2014
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA
2014
IFESA N. 2/
E DELLA D
MAGGIOR
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PERIODIC
Intervista al Capo di Stato Maggiore della Difesa
2
Un punto di vista sull’evoluzione della guerra
La narrativa a premessa dello sviluppo di un’operazione
PERIODICO DELLO STATO MAGGIORE DELLA DIFESA
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EDITORIALE
2014:
ANNO DI RICORRENZE
al 1° luglio al 31 dicembre l’Italia assumerà la
Presidenza del Consiglio
dell’Unione Europea, istituzione che riunisce i governi dei
singoli Stati membri, succedendo alla Grecia. La presidenza
del Consiglio è assunta a turno
dai 28 Stati membri dell’Unione Europea ogni sei mesi. L’Italia ha svolto tale ruolo altre undici volte nella storia dell’Unione, iniziata il 25 marzo del 1957
con i Trattati di Roma, costitutivi della Comunità economica
europea (Cee) e della Comunità europea dell’energia atomiIl direttore responsabile Pier Vittorio Romano
ca (Euratom). Durante questi
sei mesi l’Italia avrà il compito
di preparare, coordinare e presiedere i lavori del Consiglio, agendo come mediatore
neutrale “honest broker”, al fine di promuovere le decisioni legislative, le iniziative politiche e negoziando compromessi tra gli Stati membri.
Il 2014 è anche l’anno del Bicentenario dell’Arma dei Carabinieri. Era il 13 luglio 1814
ed il Re Vittorio Emanuele I disponeva con le “Regie Patenti” la costituzione di uno speciale reparto militare, il “Corpo dei Carabinieri Reali”, che “per buona condotta e saviezza distinti” fu incaricato di “contribuire alla difesa dello Stato in tempo di guerra e di vigilare alla
conservazione della pubblica e privata sicurezza” in tempo di pace. L’Arma dei Carabinieri,
attraverso innumerevoli prove di tenace attaccamento al dovere e di fulgido eroismo,
costituisce il caposaldo delle nostre Istituzioni cui gli Italiani sono intimamente legati
e non solo per cultura. È l’Istituzione che ha accompagnato la nascita e la vita della
Nazione, tra la gente e con la gente, gelosa custode del patrimonio di valori delle comunità di cui costituiscono la parte migliore della nostra idea di Nazione e di Stato.
Inoltre, dal 2014 sono iniziate le rievocazioni della “Grande Guerra 1914-1918”, che si
protrarranno fino al 2018. Durante questo periodo numerose saranno le commemorazioni che riguarderanno i luoghi della memoria, gli eventi e le iniziative culturali.
Lo Stato Maggiore della Difesa, proprio in tale contesto, ha presentato a Roma, lo
scorso 14 aprile, presso il Sacrario delle Bandiere del complesso del Vittoriano, alla
presenza del Dott. Paolo Mieli, del Ministro della Difesa Senatrice Roberta Pinotti, del
Ministro della Difesa serbo On. Nebojša Rodic e del Capo di Stato Maggiore della Difesa italiano Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, il volume storico “Per l’Esercito Serbo Una storia dimenticata”, curato dalla Dott.ssa Mila Mihajlović e da questa redazione in
italiano e serbo, con il quale si rende omaggio alla Marina Italiana per una delle più
grandi operazioni umanitarie. Dal 12 dicembre 1915 al 29 febbraio 1916 furono imbarcati e trasportati in salvo 136.000 soldati serbi, stretti dalle armate degli imperi Centrali in ritirata nel pieno dell’inverno attraverso i monti albanesi, oltre a circa 10.000
ammalati e feriti, alla cavalleria composta da oltre 13.000 uomini e 10.000 cavalli ed
a 23.000 soldati austriaci, prigionieri dell’Esercito serbo.
Vorrei segnalare ai nostri lettori la pubblicazione dell’intervista del Capo di SMD alla
redazione di “Informazioni della Difesa”, già preannunciata ai nostri lettori, ad un
anno dal suo mandato.
D
Pier Vittorio Romano
EDITORIALE
1
SOMMARIO
INFORMAZIONI DELLA DIFESA
Nr. 02/2014
■
Editoriale
2014: anno di ricorrenze
1
Pier Vittorio Romano
■
Forze Armate
Bilancio di un anno di mandato
Intervista al Capo di Stato Maggiore della Difesa
Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli
Libano: un paese alla ricerca della pace
Alessandra Mulas
2
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
4
12
■
Forze Armate
Pirelli, storia di gomme e aerei
22
Stefania Elena Carnemolla
Un punto di vista sull’evoluzione della guerra
32
Michele Melchionna
■
Analisi e Pianificazione
La narrativa a premessa dello sviluppo
di un’operazione
48
Marco Stoccuto
■
Diritto
La tutela giuridica dell’interprete
nelle missioni internazionali
66
Paolo Cappelli
■
Panorama Internazionale
L’Albania e la NATO da rischio per l’Europa
a partner per la sicurezza regionale
76
Gianluca Sardellone
■
Rubriche
Centenario della Grande Guerra
Finestra sul mondo
Osservatorio strategico
Copertina:
Herat
(Afghanistan)
Ufficiale
della Task
Force Genio
in operazioni
Periodico
dello Stato Maggiore
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fondato nel 1981
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ed editoriale
Ten. Col. Pier Vittorio Romano
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Ten. Col. Pier Vittorio Romano
Cap. Giuseppe Tarantino
Capo 1^ cl. Francesco Irde
M.llo Capo Sebastiano Russo
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M.llo 1^ cl. Maurizio Sanità
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92
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Difesa e Società 98
Difesa notizie
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il 19 marzo 1982 (n. 105/982)
SOMMARIO
3
Bilancio di un anno di mandato
Intervista al Capo di
Stato Maggiore della Difesa
Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli
mmiraglio, vuole condividere con i lettori di “Informazioni della Difesa”
un bilancio sul suo primo anno di mandato quale Capo di Stato Maggiore
della Difesa?
Vorrei innanzitutto sottolineare l’importanza di questo strumento di comunicazione. “Informazioni della Difesa” è il nostro house organ, pubblicato anche sul
web, rivolto ai militari e al pubblico esterno con l’obiettivo di favorire lo scambio
di idee e la conoscenza di particolari branche di interesse professionale.
A
Il Capo di Stato Maggiore della Difesa Ammiraglio Luigi BINELLI MANTELLI
4
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Per rispondere alla sua domanda, posso affermare che è stato un anno particolarmente intenso che, nonostante una “navigazione” non certo facile, ha fatto registrare un bilancio sostanzialmente positivo. Un risultato raggiunto grazie al senso
di responsabilità dimostrato dal personale militare e civile della Difesa. La disciplina, la professionalità e la dedizione dei nostri uomini e donne hanno consentito
alle Forze Armate italiane di continuare ad operare efficacemente per conseguire
gli obiettivi stabiliti dall’autorità politica, in un ottica atlantica e in chiave europea,
pur in presenza di una congiuntura penalizzante per il Comparto.
Il nostro impegno si è sviluppato in uno scenario sempre più complesso e delicato
che ha visto affiancarsi alle operazioni “tradizionali” nuove missioni di diversa natura. Tra quelle in campo internazionale voglio citare l’iniziativa di cooperazione
in Libia ed in Libano e quelle di addestramento delle forze locali in Somalia e Mali. A livello nazionale desidero ricordare l’avvio dell’operazione Mare Nostrum,
un vasto intervento di sorveglianza e soccorso in mare, mirato alla salvaguardia
della vita umana in mare ed al contrasto delle attività dei trafficanti di morte nel
Mediterraneo.
Nel ripensare a questo primo anno di mandato, evidenzio il lavoro fatto per mantenere alta l’attenzione sul costante e metodico processo di revisione dello strumento militare. Si è trattato di uno sforzo attuato senza chiedere risorse aggiuntive al Paese, garantendo particolare attenzione alle giuste aspirazioni del personale
ed assicurando continuità alle attività operative in corso.
FORZE ARMATE
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“Riorganizzarsi operando”: questa è stata e rimane la nostra unica e possibile modalità di evolvere!
A distanza di un anno dalla mia nomina a Capo di Stato Maggiore della Difesa, sono quindi sempre più orgoglioso ed onorato di essere a capo di un’organizzazione
virtuosa, che poggia saldamente sulla tenuta morale e sulla coesione del nostro
personale e che deve rimanere tale per il bene della Nazione.
Per definire meglio i termini di questa riorganizzazione, vuole illustrarci il grado
di attuazione della revisione dello strumento militare?
Lo strumento legislativo che ci permette di conseguire questo obiettivo è la Legge
delega 244/2013. È importante ribadire che la revisione dello strumento militare
va inquadrata non tanto come mera riduzione dei costi accompagnata da tagli al
bilancio della Difesa, bensì come un’opportunità, da non mancare, per rimodulare le Forze Armate al fine di renderle più efficienti ed efficaci, riqualificando la
spesa e massimizzando le sinergie. In quest’ottica occorre ricercare una integrazione più spinta tra le diverse componenti militari nazionali e quelle dei Paesi amici ed alleati con cui operiamo nelle principali aree di crisi. L’ottimizzazione delle
risorse non è, infatti, solo un’esigenza italiana ma una necessità sentita da tutti i
nostri alleati e partner.
Nell’attuale situazione, in ragione delle risorse assegnate, è opportuno adottare
un modello virtuoso in cui la spesa sia ripartita per il 50% al personale, il 25%
all’esercizio ed il restante 25% all’investimento, ovviamente a invarianza di bilancio.
6
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Non sono percentuali teoriche, bensì rappresentano la suddivisione ottimale delle risorse disponibili per non compromettere la capacità operativa dello strumento con l’addestramento e le manutenzioni e salvaguardando la sicurezza del personale ed il progresso tecnologico per disporre di sistemi d’arma moderni ed
avanzati.
Chiaramente si tratta di un processo difficile e delicato, da attuare con lungimiranza e genuino spirito interforze, ben consci delle ripercussioni che esso può
comportare sul complesso delle aspettative del personale. Si pensi al blocco stipendiale che da 4 anni colpisce i dipendenti della pubblica amministrazione o alla
riduzione del turn over con il conseguente innalzamento dell’età media del personale. Sono problematiche alle quali stiamo lavorando nella duplice ottica di evitare il fenomeno degli “esodati” e al tempo stesso assicurare al meglio l'assolvimento
della missione delle Forze Armate.
In definitiva, per continuare a garantire al Paese la disponibilità di uno strumento
sempre all’altezza della situazione e sostenibile con le risorse finanziarie disponibili sarà necessario un nuovo approccio alle tematiche della Difesa, sempre più
multidimensionale, interforze, interministeriale e interagenzia evitando duplicazioni e riformando struttura e organizzazione.
FORZE ARMATE
7
Lei ricordava che la crisi economica è presente non solo in Italia ma interessa anche gli altri Paesi dell’Unione Europea e si riflette sulla necessità di avere una Difesa comune sostenibile ed all’altezza della situazione per ben operare soprattutto
nelle varie aree di crisi. Al riguardo, alcune tematiche da Lei evidenziate lo scorso
novembre nell’ambito dell’audizione presso le Commissione Difesa di Camera e
Senato, sono state recepite in seno al Consiglio Europeo del 19 e 20 dicembre in
tema di PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comune). Quali sono gli asset di sviluppo a livello strategico militare? È un segno di attenzione verso una nuova politica di Difesa Comune Europea?
Ad oggi, nonostante i progressi raggiunti negli ultimi anni, l’Europa non dispone
di capacità che le assicurino autonomia di azione e pari dignità strategica rispetto
all’alleato statunitense. Per invertire questa tendenza è necessario superare l’idea
che lo sviluppo degli strumenti militari possa essere realizzato secondo logiche
esclusivamente nazionali ed invece indirizzare le risorse verso la realizzazione di
capacità comuni e complementari, mirate a valorizzare le eccellenze ed a capitalizzare le differenze. Si tratterebbe di affrontare la questione delle specializzazioni
estendendo al contesto militare la teoria economica del “vantaggio comparato”.
Inoltre, come ho riferito nell‘audizione al Consiglio Europeo del 19-20 dicembre,
una difesa “europea” veramente integrata ha senso solo in presenza di una “reale”
politica estera comune e non può prescindere dalla condivisione delle politiche di
difesa nazionali.
Il Consiglio ha individuato tre assi di sviluppo, il primo dei quali fa riferimento
all’aumento dell’efficacia, della visibilità e dell’impatto della PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comune). A tal proposito è bene ricordare che sono in corso 12
missioni civili e 4 militari nelle quali l’Unione Europea è attiva attraverso la PSDC.
Sarà pertanto necessario continuare a migliorare le capacità di dispiegamento del
personale e contestualmente definire una strategia comune per la difesa cibernetica e la sicurezza marittima, oltre a rafforzare la cooperazione in materia di gestione delle frontiere, controllo dei flussi migratori, contrasto al terrorismo, lotta
alla criminalità organizzata e tutela della sicurezza energetica. Tutte tematiche tra
loro strettamente correlate. Circa il secondo asse, che riguarda lo sviluppo delle
capacità militari, è indispensabile che gli Stati membri proseguano nel rafforzamento di impegni congiunti con il sostegno dell’Agenzia Europea della Difesa.
Voglio qui ricordare lo sviluppo di velivoli a controllo remoto a media altitudine e
lunga autonomia, capacità di rifornimento in volo, comunicazioni satellitari e difesa cibernetica. Riguardo al terzo asse, relativo all’industria europea della difesa,
l’indirizzo è quello di perseguirne il rafforzamento. È un comparto strategico, con
un fatturato di circa 93 miliardi di euro e oltre 700 mila addetti. Peraltro, anche in
considerazione del particolare momento storico, il rilancio del settore può essere
un formidabile stimolo sia per la ricerca sia per l’occupazione, con importanti riflessi sulla crescita in tutta l’Unione. Si consideri inoltre il ruolo, giustamente riconosciuto, delle piccole e medie imprese (PMI) quale elemento vitale della catena
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Momento della visita a Shama
di approvvigionamento della Difesa per le loro qualità di innovazione e competitività. Il coinvolgimento delle PMI nei futuri programmi di finanziamento dell’UE
costituisce una chance importante per l’Italia la cui struttura imprenditoriale è fortemente caratterizzata da aziende di questo tipo.
Come ci ha illustrato, la revisione dello strumento militare nazionale è di fatto
“strutturalmente” interconnessa con la PSDC. Ma nel frattempo le nostre Forze
Armate, mentre si riconfigurano, continuano ad operare sul terreno. Quale è il
nostro impegno nelle principali aree di crisi?
L’Italia fornisce un concreto contributo alla comunità internazionale per creare
condizioni di stabilità e prosperità in numerose aree di crisi. Per citarne alcune, ricordo i Balcani, il Libano e l’Afghanistan, tutte realtà impegnative e molto diverse
tra loro. In Kosovo, nell’ambito della missione KFOR di cui al momento deteniamo
il comando (che manterremo anche nel prossimo anno), siamo presenti con un
contingente che è andato nel tempo riducendosi. È un’area complessivamente pacificata, dove non possiamo però abbassare la guardia poiché sono ancora presenti
fattori di instabilità latenti. Questo nostro ruolo di stabilizzazione è riconosciuto anche in Libano, dove siamo schierati sotto bandiera dell’ONU nella missione
UNIFIL, anch’essa a guida italiana per il secondo mandato consecutivo. È un’operazione particolarmente sensibile in ragione dell’instabilità di tutta l’area dovuta alle
riverberazioni del cosiddetto “Risveglio arabo”, della crisi siriana e della recente crisi
israelo-palestinese. Ma l’importanza del lavoro svolto è visibile anche in Afghanistan,
dove operiamo nell’ambito della missione ISAF, l’impegno più importante ed
oneroso cui le Forze Armate italiane abbiano preso parte dal termine della Seconda
FORZE ARMATE
9
guerra mondiale. In quest’area siamo presenti da dodici anni e ritengo che, a fronte
di sacrifici importanti – voglio qui ricordare tutti i nostri caduti – i progressi siano
stati significativi. Basti pensare all’oscurantismo nel quale il Paese era precipitato e
confrontarlo con la situazione odierna, dove al di là di episodi contingenti seppur
gravi, la società afghana sta tornando a vivere. L’emancipazione femminile,
l’istruzione, la sanità, lo sviluppo economico e la sicurezza non sono più concetti astratti. La strada da fare è ancora difficile, ma la transizione tra ISAF e le forze
afghane è ormai ampiamente avviata e noi ci teniamo pronti a rimanere, qualora
chiesto, con aliquote di supporto per compiti di formazione e addestramento.
È il concetto del capacity building. L’investimento in missioni addestrative più contenute e mirate all’addestramento delle Forze di sicurezza locali, civili e militari, rappresenta il percorso per conseguire la stabilità anche in altre regioni difficili come il
Corno d’Africa ed il Sahel. A parte l’Afghanistan dove, come dicevamo, contribuiamo sia con ISAF sia con la NATO Training Mission alla ricostruzione delle forze
di sicurezza afghane, stiamo operando su diversi “fronti”. In Libia, nell’ambito dell’iniziativa del G8 Compact, con la Missione Militare Italiana (MIL), operiamo per organizzare, condurre, sviluppare, coordinare e monitorare le attività addestrative, di
assistenza e consulenza nel settore della Difesa. In Somalia ed in Mali siamo impegnati nell’addestramento delle locali Forze militari e di sicurezza. Non dimentichiamo
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
poi che anche nell’ambito di operazioni più “convenzionali” ricerchiamo, laddove
possibile, occasioni di scambio e di training congiunto con le forze delle nazioni ospitanti (host nations). Nello stesso Libano in cui siamo già storicamente presenti sotto
egida ONU siamo in procinto di ampliare il nostro impegno attraverso un articolato
programma di supporto all’addestramento delle Lebanese Armed Forces (LAF).
Ammiraglio, per concludere, quale ritiene siano gli scenari geostrategici nei quali
le Forze Armate potrebbero trovarsi ad operare nel prossimo futuro?
Oggi siamo di fronte ad uno scenario complesso e articolato, in presenza di quella
che io definisco “una seconda guerra fredda”, alimentata da ambizioni nazionaliste
come quelle che hanno portato alla recente crisi ucraina e dal fronteggiarsi, in Medioriente e in molte aree africane, delle due anime principali dell’Islam: sciiti e sunniti sostenuti da Potenze Regionali in palese competizione. Ma ci sono anche scenari connessi al controllo delle risorse energetiche e delle rotte marittime e delle vie
terrestri da cui queste risorse provengono, come l’Oceano Pacifico e l’Indiano, dove le potenze emergenti giocheranno un ruolo sempre più importante. Garantire
la fruibilità delle risorse necessarie ed i flussi commerciali ed economici diretti nel
Mediterraneo diventerà una irrinunciabile priorità strategica nazionale. Ci troveremo ad affrontare situazioni di guerra asimmetrica o terroristica sempre più complesse e altre situazioni conflittuali o potenzialmente conflittuali ad alta e media intensità, in un quadro geostrategico imprevedibile e indeterminato, dove è necessario possedere una capacità adeguata di risposta a rischi e minacce, esercitando anche, ove necessario, una deterrenza militare. Ne consegue che Forze Armate italiane dovranno mantenersi efficienti ed efficaci per garantire un’adeguata presenza e
sorveglianza nelle aree di crisi, unitamente ad una capacità di cogliere anche i segnali più deboli per poterli analizzare ed interpretare, al fine di poter prendere le
necessarie contromisure. Per fare questo è necessario capitalizzare e non disperdere l'esperienza maturata in questo ultimo ventennio di intense operazioni multinazionali di stabilità e umanitarie. La NATO ha risposto a questa esigenza attraverso il
concetto CFI (Connected Forces Initiative). Non sono più ipotizzabili interventi
unilaterali, ma solo azioni congiunte. Ogni nazione dovrà fornire capacità specifiche, interoperabili, flessibili e proiettabili, caratteristiche fondamentali per agire
nell’ambito delle organizzazioni internazionali e delle alleanze delle quali le nostre
Forze Armate sono elemento imprescindibile. La vera sfida non è comunque quella
di essere presenti nel maggior numero possibile di aree di crisi quanto di operare in
modo sempre più multidisciplinare e coordinato a livello internazionale, dando
continuità agli impegni che il Paese ha assunto e rispondendo, con rapidità ed efficacia, alle richieste d’intervento correlate all’insorgere di nuovi rischi ed al manifestarsi di minacce trans-regionali sempre più mutevoli nel tempo. In estrema sintesi
vorrei chiudere con una nota di sereno e consapevole ottimismo, che poggia, come
ho detto in apertura, sulla tenuta morale, sulla disciplina, sulla determinazione e
sulla virtuosa professionalità del nostro personale, militare e civile, uomini e donne,
senza distinzione. La coesione e la motivazione del personale sono le fondamenta
della nostra operatività ed il miglior viatico per il nostro futuro.
FORZE ARMATE
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LIBANO: UN PAESE ALLA
RICERCA DELLA PACE
di Alessandra Mulas
12
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
l Libano continua ad essere uno dei punti nevralgici del Medio Oriente. La sua posizione geografica, a cavallo tra Siria e Israele, oggi più
che mai rende il Paese dei Cedri il polo di congiunzione tra Oriente e
Occidente. Comprenderne le dinamiche aiuta a focalizzare tutta una serie di obiettivi legati a questa vasta regione che continua ad essere uno dei
centri di interesse politico, culturale e strategico mondiale.
Ho incontrato alla base di Naqoura il Generale Paolo Serra, Force Commander di Unifil dal 2012; ancora un italiano a capo
dell’importante schieramento di forze internazionali composto da
12mila tra uomini e donne di ben 37 diverse nazioni. Un attestato di fiducia per l’Italia e per le nostre Forze Armate da parte della comunità internazionale. È proprio il Generale Serra a spiegare
come sia grazie alla professionalità, competenza
e all’approccio comprensivo con le istituzioni e
con la popolazione locale, tipici del soldato italiano, il fattore di successo
nel mantenimento di stabilità nella parte sud del
Libano, al confine con
Israele. Qui la situazione
è abbastanza complicata,
tra i due paesi le ostilità
non si sono mai sopite
completamente, le forze
UNIFIL fungono da deterrente, impegnate quotidianamente per garantire la pace. “È determinante il nostro ruolo all’interno del contesto libanese
I
Libano - Missione UNIFIL
FORZE ARMATE
13
Libano - Pillar della Blue Line
e, a livello politico, il riconoscimento di imparzialità sul terreno da parte sia
di Libano che di Israele. Bisogna prevenire ogni possibile scontro, l’attività
è logorante e pericolosa ma eseguita bene da tutti i peacekeeper presenti e
straordinariamente bene dagli italiani che si muovono con un grande bagaglio di capacità operative e professionali, ma anche grazie alla nostra cultura riusciamo ad integrarci, farci ben volere da entrambe le parti. Ci rispettano perché li rispettiamo”. Il contingente italiano è composto da circa 1100
tra uomini e donne di base a Shama’, poco distante da Naqoura, dove appunto ha sede il Sector West HQ Joint Task Force di UNIFIL. Attualmente il comando è affidato alla Brigata di Cavalleria “Pozzuolo del Friuli”, che ha sede a Gorizia, al quarto mandato, impegnata nell’operazione Leonte 14.
120 km di uno dei confini più caldi sono costantemente monitorati, attraverso la definizione della Blue Line, linea di demarcazione che è stata presa
come punto di riferimento a seguito del ripiegamento delle Forze Armate
israeliane dal territorio libanese. L’importanza della missione, senza la
quale il progetto di pace non avrebbe potuto avere successo, è racchiusa
nella risoluzione ONU 1701 e può essere riassunta in tre punti: monitoraggio del cessate il fuoco, supporto all’esercito libanese affinché un giorno
possa autonomamente gestire la sicurezza, assistenza alla popolazione. Co-
14
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
me sappiamo, nella regione sotto controllo UNIFIL, l’incidenza della comunità sciita raggiunge il 90% della cittadinanza, ciò determina una forte
presenza dei partiti Hezbollah e Amal, “Hezbollah – prosegue il Generale – fa
parte del tessuto sociale della popolazione che continua ad avere molte
aspettative da parte loro. Sino al 2006 qui era presente solo Hezbollah e in
quegli anni era stato in grado di esprimere tutte le potenzialità politiche e
sociali, di sostegno alla popolazione e di preparazione a una difesa o un attacco da parte militare. Poi dal 2006 la situazione è totalmente cambiata ci
siamo solo noi di UNIFIL e le Forze Armate Libanesi a controllare il territorio e, almeno esteriormente, non vi è una presenza armata del partito di
Dio, non ci sono uomini in uniforme, non ci sono loro checkpoint. Le LAF
(Forze Armate Libanesi) hanno oltrepassato il fiume Litani e oggi stanno
producendo uno sforzo importante e decisivo che, attraverso lo strategic
dialogue, le porterà ad un livello totale di autonomia, grazie al supporto offerto da UNIFIL, su un piano paritetico per poter discutere di pace”.
La decisione ultima dell’Unione Europea di inserire nella lista nera del terrorismo il braccio armato di Hezbollah arriva proprio durante la mia permanenza in Libano; in una situazione tanto delicata tutto potrebbe cambiare in un istante, proprio qui dove la presenza sciita è forte e consolidata. Apparentemente la decisione non produce alcun effetto, anche se chiaramente il livello di attenzione si è alzato notevolmente. Il leader politico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il giorno successivo alla dichiarazione è intervenuto direttamente in un discorso ai suoi sostenitori sostenendo che “l’Unione
Libano - Militari UNIFIL in movimento
FORZE ARMATE
15
Europea si è dimostrata debole e sottomessa alla volontà di Israele e degli
Stati Uniti; io mi chiedo invece perché nessuno abbia il coraggio di condannare i crimini che da decenni si commettono contro il popolo palestinese e
libanese. Questa decisione ha sottomesso la dignità e la credibilità di questi
Paesi, ed ha dato la copertura legale ad Israele per qualsiasi aggressione futura contro il Libano. Io ringrazio tutti coloro che hanno scherzato sui social network – aggiunge il capo della resistenza – dichiarando che adesso non
possiamo più andare in vacanza all’estero. Noi non abbiamo ne il tempo, ne
i soldi per andare in giro, noi restiamo qui nel nostro Libano”. Rivolgendosi
poi al suo interlocutore politico in parlamento, il movimento libanese del
14 marzo, Sayyed Nasrallah aggiunge “non vogliono Hezbollah nel governo,
dico che nel prossimo governo saranno proprio gli uomini dell’ala militare
a farne parte”. Si perché il partito di Dio non ha una separazione interna
tra combattenti e politici, una invenzione questa tutta occidentale di un
movimento che ha una storia che dovrebbe essere letta cercando di non farsi condizionare dalla propria cultura di provenienza, anche perché il numero di sostenitori è costantemente aumentato.
Ma nella sostanza attualmente nulla è cambiato, lo status quo è saldo e anche dagli incontri con alcuni esponenti delle istituzioni locali, quali il sindaco del villaggio di Al Mansouri, legato ad Hezbollah, e il presidente delle
Municipalità a Tiro Abdul Mohsen Al Husseini, del partito Amal, emerge
Libano - Militari UNIFIL durante un posto di controllo
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Libano - Militari UNIFIL in pattugliamento
che la presenza dei caschi blu è un elemento fondamentale per il mantenimento della stabilità e per monitorare la cessazione delle ostilità. Il presidente Al Husseini, un uomo anziano dotato di grande carisma, da sempre amico dei nostri militari, ha addirittura voluto sottolineare che questa
dichiarazione non andrà ad intaccare gli ottimi rapporti stabiliti tra le due
componenti, militari (UNIFIL) e popolazione; anzi ha voluto rimarcare la
sua amicizia con il contingente italiano definendoli uomini sempre pronti
e disponibili alle necessità dei cittadini del Libano. “le forze di interposizione UNIFIL sono riuscite a garantire al paese 7 anni pace” ha dichiarato
Al Hussein “adesso bisogna lasciar sedimentare la questione, bisogna
prendere tempo. Bisogna mantenere i rapporti tra l’Europa e il Libano,
di amicizia e fratellanza perché il popolo vuole questo”.
Appena un mese prima attraverso una mia intervista al Capo del Dipartimento degli Affari Esteri di Hezbollah, Ali Daamoush, a Beirut il leader si
era espresso favorevolmente nei confronti dell’Italia con la quale intendeva consolidare i rapporti politici e di amicizia. Sayyed Daamoush ha confermato anche qualche giorno fa che per il momento i rapporti con l’Europa e l’Italia non si modificheranno. Certo se si mantenesse questa linea
la situazione potrebbe logorarsi, non bisogna mai dimenticare che qui anche una piccola scintilla potrebbe scatenare un incendio.
Nell’intervista Sayyed Daamoush aveva contestualizzato l’intervento in Siria, elemento utile a comprendere il pensiero e i meccanismi del suo par-
FORZE ARMATE
17
tito, affermando che “in
Siria non si può parlare
di primavera araba, si
vuole arrivare ad una distruzione graduale della
Regione. Si vuole colpire
la Siria per mettere finalmente a tacere la Resistenza. Ecco perché noi
siamo dalla parte del popolo siriano e del suo
Presidente; tutti i regimi
hanno bisogno di riforme e quindi anche la Siria e Al-Assad si era già reso disponibile ad attuarle
prima della rivolta, ma
non gli hanno lasciato
l’opportunità di portarle
a compimento. Questa
guerra sarà lunga, tanti
gli interessi in gioco e i
protagonisti internazionali. Il problema pertanto riguarda tutti anche i
paesi occidentali perché i
Libano - Militare UNIFIL Italiano
ribelli in Siria sono dei
terroristi, non sono siriani, sono loro a gestire la situazione e non la politica di opposizione. Ecco
perché tutti i paesi sono in pericolo, per le possibili ripercussioni terroristiche e se Stati Uniti e Occidente li appoggeranno dovranno poi assumersi
la responsabilità degli atti che questi andranno a compiere. Noi lo abbiamo detto sin dall’inizio, vorremmo una soluzione politica della crisi perché non crediamo che la guerra sia la soluzione. Ma non potranno essere
tollerati interventi militari esterni, e se questo dovesse accadere Hezbollah
non starà a guardare e si schiererà insieme agli altri paesi amici della Siria”.
Sottolinea con voce pacata ma molto determinata Sayyed Daamoush. Anche il Responsabile Affari Esteri Ammar Moussawi, incontrato qualche
giorno dopo conferma la linea e aggiunge che “deve essere chiaro che Hezbollah non appoggia il regime, ma difende la Siria come Stato e combatte
per l’unità del suo popolo. Crediamo che alcune richieste dell’opposizione siano giuste ma non è questa la vera causa della guerra. Si vuole punire
la Siria perché appoggia i movimenti di Resistenza nel Medio Oriente. Bisogna che i governi occidentali raccontino la verità ai loro popoli; oltre 700
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Libano - Missione UNIFIL
persone di altra nazionalità e anche europei combattono illegalmente in
Siria, l’ha confermato anche il Ministro dell’Interno tedesco”.
Ma uno dei problemi più gravi che attanaglia non solo il Libano ma l’intera
regione è quella dei profughi palestinesi e gli interlocutori sottolineano
con fermezza che “senza una soluzione del problema palestinese il Medio
Oriente non potrà trovare pace”. In Libano il numero dei profughi palestinesi si avvicina al milione, su una popolazione totale di 4 milioni, rinchiusi
dentro i campi gestiti dalle varie autorità palestinesi. La visita di alcuni di
questi campi mi ha portato dentro una realtà difficile e dolorosa, peggiorata notevolmente dall’attuale diaspora siriana a causa della guerra. Uno dei
campi più difficili è proprio quello di Ain El Helweh a Sayda, qui anche solo entrare è un problema, anche per noi giornalisti, servono vari permessi
a cominciare da quello dell’esercito libanese che presidia dall’esterno, a
quello del responsabile regionale (Libano, Siria, Palestina, Giordania e Cisgiordania) dei Campi Profughi, appartenente alle Brigate dei Martiri di
Al-Aqsa, Mounir Maqdah, che ci fa da guida. Ha definito le donne italiane
forti e coraggiose, visto che sia all’interno che all’esterno del campo non
mancano le agitazioni, gruppi di salafiti premono per il potere. Purtroppo
FORZE ARMATE
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si può solo documentare il dolore di questa valle dell’inferno che neppure
Dante sarebbe stato capace di descrivere; la scorta armata fa strada lungo i
vicoli del campo, sembra che il mondo alle mie spalle non esista più in un
attimo si è trasformato in un groviglio di vicoli polverosi e fili elettrici, di case fatiscenti, dove mancano corrente elettrica, acqua potabile, viabilità, cure ma soprattutto i generi di prima necessità. L’unico ospedale ormai non
è più in grado di dare assistenza a causa dell’assenza di medicinali, inutile
come dire procedere ad una diagnosi quando non si può avere accesso alle
cure. Ma il peggio deve ancora venire, il Comandante Maqdah ci accompagna poi in quello che viene definito “il campo nel campo”, una tendopoli
tirata su tra tessuti consunti delle tende e muri di cartone, servizi igienici
che non possono essere descritti. In questo luogo risiedono i 22000 profughi giunti in massima parte dai campi siriani di Yarmuk e Sbayna.
I più fortunati hanno trovato qualche camera libera in quella che è stata
chiamata la “casa bianca” una costruzione che prima era adibita a scuola
e sede di un’associazione, oggi è in grado di dare ospitalità a 3 o 4 famiglie
per stanza (circa 20 persone). Fa molto caldo e dentro le tende l’aria è irrespirabile. Qui tutti esprimono il desiderio di vedere finire questa guerra
e di poter tornare in Siria, perché spiegano, “in Siria anche noi palestinesi
siamo trattati con gli stessi diritti dei cittadini, avevamo un lavoro, una casa e i servizi sociali, sanitari, istruzione etc. Ora qui non abbiamo neppure
da mangiare per i nostri figli”. La grande dignità che contraddistingue
questo popolo, alle volte, li fa vergognare della loro miseria e ci chiedono
di non essere fotografati, ci domandano però di non essere dimenticati.
Sono colpita da una donna, le rughe del suo volto sono i solchi della sofferenza di un intero popolo; ci racconta che la sua fuga è iniziata nel lontano 1948 e ancora non ha una casa. Aveva trovato dimora in Siria ma ora
questa guerra le ha levato anche quella e sollevando lo sguardo afferma
“non ricordo più la mia età”. Qui gli aiuti non arrivano e se arrivano sono
troppo esigui per le necessità attuali.
Negli altri campi la situazione non è diversa per esempio il campo di Burj
El Barajneh di Beirut ha le stesse problematiche. Hosni Abo Taka, Presidente del Comitato Popolare del Campo, descrive la situazione e sottolinea che per quanto riguarda la crisi siriana la posizione ufficiale dei palestinesi è neutrale. Anche lui dichiara che la causa palestinese ha un’importanza fondamentale per la soluzione di qualsiasi crisi nella regione.
Per quanto riguarda gli aiuti dice che bisogna fare presto, i campi sono al
collasso; attualmente qualcosa proviene dall’UNRWA, dalla Croce Rossa
Internazionale e da Hezbollah. Purtroppo in Libano, al contrario di quanto
avveniva in Siria, i palestinesi non hanno alcun diritto. Non possono svolgere almeno una settantina professioni, soprattutto quelle più importanti
come medico, insegnante, ingegnere, farmacista, architetto etc, insomma
quelle che hanno un progresso culturale, determinando un tasso di disoccupazione molto elevato.
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Libano - Militari di UNIFIL
Dentro i campi, e in genere per questo popolo, la vita è davvero molto
complicata, al limite della sopportazione ed è vero che la soluzione deve
essere trovata al più presto dalla comunità internazionale se si vuole mettere fine a questa diatriba infinita in uno dei posti più belli del mondo. Ecco perché in un contesto tanto complicato la presenza dei caschi blu, anche se solo in una piccola parte del paese, assume una posizione di grande rilievo. Riprendendo le parole del Generale Serra si può meglio sintetizzare il concetto: “oggi UNIFIL rappresenta una forza di deterrenza, sviluppata attraverso attività di controllo e di contatto con le parti. La nostra
collaborazione si concretizza anche nella capacità di favorire il dialogo tra
i due paesi, che di fatto non hanno relazioni diplomatiche. Periodicamente ha luogo un incontro tripartito, UNIFIL, Libano e Israele a Ras Naqoura, anche per definire i punti esatti per posizionare i Blue Pillar, elementi
di demarcazione visiva della Blue Line. I due interlocutori non si parlano
direttamente: si rivolgono a noi e noi trasmettiamo il messaggio alla controparte: sembra un film in bianco e nero dei tempi della Guerra Fredda”.
Questo dovrebbe già essere sufficiente a spiegare la necessità di una presenza internazionale di così lungo periodo. Un eventuale ritiro delle forze
di interposizione potrebbe mettere a repentaglio il faticoso equilibrio sino ad oggi costruito tra i due paesi che non possono certo definirsi amici,
che non hanno mai firmato un accordo di pace, e questo è certo un elemento da non trascurare.
FORZE ARMATE
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PIRELLI, STORIA
DI GOMME E AEREI
di Stefania Elena Carnemolla
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
a Fondazione Pirelli di Milano ha ospitato, curata da Daniele Pirola, che per la Fondazione si occupa di ricerca e documentazione, la
retrospettiva “Pirelli, storia di gomme e aerei”, un racconto, attraverso cimeli, fotografie, dépliant, diplomi, opuscoli e altri documenti
d’archivio, dei pneumatici Pirelli per aerei e velivoli civili e militari. L’occasione è stato il recupero, con restauro a Parabiago, di uno dei primi DC3 della LAI-Linee Aeree Italiane, oggi esposto, con la sua culletta, come
parte del suo patrimonio
storico, nello open space
della Fondazione.
Fra gli aerei civili con
gomme Pirelli si ricordano il Breda BZ-308 del
1948 e il Fiat G212 della
ALI-Avio Linee Italiane.
Nel 1958 la Pirelli invece
realizzò, prima al mondo, su brevetto della ESTBonmartini di Desenzano, un pneumatico-cingolo per aerei Piper capace di favorire il rullaggio di decollo e atterraggio su terreni particolarmente aspri.
Dal 1915 al 1975 i pneumatici Pirelli affiancarono passo dopo passo l’Italia che “spiccava il volo”.
Nel “campo, di importanza sempre crescente,
dell’aviazione” scriverà
nel 1946 Alberto Pirelli,
figlio del fondatore Giovan Battista “i pneumatici di nostra produzione
hanno potuto equipag-
L
Fiat G91Y - caccia tattico ricognitore
leggero equipaggiato con pneumatici
Pirelli
FORZE ARMATE
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Rotta raid aereo Roma-Tokio del 1920
giare con risultati pienamente soddisfacenti tutte le classi di velivoli corrispondendo alle sempre maggiori esigenze dei costruttori, sia che si trattasse di ridurre al minimo l’ingombro ed il peso dei pneumatici destinati
agli apparecchi da primato o da caccia, sia che si dovessero raggiungere le
elevatissime prestazioni richieste dai grossi apparecchi da trasporto e da
bombardamento”1.
Nel 1922 la Pirelli celebrò il suo cinquantenario e nel ricordare la sua produzione nel ramo dei pneumatici e delle gomme piene con quel grande
successo su strada che fu il raid Pechino-Parigi del 1907 del Principe Scipione Borghese a bordo della ITALA 35/45 HP, non mancò di rievocare i
successi dell’aria con il raid del Tenente Arturo Ferrarin, giunto a Tokyo,
dopo più di tre mesi di volo, a bordo del suo SVA9 in legno e tela: “Tredici
anni dopo, nel 1920 il Tenente Ferrarin compiva per le vie dell’aria un
viaggio consimile, tracciando una scia tricolore attraverso il continente
1
24
A. Pirelli, La Pirelli, vita di una azienda industriale, Milano, 1946, p. 39.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Alberto Pirelli - raid Milano Venezia 1913
asiatico da Roma a Tokyo; l’apparecchio italiano era munito di nostri
pneumatici che durante il lungo viaggio, malgrado atterramenti aspri ed
avventurosi, diedero piena soddisfazione”2. È invece del 1930 il primo Giro Aereo d’Italia, vinto dal Colonnello Paride Sacchi, che in un telegramma da Roma alla Pirelli loderà i “meravigliosi pneumatici” del suo Breda15S da turismo.
Nel 1920 la Pirelli partecipò all’Esposizione Aeronautica di Parigi, nel
1928 alla Mostra Aeronautica di Taliedo, sede di un grande aerodromo,
quindi, nel 1935, al Primo Salone Internazionale Aeronautico e, nel 1952,
a una Fiera dell’Aeronautica.
In casa Pirelli l’amore per il volo arrivò ben prima delle gomme per velivoli. Il 24 ottobre 1908, Alberto Pirelli, di ritorno da un viaggio d’affari a
Londra, si fermò a Camp d’Avours, presso Le Mans, dove c’era Wilbur
Wright con il suo aeroplano. “Oggi feci bellissimo volo con Wright” scriverà in un telegramma alla famiglia “arriverò Milano lunedì mattina 6,40”.
Nell’agosto del 1913 egli invece volò con Arturo Mercanti, Segretario Ge-
2
Pirelli & C. nel suo cinquantenario, 1872-1922, Milano, Alfieri e Lacroix, p. 84.
FORZE ARMATE
25
Fiat CR 20 impiegato negli anni 30 in Africa Orientale
nerale del Touring Club Italiano, e il pilota Filippo Cevasco, a bordo di un
monoplano Gabardini a costruzione metallica, da Milano a Venezia, dove
fu costretto a un atterraggio di fortuna sull’isola di Sant’Elena. Del suo
fondo fotografico fanno invece parte, come collezione “Early Aviation
1908-1909”, alcuni scatti di volo di Maurice-Louis Branger, che nel 1905
aveva fondato a Parigi l’agenzia Photopresse e che nel 1913 sarà uno fra i pochi reporter a documentare la prima guerra dei Balcani contro l’Impero
Ottomano.
Durante la Prima Guerra Mondiale la Pirelli fu protagonista con le sue
gomme del Volo su Vienna della 87ª Squadriglia Serenissima, decollata il
9 agosto 1918 da San Pelagio, vicino Padova, al comando del Maggiore
Gabriele D’Annunzio, per un lancio di volantini sulla città austriaca. Fra
gli scatti della retrospettiva, uno d’archivio in bianco e nero con l’SVA5,
matricola 11721, del Maggiore Giordano Bruno Granzarolo, oggi nell’Hangar Troster del Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di
Valle. Un altro SVA5, quello di Gino Allegri, matricola 11777, è invece nel
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Fiat G91caccia tattico leggero vincitore concorso NATO bandito nel 1954
Museo Caproni di Trento, mentre l’SVA10 di Gabriele D’Annunzio, matricola 12736, si trova a Gardone Riviera, presso il Vittoriale degli Italiani.
Negli anni Venti la Pirelli armò con le sue gomme il monoplano da primato
ad ala bassa Savoia Marchetti S64, simbolo dell’aeronautica e del progresso
tecnico del tempo. Progettato da Alessandro Marchetti, nell’estate del 1928
il velivolo fu protagonista, con a bordo il Tenente Arturo Ferrarin e il Capitano Carlo Del Prete, della trasvolata Italia-Brasile, dove, atterrato su una
spiaggia, fu trasportato via mare a Rio de Janeiro e donato al Brasile.
Negli anni Trenta la Pirelli equipaggiò invece il biplano Fiat CR20 impegnato in Africa Orientale, quindi il Savoia Marchetti SM81 Pipistrello, destinato, inviato da Mussolini a Francisco Franco, alla Guerra Civile spagnola, quindi alla campagna d’Abissinia. Il Savoia Marchetti SM81 Pipistrello
fu attivo anche durante la Seconda Guerra Mondiale allorquando attaccò
nel 1940 Port Sudan, compiendo altresì ricognizioni nel Mar Rosso.
Nel 1951 la Pirelli dedicò al Colonnello Mario De Bernardi “maestro di
acrobazia di alta scuola”, nonché “il più famoso e intrepido aviatore italiano”, ora ritratto con cuffietta e occhiali da aviatore a bordo di un aereo
rosso e nero, il foglio di novembre del suo Calendario Sportivo.
FORZE ARMATE
27
Nel 1954, sulla base degli studi dello SHAPE3 sulla difesa dell’Europa occidentale, la NATO bandì un concorso per la realizzazione di un aeroplano leggero di appoggio tattico capace di decollare e atterrare su strisce erbose o su terreni semipreparati, primo passo verso il decollo verticale. Dal
concorso uscì vittorioso il Fiat G91, caccia tattico leggero con turbogetto
Orpheus B.Or.3 progettato dall’ingegner Giuseppe Gabrielli, Direttore
della Divisione Fiat Aviazione e ordinario del Politecnico di Torino4. Qui
laureatosi nel 1925, nel 1926 Gabrielli aveva vinto una borsa di studio della Fondazione Marco Besso di Roma per il perfezionamento in Germania
presso l’Istituto di Aerodinamica della Technische Flochschule di Aachen, allora diretta da Theodor von Kármán, futuro ideatore e presidente dell’AGARD5, l’ente NATO, istituito nel 1952, per la consulenza nel campo
delle ricerche aeronautiche6. Conseguito il titolo di Doktor-Ingenieur con
una monografia sulla rigidezza torsionale delle ali a sbalzo, Gabrielli tornò in Italia, assistente al Politecnico di Torino e in forze alla Società Piaggio di Finale Ligure prima di essere assunto il 12 gennaio 1931 dalla Fiat
come Direttore dell’Ufficio Tecnico della Aeronautica d’Italia.
Il primo prototipo del Fiat G91 decollò dall’aeroporto di Caselle, vicino Torino, nel 1956. Collaudatore fu il pilota Riccardo Bignamini, dottore in matematica, già ufficiale dell’Aeronautica Militare, e vincitore, anni prima, del
trofeo McKenna della Empire Test Pilots’ School di Farnborough. Il velivolo
era stato progettato per l’attacco contro obiettivi terrestri mobili e fissi con
bombe, razzi e armi di bordo, ricognizione fotografica a breve e medio raggio, e, grazie ai suoi pneumatici Pirelli a bassa pressione, per poter operare
da qualsiasi prato o pista erbosa, con il vantaggio di poter abbandonare le
piste permanenti, costose e vulnerabili agli attacchi nemici. “Il pneumatico
per gli aerei a reazione” scriverà nel 1960 sulla Rivista Pirelli Alberto Mondini, esperto di aeronautica “deve essere il risultato di accurati studi rivolti ad
ottenere la massima leggerezza contemporaneamente alla massima robustezza limitando le dimensioni di ingombro ai minimi valori. I materiali di
attacco devono resistere alla forza centrifuga che tende a separare il battistrada dalla carcassa e all’impatto contro il terreno, all’atterraggio, quando
la copertura inizialmente ferma deve in pochi istanti assumere una velocità
periferica pari alla velocità del velivolo. Oltre alla resistenza alle sollecitazioni dinamiche si pone inoltre il problema della resistenza a temperature
3
4
5
6
28
Supreme Headquarters Allied Powers in Europe.
G. Gabrielli, Una vita per l’aviazione, Milano, Bompiani, 1982, pp. 155-177.
Advisory Group for Aeronautical Research.
L’AGARD: la scienza al servizio della difesa, a cura del Servizio Informazioni della NATO di
Parigi e del Comitato Italiano Atlantico di Roma, 1954.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
molto più alte e
molto più basse
di quelle incontrate da pneumatici per veicoli
normali. I pneumatici della Pirelli, fornitrice degli
equipaggiamenti
per gli aerei NATO, hanno sempre soddisfatto
alle prove richieste e forniscono
un comportamento d’esercizio assai soddisfacente”7. Nell’articolo, accanto a
una immagine
con tre Fiat G91
della Aeronautica Militare ripresi
durante il rifornimento di carburante e una con il
Macchi MB326
biposto da addestramento ad ala
Rivista Pirelli del 1960 con Fiat G91 in copertina
bassa, fu pubblicata una immagine con il particolare del carrello anteriore del Fiat G91 dove si ricordava come “dimensione
e pressione di gonfiamento dei pneumatici” fossero tali da “consentire al velivolo di operare con sicurezza su campi di fortuna”8. Anche la copertina fu
dedicata all’aereo NATO.
Dal 23 settembre al 5 ottobre 1961 il Fiat G91, scomposto nei suoi principa-
7
8
A. Mondini, Gli italiani tornano in campo, in Rivista Pirelli, Maggio-Giugno 1960, p. 30.
A. Mondini, Gli italiani tornano in campo, in Rivista Pirelli, Maggio-Giugno 1960, p. 30.
FORZE ARMATE
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Sala retrospettiva con
pneumatico
li elementi costitutivi, fu allestito dalla Fiat
Aviazione nel
padiglione centrale dell’XI Salone Internazionale di Aeronautica di Torino. All’esterno,
vicino all’ingresso principale, fu invece
collocato, accanto a un
SVA5 del 1917,
un Fiat G91T.
Il 4 novembre
1961, in occasione
della
Giornata delle
Forze Armate,
l’Aeronautica
Militare organizzò alcune “mostre illustrative” nelle principali città italiane. La Fiat Aviazione fu presente a Torino, Bologna, Vicenza e Milano, dove un Fiat G91 fu esposto in un parco cittadino.
Il Fiat G91 volò anche negli Stati Uniti, dove i tecnici del Laboratorio Climatico della base aerea di Eglin, in Florida, lo sottoposero, nel chiuso di
una apposita cella a bassi valori di temperatura, a prove di climatizzazione. Il responso fu che il velivolo poteva operare anche nei climi più freddi, tipo quelli polari.
Della famiglia del Fiat G91 fece anche parte, scelto fra quelli della preserie, il Fiat G91 della Pattuglia Acrobatica Nazionale, cui, installato l’impianto fumogeno, furono tolti, a tutto vantaggio delle sue prestazioni
acrobatiche, tutti gli accessori operativi come l’armamento e l’impianto
fotografico.
Nel 1962 la Rivista Pirelli annunciò la progettazione del caccia Fiat
G95/6 VTOL del nuovo concorso NATO per un caccia tattico leggero a
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
decollo corto o verticale “azionato da un sistema a propulsione composta
fornito da turbogetti principali per la propulsione normale e da turbogetti ausiliari per il sostentamento al decollo e all’atterraggio” nonché capace di “partire e atterrare in obliquo e in verticale, anche su terreni non
preparati”9. Il velivolo fu presentato a Roma, il 16 maggio 1962, dall’Ingegner Giuseppe Gabrielli, presenti il Presidente della Repubblica, Antonio Segni, nonché autorità civili e militari, e sotto gli auspici del Centro
Italiano di Studi per la Riconciliazione Internazionale, nella sede del
Banco di Roma10.
Nel 1967 la Rivista Pirelli diede, infine, notizia dei pneumatici Pirelli per
il G91Y ora montati su un prototipo di cui veniva illustrata una immagine
con il velivolo in fase di atterraggio dopo un volo di prova: “Pneumatici Pirelli equipaggiano il G91Y, caccia tattico-ricognitore leggero, bimotore,
progettato e realizzato dalla Fiat per appoggio tattico alle truppe di terra,
ricognizione armata, interdizione e ricognizione fotografica. Il velivolo è
lungo m 11,78, ha un’altezza massima di m 4,42, apertura alare di 9 metri;
pesa, a vuoto, kg 4300. È equipaggiato con due turbogetti General Electric GE J 85/13 che forniscono una spinta totale al decollo di 8.160 libbre;
raggiunge una velocità massima di Mach 0,96”11.
9
10
11
Rivista Pirelli, Febbraio 1962, p. 19.
G. Gabrielli, La presenza dell’Italia con il G95/6 nel concorso internazionale per aeroplani a
decollo e atterramento verticale e corto, a cura del Banco di Roma, 1962.
Rivista Pirelli, Gennaio-Febbraio 1967, p. 30.
FORZE ARMATE
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UN PUNTO DI VISTA
SULL’EVOLUZIONE
DELLA GUERRA
di Michele Melchionna
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
a storia dell’umanità è fatta di ostilità, combattimenti, guerre. Il
mondo continua ad essere percorso da conflitti1 al punto che l’uomo sembra incapace di trovare un modo pacifico di vivere. La stessa evoluzione del genere umano si sviluppa collateralmente a quella della guerra. Si tratta di due linee evolutive che spesso, nei periodi più tristi,
tendono a intersecarsi inesorabilmente. Da questo punto di vista, la guerra non è mai scomparsa, forse è solo mutata nelle sue forme col passare
del tempo. Eppure, tornando indietro di qualche decennio, verso la fine
del secolo scorso, l’anno
1989 ha segnato le sorti
di una guerra mai iniziata, ma vinta, alla fine, dal
mondo occidentale (modello capitalistico) sul
blocco sovietico (socialismo reale). Si è quindi
creduto di poter vivere
in un mondo nuovo, senza minacce. Tuttavia,
l’euforia iniziale è immediatamente svanita con
le macerie di tale guerra,
come si evince dallo
smembramento dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. Ciò ha influito sino al punto che si
è rimpianta la rigida architettura bipolare che
aveva garantito un periodo di pace eccezionalmente lungo. Inoltre,
l’11 settembre del 2001,
giorno dell’attacco alle
Torri Gemelle del World
Trade Center di New York,
L
1
Afghanistan - Militari italiani e soldati dell'Afghan National Army (ANA)
Per ragioni di chiarezza/semplicità, nel presente testo i termini “guerra” e “conflitto” verranno utilizzati nella medesima
accezione.
FORZE ARMATE
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Afghanistan - Pattugliamento appiedato presso un villaggio
il mondo intero ha subito un forte shock, di rara intensità. In seguito,
l’ondata dei conflitti non si è arrestata: le diverse crisi regionali, la proliferazione di estremismi integralisti in Medio Oriente, l’instabilità nei
Paesi Africani2, la cosiddetta Primavera Araba3, nonché la rinascita di nazionalismi strumentalizzati per espansioni territoriali4 sono solo alcuni
esempi di ostilità che hanno caratterizzato gli ultimi tempi, rischiando di
destabilizzare l’ordine mondiale. Sembra quasi che la guerra, ricomparsa, abbia risvegliato antiche passioni, proprio quando si era accarezzata5
la speranza di vivere in un mondo ormai pacifico, libero dal flagello della
guerra e dal suo seguito di orrori.
2
3
4
5
34
Il traffico di esseri umani, con i discendenti fenomeni migratori attraverso il Mediterraneo, rappresenta uno degli esiti più evidenti di questa instabilità.
Le rivoluzioni e l’ondata di proteste che hanno attraversato i regimi arabi, in particolar modo,
nel corso del 2011.
La recente situazione in Ucraina, con particolare riferimento al caso della Crimea, che è stata
annessa dopo un referendum alla Russia.
Cfr. Kant, Emmanuel: Verso una pace perpetua, trad. da Jean-François Poirier e da Françoise
Proust, Flammarion, Parigi, 1991.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Afghanistan - Key Leader Engagement
Quindi, cosa ha contribuito a modificare il concetto di guerra? Continuerà la guerra ad essere una costante della nostra vita? In tal caso, quali potrebbero essere le strategie da adottare, almeno per contenerla? Per rispondere a questi interrogativi, si analizzerà in primo luogo il mutato quadro geopolitico di riferimento, osservando poi le incidenze del progresso
tecnologico e il ruolo giocato dai media nell’evoluzione della guerra; si
fornirà altresì una prospettiva dell’ambiente operativo e delle nuove forme di minaccia (guerra asimmetrica, terrorismo) nonché della rottura presunta - tra Oriente ed Occidente; si concluderà quindi l’analisi evidenziando come la guerra non sia, di fatto, mai scomparsa e che potrebbero
esistere delle condizioni per contrastarla.
IL MUTATO QUADRO GEOPOLITICO E GIURIDICO DI RIFERIMENTO
Prima di tutto si osserverà, in maniera obiettiva, che il quadro geopolitico
di riferimento è mutato e si caratterizza ora per un’elevata dinamicità degli elementi sociali, culturali e giuridici, sui quali poggia il sistema delle
relazioni internazionali. Esiste infatti una sola superpotenza mondiale
con il suo modello economico (il libero mercato) e politico (la democrazia), la quale esercita una supremazia che non ha mai conosciuto eguali in
ambito militare. Tuttavia, a livello globale, gli equilibri stanno cambiando,
oltre per la riemergente Russia, anche per l’ascesa di nuove potenze (Ci-
FORZE ARMATE
35
Afghanistan - Elicottero da trasporto medio CH-47C. Trasporto di un mine roller
na, India, Brasile). Al momento questi attori non manifestano esplicitamente volontà egemoniche, se non in casi specifici, che in genere risultano però riferiti ad una dimensione essenzialmente regionale.
Inoltre, la crisi relativa al modello westfaliano 6 dei rapporti tra gli Stati
nonché il più esteso potere di talune entità transnazionali quali l’ONU, la
NATO, l’Unione Europea, ed il Fondo Monetario Internazionale - che si
sono appropriate di parte dei poteri che sono da sempre prerogativa na-
6
36
Lo “Stato westfaliano” era inteso come il soggetto per antonomasia delle relazioni internazionali: aveva la piena sovranità sul suo territorio e sulla sua popolazione (ovvero, nessun altro ente
giuridico, ad esempio un’organizzazione internazionale, poteva esercitare forme di sovranità
sullo Stato).
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
zionale7 - mettono in evidenza che il comune cittadino si identifica in misura molto minore con i valori tradizionali di una Nazione, quali la patria
e la bandiera. Oltre a ciò, ha ormai preso piede l’idea di un intervento
umanitario al di sopra delle frontiere nazionali e del diritto di ingerenza
negli Stati in presenza di evidenti violazioni dei diritti fondamentali8. Per
la prima volta nella storia si è assistito alla nascita di organismi quali la
Corte Penale Internazionale ed il Tribunale Penale Internazionale per i
crimini commessi nella ex-Jugoslavia, con sede all’Aia (Paesi Bassi). Detti
organismi, de facto, hanno tolto allo Stato parte del potere che questo esercitava sui propri soggetti. Sempre per la prima volta si afferma che - come
riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948 “gli individui (non soltanto gli Stati) sono sottoposti al sistema internazionale”, come se si volesse riprendere il pensiero formulato da Kant due secoli fa in merito all’ideale di diritto cosmopolita e di cittadinanza universale. E ancora, relativamente alla recente crisi in Ucraina, con particolare
riferimento al referendum del 16 marzo 2014 - che avrebbe sancito la volontà della Crimea di essere annessa alla Russia - si è assistito in maniera
sbalorditiva ad un evento inaspettato, che ha inciso anche nel quadro giuridico. Al riguardo, alcuni esperti di diritto internazionale hanno fatto un
po’ fatica a dichiarare l’illegittimità di questo evento, ancorché ci sia stata
un’evidente deterrenza/forzatura russa9, palesatasi in Crimea con l’immissione di truppe, l’invasione dello spazio aereo, il rafforzamento della
presenza di unità navali nei porti e nel Mar Nero. Quantunque non esistessero i presupposti del principio di autodeterminazione dei popoli
(non c’era un regime coloniale né una minoranza oppressa), si è trattato
di un chiaro “pronunciamento” di una etnia ben definita, quella russa. Ed
anche se, dal punto di vista politico occidentale, il “non gradimento” di
quanto accaduto porterebbe a considerare l’evento illegittimo, sembra
proprio il caso in cui il Diritto Internazionale, ancora una volta, sia stato
derivato, ovvero condizionato, dalle motivazioni politiche delle Parti in
causa. Oppure, il “costume secondo il diritto delle genti”, che già Clause-
7
8
9
Habermas definisce la “costellazione post-nazionale” come la logica ed inevitabile conseguenza
di un processo di disgregazione delle tradizionali forme di Stato e di Nazione. Si riferisce ad una
sorta di nuova forma di politica né accentrata né gerarchizzata che, tuttavia, funziona grazie alle
interazioni tra diversi livelli (intra-nazionali, nazionali e transnazionali). Cfr. Habermas, Jürgen: Die Postnationale Konstellation, Suhrkamp, Frankfurt, 1996, p. 135.
È noto che, nella carta ONU (art. 2 § 4), il divieto di ricorrere alla forza prevede due sole eccezioni: il ricorso alla forza da parte del Consiglio di Sicurezza al fine di mantenere la pace e
di garantire la Sicurezza Internazionale (Capitolo VII della Carta) ed il “diritto naturale” di
legittima difesa, riconosciuto agli Stati qualora siano oggetto di un’aggressione armata (art.
51 della Carta).
In realtà la presenza russa è sempre stata rilevante nell’Area.
FORZE ARMATE
37
witz citava - con una chiara allusione al diritto internazionale - comporta
solo una limitazione irrilevante all’uso della violenza, appena degna di
menzione10.
Come si vede, molte sono le variabili che condizionano il quadro geopolitico di riferimento; come si avrà modo di vedere nei paragrafi seguenti, altri fattori entrano in gioco nell’evoluzione del concetto di guerra.
LE INCIDENZE DEL PROGRESSO TECNOLOGICO E L’INFLUENZA DEI MEDIA
Negli ultimi anni, il progresso tecnologico ha subito un’accelerazione
esponenziale che consente di immaginare una forma di guerra diversa,
pressoché fantascientifica, fatta quasi esclusivamente da macchine. Oggi
si parla di gestione dell’intelligence come dell’elemento-chiave di un conflitto (Toffler11 individua, da questa angolazione, la causa di una nuova Rivoluzione degli Affari Militari), di satelliti e di veicoli senza
equipaggio/Unmanned Aerial Vehicle (UAV)12, dotati di avanzate capacità
Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance (ISTAR), in
grado di condurre per prolungati periodi tempo e a notevole distanza, anche in aree contaminate e pericolose, attività di sorveglianza, ricognizione aerea e supporto al combattimento. Si tratta di uno degli aspetti ovvero
un’implementazione di una macro capacità derivante dal progetto della
Forza Network Enabled Capabilities (NEC). Con tale iniziativa si intende digitalizzare i principali mezzi, sistemi e componenti di una unità13 ed i relativi supporti, sfruttando le capacità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ciò allo scopo di collegare, in maniera diretta e immediata, ogni singolo soldato con il centro decisionale. Ed
ancora, si parla della capacità di sferrare attacchi chirurgici, soprattutto
con le più moderne Forze aeree, ma anche con le artiglierie più sofisticate - con una maggiore efficacia del tiro - tenendo l’uomo lontano dal campo di battaglia; della possibilità di paralizzare i centri di comando e controllo del nemico, semplicemente ad opera di una neutralizzazione elettronica e non più fisica.
Inoltre, la presenza dei media nelle diverse operazioni militari costringe a
prendere in considerazione l’aspetto mediatico quale elemento cruciale
di un’operazione militare, al punto tale che la ricerca del consenso interno, e non soltanto esterno, diviene il primo compito da assolvere. A tale
proposito, si può anche considerare l’aspetto psicologico dei media come
10
11
12
13
38
Cfr. Carl von Clausewitz, Della Guerra (nuova edizione a cura di Gian Enrico Rusconi), Einaudi
tascabili, Torino, p.18.
Toffler, Alvin e Heidi: War and Anti-War: Survival at the Dawn of the 21st Century, Little, Brown
and Company, New York, 1993, p. 32.
Ovvero Aeromobili a Pilotaggio Remoto (APR) o droni.
Al momento, di livello Brigata (media).
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Afghanistan - Bambini ricevono aiuti umanitari da un militare italiano
un insieme di tecniche che mirano ad utilizzare l’informazione quale
strumento per confondere, dissuadere, ingannare o persuadere l’opinione pubblica. Secondo Panebianco14, se “la leadership politica non è forte,
sarà costretta, al fine di avere sostegno per le decisioni prese, a basarsi sulla ricerca di consensi, piuttosto che a suscitarli”. Al riguardo, occorre tenere presente anche il fattore che reca il nome di “CNN politics” che, eliminando l’aspetto esclusivo dell’intelligence, con la condivisione immediata di quasi tutte le informazioni - un tempo detenute solo dai governanti sovverte la razionalità delle scelte politico-strategiche. Detto fenomeno dà
luogo alla scomparsa della frontiera che separa la politica interna da quella estera, comportando il rischio di subordinare la seconda alla prima. Al
riguardo, Panebianco afferma che “le democrazie richiedono, tra i propri
soldati, un numero di morti esiguo e risultati in breve tempo”15.
14
15
Panebianco, Angelo: Democrazie in guerra in: Il Mulino, vol. 48, n° 382, Bologna, 1999, p. 211-220.
Ibid..
FORZE ARMATE
39
Afghanistan - Avamposto italiano con VTLM LINCE
Tutti gli aspetti sopra evocati contribuiscono a formulare un nuovo concetto della guerra, che Luttwak ha definito “post-eroica”16 o “a zero morti”: un tipo di guerra condotta da un numero limitato di professionisti, di
personale specializzato, con una popolazione spettatrice non reclutata e
lontana dalle tragiche conseguenze. Detto tipo di guerra presenta un
sempre maggior numero di nuove/particolari caratteristiche nonché una
suddivisione in diverse tipologie (guerra psicologica17, cyberwar 18, etc.)
16
17
18
40
Luttwak, Edward: A Post-heroic Military Policy: the new season of bellicosity, in : Foreign Affairs, vol. 75,
n° 4, New York, 1996, p. 33-44.
In tale ambito, si potrebbe inserire anche la cosiddetta “guerra di parole”, citata più volte nei
comunicati della BBC e di altre importati piattaforme giornalistiche in occasione della retorica accusatoria fra USA/potenze europee nei confronti della Russia e viceversa, nel contesto
degli scontri civili nell’est dell’Ucraina (primavera 2014).
Termine che indica diverse metodologie di guerra caratterizzate dall’uso di tecnologie informatiche, elettroniche e di telecomunicazione.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
L’AMBIENTE OPERATIVO E LE NUOVE FORME DI MINACCIA
(GUERRA ASIMMETRICA E TERRORISMO)
Nello scenario geopolitico contemporaneo, quando si deve analizzare
una minaccia, non si può prescindere dal considerare l’ambiente operativo in cui essa si manifesta e in cui le operazioni militari si svilupperanno.
Tale ambiente può essere definito come parte del dominio di ingaggio19
e, in quanto tale, composto dall’interconnessione, in varia misura, di fattori politici, militari, economici, sociali, informativi, infrastrutturali e,
non da ultimo, quelli culturali; questi sono gli elementi imprescindibili di
valutazione nell’approccio alla condotta di campagne/operazioni militari.
All’interno di questo ambiente, altamente diversificato per tipologie di
componenti che devono essere tenute in considerazione, si è compreso
come la precedente concezione che contemplava esclusivamente tre
grandi condizioni di riferimento (pace-crisi-guerra) sia stata superata e, di
contro, ci sia un nuovo ventaglio più ampio di situazioni che rappresentano al meglio le diverse sfumature degli attuali scenari operativi. Questo
ventaglio di opzioni è meglio conosciuto sotto il nome di temi predominanti della campagna20, che si identificano come: combattimento classico,
sicurezza, sostegno alla pace e attività militari in tempo di pace21. Tuttavia,
la categorizzazione di un’operazione militare non deve essere interpretata in senso rigido, ma la possibilità di passare da un tema predominante
ad un altro deve essere consentita in ogni momento della condotta dell’operazione stessa sulla base delle valutazioni fatte dal comandante, in
funzione dei mutamenti dell’ambiente operativo. Da questa riflessione
emerge l’importanza, già a partire dal livello strategico-militare, di definire il tema della campagna entro cui verranno condotte le operazioni militari.
Questa serie di valutazioni è imprescindibile in un contesto contemporaneo in cui gli attuali ambienti operativi comprendono una serie di minacce e rischi sempre più diversificati e imprevedibili. In merito, gli attuali
studi militari convergono nel considerare che con sempre maggior probabilità ci si dovrà confrontare con elementi armati appartenenti ad organizzazioni non-statuali, che agiscono in maniera poco prevedibile. In tale
quadro, possono iscriversi gli attentati dell’11 settembre, che hanno pale-
19
20
21
“Porzione interconnessa di ambiente di riferimento, direttamente interessato dalla crisi”,
PID/S-1, La Dottrina Militare Italiana, ed. 2011.
Ibidem pp. 60-63.
L’individuazione di uno di questi temi è fondamentale in sede di pianificazione per ponderare l’impiego dello strumento militare nell’operazione o campagna che si vuole affrontare.
FORZE ARMATE
41
sato la possibilità, per attori che disponevano di scarsi mezzi militari e tecnici, di nuocere, provocando danni irreparabili contro la prima potenza
mondiale. Si tratta di un esempio di guerra asimmetrica nell’ambito della
quale si rifiutano le regole del gioco imposte dall’avversario, rendendo così del tutto improvvise le operazioni. Ciò presuppone, nel contempo, l’utilizzo di forze imprevedibili (come i civili)22, contro le quali i mezzi di difesa non risultano appropriati (persino le armi di distruzione di massa23),
l’uso di metodi che ricusano la guerra convenzionale nonché di inattesi
luoghi di scontro24 con ricerca dell’effetto-sorpresa25. Tra i metodi summenzionati possiamo includere il terrorismo, in particolare il terrorismo
internazionale. Si tratta di una variabile che entra in gioco nel difficile
momento successivo alla guerra fredda che non vede ancora ben definito
il sistema internazionale. Secondo Bonanate, “quasi mai i movimenti terroristici hanno considerato le proprie attività come il preciso e mirato scopo della lotta. In effetti, gli stessi ritengono che la loro azione abbia il
compito precipuo di sovvertire una situazione altrimenti impossibile da
modificare (…)”26. In altri termini, il terrorista vuole “appiccare il fuoco”,
esercitando una pressione contro alcuni Stati. Lo scopo non è quello di
vincerli né di conquistarli, ma di indurli ad adottare tale o tal altro comportamento, provocando morti, panico e confusione. Occultato dall’apparenza ideologica o religiosa, il terrorismo ci rammenta che non abbiamo fatto abbastanza per contrastare violenza ed ingiustizie, nonostante la
strada fosse già stata intrapresa dalla democrazia27.
In tale ambito, emerge anche il concetto di Hybrid Threat 28 che, riprendendo i concetti espressi nelle definizioni proposte sia dagli Stati Uniti
22
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25
26
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42
Le ultime crisi hanno dimostrato il ruolo fondamentale della popolazione civile. Per questo motivo, il successo delle operazioni di risposta alle crisi dipende soprattutto da un’accurata pianificazione delle attività “post-conflitto” che mirano ad ottenere il consenso della popolazione civile. Cfr. Linds, Willam S. and Nightengale Col. Keith: The changing face of War: into the fourth generation, in: Marine Corps Gazette, Oct./1989, pp.22-26.
De facto, la politica di dissuasione nucleare sembra aver perso molta importanza. Nonostante
detta riflessione, non si può escludere la strategia nucleare: basti solo immaginare quali conseguenze potrebbe avere il possesso, da parte dei terroristi, di armi nucleari.
Gli spazi ristretti, i contesti urbani si stanno sempre più sostituendo ai grandi campi di battaglia del passato.
“L’asimmetria può essere assimilata all’arma dei poveri”. Boniface, Pascal (Direttore dell’Istituto per le Ricerche Internazionali e Strategiche di Parigi): Les guerres de demain, Ed. Du Seuil,
Paris, 2001, p.150.
Bonanate, Luigi: Terrorismo Internazionale, Giunti, Firenze, 2001, pp. 20-21.
Secondo Amarya Sen (Premio Nobel per l’Economia nel 1998), la democrazia tutela il popolo dall’abuso di potere e riveste un “ruolo costruttivo nel promuovere lo sviluppo”.
“is the diverse and dynamic combination of regular forces, irregular forces, and/or criminal elements all
unified to achieve mutually benefitting effects” U.S. ARMY , TC 7-100 . Oppure secondo la NATO:
“Hybrid threats are those posed by adversaries, with the ability to simultaneously employ conventional
and non conventional means adaptively in pursuit of their objective” NATO IMSM-0292-2010.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Afghanistan - Advance Combat Reconnaissance Team (ACRT)
che dalla NATO, sostanzialmente postula la presenza di un avversario (di
mutevole matrice come organizzazioni criminali, gruppi paramilitari, terroristici etc.), che si contrappone alle volontà dell’Alleanza e che per far
ciò utilizza tutti i mezzi e le conoscenze a sua disposizione, convenzionali
e non, per ottenere gli effetti desiderati.
Tra le forme di minaccia più conosciute, è d’obbligo citare quella che negli ultimi anni ha maggiormente attirato l’attenzione degli osservatori internazionali e cioè la presenza del gruppo terroristico di al-Qaeda in Afghanistan. Questo gruppo rispecchia chiaramente i tratti della minaccia
ibrida sopra definita, poiché si confronta in modo asimmetrico contro le
forze delle coalizione e privilegia come mezzo di offesa l’utilizzo degli
sfortunatamente famosi IED (Improvised Explosive Device), ossia dei congegni non convenzionali diretti a colpire le forze contrapposte non solo nel
loro dominio fisico, ma soprattutto in quello morale.
Approfondendo la natura asimmetrica intrinseca alla minaccia IED emergono alcune caratteristiche peculiari che la contraddistinguono e cioè:
- la difficoltà nella chiara individuazione dell’avversario (al-Qaeda o insurgents) poiché si confonde facilmente con la popolazione locale;
- una matrice culturale molto differente da quella occidentale e quindi
le azioni perpetrate contro le forze della coalizione hanno un’impostazione molto difficile da valutare in termini di prevenzione, poiché
FORZE ARMATE
43
Afghanistan - Militare italiano con bambino
muovono senza tenere conto di vincoli quali il Diritto Internazionale
dei conflitti armati o di qualsivoglia altra limitazione;
- utilizzo di componenti quanto più diversificati e di facile approvvigionamento (come fertilizzanti o componenti elettroniche molto diffuse)
con le quali sperimentare e realizzare ordigni sempre più complessi e
devastanti in termini di effetti.
Tutto ciò ha fatto comprendere che, così come nell’ambiente operativo
l’approccio alle operazioni deve essere improntato in senso olistico (il cosiddetto “Approccio Nazionale Multidimensionale”) - per stimolare la
cooperazione e la condivisione di capacità29- anche il contrasto e la sconfitta di una minaccia di siffatta complessità deve essere sviluppata in senso
sistemico (lavorando come network) ossia integrando e sincronizzando tut-
29
44
In tal senso, si parla anche di smart defense in ambito NATO ovvero di pooling & sharing nel quadro dell’Unione Europa. Filosofie queste che si basano per l’appunto sullo sviluppo comune di
capacità – specialmente quelle pregiate – e sulla loro messa in condivisione, al fine di colmare le
lacune endemiche dei membri delle due organizzazioni.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
te le azioni che vengono condotte dai vari strumenti di potere30, che intervengono nel dominio di ingaggio.
LA “ROTTURA” TRA ORIENTE ED OCCIDENTE
Negli ambienti occidentali, così come in quelli caratterizzati dal fanatismo
islamico, si torna a lanciare un’idea di “guerra santa” per forgiare l’identità di una Nazione. Secondo detta idea, si giunge a dividere il mondo in
diversi blocchi su una base non più ideologica, ma culturale. É l’approccio di Huntington31 che, nello “Scontro delle civiltà”, scrive: “In questo
mondo nuovo, i conflitti più vasti, più importanti e più pericolosi non
avranno luogo tra classi sociali, tra ricchi e poveri, tra gruppi definiti da
criteri economici, ma tra popoli appartenenti a diverse entità culturali
(...). La violenza tra gli Stati ed i gruppi appartenenti a diverse civiltà comporta un rischio di escalation qualora altri Stati o gruppi appartenenti a
dette civiltà si mettano a sostenere i propri “fratelli”.
È indubbio che l’opposizione più forte si colloca tra la civiltà occidentale
(che ha gli USA come guida) da un canto, e le civiltà islamica (per il momento senza uno Stato-guida) e confuciana (la quale ha come Stato-guida
la Cina) dall’altro. L’autore ritiene soprattutto che la civiltà occidentale
manterrà, sul piano mondiale, la propria egemonia ancora per molti anni. La stessa dovrà soltanto entrare in collisione con il mondo islamico (in
espansione dal punto di vista demografico e particolarmente dedito alla
violenza) e con la civiltà confuciana (in espansione sul piano demografico
ed economico). Questi ultimi tenteranno di reagire contro il tentativo di
mondializzazione dei valori occidentali fondamentali e, nel contempo, accresceranno la propria potenza militare ed economica. È, questa, una teoria che, per quanto condivisibile, non sempre spiega tutte le ragioni della
presenza dei conflitti.
VERSO UNA CONCLUSIONE
Dopo anni di silenzio, ecco che la guerra, nelle sue diverse forme, è tornata a bussare alla nostra porta, coinvolgendo e turbando lo spirito degli
uomini. In questa epoca di mondializzazione e globalizzazione non esistono certezze assolute, neanche per i più potenti. Ahimè, la guerra non
è scomparsa dal paesaggio! È tornata, come un camaleonte che cambia
colore, adattandosi ad ogni nuovo ambiente 32 . Già l’implosione del-
30
31
32
Cap. 2, PID/S-1, La Dottrina Militare Italiana, ed. 2011.
Huntington, Samuel P.: Le choc des civilisations, Odile, Jacob, Paris, 2007, p.20.
‘‘La minaccia è in grado di adattarsi e di passare da un tipo di lotta all’altro fino a quando non
avrà esaurito la le opzioni a propria disposizione oppure la volontà di continuare a combattere’’. Cfr. Pubblicazione 13/A/1 - Le attività addestrative e di approntamento dei Comandi e
delle unità dell’Esercito”, Stato Maggiore dell’Esercito, Ed. 2011.
FORZE ARMATE
45
l’URSS aveva dimostrato che il conflitto tra Oriente ed Occidente non
poteva, da solo, spiegare le tensioni. Tuttavia, la volontà delle grandi potenze di non avere rivali è ormai una costante geopolitica; occorre comunque aggiungere che il processo costitutivo del nuovo sistema internazionale non è ancora giunto al termine: come si è visto, nuove entità
stanno emergendo facendo appello a mezzi diversi. È il caso di organizzazioni quali al-Qaeda, che utilizza il terrorismo allo scopo di guadagnare il
proprio posto sulla scena internazionale. “Quando la situazione - dichiara Baudrillard - è dunque monopolizzata dalla potenza mondiale (…),
quale altra via è possibile se non una trasposizione della situazione in
chiave terroristica?”. È il sistema stesso che ha ingenerato le condizioni
obiettive di tale brutale ritorsione”33.
Ciononostante, come si può contrastare la strategia di un avversario invulnerabile che utilizza il proprio sacrificio come un’arma? Il miglioramento
delle condizioni di vita nei diversi angoli del pianeta potrebbe rappresentare una soluzione per privare i terroristi dell’acqua in cui possono nuotare”34. Quindi, se si concepisce l’economia come il fenomeno di una minoranza di persone, si riduce lo spazio del controllo democratico, dimostrando la netta contraddizione tra globalizzati e globalizzatori. Senza fare
appello ad inutili pretesti, come l’Asse del Male o lo scontro delle civiltà,
la “condizionalità democratica”35 potrebbe rappresentare un’efficace strategia di azione verso l’instaurarsi di una comunità planetaria pacifica, fondata su principi di responsabilità e condivisione.
Alla luce di ciò, non possiamo accontentarci di osservare la guerra dal nostro balcone. La crisi davanti la porta - ovvero ai margini dell’area di interesse nazionale - attraverserà velocemente la fragile soglia che ad essa ci separa. Non c’è altra soluzione che andare al suo contatto, prima di tutto per
contenerla, successivamente per ridurla, infine per sradicare le radici della
violenza. Ecco perché bisogna interessarsi delle conflittualità - nelle diverse forme che assumono, non per rivendicare aspirazioni guerrafondaie,
tutt’altro, per essere capaci di realizzare le missioni al servizio degli intendimenti politici36. Pertanto, solo un’attività politica ed economica intelligente potrà ridurre i disordini che offuscano – come nuvole – il nostro
33
34
35
36
46
Baudrillard, Jean: L’esprit du terrorisme, Le Monde, 03 11 01.
Bonanate, Luigi: op.cit., 2001, p.183.
Tendenza dei Paesi democratici a condizionare la concessione di aiuti economici ai Paesi in
via di sviluppo per l’impegno di questi ultimi a realizzare riforme politiche secondo linee di
democratizzazione e di rispetto per i diritti fondamentali dell’uomo. Cf. Coralluzzo, Valter:
Globalizzazione o frammentazione? Fascicolo distribuito agli Ufficiali tirocinanti durante il Master in Strategia – Scuola di Applicazioni dell’Esercito italiano – Torino, 2003.
Tra l’altro, secondo Clausewitz (op. citata) non può esservi nessuna guerra se non è chiaro a
priori il fine strategico, e quindi politico, per cui essa viene intrapresa e combattuta.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Afghanistan - Bersaglieri in attività di pattugliamento nel distretto di Bakwa
orizzonte. Detta attività dovrà essere realizzata per mano di leader che presentino nuove e specifiche attitudini e che siano in grado di trovare una terapia sociale ed una cultura della tolleranza, procedendo ad una esportazione e non ad una imposizione della democrazia. Tutto ciò, anche se – sino ad oggi – la decisione di portare avanti una guerra è stata considerata il
criterio prioritario per una valutazione della leadership di una Nazione37.
Al fine di realizzare tutto ciò, occorrerà una grande dose di coraggio38 per
dialogare con i nuovi attori della scena internazionale, contrastando la rapida ascesa e trasformazione delle crisi in guerra, giacché “la guerra è come il fuoco e, se non viene fermata, consumerà se stessa”39, con il rischio
di un’autodistruzione!
37
38
39
Cfr. Woodward, Bob (autore liberale del Washington Post, noto, insieme a Carl Bernstein, per aver
portato alla luce lo scandalo del Watergate): La guerra di Bush, Sperling & Kupfer Ed., Milano, 2002.
“La felicità scaturisce dalla libertà e la libertà dal coraggio”. Cfr. Discorso di Pericle agli Ateniesi (461 a.c.) Thucydide, Storie, II, pp. 34-36.
Cfr. Sun Tzu: L’arte della guerra (a cura di Thomas Cleary), Ubaldini Editore, Roma, 1999, p. 58.
FORZE ARMATE
47
LA NARRATIVA
A PREMESSA DELLO SVILUPPO
DI UN’OPERAZIONE
di Marco Stoccuto
48
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
necessario affidarsi ad una narrativa ben tratteggiata per creare
ordine dal caos. Tuttavia in un momento così complesso come quello attuale, il vecchio approccio alla narrativa non è sufficiente a
spiegare la realtà, o ad aiutarci a delineare il futuro.
In un mondo interconnesso e interdipendente, è necessario capire tanto le storie
altrui tanto quanto le nostre. Ecco perché emerge la necessità di Narrative Strategiche, storie cioè in grado di spiegare come vogliamo realizzare il futuro nel modo che gli altri vorrebbero sentirselo raccontare”
(Amy Zalman1).
“È
INTRODUZIONE
L’idea di condurre le Operazioni sotto la direzione univoca di una singola linea narrativa, che ne delinei lo sviluppo, seppur rappresenti ancora un concetto dottrinale non sufficientemente ampliato e consolidato, espone un’area di discussione controversa, benché in fase di sempre maggior consolidamento concettuale.
La complessità dell’attuale ambiente operativo è il risultato della convergenza di molteplici fattori associati alla globalizzazione delle informazioni, e alla loro diffusa conoscenza, oltre che a una maggior consapevolezza
delle differenze culturali.
Questa complessità consente, tra l’altro, la
copresenza di un ampio spettro di attori in
grado di influenzare, partecipare e a loro
volta essere oggetto d’influenza sia nelle fasi
attive di un conflitto, sia nelle fasi antecedenti o susseguenti lo stesso. Le forze regolari, che si trovano a essere impiegate in opera-
1
Esperta di comunicazione strategica, la Dr. Zalman per
oltre un decennio ha approfondito questi aspetti nell’ambiente degli esperti di politica estera, militare e della
comunità dell’intelligence americano, conducendo ricerca e sviluppo mirati a creare un approccio di “soft power” nell’ambito della politica estera americana. Attualmente lavora quale ricercatrice e consulente presso il National War College US Army ed è membro del Council
for Emerging National Security Affairs (CENSA).
ANALISI E PIANIFICAZIONE
49
Narrativa di ISAF
zioni di gestione delle crisi o di stabilizzazione, devono confrontarsi con
un complesso insieme di elementi rappresentato da: forze irregolari; antagonisti asimmetrici; attori politici; organizzazioni criminali; organizzazioni governative e non; rappresentanti dei media e, non da ultimo, la popolazione civile.
Inoltre l’impiego della componente militare in aree sempre più popolate,
condotto da unità sempre più piccole operanti a livello tattico, implica rilevanti effetti strategici.
L’impressionante sviluppo tecnologico dell’ultimo decennio, ha consentito una condivisione delle informazioni attraverso internet e vari social
media, tale da comprimere i concetti di spazio e tempo con un impatto
sconcertante sul settore delle odierne operazioni militari. I confini tra il
livello tattico, operativo e strategico si sono sfumati, confondendosi l’uno
nell’altro.
50
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Incontro con gli anziani nei villaggi
Ogni evento di livello tattico fornisce agli oppositori politici, così come ai
media, l’opportunità di amplificarne gli effetti per caratterizzare, in positivo così come in negativo qualora sfruttati a supporto di una specifica linea narrativa, l’intera campagna.
Ecco perché le sfide alla nuova politica di sicurezza che contraddistinguono i moderni conflitti, divenuti nello stesso tempo sfide alla sicurezza globale, hanno indotto tra le altre cose lo sviluppo di una narrativa diretta
dal livello strategico, in grado di coordinare e porre l’accento sui rispettivi
ruoli a tutti i livelli.
Trattandosi di un concetto ancora relativamente nuovo, l’importanza e la
consapevolezza di una narrativa capace di gestire le informazioni durante
le crisi, nonché durante le operazioni di counterinsurgency, di sicurezza e di
stabilizzazione ancora non hanno tuttavia modificato le modalità concettuali con cui le operazioni militari sono pianificate e condotte.
CHE COSA SI INTENDE PER NARRATIVA?
Noi viviamo in un ambiente immerso e integrato in un sistema di narrative – quelle storie cioè che raccontano chi siamo, da dove veniamo, quali
relazioni ci collegano con gli altri e verso cosa tendiamo e aspiriamo per il
ANALISI E PIANIFICAZIONE
51
nostro futuro. Come possiamo definire il concetto di Narrativa? Partiamo
dalla definizione data dal Dizionario Treccani della lingua italiana in cui
la Narrativa, oltre che un genere letterario, è definito come: “Una novella,
un racconto, un romanzo ove fatti storici, reali o immaginari e fantastici sono esposti ordinatamente”.
Dal punto di vista militare troviamo a tutt’oggi quest’unica definizione
che ci proviene dal US Army Field Manual 3-24, Counterinsurgency, in cui la
Narrativa viene citata come: “ uno schema organizzativo espresso sotto forma di
storia, racconto in grado di assolvere una serie di funzioni quali: incanalare le
ideologie; esprimere un senso di identità collettiva; fornire una spiegazione per la
condotta di certe azioni ed aiutare ad interpretarne altre”. In particolare essa è
rappresentata da un racconto in grado di collegare un’identità, le cause e
l’intendimento attorno al quale un governo, la popolazione e le Forze armate possano unificarsi. Deve essere convincente, trasparente, adattabile
all’evolversi della situazione ma soprattutto attrattiva2.
Ancora, come citato da Michel Vlahos3: “la Narrativa è l’insieme di quelle storie che devono aiutare la popolazione civile a comprendere il senso dell’impegno militare; ciò che sta alla base di ogni Strategia, e soprattutto su quali basi politiche e
retoriche essa si fonda”. Generalmente, tuttavia, anche tra gli addetti ai lavori
molti preferiscono utilizzare il concetto di Narrativa parimenti all’accezione che viene ad esso attribuita dagli storici: ovverossia un’interpretazione
ordinata di eventi trascorsi, oppure un metodo per comparare racconti
diversi e talvolta non conformi tra loro. In tal senso Narrativa diviene un
sinonimo di “Racconto” ovvero di “Versione degli Eventi”.
Infine a livello tattico laddove si parla di Narrativa essa si confonde con
quelle linee guida fornite per ingaggiare i Media; argomenti ovvero da
evitare in quanto troppo sensibili. In tale raffigurazione concettuale sussiste poi la convinzione che essa debba essere espressa con frasi sintetiche,
semplici, inquadrate in affermazioni assertive di futuri intendimenti.
Il problema non si colloca tuttavia in ciò che viene detto, ma in ciò che
l’Audience sente o ancor meglio vuole sentire. Una Narrativa è la risultanza
del rapporto unico e biunivoco che si viene a creare tra il narratore e
l’ascoltatore. Ciò che conta è l’insieme di ciò che viene detto e di come
viene ascoltato o percepito. È l’interazione tra due esperienze soggettive
che devono trovare un’area comune di comprensione condivisa, poiché
tale storia non apparterrà mai completamente né a coloro che la raccontano né a coloro che l’ascoltano.
2
3
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Professor Paul Cornish: “The US & Counterinsurgency” – International Affairs n. 85 – 2009.
Michael Vlahos è un membro anziano del National Security Assessment Team presso il National
Security Analysis Department (NSAD) alla Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory. Il Dr. Vlahos ha lavorato come antropologo esperto in studi islamici nello sviluppo di concetti culturali d’area ed ha collaborato con il Defense World per lo sviluppo di un concetto di miglior comprensione e risposta operativa ai cambiamenti in corso nel mondo Mussulmano.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Narrativa di ISAF
ANALISI E PIANIFICAZIONE
53
QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DI UNA NARRATIVA?
Innanzitutto una storia deve svilupparsi in un posto ben definito, in un arco temporale delimitato. Spazio e tempo contribuiscono, anzi sono essenziali alla creazione di specifici effetti.
Già mancando anche di uno solo di questi due elementi essa tende a divagare l’attenzione del lettore, al punto che spesso questi non le presta interesse più di tanto. Per rendere una storia appassionante e facilmente ricordabile, essa deve essere contestualizzata nel tempo e nello spazio; in tal
modo potrà essere ricordata e ripetuta; raccontata almeno sempre in parte nella stessa versione; tramandata da persona a persona e di generazione
in generazione.
E nonostante ciò essa sarà comunque, senza eccezione alcuna, il risultato
dell’interpretazione da parte dell’ascoltatore in relazione al suo substrato
culturale e sociale.
Una chiara comprensione di questo sistema – nonché l’abilità di muoverci al suo interno modificandone il corso – rappresenta un elemento
di criticità qualora si cerchi di trovare una soluzione a situazioni complesse4.
Innanzitutto nello sviluppo di un qualunque messaggio partiamo da ciò
che vogliamo dire; poi pensiamo all’ambiente che dovrà recepire il nostro messaggio; quindi pensiamo al modo in cui tale messaggio o racconto sarà accettato o rigettato da quest’ambiente, affinché lo stesso
possa quindi indurre dei cambiamenti comportamentali, oltre che un
interesse particolare tale da trovare eco e ripetizione. Si spera infine
che tali modificazioni comportamentali siano coerenti con quanto ci si
è prefissato.
La Narrativa Strategica5 fa un utilizzo finalizzato degli elementi costituenti una storia al fine di indirizzare i diversi stakeholders a una compartecipazione comune alla soluzione di un problema.
Senza tale linea guida comune diverrebbe difficile per i suddetti stakeholders, trovare un accordo sul significato dei diversi eventi; prendere decisioni coerenti o anche solo innovative, purché finalizzate, quando occorra
indurre una modificazione delle condizioni generali.
Una Narrativa Strategica può essere rappresentata da un documento scritto, ma può anche essere presentata attraverso attività pratiche, linguistiche o semplicemente attraverso simboli facilmente riconoscibili e condivisibili, nel concetto generale di narrativa dei ricettori.
4
5
54
Di Amy Zalman: si trova in Politica Internazionale, Area Medio Orientale, Ricerca e Narrativa,
Sicurezza Nazionale e politca dei moderni conflitti.
Di Lawrence Freedman, professore di studi dei conflitti bellici al King’s College di Londra, 2006.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Distribuzione a Baktia
In linea generale una Narrativa Strategica è caratterizzata almeno dai seguenti quattro elementi:
1. Legittimità. Una Narrativa Strategica deve a buon diritto rappresentare
la realtà di tutti gli stakeholders, inquadrandone elementi ed eventi in un
quadro socio-culturale percepito come credibile.
2. Partecipazione. Una Narrativa Strategica invita a una partecipazione
consapevole tutti quelli che ne sono coinvolti. Chiunque necessita di esserne coinvolto, rappresenta un personaggio della storia con una parte attiva, che gli da inoltre il diritto di prendere decisioni in merito alle azioni
relative alla propria partecipazione.
3. Scelta. Le storie più attrattive sono aperte e offrono una certa varietà e
molteplicità di sviluppi. Sono eccitanti perché consentono discrezionalità
tra ciò che è detto e ciò che ne conseguirà come azioni, non indicandoci
solo il percorso che qualcun altro ha predeterminato per conseguire specifici obiettivi.
4. Limiti. Una buona Narrativa Strategica deve definire dei significati condivisi e delle regole comuni in merito agli atteggiamenti ed ai comporta-
ANALISI E PIANIFICAZIONE
55
menti generali da tenere. Sebbene gli stakeholder debbano essere tutti
coinvolti e partecipi, indicando scelte ed opzioni, non tutte possono venir
accettate, soprattutto laddove non coerenti e significative.
Un “Messaggio” rappresenta il mezzo più tradizionale per veicolare una
comunicazione; ma laddove questo è espresso in alinea o per punti, diviene necessario incorporarlo in una narrativa, cioè in una storia che si sviluppi attraverso l’azione e l’interazione dei suoi attori e personaggi.
L’idea di una Narrativa come mezzo di comunicazione nei confronti di
consumatori, elettori od altre componenti è divenuta sempre più comune. Una Narrativa Strategica, per gli addetti alla comunicazione, è una
forma organizzativa di trasmettere un messaggio, pianificata al fine di
convogliare elementi significativamente strategici in merito all’identità ed
alle intenzioni di colui che trasmette il messaggio in questione.
Essa rappresenta una specie di arma segreta nella battaglia asimmetrica
della comunicazione. Secondo Freedman essa “rappresenta una storia in
grado di collegare emozionalmente la popolazione ad un’identità. Aiuta persone
senza un legame univoco ad unirsi in maniera coesa e le indirizza per tramite di
una singola visione strategica, riconoscendosi in unico obbiettivo”.
Narrativa di ISAF
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Vediamo così come, nella definizione di Freedman, la Narrativa assuma
veramente una funzione strategica nel senso più tradizionale del termine,
in particolare se lo riferiamo alla scienza della guerra: “il concetto di Narrativa (...) apre un’altra opportunità alle operazioni militari. Invece di focalizzarsi
sull’eliminazione degli assetti avversari, ci induce a concentrare gli sforzi sul progressivo indebolimento di quella narrativa avversaria a cui il nemico fa ricorso per
animare ed incoraggiare all’azione i propri attivisti”.
Se invece leggiamo le indicazioni a premessa dello sviluppo della Missione Narrativa di ISAF essa cita:
“La Narrativa Strategica di ISAF dovrà rappresentare un racconto succinto ma
esaustivo della missione nel suo insieme. Essa deve fornire un contesto nel quale si
possano sviluppare le operazioni o la campagna. Deve spiegare le ragioni per le
quali la campagna è stata intrapresa. Deve tendere a motivare e favorire il coordinamento delle diverse azioni aiutando i diversi soggetti a cui si indirizza, a meglio
comprendere come le azioni condotte possono permettere il conseguimento degli obbiettivi prefissati. Infine deve essere in grado di illustrare i benefici che deriveranno
da una conclusione favorevole degli sforzi intrapresi”.
QUALI SONO GLI ELEMENTI CARATTERIZZANTI UNA NARRATIVA?
Il Narratore ed il gruppo obiettivo: coloro a cui è indirizzata la narrazione
interpreteranno la storia sempre secondo i loro parametri di riferimento;
da ciò si può quindi evincere che l’ascoltatore rappresenta contestualmente anche le funzioni di autore. L’interpretazione di una storia è funzione
del livello di condivisione che sussiste a priori della lettura di un testo sotto
i profili culturali, educativi, formativi ed interpretativi comuni. Questi risultano fondamentali laddove l’audience inconsciamente si troverà a rielaborare ed a reinterpretare la storia presentata secondo radici comuni.
La sfida risiede quindi nel cercare di analizzare gli altri senza i condizionamenti derivanti dagli aspetti culturali ed ideologici della visione del mondo con i quali siamo stati formati ed educati a nostra volta. Nella realtà ci
saranno sempre differenti e molteplici Narrative, ma solo una arriverà a
colpire quella componente di ascolto a cui ci indirizziamo, sempreché siamo in grado di accettarne e comprenderne la visione peculiare.
Ambientazione: come già anticipato ogni storia richiede una collocazione
spazio-temporale affinché possa essere ripetuta pressappoco sempre in
egual modo, senza perdere interesse, di generazione in generazione, acquisendo in tal modo un rilevante valore simbolico. Come le fiabe o le storie mitologiche, l’esaltazione di valori morali e virtù sempre attuali, necessitano di personaggi reali in situazioni verosimili, in grado di rinforzare
con le loro azioni valori collettivi ed indicando il modo migliore di agire.
In tal modo è addirittura possibile esaltare valori sociali e norme collettive. Peraltro risulteranno in tal modo facili da ricordare, focalizzando l’attenzione su significati validi nel passato ma ancora attuali e facilmente ricordabili.
ANALISI E PIANIFICAZIONE
57
La Trama: ogni evento che accade in una storia, deve contribuire alla formazione della specifica Narrativa. Già Aristotele indicava le caratteristiche
di una Narrazione come una sequenza che partendo da un’introduzione,
si deve sviluppare in un corpo e concludere dopo aver legato una serie di
eventi sequenzialmente attraverso un filo logico, ma soprattutto che appaiano sempre possibili e plausibili. Ovverosia a prescindere che accadano o
meno, devono sempre apparire come ragionevolmente sviluppabili nello
scenario identificato dall’autore. Inoltre tali eventi devono indurre un
cambiamento nel protagonista, guidandolo ad esempio da uno stato di
ignoranza ad una di consapevolezza, magari attraverso eventi drammatici
in grado di evidenziarne la forza d’animo e la determinazione nel combattere le avversità.
Inoltre è importante ricordare come l’Audience sia unico e, anche se non
vogliamo chiamare le opposte visioni proposte come una “Battaglia tra
Narrative”, è altrettanto importante comprendere che spesso una svilisce
od esclude l’altra. Infatti, come indicato da Anne Peterson6: “una Narrativa, una volta preparata, per essere efficace, deve circolare. Ciò significa che chi
l’ascolta, deve trovarla sufficientemente interessante se non addirittura intrigante,
da ripeterla ad altri. In tale processo di trasmissione orale, la storia subisce delle alterazioni, che ben raramente rendono quella ripetuta uguale a quella udita. È pertanto importante investigare e capire da cosa siano indotte tali modificazioni e quali siano gli aspetti socio-culturali alla base della nuova versione. Generalmente i
processi alla base della selezione di quegli elementi di una storia che vengono amplificati o rigettati sono coerenti con quegli aspetti o speranze che possono fornire conforto e migliori aspettative per la vita e l’esistenza dell’ascoltatore.
I Personaggi: devono ispirare simpatia ed empatia; cioè bisogna far si che
l’uditore si immedesimi nei personaggi e ne percepisca e viva intrinsecamente stati d’animo, drammi e passioni. Solo i personaggi che saranno caratterizzati in modo tale da indurre questa forma di identificazione,
avranno la capacità di influenzare il lettore. Infatti la prevalenza di questi
ultimi non sarà interessata da quelle storie non in grado di smuovere stati
d’animo. Ad esempio le fiction hanno un grande successo in quanto offrono in un mondo simulato ma realistico, le più svariate e molteplici situazioni che non solo si possa immaginare, ma anche solo pensare di vivere
in un’intera vita. In tali situazioni l’identificarsi consente di esplorare empaticamente le proprie emozioni al di là dei propri limiti soggettivi, attraverso l’identificazione con i personaggi principali delle stesse.
Quei comunicatori che vogliano offrire dei validi modelli positivi ed alternativi a quelli proposti dagli estremisti, devono essere in grado di ambien-
6
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Anna L. Peterson: Professore Assistente al Dipartimento di Affari religiosi presso l’Università
della Florida, Gainesville. “Martyrdom & Politics of Religion: Progressive Catholicism in El Salvador’s Civil War” – United State University of Alabama Press – 1997.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Attività congiunta ANP e ISAF
tarli in un quadro generale dove i protagonisti siano in grado di risolvere
favorevolmente sfide plausibili; degli “eroi”, ad esempio potenziali terroristi, capaci di scelte differenti quando illuminati e guidati da un discernimento oggettivamente positivo; magari conseguente una lotta emotiva interiore intrapresa per determinare la giusta azione da compiere.
È più facile infatti che l’ascoltatore/lettore si immedesimi con il personaggio quando è indotto a condividere con lo stesso le emozioni derivanti
da un conflitto interiore nel suo travaglio verso la modificazione comportamentale.
IL COSIDDETTO “SAY-DO” GAP
La maggioranza dei quadri militari preposti alla pianificazione di operazioni, ha ancora un approccio classico alle stesse, astenendosi dal prendere in considerazione le odierne necessità correlate all’uso delle forze armate nel complesso scenario sopra descritto.
Cosa comporta ciò? Prevalentemente il fatto che la tendenza più comune
rimane quella di adattare la narrativa allo sviluppo tattico ed operativo
della campagna, anziché sviluppare tali operazioni secondo la linea narrativa pre-definita.
Ad oggi la discussione si incentra su due possibili aspetti: il primo indica la
cosiddetta Narrativa Strategica funzionale alla missione nello specifico
Teatro d’Operazioni; la seconda è una narrativa le cui finalità sono prevalentemente di livello tattico e finalizzate ad influenzare un’audience e i relativi eventi in ambito locale.
ANALISI E PIANIFICAZIONE
59
Narrativa di ISAF
Tuttavia appare evidente come questo dibattito sia in ogni caso Comunicativo-centrico, discuta cioè gli aspetti della narrativa sempre in una cornice generale di Comunicazione Strategica pertinente cioè tanto alle Information Operations quanto alle Operazioni Psicologiche e nel senso più
ampio anche al Public Affairs, al fine di minimizzare il divario percepito tra
ciò che viene presentato o promesso e ciò che nella realtà viene attuato: il
cosiddetto “say and do gap”.
Sfortunatamente, quindi, anche nella “battaglia delle Narrative” ci si viene a trovare di fronte alla necessità di pianificare, sincronizzare e coordinare meglio il piano comunicativo, al fine di ottimizzare con più efficacia
gli effetti della Narrativa. Ovverosia diviene necessario sviluppare l’operazione nel suo complesso su questa, che diviene uno strumento altrimenti
incapace di giustificare coerentemente, agli occhi della popolazione,
eventi disconnessi tra loro.
Anche se molto è stato scritto al riguardo, dal punto teorico, sull’importanza che essa riveste nelle operazioni di counterinsurgency e di stabilizza-
60
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
zione, non vi è molto materiale in grado di spiegare come essa interagisca
ai vari livelli: Tattico, Operativo e Strategico; o anche come essa possa supportare il processo di pianificazione ai citati livelli. Nella realtà invece questo diventa il cuore della discussione se si vuole comprendere come pianificare le operazioni militari correnti, così fortemente influenzate dal cosiddetto quarto fattore operativo: le “informazioni”.
Oggi difatti la sfida più impegnativa è quella di rendere le operazioni trasparenti e legittime agli occhi dei media, sia nazionali sia internazionali,
nonché ai gruppi obbiettivo a cui ci si indirizza nei teatri operativi. Tutti
attori che in ogni momento osservano e valutano le nostre azioni per darle un senso e contestualizzarle attraverso una narrativa generale che abbia
senso nel quadro dell’ambiente informativo di riferimento.
Alla fine della giornata sarà la percezione che essi avranno delle nostre
azioni che dirigerà il loro atteggiamento nei nostri confronti. E si tenga
presente che i moderni conflitti sono incentrati proprio sul comportamento e sull’atteggiamento di questi gruppi obbiettivo che molto spesso
rappresentano peraltro il Centro di Gravità delle nostre operazioni7.
La Narrativa deve derivare e successivamente guidare la Strategia di teatro;
essa deve essere sviluppata a livello politico e successivamente supportata dalle operazioni e dalle azioni condotte sul terreno. In particolare è da evidenziare come la percezione della stessa sia spesso indotta, trasmessa e presentata più che dalla generale strategia di teatro, dalla somma delle singole e molteplici azioni di livello tattico, che alla fine disegnano quello che sono le risultanze di un quadro strategico. Ecco quindi che tutte queste azioni, a loro volta devono inserirsi in essa al fine di poterla coerentemente supportare.
In sostanza l’intento del comandante e le sue direttive di pianificazione;
lo sviluppo da parte dello staff del disegno operativo così come la selezione delle possibili linee d’azione e delle linee operative, devono trovare la
loro giusta collocazione all’interno della suddetta Narrativa. Parimenti la
parte esecutiva che si sviluppa sul terreno deve fornire poi il riscontro visivo di questa Narrativa Strategica. Appare quindi evidente che per fare
ciò è necessario che tutti i nostri soldati sul terreno siano non solo addestrati nello specifico incarico, ma informati e preparati a supportarla con
azioni evidenti tali da dare riscontro coerente al connubio “parole e fatti”.
Lo scopo è quello di dare legittimità e credibilità alla nostra pianificazione e condotta delle operazioni attraverso la Narrativa influenzando così
l’ambiente informativo di riferimento.
7
“Le parole e le immagini, da sole, non sono in grado di produrre quegli effetti comportamentali nel campo
cognitivo che ci si prefigge. Tutto ciò che le parole e le immagini possono fare è spiegare il significato delle nostre azioni, ed amplificare gli effetti di tali azioni oltre coloro che direttamente vedono, sentono o hanno esperienza delle stesse ...” – Sen. Barack Obama, 9 Settembre 2008.
ANALISI E PIANIFICAZIONE
61
LA NARRATIVA QUALE LINEA GUIDA PER LE OPERAZIONI
Se si vuole parlare di operazioni dirette dal filo conduttore di una Narrativa, è quindi necessario porre questa al centro del processo di pianificazione e fare in modo che possa fornire il quadro di riferimento sia per le
operazioni cinetiche sia per quelle non cinetiche, al fine di supportare
l’intento strategico articolato nella Narrativa di ordine strategico. Le battaglie o gli scontri che ci vedono coinvolti, devono contemporaneamente
supportare la nostra narrativa e contrastare, minare quella avversaria. Ecco perché è importante che ogni azione tattica anche di livello minore,
non contraddica tale obbiettivo; anzi cerchi attraverso la sua esecuzione
di fornire quel valore aggiunto necessario a far percepire positivamente lo
sviluppo degli eventi nella sua globalità.
Lo scopo infatti è quello di legare quanto proposto dal punto di vista politico (strategia di Teatro) con quanto condotto sotto il profilo militare.
Militarmente si tratta di assicurare che sia le operazioni sia la comunicazione vengano pianificate ed eseguite nel quadro generale ed in supporto
alla Narrativa relativa alla missione di teatro.
Quando utilizzata in concerto con dedicati diagrammi, essa rappresenta
la base su cui sviluppare l’approccio operativo attraverso una descrizione
combinata dello sviluppo di una storia (anche attraverso dei grafici) che
ne specifichino l’endstate, gli obbiettivi, i punti decisivi, le Linee d’Operazione e
le Linee di sforzo principale.
Quali sono gli elementi essenziali nella definizione di una Narrativa? Essa
deve contenere quanto meno i seguenti elementi al fine di descrivere le
dinamiche e le relazioni relativi agli elementi più critici dell’ambiente al
di la di quanto indicato in maniera abbastanza asettica dalla “scompattazione” indicata dagli elementi del PMESII8:
- Disegno Operativo: una rappresentazione grafica e descrittiva della Narrativa in grado di far capire la logica che sottintende l’approccio utilizzato;
- la Narrativa della Missione: ovverosia gli obbiettivi e gli scopi che la Narrativa stessa si pone, descrivendo e spiegando agli “stakeholders” designati
la “storia” dell’approccio operativo e gli effetti che si vogliono conseguire attraverso la Missione al fine di configurare quelle loro percezioni rilevanti ai fini della campagna;
- l’Intento Narrativo del Comandante: in cui lo stesso Comandante descrive gli aspetti essenziali di come lui vede l’ambiente nonché come la campagna debba svilupparsi al fine di conseguire il desiderato “endstate”.
Infine la Narrativa deve essere utilizzata nello sviluppo delle relazioni di
causa-effetto del wargaming al fine di prefigurare gli sviluppi dei differenti
scenari possibili.
8
62
PMESII: Political; Military; Economical; Social; Informational; Infrastructural.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
IMPLICAZIONI PER LA PIANIFICAZIONE OPERATIVA
Sulla base di quanto indicato, pertanto, un Comandante non riceve soltanto la Missione od i compiti, ma anche una Narrativa Strategica. Di concerto, il Processo di Pianificazione prenderà le mosse dall’Intento Narrativo del Comandante.
Proprio al fine di poter concepire le Operazioni secondo una linea guida
Narrativa e da questa essere guidate, essa deve essere espressa nelle prime
immediate fasi della direttiva di pianificazione del più alto livello; idealmente subito dopo la definizione della Missione, finalizzando ed articolando
contestualmente l’intento non solo in termini di effetti fisici da conseguire,
ma anche e soprattutto informativi. Prima che il Comandante esprima il suo
intento, è necessario inoltre che venga condotta un’analisi secondo il processo PMESII dell’ambiente informativo, tale da prendere in considerazione
anche eventuali altre Narrative già presentate da altri attori non militari operanti nello stesso ambiente. Al fine di prevenire una percezione conflittuale
ed errata tra ciò che viene comunicato e le azioni/operazioni condotte
(word and deeds) e risultare quindi poco convincenti od affidabili, è necessario contestualizzare ed inquadrare il messaggio in una Narrativa comprensibile e riconoscibile in termini ed usi locali, contestualizzandola in una prospettiva di lungo termine. Ciò può significare l’accettazione di alcuni rischi,
per i quali bisogna ricercare flessibilità d’azione e una estesa rete di relazioni
interpersonali al fine di mitigare i possibili effetti inattesi ed indesiderati.
Diviene quindi necessario disegnare la manovra tradizionale e l’impiego
del fuoco in supporto alla Narrativa e non viceversa. In altre parole la Missione ricevuta, e la conseguente ridefinizione della stessa insieme a Intento e Disegno Operativo, di ogni livello, devono essere sviluppati in linea e
coerentemente con essa. Analogamente le unità ed i Comandi dipendenti
devono sviluppare e adeguarsi alla suddetta. Infine ogni comandante al
suo livello deve determinare qual’è il modo migliore di portare a termine
i compiti assegnati entro i vincoli ed i limiti posti sempre dalla stessa.
In quest’ottica le Operazioni condotte e dirette da una Narrativa hanno
una doppia funzione:
- internamente rappresentano uno strumento per il Comandante utile a
comunicare le proprie valutazioni sull’ambiente; sulle minacce e sulle
opportunità che in tale ambiente si aprono; oltre alle possibili azioni da
intraprendere con le forze, al fine di sfruttarle con un adeguato ritorno,
valutando contestualmente i rischi associati. Inoltre essa rappresenta
uno strumento guida per l’addestramento e la formazione del personale da impiegare nello specifico ambiente operativo, al fine di coordinarne il comportamento per quanto attiene Presence, Posture and Profile assicurandone la coerenza con l’intento narrativo del Comandante.
- esternamente diviene utile al fine di educare ed informare i vari partner
e Stakeholders la cui percezione, propensione, comprensione e conseguente atteggiamento, possono risultare utili ai fini della missione.
ANALISI E PIANIFICAZIONE
63
Il dominio e la pervasività di una Narrativa in ogni operazione può pagare
enormi dividendi e fornire un ritorno sicuramente utile. Un fallimento in
tale settore, ha un’altissima probabilità di minare e porre a rischio il supporto per la politica generale dell’operazione, oltre che rischiare di danneggiare l’immagine dei Paesi coinvolti con le forze agli occhi della comunità internazionale.
CONCLUSIONI
Alla luce dell’attuale ambiente operativo emerge quindi la necessità di dare un valore prioritario agli aspetti psicologici, in particolare per tutto ciò
che afferisce allo sviluppo di una Narrativa, sia essa di livello strategico di
Teatro, sia locale.
Nel quadro globale dell’ambiente informativo, è estremamente facile e
probabile che si vengano a contrapporre narrative diverse; alcune anche
piuttosto aggressive. Nel 2006 i Talebani, al fine di contrastare l’espansione delle forze ISAF nella Provincia di Hellmand, ad esempio, produssero
una narrativa composta di 5 semplici linee:
“ Il nostro Partito: è quello dei Talebani;
Il nostro popolo e la nostra Nazione: Pashtun;
La nostra economia: la coltivazione del papavero da oppio;
La nostra Costituzione: La Shari’a;
La nostra forma di Governo: l’Emirato.”
Quando la nostra versione proposta si scontra con una avversa, allora ci si
trova in una battaglia di Narrative, benché in tal caso possiamo affermare
che si tratta di uno scontro continuo ed in costante evoluzione ed adattamento, piuttosto che di una battaglia con vinti e vincitori. La competizione si basa essenzialmente sulla credibilità del messaggio.
“La sfida sta nel disegnare una Comunicazione Strategica in grado di rinforzare la Narrativa”9.
Ciò comporta uno studio olistico del sistema e delle relazioni che governano l’agire dei vari attori al fine di creare una condivisione dei legami e
del quadro generale, necessari alla pianificazione operativa ed alla condotta delle operazioni. In particolare, se ci riferiamo agli aspetti esecutivi,
è indispensabile prendere in considerazione l’utilizzo integrato e coordinato di tutti i mezzi sia cinetici che non.
È essenziale quindi un’analisi ed una valutazione dell’ambiente sia informativo sia operativo, quale premessa alla definizione delle proprie Linee
d’Azione che delle Linee d’Operazioni correlate, affinché si possa assicu-
9
64
US Joint Doctrine Note 1/11 – Comunicazione Strategica: Dipartimento della Difesa (DoD).
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rare che la Narrativa di livello strategico sia armonizzata con quella di livello locale, e che entrambe possano rappresentare la linea guida necessaria alla definizione dei parametri funzionali allo sviluppo del war-gaming
nelle fasi dello sviluppo del piano.
In sostanza possiamo azzardare che: “le Operazioni dirette dalla Narrativa
debbano avere effetto sul comportamento di ben definiti attori, influenzandone comprensione, volontà e capacità attraverso la creazione di effetti sia nella sfera psicologica sia in quella fisica, grazie all’impiego armonizzato di ogni mezzo – sia esso
cinetico sia non-cinetico”10.
Ciò tuttavia comporta l’accettazione di vincoli e limiti imposti alla pianificazione operativa da parte della Narrativa Strategica – indotte da considerazioni anche eminentemente politiche – ed attraverso essa anche limitazioni ai comandanti di ogni livello nella determinazione del proprio approccio operativo.
Infine richiede l’accettazione di parametri di pianificazione che non siano guidati esclusivamente dal conseguimento di obbiettivi, nonché dall’esecuzione di operazioni ed azioni che presuppongano l’accettazione di
un maggior livello di rischio al fine di garantire comunque che tali operazioni vengano condotte nel quadro generale del supporto alla narrativa
strategica, pur in un quadro di misure mitigatrici contingenti.
RIFERIMENTI:
- Reed Kitchens: “things I learned from People who tried t to kill me” – IO
Sphere May 2010.
- Ben Zweibelson: “What is your narrative and why?” – Small Wars journal –
Jul 2011.
- “Commanders’ handbook on Strategic Communication and Communication
Strategy” - US Joint Forces Command ed. 2011.
- US Army War College: Campaign Planning Handbook – Dept. of Military
Strategy, Planning and Operations.
- James Fearon and David Latin:”Ethnicity, Insurgency and Civil War” –
American political Science Review 97, Dec 2003.
- Daniel Marston & Carter Malkasian, Counterinsurgency in Modern Warfare
– Oxford, Osprey, 2008.
- Ltc Karl E. Nell: “A strategy of Conciliation, Coercion or Commitment?” –
Hearts and Minds – PKSOI Paper: Sep. 2012.
- Turnley, Henscheid, koelher, mulutzie and Tivnan: “COIN of the SocioCultural Realm”; Small War Journal, Feb. 2012.
10
Pensiero dell’autore, non rappresenta una valutazione o considerazione dottrinale nazionale.
ANALISI E PIANIFICAZIONE
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LA TUTELA GIURIDICA
DELL’INTERPRETE NELLE
MISSIONI INTERNAZIONALI
di Paolo Cappelli
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L
a figura dell’interprete nei teatri operativi può avere una diversa collocazione giuridica a seconda della propria natura. Esistono, di conseguenza,
problematiche anche molto diverse relative alla tutela giuridica di questi
professionisti.
La notizia della morte di personale schierato nei teatri operativi ha sempre
un forte impatto sull’opinione pubblica. Raramente, però, si coglie che
alle unità militari schierate sul terreno è spesso associato un interprete,
che ne condivide lo stesso destino.
Poco più di un anno fa, l’Associazione Internazionale degli Interpreti di Conferenza
(AIIC1) ha voluto considerare la situazione
degli interpreti nelle zone di conflitto e auspicato un miglior trattamento da parte dei
datori di lavoro, spesso identificati nei governi e nelle rispettive forze armate.
Gli interpreti in zone di conflitto
In seguito alla fine del mondo bipolare sono
emersi nuovi scenari operativi, che hanno
visto i governi e le forze armate nazionali inserirsi in un contesto geopolitico nuovo, a
spiccata connotazione interforze e multinazionale, all’interno di confini mai varcati prima.
Le operazioni nei Balcani, prima, nel Golfo
Persico e in Asia Centrale, poi, hanno eviden-
1
L’Association Internationale des Interprètes de Conférence
(AIIC) riunisce oltre 170 interpreti di conferenza professionisti di grande esperienza, domiciliati in Italia. L’AIIC
è l’unico interlocutore riconosciuto dalle Organizzazioni internazionali e le loro amministrazioni, ma si rivolge
anche ad un mercato privato prevalentemente formato
da aziende, istituzioni ed Enti pubblici e privati. Da oltre
50 anni è l’unica associazione di interpreti a livello mondiale che può contare complessivamente su più di 2800
professionisti, in oltre 90 paesi, in 257 città con una capacità di interpretazione da e verso 46 lingue straniere, su
qualsiasi argomento, in qualsiasi località del mondo.
Interprete durante l'incontro tra il Capo di SMD Ammiraglio Binelli
Mantelli e l'omologo libico Generale Abdulsalam Jadallah Alobeidi
DIRITTO
67
ziato l’esigenza di interagire con le locali autorità, ma anche con la popolazione, una volta che le condizioni sul terreno lo avessero consentito. Viste
le differenze culturali, ma anche e soprattutto linguistiche, il ricorso agli
interpreti è stato una necessità, più che una scelta.
Tralasciando la questione della raccolta di informazioni ai fini operativi,
la scelta è ricaduta, in una prima fase, su personale locale conoscitore tanto
della propria lingua che della lingua dell’interlocutore straniero (prevalentemente l’inglese). Successivamente, alcuni governi hanno ritenuto di
specializzare personale militare (o utilizzare personale civile individuato
ad hoc) per questi scopi, o per esigenze di intelligence.
La dimensione del problema
Dal punto di vista prettamente statistico e con riferimento agli interpreti
reclutati in loco, tra il 2003 e il 2008:
- 360 interpreti sono morti e più di 1200 sono rimasti feriti, considerando
solo quelli a supporto delle forze armate USA in Iraq;
- gli interpreti iracheni e afghani sono spesso a rischio di aggressione da
parte delle fazioni che si oppongono all’intervento militare straniero
perché considerati traditori;
- molti interpreti non ricevono una compensazione adeguata per il proprio lavoro, in particolare in termini di protezione e negazione dello status di rifugiato alla cessazione del rapporto di lavoro (i diecimila dollari
di compensazione che la famiglia riceve in caso di morte o invalidità permanente dell’interprete sono poca cosa se si considera che quasi tutte
le famiglie sono monoreddito).
Della collocazione degli interpreti nell’ambito del Diritto Internazionale Umanitario
La definizione di una forma di tutela giuridica richiede che venga fatta, a
priori, una importante e necessaria differenza. Di fatto, un interprete militare non è niente altro che un interprete con lo status di un militare e
un grado (e non il contrario!), quindi non sembrerebbe esserci alcuna differenza tra questo e un interprete civile reclutato in loco. Di fatto, il diritto
internazionale umanitario (DIU) tratta le due figure in maniera anche
molto diversa.
In primo luogo, a fattor comune, le Convenzioni di Ginevra prevedono
che l’attività di intermediazione linguistica debba essere condotta da soggetti competenti, onde garantire alle persone protette da questi Trattati
un adeguato godimento delle tutele previste, così come per consentire di
sviluppare attività di comune interesse per le collettività locali e – più in
generale – per l’intera comunità internazionale. Si pensi, ad esempio, alle
attività delle organizzazioni internazionali governative e non con compiti
di assistenza alla popolazione civile o all’opera dei giornalisti operanti nelle
aree di conflitto.
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Interprete afghano con bersagliere
Il Professor Giulio Bartolini, Docente di Diritto Internazionale Umanitario
presso l’Università di Siena e Ricercatore di Diritto Internazionale presso
l’Università di Roma Tre, nota che “lo status giuridico dell’interprete è
contraddistinto da scarsa autonomia giuridica e la tutela normativa accordata viene determinata per via deduttiva mediante comparazione con nozioni e categorie già esistenti”.
Le Nazioni Unite hanno preso coscienza del problema in forma generale, rilevando “the frequency of acts of violence in many parts of the world
against journalists, media professionals and associated personnel in armed conflict, in particular deliberate attacks in violation of international humanitarian
law”2 (il riferimento alla figura dell’interprete deve ricavarsi in via implicita dal testo). Peraltro, sempre grazie al Prof. Bartolini, sappiamo che
finora “nessuno studio dottrinale è stato rivolto a questo specifico tema
(…) a differenza, ad esempio, della figura del giornalista” e che “nonostante la scarsa attenzione, tuttavia, gli interpreti non ricadono in un
2
Risoluzione 1738 del 23 dicembre 2006.
DIRITTO
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Interprete in cabina
vuoto giuridico”. In primo luogo, le norme di DIU riconoscono l’utilità
della figura dell’interprete quale operatore “necessario” a garantire il rispetto dei meccanismi di garanzia giuridica. Tanto nella III che nella IV
Convenzione di Ginevra si fa espresso riferimento alla tutela di prigionieri di guerra e dei civili attraverso il ricorso a un qualified interpreter. In
secondo luogo, la presenza dell’interprete è prevista, nell’ambito delle
stesse norme, per le attività di ausilio alla Potenza Protettrice incaricata
di verificare il rispetto del DIU, anche se questa pratica viene sconsigliata
per evitare un contatto “mediato” tra la citata Potenza e la realtà sotto
protezione.
Dello stato giuridico dell’interprete nei conflitti in generale
Il primo aspetto da chiarire dal punto di vista giuridico riguarda lo status
dell’interprete, il quale può essere, in alternativa:
- un combattente, ovvero un elemento che può essere legittimo oggetto
della violenza bellica;
- un civile, ovvero un individuo da proteggere dagli effetti delle ostilità.
Ora, giuridicamente, nei conflitti armati internazionali si può facilmente
associare la nozione di combattente a quello di membro delle forze armate
partecipanti, il che porrebbe l’interprete civile nel secondo dei casi, permettendogli di godere di tutte le tutele previste per questa figura. L’ipotesi
è corroborata dal fatto che, in linea di principio, l’interprete – ancor più
70
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
se opera a supporto di organizzazioni civili – non partecipa direttamente
alle ostilità3.
Nel caso l’interprete appartenga alle forze armate di una delle fazioni in
lotta (c.d. interprete militare), esso assume automaticamente la forma
giuridica di “combattente”, applicandosi ad esso tutti i pertinenti istituti
giuridici.
Dello stato giuridico dell’interprete in caso di cattura
La III Convenzione di Ginevra prevede che la qualifica di prigioniero di
guerra possa essere concessa a coloro – ancorché civili – che si trovano in
prossimità delle linee nemiche per supportare uno Stato che partecipa a
un conflitto. L’inclusione degli interpreti in tale concezione appare giuridicamente coerente, a condizione che il soggetto agisca su autorizzazione
dello Stato che supporta. Tale status è riconosciuto mediante emissione di
un documento d’identità per accompagnatore di forze armate, peraltro
previsto nelle disposizione della citata Convenzione.
Un’importante annotazione riguarda l’applicabilità di quanto citato nel
presente paragrafo: le missioni che impegnano forze militari internazionali prevedono una fase iniziale di combattimenti propriamente detti che
è generalmente breve e una serie di fasi successive dedicate alla ricostruzione di durata molto maggiore. In questo secondo periodo, non sussistendo una situazione di conflitto, viene a cessare l’applicabilità di molti
degli istituti del DIU.
Dello stato giuridico dell’interprete nelle situazioni post-conflitto
Non potendo trovare applicazione, gli istituti del Diritto Internazionale
Umanitario devono necessariamente essere sostituiti da altri istituti. In via
preliminare, si può rilevare che, in caso di impiego presso organizzazioni
internazionali dislocate in un teatro operativo, si potrebbe estendere all’interprete lo status proprio degli appartenenti alle citate organizzazioni,
anche se la soluzione, in virtù del carattere della collaborazione, non è facilmente praticabile.
Altre forme di tutela sono in realtà possibili attraverso uno strumento chiamato SOFA (Status of Force Agreement), ovvero accordi che stabiliscono quale
sia lo status giuridico del personale impiegato in una missione internazionale e garantiscono loro determinati privilegi e immunità. A titolo informativo e non esaustivo, possiamo dire che le caratteristiche generali di un
3
Va tuttavia precisato che, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione di Ginevra e dei Protocolli aggiuntivi, l’interprete può non essere oggetto di tutela se legittimamente sospettato di svolgere
una attività dannosa per la sicurezza dello Stato (si pensi all’attività di traduzione di documenti
militari e comunicazioni intercettate al nemico).
DIRITTO
71
SOFA prevedono la sottrazione delle attività connesse con l’espletamento
del proprio incarico da quelle sottoposte alla giurisdizione locale:
- penale e civile, anche dopo che la missione è conclusa;
- tributaria, con riferimento a eventuali emolumenti percepiti.
Ciò ovviamente non postula un’immunità totale nei confronti del sistema
giuridico del paese in cui la missione si svolge, ma intende solo garantire
all’interprete un’immunità funzionale, limitatamente alle attività svolte
nell’ambito delle proprie mansioni4.
Delle problematiche relative all’implementazione di una nuova politica
Allo stato attuale dei fatti, l’impiego degli interpreti sul campo, oltre alle
questioni prettamente giuridiche sopra accennate, pone una serie di questioni irrisolte inerenti ai diversi aspetti della professione, segnatamente:
- le modalità d’impiego;
- l’identificazione della figura professionale (sono chiamati interpreti, traduttori, assistenti linguistici, ecc.) e come questa può influire sulla percezione da parte di chi li impiega;
- il livello di preparazione professionale;
- le difficoltà di alcuni interpreti, anche di quelli professionisti, di essere
identificati come simpatizzanti della parte alla quale stavano fornendo
il proprio servizio;
- la protezione loro garantita durante, ma soprattutto al termine del rapporto di lavoro;
- l’affidabilità, per l’impossibilità di controllare la qualità dell’interpretazione, affidabilità in termini di riservatezza delle informazioni.
L’AIIC si è mossa promuovendo una serie di seminari e iniziative sul tema,
oltre a pubblicare diversi articoli sull’argomento. Non di meno, le organizzazioni internazionali hanno iniziato a prendere coscienza del problema e a riconoscerne l’ampiezza. Con la Dichiarazione n.442 del 29
aprile 2010, più di 40 firmatari appartenenti a tutti i gruppi politici dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa hanno riconosciuto che
gli interpreti nelle zone di conflitto operano in prima linea, privi di adeguate protezioni giuridiche e fisiche, particolarmente dopo la conclusione
dei conflitti, a causa delle inevitabili vendette trasversali e la difficoltà di
presentare e vedere accolte le proprie domande di asilo – per l’assenza di
uno status professionale riconosciuto – nei Paesi per i quali hanno prestato
la propria opera.
4
72
Ad adiuvandum, va detto anche che le guarentigie riconosciute dal SOFA non si estendono al
personale interprete autoctono, ovvero della stessa nazionalità della Nazione Ospitante firmataria del SOFA.
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Interprete militare nella conferenza stampa al termine dell'incontro tra il Ministro della Difesa italiano e il Segretario alla Difesa statunitense protempore nel 2013
Nell’ambito della stessa Dichiarazione, l’Assemblea Parlamentare ha chiesto agli Stati Membri di:
- fornire una migliore protezione agli interpreti durante e dopo i conflitti;
- assicurare una migliore protezione agli interpreti mediante l’applicazione dei pochi istituti e strumenti del Diritto Internazionale Umanitario
ad essi applicabili;
- enfatizzare la neutralità e imparzialità degli interpreti, la cui sicurezza
dovrebbe essere garantita nelle zone di conflitto come per il personale
della Croce Rossa Internazionale.
CONCLUSIONI
Il collega Eduardo Kahane, nell’articolo dal titolo “Interpreters in conflict
zones: what are the real issues”, ha efficacemente riassunto le cause delle attuali problematiche come segue:
La figura dell’interprete in zone di conflitto è il frutto di un’opera ineludibile di improvvisazione in una società in guerra in cui sussiste l’esigenza di interfacce linguistico-culturali, esigenza che viene soddisfatta con le scarse risorse a disposizione.
L’ingaggio della maggioranza di queste interfacce non ricade tra le responsabilità
DIRITTO
73
del governo locale, ma segue le logiche di attori occidentali che perseguono i propri
interessi, siano essi politici, commerciali, o umanitari.
In sintesi, l’impiego di personale locale è preferibile rispetto a quello di professionisti
perché gli accordi omnicomprensivi concordati sul campo sono sicuramente meno
onerosi di un salario adeguato, della garanzia statutaria di appropriate condizioni
di lavoro, della corresponsione di indennità di rischio e di indennizzi in caso di
morte o invalidità.
In questo senso, Kahane auspica ciò che definisce un “nuovo contratto sociale”, ovvero il riconoscimento, sociale prima ancora che politico, della
professione di interprete, da ratificare nel quadro delle principali organizzazioni internazionali, tra cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e
la conseguente istituzione di criteri certi per la qualificazione e l’impiego
e il riconoscimento di determinati diritti.
Sull’approccio scelto si può concordare o meno, ma non si può non considerare che una strategia come quella proposta potrà compiersi solamente
nel lungo periodo, in quanto alla definizione di uno status sociale si per-
Alpino con interprete e capo villaggio
74
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Bandiere europee
viene prima di tutto attraverso la formazione di interpreti, ovvero istituendo scuole e criteri normativi della professione, aspetto, questo, che
ha tempi di implementazione oggi non quantificabili per i Paesi cui ci si
riferisce. Ad ogni modo, non vanno sottovalutati il coinvolgimento del
Consiglio d’Europa e la sua Dichiarazione di sostegno, che rappresentano
due momenti importanti nel cammino volto alla definizione di uno status
professionale per certi versi completamente nuovo, almeno nei Paesi in
cui si sono sviluppati conflitti su scala regionale.
In conclusione, si può affermare che esiste una dimensione etica e legata
ai diritti umani nel lavoro degli interpreti nelle zone di conflitto, nel riconoscimento e nel rispetto loro tributato e nelle condizioni di lavoro cui
sono sottoposti. La Dichiarazione sopra richiamata è – di fatto – uno dei
maggiori riconoscimenti a livello pubblico, non solo degli interpreti in
zone di conflitto, ma della professione di interprete nel suo complesso e
un ulteriore passo verso l’adozione di un simile provvedimento nel suo naturale novero, ovvero le Nazioni Unite.
DIRITTO
75
L’ALBANIA E LA NATO
DA RISCHIO PER L’EUROPA
A PARTNER PER LA SICUREZZA
REGIONALE
di Gianluca Sardellone
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
l vertice di Strasburgo-Keln del 4 aprile 2009 non solo ha celebrato il
sessantesimo anno di vita dell’Alleanza Atlantica nata a Washington
dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma ha portato, grazie all’ingresso di Croazia ed Albania, a 28 i paesi membri, completando il sesto
round di allargamento dopo quelli che, durante la guerra fredda, avevano
visto l’inclusione di Grecia e Turchia (1952), Germania (1955), Spagna e
Portogallo (1985) e, crollata l’URSS, di Ungheria, Polonia, Repubblica
Ceca (1999), Slovenia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Estonia, Lettonia e
Lituania (2004).
L’ingresso nella NATO dell’Albania ha segnato un punto di svolta epocale
ed un evento altamente simbolico non solo per l’Albania e la NATO, ma
anche per l’Italia stessa. Il Paese delle Aquile, infatti, oltre ad essere stato uno dei primi paesi del sud
est Europa a presentare la propria candidatura alla
NATO, si è trasformato, negli equilibri geostrategici europei, da elemento perturbante della sicurezza continentale (quale era stato agli inizi degli anni
Novanta dopo il collasso politico-finanziario) in
produttore di sicurezza ed elemento stabilizzatore
anche al di fuori dei confini europei mediante la
partecipazione a svariate missioni di pace. Precedentemente invece, il sostanziale fallimento dello
stato avvenuto nel 1997, combinato con la cruenta
instabilità determinata dalla guerra nella vicina ex
Jugoslavia, aveva reso, infatti, l’Albania una potenziale minaccia per la sicurezza dell’Adriatico:
l’azione sinergica di gruppi criminali transnazionali dediti ai traffici di droga, armi ed esseri umani, il contestuale scioglimento di forze armate e di
sicurezza regolari, insieme con l’infiltrazione del jihadismo tra la massiccia comunità musulmana dei
Balcani, ne aveva fatto una sorta di ventre molle
dell’Europa, humus ideale per un’ulteriore destabilizzazione.
Per l’Albania divenire membro della NATO ha significato, inoltre, chiudere definitivamente con
decenni di isolamento internazionale. Dopo una
breve indipendenza (all’indomani del crollo dell’Impero ottomano) e l’occupazione militare ita-
I
Partecipazione dell'Albania al Partnership for Peace con le Forze NATO prima del suo ingresso nell'Alleanza
PANORAMA INTERNAZIONALE
77
liana finita con la caduta del fascismo, infatti, l’Albania ha vissuto il lunghissimo governo personalistico ed isolazionista di Enver Hoxha (durato
fino al 1990). Pur facendo parte ideologicamente e politicamente del
blocco comunista ed avendo partecipato, nel 1954, alla creazione del Patto di Varsavia, aveva, come la vicina Jugoslavia, evitato di mantenere rapporti troppo stretti con l’URSS, temendone il cosiddetto “abbraccio mortale”. Questa cautela, nel 1961, si era tradotta, di fatto, in una prima “rottura” con Mosca: l’invasione sovietica della Cecoslovacchia (1968), evidenziando i pericoli di un rapporto troppo stretto con l’URSS, indusse
l’Albania ad uscire, formalmente, dal Patto di Varsavia, ormai percepito,
essenzialmente, come longa manus dell’imperialismo di Mosca.
Contestualmente al raffreddamento dei rapporti con l’URSS, l’Albania
stabilì, almeno fino al 1978, buoni rapporti con la Cina, percepita quale
partner meno invasivo ed alieno da mire egemoniche sui paesi limitrofi.
Perseguendo una sorta di equidistanza tra la NATO e il Patto di Varsavia,
l’Albania finì, tuttavia, per regredire ad uno stato di sostanziale irrilevanza
negli equilibri mondiali, acuito dalla crisi economica e dalle mai sopite
velleità di “Grande Albania” care all’establishment per mezzo secolo al potere, desideroso di riunire sotto un’unica bandiera le numerose comunità
albanesi (oltre 3 milioni di persone) sparse tra Kosovo, Macedonia, Montenegro e Grecia.
Terminata la guerra fredda, l’Albania intraprese un virtuoso percorso di
democratizzazione ed avvicinamento alle istituzioni euro-atlantiche, ampiamente sostenuto dalla popolazione, stremata da mezzo secolo di emarginazione internazionale e desiderosa di un paese più coinvolto nel processo di decision-making, capace di produrre sicurezza e stabilizzare le aree
di crisi. Tirana, dopo aver contribuito ad una distensione nei rapporti tra
Serbia e Kosovo, sostenne un ulteriore allargamento della NATO ai paesi
dell’ex Jugoslavia ancora fuori dall’Alleanza, nella convinzione che rigurgiti di separatismo etnico e religioso, insieme con assetti territoriali privi
di omogeneità etnica, avrebbero potuto nuovamente incendiare il Sud
Est Europa.
Per la NATO, l’ingresso dell’Albania (che fa seguito a quelli di Slovenia
prima e Croazia poi), consolida la presenza nel Mare Adriatico, divenuto,
negli anni Novanta, un’area di crisi dopo la frantumazione della Jugoslavia ed il collasso politico e finanziario dell’Albania. Superate le dottrine
del containment e del roll-back (che avevano permesso di “tenere gli USA
dentro, la Germania sotto e l’URSS fuori”), la NATO è divenuta, grazie alle varie ondate di allargamento dal 1999 al 2012, un soggetto altamente
inclusivo e globale, capace di intervenire militarmente non solo in Europa (Bosnia, Kosovo, Macedonia) ma anche in Libia ed Afghanistan, oltre
i limiti geografici contenuti nel Trattato istitutivo del 1949. Con l’allargamento alla Slovenia prima, ad Albania e Croazia poi e, in prospettiva (forse) a Serbia e Bosnia-Erzegovina, il Mar Adriatico, inoltre, da terreno di
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Bunker dismessi sulla costa albanese
potenziale confronto tra blocchi contrapposti (come è stato per mezzo secolo, con Italia, Grecia e Turchia a fungere da baluardo anti-sovietico) si
trasforma in luogo di cooperazione e slancio comune verso la sicurezza,
archiviando, definitivamente, quelle spinte localistiche e quel processo di
dissoluzione violenta dell’ordine statuale che, negli anni Novanta, aveva
portato al collasso dell’ex Jugoslavia.
Quanto all’Italia, l’ingresso di Tirana nell’Alleanza rappresenta un evento
strategico di sicuro rilievo: il Paese delle Aquile è, infatti, per vicinanza geografica e legami storico-culturali, un importante partner ed un elemento
che, di sicuro, rientra nell’interesse nazionale. A distanza di mezzo secolo
dalla fine dell’occupazione militare italiana voluta da Mussolini, numerose
sono state le missioni militari ed umanitarie che l’Italia stessa vi ha condotto dal 1997 al 2009 (Missione Alba – a guida italiana con settemila uomini
provenienti da undici paesi inquadrati in una Forza Multinazionale di Protezione alla popolazione albanese –, Operazione ALBIT, Operazioni del
XXVIII Gruppo Navale, Delegazione di Esperti Italiani/DIE).
LA STORIA DEI RAPPORTI NATO – ALBANIA
La storia dei rapporti tra l’Albania e la NATO inizia nel 1992: il Paese delle
Aquile, infatti, è stato il primo tra i paesi appartenenti al blocco comunista
ad annunciare pubblicamente di voler aderire all’Alleanza, presentando la
PANORAMA INTERNAZIONALE
79
domanda di ammissione nel Consiglio per il Partenariato
Nord
Atlantico (che diverrà, nel 1997,
Euro-Atlantic Partnerhip Council).
La visita alla NATO dell’ex Presidente Berisha, insieme con quella
dell’allora Segretario generale
della NATO Wörner, impresse una
prima, importante accelerazione
nel processo di
democratizzazione prima e di adesione poi.
Dopo l’accettazione della domanda, nel 1994 l’Albania entrò prima
nella Par tnerhip
for Peace (PfP), il
programma vararitratto giovanile di Enver Hoxha
to dalla NATO
per sviluppare
forme di cooperazione con i paesi un tempo facenti parte del Patto di Varsavia, in vista di una
possibile, futura ammissione nell’Alleanza stessa e, poi, nel Consiglio di Partenariato Euro-Atlantico (EAPC). Nel 1996, le forze albanesi presero parte alla
missione SFOR in Bosnia-Erzegovina e, nel 1997, il vertice NATO di Sintra
vide l’Albania partecipare al primo incontro del nuovo soggetto denominato Consiglio di Partenariato Euro-Atlantico. Il cammino dell’Albania verso
la NATO trovò nuova linfa a seguito della crisi in Kosovo originata dai moti
indipendentisti della minoranza albanese nei confronti di Belgrado: nel
1999, dopo l’intervento militare dell’Alleanza contro la Serbia, l’Albania ottenne lo status di candidato-membro al vertice di Washington ed introdusse
il cosiddetto Membership Action Plan (il piano di riforme politico-militari alla
cui realizzazione è subordinato l’ingresso nella NATO stessa).
80
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Attività umanitaria - Missione Alba
La NATO, mediante il Partnership for Peace Planning and Review Process
(PARP), individuò quali priorità, per l’Albania, l’avanzamento del processo di democratizzazione, il contrasto alle organizzazioni criminali internazionali e lo stabilimento di rapporti di buon vicinato con Grecia, Macedonia, Bulgaria e Serbia (Paesi che, ospitando massicce comunità albanesi,
avevano avuto frizioni proprio con Tirana, determinata a tutelare le minoranze stesse per koiné etnica e religiosa).
L’Albania, inoltre, iniziò a dare attuazione al PfP Planning and Review Process
(PARP), modernizzando i sistemi di sorveglianza e comunicazione e, nel contesto dell’Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC), potè
incrementare la capacità di fronteggiare emergenze e disastri ambientali.
Dopo aver ospitato nel 2001 la fase iniziale dell’esercitazione Adventure
Express 01, il processo di avvicinamento dell’Albania ottenne una rinnovata spinta, nel 2003, a seguito di due importanti eventi: da un lato, la firma della Carta dell’Adriatico tra i tre paesi candidati all’ammissione (Croazia, Albania e Macedonia) e gli USA (ispirata al cosiddetto Gruppo di Vilnius, che aveva favorito l’ingresso nella NATO delle Repubbliche Baltiche dell’ex URSS) e, dall’altro, la partecipazione albanese alla missione
ISAF in Afghanistan (dove, peraltro, forze albanesi, croate e macedoni
PANORAMA INTERNAZIONALE
81
Missione Alba
diedero vita ad un team medico congiunto attivo nel contesto ISAF).
Dopo aver aderito all’Operational Capabilities Concept l’Albania divenne teatro di numerose esercitazioni svolte nel contesto PfP (Cooperative Engagement 05) e NATO (Cooperative Longbow 07 e Cooperative Lancer 07): questi
eventi sancirono un momento di svolta nei rapporti con l’Alleanza Atlantica. Nel 2008, infatti, in occasione del vertice di Bucarest (2 aprile), l’Albania venne invitata ad avviare i negoziati per l’ingresso nell’Alleanza e firmò
i relativi protocolli di adesione il 9 luglio 2008. L’avvicinamento alla NATO
comportò per l’Albania, da un lato, il consolidamento del controllo civile
sui militari (attuato mediante la Partnership Action Plan on Defence Institution
Building) ed il controllo degli armamenti convenzionali e non e, dall’altro,
un incremento ed una razionalizzazione nelle spese destinate alla Difesa:
la cooperazione con Turchia (che aveva partecipato alla ricostruzione della base navale di Vlorë), Germania, Italia e Regno Unito, permise alle forze
albanesi di acquisire una crescente capacità di operare in contesti multinazionali e partecipare a missioni di aiuto a popolazioni colpite da emergenze e disastri, anche grazie alla creazione, a Tirana, di un Quartier Generale
dell’Alleanza Atlantica. Il vertice di Strasburgo-Keln del 4 aprile 2009 sancì
formalmente la felice conclusione di questo lungo iter.
82
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
LE FORZE ARMATE
ALBANESI
Nonostante la grave carenza di fondi, l’Albania è, tuttora, impegnata in una complessa attività di riformulazione
della dottrina strategica
e militare, che le permetterà, da un lato, di
adeguare le forze armate al mutato contesto
geopolitico e, dall’altro,
di poter operare nell’attuale contesto internazionale in contesti multinazionali. La cooperazione avviata con Italia,
USA, Turchia e Regno
Unito ha permesso di
dare avvio ad una Strategia per la Sicurezza
Nazionale e Politica di
Difesa, preludio al varo,
nel 2002, di un complesso programma inserito nella cosiddetta Defence Review.
I capisaldi di questo
Bandiere Nato e Albania
complesso programma
decennale risiedevano
nel processo di professionalizzazione delle forze armate, nella riduzione
degli effettivi a circa 16mila uomini e, come in altri paesi NATO, nella
conclusione della coscrizione obbligatoria quale mezzo di reclutamento.
La Difesa albanese ha dovuto, inoltre, avviare una sorta di “rivoluzione
culturale”, preludio di qualsiasi ulteriore intervento: la riorganizzazione
avvenuta tra il 1994 ed il 1995, attuata con la collaborazione degli USA, ha
permesso, infatti, di passare dal modello militare sino-sovietico su base di
brigata a quello occidentale su base di divisione, con la contestuale vendita (solo in parte realizzata) dei veicoli corazzati, delle unità navali e dei
MIG di fabbricazione russa come pure degli elicotteri cinesi che, per mezzo secolo, avevano formato l’hardware del sistema albanese di Difesa. È stato inoltre necessario superare la fallimentare strategia della “bunkerizzazione” propugnata dalle autorità che hanno retto il Paese fino agli anni
PANORAMA INTERNAZIONALE
83
Novanta, che aveva portato alla realizzazione di miriadi di fortificazioni
lungo tutto il territorio nazionale nel timore di aggressioni da parte dei
paesi limitrofi (Grecia e Jugoslavia).
Nonostante l’esperienza ed il know-how accumulati in svariate esercitazioni e manovre congiunte multinazionali (Eagle 2003, con Italia e Macedonia, Peaceful Eagle con il coinvolgimento di ben 2000 uomini provenienti
da una decina di paesi, Longbow/Lancer 2007 con 1100 uomini da venticinque paesi) e nel contesto NATO (Jackal Stone, Joint Endeavour, MEDCEUR
2009), notevole resta, tuttora, il gap da colmare per raggiungere gli standard tecnico-operativi previsti dalla NATO.
L’Albania, infatti, dipende interamente dalla NATO per quanto attiene
la difesa aerea, mentre l’esercito (che rappresenta la maggiore componente delle Forze Armate) dispone di equipaggiamenti in gran parte di
produzione cinese (retaggio dei buoni rapporti mantenuti fino al 1978).
Prima del collasso politico-economico del 1997, del resto, l’Albania, in
virtù della distensione nei rapporti con la Grecia e della fine della guerra
nella ex Jugoslavia, aveva avviato un programma di ammodernamento e
riduzione/riorganizzazione delle forze armate, poi arenatosi per ovvia
carenza di fondi.
Attualmente, le Forze albanesi, in cui sono inclusi i militari sottoposti alla
leva obbligatoria di un anno, constano di circa 14mila effettivi, di cui oltre
8000 nell’esercito (con un limitato parco di mezzi corazzati e di artiglieria). La marina (1600 uomini) è organizzata in due flottiglie navali con
unità di pattugliamento costiero e cacciamine, supportate da alcune unità
della guardia costiera, mentre l’aeronautica (1400 effettivi) è ridotta, di
fatto, solo ad una brigata aerea e dispone solo di elicotteri leggeri da trasporto con pochissime ore di volo (ampiamente sotto gli standard di sicurezza). Mancano, inoltre, i velivoli da combattimento: la presenza di un
solo centro radar e di una modesta contraerea comportano la totale dipendenza dalla NATO per quanto attiene la sicurezza dello spazio aereo
nazionale, garantita, infatti, dalle forze aeree di Italia e Grecia. Di rilievo
è, comunque, la cooperazione strategica con il Regno Unito, confermata
da un’esercitazione congiunta con la Royal Air Force, denominata Albanian Lion, svolta nel 2011.
ALBANIA ED IL SUD EST EUROPA. IL CASO SEEBRIG
L’Albania, fautrice di un articolato processo di integrazione regionale, è
attiva in varie iniziative di cooperazione regionale per il mantenimento
della sicurezza e lo svolgimento di attività congiunte di peacekeeping, a cominciare dalla cosiddetta Multinational Peace Force of South Eastern Europe
Iniziative (MPFSEE).
La MPFSEE, creata a Skopje nel 1998, ha rappresentato il primo passo verso una più stretta partnership sui temi della difesa e della sicurezza congiunta tra i paesi del Sud Est Europa (anche nell’ottica di una successiva
84
INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Soldati albanesi in Afghanistan
adesione alla NATO) ed ha permesso, nel 1999, la nascita della cosiddetta
South Eastern Europe Brigade (SEEBRIG), formata da circa 5000 uomini. Il
quartier generale della SEEBRIG, attualmente, si trova nella città greca di
Tyrnavos/Larissa, dopo essere stato trasferito, con cadenza quadriennale,
da Plovdiv a Costanza ed infine ad Istanbul. Le unità della SEEBRIG, coordinate dal Politico-Military Stearing Committee, hanno come mission la prevenzione dei conflitti e la partecipazione ad operazioni di pace ed umanitarie a guida NATO, OSCE o UE, condotte sotto il mandato dell’ONU: degna di menzione è, certamente, l’attività svolta dalla SEEBRIG in Afghanistan nella prima metà del 2006 nel contesto ISAF.
Membri attuali della SEEBRIG sono Albania, Bulgaria, Grecia, Italia, Macedonia, Romania e Turchia, mentre Bosnia-Erzegovina, Croazia, Slovenia, Ucraina, Serbia ed USA hanno lo status di paesi-osservatori. L’Albania, in particolare, ha detenuto il comando di SEEBRIG dal luglio 2009 al
2011 tramite il generale Zyber Dushku ed attualmente vi destina una compagnia di fanteria, una del genio ed alcune unità di supporto.
PANORAMA INTERNAZIONALE
85
ALBANIA E MISSIONI DI PACE
Grazie a quanto previsto dalla Costituzione, l’Albania, fin dagli anni
Novanta, ha preso parte a varie missioni di pace, sia nel contesto NATO
che ONU ed UE: nel settembre 1996, ebbe inizio la prima missione in
Bosnia-Erzegovina e, da allora, l’impegno albanese oltre confine è aumentato sia in termini di uomini impiegati che di locations. I 6033 uomini impiegati dal 1996 al 2012 rappresentano, quindi, un risultato di notevole importanza, considerando il numero di richieste cui le forze albanesi hanno dovuto dare seguito per partecipare a missioni NATO
(creazione di un battaglione di fanteria leggera di circa 1000 uomini,
motorizzato, frazionabile in unità più piccole con compiti di intelligence, copertura aerea, polizia militare). Nel 1996, ha operato con gli uomini della NATO nelle operazioni di pace in Bosnia-Erzegovina. Un
piccolo contingente (una decina di uomini) partecipa tuttora alla missione Altea (che ha sostituito la missione SFOR a guida NATO nel
2007). Nel 1999, ha supportato le operazioni NATO in Kosovo, ospitando un comando logistico e, dal 2002, il Quartier Generale dell’Alleanza, successivamente incorporato nelle strutture della KFOR: la presenza albanese in KFOR, iniziata nel 2009, è, attualmente, di una quindicina di uomini.
Dopo aver preso parte, dal 2001 al 2003, alle operazioni (sempre a guida NATO) di stabilizzazione nella Macedonia, dall’aprile 2003, l’Albania ha preso parte ad Iraqi Freedom: la legge n.9025 del 13/03/2003 autorizzava l’uso del territorio albanese e l’invio delle forze di Tirana in
Iraq nel contesto della coalizione internazionale contro il terrorismo.
Grazie al supporto logistico degli USA (che hanno garantito il trasporto delle forze albanesi), complessivamente 1377 militari albanesi hanno operato in territorio iracheno fino alla fine del 2008. Il contingente
albanese, che contava 240 uomini ed operava nelle città di Baghdad e
Mosul, ha ottenuto espliciti riconoscimenti per l’attività condotta dal
generale Austin, comandante americano e dallo stesso presidente Bush
jr. (la cui visita a Tirana nel 2007 ha segnato il momento più alto nei
rapporti bilaterali e garantito il viatico per l’ingresso nella NATO). Terminata Iraqi Freedom, militari albanesi hanno preso parte ad un’altra
missione a guida NATO, denominata NATO Training Mission, che si è
occupata della ricostruzione e dell’addestramento delle nuove forze
irachene.
Attualmente è presente, con circa 200 uomini, in Afghanistan (missione ISAF) nelle aree di Herat (con il contingente italiano), Kabul (con
quello turco), Kandahar (con le forze speciali degli USA), mentre
un’aliquota forma un team medico congiunto con i militari della Repubblica Ceca: la presenza è stata ridotta rispetto ai 322 militari che in
passato facevano di quello albanese il contingente più numeroso in rapporto alla popolazione nazionale.
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Conferenza internazionale ACA-NATO a Tirana
L’Albania è presente nel Partnership Action Plan on Terrorism della NATO
che include condivisione di informazioni di intelligence con gli altri paesi
ed intende, inoltre, partecipare ad Active Endeavour, la missione NATO
contro il terrorismo nel Mediterraneo. Tra le missioni terminate, infine,
possiamo ricordare i circa quaranta uomini che hanno preso parte alla
missione UNIMOG in Georgia, dal 1994 al luglio 2009 ed i tre contingenti,
(189 uomini in totale) che hanno preso parte all’operazione MINURCAT,
guidata dall’UE in Ciad dal 2008 al 2010, inquadrati nel contingente francese (che ha fornito supporto strategico), nel contesto degli accordi bilaterali con UE e Parigi.
PANORAMA INTERNAZIONALE
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CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA
24 MAGGIO
del Professor Piero Crociani
collaboratore dell’Ufficio Storico di SMD
La crisi seguita all’attentato di Sarajevo coglie le forze armate italiane in un momento delicato.
La campagna italo-turca si è conclusa vittoriosamente ma ha drenato molte risorse, scompaginando l’intelaiatura dell’Esercito ed usurando i mezzi della Marina, mentre l’effettiva occupazione della Libia rende ancora necessaria una cospicua presenza militare nella colonia. Inoltre,
subito dopo l’attentato è venuto improvvisamente a mancare, il 1° luglio, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il Generale Alberto Pollio, che nei sei anni del suo incarico l’aveva riordinato
avviandone la modernizzazione. A questo periodo sono infatti da ascriversi la nuova regolamentazione tattica, l’introduzione dell’uniforme grigio-verde, l’avvio della motorizzazione e l’uso
dell’aeroplano per scopi militari.
Il successore di Pollio, il Generale Luigi Cadorna, è nominato il 27 luglio, subito dopo l’ultimatum
austriaco alla Serbia. Come il suo predecessore anche Cadorna non viene tenuto a giorno sulle
iniziative del governo cosicché, attenendosi agli accordi esistenti con l’Austria-Ungheria e con la
Germania nel quadro della Triplice Alleanza, egli si prepara ad inviare truppe sul fronte del Reno
a fianco della Germania proprio mentre a Roma viene deliberata, il 2 agosto, la neutralità italiana.
Questo perché le clausole dell’alleanza prevedono l’entrata in guerra solo in caso di aggressione
ad uno dei paesi firmatari, e non è questo il caso del conflitto austro-serbo che si va delineando.
La dichiarazione di neutralità permette così alla Francia di sguarnire la frontiera delle Alpi a beneficio del fronte della Marna e garantisce la sicurezza dei trasporti di truppe dal Nord Africa.
Non è qui il caso di seguire l’evoluzione politico-diplomatica dell’Italia nei quasi nove mesi che
intercorrono tra la dichiarazione di neutralità e la firma, segreta, del Patto di Londra con le potenze dell’Intesa. Si cercherà, invece, di rendere conto di come l’apparato militare italiano utilizzi
questo periodo di tregua per procedere ad un rafforzamento ed entrare successivamente in
guerra, pur se c’è da considerare che anche l’Austria può utilizzare lo stesso periodo per rafforzare le sue difese sul nostro confine orientale.
Nei primi mesi, sino ad ottobre, anche per ragioni di carattere finanziario ci sono pochi passi
in avanti. Ci si limita al richiamo di alcune classi e si comincia ad affrontare il problema dei
quadri, specie per quanto riguarda gli ufficiali di complemento, che sono in numero assai limitato. Si immettono allora direttamente nei reparti gli allievi delle accademie militari appena ultimati i corsi, senza farli transitare per le scuole di applicazione, si passano in servizio effettivo
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
gli ufficiali di complemento che hanno combattuto in Libia, si effettuano richiami dal congedo,
si promuovono i migliori sottufficiali e si intensificano i corsi per ufficiali di complemento. Così
dall’agosto 1914 al maggio 1915 il numero degli ufficiali è accresciuto di oltre 9.000 unità, per
la metà di complemento. Si cerca anche di aumentare il numero dei sottufficiali incrementando
gli appositi corsi e promuovendo i migliori graduati, senza grande successo, però, data la scarsa
scolarizzazione del Paese.
Per la truppa, dopo i primi richiami delle classi 1889-91 e la chiamata del 1894, il sistema originariamente previsto di procedere contemporaneamente alle operazioni di mobilitazione, con
i riservisti che avrebbero raggiunto le loro unità nelle sedi di radunata, non è più utilizzabile,
sia per motivi legati ai trasporti ferroviari sia perché non si vuole dare eccessiva pubblicità ai
movimenti delle truppe. Ovviamente, così, i tempi si allungano ed in effetti la radunata, dopo
che il 23 maggio è stata bandita la mobilitazione generale, non si completa che il 15 giugno, a
tre settimane dall’inizio della guerra, pregiudicandone le prime fasi.
Dall’inizio del 1915, con la chiamata della classe 1895 e delle riserve non istruite delle classi
precedenti, vengono costituiti 51 nuovi reggimenti di fanteria, dal 111° al 162°, oltre ad 11
nuovi battaglioni di bersaglieri, a 38 compagnie alpini destinate a formare i primi battaglioni
“valle”, a 23 squadroni di cavalleria ed a ben 13 reggimenti di artiglieria, dal 37° al 49°. Anche
la milizia territoriale è richiamata ed i suoi riservisti – classi 1876-1881 – destinati alle retrovie
sono ben344.000 che si sommano, a mobilitazione ultimata, a 31.000 ufficiali ed ai 1.058.000
sottufficiali e soldati, appartenenti, tranne gli effettivi, alle classi 1888-1895 per fanteria ed
alpini, a quelle 1886-1895 per bersaglieri e genio, 1892-1895 per la cavalleria, 1889-1895 per
l’artiglieria da campagna e 1892-1895 per quella da montagna. Gli arruolamenti di volontari
non sono visti di buon occhio, è ancora vivo un preconcetto nei loro riguardi, da parte dell’autorità militare, che risale al Risorgimento, ma non si può fare a meno di accogliere gli “irredenti”
cui sarà dato un nome di guerra.
L’Esercito è destinato, secondo le direttive dello Stato Maggiore, ad una guerra offensiva, con
attacchi di massa, secondo l’opinione ancora dominante in tutti gli stati maggiori dell’epoca,
ancora persuasi, anche dopo i primi mesi di guerra di trincea, dell’assoluta prevalenza dell’attacco, cui al più si concede di essere preceduto da un intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria. La “dottrina Cadorna” non è quindi diversa o peggiore delle altre sue contemporanee.
Le norme sul funzionamento dei servizi sono relativamente moderne e la staticità del fronte le
renderà abbastanza applicabili, pur se ci sarà parecchio da improvvisare per consentire alla
guerra di posizione di proseguire in alta montagna anche durante l’inverno.
Grazie anche all’attività del Generale Alfredo Dall’Olio, Direttore Generale dell’Artiglieria e Genio
– e dal luglio 1915 Sottosegretario per le Armi e le Munizioni – la situazione dell’armamento
migliora, in vista della guerra, con qualche eccezione. Vengono reintegrate le perdite causate
dalla guerra di Libia e l’Esercito può contare su 930.000 fucili e moschetti modello 1891, all’altezza degli omologhi delle altre forze armate europee, su 1453 pezzi da 75/27da campagna,
280 da 70 e da 80 da montagna, 32 da 75/27 a cavallo, 88 da 149 pesanti campali, 108 someggiati e 132 del parco d’assedio, in parte entrati in servizio negli ultimi mesi. Il munizionamento dell’artiglieria non è abbondante, specie in relazione ai consumi dal nuovo tipo di guerra
in corso, così come non sono troppi i pezzi di grosso calibro, ma ciò che è assolutamente inadeguato alla nuova guerra è il numero delle mitragliatrici, appena 618, meno di sei per reggimento, tutte straniere di fabbricazione, e la Fiat inizia le consegne del suo modello 14 solo a
maggio. Mancano poi completamente le bombe a mano e non esistono ancora i mezzi per superare le barriere di filo spinato, così come gli elmetti.
I provvedimenti relativi alla mobilitazione ed al riarmo, che presuppongono una nostra entrata
in guerra, quasi certamente contro l’Austria – ma ancora nulla è stato deciso – si protraggono
fino ai primi mesi del 1915, mentre nel Paese infuria la lotta politica fra interventisti e neutralisti.
CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA
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Quando però il 26 aprile viene segretamente firmato a Londra il patto con cui l’Italia si impegna
a scendere in campo a fianco dell’Intesa entro un mese, nessun organismo militare viene consultato, neppure per quanto concerne la delimitazione dei futuri confini a guerra conclusa. Allo
stesso modo la denuncia della Triplice Alleanza, il 4 maggio, preludio del nostro intervento, coglie di sorpresa il Generale Cadorna, che solo il giorno successivo saprà del nostro impegno
ad entrare in guerra entro il 26 maggio, con l’ovvia conseguenza di un inevitabile ritardo nel
completamento della radunata.
Quando quest’evento si verifica, l’Esercito comprenderà 438 battaglioni di fanteria (su 4 compagnie), 58 battaglioni di bersaglieri, di cui 12 ciclisti (tutti su 3 compagnie), 52 battaglioni
alpini (compresi quelli della Territoriale), 171 squadroni di cavalleria per complessive 21.000
sciabole, 363 batterie da campagna, su 4 pezzi, 8 a cavallo, 70 someggiate e da montagna, 28
pesanti campali, 277 compagnie di artiglieria da fortezza, un parco d’assedio, 114 compagnie
del genio, 113 compagnie presidiarie, i servizi sanitario e di sussistenza e 5 parchi automobilistici, con 400 autovetture, 3.400 automezzi vari e 1.100 motociclette, oltre a 216.000 quadrupedi da sella, da soma e da traino.
L’Esercito ha anche una sua componente aerea, il Corpo Aeronautico Militare che è stato costituito proprio nei primi mesi del 1915 e che, allo scoppio della guerra, può contare su un battaglione Aerostieri, uno Dirigibilisti, con 3 dirigibili operativi, 3 in costruzione ed 1 di riserva, ed
un battaglione Aviatori su 11 squadriglie con complessivi 86 aeroplani. Anche se l’Italia era
stata la prima nazione a far uso in guerra del mezzo aereo, in Libia, questo, negli anni successivi,
era stato un po’ trascurato, così ora scarseggiano i piloti, il personale tecnico e gli aerei, tutti
di fabbricazione estera (solo nel 1915 è avviata la produzione nazionale) sono di vecchio tipo e
quasi tutti sprovvisti di mitragliatrice.
Il 24 maggio l’Esercito, schierato alla frontiera, è inquadrato- pur se ancora a forze incomplete nelle 4 armate previste sin dal tempo di pace oltre alle truppe della zona Carnia e quelle a disposizione del Comando Supremo. La 1^ Armata, agli ordini del Generale Roberto Brusati, è schierata
dallo Stelvio alla Croda Grande, la 4^ nel Cadore, dalla Croda Grande al Monte Peralba, agli ordini
del Generale Giuseppe Nava, le truppe della Carnia, agli ordini del Generale Clemente Lequio, dal
Monte Peralba al Monte Maggiore, la 2^ Armata dal Monte Maggiore a Prepotto, agli ordini del
Generale Pietro Frugoni, e la 3^ Armata, agli ordini del Generale Emanuele Filiberto di Savoia,
duca di Aosta, da Prepotto al mare. In totale 569 battaglioni, 171 squadroni e 512 batterie.
In questi battaglioni sono compresi anche i 3 del Reggimento Carabinieri – a disposizione del
Comando Supremo – mentre altri appartenenti all’Arma esplicano i tradizionali compiti di polizia
militare, a cominciare dalle sezioni mobilitate addette alle singole divisioni. Sempre inclusi tra
i reparti a disposizione dell’Esercito ci sono poi 14 battaglioni della Guardia di Finanza, oltre ai
“distaccamenti speciali” ed agli elementi delle brigate di frontiera addetti alla copertura del confine. E sono proprio due di questi finanzieri a sparare le prime fucilate della guerra, per mettere
in fuga i genieri austriaci che cercano di far saltare in aria il ponte di Brazzano, posto sullo
Judrio che segna la frontiera, mezz’ora prima dell’apertura delle ostilità, alle 23,30 del 23 maggio. I 14 battaglioni della Guardia di Finanza, invece, originariamente destinati in gran parte alla
difesa costiera, sono stati mobilitati ai primi di maggio e, pur se incompleti, vengono in prevalenza assegnati ai settori alpini, così 7 sono destinati alla 1^ Armata, 1 alla 4^, 3 alla Carnia e
solo 4 alla 3^ Armata sul fronte dell’Isonzo.
La linea di frontiera, che si estende per circa 630 chilometri dallo Stelvio al mare, vede due
quinti dell’Esercito (214 battaglioni e 141 batterie) tra lo Stelvio ed il Monte Canin ed altri due
quinti (201 battaglioni, 180 batterie e 30 squadroni) ammassati lungo i 70 chilometri del fronte
giulio, mentre il rimanente quinto è di riserva nelle retrovie, ma proiettato verso l’Isonzo.
Questa dislocazione delle truppe è imposta dalla natura del terreno della linea di confine. La
guerra del 1866, infatti, ha determinato una frontiera assai sfavorevole, da un punto di vista
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
militare, per l’Italia. Si tratta, in pratica, di una S maiuscola disposta orizzontalmente, con un
saliente trentino che arriva al Garda e, nella valle dell’Adige, si arresta a breve distanza da Verona. Pur se legata all’Austria dal patto della Triplice Alleanza l’Italia – attraverso il suo Stato
Maggiore – non ha mancato di redigere, negli anni precedenti, dei piani di operazione contro
Vienna, piani che però, nell’ipotesi di un nostro scontro diretto con l’impero asburgico dotato
di un potenziale bellico nettamente superiore al nostro, erano per lo più impostati sulla difesa.
Ora, con l’Austria impegnata a fondo contro la Russia e la Serbia, si tratta invece di impostare
un’azione offensiva.
Il saliente trentino si presenta assai difficile da rescindere, anche operando su entrambi i suoi
fianchi, data la sua conformazione montuosa che facilita oltremodo la difesa. L’unica altra alternativa imposta dalla linea di frontiera è quindi di attaccare nel settore dell’Isonzo, caratterizzato da cime meno elevate, per raggiungere, attraverso la soglia di Gorizia, la conca di Lubiana,
dove è prevista una grande e decisiva battaglia campale. Ed è questo il piano strategico deciso
dal Generale Cadorna, logicamente intuito dal comando nemico, che è inizialmente tanto persuaso delle sue possibilità di successo da prevedere ugualmente la conca di Lubiana come il
luogo dello scontro definitivo.
Però, all’immediata vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia la situazione dell’Austria sugli altri
fronti è migliorata. I Russi sono stati battuti e la Serbia è inerte. Così ,ora, ai miglioramenti apportati negli ultimi mesi alle già buone posizioni difensive si aggiungono le divisioni che possono
essere ritirate dagli altri fronti. All’inizio delle ostilità sono in linea, pertanto, 234 battaglioni,
155 batterie e 21 squadroni che il Capo di Stato Maggiore imperiale Franz Conrad von Hoetzendorff intende ora utilizzare per difendere accanitamente le posizioni immediatamente retrostanti al confine, appoggiandosi alle fortificazioni esistenti, mentre il resto dell’esercito
austro-ungarico continuerà a combattere – e a battere – russi e serbi. Grazie anche al ritardo
nel completamento della radunata e ad un insufficiente slancio iniziale in alcuni settori, il piano
austriaco riesce in pieno. Non sarà nella conca di Lubiana che ci si batterà ad oltranza, ma sul
Carso e lungo l’Isonzo, per due anni e mezzo.
Anche sul mare la geografia non ci favorisce. La costa nemica da Pola sino a Cattaro è protetta
da una serie di isole disposte parallelamente al litorale che impediscono le incursioni della
nostra flotta mentre offrono uno schermo protettivo alle navi nemiche che, con il favore della
notte, possono raggiungere e colpire, già il primo giorno di guerra, le nostre coste adriatiche.
Queste sono aperte da Venezia, dove è possibile lasciare del naviglio minore, fino a Brindisi.
Questo svantaggio tattico, che condizionerà tutta la nostra guerra navale, è però ampiamente
ricompensato dal punto di vista strategico in quanto la nostra flotta, al comando di Luigi di Savoia, duca degli Abruzzi, insieme a naviglio francese ed inglese è in grado di chiudere il canale
di Otranto, imbottigliando la flotta nemica nell’Adriatico ed impedendo l’ingresso nel Mediterraneo ai suoi sommergibili.
La Regia Marina, logorata dalla guerra italo-turca che l’aveva vista impegnata da Tripoli fino al
Mar Rosso e ai Dardanelli, utilizza i mesi della neutralità per riordinarsi. In questo periodo viene
anche effettuato uno sbarco a Valona – approfittando della caotica situazione albanese – così
da avere una testa di ponte nei Balcani, che si rivelerà utilissima per lo sgombero dell’esercito
serbo.
A mobilitazione completata la marina può contare su 6.500 ufficiali e 139.000 uomini del Corpo
Reale Equipaggi, il triplo della forza di pace. C’è stato anche un modesto incremento delle unità
navali cosicché la flotta entra in guerra forte di 16 corazzate, di cui 5 antiquate, 10 incrociatori
corazzati, anch’essi in buona parte antiquati, 35 cacciatorpediniere, per due terzi, però, con dislocazione sotto le 600 tonnellate, 70 torpediniere e 20 sommergibili. La Marina dispone inoltre
di una propria forza aerea con 25 velivoli, che hanno a disposizione una nave appoggio idrovolanti, ma solo 14 piloti, e 4 dirigibili, di cui 2 a disposizione dell’Esercito.
CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA
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FINESTRA SUL MONDO
Institute for Global Studies
LE AMBIZIONI REGIONALI DELLO STATO
ISLAMICO DELL’IRAQ E DEL LEVANTE
di Nicola Pedde
Il conflitto in Siria è entrato in una fase di stallo, in conseguenza del raggiungimento di un equilibrio di
forze caratterizzato da ambigue quanto pericolose ambizioni di alcuni tra i principali attori in campo.
Il governo centrale di Damasco è riuscito a riprendere il controllo di gran parte delle aree urbane occidentali,
assicurando la tenuta delle proprie linee e garantendosi allo stato attuale la possibilità di ulteriori avanzamenti all’interno soprattutto delle aree controllate dal Free Syrian Army. La presenza sul proprio territorio
delle milizie jihadiste dell’eterogenea galassia islamista, è stata abilmente sfruttata da Damasco per dimostrare la natura e a brutalità di gran parte delle forze di opposizione. Trasformandosi in un elemento di
vantaggio comunicativo non più trascurabile da parte di un’opinione pubblica internazionale sempre meno
propensa a tollerare la violenza ed il cieco fanatismo degli oppositori di Bashar al-Asad.
L’est del paese è invece il larga misura occupato da una miriade di formazioni di varia estrazione, con una
preponderante presenza di miliziani strutturati in seno al gruppo conosciuto come ISIS, acronimo di Islamic
State of Iraq and al-Sham.
L’organizzazione ha una storia recente, ed è caratterizzata da ambizioni che raggiungono insiemi religiosi
e dimensionali non trascurabili e decisamente superiori a quelli della gran parte delle forze in campo.
Si è soliti far risalire al 2000 le origini del gruppo, sotto il nome di Jama’at al Tawhid al-Jihad, e per iniziativa
del giordano Abu Musab al-Zarqawi, basato inizialmente in Afghanistan e con l’obiettivo di colpire il regno
hascemita di Giordania.
Tra il 2002 e il 2003, successivamente alla caduta del regime talebano e all’arrivo delle truppe straniere in
Iraq, al-Zarqawi decise di spostare il gruppo in Iraq, dividendolo in più unità e localizzandolo nelle aree
centrali e settentrionali del paese.
La vocazione prettamente internazionale del Jama’at al Tawhid al-Jihad non venne meno anche in Iraq, attraendo combattenti di diversa nazionalità e sviluppando intensi legami con la crescente galassia delle formazioni jihadiste operanti nel paese.
In modo particolare, un intenso rapporto di collaborazione venne avviato nel nord dell’Iraq con l’Ansar alIslam, gettando le basi per la futura trasformazione dell’organizzazione e per la sua espansione territoriale
a ridosso del confine con la Siria.
Nel 2004, grazie all’afflusso di un gran numero di combattenti stranieri e al sempre più intenso legame con
un numero crescente di organizzazioni jihadiste locali, al-Zarqawi ridefinisce le priorità generali dell’organizzazione, attribuendo un connotato regionale e un obiettivo di più ampia portata geografica e temporale.
Lo scopo diviene quindi quello di liberare l’Iraq dalle forze militari straniere, instaurare uno Stato Islamico
e, di fatto, dichiarare guerra a quella che sempre più chiaramente viene definita come “l’eresia sciita”.
Il 17 ottobre del 2004 al-Zarqawi annunciò ufficialmente la sua adesione alla rete di al Qaeda, compiendo
un ulteriore passo in avanti nella trasformazione dell’organizzazione, ed impegnandosi a combattere non
solo per l’instaurazione del califfato in Iraq, ma più in generale per il jihad regionale.
Il tentativo di unificare la molteplicità di unità sotto l’ombrello di una struttura unitaria, il Mojahedeen Shura
Council, fallì tuttavia in breve tempo, alimentando ulteriori gemmazioni all’interno della galassia combattente in Iraq.
La rete jihadista di diretta affiliazione ad al Qaeda si riunì allora nel 2004 sotto la sigla di AQI (Al Qaeda in
Iraq), definendo una progressiva riorganizzazione delle gerarchie e dei ruoli, non sempre facile e lineare.
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
Al-Zarqawi diventò il ricercato numero uno delle forze di sicurezza americane, e un imponente caccia all’uomo venne lanciata su tutto il territorio dell’Iraq. Secondo l’intelligence americana, i gruppi jihadisti
della rete qaedista avrebbero anche sviluppato un’alleanza con le organizzazioni non islamiste composte
da ex appartenenti alle forze di sicurezza di Saddam Hussein, dando vita ad una efficiente rete capace di
colpire in profondità su gran parte del territorio iracheno.
Con la nascita di AQI, il confronto settario ed interreligioso assunse poi un connotato di maggiore dimensione, come dimostrato dall’incremento degli attentati contro le comunità sciite e gli esponenti di governo,
che tuttavia rappresentò anche la ragione del declino dell’organizzazione, in conseguenza dei modi efferati
che impedirono qualsiasi tipo di radicamento sociale.
Nel corso del 2006 il vertice dell’AQI venne pesantemente indebolito dalla sistematica capacità statunitense
di colpire obiettivi mirati, che provocarono la morte di numerosi esponenti di spicco tra cui nel mese di
ottobre lo stesso al-Zarqawi. La catena di comando non riuscì tuttavia a consolidare le capacità dell’organizzazione, incrementando il livello della violenza e favorendo in tal modo la defezione di numerosi combattenti, che, passati dalla parte delle forze governative, dettero ulteriore impulso alla sistematica
eliminazione dei vertici dell’organizzazione.
A partire dal 2007, quindi, molte unità combattenti irachene di confessione sunnita si allearono contro le
formazioni qaediste, spesso collaborando con le stesse forze governative contro le cellule dell’AQI. Anche
all’interno della galassia islamista irachena, tuttavia, crebbe l’opposizione all’AQI e ai sui brutali metodi.
Tra le prime formazioni a denunciarne l’operato fu l’ISI (Islamic State in Iraq), assumendo poi progressivamente una posizione di netta ostilità.
Un’ulteriore, lunga, fase di trasformazione prese avvio nell’aprile del 2010 quando l’iracheno Abu Bakr alBaghdadi assunse il controllo delle milizie.
Chi è al-Baghdadi, e quali sono i suoi obiettivi
Abu Bakr al-Baghdadi è originario di Samarra, in Iraq. Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Ali alMasri, e si ritiene sia un ex membro del clero. Venne arrestato per reati minori nel 2005 dagli americani,
e richiuso a Camp Bucca, da dove è stato liberato nel 2010 con leggerezza dalle autorità irachene.
Annunciò poco dopo la sua scarcerazione di essere succeduto ad Abu Omar al-Baghdadi, prendendo il
comando dell’ISI e spostando fortemente sul piano confessionale la natura dello scontro.
È tuttavia in Siria, dove entra all’indomani dello scoppio della crisi, che al-Baghdadi riesce a rafforzare la
propria posizione e la consistenza del proprio gruppo, suggellando un accordo con le forze di Jabhat alNusra, che poi egli stesso rigetta rendendosi sempre più autonomo nella gestione delle azioni belliche.
Entrato in contrasto con Ayman al-Zawahiri, successore di Bin Laden al vertice di Al Qaeda, al-Baghdadi
inizia a tessere una rete di relazioni parallele, lentamente cercando di porsi come nuovo punto di riferimento
del jihadismo internazionale.
I rapporti tra l’ISIS e al Zawahiri diventano a quel punto tesissimi, per essere poi di fatto interrotti dopo gli
scontri in Siria con le milizie di Jabhat al Nusra tra gennaio e febbraio del 2014, quado l’ISIS conquista la
città di Raqqa e si scontra – vittoriosamente – con la gran parte delle altre organizzazioni jihadiste locali.
Il progetto politico di al-Baghdadi mira ad una crescita del proprio ruolo all’interno del jihadismo di matrice
sunnita, cercando al tempo stesso di imporsi come autorità statuale attraverso la creazione di un vero e
proprio stato, sotto la forma del Califfato, entro cui attrarre i molteplici interessi economici e politici maturati
e gestiti con successo nel corso del lungo conflitto siriano.
L’obiettivo di al-Baghdadi è quindi regionale, e presumibilmente orientato al controllo di alcune aree geografiche dell’Iraq, della Siria e della Giordania, dove spera di poter determinare fenomeni di crisi simili a
quelli che hanno interessato la Siria dal 2011 ad oggi.
Nonostante la scarsa rilevanza sotto il profilo prettamente religioso, al-Baghdadi rappresenta un punto di
riferimento del jihadismo regionale in virtù della capacità operativa delle milizie al suo comando, oltre che
per l’intensa rete delle relazioni economiche che ha saputo generare e gestire in seno al conflitto siriano.
INSTITUTE FOR GLOBAL STUDIES
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LA STRATEGIA DI SICUREZZA E DIFESA
AUSTRALIANA TRA USA E CINA
di Costantino Moretti
Il Governo australiano nel biennio 2012/2013 ha prodotto tre documenti strategici in tema di
sicurezza e difesa nazionale. Essi sono:
- Australia in the Asian Century White Paper del 28 ottobre 2012;
- Strong and Secure: A Strategy for Australia’s National Security del 23 Gennaro 2013;
- Defence White Paper del 3 maggio 2013, pubblicato un anno prima rispetto alla periodicità
quinquennale prevista per legge.
Tutta la citata produzione poggia sull’assunto che la situazione economica del mondo occidentale e le sue non rosee prospettive, almeno quelle di breve periodo, stanno contribuendo in maniera sempre più marcata ad un inesorabile slittamento del potere globale da Ovest a Est e che
il corso della storia dei prossimi decenni sarà deciso dalle partite che si giocheranno nel quadrante indo-pacifico. In particolare, per il corso della storia sarà fondamentale il modo con il
quale gli USA e la Cina, quest’ultimo primo partner commerciale per l’Australia, sapranno impostare le reciproche relazioni politiche, economiche e militari.
Secondo le Autorità australiane, il passaggio del peso mondiale da Ovest a Est è ascrivibile, oltre
che al citato tramonto economico occidentale, anche alla vigorosa crescita cinese. Una crescita
i cui effetti positivi si riverberano positivamente sull’intera regione e di cui ne beneficia anche
l’Australia. Alla crescita economica cinese è imputabile anche il consistente aumento delle spese
militari, considerate da Canberra come legittime e comprensibili alla luce dell’aumentata influenza
e dell’ampliamento degli interessi nazionali della nuova potenza globale. Una maggiore attenzione
cinese verso alcune questioni internazionali che coinvolgono potenze regionali, quali ad esempio
la rivendicazione di territori e di spazi marittimi, secondo l’Australia potrebbero essere dei punti
di frizione e, in linea teorica, ci sarebbe il rischio che piccoli incidenti, qualora non venissero gestiti e risolti secondo le buone prassi giuridiche internazionali, possano lievitare fino a livelli indesiderati. A tal fine l’Australia si attiverà per incoraggiare la Cina ad utilizzare la propria crescente
influenza per contribuire efficacemente e positivamente al mantenimento della pace e della stabilità nell’area. Inoltre, per prevenire potenziali rischi alla stabilità dell’area, l’Australia si adopererà
affinché organizzazioni multilaterali della regione, quali ad esempio l’East Asia Summit e l’ASEAN,
vengano accettati quali luoghi di confronto per la definizione un quadro regolamentare regionale.
Le Autorità australiane tengono a sottolineare che la Cina deve essere oramai considerata, sia in
termini economici sia in termini politici, una potenza globale a pieno titolo e che comunque essa
non è percepita come un potenziale nemico.
Per quanto riguarda l’altro principale attore della regione, gli USA, l’Australia ritiene che la nuova
politica di Obama, che riserva una maggiore attenzione per il quadrante indo-pacifico, offra
l’opportunità di una più salda cooperazione politica, economica, diplomatica e militare nell’area,
sia a livello bilaterale sia a livello multilaterale. Proprio sulla scia di tale politica nel novembre
2011 l’Australia e gli USA, già legati da una storica e profonda amicizia, hanno annunciato ulteriori iniziative di rafforzamento della cooperazione militare sempre riconnesse alla comune
strategia di favorire la stabilità della regione.
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
L’Australia ritiene che una competizione tra i due Paesi sia inevitabile ma, al contempo, auspica
che tale competizione possa continuare ad essere ‘sana’, all’interno di una costruttiva cooperazione finalizzata al mantenimento della stabilità e della prosperità della regione, affinché tutti
possano continuare a beneficiare dell’attuale, favorevole clima.
Per l’Australia una virtuosa cooperazione tra USA e Cina apporterebbe anche notevoli vantaggi
alla sicurezza dei traffici commerciali marittimi che transitano per l’Oceano Indiano. Quello Indiano è diventato l’oceano più trafficato al mondo. Un terzo delle navi portarinfuse e due terzi
delle petroliere di tutto il mondo attualmente solcano tali acque. Se gli USA continueranno a
detenere un fortissimo potere navale militare nell’area e, quindi, ad essere i principali garanti
della stabilità delle rotte commerciali, tutti i Paesi che incidono su tali acque, devono fornire il
loro contributo, in particolare la Cina e l’India, vista la programmazione per i prossimi vent’anni
delle due marine militari.
L’Australia, al fine di prevenire possibili tensioni, auspica che i citati Paesi così come tutti quelli
che hanno interessi commerciali connessi con l’Oceano Indiano vogliano concorrere a migliorare la sicurezza dei trasporti in maniera collettiva più che individuale. A tal proposito, l’Australia
s’impegna per il rafforzamento di fori multilaterali quali, ad esempio, l’Indian Naval Symposium
o l’Indian Ocean Rim Association for Regional Cooperation.
In conclusione, gli interessi nazionali australiani sono intrinsecamente legati alle trasformazioni
economiche e strategiche in corso nel quadrante indo-pacifico e nel resto del mondo. Se l’attuale vento di pace perdurerà a soffiare nell’area, il Paese ne continuerà a trarre i benefici frutti.
Per favorire tale situazione l’Australia dovrà sfruttare le proprie abilità per depotenziare i possibili
rischi di crisi regionali, affiancando una forte iniziativa diplomatica bilaterale con tutti i Paesi
vicini ad una incisiva azione nei fori regionali multilaterali. L’apparato di sicurezza militare, sempre adeguatamente aggiornato tecnologicamente e formato professionalmente, in questa favorevole fase congiunturale è parte integrante dell’iniziativa diplomatica australiana per il
mantenimento della stabilità dell’area.
FINESTRA SUL MONDO
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OSSERVATORIO STRATEGICO
COMPAGNI CONTRO
di Francesco Lombardi
Centro Militare Studi Strategici
Non bastava la dichiarazione del Presidente Obama di fare
dell’Asia pacifica il fulcro degli interessi statunitensi,
anche la geopolitica, ed in parte anche la cronaca recente,
politica e militare, stanno ponendo quell’area, fino a qualche decennio fa marginalizzata nei dibattiti, come negli
studi, al centro delle questioni globali. Le tensioni tra Vietnam e Cina (ed indirettamente Taiwan), seguite alla decisione di Pechino di avviare indagini petrolifere nel pieno
dell’area contesa prospicente l’arcipelago delle Paracels,
un gruppo di isole rivendicate sia da Hanoi che da Pechino (oltre che da Taipei), hanno portato i due paesi sull’orlo di uno scontro militare. Le recenti tensioni tra
due dei cinque pasi che (nel mondo) si rifanno all’ideologia comunista, giova ricordarlo, sono nate quando, agli
inizi di maggio, la China National Offshore Corporation ha posizionato una piattaforma di perforazione petrolifera,
nota come HD-981 (accompagnata da alcune navi da guerra), nelle acque dinanzi il Vietnam, a circa 150 miglia
dalla costa, nel pieno di quel tratto di mare che separa il paese indocinese dall’arcipelago conteso e che, pertanto,
entrambi i contendenti rivendicano come propria Zona Economica Esclusiva. Del resto, che i due paesi la pensino
in modo assolutamente diverso sulla proprietà e sui connessi diritti di quella porzione di mare è già evidente
nel nome. Infatti, per Pechino esso è il Mar Cinese Meridionale, mentre Hanoi lo definisce Mare Orientale. Il 19
maggio 1974, quando ormai il Vietnam del Sud era sul viale del tramonto, uno scontro navale fra la marina di
quest’ultimo e quella della RPC determinò la sconfitta dei vietnamiti (e l’affondamento di una loro nave) ed il
conseguente controllo cinese di quella trentina di isole, banchi di sabbia e scogli che danno la possibilità di
vantare diritti su una vastissima porzione di mare. Il Vietnam del Nord, all’epoca impegnato nella conquista del
vicino, non aveva né energie né capacità per reagire, e si limitò solo alla presa d’atto dello status quo, senza
però rinunciare alle proprie pretese. Anche Taiwan rivendica diritti di possesso sulle Paracels, in quanto autoproclamata erede della Cina tutta intera (anche se oggi lo fa con meno enfasi di alcuni anni fa). Lo scontro di
questa “calda” primavera si è consumato in mare, dove navi da guerra e barche da pesca delle due parti si sono
speronate (con ammissioni non sempre evidenti da ambo le parti sui fatti realmente accaduti) e dove i cannoni
ad acqua si sono sostituiti a quelli tradizionali. Forse anche più cruento il bilancio sulla terraferma. In Vietnam
si sono avute violente proteste che hanno portato alla distruzione di fabbriche, sia della Cina Popolare che di
Taiwan, ed alla morte di cittadini cinesi. Pechino ha allontanato dal paese indocinese parte dei propri cittadini.
La polizia vietnamita è intervenuta per sedare le rivolte accesesi contro il gesto di Pechino, ritenuto arrogante
quanto non una vera e propria intrusione. Un intervento delle forze dell’ordine che, a giudizio di alcuni osservatori
e secondo le note diplomatiche cinesi, è avvenuto però un po’ in ritardo. Fatti che, comunque, hanno ricordato
quanto avvenuto in Cina circa un anno orsono, quando manifestazioni di piazza coinvolsero fabbriche giapponesi
nel continente, come reazione alla scelta del premier nipponico di rendere omaggio a caduti giapponesi del secondo conflitto mondiale, ritenuti dai cinesi criminali di guerra. Anche il quel caso, un arcipelago conteso (le
isole Senkaku/ Diaoyu), era il vero oggetto del confronto tra i due Paesi. Nella considerazione che l’impianto
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
petrolifero, pur posizionato in un’area che dispone, con buona probabilità, di una significativa concentrazione di idrocarburi, presenta
al momento costi di gestione di una certa rilevanza (soprattutto se si tiene conto delle
spese “accessorie” dovute all’impiego di
strutture militari e/o di altre forme di controllo e sicurezza), non è da escludere che il
gesto posto in essere da Pechino sia carico
più di significati politici che economici. In
proposito, mentre le navi cinesi prendevano
il largo verso il Mar cinese meridionale, venivano perfezionati gli accordi tra Russia e
Cina, poi firmati alla presenza dei massimi
leader delle due potenze, per la fornitura di gas russo alla Cina per i prossimi 30 anni. Un accordo che consente
alla Cina di sostenere la propria economia con una fonte sicura e certo meno aggressiva sul piano ambientale
di quanto utilizzato fino ad ora. Al riguardo, vi è quindi da chiedersi se sia o meno una coincidenza il fatto che
solo un mese prima dell’evento, il Presidente Obama avesse effettuato un tour in quattro capitali del Sud-Est
asiatico, lanciando, tra l’altro un messaggio sulla disponibilità statunitense a garantire i suoi alleati, effettivi o
potenziali, da una crescente pervasività cinese. Il Vietnam non è alleato diretto della superpotenza americana,
ma i rapporti tra i due ex nemici sono ben diversi da quelli di alcuni decenni orsono. Il commercio bilaterale tra
i due oggi ammonta a 30 miliardi di dollari/anno, 134 volte più che nel 1994 (anno in cui ripresero le relazioni
diplomatiche). Con 10,6 miliardi di dollari in investimenti, gli USA sono il 7° investitore straniero in Vietnam.
Comunque, tra i vari Stati dell’area, con cui la Cina ha dispute territoriali marittime aperte, il Vietnam appare
come quello che meno avrebbe stimolato la suscettibilità di Washington nel caso, come è stato, di un’azione
decisa. Un’azione così forte, dunque, rappresenta, verso gli altri competitors, un messaggio indubbiamente
chiaro e forte sulla vision che ha Pechino relativamente alle acque che, in un modo o nell’altro, bagnano o lambiscono il suo territorio. Riecheggia il noto adagio di Mao Zedong “colpirne uno per educane cento”. Dopo l’intervento cinese, la reazione statunitense non sembra essere stata particolarmente incisiva. Nei giorni successivi
al gesto cinese, il Dipartimento di Stato USA, tramite il suo portavoce, ha dichiarato che il dispiegamento di
parte della Cina di una piattaforma petrolifera, in una zona controversa del Mar Cinese Meridionale era “provocatorio e inutile” per la sicurezza nella regione. Ma ha poi aggiunto, che “gli Stati Uniti avevano visto i rapporti
che la polizia filippina dopo il sequestro di barche da pesca cinesi e filippine trasportanti tartarughe marine di
provenienza illegale e che, quindi gli USA esortano le parti a lavorare insieme diplomaticamente dato gli Stati
Uniti sono impegnati con la comunità internazionale per combattere il traffico di fauna selvatica”. “Siamo preoccupati che le navi sembrano essere impegnati nella raccolta diretta delle specie di tartarughe marine in via di
estinzione” non pare poter essere proprio definita una presa di posizione forte per indurre a più miti consigli
sfidanti sull’orlo di una guerra. Gli USA hanno anche richiamato le parti ad affidarsi alle norme di diritto internazionale, che, nel caso in specie (ma in realtà succede spesso), vengono diversamente interpretate. Inoltre, le
organizzazioni internazionali regionali non paiono per ora sedi particolarmente idonee per la gestione della crisi
sulle Paracels, che dallo lo scorso maggio è certo entrata in una fase nuova (e che ha radici lontane), né, più in
generale, sembra possano garantire un sereno confronto sugli altri numerosi contenziosi riguardanti arcipelaghi
ed isolotti che punteggiano da nord a sud, la parte occidentale dell’Oceano Pacifico. L’ASEAN (Association of
Southeast Asian Nations), che raggruppa 10 Paesi del Sud-est asiatico, ha da tempo redatto un codice di condotta per la risoluzione dei conflitti dell’area ma non riesce a imporsi come interlocutore unico con il colosso
cinese che preferisce dialogare (si fa per dire) con ogni singolo “contendente”, potendo, ovviamente, in tal
modo, dare un senso alla propria potenza politica e militare. Il gesto cinese che vuole manifestare la totale autorità sulle acque contese, in definitiva, può nascere lontano, da quel modo di pensare ed intendere la strategia,
nata 25 secoli orsono, nella mente e nella penna di Sun Ztu: “Batti l’erba per spaventare il serpente”.
OSSERVATORIO STRATEGICO
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DIFESA E SOCIETÀ
LA DIFESA DELL’ECONOMIA PARTE DALLA DIFESA
di Nunzio Seminara
Il 27 marzo scorso, a Bruxelles, si è svolta la conferenza annuale dal titolo “European Defence Matters”,
sotto l’egida dell’Agenzia Europea della Difesa, che ha visto la partecipazione di oltre 600 tra esperti e
personalità a livello nazionale ed europeo. In tale consesso è stato ribadito che l’Europa deve sviluppare
con maggiore incisività il programma della Difesa, sia per la funzione a sostegno e a garanzia della
politica estera di sicurezza e difesa dei Paesi Europei, sia per l’attenzione che sempre più condiziona
le strategie economiche comuni.
Particolare risalto è stato dato agli effetti del pooling and sharing (raggruppare e condividere) nell’azione propulsiva della crescente cooperazione nei diversi settori, dall’ammodernamento delle strutture alla ricerca scientifica e innovazione.
Inevitabile è l’interconnessione con le politiche dell’economia mondiale alle prese con una crisi che
tarda a voltare pagina, in particolare per i sistemi industriali e produttivi dei paesi più avanzati.
La Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), introdotta all’inizio degli anni 2000, ha gettato le
basi per una Unione Europea che ha sempre preferito il raggiungimento della sicurezza e della stabilità
attraverso le relazioni politiche ed economiche comuni.
Ma le vicende internazionali che fino ad oggi si sono succedute non hanno consentito pienamente di
risolvere le questioni fondamentali in cui si dibattono i paesi membri, per lo più attivi nel rispettivo dibattito interno di una Europa intesa come potenza civile, fondata da norme e da valori condivisi, diventando autorevole, nello stesso tempo, se riuscisse ad esprimere la sua influenza a livello mondiale
quale garante della sicurezza.
Infatti è stato spesso evocato il ruolo dell’Europa quale produttore di sicurezza (security provider) e
non più consumatore di sicurezza (security consumer), orientamento quanto mai opportuno nel panorama mondiale in cui l’Europa cerca di superare la crisi economica che sta affliggendo i Governi dei
Paesi membri alle prese con le rispettive politiche economiche.
Ed è inevitabile che la Difesa europea debba prendere spunto dal sistema Difesa degli USA, riferimento
obbligato dello scacchiere occidentale.
Riferimento che non è solo quello della politica estera ma anche quello dei rapporti joint che sviluppano
le produzioni industriali che “muovono” l’economia dei singoli Paesi dell’Unione.
Negli States, come da rapporto della European Defence Agency del 2011, i valori del budget governativo destinato al comparto militare sono suddivisi in tre parti, pressoché di pari importo, per il personale
(33%), la formazione (31%) e la ricerca (29): questi sono i valori cui bisognerebbe tendere per costruire
l’efficienza operativa della Difesa Europea.
Ma Difesa Europea vuol dire anche un effettivo sistema federativo che deve avere, però, una effettiva
politica comune che adotti programmi comuni.
Per la Difesa, oltre alla riduzione del personale militare e civile, occorrerebbe un sistema di “formazione”
ottimizzato e una ricerca indirizzata verso produzione scientifica e l’innovazione supportate dall’industria
degli Stati. Se per il personale le scelte politiche sono, seppur lentamente, proiettate verso tagli che però,
oltre a tutelare il welfare della fascia “impiegatizia” maturino maggiori efficienze delle risorse umane “operative”, inevitabilmente la “formazione” avrebbe una configurazione organica abbastanza dirompente.
Cioè, se negli USA, partendo dal primo gradino della formazione, le Accademie Militari sono tre, Annapolis
(Navy), West Point (Esercito) e Colorado Springs (Aeronautica), in Europa ve ne sono almeno tre per
ogni Nazione (Esercito, Marina e Aeronautica etc.), ovvero circa ottanta o poco più: numero eccessivo
per una Europa Unita che abbia, come sempre più gli stessi Paesi membri reclamano, una vera politica
comune di difesa che possa avere scelte comuni di politica estera e perciò una difesa comune.
Nel concreto, proprio dalla formazione si attiva il volano che determina le direttrici di rifasamento del
personale e della ricerca, che si rivolge ad un sistema di produzione che va dagli armamenti alle stru-
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
mentazioni sempre più sofisticate, con sforzi e impegni
progettuali joint fra tutte le industrie europee in grado di
risolvere e produrre le innovazioni scientifiche. Basta pensare che negli USA sono in fase quasi operativa i droni
X-47B, aerei bombardieri senza pilota in grado di decollare e atterrare su portaerei e persino di essere riforniti in
volo, sommergibili con armamenti nucleari anch’essi
operativi senza personale, esoscheletri, sorta di armamenti del personale militare costituiti da una specie di corazze, quasi del tipo robot man in grado di ridurre sforzi
umani del 70%, oltre ad essere dotati di supporti tecnici
d’avanguardia, quali visori al laser e sistemi di telecomunicazione sofisticati (in Italia, sugli esoscheletri, si stanno
facendo passi da gigante nell’Istituto S. Anna di Pisa).
Da qui emerge anche la trasformazione dell’industria della
Difesa, impiegata in produzioni con indirizzi scientifici che
non sono più fantascienza.
Quindi, se la Difesa Comune deve formulare programmi
concreti, dovrebbe investire nella “trasformazione” del
personale e nella formazione per adeguarla all’innovazione che ormai si sviluppa con programmi e
successiva produzione di tecnologie avanzate. Questo processo dovrà determinare la politica dell’Economia, e perciò dei Governi all’interno dei propri Stati, e si dovrà rivolgere con maggiore attenzione al
mondo della scuola, dai primi anni dell’età scolare fino alla formazione professionale.
In questo scenario, che senza enfasi e con sufficiente e attendibile previsione dovrebbe realizzarsi nei
prossimi vent’anni, il “sistema Italia” potrà essere un valido sistema di riferimento.
La “prima scuola”, intesa soprattutto come bacino di preparazione non solo per gli sbocchi nella vita
civile ma anche come premessa formativa professionale del mondo delle stellette, è ben strutturata
con la presenza delle 4 Scuole Militari, che preparano le giovani leve all’ingresso alle Università e alle
Accademie militari. Nelle Scuole Militari - Nunziatella, Teulié, Morosini e Douhet - sono stati già introdotti alcuni argomenti che necessitano di una attenta riflessione: si è parlato di riduzione delle frequenze, del lieve aumento della retta, delle ricadute del risparmio sui costi di gestione, del rilancio
della didattica e del liceo quadriennale sull’esempio europeo. Partendo dalla “Nunziatella” per la ristrutturazione formativa interforze - non con accordi provvisori ma con decreti ministeriali ad hoc sarebbe possibile acquisire definitivamente la vicina Caserma Bixio e, ponendo in essere sinergie culturali e di specializzazione, creare un campus territoriale, quindi unico a livello interforze, di studi di
livello elevato, che comprenda i vicini Istituti di prestigio dislocati nella stessa collina di Pizzofalcone
(Università Parthenope e Istituto degli Studi Filosofici).
La “Nunziatella” potrebbe diventare l’istituto militare pilota per le altre Scuole Militari in virtù della sua
Storia che appartiene a tutto il Paese e quindi, formando oggi Allievi per l’Europa, potrà divenire, in
futuro, Scuola di Allievi dall’Europa. Resterebbe da affrontare la questione della selezione degli aspiranti
Allievi, che inevitabilmente riguarderà l’alveo più allargato dell’inserimento nel mondo del lavoro: Accademie Militari, Università, Centri di Specializzazione.
Se l’età della scelta, come già più volte accennato in altri testi, è fissata a 17 anni, quando la dipendenza
della sfera educativa familiare si è esaurita, dai 24 ai 30 anni, secondo le analisi condotte da Moshe
Feldenkrais in “L’io potente” (a cura di Michaeleen Kimmey, Ed. Astrolabio – 2007), si raggiunge il
consolidamento della formazione e quindi l’effettiva maturità.
In conclusione, quando si parla di programmi per la Difesa Europea si parla anche di efficienza di
spesa che, l’organizzazione “forze armate”, composta da risorse umane da formare, operatività ed investimenti, deve perseguire per essere un modello per tutte le altre Istituzioni. Raggiunto tale obiettivo
sarà più facile, a livello Europeo, confrontarsi, a pari dignità, con gli altri Paesi.
DIFESA E SOCIETÀ
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VIAGGIO DI STUDIO DELLA SESSIONE
ORDINARIA IASD IN NORD ITALIA
7 - 11 aprile 2014
Nel periodo dal 7 all’11 aprile 2014, l’Istituto Alti Studi per la Difesa ha svolto l’annuale
viaggio di studio in Italia, finalizzato ad offrire ai frequentatori una panoramica sull’apparato
produttivo e industriale nazionale, con attenzione all’Industria della Difesa. In particolare,
una delegazione internazionale di Ufficiali Generali e Superiori, e Funzionari civili, tra cui
figuravano anche rappresentanti di ventuno Paesi alleati ed amici, ha visitato Oto Melara
di La Spezia, Agusta Westland di Vergiate, Beretta di Gardone Val Trompia, Veneto Nanotech di Mestre, Fincantieri ed Autorità Portuale di Venezia.
Oltre alle tecnologie più aggiornate, proprie delle diverse realtà industriali oggetto di visita,
nella circostanza sono state presentate anche le soluzioni organizzative, che più hanno
tratto con la Scienza dell’Organizzazione, e le dinamiche di ordine commerciale, qualificanti
del sistema industriale pur nel quadro della congiuntura attuale, facendo così emergere
eccellenze e ambiti di ricerca molto qualificanti della realtà italiana.
Come noto, l’Istituto Alti Studi per la Difesa svolge sessioni annuali di studio, operando in
sintonia con le altre realtà del Centro Alti Studi per la Difesa e con l’Università di Roma Sapienza, per il conferimento ai frequentatori del titolo di Master universitario di II livello in
Strategia Globale e Sicurezza. La sessione corrente è la sessantacinquesima, avendo l’Istituto avviato la propria attività nel 1949.
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INFORMAZIONI DELLA DIFESA • 2/2014
DIFESA NOTIZIE
OSSERVATORIO DELLE OPERAZIONI
DI PACE E STABILIZZAZIONE INTERNAZIONALI
di Enrico Magnani
(Marzo-Aprile 2014)
OSSERVATORI CIVILI E MILITARI DELL’OSCE IN UCRAINA
Il 21 marzo, dopo un duro confronto diplomatico, che ha visto la ferma opposizione russa, l’OSCE decideva
di inviare in Ucraina un nucleo iniziale di 100 osservatori civili, che poi dovrebbero diventare 400, raccolti
in una SMM (Special Monitoring Mission) diretta dal diplomatico turco Ertogrul Apakan per un periodo
iniziale di sei mesi. Il 4 aprile, sempre su richiesta dell’Ucraina, prima 15, poi 28, Paesi dell’OSCE hanno
accettato di inviare anche degli osservatori militari per monitorare la situazione in Crimea e altrove. L’OSCE,
che lavora in quadro consensuale necessita l’approvazione formale di tali attività, ma permette di inviare
personale in casi di emergenza e Kiev ha fatto appello a quelle clausole, per aggirare le prevedibili resistenze di Mosca, anche se la Russia ha poi ritirato le sue obiezioni sulla missione. I 52 osservatori militari
provengono da Austria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna,
Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Italia (2), Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Norvegia, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Turchia e USA. Accanto agli osservatori vi sono alcuni funzionari civili del CPC (Conflict Prevention Centre) dell’OSCE, basato a Vienna.
È ARRIVATO IL 9° CONTINGENTE DI OSSERVATORI MALESI A MINDANAO
A metà marzo un nuovo contingente di osservatori militari e di polizia della Malaysia, il 9°, è stato inviato
nell’isola di filippina di Mindanao a rilevare un analogo distaccamento che ha terminato il suo periodo di
servizio presso l’International Monitor Team (IMT). L’IMT è formato da osservatori militari, di polizia e
civili provenienti da Brunei, Indonesia, Libia oltre a esperti nella mediazione e risoluzione conflitti provenienti da Giappone, Norvegia e UE. Dal 2003 l’IMT vigila sugli accordi di pace del 1997 tra il governo filippino e il Fronte Islamico di Liberazione Moro (MILF), seguiti da altre intese nel 2001, 2002 e 2009.
L’accordo è importante in quanto nelle isole meridionali delle Filippine, abitate da popolazioni musulmane
e da sempre in contrasto con Manila, si è registrata la presenza di gruppi armati islamisti considerati vicini
ad AlQaida. Inizialmente, l’IMT è stato posto sotto gli auspici della Organizzazione della Conferenza Islamica
OIC), anche se non ne è mai stato una diretta emanazione.
NEL 2015 LA REPUBBLICA CECA PARTECIPERÀ ALLA UNDOF
Il 13 marzo il presidente Ceco Milos Zeman, in occasione delle celebrazioni del 15° anniversario della
adesione di Praga alla NATO, ha reso nota la disponibilità del governo a partecipare alla forza di interposizione tra Israele e Siria schierata sulle alture del Golan, l’UNDOF (UN Disengagement Observer Force)
con una compagnia di 150 unità anche se non è stato specificato se si tratterà di un reparto operativo, di
supporto o logistico. La missione ONU, operativa dal 1974, dopo la Guerra del Kippur, è stata più volte
coinvolta negli scontri che oppongono le forze governative siriane e l’insurrezione islamista, conta 1.294
militari provenienti da Fiji, India, Irlanda, Nepal, Olanda e Filippine. In un paio di occasioni ‘caschi blu’ filippini sono stati presi ostaggio di militanti islamisti e poi rilasciati. La repubblica Ceca, che aveva annunciato la sua disponibilità a partecipare all’UNDOF già nell’autunno del 2013, ha altri 6 osservatori militari
presso le missioni ONU in Afghanistan, Kosovo e Repubblica Democratica del Congo.
50 ANNI A CIPRO
In occasione del 50° anniversario della costituzione dell’UNFICYP, il 4 marzo 1964, il Segretario Generale
dell’ONU, Ban Ki Moon, nel suo messaggio commemorativo ha ricordato il ruolo cruciale della forza, sot-
DIFESA NOTIZIE
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tolineando però la mancanza di un reale avanzamento nei negoziati tra le due comunità dell’isola. Ban Ki
Moon ha reso omaggio ai 182 ‘caschi blu’ caduti in servizio nell’isola, ha ringraziato i 32 paesi che si sono
avvicendati inviando proprio personale (tra essi vi sono 4 Carabinieri inquadrati nella componente di polizia) e ha sottolineato il ruolo cruciale della forza nel mantenere la stabilità a Cipro.
IL MANDATO DELLA MONUSCO È STATO PROLUNGATO DI UN ALTRO ANNO
MA L’ONU CERCA UNA EXIT STRATEGY
Il 28 marzo il Consiglio di Sicurezza ha prolungato il mandato della MONUSCO, la forza di stabilizzazione
nella Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire, ex Congo Belga) per un altro anno. Considerando che
la MONUSCO è il nuovo nome di una missione analoga, la MONUC (Mission des Nations Unies en République démocratique du Congo) che ha operato dal 1999 al 2010, e che sono state spese cifre enormi, inviati migliaia di soldati e poliziotti da tutto il mondo e che soprattutto la situazione non è migliorata e
nell’est del paese i civili muoiono a decine ogni giorno per violenze, stenti e malattie, l’ONU domanda alla
comunità internazionale di cercare altre opzioni a cominciare dall’assegnare alle forze in campo un mandato credibile, risorse umane, finanziare e materiali adeguate. Attualmente quasi 20.000 militari, 800 osservatori, 1.500 agenti di polizia, e 4.500 civili prestano servizio alla MONUSCO, per un costo medio di
1,5 miliardi di dollari all’anno. Costoro devono fare fronte alle ricorrenti offensive di diversi gruppi armati,
che si riformano senza posa e con sigle differenti, che aggrediscono le popolazioni civili in un ambiente
operativo difficilissimo. L’ultimo rapporto del Segretario Generale al Consiglio di Sicurezza è un vero e
proprio appello perché gli stati membri trovino una risposta. La risoluzione sembra averne accolto l’urgenza e si spera che l’agenda internazionale lasci del tempo per discutere questo tema.
UN NUOVA MISSIONE EUROPEA E ONU IN AFRICA
Il 4 aprile, con un ritardo di due mesi, è stato dato il via alla EUFOR-CAR. Questo piccolo battle group,
circa un migliaio di militari, dovrà essere schierato esclusivamente nella capitale della Repubblica Centraficana per un periodo di sei mesi (rinnovabili) e cooperare con le forze panafricane già operanti in area
(i 6.000 della MISCA) e altre che si aggiungeranno alla costituenda missione ONU. La costituzione della
EUFOR-CAR è stata sofferta per l’atteggiamento oscillante della Francia, che ha già una sua missione operante in Centrafrica, la ‘Sangaris’ (forte di 2.000 soldati) e per le difficoltà nel trovare paesi che vi contribuissero. Difficoltà economiche, perplessità sul mandato e sulla situazione operativa in zona hanno
rallentato la formazione della EUFOR-RCA, che dipende dal comando europeo di Larissa (Grecia) e vede
la Francia come leading nation con il Generale di divisione Philippe Pontiès nominato dal Comitato Politico
e di Sicurezza dell’UE quale comandante della Forza. Polonia e Moldova (extra UE) avevano dato disponibilità ad inviare personale, ma la crisi ucraina sembra abbia sospeso la loro offerta. L’arrivo delle forze
europee dovrebbe aiutare quelle francesi nei loro tentativi di stabilire il controllo almeno nella capitale,
vista la scarsa coesione delle forze panafricane, il cui comando ha ordinato il rischieramento fuori di
Bangui delle truppe chadiane accusate di comportamenti non neutrali (il Chad ha poi ritirato il suo contingente in segno di protesta). Il 10 aprile, anche in questo caso con un serio ritardo sulla tabella di marcia
(originariamente l’avvio della missione era prevista per gennaio-febbraio al massimo), vista la gravità
degli scontri tra gruppi armati e un disordine diffuso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha autorizzato lo
stabilimento della MINUSCA (Mission des Nations Unies pour la Stabilization en Centre Afrique). Si tratta
di una operazione imponente, che a regime dovrebbe contare 10.000 militari (inclusi 240 osservatori e
200 personale di staff), 1.820 agenti di polizia di cui 1.400 inquadrati in 10 reparti per l’ordine pubblico,
e 20 addetti alle prigioni e un importante apparato civile, incaricato del cosiddetto nation building visto
che tutte le strutture pubbliche erano collassate già prima del colpo di forza delle milizie seleka nel marzo
2013. Lo status delle forze francesi dell’operazione ‘Sangaris’ è ancora incerto anche se sembra che Parigi
voglia premere per un posizionamento indipendente ma parallelo a quelle dell’ONU, analogamente a quanto
fatto in Mali per la ‘Serval’ e la MINUSMA (e precedentemente con la ‘Licorne’ e l’ONUCI in Costa d’Avorio).
Intanto il 27 aprile è stato designato come capo missione della MINUSCA il diplomatico statunitense Laurence D. Wohlers, conoscitore della situazione in quanto già ambasciatore di Washington a Bangui tra il
2010 e il 2013.
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RECENSIONI
LAO PETRILLI – VINCENZO SINAPI
UFO – I DOSSIER ITALIANI
Mursia Editore, 2014, pp.328, €18,00
Su questo universo non siamo soli. Questo è il dato che emerge dalla
consultazione dell’archivio “declassificato” dell’Aeronautica Militare, la
Forza Armata che ha la responsabilità di raccogliere tutte le segnalazioni degli Oggetti Volanti Non Identificati (OVNI), meglio conosciuti
come UFO - Unidentified Flying Object o Unknown Flying Object. I giornalisti Leo Petrilli e Vincenzo Sinapi hanno avuto accesso a questo archivio potendo così rivelare, con questo libro a titolo “Ufo i dossier
italiani”, un fenomeno per molti ancora sconosciuto che pone l’opinione pubblica di fronte ad un dilemma sull’esistenza di altre forme di vita intelligenti nell’Universo. Sono stati 7 gli avvistamenti di Oggetti Volanti Non Identificati registrati sui cieli italiani,
nel 2013, dall’Aeronautica militare: 56 segnalazioni provenienti da ogni regione e di tutti i tipi
negli ultimi 4 anni, con un vero boom nel 2010 (22) e un progressivo calo nel 2011 (17) e nel
2012 (10). Negli archivi riservati dell’Aeronautica finiscono gli avvistamenti più qualificati, in
genere quelli provenienti da testimoni che hanno denunciato il fatto ai carabinieri e compilato
un modulo molto circostanziato. Questo viene inoltrato all’Aeronautica che, tramite i suoi vari
reparti - dal servizio meteo ai comandi operativi - avvia un’indagine tecnica. Se l’oggetto misterioso non è un pallone sonda, un aeroplano tracciato dai radar o, comunque, un fenomeno
noto, allora a tutti gli effetti viene classificato come OVNI, Oggetto Volante Non Identificato. Un
Ufo, appunto. Il che non vuol dire, naturalmente, che gli alieni sono tra noi, ma significa solo
che non è stato possibile individuare una giustificazione tecnica o naturale di quel fatto. Lao
Petrilli, giornalista, lavora per RDS, per la Stampa e per l’emittente australiana SBS. È autore
insieme a Sinapi, di “Nassiriya, la vera storia”. Ha vinto il Premio Giornalistico Città di Salerno
e il Premio Antonio Russo per il Reportage di Guerra. Vincenzo Sinapi, giornalista, è caporedattore aggiunto della cronaca dell’Ansa. Dal 1998 ha cominciato ad interessarsi delle Forze
Armate anche embedded al fianco dei militari italiani nei principali teatri operativi “fuori area”.
Pier Vittorio Romano
GRUPPO DI RICERCA WARTIME FRIENDS
IL BAMBINO IN DIVISA
Fra gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, la storia straordinaria
del piccolo orfano adottato dai soldati canadesi
Homeless Book, 2014, pagg. 215, € 15,00
Spesso i fatti della vita sono frutto delle casualità più strane. Nell’estate del 1944, un piccolo orfano di cinque anni venne accolto dai
militari canadesi che stavano transitando nel cuore della Ciociaria
nella loro risalita verso il Nord, mentre il conflitto continuava a mietere vittime causando terrone e miseria. Lo sfondo della seconda
guerra mondiale è quello in cui si consumò quel piccolo miracolo
che consentì a Gino di ritrovare un rifugio di affetto e sopravvivenza e ai militari di addolcire il
cuore indurito dai combattimenti.
Molti anni dopo, quando Gino, cresciuto nella famiglia di Ravenna che l’ha adottato, è ormai
adulto, un gruppo di ricerca di Bagnacavallo, il “Wartime Friends”, che si interessava da tempo
di approfondire gli aspetti minori della presenza delle truppe alleate sul fronte del Senio e zone
adiacenti, durante la II^ Guerra Mondiale, lo catapulta a ritroso nel passato della sua vita.
RECENSIONI
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Il gruppo si interessò alla vicenda dopo aver notato la foto del piccolo Gino in divisa canadese
fra le pagine del libro “The D-Day Dodgers: the Canadians in Italy 1943-1945” in cui Daniel D.
Dancocks descrive la permanenza dell’esercito Canadese nel biennio che segnò il destino della
seconda guerra mondiale. La curiosità si accese ancor più quando, nella didascalia, lessero
che il bimbo fu adottato da una famiglia ravennate, quindi nell’ambito del territorio in cui operavano. La ricerca si fermò soltanto quando le origini di Gino, rintracciate nella provincia di Frosinone, vennero finalmente alla luce risolvendo quell’enorme e pesante “mistero di identità”.
Il racconto sviluppato nel libro “Il bambino in divisa” ricostruisce passo dopo passo i capitoli
della vita del piccolo, in quei momenti tragici ma comunque intensi e profondi grazie alle testimonianze rese direttamente dai protagonisti ancora in vita e dai ricordi fissati da lettere e cartoline conservate dalle famiglie dei militari e dallo stesso Gino. Sullo sfondo il procedere del
conflitto, le sue interazioni con la misera realtà di borghi, città e villaggi, la collaborazione fra
l’OSS (Office of Strategic Service), precursore dell’attuale CIA, con le cellule emergenti dell’ORI
(Organizzazione della Resistenza Italiana) di cui il padre adottivo di Gino faceva parte. E foto,
tante foto, scattate dai militari canadesi, capaci di ritrarre Gino in ogni momento nonostante le
difficoltà del momento ed i divieti che impedivano il possesso di macchine fotografiche.
Un documento che attraversa gli orrori della guerra per restituire, nella sua tragicità, una bella
storia dedicata, come scrivono i Wartime Friends, “a tutti i soldati canadesi che hanno combattuto per il popolo italiano e a tutti i bambini resi orfani dalla guerra, la cui memoria è andata
perduta. Questa storia vuole essere, idealmente, la storia di tutti loro”.
Monia Savioli
ROBERTO RAJA
LA GRANDE GUERRA GIORNO PER GIORNO. CRONACA DI UN MASSACRO
Edizioni Clichy, Les Halles, 2014, pagg. 330, € 12,90
Sebbene l’Italia sia entrata in guerra solo nel maggio del 1915, cade
quest’anno il centenario della deflagrazione della Prima Guerra Mondiale che dal 1914 al 1918 devastò l’Europa e il mondo intero causando
oltre dieci milioni di morti e lasciando sul campo un continente distrutto. Fu una tragedia collettiva di proporzioni epiche che, lungi dal
risolvere le cause che la scatenarono, portò ad un’altra guerra mondiale ancora più apocalittica e a decenni di guerra fredda con il mondo
diviso in blocchi contrapposti.
Nelle pagine dei libri di storia e di geopolitica possiamo trovare le analisi degli esperti circa le
cause e i retroscena del conflitto dalle diverse prospettive, tutte indispensabili per ricomporre
i tasselli del perché della Grande Guerra ma difficilmente troviamo i “fatti” esposti in modo
chiaro e organico. “La grande guerra giorno per giorno. Cronaca di un massacro” è invece un
libro diverso, non vuole sostituirsi a questi, bensì esserne il presupposto per una corretta ricostruzione cronologica degli eventi e quindi delle cause e delle conseguenze.
“La grande guerra giorno per giorno” narra appunto i fatti per come si sono svolti, sviluppando
con metodica precisione la cronologia degli eventi che si sono succeduti uno dopo l’altro. Dall’uccisione a Sarajevo dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austroungarico, e della sua consorte la Contessa Sofia, sino alla Conferenza di Pace del dicembre
1918 passando per tutti gli avvenimenti e le motivazioni che spinsero a ogni singola scelta le
potenze in campo e che causarono dolori e lutti difficili da rimarginare nei popoli sconvolti. A
completare la cronologia seguono agili note sulle premesse della guerra e sulle conseguenze
della pace, nonché concise biografie di sovrani, politici e soldati.
Giuseppe Tarantino
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Intervista al Capo di Stato Maggiore della Difesa
2
Un punto di vista sull’evoluzione della guerra
La narrativa a premessa dello sviluppo di un’operazione
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