sintomatica di una mentalità fortemente basata
sulla dipendenza, ossia sullo sgridare e sul
rimproverare, che sottintendono la necessità che i figli si adeguino ai genitori a prescindere da un contratto riconosciuto, basato su delle regole chiare e comprensibili.
Da questo punto di vista nella cultura italiana la regola evoca oggi la rigidità, la subordinazione e l’autoritarismo, creando
pertanto un atteggiamento pregiudizialmente critico e respingente. La regola educativa in realtà segnala la capacità dei genitori di offrire uno spazio chiaro di limiti
dentro cui però si possano realizzare delle
azioni di libertà.
La regola è uno spazio di libertà, perché
definisce un campo di azioni possibili e un
campo di azioni impossibili.
La capacità del genitore educativo si situa
quindi prioritariamente nel costruire regole chiare, sostenibili e consensuali, insieme al partner. È un’azione difficile perché proveniamo da una cultura spontaneistica, o meglio fortemente basata sull’as44
sioma per cui i figli devono cogliere gli ordini impliciti dei genitori a prescindere dalla chiarezza con cui sono stati esplicitati.
È come se si chiedesse ai figli di avere la
capacità telepatica di intercettare i desideri dei genitori stessi rispetto ai loro comportamenti. Nascono situazioni grottesche
facilmente immaginabili che necessitano
di un cambiamento nell’ordine della predisposizione di un patto educativo chiaro
con i figli, basato sulle regole.
ascolto come separazione evolutiva
L’ascolto è spesso interpretato come una
dimensione affettiva, come una dimensione psicologica. Ritengo che il genitore possa fare tanto ma non certo situarsi in
un’area psicologica rispetto ai figli, e che
l’ascolto non possa essere confuso con
azioni di altra natura che necessitano di
altre competenze.
L’ascolto che offre il genitore ai figli è la
capacità di creare una distanza emotiva
adeguata che favorisce la separazione evolutiva, ossia la capacità del figlio di sviluppare la propria autonomia, il proprio essere persona originalmente separata dal
destino genitoriale. L’ascolto è la capacità
del genitore di accettare la profonda differenza dei propri figli, di vivere questo come
terreno di trasformazione genealogica, di
rinnovamento, e quindi di gratitudine nei
confronti dei figli che permettono di acquisire nuovi spazi e nuovi territori.
Si tratta di stare nella relazione con un profondo atteggiamento di rispetto della diversità filiale, con una profonda accettazione anche conflittuale della storia che la
nuova nascita produce all’interno della famiglia e della collettività.
Non è facile in un contesto in cui le istanze simbiotiche diventano sempre più tiranniche, rafforzate anche da una forte dominanza di figli unici, fortemente coccolati,
iperprotetti, appiccicosamente riveriti, che
giungono a tiranneggiare e a comandare i
genitori, come se fosse un elemento normale di questa simbiosi in cui i ruoli finiscono con lo scambiarsi facilmente e drammaticamente.
L’ascolto è invece la capacità del genitore
di accettare il proprio ruolo e di porre la
propria autorità al servizio della crescita
originale del figlio o della figlia. Una sfida
enorme, storicamente inedita, ma che ci
dà la speranza che il cambiamento in corso sia segnato da una profonda adesione
alle ragioni di un futuro diverso.
Daniele Novara
SIMONE WEIL
santità laica
e
marginalità sociale
S
Giuliano
Della Pergola
e ancora oggi la figura di Simone
Weil (Parigi, 3.2.1909 – Ashford,
24.8.1943) tanto ci affascina, non è
per una sua presunta attualità, visto che le aziende industriali stanno chiudendo, e che dunque la sua
testimonianza, al pari di altre, è già consegnata alla storia operaia, ma per come ella
seppe coniugare la sua vita interiore con i
grandi temi del suo periodo, in particolare
con quelli dell’oppressione sociale, delle
conseguenze del colonialismo, col
dispotismo delle tirannie moderne e con
quello diffuso, legittimato durante tutta la
stagione industriale, dalle macchine produttive e dalle gerarchie d’impresa.
La sua presenza nella storia del secolo appena concluso è quella di un’appassionata
studiosa che non s’accontentava d’essere
una lettrice o un topo di biblioteca: la sua
indole era quella derivata dall’esistenzialismo vitale, dal patire nell’intimo per poi
trovare le parole per giudicare.
Era nata ebrea, ma aveva rifiutato l’ebraismo della famiglia da cui proveniva; forse
era cristiana ma restò sempre sulla soglia
dei misteri teologici, era stata operaia ma
senza tacere delle inevitabili volgarità che
vivono tra le persone del popolo. Era stata
sindacalista, ma discutendo sempre della
natura dei compromessi sindacali; non era
marxista, eppure era prossima alle posizioni di Trotzkij. Era anti stalinista e sebbene avesse avuto anche l’opportunità di
ospitare Trotzkij a Parigi, il suo fu sempre
un rapporto difficile e conflittuale con questo capo della rivoluzione russa. Quando
ne parla (raramente per la verità), più che
altro è per prenderne le distanze, senza
pensarlo come uno stabile punto di riferimento.
una moderna figura dell’ebreo errante
La Weil fu un’intellettuale, questo sì, una
donna in difesa delle donne, ma senza che
tale posizione minimamente potesse confondersi con il femminismo: la sua polemica con Simone De Beauvoir, accusata
dalla Weil di essere ideologicamente dalla
parte giusta, ma sopita tra gli allori dei
borghesi, lo sta a dimostrare.
Simone Weil interpreta in panni moderni
la figura dell’ebreo errante, di colui che
non ha casa, che passa per il mondo senza
lasciare traccia, ma suscitando una maggiore vita là dove abita. Non è uno che
mette radici in qualche posto, perché le sue
radici sono altrove, e quest’altrove è forse
una terra agognata, o forse solo un’ottica
irrituale con cui osservare il mondo, un
punto di vista eccentrico, critico e autocritico (lo stesso che impegna il soggetto a
svuotarsi completamente e incessantemente di sé, che in sant’Agostino si confonde
con la Gerusalemme celeste e nella teologia della rivoluzione con l’Ecclesia pauperum). Ma questi riferimenti, per quanto
sfumati possano essere, sono già tuttavia
impropri.
Era nata a Parigi nel 1909. La sua vita sarebbe stata breve, solo una meteora. Sarebbe morta nel Kent a trentadue anni,
dopo avere visto salire al potere Hitler e
dopo avere lucidamente intuito il conflitto che si sarebbe aperto in Europa tra le
democrazie e le dittature.
Era una democratica e una francese, ma
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ROCCA 15 MARZO 2006
ASCOLTO
con il partner. In una logica di forte compiacenza il genitore tende invece a dedicare tempo direttamente ai figli e a mettere
in secondo piano la necessità di un dialogo serrato con il coniuge – anche separato
– nella ricerca delle regole, delle decisioni,
delle prospettive migliori di crescita per il
proprio figliolo.
È una situazione che genera ovviamente
una forte sofferenza. Ad esempio i genitori separati sono spesso convinti che non si
possa avere coesione educativa; in realtà
altrettanto spesso si trovano coppie di genitori separati che paradossalmente riescono ad avere più coesione educativa delle
stesse coppie coniugali in quanto maggiormente in grado di capire l’importanza –
specialmente di fronte a figli preadolescenti e adolescenti – di avere posizioni educative comuni.
La coesione educativa è un appuntamento
prioritario per i nuovi genitori.
Occorre dedicarci tempo, in modo che le
decisioni educative siano assunte in termini di coppia, a meno che uno dei due genitori deleghi all’altro le proprie funzioni, ma
questo da vari punti di vista non è auspicabile: diminuisce la ricchezza della coppia genitoriale.
SIMONE WEIL
la linea del male
ROCCA 15 MARZO 2006
Quanto al libro sulla Germania, esso venne scritto dopo un viaggio a Berlino nel
1932, qualche mese prima che Hitler prendesse il potere nel gennaio del 1933. È un
libro a tesi: «un filone del male» attraversa la storia. Inizia con la crudeltà feroce e
senza remissione dell’impero romano, per
proseguire con la creazione dello Stato
moderno (il card. Richelieu), con Napoleone per infine approdare al nazismo tedesco (pag. 243).
Scritto quando i movimenti hitleriani già
si permettevano un linguaggio politico
ignoto alla tradizione tedesca, per quel loro
atteggiamento squadrista, violento, sfrontato, pieno di un vitalismo debordante, allusivo di un ordine politico fondato sulla
razza, sul territorio e sul capo, Sulla Germania totalitaria compie una diagnosi impietosamente perfetta di quanto stava succedendo nella patria di Beethoven.
Quella stessa perfidia dei romani, la stessa asprezza sferzante e violenta, la stessa
aggressiva spietatezza nel soggiogare con
attacchi a sorpresa i popoli (e, una volta
vinti, renderli politicamente marginali e
deprezzati), nei movimenti nazisti si trovano talmente evidenti da fare credere che
Hitler abbia «copiato» Cesare. Per i romani un nemico vinto era un colpevole da
punire.
In ciò la categoria teorica «greco-romana»
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è tutta da rivedere. Più nessun confronto è
possibile tra i greci e i romani, così come
una violenta discontinuità sarebbe sorta tra
l’impero romano e i comuni dell’Italia medioevale, nessun confronto è possibile tra
le popolazioni germaniche arcaiche e il movimento nazista. L’impero dei cesari consacrava a norma la forza, la spietatezza e
l’oltraggio dell’altrui sovranità. Questi stessi programmi politici pervadevano i movimenti nazisti prima della presa del potere,
e Simone Weil capisce l’epilogo quando la
scena era solamente agli inizi.
Simone Weil sarebbe morta prima di vedere il precipizio in cui il pensiero nazista
s’era infilato, ma in compenso tutta la parte finale della sua vita fu intimamente intaccata dalla brutalità di Hitler vittorioso.
Lei lucidamente aveva previsto fin dove
avrebbe portato il compimento della «linea del male».
Charlot e Tempi moderni
Su La condizione operaia bisogna ricordare innanzi tutto che questo «libro-diarioepistolario» venne scritto durante gli otto
mesi in cui lei si fece operaia. Si trattò volontaristicamente di una scelta compiuta
dalla Weil per comprendere dal di dentro
la condizione di vita in fabbrica. Il suo
metodo d’indagine, dall’interno e dal basso, fu sempre quello della testimone in prima persona. Non solo mai s’accontentò dei
«si dice», ma neppure degli studi dei sapientoni che analizzavano la condizione
operaia soltanto dall’esterno. Scelse di farsi lei stessa parte di una categoria sociale
cui non apparteneva né per nascita, né per
educazione.
In questo tratto sta la verità della sua scrittura e anche il motivo del perché quanto
lei scrisse rappresenta ancora per noi una
rara testimonianza.
Soleva raccomandare che s’andasse a vedere Tempi moderni, il film di Chaplin uscito in quel periodo. Ripeteva che Chaplin
aveva spiegato meglio di tutti il dominio
della macchina sull’operaio, la subordinazione di quest’ultimo ai ritmi produttivi;
era rimasta folgorata dalla metafora della
macchina che s’ingoia Charlot, che lo
stritola nei suoi sordi meccanismi. Questo
della subordinazione dell’uomo alla macchina fu per lei una delle tre chiavi con cui
leggere la condizione operaia. Le altre due
furono a) l’esagerata rilevanza nell’azienda
della burocrazia e, b) la presenza dominante
e asfissiante del padrone, soprattutto attraverso la presenza dei cronometristi. Pagine
straordinarie scrisse sulla propria incapacità di tenere il ritmo degli ottocento pezzi
all’ora previsto per il ruolo che svolgeva
nella fabbrica. A mala pena riusciva a produrre la metà del previsto e, cottimista, di
conseguenza aveva una paga ridotta proporzionata a quel che riusciva a fare. Le sue
mani da intellettuale non possedevano la
forza di quelle degli operai, mentre invece
la sua testa s’andava svuotando del suo
amato greco, della letteratura e dei riferimenti storici e tutto in lei s’inoltrava nel
mondo della produzione che le appariva
quello di automi destinati a vendersi.
La più ridotta paga quindicinale si trasferiva poi in modeste possibilità di mangiare adeguatamente e di abitare decentemente. Il degrado iniziò a impossessarsi di lei,
mettendo in evidenza tutta la verità delle
differenze di classe. Quell’affievolirsi delle
associazioni mentali, quella perdita della
memoria intellettuale che è necessaria all’operaio per potere «produrre bene senza
pensare» era l’inverso del suo canone morale. E forse proprio questo fu il passaggio
decisivo per cogliere il senso della sua scelta. Volle dimostrare a se stessa e ai lettori
dei suoi libri che le classi sociali non sono
un’astratta condizione di vita inventata per
spiegare i mali del capitalismo, ma precisamente la condizione pratica, quotidiana
e materiale, di milioni di persone e quelli
che parlano degli operai senza avere mai
fatto l’esperienza di fabbrica, necessariamente, ne restano esterni, separati. Sindacalisti e operatori sociali, sociologi e intellettuali di sinistra tutti compresi.
pellegrina dell’Assoluto
Franco Ferrarotti, fin dal titolo del suo eccellente volume dedicato a Simone Weil
(edizioni Messaggero di sant’Antonio,
1996), identifica il senso del suo agire nel
mondo: la chiama «pellegrina dell’Assoluto» e sembra a me che nessun’altra defini-
zione possa essere altrettanto precisa.
Quel suo andare verso una fede pura ed
intoccata dalle religioni, verso una «religione senza dogmi» e quindi radicalmente priva d’ogni proiezione umana su Dio,
rende il cammino interiore di Simone Weil
depurato da mille polemiche ideologiche.
Lei attuò, soffrendola nella sua carne, tutt’intera la lezione di K. Barth relativa alla
necessaria contrapposizione tra fede e religione. In questo senso scrissi più su che
la Weil era anche prossima al pensiero di
sant’Agostino (da cui invece per tanti altri
versi se ne sarebbe distaccata).
Ma decisivo sarebbe stato capire il suo distacco dall’ebraismo e il suo limitarsi a
restare sulla soglia del cristianesimo. Si
separò dall’ebraismo della sua famiglia
perché pensò che «gli ebrei hanno chiamato la propria anima Dio, fingendo e persuadendosi che essa aveva creato e governava il cielo e la terra» (Quaderni, volume
4, Adelphi 1993, pag. 244).
La sua passione per Gesù invece rimane
un confronto diretto, da anima a anima.
Scrive: «Il Cristo ha respinto la tentazione del diavolo che gli offriva i regni di
questo mondo. Ma la sua sposa, la Chiesa, ha ceduto ad essa. Le porte dell’inferno non hanno prevalso contro di lei?»
(Quaderni, volume 4, pag. 347). Come Clitennestra, la Chiesa è sposa, usurpatrice
e adultera, preciserà più avanti. Quando
la fede produce lo spazio del consenso sociale e diventa legame tra appartenenti ad
una stessa comunità, è la natura della fede
che già viene meno: Barth torna a pronunciare la sua tesi. Senza la contrapposizione tra fede e religione, è la fede che
viene deprivata della sua più pura natura, mentre la religione si trasforma necessariamente in perbenismo sociale a fini
integratori.
Svuotarsi di sé per fare apparire la verità
nella sua pienezza, si direbbe essere questo l’insegnamento morale più alto di Simone Weil, alla cui umile testimonianza è
importante rifarsi, soprattutto quando i
rigurgiti integralisti dei tempi più bui tornano sulla scena della storia.
ROCCA 15 MARZO 2006
invano in lei si troverebbe del nazionalismo
o, peggio, il benché minimo accenno alla
difesa della politica colonialista della sua
patria. Semmai, all’inverso, la Weil fu una
furente, accanita, violenta critica della storia francese. Era sempre all’opposizione in
ogni situazione, ma senza mai tirare fuori
la grinta dell’oppositrice ad ogni costo.
Di tutta la sua opera, grande parte sotto
forma di Diari e Quaderni, e per lo più
composta da scritti brevi, concisi, molto
stringati, quasi che alla sua scrittura dovesse applicarsi lo stesso rigore ascetico
della sua esistenza, a parere mio due sono
i libri più importanti: quello Sulla Germania totalitaria (Adelphi 1990) e La condizione operaia (Mondadori 1952, poi negli
Oscar 1990. Traduzione di F. Fortini).
Giuliano Della Pergola
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ROCCA 15 MARZO 2006
logos e mithos
Ora – ed è questa la novità radicale della
riflessione di Blumenberg – noi ci costruiamo un mondo comune ricorrendo sia a
descrizioni che a narrazioni. Nel primo caso
utilizziamo strumenti logici (concetti, deduzioni, principi, tassonomie, leggi, teorie),
nel secondo caso strumenti mitici (simboli, figure, allegorie, storie, immagini e soprattutto metafore).
Diversamente dalla tradizione razionalistica che interpreta gli sviluppi del pensiero
occidentale come il progressivo affrancarsi
del logos dal mithos e della verità dall’errore, Blumemberg considera logos e mithos
come due discorsi dotati di pari dignità, destinati a integrarsi più che a escludersi. Basta sfogliare uno dei suoi lavori dedicati alle
metafore per rendersi conto dei numerosi,
imprevedibili, modi in cui logos e mithos
si implicano. Un mito può generare una teoria, e una teoria precisare, sviluppare, portare a compimento un mito. Un concetto
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MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Hans
Blumenberg
la costruzione
di un
mondo comune
può essere illustrato tramite una metafora
ma anche nutrito, integrato, ripensato a
partire da una metafora. La loro differenza
non è logica ma morfologica. Riguarda non
il contenuto di verità che esprimono ma la
forma con cui parlano della realtà e la organizzano in costrutti dotati di senso.
In un suo libro, intitolato Naufragio con spettatore, Blumenberg ha dimostrato che uno
dei temi ricorrenti della filosofia e della scienza, quello della sfida dell’uomo all’ignoto e
al pericolo, può essere trattato non solo in
modo astratto, ma anche con la concretezza
e la vivacità della metafora lucreziana del
mare in tempesta che spaventa e nello stesso tempo seduce l’osservatore esterno. Una
metafora, continuamente ripresa e rivisitata, che parla della costitutiva finitezza dell’esistenza ma anche del desiderio, se non
della possibilità, di trascenderla.
Ebbene, proprio le metafore non sono concetti di serie B, vie secondarie e imperfette
di conoscenza del mondo, inganni della ragione che, secondo un’ingenua visione illuministica, la scienza sarebbe destinata prima smascherare e poi a spazzare via. Anche se non nascono dall’esperienza, le metafore «creano esperienza». Anzi possono
mostrare, raccontare, rivelare molto più di
quanto i concetti, legati alla realtà, riescono a descrivere. E a differenza dei concetti,
che hanno un solo senso, le metafore ne
hanno molti e questa moltitudine semantica, lascia intendere Blumemberg, non costituisce un difetto dell’attività riflessiva e
rappresentativa ma la sua ricchezza, la sua
forza, la sua estensione di fronte alla povertà e all’insufficienza di senso del mondo.
Da qui un’interrogazione rivolta a ridiscutere la vocazione stessa dell’indagine filosofica e ad allargarne il campo sino a comprendere i prodotti della ragione e quelli dell’immaginazione, il vero e il verosimile, la
logica del pensiero e quella della fantasia,
il discorso della scienza e quello della letteratura, della poesia, dell’arte, del mito.
Quello della filosofia, sulla scia di Gadamer
e di Cassirer, diventa un lavoro di analisi
delle forme simboliche e dei concetti a partire dal contesto che li ha generati perché
le espressioni culturali, si tratti di teorie o
miti, non sono assoluti extrastorici, evidenze della ragione ma elementi di dialogo e di
accordo intersoggettivo.
Il mondo è quello che, di generazione in generazione, di epoca in epoca, viene descritto e raccontato, non è un insieme di fatti
ma un insieme di interpretazioni di cui la
più adeguata è quella più condivisa, più radicata, più resistente: cioè l’interpretazione che è diventata una tradizione.
il libro come metafora
Stefano Cazzato
A tal proposito, prezioso e affascinante è lo
sforzo ermeneutico condotto da Blumenberg ne La leggibilità del mondo, dove ha
analizzato il problema della conoscenza
umana attraverso la metafora itinerante del
libro: prima il libro di Dio, poi il libro dell’universo e infine il libro dell’uomo.
In epoca medievale, definita dalla teologia
e dal principio di autorità, si poteva leggere
il mondo attraverso gli occhi della Bibbia,
a partire dalla rivelazione. In epoca moderna, definita dalla scienza e dal principio
della laicità e della libertà della ricerca, si
inizia a leggere il mondo con gli occhi della
natura, a partire dai suoi stessi principi i
quali, se correttamente indagati, sono in
grado di rivelarci verità di fronte alle quali
i libri scolastici impallidiscono. In epoca
romantica, definita dalla storia e dal principio dell’azione, il mondo viene letto attraverso le scelte, le decisioni, la capacità
degli uomini di costruire il proprio destino. Tre metafore che stanno per altrettanti
scrittori, lettori, percorsi di conoscenza,
epoche, realtà, paradigmi epistemologici,
interpretazioni. Tre metafore, ciascuna delle
quali ci racconta il mondo in un modo diverso, facendoci scoprire da un’angolazione quello che da un’altra è nascosto o negato. Un’ulteriore prova della fecondità del
mito quale generatore e moltiplicatore dell’esperienza conoscitiva del soggetto che
resta, tuttavia, legata a una prospettiva, a
un orizzonte limitato, al punto da cui si
guardano le cose e al modo con cui si guardano. Come ha scritto Blumenberg in Tempo della vita e tempo del mondo «l’uomo è
soltanto un episodio del mondo», il tempo
della sua esistenza è ridicolo se paragonato
a quello dell’evoluzione e della storia. Che
egli «acquisti conclusivamente la conoscenza e possegga istantaneamente la verità» è
una possibilità che non esiste. Più realisticamente la conoscenza a cui può ambire
somiglia a quella degli uomini prigionieri
nella caverna platonica: accontentarsi di
immagini, di figure, e sperare, soltanto sperare, che, al di fuori della caverna, esista un
mondo vero e ideale.
Stefano Cazzato
Bibliografia
Paradigmi per una metaforologia, Bologna, 1969
La leggibilità del mondo, Bologna, 1984
La realtà in cui viviamo, Milano, 1987
Elaborazione del mito, Bologna, 1991
Il futuro del mito, Milano, 1992
La legittimità dell’età moderna, Genova, 1992
Passione secondo Matteo, Bologna, 1992
Tempo della vita e tempo del mondo, Bologna,
1996
Naufragio con spettatore, Bologna, 2001
Concetti in storia, Milano, 2004
ROCCA 15 MARZO 2006
H
ans Blumenberg (Lubecca 19201996) è stato professore di filosofia in molte università tedesche
tra cui Amburgo e Munster. Studioso di retorica, ritenuto il fondatore della metaforologia (la scienza delle
metafore viste non tanto come ornamenti del
discorso ma come strumenti del pensiero),
la sua opera si sviluppa attraverso un confronto serrato con la fenomenologia husserliana ed approda a una critica della conoscenza come rispecchiamento obiettivo e
diretto della realtà. Tra l’uomo e il mondo
esiste, secondo Blumenberg, un rapporto
mediato dal linguaggio al punto che il mondo, per dirla con Aristotele, «è ciò di cui tutti
siamo convinti». Il contenuto di questa convinzione, però, non è scontato e apriori ma
costruito attraverso procedure retoriche di
negoziazione il cui fine è quello di realizzare il più ampio accordo possibile tra gli esseri umani. Il mondo si dà e si rende comprensibile nelle diverse elaborazioni linguistiche e culturali che gli uomini hanno creato nel corso del tempo. E sulle quali hanno
raggiunto un così alto grado di condivisione
da farle sembrare quasi naturali. In realtà
nulla può nascondere il carattere storico e
provvisorio di queste produzioni che sono il
risultato di una mediazione ottenuta attraverso il confronto e la persuasione. La retorica, scrive Blumenberg ne La realtà in cui
viviamo, «è la faticosa produzione» di concordanze e comunanze per far fronte proprio alla mancanza di un’intesa originaria.
Codici comuni vengono prodotti per orientarsi in un mondo che difetta di significati
stabili e oggettivi. La cultura provvede a creare un consenso precario per sopperire al
nonsenso sostanziale della natura.
49
verso Sibiu
L
un momento non facile del dialogo
ROCCA 15 MARZO 2006
Maurizio
Di Giacomo
50
a prima tappa del pellegrinaggio
ecumenico, tenutasi a Roma dal 24
al 27 gennaio 2006, su iniziativa
congiunta del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee)
e del Consiglio delle Chiese–
Kek – (che raccoglie le varie denominazioni protestanti e gli ortodossi), in vista della terza assemblea ecumenica europea a
Sibiu (Romania) nel settembre 2007, ha
confermato il momento non facile che vive
il dialogo ecumenico.
La partecipazione è stata qualificata: 150
tra delegati e delegate da 44 nazioni, aldilà dei confini istituzionali dell’attuale Unione Europea a 25, che proprio nel 2007,
dovrebbe salire a 27, se Bulgaria e Romania vi saranno ammesse.
Il cardinale Camillo Ruini nella sua qualità
di presidente della Conferenza Episcopale
Italiana ha invitato le tradizioni religiose lì
presenti a una maggiore convergenza per
dare più forza allo slancio missionario, in
un’Europa, a suo avviso, troppo incline al
«secolarismo». In un tale contesto ancora
Ruini ha invitato a fare i conti con la realtà
dei musulmani in Europa, in crescita e destinata a pesare, fra l’altro, sul versante dei
«matrimoni misti» (cattolici-musulmani),
rispetto ai quali nel corso del 2005.
Una nota della commissione episcopale per
il dialogo e l’ecumenismo ha invitato a atteggiarsi con molta prudenza, viste anche
le differenze tra il diritto matrimoniale italiano e quello di matrice islamica sul tema
della famiglia.
Gianni Long, presidente della Federazione
delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) ha
tracciato un minibilancio della collaborazione tra cattolici e chiese della Riforma in
Italia. Con luci nel comune interessamento
a immigrati/te e ai rifugiati, con ombre legate al dibattito sul referendum circa la legge sulla procreazione medicalmente assistita svoltosi il 12/13 giugno 2005.
Il vescovo svizzero mons. Amedeo Graab,
attuale presidente del Ccee, pur usando
toni soffici, ha sottolineato che un salto di
qualità nell’ecumenismo in Europa non
può poggiare solo sulla buona volontà dei
singoli e delle «reti» che ogni giorno contribuiscono a radicarlo. «È molto rischioso – ha affermato – stare nella contrapposizione verità o dialogo, verità o amore.
Non possiamo illuderci di essere noi, con
le nostre forze a essere capaci di portare
avanti il dialogo ecumenico. Ma per il Risorto tutto è possibile».
Il cardinale Walter Kasper, presidente del
pontificio Consiglio per la promozione dell’unità tra i cristiani, ha messo in guardia
nei confronti di un dialogo ecumenico
dispersivo: «Oggi a volte non sappiamo più
cosa dobbiamo volere, corriamo il rischio
di andare in troppe direzioni con la conseguenza di trovarci più lontani di prima».
Kasper, osservato che un pizzico di «disincanto» può giovare all’ecumenismo, ha
concluso: «Occorre lavorare in modo pulito e puntare sulle convergenze».
tre priorità
Nella sostanza sulla medesima linea è apparso il vescovo evangelico luterano Margot
Kassmann, da alcuni anni decano
di una chiesa in Svezia, quando ha invitato
le chiese cristiane europee a «rafforzare la
fede» in un continente descritto come poco
ospitale: «Molti non conoscono più la Bibbia, i bambini non vengono più educati a
credere, i giovani sono disorientati».
Jean Arnold De Clemont, presidente del Kek
e della Federazione protestante di Francia
ha indicato tre priorità. Prima e «la più
importante è la sfida della secolarizzazione del mondo contemporaneo di fronte alla
quale le Chiese devono rispondere insieme».
«Spesso si perde troppo tempo – ha proseguito – a lavorare sulle sfumature ecclesiologiche mentre diventa sempre più urgente
approfondire la teologia biblica e il modo
in cui i cristiani possono mettere in pratica
la Parola di Dio».
Seconda priorità «mettere in pratica con l’approfondimento teologico e spirituale e con
l’impegno sul versante sociale i temi messi
in agenda dalla Carta Ecumenica firmata
dalle Chiese a Straburgo nel 2001». Terza
priorità «Superare le frontiere. Siamo trop-
l’approfondimento dei temi della Carta Ecumenica del 2001. A Sibiu – ha anticipato
mons. Aldo Giordano – «puntiamo come
obiettivo massimo a elaborare una ‘dichiarazione’ indirizzata alle chiese in Europa e
al mondo intero. Non abbiamo di fronte a
noi il compito di scrivere una nuova Carta
Ecumenica». Quell’assemblea in Romania,
nell’anno che Sibiu sarà «capitale europea
della cultura», in un contesto a maggioranza ortodosso, conta di toccare 3000 tra delegati e delegate, il livello più alto rispetto
alla prima assemblea ecumenica europea a
Basilea (1989) e a Graz (Austria) nel 1997.
i dubbi
Dopo la descrizione della prima tappa di
questo «pellegrinaggio spirituale» i dubbi.
Come mai la rappresentanza del dialogo
ecumenico in Italia, in questo convegno, nei
fatti è apparsa ristretta alla Comunità di S.
Egidio e all’esperienza del Movimento dei
Focolari? Tra i delegati ufficiali al convegno figurava don Marco Gnavi, santegidino e da alcuni anni responsabile dell’ufficio per il dialogo e l’ecumenismo della diocesi di Roma. Nell’ambito
del convegno è circolato in maniera abbondante il numero speciale del settimanale
«Città Nuova», espressione del Movimento
dei Focolari dedicato all’incontro tenutosi
a Stoccarda nel 2004 (era stato presente
anche Romano Prodi in quel momento ancora commissiario dell’Ue) e massicciamente promosso dal movimento fondato da
Chiara Lubich.
Senza dimenticare che lo stesso mons. Aldo
Giordano è un focolarino. Nessuna traccia
invece di un organismo come il Segretariato per le Attività Ecumeniche (Sae) che spesso riflette su temi ecumenici spinosi. Al momento conclusivo si è affacciato don Gianni Novelli, animatore del Centro interconfessionale per la Pace (Cipax) di Roma: a
titolo di curiosità o abusivo? In fondo alla
sala del convegno un minuscolo opuscolo
con un mini-organigramma della conferenza episcopale e degli enti cattolici attivi in
Turchia.
E proprio dalla Turchia è arrivato con l’assassinio a Trebisonda di un missionario italiano don Andrea Santoro, attento al dialogo con l’Islam locale, un segnale che non
può essere ignorato per il futuro: il dialogo
ecumenico e interreligioso, se preso sul serio e messo soprattutto in pratica, può incrociarsi con la coordinata estrema del
mettere in gioco la propria vita, sessantuno
anni dopo la sconfitta e il crollo del regime
hitleriano e nazista in Germania.
ROCCA 15 MARZO 2006
ECUMENISMO
pi chiusi nei nostri ambienti ecumenici nazionali. Dobbiamo invece entrare in rete e
invitare i cristiani d’Europa ad incontrarsi,
a conoscersi, a lavorare insieme».
Il 24 sera tutti i delegati/e hanno partecipato ai vespri nella Basilica di Santa Maria in
Trastevere, a Roma e a un successivo momento conviale offerto dalla Comunità di
S. Egidio.
I lavori di approfondimento nei vari gruppi
fino alla conclusione del 27 gennaio all’ora
di pranzo si sono mossi nel solco del contributo redatto da Sarah Numico, collaboratrice di mons. Aldo Giordano, segretario
del Ccee e da Vlorel Ionita del centro studi
del Kek che hanno illustrato il percorso tematico che condurrà in Romania, dopo una
seconda tappa prevista per il febbraio 2007,
in Germania, in un comprensorio a forte
tradizione luterana-evangelica.
La prospettiva di avvicinamento a Sibiu è
stata sintetizzata nel contributo sopra richiamato in sette punti. Appello «all’unità
nella fede», partecipare alla costruzione
dell’Europa «al fine di evitare l’eurocentrismo o l’utilizzo abusivo della religione nei
confronti politici, etici o nazionalisti».
Essere presenti dentro il crescente fenomeno delle «migrazioni» che stanno rimescolando le basi sociologiche delle stesse chiese. Salvaguardare la creazione, in vista di
uno sviluppo socialmente sostenibile e
condiviso mettendo in campo, a fini di sensibilizzazione, «il simbolismo liturgico e i
costumi cristiani». Coltivare «il dialogo con
l’Islam» mossi dalla convinzione dell’«assoluta necessità di un dialogo interreligioso e interculturale considerato e invocato come incontrovertibile per preservare
la pace nel mondo». Agire in Europa non
smarrendo la consapevolezza che essa è
immersa nella «mondializzazione».
Uno scenario destinato a crescere e dentro
il quale le chiese possono porsi come «riserva critica» in virtù del proprio patrimonio etico per evitare che il mondo diventi
sempre più piccolo ma solo per realizzare
maggiori guadagni e profitti.
I due diversi momenti di contatto con Benedetto XVI il 25 pomeriggio, a San Paolo
fuori le Mura sulla via Ostiense, al termine
della settimana di preghiere per l’unità dei
cristiani e l’udienza privata del 26 mattina
in Vaticano, si possono riassumere in due
indicazioni: proseguire nell’ecumenismo
spirituale e continuare a pregare Dio perché sostenga i cristiani nel lungo cammino
per giungere alla piena unità. Il che significa arrivare a celebrare l’eucarestia insieme
salvaguardando la specificità della propria
tradizione religiosa di provenienza.
Una «lettera ai cristiani» diffusa al termine
dell’incontro ha invitato a proseguire nel-
Maurizio Di Giacomo
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il Cristo inedito del Regno
ROCCA 15 MARZO 2006
Arturo
Paoli
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on sono un habitué della Tv, ma
anche senza volerlo, in casa di
amici l’occhio si scontra con uno
schermo televisivo.
Mi pare di avere sentito la parola odio nel linguaggio politico.
Mi ha colpito il vocabolo «odio» che è rimasto fisso nella mia mente e non è stato
travolto nella corrente di altre notizie e
continua a martellarmi. Ricordo una lontana udienza in cui Pio XI faceva riflettere i fucini (universitari cattolici) su questa parola odio, troppo usata negli ambienti fascisti. Con il suo indimenticabile
metodo di girare intorno faticosamente ad
un concetto spinto dal bisogno di farcelo
assimilare, faceva scoprire quanto di antievangelico contiene questa parola. Il
pensiero di essere ricevuti in udienza ci
metteva nell’attesa quasi ansiosa per la
rarità di assistere quasi ad una apparizione non concessa a molti, e uscivamo con
l’impressione di avere assistito a una seria lezione universitaria: gli inglesi non
sono persone da odiare, il capo dello stato vuol mettere la gioventù in assetto di
guerra, e la guerra è contro Dio.
Eravamo pochi all’università in quel tempo a portare questo divieto, quasi un’obiezione di coscienza: un cristiano non può,
non deve odiare, anche se l’odio pare un
ingrediente necessario per assicurare la
vittoria sull’avversario. Eppure il verbo
misein ricorre spesso nella bibbia e nel
vangelo e mi ci sono indugiato nel tempo
natalizio.
«Nessuno può servire due padroni perché,
o amerà l’uno e odierà l’altro, oppure preferirà il primo e disprezzerà il secondo.
Così non potete servire nello stesso tempo Dio e i soldi» (Mc 6,24).
Nell’ebraismo il sentimento o il pensiero
non sono mai separati dall’azione, dalle
scelte concrete. Non si ama e non si odia
solo con il cuore inteso come centro dei
sentimenti, ma con le mani, con i piedi,
con tutto l’essere. Io ho molti soldi ma
sono staccato dai beni della terra è un discorso al quale Gesù e uno del suo tempo
N
e della sua razza direbbe: non lo capisco.
Tu non sei le tue mani, le tue gambe, la tua
testa? Ricchi di soldi e di molti soldi e
poveri di spirito è una trovata umoristica
che cerca di ingannare lo Spirito Santo.
Come chi raccomanda come un buon cattolico uno che accumula e distribuisce il
denaro come si trattasse di un gioco alla
roulette. Mentre l’inverso è un fatto molto serio: si può essere poveri di soldi e non
di spirito. In questo senso il cardinale
Lercaro nel 1964 esprimeva l’esigenza di
una povertà culturale della chiesa come
rinunzia al geloso possesso di un sistema
culturale costruito e chiuso.
andarci piano con le intenzioni
Già che odio e amore ci hanno messo sulle tracce del vangelo, che è il luogo migliore per riflettere su due sentimenti della nostra esistenza, si può ripensare al
denaro come oggetto di odio e allo stesso tempo di amore. Un passaggio del vangelo di Marco riportato anche da Luca,
coglie Gesù seduto presso il luogo di raccolta del denaro offerto al tempio. Dall’ostentazione con cui i ricchi tirano fuori
dai loro mantelli il copioso denaro si scopre che questo denaro è superfluo, mentre quello spicciolo della vedova è il simbolo stesso della sua vita. Non è chiaro
in queste parole il giudizio di Dio sul denaro? O è simbolo di vita o di morte. O
contiene la soddisfazione dei bisogni essenziali dell’essere umano o è vuoto di
senso, superfluo e reclama un senso qualunque, può servire per le armi, per un
oggetto di consumo, o lo faccio crescere
a dismisura, così diventa molto simile a
un tumore, energia che uccide.
La conclusione è che il denaro non è nulla, una foglia secca che si stacca da un
albero come pensano molti religiosi e se
dà la vita o la morte contiene odio o amore, sterminio o crescita vitale. Quindi un
consiglio da impartire a coloro che usano la parola odio come arma politica è
di andarci piano, perché Gesù pensa da
il Regno che diviene
L’esteriorità è presentata nel vangelo
come il Regno di Dio. Platone, Aristotele
e tutto il pensiero occidentale disceso dai
greci fondatori hanno offerto l’impianto
alla riflessione teologica da cui parte una
cristologia che ha isolato la persona di
Gesù dal suo progetto storico temporale, che costituisce il vero centro della
buona notizia sotto il nome di Regno di
Dio o regno dei cieli. Così più che sulla
vita di Gesù nel tempo con noi e fra noi
il pensiero teologico si è fermato sul crocifisso e sul Resuscitato. Gesù espiatore
del peccato piuttosto che costruttore del
Regno nel tempo. L’identità del verbo incarnato separato dal progetto Regno è
uno dei tanti prodotti del dualismo separatista, fenomeno tipico della nostra
cultura occidentale. Per cui è possibile
parlare di odio e di amore come sentimenti soggettivi indipendenti dagli atti.
Un soggetto di operazioni bancarie che
sono la causa diretta della fame e dello
sterminio di milioni di esseri umani può
sentirsi e proclamarsi fedelissimo figlio
di Dio e della chiesa. Uno stratega di guerre di sterminio che sogni armi di potere
distruttivo sempre maggiore, può partecipare ai funerali di un papa pensando
che al massimo gli tirerebbe un orecchio
come a un monello un po’ troppo vivace,
ma in fondo in fondo capirebbe i suoi
eccessi perché la paura di un’arma invincibile è la sola che può scoraggiare il sorgere di rivoluzioni.
L’onnipotente Re della gloria è sullo sfondo di una verità fatta contenuto di potere e talvolta di prepotenza. Queste conseguenze che in sintesi allontanano sempre di più l’avvento della pace hanno
svuotato la filosofia dell’essere, fino al
punto da cancellarla come ipotesi della
storia e hanno gettato discredito sul cristianesimo come proposta di pace. Il
nuovo indirizzo del pensiero occidentale sarà sicuramente l’impianto di una
cristologia centrata sul Regno. Il Cristo
non solo annunziatore del Regno ma egli
stesso fatto Regno di Dio: Cristo – Regno di Dio – verità presente nel tempo –
verità che diviene. Verità nella carne del
Figlio e verità nella carne di coloro che
come il beato Charles De Foucauld scoprono la verità nella vita. Verità che è
amorizzare il mondo e lo mettono in preghiera semplice, espressione del vero bisogno umano. Fa di me ciò che ti piace (De
Foucauld), fa di me strumento della tua
pace (Francesco di Assisi). Un laico che
vorrebbe potersi dire cristiano, Alberto
Asor Rosa, si rivolge a quelli che vorrebbero un Cristo universale ma lo trattengono prigioniero in una cella, e mantengono strette le chiavi: «sarebbe ora che
qualcuno lo staccasse di lì – cioè dalla croce – per rimetterlo sulla terra e curargli le
piaghe delle mani e dei piedi. Ciò di cui
abbiamo bisogno è questo semplice gesto
umano, un gesto di gratificazione e di risarcimento. Il giorno in cui fossimo in grado di riumanizzare il Cristo avremmo cominciato finalmente a estinguere la storia dell’occidente in quella del mondo e
non viceversa» (1). Parole profetiche in
sintonia con quelli che attendono l’alba
di una umanità fatta capace di accogliere
il Cristo e di camminare con Lui verso una
comunità umana guardata dallo sguardo
sorridente del Padre.
ROCCA 15 MARZO 2006
CERCATE ANCORA
ebreo e non da greco: è vero che giudica
a partire dalle intenzioni, ma non coglie
mai le intenzioni separate dai fatti. Questa separazione è stata possibile per noi
occidentali discendenti dai greci per
molti secoli, fino ad oggi, spingendo alla
sua ultima conseguenza una tendenza
schizoide che ha svuotato, come un tarlo nel legno, religione e pensiero. I responsabili della nostra chiesa non possono tardare ad accogliere l’esortazione
del cardinale Lercaro. Non è vero che la
rinunzia a una certa ricchezza rappresenterebbe una rinunzia alla verità, ma metterebbe allo scoperto tutto il senso contenuto nella umanizzazione della verità
proposta dal vangelo. Io sono la verità e
con queste parole Gesù annunzia che
quando la verità si stacca dalla carne dell’uomo impazzisce. Anche la verità separata dall’esistenza concreta diventa un’arma di oppressione, ha autorizzato i roghi, condannato uomini di pensiero,
spesso ‘poveri giusti’ (Dante), e chiuso le
porte alla profezia. L’idolatria di mercato instaurata dalla globalizzazione è l’attacco più feroce che sia stato sferrato
contro l’umanità, per cui le parole circolano fra noi svuotate di contenuto. Non
vedo altra salvezza di quella proposta dal
vangelo che crea un unico centro teologico – antropologico che è raccolto nell’identità di Gesù, che si definisce come
la via, la verità, la vita.
Arturo Paoli
(1) A. Asor Rosa, Fuori dall’occidente, Einaudi,
Torino, pp. 125.
53
libertà di ricerca
e
stile di verità
ROCCA 15 MARZO 2006
Carlo
Molari
54
l breve ricordo della Costituzione pastorale del Concilio (Gaudium et spes)
presentato nel numero 1 «Scienza e
linguaggio nella Gaudium et Spes» ha
potuto solo sfiorare le sue ricchezze
dottrinali. Ci sono altri aspetti che meritano un minimo accenno, perché rappresentano indicazioni feconde per il futuro
della Chiesa. Credo, infatti, sia riconosciuto
da tutti che la Gaudium et spes è rimasta ai
margini dell’attenzione e delle scelte concrete
delle comunità ecclesiali. Erick Borgman, un
laico domenicano fiammingo, ha parlato de
Il futuro mancato di un documento rivoluzionario (Borgman E., Gaudium et Spes: in
«Concilium» 41 (2005) n. 4, pp. 64-75 [554565]). Egli sostiene che «Nell’assimilazione
del concilio Vaticano II, la rivoluzione teologica significata da Gaudium et spes sembra
aver avuto ben di rado un’effettiva rilevanza» (p. 69). Credo che sia utile riflettere su
questo ritardo.
Richiamo, come esempio, il tema della libertà di ricerca e il corrispettivo stile di verità nella chiesa.
Il numero 36 della Costituzione pastorale
esamina il problema della libertà, necessaria alla ricerca della verità. Vi si dice: «Molti
nostri contemporanei… sembrano temere
che, se si stabiliscono troppo stretti legami
tra l’attività umana e la religiosa, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze». Ma, continua il testo, non
vi è ragione di timore perché «la ricerca
metodica in ogni disciplina, se procede in
maniera veramente scientifica e secondo le
norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le
realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio». La redazione stessa di questo numero è la prova delle difficoltà esistenti nella chiesa in merito alla libertà di ricerca e al
I
un caso emblematico
Per capire bene i fatti e la loro portata occorre fare alcuni passi indietro. Nel 1941 la Pontificia Accademia delle scienze, presieduta
allora da Padre Agostino Gemelli, fondatore
e rettore dell’Università cattolica, in vista del
centenario della morte di Galileo (1942),
commissionò una ricerca «scientifica e storica» al Prof. Pio Paschini, rettore e docente
di storia ecclesiastica nell’Ateneo Lateranense. L’opera, terminata nel 1945, fu bloccata
dal S. Uffizio perché troppo favorevole a
Galileo. Nel frattempo l’autore, eletto vescovo titolare da Giovanni XXIII e morto nel
1962, aveva lasciato il manoscritto in eredità a mons. Michele Maccarrone, suo successore nella Cattedra di storia ecclesiastica.
Questi si mobilitò, sia presso l’Accademia
delle scienze che presso la Segreteria di Stato, per ottenere il permesso di pubblicare il
volume. In un primo momento trovò ancora
resistenze e rifiuti da parte del S. Uffizio, giustificati dal fatto che l’opera non «aggiungeva nulla di nuovo», e che sarebbe stato «inopportuno» insistere sulle colpe della Chiesa.
Tornato alla carica sotto Paolo VI, con cui
era in rapporto di amicizia, egli ottenne dal
S. Uffizio il 4 marzo 1964 il permesso di procedere alla stampa. Anche la Pontificia Accademia delle scienze si mostrò favorevole a
patto che l’opera venisse introdotta dal gesuita Edmond Lamalle, dell’Archivio storico
della Compagnia di Gesù, esperto di studi
galileiani. Egli avrebbe dovuto spiegare perché l’opera veniva pubblicata dopo 20 anni e
senza possibilità di un completo aggiornamento.
Il consenso alla stampa del libro di Paschini
coincise con la petizione rivolta a Paolo VI,
verso la fine di marzo dello stesso anno, dal
presidente internazionale di Pax Christi e firmata da molti scienziati, per chiedere una
solenne riabilitazione di Galileo. Il 15 maggio 1964 il S. Uffizio, investito da Paolo VI
della questione, aveva risposto che la riabilitazione di Galileo era già avvenuta implicitamente da molto tempo. Fin dal 1757, infatti, era stato tolto dall’Indice dei libri proibiti quel riferimento generico a «tutti i libri
che insegnano la mobilità della terra e l’immobilità del sole», contenuto nelle edizioni
precedenti, e inoltre nell’edizione del 1835
era stato anche espunto il libro di Galileo. Si
aggiungeva inoltre che si era già provveduto
a dare il consenso per la pubblicazione dell’opera storica di Pio Paschini a cura della
Pontificia Accademia delle scienze.
Può sembrare strano che l’opera bloccata nel
1945 e nuovamente ritenuta inopportuna nel
1962, tre anni dopo venisse considerata degna di essere citata dal Concilio a conferma
del riconoscimento dell’errore compiuto con
la condanna di Galilei. La ragione di questo
cambiamento sta nel fatto che nel frattempo il libro aveva subìto numerose e profonde modifiche da parte di Edmond Lamalle.
Il quale tuttavia nella Nota introduttiva affermava che i suoi interventi nel testo e nelle note erano stati «volontariamente discretissimi, limitandosi ad alcune modifiche...
sembrate indispensabili e ad un minimo di
aggiornamento bibliografico». In realtà le
modifiche, non indicate da nessuna nota,
erano più di un centinaio nel testo e una sessantina circa nelle note. Alcune di queste modificavano completamente la valutazione
data dall’autore ai fatti (cfr. Simoncelli P.,
Storia di una censura. «Vita di Galileo» e Concilio Vaticano II, F. Angeli, Milano 1992; Fantoli A., pp. 468-471).
Sicché il Concilio nel proporre come ideale nella Chiesa, la necessaria libertà di
ricerca, portava come conferma del proprio insegnamento, senza averne consapevolezza, un’opera che era stata ostacolata
mentre l’autore era vivo e modificata dopo
la sua morte, prima di essere pubblicata.
Scrive giustamente Annibale Fantoli: «Rincresce veramente dover constatare che le
preoccupazioni di salvare «il decoro della
Chiesa» restassero, anche nel nuovo clima
del Concilio Vaticano II, così forti e radicate da portare alla citazione, da parte del
medesimo Concilio (e per di più nell’ambito di una solenne dichiarazione sulla libertà della ricerca scientifica!) di un’opera che, nella sua travagliata storia e con le
‘correzioni’ con cui usciva, non costituiva
davvero una prova di tale libertà e che il
suo autore certamente avrebbe rifiutato di
riconoscere come sua» (o. c., p. 471).
Negli stessi anni (3 agosto 1952) il gesuita paleoantropologo Teilhard de Chardin,
commentando alcune analoghe sue disavventure, in una lettera ad un amico, scriveva dell’«ulteriore prova degli inconvenienti della tattica romana recente: togliere alle persone che cercano sia la possibilità di difendersi, sia quella di spiegarsi...
Sotto questo coperchio, tutto fermenta e
si corrompe. Non era così dal tempo di S.
Tommaso» (Lettres intimes de Teilhard de
Chardin, Aubier 1974).
L’insegnamento che possiamo trarre da questi fatti riguarda anche noi. Non possiamo
infatti immaginare che il cambiamento di
sensibilità nella chiesa avvenga senza una
reale trasformazione di tutti. Il rinnovamento si realizza solo se si diffonde nella chiesa
uno stile di sincerità e di trasparenza per cui,
riconoscendo gli errori del passato, tutti ne
assumono la piena responsabilità. Nel senso che rinnovano continuamente l’impegno
ad operare in modo diverso, così che, partendo dalla dichiarazione esplicita del male
compiuto, aprono nuovi cammini di verità.
Sono passi lenti, ma necessari e urgenti. A
tutti coloro che amano la chiesa è chiesto di
compierli con sollecitudine.
ROCCA 15 MARZO 2006
TEOLOGIA
necessario stile di trasparenza conseguente.
La discussione relativa a questo testo si svolse
nella Commissione incaricata, dal 30 ottobre al 4 novembre 1964. Il Vescovo ausiliare
di Strasburgo mons. Arturo Elchinger chiese di introdurvi anche l’esplicito riconoscimento dell’errore compiuto nel 1616 con il
decreto della Congregazione dell’Indice che
inserì il «Dialogo sui due massimi sistemi
del mondo» di Galileo Galilei nell’elenco dei
libri proibiti, e ancora più della condanna
del grande scienziato da parte del S. Uffizio
nel 1633.
Durante la discussione Pietro Parente, assessore del S. Uffizio, espresse la convinzione
che sarebbe stato «inopportuno parlarne in
questo documento per non chiedere alla
chiesa di dire: “ho sbagliato”» (Fantoli A.,
Galileo: per il copernicanismo e per la chiesa,
Specola Vaticana-Libreria editrice vaticana,
19972, p. 470. Egli traduce dal latino il breve
resoconto della segreteria).
In seguito a questo intervento la Commissione accolse solo in parte la proposta di Elchinger con queste parole: «A questo punto
ci sia concesso di deprecare certi atteggiamenti mentali che talvolta non mancano
nemmeno tra i cristiani, derivanti dal non
avere sufficientemente percepito la legittima
autonomia della scienza, e che, suscitando
contese e controversie, trascinarono molti
spiriti a tal punto da ritenere che scienza e
fede si oppongano tra loro» (GSp n. 36). Un
riferimento, come si vede, molto generico.
In nota però, quale conferma, si fa riferimento al volume di Pio Paschini, Vita e opere di
Galileo Galilei (1964), di cui si accelerò la
stampa per poterla citare.
Ora proprio quest’opera costituisce un esempio delle resistenze profonde che ancora esistevano ed esistono in ambito ecclesiale a
riconoscere pubblicamente gli errori del
Magistero e a esercitare quella trasparenza
che è la condizione della verità di vita. L’opera, infatti, di Paschini fu pubblicata postuma (Città del Vaticano 1964) per le difficoltà
opposte fino a quel momento dal S. Uffizio
e per di più con numerose modifiche, anche
sostanziali, introdotte senza una loro precisa indicazione.
Carlo Molari
55
CINEMA
EVA E LE SUE SORELLE
ROCCA 15 MARZO 2006
Lidia
Maggi
56
a Bibbia è un gioco di rimandi. Le
storie vengono narrate da un autore e poi riprese e rivisitate da un
altro. A volte le citazioni sono
esplicite, come quando Matteo richiama i profeti. Più spesso sono
velate: in questo caso il gioco delle somiglianze è più sottile e permette la comprensione
del racconto anche senza i possibili richiami. L’accostamento di vicende diverse molte
volte è affidato al lettore che riconosce in una
storia i tratti di un’altra. È quanto accade nel
libro di Tobia a proposito di Sara. Si notano,
infatti, alcune somiglianze con la vicenda di
Tamar, narrata nella Genesi. Tamar, dopo
aver perso due mariti, senza riuscire a concepire un figlio, si vede negare un terzo matrimonio. Giuda, suo suocero, sospetta che
sia lei ad aver causato la morte dei suoi figli
e, per proteggere la vita dell’ultimo, lo nega
alla nuora. L’ingiustizia, che la donna ha subìto, diventa colpa, condanna sociale. Solo il
coraggio e l’intraprendenza di Tamar saranno in grado di mutare le sorti della propria
vita. Questa riuscirà con l’inganno ad unirsi
a Giuda e a concepire il figlio necessario per
la sua riabilitazione sociale.
La vicenda di Sara è accomunata a quella di
Tamar dallo stesso tragico destino. Per ben
sette volte è stata data in sposa a mariti morti prima che potessero unirsi con lei come si
fa con le mogli (Tobia 3,8). Questo a causa
di uno spirito diabolico che uccide tutti coloro che si avvicinano alla ragazza. Sara viene compatita. Una compassione pesante, che
non le permette di rompere le catene della
sua condizione. Anche lei conosce, dunque,
i meccanismi sociali che portano a trasformare la disgrazia in colpa. La compassione
si trasforma presto in disprezzo: Sei proprio
tu che uccidi i tuoi mariti... vattene con loro
che da te non abbiamo mai a vedere né figlio né figlia, le dice con stizza una delle serve. E, nella disperazione, Sara si rivolge a
Dio che si fa carico della sua richiesta. La
vicenda di Sara è presentata nel libro di Tobia in parallelo con quella di un altro infelice che prega il Signore: Tobi cieco, marito di
Anna e padre di Tobia. Entrambe le preghiere di disperazione salgono al cielo. E siccome non c’è un conflitto di interessi, ecco che
Dio decide di accoglierle insieme. La risposta alla rispettive preghiere intreccerà i destini dei due oranti.
L
Tobia, il figlio di Tobi, è ignaro di quanto è
stato deciso nei cieli quando si mette in viaggio e giunge nella casa di Sara. È lui lo strumento scelto da Dio per liberare la ragazza
dalla condanna sociale. Egli vede la fanciulla e la chiede in moglie. Viene informato sui
trascorsi della ragazza, ma non desiste dal
suo proposito.
I due passano la notte assieme e la tomba,
scavata segretamente nel giardino per accogliere il corpo dell’ottavo marito, rimane vuota. Tobia è vivo e Sara è finalmente libera.
Che ragazzo coraggioso è Tobia! Audace
come tutti gli innamorati. Disposto per amore a farsi carico di grandi rischi e fatiche,
come Giacobbe che lavorò sette anni e ancora sette per sposare la donna amata. Ma
Sara? La storia sottolinea pure il suo coraggio: Sara è una ragazza seria, coraggiosa e
molto bella (Tobia 6,12). Ma lei, a differenza
di Tamar, non si ingegna per cambiare il suo
destino dopo i fallimenti passati. Dove abita, allora, il suo coraggio? La risposta la intuisce il filosofo danese Kierkegaard che,
nell’evocare questo episodio, parla dell’eroismo di Sara. Sara è coraggiosa perché non
si lascia paralizzare dall’atteggiamento clemente dei familiari i quali, nel consolarla,
tacciono l’ingiustizia subita. Né si rassegna
al disprezzo di chi la trasforma nella versione femminile di Barbablù, attribuendole una
colpa che non ha commesso.
Ma Sara è coraggiosa soprattutto perché osa
rischiare nuovamente di aprirsi all’amore e
di credere nell’improbabile. Questa sua ostinazione ha qualcosa di eroico: il rifiuto di
arrendersi ad un destino che lei non ha scelto. Una speranza contro ogni evidenza. Evocando la storia di Tamar, accanto alla vicenda di Sara, è più facile comprendere che
quanto Sara sta subendo non è affatto una
disgrazia, ma un vero atto di ingiustizia. Essa
è la vittima innocente di un piano diabolico.
Non ha bisogno della compassione dei familiari, ma di giustizia. Deve essere liberata
da chi la tiene segregata al suo status di ragazza inaffidabile. Anche Sara si dimostra
coraggiosa, perché non soccombe passivamente e si ribella al disprezzo e alla pietà.
Lo è, tuttavia, in modo diverso da Tamar, dal
momento che non si fa giustizia da sola. Più
simile, in questo, a Giobbe che urla a Dio la
propria innocenza e lo chiama in causa affinché faccia la sua parte.
S
e il titolo di questo
film di Steven Spielberg – Münich, anche
nell’originale – cita semplicemente il nome della città, la vicenda è quella dell’attentato terroristico che,
nel corso delle Olimpiadi
di Monaco di Baviera del
1972, portò alla uccisione
di undici componenti della squadra di Israele da
parte del gruppo palestinese «Settembre Nero». D’altronde il film è stato premurosamente fatto uscire
in Italia nella immediata
vigilia delle Olimpiadi di
Torino. Le prime sequenze, che ricordano, come
altre immagini, le riprese
televisive dell’epoca, sono
appunto quelle della irruzione notturna dei terroristi nel villaggio olimpico,
della cattura degli ostaggi,
infine uccisi dopo trattative – non si sa fino a che
punto sincere – addirittura in un aereoporto della
città.
Il film continua poi – comincia, si può dire – più o
meno romanzescamente,
con l’individuazione da
parte del governo di Israele e del Primo Ministro, la
signora Golda Meyer, di un
agente del Mossad, il Servizio Segreto, scelto a capo
di un estemporaneo gruppo speciale che deve eliminare ad uno ad uno gli otto
terroristi di Monaco. Il giovane Avner viene visto nella intimità della famiglia,
molto innamorato della
moglie che di lì a due mesi
avrà un figlio. Avner, nato
in Germania, è figlio di un
valoroso generale di Israele e di una madre anch’essa molto autorevole; ed
aveva fatto parte della scorta personale della signora
Meyer, che gli è affezionata come a un figlio. Avner
accetta senza obiezioni,
pur molto affezionato ai
suoi cari, consapevole di
entrare in una impresa
quanto mai difficile, pericolosa e non ufficiale e non
pubblica, che lo porterà in
A qualsiasi prezzo
Münich
tutta Europa per uccidere
i componenti del «commando» di Monaco. Avner
– che deve dare le dimissioni dal Mossad – ufficialmente non «esiste», così
come il suo gruppo, e disporrà di molto denaro.
Un po’ alla volta si abbandona però la strada della ricerca degli «obiettivi»: d’altra parte sullo schermo i
vari interventi si somigliano monotonamente. Quindi si sceglie di guardare un
po’ anche all’interno del
gruppo di Avner. Spielberg
sottolinea così che le informazioni che Avner ottiene
per raggiungere i suoi scopi sono a pagamento, in
una sorta di mercato internazionale dell’informazione (dello spionaggio), a disposizione non di una causa scelta per meriti, ma di
chi paga meglio: e Avner
paga ben duecentomila
dollari per ogni «soffiata»
e quindi per ogni vittima.
Si scopre anche che qualcuno dei «ricercati» è strumentalmente protetto addirittura dalla Cia americana. E c’è anche un incontro di Avner con un palestinese il quale non sa della
sua vera identità (mentre
Avner probabilmente conosce quella del suo interlocutore, che però non rientra nei suoi compiti), nel
corso del quale vengono
dette, pressoché alla pari,
le ragioni degli uni e degli
altri, israeliani e palestinesi alla ricerca entrambi di
una terra, di una loro nazione, concreta e sicura.
Via via Avner sembra perdere non poco della sicurezza e della tranquillità
iniziali. Fa trasferire da
Israele a Brooklyn la moglie e la figlioletta che nel
frattempo è nata e alla fine
– un po’ bruscamente, in
verità – l’azione del suo
gruppo, nel luglio 1973, si
conclude, pur senza – sembra –, che sia stato raggiunto il risultato completo che
era stato previsto.
In sostanza il film segue sia
la linea dell’azione sia quella del ripensamento interiore (addirittura – si ricorda per dovere di cronaca –
in alcuni ambienti è stato
accusato di eccessiva accondiscendenza verso i palestinesi). È girato in un
bianco e nero sgranato, di
cronaca, efficace ed espressivo. Spielberg è regista e
produttore di collaudate
qualità e di opere importanti non soltanto spettacolari, ed è notoriamente
un esponente di grandissimo rilievo nella comunità
ebrea di Hollywood, ha
dato il via a fondamentali
iniziative per ricordare
l’Olocausto (ricerca di testimonianze filmate in tut-
to il mondo, di documenti, eccetera) ed è quindi superiore a ogni sospetto. Il
film ha comunque una indubbia apertura verso forme di tolleranza o addirittura di pacifismo che qualsiasi persona di buona fede
non può che condividere.
Non a caso Avner si domanda dove sia finito un
principio fondamentale
della sua religione che richiama Israele alla osservanza rigida dei princìpi di
giustizia. Per Eichmann –
dice pressappoco Avner –
siamo andati alla sua cattura, ma non per ucciderlo, bensì lo abbiamo portato in tribunale. E se Avner ancora si duole di avere ammazzato qualcuno,
gli viene sottolineato che
centinaia di persone, israeliti e non, sono state vittime in quei mesi di varie
azioni terroristiche.
A titolo di pura osservazione diremo che non ci si
aspettava da Spielberg una
trascuratezza così evidente nelle scene ambientate
a Roma (girate in realtà a
Budapest): nel 1972/73
non esistevano, sui marciapiedi, i distributori automatici dei tagliandi di parcheggio, né erano in uso
strani e neri apparecchi
telefonici pubblici, così
come quelle targhe automobilistiche intraviste per
le strade.
Ancora segno di una indispensabile anche se pignola precisione, va rilevato
che, nella edizione italiana, i sottotitoli di alcuni
dialoghi sono illeggibili
perché scritti sulla pellicola in bianco su fondo bianco, così come è illeggibile
una lunga (e si presume
importante) didascalia finale, anch’essa tutta in
bianco: il proiezionista della primaria sala pubblica
di Roma in cui abbiamo
visto il film ha aggiunto del
suo, comunque, accendendo le luci diversi minuti
prima della fine dell’ultimo
rullo.
❑
57
ROCCA 15 MARZO 2006
il coraggio di Sara
Giacomo Gambetti
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Dialogo nel buio
ROCCA 15 MARZO 2006
U
na volta ancora,
una mostra (questo Dialogo nel
buio) che ha modalità di
uno spettacolo. Eppure, se
uno spettacolo è da vedere e altrettanto una mostra, qui da vedere c’è davvero poco, anzi nulla. E
tuttavia se ne esce pieni di
sensazioni del tutto nuove. Allestita in un’apposita struttura nell’elegante
cortile di Palazzo Barozzi
a Milano (dove ha sede
l’Istituto dei Ciechi), la
mostra non permette di
vedere, installata com’è
nel buio fitto, e chi guida
i visitatori è una persona
detta «non vedente».
Lo spazio, ideato e realizzato ad Amburgo da Andreas Heinecke e già presente in molte capitali europee ed extraeuropee,
torna a Milano e ci resterà a lungo: aperto, oltre
che ai singoli visitatori, a
scolaresche, gruppi aziendali ecc. Ciò che sorprende di questa mostra da
ascoltare, toccare, annusare senza vedere è che
non sai se tu sei spettatore o attore: forse l’uno e
l’altro.
Si entra in gruppi di otto
alla volta (non di più) e il
giro – depositati eventuali
telefonini e orologi luminosi ed impugnato il tipico bastoncino bianco –
dura un’ora e un quarto.
Si passa così da un ambiente boschivo, in cui urti
le frasche dai penetranti
odori, ad una barca a motore che affronta il mare
tra lo sciabordio delle acque, il vento in faccia e
nelle orecchie le strida dei
gabbiani, fino a un interno di casa cittadina e,
buon ultimo, un bar. E qui
comincia il dialogo nel
buio vero e proprio. Finora infatti erano poche e
58
strettamente funzionali le
frasi scambiate chiamandosi coi nomi che si sono
imparati pochi minuti prima e ormai si riconoscono dal timbro delle voci
(più sicura di tutte quella
della guida). C’è quella del
giovanotto che arriva sempre prima là dove deve, e
l’altra – un po’ esitante ma
senza timore – della persona anziana. Ma al bar
(completamente al buio
anch’esso, al banco un’altra persona non vedente)
comincia – dicevamo –
una conversazione durante la quale ci si apre un po’
di più e ci si scambia domande per conoscersi meglio. Ti stupisci intanto –
senza dirlo – di scoprire
che sa proprio di pera il
succo che ti hanno invitato a scegliere tra i vari gusti, così come non manca
neppure un centesimo nel
resto sollecitamente dato
alla tua banconota.
Dialogo nel buio è una simulazione da cui tuttavia
scaturisce una ritrovata
autenticità. La materia,
non vista ma sentita, è predisposta in modo che ne
nasca una spiritualità che
la nostra cosiddetta civiltà sembra aver perso di vista. È una inusitata sinestesia che riconduce alla
primordiale unità dei
quattro elementi costitutivi dell’universo.
Ma, al di là di tali suggestioni, la valenza più significativa è la capacità di
immedesimarsi in una situazione del tutto insolita
e di adattarsi ad essa senza falsi pietismi, piuttosto
con una profonda condivisione: al punto che alla
fine il congedo dal gruppo
pare quello di una bella vacanza comune, che lascia
il segno.
❑
Damasco
È
su RadioTre Rai per
i primi cinque giorni
della settimana. Dura
45 minuti, iniziando alle
18. Damasco – l’intenzione
rimanda alla via sulla quale è accaduto d’esser folgorati – fa parte del modo particolare di configurare il palinsesto di questa rete radiofonica indicato col
nome di «anello»: il Terzo
Anello Musica e il Terzo
Anello Programmi.
Di Damasco l’idea non è
nuovissima: una persona di
qualche rilievo in ambiti
che spaziano dalla letteratura, alla critica, all’arte,
alla scienza, alla comunicazione, viene posta per cinque giorni sola davanti ad
un microfono e, senza intervistatori, senza conduzione, senza interlocutori o
contraddittori – la scelta è
pensata ed apprezzabile –
racconta cinque testi che
sono stati fondamentali (apportatori di folgorazioni)
nella sua vita. Le competenze, di cultura e professione,
sono le più svariate e nessuna, comunque, si limita a
narrare folgorazioni di stretto campo specialistico.
Così accade di poter seguire, ogni giorno, la lettura di
passi di narrativa, o di brani di saggistica, o di versi
poetici attorno ai quali si
annodano i ricordi personali di un incontro con… un
certo insieme di parole. E c’è
chi racconta, come Sergio
Givone, filosofo e docente
universitario, di essere stato spinto a scrivere un romanzo, il primo e per ora il
solo, dalla lettura del nonromanzo (Vite di uomini
non illustri) di un narratore, grande e contemporaneo, come Pontiggia; altri –
è il caso di Alessandro Portelli – dedica una delle sue
puntate alla «confessione»
del suo incontro con Resistenza e resa di Dietrich
Bonhoeffer, per raccontare
come da quell’impatto e dallo studio dei suoi retroscena,
pur dopo aver scritto un libro sull’esperienza della sua
prima visita al Auschwitz, ha
trovato modo di ri/osservare
le vicende dello Sterminio in
chiave di una speranza capace di confrontarsi con l’odio.
È appena da dire questa programmazione è seguita da
un pubblico ad alta motivazione specifica: RadioTre è
sovente ardua da sintonizzare, risulta impegnativa da
seguire, chiede una sorta di
applicazione all’ascolto nello scorrer dei giorni. È una
modalità di radiofonia e di
palinsesto che ha caratteri
«antichi» – ben lontana dalla cosiddetta radio di flusso
dominante nella post-liberalizzazione dell’etere – e che
anche della cultura ha e svela una visione remota: persino un po’ classista. Qui sintonizzano, infatti, il loro
ascolto le fruizioni che scelgono in nome di competenze e interessi già acquisiti;
sicché qui si esplicita anche
il rischio di una programmazione «culturale» per definizione (quando non per presunzione) che può condurre
l’anello a diventare un circolo. Di fatto un po’ esclusivo.
Ma è una proposta – quella
di Damasco e quella complessiva di RadioTre – che ha ragion d’essere nel contesto di
un Servizio Pubblico radiotelevisivo che non limita il
concetto di cultura a questa
sola modalità e che, anche
per l’ambito della radiofonia,
gestisce, sull’insieme delle
reti Rai, un’offerta non meno
colta e non meno culturale
nella sostanza, ancorché diversa nella forma e nello stile
del suo proporsi. Fuori dallo
stereotipo del «culturale» per
definizione, cioè, e comunque, ed in ogni caso, ben degna del nome di proposta
culturale e formativa.
❑
FOTOGRAFIA
Michele De Luca
P. Costantino Ruggeri
T
ra Piero della Francesca e Paolo Uccello –
«figure che non sono
mai più uscite dalla mia
mente» –, tra Beato Angelico e Matisse riflessi negli
affreschi «puri e trasparenti» della chiesetta nel cimitero di Adro, vicino Brescia, dove padre Costantino Ruggeri è nato nel 1925,
quella emozione di purezza e trasparenza si saziò
alla veranda del cielo metafisico di De Chirico; e si
saziò nella tragedia dei bituminosi colori di Sironi e
nelle terracotte di Fontana
così come nell’aurea stagione della Milano di Cardazzo e Ghiringhelli, nella cultura dell’Informale e dello
Spazialismo.
E la formazione culturale
artistica, così ben testimoniata dalle opere e dal racconto del prezioso volume
che fu curato da p. Nazareno Fabretti nel 1990, «Soltanto un fiore. Genesi di un
artista cristiano»; confluisce ora in questa bellissima
mostra, a cura di Giuseppe
Marchetti, in un itinerario
in diverse sedi, dal Palazzo
Bargnani di Adro al palazzo Martinengo di Brescia,
con un ottimo catalogo dell’editore Skira (per la cura
di Antonio Sabatucci e importanti numerosi scritti,
di Ravasi, Caramel, Billi,
De Carli, Lorenzi, Gresleri,
Marchetti, Valdinoci, Montalto, Romagnano, Abrami,
Monatti, D’Agostini), riuscendo ad emozionarci
come quando si entra in
una sua chiesa così che si
esalta la poetica della luce
quale identità sacra della
sua opera, come benissimo
ha spiegato Mons. Gianfranco Ravasi nel suo testo:
«La luce, simbolo del divino, nello spazio mistico di
Costantino Ruggeri», in catalogo: «Potremmo dire che
padre Costantino edifica le
sue chiese a partire da una
cellula di luce, da una vetrata. Diversamente dagli
altri architetti che conside-
rano la vetrata come strumento per affascinanti giochi di luce all’interno del
progetto d’insieme, padre
Ruggeri considera la luce
come sorgente da cui scaturisce e si dispiega il tempio,
il suo germe, il grembo fecondo. E le grandiose, indimenticabili vetrate e gli altri squarci di luce delle sue
chiese sono la prova, sperimentabile da tutti, di questa intuizione. Si tratta di
pareti di luce e di sole più
che di finestre. Esse non
sono solo «diafane» perché
si lasciano trafiggere e trapassare dalla luce cosmica,
ma sono anche «epifaniche» perché la luce che le attraversa è quella celeste e divina e in esse si attua quasi
un’epifania di Dio».
Da padre Gemelli a padre
Favaro e a padre Turoldo, da
don Giovanni Rossi al Card.
Lercaro, da Luigi Santucci
a padre Ernesto Balducci e
al Card. Martini; tra «Art Sacré» e «Chiesa & Quartiere»,
tra Chartres e Vence: l’arte
di padre Ruggeri si offre
analogica di uno stile ecclesiale dell’inventio artisticoculturale che dispiega la dinamica dello spazio liturgico e che nella testimonia
educa alla testimonianza.
Tra le numerose chiese e interventi artistici che negli
anni ha edificato padre
Ruggeri, da Alessandria a
Roma, da Milano a Pavia,
da Varese al Burundi e alla
recente bellissima costruzione del Santuario della
madonna della Grotta del
latte a Betlemme; ci si può
porre in pellegrinaggio e risalire fino ai monti vicino
Biella, per visitare il cenobio di Bose ed entrare nella
cappellina dove, sopra l’altare, compare la riproposta
preziosa dell’icona francescana del Crocifisso di S.
Damiano e, alle pareti vicino, le significative vetrate di
padre Ruggeri indicano la
Luna e il Sole e così siamo
catapultati qui ad Assisi.
❑
Flavio Faganello
N
on oso esprimermi
sulla bravura di Flavio Faganello là
dove carpisce immagini di
montagne cieli acque boschi neve. Ciò che mi
commuove e mi conquista
l’animo è quello che lui
riesce a esprimere con le
fotografie in bianco e
nero dove le persone e il
paesaggio sono come un
racconto cechoviano…
A parte la sua istintiva intuizione e la conquistata
bravura, di Flavio è caro
il ricordo come persona:
la sua discrezione, la sua
serietà operativa, il suo
approccio all’uomo e alla
natura mi fanno dire che
oggi non v’è fotografo, o
scrittore, o pittore che
sappia raccontare la vita
della gente di montagna
come ha fatto lui.
Ha testimoniato un tempo e un mondo non ripetibili».
Miglior apprezzamento
ad un narratore che si serve della scrittura con la
luce, e comunque ad un
narratore tout court, non
poteva giungere al compianto fotografo trentino
(1933 – 2005), specie se
firmato da uno scrittore,
che di racconti ben se ne
intende, come Mario Rigoni Stern, presentando il
catalogo (Marsilio) di una
bella (quanto doverosa)
mostra antologica attualmente agli Scavi Scaligeri di Verona, per essere
poi trasferita al Mart di
Trento, nella suggestiva
cornice di Palazzo delle
Albere, che fa seguito
vent’anni dopo alla esposizione che la stessa istituzione gli dedicò con la
presentazione di Arturo
Carlo Quintavalle.
Una cospicua raccolta di
stampe originali (in tutto
centottanta), quella che
viene proposta, con cui si
configura, oltre all’omaggio a pochi mesi dalla
scomparsa, una sorta di
bilancio definitivo, sottolineato in catalogo a più
voci, tra cui quelle di
Gianni Mura e di Carlos
Aguilar; otto sezioni che
cronologicamente tracciano l’intera produzione
del fotografo, con particolare attenzione ai temi legati alla sua regione, che
dal mirino della sua fotocamera ha scrutato, con
amore, per decenni: il
mondo contadino, il difficile ruolo della donna di
montagna, il paesaggio,
in cui si riflette comunque il suo spirito ironico
e disincantato.
Fedele alla lezione del neorealismo cinematografico, e formatosi negli anni
’50 in una regione che era
stata stimolante luogo di
ricerca e di azione di una
«scuola» fotografica di
importante livello, Faganello ha saputo esaltare le
potenzialità narrative e
suggestive del bianco e
nero, coniugando con poetica sensibilità le sue storie con l’interesse etnografico, l’urgenza di documentazione, la ricchezza
umana dei protagonisti,
la specificità e la scabra
ed essenziale bellezza della sua terra.
Il suo sguardo, pur mediato dalla «freddezza»
della macchina fotografica, «partecipa» di ciò che
osserva e storicizza; come
dice ancora l’autore di Ritorno sul Don e di Soldato
Tonle, nel suo lavoro «Faganello ha messo la sua
anima dietro l’oculare e
dentro l’obiettivo».
❑
59
ROCCA 15 MARZO 2006
TEATRO
SITI INTERNET
MUSICA
Enrico Romani
Giovanni Ruggeri
ROCCA 15 MARZO 2006
L
60
sparato a bruciapelo sulla
fantasia dei giovani di allora. Ma nossignori, più forti
di prima, le stagioni del progressive, del rock duro, del
ritorno di grandi rocker,
come Bruce Springsteen, caratterizzarono i primi anni
’70, fino all’unica, vera ferita
letale inferta al rock come si
era evoluto fino allora. Il
1977 e il punk furono infatti
il vero punto di rottura e di
non ritorno del rock. Mentre Elvis «The King» si spegneva, scoppiava la rabbia
iconoclasta, nichilista e anarchica dei Sex Pistols, il combat-punk dei Clash, il «no
future» del Patti Smith
Group e dei Ramones, cantori tutti di una generazione
senza sogni, senza più ideali
né illusioni, che suonando
sgraziatamente a martelletto tre accordi, gridavano la
loro disperazione, stretti tra
la Tatcher da una parte e Reagan dall’altra. E se gli anni
’80 sono ricordati per l’avvento di Mtv, delle videoclip
e dell’edonismo «cocainomane» germogliato dal riflusso del punk e della new
wave, è pur vero che quegli
anni furono pieni di grandi
dischi, molto meno di grandi gruppi, perché oltre a U2,
Cure, Prince e R.E.M. non ci
sono altri nomi da ricordare
assolutamente. Nel 1992
però il «grunge» di Nirvana,
soprattutto, e Pearl Jam fu
anch’esso rivoluzionario: per
la prima volta, infatti, il vecchio hard rock si mescolava
al punk, e la chitarra e la voce
micidiali di Kurt Cobain sintetizzavano forse ai massimi
livelli quaranta anni di rock.
Che doveva conoscere ancora trip-hop, brit-pop e tantissime altre sigle. Insomma,
come declamava nel 1979
Neil Young in «Hey Hey, My
My (Into The Black)»: «...
rock’n’roll can never die ...»,
e non c’è motivo per dubitarne.
❑
E-mail mania
F
acile profeta fu colui
che preconizzò che la
mail sarebbe diventata
l’applicazione più diffusa e
utilizzata della rete. Dati statistici confermano da tempo
la crescita esponenziale dell’impiego di questo agevole
ed economico strumento di
comunicazione, in grado di
attraversare milioni di chilometri di autostrade informatiche in un batter di ciglia
per recapitare privati messaggi, transazioni commerciali, e, ultima frontiera, comunicazioni certificate
come la tradizionale raccomandata. Meno facile, forse,
era prevedere la deriva che
questo mezzo di comunicazione avrebbe potuto conoscere, con fenomeni ascrivibili a quelli che i nuovi trattati di psichiatria definiscono come «net addiction»,
ossia dipendenza da Internet.
A rivelare usi e abusi dell’email è una recente indagine
realizzata da Dynamic
Market per conto di Symantec (nota società specializzata soprattutto in software
antivirus) su un campione di
1.700 utenti, da cui emerge
che un utente su cinque manifesta comportamenti compulsivi, di vera e propria dipendenza, nei confronti della posta elettronica. La ricerca schematizza in quattro
categorie le tipologie generali di utenti dell’e-mail. La
prima, quella dei «disciplinati», comprende un cospicuo
49% di utenti che si comportano in modo pragmaticamente responsabile, limitandosi a usare la mail nell’orario di ufficio, e comunque
nelle fascia cosiddetta attiva
della giornata. Vi è poi un
consistente 21% di «dipendenti totali», i quali confessano di controllare l’e-mail in
maniera compulsiva più volte nel corso della giornata:
sono connessi a Internet in
media 2,6 ore al giorno ed effettuano il loro primo controllo dell’e-mail non più tar-
di delle 9 del mattino. Il restante 30% è ripartito tra
coloro che provano addirittura fastidio nell’usare la
posta elettronica, preferendo quella tradizionale, e coloro che invece si trovano in
grande impaccio con la tecnologia, subiscono l’e-mail
e hanno difficoltà ad adattarsi a questo strumento.
Il dato più macroscopico è
l’affermazione crescente
dell’e-mail nel nostro stile di
vita quotidiana. Lo studio
Symantec segnala che per il
91% delle aziende il volume
di messaggi di posta elettronica negli ultimi 12 mesi è
aumentato del 12%, da cui
il maggior tempo dedicato
alla gestione dei messaggi
elettronici: il 52% degli intervistati spende infatti almeno 2 ore al giorno tra invio e ricezione di e-mail,
mentre il 15% arriva fino a
4 ore al giorno. Rilevanti
anche altri dettagli: il 54%
delle persone controlla l’email prima delle 9 del mattino, molti altri fanno un
ultimo controllo alle 17 ma
non manca chi si spinge
addirittura alla mezzanotte.
Il 31% gestisce la sua posta
elettronica anche via cellulare, mentre il 40% legge e
scrive mail anche quando è
in vacanza o addirittura – è
il 38% – quando è malato.
Non mancano poi le «chicche» di costume, tra cui la
diffusione di sistemi di email abilitati a inviare messaggi in date molto spostate nel futuro: si scrive oggi
programmando la data di
ricezione, magari anche a
morte avvenuta del mittente (www.futureme.org,
www.maylastemail.com,
www.lastwishes.com).
Che dire? L’e-mail è utilissima, le sue derive patologiche e trash si commentano da sole già oggi. Senza
che – letteralmente – si debbano aspettare… i posteri
per l’ardua sentenza.
❑
Hans Küng
Islam
Rizzoli, Milano 2005
pp. 900
Dopo quasi quindici anni di
lavoro Hans Küng conclude
la sua grande trilogia delle
religioni monoteistiche.
Dopo «Ebraismo» (1991) e
«Cristianesimo» (1994), esce
ora, anche in traduzione italiana, «Islam». Il libro, di novecento dense pagine, è
un’esposizione della religione islamica, ampia, accurata e sostanzialmente completa. Tra i tanti manuali
sull’Islam che ormai da anni
si trovano nelle nostre librerie, l’opera di Küng presenta qualità e meriti unici. Non
solo infatti fornisce al lettore una buona e approfondita conoscenza dell’Islam, sia
sul piano storico che su quello teologico, penetrando anche nel ricco mondo della
civiltà arabo-islamica (realtà ben più vasta e variegata
dell’Islam inteso solo come
religione), ma è anche e soprattutto un libro per interrogarsi e per riflettere. Lo
dice l’autore stesso nell’introduzione: «Io scrivo questo mio libro non come storico delle civiltà, storico della religione, storico della
politica o del diritto. Lo scrivo per rendere gli uomini
capaci di dialogare». Il noto
teologo tedesco si propone
infatti, innanzi tutto, di sfatare i comuni e gretti pregiudizi che molti di noi nutrono verso l’Islam, generalmente per ignoranza. Interessanti ed acute ad esempio le pagine in cui «confuta» l’accusa secondo la quale il Profeta Maometto
(Muhammad) sarebbe stato
un dissoluto. Anzi, va ben
più in là: nel suo costante e
approfondito confronto con
la teologia cristiana, arriva
addirittu ra a proporre alla
Chiesa di «riconoscere
Muhammad come Profeta»
(p. 158), nella linea della tradizione biblica. L’opera è
dunque ricca di notizie, di
spunti di riflessione, di
provocazioni ardite. La personalità intellettuale e teologica dell’autore è costantemente presente nelle pagine del libro, con il suo appassionato richiamo alla
pace tra le fedi e alla creazione di un’etica mondiale,
e con la prospettiva evoluzionistica con cui egli espone l’Islam non come sistema
rigido e assoluto, ma come
corpo vivente che si è evoluto lungo la storia e che ancor oggi si evolve. All’oggi
dell’Islam, del resto, sono
dedicate molte pagine:
Küng ci presenta i grandi
pensatori dell’Islam odierno, ci espone le problematiche allo stesso tempo teologiche e socio-politiche che lo
attraversano e non risparmia neppure questioni apparentemente secondarie,
ma in realtà di grande rilevanza nel mondo globale,
quali l’abbigliamento «islamico», il velo delle donne e
l’uso dei megafoni sui minareti delle moschee.
Dag Tessore
Ryszard Kapusciñski
In viaggio con Erodoto
I Narratori Feltrinelli, Milano 2005, pp. 264
Il polacco Kapusciñski, autore di numerosi reportages
di successo, presenta ora un
volume di sapore autobiografico, dove i suoi primi
viaggi da inviato all’estero,
veri e propri salti nel buio,
si intrecciano all’appassionata lettura del primo reporter della storia, Erodoto di
Alicarnasso. Due donne lo
introducono alla conoscenza dello storico greco: una
professoressa universitaria
che cerca di incuriosire un
centinaio di studenti ignoranti e una gentile caporedattrice, che gli fa il dono
preziosissimo di una rara
traduzione polacca delle
Storie. È con questo viatico
che parte il giovane inviato
al primo incarico (siamo nel
1956), spedito in India, un
Paese in cui non riesce inizialmente neppure a comunicare in inglese (che ignora e finirà per studiare da
autodidatta), e di cui rifiuta
sdegnosamente le usanze
«servili» (farsi trasportare in
risciò da esseri scheletrici!).
Tale esperienza gli insegna
per prima cosa che viaggiare significa studiare, cercare, interrogarsi su ogni nuova cultura cui si va incontro:
solo in questo modo l’autore sente di potere se non altro affrontare quel senso
umiliante di ignoranza che
lo fa sentire inadeguato di
fronte a ogni Paese che visita. Da qui la curiosità appassionata che lo prende per la
filosofia indiana, l’Hatha
Yoga, Tagore. È lo stesso atteggiamento che sembra
guidare anche Erodoto,
uomo di confine tra cultura
greca e asiatica, e forse per
questo sempre volto a superarli, i confini, mosso dalla
curiositas che gli fa cercare
e riferire fatti e leggende,
spesso perplesso su quanto
è venuto a sapere, ma disposto comunque ad accettarlo e trasmetterlo a chi lo
legge (e lo ascolta). Così fa
il giovane inviato, spedito
all’improvviso nella Cina di
Mao, la cui «politica dei
cento fiori» apre – assai relativamente – le porte a
qualche giornalista straniero, sorvegliato letteralmente a vista da inquietanti colleghi locali. E la Grande
Muraglia gli appare, certo,
una delle meraviglie del
mondo, ma soprattutto «il
sintomo dell’aberrazione
umana... dell’incapacità di
questo popolo di mettersi
d’accordo e... decidere
come sfruttare le risorse di
energia e di intelligenza
dell’uomo». Un problema
non solo cinese, purtroppo.
Così il giovane giornalista
invia le sue cronache da
Paesi sempre diversi, Iran,
Congo, perché, come ricorda Erodoto, «le imprese degli uomini con il tempo
non siano dimenticate». In
fondo, in qualche modo, le
ambizioni umane, le passioni sono sempre le stesse, non
cambiano gli errori, né cambia il desiderio di alcuni uomini di viaggiare per conoscere, di conoscere per capire, di
capire per raccontare. E questo tipo di viaggio non finisce
mai, continua a ripetersi nei
ricordi, a spingere altrove,
come «una malattia sostanzialmente incurabile».
Il libro di Kapusciñski è una
lettura piacevole, non appassionante ma garbatamente
coinvolgente, e ti porta in
viaggio con sé e con il reporter Erodoto, sempre in movimento, sempre irrequieto,
sempre curioso di questa varia e assurda umanità.
Laura Pizzetti
Giuseppe Fatati
La farmacista di Collestatte
Thyrus, Arrone (Tr) 2005
pp. 173
Il ritratto di una donna ricca
di profonda identità morale,
di spiccata sensibilità, di forte carattere e umanità è quello che ci fornisce suo figlio
Giuseppe Fatati nel libro di
recente pubblicazione. L’autore descrive il personaggio
materno cogliendolo nel contesto del suo aprirsi all’altro
che le si rivolge durante lo
svolgimento della professione di farmacista, una sorta di
rievocazione storica di una
donna, Egle, che intreccia la
sua professione con la storia stessa del luogo dove è
chiamata a operare. La popolazione di Collestatte (Tr),
infatti, vede in lei il fiducioso approdo per qualsiasi consiglio inerente la salvaguardia e la cura della propria
salute. Non solo, la «dottoressa Egle» rappresenta un punto di riferimento sociale, ineludibile, come nel libro/racconto viene evidenziato attraverso la cronaca e la biografia dei vari soggetti.
Ernesto Luzi
61
ROCCA 15 MARZO 2006
Il futuro del rock
’ultima volta ci siamo
occupati del passato,
presente e futuro del
supporto musicale: ora rivolgiamo l’attenzione ai
contenuti, che poi sono la
cosa di gran lunga più importante. Se andiamo a vedere tutte le volte che il rock
(e musiche connesse) è stato dato per spacciato, gli
auspici sono più che ottimistici. Già nel 1958, ad appena quattro anni dal suo inizio, la partenza di Elvis Presley per il servizio militare
fu vissuta dai fan come la
fine di un’epoca. E in effetti
il 1959 fu davvero l’anno del
«De profundis» per il
rock’n’roll delle origini, dovuto soprattutto però alle
disavventure personali di
Jerry Lee Lewis e Chuck
Berry, alla crisi mistica che
travolse Little Richard e alla
prima rockstar vittima di un
incidente aereo, Buddy Holly. Le canzoni di Roy Orbison e Dion Di Mucci, ultimi
esponenti di un genere già
in fase di transizione, furono il ponte tra il vecchio e il
nuovo. Già, perché ci pensarono i Beach Boys, Dylan
e i Beatles a salvare dal tracollo il salvabile, e a ridargli nuova e innovativa linfa
vitale. Il rock era morto ma
era subito risorto, plasmandosi in forme diverse e trasformando, come i primi
due album dei «Fab Four»
testimoniano, la musica delle origini in qualcosa di
nuovo che ne conservava
però le radici. E a queste si
attaccarono anche i Rolling
Stones e tutti gli altri, dando vita al decennio più favoloso che la musica «giovane» ricordi. Poi la fine
della «Summer Of Love» e
le morti delle tre «J», Jimi
Hendrix, Janis Joplin e Jim
Morrison (questa volta dovute agli eccessi anche questi connaturati purtroppo
con il rock), schioccarono
come un colpo di pistola
LIBRI
Etiopia
ROCCA 15 MARZO 2006
S
tato dell’Africa orientale, privo di sbocchi
sul mare, l’Etiopia
confina a nord-est con l’Eritrea e il Gibuti, a est con la
Somalia, a sud con il Kenya e a ovest con il Sudan.
Nella Rift Valley etiope, nota
come la culla dell’umanità,
nel 1974 vennero rinvenuti
i resti fossili del più antico
ominide eretto «Lucy», vissuto tre milioni e mezzo di
anni fa. Con l’apertura del
Canale di Suez nel 1869, la
costa del Mar Rosso divenne oggetto d’interesse delle
potenze europee. L’Italia
concentrò la propria attenzione sull’Etiopia, occupando Assab e Massaua e siglando nel 1889 il trattato
degli Uccialli con il quale il
«negus» (imperatore) Menelik si impegnava a concedere il possesso dell’Eritrea,
ma non il protettorato sull’Etiopia. Nel 1895 i due
paesi entrarono in conflitto
e l’anno successivo l’Italia
subì una pesante sconfitta
ad Adua. Con l’ascesa al potere di Benito Mussolini, le
mire italiane sull’Etiopia furono rivitalizzate e nel 1935
l’Italia invase il Paese e proclamò l’anno seguente il re
Vittorio Emanuele III imperatore d’Etiopia. A seguito
della sconfitta dell’esercito
italiano (1941), l’Inghilterra
assunse il controllo dell’Etiopia e venne restaurata
l’autorità dell’imperatore
Hailé Selassié. Nel 1947 le
Nazioni Unite, in mancanza di un accordo tra le parti
in causa, votarono in favore di una federazione dell’Eritrea con l’Etiopia.
Quando però Selassié decise di ridurre l’autonomia
dell’Eritrea, trasformando-
62
la in provincia, la reazione
del Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea fu violenta e culminò in un conflitto
che si protrasse per oltre trenta anni. I buoni intenti di Selassié di modernizzare il Paese si infransero in una esacerbata guerra intestina e in
una grave carestia che non
permisero al Paese di conseguire il desiderato sviluppo
economico e sociale. Nel
1974 il negus venne deposto
da un colpo di stato militare
che condusse il colonnello
Menghistu Hailé Mariam al
potere. Durante questa fase,
l’orientamento capitalista del
Paese venne sostituito con
quello marxista. Vennero così
espulse le truppe americane,
arrestati i leader dei sindacati, bandita la religione e il
nuovo dittatore si rivolse all’
Unione Sovietica in cerca di
aiuti economici. Nel caos generale in cui piombò il Paese, gli eritrei e i somali ne approfittarono per invadere il
Paese. Con il ritiro delle truppe sovietiche, a cui si aggiunse il crollo del prezzo del caffé, che provocò una forte carestia, il Paese precipitò in
una grave crisi interna. Nel
1991 Menghistu fu costretto
a fuggire nello Zimbabwe e
il suo posto fu occupato da
una coalizione di ribelli capeggiata da Meles Zenawi, il
quale, in seguito alle prime
elezioni libere del 1995, venne confermato alla guida del
Paese. Nel frattempo, nel
1993, l’Eritrea riuscì a ottenere l’indipendenza. Sul
fronte delle relazioni con
l’Eritrea, dopo che venne comunemente affermata la
straordinarietà dei rapporti
fra i due paesi, una scaramuccia avvenuta tra guardie
frontaliere, si trasformò nel
1998 in un vero e proprio
conflitto che causò la morte
di migliaia di persone. Solo
grazie alla mediazione dell’Unione Africana, i due paesi sono convenuti al tavolo
delle trattative, firmando nel
dicembre 2000 il trattato di
pace. Nonostante la definizione del nuovo confine, decisa dalla Commissione internazionale dell’Aja nel 2002,
proseguono le tensioni con
l’Eritrea per l’attribuzione a
quest’ultima della località di
Badmé, contesa da entrambi i paesi.
Popolazione: su una popolazione di 73 milioni di abitanti, l’84% vive in zone rurali. Gli insediamenti più popolosi si trovano nel cuore del
Paese, dove è situata anche
la capitale Addis Abeba. Il
gruppo etnico più importante è quello abissino, costituito da diversi gruppi etnici, tra
cui gli Amhara, gli Eritrei e
gli Shoa. Vi sono anche altre
razze formate da piccoli
gruppi nomadi alla continua
ricerca di terre fertili e di nuovi pascoli e da gruppi più
estesi e compatti.
Religione: circa il 55% della
popolazione segue la Chiesa
ortodossa etiopica, strettamente legata alla Chiesa copta d’Egitto e religione di stato fino al 1974. I musulmani
rappresentano il 35% dei credenti, mentre la parte restante professa l’animismo tradizionale.
Economia: l’Etiopia, malgrado le riforme, continua ad
essere una nazione estremamente povera. Ciò è principalmente dovuto alla dipendenza dell’economia da fattori atmosferici: l’agricoltura
infatti rappresenta l’attività
FRATERNITÀ
Nello Giostra
principale del Paese (praticata dall’80% della popolazione), ma l’incombente
siccità degli ultimi anni
hanno indotto il Paese a
importare prodotti alimentari di base. Sebbene esista
un gran numero di giacimenti minerari, gli spessi
strati di lava vulcanica ne
rendono difficile il processo di estrazione. Vengono
tuttavia estratti ferro,
piombo e rame e recentemente sono stati scoperti
importanti depositi di oro,
platino, petrolio e gas naturale. Il comparto industriale si contraddistingue
soprattutto per la lavorazione dei prodotti alimentari e tessili.
Situazione politica e relazioni internazionali: nel
maggio 2005 si sono tenute le elezioni considerate le
più libere della storia dell’Etiopia, nonostante che
Human Rights Watch abbia
denunciato violenze ed intimidazioni al fine di neutralizzare i dissidenti. Riconfermato alla guida del
Paese, Meles Zenawi, ha
rinnovato il suo impegno
politico nell’intento di dare
un scossone alla condizione di sottosviluppo causata
dalla crisi alimentare e dalla cronica carestia. Le riforme fatte dal Premier nell’ultimo decennio non sono
state sufficienti per far uscire il Paese dal tunnel dell’indigenza. L’Unione europea
e il World Food Programme dell’Onu continuano a
finanziare aiuti alimentari, sebbene il Paese si trovi in uno stato di continua
emergenza. Continua, nel
contempo, la disputa tra
l’Etiopia e l’Eritrea per la
demarcazione del confine
tra i due paesi, nonostante che le Nazioni Unite abbiano inviato nella regione
Lloyd Axworthy come mediatore per dirimere la controversia.
Carlo Timio
Si è fatta seria
Spero di non essere sgradito se vengo a chiedere un
aiuto economico. La richiesta non è per me, ma
per una madre di famiglia
con due figli a carico che,
a causa del marito e varie
avversità, non sa più dove
sbattere la testa per andare avanti. È molto depressa anche per un grosso debito che le si è venuto accumulando negli ultimi
anni. Il medico che la sta
curando mi ha detto in privato che la signora è molto logora e, se non vi si
pone rimedio, può finire in
suicidio. A questo punto
non so più cosa fare; sono
il padre spirituale e spero
che questo non avvenga
mai... L’ho aiutata moltissimo, ma ora non ne ho
più la possibilità. Ho chiesto aiuto a varie persone,
ma non ho avuto risposta.
Ora però la cosa si è fatta
seria e non posso tacere.
Per essere creduto devo
forse fare qualche gesto
clamoroso e finire sui giornali per salvare questa famiglia? Aiutatemi, cari
amici di «Fraternità», ad
evitare un’altra tragedia
familiare... Con Maria e la
sua famiglia vi ringrazio
fin da ora moltissimo. Padre G.C.
Sono tantissime e allora?
Mi chiamo Grazia, ho 39
anni, sono sposata da 21 e
abbiamo sei figli. Mio marito è disoccupato e le spese di affitto, di bollette, di
generi alimentari si accumulano. Rischiamo lo
sfratto perché da tre mesi
non paghiamo (250 euro al
mese) e in più ho la luce
da pagare (200 euro) con
urgenza altrimenti tra
quindici giorni la staccano.
In una famiglia numerosa
come la nostra ogni giorno c’è da comperare qual-
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
cosa di necessario! Il Parroco, di cui vi accludo la
lettera di presentazione, fa
quello che può con alcuni
generi alimentari, ma in
questo paese le persone
bisognose sono tantissime
e come può aiutare tutte?
Spero con tutto il cuore di
ricevere un vostro aiuto e
intanto vi ringrazio per
aver ascoltato i miei problemi e le mie ansie. G.C.
nitenza e per vivere la resurrezione del Signore nel
nostro cuore. Preghiamo
perché Gesù ci benedica e
ci conceda la forza di fare
quello che dobbiamo fare
per Dio e per la Chiesa. Mi
ricordo sempre di tutti i
benefattori nelle preghiere
e vi ringrazio fin da ora.
Padre G.R.
Solo un miracolo...
È sempre caro per i poveri
Tanti auguri e saluti dal
Bangladesh dove mi trovo
da qualche anno. È Quaresima e in questo periodo
noi sacerdoti e suore andiamo nei nostri cento villaggi per preparare la gente alla Pasqua. La nostra
gente è poverissima soprattutto per le calamità
naturali e per l’analfabetismo. Ha tanta volontà di
lavorare, ma non ha mezzi e iniziativa. Le persone
vanno aiutate, seguite,
istruite, ma occorrono tanti soldi perché bisogna
mantenerli in tutto. Non
hanno case per vivere, soffrono il freddo e il cibo è
sempre più caro per i poveri. Aiutiamo i bambini a
cominciare ad andare a
scuola... Anche gli 80 seminaristi che con profitto seguono gli studi hanno bisogno di tutto. Qui è molto forte la voglia di imparare, di sapere anche perché la gente si sta rendendo conto che alla base di
tutto c’è la cultura. Quest’anno siamo fino ad ora
fortunati perché non c’è
stato alcun disastro mortale a causa del maltempo...
La Quaresima è il periodo
per riflettere, per fare pe-
Vi abbraccio con affetto e
sarei contenta se nelle preghiere vi ricordaste anche
di Matteo, mio marito
morto tre anni fa, dopo un
intervento allo stomaco.
Già conoscete la situazione della mia famiglia. Dei
cinque figli tre sono sposati e hanno la loro famiglia.
I due ammalati sono in
casa e viviamo assai miseramente. Il maschio di 32
anni ha gravi problemi di
intestino e vescica da
quando rimase miracolosamente vivo dopo essersi
gettato dal terrazzo cinque
anni fa; è distrutto psicologicamente e va tenuto
d’occhio perché i medici
mi hanno detto che potrebbe ritentare il suicidio. La
figlia di 30 anni è handicappata fin dalla nascita e
richiede cura e assistenza
continua. Purtroppo anche
la mia salute va peggiorando e se riesco a trovare
qualcuno per aiutarmi
vuole essere ben pagato
perché in casa c’è da fare
tantissimo. Solo un miracolo potrebbe farci migliorare. I miei figli ed io non
siamo sacchi di patate; anche se siamo ridotti così
abbiamo bisogno di mangiare, di prendere medicinali, di acqua, di luce, di
assistenza, di vestirci. Non
è facile vivere giorno e notte in questa situazione!
Grazie per qualsiasi cosa
vorreste offrirci. V.P.
***
Guardiamo con preoccupazione il calendario e
contiamo i giorni che precedono la Pasqua: 16 aprile! Questo numero di
«Rocca» arriverà ai nostri
lettori un mese prima. Intanto le supplichevoli e
commoventi lettere dei
poveri, degli ammalati, dei
vecchi dimenticati, di molte mamme che da sole lottano per mantenere i figli
continuamente ci arrivano
e chiedono un aiuto, un
conforto. Siamo certi che
i nostri amici non dimenticheranno i più bisognosi
con un affettuoso dono pasquale. La Quaresima sarà
così vissuta come periodo
di maggior attenzione verso il prossimo sofferente e
renderà più lieti e più vicini alla realtà degli avvenimenti.
All’ammucchiarsi delle richieste non ci perdiamo
d’animo e siamo sicuri,
come sempre fino ad ora,
che i Rocchigiani risponderanno con generosità e
soprattutto con tanto cuore. A tutti ripetiamo il nostro grazie e da questa pagina lo diciamo ai benefattori ai quali non possiamo
mai scrivere perché inviano anonime le offerte
come P.P. da Padova, L.M:
da Verona; B.R. da Montelupo Fiorentino, O.O. da
Roma, A.L. da Marina di
Pietrasanta, da Cinisello
Balsamo, da Milano, R.R.
da Spoleto ecc. Il Signore
conceda a ciascuno il bene
più desiderato.
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi.
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ROCCA 15 MARZO 2006
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Carlo Timio
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N°6 – 15 Marzo - Rocca