LiberArti, emporio dell’arte
María Sánchez Puyade, artista e scrittrice di origine argentina, vive ormai
da anni a Trieste, dalle parti di Città
Vecchia. Ha realizzato un progetto d’arte meticolosamente pensato,
studiato e desiderato che ha trovato
spazio e tempo in piazza Barbacan:
LiberArti, emporio dell’arte.
LiberArti è il nuovo emporio dell’arte
di Città Vecchia, nato da pochi mesi,
ma che ha già visto un notevole afflusso di interessati: per questo vorrei
chiederti, María, di spiegarci da che
cosa è nata l’idea di creare questo
tipo di progetto, in che cosa consiste
e qual è l’obiettivo principale.
Il progetto nasce dalla stanchezza.
Una stanchezza micidiale. Peggio: nasce dalla noia. Avevo l’impressione di
dormire, lavorare, mangiare, leggere,
cambiarmi, dire qualche cosa tipo:
Come’è? Bene, con te? E basta.
Ero stanca. Avevo bisogno di cambiare. E poi, soprattutto, avevo bisogno di
crederci ancora.
Da tempo mi frullava per la testa l’idea di uno spazio per artisti. Non per
artisti visivi soltanto, o per scrittori, o
per artigiani, bensì uno spazio multidisciplinare, dove si cercassero forme
e linguaggi nuovi. Volevo riavvicinare
la gente all’arte, e gli artisti tra di loro.
Lanciare un concetto d’arte quotidiano, cioè un’arte da vivere, un’arte
da mettere nel salotto di casa, sulla
scrivania, all’occhiello; quell’arte che
ci permette un rapporto di comunicazione tra l’oggetto, noi e il suo autore, per quanto questo sia lontano nel
tempo o nello spazio.
Bisognava dare un prezzo all’oggetto.
Il progetto doveva fatturare, doveva
avere un fine di lucro e non di esposizione, divulgazione e basta. Volevo vi-
vere e far vivere di e con l’arte, anche
se il settore pubblico per il momento
questo non l’avrebbe capito.
Così è nato: dalla credenza che la
cultura vada vissuta ogni giorno, nel
modo in cui allestiamo la tavola, se al
posto di mettere un poster mettiamo
un disegno che ha fatto qualcuno che
non è molto quotato, però ci ha messo l’anima dentro; nel modo in cui regaliamo un fiore, allestiamo una vetrina, sorridiamo per strada, cuciniamo
un piatto di pastasciutta o leggiamo
una poesia. In un modo poco chic ma
molto romantico.
L’ipotesi dalla quale parte questo progetto è il Manisfesto della Cultura del
Sole 24 Ore. La cultura fattura. Infatti, uno dei suoi articoli dovrebbe dire
così: l’Arte è vita. Svegliati, meglio
essere tra i vivi!
In quanto al modus operandi di
LiberArti, posso svelare che è più
o meno così: si cerca un tema, uno
spunto, un filo, qualcosa che serva
da sperone. Poi vengono chiamati
gli artisti (a volte sono a loro a
chiamare me) e messi in contatto
tra loro. Si fissa una data cabalistica,
che dica qualcosa, che sia di per sé
comunicativa. Penso al filo che terrà
insieme le opere. Durante quattro
giorni si allestisce lo spazio. Dopo, per
il tempo che dura la mostra, metto
sul sito le opere in vendita per l’ecommerce. E voilà: si parte. Si inizia a
pensare alla prossima avventura.
La scelta del nome LiberArti suppongo che non sia casuale, giusto?
LiberArti è quello che vorrei raggiungere, un giorno o l’altro.
LiberArti è quello che l’arte ha da
offrirci: le arti liberali, un insieme di
conoscenze per essere liberi: un tutto
che non va spezzato e che permette
l’esercizio dello spirito, che è anche
corpo. Un tutto che è una ricerca personale, che è sempre diverso, che ci
sfida a conoscerci sempre di più.
Qual è stato il motivo che ti ha spinto
a scegliere Città Vecchia per far nascere il tuo progetto?
Innanzitutto, mi piaceva l’idea di raggiungere il lavoro a piedi, quindi cercavo qualcosa vicino a casa. Ho scelto
invece di vivere in Città Vecchia per
l’aria rarefatta, un po’ malaticcia del
rione, quella sua aria da porto e da
bordello, che purtroppo sta svanendo.
Infatti amo l’ormeggio del Molo Audace. Con la bora vado lì, a guidare
quella specie di timone.
Secondo, Barbacan è per me una delle
più belle e più dimenticate piazze di
Trieste.
Terzo, e non meno importante, le bellissime vetrine, dove prima c’era una
fumetteria ben nota a Trieste e oggi
c’è LiberArti, mi attiravano da un pezzo, come le vetrine di un luogo magico,
un gabinetto delle curiosità (intendo,
per gabinetto, non il cesso, ma quella
antichissima stanza dove dicono siano
nati, ahimè, i musei moderni).
Fin’ora hai già allestito due mostre
e organizzato tre eventi dedicati alla
lettura, alla poesia, all’arte, sempre in
comunicazione tra di loro, tra cui l’attuale esposizione di Gothic Beauty,
che rimarrà allestita fino all’arrivo della primavera. Qual è stato il riscontro
che hai avuto da parte dei visitatori?
Ci sono diverse forme di leggere la
realtà. Una è attraverso le persone,
un’altra attraverso i numeri.
Io preferisco pensare alle persone,
anche perché se penso ai numeri mi
viene il mal di testa.
Se penso alle persone, invece, devo
dire che i riscontri sono allettanti.
Non c’è una via di mezzo riguardo a
LiberArti. Ci sono due posizioni ben
precise. Un caso è quello della giovane designer che ha partecipato all’Open Design Italia tenutosi a novembre
a Venezia. La ragazza era venuta da
queste parti, la scorsa estate, ed era
rimasta folgorata dalla vetrina di LiberArti. Come lei ci sono stati tanti artisti, tanti bambini che fanno fermare
i genitori, i turisti e, certo, gli amanti
dell’arte. Sono in tanti a fermarsi e a
farmi sentire che quello che stiamo
facendo è una cosa bellissima.
L’altro caso è la persona che invece
guarda in fretta, si chiede quasi arrabbiata cosa sia mai, e scappa via.
Oppure la persona che nemmeno si
ferma.
Questi sono i riscontri. Poi ci sono i
numeri. I numeri oggi sembrano un’equazione troppo difficile.
Partendo dalla tua nuova esperienza con LiberArti, come percepisci il
vivere e il vissuto di Città Vecchia in
chiave artistica? Qual è il tuo modo
di viverla? Ci sono, secondo te, degli
aspetti negativi che potrebbero essere migliorati all’interno del sentire di
Città Vecchia?
Percepisco diversi gruppi che lavorano
isolati. Anch’io per il momento faccio
così, ma sto già provando a cambiare.
Un modo per migliorare è lavorare insieme. Aprirci al nuovo, a tutto quello
che arriva da fuori. Trieste è un porto
e perciò ha il compito di guardare oltremare.
Per farlo sono convinta che servano il
lavoro e la ricerca in gruppo. Il rione
sta diventando un fulcro. Il turismo è
salito del 10%, se non sbaglio, l’ulti-
n.-4 febbraio 2013
Il primo
foglio
ma estate. Cavana è ormai una zona
pedonale molto frequentata: d’estate
piazza Barbacan attira sempre più
gente. Tanti commercianti e tanti ristoratori sono aperti a collaborare
col mondo dell’arte. Manca solo che
il pubblico collabori col privato, ma
forse è una questione di mesi.
A me interessa questo dialogo, oltre
alla ricerca e al contatto col pubblico.
Mi interessa mettere insieme diverse
realtà, diversi linguaggi. Organizzare eventi che vadano a beneficio del
pubblico e del privato. Se i commercianti, i ristoratori, gli artigiani diventano consapevoli del beneficio che
possono trarre da un quartiere artistico, magari riusciamo a creare una
nuova realtà: per noi, ma anche per
altri che, come noi, stanno cercando
di tirare avanti la carretta.
Per concludere, ci puoi dare un indizio di quali progetti hai in ballo per la
primavera?
Intorno al primo di aprile ci sarà la
nuova mostra, incentrata sull’illustrazione e i disegni.
Per metà luglio, invece, stiamo organizzando il primo festival di Street Art
a Trieste.
Vediamo dove arriviamo insieme!
non periodico,
senza padroni
e padrini,
partecipato
di Trieste
Invia il materiale che vorresti veder pubblicato a [email protected] articoli/poesie/foto/disegni/idee/ricordi/notizie…
Diciott’anni
in evoluzione
Il 17 Febbraio In der Tat diventa maggiorenne. Sì, 18 anni di attività di
spaccio di libri alle spalle, che per tutti
quelli che ne hanno preso parte ha la
stessa importanza e cade nella medesima data del rogo di Giordano Bruno,
della prima edizione della Treccani o
dell’inizio di Mani Pulite, per citarne
solo alcuni.
Non abbiamo voluto far consuntivi,
apologia, autocelebrazione, né tantomeno illustrare futuri progetti, difficili
anche solo da immaginare nel sempre
più fosco e incerto mondo in cui viviamo. Saremo sempre “in evoluzione”
come ricorda il nome che ci siamo
dati, valuterete voi dove ci avrà portato. Per il passato, prossimo e remoto,
vi regaliamo alcuni flash cronologici di
quello che siamo stati…
Francesca Schillaci
Per saperne di più si può scrivere a:
[email protected]
o passare in piazza Barbacan 1/a Trieste
www.emporioliberarti.it
Disomofobiamo Trieste Cos’è la geologia?
interni da parte dello Stato estero del
Vaticano.
Dove sarebbe la provocazione?
Chi istiga alla violenza, alla denigrazione della dignità è stato chi ha violentato la dignità dell’essere umano e
chi sostiene tale complicità; e non certamente chi si è visto negare un diritto
democratico e fondamentale.
Trieste ha vissuto l’ennesima pagina
buia di quella che io ora definisco
#Vaticanocrazia.
Si è rifiutato il compromesso, quello
di Piazza della Borsa, e si è deciso di
non scendere in piazza, lasciando un
vuoto.
Un vuoto silenzioso che manifesterà,
paradossalmente, con la non presenza dei manifestanti, tutta la forza e la
violenza del dissenso, un vuoto che
rappresenterà quel vulnus che oggi
vive la nostra malata democrazia.
Il 2013 vedrà come tema prevalente
proprio la battaglia contro l’omofobia
e a Trieste, salvo imprevisti, verrà realizzata una grande manifestazione
nazionale su tale tema.
A parer mio, criticando la campagna
istituzionale contro l’omofobia e mutando la direzione da essa imposta,
l’omofobia è un’avversione motivata
e razionale alle persone omosessuali;
non immotivata e irrazionale, come
sostenuto invece dalla detta campagna.
L’omofobia non è una malattia, cosa
che veniva sostenuta sempre dalla
campagna del Governo: è uno stato
pregiudiziale, fomentato da falsi valori conservatori e tradizionali, il cui
unico scopo è preservare quel potere
secolare che arde ogni speranza di
umanità.
Una società sarà libera di essere comunità solo quando lascerà affondare
nelle acque dell’oceano della memoria perduta quel sentimento di odio
razionale (perché figlio di un’idea
pensata e coltivata) e motivato (perché figlio della peggiore ignoranza di
stato) che alimenta ogni fobia verso
l’individuo.
Non parlerò di differenza, perché parlare di differenza vuol dire riconoscere
l’essere diverso: nessun essere è diverso, siamo tutti esseri umani.
Vi sarà il vero no all’omofobia solo
quando lo Stato sarà libero dal potere
secolare di quella Chiesa, anche istituzionale, che giustifica e istiga ogni
fobia verso il diritto a vivere in libertà
la vita umana, e con il pieno riconoscimento di tutti i diritti civili, ivi inclusi
quelli che tradizionalmente vengono
riconosciuti esclusivamente alle famiglie tradizionali.
Fino a quando ciò non accadrà, le carte costituzionali, i trattati, le campagne, saranno solo delle pagine bianche, vuote, il diritto sarà solo diritto
astratto.
Riempiamo la nostra agenda quotidiana con il diritto a essere umani.
Se vuoi, puoi: e io lo voglio.
Marco Barone
Blog: http://xcolpevolex.blogspot.it/
Secondo l’etimologia della parola, è
una scienza che studia la Terra, la sua
storia, in particolare la crosta terrestre
e i suoi strati di roccia. I geologi sono
quindi scienziati capaci di studiare e
comprendere la struttura morfologica dei terreni su cui viviamo e su cui,
spesso, edifichiamo.
Ciò che è avvenuto sopra il cantiere
di via del Teatro Romano dimostra
che ci può essere un rischio di incomprensione di tale struttura; specie se
accade, cosa umanamente possibile,
che alla capacità di studio del terreno
si unisca l’iniziativa imprenditoriale,
che deve naturalmente tener conto
dei costi e quindi dell’investimento
di capitale, e che deve in ogni caso
portare a degli utili d’impresa, cioè a
dei profitti. È questa una logica a cui
è difficile, se non proprio impossibile,
sottrarsi… A meno che i geologi non
restino solo scienziati, studiosi della
crosta terrestre, del suolo cioè su cui
viviamo tutti e che è quindi un bene
comune la cui struttura va difesa a
ogni costo (certamente possono verificarsi terremoti, specie in presenza di
faglie o in vicinanza di sistemi vulcanici; e infatti sismologi e vulcanologi
sono, prima di tutto, geologi).
Auguriamoci tutti che ciò che è successo alle case di Rena Vecia non succeda più, cercando di dare fiducia al
geologo che ha diretto i lavori. Con
una seria riconversione produttiva,
molti lavoratori edili potrebbero essere rivolti al restauro di un vasto
parco edilizio già esistente; diciamo,
per esempio, di numerose scuole pubbliche.
Certo, ciò dipende soprattutto dalle
scelte e dal tipo di gestione del territorio da parte delle amministrazioni
pubbliche.
Coscienza critica
CitaveciaStarigrad lo trovi da: Libreria Indertat, bar-libreria Knulp, erboristeria La
Raganella, Casa della Musica, panificio Romi.
[email protected] - FIP - Trieste - via Madonna del Mare 7/A
interventi Luca Alberto Susanna Sara / Lorena Buttò e Pietro Da Dalt / BruBru /
Un estimatore / Nonna Papera / Francesca Schillaci / Marco Barone / Coscienza critica
editing Francesca Giorgini / foto Sergio Pancaldi - BruBru - Pietro Da Dalt / grafica Plip
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Marionetta di Sergio Pancaldi
Venerdì 21 dicembre alle ore 17, sotto
il palazzo della Curia in via Cavana a
Trieste, il Circolo Arcobaleno ArcigayArcilesbica di Trieste, insieme a un
gruppo di cittadine e cittadini, aveva
organizzato un sit-in di protesta contro le recenti dichiarazioni omofobiche del Papa, che ha attribuito alle
coppie omosessuali la volontà di danneggiare, destabilizzare e oscurare la
famiglia.
Per ragioni di ordine pubblico e di
turbativa della sicurezza, la protesta
sotto il palazzo della Curia è stata
vietata, concedendo invece un presidio nella solita piazza della Borsa di
Trieste.
Probabilmente le ragioni di ordine
pubblico che hanno determinato questa scelta scellerata sono due: le recenti contestazioni contro il rigassificatore (che hanno visto l’interruzione
di un convegno presieduto dal locale
Vescovo) da un lato e il periodo natalizio dall’altro.
Già, perché protestare sotto la Curia
a pochi giorni dal Natale non si può
mica fare. Sarebbe una provocazione
che turberebbe il loro Natale, quello
della Chiesa.
Tutto credibile perché successo.
La Questura, probabilmente su pressione diretta o meno del clero, ha
deciso di porre un divieto intollerabile,
ingiustificabile, inaccettabile.
Questo Paese, che sarebbe sulla carta
laico, dunque aconfessionale, patisce
ogni giorno l’ingerenza negli affari
Luca. All’inizio volevamo una cooperativa, e tanto ne abbiamo discusso,
soprattutto sul “cosa”, legato al territorio, alla città, alla nostra terra. E infatti Terra Rossa l’abbiamo chiamata,
come quella del Carso, ferrosa e pietrosa, dura e bellissima. Colore della
bandiera che avremmo voluto veder
sventolare su di essa.
Contribuire, volevamo, alla circolazione delle idee, dei racconti e delle
azioni che possono far bello il mondo,
belle le persone, attraverso un mezzo
che tutti noi amiamo: i libri e le persone che li scrivono.
Una libreria dunque particolare, diversa, che ancora da noi non c’era. Ci siamo incontrati molte volte e abbiamo
valutato e considerato molti aspetti…
Una sera piovosa si andava, io e Alberto, a casa di Andrea: dovevamo
trovare un nome per la nostra creatura. Avevo una bottiglia nella borsa,
per la cena. Non ero mai stato a casa
sua e si guidava piano con le nostre
due ruote per cercare il numero civico.
A terra è bagnato e frenando la mia
vespa scivola e volo per terra, quasi
sulla porta di casa, rotolando proprio
sulla borsa con la bottiglia… che rimane intatta! Ho visto in questo un
buon auspicio: rimanere integri anche
negli accidenti. Forse proprio in quella
serata abbiamo battezzato la libreria,
Andrea lo ha proposto e ci è piaciuto
subito. L’immanenza, la dinamicità e i
diversi significati del divenire nell’e-
strema concretezza di un attimo che
si rinnova nel momento in cui è, in tre
parole: IN DER TAT.
Alberto. Far presentare il libro a un
brigatista rosso… E mica a uno qualunque, a Prospero Gallinari, uno dei
sequestratori di Moro. Ci abbiamo
pensato per un bel pezzo, già ci avevano etichettato come libreria comunista (cosa che mi ha fatto sempre
ridere, visto che nessuno di quelli che
ci ha lavorato lo è mai stato, probabilmente neppure ha mai votato PCI e
successori), con questo avremmo avuto il marchio per sempre. Decidemmo
comunque di fare la presentazione,
non si sarebbe parlato di terrorismo,
ma di carcere, del senso che ha nella
nostra società, di come cambia le persone, di cosa significa. Mai abbiamo
avuto tanta affluenza come in quella
occasione, la gente assiepata e appollaiata ovunque, le porte d’ingresso
spalancate per permettere a chi non
era riuscito ad entrare di sentire comunque qualcosa. Ascoltare un uomo
malato, in semilibertà, raccontare a
bassa voce cos’è il carcere, cosa significa pagare il debito con la società,
riabilitarsi, il nonsense dell’ergastolo.
Ancora oggi, dopo tanti anni, mi tornano alla mente certe frasi di quella
sera, quando sento qualcuno urlare,
spesso con estrema facilità, che bisognerebbe mandare, nei più svariati
contesti, “certa gente” in galera.
Susanna. Ecco, fatto il grande passo:
la libreria si compra. Paura, ovvio,
slancio, va da sé, e il proprio tempo
completamente a disposizione di
quelle quattro mura da ristrutturare.
Soldi zero ma entusiasmo da vendere
e fretta, tanta fretta di finire i lavori
prima possibile. Quindi… “facciamo
tutto noi”. Uscivo di casa la mattina
vestita con pantaloni militari e anfibi
con la punta rinforzata, divisa anticonformista? Da compagna di centro
sociale? No, da manovale. Rivedo la
parete che buttai giù a colpi di mazzetta da un chilo. E rivedo il tipo, impresario edile a cui avevamo chiesto
un parere su alcune cose, che dopo
avermi osservata mentre facevo la
malta e la buttavo su, mi disse “ehi,
se qua le cose vanno male, sappi che
ti assumo io”. Era ancora tutto al
grezzo, ma il grosso era finito. Certo
non fu la classica festa di inaugurazione, con tutte le cose finite e precisine,
ma l’energia che girava là dentro quel
giorno era fantastica e la ricordo con
gioia. Ora, a distanza di anni, continua a girarmi in testa una domanda:
“ma perché non accettai la proposta
di quell’impresario?”.
Sara. Alla ricerca del libro perduto.
Ci sono molti tipi di clienti, si sa.
Ci sono quelli che entrano sapendo
già cosa vogliono e tu non devi fare
altro che procurarlo. Facile e piacevole.
Ci sono quelli che non sanno cosa
cercano e vanno a zonzo tra tavoli e
scaffali; questi mi incuriosiscono sempre: cosa sfoglierà la signora? Cosa
cercano quei ragazzi? Cosa sceglierà
alla fine il tipo? Insomma dimmi cosa
leggi e – un poco – mi dirai chi sei.
Ci sono quelli che sanno cosa cercano, ma non sanno – ancora – che
non lo troveranno mai. Pubblicazioni
degli anni cinquanta mai ristampate,
edizioni accademiche cinesi o albanesi, opuscoli autoprodotti degli anni
settanta… E qui la delusione, tua e
sua, è quasi assicurata, ma ci provi comunque, che nella vita non si sa mai.
E se per caso scovi l’ambito cimelio, è
sempre festa grande.
E poi ci sono i clienti che preferisco,
quelli che sanno bene quel che desiderano, ma non sanno dove trovarlo.
E ti si presentano con le curiosità più
strane e i più vari desideri, dall’iconografia religiosa coreana alla letteratura postcoloniale portoghese,
dagli spazi sociali negli anni ottanta
a “qualcosa sulle scarpe”. E allora ti
lanci, tra ricerche al computer e memoria di mestiere, senza ovviamente
scordarti di disturbare qualsiasi amico
vagamente competente in materia…
Puoi passare ore immersa in una ricerca e alla fin fine ordinare, forse,
un solo testo. Forse non sarà così che
gira l’economia, ma trasmetti culture
e diffondi saperi. E a volte tanto basta.
Questo patchwork di ricordi e riflessioni è tutto nostro, di chi se ne è andato e di chi ancora ci lavora. Il nostro
grazie collettivo va agli innumerevoli
amici che ci hanno aiutato e a chi ancora apprezza ciò che facciamo.
I graffiti
Febbraio 1956
ovvero il ritratto della l’avventura di due ragazze di Trieste che…
società contemporanea Nel febbraio 1956 furono mandate, Una nave tutta bianca e immensa, la
Se un cittadino qualunque percorre le
strade interne di un quartiere di Trieste,
ad esempio Città Vecchia, il mio quartiere, potrebbe vedere sui muri vari segni grafici.
Usciamo dal giudizio morale, si fa o non
si fa: osserviamoli soltanto… Cosa ci
dicono? Perché uno imbratta o colora i
muri? Arte o violenza? Espressione sociale o crimine?
Anni fa, nel periodo 70-80, la street art
veniva pensata come un movimento di
ribellione di una categoria di persone
che apparteneva ai ceti poveri, disadattati.
In realtà il graffito si è affermato come
una corrente artistica i cui protagonisti
vengono da orizzonti diversi: diventa
così divertimento, denuncia e rivendicazione.
Di ciò è un ottimo esempio Keith Haring, l’artista che a New York negli anni
ottanta aveva dipinto le fermate della
metropolitana con il suo omino, che
avrete sicuramente visto. Ora le sue
opere sono esposte nei più grandi musei del mondo, accanto a Picasso. L’arte
di strada gode di grande considerazione in Europa e altrove, si organizzano
anche dei festival internazionali, dove i
vari writers si incontrano collettivamente per realizzare dei dipinti unici. Anche
Trieste ha visto realizzata nel 2000,
in piazza dell’Unità d’Italia, un’opera
splendida di Bruno Chersicla eseguita
da quasi seimila persone: raffigurava il
ratto di Europa… Vi ricordate la donna
a cavallo del toro?
Vorrei ora introdurvi a un concetto molto importante per comprendere il senso
dell’arte di strada.
Il graffito non si improvvisa: è il risultato
di uno schizzo che viene elaborato, per
poi diventare disegno in scala adeguata
su di una parete; invece il tocco veloce, la scrittura improvvisa, la tag, come
viene chiamata nel mondo anglosassone, è quel bisogno cronico di incidere il
proprio nome d’arte o la propria firma
su cose non proprie. Graffito e tag sono
diventate visioni quotidiane del nostro
tempo.
Portano il tema dell’ADESSO. Adesso
disegno. È tutto temporaneo. Domani
sarà tutto cancellato: dalla pioggia, dal
sole oppure dal padrone dello stabile
con un pennello intriso di bianco. Tutto
con una vita molto breve.
Una manifestazione d’arte che porta in
sé la precarietà, lo humor e altri temi
scottanti o politici del nostro tempo.
Lorena Buttò e Pietro Da Dalt
Foto di Pietro Da Dalt
spedite in una terra lontana e immensa
di bellezza, con le case fatte di legno
e sulle pile, con immensi giardini, pieni
di roseti, di alberi di mango, di dolcissime papaie e di banani, dove facevano
il nido le paurose pelose vedove nere,
piena di canguri, di bellissimi koala,
piena di insetti velenosi, di termiti, tanti serpenti, contornata da tanti oceani
pieni d’acqua piena di pescecani, di
barracuda, di meduse urticanti, coperta
da un cielo di un azzurro infinito, con
le stupende stelle della Croce del Sud,
piena di tanti australiani e di pochi, perché sterminati, aborigeni, il vero popolo
d’Australia.
Nel 1951 fu stipulato tra Italia e Australia un accordo bilaterale di emigrazione
assistita con il supporto del Cime (Comitato intergovernativo per le migrazioni europee). Le selezioni erano durissime, persino spietate.
Per essere ritenute idonee all’emigrazione occorreva superare una lunga
serie di esami sanitari e ottenere il beneplacito delle autorità di polizia che
accertavano la non appartenenza al
Partito comunista o al Movimento sociale.
Prima di avere il permesso di partire
furono sottoposte a visite mediche, a
esami di tutti tipi, visite ginecologiche,
tutto molto invasivo e umiliante, chi
partiva con una qualifica doveva fare la
prova d’arte, una partì con la qualifica
l’altra come generica, per poter partire
assieme.
Se si veniva scelte si doveva sottoscrivere un tipo di contratto per cui dopo
arrivate si doveva rimanere in Australia
almeno per due anni, altrimenti si doveva pagare una quota per aver usufruito
dell’assistenza del Cime.
Tutte le ragazze selezionate come lavoratrici (nella stragrande maggioranza
domestiche) erano nubili o sposate per
procura. Il governo australiano dichiarava il numero di emigranti che voleva
accogliere e specificava le caratteristiche professionali che avrebbero dovuto
avere.
Partirono con altre centocinquanta ragazze da Trieste il 22 febbraio 1956.
C’era gelo dappertutto, la città era tutta coperta di ghiaccio e loro, appese ai
finestrini del treno, con le facce che volevano mascherare il dolore che stava
per lacerare il loro cuore, sorridevano a
quelli che le avevano accompagnate. Il
viaggio per arrivare alla nave era stato
pieno di stati d’animo, un gran vuoto
nel cuore, sembrava che fossero entrate in un tunnel che diventava sempre
più nero, senza fine, ridevano istericamente, piangevano, molte per stordirsi
bevevano e facevano un sacco di scemenze, loro erano lì a guardare senza
capire ancora cosa stava veramente
succedendo. Dopo ore di ripensamenti
finalmente il treno le portò a Genova,
dove c’era una nave che le aspettava
per portarle lontano.
Fairsee. Hanno il cuore pieno di speranza e di sogni. Sono in attesa di sentire la sirena che strazierà il loro cuore.
Stanno lasciando casa e tra poco si
ritroveranno immerse nell’ignoto. Dopo
trentasei giorni di mare si trovarono
nella rada del golfo di Melbourne, per
quasi due giorni non poterono entrare
in porto perché il mare era fortissimo e
la nave aveva un fortissimo beccheggio.
Il viaggio fu un’esperienza unica, anche
se la partenza fu dolorosa e lacerante.
L’arrivo fu peggio: la nave attraccò alla
banchina, in quel momento si resero
conto che non era più possibile tornare
indietro.
La banchina del porto era di legno e
questo le portò a ricordare i film che
mostravano l’arrivo di poveri emigranti
che arrivavano in America stipati nelle
stive delle carrette del mare verso i primi del ’900, in quel momento si resero
conto che erano delle emigranti pure
loro.
Salirono i personaggi dell’ufficio immigrazione e del lavoro. Incominciò nuovamente la trafila degli accertamenti,
passaporti salute conoscenza delle
lingue; una delle ragazze conosceva
un po’ di francese, inglese scolastico
e una discreta conoscenza della lingua
tedesca ed era esperta nella confezione
e creazione di capi di abbigliamento,
questo servì a farla comunicare con un
funzionario dell’ufficio del lavoro che
parlava tedesco, sarebbe stato disposto
nel caso avesse avuto delle difficoltà a
trovarle lavoro dopo sbarcata. Passarono delle ore prima di poter scendere a
terra, molte erano le persone che aspettavano che i passeggeri scendessero,
erano lì per qualche parente, qualche
fidanzata, qualche moglie sposata per
procura.
Ci furono delle scene veramente tristi,
delle ragazze che si erano sposate per
procura si rifiutavano di scendere dopo
aver visto da lontano lo sposo. Urlando
non può essere quello; nella fotografia
era diverso, ci hanno imbrogliate vogliamo ritornare a casa.
Purtroppo non si poteva tornare indietro, la merce doveva essere sbarcata.
La vicina di casa aveva chiesto alle
ragazze di portare un pacco con degli
scarponi alla figlia che si trovava con il
marito a Melbourne, che sicuramente le
avrebbe accolte volentieri. La figlia della vicina ritirò il pacco, disse telefonatemi e si dileguò.
Nessuno aspettava le ragazze.
Rimasero attonite. Alla fine restarono
tra quelle che non erano state prelevate né da parenti né da sposi, furono
trasportate in un campo di accoglienza
per sole donne. Il campo assomigliava
a una caserma, da lì venivano smistate,
rimasero nel campo per quasi tre settimane.
Nel frattempo arrivavano delle “signore bene” che avevano delle fattorie e
volevano delle donne di servizio, così
si portavano via le ragazze ingaggiate
come generiche, così volevano prendere pure la ragazza più giovane, chissà
dove l’avrebbero mandata, allora la sorella più grande disse: Assumo io mia
sorella, siamo partite assieme e non ci
separeremo.
C’era un’assistente sociale italiana che
faceva pure l’interprete, era tremenda e
trattava le ragazze in modo disumano,
diceva: Ringraziate che vi proteggiamo
e vi stiamo dietro altrimenti stareste in
qualche strada a fare il mestiere. Questa purtroppo era l’idea e l’opinione che
si era fatta la massa delle persone che
aveva visto tutte quelle ragazze partire da sole. In quegli anni purtroppo la
mentalità era molto ristretta, erano tutte donne di malaffare.
Per questo le ragazze si sentirono molto umiliate quando l’assistente sociale
si incavolò per la loro impudenza e le
fece espellere dal campo. Trovarono un
posto dove stare presso certe suore che
davano ospitalità, letto, colazione, e un
po’ di cena a pagamento. Pagavano
quattro sterline a testa per settimana,
così per avere del denaro vendettero
tutto quello che avevano d’oro, anelli,
orecchini, catenelle.
La ragazza qualificata corse a cercare il tizio che parlò con lei in tedesco
e questi le trovò subito lavoro in una
fabbrica. Il giorno dopo andò in quella
fabbrica, per arrivarci dovette prendere un treno, un bus, un tram e fare un
tratto a piedi. La misero davanti a una
macchina da cucire, vicino un grande
cesto pieno di gonne da confezionare,
in otto ore di lavoro doveva confezionare novantadue pezzi e questo per cinque giorni a settimana, e tutto ciò per
una paga settimanale di sette sterline e
qualche scellino, una miseria. Un uomo
per portare i cesti alle operaie, e non
doveva stare incollato alla macchina
per otto ore come le povere ragazze, si
prendeva tredici sterline e qualche scellino. Per questo richiedevano personale femminile, e poi le donne servivano
pure per far aumentare la popolazione
della grande Australia.
Le ragazze vivevano tutto ciò come un
incubo, sentivano di esser state robotizzate, abbandonate, non riuscivano
a comunicare, avevano la sensazione
di essere delle sordomute, tutto ciò le
faceva sentire che a essere donne si
era di una razza inferiore, serve, fattrici, macchine, le umiliazioni erano troppo dolorose, così le ragazze chiusero il
cuore ai sentimenti. Fuggivano da tutto
ciò che poteva coinvolgere le emozioni,
per sopravvivere avevano fatto inaridire
ogni cosa che si riferisse all’amore, al
cuore ai, sogni. Il ritmo della loro vita
si dipanava tra alzarsi all’alba, correre
al lavoro, essere impegnate per otto ore
su delle macchine infernali, perdere altre due ore per ritornare al loro giaciglio
che si trovava in una squallida stanzetta
in subaffitto in casa di un altro emigrante di razza anonima, doveva essere forse
turco, che voleva aiutarle e chiedeva un
affitto da strozzino, e faceva la morale
se qualche volta rientravano un po’ più
tardi perché avevano perduto il treno.
Cercava di piazzare dei suoi conoscenti
maschi che cercavano moglie, li presentava alle ragazze come fossero dei partiti da non perdere, anche questi di razza
anonima, con un aspetto e una presenza non sicuramente da far invidia a un
Adone, e in più non brillavano per una
mentalità e un’intelligenza superiore.
Alle ragazze mancava tanto il suono
della loro lingua, il poter leggere, essere informate. Non c’erano giornali o
libri nella loro lingua, e questo le faceva sentire ancora più lontane più sole
più abbandonate. Il tempo passava e
non sapevano come fare per far sì che
la così chiamata famiglia potesse raggiungerle, erano state mandate in questo paese per preparare la strada per il
richiamo, per il padre e per la madre. La
terza ragazza (la sorella più piccola) che
era rimasta a Trieste con i genitori poteva partire senza bisogno del richiamo.
La ragazza più grande scrisse a casa di
non lasciare che la sorella più piccola
partisse da sola, doveva partire assieme ai genitori, per non far subire anche
a lei quello che avevano subito le due
ragazze, a tutte le ragazze che partivano da sole affibbiavano l’etichetta di
puttane. Per poter fare questo richiamo
dovevano trovare qualcuno che assicurasse un lavoro per il padre e una casa
dove potessero abitare al loro arrivo.
Questo risultò molto difficile perché le
ragazze non sapevano come fare, a chi
rivolgersi, questo implicò per loro un
ennesimo stress, si sentivano ancora
più sperdute.
La ragazza numero uno decise che doveva assolutamente cambiare lavoro
perché non poteva sostenere quel ritmo
di vita, in tre mesi aveva già cucito più
di 5500 gonne. Iniziò a frequentare dei
locali dove passavano diversi italiani, e
così con il loro aiuto si mise a cercare
sui giornali le offerte di lavoro, scelse
quelle che pagavano meglio per la sua
qualifica, trovò una richiesta di “designer and cutter”, disegnatrice di modelli e tagliatrice, per cui offrivano ben
25 sterline alla settimana. Si presentò,
però c’erano già diverse ragazze australiane che aspettavano, pensò: Non
ci sono molte speranze, era l’ultima,
quando entrò sentì parlare in tedesco.
Si presentò mostrando le foto della sfilata di moda che aveva fatto a Firenze,
espose la sua qualifica parlando in tedesco, il capo era un ungherese che si
chiamava Mister Sayers, le disse che l’avrebbe chiamata, la ragazza non accettò quella risposta, gli disse che doveva
saperlo subito perché aveva anche altre
richieste. Così Mister Sayers, che aveva
qualcosa di umano, le disse: OK!
Il lunedì seguente iniziò il suo prestigioso lavoro, era una disegnatrice di
modelli, creava moda. Questo inizio
l’aiutò a riprendere un po’ di fiducia in
sè stessa. C’era un’altra ragazza che lavorava con lei, si chiamava Gail ed era
australiana, simpatizzarono subito, così
cominciò con fatica a tirare fuori quel
poco di inglese che aveva imparato a
scuola, doveva assolutamente impratichirsi con quella lingua, non voleva più
sentirsi come una sordomuta.
La ragazza numero due nel frattempo
aveva provato a lavorare come cameriera nei posti dove si trovavano gli
italiani, e così anche lei aveva smesso
di attaccare milioni di ganci sulle 5500
gonne e più, cucite dalla ragazza numero uno.
Arrivarono i pappa.
Nei posti frequentati da italiani o ancor
meglio dove si trovavano i ragazzi di
casa loro, le ragazze conobbero due disperati, uno era partito come emigrante
e non faceva altro che parlare di sua
madre e dell’antipatia che provava per i
meridionali, l’altro non era più ritornato
sulla nave su cui si era imbarcato, era
rimasto a terra, si era fatto sbarcare in
Australia, veniva da Trieste però era di
Taranto, ma sembrava che i due fossero
amici. Le ragazze non si sa perché furono attratte (attenti a quei due!), fascino
slavo o fascino meridionale, uno biondo
l’altro moro, però tutti e due dei grandi
ruffiani, chiesero subito alle ragazze di
aiutarli a stirare una giacca, una camicia, di stare con loro perché si sentivano
soli e sperduti, però si servivano di loro
quando ne avevano bisogno. Giocavano
a carte, bevevano, cambiavano lavoro
ogni settimana, non avevano mai soldi,
scroccavano sempre da mangiare, però
erano tanto soli, facevano leva sulla solitudine e l’ingenuità delle ragazze, e le
usavano come fosse loro dovuto tutto,
perché in fondo loro le proteggevano
dalle cattiverie di altri maschi sfruttatori
e magnaccia. Purtroppo la ragazza più
giovane pensò bene di sposare il moro
di origine meridionale, non si sa quali
doti nascoste aveva scoperto in lui. Forse c’era soltanto un grande bisogno di
chiudere i suoi grandi sogni nel cassetto
che aveva lasciato nella sua casa tanto
lontana.
Si sposarono civilmente, senza comunicarlo ai famigliari lontani. Lei era una
bella ragazza, piena di vita, generosa,
di un ingenuità sconvolgente, si fidava di tutti, era una grande sgobbona,
si prodigava per tutti, aveva un cuore
pieno d’amore e di speranze. Soffriva
terribilmente di nostalgia.
La ragazza numero uno fu presa dal
fascino slavo, questi voleva ritornare
a casa da mamma sua, nel frattempo
però si faceva mantenere da lei perché
era molto sfortunato, non riusciva a tenersi nessun lavoro a causa della sua
profonda tristezza e nostalgia di casa
e mamma, la quale pensava che tutte
le ragazze che avvicinavano il suo pupo
non erano degne di lui.
Così senza aver finito il periodo di ingaggio ritornò a casa, tra le braccia
di mamma sua. Il padre della ragazza
numero uno volle conoscere la forse
futura suocera. Così si recò alla carboneria, lì trovò la forse futura suocera,
e questa gli scaricò addosso tutta la
sua grande preoccupazione per il suo
povero figliolo caduto in mano a una
puttana. La mentalità di quel tempo
era molto ristretta, così tutte le donne
che si permettevano di vivere e farcela
da sole erano considerate poco serie e
poco affidabili. Il padre fu scioccato da
questa dichiarazione fatta dalla ex for-
se futura suocera, non ebbe nemmeno
il coraggio di dirle chi era, ritornò alla
sua casa molto triste, pensando alla sua
figliola numero uno cosi ingiustamente
giudicata.
La vita delle due ragazze continuò
prendendo direzioni diverse.
La ragazza numero due, sposata, mise
subito in lavorazione un nipotino per i
nonni che aspettavano di poterla raggiungere in quella terra lontana.
Arrivarono dopo quasi quattro anni,
però la sorella numero tre era già partita da sola mesi prima, raggiungendo
la sorella numero due che abitava a
Melbourne, le raccomandazioni della
ragazza numero uno di non far partire
da sola la sorella più piccola non erano
state ascoltate.
La ragazza numero due, logorata dalla
nostalgia, dopo diversi anni ritornò a
Trieste e abitò nella casa della suocera
che si trovava in Città Vecchia vicino
l’Arco di Riccardo, e lì nacque Elisabetta.
La ragazza numero uno, rimasta nubile
per fuga del forse futuro sposo, pensò
bene di andare a perlustrare un po’
quel mondo in cui, senza volerlo, era
stata spedita nel lontano febbraio del
1956.
Io, Bruna o Brubru o ragazza numero uno, ho avuto la sensazione che in
quella nuova terra avrei potuto volare.
È una terra bellissima, grandissima, coloratissima, vecchissima.
Faceva parte del mio spirito d’avventura e di curiosità. Con una Land Rover
mi avventuravo nel territorio del Nord,
dove c’è un gran deserto, dove ci sono
le Devils Rocks, dove c’è la Montagna
Rossa Ayers Rock, dove trovi i percorsi
degli aborigeni che vivono nel sogno.
Questa parte è così grande che può
contenere 5 volte il nostro paese. Attraversai quasi tutta questa terra. In certi posti mi misi a cercare l’oro, in altri
cercai pietre semipreziose e l’opale. In
altri ancora mi unii ad altri che erano
dei cacciatori di coccodrilli.
Ero una “libera” (free lance), giravo, conoscevo e creavo moda. Ho vestito le
“signore bene” del paese.
Ho nuotato con un po’ di paura nei
mari che circondano questo continente,
mi sono sballottata nelle onde dell’oceano, ho goduto della bellezza e delle
acque della Barriera Corallina, mi sono
perduta in una piantagione di banane.
Ho assaporato la bellezza del paese, i
meravigliosi colori e il cielo che sembrava lo potessi toccare, con la Croce del
Sud che mi seguiva sempre.
Ora vivo in una casa in Città Vecchia,
dove ho una stanza rotonda che ho dipinta tutta d’oro…
Brubru
Vagabund K
Al suo risveglio si ritrovò così, come
alla fine del racconto era stato descritto, steso sotto un albero, coperto dalla
neve, con il pensiero rivolto alla sua vita
da vagabondo. In quel mondo di personaggi, di protagonisti, sentì subito di
essere un po’ fuori posto. Proveniva da
una trilogia minore, opera di un autore
discusso a proposito del suo reale valore letterario.
Vedeva intorno a sé alcuni dei grandi
che affollavano quello spazio riservato alla creazione fantastica di venerati
scrittori e narratori. Su un tavolo i fratelli Ivan, Dimitrij e Aleksej cercavano
il quarto per una partita a briscola, ma
nessuno voleva avvicinarsi loro dato il
focoso carattere che li contraddistingueva e il timore che esso generava; la
signora Emma Bovary parlava animatamente con una stremita Lucia Mondella passeggiando su sentieri sterrati
con scarpini veramente poco adatti;
Raskolnikov e il capitano Achab se la
raccontavano e un po’ se la ridevano a
proposito delle loro nefaste avventure.
Altri tipi particolari affollavano quel villaggio, ma è inutile ora star qui a perder
tempo con tali amenità: che si legga e ci
si infilino dentro i preferiti.
Da tempo ormai il nostro si trovava in
tali condizioni, emarginato e snobbato.
Si addormentava e si svegliava così, inquieto ed infreddolito.
Un giorno però, inaspettatamente, due
tipi che dalle fattezze eran senz’altro
Zeno Cosini e Leopold Bloom, gli si presentarono innanzi e dissero: “Vieni!”,
tendendogli una mano per aiutarlo ad
alzarsi e scrollarsi di dosso quella neve
ormai stagionata.
Si incamminarono per uno scosceso
sentiero e attraversarono un fittissimo
banco di nebbia, che non si vedeva un
palmo dal naso. Ma i due sembravano
procedere a passo sicuro. Trascorsero
alcune ore, forse un giorno, forse più
giorni (ma veramente il tempo nel loro
mondo aveva poca importanza), e pian
piano la nebbia si diradò, lasciando intravvedere il panorama d’una città. Era
affacciata sul mare, e alle spalle era
circondata da aspre colline che sembravano proteggerla e isolarla al tempo
stesso.
Da come il signor Cosini parlava pareva
proprio fosse la sua città.
Scesero fino al livello del mare, percorsero alcune strette strade del vecchio
borgo fino a ritrovarsi all’imbocco di
una viuzza dove appena appena ci
passava un mezzo di trasporto. Le due
guide si fermarono, dicendogli di percorrere qualche passo e poi entrare in
un locale che avrebbe trovato alla sua
destra. Gli dissero che lo avrebbero
aspettato a quell’angolo fin quando
non fosse tornato. Salutarono all’unisono. Cosini prese una sigaretta e se
l’accese giurando che sarebbe stata
l’ultima; Bloom estrasse dalla tasca interna della giacca una fiaschetta e tirò
giù qualche sorsata.
“Ti aspettiamo qui!” ribadirono in coro
facendogli cenno di procedere.
Percorsi quei pochi metri, con stupore
notò che sul portone di legno massiccio
si trovava appesa una targa di colore
rosso con stampato il suo nome e, di
seguito, un elenco di attività che all’interno di tale locale venivano svolte. Non
essendo il suo nome troppo comune,
realizzò che esso era a lui riferito. Entrò
incuriosito, si fece largo al banco e ordinò un caffè. Era un caffè di buona qualità, accogliente, riscaldante. Girovagò
per questo strano luogo in lungo e in
largo, vide volti giovani e meno giovani,
vide quadri alle pareti, vide libri su scaffali illuminati.
Domandò.
Si informò.
Erano passati due lustri da quando
quella locanda fu inaugurata, vi erano
passati artisti, musicisti, intellettuali
più o meno sedicenti, generazioni di
studenti; gli raccontarono che qualche
amico se n’era andato, altri ne arrivavano: in alcuni di questi avventori lui si
riconosceva, riconosceva le sue gesta.
Gli dissero che un giorno fu anche organizzato un pomeriggio in onore del
tipo che aveva dato nome al locale e al
libro dal quale era stato creato, e qualcuno di un gruppo di volontari culturali
disse peste e corna contro l’opera in
questione.
Egli abbozzò un timido sorriso.
Su un tavolo spiccava una bella catasta
del volumetto che lo riguardava così da
vicino. Uno dei gestori gli disse che era
il testo più venduto di tutta la libreria,
anche perché aveva un costo di soli
quattro-e-tredici.
Abbozzò un nuovo sorriso.
Vedeva che la gente lì stava in pace,
trovava un conforto, o almeno così gli
sembrava. Percepì che in quel locale
che portava il suo nome e che a lui era
ispirato succedeva spesso qualcosa di
positivo. “Questo non accade da altre
parti, in altri luoghi.” gli disse più d’uno
con il quale si era fermato a fare due
chiacchiere.
Trascorse ancora qualche ora, o qualche
giorno, tanto nel suo mondo il tempo
contava poco, e l’orgoglio si inspessì. Sentì meno freddo, capì che forse
non era vissuto inutilmente, anche se
il Capo Supremo gliel’aveva tentato di
spiegare già molte volte.
Decise che poteva bastare: voleva tornare nel suo mondo per vedere se si
sarebbe trovato ora più a suo agio.
Purtroppo non possedeva quel tipo
di moneta con la quale generalmente
si pagavano le merci in quel posto, in
quell’epoca; ma per bontà dei gestori
riuscì a sdebitarsi del caffè portando
nel contenitore delle immondizie un bel
sacco carico di rifiuti.
Raggiunse quindi Cosini e Bloom che
erano sempre allo stesso angolo. Uno
spense la cicca, l’altro depositò la fiasca
nella tasca interna della giacca, e risalirono per la medesima strada dalla quale
erano discesi. Si rituffarono nell’intensa
nebbia, ma questa volta chi conduceva
la marcia era il nostro eroe, che fremeva
per tornarsene a casa. Cosini e Bloom
arrancavano alle sue spalle. Dopo qualche ora, o qualche giorno, o forse più, i
nostri ritrovarono il loro mondo.
Al tavolo di Ivan, Dimitrij e Aleksej c’era
sempre una sedia libera, e i tre erano
ancora di malumore perché non riuscivano a iniziare la partita. Il nostro
allora, timidamente, si avvicinò loro e
chiese se fosse possibile aggregarsi alla
compagnia.
Dimitrij esclamò: “V kontse kontsov,
yebat!”*.
Ivan fece le carte e lui iniziò a raccontare della sua avventura.
I tre fratelli lo stettero ad ascoltare per
tutta la durata della partita con una
certa quale invidia.
Un estimatore
*Finalmente, cazzo!
Staricake illegal
Con una forchetta riduci in poltiglia 500 g di polpa di zucca cotta al vapore, mettila in una terrina e aggiungi 100 g di zucchero di
canna, 100 g di farina di grano saraceno, 100 g di mandorle tritate, 100 g uvetta ammollata in acqua tiepida, 1 o 2 mele tagliate
a cubetti, la buccia grattugiata di un’arancia, 2 o 3 cucchiai d’olio, un pizzico di sale, qualche pizzico di cannella. In forno a 180
gradi per 35-40 minuti. Una volta raffreddata dai una sploverata di zucchero di canna e una manciata di mandorle macinate.
Ti sei accorto che questa è una torta vegana? Mangiatene una bella fetta ascoltando “Meat is murder” degli Smiths, un vero
e proprio inno al vegetarianesimo (by dj Ombra). Peace&love!
Nonna Papera
P.S.: attento al 21 marzo…
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