sulla libia di Stefano Mannucci Fotografia Manuel Scrima, Fabrizio Sbrana Le forche della Libia La forca era stata eretta al centro della Piazza del Pane di Tripoli. I corpi impiccati dei quattordici capotribù erano ostentati alla popolazione, che li osservava rimanendo addossata contro le mura dei palazzi ai margini della piazza. «La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte, con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cenciosi, doveva servire» come ha scritto Del Boca «per dare un esempio salutare ai “ribelli”». Era il dicembre del 1911. Il conflitto italo-turco era iniziato da pochi mesi. Diverse erano state le motivazioni che avevano spinto l’Italia all’impresa coloniale, dai desideri bellicisti dei nazionalisti al ruolo della stampa che ormai indicava la Libia come la «quarta sponda» necessaria per ristabilire un equilibrio nel Mediterraneo. A convincere Giolitti a dichiarare guerra alla Libia, aveva probabilmente contribuito anche la percezione che la guerra sarebbe stata rapida e vittoriosa. La propaganda, d’altronde, aveva costantemente raffigurato la popolazione araba desiderosa ormai soltanto di essere liberata dal dominio turco. Lo stesso console generale a Tripoli, Carlo Galli, escludeva con certezza ogni collusione fra turchi ed arabi. Dichiarato come impossibile che un appello alla guerra santa avrebbe potuto unire le popolazioni locali, Galli assicurava che i soldati italiani sarebbero stati sicuramente accolti come liberatori. Ai primi dell’ottobre del 1911, così, circa trentacinquemila uomini, al comando del generale Carlo Caneva, sbarcarono sulle coste libiche e iniziarono a prendere possesso dei primi territori. Anche se i primi reparti fotografici dell’esercito furono istituiti nel 18961, la guerra italo-turca rappresentò senz’altro «il banco di prova degli uomini e dei mezzi della Sezione fotografica, l’occasione per sperimentare in guerra tutte le possibili applicazioni della fotografia all’arte militare». La Sezione Fotografica Militare, al comando del tenente Cesare Antilli, inizialmente dispose la sua sede a Tripoli, dove fu allestito anche un completo laboratorio fotografico. Successivamente, furono create altre due squadre che si stabilirono a Bengasi e a Zuara. I fotografi produssero istantanee di carattere operativo e tattico, intervenendo anche «dall’alto di dirigibili, aerostati ed aeroplani Blérot e Nieuport, per fornire ai comandi rilevamenti sui territori, dati precisi alle batterie di cannoni ed immagini dei dispositivi militari degli avversari arabo-turchi, contribuendo così, per la prima volta nella storia delle imprese militari, a rendere la guerra più tecnica e con risultati più micidiali». Altre fotografie Il 1 aprile 1896 fu istituita una sezione fotografica presso la Brigata Specialisti del III Reggimento Genio a Roma. 1 04 5 documentavano gli armamenti a disposizione delle truppe italiane, cercando di celebrare la perfezione dell’organizzazione dell’esercito e del conflitto. Accanto alla Sezione Fotografica, sui campi di battaglia si aggirarono anche i corrispondenti dei giornali e molti fotografi professionisti, come Luca Comerio che intendeva, attraverso le sue fotografie ed i suoi filmati, «documentare l’eroismo e la superiorità militare e morale delle truppe italiane» . La fotografia diveniva uno strumento di enfatizzazione della guerra come esperienza eroica e virile. I soggetti maggiormente rappresentati e diffusi erano ancora gli armamenti ed i soldati, oltre ai consueti scorci di panorama esotici. Molte fotografie venivano riprodotte nei giornali illustrati o nei volumi scritti dai vari corrispondenti; e nel 1913, i fratelli Treves pubblicarono anche l’Album Portfolio della guerra Italo-Turca per la conquista della Libia, 1911-1912, composto essenzialmente dalle fotografie pubblicate dalla rivista L’Illustrazione Italiana, a tessere appunto un racconto epico della guerra svolta. Se simili pubblicazioni rimanevano ristrette ad un uso riservato alle classi più abbienti ed istruite; per i ceti meno abbienti o poco alfabetizzati, venivano pubblicate e commercializzate apposite ampie serie di cartoline, per raccontare l’esperienza in Libia. Ma l’immagine della guerra serena, dell’incolumità e della potenza delle truppe italiane, fu ben presto incrinata dalla drammatica realtà di guerra. La mattina del 23 ottobre, infatti, le truppe italiane furono attaccate tra Forte Messri e Sciara Sciat. A muovere l’assalto non furono soltanto le truppe turche, ma anche gli stessi abitanti delle oasi e di Tripoli. Fu una vera e propria rivolta, a cui parteciparono civili e guerriglieri, uomini e donne, caratterizzata da una spietata violenza. A Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’XI reggimento furono accerchiate e in poche ore massacrate: Del Boca ha quantificato in 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi il bilancio dei combattimenti. In alcune fotografie, si vedevano i cadaveri dei soldati italiani crocifissi sul terreno. I corpi dei bersaglieri morti, infatti, giacevano «insepolti ovunque; molti» erano «inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti» avevano «cucito gli occhi con lo spago; molti» erano «stati messi sotto terra fino al collo», si vedeva «solo la testa; moltissimi» avevano «avuto le parti genitali tagliate». Le immagini del massacro iniziarono a circolare anche in patria, spesso attraverso le cartoline spedite dagli stessi soldati. Per cercare di limitare la diffusione di simili immagini, nel dicembre del 1911, Giolitti inviò il seguente telegramma al prefetto di Miliano: «Consta che corrispondenti giornali hanno preso fotografie delle crudeli atrocità commesse dai Turchi e Arabi sui nostri soldati. Pubblicazioni di simili fotografie produrrebbe la più penosa impressione nel pubblico. Pregola adoperarsi presso giornali perché pubblicazione non avvenga, facendone comprendere assoluta inopportunità. Proibisca poi in modo assoluto rappresentazione di tale crudeltà dei cinematografi. Mi assicuri esecuzione»2 . Se le immagini dei propri soldati morti non erano tollerate dal governo italiano, di converso, presto iniziarono a essere diffuse alcune cartoline il cui messaggio iconografico era quello dell’ordine che le truppe italiane stavano riportando in colonia. In alcune cartoline, il plotone di esecuzione si era messo in posa appositamente per il fotografo, con ai piedi stesi Archivio di Stato, Milano, fondo «Gabinetto di Prefettura», I vers., c. 567, telegramma cifr. n. 31498 del 5 dicembre 1911. 2 06 i corpi dei civili fucilati. Emblematica era la didascalia che così recitava: «La fucilazione degli arabi, che a tradimento assalirono alle spalle gli eroici bersaglieri dell’11° Regg. nel combattimento a Sciara Sciat». In altre cartoline, invece, veniva ripreso il momento della preparazione delle esecuzioni, con i soldati con il fucile in mano e lo sguardo verso il fotografo, e sullo sfondo, seduti per terra, «arabi catturati nel caseggiato dove partirono i colpi a tradimento» contro il reggimento, «in attesa di essere fucilati». La didascalia e la cartolina, come ha notato giustamente Mignemi, confermava più o meno inconsapevolmente «il carattere di esecuzione sommaria» di simili fucilazioni, essendo le vittime state «prescelte perché trovate in un edificio», senza che fosse «stato istruito nei loro confronti un procedimento per accertare le responsabilità reali». Lo sgomento della sconfitta dei soldati italiani fu trasformato in un sentimento di odio che fomentò e incitò le violente ed arbitrarie rappresaglie commesse dagli italiani contro la popolazione locale, e le successive deportazioni dei sopravvissuti alle repressioni. Questo odio veniva alimentato dalla continua propaganda che indicava gli arabi di Tripoli come vili traditori. Giornali e propaganda usavano parole forti, non risparmiando di narrare i più violenti episodi della rivolta, cercando, come ha notato sempre Del Boca, «di accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione». La violenta rivolta di Sciara Sciat, infatti, aveva rivelato come fossero errate le tesi di chi aveva previsto una facile accoglienza dei soldati italiani da parte della popolazione libica. Se la realtà aveva drammaticamente dimostrato come la propaganda fosse stata fuorviante, ora la propaganda doveva ricreare un nuovo scenario nell’immaginario della popolazione italiana al fine di mantenere salda l’adesione al conflitto. I soldati italiani incendiarono i villaggi, sventrarono con le baionette donne e bambini, violentarono donne e massacrarono i vecchi. La censura italiana iniziò a cercare di celare gli eventi di repressione che imperversarono in quei giorni, ma confrontando diverse fonti, si quantificherebbero in oltre quattromila le esecuzioni sommarie ed indiscriminate perpetrate contro la popolazione civile nei tre giorni successivi all’attacco di Sciara Sciat. Fu proprio durante questi massacri che la fotografia iniziò a divenire anche uno strumento di critica politica e di denuncia dei crimini di guerra. La fotografie delle repressioni italiane erano documenti con cui l’opposizione poteva testimoniare le proprie argomentazioni politiche e la propria protesta. Il giornalista Paolo Valera fece così stampare nel 1911, in centomila esemplari, un opuscolo di denuncia intitolato Le giornate di Sciarasciat fotografate, rappresentando un atto di accusa contro Giolitti ed il generale Caneva. Nelle trentadue pagine che componevano il volume, si susseguivano le immagini più atroci della repressione perpetrata contro la popolazione locale. Le fotografie raccolte da Valera testimoniavano le rappresaglie, le fucilazioni di massa, i processi sommari, gli incendi e le razzie commessi nei villaggi. Ma la fotografia consegnò «di quei giorni di terrificante rappresaglia» un’immagine che poteva «ben essere considerata un simbolo di quell’ingiusta e spietata guerra». La fotografia, infatti, testimoniò la forca eretta nella Piazza del Pane 07 8 9 a Tripoli, per l’impiccagione dei quattordici capotribù; immagine che suggerì al socialista Scalarini, di realizzare per l’Avanti «quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità», presentando al pubblico italiano le forche a più posti che componevano i suoi macabri alberi di Natale. Nonostante la propaganda continuasse all’interno della nazione a diffondere il mito del soldato italiano buono che aiutava ed educava il traditore arabo, la repressione continuò anche negli anni successivi, e «le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestirpabili». L’esposizione in pubblico del corpo impiccato era un messaggio con cui il colonizzatore ostentava la propria potenza, una cruenta celebrazione dell’efficienza della propria giustizia. La forca diventava allo stesso tempo strumento di repressione e di intimidazione. Anche dopo la firma del trattato di pace, l’impiccagione dei guerriglieri arabi rimase il primario strumento per cercare di dominare l’imperversante ribellione nei territori libici. Le immagini delle forche accesero presto anche il dibattito parlamentare sulla politica coloniale italiana, quando Filippo Turati le mostrò durante una seduta a denunciare le atrocità commesse dall’esercito italiano in nome della presunta civilizzazione. Lo scandalo emerse dopo che l’Avanti, il 5 dicembre 1913, aveva pubblicato una serie di fotografie che documentavano delle impiccagioni di alcuni arabi effettuate dai soldati italiani. Nella seduta al parlamento del 18 dicembre, Turati pronunciò un discorso con cui denunciava e condannava la violenza della politica coloniale del governo. «Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande missione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col rispettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […] Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una sportula di cinque franchi. […] Io mi domando se siamo in Italia, e se il Governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia» 3 Ma nonostante le denunce e le critiche dell’opposizione, le esecuzioni capitali continuarono ad essere emesse, spesso senza che le vittime fossero state giudicate da un giusto processo, condannate colpevoli da sentenze a volte prive di reali motivazioni. E così continuarono anche le macabre esposizioni della morte in pubblico. Molte furono le fotografie che testimoniarono l’imperversare delle impiccagioni. Interessante in merito è la documentazione prodotta da Raffaele Tartaglia, un artigiano di Altavilla Irpina che si trovò in Libia dal 1929 al 1931. Essendogli stato commissionato di trovare una procedura per rendere più efficienti le forche per le impiccagioni, egli scattò molte fotografie a diverse esecuzioni avvenute in quegli anni di repressione contro la guerriglia. Durante il fascismo il controllo sulla fotografia divenne più capillare e sistematico. Difficile trovare nelle fotografie Camera dei Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del 18 dicembre 1913, pp. 555-557. 3 10 ufficiali scene di repressione. Ma la fotografia privata spesso documentò l’efferatezza delle impiccagioni, testimoniando inoltre il rituale preparato per ostentare l’impiccagione di Omar el Muktar4 , nel campo di concentramento di Soluch, davanti ai notabili confinati a Benina e a ventimila libici provenienti dai vicini lager. Affinché la sua impiccagione costituisse un monito verso i guerriglieri, infatti, i condannati reclusi in diversi campi di detenzione furono condotti sul luogo dell’esecuzione, per assistere alla condanna. «L’impiccagione del settantenne Omar el Muktar, il 16 dicembre 1931, davanti ventimila deportati», come ha notato Del Boca, concludeva «praticamente la più sanguinosa fra le campagne repressive ordinate dal regime», ma allo stesso tempo anticipava, per lo «stile» e «l’efficienza degli esecutori», quelle che negli anni successivi sarebbero «state scatenate in Etiopia» ■ Fu il fotografo Puletti a riprendere i momenti della cattura di Omar el Mukhtar, un capo militare della guerriglia contro gli italiani, avvenuta l’11 settembre del 1931, riprendendo il leader della resistenza cirenaica accerchiato dai soldati del 7° squadroni savari guidato dal capitano Bertè. 4 11