Breve storia della detective fiction
di Paolo Ferrucci
http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Ferrucci
http://ferrucci.wordpress.com/
Il genere
C’è chi sostiene che la letteratura sia sempre esistita come sistema di generi. Ogni nuovo genere letterario che
nasce, rappresenterebbe l’evoluzione di uno o più generi precedenti. E sulla nascita del genere poliziesco, inteso
come indagine su un mistero legato a un delitto, le teorie sono diverse: da quelle che ne identificano l’origine
con l’opera d’un singolo autore (facendo coincidere, ad esempio, la nascita del poliziesco coi racconti di Poe), a
quelle più retrospettive che, quando identificano un “caposcuola”, ritengono abbia raccolto l’eredità del passato,
rinnovandola con innesti originali o con varianti capaci di creare un salto di livello. Di certo, nessun genere
letterario nasce dal nulla: alle sue spalle c’è sempre una trama sottile e complessa di antecedenti e influenze.
Nel dibattito sulle origini, si possono distinguere tre orientamenti: quello dei cosiddetti puristi, che
individuano il primo esempio di detective fiction in The Murders in the Rue Morgue, pubblicato nel 1841 da
Edgar Allan Poe; quello dei cosiddetti filologi, che fanno risalire la genealogia dei detective a Caleb Williams,
un romanzo di William Godwin apparso nel 1794; e quello degli enciclopedisti, pronti a cogliere paradigmi
polizieschi nei più diversi ambiti della letteratura antica e moderna, a partire dalla Bibbia (non dimentichiamo
che il primo furto, scoperto e punito, avvenne nel giardino dell’Eden).
Edipo Re
Diversi elementi cardine del genere poliziesco li troviamo nella tragedia Edipo re di Sofocle, che affonda le
radici nella mitologia greca. Ecco la fabula.
Durante un viaggio, il re di Tebe Laio viene crudelmente massacrato a bastonate. Dopo molti anni, a Tebe
sale sul trono un nuovo re: Edipo, uno straniero che ha liberato la città dall’incubo della Sfinge e che ha sposato
Giocasta, la vedova di Laio. Ma l’assassinio di Laio, rimasto impunito, grida vendetta al cielo, e gli dèi fanno
scontare il peccato alla città scatenando una terribile pestilenza. Per placare la loro collera, è necessario che il
colpevole venga scoperto e punito “di mano violenta”.
Deciso a salvare la sua città, Edipo si propone d’indagare per far luce su quell'antico delitto: interroga la
vedova del morto, i notabili di Tebe, l’indovino Tiresia, un vecchio pastore, finché scopre che l’assassino è lui
stesso. E un vecchio servo della casa di Laio, fra dolorose reticenze, svela che Edipo è figlio di Laio, che lo
espose neonato sulle balze del monte Citerone affinché morisse; qui lo raccolse Polibo, che lo adottò come suo
nella terra di Corinto.
Gli elementi del genere ci sono quasi tutti: la morte violenta (l’omicidio di re Laio), il mistero (perché a
Tebe s’è scatenata la peste?), il rapporto passato-presente (le radici del male di oggi affondano in un atto
compiuto nel passato), le testimonianze e gli indizi (il mistero della peste verrà risolto facendo luce su un
omicidio insoluto), la detection (Edipo ragiona e cerca di ricostruire i fatti).
L’elemento più straordinario della tragedia, però, è nel modo in cui l’indagine ha termine: facendo
scoprire a Edipo di essere lui stesso l’assassino, Sofocle gioca già con gli elementi del genere, infrangendo la
regola che vuole separate le figure del detective e del colpevole. In più, l’accanimento degli dèi contro Edipo si
basa su una colpa di cui lui s’è macchiato inconsapevolmente, poiché non poteva riconoscere suo padre quando
l’ha ucciso e non poteva sapere che la splendida regina che ha sposato è sua madre.
Sotto quest’aspetto, è evidente che l’Edipo re celebra l’oscurità del destino, il non senso della vita, la
disarmonia che oggi ritroviamo nei romanzi noir.
(per approfondimenti: I padri fondatori. Il “giallo” da Jahvè a Voltaire, a cura di Oreste Del Buono, Einaudi
Tascabili 1991).
La Bibbia e l’enigma della camera chiusa
Dopo aver parlato di Edipo, andiamo ancora più indietro. Se vogliamo cercare il primo enigma della camera
chiusa, caro a tanti giallisti, troviamo il primo antecedente storico nell’episodio biblico di Daniele, XIV. Qui
Daniele smaschera i sacerdoti del dio Bel, i quali nascondevano i loro furti giurando che ogni notte il loro dio
mangiava dodici staia di farina e quaranta pecore, e beveva sei anfore di vino. Per dimostrare al re che i sacerdoti
lo stanno ingannando e che sono loro e le loro famiglie a divorare quel cibo, entrando da un’apertura segreta nel
tempio che veniva chiuso e sigillato dal re in persona, Daniele cosparge il pavimento di cenere. E il mattino
seguente mostra al sovrano le impronte di uomini, donne e ragazzi. Superfluo dire che i sacerdoti, così
smascherati, verranno giustiziati con le loro mogli e i loro figli.
Il primo investigatore
Il prototipo di investigatore più celebre risale al Settecento: nientemeno che al racconto filosofico Zadig di
Voltaire, ripreso dalla tradizione persiana.
ZADIG o Il destino [Zadig ou la destinée] è un racconto di Voltaire (Francois-Marie Arouet, 1694-1778),
pubblicato nel 1749. Zadig è un giovane cittadino di Babilonia, virtuoso e saggio, contro cui pare che la sorte si
accanisca, divertendosi a togliergli di mano in mano quanto egli ottiene con i suoi meriti. La sua fidanzata, che
egli ha difeso valorosamente con le armi, concede a un altro la mano non appena le giunge la falsa notizia che
egli è diventato guercio in seguito alle ferite riportate. Il più saggio dei matrimoni gli procura le più gravi
delusioni. Divorziato, si dà alla scienza e non ne ricava che danno, fa una poesia in lode del re, e un invidioso
riesce con questa a farlo condannare a morte per lesa maestà. Solo il caso lo salva e gli procura il favore del re,
di cui diviene ministro. Ma tra lui e la regina Astarte sorge insensibilmente l'amore, che, per quanto nessuno dei
due osi confessarlo nemmeno a se stesso, desta la terribile gelosia del re. Zadig prende la via dell'esilio, dove la
sua mala sorte lo segue. Per aver difeso una donna percossa dall'amante perde la libertà. Portato schiavo in
Arabia, combatte, in nome della ragione, le più crudeli superstizioni, e solo con l'astuzia e la fuga si sottrae al
furore dei sacerdoti. Ritrova finalmente Astarte, rimasta vedova e divenuta schiava in seguito alle più
drammatiche avventure, e riesce a liberarla. Essa ritorna sul soglio regale, e si bandisce un concorso per darle
come consorte l'uomo più prode e più saggio. Zadig vince la prova delle armi, ma è truffato dalla furfanteria di
un rivale. Allora il suo coraggio vien meno, ed egli dubita che il mondo sia governato da un destino crudele che
aiuta i malvagi a spese dei buoni. A questo punto incontra un eremita, il quale gli dimostra che il caso non esiste
sulla terra, ma tutto è prova, o punizione, o ricompensa, o prevenzione, e, divenuto un angelo luminoso, lo
ammonisce: "Misero mortale, cessa di discutere là dove conviene adorare!". E finalmente Zadig, superate
vittoriosamente le ultime prove raggiunge la felicità e l'amore.
Uscito già due anni prima, nel 1747, con qualche capitolo in meno, sotto il titolo di Memnone. Storia
orientale [Memnon. Histoire orientale], é questo uno dei primi saggi di quei racconti filosofici e morali a cui
doveva rimanere più durevolmente legata la gloria del migliore Voltaire; di quello che, compiuta la sua
evoluzione intellettuale e fissato nitidamente il suo pensiero, si compiaceva, con raffinata cura d'artista, di
calarlo nelle figure dei suoi personaggi, lanciandoli, obbedienti al verbo del loro creatore, a combattere le sue
battaglie. Di intrighi sentimentali e di viaggi usati come pretesto alla esposizione di teorie filosofiche, di
fantastici paesi orientali, in cui potesse spaziare la libertà d'invenzione dell'autore, non mancavano esempi nella
precedente letteratura inglese e francese; nuova è la luminosità del pensiero, che dal problema centrale si riflette
sul ricco contenuto filosofico sparso nei vari episodi secondari, nuovo l'appassionato interesse per la conquista
razionale del benessere umano, nuovi, soprattutto, l'ironia scintillante, la libertà, il movimento, la varietà dello
stile, che ha tutta la freschezza e la grazia di una affascinante conversazione.
Due citazioni. “Le opere di Voltaire sono come quei volti sproporzionati che risplendono di bellezza”
(Montesquieu). “Una fantasia e un equilibrio continuo governano questi reami di fantasia e di verità,
l'immaginazione, procede armata del più quotidiano buon senso” (Massimo Bontempelli).
Un “assaggio”. Un giorno, al Primo Eunuco che gli chiede se ha visto il cane della regina, Zadig risponde: “È
una cagna, e non un cane”.
“È vero” ammette il Primo eunuco.
“È una cagna piccolina, di razza spagnola” precisa Zadig, “ha da poco avuto i piccoli, zoppica con la
zampa anteriore sinistra e ha orecchie lunghissime.”
“L’hai dunque vista?” gli chiede l’altro.
“No, non l’ho mai vista, né ho mai saputo che la regina avesse una cagnolina.”
Così Zadig, Sherlock Holmes ante litteram, spiega il mistero: “Ho visto sulla sabbia le impronte di un
animale, e ho capito facilmente che erano le impronte d’un piccolo cane. Dai solchi lunghi e leggeri impressi sui
minimi rilievi della sabbia, fra le orme delle zampe, ho capito che si trattava di una cagna con le mammelle
penzoloni per avere figliato da pochi giorni. Altri segni, tracciati in senso diverso sulla superficie sabbiosa, ma
lateralmente alle orme delle zampe anteriori, m’hanno fatto capire che la cagna aveva orecchie molto lunghe; e
poiché una delle orme risultava più lieve delle altre, ho capito che la cagna zoppicava un poco”.
Lo svelamento
L’episodio di svelamento più famoso lo troviamo nell’Amleto di Shakespeare. Amleto, deciso a smascherare il
responsabile della morte del padre, fa recitare davanti alla corte di Danimarca il dramma di un assassinio che
riproduce esattamente le circostanze di quella morte. Così riesce a mettere alle strette il colpevole – suo zio
Claudio – e lo induce a svelarsi, manifestando la propria agitazione.
Qui siamo davanti al prototipo, se vogliamo, della classica riunione finale dei personaggi d’un romanzo
giallo – tanto cara ad Agata Christie – nella quale l'investigatore smaschera il colpevole “rappresentando” il suo
delitto e ricostruendone il meccanismo.
In definitiva, l’anima della classica detective fiction è il connubio di un mistero (come un furto o un fatto
di sangue) e di uno svelamento, differito a lungo, ma destinato inevitabilmente a far trionfare la razionalità e la
giustizia. In genere, lo spazio più ampio del racconto viene riservato alla detection, mentre il crimine avviene
spesso dietro le quinte, per essere ricostruito e spiegato solo alla fine.
Come ha scritto Carlo Ginzburg in un suo saggio, apparso nel volume Il segno dei tre. Holmes, Dupin,
Peirce (Bompiani 1983), l’abilità del detective discende dagli atavici inseguimenti in cui l’uomo, cacciatore da
millenni, era costretto a ricostruire “le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati,
pallottole di sterco, ciuffi di peli, odori stagnanti”.
Va da sé che, nelle tradizioni antiche, all’investigazione e allo smascheramento manca il carattere tipico
che nascerà solo nell’Ottocento: l’indagine professionale del crimine. Cioè, manca la polizia, pubblica o privata.
E non stupisce, se si pensa che fino alla metà del Settecento non esistevano processi indiziari: il verdetto si
fondava soltanto sulle deposizioni dei testimoni e sulla confessione – regina di tutte le prove – che spesso
veniva estorta con la tortura.
(per approfondimenti: I padri fondatori. Il “giallo” da Jahvè a Voltaire, a cura di Oreste Del Buono, Einaudi
Tascabili 1991)
Il criminale
Dal Giardino dell'Eden fino al Settecento, dunque, l’interesse del pubblico si concentra sulle imprese del
criminale - d'estrazione popolare nella letteratura bassa, e di statura eroica nella tragedia, come nel caso di
Macbeth. Ma è possibile rintracciare anche una letteratura di enigmi, i cui protagonisti mostrano doti logiche non
comuni, che affonda le radici nell'antichità.
I contributi sviluppati dalle tre scuole critiche cui s'è fatto cenno (i filologi, i puristi e gli enciclopedisti) sono
stati successivamente ricomposti in un quadro unitario, che vede confluire nel genere poliziesco due forme di
"scandalo": la prima, che ha come scenario i bassifondi, è rappresentata dalla criminalità endemica tra le classi
meno abbienti (al centro di opere popolari che preludono al reportage giornalistico); la seconda è data dalle
azioni illecite dei potenti, già celebrate nella tragedia elisabettiana e giacobiana. Nel Settecento, questi due filoni
di letteratura criminale si contaminano attraverso i romanzi Moll Flanders (1722) di Daniel Defoe, Jonathan
Wild (1743) di Henry Fielding e lo stesso Caleb Williams di Godwin; ma è solo nell'Ottocento che all'interesse
per il criminale si sostituisce quello per il detective.
Il romanzo criminale settecentesco.
Sin dal finire del Seicento, a Londra, il cappellano della prigione di Newgate (“The Ordinary Chaplain”, detto
“The Ordinary”), dopo aver assistito i condannati a morte, aveva il diritto di pubblicare il resoconto dei loro
ultimi istanti e delle loro imprese delittuose.
Queste narrazioni – in forma di pamphlets, talvolta venduti il giorno stesso dell’esecuzione – ebbero un largo
pubblico, così alcuni stampatori decisero di raccoglierle in volume. Nacque così, nel 1773, The Newgate
Calendar, un almanacco che conobbe numerose riedizioni. L’iniziativa venne poi ripresa da vari editori, che si
misero a pubblicare opuscoli basati sui resoconti ufficiali dell’Old Bailey, il tribunale di Londra, ovviamente
arricchiti di particolari truculenti per soddisfare l’interesse morboso del pubblico per i criminali e le loro gesta.
Nel Settecento era la località di Tyburn – oggi Marble Arch –, spesso menzionata insieme a Newgate negli
annali del crimine, lo scenario delle impiccagioni dei delinquenti comuni. I prigionieri d’alto rango, invece,
venivano
giustiziati
a
Tower
Hill
mediante
il
taglio
della
testa.
Come sappiamo, la popolarità delle esecuzioni era altissima. L’occasione si trasformava in una sorta di
kermesse, come mostra una lettera scritta da un viaggiatore italiano – Alessandro Verri, fratello di Pietro – nel
gennaio 1767:
Tutta Londra era in moto per tal funzione, della quale sono curiosi gl’Inglesi ancor più di noi. Vi sono de’
gran palchi di legno dall’una e dall’altra parte del patibolo, per montare su i quali si paga un tanto. Sono
sempre pienissimi.
Qui, spesso, il condannato faceva il cosiddetto “discorso del patibolo”, con cui era chiamato a riconoscere,
insieme ai propri crimini, la giustizia della condanna. In questo modo egli incarnava, come osserva Michel
Foucault nel saggio Sorvegliare e punire (Einaudi 1976), “sotto la morale apparente dell’esempio da non
seguire, tutto un ricordo di lotte e di scontri” ingaggiati “contro la legge, contro i ricchi, i potenti, i magistrati, la
polizia militare e la ronda di notte, contro l’esattoria e i suoi agenti”, tutte istituzioni per cui il popolo di sicuro
non parteggiava.
Infatti, non di rado, dopo l'esecuzione il condannato veniva celebrato come un santo, e la proclamazione
postuma dei suoi delitti gli assicurava la gloria. In pratica, il pubblico settecentesco vedeva nel criminale un
malfattore e un eroe al contempo: questo era dovuto all’estrazione popolare dello highwayman o bandito di
strada, il cui comportamento deviante era l’unico modo per eludere un sicuro destino di povertà.
Una figura opposta a quella del criminale comune, visto come un individualista alla ricerca della libertà
contro le pesanti costrizioni economiche, morali, sociali, è quella del celeberrimo criminale Jonathan Wild, un
vero e proprio genio del male a cui si ispirò la History of the Life of the Late Mr Jonathan Wild the Great (1743)
di Henry Fielding.
Con la figura di Wild, il fuorilegge perde lo statuto dell’eroe popolare e diviene uno strumento del potere.
Parlare di lui significa parlare delle opere che ne narrano le gesta, poiché nei tre mesi successivi alla sua
esecuzione ne furono pubblicate almeno diciassette.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998).
Vita e avventure di Jonathan Wild il Grande
Jonathan Wild fu uno dei più noti criminali inglesi del Settecento: un vero “genio del male”, che storicamente
incarnò l’emblema dell’integrazione fra malavita e “sistema”. Cominciò avviandosi alla carriera di sfruttatore e
ladruncolo, per poi inventarsi il mestiere d’intermediario fra il ladro e la vittima. In pratica, si recava nelle
dimore di cittadini recentemente derubati (con la sua complicità), sostenendo di essere venuto a conoscenza del
furto e d’avere con ogni probabilità individuato la refurtiva. Indicava quindi la cifra richiesta dal ladro per
restituirla: se il cliente accettava, lo pregava di consegnare il denaro a un proprio emissario, che avrebbe
restituito il maltolto. Quanto all'onorario, Wild si rimetteva alla generosità della controparte. Col tempo, egli
acquistò grande fama, e la sua casa divenne una sorta di “ufficio oggetti smarriti”: lungi dal sospettarlo coinvolto
nei crimini, i suoi clienti lo consideravano un uomo fondamentalmente onesto.
Wild, dunque, arrivò a organizzare una vasta corporazione di ladri, strutturandola con logica
imprenditoriale, e allo stesso tempo lavorò come informatore della polizia. Ciò che lo distingue dagli altri
pendagli da forca è innanzitutto l’accurata organizzazione della sua banda di grassatori e briganti, dove si
tenevano libri contabili con tanto di entrate e uscite, e i sottoposti erano inquadrati in una ferrea gerarchia. In
secondo luogo, Wild strinse un ambiguo patto col potere politico, al quale consegnava ladri e malfattori in
concorrenza con lui, arrivando a spedire al patibolo i gregari che rifiutavano le sue condizioni o si dimostravano
pericolosi. Alla fine divenne così importante che, nel 1720, il Privy Council giunse al punto d’interpellarlo per
arginare furti e rapine. Qualche anno prima della sua caduta, si proclamò addirittura Thief-Taker General of
Great Britain and Ireland.
In realtà, a favorire l’ascesa di Jonathan Wild fu il sistema giudiziario inglese settecentesco. La creazione
di un corpo di polizia era avversata dal popolo, in quanto strumento dispotico, ed era vista con sospetto dagli
stessi organismi statali. Quindi, per assicurare la cattura dei criminali, ci si affidò all'iniziativa privata. Con il
cosiddetto "Highwayman Act" del 1692, per ogni bandito di strada catturato e dichiarato colpevole si
corrispondevano quaranta sterline: nacque così la figura dello thief-taker professionista, o cacciatore di taglie.
Gli affari di Wild, dunque, prosperavano. Ma, come spesso accade, l’impunità spinse l’eccentrico
“trovarobe” a uno sprezzo sempre maggiore della legge, tanto che non solo continuò a orchestrare furti, ma
commise l’imprudenza di prendervi parte, offrendo ai complici l’opportunità di testimoniare contro di lui. Forse
fu proprio la sua doppiezza ad alienargli il favore popolare e a segnare l’inizio del suo declino, che si concluse
con la cattura, la prigionia e l’impiccagione.
Alla vigilia del processo, Wild tornò a proclamarsi paladino della giustizia, facendo circolare i nomi dei
sessantaquattro uomini e della donna che aveva fatto impiccare; ma il cinismo del gesto gli si ritorse contro, e il
giorno dell'esecuzione fu accompagnato al patibolo da una folla inferocita. Tra i criminali venduti da Wild alla
giustizia spiccano Jack Sheppard, che assunse lo statuto di eroe grazie all’abilità con cui evadeva dalla prigione,
salvo venire puntualmente riacciuffato, e Joe “Blueskin” Blake, la cui vendetta fallì di poco allorché, dopo la
cattura, accoltellò lo thief-taker alla gola. Wild, dunque, è l'antitesi del criminale settecentesco: a differenza dei
condannati che muoiono con fermezza e con sentimenti eroici, egli si avvia al patibolo sotto una pioggia di pietre
e di fango.
Della storia di Jonathan Wild abbiamo diverse fonti, fra le quali quella di Daniel Defoe, che fu testimone
della sua esecuzione capitale. Ma la più importante resta il romanzo del 1743 History of the Life of the Late Mr
Jonathan Wild the Great di Henry Fielding. Tuttavia, nel romanzo Fielding punta su Wild il suo sguardo ironico
soprattutto per farne il simbolo di un sistema politico deviato: molto riconoscibile è l’analogia fra
l’organizzazione criminale di Wild e l’amministrazione corrotta del governo di Sir Horace Walpole. E qui la
narrazione serve soprattutto al rovesciamento parodico: l’autore non ha alcun interesse per il folklore della
malavita organizzata e per i metodi del suo operare, ma punta dritto alla satira politica.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998)
Caleb Williams
Scritta nel periodo che vide fiorire, anzi furoreggiare, il romanzo "nero" o "gotico" farcito di avventure
orripilanti, la storia del giovane Williams si distingue nel genere per la relativa sobrietà dell'intreccio, e per
l'innegabile vitalità artistica di molte parti. Caleb è un giovinetto di umili natali che Ferdinando Falkland
accoglie nella sua casa ed educa per farne il proprio segretario. Egli si affeziona con trasporto giovanile al suo
benefattore e ne è ricambiato. Falkland è un ottimo uomo ma ha un'eccessiva cura della propria reputazione che,
a poco a poco, si trasforma in una vera e propria mania. Vicino al castello di Falkland abita Barnaba Tyrrel, ricco
signore, protervo e prepotente, gelosissimo dell'ascendente che Falkland esercita su coloro che lo avvicinano. Un
contadino, di nome Hawkins, vessato per futili motivi dal signorotto, si rivolge per protezione a Falkland e tanto
basta perché Tyrrel lo faccia scacciare dal villaggio con tutta la sua famiglia. Sorte anche più triste tocca a
Emilia Melville; ma si rifiuta di credere all'evidenza delle sue congetture finché Falkland non conferma
direttamente i suoi sospetti, facendogli giurare che per nessun motivo mai rivelerà il segreto.
Evaso dal carcere, cade nelle mani di briganti il capo dei quali, un ribelle non cattivo, lo prende a
benvolere destando così la gelosia di un certo Gines che si mette al servizio di Falkland per vendicarsi di Caleb.
E questi è costretto a mutare continuamente nome e residenza sempre perseguitato da Falkland che, sicuro del
suo silenzio, è tuttavia furioso contro di lui che sa il suo segreto, e vuole rovinarlo. Finché un giorno, ridotto
ormai alla completa indigenza, Caleb torna nella città natale e denuncia Falkland. Messo a confronto con il
vecchio si commuove e, pur mantenendo l'accusa, elogia le grandi virtù di quell'uomo ch'egli ancora ama e
rispetta. Una tale condotta riempie di vergogna e di ammirazione Falkland, che finalmente confessa il suo delitto
e muore poco dopo. La vita continua per Caleb offuscata dal ricordo delle sofferenze passate e dal rimorso di
non aver saputo serbar fede al giuramento fatto.
Il libro incontrò un grande successo grazie soprattutto all'ottimo studio dei caratteri: il progressivo
sviluppo della monomania di Falkland è condotto con straordinaria verosimiglianza. William Hazlitt dichiarò
addirittura: "Forse l'arte con la quale questi due caratteri sono descritti, in modo che l'uno dia risalto all'altro, non
è stata superata mai in nessun romanzo eccettuata l'immortale satira di Cervantes". Godwin, le cui idee
razionaliste e rivoluzionarie influenzarono profondamente la letteratura inglese, scrisse questo romanzo per
divulgare la sua filosofia e, infatti, si vendettero più copie di questo che non dei suoi Saggi e della Inchiesta
concernente la giustizia politica. Caleb, Emilia, Hawkins e altri minori rappresentano i poveri perseguitati dai
ricchi, impossibilitati a difendersi e ad avere giustizia, mentre i frequenti arresti dei vari personaggi offrono lo
spunto ad acerbe critiche contro il sistema carcerario del tempo.
Il romanzo ideologico di William Godwin – I° parte
Caleb Williams, dedito a risolvere con logica inflessibile un caso d'omicidio, si può definire il primo detective in
senso moderno. Il romanzo in tre volumi di cui è protagonista venne pubblicato nel 1794 da William Godwin
(1756-1836), col titolo: Things as They are; or The Adventures of Caleb Williams.
Da molti anni la mia vita è teatro di sventure. Sono stato oppresso da una tirannia ossessionante alla
quale non potevo sfuggire. Ho visto le mie speranze stroncate. Il nemico si è dimostrato sordo alle
implorazioni e infaticabile nel perseguitarmi. Le sue vittime: la mia reputazione e la mia felicità.
Con questo incipit d’impatto melodrammatico, Caleb Williams scrive le sue memorie affinché i posteri gli
rendano giustizia: la sua narrazione rappresenta per lui il solo strumento di riscatto. Egli racconta di essere
divenuto segretario di Mr. Falkland, un gentiluomo colto e onesto. Ma i ripetuti attacchi di depressione e collera
a cui questi è soggetto infiammano la curiosità e i sospetti di Caleb, spingendolo a indagare sul passato del suo
padrone presso Mr. Collins, il maggiordomo.
Egli descrive così la giovinezza di Falkland, il suo viaggio in Italia, dove venne coinvolto più volte in
questioni d’onore, poi il suo ritorno in patria e lo scontro che lo oppone all’arrogante Mr. Tyrrel, un vicino
signorotto locale, rozzo e violento. Ad accrescere l’inimicizia fra i due contribuisce la sfortunata storia d’amore
tra Falkland e Emily, parente povera del protervo Tyrrel, che prima le impone il matrimonio con un bifolco e
poi, non riuscendo a convincerla, la perseguita con ferocia finché la poveretta muore nella prigione dove egli
l’ha fatta rinchiudere per pretesi debiti. Falkland, conosciuti i fatti, eccita l’opinione pubblica contro il malvagio,
fino a farlo radiare dal circolo locale. E Tyrrel, inviperito dall’affronto, arriva a schiaffeggiare pubblicamente
Falkland; ma, poche ore dopo, viene trovato assassinato.
Fatta una sommaria indagine, il fittavolo Hawkins e il figlio, a loro volta angariati da Tyrrel, sono accusati
del delitto e impiccati. Da quel momento, Falkland sfugge ogni compagnia e Caleb si persuade che l’assassino di
Tyrrel sia lui. Così, nel secondo volume si svolge la metaforica partita a nascondino che oppone il segretarioinquisitore a Falkland, il quale tenta con ogni mezzo di sottrarsi all’esame. Caleb, convinto della colpevolezza di
Falkland, nella frenesia di trovarne le prove tenta di scassinare, durante un incendio, il baule che Falkland
conserva nello studio; ma questi lo coglie sul fatto, e in un impeto d’esasperazione finisce per confessargli
l’assassinio, vincolando Caleb al segreto con terribili minacce. Ne segue una convivenza forzata. Dopo quella
confessione, Caleb s’accorge che ormai Falkland segue ogni suo gesto e non gli permette di allontanarsi da casa.
E, quando finalmente riesce a fuggire, viene catturato e condannato per furto su denuncia di Falkland.
Il terzo volume ha inizio con l’evasione dal carcere di Caleb, che viene riacciuffato dal cacciatore di taglie
Gines, grazie a un falso pamphlet in cui si narrano le avventure del bandito Caleb Williams. Ricondotto in
prigione, il protagonista viene fatto scarcerare dallo stesso Falkland, che rinuncia a procedere contro di lui. Ma i
suoi guai non sono finiti, poiché Gines continua a perseguitarlo grazie all’opuscolo, distruggendo la sua
reputazione ovunque egli cerchi di rifarsi una vita. Vicino a perdere ogni speranza, Caleb ottiene un inatteso
confronto con Falkland al cospetto di un magistrato. Mosso a pietà dalla vista del nemico ridotto all’ombra di se
stesso, il giovane si riconcilia con Falkland, che alla fine ammette la propria colpevolezza e muore pochi giorni
dopo, mentre il protagonista, lungi dal trionfare, si riconosce responsabile della sua morte.
Una trama complessa, dunque. Nei primi due volumi del romanzo è il segretario a perseguitare il padrone,
la cui vendetta si rivela affine al torto subìto: come Caleb ha estorto con armi subdole la sua confessione, così
Falkland nasconde la propria argenteria nel baule del segretario (riposto in una stanza segreta, che crede di
conoscere lui solo), accusandolo d’un furto che è emblema del suo vero “crimine”. Il romanzo è basato
sull'assunto che il potere immancabilmente corrompe: a macchiarsi del crimine è infatti uno squire, esponente
dei ceti nobiliari che usano eludere la severità della legge, purché non si tradisca la loro classe sociale. Alla
giustizia divina, che per definizione colpisce il criminale comune, e alla nemesi popolare che mette il cappio al
collo di Jonathan Wild, nel romanzo di Godwin si sostituisce un vero e proprio vendicatore: Caleb Williams, da
molti considerato il primo detective.
Successivamente, vedremo come l’intero romanzo sia una ricognizione realistica dell’Inghilterra di fine
Settecento.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998).
Il romanzo ideologico di William Godwin – II° parte
Things as They are; or the Adventures of Caleb Williams. Sin dal titolo, il romanzo si presenta come una
ricognizione realistica dell’Inghilterra di fine Settecento. Nasce come romanzo giacobino, pregno dell’ideologia
dell’autore, che condanna l’istituzione monarchica e allo stesso tempo rifiuta il regime democratico: Godwin,
fiducioso nella perfettibilità dell’uomo e nel sistema di convivenza sociale, sostiene che è necessario abolire le
leggi, le prigioni, la proprietà privata, il matrimonio e la chiesa.
Infatti, nella prefazione del 1794, l'autore pone in rilievo il valore di pamphlet del romanzo, spiegando di aver
tracciato un quadro delle cose “così come sono” perché in esse si specchia il governo politico, il cui spirito
deviante s’infiltra in ogni strato della società. Ma, quando il romanzo viene ripubblicato nel 1831, col solo titolo
di Caleb Williams, ormai gli ideali giacobini sono in declino e gli intenti ideologici sono stati oscurati dal ritratto
del protagonista e dalla forza coinvolgente della storia.
Godwin ricorda di aver concepito il progetto di un libro d’avventure sostenuto da un potente motivo
d’interesse, e di aver seguito un metodo compositivo “inverso”, ideando dapprima il terzo volume, poi il
secondo, e infine il primo. Partire dall’epilogo per arrivare all’incipit gli avrebbe consentito di costruire una
trama incalzante e priva di smagliature, capace di catturare l’attenzione del lettore.
Questo è il dato rilevante: Godwin concepisce prima l’effetto e poi la causa, dando al romanzo la coerenza
strutturale (unity of design) tipica del novel, in cui l’autore ha una tesi da illustrare e considera superfluo tutto ciò
che non è funzionale al procedere della trama o alla descrizione di una situazione o di un personaggio.
L'eredità di Godwin verrà in seguito raccolta da Edgar Allan Poe, che allude più volte al metodo di
composizione dello scrittore, sostenendo che la trama è una costruzione complessa che dev'essere determinata in
tutte le sue componenti ancor prima d'iniziare a scrivere, e che nessun elemento del plot può essere alterato senza
stravolgerne la struttura.
In particolare, secondo Poe, il metodo “inverso” di Godwin riflette il modo di ragionare induttivo tipico
del detective: partendo dalla causa, si cerca di risalire agli effetti che l'hanno determinata. Ma mentre in Poe (e,
più in generale, nei detective novelists) economia e coesione suscitano un piacere di tipo “enigmistico”, in
Godwin esse hanno l’unico scopo di meglio istruire. Tuttavia, lo stile incalzante di Caleb Williams induce a un
passo svelto di lettura e lo rende, più che un romanzo impegnato, un proto-romanzo poliziesco.
Caleb Williams, dunque, può essere considerato un antecedente diretto del poliziesco alla Poe. In primo
luogo, per il metodo compositivo, che richiede un piano, rispetta certe regole e sa in ogni momento dov’è diretto.
In secondo luogo, per l’indagine psicologica che accompagna la “unity of design”, del tutto simile al metodo di
Poe, secondo cui le azioni umane obbediscono a leggi e sono quindi prevedibili. In terzo luogo, per la materia
narrativa basata su elementi di matrice poliziesca, quali l’omicidio, l’indagine, la scoperta del colpevole; e poi la
calunnia, il furto, la prigione, l’evasione, l’inseguimento, il processo.
Caleb Williams apprendista detective
Pur essendo sprovvisto di una formazione specifica, Caleb è dotato di una “inquisitive mind”: non trascura di
trarre preziose informazioni da conversazioni e da libri. Con la mente sempre all'erta, dimostra quella particolare
sensibilità per le concatenazioni di cause ed effetti che costituisce il marchio dell’investigatore. La sua passione
per la logica si traduce anche nell’ossessione di “leggere” nell’animo umano: proprio alla lettura è riconducibile
il lavoro che Falkland svolge insieme al segretario, il cui compito è scrivere sotto dettatura saggi letterari, spesso
consistenti in “an analytical survey of the plans of different authors, and conjectural speculations upon hints they
afforded, tending either to the detection of their errors or the carrying forward their discoveries”.
La terminologia che troviamo in questo frammento – analytical survey, conjectural speculations,
detection, discoveries – non potrebbe essere più allusiva: in pratica, è lo stesso Falkland a iniziare Caleb al
metodo d’indagine che questi applicherà.
Alla formazione dell’apprendista detective, tuttavia, non concorrono soltanto le doti logiche, la capacità di
osservazione e la curiosità, ma anche la conoscenza della letteratura criminale. La natura di queste letture è
rivelata dal personaggio stesso: rifugiatosi a Londra per sfuggire alla prigione, Caleb sopravvive pubblicando
racconti, ma invece di attingere a una vena personale, sfrutta “the resource of translation” e, grazie alla sua
ottima memoria, riscrive i libri che ha letto, tra cui le storie di Cartouche e Guzmàn de Alfarache.
A ben vedere, la posizione di Caleb sta a metà fra il detective e il ladro: lo dimostra l’episodio in cui, per
trovare conferma ai propri sospetti su Falkland, tenta di forzare il suo baule. Caleb, raccogliendo informazioni
sul padrone, spiando ogni sua espressione, leggendo una lettera a lui indirizzata, compie un vero e proprio furto
metaforico. Investigare appare dunque più un vizio che una missione: già conosciamo la scarsa simpatia che i
delatori e i thief-takers esercitano sull’opinione pubblica dell’epoca; ad essa corrisponde la situazione ambigua
dell’investigatore, la cui indagine mira alla distruzione di un gentiluomo che ha ucciso in un momento di follia.
Anche se, in realtà, è più grave il secondo crimine di Falkland: quello di lasciar condannare due innocenti al
posto suo, per un eccessivo senso dell’onore.
Del resto, l’onore è il fondamento di una società stratificata, dove l’aristocrazia fonda il suo potere sulla
solidarietà di classe e sul continuo mantenimento di un equilibrio al suo interno. La perdita dell’onore avrebbe
comportato per Falkland un destino di proscrizione dai suoi pari, analogo a quello che egli, per vendetta, decide
di infliggere a Caleb.
L’immagine riproduce due pagine del William Godwin’s Journal, in cui William Godwin annota la nascita
della figlia Mary (la futura Mary Shelley, autrice di Frankenstein, il più famoso romanzo gotico di tutti i
tempi), il 30 agosto 1797, nell’ottavo dei 32 volumi del suo diario.
(per approfondimenti:
Bodleian Lybrary, University of Oxford
http://www.bodley.ox.ac.uk/dept/scwmss/wgjournal.html
Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998).
Wieland di Charles Brockden Brown
Il romanzo americano nasce sotto la costellazione dell’orrore. Malinconico e inquieto, sensibile e
torturato, realista nelle intenzioni e visionario per temperamento, Charles Brockden Brown ne apre la
storia con una potente tessitura d’incubi. Wieland; or The Transformation, apparso nel 1798, non è il
primo documento, ma è certo la prima decisione narrativa di una letteratura alla ricerca di sé, il
primo scatto della fantasia oltre i confini dell’imitazione. […] Brown trasforma profondamente
l’orrore, forzandolo a significare l’inedita violenza e le laceranti contraddizioni della vita americana.
Dopo di lui il “gotico”, in cui il preromanticismo aveva trovato il favoloso specchio deformante delle
proprie inquietudini e nostalgie, non sarà più tanto un genere narrativo quanto una categoria
dell’immaginazione.
Così comincia l’introduzione all’edizione italiana del 1965 (Neri Pozza) del romanzo Wieland, ovvero la
trasformazione, dell’americano Charles Brockden Brown (1771-1810).
Dalla succinta scheda del Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, scopriamo che l’intreccio
deriva da un fatto di cronaca che insanguinò la città di Tamhannock nello Stato di New York nel dicembre del
1781. La scena è posta sulle rive dello Schuylkill, ma l’azione si svolge in realtà in un «fantastico clima
romantico» e i personaggi sarebbero figure «bizzarre e irreali».
Wieland, il protagonista, viene spinto al delitto da una voce misteriosa, la quale non è altro che l'eco della
malvagità latente nella sua natura. E Carwin, il ventriloquo sobillatore che lo suggestiona, è un criminale che
sfugge al giudizio della morale comune, visto che egli stesso è vittima di uno spirito del male a cui nessuno
potrebbe resistere. Secondo il secco giudizio del Dizionario, «La narrazione è mal condotta; gli avvenimenti
sono tutt’altro che verosimili; la catastrofe è prematura e quindi artisticamente ingiustificata. Il libro deriva la
sua indiscutibile potenza unicamente dall'atmosfera di febbre che lo pervade e che riduce a unità gli elementi
più lontani e disparati».
Ma, secondo i critici più attenti, è con questo romanzo che la narrativa americana comincia in ogni senso:
non solo perché è fra i primissimi comparsi negli Stati Uniti, ma anche perché annuncia e scopre molti dei temi
sui quali i maggiori scrittori americani, da Poe e Hawthorne (che da Brown furono direttamente influenzati), a
James e Faulkner costruiranno il loro lavoro. Ossia: l’ambiguità del reale, il conflitto fra ragione e mistero,
l’identificazione della storia e dell’angoscia.
La trama, in effetti, è fondata su coincidenze ed eventi al limite del miracoloso, con l’utilizzo di espedienti
che vanno dall’autocombustione al ventriloquismo: vediamola per sommi capi.
Convertitosi a una religiosità dominata dal terrore del divino, il padre della protagonista – Clara Wieland,
che narra la vicenda nel corso di una lunga lettera – si trasferisce nel Nord America per diffondere il vangelo
fra gli indiani. Una notte, quando Clara ha sei anni, il padre si reca come al solito a pregare in un tempietto e,
nel corso delle sue sofferte meditazioni, prende fuoco per un fenomeno di autocombustione. Dopo il padre,
muore anche la madre, e Clara, orfana insieme al fratello Theodore, viene allevata da una zia.
Theodore, incline come il padre a una fede tormentata, si sposa e ha dei figli. A sei anni dal matrimonio –
in un’epoca compresa fra le guerre indiane del 1763 e la rivoluzione del 1776 – si colloca l’azione principale,
legata al manifestarsi di misteriose voci, talora benevole e talora minacciose. A produrle è Francis Carwin, un
girovago che è entrato nella cerchia familiare dei Wieland attraverso Henry, il fratello della moglie di
Theodore.
Sfruttando il dono del ventriloquismo, Carwin comincia a intervenire in modo innocuo e buffonesco nel
destino della comunità. Ma poi, incapace di controllare il pericoloso strumento di cui dispone, si dà a giochi via
via più crudeli, facendo credere a Clara (per mettere alla prova il suo coraggio) che nello stanzino adiacente
alla sua camera si celino due uomini pronti a ucciderla, e in seguito distruggendo la sua reputazione agli occhi
di Henry, di cui è innamorata. Ma le inspiegabili voci prodotte da Carwin si rivelano fatali nell’influsso che
hanno sul precario equilibrio mentale di Theodore, provocando conseguenze inimmaginabili.
E’ indubbio che il romanzo, con una trama ai limiti dell’eccesso, offre più piani di lettura: la vicenda a
forti tinte vuole convogliare un messaggio filosofico e politico. Brockden Brown è stato spesso definito dai
critici ottocenteschi “the Godwin of America”. Innanzitutto perché, rinunciando all’onniscienza dell’autore,
affida la narrazione alla protagonista, facendo propria la tecnica narrativa godwiniana. Però, ne ribalta i
presupposti: mentre per Godwin il sintomo della verità è la “coerenza” (consistency, che si rivela però
soggettiva), Brown mostra che sulla base delle nostre percezioni – inevitabilmente incomplete, talora viziate –
costruiamo spesso “sceneggiature” di per sé coerenti ma infondate.
Ciascun protagonista di Wieland riscrive una propria versione dei fatti, sincera quanto inesatta. Henry
s’inganna nel credere Clara colpevole d’una relazione illecita sulla base delle voci udite nell’oscurità; Clara
s’inganna nel ritenere che il ventriloquo Carwin abbia istigato il fratello, perché le sue voci simulate hanno
contribuito solo in modo indiretto a suscitare una follia già latente; Theodore s’inganna nel credere che le
ingiunzioni che sente provengano da Dio; infine Carwin, animato da intenti puerili, avvia un meccanismo su
cui non ha controllo, adducendo a propria discolpa lo stesso vizio di Caleb Williams: «my only crime was
curiosity».
In realtà, più che sulla manipolazione delle apparenze fatta dal ventriloquo Carwin, l’autore sembra
concentrarsi sul tema della leggibilità del reale, particolarmente sui processi cognitivi: sono le limitazioni del
punto di vista – in senso ottico, valutativo e uditivo – a fare di ciascun personaggio un narratore inaffidabile. Il
desiderio di leggibilità permea tutto il romanzo, e si esprime in un incrocio di sguardi indagatori cui fanno
seguito lunghe riflessioni, come quelle di cui è oggetto Carwin al suo ingresso nella famiglia Wieland, o quelle
solitarie di Clara, che medita sul giovane nel corso di notti insonni.
È un romanzo gotico o poliziesco? Certamente Wieland costituisce un ponte fra i due generi. L’autore
evoca l’armamentario orrifico del gotico, ma al contempo lo rinnega, perché dà alla figura di Clara una volontà
di controllo razionale sui fenomeni inspiegabili che le accadono, prima aiutandola a superare le prove
predisposte per lei da Carwin, e poi inducendola a incolpare lo stesso Carwin della pazzia di Theodore, proprio
nel tentativo di quantificare ogni incognita della vicenda.
E i crimini, intessuti a toni cupi sull’orditura del romanzo, sono spesso solo annunciati o enunciati. Così,
allo scoccare della mezzanotte (l’ora in cui il padre è morto) dal suo letto Clara avverte un sussurro, ma dopo
una ricognizione mentale della casa deduce che nessuno può essere entrato nella camera a sua insaputa. Poi,
sente un secondo sussurro provenire dallo studiolo attiguo, dove due uomini discutono sul modo migliore per
ucciderla. Così, fugge verso la casa del fratello, dove i familiari considerano il suo racconto come un sogno,
non potendo credere che due persone fossero riuscite a intrufolarsi in un ambiente inaccessibile dall’interno e
dall’esterno.
Ecco, dunque, il topos della camera chiusa, familiare ai cultori del poliziesco: l’enigma delle voci
sembrerebbe richiamare l’intervento di un detective; ma, paradossalmente, il solo personaggio che rivela una
logica di tipo poliziesco è il malvagio.
Wieland è disponibile in due traduzioni italiane: una di Neri Pozza (1965) e una di Studio Tesi (1988).
Volumi acquistabili a metà prezzo, sciupati e scuriti dallo sballottamento nei brutali magazzini dell’oblio, dove
vegetano e invecchiano i libri di cui nessuno si cura.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998.
I Mémoires di Vidocq
Disertore, falsario, ladro, galeotto: sono questi i trascorsi di Eugéne François Vidocq (1775-1857). Nato ad
Arras, E. F. Vidocq intraprese presto la strada del crimine: più volte venne arrestato e puntualmente evase di
prigione. Ma, in seguito, si mise a collaborare con la giustizia, avviando una straordinaria carriera che lo portò
nel 1812 a capo della prima grande polizia moderna, la Sûreté parigina, ruolo da cui decadde nel 1827.
Fu allora che Vidocq, forse nella speranza di un facile guadagno, forse per difendersi dalle accuse di
corruzione che da più parti gli venivano indirizzate, s’accinse alla stesura dei suoi famosi Mémoires, i cui primi
due volumi apparvero nel 1828, seguiti l’anno dopo da altri due. Poi, riottenuto il comando della Sûreté nel
1832, Vidocq rimase in carica solo otto mesi, a causa d’uno scandalo che coinvolse un suo agente.
I Mémoires di Vidocq riscossero un successo clamoroso: vennero tradotti in inglese non appena pubblicati
(in America li lesse attentamente anche Edgar Allan Poe), ed ebbero anche il merito di ispirare personaggi
letterari immortali come Jean Valjean, il forzato evaso dei Miserabili di Victor Hugo, e, soprattutto, Vautrin
(alias Jacques Collin, alias abate Herrera), uno dei personaggi più celebri della Comédie Humaine di Balzac.
È complessa la genesi dei Mémoires: l’opera deve la sua forma definitiva all’intervento di due scrittori,
identificati in Emile Morice e Louis-Francois L’Héritier, a cui sarebbero dovute sia le allusioni erudite sia alcuni
plagi – come un episodio che era già stato pubblicato da L’Heritier in forma di romanzo.
È dunque difficile – come può accadere con qualche scrittore di oggi – stabilire in che misura i Mémoires
siano da attribuirsi a Vidocq. Per lo stesso motivo, è discutibile il loro reale valore di documento. Credo li si
possa definire una “autobiografia romanzata”, che ha alcuni punti di contatto con Caleb Williams di William
Godwin: così come Caleb si affida alla penna per sventare la persecuzione di Falkland – fondata sul pamphlet
accusatorio diffuso da Gines – così Vidocq scrive i Mémoires per proclamare pubblicamente la “sua” verità.
Inoltre, l'ambiguità del protagonista ricorda quella di Jonathan Wild, ladro e thief-taker alleato del potere, un
parallelo che non sfuggì al pubblico inglese dell'epoca.
L’infiltrato e il trasformista
Il metodo poliziesco di Vidocq a capo della Sûreté era abbastanza semplice. Quando doveva svolgere
un’inchiesta, sguinzagliava i suoi uomini, in genere ex criminali come lui, e i suoi informatori. Lui stesso si
travestiva da delinquente e andava ad aggirarsi nei locali malfamati, dove conquistava le simpatie di ladri e
assassini e li induceva a confidarsi con lui o a rivelargli precisi indizi, che poi utilizzava contro di loro.
Dunque, l’attività investigativa di Vidocq implica un ampio spettro di talenti, primo fra tutti la conoscenza
del mondo criminale maturata nel corso della sua precedente “carriera”. Vidocq fonda la sua ascesa proprio su
questo tratto, riconducibile ai due ruoli dell’informatore e del detective, che tanto lo accomuna al thief-taker
settecentesco: ma in questo modo si espone alla calunnia e si vede negare la rispettabilità. La professione
d’informatore lo costringe a una frequentazione assidua dei bassifondi, per indurre i malviventi a tradire i
compagni in cambio dell’immunità e di altri compensi.
Grazie ai suoi trascorsi criminali, Vidocq dispone della più importante chiave d’accesso al mondo
malavitoso che, come si sa, gode di convenzioni e codici propri: la padronanza dell'argot, la lingua gergale
utilizzata fin dal Seicento da mendicati, truffatori e assassini, che erano costretti a celare alle orecchie indiscrete
il senso dei loro discorsi.
L'argot è un registro linguistico di natura criptica, decodificato dalla polizia nei primi anni dell’Ottocento
e ammesso nella letteratura “alta” proprio attraverso i Mémoires di Vidocq. Infatti, i Mémoires sono infarciti di
dialoghi argotiques, e se in un primo tempo Vidocq dà la traduzione delle espressioni oscure, a poco a poco il
lettore finisce per scoprirsi iniziato al gergo della malavita. Più volte Vidocq ha svolto il ruolo di agente
provocatore, inducendo al furto i malviventi per poi coglierli sul fatto: qui è di grande importanza la sua abilità
nei travestimenti, in cui eccelle, riuscendo addirittura a modificare di alcuni centimetri la propria statura. Il
pubblico londinese poté osservare le sue performances nel 1845, allorché Vidocq organizzò in Regent Street una
specie di esposizione, discutendo i suoi casi più celebri ed esibendo le sue molteplici identità.
Oltre all’astuzia e alle pratiche non ortodosse, Vidocq adotta moderne tecniche sistematiche, provvedendo
a schedare tutti gli arrestati, per poi ritrovarli più facilmente in caso d'evasione. Infatti, nel quarto volume dei
Mémoires egli traccia un’ampia tassonomia, dividendo i criminali in tre categorie: ladri di professione, ladri
occasionali e ladri per necessità, ognuna di queste dotata di classi e sottoclassi. Prendiamo ad esempio i
cambrioleurs, o ladri d'appartamento, solitamente di età compresa fra i 18 e i 30 anni: secondo la classificazione,
vestono decorosamente ma conservano qualcosa d’ordinario; spesso hanno le mani sporche, e tengono in bocca
una cicca di tabacco che deforma loro il volto; di rado portano il bastone, e ancor più di rado indossano guanti.
Si dividono in cambrioleurs à la flan, che s'introducono nelle abitazioni senza aver preparato il colpo;
caroubleurs, che tramite i domestici, i cardatori di materassi, gli imbianchini e i tappezzieri, assumono
informazioni sull’appartamento da svaligiare – e talvolta vi penetrano servendosi di chiavi false, fabbricate
grazie ai calchi forniti dai complici; e infine i nourisseurs, così detti perché i loro furti hanno una lunga
gestazione, nell’attesa che giunga il momento opportuno.
A dispetto di tutte le accuse di cialtroneria che gli furono indirizzate, Vidocq difese sempre questa sua
classificazione come fondata sull’esperienza, dichiarandosi capace di riconoscere tra i passanti i ladri di
professione, e persino d’indicare lo specifico gruppo a cui appartenevano.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998
http://it.wikipedia.org/wiki/Eug%C3%A8ne-Fran%C3%A7ois_Vidocq)
Edgar Allan Poe
Storicamente, si possono distinguere due Poe. Uno è l’Edgarpò che suscitò l’entusiasmo dei francesi,
da Baudelaire a Valéry, e ha avuto ininterrotta fortuna in Europa. L’altro è Edgar Allan Poe,
l’americano – poeta e narratore di cassetta, instancabile fornitore di testi per l’incipiente mercato di
massa (scrive quasi esclusivamente su riviste), figura di irregolare ostilmente accolto dai letterati
dell’epoca, che stenta ancora a trovare pieno riconoscimento in patria.
Il primo […] è il narratore dell’assurdo e del terrore, precursore degli effetti surreali e dell’angoscia
esistenziale, il creatore di una propria cosmologia metafisica che è puro sogno dell’intelletto; lo
scrittore precocemente consapevole delle potenzialità combinatorie e scombinatorie del linguaggio,
della scrittura come costruzione mistificatoria e della lettura come esercizio di decifrazione. Questo
Edgarpò scoperto o privilegiato dalla cultura europea – anche perché ha ottimi traduttori che magari
ne mascherano certa farragine o pesantezza stilistica – arriva da Baudelaire fino a noi per susseguenti
ondate di interesse. È autore sofisticato, quasi d’élite.
L’altro si arrabatta. È quello che Lionel Trilling ha chiamato – riferendosi agli americani, ma vale
anche per noi – “nostro cugino, Mr. Poe”: lo scrittore tormentato dal vuoto e dalle incomprensioni in
cui vive, che si dibatte in una società ostile e in una cultura in formazione, tutta da definire, plasmare,
indirizzare, ma come restia a ogni richiamo, stimolo, indicazione non meramente commerciali. È,
questo Poe, il primo scrittore alienato d’America, e su una dimensione assoluta: sperso nella vastità
degli spazi e nella mancanza di un centro, girovago fra il sud natio di cui si fa non richiesto paladino e
le città centro-meridionali che lo tengono ai margini e ne rifiutano il messaggio, eppure caparbiamente
animato dalla volontà di dare una voce e una cultura al nuovo paese, rigoroso nelle scelte e in anticipo
sui tempi. Come tale, esprime la desolazione di quel paesaggio e le antinomie dei suoi valori, e al
tempo stesso riflette le tare e i turbamenti di una morbosa predisposizione psicologica, vuoti e
scompensi dell’animo, angosce e terrori che in seguito si diranno esistenziali, e che sorgono come
fantasmi dal profondo.
(dall’introduzione di Sergio Perosa ai Racconti, ed. Mondadori 1985.)
Calcolo e analisi: I delitti della Rue Morgue
In numerosi racconti, Edgar Allan Poe premette alla vicenda narrata uno o più paragrafi dedicati a considerazioni
di carattere generale, nate da un’intuizione, da una massima, o da una riflessione filosofica.
Queste “istruzioni” preliminari sono particolarmente importanti in The Murders in the Rue Morgue, il
racconto che inaugura la trilogia dell’investigatore francese Auguste Dupin. Qui la struttura è tripartita, secondo
un criterio formativo: alla definizione teorica delle facoltà analitiche, segue una prima dimostrazione del talento
di Dupin e, infine, l’applicazione delle sue doti investigative a un caso d’omicidio.
La voce narrante inizia subito col distinguere il calcolo dall’analisi, due categorie di ragionamento
riconducibili rispettivamente agli scacchi e alla dama, passatempi che chiamano in causa da un lato l’attenzione
e dall’altro l’acume. L'elevato numero di pezzi che si fronteggiano in una partita a scacchi, infatti, impegna non
solo le doti mnemoniche, ma certamente una capacità d’analisi molto inferiore a quella necessaria per vincere
una partita a dama, ove restino in campo solo quattro regine. In un confronto del genere, essendo la gamma di
movimenti e valori quanto mai semplificata, la possibilità di sviste è ridotta al minimo, e per assicurarsi la
vittoria è necessario sapersi identificare con lo spirito dell’avversario.
Ma una prova ancor più forte per le facoltà analitiche del detective è rappresentata dal gioco del whist, in
cui non basta osservare attentamente, aver buona memoria e conoscere a fondo la condotta di gioco, ma è
necessario sapere “cosa osservare”. Il modo di reggere una carta, il gesto con cui viene calata, le espressioni d’un
giocatore, sono tutti segni rivelatori di cui l’analitico si avvale.
Terminata questa trattazione teorica, Poe entra nel vivo del racconto introducendo il cavalier Auguste
Dupin, incontrato dal narratore in un «oscuro gabinetto di lettura di rue Montmartre». Rampollo decaduto di
un’illustre famiglia, Dupin è un uomo di abitudini frugali, che deve alla generosità dei creditori il fatto d’avere
«un piccolo resto di patrimonio», e il cui unico lusso risiede nei libri.
Tra lui e il narratore nasce dunque un sodalizio, sanzionato dalla scelta di stabilirsi in una dimora cadente,
oggetto d’imprecisate superstizioni. I due trascorrono le ore diurne nell'oscurità più completa, uscendo solo al
calar delle tenebre, quando la città, deposta la maschera borghese, rivela il suo volto criminale, perverso e
inebriante. Il detective sonda implacabile le ombre della notte e, nella seconda parte del racconto, si dimostra
anche capace di leggere nei cuori.
Tutto comincia con una strage. Alle tre di notte, gli abitanti di Rue Morgue vengono svegliati «da una serie
di grida spaventevoli», provenienti da un appartamento al quarto piano d’un vecchio stabile, abitato dall'anziana
madame L’Espanaye e da sua figlia Camille. Per entrare, i primi soccorritori devono sfondare la porta
d’ingresso, solidamente chiusa dall’interno. Lo spettacolo che si trovano di fronte è terrificante: «La stanza è nel
più grande disordine; i mobili spezzati e sparsi in tutte le direzioni. I materassi del letto sono stati tolti e gettati
nel mezzo dell’impiantito. Su una sedia giace un rasoio intinto di sangue. Sul camino, due o tre lunghe trecce di
capelli grigi che sembrano essere state strappate violentemente dalle radici. Nessuna traccia di madame
L’Espanaye: si osserva però una quantità insolita di fuliggine sul focolare; allora si cerca nel camino e (orribile a
dirsi!) ne viene estratto il cadavere della figlia, che è stato spinto, con la testa in giù, a viva forza, fino a un bel
tratto della stretta apertura!».
Dopo una minuziosa investigazione della casa, in un cortiletto situato sul retro i vicini trovano il cadavere
della vecchia signora, con la gola profondamente tagliata, al punto che, quando si prova a sollevarlo, il capo si
stacca completamente dal busto. Sia il corpo sia la testa «appaiono spaventosamente mutilati ed è tanto se
conservano un aspetto umano», come scrivono l’indomani i giornali parigini.
La polizia brancola nel buio: l’appartamento è stato trovato ermeticamente chiuso, e nessuno sembra
poterne essere uscito dopo il delitto. Le porte erano sbarrate, le finestre anche; e dalle scale si sono sentite le urla
degli assassini, proferite in un linguaggio su cui nessuno dei testimoni riesce a mettersi d’accordo: secondo
alcuni è italiano, secondo altri inglese, o francese, o spagnolo, o russo. La polizia «denuda addirittura i
pavimenti, soffitti e pareti», per scoprire un’eventuale uscita segreta, ma senza risultato.
Non resta che fare appello alle facoltà investigative di Dupin. Munito dell’autorizzazione del prefetto di
Parigi, il cavaliere e il suo amico si recano nella casa del delitto. Sebbene si sia frugato dappertutto, il detective
non si fida degli occhi della polizia e vuole cercare coi propri. In effetti, non esistono uscite segrete, così come
non è possibile passare attraverso il camino, troppo stretto. Dalla prima stanza dell’appartamento, poi,
l’assassino o gli assassini non possono essere usciti, perché sarebbero stati visti dalla folla che guardava in alto o
dai
soccorritori
che
salivano
per
le
scale.
«Devono essere passati dalle finestre della stanza sul retro» spiega Dupin: proprio le finestre trovate
ermeticamente chiuse. «Essendo ora arrivati a questa conclusione per mezzo d’irrefragabili deduzioni, non è
affar nostro, come ragionatori, rigettarla in ragione della sua impossibilità apparente. Non ci resta che dimostrare
che questa apparente impossibilità in realtà non esiste».
Così, il detective parte alla ricerca della prova che dimostri la validità del suo ragionamento. E la trova: un
chiodo spezzato che sembra intatto, una molla che chiude automaticamente il telaio della finestra, e l’enigma è
spiegato. Fuori della finestra, però, c'è una parete liscia, e l'altezza è notevole; ma a due metri di distanza passa il
filo d’un parafulmine, e un essere dotato di una «straordinarissima e quasi sovrannaturale specie di forza e
agilità», un essere capace di ficcare Camille nella cappa del camino, può benissimo essere saltato da quel filo
alla finestra e viceversa, utilizzando la pesante persiana di legno come appoggio e prolunga. A conferma di ciò,
ai piedi del filo del parafulmine Dupin trova un pezzo di nastro, legato con un nodo tipico dei marinai maltesi.
Scoperta la possibile chiave dell’enigma, non sarà difficile completare il mosaico e inserire al loro posto quegli
indizi così apparentemente contraddittori che disorientano la polizia: la ferocia e la gratuità del delitto, la forza
sovrumana dell’assassino, gli strani peli rossicci trovati nelle mani di una delle vittime, il linguaggio
incomprensibile sentito dai vicini.
In questo racconto, pubblicato nell'aprile del 1841 sul The Graham's Lady's and Gentleman's Magazine,
abbiamo il mistero della camera chiusa, il problema investigativo per eccellenza, alla cui soluzione può arrivare
solo la sottigliezza dell’investigatore. Ma troviamo anche la classica mancanza di fantasia e la suscettibilità dei
funzionari di polizia: «...il funzionario non poteva nascondere il suo dispiacere per la piega che aveva preso
l’affare e si lasciò sfuggire qualche sarcastica osservazione su quanto sarebbe desiderabile che ognuno
s'occupasse delle proprie faccende». In più, ci sono l’arresto di un innocente e lo stratagemma dell’investigatore
per
forzare
la
mano
al
colpevole.
Senza dubbio, il metodo investigativo di Dupin ricalca alcune caratteristiche tipiche del procedere scientifico: la
capacità di ricostruire il tutto da una parte; la convinzione che dietro l’apparente complessità di un enigma si celi
una soluzione semplice; l’attenzione data a indizi e circostanze che invece appaiono marginali.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998).
Edgar Allan Poe e l’eroe seriale
Con la trilogia di Auguste Dupin, Poe crea la prima figura di eroe seriale, un modello destinato a diventare,
attraverso l’opera di Arthur Conan Doyle e i serials televisivi, la forma narrativa dominante del ventesimo
secolo. I suoi tre racconti, tuttavia, presentano una chiara progressione: nel primo, Dupin si confronta con un
omicidio privo di movente; nel secondo, Poe tenta di mescolare realtà e finzione, misurandosi con un autentico
caso di cronaca; nel terzo, il geniale detective si scontra con un avversario suo pari, secondo un disegno che
prelude alla celebre coppia di antagonisti Sherlock Holmes - dottor Moriarty.
In The Mystery of Marie Roget, il cavalier Dupin torna nuovamente agli onori della cronaca tentando di
risolvere, sulla base delle testimonianze riportate dai vari giornali, il mistero della scomparsa di una graziosa
commessa di profumeria, Marie Roget. Ispirandosi a un reale caso di cronaca avvenuto a New York, l’omicidio
della sigaraia Mary Rogers, il narratore espone i fatti: uscita di casa per recarsi dalla zia, Marie Roget viene
trovata quattro giorni dopo, annegata nella Senna e recante segni di violenza. Sui resoconti della stampa Dupin
fonda la propria indagine, spesso demolendo le ipotesi via via formulate dagli articolisti.
Disgraziatamente, nella realtà, mentre è in corso la pubblicazione a puntate del racconto, un’albergatrice
confessa in punto di morte che il decesso di Mary Rogers è stato causato da un tentativo di aborto. E questa
versione, pur confermando numerose deduzioni di Dupin, contraddice in pieno le sue conclusioni: a Poe non
resta dunque che modificare il finale, per tener conto della testimonianza.
L’indagine viene troncata allorché Dupin ha identificato l’assassino in un marinaio dalla carnagione scura di
cui Marie sarebbe stata innamorata, e Poe redige una nota fittizia, in cui il direttore della rivista dichiara di non
aver pubblicato – per «ovvie ragioni» – il seguito del manoscritto, assicurando i lettori che l’inchiesta venne
condotta
a
buon
fine
dalla
polizia
parigina.
Per rimediare all’inconveniente, e giustificare la mancata aderenza del racconto alla conclusione della vicenda
reale, Poe si rifà all’immagine delle due serie di eventi paralleli, dichiarando che se il destino di Mary e quello di
Marie sono legati da numerose coincidenze, ciò non vale per lo scioglimento del mistero.
La lettera rubata
Un anno dopo la pubblicazione dei Murders in the Rue Morgue, Poe riporta Auguste Dupin sulla scena parigina
per fargli interpretare un breve ma perfetto racconto: La lettera rubata (The purloined letter).
È il tardo crepuscolo: i due protagonisti siedono nel “gabinetto di lettura” del loro appartamento, quando
arriva il prefetto. Dupin s’appresta ad accendere un lume, ma all’udire che il prefetto è venuto a consultarlo su
una questione complicata, preferisce restare nella semioscurità. Questo è il primo dei ribaltamenti operati da
Dupin: a essere rovesciato è il tradizionale meccanismo associativo che unisce la ragione alla luce.
Nel seguito della conversazione, allorché il prefetto confessa la sua impotenza a risolvere un caso che pure
si presenta semplicissimo, il detective replica: «Forse il mistero è un po' troppo semplice». Il prefetto espone
quindi le inconsuete circostanze su cui s’è trovato a indagare. Una lettera compromettente è stata rubata alla
regina da un ministro intrigante. Mentre è nel boudoir, immersa nella lettura di una lettera strettamente
personale, all’ingresso del consorte la regina posa la lettera sullo scrittoio, col testo rivolto verso il basso. Entra
allora il ministro, che, riconosciuto il mittente nella grafia dell'indirizzo riportato sul retro, decide di sottrarre il
prezioso documento per usarlo a fini di ricatto. Messa sul tavolo la lettera che ha in mano, egli conversa per
qualche tempo e, prima di congedarsi, s’appropria come per errore dell’altro foglio. Da quel momento, l’uomo
regge le sorti della politica francese, grazie all’ascendente che esercita sulla regina.
Convinti che il ministro conservi sempre la lettera a portata di mano, gli uomini della polizia perquisiscono
accuratamente tanto lui quanto la sua abitazione, senza alcun risultato. La visita del prefetto rappresenta quindi il
riconoscimento della sua sconfitta, e l’analitico Dupin provvede a smontare pezzo per pezzo il metodo da lui
adottato.
Richiamandosi al gioco del “pari o dispari”, in cui un bambino può battere i compagni identificandosi con
loro e prevedendone le mosse, l’investigatore mette a nudo l’incapacità della polizia di valutare l’avversario: se
la loro forma mentale è quella della massa, non appena si confrontano con un criminale diverso da loro, si
trovano in scacco. Le ricerche della polizia si dimostrano inefficaci perché fondate sul presupposto che a
occultare la lettera sia stata una persona dai comuni percorsi mentali, per cui nascosto è sinonimo d’invisibile.
Non è affatto detto che la lettera sia stata sottratta alla vista: richiamandosi a un gioco in cui si cerca di trovare
su una carta geografica un nome scelto dagli avversari, Dupin osserva che, contrariamente a quanto si crede, le
scritte a chiare lettere sono spesso meno individuabili delle più piccole.
Il metodo con cui il detective affronta il caso è ben diverso. Munito d’occhiali scuri, per consentire ai suoi
occhi di vagare indisturbati, Dupin s’introduce nello studio del ministro, e non tarda a notare un portacarte
appeso alla mensola del camino, dove insieme ad alcuni biglietti da visita si offre negligentemente allo sguardo
una lettera sdrucita. In questa visibilità così marcata, egli coglie un segno d’ostentazione, che rimanda
paradossalmente alla volontà di celare la lettera.
Tornato il giorno seguente dal ministro, in apparenza per recuperare la propria tabacchiera, Dupin approfitta
della momentanea distrazione dell’ospite, attirato alla finestra da uno sparo (trucco organizzato dallo stesso
Dupin), e s’impadronisce della lettera, sostituendola con una del tutto simile. Così, quando il capo della polizia si
reca
dal
detective,
questi
gli
consegna
la
lettera
rubata.
Non ci resta che concludere con una citazione dai Mémoires di Vidocq: «Il luogo più in vista è spesso quello
dove non si pensa di cercare».
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998.
Emile Gaboriau
Nella Francia dell’Ottocento, quasi tutti i grandi scrittori si cimentano nel feuilleton: da Balzac ad Alexandre
Dumas padre; ma il più grande successo di pubblico in questo genere di letteratura lo riscuote Eugéne Sue con I
Misteri di Parigi (Les Mystéres de Paris, 1842-43).
Fra i principali autori di feuilleton, citiamo i due più prolifici creatori di intrighi, Paul Féval (1817-1887),
che sfornò oltre 100 romanzi, e il visconte Pierre Alexis de Ponson, in arte Ponson du Terrail (1829-1871), il
creatore di Rocambole, il delinquente destinato ad avere una lunga progenie di seguaci e imitatori. Genio del
male in una lunga serie di romanzi, da Les drames de Paris a Les exploits de Rocambole (1859), nel quale il
terribile bandito muore col volto devastato dal vetriolo, Rocambole si trasforma in seguito in un detective votato
al bene (da La Resurrection de Rocambole, 1862).
In realtà, il vero erede francese di Edgar Allan Poe è Emile Gaboriau (1832-1873). Dopo una giovinezza
tumultuosa, Gaboriau arriva a Parigi, diventa segretario dello scrittore Paul Féval e comincia a dedicarsi al
giornalismo. Ed è proprio in occasione di un reportage per Le Pays nel quartiere della Porte d’Italie, che
Gaboriau stringe amicizia con un ex-ispettore della Sureté, Tirabot, detto Tirauclair (“Mettinchiaro”), e decide
di scrivere un romanzo poliziesco sul tipo di quelli di Poe, che tanto l’hanno entusiasmato nella traduzione di
Baudelaire.
Nasce così L'Affare Lerouge (L'Affaire Lerouge). Pubblicato a puntate nel 1863 su Le Pays, il romanzo
passa praticamente inosservato, mentre la sua riedizione su Le Soleil, due anni più tardi, riscuote un clamoroso
successo.
Il giovedì 6 marzo 1862, posdomani del martedì grasso, cinque donne del villaggio della Jonchére si
presentavano all’ufficio di polizia di Bougival. Esse raccontarono che da due giorni nessuno aveva più visto una
loro vicina, la vedova Lerouge, che abitava sola, in una casetta isolata. Parecchie volte avevano bussato, ma
inutilmente. Le finestre, come la porta, erano chiuse ermeticamente, quindi era stato impossibile gettare
un’occhiata nell’interno. Questo silenzio, questa scomparsa, le turbavano. Temendo un delitto o aleno una
disgrazia, esse domandavano che «la Giustizia», per rassicurarle, forzasse la porta e penetrasse nella casa.
In questo primo romanzo poliziesco, Gaboriau segue molto la lezione degli Assassinii della Rue Morgue:
«Tutto, nella prima stanza, denunciava con lugubre eloquenza la presenza dei malfattori. I mobili, una credenza e
due grandi cassapanche, erano forzati e rovesciati. Nella seconda stanza, che serviva da camera da letto, il
disordine era ancora maggiore: pareva che qualcuno, in preda alla follia, si fosse impegnato a buttare ogni cosa
fuori posto. Infine, presso il caminetto, il viso nella cenere sparsa, era steso il cadavere della vedova Lerouge.
Tutto un lato della faccia e dei capelli erano bruciati».
Ben tre sono i personaggi chiamati a risolvere il caso della vedova: il capo della polizia, Gevrol, funzionario
ligio al dovere, tipico poliziotto di routine; l’anziano dilettante Pére Tabaret (detto Tirauclair) e, infine, in una
parte minore, un giovane ispettore arrivista, Lecoq (nome che ricalca quello di Vidocq). Sarà Pére Tabaret a
risolvere l'enigma della vedova Lerouge, dopo che la polizia ha fallito e ha pure arrestato un innocente.
Nei successivi romanzi, Il dossier 113 (Le dossier 113), Il dramma d’Orcival (Le crime d’Orcival),
entrambi del 1867, Monsieur Lecoq (1869) e La corda al collo (La corde au cou, 1873), l’attenzione dell’autore
si sposta da Gevrol e Tabaret a Lecoq. Soprattutto a partire da Il dramma d’Orcival, la storia di un duplice
misterioso omicidio avvenuto nel castello dei conti Trémorel: la polizia locale è convinta d’aver fatto piena luce
sul fatto di sangue e ha arrestato i presunti colpevoli, quando da Parigi giunge Lecoq a infrangere ogni illusione.
Coi suoi metodi particolari, il detective avvia le indagini: esamina tutte le circostanze del crimine, raccoglie
dettagli, individua i moventi, collega fra loro i vari personaggi e le diverse vicende; infine, trova l’uomo la cui
colpevolezza giustifica tutte le circostanze, i dettagli, i dati raccolti e collegati.
Lecoq è un investigatore eccezionale, perché è paradossalmente dotato di una “mentalità criminale”, che gli
permetterebbe di commettere crimini perfetti e, quindi, anche di svelarli. Ex piccolo delinquente “riconciliatosi
con la legge”, prima di entrare nella polizia Lecoq ha lavorato come assistente presso un celebre astronomo, il
barone Moser. Anzi, è stato proprio il barone, al quale aveva sottoposto un suo “piano perfetto” per rapinare una
banca, a scoprire in lui la vocazione poliziesca: «Quando si hanno le vostre disposizioni e si è poveri, si diventa
o un ladro o un celebre poliziotto. Scegliete!». Lecoq sceglie di entrare nella Sureté.
Il tratto della “mentalità criminale” non è scelto a caso da Gaboriau: esso spiega in realtà il metodo di
“identificazione psicologica” con cui opera il suo personaggio. Nel corso delle indagini, Lecoq si spoglia della
propria personalità, sforzandosi d’entrare nei panni e nella mentalità dell'assassino. In questo, egli è l'erede
spirituale di Dupin, ma a differenza dell’eroe di Poe, Lecoq non si isola nell’astrazione. Dupin è un infallibile
ragionatore, che si dedica ai particolari unicamente per la morbosa soddisfazione di constatare d’aver raggiunto
conclusioni esatte. Il suo interesse è rivolto al problema “in sé”, e non ai personaggi che gli si muovono intorno.
Lecoq, al contrario, esita, segue una pista, s’accorge che non è quella giusta e ricomincia le indagini. Invece
di avanzare ipotesi ardite, che la verifica dei fatti dimostrerà esatte, il detective francese esprime il proprio
giudizio solo dopo aver svolto un esame minuzioso degli avvenimenti. Lecoq è un uomo, non un sillogismo
personificato, quindi preferisce l’indagine al puro ragionamento intuitivo.
Un criminologo degli anni Trenta, Edmond Locard, ha così sintetizzato la differenza dei metodi
investigativi di Poe e di Gaboriau: «Per quanto riguarda l'inchiesta criminale, l’americano incarna il genio e il
francese il talento. Il poliziotto di Poe è tutto intuizione; quello di Gaboriau è tutto esperienza, saggezza e pratica
del mestiere».
Gaboriau e Poe, insomma, hanno inventato i due personaggi-chiave del racconto poliziesco, il detective
dilettante e il commissario di polizia, creando così due scuole ben differenziate: quella francese e quella
angloamericana. «A seconda che gli autori diano più importanza all'inchiesta o al mistero», scrive il giallista
francese Thomas Narcejac, «si inseriscono in due scuole che corrispondono a temperamenti nazionali molto
marcati. Gli anglosassoni, in genere, si interessano particolarmente alle vicende dell’inchiesta, quella speciale
partita a scacchi che l’investigatore è chiamato a giocare. I francesi, invece, sono più sensibili all’aspetto
romanzesco e melodrammatico del poliziesco: ambiente, personaggi pittoreschi, colpi di scena».
(per approfondimenti: Stefano Benvenuti - Gianni Rizzoni, Il romanzo giallo, Mondadori, Milano 1979).
L’intermezzo giapponese di Contenebbia
Nel raccontare le “origini della detective fiction”, non potevo trascurare un interessantissimo tributo che il
Contenebbia, in due recenti post, ha offerto a uno scrittore mistery giapponese di cui non conoscevo l’esistenza:
Edogawa Ranpo.
Lo ripropongo qui, su gentile concessione, come imprescindibile tassello dell’affresco che sto cercando di
costruire.
Ranpo, il cui vero nome è Tarō Hirai, nasce il 21 ottobre 1894 a Nabari, presso la prefettura di Mie, da
una famiglia di samurai. Nel 1912 il padre si trova ex abrupto sul lastrico e fugge, alla ricerca di miglior sorte, per la Corea. Il ragazzo si trasferisce quindi a Tōkyō dove, accettando una serie di lavoretti saltuari, riesce a mantenersi e a proseguire gli studi, non senza fatiche e stenti. Proprio qui, nelle giornate trascorse alla
Biblioteca Pubblica, scopre i romanzi di Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, insopportabile per
quanto imbattibile detective cocainomane, e gli allucinati racconti di Poe (la cosa non deve stupire, visto che, già
nella seconda metà dell’Ottocento, dopo quasi tre secoli di volontario isolamento- anche- culturale, il Giappone
aveva cominciato a pubblicare opere di scrittori stranieri). Buttata alle ortiche una laurea in economia, Ranpo
sceglie l’impervia strada del nomade, spostandosi un po’ per tutta la nazione, accettando gli impieghi più
disparati: impiegato in varie piccole aziende , gestore di un negozio di libri usati, e poi di un ristorante di soba
cinese, per finire poi nella redazione di un giornale. Nel frattempo, in tutti questi anni “di formazione” Ranpo
non smette di scrivere racconti e, cosa importantissima per la solidificazione della propria weltanschauung
autoriale, di tradurre romanzi di “colleghi” stranieri.
A questo punto, il Contenebbia apre un’interessante parentesi su Edgar Allan Poe, definito da Baudelaire
«un Lord Byron abbandonato in una terra che gli è nemica», un punto di non-ritorno del Romanticismo Nero.
Con la creazione del gelido Auguste Dupin, protagonista dei racconti I delitti della Via Morgue, Il mistero
di Marie Roget e La lettera rubata, Poe diede vita al primo detective nella storia della letteratura di genere,
anticipando tutti i gialli “deduttivi” a venire. Ma la sua fama è maggiormente legata ai Racconti Straordinari fra
cui vale la pena ricordare quelli che lo stesso Poe amava citare: Ligeia, Il crollo della casa degli Usher, Il cuore
rivelatore, Il gatto nero, Il pozzo e il pendolo… Prima di lui, tutti gli scrittori, anche i portavoce del Gotico,
erano sempre rimasti legati a precise convenzioni letterarie, come, ad esempio, la scansione manichea fra Bene e
Male col conseguente trionfo del primo sul secondo… Avevano, insomma, come dirà poi H.P. Lovecraft:
«lavorato per la maggior parte al buio, senza comprendere il fondamento psicologico esercitato dal tema
dell’orrore». Ecco la grande novità di Poe: scandagliare gli oscuri recessi dell’animo umano, dove l’Es urla e
cerca di strapparsi le catene, facendosi così interprete, prima di Freud, delle più celate pulsioni (si pensi alle
pesanti allusioni necrofile presenti in Ligeia o in Morella). In questa fondamentale “dualità”, nell’aver saputo
coniugare lo “speculum” del medico legale con la tremolante lanterna del Visionario Errante, va ricercato il
motivo dell’incondizionata ammirazione di Ranpo per il maestro americano.
Infatti, nei primi esperimenti narrativi, Tarō Hirai cercherà di emulare le pagine di Poe, come nel racconto
Odoru Issunbōshi (Il nano danzante), inequivocabilmente ispirato a Hop-Frog. E quando nel 1924 arriva
improvvisamente il successo, col racconto Nisen dōka (La moneta da due sen) pubblicato dalla rivista
Shinseinen (Gioventù nuova), l’ombra di Poe è più che mai presente: il protagonista che riesce a scoprire il
bottino di una rapina decifrando un crittogramma inciso su di una monetina di rame, non è che una citazione de
Lo scarabeo d’oro.
È qui, dunque, che inizia la letteratura poliziesca giapponese; ed è qui che nasce lo pseudonimo di Edogawa
Ranpo, che letteralmente significa «a zonzo per il fiume Edo» ma che riecheggia senz’ombra di dubbio il nome
di Edgar Allan Poe. Scrive Contenebbia:
L’anno successivo, col romanzo Dizaka no satsujin jiken (Assassinio alla Salita D) crea la figura del detective Akechi Kogorō che otterrà con gli anni uno straordinario successo grazie ad una
serie di libri pensata dall’autore per il pubblico dei ragazzi. Da questo momento la lista di bestseller si fa quasi interminabile: Akai heya (La camera rossa), Ningen Isu (La poltrona umana), Yami
ni ugomeku (Brulicare nelle tenebre), Inju (La belva nell’ombra) e Akumu (L’incubo)…Ed è
proprio in questi volumi che lo sguardo di Ranpo sembra scollegarsi sempre più dalle rigide
impalcature della “detection” per librare verso i lidi dell’Irrazionale, dove l’Orrore si può sposare
col Sublime, ed il Grottesco danza un paso doble col Raccapricciante… I suoi personaggi vivono
sempre un’esistenza grigia, triste genitrice di noia e frustrazioni assortite. Solo attraverso la fuga in
un mondo squisitamente utopico, mentale (se non paranoico, in molti casi), soltanto grazie al
brivido dell’atto criminale o dell’abominio sessuale, le creature di Ranpo trova una paradossale
forma di appagamento, di riscatto. Proprio per codesta propensione allo scandagliare il Mr. Hyde
che sonnecchia in ognuno di noi, (e per l’abitudine di sfruculiare nei talami dei propri connazionali
svelandone le più intime perversioni), il buon Edogawa Ranpo divenne, soprattutto negli anni della
nouvelle vague nipponica (ma non solo) l’autore più amato dai giovani registi, indecisi fra languide
efferatezze da ero-guro e pulsioni avant-garde…
Ed ecco che, implacabilmente, arriviamo al cuore, alla “magnifica ossessione” esistenziale – se mi è consentito
– di Contenebbia: il Cinema.
Citando solo per dovere di completezza i 9 film, prodotti tra il 1956 ed il 1959, del ciclo Shonen tanteidan
(Il club dei ragazzi detective) e tralascindo gli innumerevoli adattamenti televisivi, va qui detto che solo grazie
a sguardi obliqui come quelli di un Masumura o di un Tsukamoto e alla voglia di solidi mestieranti come Teruo
Ishii di “sporcarsi le mani” il putrescente sottobosco umano descritto da Ranpo ha avuto, davvero, modo di
venire alla luce. Il saggista Soji Shimada ha sviluppato una interessante teoria: tutte le grandi città attraversate,
come Tōkyō (ma anche Praga, Budapest, Londra…) da un fiume, vengono da quest’ultimo divise in due zone opposte: la parte buia ad est e la zona di luce ad Ovest. E’ quindi solo a est che troviamo il regno delle
ombre, quel reticolo di bettole, postriboli e scannatoi ove, oltre che la bussola dei sensi, puoi perdere la vita. O
l’anima, a scelta. Ma anche i feudi ove il Buio regna sovrano hanno i propri aedi, cantastorie erranti: Edogawa
Ranpo è stato, per il Giappone, il più grande narratore dell’anemica fauna cresciuta ove mai batte il sole…
Charles Dickens – I parte
Se in Francia il romanzo poliziesco s’innesta sul corpo del romanzo romantico, del feuilleton e delle memorie
alla Vidocq, in Inghilterra incontra un terreno forse ancora più fertile, rappresentato dal romanzo “nero” o
gotico.
Anche un gigante della letteratura come Charles Dickens (1812-1870) finisce per introdurre nelle sue
opere temi criminali ed elementi polizieschi. Già nelle Avventure di Oliver Twist (pubblicato a puntate dal
1837 al 1839), in cui il giovanissimo protagonista è sballottato tra un ospizio di mendicità da un lato e una
benevola protezione dall’altro, con la terza alternativa di essere costretto a far parte di una delle bande
criminali di Londra, c’è un notevole passaggio di detection, dato dalle indagini di Mr. Blownlow sul passato di
Oliver. Il romanzo è ricco di simboli ossessionanti di frustrazione, isolamento, prigionia, e vi si trova una
galleria di ritratti e una serie di quadretti acutamente incisivi. Qui compaiono i funzionari di polizia Blathers e
Duff, due autentici incapaci che sono oggetto di pesante scherno da parte dello scrittore.
Temi “gialli” emergono anche in Barnaby Rudge (1839-1841), uno dei due romanzi a sfondo storico di
Dickens (l’altro è A Tale of Two Cities), incentrato sui Gordon Riots, le rivolte antipapali del 1780, in cui
l’elemento melodrammatico viene disciplinato in una trama cupa con risvolti tragici. Il romanzo racconta
dell’omicidio di Reuben Haredale, il cui fratello cattolico Geoffrey si allea col malvagio Sir John Chester, a
dispetto dell’odio reciproco, allo scopo di impedire il matrimonio fra la nipote del primo e il figlio del secondo.
Durante i Gordon Riots, la casa di Haredale viene data alle fiamme e la nipote Emma è rapita; il figlio di
Chester riesce a ritrovare la ragazza, guadagnando così il diritto di sposarla. In seguito viene scoperto il
responsabile dell’omicidio di Reuben, mentre l’arguto Barnaby Rudge, condannato alla forca, ottiene la
sospensione dell’esecuzione, nonostante abbia partecipato alla rivolta.
L’investigatore privato
Nel romanzo Martin Chuzzlewit (1843-1844) abbiamo addirittura un investigatore privato, lo stravagante
Nadgett, che viene assunto da un fraudolento assicuratore per scoprire informazioni riservate sui propri clienti.
Il romanzo ruota principalmente intorno alla figura di Pecksniff, un perfetto ipocrita che non ammette mai la
realtà delle sue intenzioni, nemmeno con se stesso, ed è uno studio sinistramente ironico degli effetti
dell’avidità sul carattere, e delle possibilità di conoscere veramente se stessi e gli altri.
È la storia di Martin, nipote del vecchio Martin Chuzzlewit, un riccone diventato misantropo a causa
dell’avidità dei parenti. Il vecchio è accudito da Mary Graham, un’orfana che egli ha cresciuto e che considera
sua figlia; il giovane Martin, grazie all’impegno e all'influenza positiva del suo domestico Tapley, riesce a
tramutare il suo egoismo in generosità e s’innamora di Mary, ma il padre putativo diffida delle intenzioni del
ragazzo e fa sì che venga licenziato dall’architetto presso cui è tirocinante, l’ipocrita Mr. Pecksniff.
L’andamento del romanzo è, per così dire, spezzato dal viaggio del giovane Martin in America, dove cade
ammalato, parte che venne criticata negli ambienti d’oltreoceano per l'immagine approssimativa e stereotipata
della vita statunitense data da Dickens. Al ritorno del protagonista in Inghilterra, il tono comico che tratteggia i
personaggi sgradevoli sfuma, per lasciare il posto a ritratti più nettamente negativi, come nel caso del criminale
Jonas Chuzzlewit e di Tigg Montague.
Il nonno che riabilita il nipote, riconoscendo il suo sincero mutamento d’animo, conduce la vicenda allo
scioglimento. Tre sono gli elementi essenziali del romanzo: l’intreccio Pecksniff-Jonas, che si focalizza sui
guasti provocati dall’egoismo e dall’ipocrisia e sull’introspezione psicologica del criminale, inserita in un
tipico crime-and-detection plot; il viaggio in America del giovane Martin e del compagno Tapley, dipinto con
toni swiftianamente politico-satirici; il successivo intreccio, legato al primo, che si sviluppa intorno alla
compagnia Sairey Gamp and associates.
Dickens e i detectives
Negli ultimi romanzi dello scrittore compaiono spesso figure di poliziotti, per lo spazio sempre maggiore
dedicato a vicende misteriose da risolvere, come il funzionario che in Our Mutual Friend (1864-1865)
presidia la piccola stazione di polizia nella quale viene portato il cadavere di John Harmon, o Dick Datchery.
Our Mutual Friend è la più compiuta rappresentazione che Dickens ci offre degli effetti che l’ambizione
sociale e finanziaria produce sul carattere; egli raggiunge questo risultato sia attraverso l’elaborazione
letteraria, sia attraverso un complesso uso di simboli. Il comico, il drammatico, il tragico e il sentimentale si
fondono in un intreccio basato su una sostituzione di persona e su molte messe in scena; l’atmosfera, misteriosa
e quasi poliziesca, dà vita a una brillante galleria di personaggi.
L’interesse di Dickens per gli argomenti polizieschi e per le figure dei veri poliziotti si ravviva intorno agli
anni Cinquanta, quando stringe amicizia con l’ispettore Whicher di Scotland Yard, il detective coinvolto nel
celebre caso di Constance Kent, che gli ispira la figura del sergente Witchem per una serie di articoli-racconti
(lo stesso poliziotto che ispirerà anni dopo il più famoso sergente Cuff a Wilkie Collins). Un altro amico di
Dickens fu Charles Frederick Field (1805-74), un noto detective dell'epoca, le cui imprese vennero immortalate
dallo scrittore in una lunga serie di resoconti giornalistico-narrativi di true crime fiction scritti per il periodico
“Household Words” con titoli come “On Duty with Inspector Field” o “A Detective Police Party”.
Field, che aveva iniziato la sua carriera nei Bow Street Runners, nel 1846 divenne ispettore capo a
Scotland Yard e nel 1852 si ritirò, seguitando a lavorare come detective privato. Egli ispirò a Dickens il
personaggio dell'ispettore Bucket nel romanzo Bleak House, di cui andremo ora a occuparci.
Charles Dickens – II parte
I due romanzi di Dickens in cui l’elemento poliziesco è più evidente sono Bleak House (Casa desolata, 18521853) e The Mystery of Edwin Drood (Il mistero di Edwin Drood, 1870).
Bleak House è uno dei romanzi più lunghi e più complessi di Dickens, che si propone di dimostrare, fra le
altre cose, quanti danni possono derivare dall’interminabile trascinarsi delle cause giudiziarie, il cui unico vero
scopo sembra quello di rimpinguare le tasche degli avvocati. (In questo senso, il post potrebbe anche essere
inserito nella categoria “Sempre attuali”!)
Ecco l'inizio del romanzo:
Londra. Sessione autunnale da poco conclusa e il Lord Cancelliere tiene udienza a Lincoln's Inn
Hall. Implacabile clima di Novembre. Tanto fango nelle vie... fumo che scende dai comignoli come
una soffice acquerugiola nera con fiocchi di fuliggine grandi come fiocchi di neve vestiti a lutto, si
potrebbe immaginare, per la morte del sole. Cani che si distinguono appena nella mota... Nebbia
ovunque... Jarndyce contro Jarndyce si trascina da anni. Questo processo spauracchio è diventato
col tempo così complicato che nessuno sa più cosa significhi. Innumerevoli bambini sono nati nel
corso della causa... innumerevoli giovani si sono sposati, innumerevoli vecchi sono morti... Il
piccolo attore o convenuto, al quale fu promesso un cavallo a dondolo, quando si fosse conclusa la
causa Jarndyce contro Jarndyce è cresciuto, è diventato padrone di un cavallo vero e se ne è andato
al galoppo all’altro mondo.
La trama è ingegnosa e piena d’inventiva, con molte storie parallele che s’intersecano e s’intrecciano per
effetto del caso o del destino. La giovane Esther Summerson, personaggio principale e a tratti narratrice, è
orfana. Allevata severamente dalla madrina, viene presa sotto la protezione di un personaggio delizioso e
vagamente eccentrico, John Jarndyce, divenuto padrone di Casa Desolata e coinvolto suo malgrado nella
celebre causa («un processo che è in se stesso un monumento all’attività della corte», secondo l’avvocato
Kenge detto “il Conversatore”), di cui però non vuol sapere nulla.
A lui il tribunale affida due giovani pupilli della corte, due lontani cugini, orfani di qualche defunto attore
della causa: Ada – di cui Esther sarà la compagna e l’amica – e Richard, che sposerà Ada, ma sarà via via
travolto dal gorgo di Jarndyce contro Jarndyce. Nelle vicinanze di Casa Desolata, nel piovosissimo
Lincolnshire, troviamo Chesney Wold, l’antica dimora della famiglia Dedlock, dove Sir Leicester vive con la
splendida moglie, assai più giovane di lui e perpetuamente annoiata. Le vicende di Casa Desolata e di Chesney
Wold verranno gradualmente intrecciandosi in un moltiplicarsi di situazioni e personaggi, che trovano i loro
sbocchi in una Londra che contrappone il quartiere degli avvocati, Lincoln’s Inn Fields o Chancery Lane, alla
desolazione totale della viuzza squallida e decrepita chiamata Tom all Alone’s.
Al centro del libro c’è il denaro, il vortice terribile creato dall’attrazione per il denaro, e la causa Jarndyce
contro Jarndyce è la ruota che fa girare il tutto, che fa incontrare e separare i personaggi e ne intreccia le
vicende. Ma ci vorranno ottocento pagine perché la causa arrivi a conclusione per autoesaurimento, dopo aver
assorbito l’intero patrimonio degli attori.
Nel frattempo, Chesney Wold sembra celare un enigma: l’altera Lady Dedlock, spinta da un’irresistibile
noia, si sposta continuamente a Londra e a Parigi e anche lei sembra nascondere uno sconvolgente segreto.
L’oscuro copista che si cela sotto il nome di Nemo viene trovato morto nel suo stambugio londinese per
eccesso di oppio, e il suo padrone di casa, lo straccivendolo alcolizzato Krook, muore sorprendentemente di
autocombustione dopo avergli sottratto un misterioso pacco di vecchie lettere d’amore. Sorte simile tocca
all'avvocato Tulkinghorn, «l'intendente dei misteri legali, il cantiniere della cantina legale dei Dedlock», che
viene inopinatamente ucciso da un colpo di pistola sotto il soffitto affrescato del suo studio: il mistero della sua
morte fa entrare in scena, in uno dei punti culminanti del romanzo, il detective Bucket, che assume un ruolo
crescente dipanando gli enigmi che si sono accumulati.
L’ispettore Bucket
Nei capitoli finali, la vicenda prende il tono di un rebus poliziesco. L'apparizione della figura dell'ispettore
Bucket di Scotland Yard, «robusto, dallo sguardo intento e dalla vista acuta», segna un inedito punto di svolta
per la letteratura inglese dell’epoca: un autentico funzionario di polizia chiamato a risolvere un autentico
mistero, un caso d’omicidio la cui soluzione è raggiunta con brillantezza e logica degne degli investigatori più
famosi.
Quando l’ispettore si presenta per arrestare il colpevole, tutti i sospetti s’incentrano su Lady Dedlock, ma
il detective smaschera un’altra persona, che odiava sia l’assassinato sia la sospettata e aveva deciso di
vendicarsi
uccidendo
il
primo
e
facendo
ricadere
la
colpa
sulla
seconda.
L'ispettore Bucket precede di sedici anni il ben più celebre sergente Cuff, il personaggio di Wilkie Collins
comunemente considerato il primo vero detective professionista della letteratura inglese. In seguito, stimolato
da quell'enorme successo, Dickens cominciò a pubblicare a puntate, sulla rivista “All the Year Round”, il
romanzo The Mystery of Edwin Drood (1869-70), che rimase interrotto alla sua morte e che molti cercarono di
completare basandosi sugli indizi disseminati nei primi capitoli o utilizzando appunti e confidenze dello
scrittore stesso.
Il mistero di Edwin Drood
«Dov'è mio nipote?» urlò Mr. Jasper. «Dov'è vostro nipote?» replicò Neville. «Perché me lo chiedete?»
«Perché
voi
siete
l’ultimo
ad
averlo
incontrato,
e
lui
è
sparito.»
Tante furono le congetture sui possibili sviluppi dell’incompiuto The Mystery of Edwin Drood. Tutto fa
pensare che le maggiori preoccupazioni di Dickens fossero l’efficacia dell’ambientazione e la caratterizzazione
dei personaggi, in particolare del protagonista-criminale Jasper. L’antica città di Cloisterham e la sua
cattedrale, a ricordare la mortalità e la fragilità umana, fanno da sfondo a una vicenda che, come ebbe a dire la
figlia dello scrittore, è imperniata sui “tragici segreti dell'animo umano”.
Ricca doveva essere la galleria dei personaggi, da Mr. Grewgious, avvocato eccellente ed eccentrico, e
Miss Twinkleton, sorvegliante del Seminario delle Signorine, allo scalpellino ubriacone Durdles e
all'irriverente Deputy, addetto alle camere ammobiliate. La promessa di matrimonio fra Edwin Drood e Rosa è
alla base dello svolgimento dell’azione, e ogni personaggio e ogni avvenimento paiono riferirsi e prendere
spunto da essa. Ma al centro della cittadina di Cloisterham, e al centro dello stesso romanzo – accanto al
personaggio di Jasper – c’è la cattedrale, simbolo solenne del contrasto tra la vita e la morte e tra il bene e il
male.
La cattedrale fornisce anche lo sfondo ideale per un’atmosfera paurosa ricca di segreti: è il luogo dove
nessuno si azzarda a passare di notte, perché «un minaccioso silenzio di tomba pervade l’antico edificio, il
chiostro, il sagrato», in cui i cittadini sentono l’istintiva repulsione per la polvere che ha ospitato il soffio della
vita, e dove si possono fare brutti incontri.
La morte di Dickens a metà dell’opera, l’8 giugno 1870, diede luogo a molte supposizioni sul suo seguito
e a diversi tentativi di continuazione. Le questioni più dibattute furono se Edwin Drood sarebbe morto oppure
no, l’innocenza o la colpevolezza di Jasper, in che modo il crimine si sarebbe consumato, le vie attraverso cui
Jasper, se colpevole, sarebbe stato trascinato in giudizio, l’incognita della reale identità di Datchery, e
l’eventualità di un collegamento fra Jasper e Princess Puffer.
Le due scene ambientate nella fumeria d’oppio hanno contribuito ad alimentare l’atmosfera di mistero che
pervade il libro, spingendo alcuni a supporre che il malvagio Jasper fosse destinato a commettere il suo delitto
in preda agli effetti della droga. Ciò richiama un parallelo con La pietra di luna, dove allo stesso modo
Franklin Blake si macchia inconsapevolmente di un crimine, seppur minore; ma mentre il personaggio di
Wilkie Collins non è cosciente di aver assunto l’oppio, Jasper lo fa deliberatamente, come reazione alle proprie
frustrazioni.
Sembra comunque certo che nelle intenzioni iniziali di Dickens un nipote doveva essere assassinato dallo
zio, e alla fine il colpevole si sarebbe ritrovato in una cella a rivivere l’intero corso delle sue malefatte in una
sorta di straniamento, come se la vittima delle tentazioni malvagie fosse stata un'altra persona. La scoperta
dell’assassino, naturalmente, si sarebbe avuta verso la conclusione della storia, grazie a un anello d’oro
sopravvissuto all’azione corrosiva della calce in cui era stato gettato il corpo.
Tanti provarono a trovare la risposta agli interrogativi, lungo tutto un secolo. E nel 1980 Leon Garfield,
uno studioso e narratore inglese, ha scritto la “sua” prosecuzione del romanzo, definita la più convincente e
definitiva, perfettamente aderente alla cultura, allo stile, al mondo fantastico di Dickens. Questa versione
“completa” de Il mistero di Edwin Drood (di 510 pagine) è stata pubblicata in Italia da Bompiani nel 2001.
La pietra di luna – I° parte
Il vero padre del detective novel inglese è uno scrittore cresciuto alla scuola di Charles Dickens: William
Wilkie Collins (1824-1889), autore molto popolare e molto prolifico di grandi romanzi vittoriani. L’amicizia
fra Collins e Dickens – nata dall’interesse comune per il teatro, ma cresciuta anche grazie alla loro passione per
l’editoria, i viaggi in Francia e in Italia, gli ideali radicali e i bordelli londinesi – fu feconda per entrambi.
Nel 1856, Wilkie Collins si trova a scrivere per la rivista Household Words una serie di articoli a sfondo
poliziesco, traendone i temi dai casi giudiziari raccolti nel Recueil des causes célèbres (1807-1814) di Maurice
Mejean, un libro che aveva acquistato in Francia durante uno dei suoi viaggi sul continente in compagnia di
Charles Dickens. E sempre al Recueil è ispirato uno dei suoi grandi successi, La signora in bianco (The
Woman in White, 1859-60), un complicato romanzo con forti influssi balzachiani.
Ma il capolavoro di Wilkie Collins resta La pietra di luna (The Moonstone), ispirato al caso mai risolto di
Constance Kent, ovvero il celebre “delitto della casa di campagna”, pubblicato nel 1868, prima a puntate su All
The Year Round, il giornale diretto da Dickens, e poi in tre volumi.
Molti hanno giudicato La pietra di luna il più bel romanzo poliziesco di tutti i tempi, e il poeta T. S. Eliot
ha scritto che «tutto quello che c’è di buono e di efficace nella narrativa poliziesca moderna lo si può già
trovare nella Pietra di luna. Gli autori più recenti hanno introdotto l’uso delle impronte digitali e di bagattelle
dello stesso genere, ma in sostanza non hanno realizzato alcun progresso rispetto alla personalità o ai metodi
del sergente Cuff. Cuff è il poliziotto perfetto. I nostri poliziotti moderni sono il più delle volte delle macchine
efficienti ma anonime, che si dimenticano nel momento stesso in cui si chiude il libro, o hanno troppe
caratteristiche come Sherlock Holmes. Costui è talmente sovraccarico di capacità, di meriti e di peculiarità da
diventare una figura quasi statica: ci viene descritto, anziché esserci rivelato, attraverso le sue azioni. Il
sergente Cuff è invece una personalità reale e attraente, ed è brillante senza essere infallibile».
Per incatenare il pubblico alle pagine, Collins sfrutta sia l’aspetto umoristico della vicenda narrata, sia
quello patetico-sentimentale, sia quello più strettamente poliziesco, cioè la suspense, l’attesa vigile dei lettori,
desiderosi che i misteri della storia siano svelati uno dopo l’altro.
Per ottenere nei lettori questo triplice coinvolgimento, Collins elabora una particolare tecnica narrativa:
egli affida il resoconto dei fatti non a un solo narratore, ma a tutti i protagonisti, che si alternano uno dopo
l’altro come se fossero testimoni chiamati a deporre. Siccome i vari narratori possono raccontare solo i fatti a
cui hanno partecipato o assistito in prima persona, l’autore gioca sul punto di vista limitato, che gli consente di
mantenere nel testo un gran numero di lacune narrative, che verranno riempite da qualche altro personaggio nel
prosieguo del racconto. Inoltre, il fatto di affidare la voce narrante a personaggi particolarmente eccentrici
consente a Collins di ottenere straordinari effetti di comicità, come accade col maggiordomo Betteredge, che è
il primo ad assumere il ruolo di narratore, e con Miss Clack.
La trama
La “Pietra di luna” è un favoloso diamante sacro appartenente a una setta indiana di Seringapatam, predato nel
1799 dal malvagio colonnello inglese John Herncastle, che ha trucidato i tre bramini che lo custodivano. Sul
diamante – ovviamente – pesa una maledizione, e quando Herncastle torna in patria, tutti lo sfuggono, a partire
dai suoi familiari, ben consapevoli delle sue malefatte. Dopo quasi mezzo secolo, nel 1848, il colonnello muore
e lascia in eredità il diamante alla nipote Rachel Verinder, figlia di sua sorella Julia. Siccome i legami con la
famiglia erano interrotti da decenni, Lady Julia non tarda a interpretare il gesto – donare un diamante
maledetto! – come una vendetta del malvagio colonnello.
Al cugino della ragazza, Franklin Blake, spetta il compito di portare il diamante – la Pietra di luna – a
Rachel in occasione del suo compleanno. Quando si reca nella casa di campagna dei Verinder, nello Yorkshire,
il suo arrivo è preceduto da quello di tre indiani, che in compagnia d’un bambino compiono strani riti per
seguire i movimenti di Franklin e del diamante. Dopo la riunione degli invitati e la cena di compleanno, a cui
partecipa anche un altro cugino di Rachel, Godfrey Ablewhite, gli indiani si presentano nel giardino di casa
fingendosi giocolieri, ma un viaggiatore che conosce bene l’India individua in essi tre bramini che cercano di
riportare in patria la pietra sacra.
Ed ecco il colpo di scena: la mattina dopo, il diamante è scomparso. Dunque viene chiamata a investigare
la polizia locale, nella persona del Sovrintendente Seegrave, il quale fa perquisire la casa e tutti i presenti
(tranne Rachel, che misteriosamente si rifiuta), ma senza alcun risultato. Di fronte all’insuccesso della polizia
locale, Franklin Blake fa quindi venire da Londra il sergente Cuff, celebre investigatore di Scotland Yard.
Il sergente Cuff
Il diamante è stato portato via dal boudoir di Rachel, dov’era racchiuso in un mobiletto. A fornire un
indizio al sergente è la porta del locale, che Rachel e Franklin avevano dipinto insieme nei giorni precedenti il
furto, mentre tra loro nasceva una storia d’amore. La porta reca una macchia sulla vernice, che il sergente
conclude sia stata prodotta dal ladro che di notte ha portato via la pietra. Comincia dunque l’affannosa ricerca
d’un capo di vestiario che porti una macchia di vernice, ma senza risultati. Siccome Rachel rifiuta di lasciar
ispezionare il proprio guardaroba, mostrandosi apertamente ostile, Cuff conclude che il diamante non sia stato
davvero rubato e che la ragazza l’abbia nascosto con l’idea di venderlo per pagare qualche debito che ha
contratto, magari con un gioielliere, come spesso accade alle giovani aristocratiche. Secondo Cuff, ad aiutare
Rachel è stata Rosanna Spearman, una cameriera con un passato di ladra, che nei giorni successivi al furto ha
avuto un comportamento strano, fingendosi malata, mentre in realtà usciva di casa per motivi imprecisati. Il
crescendo di tensione che l’indagine provoca in casa Verinder culmina proprio col suicidio di Rosanna, che si
toglie la vita perché innamorata di Blake, che a sua volta è innamorato della cugina Rachel.
Il sergente Cuff comunica a lady Julia la versione dei fatti di cui è convinto, cioè che il diamante è in
possesso di Rachel; ma quando lady Julia interroga di persona la figlia, questa nega di averlo, e anche solo
d’aver parlato con Rosanna dopo il furto della pietra. A Lady Julia, quindi, non resta che pagare Cuff, che
aveva ingaggiato privatamente, con un lauto assegno e chiedergli di abbandonare il caso, che così rimane
irrisolto.
La presenza del diamante maledetto ha gettato la famiglia nella disperazione. Rosanna Spearman si è
suicidata, mentre Rachel, che in un primo tempo ricambiava l’amore di Franklin Blake, dopo il furto si rifiuta
di vederlo e a solo sentire il suo nome viene colta da attacchi d’isteria.
Rachel abbandona la campagna per recarsi con la madre a Londra, dove Lady Julia spera di procurare alla
figlia sufficienti distrazioni perché dimentichi la brutta avventura. Dal canto suo, Blake parte per un lungo
viaggio in Europa per dimenticare le sue pene d’amore. Nel finale di questa prima parte, al narratore Mr.
Betteredge giunge notizia che Rosanna, prima di uccidersi, ha lasciato a un’amica una lettera indirizzata a Mr.
Franklin in cui potrebbe essere contenuta la chiave del mistero; ma la ragazza che ne è in possesso si rifiuta di
consegnare la lettera a persone diverse da Mr. Franklin, a cui è indirizzata.
(per approfondimenti:
Maurizio Ascari, Lezioni accademiche all’Università di Bologna, Facoltà di Lingue e letterature straniere
moderne, A.A. 1999-2000.
Stefano Benvenuti - Gianni Rizzoni, Il romanzo giallo, Mondadori, Milano 1979).
La pietra di luna – II° parte
Nella prima parte del romanzo di Wilkie Collins, due sono i detectives che si alternano a casa Verinder per
condurre le indagini: il Sovrintendente Seegrave e il Sergente Cuff. Qui si possono riscontrare quattro tipi di
atteggiamenti.
Il primo è quello del Sovrintendente Seegrave, che rappresenta il tipico esponente delle forze di polizia,
fin dall'inizio destinato allo scacco. Egli si presenta come un uomo molto competente, ma ben presto, dopo
essere giunto a qualche conclusione esatta, si arena nelle secche del mistero. Quel che si riesce a stabilire in
questa prima indagine è che il furto è stato commesso da qualcuno che si trovava dentro casa, poiché era
impossibile per quegli indiani o per altri malviventi accedervi dall’esterno, in quanto i cani erano liberi nel
giardino e non si sono riscontrate impronte o altri segni di scasso. Si propone qui una situazione – simile a
quella della camera chiusa – che avrà grande fortuna nel poliziesco: quella della casa o del luogo isolato in cui
si trova un gruppo di sospetti, fra i quali dev’esserci il colpevole.
A ogni modo, Seegrave finisce per trascurare quello che si rivelerà l’indizio fondamentale, cioè la macchia
che s’è prodotta nella decorazione eseguita sulla porta del salottino. Secondo Seegrave, a causare la macchia è
stata qualche cameriera che ha sfiorato la porta dopo la scoperta del furto, mentre invece il sergente Cuff capirà
subito che la macchia indica in realtà il passaggio di qualcuno nella notte del furto, probabilmente il ladro
stesso, poiché la mattina dopo il colore della porta doveva già essere asciutto.
Da bravo detective, Cuff sa che la chiave d’accesso alla verità risiede spesso nei dettagli, e afferma: «In
tutta la mia esperienza lungo le sporche strade di questo sporco piccolo mondo, non ho mai incontrato nulla che
fosse un’inezia». Proprio in obbedienza a questo principio, Cuff non trascura il dettaglio della macchia sulla
porta e fa di tutto per scoprire se in casa sia stato nascosto un vestito o una camicia da notte macchiata, o se
qualcosa
manchi
dall’elenco
della
biancheria.
Disgraziatamente, nel seguire questo indizio, Cuff sarà portato a sospettare delle persone giuste per i motivi
sbagliati. In altre parole, Cuff capisce che al centro del mistero si trovano Rachel e Rosanna, i cui movimenti e
atteggiamenti sono talvolta inspiegabili o sospetti, ma nel ricostruire i fatti si lascia guidare dalla convinzione
errata che Rachel sia indebitata e che la cameriera l’abbia aiutata, grazie al suo passato criminale, a vendere il
gioiello a un ricettatore. In particolare, Cuff è convinto che, dopo aver sottratto il gioiello dal salotto per conto
di Rachel, Rosanna si sia resa conto d’aver macchiato la camicia da notte e, fingendosi malata, sia corsa in
paese a comperare nuova stoffa per cucirsene una identica all’altra.
Il detective rinunciatario
Comunque sia, Cuff deve rinunciare al caso perché ha accusato del crimine la figlia della padrona di casa. La
ragazza rifiuta di spiegare la sua condotta e quindi è soggetta a legittimi sospetti; eppure, Cuff si sbaglia.
Mentre in molta narrativa poliziesca la ragione del detective – sensibile ai dettagli, capace d’introspezione
psicologica, dotata di spirito logico – riesce a penetrare il mistero, qui Cuff fallisce. Contro la sua versione dei
fatti si schiera la fiducia intuitiva che personaggi come Lady Verinder, Mr. Betteredge e sua figlia Penelope
hanno in Rachel e Rosanna. Paradossalmente, qui la ragione diventa qualcosa dai cui attacchi ci si deve
difendere, per non cadere nell’errore. Alla ragione si oppongono il sentimento, la lealtà, l’istinto. In più, alle
indagini di Seegrave e Cuff si oppongono le indagini dei tre bramini indiani che inseguono il diamante, i quali
non usano la razionalità occidentale, ma la chiaroveggenza. Addirittura, nel seguito del romanzo, i bramini
riusciranno con questo sistema a seguire gli spostamenti della pietra e a rientrarne in possesso. Dunque, in The
Moonstone convivono due sistemi di valori: uno occidentale, fondato sui presupposti della ragione, e uno
orientale, legato a una visione mistica del mondo.
Indagini multiple
Ai quattro livelli d’indagine individuati nella prima parte del romanzo, se ne aggiungono altri tre nella seconda
parte. Una è l’indagine per eccellenza: quella di stampo psicologico che viene condotta dal medico Ezra
Jennings attraverso l’ipnotismo, un’indagine che scava nell’interiorità dell’uomo, oltre il suo livello cosciente,
e che anticipa l’avvento della psicanalisi. Le altre due, invece, sono quelle di Mr. Franklin e di Mr. Bruff.
In particolare, la ricerca di Franklin rimanda direttamente alla vicenda di Edipo: colui che ha avviato la
macchina investigativa, in quanto ha convocato il sergente Cuff da Londra per cercare la verità, è anche
l’individuo che inconsapevolmente ha causato tanta confusione e dolore intorno a sé. E, come Edipo interroga
ripetutamente l’indovino Tiresia, senza capire la verità che questi gli dice con parole ambigue, finché non cade
il velo che ha davanti agli occhi, così anche Franklin nel corso della vicenda ripenserà alle parole pronunciate
da Rachel e Rosanna nei giorni successivi al furto, e scoprirà che entrambe hanno tentato di dirgli la verità.
Per finire, la ricerca di Mr. Bruff, che viene perseguita nell’ultima parte: l'avvocato ritiene che l’unico
modo per incastrare il colpevole sia aspettare che, allo scadere di un anno dal deposito in banca del diamante,
incontri Mr. Luker per rientrarne in possesso. A quel punto, rientra in scena lo stesso Cuff che, informato degli
sviluppi dell’indagine, ammette apertamente di aver commesso uno sbaglio. L’autore, tuttavia, gli concede di
prodursi in un numero teatrale: per provare le sue doti di detective, Cuff consegna a Franklin una lettera
contenente il nome del colpevole, invitandolo ad aprirla solo quando ne avranno accertata l’identità.
Wilkie Collins grande precursore
Tralasciamo le altre sfaccettature del romanzo, che sono numerose: da quella melodrammatica a quella
dell’identità a quella dell’imperialismo britannico. Fra i tanti meriti, a Collins va riconosciuto quello di aver
inaugurato la regola del fair play nei confronti del lettore, inserendo nei primi capitoli del romanzo tutti gli
indizi necessari alla spiegazione dell’enigma. Inoltre, egli ha concepito l'idea di scegliere il colpevole fra le
persone meno sospette e, infine, ha dato prova di grande accuratezza nei particolari di ordine medico, legale e
di procedura poliziesca.
(per approfondimenti:
Maurizio Ascari, Lezioni accademiche all’Università di Bologna, Facoltà di Lingue e letterature straniere
moderne, A.A. 1999-2000.
Stefano Benvenuti - Gianni Rizzoni, Il romanzo giallo, Mondadori, Milano 1979).
Si leva il sipario: Uno studio in rosso
Il primo capitolo di A Study in Scarlet, il romanzo che inaugura la saga di Sherlock Holmes, si apre sul
narratore, John H. Watson, un giovane medico reduce dalla seconda guerra afgana; ed è un suo amico a
descrivere l’eccentrico Sherlock Holmes, la cui passione scientifica è all’insegna di un arcano enciclopedismo.
Il luogo che fa da sfondo al primo incontro tra Watson e il detective – il laboratorio chimico di un
ospedale – rappresenta il simbolo della formazione scientifica di Holmes e l’equivalente della obscure library
ove il narratore di The Murders in the Rue Morgue di Edgar Allan Poe stringe amicizia col detective Auguste
Dupin. La biblioteca e il laboratorio rimandano al repertorio di conoscenze e abilità che è alla base dei due
universi narrativi: caratterizzato nella trilogia di Dupin dalla componente testuale, e nella saga di Sherlock
Holmes dall’estensione dei principi scientifici agli affari pratici degli uomini.
La scienza della deduzione
In “The Science of Deduction”, secondo capitolo di A Study in Scarlet, il narratore fa una sorprendente
rivelazione sulla forma mentale di Holmes: «La sua ignoranza era notevole quanto la sua cultura. In fatto di
letteratura contemporanea, di filosofia e di politica, sembrava che Holmes sapesse poco o nulla. Una volta mi
accadde di citare Thomas Carlyle. Mi chiese nel modo più ingenuo chi era e cosa aveva fatto. Ma la mia
meraviglia giunse al colmo quando scoprii casualmente che ignorava la teoria di Copernico nonché la
composizione del sistema solare. Il fatto che un essere civile, in questo nostro diciannovesimo secolo, non
sapesse che la terra gira intorno al sole mi pareva così straordinario che stentavo a capacitarmene».
Non solo Holmes ignora queste informazioni, ma afferma che, una volta recepite, farà il possibile per
dimenticarle. Egli paragona il cervello umano a un’angusta soffitta in cui riporre gli oggetti da conservare a
portata di mano; se lo sciocco vi ammassa ogni sorta di cianfrusaglie, e gli è impossibile poi ritrovarle, il bravo
operaio conserva solo attrezzi utili, collocandoli col massimo ordine, poiché: «È un errore illudersi che quella
stanzetta abbia le pareti elastiche e possa ampliarsi a dismisura. Viene sempre il momento in cui, per ogni
nuova cognizione, se ne dimentica qualcuna acquisita in passato».
Il tratto principale di questa metafora è la concezione specialistica del sapere holmesiano, che il narratore
esemplifica con una tabella, dove riporta il grado d’interesse dimostrato da Holmes per le diverse discipline.
All’assoluta indifferenza nei confronti di letteratura, filosofia e astronomia e al superficiale aggiornamento
politico, si contrappongono invece la conoscenza teorica della botanica, in particolare delle piante velenose,
nonché elementi pratici di geologia, come le qualità di fango delle diverse zone di Londra, la profonda
padronanza della chimica, nozioni di anatomia accurate ma non sistematiche, e l’immensa erudizione in fatto di
letteratura sensazionale, che fa del detective «un calendario vivente del crimine».
Holmes elabora un metodo d’indagine infallibile, facendo della criminologia una scienza esatta: la scienza
della deduzione. Egli non è solo un investigatore, ma un teorico dell’investigazione. All’inizio di A Study in
Scarlet, fa leggere distrattamente a Watson un articolo sulla criminologia che ha scritto per una rivista: «Come
tutte le altre arti, la scienza della deduzione e dell’analisi può essere acquisita soltanto attraverso uno studio
lungo e paziente». Prima di occuparsi di quegli aspetti morali e cerebrali della questione che presentano le
maggiori difficoltà, lo studioso affronti i problemi più elementari. Incontrando un suo simile, impari a dedurne
a prima vista la storia e il mestiere o la professione che esercita. Per quanto possa sembrare puerile, questo
esercizio acuisce lo spirito d’osservazione e insegna dove si deve guardare e cosa si deve cercare. Dalle unghie
di un uomo, dalle maniche della sua giacca, dalle scarpe, dalle ginocchia dei calzoni, dalle callosità delle dita,
dall’espressione, dai polsini della camicia: «da ognuna di queste cose si può avere la rivelazione del mestiere di
un uomo. Che tutte queste cose messe assieme, poi, possano mancar di illuminare l’indagatore che sa il fatto
suo, è virtualmente inconcepibile».
E, subito dopo, Holmes fornisce a Watson un saggio pratico del suo talento: «Vedete, possiedo una
quantità di nozioni particolari che applico ai problemi e che mi facilitano in modo meraviglioso. Le regole
esposte in quel capitolo che vi ha fatto sogghignare, mi sono preziose e io le applico praticamente nel mio
lavoro. In me, lo spirito d’osservazione è una seconda natura. Voi siete rimasto stupito quando vi ho detto, al
nostro primo incontro, che venivate dall'Afganistan.» «Senza dubbio, qualcuno ve l’aveva detto.» «Niente di
tutto ciò. Io ho capito che venivate dall'Afganistan. Per lunga abitudine, il lavorìo dei miei pensieri è così
rapido, che sono arrivato a quella conclusione senza esser conscio dei passaggi intermedi. Però, ci sono stati
dei passaggi intermedi. Eccovi il filo del mio ragionamento: quest’uomo ha qualcosa del medico, ma anche
qualcosa del militare. Evidentemente, un medico militare. È reduce dai tropici, poiché ha il viso molto scuro,
ma quello non è il suo colorito naturale dato che ha i polsi chiari. Ha subìto privazioni e malattie, come
dimostra il suo viso emaciato. Inoltre, è stato ferito al braccio sinistro. Lo tiene in una posizione rigida e poco
naturale. In quale paese dei tropici un medico dell’esercito britannico può esser stato costretto a sopportare
dure fatiche e privazioni, e aver riportato una ferita a un braccio? Nell’Afganistan, naturalmente.»
A Study in Scarlet
A Londra, in una casa abbandonata, al numero 3 di Laurinston Gardens, è stato rinvenuto il cadavere «di un
signore ben vestito». Non esiste alcun indizio su come l’uomo abbia trovato la morte. Scotland Yard brancola
nel buio, e gli ispettori Gregson e Lestrade decidono di ricorrere all’aiuto di Sherlock Holmes. Il detective
comincia subito le indagini: esamina accuratamente i dintorni della casa, interroga i funzionari di polizia, poi
trae di tasca un metro e una grossa lente d’ingrandimento rotonda e si mette a gironzolare per la stanza.
S’inginocchia, si sdraia addirittura a terra, individua e misura tracce invisibili agli altri e, alla fine, raccoglie un
mucchietto di polvere grigia, che ripone accuratamente in una busta.
«Che ne pensate?» gli domandano i funzionari di polizia. «Se tentassi di aiutarvi, farei la figura del
presuntuoso e vi ruberei il merito delle indagini» risponde sarcastico Holmes. «Avete già fatto tali progressi,
che sarebbe un peccato se qualcun altro ficcasse il naso nella faccenda.» Poi, prima di uscire a parlare con
l’agente che ha trovato il cadavere, soggiunge: «Qui c'è stato un delitto, e l’assassino è un uomo. E' alto un
metro e ottanta, è ancora giovane, ha i piedi piccoli per la sua statura, porta scarpe grossolane con la punta
quadrata e, al momento del misfatto, fumava un sigaro Trichinopoly. È arrivato assieme alla vittima, su una
carrozza a quattro ruote, tirata da un cavallo che aveva tre ferri vecchi e uno nuovo allo zoccolo anteriore
sinistro. Con tutta probabilità, l’assassino ha il viso florido e le unghie della mano destra notevolmente lunghe.
Queste sono solo piccole indicazioni, ma può darsi che vi giovino.»
Lastrade e Gregson si guardano con un sorriso incredulo, poi il primo domanda: «Se quell'uomo è stato
vittima di un assassinio, in che modo è stato ucciso?»
«Veleno», risponde laconicamente Holmes.
Allo sbalordimento del dottor Watson, che lo interroga su come abbia fatto a ricavare tutte quelle
informazioni, Holmes risponde con i fatti: «Per prima cosa, quando sono arrivato in Lauriston Gardens, ho
osservato che le ruote di una carrozza avevano lasciato un duplice solco presso il marciapiede. Ora, fino a ieri
sera non pioveva da una settimana, quindi quei solchi dovevano essere stati prodotti durante la notte. C’erano
pure le impronte degli zoccoli del cavallo, una delle quali era assai più nitida che non le altre tre, prova
evidente che si trattava di uno zoccolo ferrato di nuovo. Siccome la carrozza è arrivata sul luogo dopo che ha
cominciato a piovere, ma non durante la mattina (su questo punto ho la testimonianza di Gregson), ne consegue
che dev’essere arrivata durante la notte e che, quindi, ha portato i due sconosciuti alla casa del numero 3.»
E il metodo usato per calcolare la statura del secondo uomo è semplice e logico: «Ho potuto osservare la
lunghezza del passo di quell’uomo, tanto sul terreno argilloso all'esterno, quanto sul pavimento polveroso,
all’interno. Inoltre, ho trovato il modo di controllare l’esattezza dei miei calcoli. Quando una persona scrive su
un muro, l’istinto la porta a scrivere all'altezza dei suoi occhi. Ebbene, quell’iscrizione era a circa un metro e
ottanta dal suolo.»
Ugualmente logiche sono le deduzioni di Holmes in merito all'età dell'individuo e alla faccenda delle
unghie lunghe e del sigaro Trichinopoly: «Se un uomo può fare dei passi più lunghi di un metro e venti, senza
il minimo sforzo, non è possibile che sia anziano e che abbia degli acciacchi. Quella, infatti, è la larghezza di
una pozzanghera che c'era sul sentiero del giardino e che, evidentemente, lo sconosciuto ha scavalcato. L'uomo
dalle scarpe di vernice l’ha aggirata, ma quello dalle scarpe quadrate l’ha scavalcata. (...) Quella parola sul
muro è stata scritta con un indice intriso di sangue. La lente d'ingrandimento mi ha consentito di osservare che
l’intonaco è leggermente graffiato, cosa che non sarebbe accaduta se l’unghia di quell’indice fosse stata corta.
Quanto al sigaro... ho raccolto un po’ di cenere sparsa sul pavimento. Era di color scuro e si presentava a falde.
Soltanto il Trichinopoly produce una cenere simile. Ho studiato in modo particolare la cenere dei sigari, anzi
ho scritto una monografia in proposito. Mi vanto di poter distinguere a prima vista la cenere di una qualsiasi
qualità nota di sigaro o di tabacco. Proprio in simili particolari, l’esperto investigatore differisce dai vari
Gregson e Lestrade.»
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998).
Il canone sherlockiano
La prima avventura di Sherlock Holmes, Uno studio in rosso, venne pubblicata sul Beeton's Christmas Annual
nel dicembre 1887. L’accoglienza del pubblico fu tiepida, tanto che Conan Doyle, deluso, sfogò la sua voglia
di scrivere in una serie di romanzi storici, coi quali sperava di conquistare la fama letteraria.
Il personaggio di Sherlock Holmes sarebbe forse stato abbandonato se, dalla direzione di un periodico
americano, il Lippincott's Magazine, non gli fosse giunta la richiesta di un’avventura inedita dell’investigatore.
Conan Doyle scrisse così The Sign of Four (Il segno dei quattro), in cui Sherlock Holmes indaga sulla
scomparsa di un certo capitano Morstan, avvenuta dieci anni prima in circostanze misteriose. Apparso sul
Lippincott's nel febbraio 1890, nello stesso anno il romanzo venne stampato in volume a Londra, con grande
successo. Conan Doyle, subissato di richieste, dovette pubblicare su uno dei più letti periodici dell’epoca, lo
Strand Magazine, una serie di dodici racconti che in seguito sarebbero stati raccolti in The Adventures of
Sherlock Holmes.
Complessivamente, il cosiddetto canone sherlockiano è costituito da Quattro romanzi e cinquantasei
racconti, pubblicati nell’arco di ben quarant’anni - quelli che separano A Study in Scarlet (1887) dal racconto
“The Adventure of Shoscombe Old Place” (1928).
Nell’episodio conclusivo dei Memoirs of Sherlock Holmes, intitolato significativamente “The Final
Problem”, Conan Doyle decise di liberarsi del protagonista, divenuto troppo ingombrante. «Oggi ho ucciso
Sherlock Holmes», scrisse compiaciuto nel suo diario, dopo aver regalato al suo personaggio una morte
sublime e misteriosa nell’orrido di Reichenbach in Svizzera. Ma la liberazione non doveva durare a lungo:
l’improvvida fine dell'eroe suscitò nel pubblico un’ondata di sdegno senza precedenti. Lettere di protesta e
d’insulti vennero indirizzate all’autore da Inghilterra, Francia e Stati Uniti; una di queste si apre addirittura con
l’apostrofe: «You, Beast!». Gli uomini d’affari si recarono alla City col lutto al cappello, molti lavoratori
scesero in sciopero e un parlamentare presentò un’interpellanza al governo.
L’autore, quindi, dovette far resuscitare Sherlock Holmes: dapprima in The Hound of the Baskervilles
(1901-2), presentato come memoria postuma, e poi in “The Adventure of the Empty House” (1903), ove
Watson
scopre
che
l’amico
ha
solo
“finto”
di
morire.
Si tratta d’un caso di feedback letterario legato proprio alla struttura della detective story, concepita da Poe e da
Conan Doyle come un modello narrativo aperto a innumerevoli ripetizioni. Così, agli attributi del detective si
aggiunge ben presto un’aura d’immortalità, che Doyle (soggetto alla paradossale anxiety of influence nei
confronti del personaggio) aveva cercato di soffocare nel celebre corpo a corpo fra Sherlock Holmes e il dottor
Moriarty sulle cascate di Reichenbach; ma, come s’è visto, il successo dell’eroe costringe l’autore a
riconoscerne la supremazia e a riportarlo in vita. Così facendo, Doyle sancisce il passaggio di Holmes alla
leggenda, attribuendogli una condizione mitica simile a quella di altri personaggi immortali come King Arthur
o Federico Barbarossa.
Il mito
Scriveva Alberto Tedeschi nella Premessa al secondo “Omnibus” mondadoriano dedicato a Sherlock
Holmes nel 1971:
Il fatto più clamoroso è che Sherlock Holmes è una leggenda divenuta realtà. Non è possibile non
credere alla sua esistenza: gli hanno dedicato “biografie” e film, hanno intitolato targhe alla sua
memoria; i cacciatori d’autografi continuano a scrivergli per chiedergli uno scritto “di suo pugno”;
i turisti che si recano a Londra corrono numerosi a cercare la famosa casa di Baker Street, e ancora
oggi, non senza imbarazzo, gli impiegati della posta di Sua Maestà Britannica si trovano a dover
smistare un imponente flusso di lettere da tutto il mondo, indirizzate, si badi bene, al “Signor
Sherlock Holmes”. Raramente al suo autore. Chi visita il museo sherlockiano di Lucens in Svizzera
può vederne a migliaia, vecchie di ottant’anni e più, ma anche recentissime. Lettere di ammiratori,
convintissimi della reale esistenza di Sherlock Holmes, che gli chiedono i più svariati consigli.
Molti gli espongono “casi” misteriosi che solo lui può risolvere; altri (numerosissimi) vogliono
sapere “come si diventa investigatori” e manifestano la volontà di seguire le orme del Maestro.
A tutt’oggi arrivano moltissime lettere all’indirizzo inesistente di 221B di Baker Street: a ognuna viene
risposto su carta intestata che, purtroppo, Mr Holmes si è ritirato a vita privata e non può più occuparsi di
alcuna questione. Ed è vivissima la disputa fra i “conan-doyliani ortodossi”, secondo i quali fu lo scrittore
Arthur Conan Doyle a creare i personaggi immaginari di Sherlock Holmes e John Watson, e i cosiddetti
“fondamentalisti sherlockiani” che, intrisi di fanatismo, sono convinti sia Conan Doyle il personaggio
immaginario, o piuttosto lo pseudonimo con cui il vero dottor Watson firmava i suoi scritti, che quindi
racconterebbero casi autentici, puntualmente ricostruiti e discussi da scrittori, scienziati e anonimi lettori da
ogni parte del mondo, impegnati a rintracciare i pezzi mancanti di un incredibile puzzle potenzialmente
infinito.
È una sorta di Grande Gioco, quello del fare-finta-che Sherlock Holmes sia realmente esistito, da cui
scaturiscono serissimi saggi sulla sua infanzia, sul suo orecchio musicale, sulla sua dipendenza dalla droga,
sulle sue indubbie origini americane, sull’arte di fumare la pipa.
L’immortalità di Holmes è dunque legata al carattere ciclico del racconto poliziesco, per cui il successo di
un certo personaggio induce l’autore a narrarne nuove avventure, riproponendo insieme ad esso la cornice in
cui si muove. Ma prima ancora che per la saga di Holmes, questo vale per la formula ideata da Edgar Allan Poe
per la trilogia Dupin, i cui tratti ricorrenti sono la coppia detective/narratore, il prefetto di polizia e
l’ambientazione parigina, mentre l’elemento innovativo di ogni racconto è l’enigma con cui l’investigatore si
confronta.
Fra le doti più riconosciute a Conan Doyle vi è proprio l’abilità nel tessere trame, anche se – come spesso
accade – nella seconda metà del canone sherlockiano la routine tende a prevalere. Interessante è la tendenza del
protagonista ad adattare il proprio profilo nel corso degli anni al mutato gusto del pubblico. Per esempio, di
avventura in avventura il bagaglio culturale di Holmes si amplia sempre più, per un processo di magnificazione
indotto dalla popolarità dell’eroe. In pochi anni, il detective dà prova non solo di aver letto Carlyle, ma di esser
risalito attraverso di lui al poeta Jean Paul; citerà Goethe, converserà di Miracle plays e ceramiche medievali,
di violini e del buddismo di Ceylon, leggerà Petrarca e compirà ricerche sulla musica medievale.
(per approfondimenti: Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998).
La saga di Sherlock Holmes
La studiosa Alessandra Calanchi ha raccolto sei casi sherlockiani, tratti da raccolte diverse, nel volume 221B
Baker Street edito da Marsilio: il suo intento è di offrire al lettore una certa varietà di contenuti e di stili che
possa decostruire il personaggio di Sherlock Holmes, spogliandolo dalle stratificazioni svianti che ha subito nel
corso del tempo, restituendogli un volto più composito, più simpatico e più accattivante. Ne risulta
un’immagine del grande detective sottratta a quegli stereotipi della “britannicità” con cui ha pagato l’enorme
successo popolare decretatogli dai mass media: uno Sherlock Holmes che si rivela non sempre infallibile e non
sempre vincente, colto e autoironico, naïf e impacciato con le donne.
Per proseguire il discorso su Sherlock Holmes, dunque, riporto un passo dell’Introduzione al volume
(Decostruire gli stereotipi di Alessandra Calanchi):
Primo fra gli stereotipi che intendiamo mettere in discussione, la “odiosa” infallibilità di Holmes. Come
vedremo, ne I cinque semi d’arancia, posto in apertura di questa antologia, il grande detective risolve il
caso senza però riuscire a salvare la vita al suo cliente, né a mettere le mani sui criminali;
simmetricamente, l’ultimo racconto qui presentato si concluderà con la piena ammissione, da parte di
Holmes, di essersi sbagliato troppo a lungo, di essere stato lento nel comprendere la verità. Per molto
tempo ha prevalso, nell’immaginario popolare, l’idea che Sherlock Holmes rappresentasse il prototipo
dell’investigatore arrogante, antipatico, che ha sempre ragione e che lo dimostra maltrattando Watson, la
polizia e perfino i lettori. Anche questo è falso: Conan Doyle ci presenta con puntigliosa coerenza un
personaggio fin troppo umano (al punto da cedere al vizio del fumo e della droga), generoso e
disponibile, semmai abile nei mascheramenti,ma sempre animato da nobili scopi.
Altro esempio di stereotipo: l’imprescindibile convivenza Holmes-Watson. Nei racconti che abbiamo
scelto, la celebre “spalla” di Holmes – che tradizionalmente condivide con lui l’altrettanto celebre
appartamento – in realtà è già sposato e si trova a Baker street solo per qualche giorno. Il che non toglie
assolutamente nulla all’intimità che esiste indubbiamente fra i due, un’intimità le cui sfumature
omoerotiche non hanno mancato di rappresentare un fecondo terreno di studio, ma che è sempre
rigorosamente sottomessa al rispetto reciproco e alla professionalità di entrambi i personaggi. Ognuno
nel suo settore – l’uno come detective, l’altro come medico – essi svolgono infatti le loro mansioni
senza che mai l’amicizia che li lega degeneri o si incrini; e quelle comiche o patetiche prese in giro di
Watson da parte di Holmes a cui certo cinema ci ha abituati sono del tutto assenti. Anche quando si
permette di fare della lieve ironia, secondo il costume anglosassone, Holmes è pieno di rispetto nei
confronti del compagno, e le sue battute di spirito – sempre affettuose – rientrano in quel tipico humour
che non desidera offendere ma semplicemente far sorridere con stile.
Per non parlare, infine dei veri e propri “falsi”: la frase «Elementare, Watson!» che non uscì mai dalla
penna di Conan Doyle; la mantellina e soprattutto il cappellino da caccia – il cosiddetto deerstalker –
che furono creati dall’illustratore (Sidney Paget, assunto per errore dall’editore al posto del più famoso
fratello Walter) e non dall’autore; o, ancora, la pipa calabash che non esisteva ai tempi in cui le storie
venivano scritte.
Molto interessante è anche l’apparato di note della Calanchi ai diversi racconti: ne riporterò qui alcune, che
puntualizzano la figura sherlockiana e ne integrano gli aspetti forse meno noti.
Il metodo Sherlockiano
Il metodo di Sherlock Holmes si basa su un processo logico che può essere superficialmente frainteso come
abilità intuitiva, capacità di indovinare, o mera deduzione (lo stesso Doyle intitolò il secondo capitolo di Uno
studio in rosso “La scienza della deduzione”). In realtà, come è stato spiegato da illustri studiosi e matematici,
si tratta piuttosto di “abduzione”, consistente nell’inferire da un’accurata osservazione un’ipotesi (laddove
“dedurre” significa inferire una tesi e “indurre” inferire una sintesi). Si rimanda in proposito a Il segno dei tre.
Holmes, Dupin, Peirce, a cura di U. Eco e T.A. Seboek (Milano, Bompiani 1983), che fra le altre cose, propone
un confronto di tipo metodologico fra il celebre detective e il filosofo americano C.S. Peirce, fondatore del
pragmatismo e della semiotica.
Holmes e la polizia
I rapporti che Holmes ha con la polizia sono di un tipo assolutamente originale. Holmes si fregia di essere
l’unico consulting detective, e la sua competenza è tanto straordinaria che perfino la polizia, che inizialmente è
insofferente ai suoi metodi e alla sua presenza sul luogo del delitto, giunge a volte a consultarlo. I vari ispettori
che troviamo nei racconti (almeno una decina, su cui campeggia Lestrade) si recano da Holmes quando non
sanno più che pesci pigliare, e allora Holmes, compiaciuto ma un po’ sulle sue, accetta generalmente di
occuparsi del caso e alla fine, con magnanimità estrema, dopo averlo risolto ne lascia il merito e gli onori alla
polizia. È dunque un rapporto di collaborazione impari, basato sul rispetto pur nella totale mancanza di stima
professionale da parte di Holmes. All’epoca le forze di polizia erano ben nutrite, e a Londra c’era il corpo più
preparato, la Metropolitan Police, detta scotland Yard dalla sede che occupava a Westminster (il luogo in cui
anticamente esisteva un palazzo dove i re scozzesi soggiornavano a Londra) prima dell’attentato irlandese del
1884 (la nuova sede sorse in Victoria Embankment).
Holmes e gli Irregulars
Sherlock Holmes, in questo e nei successivi racconti qui raccolti, agisce da solo. In altri romanzi e racconti del
Canone, invece, i migliori alleati di Holmes sono una banda di monelli da strada, reclutati dall’investigatore per
aiutarlo nelle indagini: sono i celebri Irregulars, gli Irregolari di Baker Street (che fra l’altro hanno dato il
nome a una delle più prestigiose associazioni holmesiane del mondo). Poverissimi, e costantemente a rischio di
venire risucchiati nel giro della criminalità, essi vengono ricompensati da Holmes con uno scellino al giorno,
più le spese, più un premio speciale di una ghinea per chi trova l’obiettivo della ricerca. Li incontriamo, per
fare un paio di esempi, in Uno studio in rosso e ne Il segno dei quattro.
(per approfondimenti:
Arthur Conan Doyle, 221B Baker street – Sei ritratti di Sherlock Holmes, a cura di Alessandra Calanchi, con
testo originale a fronte, Marsilio Editori 2001;
http://www.uniurb.it/lingue/docenti/calanchi/;
www.unostudioinholmes.org)
La Londra holmesiana
La Londra holmesiana è stata giustamente definita da Carlo Fruttero e Franco Lucentini «un’emanazione del
personaggio». Come essi hanno infatti osservato, nonostante l’investigatore si sposti in più occasioni in altre
zone (basti pensare agli ultimi due racconti della nostra raccolta), «il paesaggio di Londra prevale, è quello che
associamo automaticamente al nome di Sherlock Holmes. Nebbie, carrozze, lampioni a gas, lunghe cancellate,
vicoli oscuri […] Si può dire che la Londra di fine-secolo esista, nella geografia letteraria, per merito di S.H.»
(Indagine preliminare in forma di dialogo, in A. Conan Doyle, Il cane dei Baskerville, Milano, Rizzoli 1982).
L’appartamento di Holmes
Gli studiosi discutono ancora sull’esatta ubicazione dell’appartamento, al fine di ricrearne una planimetria
corretta. In generale si può ipotizzare ceh l’appartamento fosse situato al primo piano di una palazzina, che
fosse composto di due confortevoli camere da letto e di un ampio salotto, a cui dobbiamo aggiungere un
ripostiglio e, forse, una stanza da bagno. Sull’argomento si rimanda al capitolo The Home of Holmes in My
Dear Holmes: Studies in Sherlock (Gavin Brend, 1951) e al più recente studio di E.S. Smith Jr., The Floor
Plans of Baker Street (© dell’autore, ottobre 1996).
Holmes e Watson
Il rapporto fra Holmes e Watson non è mai né di sudditanza, né di soci d’affari, ma è improntato fin dall’inizio
sul rispetto reciproco e su una progressiva amicizia. Questa male friendship, la tipica amicizia maschile
britannica che è al centro ditanta letteratura dell’Ottocento, affonda le sue radici nel concetto vittoriano di
“mascolinità”, un concetto oggi dibattuto e oggetto di reinterpretazione soprattutto a opera dei gender studies.
Come ha scritto G.P. Caprettini, Watson rappresenta per Holmes lo «spazio trasparente e fidato di una
complementarietà» laddove la donna è un fattore di turbamento e squilibrio (Le orme del pensiero, ne Il segno
dei tre, cit., pp. 159-81). Siamo in un contesto fortemente maschile, sia dentro il testo sia fuori dal testo (anche
la readership dei racconti è prevalentemente maschile), e senza arrivare ad accuse di misoginia e ad allusioni di
omosessualità è innegabile che il tipo di rapporto che lega i due personaggi è proprio quella particolarissima
British male relationship vittoriana che, pur escludendo ogni interferenza di tipo sessuale, si coniuga
facilmente con un sentimento omoerotico latente. […] Fra le molteplici interpretazioni dell’amicizia fra
Holmes e Watson, una delle più originali è indubbiamente quella dello scrittore e saggista inglese George
Orwell, il quale, come ricordano Fruttero e Lucentini, sostiene che «Il rapporto Holmes-Watson […] è lo stesso
rapporto di Don Chisciotte con Sancio Panza. L’anima e il corpo. L’ideale e la realtà. L’ingenua generosità e il
buon senso materialista». Ma, attenzione, avvertono i due: Orwell vede non Sherlock Holmes «come paladino,
come continuatore della cavalleria», bensì Watson, poiché «Conan Doyle, con l’aiuto delle illustrazioni di
Paget, ha invertito le carte, dando a Holmes i tratti affilati, nobili, del cavaliere della Mancia, e a Watson un
aspetto borghese e terra terra. In realtà, è sempre il buon dottore a trasfigurare catinelle e mulini a vento, a
immaginare il mondo più vario, ricco, stupefacente, fantastico di quanto non sia. Mentre Holmes ha il compito,
ogni volta, di disilluderlo, di sgonfiargli le bolle di sapone, di smontare anche il mistero più affascinante,
riducendolo alle solite tre o quattro prosaiche componenti, vendetta, odio, amore, cupidigia, un cugino arrivato
dall’estero con barba finta…» (Indagine preliminare in forma di dialogo, cit., pp. 9,10). Fruttero e Lucentini
alludono qui a un saggio del 1941, L’arte di Donald McGill, in cui Orwell parla della coppia Don ChisciotteSancio Panza come di una forma dell’antico dualismo fra anima e corpo, e sottolinea appunto come le
caratteristiche fisiche dei due personaggi siano invertite. Orwell, del resto, nomina molto di frequente Sherlock
Holmes nei suoi saggi critici.
Le armi
Holmes maneggia solo eccezionalmente delle armi, prediligendo l’uso delle nude mani per difendersi dai suoi
aggressori. Watson, invece, possiede una vecchia pistola d’ordinanza che si rivela molto utile in casi come
questo. Il fucile ad aria compressa citato in questo capitolo e anticipato nel racconto precedente, infine, non è
certo un giocattolo da fiera ma un’arma micidiale, silenziosa e precisa, con cui Holmes si imbatte più volte nel
Canone.
Il violino
Sherlock Holmes si concede struggenti assoli di violino nelle pause che gli concede la sua attività,a puro scopo
ricreativo, oppure dopo aver risolto un caso, o ancora nei momenti in cui è alla ricerca di un certo grado di
concentrazione. Stando ai vari racconti in cui è menzionato questo strumento, che riposa in un angolo del
salotto, Holmes sembra prediligere orari antelucani e suonarlo in modo eccentrico. Si tratterebbe nientemeno
che di unno stradivario, acquistato con un colpo di fortuna da un robivecchi per soli 55 scellini (La scatola di
cartone, 1893).
La biblioteca
Holmes possiede molti volumi di consultazione , indici e archivi in cui conserva non solo i resoconti dei casi da
lui affrontati, ma anche notizie riguardanti personalità illustri e famosi criminali. Possiede inoltre un album
dove incolla ritagli di giornale inerenti annunci personali, persone scomparse, casi non suoi e così via, e infine
un’Enciclopedia Araldica, pile di giornali vecchi, un dizionario geografico, almanacchi, orari ferroviari, volumi
di botanica e l’Enciclopedia Americana. Holmes legge numerosi giornali, che gli vengono recapitati a casa e
sono ben visibili la mattina, come abbiamo visto, sul tavolo della colazione (il “Times”, il “Daily Chronicle”,
lo “Standard”, l’ “Echo”, il il “Daily Telegraph” e il “Daily News”).
La pipa e oltre
Mentre Watson fuma il sigaro, Holmes, come abbiamo già visto, predilige la pipa, pur non disdegnando le
sigarette o, come in questo caso, un buon sigaro. Anche se probabilmente non fumò mai la celebre “Calabash”,
la pipa di zucca dalla forma caratteristica che comunemente gli si accosta. Ne possiede di diversi tipi. La sua
preferita è però una pipa di gesso o di creta nera che lo accompagna nelle più profonde meditazioni, e che di
solito riposa sulla mensola del caminetto. Il tabacco viene invece conservato in una babbuccia persiana. Fra le
bizzarre abitudini di Holmes vi è quella di caricare la pipa al mattino con gli avanzi del giorno precedente.
Mentre il fumo serve a Holmes per migliorare la concentrazione quando riflette sui casi, ben diversa è la
cocaina, che egli si inietta per via sottocutanea (e non endovenosa) in soluzione al 7% nei momenti di
inattività, ovvero nelle pause di ristagno fra un caso e l’altro. È necessario tenere presente che all’epoca la
cocaina (un alcaloide isolato da Albert Niemann nel 1860) non era illegale, anzi fino al 1884 fu considerata un
farmaco efficace e fu usata e prescritta dallo stesso Freud. Fu solo alla fine degli anni ’80 che giunsero i primi
segnali d’allarme, e dunque è solo negli anni ’90 che Watson cerca di convincere Holmes a disintossicarsi. Un
romanzo che si è ispirato all’assunzione di cocaina da parte di Holmes è La soluzione sette per cento di
Nicholas Meyer (1974), da cui fu tratto il film omonimo (Herbert Ross, 1976), dove Holmes, nei tre anni in cui
è creduto morto, si trova in realtà a Vienna, affidato alle rivoluzionarie cure del giovane dottor Freud, allo
scopo di disintossicarsi.
L’anoressia
Gli studiosi hanno sottolineato la tendenza anoressica di Holmes, il quale non solo è contraddistinto da
un’evidente magrezza, ma generalmente non si abbandona a banchetti pantagruelici. Nel primo racconto qui
preso in esame egli si nutre voracemente di pane e acqua, e nei successivi vi sono solo rapidi accenni a
spuntini. Nella sala da pranzo dell’hotel si discute anziché mangiare, e qui c’è tempo solo per un boccone. Nel
prossimo racconto qui raccolto Holmes, dopo un digiuno di tre giorni, si concederà un bicchiere di vino e
qualche biscotto, e il ristorante Simpson’s – sebbene nominato – resterà fuori campo. Anche negli altri racconti
del Canone, durante le indagini Holmes non è mai nemmeno sfiorato dal desiderio del cibo, e le immagini più
frequenti dei suoi pasti restano comunque legate a un’idea di frugalità: certo per mettere in risalto il distacco tra
la sfera del puro intelletto e quella delle emozioni, a cui appartiene di fatto il gusto della buona tavola. Della
questione si è occupato E.F. Walbridge (The Care and Feeding of Sherlock Holmes), che sottolinea come
Holmes rinunci completamente al cibo durante le indagini, e come la prima colazione (breakfast) sia il pasto
principale dell’investigatore, il quale odia le verdure e ha invece un debole per le ostriche. Walbridge cita da
Uno scandalo in Boemia il seguente scambio di battute, particolarmente rivelatore, fra Mrs Hudson e Holmes.
Domanda: «A che ora desidera cenare, signor Holmes?» Risposta: «Alle sette e mezza, dopodomani».
Il professor Moriarty
Moriarty: l’essere malvagio per eccellenza, l’erede più puro del vilain, il nemico numero uno di Holmes e
dell’umanità intera. Se altrove le peripezie sono causate da un potere maligno situato oltre oceano, o, come
vedremo oltre, da una misteriosa creatura acquatica o dalla gelosia, ne Il problema finale coinvolgono la
sinistra organizzazione che si annida nel cuore di Londra e i cui fili sono retti dal professor Moriarty, lugubre
fin dal cognome. Si tratta di un personaggio che, pur incontrando la morte nell’ambito di questo stesso
racconto, ritroveremo successivamente (e che in romanzi e adattamenti cinematografici posteriori vestirà via
via nuovi panni, compresi quelli di spia nazista, a seconda delle epoche): una mente logica e demoniaca a capo
di un’organizzazione incredibilmente estesa e ramificata (o forse non così incredibile, considerando per
esempio che la mafia, un’organizzazione simile, nasceva in Italia proprio nell’Ottocento, e che la massoneria
era già attiva in Gran Bretagna sin dalla seconda metà del XVII secolo) e il cui ritratto, delineato con parole
sempre in bilico fra sommo orrore e intensa ammirazione, non manca di comunicare – perlomeno allo
smaliziato lettore del terzo millennio – un’abbondante dose di ingenuità. Ma soprattutto si delinea, a partire
dall’inserimento di questa figura nel tessuto dei racconti, il celebre triangolo Holmes-Watson-Moriarty, ovvero
lo schema prediletto da Watson-Doyle: un triangolo maschile, epurato da ogni interferenza sentimentale o
ideologica, che vede la sua ragione d’essere nel reciproco scambio di valori di segno uguale e opposto (il
rispetto, l’amicizia, la ricerca della verità; ma anche la vanità, il conflitto, l’odio) e trova fra le pareti
domestiche l’arena più congeniale di incontro/scontro – la poltrona, la scrivania, la porta, la soglia, la lampada,
la finestra – fissando un’iconografia simbolica che confluirà in un vero e proprio repertorio mitologico del
genere poliziesco. In questo contesto, come vedremo, si possono scorgere allusioni discrete a questioni quali il
desiderio omoerotico o la paura dell’impotenza sessuale (la sorpresa di Holmes nel constatare che lui e Watson
sono soli, la mano sulla rivoltella, Holmes che si arrampica sulla guglia rocciosa, la scena sulla cascata
ribollente, l’abbraccio finale), pur con le dovute concessioni al pittoresco (il transito in Svizzera) e al sublime
(la scena presso le cascate).
Il fratello
Un altro personaggio con cui facciamo conoscenza ne Il problema finale – anche se qui è appena abbozzato,
mentre nelle storie successive rivelerà progressivamente una propria complessa identità – è il fratello di
Holmes, Mycroft, che altrove viene da lui coinvolto (segretamente) nelle indagini non solo per i suoi legami
con le alte sfere dello Stato, ma in quanto possiede una mente se possibile ancor più sottile di quella dello
stesso Sherlock, pur prediligendo in realtà una vita molto più tranquilla (è affiliato al Diogenes Club, il cui
regolamento impone l’ozio). Qui Mycroft è presente per assolvere a due funzioni: prestare temporaneamente
l’abitazione a Holmes per motivi strategici (e vediamo che realmente questi correva dei rischi a Baker Street) e
guidare – naturalmente travestito – la carrozza che conduce Watson alla stazione.
Il travestimento
Il problema finale introduce una delle caratteristiche precipue di Holmes, ovvero il suo gusto per il
travestimento e la recitazione di una parte. Se qui il ruolo del vetturino è ricoperto dal fratello per motivi di
sicurezza, il vetusto prete italiano è interpretato da Sherlock per sviare il nemico. Si tratta solo di una rapida
particina nella lunga teoria di maschere che l’investigatore indosserà nel corso della sua lunga carriera, non
solo per far perdere le tracce ai suoi inseguitori, ma anche – è pur vero – per stupire Watson e divertire i lettori.
Il travestimento è sì una strategia, ma assume connotazioni ludiche e non solo rituali nel contesto di queste
storie. Per non parlare delle ovvie allusioni a un velato desiderio di trasgressione delle norme e delle
convenzioni (del resto, anche Dorian Gray nel celebre romanzo di Oscar Wilde si serve del travestimento per
recarsi nell’East Side senza essere riconosciuto, rivelando più ovvie dinamiche omoerotiche), sebbene questo
tipo di travestimento non coinvolga quasi mai direttamente il genere sessuale.
La ricomparsa del nemico in La casa vuota
La ricomparsa del nemico è certo un elemento degno di nota. Una volta sparito il pericolo numero uno, il
malefico Moriarty, e nell’impossibilità di far resuscitare anche lui (ché la faccenda sarebbe stata troppo
sporca), Conan Doyle ricicla la figura nel personaggio malvagio nell’ “amico del cuore” di Moriarty. Due
osservazioni. La prima: si viene a delineare una seconda coppia (seconda rispetto a quella di primo piano,
Holmes-Watson) che richiede una reinterpretazione di quel “triangolo” a cui si era precedentemente accennato.
Dunque anche Moriarty, come Holmes, aveva un socio, un compagno, un collaboratore, un bosom friend.
Seconda osservazione: Conan Doyle è costretto a inventare un nuovo nemico (nuovo, ma non troppo,
altrimenti si perderebbe la continuità della saga) perché se il pubblico reclama Holmes, questi non esiste senza
un nemico contro cui battersi. Dunque Doyle deve compiere una doppia azione di ripescaggio per rendere il
meccanismo verosimile, convincente e apprezzabile dalla readership. Holmes è come l’eroe virtuale di un
video-game ante litteram: perché il gioco funzioni ci deve essere prima di tutto un avversario, e poi azione,
ritmo e colpi di scena. Holmes, è bene ricordarlo, langue letteralmente quando è privato dell’azione: resta
disteso giorni e giorni sul divano, suona note strazianti sul suo violino, e ricade regolarmente nel vizio
periodico della cocaina.
(per approfondimenti: Arthur Conan Doyle, 221B Baker street – Sei ritratti di Sherlock Holmes, a cura di
Alessandra Calanchi, con testo originale a fronte, Marsilio Editori 2001)
http://en.wikipedia.org/wiki/Alphonse_Bertillon
http://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Lombroso
http://www.ottolenghi.org/salvatore.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Francis_Galton
http://it.wikipedia.org/wiki/Panopticon)
Identità criminali
Con questa puntata andiamo a concludere la nostra panoramica sulla nascita e lo sviluppo della narrativa
poliziesca. Riepilogando, vediamo che negli ottant’anni che corrono tra il 1830 (quando uscirono i Mémoirs di
Vidocq) e il 1910 la criminologia sviluppa tecniche di lettura del corpo sempre più sofisticate. Queste tecniche
sono orientate in due direzioni: quella scientifico-statistica, che tende a descrivere il fenomeno che si cela
dietro i singoli casi di devianza; e quella poliziesca in senso stretto, volta a elaborare tecniche di
riconoscimento tali da riuscire a imprigionare il criminale nella gabbia della propria identità. Nel primo filone
d’indagine, che ricerca nei tratti fisici i segni di un’innata inclinazione a delinquere, rientrano il miraggio
fisiognomico di matrice settecentesca (che chiama il volto in primo piano), la frenologia (fondata sullo studio
del cranio), e la nota avventura fin de siécle di Cesare Lombroso, padre della fisiognomica e fondatore
dell’antropologia criminale: secondo la sua controversa teoria, esisteva un preciso rapporto fra l’aspetto fisico
delle persone e la loro inclinazione al comportamento criminale.
Ma a questo tentativo di leggere nel corpo le componenti del carattere, secondo una concezione
determinista, si va ad affiancare l’esigenza di “censire” la popolazione criminale. Il marchio, lo strumento che
nei secoli precedenti consentiva l’identificazione dei recidivi – quale il giglio impresso sulla spalla di Milady
ne I tre moschettieri, che consente a D’Artagnan di riconoscere in lei un’avvelenatrice – viene abolito in
Francia nel 1832; e proprio in quegli anni, il pioniere Vidocq crea uno schedario di tutti gli arrestati. Di lì a
poco, è l’invenzione della fotografia che contribuisce a palesare l’identità criminale; ma i maggiori progressi si
verificano verso la fine del secolo.
È nel 1882 che il funzionario di polizia e antropologo Alphonse Bertillon (1853-1914) fonda il servizio di
antropometria della polizia parigina, le cui schede segnaletiche si compongono di undici misure ossee (le
dimensioni della testa, dell’orecchio, del dito medio, del piede sinistro, etc.), di una breve descrizione scritta
dell’individuo, e di due fotografie (una frontale e una di profilo). Lo stesso Bertillon, tuttavia, riconosce che la
scheda non identifica il soggetto con certezza assoluta: il metodo, dunque, consente in molti casi di escludere –
ma non di provare – che a una persona corrisponda una certa identità, ed è inoltre soggetto a un largo arbitrio
nelle misurazioni e nelle descrizioni scritte (il cosiddetto “ritratto parlato”) che corredano la scheda.
In Italia, su impulso dell’allora ministro dell’Interno Giovanni Giolitti, nasce nel 1902 la Scuola di Polizia
Scientifica, creata dal professor Salvatore Ottolenghi, assistente di Cesare Lombroso all’università di Torino. Il
primo corso ufficiale si svolse nel carcere di Regina Coeli, dove si avevano a disposizione numerosi detenuti
con cui illustrare le metodologie scientifiche per l’identificazione personale. L’approccio di Ottolenghi andava
a contrapporsi alla tipica immagine letteraria del “genio deduttivo” alla Sherlock Holmes: le procedure
scientifiche, ricavate da un lungo lavoro di esperimenti e osservazioni sistematiche, erano controllabili e
ripetibili da chiunque le avesse apprese.
Ad ogni modo, nel 1903 il sistema di Bertillon viene finalmente sostituito dalla dattiloscopia: l’esame
delle impronte digitali, sistema già codificato e adottato in Gran Bretagna nel 1901 dall’antropologo Francis
Galton. Si arriva così alla metodologia d’identificazione moderna, fondata su nome, fotografia e impronte
digitali.
Il criminale assente
Concepito essenzialmente come altro, il criminale del romanzo poliziesco costituisce in generale un’assenza,
poiché tra le convenzioni del poliziesco vi è il “vuoto testuale” che circonda e protegge i processi mentali del
colpevole – un elemento da molti assunto a spartiacque tra detective fiction e crime fiction. Nella prima,
l’indagine impone che i processi mentali del criminale non vengano svelati fino allo scioglimento finale,
mentre nella seconda il racconto del crimine può esplorare “in chiaro” l’intera sua dinamica.
Nella detective fiction, dunque, se non c’è la “mente”, resta il “corpo” del criminale, un enigma di cui
spesso si può cogliere qualche attributo – come un capo di vestiario, un’impronta di scarpa, la statura, il
colorito, una marca di tabacco – e che si presenta come una superficie da attraversare per giungere
all’interiorità, che è la sede della colpa, sottratta dall’esigenza narrativa al voyeurismo del lettore.
Nel caso del detective, più ancora che il corpo – che a seconda dei casi può diventare una divisa
iconografica (si vedano gli attributi estetici di investigatori quali Sherlock Holmes e Padre Brown) oppure un
materiale posticcio (si pensi al trasformismo di Vidocq e Holmes) – è centrale la sua mente. Il racconto
poliziesco, infatti, è caratterizzato da una forte componente riflessiva, che si manifesta tipicamente nelle lunghe
digressioni sulla forma mentale e sul metodo dell’investigatore. A differenza del successivo genere hardboiled
– ove l’azione ha un ruolo primario –, «il “giallo classico” è dominato dall’avventura del pensiero»*, e quindi
si svolge, più che su uno sfondo reale, in uno scenario mentale.
La realtà non basta a Dupin, l’eroe della trilogia di Poe, il quale nell’esaminare un caso criminale spegne
la candela per meglio vedere, e in pieno giorno rifugge la luce del sole, che mostra tutto ma non rivela nulla.
Né la realtà basta a Holmes, il quale, destatosi dai suoi «drug-created-dreams», è in breve «hot upon the scent
of some new problem», come si addice alla «most perfect reasoning and observing machine that the world has
seen».
D’altronde, allo svago di una vacanza Holmes preferisce evidentemente giacere in mezzo a cinque milioni
di persone (la popolazione di Londra del tempo), col sistema nervoso attento a percepire la più piccola voce o
sospetto di un crimine: un’immagine iperbolica (visibilmente influenzata dall’immaginario telegrafico di fine
Ottocento) che qualifica il detective come il luogo cerebrale di un immenso sistema nervoso, esteso a toccare i
cinque milioni di persone che costituiscono il corpo di Londra. Assolvendo questa sua funzione di controllore,
Holmes consente così il buon funzionamento del sistema, e ai suoi occhi la capitale – fulcro della nazione e
dell’impero – assume la trasparenza di un Panopticon, ove il detective – moderno semidio – veglia benevolo
sul comune cittadino.
(per approfondimenti:
G. Paolo Caprettini, “Le orme del pensiero”, in Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, a cura di U. Eco e T.A.
Sebeok, Bompiani, Milano 1983;
Maurizio Ascari, La leggibilità del male, Pàtron, Bologna 1998.
S.S. Van Dine e le 20 regole
Come scrisse il compianto Oreste Del Buono*, Philo Vance, il grande investigatore dilettante degli anni ’30
(definito da Raymond Chandler «Forse il personaggio più pomposo e balordo dell’intera letteratura
poliziesca») creato da S. S. Van Dine, è «l’erede e l’eversore dello Sherlock Holmes di Conan Doyle», nel
solco del «cosiddetto romanzo d’analisi, del poliziesco all’inglese, quello della riflessione per la riflessione».
È non solo erede, ma anche eversore: infatti,
pur discendendo (e chiaramente) da Holmes, Vance rifiuta la specializzazione: è troppo dotato di
cognizioni universali. Al dettaglio arriva di volta in volta, come degnandosi di accettare un limite
provvisorio, un passatempo per la sua cultura degna di ben altro. In pratica, insomma, innovando,
torna indietro, è umanista quanto Holmes è scientifico sebbene sia capace di distinguersi anche nel
campo scientifico, perpetuamente dilettante, quindi disposto, teso a ricavar diletto dai più vari
problemi.
In questo, Philo Vance confessa d’essere, lui così improbabile, così inconcepibile come uomo in
carne ed ossa, un riflesso abbastanza conseguente della personalità del suo creatore. Che non si
chiamò affatto S. S. Van Dine, secondo la menzognera indicazioned ei frontespizi. Dopo tre anni di
mistero (The Benson Murder Case è del 1926) fu scoperto, appunto, che dietro un simile
pseudonimo si celava William Huntington Wright (1888-1939), letterato, antropologo, cultore
d’arte di consistente allora rinomanza. […]
Fu Wright a raccontare in che modo fosse stato indotto a creare Philo Vance. Aveva subito un
grave collasso nervoso, il suo medico di fiducia gli aveva proibito qualsiasi fatica intellettuale
durante la convalescenza, a eccezione (non la considerava evidentemente una fatica) del leggere e
dello scrivere gialli. Wright aveva preferito scriverne. Del resto, la sua insaziabile voracità di
sapere gli aveva fatto collezionare una agguerritissima biblioteca di criminologia e lo aveva reso
esperto anche in tale ramo. Il delitto era il suo hobby, ma un hobby su cui avrebbe potuto tener
lezioni. E le tenne, infatti, con gli intervistatori, con i curiosi eccitati dalla scoperta della vera
identità del creatore di Philo Vance. […] Wright non si accontentò di dissertare sul delitto vero,
dissertò anche sul delitto inventato, ovvero romanzo poliziesco. Ne dettò addirittura le regole.
(Oreste Del Buono, Il ritorno di Philo Vance, introduzione al volume della collana Omnibus Gialli,
V° edizione Mondadori 1971.)
E così, le “Twenty Rules for Writing Detective Stories”, ossia le Venti Regole di S. S. Van Dine, divennero
famose. Restano il segno di un’epoca, di una lunga epoca che oggi è certamente superata, ma che costituisce il
terreno fondante di un genere letterario importantissimo e pervasivo.
Eccole in dettaglio.
Venti regole per scrivere romanzi polizieschi di S.S.Van Dine (1928)
Il romanzo poliziesco è un tipo di gioco intellettuale. Anzi, è qualcosa di più – una gara sportiva. Ed esistono
leggi ben precise che governano la scrittura di romanzi polizieschi: leggi non scritte, forse, ma ugualmente
vincolanti, con le quali si deve misurare ogni rispettabile inventore di misteri letterari che sia anche onesto con
se stesso. Ecco di seguito, quindi, una sorta di Credo, basato in parte sull’esperienza di tutti i grandi autori di
romanzi polizieschi e in parte sulle sollecitazioni della coscienza dell’autore onesto.
Vale a dire:
1. Il lettore deve avere le stesse opportunità del detective di risolvere il mistero. Tutti gli indizi devono essere
presentati e descritti con chiarezza.
2. Al lettore non possono essere rifilati altri trucchi o inganni oltre a quelli coi quali il criminale tenta
legittimamente di buggerare il detective.
3. Non dev’essere posta eccessiva enfasi sull’elemento amoroso. Lo scopo è quello di assicurare un criminale
alla giustizia, non quello di condurre una coppia innamorata all’altare.
4. Né il detective né uno degli investigatori ufficiali possono risultare colpevoli. Questo vuol dire giocare
sporco; è come offrire a qualcuno una moneta da un centesimo in cambio di cinque dollari d’oro. È frode bella
e buona.
5. Al colpevole si deve arrivare attraverso deduzioni basate sulla logica, non per caso o coincidenza o
confessione senza motivo. Risolvere un problema di detection in questo modo equivale a spedire
deliberatamente il lettore su di una falsa pista e poi dirgli, dopo che è tornato con le pive nel sacco, che la cosa
che lo avevate mandato a cercare ce l'avevate nascosta voi nella manica fin dall’inizio. Un autore di questa
fatta è poco più di un buffone.
6. Nel romanzo poliziesco ci dev’essere un investigatore; e un investigatore non può dirsi tale se non indaga.
La sua funzione è quella di raccogliere gli indizi che, in fondo al libro, condurranno all’identità di colui che ha
commesso il crimine di cui al primo capitolo; e se l'investigatore non arriva alle sue conclusioni grazie
all’analisi di questi indizi, non ha risolto il suo problema alla stessa stregua dello scolaro che copia il compito
di aritmetica.
7. Ci dev’essere un cadavere nel romanzo poliziesco, e più è cadavere meglio è. Nessun reato minore
dell’assassinio può essere considerato sufficiente. Trecento pagine sono troppe per un reato diverso
dall’assassinio. Dopo tutto, la fatica e lo sforzo del lettore devono essere ricompensati.
8. Il problema posto dal delitto dev’essere risolto con metodi rigorosamente scientifici. Metodi di scoperta
della verità che si basano su lavagnette e tavolette parlanti, lettura del pensiero, sedute spiritiche, sfere di
cristallo e simili, sono assolutamente vietati. Un lettore può competere con un detective raziocinante, ma se
deve gareggiare col mondo degli spiriti e rincorrere la quarta dimensione della metafisica, allora è battuto in
partenza.
9. Ci dev’essere un solo investigatore autorizzato a trarre le conclusioni, un solo deus ex machina. Impiegare i
cervelli di tre o quattro o un’intera banda di investigatori per trovare la soluzione al problema, non solo
disperde l’interesse e spezza il filo della logica, ma dà all’autore un vantaggio scorretto sul lettore. Se c’è più di
un investigatore, allora il lettore non è più in grado di distinguere chi è il suo avversario. Gli tocca correre da
solo contro una staffetta.
10. Il colpevole dev’essere una persona che ha avuto un ruolo più o meno significativo nella vicenda; ovvero,
una persona che è divenuta familiare al lettore e per la quale egli ha provato interesse.
11. Il colpevole non dev’essere scelto tra il personale di servizio. È assolutamente una questione di principio. È
una soluzione troppo semplicistica. Il colpevole deve essere una persona che ha giocato un ruolo significativo,
una persona di cui non si dovrebbe sospettare.
12. Ci dev’essere un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. È ovvio che il colpevole può essersi
servito di complici o aiutanti, ma la colpa e l’indignazione del lettore devono cadere su una sola e unica anima
nera.
13. Società segrete, camorra, mafia e così via non hanno spazio in un romanzo poliziesco. Un assassinio
affascinante e ben riuscito è guastato senza remissione da una colpevolezza all’ingrosso. È certo che anche
all’assassino debba essere offerta una scappatoia, ma concedergli addirittura una società segreta con cui
spartire le colpe è un po’ troppo. Nessun assassino di classe e consapevole dei propri mezzi accetterebbe di
giocare contro queste probabilità.
14. I metodi impiegati nell’assassinio, e i sistemi usati per scoprirlo, devono essere razionali e scientifici. Vale
a dire, la pseudo-scienza e i congegni di pura e semplice immaginazione non possono esser tollerati in un
romanzo poliziesco. Una volta che l’autore è partito verso il regno della fantasia, alla maniera di Jules Verne, si
è posto definitivamente fuori dai confini della narrativa poliziesca e si è messo a far capriole in una zona
dell’avventura che non è segnata sulle carte geografiche.
15. La rivelazione del problema dev’essere sempre evidente, ammesso che il lettore sia abbastanza sveglio da
individuarla. Con questo intendo che se il lettore, appresa la spiegazione del crimine, decide di rileggersi il
libro da capo, deve accorgersi che, in un certo senso, la soluzione giusta era sempre stata lì, a portata di mano,
che tutti gli indizi portavano al colpevole e che, se solo fosse stato astuto come l’investigatore, anche lui
avrebbe potuto risolvere il mistero prima dell’ultimo capitolo. Va da sé che il lettore intelligente risolve spesso
l’enigma in questo modo.
16. Un romanzo poliziesco non dovrebbe contenere descrizioni troppo lunghe, divagazioni letterarie su
argomenti secondari, studi di caratteri troppo insistiti, preoccupazioni di creare un'atmosfera: questi elementi
non hanno spazio in quello che sostanzialmente è il resoconto di un crimine e di una deduzione. Tali passaggi
bloccano l’azione e introducono argomenti di scarso rilievo per l’obiettivo finale, che è quello di esporre un
problema, analizzarlo e condurlo a una conclusione soddisfacente. È chiaro, comunque, che ci debba essere
sufficiente materia descrittiva e studio di carattere per dar verosimiglianza al romanzo.
17. Il colpevole di un romanzo poliziesco non deve mai essere un criminale di professione. Scassinatori e
banditi appartengono alla pratica quotidiana dei dipartimenti di polizia, non degli autori e dei loro brillanti
investigatori dilettanti. Un crimine davvero affascinante è quello commesso da un vero baciapile, o da una
zitella dedita ad attività benefiche.
18. Un crimine, in un romanzo giallo, non può mai essere derubricato in incidente o suicidio. Far finire
un’autentica odissea di detection in questo modo così banale significa voler infinocchiare a tutti i costi il
fiducioso e gentile lettore.
19. I moventi dei crimini nei romanzi polizieschi devono essere esclusivamente personali. Complotti
internazionali e azioni di guerra fanno parte di un’altra categoria di romanzi, quelli di spionaggio, ad
esempio. Ma un romanzo giallo deve mantenere un carattere intimo, per così dire. Deve riflettere le esperienze
quotidiane del lettore, e offrire uno sfogo ai suoi desideri ed emozioni represse.
20. E, per dare al mio Credo un numero pari di regole, ecco una serie di stratagemmi che nessuno scrittore di
gialli degno di questo nome potrà più permettersi di adoperare. Sono già stati troppo sfruttati, e sono molto
familiari a tutti i cultori dei crimini di carta. Avvalersene equivale a confessare la propria incapacità e
mancanza di originalità.
a) Scoprire l’identità del colpevole mettendo a confronto la cicca di sigaretta trovata sulla scena del crimine
con la marca fumata da un sospetto.
b) La seduta spiritica fasulla che terrorizza il colpevole e lo spinge a confessare.
c) Impronte digitali falsificate.
d) L’alibi costruito mediante un fantoccio.
e) Il cane che non abbaia e quindi rivela che l’intruso gli è familiare.
f) L’attribuzione del crimine a un gemello, a un parente troppo somigliante al presunto colpevole.
g) La siringa ipodermica e il sonnifero.
h) L’assassinio commesso in una stanza chiusa, ma dopo che la polizia vi ha fatto irruzione.
i) Il test delle associazioni di parole che indicano il colpevole.
j) Il codice cifrato la cui soluzione viene alla fine trovata dall’investigatore.
Ed ecco il testo originale:
Twenty Rules for Writing Detective Stories
(1928)
by S.S. Van Dine
The detective story is a kind of intellectual game. It is more--it is
a sporting event. And for the writing of detective stories there are
very definite laws--unwritten, perhaps, but none the less binding; and
every respectable and self-respecting concocter of literary mysteries
lives up to them. Herewith, then, is a sort of Credo, based partly on
the practice of all the great writers of detective stories, and partly
on the promptings of the honest author's inner conscience.
1.The reader must have equal opportunity with the detective for
solving the mystery. All clues must be plainly stated and described.
2. No willful tricks or deceptions may be placed on the reader other
than those played legitimately by the criminal on the detective
himself.
3. There must be no love interest. The business in hand is to bring a
criminal to the bar of justice, not to bring a lovelorn couple to the
hymeneal altar.
4. The detective himself, or one of the official investigators, should
never turn out to be the culprit. This is bald trickery, on a par with
offering some one a bright penny for a five-dollar gold piece. It's
false pretenses.
5. The culprit must be determined by logical deductions--not by
accident or coincidence or unmotivated confession. To solve a criminal
problem in this latter fashion is like sending the reader on a
deliberate wild-goose chase, and then telling him, after he has
failed, that you had the object of his search up your sleeve all the
time. Such an author is no better than a practical joker.
6. The detective novel must have a detective in it; and a detective is
not a detective unless he detects. His function is to gather clues
that will eventually lead to the person who did the dirty work in the
first chapter; and if the detective does not reach his conclusions
through an analysis of those clues, he has no more solved his
problem than the schoolboy who gets his answer out of the back of the
arithmetic.
7. There simply must be a corpse in a detective novel, and the deader
the corpse the better. No lesser crime than murder will suffice. Three
hundred pages is far too much pother for a crime other than murder.
After all, the reader's trouble and expenditure of energy must be
rewarded.
8. The problem of the crime must he solved by strictly naturalistic
means. Such methods for learning the truth as slate-writing,
ouija-boards, mind-reading, spiritualistic se'ances, crystal-gazing,
and the like, are taboo. A reader has a chance when matching his wits
with a rationalistic detective, but if he must compete with the world
of spirits and go chasing about the fourth dimension of metaphysics,
he is defeated ab initio.
9. There must be but one detective--that is, but one protagonist of
deduction--one deus ex machina. To bring the minds of three or four,
or sometimes a gang of detectives to bear on a problem, is not only to
disperse the interest and break the direct thread of logic, but to
take an unfair advantage of the reader. If there is more than one
detective the reader doesn't know who his codeductor is. It's like
making the reader run a race with a relay team.
10. The culprit must turn out to be a person who has played a more or
less prominent part in the story--that is, a person with whom the
reader is familiar and in whom he takes an interest.
11. A servant must not be chosen by the author as the culprit. This is
begging a noble question. It is a too easy solution. The culprit must
be a decidedly worth-while person--one that wouldn't ordinarily come
under suspicion.
12. There must be but one culprit, no matter how many murders are
committed. The culprit may, of course, have a minor helper or
co-plotter; but the entire onus must rest on one pair of shoulders:
the entire indignation of the reader must be permitted to concentrate
on a single black nature.
13. Secret societies, camorras, mafias, et al., have no place in a
detective story. A fascinating and truly beautiful murder is
irremediably spoiled by any such wholesale culpability. To be sure,
the murderer in a detective novel should be given a sporting chance;
but it is going too far to grant him a secret society to fall back
on. No high-class, self-respecting murderer would want such odds.
14. The method of murder, and the means of detecting it, must be be
rational and scientific. That is to say, pseudo-science and purely
imaginative and speculative devices are not to be tolerated in the
roman policier. Once an author soars into the realm of fantasy, in the
Jules Verne manner, he is outside the bounds of detective fiction,
cavorting in the uncharted reaches of adventure.
15. The truth of the problem must at all times be apparent--provided
the reader is shrewd enough to see it. By this I mean that if the
reader, after learning the explanation for the crime, should reread
the book, he would see that the solution had, in a sense, been staring
him in the face-that all the clues really pointed to the culprit--and
that, if he had been as clever as the detective, he could have solved
the mystery himself without going on to the final chapter. That the
clever reader does often thus solve the problem goes without saying.
16. A detective novel should contain no long descriptive passages, no
literary dallying with side-issues, no subtly worked-out character
analyses, no "atmospheric" preoccupations. such matters have no vital
place in a record of crime and deduction. They hold up the action and
introduce issues irrelevant to the main purpose, which is to state a
problem, analyze it, and bring it to a successful conclusion. To be
sure, there must be a sufficient descriptiveness and character
delineation to give the novel verisimilitude.
17. A professional criminal must never be shouldered with the guilt of
a crime in a detective story. Crimes by housebreakers and bandits are
the province of the police departments--not of authors and brilliant
amateur detectives. A really fascinating crime is one committed by a
pillar of a church, or a spinster noted for her charities.
18. A crime in a detective story must never turn out to be an accident
or a suicide. To end an odyssey of sleuthing with such an anti-climax
is to hoodwink the trusting and kind-hearted reader.
19. The motives for all crimes in detective stories should be
personal. International plottings and war politics belong in a
different category of fiction--in secret-service tales, for instance.
But a murder story must be kept gemütlich, so to speak. It must
reflect the reader's everyday experiences, and give him a certain
outlet for his own repressed desires and emotions.
20. And (to give my Credo an even score of items) I herewith list a
few of the devices which no self-respecting detective story writer
will now avail himself of. They have been employed too often, and are
familiar to all true lovers of literary crime. To use them is a
confession of the author's ineptitude and lack of originality.
(a) Determining the identity of the culprit by comparing the butt of a
cigarette left at the scene of the crime with the brand smoked by a
suspect.
(b) The bogus spiritualistic se'ance to frighten the culprit into
giving himself away.
(c) Forged fingerprints.
(d) The dummy-figure alibi.
(e) The dog that does not bark and thereby reveals the fact that the
intruder is familiar.
(f)The final pinning of the crime on a twin, or a relative who looks
exactly like the suspected, but innocent, person.
(g) The hypodermic syringe and the knockout drops.
(h) The commission of the murder in a locked room after the police
have actually broken in.
(i) The word association test for guilt.
(j) The cipher, or code letter, which is eventually unraveled by the
sleuth.
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Breve storia della detective fiction