LiberArti, emporio dell’arte María Sánchez Puyade, artista e scrittrice di origine argentina, vive ormai da anni a Trieste, dalle parti di Città Vecchia. Ha realizzato un progetto d’arte meticolosamente pensato, studiato e desiderato che ha trovato spazio e tempo in piazza Barbacan: LiberArti, emporio dell’arte. LiberArti è il nuovo emporio dell’arte di Città Vecchia, nato da pochi mesi, ma che ha già visto un notevole afflusso di interessati: per questo vorrei chiederti, María, di spiegarci da che cosa è nata l’idea di creare questo tipo di progetto, in che cosa consiste e qual è l’obiettivo principale. Il progetto nasce dalla stanchezza. Una stanchezza micidiale. Peggio: nasce dalla noia. Avevo l’impressione di dormire, lavorare, mangiare, leggere, cambiarmi, dire qualche cosa tipo: Come’è? Bene, con te? E basta. Ero stanca. Avevo bisogno di cambiare. E poi, soprattutto, avevo bisogno di crederci ancora. Da tempo mi frullava per la testa l’idea di uno spazio per artisti. Non per artisti visivi soltanto, o per scrittori, o per artigiani, bensì uno spazio multidisciplinare, dove si cercassero forme e linguaggi nuovi. Volevo riavvicinare la gente all’arte, e gli artisti tra di loro. Lanciare un concetto d’arte quotidiano, cioè un’arte da vivere, un’arte da mettere nel salotto di casa, sulla scrivania, all’occhiello; quell’arte che ci permette un rapporto di comunicazione tra l’oggetto, noi e il suo autore, per quanto questo sia lontano nel tempo o nello spazio. Bisognava dare un prezzo all’oggetto. Il progetto doveva fatturare, doveva avere un fine di lucro e non di esposizione, divulgazione e basta. Volevo vi- vere e far vivere di e con l’arte, anche se il settore pubblico per il momento questo non l’avrebbe capito. Così è nato: dalla credenza che la cultura vada vissuta ogni giorno, nel modo in cui allestiamo la tavola, se al posto di mettere un poster mettiamo un disegno che ha fatto qualcuno che non è molto quotato, però ci ha messo l’anima dentro; nel modo in cui regaliamo un fiore, allestiamo una vetrina, sorridiamo per strada, cuciniamo un piatto di pastasciutta o leggiamo una poesia. In un modo poco chic ma molto romantico. L’ipotesi dalla quale parte questo progetto è il Manisfesto della Cultura del Sole 24 Ore. La cultura fattura. Infatti, uno dei suoi articoli dovrebbe dire così: l’Arte è vita. Svegliati, meglio essere tra i vivi! In quanto al modus operandi di LiberArti, posso svelare che è più o meno così: si cerca un tema, uno spunto, un filo, qualcosa che serva da sperone. Poi vengono chiamati gli artisti (a volte sono a loro a chiamare me) e messi in contatto tra loro. Si fissa una data cabalistica, che dica qualcosa, che sia di per sé comunicativa. Penso al filo che terrà insieme le opere. Durante quattro giorni si allestisce lo spazio. Dopo, per il tempo che dura la mostra, metto sul sito le opere in vendita per l’ecommerce. E voilà: si parte. Si inizia a pensare alla prossima avventura. La scelta del nome LiberArti suppongo che non sia casuale, giusto? LiberArti è quello che vorrei raggiungere, un giorno o l’altro. LiberArti è quello che l’arte ha da offrirci: le arti liberali, un insieme di conoscenze per essere liberi: un tutto che non va spezzato e che permette l’esercizio dello spirito, che è anche corpo. Un tutto che è una ricerca personale, che è sempre diverso, che ci sfida a conoscerci sempre di più. Qual è stato il motivo che ti ha spinto a scegliere Città Vecchia per far nascere il tuo progetto? Innanzitutto, mi piaceva l’idea di raggiungere il lavoro a piedi, quindi cercavo qualcosa vicino a casa. Ho scelto invece di vivere in Città Vecchia per l’aria rarefatta, un po’ malaticcia del rione, quella sua aria da porto e da bordello, che purtroppo sta svanendo. Infatti amo l’ormeggio del Molo Audace. Con la bora vado lì, a guidare quella specie di timone. Secondo, Barbacan è per me una delle più belle e più dimenticate piazze di Trieste. Terzo, e non meno importante, le bellissime vetrine, dove prima c’era una fumetteria ben nota a Trieste e oggi c’è LiberArti, mi attiravano da un pezzo, come le vetrine di un luogo magico, un gabinetto delle curiosità (intendo, per gabinetto, non il cesso, ma quella antichissima stanza dove dicono siano nati, ahimè, i musei moderni). Fin’ora hai già allestito due mostre e organizzato tre eventi dedicati alla lettura, alla poesia, all’arte, sempre in comunicazione tra di loro, tra cui l’attuale esposizione di Gothic Beauty, che rimarrà allestita fino all’arrivo della primavera. Qual è stato il riscontro che hai avuto da parte dei visitatori? Ci sono diverse forme di leggere la realtà. Una è attraverso le persone, un’altra attraverso i numeri. Io preferisco pensare alle persone, anche perché se penso ai numeri mi viene il mal di testa. Se penso alle persone, invece, devo dire che i riscontri sono allettanti. Non c’è una via di mezzo riguardo a LiberArti. Ci sono due posizioni ben precise. Un caso è quello della giovane designer che ha partecipato all’Open Design Italia tenutosi a novembre a Venezia. La ragazza era venuta da queste parti, la scorsa estate, ed era rimasta folgorata dalla vetrina di LiberArti. Come lei ci sono stati tanti artisti, tanti bambini che fanno fermare i genitori, i turisti e, certo, gli amanti dell’arte. Sono in tanti a fermarsi e a farmi sentire che quello che stiamo facendo è una cosa bellissima. L’altro caso è la persona che invece guarda in fretta, si chiede quasi arrabbiata cosa sia mai, e scappa via. Oppure la persona che nemmeno si ferma. Questi sono i riscontri. Poi ci sono i numeri. I numeri oggi sembrano un’equazione troppo difficile. Partendo dalla tua nuova esperienza con LiberArti, come percepisci il vivere e il vissuto di Città Vecchia in chiave artistica? Qual è il tuo modo di viverla? Ci sono, secondo te, degli aspetti negativi che potrebbero essere migliorati all’interno del sentire di Città Vecchia? Percepisco diversi gruppi che lavorano isolati. Anch’io per il momento faccio così, ma sto già provando a cambiare. Un modo per migliorare è lavorare insieme. Aprirci al nuovo, a tutto quello che arriva da fuori. Trieste è un porto e perciò ha il compito di guardare oltremare. Per farlo sono convinta che servano il lavoro e la ricerca in gruppo. Il rione sta diventando un fulcro. Il turismo è salito del 10%, se non sbaglio, l’ulti- n.-4 febbraio 2013 Il primo foglio ma estate. Cavana è ormai una zona pedonale molto frequentata: d’estate piazza Barbacan attira sempre più gente. Tanti commercianti e tanti ristoratori sono aperti a collaborare col mondo dell’arte. Manca solo che il pubblico collabori col privato, ma forse è una questione di mesi. A me interessa questo dialogo, oltre alla ricerca e al contatto col pubblico. Mi interessa mettere insieme diverse realtà, diversi linguaggi. Organizzare eventi che vadano a beneficio del pubblico e del privato. Se i commercianti, i ristoratori, gli artigiani diventano consapevoli del beneficio che possono trarre da un quartiere artistico, magari riusciamo a creare una nuova realtà: per noi, ma anche per altri che, come noi, stanno cercando di tirare avanti la carretta. Per concludere, ci puoi dare un indizio di quali progetti hai in ballo per la primavera? Intorno al primo di aprile ci sarà la nuova mostra, incentrata sull’illustrazione e i disegni. Per metà luglio, invece, stiamo organizzando il primo festival di Street Art a Trieste. Vediamo dove arriviamo insieme! non periodico, senza padroni e padrini, partecipato di Trieste Invia il materiale che vorresti veder pubblicato a [email protected] articoli/poesie/foto/disegni/idee/ricordi/notizie… Diciott’anni in evoluzione Il 17 Febbraio In der Tat diventa maggiorenne. Sì, 18 anni di attività di spaccio di libri alle spalle, che per tutti quelli che ne hanno preso parte ha la stessa importanza e cade nella medesima data del rogo di Giordano Bruno, della prima edizione della Treccani o dell’inizio di Mani Pulite, per citarne solo alcuni. Non abbiamo voluto far consuntivi, apologia, autocelebrazione, né tantomeno illustrare futuri progetti, difficili anche solo da immaginare nel sempre più fosco e incerto mondo in cui viviamo. Saremo sempre “in evoluzione” come ricorda il nome che ci siamo dati, valuterete voi dove ci avrà portato. Per il passato, prossimo e remoto, vi regaliamo alcuni flash cronologici di quello che siamo stati… Francesca Schillaci Per saperne di più si può scrivere a: [email protected] o passare in piazza Barbacan 1/a Trieste www.emporioliberarti.it Disomofobiamo Trieste Cos’è la geologia? interni da parte dello Stato estero del Vaticano. Dove sarebbe la provocazione? Chi istiga alla violenza, alla denigrazione della dignità è stato chi ha violentato la dignità dell’essere umano e chi sostiene tale complicità; e non certamente chi si è visto negare un diritto democratico e fondamentale. Trieste ha vissuto l’ennesima pagina buia di quella che io ora definisco #Vaticanocrazia. Si è rifiutato il compromesso, quello di Piazza della Borsa, e si è deciso di non scendere in piazza, lasciando un vuoto. Un vuoto silenzioso che manifesterà, paradossalmente, con la non presenza dei manifestanti, tutta la forza e la violenza del dissenso, un vuoto che rappresenterà quel vulnus che oggi vive la nostra malata democrazia. Il 2013 vedrà come tema prevalente proprio la battaglia contro l’omofobia e a Trieste, salvo imprevisti, verrà realizzata una grande manifestazione nazionale su tale tema. A parer mio, criticando la campagna istituzionale contro l’omofobia e mutando la direzione da essa imposta, l’omofobia è un’avversione motivata e razionale alle persone omosessuali; non immotivata e irrazionale, come sostenuto invece dalla detta campagna. L’omofobia non è una malattia, cosa che veniva sostenuta sempre dalla campagna del Governo: è uno stato pregiudiziale, fomentato da falsi valori conservatori e tradizionali, il cui unico scopo è preservare quel potere secolare che arde ogni speranza di umanità. Una società sarà libera di essere comunità solo quando lascerà affondare nelle acque dell’oceano della memoria perduta quel sentimento di odio razionale (perché figlio di un’idea pensata e coltivata) e motivato (perché figlio della peggiore ignoranza di stato) che alimenta ogni fobia verso l’individuo. Non parlerò di differenza, perché parlare di differenza vuol dire riconoscere l’essere diverso: nessun essere è diverso, siamo tutti esseri umani. Vi sarà il vero no all’omofobia solo quando lo Stato sarà libero dal potere secolare di quella Chiesa, anche istituzionale, che giustifica e istiga ogni fobia verso il diritto a vivere in libertà la vita umana, e con il pieno riconoscimento di tutti i diritti civili, ivi inclusi quelli che tradizionalmente vengono riconosciuti esclusivamente alle famiglie tradizionali. Fino a quando ciò non accadrà, le carte costituzionali, i trattati, le campagne, saranno solo delle pagine bianche, vuote, il diritto sarà solo diritto astratto. Riempiamo la nostra agenda quotidiana con il diritto a essere umani. Se vuoi, puoi: e io lo voglio. Marco Barone Blog: http://xcolpevolex.blogspot.it/ Secondo l’etimologia della parola, è una scienza che studia la Terra, la sua storia, in particolare la crosta terrestre e i suoi strati di roccia. I geologi sono quindi scienziati capaci di studiare e comprendere la struttura morfologica dei terreni su cui viviamo e su cui, spesso, edifichiamo. Ciò che è avvenuto sopra il cantiere di via del Teatro Romano dimostra che ci può essere un rischio di incomprensione di tale struttura; specie se accade, cosa umanamente possibile, che alla capacità di studio del terreno si unisca l’iniziativa imprenditoriale, che deve naturalmente tener conto dei costi e quindi dell’investimento di capitale, e che deve in ogni caso portare a degli utili d’impresa, cioè a dei profitti. È questa una logica a cui è difficile, se non proprio impossibile, sottrarsi… A meno che i geologi non restino solo scienziati, studiosi della crosta terrestre, del suolo cioè su cui viviamo tutti e che è quindi un bene comune la cui struttura va difesa a ogni costo (certamente possono verificarsi terremoti, specie in presenza di faglie o in vicinanza di sistemi vulcanici; e infatti sismologi e vulcanologi sono, prima di tutto, geologi). Auguriamoci tutti che ciò che è successo alle case di Rena Vecia non succeda più, cercando di dare fiducia al geologo che ha diretto i lavori. Con una seria riconversione produttiva, molti lavoratori edili potrebbero essere rivolti al restauro di un vasto parco edilizio già esistente; diciamo, per esempio, di numerose scuole pubbliche. Certo, ciò dipende soprattutto dalle scelte e dal tipo di gestione del territorio da parte delle amministrazioni pubbliche. Coscienza critica CitaveciaStarigrad lo trovi da: Libreria Indertat, bar-libreria Knulp, erboristeria La Raganella, Casa della Musica, panificio Romi. [email protected] - FIP - Trieste - via Madonna del Mare 7/A interventi Luca Alberto Susanna Sara / Lorena Buttò e Pietro Da Dalt / BruBru / Un estimatore / Nonna Papera / Francesca Schillaci / Marco Barone / Coscienza critica editing Francesca Giorgini / foto Sergio Pancaldi - BruBru - Pietro Da Dalt / grafica Plip CitaveciaStarigrad is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia License. Marionetta di Sergio Pancaldi Venerdì 21 dicembre alle ore 17, sotto il palazzo della Curia in via Cavana a Trieste, il Circolo Arcobaleno ArcigayArcilesbica di Trieste, insieme a un gruppo di cittadine e cittadini, aveva organizzato un sit-in di protesta contro le recenti dichiarazioni omofobiche del Papa, che ha attribuito alle coppie omosessuali la volontà di danneggiare, destabilizzare e oscurare la famiglia. Per ragioni di ordine pubblico e di turbativa della sicurezza, la protesta sotto il palazzo della Curia è stata vietata, concedendo invece un presidio nella solita piazza della Borsa di Trieste. Probabilmente le ragioni di ordine pubblico che hanno determinato questa scelta scellerata sono due: le recenti contestazioni contro il rigassificatore (che hanno visto l’interruzione di un convegno presieduto dal locale Vescovo) da un lato e il periodo natalizio dall’altro. Già, perché protestare sotto la Curia a pochi giorni dal Natale non si può mica fare. Sarebbe una provocazione che turberebbe il loro Natale, quello della Chiesa. Tutto credibile perché successo. La Questura, probabilmente su pressione diretta o meno del clero, ha deciso di porre un divieto intollerabile, ingiustificabile, inaccettabile. Questo Paese, che sarebbe sulla carta laico, dunque aconfessionale, patisce ogni giorno l’ingerenza negli affari Luca. All’inizio volevamo una cooperativa, e tanto ne abbiamo discusso, soprattutto sul “cosa”, legato al territorio, alla città, alla nostra terra. E infatti Terra Rossa l’abbiamo chiamata, come quella del Carso, ferrosa e pietrosa, dura e bellissima. Colore della bandiera che avremmo voluto veder sventolare su di essa. Contribuire, volevamo, alla circolazione delle idee, dei racconti e delle azioni che possono far bello il mondo, belle le persone, attraverso un mezzo che tutti noi amiamo: i libri e le persone che li scrivono. Una libreria dunque particolare, diversa, che ancora da noi non c’era. Ci siamo incontrati molte volte e abbiamo valutato e considerato molti aspetti… Una sera piovosa si andava, io e Alberto, a casa di Andrea: dovevamo trovare un nome per la nostra creatura. Avevo una bottiglia nella borsa, per la cena. Non ero mai stato a casa sua e si guidava piano con le nostre due ruote per cercare il numero civico. A terra è bagnato e frenando la mia vespa scivola e volo per terra, quasi sulla porta di casa, rotolando proprio sulla borsa con la bottiglia… che rimane intatta! Ho visto in questo un buon auspicio: rimanere integri anche negli accidenti. Forse proprio in quella serata abbiamo battezzato la libreria, Andrea lo ha proposto e ci è piaciuto subito. L’immanenza, la dinamicità e i diversi significati del divenire nell’e- strema concretezza di un attimo che si rinnova nel momento in cui è, in tre parole: IN DER TAT. Alberto. Far presentare il libro a un brigatista rosso… E mica a uno qualunque, a Prospero Gallinari, uno dei sequestratori di Moro. Ci abbiamo pensato per un bel pezzo, già ci avevano etichettato come libreria comunista (cosa che mi ha fatto sempre ridere, visto che nessuno di quelli che ci ha lavorato lo è mai stato, probabilmente neppure ha mai votato PCI e successori), con questo avremmo avuto il marchio per sempre. Decidemmo comunque di fare la presentazione, non si sarebbe parlato di terrorismo, ma di carcere, del senso che ha nella nostra società, di come cambia le persone, di cosa significa. Mai abbiamo avuto tanta affluenza come in quella occasione, la gente assiepata e appollaiata ovunque, le porte d’ingresso spalancate per permettere a chi non era riuscito ad entrare di sentire comunque qualcosa. Ascoltare un uomo malato, in semilibertà, raccontare a bassa voce cos’è il carcere, cosa significa pagare il debito con la società, riabilitarsi, il nonsense dell’ergastolo. Ancora oggi, dopo tanti anni, mi tornano alla mente certe frasi di quella sera, quando sento qualcuno urlare, spesso con estrema facilità, che bisognerebbe mandare, nei più svariati contesti, “certa gente” in galera. Susanna. Ecco, fatto il grande passo: la libreria si compra. Paura, ovvio, slancio, va da sé, e il proprio tempo completamente a disposizione di quelle quattro mura da ristrutturare. Soldi zero ma entusiasmo da vendere e fretta, tanta fretta di finire i lavori prima possibile. Quindi… “facciamo tutto noi”. Uscivo di casa la mattina vestita con pantaloni militari e anfibi con la punta rinforzata, divisa anticonformista? Da compagna di centro sociale? No, da manovale. Rivedo la parete che buttai giù a colpi di mazzetta da un chilo. E rivedo il tipo, impresario edile a cui avevamo chiesto un parere su alcune cose, che dopo avermi osservata mentre facevo la malta e la buttavo su, mi disse “ehi, se qua le cose vanno male, sappi che ti assumo io”. Era ancora tutto al grezzo, ma il grosso era finito. Certo non fu la classica festa di inaugurazione, con tutte le cose finite e precisine, ma l’energia che girava là dentro quel giorno era fantastica e la ricordo con gioia. Ora, a distanza di anni, continua a girarmi in testa una domanda: “ma perché non accettai la proposta di quell’impresario?”. Sara. Alla ricerca del libro perduto. Ci sono molti tipi di clienti, si sa. Ci sono quelli che entrano sapendo già cosa vogliono e tu non devi fare altro che procurarlo. Facile e piacevole. Ci sono quelli che non sanno cosa cercano e vanno a zonzo tra tavoli e scaffali; questi mi incuriosiscono sempre: cosa sfoglierà la signora? Cosa cercano quei ragazzi? Cosa sceglierà alla fine il tipo? Insomma dimmi cosa leggi e – un poco – mi dirai chi sei. Ci sono quelli che sanno cosa cercano, ma non sanno – ancora – che non lo troveranno mai. Pubblicazioni degli anni cinquanta mai ristampate, edizioni accademiche cinesi o albanesi, opuscoli autoprodotti degli anni settanta… E qui la delusione, tua e sua, è quasi assicurata, ma ci provi comunque, che nella vita non si sa mai. E se per caso scovi l’ambito cimelio, è sempre festa grande. E poi ci sono i clienti che preferisco, quelli che sanno bene quel che desiderano, ma non sanno dove trovarlo. E ti si presentano con le curiosità più strane e i più vari desideri, dall’iconografia religiosa coreana alla letteratura postcoloniale portoghese, dagli spazi sociali negli anni ottanta a “qualcosa sulle scarpe”. E allora ti lanci, tra ricerche al computer e memoria di mestiere, senza ovviamente scordarti di disturbare qualsiasi amico vagamente competente in materia… Puoi passare ore immersa in una ricerca e alla fin fine ordinare, forse, un solo testo. Forse non sarà così che gira l’economia, ma trasmetti culture e diffondi saperi. E a volte tanto basta. Questo patchwork di ricordi e riflessioni è tutto nostro, di chi se ne è andato e di chi ancora ci lavora. Il nostro grazie collettivo va agli innumerevoli amici che ci hanno aiutato e a chi ancora apprezza ciò che facciamo. I graffiti Febbraio 1956 ovvero il ritratto della l’avventura di due ragazze di Trieste che… società contemporanea Nel febbraio 1956 furono mandate, Una nave tutta bianca e immensa, la Se un cittadino qualunque percorre le strade interne di un quartiere di Trieste, ad esempio Città Vecchia, il mio quartiere, potrebbe vedere sui muri vari segni grafici. Usciamo dal giudizio morale, si fa o non si fa: osserviamoli soltanto… Cosa ci dicono? Perché uno imbratta o colora i muri? Arte o violenza? Espressione sociale o crimine? Anni fa, nel periodo 70-80, la street art veniva pensata come un movimento di ribellione di una categoria di persone che apparteneva ai ceti poveri, disadattati. In realtà il graffito si è affermato come una corrente artistica i cui protagonisti vengono da orizzonti diversi: diventa così divertimento, denuncia e rivendicazione. Di ciò è un ottimo esempio Keith Haring, l’artista che a New York negli anni ottanta aveva dipinto le fermate della metropolitana con il suo omino, che avrete sicuramente visto. Ora le sue opere sono esposte nei più grandi musei del mondo, accanto a Picasso. L’arte di strada gode di grande considerazione in Europa e altrove, si organizzano anche dei festival internazionali, dove i vari writers si incontrano collettivamente per realizzare dei dipinti unici. Anche Trieste ha visto realizzata nel 2000, in piazza dell’Unità d’Italia, un’opera splendida di Bruno Chersicla eseguita da quasi seimila persone: raffigurava il ratto di Europa… Vi ricordate la donna a cavallo del toro? Vorrei ora introdurvi a un concetto molto importante per comprendere il senso dell’arte di strada. Il graffito non si improvvisa: è il risultato di uno schizzo che viene elaborato, per poi diventare disegno in scala adeguata su di una parete; invece il tocco veloce, la scrittura improvvisa, la tag, come viene chiamata nel mondo anglosassone, è quel bisogno cronico di incidere il proprio nome d’arte o la propria firma su cose non proprie. Graffito e tag sono diventate visioni quotidiane del nostro tempo. Portano il tema dell’ADESSO. Adesso disegno. È tutto temporaneo. Domani sarà tutto cancellato: dalla pioggia, dal sole oppure dal padrone dello stabile con un pennello intriso di bianco. Tutto con una vita molto breve. Una manifestazione d’arte che porta in sé la precarietà, lo humor e altri temi scottanti o politici del nostro tempo. Lorena Buttò e Pietro Da Dalt Foto di Pietro Da Dalt spedite in una terra lontana e immensa di bellezza, con le case fatte di legno e sulle pile, con immensi giardini, pieni di roseti, di alberi di mango, di dolcissime papaie e di banani, dove facevano il nido le paurose pelose vedove nere, piena di canguri, di bellissimi koala, piena di insetti velenosi, di termiti, tanti serpenti, contornata da tanti oceani pieni d’acqua piena di pescecani, di barracuda, di meduse urticanti, coperta da un cielo di un azzurro infinito, con le stupende stelle della Croce del Sud, piena di tanti australiani e di pochi, perché sterminati, aborigeni, il vero popolo d’Australia. Nel 1951 fu stipulato tra Italia e Australia un accordo bilaterale di emigrazione assistita con il supporto del Cime (Comitato intergovernativo per le migrazioni europee). Le selezioni erano durissime, persino spietate. Per essere ritenute idonee all’emigrazione occorreva superare una lunga serie di esami sanitari e ottenere il beneplacito delle autorità di polizia che accertavano la non appartenenza al Partito comunista o al Movimento sociale. Prima di avere il permesso di partire furono sottoposte a visite mediche, a esami di tutti tipi, visite ginecologiche, tutto molto invasivo e umiliante, chi partiva con una qualifica doveva fare la prova d’arte, una partì con la qualifica l’altra come generica, per poter partire assieme. Se si veniva scelte si doveva sottoscrivere un tipo di contratto per cui dopo arrivate si doveva rimanere in Australia almeno per due anni, altrimenti si doveva pagare una quota per aver usufruito dell’assistenza del Cime. Tutte le ragazze selezionate come lavoratrici (nella stragrande maggioranza domestiche) erano nubili o sposate per procura. Il governo australiano dichiarava il numero di emigranti che voleva accogliere e specificava le caratteristiche professionali che avrebbero dovuto avere. Partirono con altre centocinquanta ragazze da Trieste il 22 febbraio 1956. C’era gelo dappertutto, la città era tutta coperta di ghiaccio e loro, appese ai finestrini del treno, con le facce che volevano mascherare il dolore che stava per lacerare il loro cuore, sorridevano a quelli che le avevano accompagnate. Il viaggio per arrivare alla nave era stato pieno di stati d’animo, un gran vuoto nel cuore, sembrava che fossero entrate in un tunnel che diventava sempre più nero, senza fine, ridevano istericamente, piangevano, molte per stordirsi bevevano e facevano un sacco di scemenze, loro erano lì a guardare senza capire ancora cosa stava veramente succedendo. Dopo ore di ripensamenti finalmente il treno le portò a Genova, dove c’era una nave che le aspettava per portarle lontano. Fairsee. Hanno il cuore pieno di speranza e di sogni. Sono in attesa di sentire la sirena che strazierà il loro cuore. Stanno lasciando casa e tra poco si ritroveranno immerse nell’ignoto. Dopo trentasei giorni di mare si trovarono nella rada del golfo di Melbourne, per quasi due giorni non poterono entrare in porto perché il mare era fortissimo e la nave aveva un fortissimo beccheggio. Il viaggio fu un’esperienza unica, anche se la partenza fu dolorosa e lacerante. L’arrivo fu peggio: la nave attraccò alla banchina, in quel momento si resero conto che non era più possibile tornare indietro. La banchina del porto era di legno e questo le portò a ricordare i film che mostravano l’arrivo di poveri emigranti che arrivavano in America stipati nelle stive delle carrette del mare verso i primi del ’900, in quel momento si resero conto che erano delle emigranti pure loro. Salirono i personaggi dell’ufficio immigrazione e del lavoro. Incominciò nuovamente la trafila degli accertamenti, passaporti salute conoscenza delle lingue; una delle ragazze conosceva un po’ di francese, inglese scolastico e una discreta conoscenza della lingua tedesca ed era esperta nella confezione e creazione di capi di abbigliamento, questo servì a farla comunicare con un funzionario dell’ufficio del lavoro che parlava tedesco, sarebbe stato disposto nel caso avesse avuto delle difficoltà a trovarle lavoro dopo sbarcata. Passarono delle ore prima di poter scendere a terra, molte erano le persone che aspettavano che i passeggeri scendessero, erano lì per qualche parente, qualche fidanzata, qualche moglie sposata per procura. Ci furono delle scene veramente tristi, delle ragazze che si erano sposate per procura si rifiutavano di scendere dopo aver visto da lontano lo sposo. Urlando non può essere quello; nella fotografia era diverso, ci hanno imbrogliate vogliamo ritornare a casa. Purtroppo non si poteva tornare indietro, la merce doveva essere sbarcata. La vicina di casa aveva chiesto alle ragazze di portare un pacco con degli scarponi alla figlia che si trovava con il marito a Melbourne, che sicuramente le avrebbe accolte volentieri. La figlia della vicina ritirò il pacco, disse telefonatemi e si dileguò. Nessuno aspettava le ragazze. Rimasero attonite. Alla fine restarono tra quelle che non erano state prelevate né da parenti né da sposi, furono trasportate in un campo di accoglienza per sole donne. Il campo assomigliava a una caserma, da lì venivano smistate, rimasero nel campo per quasi tre settimane. Nel frattempo arrivavano delle “signore bene” che avevano delle fattorie e volevano delle donne di servizio, così si portavano via le ragazze ingaggiate come generiche, così volevano prendere pure la ragazza più giovane, chissà dove l’avrebbero mandata, allora la sorella più grande disse: Assumo io mia sorella, siamo partite assieme e non ci separeremo. C’era un’assistente sociale italiana che faceva pure l’interprete, era tremenda e trattava le ragazze in modo disumano, diceva: Ringraziate che vi proteggiamo e vi stiamo dietro altrimenti stareste in qualche strada a fare il mestiere. Questa purtroppo era l’idea e l’opinione che si era fatta la massa delle persone che aveva visto tutte quelle ragazze partire da sole. In quegli anni purtroppo la mentalità era molto ristretta, erano tutte donne di malaffare. Per questo le ragazze si sentirono molto umiliate quando l’assistente sociale si incavolò per la loro impudenza e le fece espellere dal campo. Trovarono un posto dove stare presso certe suore che davano ospitalità, letto, colazione, e un po’ di cena a pagamento. Pagavano quattro sterline a testa per settimana, così per avere del denaro vendettero tutto quello che avevano d’oro, anelli, orecchini, catenelle. La ragazza qualificata corse a cercare il tizio che parlò con lei in tedesco e questi le trovò subito lavoro in una fabbrica. Il giorno dopo andò in quella fabbrica, per arrivarci dovette prendere un treno, un bus, un tram e fare un tratto a piedi. La misero davanti a una macchina da cucire, vicino un grande cesto pieno di gonne da confezionare, in otto ore di lavoro doveva confezionare novantadue pezzi e questo per cinque giorni a settimana, e tutto ciò per una paga settimanale di sette sterline e qualche scellino, una miseria. Un uomo per portare i cesti alle operaie, e non doveva stare incollato alla macchina per otto ore come le povere ragazze, si prendeva tredici sterline e qualche scellino. Per questo richiedevano personale femminile, e poi le donne servivano pure per far aumentare la popolazione della grande Australia. Le ragazze vivevano tutto ciò come un incubo, sentivano di esser state robotizzate, abbandonate, non riuscivano a comunicare, avevano la sensazione di essere delle sordomute, tutto ciò le faceva sentire che a essere donne si era di una razza inferiore, serve, fattrici, macchine, le umiliazioni erano troppo dolorose, così le ragazze chiusero il cuore ai sentimenti. Fuggivano da tutto ciò che poteva coinvolgere le emozioni, per sopravvivere avevano fatto inaridire ogni cosa che si riferisse all’amore, al cuore ai, sogni. Il ritmo della loro vita si dipanava tra alzarsi all’alba, correre al lavoro, essere impegnate per otto ore su delle macchine infernali, perdere altre due ore per ritornare al loro giaciglio che si trovava in una squallida stanzetta in subaffitto in casa di un altro emigrante di razza anonima, doveva essere forse turco, che voleva aiutarle e chiedeva un affitto da strozzino, e faceva la morale se qualche volta rientravano un po’ più tardi perché avevano perduto il treno. Cercava di piazzare dei suoi conoscenti maschi che cercavano moglie, li presentava alle ragazze come fossero dei partiti da non perdere, anche questi di razza anonima, con un aspetto e una presenza non sicuramente da far invidia a un Adone, e in più non brillavano per una mentalità e un’intelligenza superiore. Alle ragazze mancava tanto il suono della loro lingua, il poter leggere, essere informate. Non c’erano giornali o libri nella loro lingua, e questo le faceva sentire ancora più lontane più sole più abbandonate. Il tempo passava e non sapevano come fare per far sì che la così chiamata famiglia potesse raggiungerle, erano state mandate in questo paese per preparare la strada per il richiamo, per il padre e per la madre. La terza ragazza (la sorella più piccola) che era rimasta a Trieste con i genitori poteva partire senza bisogno del richiamo. La ragazza più grande scrisse a casa di non lasciare che la sorella più piccola partisse da sola, doveva partire assieme ai genitori, per non far subire anche a lei quello che avevano subito le due ragazze, a tutte le ragazze che partivano da sole affibbiavano l’etichetta di puttane. Per poter fare questo richiamo dovevano trovare qualcuno che assicurasse un lavoro per il padre e una casa dove potessero abitare al loro arrivo. Questo risultò molto difficile perché le ragazze non sapevano come fare, a chi rivolgersi, questo implicò per loro un ennesimo stress, si sentivano ancora più sperdute. La ragazza numero uno decise che doveva assolutamente cambiare lavoro perché non poteva sostenere quel ritmo di vita, in tre mesi aveva già cucito più di 5500 gonne. Iniziò a frequentare dei locali dove passavano diversi italiani, e così con il loro aiuto si mise a cercare sui giornali le offerte di lavoro, scelse quelle che pagavano meglio per la sua qualifica, trovò una richiesta di “designer and cutter”, disegnatrice di modelli e tagliatrice, per cui offrivano ben 25 sterline alla settimana. Si presentò, però c’erano già diverse ragazze australiane che aspettavano, pensò: Non ci sono molte speranze, era l’ultima, quando entrò sentì parlare in tedesco. Si presentò mostrando le foto della sfilata di moda che aveva fatto a Firenze, espose la sua qualifica parlando in tedesco, il capo era un ungherese che si chiamava Mister Sayers, le disse che l’avrebbe chiamata, la ragazza non accettò quella risposta, gli disse che doveva saperlo subito perché aveva anche altre richieste. Così Mister Sayers, che aveva qualcosa di umano, le disse: OK! Il lunedì seguente iniziò il suo prestigioso lavoro, era una disegnatrice di modelli, creava moda. Questo inizio l’aiutò a riprendere un po’ di fiducia in sè stessa. C’era un’altra ragazza che lavorava con lei, si chiamava Gail ed era australiana, simpatizzarono subito, così cominciò con fatica a tirare fuori quel poco di inglese che aveva imparato a scuola, doveva assolutamente impratichirsi con quella lingua, non voleva più sentirsi come una sordomuta. La ragazza numero due nel frattempo aveva provato a lavorare come cameriera nei posti dove si trovavano gli italiani, e così anche lei aveva smesso di attaccare milioni di ganci sulle 5500 gonne e più, cucite dalla ragazza numero uno. Arrivarono i pappa. Nei posti frequentati da italiani o ancor meglio dove si trovavano i ragazzi di casa loro, le ragazze conobbero due disperati, uno era partito come emigrante e non faceva altro che parlare di sua madre e dell’antipatia che provava per i meridionali, l’altro non era più ritornato sulla nave su cui si era imbarcato, era rimasto a terra, si era fatto sbarcare in Australia, veniva da Trieste però era di Taranto, ma sembrava che i due fossero amici. Le ragazze non si sa perché furono attratte (attenti a quei due!), fascino slavo o fascino meridionale, uno biondo l’altro moro, però tutti e due dei grandi ruffiani, chiesero subito alle ragazze di aiutarli a stirare una giacca, una camicia, di stare con loro perché si sentivano soli e sperduti, però si servivano di loro quando ne avevano bisogno. Giocavano a carte, bevevano, cambiavano lavoro ogni settimana, non avevano mai soldi, scroccavano sempre da mangiare, però erano tanto soli, facevano leva sulla solitudine e l’ingenuità delle ragazze, e le usavano come fosse loro dovuto tutto, perché in fondo loro le proteggevano dalle cattiverie di altri maschi sfruttatori e magnaccia. Purtroppo la ragazza più giovane pensò bene di sposare il moro di origine meridionale, non si sa quali doti nascoste aveva scoperto in lui. Forse c’era soltanto un grande bisogno di chiudere i suoi grandi sogni nel cassetto che aveva lasciato nella sua casa tanto lontana. Si sposarono civilmente, senza comunicarlo ai famigliari lontani. Lei era una bella ragazza, piena di vita, generosa, di un ingenuità sconvolgente, si fidava di tutti, era una grande sgobbona, si prodigava per tutti, aveva un cuore pieno d’amore e di speranze. Soffriva terribilmente di nostalgia. La ragazza numero uno fu presa dal fascino slavo, questi voleva ritornare a casa da mamma sua, nel frattempo però si faceva mantenere da lei perché era molto sfortunato, non riusciva a tenersi nessun lavoro a causa della sua profonda tristezza e nostalgia di casa e mamma, la quale pensava che tutte le ragazze che avvicinavano il suo pupo non erano degne di lui. Così senza aver finito il periodo di ingaggio ritornò a casa, tra le braccia di mamma sua. Il padre della ragazza numero uno volle conoscere la forse futura suocera. Così si recò alla carboneria, lì trovò la forse futura suocera, e questa gli scaricò addosso tutta la sua grande preoccupazione per il suo povero figliolo caduto in mano a una puttana. La mentalità di quel tempo era molto ristretta, così tutte le donne che si permettevano di vivere e farcela da sole erano considerate poco serie e poco affidabili. Il padre fu scioccato da questa dichiarazione fatta dalla ex for- se futura suocera, non ebbe nemmeno il coraggio di dirle chi era, ritornò alla sua casa molto triste, pensando alla sua figliola numero uno cosi ingiustamente giudicata. La vita delle due ragazze continuò prendendo direzioni diverse. La ragazza numero due, sposata, mise subito in lavorazione un nipotino per i nonni che aspettavano di poterla raggiungere in quella terra lontana. Arrivarono dopo quasi quattro anni, però la sorella numero tre era già partita da sola mesi prima, raggiungendo la sorella numero due che abitava a Melbourne, le raccomandazioni della ragazza numero uno di non far partire da sola la sorella più piccola non erano state ascoltate. La ragazza numero due, logorata dalla nostalgia, dopo diversi anni ritornò a Trieste e abitò nella casa della suocera che si trovava in Città Vecchia vicino l’Arco di Riccardo, e lì nacque Elisabetta. La ragazza numero uno, rimasta nubile per fuga del forse futuro sposo, pensò bene di andare a perlustrare un po’ quel mondo in cui, senza volerlo, era stata spedita nel lontano febbraio del 1956. Io, Bruna o Brubru o ragazza numero uno, ho avuto la sensazione che in quella nuova terra avrei potuto volare. È una terra bellissima, grandissima, coloratissima, vecchissima. Faceva parte del mio spirito d’avventura e di curiosità. Con una Land Rover mi avventuravo nel territorio del Nord, dove c’è un gran deserto, dove ci sono le Devils Rocks, dove c’è la Montagna Rossa Ayers Rock, dove trovi i percorsi degli aborigeni che vivono nel sogno. Questa parte è così grande che può contenere 5 volte il nostro paese. Attraversai quasi tutta questa terra. In certi posti mi misi a cercare l’oro, in altri cercai pietre semipreziose e l’opale. In altri ancora mi unii ad altri che erano dei cacciatori di coccodrilli. Ero una “libera” (free lance), giravo, conoscevo e creavo moda. Ho vestito le “signore bene” del paese. Ho nuotato con un po’ di paura nei mari che circondano questo continente, mi sono sballottata nelle onde dell’oceano, ho goduto della bellezza e delle acque della Barriera Corallina, mi sono perduta in una piantagione di banane. Ho assaporato la bellezza del paese, i meravigliosi colori e il cielo che sembrava lo potessi toccare, con la Croce del Sud che mi seguiva sempre. Ora vivo in una casa in Città Vecchia, dove ho una stanza rotonda che ho dipinta tutta d’oro… Brubru Vagabund K Al suo risveglio si ritrovò così, come alla fine del racconto era stato descritto, steso sotto un albero, coperto dalla neve, con il pensiero rivolto alla sua vita da vagabondo. In quel mondo di personaggi, di protagonisti, sentì subito di essere un po’ fuori posto. Proveniva da una trilogia minore, opera di un autore discusso a proposito del suo reale valore letterario. Vedeva intorno a sé alcuni dei grandi che affollavano quello spazio riservato alla creazione fantastica di venerati scrittori e narratori. Su un tavolo i fratelli Ivan, Dimitrij e Aleksej cercavano il quarto per una partita a briscola, ma nessuno voleva avvicinarsi loro dato il focoso carattere che li contraddistingueva e il timore che esso generava; la signora Emma Bovary parlava animatamente con una stremita Lucia Mondella passeggiando su sentieri sterrati con scarpini veramente poco adatti; Raskolnikov e il capitano Achab se la raccontavano e un po’ se la ridevano a proposito delle loro nefaste avventure. Altri tipi particolari affollavano quel villaggio, ma è inutile ora star qui a perder tempo con tali amenità: che si legga e ci si infilino dentro i preferiti. Da tempo ormai il nostro si trovava in tali condizioni, emarginato e snobbato. Si addormentava e si svegliava così, inquieto ed infreddolito. Un giorno però, inaspettatamente, due tipi che dalle fattezze eran senz’altro Zeno Cosini e Leopold Bloom, gli si presentarono innanzi e dissero: “Vieni!”, tendendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi e scrollarsi di dosso quella neve ormai stagionata. Si incamminarono per uno scosceso sentiero e attraversarono un fittissimo banco di nebbia, che non si vedeva un palmo dal naso. Ma i due sembravano procedere a passo sicuro. Trascorsero alcune ore, forse un giorno, forse più giorni (ma veramente il tempo nel loro mondo aveva poca importanza), e pian piano la nebbia si diradò, lasciando intravvedere il panorama d’una città. Era affacciata sul mare, e alle spalle era circondata da aspre colline che sembravano proteggerla e isolarla al tempo stesso. Da come il signor Cosini parlava pareva proprio fosse la sua città. Scesero fino al livello del mare, percorsero alcune strette strade del vecchio borgo fino a ritrovarsi all’imbocco di una viuzza dove appena appena ci passava un mezzo di trasporto. Le due guide si fermarono, dicendogli di percorrere qualche passo e poi entrare in un locale che avrebbe trovato alla sua destra. Gli dissero che lo avrebbero aspettato a quell’angolo fin quando non fosse tornato. Salutarono all’unisono. Cosini prese una sigaretta e se l’accese giurando che sarebbe stata l’ultima; Bloom estrasse dalla tasca interna della giacca una fiaschetta e tirò giù qualche sorsata. “Ti aspettiamo qui!” ribadirono in coro facendogli cenno di procedere. Percorsi quei pochi metri, con stupore notò che sul portone di legno massiccio si trovava appesa una targa di colore rosso con stampato il suo nome e, di seguito, un elenco di attività che all’interno di tale locale venivano svolte. Non essendo il suo nome troppo comune, realizzò che esso era a lui riferito. Entrò incuriosito, si fece largo al banco e ordinò un caffè. Era un caffè di buona qualità, accogliente, riscaldante. Girovagò per questo strano luogo in lungo e in largo, vide volti giovani e meno giovani, vide quadri alle pareti, vide libri su scaffali illuminati. Domandò. Si informò. Erano passati due lustri da quando quella locanda fu inaugurata, vi erano passati artisti, musicisti, intellettuali più o meno sedicenti, generazioni di studenti; gli raccontarono che qualche amico se n’era andato, altri ne arrivavano: in alcuni di questi avventori lui si riconosceva, riconosceva le sue gesta. Gli dissero che un giorno fu anche organizzato un pomeriggio in onore del tipo che aveva dato nome al locale e al libro dal quale era stato creato, e qualcuno di un gruppo di volontari culturali disse peste e corna contro l’opera in questione. Egli abbozzò un timido sorriso. Su un tavolo spiccava una bella catasta del volumetto che lo riguardava così da vicino. Uno dei gestori gli disse che era il testo più venduto di tutta la libreria, anche perché aveva un costo di soli quattro-e-tredici. Abbozzò un nuovo sorriso. Vedeva che la gente lì stava in pace, trovava un conforto, o almeno così gli sembrava. Percepì che in quel locale che portava il suo nome e che a lui era ispirato succedeva spesso qualcosa di positivo. “Questo non accade da altre parti, in altri luoghi.” gli disse più d’uno con il quale si era fermato a fare due chiacchiere. Trascorse ancora qualche ora, o qualche giorno, tanto nel suo mondo il tempo contava poco, e l’orgoglio si inspessì. Sentì meno freddo, capì che forse non era vissuto inutilmente, anche se il Capo Supremo gliel’aveva tentato di spiegare già molte volte. Decise che poteva bastare: voleva tornare nel suo mondo per vedere se si sarebbe trovato ora più a suo agio. Purtroppo non possedeva quel tipo di moneta con la quale generalmente si pagavano le merci in quel posto, in quell’epoca; ma per bontà dei gestori riuscì a sdebitarsi del caffè portando nel contenitore delle immondizie un bel sacco carico di rifiuti. Raggiunse quindi Cosini e Bloom che erano sempre allo stesso angolo. Uno spense la cicca, l’altro depositò la fiasca nella tasca interna della giacca, e risalirono per la medesima strada dalla quale erano discesi. Si rituffarono nell’intensa nebbia, ma questa volta chi conduceva la marcia era il nostro eroe, che fremeva per tornarsene a casa. Cosini e Bloom arrancavano alle sue spalle. Dopo qualche ora, o qualche giorno, o forse più, i nostri ritrovarono il loro mondo. Al tavolo di Ivan, Dimitrij e Aleksej c’era sempre una sedia libera, e i tre erano ancora di malumore perché non riuscivano a iniziare la partita. Il nostro allora, timidamente, si avvicinò loro e chiese se fosse possibile aggregarsi alla compagnia. Dimitrij esclamò: “V kontse kontsov, yebat!”*. Ivan fece le carte e lui iniziò a raccontare della sua avventura. I tre fratelli lo stettero ad ascoltare per tutta la durata della partita con una certa quale invidia. Un estimatore *Finalmente, cazzo! Staricake illegal Con una forchetta riduci in poltiglia 500 g di polpa di zucca cotta al vapore, mettila in una terrina e aggiungi 100 g di zucchero di canna, 100 g di farina di grano saraceno, 100 g di mandorle tritate, 100 g uvetta ammollata in acqua tiepida, 1 o 2 mele tagliate a cubetti, la buccia grattugiata di un’arancia, 2 o 3 cucchiai d’olio, un pizzico di sale, qualche pizzico di cannella. In forno a 180 gradi per 35-40 minuti. Una volta raffreddata dai una sploverata di zucchero di canna e una manciata di mandorle macinate. Ti sei accorto che questa è una torta vegana? Mangiatene una bella fetta ascoltando “Meat is murder” degli Smiths, un vero e proprio inno al vegetarianesimo (by dj Ombra). Peace&love! Nonna Papera P.S.: attento al 21 marzo…