Giuseppe Gioachino Belli
Le lettere
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TITOLO: Le lettere
AUTORE: Belli, Giuseppe Gioachino
TRADUTTORE:
CURATORE: Spagnoletti, Giacinto
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le lettere / 2
di Giuseppe Gioachino Belli;
a cura di Giacinto Spagnoletti;
Cino del Duca Editore;
Milano, 1961
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 giugno 2003
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Giuseppe Gioachino Belli
Le Lettere
Volume primo
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LETTERA 1.
A GAETANO BERNETTI — ROMA
Roma, 3 ottobre 1816
Gentilissimo Sig. Gaetano Bernetti.
Penetrato da un intimo senso di dispiacere mi dispongo a trattenere per brev’ora
sopra un soggetto, del quale od al suo figlio, o a me dovrà risultare una dose non leggiera
di scorno e disonore. Chi di noi due ne sia meritevole Ella potrà giudicarlo.
Ognuno sa che nel passato tempo una catena di circostanze sinistre mi aveva
assoggettato alla necessità di provvedere alla mia sussistenza e al mio ricovero nel modo il
più decente, ed insieme più adeguato alla povertà che mi opprimeva. I miei parenti a S.
Lorenzo in Lucina mi offrirono il vitto, e mancando io ancora di un tetto che mi ricettasse,
i miei parenti medesimi pregarono il suo figlio a procurarmi una camera ai Capuccini la
quale ottenni di fatti mercè i buoni uffici di lui uniti agli altri, anch’essi efficaci, del Padre
Lodovico Micara. Fin qui Peppe merita da me ogni gratitudine, e la riscuote. Ricevuto io ai
Capuccini, incominciò Peppe ad invitarmi alla sua tavola, e sino che questi inviti furono
pochi, io gli ricevei senza contrasto, e con soddisfazione. Ma quando vidi esser’essi molto
replicati, opposi a loro reiterate ricuse, allegando la troppo accresciuta spesa, che Peppe
soffriva per questa ragione, ed il malcontento, che Ella, e la Signora Teresa ne avrebbero
risentito. Egli rispondeva sempre, che il suo proprio peculio lasciatogli per legato dal
nonno poteva da lui essere impiegato nel suo maggior piacere, e che perciò i suoi genitori
non avrebbero avuto di che dolersi del suo procedere a questo riguardo. Io ciononostante
resisteva, e non poche volte dovemmo insieme altercare per dei pranzi de’ quali in fondo
io non poteva aver gran bisogno, stante la esibizione di mio zio, da cui poteva riceverli
egualmente, e di più senza peso di obbligazione. Esso mio zio e la sua Famiglia possono
essere testimoni della resistenza colla quale accettava io da Peppe dei favori, che erano poi
realmente favori, e che mi pareva allora provassero in Peppe un cuore tutto benfatto ed
amico.
Confesserò poi, che ogni sera, cenando il suo figlio, cenava io ancora con lui, e ciò
non mi cagionava ripugnanza giacchè una certa delicatezza di Peppe gli faceva
assicurarmi non causargli io alcun aggravio, mentre la cena che gli veniva da casa, poteva
benissimo essere e per lui e per me sufficiente, essendo essa in modo abondante, che, non
che uno, due potevano comodamente saziarsene. Io dico questo far strada a ciò che mi
resta a dire, non per diminuire in Peppe la benignità dell’atto, e quella che mi pareva, e
sembrata sarebbe a tutti amorevolezza. Gli donai in quel tempo una borsa da danari.
Andando in questo modo le cose, io ebbi bisogno di uno scudo che Peppe mi offrì,
per riuscire in un progetto, che egli stesso Le potrà dichiarare, tralasciandone io la
narrazione non già per ritrosia, ma bensì per solo amore di brevità. Eseguito io il mio
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progetto, e pagato uno scudo che possedeva ma destinato ad altr’uso di maggior rilievo,
Peppe mi assicurò che a casa mi avrebbe poi dato quella somma senza la cui sicurezza non
mai mi avrei indotto ad effettuare un passo, che alla fin fine non era della prima necessità.
Giungemmo a casa, Peppe poco dopo finse di essere uscito; io lo credetti, ma uditolo poco
appresso muovere, benché con qualche precauzione, la maniglia della sua porta, uscii
dalla mia, e lo vidi entrare in camera: lo chiamai allora, ma egli ponendo di dentro un
ostacolo al saliscende, mi rispose: un momento. Io aspettai fuori tre quarti d’ora e mezzo
appoggiato alla porta e leggendo un libro per divagarmi e non perdere la pazienza, ma
finalmente fuggitami questa bussai, e bussai dodici volte: mi rispose Ella Signor Gaetano?
Così mi rispose Peppe Bernetti.
Partii allora col pianto agli occhi ed il veleno nel cuore... ma non parliamo più di un
caso che ancora mi accende. Venne il tempo, in cui per ragioni di famiglia, Ella e la Sua
Signora consorte entrarono in discussione col loro figliuolo, e fu in quell’epoca, che non
ricevendo egli più dalle Signorie Loro le medesime tratte di denaro che pria, si trovò in
qualche bisogno; ed io cogliendo con gioia una circostanza, in cui poteva agevolmente
usargli un tratto di riconoscenza, gli offrii col cuore la metà di sette scudi che in que’ giorni
un tal Lorenzo Cervia mi aveva pagati, in soddisfazione di alcuni lavori fattigli in materia
di contabilità. Esso per verità gli ricusò, e non ne prese che due paoli per pagare ad un
chiavaro, o falegname che fosse, una egual somma che gli doveva, ed inoltre altri sei paoli
pe’ suoi minuti bisogni. Mi promise di restituirmeli, ma poi se ne scordò, o volle
scordarsene ed io credei mio dovere non parlargliene più. Gli regalai in que’ giorni
centoventi vedute di Roma. Un piccolo ordine posto da me nuovamente ne’ miei interessi
mi presentò l’opportunità di lasciare il soggiorno de’ Capuccini, soggiorno che già dal
Generale dell’Ordine mi si voleva togliere. Partii ma restai sempre amico di Peppe, presso
il quale di tanto in tanto mi conduceva. Giunto poi il giorno in cui Ella condusse seco il
medesimo a Bologna, e l’altro giorno in cui ambedue ne ritornarono, mi fu da Peppe
partecipato il matrimonio, che erasi fitto in capo di effettuare fra sé e la giovane Carradori
della Marca. Fu allora che io divenni segretario di Peppe, mentre ogni ordinario aveva a
scrivere una buona somma di lettere, porzione delle quali da lui destinata a coltivare e
mantenersi le amicizie contratte nel suo viaggio, e porzione a condurre la macchina
nuziale che si era in testa fabbricata. Ma qui è tempo ch’io dica come un anno circa prima
di quest’epoca erano stati da me prestati ad un tal Ciotti scudi sei richiestimi per fare un
viaggio, e datigli da me in una circostanza, in cui erano essi la mia unica risorsa. Ciotti nel
partire incaricò il suo padre allora domiciliato in Roma di restituirmeli, ma questo non
volle mai scendere ad un atto di cotanta equità, dimodoché fui costretto, benché
infruttuosamente, a scrivere al figlio lettere replicate per ottenere il rimborso di una
somma assolutamente a me necessaria. Ciotti non rispose, viaggiò, e non ne seppi più
nuova.
Tornando ora al nostro proposito, dirò che Peppe rivenuto da Bologna mi manifestò
aver trovato in Loreto un certo Ciotti, il quale lo aveva molto ben servito presso la
contessina, e col quale voleva mantenere un carteggio acciò seguitasse ad essergli
nell’affare un mediatore, ed interprete. Udito io il nome del Ciotti feci a Peppe varie
interrogazioni dirette ad assicurarmi della identità di quegli con quel Ciotti, a cui aveva
prestato il denaro; ed avendo dalle risposte di Peppe rilevato esser quel desso, lo informai
del fatto fra noi due accaduto, e della determinazione, in cui mi fissava di volere al
medesimo rammentare il suo debito.
Peppe però, che temeva che Ciotti, sospettando essere a me venute da lui le
informazioni della sua attuale dimora, gli ricusasse per vendetta gli aiuti, che ne sperava,
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mi pregò a desistere dal mio proposto, assicurandomi che egli stesso fra due giorni al più
mi avrebbe soddisfatto della somma dal Ciotti dovutami, somma che diceva si sarebbe poi
ritenuta in affare, che il padre dello stesso Ciotti aveva affidato a V. S. Io trovai buono il
partito, non scrissi a Ciotti, seguitai però a scrivergli letteroni che Peppe ricopiava per
suoi, seguitai a scrivere altre lettere a Conti, Marchesi, Contesse, Marchesane, ad altri
nobili e plebei; seguitai a scrivere processi alla Contessina Carradori; insomma restai
aspettando il risultato della promessa di Peppe per due lunghi mesi, senza che esso me ne
facesse più parola, e senza che finisse mai il mio impiego di segretario. Finalmente gli
ricordai ciò che dovea ricordargli, e fu allora che il Sig. Giuseppe mi rispose essere io in
libertà di scriver a Ciotti giacché cessata la probabilità del matrimonio, non temeva più che
quegli potesse intorbidarglielo. Ecco una bella azione da bagherino!
Dice Bernetti per redimere il suo onore in un fatto, che tanto glielo adombra, che
invece di sei scudi mi regalò un vestito. Il regalo del vestito è vero, ma ne son diverse le
circostanze. Egli inventa di avermelo dato nuovo e buono, ed io rispondo che era di un
cattivo panno rivoltato e ritinto, e tanto ciò è vero, che portando per la vecchiaia un
flagello di tarlature, queste scoprivano la corda del panno molto più chiara che il pelo
esterno, dal che è facile rilevare essere stato tinto con un colore più scuro di quello, che il
panno aveva in origine. Ma non è questa la circostanza più solenne, che mi prefiggo
prender di mira; eccola. Bernetti vuole avermelo donato in luogo dei sei scudi — falso,
falsissimo, invenzione artificiosa, ma di uno sciocco artificio. Il vestito io lo aveva ricevuto
due mesi prima che si partisse il Bernetti da Roma, ed in tempo che io stava ancora ai
Capuccini. Dirò come fu. Bernetti mi macchiò una sera di olio il mio unigenito abito;
macchiatolo, ne ingombrò le imbrattature di raditura di muro, e mi diè a portare un suo
vestitaccio (che è quello, di cui parliamo) sintanto che il gesso avesse intieramente sorbito
l’olio, del quale era coperto. Rimandato esso alfine, Bernetti mi richiese il suo abito, io glie
lo resi, e fu finito; ma volendo io poi giorni dopo far dare dal sarto una restauratina al mio
abito che ne aveva anzi che no bisogno, pregai Peppe a rinuovamente prestarmi quel suo,
ed egli urbanamente mi concesse la grazia. Tornò l’abito dal sarto, pagai a questi alcuni
paoli del mio, e restituii a Peppe l’abito provvisorio, che mi fu anzi da lui dimandato prima
che avessi avuto agio di adempiere al mio preciso dovere. Passarono molti giorni sino a
che una mattina lamentandomi io della mia mala sorte, e della impotenza di farmi un paio
di stivali per rimpiazzare i miei invalidi alla fatica, Peppe mi disse che invece di stivali mi
avrebbe donato un vestito. Cercò, ricercò allora nel suo guardaroba, e finalmente com’è
naturale, la scelta cadde sopra l’abito peggiore, su quel tale abito di ripiego, il quale si vuol
far passare per nuovo, quandoché fattolo io stimare da una Ebrea d’ago d’oro, me lo
apprezzò tre paoli e, per dir come disse, tre giuli. Or presto a bomba che si raffreddano i
ferri. E come può star salda la faccia di un uomo, mentre la bocca proferisce menzogne
simili e somiglianti imposture? Parlo della menzogna crassa e marchigiana, che quell’abito
donato nel tempo dei ritiro di Peppe e mio, sia una rappresentanza de’ scudi sei
promessimi dopo il felice viaggio di Bologna.
In primo luogo già io non sarei stato di pasta così tenera da sorbirmi tre paoli per sei
scudi; secondariamente poi, allorché dimandai a Peppe qualche nuova de’ sei scudi
promessi e svaniti, egli non mi avrebbe altrimenti risposto esser’io in libertà di scrivere a
Ciotti, ma sarebbe stato sollecito a pormi avanti agli occhi il vestito, che, secondo quel che dice
adesso, doveva avermi regalato poco prima: ma forse che un misto di delicatezza e moderazione lo
avranno in quel momento ritenuto dal farmi una risposta, che ora né moderazione né delicatezza gli
fa risparmiare; e sono medesime le circostanze giacché sei scudi gli chiedeva allora, quattro
glie ne chieggo adesso, miserabili quattro scudi, de’ quali narrerò la storia, e pe’ quali Peppe
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non ha temuto né teme d’ingiuriare un amico, trattandone la fama come si tratterebbe una
ciabatta, od il lezzo stomachevole delle cloache.
Prima però di scendere a cosiffatta narrazione, non sarà fuor di proposito mandar
innanzi un altro raccontuccio curioso, il quale potrà, se non altro, dare una idea del peso
morale di un personaggio, che essendo nel caso nostro il protagonista della commedia,
può pretendere (e lo merita) che il suo carattere sia ben dettagliato, posto nel vero suo
lume, e colorito scrupolosamente sin che vi sieno colori sulla tavolozza.
Chi ignorerà esser stato Peppe involto in una passione che per più anni lo ha
dominato, diretto, informato? Ora ascolti, Signor Gaetano gentilissimo; questa passione
gagliarda, lunga, imperiosa; questa passione, che ha dato luogo a fatti seri, questa passione
che ha resistito a consigli, a rimostranze, a rigori, e tutti paterni, che è un bel dire; questa
passione infine, che pareva inestinguibile, almeno per forza umana, questa passione vide
l’interesse, e si estinse. Peppe partì da Roma innamorato morto d’una; tornò da Loreto
innamorato morto di un’altra; e chi fece il miracolo? Venticinquemila scudi, che si
speravano di dote. Ed eccoti altre smanie, eccoti nuove impazienze, eccoti diversi
acciecamenti; la prima donna affatto dimenticata, tutti pensieri per la seconda. Ma questo
per avventura non è biasimevole, giacché il cuore umano rassomigliando in tutto ad un
barometro, è così esso soggetto ad ogni minima esterna impressione; che se incostanze di
tal natura son difetti, se ne incolpi più la umana costituzione che l’umano carattere. Si
maneggiò, come dissi di sopra, l’affare, si trattò calorosamente il matrimonio, ma questo
non volle accadere, e si finì. Sgombrato così il cuore da una passione, che una certa specie
di speranza vi aveva solamente intromessa, si trovò subito suscettibile di nuovi
riempimenti, ed eccoti in ballo l’amore antico che ali riprende e vigore.
Giunge la nuova che l’amata si dona ad altro marito; si chiede a Peppe un certo
consenso, che si diceva abbisognare; Peppe lo niega; l’autorità paterna ci pone le mani; è
prestato il consenso fatale; si fa secreta l’istanza per un’accettazione ai Camaldolesi di
Frascati; si ottiene; si sta per partire; io ricevo l’ultimo amplesso dell’amicizia; pianti,
disperazione, convulsioni, diavolerie, e tutto questo in pochissimi giorni. Finalmente il
giovedì un’improvviso sgorgo di sangue arresta e partenza e progetti. Il sangue cresce; si
affaccia una certa tossetta; il venerdì si cammina curvi, col volto giallo e nero; le forze
s’indeboliscono; s’incomincia a disperare della salute. Io che vedo tutte queste cose,
m’intenerisco, scordo i passati torti, e vado il venerdì notte a fare la nottata al malato,
portandogli biscottini ed altro, delle quali cose però ricevei pagamento. Ora senta questa,
che è bernesca o bernottesca davvero. Giunto io a’ Capuccini mi viene avanti non un
uomo, ma una larva, fiacca sparuta, e questa era Peppe, che mi abbraccia, e mi confida
dover uscire la notte per condursi ad un abboccamento, che doveva essere l’ultima
consolazione della sua vita. Io gliene mostro i pericoli e le difficoltà, ma tutto inutile: il
bisogno d’abboccarsi era forte, e perciò invece di cedere, dimandò a me Peppe soccorso.
Non sapendo che fare, io glielo promisi, ed ecco come feci. Me ne andai giù dal portinaio
Fra Bernardo, che è un buon fraticello, e gli sciorinai la seguente novelletta. Fra Bernardo
mio, ho bisogno di un piacere. — Comandi, Signor Giuseppe — (perché io mi chiamo
Giuseppe) — Dovendo dimani prima di giorno andare qui vicino in un luogo, così per
tollerare meno incomodo resto questa sera a dormire con Peppe, e dimani quando sarà ora
verrò giù, vi desterò, e voi, che siete tanto buono, mi farete il favore di aprirmi la porta,
affinché possa uscire. Il frate mi rispose di sì, ed io tornai sù. Si cenò, e dopo molte
chiacchiere raggirate tutte sopra un soggetto, si andò vestiti a prendere un po’ di riposo.
Battuta l’ora disegnata per l’abboccamento, ci alzammo. Peppe prese il mio ferraiuolo, io
presi il suo, e così travestiti scendemmo le scale, ed all’oscuro all’oscuro io bussai alla
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porta del povero fraticello, il quale alla voce mia uscito fuori al buio, aprì la porta del
Convento, e credendo di far uscire Belli, fece uscire Bernetti. La bella fu, che mentre esso
usciva, il frate gli domandò più volte come stava Bernetti; ma egli non rispose, e facendo
comparire me poveretto un malcreato, se ne andò per prudenza senza aprir bocca. Io me
ne tornai su pian piano, e nel salir le scale udii che diluviava: dissi allora: povero ferraiuolo
mio! ed entrai in camera. Eccone un’altra più bella. Verso giorno i frati si alzarono pel
mattutino, e quanti ne passavano avanti alla porta della mia stanza, bussavano e dicevano:
Come state signor Giuseppe? (perchè V. S. sa, che anche il suo figliuolo si chiama
Giuseppe). Ed io che non era Bernetti, mi contentavo o di non rispondere quando le
bussate leggiere potevano far supporre che non avessi udito, o quando esse erano forti,
mandare un certo suono inarticolato, che sembrava un muggito di buona grazia, e così
siccome i lamenti presso a poco somigliano in tutte le voci, i frati mezzo soddisfatti e
mezzo no si partivano. Si fece finalmente giorno; venne Bernetti bagnato come un pulcino;
io gli aprii, ed egli entrò contento come una pasqua. Ma eccoti una bussata — Chi è? —
Amici. Era un frate. Rispondo: un momento; e presto fatto spogliare Bernetti sino ad un
certo grado, per far credere che allora si vestisse, indosso il mio ferraiuolo, che per l’acqua
che aveva sopra pesava dieci decine. Apro la porta; il frate entra — Come avete passata la
notte Signor Bernetti? Così così — Ed io allora: per bacco! Come piove! Guardate qui, sono
venuto adesso, e mi sono tutto rovinato; ed il frate poco dopo partì. Quel giorno era
sabato; indovini un poco Signor Gaetano? ma già Ella lo sa meglio di me: la Domenica
dopo il suo figliuolo stava pel corso in biga con mio cugino, guidando il suo cavallo da sé,
vegeto, bello robusto, e guarito affatto da una malattia, dalla quale chi scampa soffre
almeno un annetto di debolezza e convalescenza.
Da quel giorno in poi è stato sempre bene, si fece crescere i baffi, spacciò patenti di
cavalleria, e con sproni, e con frustini, e con cavalli fece restar me come un minchione, che
non potei trattenermi dal dire evviva li matti! Gli altri fatterelli che illustrano poscia la sua
carriera militare, io gli tralascierò: so che adesso fa il curiale, e taccio, perché io delli curiali
ho paura.
Veniamo ora alla storia de’ quattro scudi. Era passato molto tempo, ed io me ne vivea
quieto senza pensar più né a Bernetti né a Ciotti, quando una sera portatomi
all’Accademia Tiberina della quale indegnamente son membro, vidi Ciotti che fra gli
uditori stava seduto nella sala in cui si suol tenere adunanza. Mi accosto ad esso, lo saluto,
gli do il bentornato, e, finito il trattenimento poetico, mi unisco con esso, il quale,
ponendosi il discorso degli antichi sei scudi, mi disse che l’indomani me ne avrebbe
soddisfatto. Non mi feci sfuggire il momento della sua favorevole disposizione, andai, e
riebbi a conto due scudi: gli altri quattro poi non potei più riscuoterli, perché Ciotti rimase
ben presto senza quattrini. Si stava così, allorchè, incontratolo fra le tante volte, mi disse,
che avendo prestato a Bernetti quattro scudi, e dovendo egli presto partire da Roma,
ciocché ancora non si è effettuato, avrebbe ingiunto al Bernetti medesimo di riguardar me
come suo creditore, discorso che al Bernetti fu fatto dal Ciotti in mia presenza il giorno di
S. Giuseppe 19 Marzo del corrente anno 1816. Bernetti accettò la girata, e si confessò mio
debitore di scudi quattro, i quali mi disse potev’andare a riceverli in sua casa anche in quel
giorno se avessi voluto. Io però fui moderato, e volendo usare delle convenienze con chi
mi era stato ed ancora mi era un po’ amico, non mi portai dal medesimo che la mattina del
giorno 21. Peppe non c’era. Vado il giorno dopo; Peppe non c’era. Vado il terzo giorno;
Peppe non c’era; e sempre con appuntamento. Vieni oggi... vieni domani... Frattini mi deve
dare certi danari... non me li ha dati... Da un giorno all’altro si passò ad una settimana
all’altra, e da una settimana all’altra ad uno all’altro mese, giacché non era più Frattini che
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compariva, ma un certo Pucci, il quale assicurava Bernetti aver prestato danari. Insomma
trenta o quaranta appuntamenti mi furono da Peppe dati, ne’ quali, essendo ogniuno
composto di un’ora di attenzione, spesi inutilmente quarant’ore del mio povero tempo.
Finalmente stanco, e più che stanco, ricorsi a Ciotti come primo creditore di Peppe, dal
quale esso Ciotti condottosi, mi riportò in risposta che io era già stato pagato, che aveva
già ricevuto da lui circa a cento scudi, che si faceva ben meraviglia del mio non delicato
procedere, e che se pel mio meglio non taceva, sarebbe stato costretto di cavarmi un certo
conto, che mi avrebbe fatto di creditore divenir debitore. Una eguale risposta con qualche
cosetta di più denigrante ha fatto Ella, Signor Gaetano, al medesimo Ciotti venuto da mia
parte a reclamare contro le villanie di suo figlio, il qual vuol conteggiarmi i pranzi che mi
ha dato. Non so se dal contesto di questa lunghissima lettera potrà apparire nulla, ch’io
possa opporre ai benefici del suo figliuolo garbato: voglio a Lei rimettere l’incarico di fare
il confronto e il conteggio: forse non ci rimarrei tanto allo scoperto.
Conchiudo finalmente col dire, che la condotta tenuta dal suo figliuolo per tutto il
tempo della sua vita paragonata a quella, che in me il Mondo ha veduta, potrà servire di
fede, di allegati, di testimoni; di sentenza a questo mio veridico e fedele processo.
Sono
Il suo servitore divoto
Giuseppe Gioachino Belli
LETTERA 2.
A PIETRO SALIMEI
[Roma, 19 maggio 1817]
Giuntomi a notizia che Ella abbia ne’ scorsi giorni ricevuta una patente di nomina, e
sapendo io d’altronde esser Ella stato uno dei primi membri ricevuto nel nostro Corpo
letterario, e che perciò questa recente spedizione può indurre qualche confusione nella
storia ed altri andamenti accademici, prego Lei darmi qualche schiarimento sull’oggetto
merceccui io sappia con precisione e la persona che Le ha fatto la citata spedizione, ed il
prezzo da Lei pagatone, e tutt’altro che abbia con ciò relazione. In seguito di che io avrò
mezzo di regolare i miei registri ed i stati del mio accademico uffizio.
La prego di non isdegnare le proteste del mio sincero rispetto.
Dall’accademia, 19 maggio 1817
Il tesoriere annuale
G. G. Belli
LETTERA 3.
AL PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA TIBERINA — ROMA
[4 giugno 1817]
Non potendo dispensarmi dall’applaudire alla laudevolissima condotta tenuta da
Monsignor Presidente nell’accettare a nome del Consiglio la rinuncia fatta alla carica di
Segretario annuale dal Sig. Cavalier De Mortara; io sottoscritto per obligo del mio officio e
per coerenza per quel che mi è convenuto palesare a carico del Sig. De Mortara suddetto,
accuso il medesimo davanti il Consiglio affinché sia giudicato a tenor delle leggi come reo
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d’infrazione delle leggi e regolamenti che nella qualità di Segretario lo riguardano, e
d’indebita esazione di alcune somme da parecchi accademici.
Dimando che il presente atto sia inserito nella relazione del Consiglio di questa sera
perciò che sarà di ragione, e per base delle nozioni future.
Questo dì quattro Giugno 18 diecisette.
Il tesoriere annuale
G. G. Belli
LETTERA 4.
AI SOCI DELL’ACCADEMIA TIBERINA — ROMA
[1817]
Ill.mi e Chiar.mi Colleghi
Io so bene che nelle turbolenze e fra i casi che il proprio vantaggio direttamente non
ledano, è il tacersi sentenza non da pochi lodata e da tutti quasi seguita, ma son insieme
intimamente persuaso che ove questi avvenimenti pregiudizievoli sieno a causa che l’onor
ci commanda difendere, il secondargli è colpa, e il secondare chi gli trascura è delitto.
Chi non ha visto, chi ignora, chi non sarà sempre convinto che la condotta tenuta dal
passato Segretario verso il tiberino instituto è biasimevole, è vile, è obbrobriosa, è di quel
genere infine che meritò sempre mai la esecrazione d’ogni uomo, ed il rigor d’ogni legge?
Che se giusta e santa dirsi debba l’idea di colui che posti da canto la compassione
intempestiva e dei riguardi totalmente mondani e sospetti, con tutto il potere dà opera ad
espellere dalla società una così abbominevole peste; che mai, Dio buono, che mai dovrà
pensarsi di chi ricorrendo a ragioni tutte povere e fredde, pompa facendo di una maturità
di consiglio, che diresti assai meglio estremità di paura, non solo con torto manifesto
d’ogni buon senso dissimula lo scandalo antico, ma per novella esca e ripetute indulgenze
i semi alimenta di ben più brutta vergogna?
Non mi allontano io già, no, dalla circostanza in cui l’Accademia nostra attualmente
ritrovasi; che non bastò l’aver mandato impunito un fallo contro cui ogni sanzione penale
era lieve, (ma) si volle ancora scendere alla umiltà di pregare il reo a non allontanarsi da
noi, e pregarlo con quelle formalità stesse colle quali s’invitano tutti i soci più benemeriti a
fregiare le accademiche raunanze e delle loro persone onorate, e de’ parti de’ loro ottimi
ingegni.
Così si è agito da quel Consiglio Tiberino il quale soleva già raccapricciare alla sola
idea di vedersi dattorno un uomo, il consorzio del quale potesse dar ombra di complicità
d’attentato: così si è agito da quel Consiglio Tiberino, il quale studiava già tutti i mezzi per
dare un memorabile esempio di imparzialità e di giustizia. Io mi vergogno di questa
giustizia, e tanto me ne vergogno, che se non fossi sicuro che il rinunciare
all’amministrazione del tesoro accademico presterebbe alla malvagità di alcuni
incoraggiata dalla debolezza di altri le armi per involgere me ancora nelle turpitudini del
Segretario passato; io non esiterei un momento a dimettere una rappresentanza che mi
unisce a persone specchiatissime per verità, ma pure non state molto gelose del mio né del
loro decoro.
Seguiterò pertanto a maneggiare le rendite dell’Accademia e provvederne ai bisogni,
sino a che il tempo del mio officio venga chiuso dalla impressione della medaglia, una
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delle quali, per coerenza delle cose passate, toccherà forse a chi per tanti titoli ne va
immeritevole.
Sin qui nell’intrinseco. Nell’estrinseco poi si potrà esaminare da quali solennità fosse
accompagnata la risoluzione d’invitare il Mortara a leggere nella futura adunanza solenne.
Con impertinenza egli strappa di mano al bidello le lettere per rintracciarvi la sua
mansione, stupisce non trovandola e con audacia pari alla prima insolenza assoggetta il
Segretario a varii constituti temerarj riguardo esso, riguardo al Segretario vergognosi. Da
ciò si passa ad interrogare alcuni membri del Consiglio, ed eglino cedendo non saprei a
che, credono cedere a certi dritti da’ quali il Mortara siccome socio venga tuttora assistito.
Che dritti? Di quai dritti si parla? Ed i torti? Non son questi in numero ed in gravezza
bastanti ad eguagliarli, superarli, distruggerli?
Non dovrebbe al Mortara bastare l’essere stato conservato sull’albo, senza avanzarsi
a pretensioni assolutamente impudenti? E si noti che alcuni membri del Consiglio
tassarono me di poca esperienza delle cose per avere contraddetto alla loro opinione, la
quale era che Mortara restando in Accademia lungi dal reclamare mai i dritti
d’accademico, non avrebbe anzi più ardito comparire fra i Tiberini, né sostenerne gli
sguardi. Come sia andata tutti lo han visto.
In secondo luogo fu legale il Consiglio in cui si decretò l’invito a Mortara? No; ma
pure sì se udiremo il Vice-Presidente il quale lunedì scorso 30 Giugno non temeva
affermare essere il numero di sei individui chiamato legale dalle leggi accademiche.
Povere leggi! E si desumerà anche da voi il dritto di leggere un capitolo non decretato in
Consiglio, non visto in censura, e di più, dopo una lunghissima prosa? Povere leggi!
Quanto male vi conosce chi vi dovrebbe difendere!
Che se mi si obbietterà essersene dimandato il permesso al Presidente, risponderò
essersi anche in ciò errato tentandolo ad infrangere quelle leggi, alle quali egli ancora è
soggetto.
LETTERA 5.
AL CONTE GIULIO PERTICARI — ROMA
Di casa, 4 dicembre 1819
Pregiatissimo Sig. Conte
Poiché non ho avuto la fortuna di trovarla le tre volte che sono stato in Sua casa per
riverirla; e d’altra parte ci fugge il tempo, in capo al quale debbono essere coniate le
medaglie della nostra Accademia; Le mando una mostra a penna del conio rovescio, che si
dovrà lavorare, onde Ella la esamini, e mi faccia sapere, rimandandomela, se così potrà
riuscir di suo gusto.
Altro titolo non ci ho posto oltre quello di Presidente dell’Accademia, perché le Leggi
nostre lo vietano; siccome Ella può ben vedere là dove esse parlano delle medaglie. Che se
nell’anno scorso fu questa legge non osservata, ciò avvenne per non essere stato a tempo al
Presidente ricordata.
E mi creda quale godo di essere
Suo um.o servitor vero
G. G. Belli
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LETTERA 6.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — PESARO
Di Roma, 13 gennaio 1820
Amabilissimo il mio risvegliato
Nel giorno 8 corrente la vostra graditissima lettera mi trovò in letto, per una feroce
colica, da me due giorni prima sofferta; della quale ora sono libero, benché senta gli effetti
del sangue cavatomi, de’ digiuni, de’ purganti, e degli esterni ed interni fomenti. È vera
gioia quella, che io provo, udendo che voi abbiate vinto i maligni, che non vi lasciano pace.
Né posso intendere come debbano essere nati quegli uomini, i quali non sanno vivere che
di cattivi fatti, e di malvaggi pensieri. Ma perché si vede chiaramente, che i più buoni sono
i più perseguitati da costoro; pare doversene conchiudere, che il vizio tenti di opprimere la
virtù, per questa ragione che non sa sostenere il confronto, e gli acuti rimproveri. Voi però
seguiterete a condurre la vostra vita tranquilla; ed usando della onestà vostra per sole armi
di questa guerra, riderete de’ vani sforzi di nemici scarsi di munizioni, e ricolmi di
codardia.
Il medesimo rimprovero, che pel mezzo di vostra sorella feci fare a voi, vorrei ora
fare a Lei pel mezzo vostro. Io Le ho scritto due lettere, l’una da Terni al momento di
partirne per Roma, e l’altra di qui, che è quella da voi vista alla Ripa. Di ambedue non ho
risposta. Per parlare però con sincerità, io dubito più della posta, che della Sig.ra Teresina,
conoscendo la prima negligente, e la seconda diligentissima. Se voi avete occasione di farle
avere questo avviso, mi farete cosa veramente gratissima, facendolo a Lei arrivare.
Intorno ai perdoni, che voi mi chiedete, io vi dico che la mia amicizia è di quella
indulgenza, che rimette insieme e la colpa, e la pena. Se voi però siete davvero pentito,
attribuitevi di per voi la penitenza; e sia questa, se volete un consiglio, il prendere qualche
volta la penna, per consacrare un momento a chi non si scorda di voi.
Che Roma non istia tra le prime Città che gareggiano di gusto teatrale, io ve l’ho
concesso, e ve lo torno a concedere. Ma che Fermo debba noverarsi, tra queste, che
vincono Roma, io non saprei esserne persuaso. Perché malgrado tutta l’abbiezzione, in cui
il governo ecclesiastico tiene le cose teatrali, pure Roma e per l’essere capitale, e pel
numero della popolazione sua, e per la quantità degli stranieri, che vi concorrono, può
facilmente superare Fermo sulle sue scene. Lasciando però Fermo dove si trova, io vi
assicuro, che in questo anno i nostri teatri sono un’altra cosa. Se voi mi parlerete della
bontà delle opere, e della maestria de’ cantanti, io vi risponderò, che v’è del buono, e del
cattivo: ma dirò insieme, che quando gl’Impresari hanno voluto il meglio e pagarlo, il
successo è poi sempre subordinato a quelle leggi, con le quali vanno tutte le cose del
mondo. Non per tutto un maestro reputato eccellente, ha saputo far bene, o bene piacere;
non per tutto un attore altrove applaudito, ha potuto incontrare le medesime
acclamazioni. Oltre a ciò, per riempire tre primi teatri di tutti i gioielli, sarebbe necessario
far perdere alle altre Città l’amore pel buono, ed il desiderio di avere ancor’esse il
migliore. Le nuove musiche sono per altro bene riuscite, e giudicheremo delle altre
aspettate. I soggetti sono per la maggior parte graditi; intendo di parlarvi insieme di
musici, comici, e ballerini. Il ballo è di bello spettacolo: le decorazioni poi di un gusto
squisito, ed eccessivamente dispendiose. Fra le altre cose vedreste un campo di guerrieri
vestiti di lucidissimo acciajo. Una latta brunita a specchio, è la materia degli elmetti,
usberghi, scudi e schinieri di quelli; e veramente abbagliano gli occhi. Il costume è l’antico
italiano. I velluti, le più fini stoffe, i recami di argento e d’oro sfoggiano nelle ultime parti.
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Tordinona è posto in grande eleganza, e fa eccellente comparsa. Via, si è fatto qualche
passo.
Non ho più carta. Salutatemi il Cav. Jachson, e Piccolomini. Alla Sig.ra Chiarina, ed al
Sig. Cavaliere vostro padre fate parte de’ rispetti, coi quali mi ripeto
Vostro amico vero
G. G. Belli — Palazzo Poli 2° piano
P.S. Voi pungete il povero D. Flavio amaramente.
Mariuccia vi saluta assai, e voi fate altrettanto per me verso tutta la vostra famiglia.
Profitto di tutti i pezzetti di bianco.
LETTERA 7.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Macerata per Ripatransone, 25 maggio 1820
Caro Checco
Credevi che mi fossi scordato di te? Ti saresti ingannato. Io sto benuccio e l’aria è
buona. Salutami tanto poi tanto Papà, Mammà, Peppe, Clementina, le famiglie Lepri e
Chiodi, e tutta l’Accademia Tiberina. Né voglio omettere gli altri amici appartenenti al tuo
negozio, né l’ab.e Enrico.
Vidi a Spoleto Procacci, il quale dice di non avere scritto per la ultimazione di
quell’interesse perché vuole scrivere quando già avrà in pronto la sicurtà. Fa ricerche
sull’albo accademico, se vi sia un tal Tobia Fioretti, secondo medico di questa città, il quale
si spaccia a voce, a penna, e a stampa per accademico Tiberino. Che se vi è, fa rintracciare
da chi fu proposto questo regaletto alla nostra Accademia. Questi è un bestione senza
corna ma con buon compenso di orecchie. Vedi ancora se sia vero che l’altr’anno spedisse,
o facesse leggere, una sua prosa sulla virtù. Io non posso crederlo, giacché in questa si dice
che la virtù consiste nel cedere ai moti della natura. Sarebbe dunque virtuoso anche
Monsignor Monticelli. Addio
il tuo Belli
LETTERA 8.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Ripatransone, 24 agosto 1820
Caro Checco
Io non potei rispondere alla tua carissima ultima da me ricevuta alla Marina di S.
Benedetto, perché tornato poco prima da Ascoli aveva varie coserelle da disbrigare. Peraltro
pregai la mia Mariuccia, che mandasse ad accusarti il ricevimento di detta tua, e te ne
ringraziasse.
Oggi però voglio farti spendere questi altri sei baiocchetti in premio del n.° 3 di
Diario che mi spedisti. Ma insomma l’inclemente Clemente! E l’abate du Chateau? Si è
sprofondato in Castello. E l’altra femina di Costanzina. Queste femine femine mi danno un
po’ da pensare. E se va avanti così il Mondo diventa l’isola di Orontea (mi pare Orontea) e
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ci vorranno altro che i Guidon selvaggi, gli Astolfi, i Sansonetti, e i Grifon bianchi e gli
Aquilanti neri per vincere e ripopolare queste feminee contrade. Se bastasse il Corno di
Astolfo alla buon’ora, ma a’ tempi nostri quest’arma è più da donna che da uomo.
Ho gradito la mercuriale de’ generi cereali: ed ho riso sugli assi delle ruote di
Boncompagni. Oh, vergogna degli uomini fottuta! Lascia che così esclami col Berni. Ci sono in
Roma tanti belli esempi da imitare ed imitati dagli stranieri che vi concorrono in folla dal
Mondo, e noi facciamo queste sacrileghe coglionerie! Oh vergogna dunque, oh vergogna
degli uomini fottuta! Cioè degli uomini romani: anzi delle bestie, giacché si parla de’ nostri
architetti.
Favoriscimi di mandare a dire a Mariuccia, che alla posta de’ franchi troverà una mia
assicurata per lei. Che se non ricevesse il solito avviso della direzione, le giovi questa
notizia.
Io conto di partire di qui a giorni, e passando per Loreto, Macerata, forse Camerino,
Tolentino, Fuligno, andare a Perugia, e poi finire a Spoleto, e Terni, per poi a suo tempo
restituirmi in Roma a chi mi desidera e far rabbia a chi me ne vorrebbe lontano. Intenda
che parlo di Lei e della sua famigliaccia, che ciononostante mi saluterai affettuosamente
abbracciando quelli di casa, che mi parrebbe lecito se lo facessi da me, e non per procura.
Né ti scordare la casa Chiodi etc. etc.
E dicendovi qui la buona sera,
Mi raccomando a Vostra Signoria.
Linarco Dirceo P.A.
fra gli Accademici tib.ni G. G. Belli
LETTERA 9.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
29 agosto 1820
Caro Amico
Se vi pare, io verrò a darvi l’ultimo abbraccio dimani nel medesimo sito, alla
medesima ora, sulla medesima bestia, e col medesimo angiolo custode, dove venni, in cui
giunsi, la quale mi portò, e che mi fu scorta la volta passata.
Salutami il Conte, che non conta né contee né contanti.
Ben tornato dunque da Fermo, dove io v’affermo che non istarei fermo tre ore, per
esserci stato infermo tre dì.
E vi abbraccio cordialmente.
Il vostro amico G. G. Belli.
P.S. Non vi spaventi quell’ultimo abbraccio. Io intendo ultimo per quest’anno, o
viaggio. Vostra sorella vi prega di due limoni. Ma non si offenderebbe se fossero quattro.
LETTERA 10.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
[31 agosto 1820]
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Caro Amico
La vostra perplessità io già me la imaginava; ed appunto per produrla, io [non]
alterai, ma modificai il mio carattere. Una storia orribile narratami sono circa sei giorni in
vostra casa alla Ripa, nella quale anche io figurava, mi fece nascere il pensiere di scrivere que’
versi, e spedirveli, per poi riderne con voi quando ci saremmo rivisti. Non li firmai per la
probabilità di smarrimento di lettera. La spiegazione, che interessa la vostra delicatezza
consiste negli ultimi sei versi. Natale, e Francioso. Voi m’intenderete adesso, e capirete che
in senso Aretinesco la croce dell’ordine del boja significherà forca, presa la croce, come si suol
prendere per patibolo. Così il gran maestro giustiziere diviene il boja med.mo nelle mani di
cui dovrebbe stirare le cuoja il personaggio, che per essere decorato com’è nella società di
un certo grado insigne merita il primo posto nel premio delle sue gentili e nobili maniere. Il
secondo soggetto non merita neppure l’onore di quel supplicio, la croce, e però sarà punito
con altro non meno atroce dopo che avrà accompagnato sul dorso il compagno alla grande
funzione. La ragione poi della metafora della croce procede dal vanto di nobiltà, che
stoltamente ho udito prendere il nostro principale personaggio. Ho però inteso dire, che
questa è la decorazione che merita.
La Sig.ra Teresa vi mandò ieri il mio biglietto per via di un sarto, che ve lo rimise per
mezzo di una sciocca che non ne attese la risposta. Io l’ho ricevuta oggi al casino di
Vulpiani, di dove sarei passato a visitarvi. Voi però andate a Fermo, onde ci rivedremo in
un altro anno, perché io debbo presto partire. Se Marchionni non mi avesse fatto una
vostra ambasciata, io non vi avrei scritto il mio biglietto.
Mi pare che voi vi siate un poco messo in riparo con me; e me lo dice quel
pregiatissimo Sig. Belli, con cui principia la lettera vostra. Ciò nasce dal senso oscuro dei
versi: eppure io credeva che le ultime due terzine vi dovessero comparir chiare; ma mi
sono ingannato. Che se poi vi spiace che io abbia scritto contro chi ha ingiuriato, e voi, e
me; sappiate, che voi siete l’unico al mondo, a cui questo scritto sia stato, e sarà mai
comunicato.
Intanto vi abbraccio del miglior cuore, e vi auguro un felicissimo viaggio. E sono
sempre
Il vostro G. G. Belli
Dal casino Vulpiani 31 agosto 1820.
LETTERA 11.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Ripatransone, 7 settembre 1820
Caro Spada
Oggi dunque abbiamo la gran crisi benigna del Sole, per la quale Egli tornerà sano
dopo una malattia di languore, che minacciavalo di estinzione insensibile. Tu però non sai
cosa c’è di rimarchevole in questa ecclissi: non la grande oscurazione, non l’anello, o le altre
simili minchionerie. Il gran caso è quello che ti dirò io; cioè che il bel mezzo di essa accadrà
nel medesimo momento nel quale io venni alla luce nell’anno 1791; vale a dire ventinove
anni fa. Qui sopra si potrebbero dire molte belle galanterie ed anche molte vaghissime
impertinenze. All’ora ch’io scrivo, cioè alle 9 antimeridiane il tempo si è preparato con
foltissime nuvole per renderci più piacevole il fenomeno, che non vedremo, se dura così.
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Fra tre o quattro giorni dal corrente, io parto pel viaggio di cui ti parlai. Addio.
Salutami tutti, e credimi
Il tuo a.co G. G. Belli
LETTERA 12.
A TERESA NERONI — RIPATRANSONE
Di Terni, 5 ottobre 1820
Guardimi il Cielo, mia carissima amica, che io impari giammai a non conoscere il
prezzo dell’amicizia, e l’obbligo della riconoscenza. Voi però che conoscete me, come io
conosco quel che ho detto di sopra, non dovevate chiamarmi filosofo, cioè secondo la
vostra interpretazione, uomo dimentico di tutti i riguardi che si debbono alla società. Io
ciononostante non voglio schifarlo questo nome, perché, nel vero suo senso, esso significa
culto di ogni buona disciplina, e per conseguenza culto ancora della decenza e degli onesti
usi, fra i quali è compreso anche quello di dar novelle di sé a chi le desidera ed insieme le
merita. Dopo tutta questa filastrocca o diceria filosofica, venghiamo all’applicazione dei
membri dell’orazione. Non era dunque possibile, amica mia cara, che io non solamente
mancassi alla civiltà, ma cosibbene alla parola che vi aveva data di scrivervi appena giunto
costà, dove mi affrettai di portarmi anche prima che non aveva disegnato, lasciando per
ora da parte il viaggio di Assisi e Perugia. Per la qual cosa io giunsi qui a Terni il giorno 19
che cadde di martedì nel passato settembre. Nel giovedì susseguente, 21 d°, partì il Corriere
alla volta della Marca, e doveva portare tre mie lettere, una per voi, una per Fuligno, e
l’altra per Ascoli; seppure l’averle io scritte, e portate alla posta non fosse un sogno ad
occhi aperti, e sul bel mezzogiorno. Odo ora da voi, che nulla avete ricevuto, come nulla
debbono aver ricevuto gli altri due, poiché non me ne hanno dato riscontro. Se questa
buzzerata, (perdonate il termine) non finisce, io avanzo un ricorso formale contro le poste
di Terni e di Macerata.
E per tornare al discorso della lettera, che io vi aveva scritta, essa era un processo
sempiterno, poiché scritta di minutissimo carattere da tutte le parti, e sino ne’ pezzi
bianchi, che avvanzano dalla facciata della soprascritta. Io mi estendeva sulla
commemorazione de’ nostri discorsi, delle nostre operazioni, e sopra le mie fanciullaggini
insieme con Costanzina e Checcuccio. Ricordava la schiera delle carte da giuoco, la mossa
che me ne era riserbata, i sonni tranquilli della buona signora Tecla; e gentilezza, e
raganella, ed il gatto. Ricordava la volontaria malattia del caro Flavio, le mancie da me
date a due stallieri per vostro conto, le cambiali che ne rilasciai loro sulla vostra cassa
pagabili a vista, e tante altre minute cosette, che adesso non mi tornano in mente. Faceva
in fine una esatta nota delle persone che desiderava mi fossero da voi salutate. In questa
nota erano espressi tutti i nomi de’ soggetti, colla giunta della loro qualità distintiva.
Sicché voi vedete, che per leggere tutta questa tirata vi bisognavano almeno due ore:
laonde la tenera e compassionevole posta vi avrà voluto risparmiare questo tedio ed
incomodo. Sarebbe però stato desiderabile e giusto, che non si fosse dato tanto amore pel
prossimo.
Nelle lettere che vado ricevendo da Roma, ho letto il pronto arrivo colà de’ buoni
pistacchi, i quali ci hanno portato meraviglia e piacere. Vi debbo però rimproverare per
non avermi voluto dire quanto daste al vetturale, quel giorno che prima di partire dalla
Ripa io ve ne feci richiesta. Faremo così; per ora rivaletevi sul credito mio su di voi per
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conto briscola, ed io penserò a quietare i stallieri di Loreto e Macerata possessori dei miei
biglietti di banca.
Gradirei di sapere varie cose: 1° se Vulpiani oltre la mia lettera, che voi sapete, ne
abbia ricevuta un’altra anteriore che gli mandai da Fuligno: 2° se vostro fratello Cav.re ne
abbia parimenti ricevuta una, che gli scrissi da Terni molti giorni addietro: 3° come sta la
povera Checchina: 4° come andò a finire il coccodrillo delle monache: 5° se il Sig. Cav.
Pietro Paolo è nel seno della sua famiglia, siccome udii che doveva succedere, nel qual
caso vi prego fargli i miei rispetti, aggiungendoci anche quelli che per lui vi mandai nella
mia disgraziatamente perduta. Se la presente, come spero, vi arriva, vi prego darmene un
cenno a posta corrente per mia regola circa quello che medito di fare riguardo alle poste,
giacché non é la prima volta, che a me manchino lettere, e manchino a coloro, a’ quali io le
diriggo. Né io sono un sospetto di fazioni, né le mie lettere ne contengono i semi o le
trame; e perciò la vedremo un po’ chiara.
Vi supplico a compatire a mio riguardo quel povero arciprete, il quale se è fastidioso,
è ancora più buono, ed ha tutta la buona volontà di riuscire grato con quelle stesse
premure, che per avere un esteriore poco aggradevole, invece di piacere ributtano.
Ricordatevi della carità, e soffrite in pace un vecchio infelice, al quale non rimangono più
che pochi anni, e forse anche pochi mesi di vita. Vorreste abbreviarglieli? Egli è tale con
voi, che ogni vostro riguardo anche minimo lo consola, lo conforta, e gli riempie di
consolazione la sua vita meschina.
Salutatemi tutti tutti quelli, che sapete essermi grati, cioè quelli che vi frequentano, e
dite loro, che benché io non li nomini tutti particolarmente, ciononostante li tengo tutti
vivamente fissi in memoria, in ispecie quelli fra essi, da’ quali ho ricevuto delle cortesie ed
attenzioni.
Abbracciatemi poi il caro Checcuccio, e riveritemi la dolce Costanzina, per la quale la
mia penna è sempre pronta, quando abbia bisogno di qualche altra stroffetta per canto.
Nella mia lettera perduta, io faceva a questi cari vostri figli una lunga predica sul mio
vecchio stile: in questa non ci cape; e perciò ricordino quel che ad essi diceva quando io
vivea fra voi.
Addio, mia buonissima amica: ricordatemi a Mammà, a Flavio e credetemi
V. aff.mo a.co G. G. Belli.
LETTERA 13.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Terni, 7 ottobre 1820
Caro Checco
La tua del 6 settembre fu la ultima lettera che io ricevei a Ripatransone, ed in essa
non mi parlavi affatto delle ricerche da farsi a Fuligno. Io poi partii di là il dì 11, dopo il
qual giorno non ho più saputo né puzza né odore di quelli paesi. Se dunque tu mi scrivesti
altra lettera, sarà ancora alla posta. Certo è però, che se io avessi a tempo saputo il tuo
desiderio, ti avrei servito fedelmente, copiando io medesimo il testo, non perché lo avessi
fatto meglio ma perché ci avrei impiegato la diligenza e il fervore dell’Amicizia. Ora
peraltro non ho alcuno là in Fuligno, di cui sapessi valermi in questo bisogno. Il solo amico
che io ci abbia, oltre ad essere governatore della Dogana, e perciò totalmente ignorante di
queste materie, presentemente è alla sua villeggiatura alquanto da Fuligno distante. Egli
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però mi ha promesso venirmi a trovare colla sua famiglia alla nostra campagna di Terni;
ed allora parlando a viva voce con lui, potrò interrogarlo e sapere se vi sia a Fuligno
persona alla quale affidare un incarico, il quale benché sembri ridicolo, è pure di qualche
peso, giacché dalla inesattezza de’ copisti ignoranti deriva spesso confusione, ed infedeltà
di lezioni.
Tu intanto spiegami meglio se o tutta l’opera vuoi copiata, od i soli settenari di
profezie del T. Gualdo. Confesso che sarei indeciso sul tuo desiderio, poiché quantunque
sembri che tu parli di questi soltanto, purtuttavia non lo dici distintamente. Ripetimi
ancora il nome dell’autore della intiera opera, poiché essendo questo caduto sotto al
suggello della lettera è restato lacerato, e indistinto. Usa la cautela di lasciare nelle lettere
un pezzetto bianco, onde il suggello non produca simili guasti. Dal poco che ho potuto
capire di questo nome, crederei che potesse essere F. Stupe, ma non so se ci abbia
indovinato. Dall’altra parte io quest’opera non la conosco. Il nome dell’editore è chiaro:
Agostino Alteri nel 1685, e questo va bene.
Quel De Romanis è un capodopera: non regge in nessuna unione; ed ora credo, che
questo scismatico giornale, o andrà poco avanti, o ne farà pochi spicci; e meno da spicciare.
Mi duole oltremodo la febbre del povero Peppe. Istruiscimi del suo ristabilimento,
che già spero seguito. Altrettanto poi godo della buona salute di Papà Mammà e
Clementina, che mi saluterai tanto e poi tanto, e più ancora.
Lepri dunque non ha ricevuto una lettera che io gli diressi a Roma colla direzione al
domicilio. Si parla in essa dell’Eroe di Pico in 4 sonetti. Mi diverto così: non credo però che
al mio ritorno ci sia tanto da dire a lungo su queste mie povere cose, siccome tu dici. Ti
abbraccio da amico
G. G. Belli
LETTERA 14.
A TERESA NERONI — RIPATRANSONE
Di Terni, 22 ottobre 1820
Amica carissima
In questo medesimo corso scrivo a Vostro fratello Peppe (detto così in confidenza) di
cui ho ricevuto una lettera al solito ritardata. Al disordine, che apparisce nell’esercizio
delle poste, non fo più meraviglia, se le due mie vi arrivarono insieme, se Vulpiani non ne
ha ricevuta che una di due da me scrittegli. Ho molto gradita la notizia che Checchina sia
guarita. Vi assicuro, che al momento della mia partenza dalla Ripa, oltre il dolore
causatomi dal di Lei gravissimo male, provai quasi eguale rammarico non potendo
dimostrarle con qualche atto di gratitudine consueto, la riconoscenza che io nudriva per le
tante attenzioni da Lei usatemi per tutta la mia dimora pr. alla buona famiglia Vulpiani.
Ne avrei incaricato D. Giusto, come vi dissi più volte, ma egli era assente; e non potei
trovarlo neppure a Macerata, stando egli quel giorno con Armaroli in Appignano. La
medesima assenza di D. Giusto fu la cagione del silenzio, di cui egli si lagna. La mia lettera
era del 21 settembre, e se fosse arrivata in corrente, secondo quanto D. Giusto mi disse,
egli non doveva ancora essere tornato alla Ripa. Ecco perché in quella prima lettera non lo
nominai, avendo altronde nominato tutti gli altri distintamente: e mi pare che a D. Santi io
dicessi sottomaestro; dunque se mi ricordai del sotto, mi ricordava anche del sopra. Circa
poi alla seconda lettera, egli non ha di che lagnarsi, perché io vi pregai in essa di salutare
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quanti frequentano la vostra casa, fra i quali egli ancora è compreso. Per placarlo però
totalmente, vi prego in questa di salutar lui tre volte, e gli altri una sola. Non vorrei, che se
un giorno ricado sotto la sua disciplina, si vendicasse a colpi di frusta, e colla tavoletta del
somaro. Se il mio caro Dottore si ricorderà della Colonna di Campo Vaccino etc. etc.
comprenderà il senso della parola perpetuella. Non si stancarà mai di dire che a suoi tempi
non c’era. Sarei cionostante dolentissimo se egli si fosse offeso di questo epiteto, ché in tal
caso ritiro subito, e gliene chieggo scusa; perché io voglio stare sempre in pace con lui,
verso il quale ho stima ed obbligazioni. Caro quel coccodrillo del pozzo, e care quelle
monachelle, che se l’erano creato dentro quella cara testa fasciata da quelle carissime
bende! Per un tronco d’albero incomodare de’ votapozzi, inquietare un vescovo,
disturbare una Città, infastidire Domine Iddio! Le loro fervorose preghiere (facendo
astrazione dallo scopo) mi sembrano quelle delle ranocchie pel travicello. Ma i travicelli
sono sempre travicelli, e le monache saranno sempre monache. Non so se questo paragrafo
converrà coi rigidi principj del caro amico Flavio; ma l’avventura è così bizzarra, che
merita bizzarre parole.
Credo che saremo vicini allo sposalizio del buon vostro compare Niccolino. Uno dei
dispiaceri, che mi reca la mia lontananza da Ripatransone, è il non poter vedere questa
solennità, la quale deve molto rallegrare lui e la sua famiglia, come la sola circostanza, in
cui l’uomo è veramente contento. Quanto godrei nel contemplare la gioia dello sposo, e la
timidità della sposa! quale soddisfazione avrei di trovarmi fra i brindisi delle due famiglie,
e degli amici concorsi ad accrescere con la loro allegrezza il dolce brio della festa. Forse io
non sarei degli ultimi ad alzarmi dal mio posto con un bicchiere in mano, ed elevando gli
occhi al cielo, pronunciare colla verità sulle labbra li semplici voti del mio desiderio: Dio,
benedici [...] la nostra gioia, e la loro unione; e spargi sopra [...] i tre primi tuoi doni, pace, salute e
ricchezza. E poi direi mille minchionerie confacenti alla circostanza, e necessarie per
conservare il buon umore, che è il quarto dono di Dio procedente da que’ tre, che ho detto
di sopra. Se con questi tempi Mammà dorme, ha ragione. Cos’altro si avrebbe da fare che
taroccare, o dormire?
Conservatemi vivo nella vostra memoria ed io procurerò di conservarmi sempre il
nome prezioso di
vostro amico G. G. Belli.
P.S. Salutatemi distintamente Vulpiani, e ditegli che io non gli scrivo più se non ho
sue lettere.
LETTERA 15.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Terni, 22 ottobre 1820
Carissimo amico
Io non capisco più niente del corso di queste maledettissime poste. La mia del 24
settembre vi giunse il 5 ottobre, e la vostra del 6 mi è arrivata il 18. Chi potrà pertanto
indovinare quale giro queste lettere si facciano, o per quale motivo restino a covare nelle
poste? Quello che mi accade con voi, mi è accaduto con Vulpiani, il quale di due mie
lettere non ne ha ricevuta che una, ed io nessuna delle sue, che pure deve avermene scritte;
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e mi è accaduto con vostra sorella, alla quale sono state date unite due lettere di
distantissima data.
Non arrivo a comprendere la vera causa della vostra colica morale. Mi accusate per
sua origine la non curanza dell’etichette del Mondo; ma ignoro come questa negligenza
possa partorire un male temuto da voi di tanta durata, per affliggerne seriamente chi da
simili etichette non può sperare vantaggi né temere danni. Voi non avete bisogno del
Mondo: lo possedete tutto nella vostra fortuna, e fra le mura della vostra casa, colla
famiglia vostra, co’ vostri amici e coi sollievi, che attingete dalla cara musica, e dal dolce
studio dei libri, di cui avete formato una sì bella raccolta. Che se poi queste etichette
disprezzate non riguardino il mondo maschile, ma il muliebre, la cosa assume subito un
altro aspetto, e la vostra colica morale può più facilmente spiegarsi.
Mi chiedete dettagli più particolari dell’abilità de’ musici, e della qualità della musica
di Spoleto. Voi forse riderete, se io vi risponderò, che non mi ricordo il nome dello
spartito, né del suo compositore. Ma questa mia dimenticanza vi darà qualche lume,
facendovi conoscere, che la bontà dell’opera ottenne da me tanta attenzione quanto
bastava per farmi giudicare lì per lì del merito delle cose parziali, e poi scordarmi del
tutto. Se però debbo dar retta ad una rimembranza confusa, che me ne è rimasta, l’opera
mi pare che fosse il Matrimonio per concorso, ed il Maestro Nicolini, Farinelli, o cosa simile
diminutiva. La composizione mi parve però abbastanza mediocre circa al musicale:
riguardo al poetico, assolutamente cattiva. Le parole mi fecero nausea, e la condotta non la
capii. La prima donna benché manchi di alcuna consonante, pure in Roma non dispiacque
tanto, una volta che cantò da soprano ne’ Maccabei di Trento. Aveva allora qualche grazia
di dire, ed un non so che di piacevole nella voce. A Spoleto non la trovai più quella, e non
mi fece né caldo né freddo, benché il difetto della lingua, non compensato da altra vernice,
mi portasse piuttosto al freddo che al caldo. Questa è la Sig.ra Paris, e di lei vi basti. Il
tenore è un ragazzo di Volterra, dove ha moglie e figliuoli. A me sembrò sguaiatello assai, e
voi ne giudicherete meglio, perché più di me ve ne intendete. Egli non è assolutamente
pessimo, ma a me... che so io... — Delli due bassi, uno è un cannarone, il quale ha una voce
di bagherino Romano, e l’abilità di un cantore di esequie. L’altro è il Sig. Liparini padre
vecchio della brava Liparini, che adesso sta figurando sulle scene di Europa nelle opere
buffe. Gli allori della figliuola, e qualche foglia secca degli antichi suoi proprj fanno
insieme fatica per meritargli indulgenza a quel pochissimo, di cui può egli adesso far
dono. Voce di naso e tremula, mimica affettata per supplire alla voce etc. etc. La seconda
donna, e l’ultima parte, sono tali da non farne parola. L’effetto prodotto nel teatro di
Spoleto, giudico debba essere prodotto eguale in quello di Ascoli da eguale compagnia.
Forse però una diversa musica può variare l’effetto, poiché accade spesso che un attore
figura meglio in una musica che in un’altra. — Io in questi giorni mi avvicinerò a voi di
trentasei miglia, perché vado a Fuligno, e di là piego poi a sinistra per Perugia. Ne’ primi
di novembre però sarò nuovamente in Terni, e vi resterò sino alli 7, o alli 8, nella quale
epoca tornerò a Roma. Questo vi serva di regola, se vorrete scrivermi. La vostra visita
sanbruto sanbruto mi sarebbe graditissima: e voi sarete il vero padrone di venire santo
fasone, e di andarvene ancora insanitate hospite. Replicate i miei saluti all’amico Sig.
Voltattorni, e fatemi schiavo del Conte nostro.
Il V. amico aff.mo G. G. Belli.
P.S. Vi prego, se andate in Ascoli, dimandare a Renazzi se ricevette una mia lettera.
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LETTERA 16.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Spoleto, 4 novembre 1820
Caro Checco
Quel mio amico di cui ti annunziai la venuta nel mio casino di Terni, mi scrisse dover
restare in Fuligno per un ordine del tesoriere, il quale l’obbliga di assumere oltre la sua
carica di Governatore della Dogana, anche quella di sopraintendente delle finanze di tutta
la provincia, pel viaggio a Firenze che ha dovuto fare questo primario Ministro. Vedendo
io dunque fallito il progetto, che ti manifestai circa al tuo affare; nella occasione che sono
qui venuto per un mio interesse, ho dato una corsa io stesso a Fuligno, il quale non è
lontano da qui che 18 miglia. Ne’ tre giorni pertanto di mia dimora colà ho cercato que’
due libri, ma invano nella biblioteca del Seminario, la quale per una traslazione da un
luogo ad un altro del Seminario medesimo, ha sofferto molte perdite compresa quella
dell’indice, ed ora sta ammassata in confuso e senza alcun ordine in una stanza. Cercando
però altrove ho trovato il Tommasuccio da Gualdo nella biblioteca del Marchese Bernabò, e ne
ho ordinata una copia fedele, la quale, se mi arriva in tempo porterò con me a Roma,
altrimenti l’avrò a Roma poco dopo il mio arrivo. Relativamente poi allo Stupe, parlai con
un tal Professore di eloquenza Ab.e Santarelli, il quale mi disse avere di questo libro una
certa memoria; e però glie ne ho lasciato gl’indizi, ed egli mi ha promesso farne ricerche
diligenti nella riferita biblioteca malmenata. Pe’ librai, ed altrove non si trova certo,
avendolo abbastanza cercato; onde se si rinvenisse al Seminario, non ci è altro mezzo per
averlo, che farne fare una copia. In tutti i modi, quando siasi trovato, io ne sarò tosto
avvisato.
Fra mezz’ora parto per Terni, ove forse io mi troverò a ricevere una tua risposta, se
me la fai in corrente. Che se non mi scrivi in corrente, o stimi inutile di farlo, parleremo
meglio in voce al mio prossimo ritorno al paese. Chiodi e Lepri saranno forse tornati, o
staranno per esserlo. Salutameli tutti, ed anche i miei parenti se li vedi, e tutti li tuoi.
E ti abbraccio di cuore.
Il tuo aff.mo a.co G. G. Belli
LETTERA 17.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Terni, 6 novembre 1820
Carissimo amico
Il Sig. Guidi di Acquaviva, che si trova in questa Città, mi favorisce di recarvi una
mia lettera. Non so se l’altra mia, nella quale vi partecipai le notizie teatrali da voi
richieste, vi sia pervenuta: ma spero di sì, perché ho avuto risposta da vostra sorella, a cui
scrissi nello stesso ordinario. Laonde tralascio di replicarvi dei dettagli, che ripetuti vi
annoierebbero, e nuovi vi sarebbero a quest’ora presso che inutili.
Il desiderio, che, con grande mia soddisfazione mi avete dimostrato di vedere spesso
i miei caratteri, mi ha suggerito il pensiero di profittare di una occasione così favorevole
per farvi arrivare un pegno della memoria viva, che conservo di voi, e dell’amicizia, che
mi avete saputo inspirare. Non vogliate credere che la lontananza ed il tempo abbiano
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indebolito in me la immagine di ciò che vi appartiene, e vi circonda. Ancora mi pare di
essere a S. Benedetto, di passeggiare con libertà nelle nostre stanze, di udirvi a suonare il
basse ed il clarettone, di valicare nel vostro legno il Tesino, o Ticino che sia; insomma di
conversare con voi, e con gli amici che vi siete scelti per compagnia della vostra vita
tranquilla. Fra due o tre giorni io parto di qui per la mia patria, dove tornerò alle mie
consuetudini, impiego cioè, passeggio, ritiro, e silenzio. Conosco in queste poca utilità per
la mia salute fisica, ma temo, che troverei peggio per la morale, quando così non vivessi,
ed andassi ad immergermi in quel vortice, nel quale quattro quinti degli uomini
pretendono trovare felicità. Io ho poca età, ma pure in ventinove anni di vita, non mi è
ancora mai saltato in pensiere di assaggiare questa felicità, di cui odo sempre le laudi, e
non vedo mai la realtà. E perciò credo, che per tutto il tempo che dovrò ancora passare nel
mondo, mi contenterò di condurre la mia vita oscura, e se vogliamo anche dire apatistica,
poiché deciso come sono di astenermi sempre dalla partecipazione delle altrui
contentezze, voglio procurare per quanto posso di salvarmi dagli altrui rammarichi, e
dolori, e sollecitudini, che sono secondo il mio giudizio il tossico inevitabile attinto dalli
poveri uomini a quelle stesse fontane, alle quali concorrono per cavarsi la sete de’ piaceri
terreni, che inebriano, e non consolano mai. Questo è un perioduccio un po’ lungo, ma mi
[è] venuto così dalla penna, e voi ve lo sorbirete come tutte le altre mie noiose tirate.
Quando anderete a Ripatransone, dove so che da molto tempo non si hanno vostre notizie,
favoritemi portarvi i miei saluti a tutti di vostri famiglia prima, e poi a quelli che più
convengono nel nostro carattere.
Vi prego così di riverirmi il Sig. Gabriele, e gli altri Sigg. Voltattorni; e senza più dire
vi abbraccio.
Il V.aff.mo a.co G. G. Belli
LETTERA 18.
[A TERESA NERONI?]
[13 gennaio 1821]
Gentilissima quella donna mia
Il Sig. Belli m’impone significarvi avere egli risoluto di non uscire questa mattina di
casa, così persuadendolo un deliziosissimo dolore, che gli ha stabilito quartiere d’inverno
in coppa a lu pietto. Vi prega mandarmi pel renditore di questo biglietto il vasello di
estratto d’assenzio, del quale io bramo far trattamento al mio amico Sig. Belli avanti al
pranzo: affinché egli possa mercé una buona panciata assopire, divertire, o minchionare
una certa doserella di buzzere che mi pare gli vadano passeggiando pel capo. E vi supplico
nel tempo medesimo di dire da mia parte e del Sig. Belli mille cose dolci e zuccherine alla
amabilissima Sig.ra Contessa Chiarina, ed all’Arciduca Luigi nostro benemerito alleato. Né
mi scordate presso la Sig.ra Cleta, e presso la vostra Signorina, erede (diciamolo alla
parigina) delle vostre attrattive e delle vostre virtù. Ho detto una grande e bella galanteria,
e non mi credeva capace di tanto. Or’ andate a stimar le carogne! E sono contento di
esserlo, purché sia una galante carogna francese.
Vi B.L.M.
V. Serv. ed a.co G. G. Belli
Di casa, 13 gennaio 1821, alle 10 antimerid.e
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LETTERA 19.
A SILVIA CERROTI CONTI — ROMA
Ripatransone, 19 agosto 1821
Cara Mammà
Mercoldì scorso, giorno onomastico e natalizio di Mariuccia, non potendo io più
dormire, mi alzai all’Aurora, colla mente tutta ingombra del piacere, che avrei gustato di
passare quella giornata in mezzo alla nostra famiglia. Sono già tre anni, io andava tra me
stesso dicendo, sono tre anni, che in questo giorno io sto lontano da Roma, né più auguro
di viva voce a Mariuccia le felicità che ella merita. Fra queste e simili riflessioni presi la
penna e composi tutti d’un tratto i versi che qui vi trascrivo. Essi sono debolissimi, perché
spremuti quasi per forza di desiderio da un ingegno illanguidito troppo dalle infermità.
Oltrediché arriveranno tardi, essendo già scorso il giorno, in cui avrebbero dovuto già
essere giunti al destino. Cionostante io ve li mando, e li mando a voi, perché con la vostra
bella enfasi, e con quel tuono di materna tenerezza, li declamiate in mia vece a Mariuccia,
alla presenza di quelle persone che l’amano.
Persuadetevi che la idea di vedervi e di udirvi sarà per me nei prossimi giorni la più
schietta consolazione in questi luoghi solitari, dove non penso che alla casa nostra, da cui
debbo così spesso distaccarmi per ritrovar la salute. Abbracciatemi Papà, e zio.
Salutatemi tutto il resto della famiglia e ricordatevi sempre del vostro
aff.mo genero G. G. Belli
Tra le sorelle che gli stan intorno,
Espero già coll’amoroso lume
Va all’occidente ad annunziare il giorno.
E tremolando sulle incerte piume
Già coll’ampolla di rugiada piena
Vien l’alba fuor dalle marine spume.
Seco uno stuol di zeffiretti mena
Che d’aliti soavi e molli fiori
Spargono il Cielo, che biancheggia appena.
E già l’Aurora dagli antichi amori,
Sveltasi a forza di Titon suo fido
Riconduce alla terra i suoi colori.
Tutti gli augelli già lasciano il nido,
Escon le belve dalli suoi covili,
Vengono i pesci a trastullarsi al lido.
E l’agnellette dalli chiusi ovili
Tratte all’aperto accoppiano i belati
De’ suoi custodi alle zampogne umili.
Tornan le vacche ai pascolari usati,
E muggendo richiamano i vitelli
Che van dispersi a folleggiar sui prati.
Là il saltar vedi de’ puledri snelli,
Là il cozzar miri de’ gelosi arieti,
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Qui l’anitre tuffarsi ne’ ruscelli.
Ah! poi che tanto gli animanti lieti
Rende il bell’astro quando imprimer suole
L’ultimo bacio sulla fronte a Teti:
Perché le umane creature sole
Privansi il cuore della gioia pura
Di salutar nel suo natale il Sole?
Io però fuor delle insalubri mura
Esco soletto quando il gallo canta,
E si rallegra ogni altra creatura.
E pieno il petto di dolcezza tanta
Ti benedico, o luce mattutina,
Che prezïosa per me sorgi e santa.
Ti benedico, o grazïa divina,
Che il primo raggio ai pargoletti lumi
Oggi vibrasti della mia Regina.
Dico di Lei, che mi donaro i Numi,
Che sola di piegare ha signoria
Il mio cuor, le mie voglie e i miei costumi.
Oh dunque sempre benedetto sia
Questo bel giorno, e questo mese, e l’anno
In ch’ella nacque perché fosse mia.
E benedette sian le piante, che hanno
Questo del loro amor germe produtto
Per ristorarmi d’ogni antico affanno.
E sì la vita mia piena di lutto
Scorsa sarebbe, e de’ miei studi avrei
Colto assai scarso e molto acerbo il frutto;
Dove nel colmo de’ disastri miei
Per l’amarezza dello mio dolore
Non avessi a pietà mosso costei.
Pietà le pose la mia storia in core,
Appresso alla pietà venne amicizia,
E all’amicizia poi successe amore.
Troppo ahi del Mondo la crudel malizia
Fatto aveva di me tristo governo!
Ma pur mi scordo d’ogni sua nequizia.
Ed ora intorno a me più non discerno,
Che il dolce aspetto della mia famiglia;
E di bearmi in lei spero in eterno.
Pur, se memoria v’ha che dalle ciglia
Una lagrima ancor spremere mi possa,
Egli è il pensier della perduta figlia.
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È questo il solo che li nervi e l’ossa
Talor mi scuote, ma sperar mi giova,
Che sia del reo destin l’ultima scossa.
Così l’anima mia pace ritrova;
E vede che dal dì ch’io vivo teco,
Vivo, o mia Vita, d’una vita nuova.
Né punto calmi se invidioso e bieco
Della fortuna mia l’occhio mi guardi:
Se tu mi guardi insiem, quell’occhio è cieco.
E se il veleno di morbosi dardi
Incontro al petto mio spesso ella vibra,
Per farmi tristo quel furor sien tardi.
Ché l’amor tuo l’affievolita fibra
Veglia a saldarmi, e tenero e pietoso
Le dolci cure coi bisogni libra.
Però trar lagni sul malor non oso,
Onde il ciel forse vuol purgarmi l’alma
Di qualche morbo più maligno e ascoso.
Ma la speranza che ogni doglia calma,
Fra i tuoi conforti dentro il sen mi brilla
In benefizio dell’afflitta salma.
E tu vedrai di nuovo a stilla, a stilla
La salute colar nelle mie vene,
E raccender la mia spenta pupilla.
Siccome allor che pel Cielo viene,
Dopo una pioggia di stagione estiva,
Iride bella a far l’aure serene:
La Natura spirante si ravviva;
E li pastori che fuggian col gregge
Tornan sul prato a modular la piva.
Ma qualor Giove che lassù corregge
Quanto qui abbasso si succede e move
Con fissi eventi e con prescritta legge,
Me ancor serbasse a più crudeli prove;
Noi dovremmo baciar l’aspro flagello,
E li decreti rispettar di Giove
Ché d’ogni altra virtù questo è il suggello.
Se mai, cara Mammà, o i vostri occhi, o il mio carattere, o la mia propria ortografia, o
qualche altra ragione poetica vi facessero dubitare di leggere questi versi, allora aspettate
una sera, in cui venga in casa qualcuno, al quale questi ostacoli sieno piani, e fategliene
fare la lettura.
In tutti i modi pensate voi a far sì, che Mariuccia riceva questo tributo che io Le offro
in mancanza di altro. Forse alla umiltà della medesima dispiacerà, che questi versi si
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leggano in pubblico, ma spero che ne sarà poi contenta, quando sappia che ciò mi farà
grande piacere. Io adesso sono come un fanciullo. La minima cosa mi rattrista, e la minima
cosa mi rallegra: figurate poi l’occuparmi di Mariuccia, che per me non è minima cosa,
quanto debba recarmi sollievo.
LETTERA 20.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Ripatransone, 30 agosto 1821
Caro amico
Poiché voi dormite di un placidissimo sonno, io vengo a risvegliarvi col ronzio del
mio pimpleo colascione. Ecco il sonetto per voi, e quello pel nostro Sig. Giuseppe. Se
serviranno, vi prego che se ne osservi dallo stampatore esattamente la ortografia, e la
interpunzione. Circa i titoli, fateci quelle sostituzioni che meglio credete, purché non siano
troppo verbose. Pregate poi il Sig. Voltattorni perché io non sia nominato appiè del
sonetto, che ho scritto per lui. Il nome dell’autore non è necessario: che se per la superiore
approvazione non se ne potesse far senza, ci ponga il suo, se vuole, od un altro a sua
scelta.
Il malanno da me sofferto sulle coste non mi ha ancora permesso di star curvo per
finire il vostro prospetto. Quante volte però vi bisogni intanto quel disegno dell’Architetto,
potete chiedermelo, non avendone io che una mediocre occorrenza.
Questa è la terza lettera che vi diriggo. Adesso ci calzerebbe a capello un bocconcino
di risposta, per provarmi che vi ricordate del vostro vero amico
G. G. Belli
P.S. I saluti a Gabriele etc. etc. etc. ci s’intendono.
oggi ho miseria di carta
LETTERA 21.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Ripatransone, 13 settembre 1821
Mio carissimo amico
Appena ordinato il mio piccolo bagaglio, mi accingo ad occuparmi degli uffici da me
dovuti all’amicizia, che mi lega con Voi. Queste prime parole sono per se stesse
abbastanza chiare per dimostrarvi che io piglio da voi congedo, nel momento in cui sto per
abbandonare questa provincia, e le buone persone che vi ho conosciute. A Ripatransone
no, pel suo clima, ma a S. Benedetto avrei desiderato passare il prossimo autunno, e
l’inverno, e la seguente primavera; e voi già lo sapete: ma una lega di molte e diverse
combinazioni mi costringono a recarmi sollecitamente nell’Umbria, e quindi per novembre
a Roma; dove poi voglio aspettare o la salute o la morte. La parte maggiore di simili
combinazioni è per me dolorosa: la minore mi è al più indifferente, riguardo agli effetti che
mi potrebbe produrre. In avvenire vi spiegherò meglio tutto ciò; e vi metterò a parte de’
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miei dispiaceri, che non saranno mai per mancarmi, e delle mie consolazioni, se piacerà a
Dio di mandarmene.
Arrossisco di vergogna nell’involgere il disegno, che riceverete qui annesso, sapendo
che per la forza della promessa mi gravavi il debito di unirvene un altro eseguito da me:
ma se vi dico che non ho potuto farlo, non vi esagero il vero. L’incomodo sopraggiuntomi
al mio ritorno costà, rinnovato per la seconda volta dalle medesime cause, mi fa ancora
dolere delle sue conseguenze, fra le quali annovero quella di essere con voi comparso un
bugiardo. Voi mi taccierete al solito di soverchia delicatezza; ma io così sono fabbricato, e
bisogna distruggermi da’ fondamenti per togliermi queste idee dal cervello. Conservo
però presso di me gli elementi del lavoro promessovi, il quale vi arriverà, se non accetto,
sicuro almeno ed inaspettato. Quando e come che sia, vi servirà di un richiamo per
ricordarvi di me.
Venghiamo adesso al Capitolo de’ saluti, che non è di poca importanza. A Gabriele
ditegli un addio santo fasone, perché non vada spacciando, che me ne sono andato così in
sanitate hospite. Al Sig. Giuseppe, se fra le sue addolorate preparazioni è capace di
distrazione, ricordategli in me un servitore senza livrea, così di Lui come delle sue gentili
Signore. E se il Sig. Checco vi dimandasse se io mi sia ricordato di Lui, rispondetegli in
falsetto: e sicuro. Col suo mezzo fatemi riverire la famosa al tresette Sig.ra Vittoria, e
quell’altra Signora che tanto bene sa cantare: e zucche e zucche, e cici. Il Sig. Antonio si metta
in mezzo a questo fermento di saluti e riverenze, e gliene toccherà la sua parte. Né mi
scordo del paesano mio: e finalmente mi cavo la berretta davanti allo Stoico che tenete
appiccato incontro al vostro scrittojo.
Tornando ora a voi: io intendo di essere sempre impiegato da voi e dalla Sig.ra
Pacifica in ogni circostanza, in cui possa provarvi la mia riconoscente amicizia.
Il V. a.co vero G. G. Belli
LETTERA 22.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Terni, 22 settembre 1821
Caro Checco
A Fuligno trovai la tua veramente graziosissima perché cominciava con tre grazie. Tu
dunque compatisci que’ poveri poveti da me ridotti alla miserabile condizione di un Cassio
e di un Giuda; e non conti per niente il tormento mio orribile di sentirmi crepare dalle risa e
non poter ridere per rispetto umano? Né ti dilungasti dal vero quando temesti che la mia
lingua non voglia finirla qui; perché infatti mi va passando qualche ideuccia per la testa di
aggiustar loro un po’ meglio il corpo per le feste: senza però nominarne alcuno
individualmente, e per la santa carità di fratello, e per la riverenza delle nostre
accademiche leggi. Ma a proposito di Accademia, ci sarebbe pericolo che la di lei perdita,
da te con mistero annunciatami, fosse il letto del Tevere ovvero il ricattiere che a Lei lo
affittava? Leggi di grazia a questo proposito il seguente sonetto da me scritto in Ascoli nel
mese di giugno, e non mai a te spedito, per paura che alcuni nostri confrati se lo avessero a
male.
Fra i Lippi, o Cecco, e fra i Cursori ancora
Certa novella in Pico si bisbiglia;
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Che il Padre Tebro colla sua famiglia,
Per giusti fini vuol cambiar dimora.
Se questo è vero noi vedremo allora
Mille antiquarj rinnarcar le ciglia,
Sperando pur che dalla sua mondiglia
Qualche bel pezzo caveranno fuora.
E credo bene, che di roba antica
Buoni frammenti troveranno in copia,
Con poca spesa e con minor fatica.
Ma di moderna sarà grande inopia;
Perché oggi, a nostra confusion si dica,
Poco s’inventa più, molto si copia.
Ignoro se, immaginando la qualità della perdita accademica io mi sia apposto anzi al
falso che al vero: ma poiché tu mi dici quella essere perdita da consolarsene, per questo
riguardo mi pare di non errar di molto. Però tu devi o non leggere ad alcun tiberino questo
sonetto, o se lo vuoi leggere senza timore di conseguenze, leggilo appunto a quelli
macchiati della pece della quale è discorso: perocché è certo che eglino non saranno per
mostrarne alcun fastidio, onde non comparire a fare il lupus in fabula.
Mi consola moltissimo la notizia del ristabilimento dell’amico Peppe, e del grande
miglioramento della cara Clementina, la quale a quest’ora sarà ritornata un fioretto. Tanto
questi quanto tutti gli altri di casa, e così gli amici come i colleghi, che si ricordano di me,
tu risaluta da mia parte. La mia epistola composta a solo fine di distrazione e passatempo
non merita i tuoi elogi né quelli di chi l’ha udita da te recitare. Vedo però che voi altri mi
siete assai più indulgenti che non mi è la mia Musa.
A me accadono tutte belle, e, come si dice a Roma, badiali. Domenica sera 16 del
corrente io arrivai a Tolentino morto di sonno, e non potei trovare un buco per dormire un
paio di orette. La festa del beato S. Nicola vi aveva attirato tanta gente dei contorni, che io
fui obbligato a pigliare un legno fresco e ripartirne a due ore e mezzo appena sparato il
fuoco artificiale. E questo sia un proemio del racconto di quel poco di solennità, di cui in
quel breve spazio di tempo mi fu permesso di godere. Ti giuro che mi divertii senza capo
né fondo. All’avvicinarmi alla Città il continuo suono de’ sacri bronzi mi andava
annunziando qualche cosa di grosso; ed il mio legno premeva e squarciava frequenti e
densi gruppi di villani vestiti in fiocchi, e di tale fisonomia, che pareva che più di Bacco si
trattasse che di S. Niccola. Ad un quarto di miglio dalla porta della Città incontrai un
palchetto parato pomposamente di un candidissimo lenzuolo rappezzato, e guarnito da
una vaga bordura di carta dipinta a patacche di vari colori.
Dalla banda della strada, ove questo palco sorgeva, non avendo il terreno né muro,
né fratta, né altro riparo, ma divallando in un declivio molto precipitoso, vi era stato tirato
giudiziosamente uno spaghetto rinforzato, il quale per tutto il tratto della strada veniva a
misurare distanze sostenuto da politi bastoncelli conficcati in terra, in quella guisa
appunto che noi piantiamo i mazzuoli per le civette. Colpito dall’apparecchio, dimandai
che significasse. “E che, mi fu risposto, non lo saccete, che se fa la carriera?” — Tra lo strepito
di chitarroni e tamburelli destinati a rompere il capo a S. Niccola ed a me, e fra due lunghe
file di banchetti coperti di corone e di santi dipinti e non dipinti, io passai per un vicolaccio
chiamato lu corso, ed arrivai in piazza grande dove sta la locanda, in cui io aveva creduto
di dovere albergare. Là trovai tutto l’esercito provinciale sotto le armi, vestito in istretto
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uniforme, coi gomiti ricusciti di filo bianco sopra un fondo oscuro sì, ma così turbo, che
non se ne poteva riconoscere la tinta. Vi si era amalgamata la patina del tempo, che a poco
a poco tutte le cose fa di un colore. Ogni soldato aveva sul berrettone un mazzetto di erba
a piacere; e con bella varietà qua verdeggiava la paretaria vicino all’alloro, e là presso alla
mortella il diuretico crescione. Tutti poi cingevano spade, di cui almeno vedevansi le
guaine ed i pomi; ed imbracciavano certi archibugi fabbricati al tempo di Cimosco. Chi
volesse essere un poco satirico direbbe che due di essi portavano due fucili da caccia, quasi
avessero a fare con passeri o con merlotti.
Tutto ad un tratto ecco un bisbiglio. Il popolo si ritira, si presentan le armi un po’ per
volta e passa un frullone carico zeppo di magistrati e di fanti di palazzo. Avrei piuttosto
giudicato essere quello il carro di Nettuno vistolo così tirare da sei enormi storioni: ma il
suo andare per terra, e l’abito di chi vi era portato mi persuasero diversamente. I
magistrati erano sei; i postiglioni tre; e li donzelli quattro: in tutto capi n. 13. Il vestiario
della magistratura consisteva in tutto quello che si aveva potuto ritrovare di meglio per la
Città, benché gli si potesse rinfacciare un tantinello di difformità: ma queste sono inezie da
passare sotto-cappotto. La livrea della corte di un vivacissimo rosso sporco traeva risalto
da certi cappelli bordati di carta d’argento, e fatti, per dartene una idea, sulla forma delle
antiche galee della Santa Lega. Uno de’ quattro donzelli portava una tromba ad armacollo.
Partito il corteggio a briglia sciolta, poco dopo si udirono dieci colpi di mortaro, e quindi a
non molto arrivarono tre barbarissimi barbari con un passetto castellano piuttosto veloce,
benché di tratto in tratto si fermassero a riprendere fiato. Vinse un bajo scodato, il quale
servate le debite ceremonie, toccò sei buoni scudi di premio per le mani della reduce
Magistratura. — A un’ora e mezzo di notte s’incendiò la macchina, la quale rappresentava
una cosa che non si capiva ma che era molto bella. Il fuoco fu brillantissimo, malgrado che
certi eretici pretendessero che non si potesse soffrire. È però vero, che un disgraziato
girello, invece di girare a cerchio, sbagliò moto, e andava ciondolando come un pendulo di
oriuolo. Imprudentemente allora mi fuggì di bocca: ve’ ve’ ecco il pisciabotte! e tosto un
soldato, di que’ due dal fucile da caccia, mi si accostò gravemente, e mi domandò cosa
fosse questo pisciabotte. Io gli risposi senza sgomentarmi essere un certo negozio del
paese mio. Egli allora si approssimò al palco de’ Magistrati, ripeté le mie stesse parole le
quali parvero persuaderli; e la cosa finì così. Ma se per mia disgrazia io dava di naso in un
magistrato o meno benigno, o più bestiale di quello, vedi, caro Checco, a quale rischio io
mi ero esposto per non frenare la lingua.
Terminato il fuoco mi si disse avvicinarsi l’ora del teatro; ma io già sazio di feste,
volli andare a saziarmi di cibi: onde cenai e partii. Pel giorno seguente si preparava gran
fiera; onde procurare di spogliare qualche povero compratore, in onore e gloria del
Protettore S. Niccola. — Ho parlato a Spoleto con la Poetessa Rosina Taddei la quale mi ha
imposto di salutarle gli amici di Roma, e specialmente Battistini e Ferretti. Se il vedi, fammi
da procuratore. Se la carta non finisse non ti abbraccierei ancora: ma amen, e lo faccio di
cuore.
Il tuo G. G. Belli
LETTERA 23.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Terni, 27 settembre 1821
Caro Neroni
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Non voglio che trascorra tanto tempo senza che vediate miei caratteri, ed abbiate le
nuove di mia salute, la quale sinora è migliore di quello che io ne aveva sperato.
Nel passare da Spoleto ho domandato a tre o quattro miei amici delle informazioni
sulle qualità del Sig. Bolli; e le ho ricevuto uniformi a quelle già a voi pervenute. Questo
soggetto gode di buona riputazione in tuttociò che forma lo scopo del vostro interesse.
Pregate a mio nome il Sig. Giuseppe Voltattorni perché dia per me una o due copie di
quel sonetto stampato per la festa dell’Addolorata; e se voi farete stampare l’altro pel
matrimonio del V.° Pajelli vi prego del medesimo favore.
La Sig.ra Teresa vostra sorella si compiacerà incaricarvi del loro ricapito. Siatemi
cortese di vostre notizie, le quali sempre m’interessano. Riveritemi la Sig.ra Pacifica; e
salutatemi que’ buoni pacchiani de’ nostri amici. Sono col solito affetto, e colla medesima
stima
Il V. aff.mo a.co G. G. Belli
Riuscì brillante la festa? Datemene qualche cenno.
LETTERA 24.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Terni, 20 ottobre 1821
Caro Checco
Perdona se t’incomodo. Sono stato pregato di fare una inscrizione lapidaria per una
defunta. Io sono sicuro che comporrei una epigrafe senza errori, o almeno me ne lusingo;
ma sono insieme convinto, che non le darei il perfetto sapore che a questo genere si
compete. Fammi il piacere di pregare o Pippo De Romanis, o qualcun’altro de’ molti abili
nostri amici, perché voglia favorirmi in questa mia urgenza. La lapide non deve essere
molto lunga, anzi piuttosto succinta, ma insieme toccante e patetica. Il tempo stringe,
dovendosi sollecitamente ergere il tumulo a chi n’è il suggetto. Ecco le notizie necessarie.
«Il cavaliere Pietro Paolo Neroni
pone il mausoleo alla sua suocera Marianna Mucciarelli
nata de’ Conti Novi di Ascoli il 12 giugno 1727 e morta il 5
Ottobre 1821; della età cioè di 95 anni; donna di costumi semplici
ed illibatissimi, di stato vedovile, di spirito ameno, e
leggiadro; e del lusso, dell’avarizia ed altre mondane
depravazioni acerrima rampognatrice».
Su queste cose si può giuocare molto bene ed impostarne qualche cosa di buono. Più
presto potrai mandarmela, più ti sarò grato.
Salutami tutti. Amami al solito, ed al solito credimi.
Il tuo aff.mo a.co G. G. Belli
LETTERA 25.
A PIETRO PAOLO NERONI— ASCOLI
[ottobre 1821]
29
Veneratissimo mio Sig. Cavaliere.
La supplico di non tassarmi d’inciviltà pel ritardo di riscontro alla Sua onorevole de’
12 ottobre scaduto.
All’arrivo di essa io ero in giro per l’Umbria, donde tornato costà fui tosto assalito da
un insulto di colica molto più violento che non fu quello da cui Ella mi vide travagliato in
Ascoli nel dì 15 luglio.
Le conseguenze per me sempre funeste di questo orribile male mi sono ora più
dolorose, in contraposto della speranza, che io nudriva, con qualche fondamento, di
migliore salute. Pazienza però, e diciamo ironicamente col Poeta
«Del presente mi godo e ’l meglio aspetto».
Dalle obbligazioni, che mi corrono verso di Lei, e di tutta la sua parentela, Ella
argomenterà se la morte della ottima Sig.ra Marianna mi sia riuscita grave; e se io abbia
potuto concepire il dolore della Sig.ra Tecla specialmente e della Sig.ra Chiarina, io che
dell’affetto di queste Signore verso la loro veneratissima madre ed ava ho avuto
esperimento. Del suo rammarico poi, Sig. Cavaliere, non gliene parlo, perché Ella sa di
quale inasprimento Le tornerebbero le mie parole in mezzo alla Sua grande amarezza. Ella
amava quella Donna come una Madre; e veramente meritava sentimenti religiosi, come gli
antichi patriarchi. Se torno mai in Ascoli, andrò a versare anch’io qualche lacrima su quel
sepolcro, che la Sua pietà ha voluto innalzare ad una memoria così degna di vivere eterna
nelle menti dei posteri.
La prego di rendere i miei saluti alla amabilissima Sig.ra Chiarina ed al caro Luigi; e
di credere in me inalterabili i sensi di stima e di rispetto, coi quali ho l’onore di ripetermi
D.V.S., Sig. Cavaliere
U.mo D.mo Obb.mo Servitore
G. G. Belli (Palazzo Poli 2° piano Roma)
LETTERA 26.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Terni, 3 novembre 1821
Caro Checco
Bella epigrafe! bella, bella, bella! È vero: tanto sapore essa ha di quel che dev’essere,
che è da temersi non abbia a comparire salata a chi non ha formato il gusto a queste
vivande. Io ti ringrazio de’ pensieri parole ed opere da te impiegate per favorirmi; e ti
prego uficiare per me il gentilissimo nostro De Romanis, perché Egli non mi tassi
giustamente di ommissione, e mi creda meritevole di penitenza.
Il mio ritorno può essere imminente.
Salutami quanti Tiberini ti possano capitare davanti in questo tempo di gozzoviglie. Di
Ciotti e di Agnesina Comelles non ne parliamo. Il primo non lo merita; e la seconda lo
merita troppo perché possa dirsene abbastanza in una lettera. E poi mi ha tanto sturbato la
di Lei morte, che non mi regge il cuore a parlarne. Consola la povera Costanzina degna
figliola di quell’ottima madre. Salutami la tua famiglia e ricevi un abbraccio.
Il tuo Belli
LETTERA 27.
30
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Terni, 8 novembre 1821
Amico carissimo
Sono tremante di freddo per una improvvisa tramontana, sbucata dall’inferno dopo
la caduta di copiosissima neve, da cui ricoperte biancheggiano le circonvicine montagne.
Se nelle vostre regioni sta, siccome io credo, imperversando il medesimo tempo,
comprenderete quanto sensibile a me debba riuscire l’inaspettato di lui cambiamento,
allorché vi avrò partecipato essere io tuttora infermiccio per una recente colica,
sopraggiuntami negli scorsi giorni, per rovinarmi, e per distruggere in me que’ consolanti
principi di migliore salute, che nella mia ultima io vi aveva annunciati. Pare ormai chiaro
che la mia macchina si sia totalmente conquassata: né possa trovarsi ordigno né artefice,
che vagliano a riordinarla. Pure vado raccogliendo le reliquie sparse del mio antico spirito,
e con questo debole avanzo di coraggio mi provo ad aiutare il languido moto delle ruote
di questo oriuolo logoro e sdruscito, perché sappia esso più lungamente segnare le ore
della mia misera vita. Rileggendo quanto ho sin qui scritto, mi pare avere composto una
bella e buona tirata da Caloandro, od altro sentimentale romanzo. Ma che volete che
faccia? Me la piglio così ariosa e procuro di dare in minchionerie per temperare la bile, che
spesso mi va assalendo le viscere, ed amareggiando la bocca.
Dopo il mio ritorno qui in Terni da un certo giro fatto per l’Umbria, trovai una vostra
gratissima dell’otto ottobre, una di vostra sorella del 10, ed una del Sig. Cavaliere vostro
Padre del 12. A questa ho già dato il debito riscontro; alle altre due rispondo nel corrente
ordinario, siccome per la vostra parte voi potete vedere. Unito alle tre surriferite lettere mi
fu presentato un piego contenente alcune copie di quel sonetto, di cui vi aveva pregato, ed
insieme vari rametti rappresentanti un globo aereostatico. Vi sono pertanto grato del
pensiero da voi avuto di profittare di una favorevole occasione, onde potessi io riceverli
anche prima che la Sig.ra Teresa fosse stata al caso di farmeli avere. Ho veramente goduto
che le feste di S. Benedetto abbiano avuto un successo non ottenuto da quelle dalla
superba Grottammare, la quale ostenta sopra S. Benedetto tanta superiorità, quanta S.
Benedetto sopra di Lei può giustamente, vantarne. Partecipate all’eccellente amico Sig.
Giuseppe questa mia esultanza; e salutandolo molto a mio nome, pregatelo di presentare
miei rispetti alle di Lui gentili Signore, alla Sig.ra Vittoria, ed a quella Sig.ra di Fermo,
della quale confesso di non ricordare il nome. Ricordatemi poi al Sig. Checco, al Sig.
Antonio, ed a Pavon, se ancora é con voi. Ed alla Sig.ra Pacifica vi supplico estendere la
espressione di que’ sentimenti di gratitudine stima ed amicizia che a voi rinnuovo
dicendomi al solito
vostro amico aff.mo e serv.re vero
Giuseppe Gioachino Belli
P.S. Fra cinque giorni io torno a Roma dove aspetto vostre lettere più lunghe che sia
possibile.
LETTERA 28.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
[20 aprile 1822]
31
Mio carissimo amico
Aveva intenzione di non muovermi più da Roma; eppure eccomi di nuovo risoluto
di partirmene, ed alla vigilia di rilasciare i miei Lari. Fra quattro o cinque giorni, al più
tardi, io sarò in legno, e farò viaggio. Se voi mi chiedete dove mi diriggo, non vi potrò
rispondere fuorché di primo slancio mi conduco nell’Umbria; ma dopo la dimora di un
mese non so dove andrò a passare gli altri, che correranno sino a dicembre. Ancora non ho
nulla deciso. Tutto era disposto per fare il viaggio di Napoli, insieme con un mio amico;
ma come trovare il coraggio di esporsi al probabilissimo se non certo pericolo di essere
colto dai masnadieri che infestano ogni dì più le sventurate provincie, per le quali è
d’uopo far transito? Numerose orde di antropofagi scorrono desolando que’ luoghi, e
menando in ostaggio sui monti tutti quegl’infelici che loro vanno cadendo tra’ mani. Così,
io che cerco la salute, troverei la morte o di ferro, o di disagio, o di spavento, le quali tutte
tre si somigliano. E quando anche il danno si ristringesse al rovinare la Casa per pagare il
taglione, non sarebbe già poco. Sono tre giorni che venne in loro potere il Governatore di
Napoli, il quale per la improvvisa sopravvenienza di uno squadrone di cavalleria, ebbe la
grazia da Santo Jennaro di veder fuggire i suoi guardiani ed essere lasciato in camicia. Che
delizie eh? Che bel secolo!
La mia salute è molto migliore che non lo fu negli anni scorsi quando io partiva da
Roma. Posso dire, che in quest’anno viaggio più per preservativo che per cura. Forse
vedrò parte della Toscana.
Non ho voluto indurarmi nella colpa; ed andarmene, senza tormi dalla faccia il
rossore di un vergognoso silenzio. Per dire la santa verità, ho da farmi qualche rimprovero
verso di voi. Tanto tempo senza una lettera! E poi quel disegno! Quella benedetta scala!
Per carità, alzate la mano, e vi basti la mia mortificazione. Potrei allegare molte scuse:
l’impiego, gli affari, la poltroneria... ah! questa... questa... temo che vi faccia più
impressione degli altri. Ma voi non siete Nerone che di nome: e il cuore però l’avete da
Tito, o se v’è stato di meglio. Dunque miserere, et parce.
L’avreste mai aspettato? Quel povero Jaxon! Qui è stato il giorno del giudizio, e mia
moglie si è trovata in imbarazzi grandissimi per soccorrere alla sorella ed alla nipote, che
voi avrete già vedute, o a momenti vedrete passare per costì. Ammazzato da un carnefice
inglese! Dopo una cura stravagantissima, il sudore spaventevole prodotto da due pozioni
sudorifere, fu arrestato da quel manigoldo con salviette inzuppate d’acqua gelata,
applicate in testa, sulle braccia e sul petto dell’infelice malato. Una febbre apopletica, con
vomito sanguigno ripetuto in ogni accesso novello, rapirono ben presto ai parenti ed agli
amici un soggetto ripieno di tante nobili prerogative. Spadolino si fucila, s’impicca
Gammardella, si decapita Borsoni; e questo sicario vivrà per miseria degli uomini: quante
vittime dovranno perire, se il loro boia non le precede! Mi figuro il lutto di Ascoli. Quello
di Roma, benché così vasta, non fu piccolo: tutti compiansero la persona e la foggia della
sua morte.
Che fa il Sig. Cavaliere Pietro Paolo? Che la Sig.ra Contessa Chiarina? Non ho mai
avuto novella di loro. Al primo inviai una certa epigrafe: alla seconda una lunga
lunghissima lettera pel capo d’anno; ma o sono andate smarrite le loro risposte, ovvero
non so... Vi prego richiamarmi alla loro memoria, ed a quella di Luigi Vitali Cantalamessa;
a cui non iscrissi per timore di non far bene accetta cosa. Per quanto mi fu detto da tre
bocche, Luigi aveva l’animo alquanto rivoltato contro di me. Avrebbe però torto, e forse,
se ne sarà poi persuaso.
Filippuccio mi regalò una copia del vostro epitalamio Voltattorniano. Vi ho trovato
del riposo e della naturalezza. Bravo Neroni!
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È Belli che vi loda, cioè non un adulatore. Mi rallegro però col Sig. Giuseppe mio
buon amico e padrone. Me lo saluterete, e con lui la sua Sig.ra, ed il Checco, ed il Sig.
Antonio, e Gabriello, e quanti sono costì adoratori del nostro Santo Fasone.
Vi abbraccio come fratello. Addio.
Il V.° aff.mo a.co G. G. Belli
Di Roma 20 aprile 1822.
LETTERA 29.
A TERESA NERONI — ASCOLI
Ripatransone, 24 septembre 1822
Ma très chère amie
Je suis ici depuis dimanche, mais demain je n’y serai plus. Mon départ est fixé pour
la nuit prochaine; et au moment que vous lirez ma lettre, je serai bien loin de vous. L’objet
de ma course dans cette ville a été une visite à Vulpiani et aux autres amis, parmi lesquels
vous occupez la première place dans mon souvenir. Mais vous demeurez ailleurs, et mon
éspoir de vous voir encore une fois a été vain. Encore une fois dis-je, parceque j’ignore
absolument s’il me sera jamais permis de parcourir encore ces contrées. Mon emploi, mes
affaires domestiques, et des autres raisons particulières m’obligeront dorénavant de rester
dans ma patrie, dont je ne me suis écarté que trop dans les années passées; et quand même
des circostances imprévues aussi bien qu’imprévoyables me forceraient de m’en éloigner
de nouveau, il ne serait peut-être pas celui-ci l’endroit où mes pas se dirigeraient, car mon
voyage pourrait avoir un autre but, ainsi un bout tout different.
J’ai goûté du plaisir de rendre mes hommages à Mr. le Chevalier votre père et à
M.me votre Mère qui jouissent l’un et l’autre d’une santé la plus digne d’envie. J’ai pressé
contre mon coeur ce bon enfant de votre pétit advocat et j’ai témoigné à la fois ma surprise
à l’aimable Constancine pour la belle taille qu’elle a développé en si peu de tems. Je vous
en fais mes complimens, Madame, bien que […] ne sont ordinairement pas le plus joli
présent pour des jolies Dames. Que des louanges sur les charmes de leur filles. Un peu de
jalousie, un petit morceau de dépit, une subtile tranche d’intérêt personnel joint à quelque
scrupule d’amour propre s’en mêlent toujours, en donnant plus d’accès à la flatterie qu’à
la vérité. Mais vos vertues méritent bien qu’on vous rétranche de la règle générale, et que
l’on parle à vos oreilles, comme on parlerait à celle de la sagesse même. Vous ne savez
point accueillir dans votre âme ces idées fausses ni ces préjugés vulgaires, qui gàtent et
corrompent si misérablement la plus part des têtes de votre sèxe, de ce beau sèxe doux,
charmant, enchanteur, dont l’humanité serait d’autant plus honorée, si elle n’en portait
pas l’empreinte de ces petits défauts. N’en soyez-point en colère, ma bonne amie. Vous
dévez défendre la cause de vos soeurs, mais le procès serait un peti long et d’issue
périlleuse et équivoque.
Comment se porte-t-elle l’aimable Comtesse Chiarina? Se souvient-elle encore du
pauvre Belli? Et le cher Louis Vitali Messacantata? Je me le réprésent un peti défait pour la
perte de son amoureuse. Il amait beaucoup M.me Marianne et elle l’en recompensait à la
folie. Mais ma rivalité était pour lui un peti génante, et un morceau un peti dur à engloutir.
Point de plaisanterie. Je fus sincérement afigé de la mort d’une dame si bonne, si
pieuse, et si gaie malgré l’age dont elle était surchargée. C’est donc clair que Louis, aussi
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bien que tous ceux qui appartenaient à cette femme pour lien de sang ou d’amitié, dut en
rester vivement pénetré. Saluez-le moi ce bon ami: je ne vous prie point de l’embrasser
pour mon compte, parceque l’on dit que cela ne vous conviendrait pas. Mais si vous
croyez d’ailleurs que le Monde se trompe dans ses maximes, règles, jugéments, etc., faitele à la bonn’heure, et embrassez-le par procuration. M.M.ss le Chanoin et la Garde vos
respectables frères auront la bonté de me croire toujours leur ami.
Je votis rémercie, ma chère Comère des saluts que votis envoyates pour moi à Peppe,
mais je ne rémercie point de la réponse que vous ne m’avez jamais écrite... Mon dieu!
L’exprès va partir. Adieu. Répondez moi à Terni s’il vous plait.
Votre ami J. J. Belli
LETTERA 30.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Napoli, 15 aprile 1823
Mio caro Checco
Ti scrivo, ma non so quello che ti dirò, perché questa Città mi tien fuori di me.
Troppo fracasso pel povero Belli! Se non fosse il buon clima, e il desiderio mio di vedere i
luoghi celebri che circondano questa metropoli, a quest’ora ne sarei già partito. Sto sempre
fuori di me, e qualora penso a me stesso, mi sembra ricordarmi di una lontana persona.
Qui non si può né pensare né scrivere, né dormire né parlare, perché il chiasso vieta tutte
queste belle cose. Bella Città assai, ma non la sceglierei per la dimora della mia vita. Ho già
veduto qualche antichità, e ne sono restato commosso. Parlo di Pozzuoli, Baja, Cuma e
Miseno etc. Luoghi venerandi e fertili di care e dolcissime ricordanze! — Consegnai a
D’Apuzzo la tua lettera, quella di Lovery, il progetto di Monumento per Canova, la
Commedia, la patente, etc. etc. etc. Ci siamo riveduti con gran piacere. Così con Saponeri.
— Qui, come saprai, si sta fabbricando una gran Chiesa con portici ai lati sulla piazza
Reale. I Napolitani dicono, che è come S. Pietro di Roma. Io però sarei tentato di
bestemmiare e sostenere, che il tutto entra nel pisciatore degli Svizzeri. Ho gran premura
di avere una medaglia in funere Canovae. Come si potrebbe fare? Impiegando già ancora i
debiti mezzi pecuniarj. Me ne è stata fatta premura da persona a cui non so negare questo
servigio, tanto più che essa vuole pagarla. Se manchi di vie, mettiti in concerto colla mia
Mariuccia: così quattr’occhi, quattro mani, quattro gambe, quattro... dico due bocche,
faranno più di due. Che so io!... Folo, Baruzzi, Missirini, qualcuno non potrebbe trovarla!
Anche l’autore Girometti non sarebbe pregabile. Procura di farmi questo piacere, caro
Checco, ed io dirò tre ave marie alla Madonna per te. Riscontrami. Salutami tutti di tua
casa, ma tutti. Io conto di nominarteli uno per uno. Salutami Lovery, Lepri, Costanza, Teta,
Chiodi, i Giorseri, i tiberini, tutti senza Signore. Qui me lo sono perduto questo titolo
Romano, ed ho invece trovato un Don. Io sono Don, tu saresti Don ed ambidue Dondòn.
Addio. In fretta ti abbraccio, e volo alla posta.
Il tuo Belli
via Toledo, n° 143, secondo piano
LETTERA 31.
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A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — ASCOLI
[31 gennaio 1824]
Mio caro Neroni
Ristabilito io perfettamente in salute, voglio darvene novella, come ad amico
gentilissimo, il quale saprà per fermo congratularsene. Varj anni di sofferenze e di moto:
molte arie diverse, fra le quali ultimamente quella fortunata di Napoli, operarono in me un
cambiamento di cui io non portava speranza, l’arte era incapace, e diffidavano tutti, quasi
di un impossibile prodigio. Ne’ miei più miseri giorni voi mi avete sofferto vicino: ma
dove io mi vi rifacessi ora davanti voi durereste quasi fatica a ravvisare in me quel macero
e tristissimo Belli: tanto l’esteriore aspetto mio, e le dimostrazioni dell’interno animo han
vestito novelle forme. La natura in me non si mutò; ma si modificaronsi i caratteri di lei.
Imperocché siccome dalla morbosa alterazione del mio naturale carattere io fui tratto
allora in ipocondria nerissima, e nello abborrimento di ogni sociale consuetudine; il
ristauramento di esso nel proprio suo mezzo alla più antica mia malinconica serenità, ed al
mio moderato amore pel ritiro novellamente mi richiama.
E l’allegrezza solita dalla verace amicizia a sperimentarsi ne’ prosperi successi degli
amici io voleva pure a voi procacciare, ed io stesso goderne il riflesso, mercé un rapido
passaggio pe’ vostri deliziosi alberghi, nel mio ritorno di Napoli lungo il cammino del
Tronto. Ma la molta mano di masnadieri sì pedoni che a cavallo, di cui andava di que’
giorni infestata la provincia di Terra di lavoro, per la quale avrei dovuto far transito, dal
primo divisamento distogliendomi, a ribattere mi costrinse la strada di Roma, onde
recarmi in codesti paesi. Forse potrò mandare ad effetto simile mio desiderio vivissimo di
ristringervi al cuore, in un secondo viaggio, che vo meditando per quelle saluberrime
regioni, in cui il cielo ridente e l’amenità della natura offrono grande compenso della
pessima compagnia di chi immeritamente le abita. Benché però sembra dover perdonarsi a
quel popolo la fiacchezza di ogni maniera, onde le anime sue sono vinte. Il clima, in cui
vive e si educa, troppo molle e voluttuoso è: ed io mi accorgeva, che lungamente
abitandovi ad eccedente mollezza alfine mi romperei, ed in essa a tutte le morali pravità,
che per necessario ne conseguono.
Il vostro fratello Filippo mi va spesso ripetendo gli elogi de’ vostri amabili figli, nella
educazione de’ quali così lodevolmente voi l’animo vi occupate: e di entrambi, benché di
uno in ispecie fra essi, io ascolto con piacere i rapidi progressi nella musica, oggetto
principale della vostra passione per le nobili discipline.
Diriggo questa mia lettera alla volta di Ascoli, venuto in dubbio del vostro dimorarvi
nell’attuale stagione di pubblica gioja.
La Sig.ra Tecla, la Sig.ra C.ssa Chiarina, il Sig. Cavaliere, Don Flavio e con distinti
modi la eccellente vostra sorella io pregai di salutare per me, richiamandomi alla loro
memoria. Né vogliate presso i figli di lei carissimi trascurarmi, né molto meno di poi
presso la Sig.ra vostra, dove attualmente non siate seco. Gratificatemi in ultimo di molte
parole amichevoli col buon Luigi Vitali Cantalamessa, e co’ fratelli Gius.e e Franc.o
Voltattorni e Gabriello Santo fasone.
E senza più, alla vostra benivolenza mi raccomando.
Di Roma 31 gennaio 1824.
Il vostro aff.mo amico
Giuseppe Gioachino Belli
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LETTERA 32.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
[17 febbraio 1824]
Caro Checco
Al solito, sto male. Di’ ciò questa sera a Pieromaldi, che mi aspettava con versi: e se lo
vedessi casualmente in oggi sarebbe meglio. Sai? Ruga e De Romanis, que’ due tomi
chiassaroli si sono proposti di far cagnara in adunanza pel mio intervento al funerale,
intervento da essi medesimi favorito. Benché la loro idea sia da scherzo; pure coi cari
cervelletti di alcuni nostri accademici, che misurano col compasso tutte le azioni degli altri,
mi pare che dovrà finire in burattinata. Vero è che Pieromaldi ha immaginato un bel
mezzo termine per ridurre tutto a zero: ma pure se si potesse operar sì, che non
accadessero scenate da matti, avrei più piacere. Se poi vogliono assolutamente pigliarsi
questo gusto soave, se lo cavino,pure, perché a me non fa danno né quello che ho fatto né
quello che eglino possono dire. Mi regolerò però meglio per l’avvenire. Odine Pieromaldi.
Salutami tutti: addio.
Il tuo Belli
17 febb.o
LETTERA 33.
A GIACOMO MORAGLIA — MILANO
Di Roma, 4 giugno 1824
Mio caro Moraglia
È venuto oggi un mio amico a prender congedo per Milano. Non ho voluto
tralasciare questa occasione per darti novelle di me. Ho sofferto un’altra malattia di febbri
infiammatorie, che mi hanno per molti giorni molestato. Sono oggi uscito per la prima
volta, ed ho profittato di questo permesso della mia convalescenza per recarmi
espressamente presso il Sig. Thorwaldsen a saper qualche notizia delle misure. Egli crede
fermamente che il silenzio del Sig. Conte De Pecis alla nuova replica di questo Sig. Monti
sia indizio dell’arrivo e ricevimento di esse misure; e così stima Tenerani. Ambidue ti
salutano. Io non so che dire. Sono esse o non sono giunte? Ti assicuro che le avrei riprese
oggi io medesimo se non avessi veduto nel Cav. Thorwaldsen qualche cosa che mi dava
indizio di disapprovazione: perché infine, avendogli io manifestato la occasione bella che
per domani mi si presentava, egli invece di rispondermi: già le ha avute di certo, mi avrebbe
risposto: ebbene riprendetele. Forse la mia sarà stata delicatezza soverchia, ma con persone
di prim’ordine e classiche non è mai troppa la circospezione. Subito dopo la tua gentile del
16 Marzo io ti diressi il mio Mss. da stamparsi alle condizioni da te accennatemi, e ti ci
misi quattro copie di una poesia da me qui impressa. Quel plico fu diretto franco per via
d’ufficio da questo a codesto Direttore postale. Contemporaneamente ti scrissi pel mezzo
ordinario una lettera di avviso della spedizione. Dopo qualche tempo mancando di
riscontro e temendo di smarrimenti ti replicai lettera, in occasione del doverti ringraziare
dello stracchino eccellente arrivatoci spedito da uno spedizioniere di Bologna. A questa
cadrebbe il riscontro in questi giorni correnti, ma intanto ricevi anche la presente e scusa la
importunità in grazia dell’amicizia. Ad ogni buon fine per rimediare al caso di uno
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accaduto smarrimento ti unisco qui due altre copie restatemi di que’ versi, de’ quali ti
aveva spedito le quattro. Qui è giunto ultimamente sui giornali un componimento sullo
stesso soggetto del Pindemonte. Non ottiene molto successo. Figurati il mio! Avrà almeno
questo mio il pregio meschino di essere apparso alla luce pel primo. Io sto sempre sulle
mosse di partire da Roma appena appena la salute me lo vorrà concedere. Tu però non
frodarmi di tue lettere vertenti sulle tue nuove, e sul nostro affaruccio, scrivendo
direttamente a Francesco Spada orologiaio incontro alle Convertite al Corso, il quale, come già ti
ho già detto altre volte, da me rivestito dell’alter ego in simile negozio, farà, riceverà,
pagherà, mi avvertirà dove io sarò etc. etc. Qualora tu abbia ricevuto le due mie passate, a
questa terza dirai: già m’ha rotto i c...; ma pure sai quanto è degno di scusa chi deve
regolarsi nella ignoranza e nel dubbio del passato; ed in questo caso son io dubbioso ed
ignaro sull’esito delle anteriori mie lettere. Sempre seguo a congratularmi delle tue
prosperità domestiche, ed artistiche e te ne auguro incremento non mai pigrescente. Oggi
fra Thorwaldsen e Tenerani e me si è rinnovata memoria di quella cena col biglietto
d’ingresso contrassegnato da un boccale e dal motto Viva la Società, che tu immaginasti ed
insieme noi due eseguimmo. E si è fatta menzione della mia canzonetta da brindisi, e del
buon trattamento che ricevemmo, e dell’allegria che godemmo. Bel tempi! Non sai? Ne’
conviti artistici ancora si canta quel brindisi, che qui tutto conservano in copia. Vi sono al
mondo certe ineziole più fortunate di qualche altra grave cosa, cui il capriccio del destino
concede vita e favore. Nel riscontro primo che mi darai dopo questa partecipami preciso il
tuo indirizzo, onde io possa valermene in caso uguale a quello dell’attuale spedizione. Per
questa volta manderò il latore mio amico all’Accademia di belle arti; o presso il Sig. De
Pecis onde imparare la tua dimora. A proposito! Come va che Tenerani mi dice il Sig. De
Pecis non chiamarsi D. Giovanni siccome tu mi dicesti, ma invece il Conte Eduardo De
Pecis? Ce ne son forse due?
Dopo questa disgressione torno al proposito raccomandandoti il mio amico, da cui
avrai la presente. Esso è un buon ometto, e mezzo parente di Mariuccia, mentre i genitori
del di lei genitore Ab.e Conti erano regnicoli, nati in un paese anzi in una città detta
Aquila, patria del mio raccomandato. Se vorrà egli vedere qualche cosa delle più belle di
Milano, dirigilo; mi obbligherai. Egli viaggia con due coniugi baroni ungaresi amicissimi
del Card. Fesch, protettore suo, e promotore della sua carriera ecclesiastica. E siccome nel
far conoscere le persone si principia dal nome loro, così io per uniformarmi all’uso finirò
col dirti chiamarsi egli l’Abate Giuliani.
Nella nuova Piazza del Popolo si è innalzata una statuaccia di Ceccarini
rappresentante un Nettuno somigliante piuttosto ad un moderatore del vespertino
passeggio de’ cocchi della nostra sbadigliante nobiltà. Incontro ve ne andrà un’altra
peggiore rappresentante Roma. Di ragione. Se un Dio è stato sì da lui maltrattato, cosa
doveva aspettarsi chi non fu giammai Dea, e più non è Donna? Queste due statue sorgono
sulle due grandi fontane a conchiglia situate alle due estremità della corda maggiore della
ellissi, figura della rinnuovata piazza, come ti è noto. Fuori della ellissi ai quattro angoli
dell’area Flaminia (così in certe birbe inscrizioni chiamata) naneggiano quattro giganti di
fabbriche, o giganteggiano quattro nane meschinità di modernissima architettura
Valadieriana, piene di archetti, buchetti, occhietti, cornicette, gattarole, e colombatoi. Se
fossero almeno colombarii, nutriremmo speranza di seppellirci in eterna requie l’architetto
e tutti i di lui fautori. Ma no: sono quattro fabbriche destinate ad albergo di frati, ad
albergo di viaggiatori, ad albergo di cavalli da posta, e ad albergo di finanzieri, bestie
peggiori di tutte le altre. Vedi poi bizzarria! Nella quarta di esse sta praticata una
separazione riserbata ad esposizione di quadri, statue ed altri nuovi oggetti di belle arti.
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Potevano esporli a Ponte Milvio, o sul Monte Mario. Ne avrebbero meglio goduto le
ombre di Massenzio e di Cinna. Addio ti lascio in queste discrete e pacifiche cogitazioni. Il
tuo
G. G. Belli
LETTERA 34.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 24 giugno 1824
Mia cara Mariuccia
Giunsi qui ieri al giorno stanco dopo un viaggio felicissimo, se si eccettui qualche
pioggia. Ieri sera dopo data una sistematuccia alle mie cose, uscii, andai alla polizia, e poi
da Falconieri. Egli sta benone, e così la signora Teresa, i quali ambidue mi hanno visto
molto con piacere, e mi hanno invitato a pranzo per questa mattina. Ti salutano
infinitamente, e ti pregano salutare Mamà. Qui sono bene alloggiato ma ancora non si è
parlato di interessi, perché ho trovato la padrona di casa con un poco di febbre di reuma.
Scusami se per viaggio non ti ho scritto. Non mi sono mai incontrato nelle fermate con
corrieri a proposito: soltanto ieri ti scrissi una letterina da Siena; ma essendo chiusa la
posta all’ora in cui passai per quella città, incaricai uno della locanda d’impostarla. Questo
mi chiesi all’uopo una moneta molto più forte del dritto d’impostatura: sopraggiunse lo
stesso locandiere, cioè il padrone e volendo sostenere il suo garzone disse una mucchia di
chiacchiere, sicché io mi ripresi indietro la lettera, e ripartii. In essa ti avvisavo del mio
prospero arrivo fino a quella preziosa città. Ivi senza spogliarmi e col ferajuolo indosso
andai a vedere il duomo, che è una maraviglia; varie altre chiese, e la piazza con certi
palazzi. Questa occupazione unita al tempo per mangiare un boccone empiè le tre ore circa
che ci trattenemmo a rifrescare, mentre le nottate furono fatte a Torrinieri e Poggibonsi.
Però non potei fare alcuna visita; ed altronde seppi essere tutti in campagna.
Da Falconieri trovai quel Cav. Gagliano con la moglie, che mi hanno detto essermi io
assai cambiato di aspetto in meglio, e mi hanno dimandato nuove della Contessa
Capizucchi, nella di cui casa in Albano li conobbi nel 1818. Per la via ho incontrato
viaggiando un certo nano curioso appartenuto già alla Principessa di Galles, ed ora
apocato da quel tale circolatore col cane giuocator di carte, aritmetico ecc. Esso viene a
Roma, e forse si farà vedere venalmente. È curioso assai: piccolo forse più di baiocco, ma
meglio fatto. Porta una barba lunga che lo rende piú mostruoso. Mi sono incontrato ancora
con uno di que’ due tedeschi assassinati presso Terracina. Sta molto malinconico, parla
poco, e mangia meno.
Se vedi Pippo, salutamelo assai assai, e digli che gli ho salvato i libri dalla dogana
avendoli introdotti gratis sotto cappotto. Li consegnerò al piú presto. Salutami anche
Checco Spada, e tutti di sua casa. Nel viaggio sono venuti uno dentro e l’altro in serpa due
napolitani, il primo certo Cav. Giuseppe Sancio, giovine assai, che va in Francia; ed il
secondo ancor giovine, ma meno, di professione chirurgo, e compagno dell’altro, da cui
par mantenuto. Vedi un poco se nessuno de’ nostri napolitani conosce questo Sancio. Qui,
come sai, è morto in questi giorni il Granduca, e non vi son più né feste, né teatri. Poco
male. Si dice che il lutto durerà sei mesi.
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Mariuccia mia, mi debbo far la barba, e vestire; ho da uscire per udir messa ed
impostar la presente: dunque m’è forza far fine. Addio, addio. Saluti a tutti di casa: e
credimi a tutta prova il tuo
P. aff.mo
P.S. L’indirizzo è quello preciso lasciatoti. A proposito, veniva con noi un’altra
carrozza, in cui stavano i due sposi schermitori, che hanno dato a Roma le accademie.
Quella moglie è un gran brutto maschione!
Da Falconieri c’era anche la madre di Sgricci, la quale al solito fece di gran sproloqui
del figlio attualmente dimorante in Parigi. Fammi il piacere di chiedere a Zuccardi se io
debbo da Piatti esigere il prezzo de’ libri portatigli. Non mi ricordo se me lo disse in Roma.
LETTERA 35.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 3 luglio 1824
Mia cara Mariuccia
Ai conti ch’io faccio la lettera che ti scrissi di qui il 24 passato Giugno già doveva
esser capace di riscontro, che io però non ho ricevuto. Sarà il solito mio destino in fatto di
posta, non volendo neppure per sogno immaginare che questo silenzio proceda da tua
indisposizione di salute o da altro principio spiacevole. Qui mi si dice esservi i portalettere
come a Roma, e l’ho saputo anche alla posta dove spesso vado a chiedere tue lettere. Fa
una cosa; a questa non rispondere coll’indirizzo: chi sa che diavolo questi portalettere
s’imbroglino. Quando però ti facesse d’uopo del mio preciso indirizzo per l’avvenire o a
fine d’indicarlo ad alcuno, o insomma per saperlo tu stessa, oltre alla via del Ciliegio N°
6090 è necessario sapere il piano che è il primo perché qui stando tutti i portoni chiusi ed
essendovi un campanello per piano fatti e disposti l’un sotto all’altro come i registri de’
nostri organi di Roma, se si suona uno invece di un altro e si dimanda di persona non a
tutti i compigionanti cognita può nascerne confusione. Io sto benissimo. Vado osservando
la Città, che è molto graziosa, ed esaminando gli uomini che non lo sono tanto malgrado
l’apparenza. L’avv. Capei amico della Caucci mi ha condotto in varj luoghi. Giraud ti
saluta e questa mattina mi farà conoscere Niccolini il tragedo. Il signor Grobert è in
campagna, e tutti gli altri o irreperibili, o malati, o forestieri, cosicché ancora non ne ho
veduto alcuno. A proposito di Giraud, fa il piacere di mandare in amministrazione a
riverire il Conte, a salutar tutti e dire particolarmente a Cardinali che Giraud ha commesso
il lavoro di quell’articolo all’estensore Gino Capponi. Ho veduto l’abate Metelli, che si
mantiene tal quale, e ti saluta tanto. Sui primi giorni del mio arrivo io pranzai qui in casa,
ma siccome pranzavo un po’ presto, ed altronde io spesso avrei dovuto scaldarmi a
correre da un polo all’altro della Città per giungere a tempo ora mangio dal trattore, e poi
pian piano me ne torno a casa, cosa che mi riesce più comoda. Per l’alloggio ed un discreto
servizio pago una lira al giorno cioè quattro francesconi e mezzo al mese. Quanto si perde
nella moneta! Oltre lo scapito delle monete nel cambio di un grosso per ogni nuovo scudo,
e di due paoli per ogni luigi, il francescone è diviso in ottanta grazie, e queste grazie fanno
qui la stessa figura che a Roma il baiocco. I fiorentini rispondono si dà qui meno pezzi ma
essi contengono in sé più valore. Ed io rispondo essere effimero questo calcolo perché i
valori delle monete si ritrovano nella borsa sempre uguali a quelli delle cose che in
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commercio rappresentano. Vado vedendo la casa Campello ed andiamo insieme in
qualche luogo. Essi partono presto, e me ne dispiace. Ieri andammo tutti in unione a
vedere il gabinetto fisico. Non ho mai trovato cosa più bella. Ho comperato per quattordici
paoli un cappello di paglia nero a cannuccia, non già di treccia di Firenze perché costano
troppo. Questo mi servirà per comodo, e per risparmiare il mio di feltro il quale è già in sì
ottimo stato che se col sole e la polvere di tutta la state lo seguitassi a portare, pe’ restanti
mesi di autunno non me la farebbe davvero. È arrivata la famiglia Toriglioni, che vuol
trattenersi un anno. La signora Teresa Falconieri ed il signor Cav. ti salutano. Essi mi
usano molte cortesie; anzi quando esco di casa andrò da loro con questa lettera, perché se
la sig.ra Teresa sarà in casa, aggiungerà qualche parola, avendomelo detto. Ogni volta che
vado in lor casa, Giovanni il servitore mi chiede di te colla maggiore ansietà e mi dice che
lo ricordi alla tua memoria. — Come stai tu? Come Ciro nostro? Come Mimma? E Pippo?
E tutti di casa? Dammi queste notizie che sommamente sonomi a cuore. Quest’anno,
lontano da casa mi pare di soffrire anche di più la lontananza. Addio, addio. Un abbraccio
di cuore.
Il tuo P.
Ho avuto la tua del 29 in questo momento essendo andato a cercarne prima
d’impostare. Povera Mariuccia! Che destino! Ancora stai così? Al giunger di questa spero
ti troverà meglio.
LETTERA 36.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 10 luglio 1824
Mia cara Mariuccia
Rispondo pel corriere che parte or ora alla cara tua del 7, giunta poco fa. Ti confesso
un estremo dispiacere nell’udirti sempre soffrire qualche incomodo e vedo con altrettanto
rammarico, che la stagione dell’estremo caldo forse contribuirà ad inasprire i tuoi
incomodi con la debolezza che ne deriva. Le buone nuove del nostro Ciro mi consolano
altronde un poco. Deve esser caro quel ciuco! Tristo quel Romano che in Firenze dicesse
ciuco a un bambino! Egli udirebbe a farsi i più acerbi rimproveri; perché ciuco di buon
toscano significa asino. Non so come la cara Roberti accusi il mio silenzio. Prima di partire
da Roma scrissi, e di qui ho riscritto una volta. Fammi perciò il piacere di scrivere tu due
righette come mi accenni. Se poi avessi qualcuno da mandare da Borghi a dirgli che la
Marchesa Roberti lo vorrebbe per qualche giorno a Morro, mi faresti piacere. Se costì il
caldo è forte, qua non corbella, e si arde di sera come di giorno. Pare una fornace d’inferno.
Ti assicuro che se dura così e ne sentissi mai qualche molestia, nel venturo mese me ne
fuggirei a Siena od in altro paese più fresco di questo. Finora però non ne risento alcuno
incomodo.
Abbraccia... no, abbraccia... ah! tiriamo via! già che è detta, passiamola, abbraccia
dunque il caro Pippo, e digli che riferisca a Zuccardi come il libraio Piatti non ha ancora
esatto nulla. Mi ha però pregato di ripassare un poco più in là, e pare disposto a versare in
mie mani quanto di que’ libri colerà nelle sue, credo però detratto quel pro che di uso gli
appartenga. — Dimmi: di Votrontò che diavolo è accaduto? Ti ringrazio di cuore de’ saluti
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di Tenerani e di Bolognetti. Per via dello scultore Trentanove riceverai le mie nuove
verbalmente.
La Sig.ra Teresa ed il Cav. ti rendono mille saluti: e la prima messa in diffidenza di
me da quella raccomandazione che tu gliene fai convalidata con un per carità, si protesta di
volermi tenere in rigido esame per darti relazione di ogni mio moto. Io non ispero nulla
nelle mie azioni, perché zoppico sempre, ma spero tutto nella indulgenza di lor signore.
Da banda gli scherzi. Tutti ti salutano: ed io ti abbraccio.
Il tuo P.
LETTERA 37.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 17 luglio 1824
Mia cara e buona Mariuccia
La malattia del povero Menicuccio mi arriva al cuore, tanto più che per la di lui
mancanza tu devi naturalmente soffrire moltissimo. Spero udirne nuove migliori: e ti
prego di darmele. Sono contento che anche tu convenga meco sul pensiere di cambiar
paese qualora questa temperatura vada così innalzandosi che più non mi convenga.
Tarderò a ciò eseguire sino a che conoscerò di soffrirci alquanto. Sinora tanto me la passo.
In caso contrario verso la metà di agosto me ne vado. Altronde questa cara metropoli, ad
eccezzione di alcune bellissime cose che presenta è una gran noiosa città. Orgoglio,
diffidenza, apparente cortesia, avarizia, curiosità, ignoranza, lusso, vigliaccheria,
disprezzo, ecco il fondo morale di questa metropoli. La virtù dominante è per verità la
sobrietà, ma figlia del lusso e dell’avarizia diviene spregevole quanto i suoi genitori. Mi
piace però assai di avere veduto da vicino tutte le meraviglie di quest’Atene novella. Roma
non deve arrossire per la sua rivalità. — Ma parliamo di quel che preme. Le tue notizie
intorno al nostro figlio mi hanno fatto versare qualche lagrima di contentezza. Ti giuro che
ardo di desiderio di rivederlo e di coprirlo di baci. Vivo persuaso che tu stessa all’udire di
lui tante belle particolarità, sentirai diminuire il peso de’ presenti incomodi da lui a te
cagionati, e scorderai affatto i passati. Una cosa sola non comprendo: cioè come da noi due
sia potuto uscire un gigante. Quel Votrontò è un vero capodopera; e diglielo da parte mia.
Ho avuto una lettera del caro Pippo. Per non fargli spendere questi baiocchi gli risponderò
nella presente, perché spero che lo vedrai.
Il mio soprabitino da estate malgrado i riguardi da me continuamente usatigli onde
volesse reggere anche per un’altra stagione intera, pure non l’ha voluta fare e nelle asole e
nei paramani e nel bavero ed in qualche altro luogo va mostrando la sua stanchezza di
viver più oltre. Però me ne sono comperato un altro di camellotto color pisellino chiaro
con bottoni grandi inargentati, con mostre di seta davanti sino da piedi né tanto strettine, e
ben fattino assai. Ho comperato ancora un altro gilé da estate egualmente bell’e fatto,
perché assolutamente de’ corpetti estivi mi trovava un po’ scarso. Finalmente ho
comperato un colletto di seta foderato bianco ed orlato di pelle con fibia dietro per
risparmiare un poco il fazzoletto nero che mi feci per uno scudo, il quale è forte e bello.
Dunque tutta questa roba cioè soprabito, gilé di sottilissima lanetta, e colletto di seta con
fibia, quanto l’ho pagata? Sessantadue paoli fiorentini. Mi sono fatto diriggere da
Falconieri, il quale passò anticipatamente dal magazzino, dove si serve ancor lui, a
prevenirne il padrone e spiritarlo anticipatamente; onde non mi buttasse giù. Il Contino di
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Campello per due vestiti ha pagato ad un sarto belli dodici francesconi di fattura e
spesette. I Campelli sono partiti.
Fra una cosa e l’altra però i danari qui me se ne vanno più che a Napoli. Non credere
che sia restato senza danaro, ma se per i primi di agosto potessi mandarmene dell’altro mi
faresti piacere tanto più che se poi parto di qui, non sarebbe forse così facile trovare
appunti per dove andrò. Mariuccia mia ti farai forse maraviglia di questa richiesta, ma se
rifletti che il solo viaggio fra posto, un po’ di buonamano, colazione, mance ai camerieri e
stallini, dogane, polizie etc. etc. mi arrivò a 13 francesconi, se pensi alle spesette che ho
fatto, al vitto, alla casa, alla imbiancatura e stiratura, ed a mille altre piccole ma frequenti
occorrenze che dalla mattina alla sera si danno, vedrai che anche senza affatto spregare, il
danaro me se ne fugge dalle mani senza avvedermene. Ti ripeto che anche al fine del mese
mi avanzeranno degli scudi, e solo ti chiedo danaro sul principio di agosto, onde poi non
trovarmi sprovvisto nei luoghi ove andassi. Ma già sento da te rispondermi il solito perché
mi fai questi conti? Ciononostante è dovere che io te li faccia. Se il Cav. Falconieri non
mutava opinione circa al dare una corsa con me a Livorno, ci sarei andato volontieri; ma
egli non vuoi più venire, ed io solo non voglio far questa spesa. In due si risparmia, e si sta
più sollevati. Cuore mio ti do un bacio e ti prego salutar tutti. Vulpiani è più a Roma?
Salutalo.
Il tuo P.
Mio caro Pippo. Sogliono gli uomini ne’ loro colloqui far differenza dagli orali agli
scritti, imperciocché alzano sempre questi di un grado di più nella misura del
complimento. Così a chi, parlando, si dà il voi, scrivendo si assegna il lei; ed il voi a chi il tu
si prodiga verbalmente senza riserva. Tanto tu hai fatto con me, ponendomi nella seconda
classe del voi. Ed io ti rispondo con tutta la politezza e la ceremonia possibile: vatti a fare b...
— Ti ringrazio senza fine di quanto hai eseguito per me circa a Loreto, ed a Cardinali. Non
so; Cardinali è di un fondo amabilissimo, ma vi son de’ momenti che a chi non lo conosce
sembra tutto altro uomo. Se lo trattassi, te ne innamoreresti, tanto te ne piacerebbe il
carattere. Ma pure convengo teco essere sempre un difetto quel non saper prendere gentile
cera davanti a persone non più viste da prima. Vado a scrivergli.
In qualunque modo che il cane Fido sia stato educato, è certo che sorprende, e più le
teste angolari che le rotonde. Ma zitti, non diciamo più in là, perchè se ci sentono i bianchi
e neri ci mandano a far conferenze spirituali con quell’O gravido di una S. Diciamo fin qui.
Io credo le bestie capaci di ogni educazione per quanto il rispettivo loro organismo possa
concedergli. Ma un cane ancorché laureato alla Sapienza (e Fido lo meriterebbe forse più
di tanti altri non cani ma asini) non potrà mai fare un allievo, né comunicare altrui le sue
dottrine: come fra gli altri dice per eccellenza Buffon. I Fiorentini sono poi certi graziosi
animaletti da mettersi in alcool, se per fortuna mai se ne perdesse la razza. Io ho fatto
conoscenza con Niccolini, e l’ho trovato un vero letterato che fa classe da sé, e non
partecipa di tutte le galanterie dei suoi cittadini. Togliete lui e tre o quattro altri a lui un
poco inferiori, il resto è roba da affasciarsi per illustrarci le impiallicciature de’ canterani.
Ho assistito a certi saggi di un istituto di pubblica istruzione. Se tu avessi udito che
scuolari, e che maestri! Per definire una parola, parevano tanti alchimisti in cerca dell’oro
potabile; ed invece di oro beevano il piscio, ingannati forse dalla somiglianza del colore.
Se passi avanti a Spada, entra e parla con Checco. Digli che lo abbraccio, e saluto tutti
i suoi, e che gli scriverò. Addio addio addio.
Il tuo
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LETTERA 38.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 24 luglio 1824
Mia cara Mariuccia
Ah! quanto mi sarebbe piaciuta la tua improvvisata! Ma! È proprio un destino che
quel che più piace non si debba ottenere! Tu ti privi di questo sollievo con riflessioni che
non fai però per la parte mia: e questo mi mortifica e mi procura un dispiacere di più
vedendoti negare a te stessa quello che a me accordi con tanta bella maniera e generosità.
Circa a Vulpiani ti do mille ragioni ed anche per questo capo vedo l’angustia in cui devi
stare! Povera Mariuccia mia! Tu mi chiedi quanto io vorrei di danaro? Non saprei cosa
risponderti. Che so io! Mi vuoi mandare altrettanto di quanto mi dasti alla mano? Cuore
mio, fa un poco tu. Ti prego però che il numero di monete che mi manderai sieno
francesconi.
Circa al caldo di Siena, credo che quegli abitanti lo credano eccessivo perché avvezzi
a quel clima: tutti però qui mi dicono essere là molto inferiore a questo di Firenze. Basta,
vedremo. A Morrovalle appunto scrivo in quest’ordinario contro una lettera scrittami con
mille scongiuri di andare a passare qualche giorno alla Marca. Io ne ho poca voglia per le
medesime ragioni che ti osservai a Roma. Ma anche a questo penserò meglio. Intanto darò
loro la notizia del probabile viaggio di Borghi. Godo che vedesti Trentanove, e ti ringrazio
de’ saluti di lui così come di quelli di Tenerani. Piacemi poi sentire che il buon Menicuccio
stia meglio. — Aspetto con ansietà Labella, e Giorgio, il quale non venne con me per non
passare da quella parte appunto che ora ha scelto.
Vado vedendo gente che conosco. È venuto Frecavalli sempre amabilissimo, il quale
questa notte deve partire per Livorno, e poi per Genova e Milano. Egli mi ha dato notizie
del viaggio della Caucci con Sassi. Ho anche veduto il pittore Carelli colla moglie reduci
da Venezia per Roma. Egli mi conosce da bambino. Ne’ pochi giorni da che sta qui e per
gli altri pochi che ci sarà ci siamo spesso veduti e ci vedremo; anzi domani andiamo
insieme a vedere il sontuoso palazzo di Borghese e poi a pranzo da Toriglioni. Ho anche
veduto l’argentiere Belli che va a Milano con suoi lavori: e di’ a Pippo che fra dimani e
dopo dimani conoscerò il letterato Giordani venuto, si crede, a stabilirsi qui, non potendo
forse più stare a Milano. — Le nuove del nostro caro bociacchetto sempre più mi
consolano. — Anche qui il tempo ha fatto le medesime stravaganze di Roma. — Dimmi
una cosa per curiosità. Moraglia ti rispose a quella lettera in cui io aggiunsi?
Ti salutano tanto i Falconieri che sarebbero stati tanto contenti quanto io di vederti in
questa Città. — Mercoldì nella Chiesa di S. Gaetano udii una messa funebre pel Granduca
Ferdinando, scritta da un certo maestro Ceccarini, il quale compone come un angelo e
canta come un Dio (sempre però del paganesimo, per non entrare in brutte materie). I
cantori erano 38: l’orchestra poi di un numero infinito, tutti soggetti di sorprendente
abilità. Dico la verità, a Roma non ho mai udito altrettanto. — Oggi andrò passeggiando a
Fiesole. Pippo sa cos’è; e credo che visiterò quell’Inghirami il quale fa quella grand’opera
sulle antichità etrusche. Ieri fui a vedere la valle fiorentina da una villetta appartenente
alla famiglia degli Albizi sopra un’amena collina chiamata Bellosguardo. Ivi presso sono
due maraviglie. Il platano intorno a cui siedette Boccaccio colle sue gentili novellatrici; e la
casa entro la quale il Guicciardini scrisse le belle storie italiane. Ho veduto anche la villetta
di Dante, ed il torrente Mugnone giù pel quale il ridetto Giovanni Boccaccio descrisse i
suoi Bruno, Calandrino e Buffalmacco (se non erro) in cerca della nera elitropia; e per
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tacere di tante altre cosette ho visitato la Ducal delizia di Poggio a Caiano celebrata da
Angiolo Poliziano col poemetto intitolato l’Ambra, e dove morirono Francesco I, e Bianca
Cappello. Di tutte queste cose a te non importerà nulla, ma te le ho pure volute dire perché
ne abbi materia onde parlare con Pippo di me. Sta bene, saluta tutti, amami, e credimi di
cuore
Il tuo P.
LETTERA 39.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 31 luglio 1824
Mia cara Mariuccia
Ricevo la cara tua del 27 spirante. Partecipo della tua giusta collera per Vulpiani, la
condotta del quale fu veramente infame. Tu sai se l’animo mio sia mai stato proclive alla
crudeltà; e se ti abbia sempre consigliata ad usare con Vulpiani della condiscendenza.
Oggi però ti esorto a non usargliene più, perché non la merita. — Ho avuto la lettera di
credito sopra questi F.co Borri e compagni: di cui prenderò notizia. Intanto ti ringrazio
della prontezza del tuo pensiero e della premura che mostri sempre in tutto ciò che mi
riguarda. Non dubitare: la mia cambiale (pagabile però da te a vista, secondo l’espressione
della credenziale) non eccederà gli sc. 60, e prenderò di meno io qui quanto naturalmente
si pretenderà per lo scapito delle monete, e pel profitto del pagatore. Quando il mio
viaggio alla Marca ti faccia piacere, io lo intraprenderò. Intanto dimmi se alla mia
partenza, di cui ti darò in seguito avviso, brami di qui qualche cosa. Gli abiti di seta mi
dicono tutti e specialmente la Toriglioni che costano meno che a Roma. Gradiresti un poco
di alchermes? Ti dimando queste cose per non fare spese che poi ti spiacessero.
Ricevo una lettera di Moraglia, in cui mi dice averti risposto alla tua ultima, e ti
saluta anche da parte della di lui moglie. Fammi il piacere di mandare qualcuno a
salutarmi Checco Spada e tutta la di lui famiglia, dicendo che io mi confesso reo verso di
lui di debito epistolare, il quale però soddisferò presto. — Ho veduto Labella e Giorgio. Il
primo partì dopo due giorni. Il secondo si tratterrà del tempo, ma va richiamando Roma.
Se vedi Tenerani salutalo e digli che io parlo molto di lui con la Signora Carlotta Lenzoni,
in casa della quale ho veduto la sua Psiche sedente. Tante cose a Pippo. Abbiti cura per
carità; e credimi
Il tuo P.
LETTERA 40.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Firenze, 7 agosto 1824
Cara Mariuccia
Dimani lunedì prenderò il danaro; in conseguenza credo che col corriere venturo il
banchiere spedirà a Roma la cambiale. Io sono persuaso che la credenziale non potrebbe
mai valere a mio carico, mentre parla che la somma da me ricevuta dovrà essere da me
dichiarata in cambiale: e poi essendo la credenziale non munita di alcuna mia firma fra
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loro potrebbero aver fatto quel che avessero voluto senza mia intesa e responsabilità. Non
dubitar dunque; non comprerò nulla. Saluterò Giorgio, a cui è venuto dalla Grecia un
fratello brutto come un mulatto. Questi starà qui sino a Novembre: poi accompagnato da
Giorgio andrà a Bologna a fare gli studi, benché di età maggiore di quella del fratello.
Giorgio poi tornerà qui a passare l’inverno. Senti. Mi si dice che per andare alla Marca
passando per Bologna poco si allunghi. Per Fuligno fino a Macerata sono miglia 156: da
Bologna sono poco più di 200. Se trovo qualche compagnia passo di là: altrimenti vo per
Fuligno. Cara Mariuccia mia, non posso proprio scrivere di più perché dal punto che mi
han dato la lettera fino all’impostatura non ho che momenti. Spero che Ciro stia bene,
come tu dici. Io ci sto: e tu come vai? Saluto tutti e ti abbraccio.
Il tuo P.
LETTERA 41.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Firenze, 17 agosto 1824
Cara Mariuccia
Privo da vari ordinarj de’ tuoi caratteri mi sta molta pena nel cuore pel dubbio delle
cause di siffatto tuo tacere: seppure ciò non derivi da solita colpa de’ ministri postali le di
cui negligenze sembrano per destino accumularsi sempre a mio danno. Spero che le mie ti
saranno tutte regolarmente pervenute, compresa la ultima pel tuo onomastico; cosicché tu
non debba trovarti ondeggiante fra le mie medesime incertezze.
Sino ad oggi non so ancora precisarti il giorno della mia partenza di qui. Sono tante
le cose qui belle da osservarsi, e tanto piacere risento dal contemplarle minutamente che
mi resta qualche altro giorno ancora per venirne a termine. Questa mattina sono stato per
la terza volta a visitare la chirografoteca laurenziana, la quale avrebbe procacciato al mio
Pippo somma soddisfazione, dove fosse a lui stato tanto concesso di tempo per iscorrere
tutti i tesori onde sino al num. di circa 9000 è composta. Salutamelo Pippo; e così tutti gli a
noi uniti per sangue e per amicizia. Dammi per carità sollecita le tue nuove e quelle di
Ciro, che ambidue intendo abbracciar collo spirito.
Il tuo P.
LETTERA 42.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Firenze, 21 agosto 1824
Carissima Mariuccia mia
Gradite mi giunsero oltremodo le notizie del piccolo sollievo che ti prendesti nel
giorno della tua festa; e godo assai nell’udire che tutti gli amici e le amiche tutte si
ricordano sempre di te, la quale meriti certamente questa memoria pe’ tanti meriti tuoi
nella gentilezza delle generose affezioni.
Ti confesso il vero: anche io avrei amato assai di assistere a quelle allegrezze, le quali
sogliono ai cuori non tanto male impastati riescire sì dolci. Sono già persuaso come l’avessi
visto o udito che tu hai salvato porzione di que’ dolci pel ritorno di Peppe. Per altro io
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sarei contentissimo che te li godessi tu in compagnia degli amici. E mi piacerà di vedere i
bei fiori della Capranica. Dunque abbiamo avuto anche accademia poetica? Brava la mia
cicia! Credo ti sarà stata consegnata una copia de’ versi scritti per te: amerò di leggerli al
mio ritorno. E questo Poeta chi è? Romano, o Partenopeo? Tutte le cose dunque andarono
bene, ma quelle due ore dopo la mezzanotte avranno fatto rimescolare la Sig.ra Giovanna.
Le ottime notizie che mi dai del nostro Ciro per quanto mi rallegrino sonomi
alquanto amareggiate dalle altre non così felici del caro Pippo, che mi saluterai. E digli che
io ho fatto qui (fra gli altri) amicizia con Lodovico Valeriani, col quale ho parlato di lui e
delle ricerche che va facendo sulle XII tavole. Valeriani è incantato di ciò, e gli dimanda pel
mio mezzo se della sua opera sul medesimo soggetto ha veduto l’edizione di Lucca, sola
da lui in oggi riconosciuta. Se non l’ha veduta, gliela manderà. Egli farà un’altra edizione
della versione di Tacito molto variata. Di’ ancora a Pippo che finalmente il libraio Piatti ha
ritirato da quattro associati il prezzo dell’opera di Zuccardi. Intanto procura di esigere il
resto, e poi (meno forse qualche sconto a suo pro) me ne consegnerà l’importo. — È
tornato mercoledì Sgricci da Parigi carico di ori e di allori. Ci siamo già veduti più volte.
Egli si ricorda di te, e di tutta la nostra famiglia, e ti saluta. — Se Cipriani non è in Albano
ma a Roma, digli quando viene con la contessa, che il Cav. Galiano dopo quella prima
lettera che gli arrivò sì tardi gliene ha scritto un’altra, che teme non gli sia giunta. Questa
l’ha diretta a Roma senz’altro indirizzo. — Ho trovato una compagnia per andare a vedere
Livorno con pochissima spesa. Partiremo oggi e torneremo martedì. Già che son qui e mi si
offre questa buona occasione non voglio lasciare di vedere quel porto, e Pisa che sta sulla
strada. Dal fine poi della settimana imminente mi dispongo a partire. — Mi dispiace che la
mia lettera per celebrare la tua festa arrivasse un poco tardi. Io la scrissi il giovedì, giorno
in cui qui parte ancora un corriere per Roma, misurando appunto che nel sabato ti
giungerebbe mentre due soli giorni impiega in questo viaggio la posta. Mi dispiace sia
accaduto altrimenti, tanto più che vedendo tu il mio silenzio avrai formato cattiva
opinione della mia memoria per te.
Ho qui fatto amicizia col Principe Avellino di Napoli, che è una bravissima persona.
Egli a gennaio sarà nuovamente a Roma e verrà a trovarci. — Agli otto di settembre qui si
riaprono i teatri chiusi per la morte del Granduca. In ciò sono stato disgraziato, perché il
non vedere affatto i teatri di una Capitale, benché non sia una grande sventura, pure è una
perdita nella massa delle notizie acquistatevi.
Salutami tutti, e ricevi un bacio dal tuo
P.
P.S. Giorgio ha avuto tre giorni di cacarella per colpa del latte e de’ frutti, e l’ha
curata coi frutti e col latte.
LETTERA 43.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Firenze, 28 agosto 1824
Mia cara Mariuccia
Il mio viaggio a Livorno è fatto. Ho veduto quella Città: ho veduto Pisa, Lucca,
Pescia, Pistoia, e Prato. Livorno è piccola, bella, brillantissima, ma troppo mercantessa per
chi non è mercante. Pisa grande, spaziosa, ma spopolata Città merita l’attenzione di
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qualunque erudito viaggiatore. Lucca non presenta che noia ed antipatia sì nelle fabbriche
che nelle persone che le abitano. Ha però un bel duomo, un amenissimo passeggio sulle
mura, un magnifico palazzo ducale, e qualche altra buona cosetta. Ma pure Iddio ne scampi
ogni fedel cristiano. Pistoia piuttosto piacevole, ma ancor essa non molto abitata. Pescia
piccola e graziosa; e così Prato.
Cercai di Labella, e non mi fu dato trovarlo neppure in casa, ove mi diressi. Questo
viaggio di pochi giorni scomputato quel che avrei dovuto qui spendere pel vitto mi è
costato tutto insieme cinque scudi e mezzo. In compagnia le spese divengono più tenui.
Per andar nelle Marche ti dissi che meditava di passare per Bologna perché Votrontò mi
aveva detto di volerci dare una corsa. La venuta del fratello o qualche altro motivo gli ha
fatto variar pensiero; cosicché avendo ora io trovato un bolognese, che già conosceva da
vari anni indietro a Roma, ed il quale riparte di qui con la moglie per ridursi a Bologna io
mi unisco con loro, parendomi che lo allungare la strada di alcune miglia sia molto bene
compensato dal vedere Bologna e la Romagna da me non viste giammai. Partirò lunedì
prossimo, martedì sarò a Bologna e mi vi tratterò tre o quattro giorni al più. Di là passerò
subito a Morrovalle. Non ti dico dove tu debba rispondermi, perché non so se la tua lettera
giungesse a tempo di essere presa da me in qualunque delle Città, per le quali andrò
facendo passaggio. Questo mio compagno di viaggio è figlio del più ricco banchiere di
quella Città, giovine molto dotto, ma d’infelice struttura, ed ultimamente alquanto alienato
di mente, cosicché ogni due o tre giorni sbalestra un poco ne’ suoi discorsi, mescolando fra
le cose più belle che si sappiano dire, le più stravaganti che si possano ascoltare. Del resto
è amabilissimo, e pieno di spirito e vivacità. — Avellino ti conosce sicuramente e ti saluta.
Giorgio che è guarito perfettamente fa lo stesso. Godo che Pippo stia meglio, e lo
abbraccio. Galiano gradisce i saluti della Contessa, e te ne ringrazia. — Quanto sarà caro
quel Ciracchiotto con le zampette di fuori! Non vedo l’ora di abbracciarlo! — Amami
Mariuccia mia, e credimi sempre
Il tuo P.
P.S. A Bologna cercherò della Caucci, che a quest’ora ci dovrebb’essere. Senti. Se mi
rispondi subito spero avere in tempo la tua a Bologna. Bastano due righe. Non ti dispiace
che io passi da quella Città eh? Ne sarei dolente. Di’ a Pippo che conoscerò l’avv. Degli
Antonj, per cui mi ha dato una lettera il Conte Giraud. Giorgio qui presente ti saluta.
LETTERA 44.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Bologna, 3 settembre 1824
Mia cara Mariuccia
Martedì al giorno arrivai qui dopo un giorno e mezzo di felicissimo viaggio, ed
affatto affatto scevro da ogni ombra di que’ pericoli da’ quali tu lo temi accompagnato. Il
povero giovine mio compagno non è altrimenti affetto da una forte pazzia, né da furia, ma
solamente da un tranquillissimo disorganizzamento (per così esprimermi) d’idee, fra le
quali di tanto si ravvolge. La sua fissazione sta nel proposito di calcolare le sensazioni
degli uomini onde mettere questi in equazione ridotti a sillabe, per averne in prodotto un
risultato di preveggenza di ogni loro attuale e futuro interno ed esterno accidente. I suoi
discorsi su ciò sono curiosissimi. Del resto è mansuetissimo, e pieno di grazia. Pochissimo
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certamente questo viaggio per Bologna può aver aumentato di spesa, mentre di Firenze a
Loreto (preso come punto di meta) corrono miglia 174 per la parte di Foligno, e per
Bologna 210, cioè 36 sole di più; dimodoché il viaggio è quasi lo stesso: solamente vi
correrà di più la spesa di trattamento di cinque giorni in questa Città, la quale non sarà
neppure molto forte, avendo scelto una locanda discreta, e di cinque giorni pranzando tre
in casa di amici. Non è poi calcolabile il vantaggio di aver veduto Bologna e la Romagna
contro un piccolissimo aumento di spesa.
Questa mattina è arrivata la posta ed orora mi dicono che riparte. Quando sono
andato a dimandare la tua carissima tornava appunto dalla Caucci che ho visitato nella
campagna della Lepri posta ad un terzo del portico lunghissimo il quale conduce al
Santuario della Madonna di S. Luca. Pioveva che diluviava ed io uscito dalla locanda sono
andato sin là su a tre miglia di distanza senza ombrello, e senza bagnarmi. La Lepri ha una
porticella del suo casino sotto questo portico; ed io vi ho battuto nel ritorno, ed ho cercato
della Marchesa Caucci. La ho trovata male assai ridotta, e piena di affanno, uscendo
appena da una malattia che l’ha afflitta fin dalla uscita di Roma e specialmente a Fuligno, a
Fabriano, a Sinigallia ed a Cesena, dove credeva di morire. Ora sta un poco meglio, ed ha
ripreso i sonni che aveva affatto perduti. Mi ha parlato della tua lettera, che tu mi dici
averle scritta, e ti prega di scusarla se non ti risponde, perché le hanno vietato di scrivere,
alterando assai questa occupazione la sua testa. Forse lo avrebbe fatto con due parole; ma
veduto me mi ha incaricato di salutarti caramente e di dispensarla. Salutami Checco, ed
assicuralo da mia parte che la sua lettera non mi è giunta affatto: onde per questa parte
sono innocente, benché nol sia circa al non avergli scritto mai io. — Qui è sempre Nucci,
ma stando in qua e in là pe’ casino, dove villeggiano tutti questi signori, chi sa se potrò
vederlo. Ha avuto una certa fornitura. — Lunedì partirò di Bologna. Alla presente non
risponder subito. Aspetta un’altra mia che ti istruisca del luogo ove sarò, se cioè Loreto
ovver Morrovalle: tanto più che amo che la tua lettera mi arrivi me presente. Le notizie di
Ciro sempre mi consolano. Perbacco! questo vuol mordere presto! Già mette i denti!
Salute! — Il piacere de’ caratteri di Pippo mi è amareggiato dall’udirlo sì tristo. Vedi di
consolarlo per quanto puoi. In Toscana non mi sarebbe più possibile di eseguire quel che
mi dice, perché non vi sto più. Che se nelle poche parti della Marca, ove dimorerò mi verrà
fatto di servirlo, sarà il piacere mio forse maggiore del suo. Ma chi sa se potrò far nulla?
Cara Mariuccia, amami sempre, e sempre credimi al solito pieno di affezione.
Il tuo P.
LETTERA 45.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Ancona, 9 settembre 1824
Mia cara Mariuccia
Sono qui da tre ore ed or ora riparto. Nel breve lasso di mia fermata ho visitato Casa
Pichi, Mons. Nembrini, e Casa Perozzi, che tutti ti salutano. Ho cercato anche di
Uguccioni, che è impiegato a Sinigallia, e del Conte Francesco Milesi per due volte, che
non era in casa. E poi sai da chi sono stato e da chi ho pranzato? Da Petti, che ti saluta
tanto tanto, e mi ha fatto mille feste. Egli spera di tornar presto a Roma. Da un amico di
Casa Solari, dove volevo fermarmi qualche giorno, ho udito essere forse eglino al Monte di
Ancona; e perciò per prima visita farò quella di Morro. Ivi rispondimi a questa ed all’altra
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mia di Bologna. Il mio viaggio è stato tutto prosperosissimo. Ad Imola ho veduto il Conte
Carlo Vespignani, che si ricorda molto bene di te, e ti saluta. — Fa dire a Zuccardi avere io
esatto per lui paoli sedici da Piatti di Firenze per 4 copie del suo opuscolo: delle altre tre
una non è ancora esatta, e di due dice Piatti dover essere depositario per vendita
accidentale, benché io gli abbia sostenuto con sua negativa esserne egli stesso associato.
Zuccardi si regolerà. — Addio, addio. Questa sera ad Osimo, e dimani al destino. Ti
abbraccio, ed intendo abbracciar Ciro nostro.
Il tuo aff.mo Pecorino.
LETTERA 46.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Macerata per Morrovalle, 19 settembre 1824
Mia cara e buona Mariuccia
Ti scrissi da Ancona che non aveva potuto trovare Milesi, ma dopo impostata la
lettera verso l’Ave Maria lo trovai al passeggio verso la porta pia e la sera andai al teatro
con lui, mentre per certo cambio di cavalli che fece il vetturino io mi trattenni in Ancona
tutto il giorno e la notte. Nel giorno consecutivo arrivato a Macerata andai a cercare Lenti,
il quale era in Ascoli, e poi andai da Monsignor Teloni che trovai benissimo di salute, e
pieno di memoria di te e di tutta la casa nostra e fino del nostro piccolo Ciro, del quale tu
mi dai buone nuove per grazia somma del Cielo. Dormii anche a Macerata e la mattina
appresso che fu il sabato 11 giunsi qui dove trovai la solita cordiale accoglienza. Mi piace
assai udire che fra tante triste occupazioni che purtroppo devonti dare le cose nostre pure
prendi qualche momento di sollievo mercé la compagnia di quella famiglia di cui mi parli,
e l’amabilità della quale mi rende spiacevole il non poterla conoscere. Mi duole assai dello
stato poco felice della salute di Mamà, e della malattia del principino di Piombino e della
Capranica. Sarei andato dimani stesso a trovare la Salvatori a Macerata, ma non so dove
cercarla non sapendo in qual casa sia questa di lei sorella. D’altronde la Salvatori non è da
tanto tempo a Macerata che possa essere conosciuta per venirmi indicata la sua dimora.
Questa mattina ne ho dimandato ai fratelli Lazzarini che vivono sempre in quella Città, e
non sanno cosa alcuna né della Salvatori, come è naturale, né di questa sorella di lei, che io
ho loro nominata per una Spada di Cesi o di Terni perché meglio capissero. Nulla me ne
ha saputo dire: onde andrei forse girando invano nella ricerca. Ho pensato scriverle due
righe significandole aver da te saputo il suo viaggio, e chiedendole il suo preciso ricapito.
Se Borghi figlio ti chiedesse Sc. 5:75 cioè quelli che ti lasciai delle Roberti in una cartina,
consegnali con due linee di riscontro. Ti salutano tutti. Amami sempre e credimi sempre il
tuo aff.mo P.
Io sto bene.
LETTERA 47.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Macerata per Morrovalle, 30 settembre 1824
Mia cara Mariuccia
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Non mi pare avere tardato tanto a scriverti, mentre aspettava risposta alle due mie di
Bologna e di Ancona; e questa giunta, subito ti scrissi, pochissimo dopo qui giunto. Hai
ragione. La tua lettera mi ha ristorato la memoria circa al nome della famiglia, in cui è la
sorella della Salvatori, di cui io aveva affatto affatto perduto ogni idea; tantoché non vi fu
punto né di caricatura né di malavolontà nel dimandartene, e nel dimandarne a tanti altri,
e sino per lettera alla medesima Salvatori, ciocché provando la mia capocchieria da
stordito, prova insieme il desiderio di vederla, e pel piacere di farlo, e pel gusto di
compiacer te. La Salvatori non mi ha risposto; ma con la tua notizia, entro la settimana ci
vado; e sarò contento ancora di far conoscenza della così brava di lei nipote. Godo di tutte
le nuove relazioni che vai facendo, persuaso che conosciuto il tuo carattere dagli amici più
antichi, i nuovi da essi a te presentati debbano essere di quella onestà e compitezza che tu
ricerchi nelle persone che sogliono ammettersi alla tua conversazione. Laonde sollevati, e
divertiti.
Se Pippo sta benino, io ne son contentone, ed ascolto con esultanza la di lui
villeggiatura a Frascati. Io gli scrissi nello scorso ordinario, e lo incaricai di farsi dare da te
la chiave del tiratore mio, onde cercare fra il mazzo contenente de’ miei manoscritti poetici
certa canzonetta che io scrissi l’anno scorso per Ignazina Roberti a Loreto, onde sostituirsi
da lei sull’aria di un’altra poco decente datale da un signore Fermano. Questa comincia: Se
vuoi ch’io canti o Licida / Il grato invito accetto etc., ed è lunga circa un foglio. La Marchesina
l’ha per accidente bruciata, e me la chiede per portargliela a Loreto. Io né l’ho meco né la
ricordo, onde la bramerei subito. Ne avevo dato incarico a Pippo perché a te in
quell’ordinario non doveva scrivere, ed a Pippo voleva in tutti i modi mandare due righe.
Ma se egli va a Frascati, prego te di far tu le sue veci. Ho piacere che quello antipatico
chiericone vada in chiesa a servir le messe piuttosto che seccare i galantuomini per le case.
Quanto sarà caro quel pacchianetto di Ciro colle zampette di fuori! E tu, povera Mariuccia
mia, in quanti impicci!
Le Signore Roberti aggradiscono infinitamente i tuoi saluti, e te ne ritornano
altrettanti. Tu ringrazia quanti di me si ricordano, e ricevi un abbraccio dal tuo Peppella.
LETTERA 48.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Loreto, 9 ottobre 1824
Mia cara Mariuccia
Nell’ultimo ordinario non ebbi tue lettere; ed al conto che faccio mi sembra che
dovessi riceverne. In tutti i modi ti scrivo per mostrarti che vivi in errore su ciò che dicesti
a Pippo, cioè che io ti faccio mancare mie lettere. Sei, o puoi essere sicura che io non ho
fatto restare alcuna tua lettera senza debito riscontro, secondo l’ordine da noi stabilito: e
talora ho scritto anche di più. Dunque non lagnartene, Mariuccia mia; perché poi se vuoi,
in questo poco che mi resta prima di riabbracciarti posso anche scriverti in ogni ordinario,
mentre ciò mi reca moltissimo piacere anziché pena e fastidio. Ricevetti la lettera di Pippo
colla canzonetta che ho qui portato a Loreto con aggradimento di tutti. Se dimani (sabato)
giungerà una tua a Morro non so se potrò però averla in tempo per risponderci o poco o
niente: ed in questo caso ci risponderò nell’ordinario seguente. Intanto tu rispondi alla
presente a Morrovalle, perché a quell’ora già ci sarò ritornato. Domenica passata mi posi
in viaggio per Macerata, ma sopraggiunta molt’acqua ritornai indietro, e rimisi la gita, la
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quale poi eseguii martedì. Trovai la Salvatori raffreddata morta e vecchia come una sibilla.
La figlia era in letto un poco indisposta anch’ella, e non la vidi. Trovai ancora il Sig. Carlo
giunto la stessa mattina ottimamente colla diligenza. Mi dimostrarono tutti molto piacere
di avermi veduto; e mi obligarono veramente a tutta la gratitudine col non offerirmi
neppure un bicchier d’acqua, cosa che forse ci sarebbe anche entrata nel sapersi essere io là
ito espressamente per trovar loro. Ma ripeto che in ciò fui più contento, perché così
pranzai dal trattore, e scamiciato e libero come un birbaccione. La Salvatori non era in sua
casa, ma una cortesia almeno in esibizione apparteneva il farla alla casa Franceschi, che io
conobbi ivi tutta. — Domenica stava pensando alle zampette di Ciro, e mi pareva vederle.
Spero che sciolto seguiterà così a prosperare come faceva legato.
A Morrovalle ho veduto l’avv. Luigi Cipolletti statovi tre giorni con la Bonarelli di
Ancona in casa del Signor Carlo Liberati. Ho di te molto seco parlato, e di Vulpiani, e de’
nostri vecchi interessi. Egli molto ti saluta. E ti salutano anche tanto questi Signori, presso i
quali mi trovo. Io ti abbraccio di vero cuore, e mi ripeto.
Il tuo Peppe
LETTERA 49.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Loreto, 16 ottobre 1824
Mia cara Mariuccia
La casa Solari mi ha incaricato dirigerti l’annesso foglio dettatomi parola per parola.
Tu già comprendi cosa esso importi, il trovare cioè se si può qualche impiego per la
persona di cui vi si parla. Io non ho creduto ricusarmi, tanto più che con tanti numeri,
uditi da me confermare anche per altre bocche, non mi pare difficile in Roma di collocarla.
L’unica difficoltà secondo me consisterà negli anni. Io ho letto alcune di lei lettere alla
Marchesa Solari, e le ho trovate benissimo scritte e da civil donna. Se puoi passar parola a
qualcuna delle tue conoscenze, benché molte adesso ne mancheranno per cagion di
villeggiatura, mi farai piacere. Questa donna verso la fine del mese partirà per Roma e
porterà seco due mie righe per te onde farsi conoscere e dirti dove andrà a fermarsi pel
caso futuro di potervi essere ricercata.
Credo che mi riuscirà di fare avere a Pippo qualche commissioncella di tanto in tanto:
almeno mi è stato promesso. Sono proprio contento di udire dalla cara tua de’ 7 corrente la
mutazione di abito del nostro figlio. Dio ce lo conservi sempre sano per consolazione della
nostra vita. Papà è dunque partito? È naturale che in ogni anno debba finalmente
accorgersi che n’è un altro passato. Della Salvatori ti scrissi di qui nello scorso ordinario. Io
non sapeva che Campello fosse tornato in Roma, ed ora che lo so, non resto niente
convinto del suo sollecito rimpatriamento, sapendo quanto differì la sua anteriore tornata
per colpa della lentezza degli affari in codesta nostra Dominante. Penso pertanto di non
espormi ad andare a casa sua, perché senza di lui non mi piacerebbe restarvi. — La cosa
che più mi rallegra nella tua lettera è il sentirti prendere un poco di diversivo in casa del
nostro buon Rossi, che mi saluterai tanto tanto tanto insieme colla sua sig.ra Solomea.
Spero migliori notizie della Capranica. Io sto benone, e vi son sempre stato. Ti abbraccio
del maggior cuore e sono il tuo P.
Risposta sempre a Morrovalle.
51
[Segue la lettera di raccomandazione per Maddalena Areschi]
LETTERA 50.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Macerata per Morrovalle, 17 ottobre 1824
Mia cara Mariuccia
La tua seconda lettera direttami qui durante la mia dimora in Loreto mi fu colà
spedita da queste Signore giusta la preghiera da me loro fattane nel momento di
partirmene per quella Città. Io ci risposi difatti come tu opini, ed avraine avuto effetto. Ora
rispondo alla tua del 14, alla quale attendo risposta. A Loreto sono stato una settimana e
mezzo, e ne son presto tornato avendo ritrovati in Casa Solari altre sette persone forastiere
di Fossombrone parenti del Cavaliere, ciocché mi ha fatto sembrare opportuno di lasciarle
per parte mia una ottava parte di libertà, togliendo un’ottava parte d’incomodo. — Anche
io, come dalla mia rilevasti, attribuii tutto alla famiglia Franceschi la indebita accoglienza
fattami, la quale doveva essere diversa in contemplazione delle Sig.re Salvatori che io
andai a visitare movendomi espressamente di qui. — Se Zuccardi è indifferente sulla
reccezzione presente o futura di Sc. 1:60, molto più lo sono io, e rimetto ciò nel pieno tuo
arbitrio. — Se la Sig.ra Contessa Muzzarelli, come credo, si tratterrà in Roma godrò di
conoscerla ed offerirmele servitore, stante che è così gentile quale tu me la dipingi.
Salutami Gnoli e ringrazialo del ricapito della patente, che io non merito, e tanto meno
quanto più que’ Signori miei colleghi me ne stimano degno. Quando avessi potuto più
lungamente trattenermi a Bologna, avrei volentieri dato una fuggita a Ferrara.
Le continue felici notizie di Ciro mi empiono di consolazione, come ugualmente mi
piace sentir le tue. Che vuoi che ti precisi della mia salute? Io sto benissimo, ecco tutto. —
Ma il povero Angelini non può dire così, e me ne duole davvero. Tutti ti rendono i saluti.
Io ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
LETTERA 51.
A MADEMOISELLE URSULINE MAZIO — FRASCATI
Rome, 20 mai 1825
Vous trouverez peut—être étrange, ma chère et bonne cousine, qu’en vous écrivant
une lettre j’y aie voulu vous régaler d’une langue, dont jusqu’à ce jour vous ne pourriez
faire qu’un ragoût pour vos répas champêtres. Mais comme, à justement parler, il n’est
point de bons choix lorsque notre volonté se détermine au gré de sa seule liberté de
choisir, plutôt que par les loix rigoureuses de la raison, pour cette fois ici M.me votre
intelligence voudra bíen se contenter de céder à M.r mon caprice l’honneur de remplir une
pauvre page de babils, qui ne seraient pas d’ailleurs mieux entendus quand je les aurais
griffonnés après avoir détrempé dans mon encrier le plus tendre morceau de langue que
vous eussiez sû trier vous même dans une boucherie toute entière. Cependant, je veux làdessus me justifier si j’ai dit entendu, car j’ ai très-bien dit, non par rapport à votre
insuffisance ou à votre manque d’amitié envers un cousin à la fois et précepteur, mais en
52
égard à la multiplicité des distractions qui doivent nécessairement absorber toutes vos
facultés intellectuelles et tous vos moments, dans un séjour riant tel que le fameux
Tusculum, qui forma de tout temps les délices des maîtres du Monde.
Et vous aussi vous allez en dévenir un petit fiéau avec mesdemoiselles les filles de
M.me Mattoni pour les quelles l’on craint qu’il ne sera pas suffisant ni des grilles ni des
Argus. Vous vous lévez dès que l’aube commence à paraître sur l’horizon de votre
fantaisie: une prièrette au bon Dieu entre les dents, et vous voila dejà prête au déjeneur:
bon appétit, Mademoiselle. Il est déshormais tems de sortir pour aller à la proménade du
matin. Sans façons point d’étiquette. Un très-petit ou très-grand chapeau de paille sur la
tête fermé sous le menton par un ruban couleur de verité ou d’espoir, un joli parasol à la
main, je vous vois courir, sauter et folâtrer ça et là comme un petit lutin dans les longues
allées et au sein des bocages sombre et misterieux du charmant Belvedere, (s’il y en a). —
Mais qu’est ce que ce vent subit qui agite les feuilles des arbres et en secoue les branches,
dont ces gentils oisillons s’envolent, tournant en cris de frayeur leur ramage de volupté?
Peut-être est-il Zephir qui conduit Psyché à son epoux... Ah! non: c’est le souffle du
furieux Garbin, l’avant-coureur des orages. Fuyez donc, ma mie, sauvez-vous quelque
part; le tonnerre gronde, le Ciel s’obscurcit et la pluie commence à tomber à gros bouillons.
Mais, pour la Dieu merci, je vous vois dejà à l’abri chez vos aimables hôtes. Vous êtes
haletante, pauvrette! respirez donc. Eh que ferez vous à present? Vous jouerez du piano,
vous causerez avec vos amies, vous vous amuserez à ne rien faire, jusqu’a l’heure du
diner. La table desservie vous irez faire un peu de sieste, et ensuite vous vous mettrez à la
fenêtre voir passer le Gran Dieu Pluvius suivi de la belle Iris, qui descend sur la terre pour
ne rien faire, comme vous, de tout ce qu’on veut qu’elle y fasse de la part de Junon.
Le jour tombe; il est dejà nuit; et les domestiques viennent avec des bougies
remplacer la lumière de Phoebus qui declina dans la mer pour laver son front divin de la
poussière que les fogueux Eous, Aeton, Pyroüs et Plégon soulevèrent des routes du
firmament. Bonsoir, monsieur le soleil. Quoi donc!, je sens ici que vous vous écriez; est-ce
qu’il y a de poussière en paradis? Oui-dà, ma bonne, je puis vous en repondre: ce n’est que
de celle-là qu’on jette par une main invisible dans les yeux des coupables lorsque les Dieux
veulent les aveugler en peine de leur forfaits, à fin qui courent par eux-mêmes à leur
destinée. C’est pourquoi moi aussi je cours au lit les yeux demi-clos purger ma conscience
du crime de vous avoir parlé dans un language inconnu. — Il est tard! — Ma montre...
Ventrebleu! Deux heures aprés minuit! Adieu donc. Mille honnêtetés de ma part à M.mes
Rossi, et vous, vous récevez à genoux une bénédiction que je vous donne en baillant.
Je suis votre très affectionné cousin J. J. Belli.
LETTERA 52.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Firenze, 27 settembre 1825
Caro Cecco, o Checco, o Ciccio, o Checcho, o Ciecco, o Cieccho, o Ceccho, che
vogliam dire che sia.
Ille est multus tempus quod ego volebam scribere tibi sicut tu habebas mihi dictum
ante meam transactionem a Roma; et usque ad hunc (quod potest etiam dici hanc) diem
non me scivi reducere ad istam occupationem, non jam quia illa sit incomoda, et acidula,
sed pro quo ea est una obbligatio; et tu scis quod omnes obbligationes mundi reexeunt
valde penosae, et, non sapio dicere quia, mandant in longum, et faciunt quaerere
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excusationes, et cavillationes, et, ut vulgo dicitur, ancinellas. Per allud ego dicebam saepe
infra me et me, cur non ardebo ego scribere ad Ciccum meum, qui fuit semper amicus
meus usque a tempore illo in quo poma aurea tirabantur a nobis super dorsum
transeuntium ante et retro per viam cursi? Ego scribebo ad omnes costos, et faciam videre
hominibus et tangere cum manibus quod una amicitia antiqua et respectata plus valde
quod si esset affinitas sanguinis, et inquartatio quartorum gentilitiorum, et cognatio
cognationis, sicut sermo sermonis, tertiae declinationis. Id non obstans non habebo
materiam ad scribere tantum quantum ego haberem desideratum. Sed tu es ita bonus, et
tener, et paciocchae (ut ita dicam) mansuetudinis, quod non eris pro accipere in malam
partem si ego ero plus brevis quam segretaria brevium, et breviarium romanum, etiam
cum abbreviationibus et ciferellis huc illuc interpositis. — Nec tibi faciat speciem me
audiendi loquere in ista pulcherrima lingua maiorum nostrorum romanorum antiquorum,
quia tu habes ab scire quod ego sum captus amore pro illa, et me invenio omnes dies quod
habet factus Deus in medium ad auctores classichiores istius favellae uti ad dicere Cicero
pro domo sua, Quintus Oratius carmen saeculare, Virginius bucconicus, et Titus Lividus, et
Vocabularium Turini, qui sunt toti auctores multi clamoris et gravitatis.
Fac mihi favorem dicendi ad Henricum Loverium meum, tuum, suum, nostrum,
vestrum, et alienum, quod usque ad istam diem non habes dictum nihil illi de sua
commissione articuli prope morten Joannis Belzoni mortui ad Gatam, in salute nostra, quia
in cabinetto Viessauno erat tomus 22 maltebrunianus in quo nunciabatur solum tantum mors
illius itineratoris granellari (idest testicularii et reliqua) et tomi 23 et 24 erant in girum in
manibus sociorum. Redeuntibus ad poenam istis duobus voluminibus ergo habeo
repertum in illis, et nihil ibi est, et nec tam paucum in quadernunculis insulatis qui debent
postea formare tomum 25 ultimum pro hora, id est ad totum cadentem annum. Quod si
ille habet aliquem notionem plus precaesam de loco individuali ubi iste articulus stet
scriptus, dicat mihi, et ego servam illum de barba et pectine, sicut ipse meretur. Nihil
praeterea habeo scitum de rupto Belzonio in desertibus africanis et sepulto forsitam in
ventribus leonum et tigridum aut aliorum animalacciorum ferocium qui inhabitant illas
regiones domus diaboli maledictas. — Ego sum proximus ad discendendum ab istis
etruscis locis misericordiae et taccagnitatis. Igitur responde mihi ad postam currentem, id
est in eodem die in quo habebis presentem, (et tunc respondebis ad Florentiam) si non
debebis scribere ad Bononiam, ubi ibo infra biduo, triduo, quadriduo, sed non perveniet
ad novenam. In omnibus modis erit melius dicere mihi aliquam rem hic de Loverio nostro,
cui dabis osculum cum omnibus floccis in ambabus genuis unum pro parte. Ad Deum, ad
Deum. Vade cum tua comoditate ad Cardinalium, et instrue illum quod mihi pervenit
paccus cum quinquaginta copiis canzonae meae filarmonicanae; benè correctae, praeter unum
errorem ad tertium versum, quartae stantiae.
Ad Deum de novo: salutabis mihi totam familiam tuam, et Tiberinos illos quod
poterunt cadere tibi ante.
Tuus Joseph Joachim Belli.
Die etiamdeus ad Loverium quod nec Plattius nec Molinius, nec duo alii boni librarii
habent nec cognoscunt Lessingum nec Sulzerium. Ego sum sfortunatus in commissionibus
suis.
Si tu mihi respondebis hic sapis modum et terminum; si respondebis ad Bonomiam
per literam in administrationem regesti, et die illam mitti iis pacchibus Diretionis.
Vale, ceu sta’ sanus.
54
LETTERA 53.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
[4 ottobre 1825]
Caro Checco. Di’ a Lovery che ho trovato da Viesseux dov’è l’articolo di Belzoni, cioè
negli annali di statistica etc. che si stampano a Milano: ma il libro era al solito in giro per le
mani degli abbuonati.
Se io conoscessi l’abbuonato che lo ha cercherei di accattivarlo, ma non mi si sa dire chi
sia. Io parto di qui domani per Bologna. Lascio commissione a un amico di far trascrivere
l’articolo quanto prima si possa, e poi spedirlo in Roma all’indirizzo di Enrico Lovery. Se
mi favorirà come mi lusingo, il nostro Arrighetto avrà quel che desidera. Digli ancora
essere state inutili altre pratiche pel Lessing e pel Sulzer. Avrai avuto altra mia lettera in
buon latino negli scorsi ordinari. — Abbiti oggi questo codicillo in pessimo italiano.
Salutami tanto Papà, Mammà, Clementina, Peppe, Zio Giovacchino, Nino Lepri, Teta, ecc.
Firenze, 4 ottobre
Sono il tuo Belli.
LETTERA 54.
A MONS. CARLO GAZZOLA, ACCADEMICO TIBERINO — ROMA
[10 gennaio 1826]
Chiarissimo Collega
Se fosse cosa di niun momento per l’Accademia nostra il lasciar dubbio il numero e
indeterminata la qualità de’ componimenti lunghi, recitabili nelle adunanze solenni, io mi
approfitterei bene di questa indifferenza, per aspettare dal tempo tanto di agio che mi
bastasse a scrivere la Canzone destinatami dall’Egregio Consiglio per l’adunanza del 1°
venturo febbraio. Ma poiché al buon successo di que’ letterarii esercizi troppo mi è noto
importare la conoscenza certa delle produzioni di cui si possa far conto, obbedisco oggi al
dovere che mi corre di ringraziare, ricusando, codesto Ch. consesso della considerazione
nella quale mi prese, quando della distribuzione de’ componimenti deliberò. Le mie
occupazioni domestiche sono attualmente di tale peso e natura che ne’ brevissimi
momenti in cui me ne sollevo per respirare, mi conservano lo spirito turbato e non
padrone di dedicarsi ad impieghi che lo vogliono troppo più sciolto e sereno.
Prego la sua cortesia di partecipare a’ suoi nobili colleghi questo mio non volontario
ringraziamento, e di non isdegnare le proteste della mia perfetta considerazione.
Di casa, 10 gennaio 1826
Il Suo dev.mo servitore e collega
G. G. Belli
LETTERA 55.
AL SIG. SEGRETARIO ANNUALE (CAV. PIETRO VISCONTI) — ROMA
[3 aprile 1826]
Chiarissimo Collega
55
Se alcune domestiche mie faccende non mi avessero tenuto lontano dall’Accademia e
da Roma il giorno in cui dal Consiglio del 1825 fu eseguita la distribuzione delle medaglie
di quell’anno, non Le recherei fastidio con questa mia lettera, diretta allo scopo di
chiamarmi immune dalla taccia di poca consideratezza, in che possono forse essere incorsi
que’ miei valorosi Colleghi per certo trascuramento di riguardi dovuti ad alcuno
accademico non meritatamente da essi negletto.
Come lo spirito delle leggi è intorno a ciò manifesto, così La prego rendere manifeste
queste mie condoglianze all’Accademia, affinché si sappia per ognuno di quanta
venerazione io mi senta verso quelle compreso.
E senza più me Le raccomando.
Lì 3 aprile 1826
Suo dev.mo aff.mo Servitore e collega
giuseppe gioachino belli
uno de’ consiglieri dell’esercizio 1825
LETTERA 56.
AL SEGRETARIO DELL’ACCADEMIA PERGAMINEA — FOSSOMBRONE
(minuta)
[9 maggio 1826]
Ch. Signore
Poche novelle saprebbero per avventura giungermi grate quanto quella datami dalla
sua gentilezza con lettera uficiale del 12 marzo n° 15, alla quale purtuttavia ripensando, io
non so se più debba gloriarmi od arrossire dell’onore, che da Codesto illustre istituto
veggomi compartito, messa la gloria dal canto del favore, e il rossore dalla parte del
merito. E tanto in questa dubbiezza io vacillo, che dove il rifiuto di un fregio potesse non
parere forse più indegno del demerito, e colorire la umiltà di villania, io preferirei
piuttosto il ringraziare negando, un così chiaro collegio di valorosi, fra i quali non mi è
lecito entrare che per amore d’obedienza e di studio.
Porto lusinga che dal Ch. Sig. Vice-Custode, da V.S. e da’ suoi nobili colleghi sarà
concesso alla emissione del mio voto sulle leggi accademiche uno spazio sufficiente al
potersi ripesare con maturata […] da un solo cose già tanto gravemente ponderate per
molti riuniti giudici. — Intanto come quelle sembrano indicare preparata una formula
speciale per le schedole obbligatorie de’ candidati, nel che consiste una fra le condizioni da
preceder la legale e definitiva investitura del titolo di accademico, così io mi faccio ardito
di chiedervene i termini per non deviare dal rispetto dovuto alle forme, necessarie troppo
alla incolumità della sostanza.
LETTERA 57.
AL CONTE VINCENZO PIANCIANI — ROMA
[10 maggio 1826]
Veneratissimo Sig. Conte
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Potrei dirle le seguenti cose oralmente: ma poiché so lo scritto restare più impresso
che non fanno le parole, e dir meglio e più rispettosamente perché più misurato, Le
mostrerò con ossequio, scrivendo, come io abbia ragioni di doglianze circa il trattamento
avutomi sempre in amministrazione. Io fui dal Cardinale Consalvi di ch.me. nominato ad
impiego di registro fuori dell’ufficio dell’Amministrazione con biglietto che terminava
dicendo: doversi in seguito rettificare gl’impieghi secondo che la qualità delle persone e
l’interesse del Governo avessero giustificato. Su questa massima Monsignor Guerrieri,
allora Tesoriere, sin dal bel primo giorno degl’installamenti 1° settembre 1816 mi trasferì
all’ufficio dell’Amministrazione generale, dichiarandomivi commesso di seconda classe.
Entrai io dunque in esercizio contemporaneamente con tutti gli altri del medesimo grado,
e con tutti gli altri copiai le prime lettere d’impianto, anzi ne minutai quando, dopo pochi
giorni di servizio, fu il Segretario Cecconi destituito. Venne allora il Segretario Sig. Petti
all’amministrazione e poi il Sig. Stolz, di lui aiutante di studio, alla Direzione; e poi tutti gli
altri, a noi posteriori ed estranei, benché di noi più veloci nella nostra carriera. Ma questo
non è il mio punto principale. Dopo breve spazio dallo stabilimento dell’amministrazione,
Ella mi fece dimanda, e poteva esser comando, se io volessi andare ad aiutare per due o tre
mesi il preposto degli atti privati di Roma. Io vidi tutto lo spiacevole e lungo avvenire che
questo trapasso mi discopriva: ma a Lei piacque persuadermi operarsi ciò per mio bene e
gran bene, ed ingannarmi io sul dubitare che una volta là confinato più non ne sarei o
difficilmente tornato all’amministrazione, dove era il mio impiego, e dove io sarei rimasto
indietro, se non di dritto, di fatto almeno e di cognizione. Obbedii: e invece di tre mesi vi
stetti tre anni. Intanto qui nascevano leggi, memorie d’ordine e interni metodi, che io
ignorava condannato nella peggiore metà di una sesta parte di prepositura perché io
conduceva il monotono registro di dritto fisso in un uficio di Roma, dove in sei ufici tutta
la somma prepositoriale si divide. Poi il Preposto degli atti privati assunse i pubblici: ed io
conservato nel suo uficio vi ordinai l’archivio, a cui non mai prima s’era pensato, In questo
mezzo fu chiamato dalla Direzione altro impiegato per disimpegnare
nell’amministrazione incombenze, alle quali avrei potuto bastare io. Io reclamai molto, e
tanto, che finalmente ottenni di ritornare in amministrazione col titolo di commesso di
prima classe, in ricompensa di tre anni di fatiche veramente eccessive non meno che
noiose. Volli, e ne aveva i mezzi, supplicare Monsignor Tesoriere perché di accordo col
titolo conferitomi come si rileva dai ruoli, mi fissasse la giunta di stipendio al medesimo
titolo corrispondente, il quale Ella da qualche tempo prima mi andava somministrando
con separata quietanza. Ella me ne trattenne promettendomi d’impetrarlo per me: ed anzi
un giorno si aspettava ad ore il rescritto. La sperienza del passato mi incuteva timore per
l’avvenire: Ella mi quietava coll’assicurarmi con parola d’onore che alla fine, in qualunque
evento, quella giunta mi sarebbe sempre stata pagata finché l’amministrazione avesse
avuto reggimento da Lei. Questo in verità era assai meno che fissazione nel ruolo, come
avrei desiderato, ma pure era qualche cosa: e così per allora mi tacqui. Passato un certo
tempo mi fu ritolto l’aumento. Morì quindi il Sig. Lepri commesso di la classe; e il Sig.
Poggioli che sempre allegò anteriorità sopra di me, benché entrati entrambi in esercizio col
medesimo grado in un medesimo giorno, sollecitò il posto di primo commesso, e l’ottenne
collo stipendio analogo, in preferenza di me, che di già ne godeva il titolo: a questo si
rimediò col rifondere i ruoli, che più non presentassero l’antico metodo di precedenza.
Intanto il nuovo Commesso, chiamato dalla Direzione, e venuto certamente anni dopo di
me, entrato al fatto delle cose aveva cominciato a lavorare, e lavorando bene, ottenne e
gode un aumento mensile di scudi cinque: e per tacere di lui, non pur uno si conta forse
fra i tanti miei compagni, il quale non lucri il suo soprassoldo segreto. Io solo non ho mai
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nulla avuto, anzi quello perduto che aveva. Ecco, Sig. Conte, i vantaggi miei e i disegni che
si facevano per favorirmi e sollevarmi. Io abborrii sempre dallo stile de’ pitocchi. Oggi
però che le mie circostanze, senza potersi dire pessime, assunsero pure aspetto peggiore
delle antiche, io stimo non dover più osservare silenzio; convinto di più che quantunque
quelle fossero ottime, come forse taluno vuol credere, ciò non entrerebbe nel nostro
calcolo, perché le paghe degli ufici già stabiliti non si livellano in progresso sulle proprietà
particolari come le dative: di che tanto nell’Amministrazione nostra quanto in tutti gli altri
dicasterii del governo brillano luminosissimi esempi. Demeriti morali forse non mi
macchiano, né stupidità mi avvilisce. Una malattia mi ha rimosso alcun tempo dall’uficio:
ma questo ha recato più danno a me che allo Stato; ed altronde i miei pregiudizi economici
erano già stati all’Amministrazione o compiuti o ben preparati quando Iddio mi chiamò a
rovinarmi viaggiando gl’interessi per salvarmi la vita: iatture da me sostenute senza
querela, e non implorando dai Superiori fuorché quello che lo stesso morbo da per sé mi
accordava, o mi avrebbe concesso la morte; dico assenza dall’uficio.
Ma v’è ben altri, che, senza morbo, non per mesi ma sempre è lontano: eppure per
solo merito di fedelissima assenza ha ottenuto nel ruolo quegli stessi vantaggi, che le
fatiche, le promesse e i disastri a me non seppero mantenere. Tutto questo è vero; ed io lo
dico a Lei perché pel rispetto da me dovutole mi piace farla consapevole di quanto si
muove nell’animo mio, disposto sì alla preghiera onde ottenere giustizia, ma sì ancora al
coraggio di metter doglianze sulla negligenza e sullo avvilimento in che mi veggo tenuto.
10 maggio 1826.
Giuseppe Gioachino Belli
LETTERA 58.
ALLA MARCHESA MATILDE ROBERTI SOLARI — LORETO
[22 agosto 1826]
Vorrei darvi notizie, ma qui poche ne corrono perché questo è tempo di tregua, e la
natura e la sorte sembrano riposare. Quando si riscioglieranno o avranno finito le vacanze
allora avremo di che intrattenerci sugli avvenimenti mondani.
Intanto vi dirò cosa che di già forse sapete. Questo Messer Giovanni Paterni, uomo
sufficientemente asinario, nato in maledicta Narnia trasportato qui dal tempo cattivo, e
salito a grado di molto seguito e dipendenza; quest’uomo, rispettabile portatore di enormi
brillanti sullo sparato imbuculare; quest’onestissimo gabelliere di bolli da pesi e misure;
questo delicatissimo dispensator di bocconi, o imbeccature, o strozzi che siano,
quest’onorato impresario mercatante di corna e faville nelle giostre e pirotecniche veglie
romane; a mal grado dell’introdotto velario nel Mausoleo di Cesare Augusto, luogo
destinato al cornificio diurno ed ai notturni sfavillamenti con fiacca imitazione benché
gentile dell’antico velario Flavio, scarso profitto ricavava dall’aumentato prezzo d’ingresso
al doppio spettacolo. Fertile di trovate, come sagace consecutore di scopi, immaginò tre
conventi di romani al suo anfiteatro per giocarci tre partite ossia farci tre tombole in tre
consecutive domeniche; utile speculazione per lui, perché del suo non rimetteva, come si
suol dire, che le cazzeruole. Ottenuto il permesso dalla Segreteria di Stato, immaginati i
modi, fatte le stampe, lavorata l’urna, bollate le cartelle e distribuite, affissi i manifesti, e
messo il grembiule dell’opera, eccoti sabato mattina un Pontificio divieto ed eccoti fumo
dove aspettavasi arrosto. Si sta ora in sui compensi: e il chiedere e il negare fanno insieme
un sapore terzo come d’olio e d’aceto...
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LETTERA 59.
AL SEGRETARIO DELLA ACCADEMIA PERGAMINEA — FOSSOMBRONE
[16 settembre 1826]
Rendo all’illustre Accademia ed a Vostra Signoria le grazie maggiori che per me si
sappiano in povero contraccambio del molto onore di cui mi veggo fregiato nel Diploma
accademico. Io so veramente di nulla valere, e tutto però riferisco pertanto il merito alla
luce che gli dà apparenza.
Faccia di grazia conosciute queste mie novelle protestazioni al Chiarissimo ceto de’
miei Colleghi e Signori, dei quali così come di Lei io mi pregio di essere e di considerarmi
ammiratore rispettoso e servo devoto.
LETTERA 60.
AL PROF. ANTONIO MEZZANOTTE — PERUGIA
Di Roma, 26 gennaio 1827
Gentilissimo amico
Non prima di ieri potei estrarre da questo babilonico ufficio delle dogane il bel libro
che da voi speditomi mi recò franco la diligenza di Venerdì 20. Io ve ne ringrazio con vero
sentimento di riconoscenza, e vi aggiungo anche quello di venerazione, poiché vi veggo in
ciò uomo più che evangelico, retribuendo voi il mille per uno dove il vangelo non
promette che il cento, usura anch’essa che ne’ tribunali della terra non troverebbe troppo
facile passo.
Grazie, caro Mezzanotte, grazie: questa andrà a prendere posto fra le altre
interessanti vostre opere di cui aspetto la provenienza da Bologna.
Tanto in riscontro alla onorevole e grata vostra del 17; e finisco abbracciandovi di
cuore.
Il v. aff.mo a.co
G. G. Belli
LETTERA 61.
A TOMMASO GNOLI, AVV.TO CONCISTORIALE — ROMA
[gennaio] Mercoledì 31 1827
O Gnoli amico che le palle e l’asta
Tratti con gagliardia da Concistoro:
Bozzoli amico, al cui pregio non basta
Solo un quartin, ma ben merti un tesoro
Tosini amico, o uom di buona pasta
Che quanto pesi vali argento ed oro
Venite questa sera; e avrete il seno
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Di pizza avvocataria onusto e pieno.
Il pizzaio
Belli
LETTERA 62.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Fuligno, 29 luglio 1827 — ore 10 della sera
Mia cara Mariuccia
Prima di tutto mi pare che mi lasciasti fredda fredda! Ci ho pensato sempre. Non ti
parlo della mia compagnia che di volo, come di volo il resto, perché muoio di sonno, e mi
duole piuttosto assai un dente. Sono con me un tal Corradi con la moglie, abitanti a Roma
nell’appartamento di Lelmi. Vi è poi uno studente che viaggia per Pergola sua patria con
una scipita e goffa moglie allattante una bambina di 73 giorni. Accanto a me in serpa (dico
meglio cabriolet) viene una brutta Marchegiana di Monte Alboddo che mi secca
furiosamente colla menz’ora, colla menza notte, e col non gi sta. Io le rispondo assai di rado, e
leggo. Si dormì due ore e mezzo a Narni. Siamo passati questa mattina appena fatto giorno
da Terni. Lasciata la vettura in piazza sono corso a svegliare Vagnuzzi e gli ho
frettolosamente detto due parole, anche per Borzacchini che non ho trovato. A Spoleto ho
parlato con Plinj. Scrivo qui per servirmi delle buone penne di Fuligno: del resto recherò
meco la lettera per impostarla più in là che sia possibile pel passo del corriere che giungerà
a Roma giovedì: almeno se cosa di nuovo vi sarà, la dirò. Pel corriere di domani lunedì 30
non è stato combinabile. A Spoleto non era più ora; a Terni non mi sono fermato; a Narni
era troppo vicino a Roma in un viaggio piuttosto lunghetto; e poi, arrivato alle 11, e
ripartito alle 2 e mezza con in mezzo tutti gli amminicoli della cena, lavanda, e sonno,
come si faceva?
Saluto le case Dolce e Spada con tutti gli annessi e connessi. Gli altri poi secundum
quid: tu conosci i gradi delle mie inclinazioni.
Ti abbraccio insieme col mio Ciro: addio
Il tuo P.
LETTERA 63.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Bologna, 6 agosto 1827
Mia cara Mariuccia
Pochi momenti dopo impostata da te la tua del 2 corrente devi avere ricevuto la mia
scrittati da Tolentino; nella quale ti diceva i motivi per cui non ti aveva scritto prima. Il
giorno 4 poi ti sarà arrivata l’altra mia di Sinigallia. Vedi dunque, Mariuccia mia, che io
non ti ho mancato di nulla, né lo saprei fare giammai. Giunsi qui sabato sera accolto dalla
famiglia Celsi come un fratello: e debbo usare violenza per partire dimani (martedì 7). Sto
dunque in moto per la partenza. Oggi pranzerò coll’ottimo Mazza (che infinitamente ti
saluta e abbraccia Ciro mio) in casa di un francese, chimico di questa fabbrica di pannine.
Ho esatto questa mattina gli Sc. 40 e ti ringrazio di cuore.
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Dopo impostata la mia di Sinigallia vidi la duchessa d’Altemps col padre e con
Fidanza. Le dimandai se v’era Marcolini: mi disse di sì e mi insegnò la casa. Ci andai, e fui
veduto con gran piacere. Stan tutti bene e salutano tanto te e Pippo. Il giorno dopo pranzo
andammo a spesso insieme perché i Sig.ri Vetturini mi tennero là 24 ore. — Passai da
Pesaro di notte. — A Rimini vidi Ferrari che saluta te e casa Dolce. — Non ho ancora
potuto vedere Muratori: oggi andrò a casa sua, che mi è stata insegnata. — Menguzzi di
Bagnacavallo vorrebbe vedere i conti: io ho risposto essergli stati dati, e adesso il Conto
essere il Mandato: su questo, quando egli paghi, gli rilascerò qualche cosetta. — Verrà
dopo il 20 a Roma il Sig. Germano Rusconi, nuovo Ispettore delle ipoteche invece di
Carnevali. Condurrà la moglie. Sono brave persone che ho conosciute e mi han chiesto di
venire la sera da me. Te le dirigerà Celsi con due righe: così siamo d’intelligenza. Per S.
Lorenzo sarò in Milano. Quanto godo, Mariuccia mia, della tua rinuncia alla deputazione
di beneficenza! Che diranno? Ti vorrebbero veder morta? Io no però. Dunque abbiti cura
per carità: fa i bagni, cammina il meno possibile, e pensa a star bene per me e per Ciro
nostro. Mariuccia mia, il 15 è la tua festa. Vedi che io non me ne scordo: e fo mille e mille
voti per la tua felicità. Ricevine in pegno un tenero bacio.
Parlai a Sinigallia con Bondì che ti saluta. Ci vidi Roverella che saluta Gnoli e
Pieromaldi etc. etc. — Mi incarica Celsi di pregarti che se mai vedi Carluccio Canori lo
saluti da parte di tutta la sua famiglia. Ricordami a tutti quelli che chiedono di me: addio.
Ti abbraccio.
Il tuo P.
LETTERA 64.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Bologna, mercoldì 8 agosto 1827
Cara Mariuccia
Sono qui ancora per mancanza di vetture. Veramente lunedì al giorno venne da me
un vetturino, ma come io stava chiuso in camera leggendo un libro, la affezionata famiglia
Celsi prese quel pretesto di mio riposo onde licenziarlo e non farmi partire. Ieri poi me lo
confessarono, ed io che nulla di negozii ho che mi chiami a Milano ora per ora, sopportai
in pace questa obligante soperchieria dettata dalla buona amicizia. — Partirò peraltro sul
fare del giorno di dimani, e arriverò sicuramente a Milano a mezza mattina della prossima
domenica 12 corrente. Di là darò riscontro a quella tua che tu senza dubbio mi ci devi
inviare in risposta alle tre mie antecedenti a questa.
Oltre a Celsi, Mazza e Scarabelli seguono a colmarmi di favori o di gentilezze. Cento
lettere commendatizie mi sono qui offerte per Milano: io però ringrazio, non sapendo
bastare a tanti rapporti; solamente ho accettato due: la prima del fratello di Cardinali,
(Clemente) il quale è ora qui per qualche giorno con la moglie bolognese, quella tale
Signora bellina che tu conoscesti in casa Tarnassi quel giorno della processione di donne
nel giubileo. Cardinali dunque mi ha dato una lettera pel celebre Dottore Giovanni Labus,
e un libro da portargli.
Ho poi un’altra lettera per un locandiere, datami da un locandiere e insieme
banchiere di questa Bologna, amicissimo di Celsi. Questi mi ha fatto anche una cambialetta
alla pari, a vista, sopra Milano, mancando qui assolutamente oro da trasportare.
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Mariuccia mia, come stai? Seguono i bagni a giovarti? Pensa che gran parte della mia
salute dipende dalla tua, e da quella di Ciro, il quale mi lusingo che stia, al solito, benone.
Oggi ad otto è la tua festa. Invita qualcuno, e sollevati. Io corrisponderò da Milano alla tua
allegrezza col chiamarti molti e molti altri anni tranquilli. — Del libro prestatomi da Dolce,
e delle calze provvedutemi da Orsini, il primo mi fa compagnia nell’andata, le seconde me
la faranno al ritorno. Salutami tutti, che non distinguo per timore di lasciarne fuori
qualcuno per errore.
Ti abbraccio: baciami Ciro. Addio.
Il tuo P.
P.S. Pianciani rilasciò quella fede per la Pulizia?
LETTERA 65.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Milano, 13 agosto 1827
Mia cara Mariuccia
Eccomi in questa città bellissima da ieri. Sperava di trovare tue lettere alla posta, ma
nulla vi era e neppure ne sono venute col corriere di un momento fa. In tutti i modi voglio
scriverti una parola per dirti che io sto bene, e che appena arrivai cercai e trovai Moraglia,
il quale trasecolò al vedermi. Egli è in questo momento a me presente, e le cose che mi dice
per te non so ripeterle. Fra due o tre giorni mi conduce ad una gita con lui ne’ bei contorni
di Milano.
Come stai, cuore mio? Ciro mio sta bene? Abbiti cura; e credi che se più per oggi non
ti scrivo è effetto del corriere, che parte adesso.
Moraglia mi ha trovato una buona stanza. Addio, addio.
Vidi Olmi a Parma, e cenai seco: dillo, se lo vedi, a Biagini. Ti abbraccio di nuovo,
pregandoti di mille baci a Ciro mio. Che penna! Locande!
Il tuo P.
LETTERA 66.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Milano, 18 agosto 1827
Mia cara e buona Mariuccia
Dalla mia anteriore n.° 5 avrai udito come io stava in pena non vedendo i tuoi
caratteri. La presente dovrebbe dileguare ogni idea di timore e di dispiacere ma come
farlo, se tu mi dici di non star bene? Non puoi credere quanto questa cosa mi agiti e mi
faccia vivere inquieto! Vedo con dolore che le tante brighe nelle quali tu devi certamente
trovarti avvolta ti tolgono sino il tempo di fare i bagni, da cui si potrebbe sperare un gran
bene. È questa una gran fatalità che la salute ti vada così abbandonando, ed è stata di più
una grande ingiustizia che io che alla fin fine non aveva niente sia venuto a divertirmi, e tu
al contrario che soffri davvero abbi dovuto restartene alla fatica ed ai dispiaceri, sola e
senza un conforto! Ti assicuro che se tu mi dicevi a tempo quel che mi dici oggi, io non
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partiva di certo. E fra le altre cose mancavano ancora questa benedetta congregazione di
carità, e quel birbante del tuo zio, pel quale, se non ci fosse un inferno, bisognerebbe
fabbricarlo apposta. Mariuccia mia, abbici sofferenza fin che puoi, e quindi io direi che te
lo togliesti sino dal pranzare con te, ponendoti del tutto dietro un salvaguardia, che
sarebbe quello di manifestar tutto a qualche persona di autorità; né il curato mi parrebbe
fuor di proposito, tanto più che io sospetto che l’avvocato lo visiti spesso. Basta, io parlo
così per modo di dire: tu poi medita se ciò ti convenga per la tua pace, di cui abbisogni.
Non dubitare: Celsi non ci abbandona, ma pensa che Menguzzi è un disperato.
Non puoi credere le attenzioni di Moraglia e di tutta la famiglia. Egli si dispera per
non avere una casa in cui poter darmi una stanza: è piccola assai, e ci vive coi genitori, col
fratello, con la moglie e due cari figlioletti. Avrebbe voluto vedermi piuttosto nell’anno
venturo, in cui dice che starà più largo. Tutte le feste devo pranzare da lui: gli altri giorni
sono tutti troppo intrigati, e mancano si può dire di ora fissa per riunirsi. Giovedì 16 mi
condussero in campagna a Magenta, 20 miglia da Milano, dov’è un’altra loro figlietta a
balia: ha 10 mesi e va sola, carina come un angioletto. Eravamo Moraglia, il buon fratello,
la ottima moglie ed io. Questa donnina non totalmente bella, ha maniere obligantissime: è
però anche graziosa di viso e di figura. Essa divide col marito il vivo desiderio di farmi
piacere, e mentre giovedì Moraglia per più di dieci volte pranzando ti desiderava presente
con una commozione veramente da amico essa brillava di gioia. Che buona famiglia!
Qualunque ora o mezza giornata Moraglia può rubare alle sue occupazioni, è subito meco,
e finora ad ora non ho girato che con lui per questa superba Città. Ieri sera mi portarono al
teatro Carcano. Oggi partiamo per Monza e per la Brianza, e torniamo lunedì. Quest’altra
settimana mi conducono a Pavia ed ai laghi. Insomma non so che dirti.
Ho veduto Narducci, Calvi, e i Manzi: anch’essi esibizioni senza fine. Cattaneo e
Crivelli son morti. Questo Crivelli era quello a cui de Mortara tagliò il dito. Egli faceva
furiosamente l’amore colla sorella, Clotilde, del nostro Aniceto Orsini. Moraglia mi ha
preso in affitto una stanza in casa di un tal macchinista de’ Carli, il quale ha inventato e
offerto al Papa una macchina intitolata sorgente di moto. Non ho ancora potuto vedere i
Borgia, né il Muller di Pippo. A proposito di Pippo, Moraglia avrebbe bisogno di sapere se
vi è (oltre la solita delle guide di Roma) qualche opera particolare che tratti esclusivamente
della Basilica di S. Pietro. Egli crede che un tal Domenico Fontana (se non erro) ne abbia
scritto. Vedendo Pippo, o anche Puccinelli, mi faresti il piacere d’impegnarti a prendere in
ciò qualche lume.
La roba di vestiario va qui precisamente ad un terzo dei prezzi di Roma: quel che da
noi sta a 10 qui si ha per 4 o per 3. Se io avessi danari mi provvederei davvero di qualche
cosa; ma pure un soprabitino di cammellotto per quest’altr’anno vorrei farmelo. Figurati
tutto insieme arriverà a poco sopra gli Sc. 4! Che ne dici? — Vedendo Spada salutalo con
tutta la famiglia tanto tanto, e digli che Labus, letterato celebre di qui, attende da
Pietruccio Visconti quelle notizie intorno allo zio Ennio Quirino. — Non so se ti ho mai
detto che a Bologna vidi Muratori, il quale ti riverisce benché non ti conosca, e saluta casa
Dolce, che saluterai anche per me. Saluta altresi tutti gli altri maschi e femine, o per dir
meglio uomini e donne. Che ti dirò poi del mio Ciro? Non voglio dirti nulla: tu puoi
comprendermi. Ti abbraccia di cuore.
Il tuo P. aff.mo
P.S. Io sto bene.
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LETTERA 67.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Milano, 25 agosto 1827
Cara Mariuccia
Dopo impostata una lettera per Pippo, il quale mi aveva richiesto di una notizia che
gli premeva, mi è stata data la cara tua del 18 cad. Convengo che le tue lettere non mi
giungono troppo consolanti, avuto specialmente riguardo al mio carattere mobile ed
apprensivo pel quale anche le paglie divengono travi: ma ora mi riconosco nel medesimo
tempo abbastanza giusto e ragionevole per attribuire non a te affatto, ma tutto alle
circostanze contrarie l’amarezza del tuo dire. Povera Mariuccia mia! Sarebbe bella che
mentre tu soffri tanto e tanto fatichi e ti martorii per mandare avanti meno male che si può
la nostra casa, dovessi poi anche fingere tranquillità in mio servigio, avendo l’animo
turbato dal cattivo aspetto de’ nostri interessi! Circa però al molto urto che certo deve aver
lor dato questo altro mio viaggio confessami Mariuccia mia che io non avrei voluto farlo
perché molto più che non apparisce al di fuori so io penetrarmi di tutto ciò che va nella
vita conosciuto e apprezzato. Ma tu tenera della mia salute non solo volesti prenderne
cura con un nuovo viaggio il quale senza dubbio non si rendeva poi necessario pel
dileguamento di qualche incomodo estivo e passeggiero, ma bensì ti piacque accelerare la
mia partenza. Io voglio far tutto quello che a te piace, ma esiggo da te un parere per andare
di accordo: dimmi verso qual tempo ti piacerebbe che io fossi a Terni. Tu sai quanto io mi
sia in certe cose sempre incerto, e come spesso un tuo consiglio mi determini, e, rompendo
quella specie di mia irresolutezza mi sembri divenire il consiglio mio proprio. Dimmelo
Mariuccia mia. Troppo più tardi di quel tu penseresti mi spiacerebbe di andarci: troppo più
presto mi spiacerebbe egualmente, perché con sincerità dico che Milano Bologna e Loreto
mi offrono migliore soggiorno che Terni e Casa Vannuzzi.
Circa i crediti recuperabili non so che dirti se la mia personale presenza sia utile o no:
tu conosci la mia flessibilità e quasi puerilità contro chi sugli occhi miei chiede e prega.
Circa poi alle vendite io non so davvero accordarti che io serva meglio in persona per
trovar compratori: assicurati che acciò val meglio un terzo per la speranza di un piccolo
guadagno che non lo stesso padrone (benché io non lo sia) il quale quando mancano
oblatori nuoce più che non giovi coll’andarli cercando e suscitando: io poi che son tanto
bravo! Ma pure voglio in tutto e assolutamente fare il tuo piacere, per consolarti almeno
colla mia buona volontà. In quanto al silenzio di Vannuzzi ti mando le accluse due righe:
inviale se credi ben fatto, altrimenti replica tu medesima; se io fossi costì ti allevierei
volentieri da queste fatiche di più.
Non posso capire come non ti risposi intorno a M. Samin alla tua degli 11 agosto.
Ecco dunque. Bochet mi disse in una sua che si pensava di mutare ordine alla pensione, e
che mi avrebbe però detto qualche cosa di preciso. Io voleva aspettare e aspettava da un
giorno all’altro queste migliori notizie onde recarmi da M. Samin con qualche cosa che
valesse la pena. Se tu prendi la posizione Bochet nel credenzino sinistro del mio scrittoio
troverai la lettera Bochet in cui se ne parla, la quale dev’essere l’ultima o la penultima del
fascetto intitolato Corrispondenza diretta. Se mi fosse giunta la tua qualche ora prima avrei
unito la presente a quella per Pippo onde risparmiava una impostatura che qui costa circa
un paolo, e lettere che si ricevono da Roma si pagano circa bai 13. Dunque ogni lettera tra
missiva e responsiva vale intorno a 24 baiocchi: che sonata! Ciononostante debbo
chiamarmi fortunato se questo prezzo mi procaccia le tue nuove e mi significa la tua
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volontà. Ti ripeterò i saluti di Moraglia, che riceverai da Pippo. Gli altri amici pure mi
dicono sempre mille cose per te. Mercoldì andai a pranzo da Calvi. Lunedì mi conduce a
un suo casino a Monza per tornare la sera. La di lui moglie e la moglie del fratello sono un
poco pigrucce. Stringo al cuore Ciro, saluto tutti, e ti abbraccio affettuosamente.
Il tuo P.
LETTERA 68.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Milano, 10 settembre 1827
Mia cara Mariuccia
Rispondo contemporaneamente a tre tue lettere de’ 25 ag., del 1° sett. e del 4 d. Alla
prima non diedi riscontro tra perché varie cose in essa dimandatemi te le aveva dette nella
mia ultima, allora corrente in viaggio, e perché aspettando da te replica ad una mia mi
riserbai dirti tutto insieme onde evitare altresì le incrociature. Le due poi del primo e del 4
corr. mi sono state date oggi unitamente. — Certo è che Fioravanti è un gran vassallo! —
Le tue ragioni per persuadermi del perché sagrifichi tutto alla mia salute non possono che
parermi amorosissime, e come tali eccitarmi alla più viva gratitudine. Circa a Peppino,
godo che siasi scosso; e tu avrai veduto che io non aveva poi osservato con lui quel
silenzio di cui pare che tu dubitassi. Egli nudre un poco di pigrizia, la quale unita alla
scarsa sua educazione lo fa sembrare anche più cattivo che non è. Stando così le cose, e
potendo tu mandarmi qualche altro baiocco, mi farai certo gran piacere. Assicurati che io
non getto nulla, e quando vedrai con che mi mantengo ti farà sorpresa. Ma il tutto insieme,
indispensabile fuori di casa, è quello che porta avanti. Per questa volta voglio che al mio
ritorno tu osservi la mia lista di spese, e vedrai il minimo fra gli articoli apparire quello del
mantenimento, benché non saprai insieme quale degli altri escludere e chiamare superfluo
e assolutamente risparmiabile. Io conterei sui primi di ottobre di trovarmi a Bologna, a ciò
sembrandomi che le tue ultime lettere mi diano largo. Di là passerò per pochi giorni a
Loreto donde mi scrivono volermi assolutamente vedere dopo due anni che al mio
passaggio si trovano sempre in campagna. Sugli ultimi dieci giorni di ottobre sarò a Terni,
e là starò sino verso alla metà di novembre, e anche più se ti parrà che l’interesse de’ nostri
affari lo persuada. Se questo mio itinerario ti piace avvisamene, mentre se con qualche
prontezza mi rispondi al tuo solito, vi è benissimo tempo che io possa ricevere qui un’altra
tua lettera. Allora quel danaro che tu crederai poter essere in grado di mandarmi, potrai
spedirmelo a Bologna col solito ottimo mezzo dell’amm.ne del registro.
Grazie a te e al caro Spada pel sonetto di Mimma. Ci vai tu alla vestizione? Già credo
di sì perché le vuoi bene, e poi sai che mi dai con ciò consolazione: povera Mimma! è stata
tanto disgraziata.
Meno male se l’azienda de’ poveri ti si allegerisce: potrai tirare un po’ più avanti, e
farti questo merito avanti l’umanità. Moraglia ti ringrazia delle notizie sulla Basilica di S.
Pietro. Egli e la sua famiglia mi usano sempre le maggiori attenzioni, e se io abusassi sarei
padrone di casa loro.
Per lo studio di Ciro ci penserò io: non ti dar pena; è tanto tenero che un ritardo di
qualche giorno non gli nuocerà certo, tanto meno con quel piccolo cervello che si ritrova.
Affogalo di baci per me. Ringrazio l’ottimo nostro Rossi della buona memoria in che mi
ha. Risaluta tutti, e ricevi da me mille abbracci.
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Il tuo P.
LETTERA 69.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Milano, 10 settembre 1827
Carissima Consorte
Il consenso che tu mi dimandi per la prossima vendita al Sig. Antonio Corazza del
tuo pezzo di terra ereditato in Cesi sotto vocabolo la Croce delle fabbriche per la somma di
scudi Centonovantatre e bai: 80, eccolo qui amplissimo, e quale potrei dartelo in persona
dove io mi trovassi in questa circostanza con te. Serva anzi la presente per metterti in
diritto di disporre di questo e di ogni altra tua cosa sotto qualunque estremo e condizione
ti piaccia, troppo io sapendo per prova che a nulla tu sai andar risoluta se non a ciò che di
vero utile riuscir sappia alle cose della nostra famiglia. E con ciò di vero cuore ti abbraccio.
Il tuo aff.mo marito
Giuseppe Gioachino Belli
LETTERA 70.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Milano, 23 settembre 1827
Cara mia Mariuccia
Rispondo alla tua de’ 15 andante. Poiché il mio itinerario incontra la tua
approvazione io penso di partire di qui domenica 30, seppure gl’incagli ordinarii delle
vetture non mi ritarderanno di uno o due giorni. Ai primi dunque di Ottobre io sarò a
Bologna, dove attendo da te riscontro alla presente. D. Cesare Borgia vuol ripartire da
Milano nel prossimo mercoledì 26. Ieri sera che pranzammo insieme da D. Francesco
questi e la moglie volevano in ogni modo obbligarlo a partire al fine del mese per andare
con me a Bologna, dove egli si dirigge: non so cosa farà. Egli ti saluta e così D. Fr.co. — D.
Alless.o sta da qualche tempo ammalato con reuma. Ti ringrazio della notizia del libro di
Torricelli: penserò io a scrivergli direttamente. Fa veramente meraviglia la faccenda di
Peppino: e più che la sua mancanza mi dà pena l’imbarazzo e il dispiacere che reca a te.
Speriamo che troverà il modo. Oggi dunque Mimma sarà monaca! Possa essere felice!
Nell’andare o non andare tu avrai fatto benissimo quel che avrai fatto. Bravo il Sig.
Checchino delle orecchie lunghe! — Godo molto della guarigione di Natalina: fa con lei i
miei sinceri rallegramenti. — Salutami la Mazzanti tanto. La Battaglini partì? La sua causa
come va? Che ne dice il Dottor Biscontini? Quanto è brutto quell’uomo vestito da Abate!
— Martedì vado a Pavia con Moraglia e Calvi, a visitare la Certosa così celebre, la
Università, la Cattedrale, e le così dette Conche di Ticino etc. Anche qui fa un tempo del
diavolo. Il giorno che andai al lago di Como, fece là fra quelle Alpi un temporale d’inferno.
Mi ci condusse il fratello di Moraglia che tu a Roma hai conosciuto. Moraglia ti rende
saluti centuplicati. Oggi, al solito di tutte le feste, pranzo da lui; e fra un quarto d’ora la
Moglie sua, egli, ed io andiamo a far colazione all’Isola bella, sontuosa osteria fuori di porta
Nuova. Mangeremo la buzzeca, cioè la trippa. Quanto godo di udire che quel caro Ciro
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vada fissando la ragione e divenga più docile. Coprilo di baci per me. Io sto bene, e prego
te di averti cura. Saluta tutti al solito e di’ a Pippo che gli porterò il Manuscritto che mandò
a Müller. Gli Spada che fanno? Non gli ho scritto mai, ma gli ho tenuti sempre nel cuore.
Addio: ti abbraccio affettuosamente.
Il tuo P.
LETTERA 71.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Bologna, 3 ottobre 1827 — ore 11,30 antimeridiane
Cara Mariuccia
Sono partito domenica 30 da Milano: sono qui arrivato orora: appena cambiatomi
sono andato alla posta, dove ho trovato le tue carissime del 27 e 29. Cercando il Sig.
Rusconi, ho poi saputo essere il Direttore della posta: sono dunque tornato alla posta, e ho
trovato essere fuori Bologna e tornare dimani: non posso dunque darti notizie dell’incasso
della somma da te favoritami, di cui ti ringrazio davvero senza fine, conoscendone sempre
più il tuo attaccamento per me. Le notizie che mi dai della Barberi e della Falconieri mi
affliggono assai: né manca ancora di disturbarmi molto l’intrigo in cui ti trovi per colpa di
Coletti. Povera Mariuccia mia quanti disturbi! Ma benché lontano io li divido con te,
bramando invano di assisterti. Godo tanto tanto del bene stare di Ciro nostro: bacialo 1000
volte per me. Non ti dico altro perché il corriere sta a momenti per partire: il resto nel
venturo. Ti abbraccio addio.
Il tuo P.
LETTERA 72.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Bologna, 5 ottobre 1827
Mia cara Mariuccia
Jeri mattina questo Sig. Cavaliere Giacomo Rusconi, Direttore delle poste mi pagò gli
scudi trenta che tu ti sei compiaciuta di mandarmi. Letto appena il nome Rusconi nelle due
carissime tue 27 e 29 pp. settembre, dubitai sulle prime del pagamento, vivendo qui alcuni
soggetti di quel nome molto cattivi pagatori; né il Giacomo che lo precedeva poteva darmi
miglior sicurezza, mentre io non ricordava il nome di battesimo di questi. Ma pure il
pensiere della puntualità e prudenza del Marchese Mornado, e quindi la notizia avuta
dell’essere questo nostro Rusconi il solidissimo Direttore della posta, mi posero in quiete; e
il buon esito della faccenda coronò la novella fiducia. Ti rinnovo pertanto qui i più sinceri
ringraziamenti per la premura con la quale vieni incontro a tutti i miei bisogni. Così gli
altri fossero diligenti con te! Ti assicuro che quel saperti in tanta angustia pel ritardo del
pagamento Vannuzzi da te assegnato con tua firma a soddisfazione di appunti così
imminenti, mi ha fatto e fa stare in molta pena. Come avrai fatto dentro uno spazio così
limitato? E non bastavano dunque questi tuoi disturbi, che altri ancora dovessero
aggiungersi loro per tormentarti? La morte inattesa della Barbèri, e il colpo della Falconieri
debbono certamente averti assai indisposta; ed anche a me danno grande rammarico.
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Figuro la desolazione di Barbèri e dei Lepri; figuro la pena dell’ottimo Cavaliere
Falconieri; l’imbarazzo della eccellente famiglia Battaglia, ed il tuo insieme per essere stata
destinata a presiedere alla cerimonia disgustosa del trasporto della malata,
particolarmente in un modo tanto eccitatore della pubblica curiosità. Evviva! tutte le
mosche addosso ai cavalli magri! Sempre così!
Nella mia lettera dello scorso ordinario nulla potei dirti della mia partenza di qui, né
del mio itinerario preciso, per norma del nostro carteggio. Celsi era partito per Lugo poche
ore prima del mio arrivo, dimodoché senza averlo riveduto, nulla potevo né posso
decidere sul giorno del mio proseguimento di viaggio. Non so quando tornerà: deve però
accader presto. Per metterci dunque al sicuro, puoi rispondermi il giorno 13 e farmi
trovare la tua lettera il giorno 15 a Loreto, dove intorno a quell’epoca spero certamente di
essere. Non mettere sull’indirizzo il ricapito in Casa Solari. Essi stanno in campagna, ed io
vorrei, se arrivassi di buon’ora a Loreto, ritirare la tua carissima prima di recarmi alla loro
villeggiatura. — Dopo veduta e gustata Milano, Bologna mi par divenuta un paesetto da
cicoriari. Stringi di cento abbracci Ciro nostro, saluta gli amici e credimi sempre.
il tuo aff.mo P.
LETTERA 73.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Bologna, mercoledì 10 ottobre 1827
Mia cara Mariuccia
Nella prossima notte partirò per Loreto, siccome ti dissi nella mia antecendente de’ 5,
la quale così come l’altra de’ 3 spero che avrai ricevuta. M’è stata ieri data alla posta una
lettera che Giorgio Votrontò mi diresse da Firenze a Roma. Questa lettera era aperta, e non
so se ciò sia accaduto per opera dei ministri postali, i quali si sarebbero tolti una curiosità
molto vaga. Se poi fosse essa stata prima data a te, e l’avessi aperta tu per vedere di qual
premura potesse quella essere, la cosa muterebbe aspetto e nulla vi resterebbe da dire.
Intanto circa a Giorgio, sappi che mentre domenica io andava sotto il portico del
pavaglione pensando di cercare qualche greco suo conoscente per chiedergliene notizie,
ecco che me lo vedo all’improvviso davanti. Egli era arrivato la sera avanti da Firenze. È
venuto a Livorno da poco, e là fra breve spazio ritorna per stamparvi una sua opera, non
so quale. Forse darà una fuggita in Roma prima di tornare alle Isole Ionie. — Fra due
giorni parte quel Sig. Germano Rusconi di cui ti parlai quest’agosto: ti porterà una lettera
mia. — Ha scritto a Celsi il suo commissionato di Lugo pel nostro affare Menguzzi che in
breve tempo si deve vendere la casa di lui: allora etc. Intanto il debitore richiede una copia
del conto: bisognerà dargliela: anzi in un momento che tu avessi di tempo potresti
prendere il mazzo de’ conti legali, e fatta estrarre detta copia, spedirla franca al Sig.
Giovanni Celsi, Bologna. Ciò per sollecitare l’invio che io non potrei eseguire che tardi. — A
Parma quando io vi passai per tornar qui, non vi era Olmi: stava in Firenze, e quindi dava
una fuggita per pochi giorni a Roma: l’hai veduto? Bacia Ciro; saluta tutti e credimi
sempre. Il tuo P., che sta bene e altrettanto desidera di te.
LETTERA 74.
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A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Loreto, 14 ottobre 1827
Cara Mariuccia
Sono arrivato verso sera, oggi domenica 14, a Loreto. Ho fatto cercare del Direttore
della posta per vedere se vi fossero lettere tue non ve n’erano. Dimani mattina riparto pel
Casino di Solari. Ho qui trovato un fascio di biglietti di tutta la famiglia affinché mi decida
a non tardare neppure un minuto per andarli a trovare. La presente serva solamente per
darti notizie di me: quando avrò avuto da questa posta tue lettere, giusta quello che ti dissi
nelle mie ultime di Bologna, allora ti scriverò più categoricamente. Intanto alla presente
non dovrai risposta. Io sono giunto qui felicissimamente, benché una piena orribile abbia
nella notte dal 6 al 7 portato via tutti i ponti delle Marche, che non son pochi, e mutato
quasi la faccia della terra. Addio: amami come ti amo, baciami Ciro; e credimi
Il tuo P.
LETTERA 75.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Dalla villeggiatura Solari
alle Cervare, 4 miglia da Loreto
[19 ottobre 1827]
Mia cara Mariuccia
Tu dici benissimo essersi rotto un ponte presso Fano; anzi io ti aggiungo che da Fano
in poi non si trova ponte il quale non sia fracassato. I piccoli, sovrapposti ai fiumicelli o a
men grossi torrenti, hanno già ricevuto un precario riparo pel momentaneo passaggio de’
viaggiatori, e così il più grande tra Fano e Sinigallia: il ponte però del fiume Esino e l’altro
del Musone sono in modo fracassati che non può neppure pensarsi al riparo; ma un poco a
spalla di uomini, un poco in barca, un poco a guado di legno, tanto sufficientemente si
passa purché non sopravvengano piene novelle. Di ciò mi pare, se non erro, averti dato
qualche cenno nella mia de’ 15. Io trovai presso Rimini due diligenze, che procedevano a
Bologna unite, e altrettante si suppose andarne insieme alla volta di Roma; anzi dicesi che,
giunte esse al fiume Esino di qua e di là, si cambino per ora i forestieri e le merci e
retrocedano alle loro origini. Con tutte queste circostanze che hanno quasi cambiato
l’aspetto di queste campagne io arrivai qua sano e salvo senza il più piccolo contrario
incidente, fuorché quello della non valutabile spesa di qualche paolo di più. In generale
poi sappi che quando io viaggio prendo in modo le mie misure con freddissimo animo,
che, eccettuati quei piccoli sagrifici economici, mi avviene sempre di trovarmi fuori da
molti imbarazzi e ottenere le cose secondo il mio desiderio. Al Po per esempio, trovai un
mare invece di un fiume, e un mare rotto a velocissimo corso. Le dighe di Lombardia
vinte, ogni cosa un lago. Moltissime vetture, tanto dal confine austriaco quanto alla riva
Piacentina giacevano timorose del passo, e aspettavano che il fiume fatto più mite, e
abbassate le acque, loro concedesse il ristoro del ponte di barche o il compenso delli sciolti
battelli, ai quali molti non osavano ancora fidarsi. Un di Londra, un di Parigi, un di
Milano, ed io, socii nel legno scandagliammo l’ora, i mezzi, e la circostanza, e risolvemmo
il passaggio onde ripararci piuttosto in Città comoda che non in un casolare in mezzo a
squallide lacune. Un battello si offerse: e introdottovi il legno in un modo veramente
curioso, e dopo i cavalli e quindi noi, dopo tre quarti di ora, arrivammo all’annottare
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presso le mura di Piacenza soddisfattissimi di ciò che altri prima di noi avevano a torto
temuto.
Lunedì mattina, lasciata a Loreto la mia lettera antecedente per te, ne partii, e per la
via carrozzabile di Macerata, anziché per il cavalcabile, scomparsa quasi per le alluvioni,
percorrendo 23 miglia in breve spazio di tempo giunsi in questo casino atteso e ricevuto
con non comuni segni di buona e sincera amicizia. Il legno, in cui io era, soffrì l’incomodo
di un’ora di diluvio universale; e la faccenda andò bene. Tutta la ottima famiglia Solari,
benché non ti conosca, e il Marchese D’Oria, il quale crede di averti veduta in Ancona, ti
dicono mille cose amichevoli e ti avvertono essere partita, o star per partire, Maddalena
Reschi, la quale provvisoriamente ritorna da Chigi. Degli affari nulla ti rispondo perché
non saprei trovare termini per arrabbiarmi a dovere con questi infami soggetti coi quali
abbiamo la sfortuna da agire. Ecco i frutti delle promesse di Deangelis circa ad Antaldi;
ecco le conseguenze della nostra gentilezza con Fioravanti, ecco... gran manica di birbi
tutti. Noto poi di Corazza e di Borzacchini! Non dubitare, mi tengo nell’animo ciò che per
ora toccherà a me di tentare al mio ritorno per Terni; e il resto a Roma. Intanto armiamoci
di pazienza. Caro quel Ciro! Digli che Papà tornerà e passerà delle ore con lui. Ho fatto
udire il tuo paragrafo a questi signori, che ne hanno assai riso. Questa mia ti giungerà
tarda risposta alla tua de’ 13, ma i pessimi tempi hanno ritardato le occasioni tra Loreto e
qui. Essa andrà dimani a Loreto, partirà sabato a sera, e ti giungerà lunedì 22. Sarà perciò
impossibile che un tuo nuovo riscontro mi ritrovi qui. Rispondi però a Terni, e intanto io ti
andrò informando delle mie mosse. Questi signori avrebbero su me lunghe intenzioni, ma
io farò violenza, e manterrò l’itinerario annunziatoti. — La povera Natalina è forse morta?
Le ho scritto una lettera di rallegramenti, e non ne so nuova: se però è viva transeat,
perché val più un ciucarello vivo che un dottore morto. Ti abbraccio di cuore. Addio.
Il tuo P.
LETTERA 76.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Dalle Cervare, villeggiatura
Solari, mercoledì 24 ottobre 1827
Cara Mariuccia
Avrei dovuto partire dimani per Macerata, distante di qui cinque miglia, per quindi
trovato un posto per Terni dirigermi a quella volta. Ma i tempi sono così dirotti e talmente
infuriano che non so se questo tragitto per istrade di sola terra cretosa, e scoscesissime
potrà essere effettuato, tanto sono dette strade lubriche e rovinate; e tanto più poi perché il
baulle non potendo entrare dietro la carrettella di Solari, con la quale andrò a Macerata,
dovrà portarsi a schiena; e le bestie non attaccano i piedi, ma sdrucciolano orribilmente. Il
ritardo però non potrà eccedere l’uno o i due giorni, finché venga uno scarso in cui le
acque siano alquanto scolate. Intanto te ne avviso con questa mia. Andrò in seguito
istruendoti delle mie mosse, come ti ho nella mia precedente promesso. Questi signori ti
salutano: io ti prego di abbracciare il nostro Ciro; e dare i saluti a tutti. Ti abbraccio di
cuore.
Il tuo P.
LETTERA 77.
70
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, lunedì 20 ottobre 1827
Cara Mariuccia
All’avemaria son giunto qui sano e salvo. Sabato 27 devi avere avuto una mia ultima
e lunga dalle Cervare. Ho veduto Antinori e ti mando a suo nome le accluse carte che
favorirà consegnarti la Sig.ra C.ssa Marcolini. Un giorno prima di me passò da Macerata
Gnoli, e parlò con Antinori di Gagliole: hanno combinato il modo da tenere. Qui è la M.sa
Antaldi: procurerò di parlarle. Si presenterà da te il sig. Fossati letterato reduce da Parigi.
È amico del nostro Pippo, e ha viaggiato per qualche tratto con me. Esso è brava persona e
ti darà mie nuove. Con la posta di giovedì avrai miei più lunghi caratteri. Abbraccio Ciro
dopo di te. Addio.
Il tuo P.
LETTERA 78.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 31 ottobre 1827
Mia cara Mariuccia
Avrai a quest’ora veduta la C.ssa Marcolini, la quale io incontrai a Spoleto, ed a cui
consegnai per te a Terni una mia lettera contenente altre due datemi a Macerata dal Sig.
Antinori, intorno all’affare poco buono del Migliorelli. — Sperava trovare qui tue lettere
siccome ti pregai di Loreto: sperava riceverne col corriere di questa mattina; ma non ne ho
vedute: a buon conto spero che tu abbi ricevute tutte le mie scritteti l’una dopo l’altra dalla
villeggiatura Solari; l’ultima delle quali fu da me mandata a impostare espressamente a
Macerata la sera di giovedì 25. Mi lusingo che non da motivo di salute o da altra
spiacevole causa procederà il tuo silenzio.
Circa a Gagliole ti dissi nella mia consegnata alla Marcolini essere Gnoli passato per
Macerata un giorno prima di me: avendo dunque parlato con Antinori, restarono fra loro
di concerto che Gnoli da Fuligno gli avrebbe spedito un foglio di riassunzione. Antinori
però pretende che sino a che il B. Governo si contenterà del solo comandare il pagamento
senza assegnare alla Com.tà questa spesa nel preventivo, ne riuscirà ad essa impossibile
l’effettuazione, e parimenti alla Delegazione rimarrà legata la mano alla esecuzione degli
ordini. Da Gnoli poi udrai meglio tutto, se, come credo, sarà prima di me a Roma. Io non
l’ho veduto; forse sarà andato al solito a Perugia. Sul registro della locanda postale di
Macerata vidi il suo nome segnato il 7 ottobre per la volta di Ferrara. Mi disse ieri sera
Peppino Capocci, che con tutta la famiglia ti saluta, che egli, Gnoli e Tosini vinsero
cinquanta zecchini fra tutti e tre in una tombola di Fuligno circa un mese fa.
Ho parlato con l’Antaldi, la quale con fredda gentilezza mi ha risposto che il marito è
tuttora a Bologna onde esigere danaro dal Governo; che Deangelis sta a Pesaro, e che ella
vive al buio dello stato attuale della nostra faccenda: in generale però mi disse che il
Marchese aveva approvato le disposizioni di Deangelis. Io però gli obbiettai la mancanza
de’ pagamenti mensili, e quella della procura facoltativa a comporre: ella ritornò allora alla
sua ignoranza. Vedo io peraltro andare adesso a finire a buon conto l’anno che Deangelis
dimandò di proroga, onde o sia scorso questo sopra uno scritto o sopra una parola, è
sempre passato; e noi restiamo padroni di eseguire i mandati, sempre consigliandoci
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prima se l’avuto al conto pregiudichi in nulla l’azione libera primitiva. Io intanto, se stessi
in te, scriverei col prossimo corso una lettera al Deangelis a Pesaro, in termini generali che
non compromettessero: la farei io stesso di qui ma non ricordo il di lui nome di battesimo,
né ho modo di rintracciarlo non volendo chiederlo alla Marchesa che forse neppure vedrò
più.
Ho scritto a Corazza che venga a Terni: ci era stato due giorni prima onde condurre
alla caduta la Angelici di Porta Settimiana. La Malagotti voleva venire lunedì sera a
trovare la figlia, ma avendo saputo il mio arrivo, se ne astenne. Io le ho scritto un biglietto.
Se non accede, le faccio intimare il mandato. — Mi dice Borzacchini avere già a te scritto
che il padre è alla sua tenuta per assistere alla sementa così difficile in questi tempi
piovosi: appena tornerà, ciò che deve accadere in breve, parleremo dei nostri affari, non
potendo farlo egli solo. Io non so che rispondergli. Mi assicura il Maggiore Marco Setacci
(che ti saluta) che oggi manderà da me il De Sanctis debitore di Sc. 3,42 per due annate di
censo. — Peppino dice averti spedito per la posta il danaro per Ballanti, e che darà a me il
residuo della sua rata di Sc. 450. È restato assai mortificato del ritardo di questo suo
pagamento, ma assicura che avendo già preparati da quasi un anno i danari, per non
tenerli oziosi gli aveva investiti in olio a Sc. 29 la soma. Questo é poi calato a Sc. 20 in 21,
senza neppure trovarsene compratori. Coletti poi ha prodotto il resto del ritardo. Tuttociò
può esser vero. Regolerò con lui i conti. — Sento che al primo dell’anno ritornò la dativa
all’antico stato di aggravio. Bella diminuzione è stata dunque, foriera di nuove leggerezze!
— Un certo tale di Todi, se non erro, aveva offerto a Garavita pe’ nostri fondi di Terni un
prezzaccio, che Garavita ha ributtato con mal’umore. Vi è ora un certo trattato lontano per
quel terreno sterile che già chiedeva un tal Benedetti per mezzo di Francolini; cioè il
terreno Fornaro. Fa’ una cosa: in uno de’ sportelloni del mio scrittoio prendi il più grosso
protocollo, vedine l’indice in principio e al fascicolo Fornaro etc. Forse troverai (che ci
dev’essere) la perizia che ne facemmo elevare col mezzo di Corazza dal perito Teosoli
allorché si trattò col Benedetti: se la trovi, mandamela. —Vedrò Silvestro e se mi parla di
acquisto di Piedelmonte, ci andrò prestando un orecchio. — Pagò Mirabelli al 25 d’agosto
gli Sc. 9? di Stocchi mi si dice di sì. Francesco Diomede deve farlo a momenti. — Temo
molto che, o paghi o siavi costretto, la Magalotti cavi fuori la pretensione della riduzione,
perché qui l’estinzione di Mazzoneschi è conosciuta, e forse si è anche parlato della nostra
differenza: onde la Magalotti ne avrà tirato lume.
Dimmi un poco Mariuccia mia, non si potrebbe ottenere coll’esempio di altri anni un
lasciapassare per me? Forse la fissazione della dogana nuova a porta del popolo, se già è
andata in vigore, renderà più difficili queste licenze che si accordavano già per risparmiare
ai viaggiatori l’andare a Piazza di Pietra. E poi non so se venendo io dall’estero, potrei...
basta, vedi un poco, e se mai l’ottieni, o mandamelo o dimmi da dove hai affacciato la mia
provenienza, se da Milano cioè o da Terni: onde io non mi trovi in contraddizione:
parrebbe però meglio dire tutta la verità onde non avere un cattivo testimonio nel
passaporto. — Quel Fossati che ti diriggo con la lettera della Marcolini è cognito anche a
Tavani: mi mostra piacere di conoscere la mia famiglia, di cui aveva spesso parlato con
Mariannina Zuccardi con cui fece già l’amore. Bacia tanto Ciro. Ti salutano tutti; e saluta
tutti. Ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
P.S. Io non porto niente, ma sempre è bene evitare le dogane.
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LETTERA 79.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 9 novembre 1827
Cara Mariuccia mia
I baffi già sono partiti! Sei contenta?
Non ho avuto oggi tue lettere: comprendo che ieri la mia ti sarà arrivata troppo tardi;
ed oltre a ciò era secondo il solito un processo. Ho fatto i conti con Peppino: non ti ho
mandato ancora quel poco che ho raccolto, per non fare tante mandatelle nel caso che mi
fosse riuscito di riscuotere qualche altra cosa. — Il P. Ferrini di Cesi non voleva comprare
la quercia, ma il dritto di tagliarne qualche ramo figurati tutto l’albero è stato stimato
quattro paoli! Non ho dunque voluto più parlarne, essendomi sembrato d’incontrare un
gran ridicolo e una gran fama di affamato, se avessi conchiuso fra quattro persone cioè
Stocchi, il di lui subaffittuario, il frate, e me un contratto di quattro o cinque baiocchi. — Il
ricevuto di Ballanti lo manderai per occasione: anzi ci penserò io al mio ritorno,
piacendomi di vedere come Ballanti lo abbia concepito. Di Borzacchini nulla si sa, stando
nel cuore della sementa. Questa mattina ho scritto al figlio un biglietto polito e forte. Io
vedo che andremo alla fine del mese con tutti e duecento gli scudi, oltre i pochi frutti etc.
Ho riparlato alla Pelucca: mi burla, come udrai. — Ho fatto la intimazione alla Magalotti:
vedremo. — Hai avuto la mia lettera recata da Peppe Serafini? Hai veduto Labella? Hai
veduto Matteucci, Emiliani, Miss Anna Trail? Quanti ne passano, tanti te ne spingo a darti
mie nuove. In tutti gli anni il rivederti mi è stato assai caro: quest’anno però non vedo
l’ora: forse, oltre al piacere grande di riabbracciar te si aggiunge l’interesse di riunirmi al
vantaggio del nostro Ciro più grandicello e più bisognoso di assistenza che non negli anni
passati. Con te sta ottimamente, ma sei tanto occupata! In due faremo qualche cosa di più.
— Nella lettera che consegnai a Serafini, ti dava notizie che avrò il passaporto di qui pel
ritorno, onde tu parlassi subito all’avv. Ricci. Noi ci vedremo sui primi giorni della
settimana ventura, perché assicurati che stanno in modo le cose da fare meglio a Roma che
qui. Corazza mi ha dato parola d’onore, che appena accomodato il suo affare con
Borzacchini, vende dell’olio, e manda a Roma gli Sc. 100 e la procura. Sul resto risolvi
liberamente a tutto tuo piacere, perchè quando sei contenta tu sono contentone ancor io. Ti
abbraccio.
Il tuo P.
LETTERA 80.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Terni, 11 novembre 1827
C. Mariuccia
Ho impostato altra lettera alla ora legale cioè mezzogiorno. Ora sono le 4 e ricevo la
tua di ieri. Babocci mezzo addetto alla posta mi fa il bel piacere di inserire la presente fra i
pacchi già chiusi pel corriere che arriva ora. Farò chiamare Silvestro: per questa rag.e, se
non vedi gli Sc. 170 come ti dissi nell’altra mia di questa mattina non stare in pena, giacchè
se Silvestro stringe manderò tutto insieme mentre altrimenti per Sc. 400 pagherei Sc. 4. Ti
sarò docile in tutto: va bene? Sei contenta? — Garavita si è malato: si spera che non sarà
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nulla. La tua lettera potrebbe forse obligarmi a stare qui qualche altro giorno: se dunque
non mi vedi non ti prender pena. Addio. Abbraccio te e il caro Ciro. Sono il tuo Duca.
LETTERA 81.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
[Terni, 12 novembre 1827]
Mia Cara Mariuccia
E un’altra lettera: ti avrò seccato: ma non mi par vero di poter conversare con te ogni
giorno, o darti le notizie così, come si suol dire, a botta calda. — Come avrai udito da altra
mia mandai a chiamare Silvestro, il quale è disceso questa mattina. L’ho condotto da
Garavita e lì abbiamo parlato; ma inutilmente: sono disceso a poco a poco agli Sc. 2300 e
Garavita mi faceva il ruffiano: non vuole aggiungere nulla sugli Sc. 2200, dicendo di
pagare a rigore di stima il terreno, e il casino più di quello che lo stato suo e le condizioni
de’ tempi possono meritare. Mi sono sdegnato, e dopo molte parole l’ho lasciato con
Garavita e sono partito, sperando che Garavita l’avrebbe convertito. Al contrario: egli ha
seguitato a protestare che malgrado tutto il dispiacere che sente pel probabile di lui
allontanamento da quei luoghi dove è nato, non può assolutamente fondare più degli Sc.
2200 sopra una possessione fallacissima, soggetta a rischi, patita nel fabbricato etc. etc., e
della quale non vi sarà alcuno che ci offra di più. In quanto a quest’ultimo punto, sia detto
qui in silenzio fra noi, lo credo fermamente anch’io; e vorrei esser bugiardo. — Finalmente
è partito protestando che se l’affare fosse così buono per lui come io glielo do a credere,
egli non sarebbe così sciocco di abbandonarlo. — In tutti i modi io dimani credo di
soddisfare alle tue vedute andando su a distaccare gli arazzi e portarli in Terni, mentre o il
terreno resti a te o lo comprino altri è meglio levarli. Conduco meco Babocci per fattorino.
Ecco che mi sono attenuto agli estremi del tuo permesso, mentre l’accondiscendere agli Sc.
2200 poteva meritarmi da te un rimprovero, stando fuori dalle conferitemi facoltà. — Circa
all’invio de’ danari attienti alla lettera che ti farò giungere giovedì 15, mentre potrebbe
darsi che dimani Silvestro si cambiasse ma non lo credo. Visiterò bene dimani i telai delle
finestre che egli mi dice essere sgangherati e farò altre diligenti inspezioni. Però è certo,
che ammesso anche tutto ciò che si può dire contro alcune vendite, il possedere beni
bisognosi di manutenzione e possederli distanti dal domicilio è una gran faccenda. Ti dissi
che Borzacchini mi pagò Sc. 100, e il resto e i frutti li darà al fine del mese venendo egli a
Roma per la stipulazione. — La presente ti sarà ricapitata da Gnoli. Addio: ti abbraccio di
cuore e do un bacio a Ciro.
Il tuo P.
P.S. Mi pare che Venerdì io non sarò più qui certo: pure se per metterti al sicuro da
tutti i casi volessi giovedì mattina scrivermi un rigo, mi farai piacere; ed io parlerò a
Babocci, il quale se io sarò partito avrà da me le mie istruzioni sul sicuro destino di tua
lettera. Già io sapeva la notificazione sul vestire di panni nostrani: lo faremo: poco bene e
poco male: io vesto di nero, e il panno nero a Roma si fa bene o almeno passabilmente.
LETTERA 82.
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A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 14 novembre 1827
Mariuccia mia
Grazie del lasciapassare.
Per non vivere in gran pena mi è necessario sperare che il freddo di ieri non ti abbia
prodotto il male di cui temi. Non sono ancora partito per l’affare di Silvestro e degli arazzi.
Il primo è restato sgomentato, ma ancora non cede; Garavita crede che cederà di certo
dopo che colla partenza mia avrà conosciuto la mia fermezza. Forse tu, per qualche
residuo della massima in cui eri, godrai quasi di questa precaria sconclusione; ma io che
esamino tutte le cose con più cognizione di fatto credo sempre che per qualche e qualche
anno ti convenga meglio il non posseder stabili, e che inoltre quello di Piedelmonte non è
mal venduto al prezzo in questione. Staccai ieri arazzi e cornici e già sono a Terni. Li
batterò bene in oggi, e poi bene condizionati resteranno qui perchè il vetturale si aspetta.
Allora verranno a Roma dentro un sacco dello stesso vetturale, e non si sciuperanno di
certo. Avrò in oggi la fede di questa segreteria Comunale. — In tutti i modi imposterò
dunque dimani Sc. 270, in cui sono compresi gli Sc. 22:75 di Macchietti, de’ quali mi ha
pagato l’impostatura. Se poi dopo il mio ritorno Silvestro volesse conchiudere, farò in
modo che i suoi Sc. 410 vengano insieme coi 100 di Corazza onde formare il pieno di 500
meno dispendioso per la posta. Ci abbraccieremo in breve: ora dipende tutto dalle vetture.
Avesti la mia portata da Neroni? Essa ti avrà dato lumi sulla mancanza della spediz. de’
denari. Gnoli l’hai veduto? Abbraccia Ciro come io abbraccio te.
Il tuo Pecora
LETTERA 83.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 15 novembre 1827
Mariuccia mia
Eccoti il danaro in otto cartocci
1° Piastre: Sc. 55
2° Idem: 55
3° Papetti: 20
4° Idem: 20
5° Grossetti: 10
6° Idem: 10
7° Piastre: 50
8° Oro, e argento sciolto: 50
Sc.: 270
Di Macchietti: 22:75
Per te: 247:25
Al mio arrivo faremo i conti.
Ieri sera, stando al caffè, si parlava della difficoltà attuale di trovare qui posti per
Roma. Disse allora l’avv. Ciatti di avere in quel punto fermato due posti in una vettura
buona per sabato mattina, ed esservene ancora due vuoti. Mi feci insegnare il vetturino, e
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subito corsi a fermarne per me. Partirò dunque dopodimani con buona compagnia, e
arriverò a Roma domenica, meno qualche circostanza imprevista. Quasi
contemporaneamente con me giungerà la vettura cogli arazzi. È un vetturale con cui
Peppino ti mandò del danaro, e tiene stalla qui in casa. Ancora non so quanto dovrai
dargli: te ne avviserò dimani per la posta. Il sacco è di Peppino. Ti abbraccio di vero cuore.
Il tuo Pecora.
LETTERA 84.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 16 novembre 1827
Mariuccia mia
Ancora sono qui, e la causa di ciò consiste tanto nel perdimento di tempo per l’affare
di Silvestro, quanto nel non avere prima trovato vettura. Ieri impostai per la diligenza Sc.
270, e unii nel pacco un foglio in cui ti avvisava che io partirei dimani mattina sabato 17
onde arrivare a Roma nel dopo pranzo di domenica 18, salve circostanze accidentali.
Temeva quasi però che detta notizia che ti avrebbe dovuto giungere oggi, non ti giungesse
che Dio sa quando, ed anche dopo il mio arrivo perché ieri al giorno la diligenza non passò
e si temette che tarderebbe qualche giorno per le molte nevi cadute a Colfiorito.
Finalmente è passata questa mattina circa le 10, cosicché tu avrai il danaro, il mio foglio
accluso e la presente, tutto contemporaneamente. — Mi dispiace assai che tu abbia a
perdere la buona occasione che ti si era presentata di rinvestire il danaro di Silvestro; ma
che vuoi fare? Adesso non sarei più in tempo neppure di farlo avvisare: e poi non vi
sarebbe neppure la nostra convenienza di cedere così presto. Lascia fare, che ho bene
istruito Garavita (il quale è guarito) e ci sentiremo fra lui e me per lettera. Egli crede che
Silvestro cederà: in tutti i modi per adesso è bene che io parta un poco alto con lui. Peraltro
non è mica vero che Silvestro abbia di sicuro aff.to sedici mesi e mezzo: io non sono così
gonzo, e nella quietanza fattagli per gli Sc. 90 ho ben detto che quantunque io riceva
adesso l’annata invece che al primo Aprile 1828, io non dovrò per ciò esser vincolato nella
libertà di vendere il terreno a chi mi capiti in questi quattro mesi e mezzo; nel qual caso gli
si dovranno rendere gli Sc. 90, come di ragione. Questa per lui può essere una spina acuta
che Garavita farà giuocare, quando lo vedrà.
La lettera portata da Gnoli mancava di data, è vero, e me ne venne il sospetto mentre
io andava a letto. Ma che vuoi che ti dica: lasciai Gnoli per andare a scrivere quella lettera,
mentre egli si metteva a cenare per poi andar subito a dormire, dovendo ripartire assai di
buon’ora. Nel piccolo spazio di tempo ti dissi molte cose, e la fretta mi fece dimenticare la
data. Però ti era facile supporla da te, perché quella di Neroni era del giorno avanti, e
quella di Gnoli del giorno appresso. Gnoli impiegò due giorni a venire a Roma; vi deve
essere giunto mercoledì 14: dunque la mia lettera era della sera di lunedì 12.
Il vetturale che porterà gli arazzi le cornici ed i chiodi doveva partire dimani: forse
starà un altro o due altri giorni: sarò dunque io in Roma al di lui arrivo. Non gli si
dovranno dare che paoli sette: sei contenta? Ti abbraccio, Mariuccia mia: fallo tu con Ciro:
e domenica lo faremo tutti e tre insieme. Addio.
Il tuo P.
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LETTERA 85.
A GIUSEPPE DEANGELIS — PESARO
[1 gennaio 1828]
G.mo mio Sig. Deangelis
È già compiuto l’anno dacché per effetto di Sua mediazione noi abbiamo sospeso le
due cause contro la famiglia Antaldi per le quali già anteriormente avevamo i mandati
spediti. Pochissimo abbiamo avuto in quest’anno; e intanto oltre i frutti arretrati vanno
correndo gli attuali; giace il capitale derivante da Conti di funzioni e spese fatte dal
defunto mio suocero e non se ne paga compenso; resta il censo senza fondo censito,
venduto con poca fede dai Sig.ri Antaldi etc. etc. — Io dunque indignato da tante
mancanze di parola, distrutta in me ogni reliquia di pazienza, e fin anche di ogni riguardo
verso le promesse di V.S. feraci sino ad ora di sì poco frutto, Le protesto col presente
biglietto di andare senza alcun altro momento d’indugio a por termine ai mezzi legali,
onde ottener tutti i fini qui espressi, in via la più rigorosa. Non si maravigli del mio
procedere giustissimo: io invece mi maraviglio altamente della spensieratezza biasimevole
dei Sig.ri Antaldi, e dirò ancora delle fallaci promesse di V.S. — Mi creda pieno di
riguardi.
Di casa primo del 1828.
D.mo obb.mo serv.re
Giuseppe Gioachino Belli
LETTERA 86.
A FERDINANDO MALVICA,
SEGRETARIO DELL’ACCADEMIA TIBERINA — ROMA
[7 gennaio 1828]
Chiarissimo Sig. Segretario
Corre già qualche anno da che que’ rispettosi nostri Colleghi i quali, chiamati dagli
annuali suffragi a reggere l’Accademia nostra coll’opera e col consiglio, seggono in alto
dove voi oggi sedete: tutti o Padri onorati di famiglia, o gravi Ecclesiastici, o dotti dottori,
o integri magistrati, o splendidi patrizii, o studiosissimi giovani; corre già qualche anno,
ripeto, che que’ nostri rispettabil colleghi mentre singolarmente presi uno per uno vi
allacciano con la soavità delle maniere, vi edificano con la giustizia del cuore, e
v’incantano con la finezza del giudicio, associati poi appena in collegio e accinti alle
consigliari deliberazioni, perdono tosto miseramente la stella polare, e balzano là a modo
di naufraghi ad un posto, che quasi sempre per verità lor si propizia non perché intendono
eglino drittamente a cercarlo, ma sì perché con meravigliosa aberrazione della natura va
loro il posto stupendamente all’incontro. Ammissioni di candidati, cacciate di accademici,
formazioni di terne, collezioni di uficii, decreti di onori, negazione di premii, censura di
opere, collezione di pecunia, chiamate di socii, inviti a comporre, applicazione di principii,
uso finalmente di mezzi, tutto per non so quale destino quasi dirò deputato allo sforzo
della nostra Accademia, rinchiude alcun vizio di forma, e qualche germe di vergogna.
Di varie cose mi sono io di tratto in tratto richiamato, sopra molte ho mormorato, in
moltissime ho usato pazienza. Oggi però che fuori di bisogno dell’Accademia, in onta
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delle leggi sue, e contro il rispetto della formalità, cotanto pur necessarie alla incolumità
della sostanza, veggo essersi dal testè cessato Consiglio proceduto il 31 dicembre a
deliberazioni immature, alzo liberamente la voce e me ne dolgo al consiglio novello, del
quale voi tenete i segreti.
Il giorno 5 dicembre fu a me dal bidello dell’Accademia presentata una lettera data
pel Consiglio pro tempore dal Segretario annuale Sig. Pietro Sterbini il 22 allor recente
novembre nella quale a ciascun socio si proponevano sei articoli di esame intorno ad una
innovazione desiderabile in comune nell’ultima adunanza generale dell’anno; cioè la
nomina di un archivista perpetuo a cui venisse affidata la cura e il buon ordine di tutti gli
atti riguardanti il nostro letterario Instituto. Lessi io la lettera e mi ingegnai di ponderarne
le gravi ragioni che persuasero la sapienza del consiglio ad accettare a pieni voti la
proposizione fatta di quella novità da due egregi suoi membri: ma o fosse tardità del mio
ingegno nel penetrare le troppo recondite utilità del progetto, o soverchia tenacità di
amore verso quelle leggi che, in riforma delle vecchie, io insieme con altri quattro miei
colleghi fondatori compilai il 14 gennaio 1816 per facoltà delegataci nell’Adunanza
generale del Xbre 1815; o fosse in fine vera inefficacia di esse ragioni a convincere chi non
si trovasse preoccupato di mente e di cuore; quest’una cosa è certa che la persuasione del
Consiglio in me punto non trapassò.
Preparatomi però sopra cadauno de’ sei articoli un buon corredo di rilievi, io me ne
stava tranquillo aspettando l’adunanza generale del 31 dicembre bandita ordinariamente
nel consueto elenco di prose già distribuito fin dal principio dell’anno. Giunse finalmente
quel giorno, e qui, ch. Sig. Segretario, comincia il soggetto del mio attuale richiamo, col
quale intendo di provare e di chiedere che l’adunanza generale del 31 dicembre 1827 sia
nulla essenzialmente, e come tale se ne debbono cancellare tutti gli atti che possano esservi
nati. Io mi recava dunque in quella data all’Accademia Tiberina onde assistere
all’adunanza generale ordinaria dopo il solito letterario esercizio, e in quella perorare a difesa
della integrità delle nostre leggi, quando mi venne saputo per via essere l’adunanza già
terminata e sciolta dal Sig. Presidente, e in quel punto andarsi tenendo il letterario
esercizio fra que’ pochi soci che vi avevano assistito. Me ne ritornai allora indietro
stringendomi nelle spalle come uomo incapace di spiegare il come e il perché quella cosa
accadesse. Ma nel giorno consecutivo tutto divenne palese, quando dimandatine varii
accademici, alcuni mi risposero di nulla saperne meglio di me, e altri mi favorirono la
spiegazione del fatto dicendomi il Sig. Presidente avere opinato e per intimo speciale
procacciato di anticipare straordinariamente alle ore 23 ½ quell’adunanza che ordinavasi
doveva tenersi dopo il solito letterario esercizio, affinché non si protraesse troppo in lungo
la sera destinata a certa solennità che con pompa magnifica di parole e di atti in effetto si
consumò: e mi dissero di più come terminata e sciolta quell’adunanza straordinariamente
già intimata per apposito biglietto, il presidente dopo il letterario esercizio con appello
verbale ai presenti ne convocasse una seconda, per darvi compimento alle cose che per
difetto di numero legale fra i membri del consiglio non eransi nella prima adunanza
potute completamente ordinare né definitivamente risolvere.
Voi sapete, ch. Sig. Segretario, e con voi tutti coloro lo sanno ai quali non è occulto lo
spirito delle nostre leggi né fosco il generale lume del discorso, che onde possa dirsi legale
un’assemblea in cui abbiano voce tutti i domiciliati nella terra dove si aduna, a tutti quelli
ne deve precedere ufficiale notifica e intimazione e ciò al giudizioso ed ovvio fine che tutti
intervengano a usare lor dritto, a dire loro sentenza, e udire l’altrui, onde chiarire la
materia in discussione e scambievolmente persuadere o essere persuasi. Che se si
comportasse il mal uso di intimare chi sì e chi no, tosto inverrebbe l’abuso di far chiamata
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a coloro soltanto de’ quali anticipatamente si fosse esplorato il consiglio favorevole alla
massima controversa e così vincerebbesi pienamente ogni partito: lo che è sempre con ogni
diligenza di cure e severità di sanzioni, da vietarsi prima e punirsi dopo del fatto. Ora
delle due adunanze tenute il 31 io non potei assistere alla prima, perché non ne ricevetti
l’invito: non potei assistere alla seconda, perché la convocazione e il successivo
scioglimento della prima me la fece ritenere quale era di fatto disintimata; e quello che
accadde a me avvenne eziandio ad altri socii, de’ quali io non nominerò qui per cagioni di
esempio che i soli Sig. Lovery e Tenerani. Così le ragioni che io aveva per operare contro il
progetto di legge andarono in vano; e s’impedì che io con argomenti da altri non avvisati
potessi volgere i consenzienti al mio voto, o che i consenzienti con le riflessioni loro da me
non sapute, potessero svolgermi dalla mia opinione: in ambedue i quali casi un lodevole
effetto doveva sempre risultare alla incerta giustizia della causa in arringa. E che molto io
mi tenessi buono a dire non dubitate, ch. Sig. Segretario; ma piuttosto, se volete,
maravigliatevi pure della vanità di mia presunzione. La conseguenza avrebbe risoluto il
problema, e il fine provati i mezzi. In verità molto avrei detto e prima e dopo la nomina
dell’archivista: prima della nomina, dimostrando agli accademici la vanità di tutto il
progetto; e aprendo loro gli occhi con vergini prove sulla malizia precipuamente, e sul
rischio del sesto articolo di quello: dopo la nomina, sostenendo che l’atto disteso per dar
forza di legge al partito già vinto, implicava ed implica una imperfezione ed un bivio, di
cui si vedrebbero gli effetti appena il nuovo segretario e l’Istoriografo dell’Accademia si
accorgessero non essere nel detto atto con esplicite parole state cancellate le disposizioni
degli art.li 18, 19 e 20 delle leggi nostre, in virtù de’ quali possono e debbono entrambi
contrastare all’eletto archivista per l’esercizio delle conferitegli attribuzioni rivendicandole
a se stessi dacché l’inclusione di una cosa posteriore non importa esclusione di un’altra
preesistente. Intanto io non potei parlare, né con me poteronlo altri socii, e di questi
quando anche non fosse seguita alcuna scambievole persuasione delle parti discordi,
s’ignora poi infine quale sarebbe stato il colore de’ voti segreti. Io, ripeto ancora, non potei
parlare perché non intimato; e se la non intimazione di un accademico avente diritto fa
nullo tutto ciò che lui insciente si delibera e si risolve, la prima adunanza straordinaria del
31 e molto più la seconda convocata senza alcuna regola, e, direi, quasi con sorpresa e per
modo d’insorgenza, sono di dritto nulle e come non fatte. Né gioverebbe a chi venisse mai
in capo questa bizzarra eccezione, l’oppormi una negligenza del bidello.
Gli atti che si emanano senza preventiva citazione non sono già nulli per ciò che non
fosse consegnata la citazione al cursore, ma sì dove dal cursore non fu presentata al
citando. Il tribunale potrà sì gastigare il cursore, ma gli atti mal fatti per sua negligenza
non saranno perciò meno nulli, perché nati insciente la parte, la quale doveva, e non il
cursore, essere avvertita. L’Accademia deve chiamare me: io riconosco lei: ella vigili sulla
diligenza di chi può comprometterla.
E qui vi dimando ossequiosamente, ch. Sig. Segretario, che la presente mia lettera sia
da voi passata al Consiglio, e quindi letta alla prima adunanza generale in figura di
formale protesta e di speciale mozione per la nullità delle ripetute due adunanze e degli
atti usciti da quelle.
E pieno di tutti i sentimenti degni di voi, ho l’onore di dichiararmi
oggi, 7 gennaio 1828
Vostro servitore e collega
G. G. Belli
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LETTERA 87.
DICHIARAZIONE FATTA DAL SOTTOSCRITTO NELL’ADUNANZA GENERALE
DELL’ACCADEMIA TIBERINA LA SERA DEL 28 GENNAIO 1828.
Quando io, con alcuni compagni eguali tutti di studii e di desiderio di gloria, fondai
questa oggi famosa Accad.a Tiberina, ebbi in pensiero di stabilire un nodo di pace e di
amore, che molte persone unisse ad una medesima lode. — Oggi, che vedo deluso il mio
scopo vi rinunzio per sempre, e mi dichiaro cancellato dall’albo degli Accademici tiberini,
non piacendomi di partecipare di un onore amareggiato per l’una parte dell’Accademia da
soverchia offesa, e per l’altra da eccessiva pazienza. — La mia perdita è di niun momento,
siccome saggiamente opinò un rispettabile membro dell’attuale Consiglio. La Accademia
ha molto e moltissimo può avere di che ristorarla. Nulla però ha l’Accademia Tiberina di
che riparare al mio amor proprio oltraggiato, dapoiché sa così umanamente soffrire i colpi
che si danno alle sue leggi fondamentali. Questo è l’atto della mia ultima volontà e libertà
accademica.
Giuseppe Gioachino Belli
uno de’ fondatori dell’Acc.a Tib.a
LETTERA 88.
AL CAV. PIETRO E. VISCONTI ACC.° TIB.° — ROMA
[10 febbraio 1828]
Chiarissimo amico,
Ho udito che voi incliniate a credermi disposto a ritirare la mia rinuncia tiberina,
qualora il Consiglio non l’accetti. Questa opinione, nata forse nel vostro animo da qualche
mal inteso che sia occorso ne’ nostri colloquii in proposito, mi pare meritare di essere da
me chiarita onde, non faccia sì luogo in alcun tempo ad equivoci sulla natura della mia
volontà. Io vi lasciai padrone di insinuare al Consiglio il rifiuto delle tre note rinuncie,
perché padrone realmente ne siete, né autorità alcuna potrebbe da me partire per
allontanarvi dal vostro divisamento: ma aggiunsi poi essere mia intenzione di considerare
sempre la rinuncia mia per valida e ferma. In questo pensiero, caro amico, io sto e starò
immutabile. E lo ripeto a voi in questo foglio, siccome in voce a tutti, affinché non accada
che allorquando, come spero, il Consiglio Accademico mi cancellerà dell’albo de’ socii,
quell’atto sembri anzi un commiato che una partenza.
Fate voi ciò che le vostre cortesi massime vi dicono bello: io continuerò quello che il
mio carattere mi fece giudicar buono, e restiamo, se non più colleghi nel fiacco vincolo
tiberino, colleghi nel modo più saldo della reciproca stima e dell’amore sociale.
E con tutti i sentimenti degni di voi mi confermo vostro amico e servitore
Gius.e Gioach.o Belli
LETTERA 89.
A MADAME HORTENSE ALLART DE THÉRASE
[Le 20 mars 1828]
80
Madame,
J’ai lu vôtre beau roman, et je vous en dire un mot, bien que je connaisse cette règle
établie par la prudence de ne jamais donner des conseils et d’avis à qui n’en démande pas.
Vous trouverez par conséquent dans ma démarche plus de franchise que de politesse.
Mais comme je crois vous avoir comme femme supérieure et dégagée des outrances qui
constituent la pluspart des bienséances de la société, je hazarde d’enfreindre auprès de
vous cette loi vigoureuse pour m’éléver jusqu’à vôtre caractère, ou, si vous voulez, jusqu’à
vôtre indulgente. Ce sera tout dit sur les impressions que la lecture de vôtre ouvrage
m’éxcita, lorsque je vous aurai assurée que je l’eusse répétée très-volontiers si ce n’eût été
la crainte d’abuser de vôtre prêt. L’attention suppléa cependant au retour; et je conserve et
conserverai pour long-temps cet enthousiasme de pensées, ces émotions de coeur et ce
trouble d’esprit, dont vous savez si bien le secret.
Peu de livres de cette éspèce peuvent amener un lecteur non commun à réfiéchir
autant que vôtre Gertrude le fait; très-peu lui inspirer un intérét si vif et si constant dans
des bornes aussi étroites que le salon d’une société à la mode, la maison d’une famille, les
murs d’une rétraite, et le coeur de deux amants. Il faut beaucoup connaître la nature
humaine, les ressorts des passions et les mysthères de la méthaphisique pour s’emparer de
la sorte de l’esprit des hommes avec si peu de moyens et sans le divertir. Il est nécessaire
d’avoir profondement médité sur la politique des états, sur les bésoins des peuples et sur
les verités de la philosophie pour dévélopper avec tant de vigueur et de noblesse des
principes sublimes, importants, vrais, mais égarant à la fois une raison non radicalement
affermée à faide de la méditation et à l’école de l’expérience. Vous devez avoir reçu,
Madame, une âme assez mâle et énergique; vous avez dû beacoup voir et entendre, mais
plus encore écouter et comprendre; vous avez dû sentir plus que vous n’ayez observé et
compris. Vôtre genie vous traça une route sur la quelle vôtre coeur et vôtre âme furent vos
meilleurs guides; vous avez visé à un but, dont les plus grands modèles de l’art vous
dévoilérent la hauteur tandis que vôtre originalité vous en applanit l’atteinte.
Un langage plein de grace et de persuasion; un style par moment modeste et hardi,
mais toujours passionné et enchanteur; une exposition salutaire des troubles du monde;
un essai frappant des dangers et des espérances de la vie; une peinture animée des
longues douleurs et des courtes consolations humaines; un contraste bizarre de la destinée
inevitable avec celle que les hommes se créent; un tableau expressif des dommages et des
ressources qu’on peut trouver en soi même et au déhors; une nuance délicate mais
apercevable entre les lois de la nature et celles de la providence; voila, Madame, ce que
vôtre ouvrage renferme digne de fixer les regards des gens éclairés. Aussi je pense que les
personnes d’une classe inférieure ne sauront guère s’y amuser et par conséquent ils
l’appreciéront au dessous de sa valeur, car ce qui donne du prix au mérite c’est toujours
l’agrément.
Mais du fond même d’où nait l’objet de mon admiration, je vois, Madame, s’éléver le
sujet de mes doutes. Je veux plutôt m’éxposer à avoir le tort qu’à vous cacher ce qui prend
àmes yeux un aspect de raison. Je crains, Madame, deux choses qui seront pourtant l’une
et l’autre sans fondement; la première que vous n’ayez pas assez suivi les événements qui
pour la pluspart eússent peut-être donné à l’ensemble le charme sûr de la varieté sans
nuire à l’unité et à l’intérêt principal; la seconde que vous ayez un peu trop poussé
quelques caractères, et précisement ceux de votre héroine et de son amant.
Et, quant à la première, passe que vous tranchiez aussi brusquement sur la société de
Paris et sur ses intrigues, dont vous vous étiez si heureusement servie dans vótre machine
jusqu’à un certain point de l’ouvrage; l’on pourrait me repondre que il n’en était plus
81
bésoin. Passe encore cet oubli soudain des ennemis de Gertrude et de leur vengéance
irritée; passe le silente sur le denoûment du sort périlleux de Charles livré aux poursuites
d’une police rusée chez un protecteur équivoque qui agissait par seul intérêt personnel
choqué bientôt et détruit dans le mauvais accueil de ses voeux. Passe enfin le départ
mystherieux de cette pauvre Juliane, les passions et les malheurs de laquelle nous avaient
trop émus pour ce que sa fin ne méritât pas encore des paroles et des larmes. Ce mysthère,
j’en conviens, ne manque pas son effet avec l’éspèce d’effroi qu’il nous jette dans fame
attendrie; cependant, je ne sais, j’y trouve un vide que j’aimerais mieux rempli autrement
que par la seule terreur.
Mais Léonor! La bonne, la chaste, l’aimable Léonor! Mais Pélage! cet amant si épris
de ses attraits et de ses vertus! Mais Mr. Müller! ce mortel généreux qui ne craint pas de
sacrifier les dernières affections de sa vie à une femme adorable si non adorée, à un amour
presque autant fatal à son bonheur domestique qu’il l’était à sa vanité. Ne nous pas dire
même un mot de leur félicité ou infélicité reciproques après ce divorce annoncé à peine!
Hedwige part, Hedwige meurt, et sa mort nous est rapportée en des termes si
touchants! Certes, dans l’action général elle avait joué un rôle bien tendre et affectueux;
mais pourrait-on le comparer à celui de sa soeur, ou du moins le lui préférer?
Vous reduisez donc tout-à-coup vótre roman presqu’à deux personnages, vous
employez le 3.me volume presque tout entier à anatomiser pour ainsi dire deux coeurs, à
analyser une fiamme jusqu’à ses éléments les plus étherées, à occuper le lecteur
d’abstractions des choses aux idées, à leur rétracer l’image d’une passion trop souvent
sans limites et trop parfois limitée par une puissance d’âme miraculeuse et par des
subtilités intellectuelles mieux singulières que rares. Là tout l’univers a disparu devant vos
yeux. Pour un traité de moeurs cela irait à merveille; mais pour de moeurs en action, pour
des passions considerées en rapport avec leurs sujets, enfin pour un roman qui doit
ressembler à une histoire, peut-être foudrait-il ménager d’avantage les esprits et ne les pas
fatiguer avec un luxe de speculative qui les épuise tout en les extasiant.
Or c’est précisement là que s’appuye la deuxième partie de mes timides plaintes
contre cet ouvrage, ainsi d’ailleurs admirable par tant de sublimité. Je le répète: me
tromperais-je, Madame, ou n’auriez-vous point poussé trop loin vos principaux
caractères? Vous avez du talent et de la conscience plus qu’il n’en faudrait à plusieurs
écrivains à la fois. Examinez donc sans prévention et sans amour propre si mon opinion
est juste ou non; et daignez m’éclairer si je vis dans l’erreur. En général j’ai toujours cru
incontestable à l’égard des peintures morales que tout ce qu’on n’ait pas trouvé en soi
méme, il faille le chercher dans la société moyennant une observation mûre et une analyse
assidue et scrupuleuse. C’est pas ce seul moyen qu’on surprend la nature et qu’on la copie.
Ce qui n’est d’aprés nature n’est vrai; et l’imaginaire pourra bien frapper, émouvoir,
ébranler, mais il ne laissaira aprèes lui rien de solide, il ne fera jamais du bien. Il est hors
de question que la nature se plait quelquefois des éxtrémités et se jette à l’extraordinaire:
cependant Aristote qui prévit l’écueil où échoueraient les auteurs dont l’imagination
fouguese se laisserait séduire par ces efforts, leur remontra de se défier de la vérité ellemême quand elle ne portàt la masque de la vraisemblance; ce que Boileau a depuis répeté
en ces termes:
«Jamais au spectateur n’offrez rien d’incroyable:
Le vrai peut quelquefois n’étre pas vraisemblable».
Je finis, Madame, pour vous avouer ingénuement qu’en lisant de quelle manière
vous raisonnez sur l’amour, je fermai souvent mon livre pour me proposer ce problème,
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que je ne sus pas résoudre: ou personne au Monde n’a connu l’amour comme Elle, ou Elle
est trop au dessus de l’amour.
Pardonnez, de grace, une témérité que je vous prie de répéter à deux causes
différentes, c’est à dire vôtre grandeur et ma petitesse.
Je suis avec tous les sentiments dignes de vous, Madame,
vôtre tres-dévoué serviteur J. J. Belli.
LETTERA 90.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Narni 10 settembre 182[8] ore 10 antimerid.e
Cara Mariuccia
Otto orzaroli! Chi li cercasse non li metterebbe insieme, e io gli ho trovati senza
cercarli! Mi stanno tre dirimpetto, uno di fianco, due in serpa, e due sulla canestra
sovrapposta alla volticella. Non parlerò delle belle camiciuole di vellutino e di tela
rigatina; non de’ soavi berrettini di lanetta livida e di refe incorniciati di filetto rosso; non
de’ sudori beneolenti aglio o simile senso piccante sotto il senso piccato. Tutti o di Novara
o di Domodossola parlano la gentilezza del loro gergo, e si rivolgono tutti con certo
rispetto orzarolesco al mio vicino, il quale perché si dimostri per di più di essi basti il dire
che porta le falde, benché non abbia cappello.
Lo compra a Milano, dove si risparmiano due paoli e anche 25 baiocchi. La buona
gente non sa risolversi di prendere per un orzarolo anche me quantunque si conosca loro
negli occhi che ne muoiano di voglia: ma le falde mie pare che abbiano sin qui più virtù
delle già sullodate.
Per me se muoiono di voglia, povera gente muoia pure, non parlo sino a Milano.
A porta del Popolo dove montarono ad associarmi alla loro sorte, quel dalle falde
principiò, brusquement et sans trop me ménager, a stringermi con le sue dimande quasi
sotto il torchio de’ suoi maccheroni (e dice di averne uno bello nella stanza di dietro;
aggiungeremo alla bottega). Ma alla quarta dimanda, se pure ci si arrivò, i muscoli della
mia faccia già gli avevano dato le risposte per cento; cosicché tutto orzarolo che fosse
conobbe il suo tempo e vide che aria tirava.
Un altro, che io dentro di me chiamo il Balafré perché è concio nel muso come il Duca
di Guisa, la prese per la strada del tabacco: Ne gradite una presa? — E io: Grazie, e viso
duro. Se accettavo era finita, perché tabacco preso, amicizia fatta: questo è un assioma
sociale.
Brava gente, ed anche istruita! Nel passar da Nepi seppe dire che quell’acquidotto
porta a Roma l’acqua di Trevi, sotto alla quale terra noi passeremo domani, dopo valicate
aspre montagne che l’acqua salta a piedi pari. Già tutti sanno, e chi non lo sapesse lo
impari, che l’acqua di Trevi viene da Trevi Umbra dove si muore di sete. Che se i condotti
romani accennassero un’altra direzione, si chiude gli occhi e col cervello si rivolgono a
qual punto cardinale si vuole.
Buona gente, e anche civile! Ieri sera a cena tutti dicevano che bisognava proferire agli
altri, mettere in precedenza agli altri, insomma favorire il Signore (cioè quel dalle falde più
lunghe: io); e però tutti e otto mi dicevano in concerto: si servisca, soré. E fra la verità del
vino chi mi diede la notizia stupenda che il granturco ha chiesto al Papa il passo libero per
Ripagrande perché fa la guerra col Re di Moscovia; chi mi narrava le ricchezze che il padre
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aveva lasciato a loro dodici fratelli di due madri, specialmente in vacche che ne aveva
quindici. Ogni persona che sappia di conti, trova con poca fatica che toccò una vacca e un
quarto a fratello. — Quale mi dava gli indizii per distinguere l’olio buono dal cattivo, il più
sicuro de’ quali faceva consistere nell’assaggio; e quale finalmente alzandosi da tavola mi
ruttò assai urbanamente in faccia, e servì per saluto.
Che ti pare? Veh mihi, beato me! Ma io mi serro in una camera solo, ma io ho un
buon libro, ma io sto in umore di godermeli. E questi tre riserbi li metto qui per calma di
chi, per dannata ipotesi, dubitasse della realtà della buona compagnia che il cielo mi ha
largita.
Or ora a Terni. — Dalla presente arguisci della mia salute.
Saluta tutti, dentro e fuori; particolarmente chi ci favorisce la sera di qualunque età e
sesso, e chi è talora la sera da me incomodato: dico gli eccellenti inquilini del primo strato
calcareo del Signore del Piombo.
Mille baci a Ciro, e mille a te. Io sono il tuo
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LETTERA 91.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
[Foligno, 12 settembre 1828]
Te l’aveva detto io, Mariuccia mia? L’avrebbe capito un tonto che in quell’ottavario
d’orzaroli si annidava grande dottrina. Questa mattina all’alba abbiamo avuto una lezione
di fisica e poi subito appresso un’altra di filologia. Sin ch’è stata notte si è mantenuto quel
silenzio in cui gl’ignoranti e i dottori fanno una stessa figura: ma non appena il sole è
comparso ad illuminare i cocuzzoli delle montagne della Castagna, che tosto una simpatia,
esistente senza dubbio fra gli esseri di questo sublunare, mettendo in consonanza e in
mutuo rapporto la interna luce morale de’ miei novaresi e domodossolani colla esterna
luce fisica di lassù, han tutti e otto principiato a dar fuori con bei ragionari che un francese
tradurrebbe col nome illustre di Caquet. Il Sole è stato definito per un fuoco, il fulmine per
un altro fuoco, e l’acqua per una cosa che non si sa veramente cosa sia ma che è nemica del
fuoco; e all’acqua e al fuoco il Signore dia loco. E i fiumi vengono tutti dal mare, e,
grandezza di Dio!, vi ritornano tutti: perché il mare è una gran quantità d’acqua, più alta
delle montagne: e però va su su e poi scende giù giù; e non è più salata perché le
montagne son dolci! Povere Colonie se se ne accorgono i caffettieri.
E molti torrenti non arrivano mai al mare perché si perdono per la secca, perché
quando la terra è secca non viene acqua che non si lecca. E l’acqua in francese si chiama
Aò, ha risposto un altro dottore degli otto: e così è stato che dalle investigazioni naturali si
passasse con belle transizioni alle disquisizioni dialettiche. Io sono stato assoldato con
Napuglione, seguitava a dire l’ottavino artebianca, e so come che si parla in francese. Lo
sapete voi come si chiama il brodo? Abbujò. E l’osteria? Obbergè. E il cacio? Frummag. E il
prosciutto? Ciampò; e via discorrendo. Ora chiunque ha buon naso si accorge subito in
quali situazioni abbia l’alunno dei galli appreso tanta glottica perizia. Dica chi vuole; viva
Dio e la lingua francese!
Un uomo che conosce questo idioma cattolico può viaggiare per tutto il mondo a
occhi chiusi, e può andare, Dio scampi ognuno, anche in terra de’ Turchi, dove si
ammazza tanta carne battezzata.
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E non crediate, gente mia, che non si dasse di barba alla povera Storia naturale che se
ne stava in un cantone zitta zitta senza dar fastidio a nessuno. Iddio passò un giorno per
una strada (quando ancora non erano inventate le diligenze) e incontrato Adamo gli
domandò se avesse messo il nome a tutte le bestie. Sissignore, Signore, rispose Adamo: da
Eva sino alle formiche e alli moschini (non erano inventati neppure i Microscopi per
andare più in là) nessuna n’è restata senza. Ecco perché le bestie hanno tante cognizioni. E
qui fila fila tutte le genealogie animalesche, fra le quali osservazioni ho imparato per la
prima volta, confesso la mia ignoranza, che la Golpa è figlia della cagna e del lupo: e così si
spiega perché pare un cane e non è un cane, pare un lupo e non è lupo, ma aggradisce le
galline in bocconi come l’uno e l’altro parente.
Il Re di Torino le distruì tutte prima che nel Piemonte se ne trovassero tante come
adesso; e però beati in quel Regno i capponi! Un’altra volta sulle stregonerie, argomento
serio.
Per oggi è notte: buona sera.
Hai avuto le lettere di Babocci e Vannuzzi? Circa gli Sc. 12 rispondi con buona
maniera di no alla dimanda di dilazione. — Per la Pelucca e per Malagotti vedo che ce
n’andremo a novembre. — Giannocchi pagò que’ due scudi che pretende aver dati mesi
addietro; e dice Vannuzzi che ne ha quietanza dell’avvocato. Dunque restano Sc. 8. — Ho
scritto a Mirabelli che se la intenda teco. — A tempo opportuno Vannuzzi manderà a te i
denari per Ballanti. — Avendo esso pagato le dative di varij mesi, il suo conto del
trimestre scaduto residua a così poco che se tu credi posso conteggiarlo con lui al mio
ritorno.
Ho parlato con Sanzi, conservatore delle ipoteche di Spoleto. Per la radiaz.e di
Castelli basta un atto di consenso di brevetto, e già ho scritto a Garavita di Spoleto; per la
radiaz.e dell’avvocato basta la fede di morte legalizzata e la faremo al mio ritorno in Roma.
Il Sig. Plinj ti scrive in quest’ordinario per un affare di Marcotte da consultarsene
Biscontini.
Fra brevi giorni ti spedirà un ordine di Sc. 52: 43 a beneficio dello stesso Marcotte. Gli
esiggerai per l’uso già fra noi stabilito. Ti salutano Procacci, Plinj e Fontana. Salutami
anche tu sotto e sopra come il testo: baciami Cirone, e ricevi una buona stretta dal tuo
Pecorino, che va a mutarsi in Parmegiano.
LETTERA 92.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Rimini, 14 settembre 1828, alle 9 ¾ di sera
Cara Mariuccia
Manco male che ho sonno: se no poveri Orzaroli! Ti dovevo fare il racconto delle
stregonerie e di una specie di astrologia giudiziaria in cui sembrano molto dottamente
iniziati; ma ho sonno; e poi hanno principiato a seccarmi, anzi stiamo bene in là nella
seccatura. — Bàstiti il sapere che gli stregoni, le streghe, i maghi (anche quelli innocenti del
lotto) i fattucchieri e simili gentilezze, furono tutti da Gesù Crocifisso accondannati in ne le
nozzi di Canna e Galilea dove che fu fatto il Conciglio di trenta, indove Iddio disse che lui
aveva creato Roma, la Francia, l’Angrinterra, e tutto il mondo là... nel mondo fin che ce
n’è, per amallo e servillo in tutta un’internità e per questo Nové gli fece l’arca perché se
salvassi dal diluvio di acqua come fece quanno che vinne tutto quel malanno dal Paradiso;
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e allora c’erano l’astrigoni, che se so poi aritrovati li libbri de Magia sotto terra per opera
del diavolo, che se voleva addifenne al tiritolio del Regno suo, che il Signore ci addelibberi
a tutti.
Vidi Torricelli che mi volle seco la sera e la notte in una sua villetta. Combinò tutto
così bene che la mattina si trovò pronta la carrozza onde proseguire il viaggio. Voleva
disfare la mia scrittura e tenermi con lui per una settimana. Egli e Bertinelli ti salutano.
Passai da Fano molto a buon’ora, e appena potei lasciare alle Zuccardi (che anch’esse
ti salutano) le carte di Pippo per Marcolini. La Battaglia è tuttora lì. — Ho qui veduto Ferrari
che ti dice mille cose. Mariuccia mia, ti scriverò da Milano dove, salvo errore, sarò la sera
di venerdì 19. Saluto tutti tutti e ti abbraccio con Ciro mio.
LETTERA 93.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Da S. Ilario, 17 settembre 1828
Cara Mariuccia
Bisognerebbe far spolverare le fratte almeno tre volte la settimana: così diceva oggi
seriamente il mio orzarolo colle falde lunghe, vedendo a destra e a sinistra tanta polvere
ch’era una miseria. Chi avrebbe mai pensato a un simile mezzo-termine, ho esclamato io
tosto, con una certa rispettosa cera da spaventato! Siete bravo assai, Sig. Andrea. —Non
saprei, ha risposto il Sig. Andrea, dimenando la testa, i fianchi e tutta la persona come
un’anguilla di Comacchio: Non saprei, a me m’é piasso sempre d’entrà dentro in nelle
cose; ma poi so’ un ignorante perché la diollogia la sanno li scultori che leggheno tutti li
libbri. — Oh vedete mo quanta sagacità e umiltà unite insieme come una minestra di riso e
cavoli! Così mi piacciono gli uomini! Sapere, e nascondere; che questi altri saputelli
sputaperle per lo più non sanno neppure dove il diavolo tiene la coda, cosa così chiara che
basta chiederne a un caudatario, te ne dice tanto da farti dottore. Dio volesse però che il
comandare le feste toccasse una volta al mio artebianca (che fa pure il fornaio a socero)
sarebbe così sempre giorno di lavoro, e le cose camminerebbero meglio, che adesso,
bisogna dirlo, è una babilonia. Sissignora, ogni mattina spazzare le fratte, e io ci metto del
mio anche gli alberi, con una scopettina da destinarsi. In questo modo, oltre al bel ristoro
del viaggiatore, (che giacché soffre tanto, con rispetto, nel culo, godesse almeno un poco
negli occhi) arrogerebbe altresì il conseguimento di quel primo secondo fine tanto
essenziale nella vita umana, dico la mundizia ossia proprietà, cosa così necessaria alla
conservazione della pulizia: e andatelo a negare senza pigliarvi una patente di jacomantonio.
Basta, Signore Iddio, confrontare le due parole onde convincersi di quanta analogia e
corrispondenza passi fra le loro peculiari e corrispettive significazioni.
Bravo artebianca compellegrino mio! E non si vedrebbero mica più al mercato que’
fruttacci impolverati e inzaccherati dalla cima dei capelli sino alle punte delli piedi, di
modo che nemmeno col raschiatore se ne torrebbe via la sozzura incozzata: e il coltello,
Dio guardi! perché persica, come dice il proverbio? persica, pira, poma cum corticibus sunt
meliora. L’orzarolo mio non sa il tedesco: però quest’ultima frase per verità non la disse,
ma gli si leggeva negli occhi, e anche di peggio. — Ah! un pezzo per ogni terra murata vi
vorrebbe d’uomini simili; e non vi rimarrebbe un cane, quel che sia un cane, che non ne
godesse il suo boccone. Già si sa, si dice così per modo di dire, perché poi poi, alla fine dei
fini, il paragonare gli uomini ai cani, ehm ehm, sarebbe veramente ciò che si dice da can
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barbone. Non v’è nessuna bestia, propriamente detta, a cui l’uomo non possa stare di
sopra, e coi piedi, o colla rotondità posteriore della sua persona: sentimento del Sig.
Andrea, tutta farina di quel testone d’uomo che bisognerebbe imbalsamarlo adesso
proprio pel minor decoro che gli si potesse fare. E ognuno può capirlo da sé cosa si dica
quando vi dice balsamo! Non per niente è stata fabbricata la città di Cantiano, che Iddio ce
la conservi in eterno come un’indulgenza plenaria. E dite che l’orzarolo, anzi, che ambidue
i quadrati di due orzaroli non l’abbiano capita; cuccù! Saltarono giù come otto
saltimbanchi, che sono gli animaletti i più saltatori; e dentro di slancio nella officina del
Sig. Restituto Achilli; e poi fuori di trotto carichi di caraffine e scarichi di paoletti, perché
imparate anche questa, ogni caraffina costa un paolo, di maniera che una decina torna a
uno scudo romano: conto che si fa subito senza il ministero delle dita. — Forse costano
care? Lo so, lo so, c’è stato qualche panbianco, vero panbianco, che ha detto essere troppi
dieci baiocchi per una sola, con licenza, coglioneria; come che la roba buona non costasse
danari! Oh perbacco baccone vorrei mo vedere anche questa! Con una gocciola di quel
portentoso esixir anti-stomatico si può comodamente far restituire il fiato a dieci uomini, e
il Cielo sa quanto valga la vita di un uomo; e si troverà chi ama più un giulio che una tale
boccetta! Coraggio, Sig. Restituto mio, Ella seguiti allegramente a fare balsamo, e sino a
che nel mondo vivranno orzaroli, ascolti bene la mia amichevole imprecazione, Ella non
potrà morire di fame. — Tutte queste cose, cara Mariuccia, io le dico per mostrare che so
viaggiare, e racconto le cose come stanno e dove stanno, e non faccio come qualche
svizzero cattolico, il quale dopo stato in un Cantone per 57 anni, finalmente si mosse pel
mondo nella età della discrezione; e avendo udito a Roma che un pover’uomo si era
gettato giù dall’Arco di Parma, egli che scriveva sempre giornali e recitava notturni, saltò a
casa, e, traffete, schiccherò giù come in Parma vi è un bellissimo arco antico e alto alto, da
cui è pio costume che si gettino a capo sotto tutti i casi detti disperati; e qui diede il Sig.
Tedesco in erudizione perché s’incalzò per modo di similitudine il salto di Leucade. E
un’altra volta, e poi ho finito, all’udir narrare di una festa fatta alla Madonna di
Costantinopoli con pubblici fuochi d’artifizio a piazza Barberini, raccontò nel suo giornale
medesimo con una cristiana esultanza essere una voce maligna che i barbari facciano tanta
oltranza alla gente battezzata, perché benché i turchi non sappiano neppure il credo,
tuttavia hanno permesso nella stessa città di Costantinopoli un simile spettacolo etc. etc. e
qui veniva la descrizione di tutti i razzi.
Impara, Mariuccia mia, e convinciti che il Mondo è come un banco di scuola: più vi si
sta, più vi s’impara: quantunque circa alla seconda proporzione vi sia chi parteggi per la
negativa.
Il vetturino ha cambiato tutte le tappe onde non ispendere troppo negli ordinari della
Città. Dunque non ho potuto vedere né Piccardi, né Emiliani, né Papotti, né Oloni, né... chi
altro? Non lo so: insomma nessuno. Dillo a Spada perché Spada lo dica a Biagini onde
Biagini lo dica a chi gli pare. Scrivo questa lettera da S. Ilario, villaggio di assoluto confino
dello Stato di Modena sette miglia prima di Parma. Sono le dieci: vado a letto. Un bacio a
Cirone. Ricevi mille abbracci dal tuo P.
P.S. Porto meco la presente già scritta per impostarla dove potrò prima. Dopo dimani
spero sicuramente di aver già fatto il solenne ingresso a Milano. È colà un susurro per
questa notizia portata avanti dal vento che mi soffia dietro. Dicono che non vi si trovi più
polvere l’ho presa tutta io in viaggio.
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LETTERA 94.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 4 dicembre 1828
Gentilissimo amico
Eccovi una lettera scritta procuratorio nomine cum clausula ut alter ego. Il vostro
amabile fratello, occupato oggi dalla guardia e immerso tutti questi giorni in un mare di
faccende, alla vigilia com’è di una partenza per lungo e glorioso viaggio; ha incaricato me
di rappresentarlo negli uffici che doveva con Voi compiere: né in ciò le circostanze mi
potevano meglio servire tanto è il debito di grazie che mi corre da riferire alla veramente
obbligante memoria in che io sono rimasto presso di voi esempio di rara e delicata
amicizia. Dal più riconoscente animo ho ricevuto i saluti vostri dal Cav. Filippo sempreché
me ne ha recati, e con tanta maggiore allegrezza quanto più il tempo crescente avrebbe
dovuto lasciarmi rassegnato, se non all’oblio, a quella specie almeno d’indifferenza in che
sogliono almeno gli uomini riporre coloro dai quali molti anni e molte miglia li divisero.
Dalla quale vostra diversità di sentire e di fare io mi godo recenti freschissimi testimoni.
Io mi son qui da pochi giorni, reduce da Milano, dove mi piace assai più la vita che
altrove. Quella città benedetta pare stata fondata per lusingare tutti i miei gusti: ampiezza
discreta, moto e tranquillità, eleganza e disinvoltura, ricchezza e parsimonia, buon cuore
senza fasto, spirito e non maldicenza, istruzione disgiunta da pedanteria, conservazione
piuttosto che società secondo il senso moderno, niuna curiosità de’ fatti altrui, lustro di arti
e di mestieri, purità di cielo, amenità di sito, sanità di opinioni, lautezza di cibi,
abbondanza di agi, rispetto nel volgo, civiltà generale etc. etc.: ecco quel ch’io vi trovo
secondo il mio modo di vedere le cose e di giudicarle in rapporto con me; e però se a Roma
non mi richiamasse la carità del sangue e la necessità de’ negozii, là mi fermerei ad àncora,
e direi: hic requies mea. Non ho sin qui veduto Parigi, ma visitandola talora nei libri vi
scopro eccessi di misura nel più e nel meno, ed io non amo di associarmi agli estremi. Gli
assaggio per curiosità di palato, ma poi cerco il ristoro nel mezzo: lì sta Milano, mi pare, o
che piglio un granchio più grande del Gran Can de’ Tartari. — E voi mio buon Neroni?
Avete voi più viaggiato? Menaste poi i vostri figliuoli a Bologna? E qui fate plauso alla mia
felice memoria, se mai mi fosse già stato detto da Filippuccio. Come va il violino in cui uno
particolarmente fra i vostri figli così bene si distingueva sin da quando io empiva il Piceno
de’ miei dolori colici? (Ma adesso sto come un b.f.: indovinala grillo). E siamo Nonni eh
Neroni? V’è però una gran dolcezza in quei figli, dolce che non conoscono gli schifi de’
nonni denotanti che l’età va come il Mondo. — So le lodi della vostra amabile
filodrammatica: so di lapidi... so anche che la carta è finita e i saluti non incominciati.
Dunque Padre, Madre, sorelle e tutti, parenti amici e benefattori, deo gratias! Vi
abbraccia di cuore il vostro primo de’ secondi
G. G. Belli
Palazzo Poli 2° piano.
Se Mariuccia sa che la ho cacciata in un poscritto, con tutti i saluti suoi, la mi
ammazza: misericordia! Dunque, Neroni, la mia vita sta nel vostro silenzio.
LETTERA 95.
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AL PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA PERGAMINEA — FOSSOMBRONE
29 gennaio 1829
Chiarissimo Sig. Presidente
Non in modo legale, è vero, ma per avventura ricordabile; non al Presidente
dell’Accademia, ma alla persona del Presidente; non per iscritto in lettera, ma a voce nella
stessa sala accademica, io ebbi l’onore nel passato novembre di partecipare la infelicità
delle da me praticate ricerche intorno al quesito direttomi.
Se l’Iconografia ci abbia serbate le sembianze del Pergamino.
Se pertanto mi veggo oggi giungere nella sua lettera del 2 cadente un testimonio del
suo dolore per ciò che io non abbia eseguito il lavoro commessomi dall’Ecc.mo Consiglio
per l’anno V; parmi che mentre anch’io debba rammaricarmi di averle cagionato tanto
disgusto, m’abbia nulladimeno alcun luogo di consolazione dal vedere che il vero motivo
del rimprovero dalla Ch. Sua Sig.ria indirizzatomi dipenda quasi più da dimenticanza
d’incidenti e da uniformità di già stampata modula che non da mio fallo assoluto: da poi
che la Ch. S.S. fra gli altri pensieri dell’accademico reggimento o non si è risovvenuta del
fatto di Novembre, o sovvenutosene, pure non ha forse diliberato se quella particolare
insinuazione avesse valore di salvarmi da porzione del meritato rimprovero delle benché
umanissime note di biasimo, o, diliberatolo ancora non ha curato decidere se la mancanza
di partecipazione di un atto importi sempre ed ineccezionabilmente la mancanza
d’esercizio dell’atto medesimo, a malgrado dell’assioma forense che contra contumaces
omnia jura clamant.
Sopra altri ricevuti incarichi avrei io bene incorso in accademiche censure, cioè per
l’ozio della mia penna, ma in questo una benignità sproporzionata alle omissioni mie non
farà sì che io non me ne accusi spontaneamente all’Accademia la quale con silenzio
generoso volle risparmiarmi il maggior rossore di rimprovero meglio guadagnato. Se però
unita all’accusa siami lecito mandare incontro all’indulgenza accademica una scusa del
mio fallo, io dirò che una vita agitata da diversi agenti tutti nemici dell’ingegno e dei
quieti studii mi tolse agio e senno per corrispondere degnamente al giudizio della
aspettazione di un Consesso elettissimo, il quale, attribuendo a tutti per gentilezza la
stessa buona tempra di valore che in sé ritrova e sente, non deve poi essere ingiustamente
ingannato con effetti troppo inferiori all’anticipato concetto.
Se mai nella presente mia lettera la sua perspicacia incontrasse frase o parola
discordante col tutto umile rispetto e colla cieca rassegnazione che l’inferiore deve al
superiore suo, me ne assolva la sua clemenza, da poi che quantunque io non ebbi ribelle
intenzione o talento mormorante, pure già me ne pento per l’eventualità.
E voglia sempre graziosamente riguardare
Il suo servitore obbligatissimo
G. G. Belli
Socio pergamineo corrispondente
LETTERA 96.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — SAN BENEDETTO
[17 febbraio 1829]
Caro Amico
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Ieri sera è arrivato vostro fratello carico di onori. Non l’ho veduto ancora, ma l’ho
saputo da chi l’ha veduto. Eccovi una buona notizia, ma io non faccio nulla per nulla; e
voglio da voi un piacere. Il 17 gennaio p.to scrissi una lettera al Sig. Luigi Tommasi di
Ripatransone su certe vertenze in affari disgraziati che non debbono a voi riuscire un
mistero. Egli non mi ha mai risposto. Non potreste voi semplicemente da qualcuno fargli
dire che io (abitante al Palazzo Poli 2° piano) aspetto da lui un riscontro alla mia del 17 gennaio?
Esco or ora da una malattia di reuma, e Mariuccia contemporaneamente da un’altra.
Abbiamo poi Ciro malato anch’egli da 10 giorni di gastrica e attacco di petto. Ah! ma
speriamo un migliore avvenire. Voi? I vostri? Fatemene tranquillo in questa stagione da
Samoiedi.
Vi abbraccio di cuore
Di Roma, 17 febbraio 1829
Il Vostro amico Vero
G. G. Belli
LETTERA 97.
AD ANONIMO SVIZZERO
[30 luglio 1829]
Pregiabilissimo mio Sig. [...] Michele
Ho bisogno di alcune notizie svizzere delle quali niuno meglio di Lei, vicino come
ella è al centro del governo federale, potrebbe favorirmi, e tanto meno altri lo potrebbe
quanto più ai lumi che in copia debbono a Lei aver procacciati il Suo domicilio e la qualità
Sua. In codesti luoghi, Ella accoppia altresì la cognizione intima di questo nostro paese, e
sa in conseguenza discernere sino a qual punto possano non discordare fra loro in una
stessa persona i moderni principii che ne’ due Stati le vecchie consuetudini e le nuove
vicende abbiano conservato, cambiato o rifuso. L’esordio non l’adombri, né Le dia troppo
magnifica idea delle mie dimande: le troverà semplicissime e non temerarie, e solo
importanti dal lato della sollecitudine che deve stringere i padri al pensiero dei figli. Mi si
suppone essere nella Svizzera varii stabilimenti pubblici dove si prenda a pensione
giovinetti anche di tenera età, i quali vi acquistano scienze, lettere, lingue, morale, e
ginnastica, qualche ornamento etc. etc. vivendovi possibilmente senza morbi e senza
disordini. Vorrei dunque sapere quale fosse nella Svizzera lo stabilimento che fra tutti
potesse essere a Suo giudizio il più convenire a un fanciullo romano, destinato dal padre a
divenire, per quanto le felici sue disposizioni lo consentano, uomo religioso e non
superstizioso, amico più dell’onore che della riputazione, coraggioso e non temerario,
franco e non impertinente, obbediente e non vile, rispettoso senza adulare, emulatore
senza invidia, giusto, leale, vegeto, agile, amabile, dotto, erudito: insomma un uomo da
riuscire la compiacenza de’ genitori e l’esempio de’ concittadini.
Inoltre quanto e sotto quali condizioni (tutto compreso) sia il carico pecunario da
sostenersi dalla famiglia.
Quali i rudimenti preliminari e l’età, necessari all’ammissione, quale sommariamente
il piano d’istruzione e di educazione morale. Quanta la durata del convitto etc. etc. Ella
m’ha a sufficienza intese: ho anzi troppo detto per la Sua penetrazione.
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Dalla lettura e dalla conversazione io ho bene raccolto qualche indizio, ma tale che
non mi mette in quiete né può equivalermi al voto d’una persona di mia fiducia,
illuminata, amica, e conoscitrice come dissi de’ diversi rapporti sociali del giorno.
Più: in caso di Sua partenza da codesti climi, potrebbe Ella indicarmi persona colla
quale io avessi all’uopo una corrispondenza?
Insomma io ho ardito d’incomodarla: ma prima, oltre al sentimento della Sua
gentilezza, me ne sono accresciuto il coraggio parlandone col Dottore Suo fratello che ha
gli stessi Suoi sentimenti.
Ella ora col favorirmi da quel cortese che mi si è sempre mostrato, mi provi di avermi
perdonato l’ardire.
E riverendolo con effuse di rispetto e di amicizia me Le offero tutto a’ suoi servigi
Di Roma, 30 luglio 1829
Il Suo dev.e obbl.
[firma cancellata]
Palazzo Poli 2° piano
P.S. L’instituto di Fellemberg non sarebbe al caso?
LETTERA 98.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
La sera de’ 12 agosto 1829; Dal
più odioso de’ paesi che s’incontrano
nella vita: Acquapendente!
Mia cara Mariuccia
Otto e quattro? in numeri arabi, 12 — I signori Mercadanti genovesi che non
potevano soffrire il Sole partendo da Roma di giorno, per istrana metamorfosi operata dal
Dio Redicolo o Ridicolo si sono cambiati in quattro bravi Carbonai di Via Tomacelli che
viaggiano a redeundo e tornano a Chiavari: due de’ quali vanno davanti e uno di dietro; lo
che tradotto in lingua più volgare vuol dire: Va sui baulli. Quel di dentro forse
meriterebbe di star di fuori; ma come que’ di fuori non meriterebbero di star dentro, così vi
sta bene anche lui.
Dunque, 8 dell’altro anno, e 4 di quest’anno, abbiamo compiuto la dozzina sotto gli
auspici dell’orzo e del carbone. Degli altri due ad aliam. Anticipo la presente ad imitazione
di un Duca del Sirmio onde ti arrivi il giorno in cui ti fu dato il nome di quel med.mo
giorno: non so se ho detto bene. Voleva dire un beau-mot, ma le testate nelle carrozze non
sono le più proprie a risvegliare lo spirito. Dunque, Mariuccia mia, abbiti vita lunga
quanto posso desiderarlo io e lo saprà desiderare il nostro Ciro, supposto in noi affetto.
In questo viaggio è curiosa! Dove non è passato il Corriere non vi è uficio postale:
dove è uficio postale trovo passato il Corriere. Però anticipo oggi nel sabato 15, seppure
una pulce che ora mi mette pel capo l’Ostessa, non dica la verità, cioè che di qui passino
due soli Corrieri per settimana, e il terzo per la via di Perugia.
Allora sabato non ti arriverebbe la presente, e tu t’ingrugneresti. Ma che colpa n’ho
io? L’augurio l’ho fatto, e di cuore; ed ho sempre udito che gli auguri sono come le
indulgenze e i suffragi: quando debbono arrivare arrivano secondo la intenzione di chi ne
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manda, e non secondo il calcolo di chi ne aspetta. Dunque, vada: e tu rispondi, venga. Ti
do vinto il quindici, la caccia e la partita. Salutami tutti; e ricevi un abbraccio del tuo P.
Ciro mio caro. Papà tuo pensa sempre a te. Ricordati delle promesse che mi hai fatte:
obbedienza e studio: allora ti vorrò sempre bene. Ti benedico.
LETTERA 99.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Firenze, 18 agosto 1829
Mia cara Mariuccia
Sabato a sera giunsi in questa Città, dove non ho trovato quasi nessuno di coloro che
conosco. La Torriglioni col marito e Landucci sono a’ Bagni in Livorno. Il Sig. D. Carlo
Pinotti a cui nella med.ma sera del mio arrivo ricapitai la lettera di Biscontini, era co’
Rondinelli a Fiesole. Il giorno consecutivo, cioè domenica 16, venne a Firenze per me; ma
in tutto il giorno non mi trovò mai. Il Sig. Tagliani però mi aspettò la sera alla locanda per
ricapitarmi un grazioso biglietto del Sig. D. Carlo. — Ieri pranzai col Generale Antonelli
che ti saluta, e verso novembre passerà da Roma per Napoli. — I miei due compagni di
viaggio non Carbonai furono un Sig. Gordoa Messicano di 32 anni versatissimo nelle
letterature antiche e moderne d’Europa. Conosce la moglie di Gaetano Paris da prima che
sposasse. Quando tornerà al Messico, dopo i suoi lunghi viaggi che ora ha compiuto, ciò
che succederà presto, mi saluterà i Paris. Se anzi vedi Checco Spada, a cui dirai mille cose
per me, pregalo che racconti in Casa Belli avere io mandato saluti al Messico anche per
parte loro. — L’altro compagno di viaggio fu un fiorentino ciarlone, al quale l’americano
ed io abbiamo dato varie lezioni. — Dietro poi il legno, sotto le chiappe del quarto
Carbonaio, viaggiava con noi una cassa di candelieri inargentati, come che in Toscana non
vivessero candelierari. Eppure la dogana ci ha messo le mani sopra, non badando
all’interdetto che salva i beni di Chiesa. — Di’ al Canonico Spaziani che se quel Signore
dell’ombrella, del delfino che parla, quell’uomo che in latino significa Arte, va ancora da
Falconieri, amerei che in di lui presenza dicesse o al Cavaliere o alla Sig.ra Teresa: un mio
amico mi ha scritto da Firenze che dassi a lor Signori i saluti della famiglia Marracci. Forse vedrà
qualche bel moto del Signore dell’Arte, autore forse del libro dell’arte e di tutte le cabalette
del lotto. A Roma racconterò al Canonico storie da farlo trasecolare. Altro che ombrella!
Alla presente rispondimi a Genova per dove partirò questa notte. — La mia salute è
ottima; e la tua? Fai nessun bagno? Fallo, Mariuccia mia. — A tuo comodo passa mille
saluti ai Ricci e alle Terziani; come pure riveriscimi tutti i Signori della tua società. Ti
abbraccio di vero cuore. Il tuo P.
P.S. Avesti la mia di Acquapendente?
Ciro mio caro, se vedessi che graziosi ragazzetti sono qui a Firenze! Studiano,
rispettano tutti, sono composti, savii, gentili... E tu, Ciro mio? Pensa che ti fai grande, e
devi essere la consolazione di Mammà e di Papà. Abbi quindi in mente l’obbligo tuo.
LETTERA 100.
92
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Genova, 26 agosto 1829
Mia cara Mariuccia
Sono in questa superba Città dalla sera del giorno 23. Vi starò sino al 3 di settembre,
essendo troppe le cose da vedere, e non basterebbe un buon mese stancandosi. Il 5 o il 6
sarò a Milano. Sto scrivendo la storia del mio passaporto. Allorché sarò tornato a Roma
credo che messo in bilancio con l’oro varrà più dell’equipollente metallo: e i giri poi e le
firme di tre quattro e 5 ufficii per ogni Città sono cose da poema: udrai. Se vedi Fossati
digli che Orsolini non è mai tornato a Milano. Tanto egli che il Sig. Parodi mi guidano. Io
però faccio molto anche da me.
Se vedi Biagini, narragli che quantunque egli mancasse di lasciarmi l’indirizzo del
libro che voleva da Minucci, pure credo di essermi con questo spiegato; ed egli l’avrà colle
solite spedizioni.
Un altro se vedi. Se vedi il M.se Morando, fagli da mia parte ringraziamento
dell’avermi procurato la conoscenza del Sig. Pagano Direttore della Gazzetta.
Mariuccia mia cara, sappi che i quattrini corrono come barberi, benché io non abbia
preso un divertimento propriamente detto. Questo è un discorso d’ogni anno, mi
risponderai. È vero, benché però altri nelle mie stesse circostanze, essendo anche più tirchi
di me all’occasione, spendono pure alla fin de’ conti di più. Ma Dio te lo perdoni! Io
spendo, e la colpa è quasi tua. Me ne sto buono buono a Roma come un angeletto, e tu mi
vieni a provocare! Un altr’anno ti faccio cantare. Bella gratitudine! tu ripeti. No, Mariuccia
mia, io ti sono gratissimo di quanto tu fai per me, e Dio mi vede il cuore; ma allorché
considero l’aggravio che questi miei viaggi resi ormai non necessarii arrecano alla casa, me
ne vergogno. Ma di ciò basti.
Smanio di ricevere una tua lettera. Spero di averne dimani dapoiché, secondo i
calcoli che faccio, il sabato 22 tu devi avere risposto alla mia di Firenze del 18. Temo
sempre che o tu o Ciro stiate poco bene. Non v’è alcuna ragione; lo vedo; ma provo ogni
anno di più che l’amore della casa e della famiglia si va in me accrescendo con l’età.
Ieri sera trovai in un caffè il fratello di Tavani, quello che ha per moglie la Frantz. È
stato a Milano, e viaggia. Temo però che non ritrarrà dai viaggi lo stesso profitto che può
ritrarre il fratello. Questo è un buon ragazzotto, ma a lumi si sta male. Insomma è il
sartore.
A Pisa, giovedì, pranzai con un pulitissimo e graziosissimo uomo, Aubert Muradgià
Livornese, di circa 50 anni, figlio di A... [nome illeggibile], e negoziante e possidente in
detta Città marittima. Finito il pranzo mi salutò colla maggiore cordialità e andò a gettarsi
dalla cima della torre pendente. Dalle carte trovategli si rilevò avere già tutto premeditato.
Io però non ho mai veduto uomo più presente a se stesso, più tranquillo e più indifferente.
Mi dolse assai, tanto più che aveva la stessissima faccia del fu Giuseppe Mazio mio zio.
Forse colla morte volle prevenire qualche fallimento.
Che fa Ciro mio? Ti ubbidisce? Si ricorda le promesse che mi ha date? Studia? — Ah!
Mi pare mille anni che non vi ho veduto! Ti abbraccio coi soliti sentimenti di affetto
Il tuo P.
LETTERA 101.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
93
Milano, 5 settembre 1829
Mia cara Mariuccia
Non ho subito risposto alla cara tua del 22 agosto, da me ricevuta a Genova essendo
che il giorno anteriore a quello in cui mi giunse detta tua lettera te ne aveva già inviata
un’altra mia in cui ti dava avviso del mio buono arrivo in quella bella Città. Altronde mi
riserbava risponderti appena arrivassi a Milano, onde anche non accumulare tante lettere
contro la probabilità delle incrociature: e appresso a tutto la spesa della posta è da queste
parti veramente eccessiva tanto nel mandare che nel ricevere lettere. — Eccomi dunque a
Milano sin da ieri mattina all’un’ora pomeridiana, essendo partito da Genova il Mercoldì 2
siccome credo che ti prevenissi. Se non mi mancassi tu, se non mi mancasse Ciro, se non
mancasse la mia cameretta, crederei d’essere a casa mia, tanto è gentile e affettuosa
l’accoglienza che mi vanno facendo i buoni Moraglia. Scrivo in questo momento nello
studio del caro Giacomo il quale lavora accanito, e ti dice infinite cose. Così ti saluta il
fratello Peppe che ricorda anche Biscontini. — Trovai a Genova Gaggini, e mi rivide con
estremo piacere, facendomi molte e molte dimande di te. — La lettera che mi dici avermi
scritta a Firenze non mi pervenne: forse vi sarà arrivata dopo la mia partenza. — Credo
che Parriani ti avrà incaricata egli stesso di spedirgli il danaro per la posta: altrimenti il
danaro dell’impostatura andrebbe a nostro carico. Dopo l’avviso di tenere il danaro a sua
disposizione egli doveva farti presentare ordine e persona ad esigere. Ma questa è piccola
cosa. — Il foglio di Stocchi, che il messo ha perduto, fu cavato da me da vari altri fogli di
perizie: mi dispiace però sempre simile perdita, in vista della estrema difficoltà che mi era
costato l’indurre Stocchi a firmare dal 1826 in poi, difficoltà forse aumentabile in una
ripetizione di firma. Io meco non ho le carte necessarie alla rinnovazione del foglio
smarrito, né potrò però al mio passaggio per Terni fare altro che parlare con Peppino e con
Stocchi. — Cercherò D. Antonio. La cognata di Moraglia non lo vide che una volta sola, e
non se ne seppe più nulla. La curiosa è che detta cognata di Moraglia un giorno prima che
io arrivassi a Milano aveva impostata una lettera di riscontro ad una che io aveva inclusa
per lei fra molte altre agli altri amici, in quel pacco che consegnai alla Frosconi per Calvi: il
qual pacco è stato da Calvi ricevuto di recente. Ed anche Moraglia, circa 20 giorni fa,
consegnò una lettera per me ad un Milanese, muratore di professione, che si recava a
Viterbo e poi forse a Roma. Dunque dette lettere hanno ricevuto il riscontro della mia
bocca prima che io le abbia lette; ciocché farò al mio ritorno. — So che qui è Baruzzi,
incaricato da te di salutarmi: lo cercherò. — Sino ad ora ti ho giuocato a coppe: ora mi è
necessario di bussarti a danari. Mi dispiace assai di dovertelo dire; ma verso i 25 di questo
mese non ne avrò più. È vero che quantunque mi tardassero da Roma qualche giorno oltre
il 25, non per questo qui mi mancherebbe da ricorrere. Fa il piacere di salutarmi chi ti
chiede di me, e ricevi da me un abbraccio affettuoso. Il tuo P.
Bravo Cirone! Mi volevi scrivere in carta bollata eh? Studia, Ciro mio caro; e intanto
io farò vedere a D. Antonio le due righe che mi hai scritto a Genova. Ti abbraccio e
benedico.
LETTERA 102.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Milano, 14 settembre 1829
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C. Mariuccia
Ricevo la tua carissima, data il 5 corrente settembre. Questa è la seconda lettera tua
che mi è pervenuta, non avendo io avuto prima di essa che l’altra del 22 agosto mentre io
stava a Genova. Per la qual cosa ignoro quale specie di foglio, relativo a Vulpiani tu mi
abbia dimandato. M’immagino dal contesto della tua a cui oggi rispondo, che forse tu
avrai inteso volere qualche carta di approvazione intorno alla cinquina di dilazione da
accordarsi a quel debitore. In caso che la sia così, qui annesso ti scrivo un foglio in cui ti do
ampie facoltà di far tutto ciò che ti piace: se poi si tratta d’altro, tornerai a parlarmene, ed
avrai pazienza, giacché io non ho ricevuto la lettera in cui me ne devi aver tenuto discorso.
— Il giorno 5 ti scrissi altra lettera in cui ti tastava il polso con espressioni anche più chiare,
come avrai udito. Ma siccome è probabile, anzi quasi certo che, dopo il 20, Moraglia ed io
andiamo a fare un giretto sui laghi, e a Lugano, e a Morcò, a vedere i parenti di Fossati, nel
qual giro impiegheremo circa otto o dieci giorni, affinché la lettera in cui mi spedirai
(credo al solito) una cambiale, non giaccia tanto in posta, non sapendo io il preciso sul
giorno della mia andata né su quello del mio ritorno, potrai indirizzare la lettera a G. G.
Belli, il tutto in caratteri tondarelli e distinti. — Ho trovato presto D. Antonio. Egli sta
bene, celebra qualche messa di discreta elemosina, e sta vicino ad andare a Marsiglia. Pare
però che il pensiero di un ritorno a Roma lo vada tentando; ed io coopero alla tentazione.
Non puoi credere quante cose mi dice per te e per Ciro; e saluta poi Rossi e tutta la
conversazione. Qui a Milano è un nipote di Rossi. — Le Frosconi partirono per Parigi due
giorni prima che io arrivassi a Milano: la madre lasciò al marito una graziosa letterina da
spedirsi a Roma al mio indirizzo, piena di belle espressioni per me e per te. La Battaglini le
aveva scritto di volere andare a Parigi con loro, e poi non si è fatta più sentire. — Cencio
Galli da pochi giorni è qui reduce da Londra. C’è anche Zuccoli; c’è Frecavalli, c’è un
mondo di gente che conosco. Goditi, se puoi, qualche festa; ricevi mille saluti da Moraglia;
abbracciami tanto tanto il nostro Ciro che benedico; e ricevi un bacio dal tuo P.
LETTERA 103.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Milano, 28 settembre 1829
Mia cara Mariuccia
Domenica 20 del cadente mese era il giorno in cui io doveva andare con Moraglia a
fare il giro di cui ti parlai in altra mia. Ma siccome nel precedente ordinario io non aveva
ricevuto tue lettere, così immaginandomi ricevere in d.° giorno in cui arrivava il corriere
feci trattenere il legno fino ad ora di apertura di posta. Vi trovai infatti la cara tua del 15
contenente la cambiale Torlonia sopra Marietti per Lire austriache 305:50. — Già dal
giorno innanzi io aveva dato all’amico Baruzzi un mio foglio per te. Ricevuta pertanto la
tua lettera del 15 tornai a casa e scrissi in fretta un altro biglietto a Baruzzi, al quale feci
ricapitarlo dal mio padrone di casa, per dirgli che giungendo a Roma te lo consegnasse
insieme colla lettera datagli il giorno avanti, onde tu avessi notizia dell’arrivo di d.a
cambiale. Fatto ciò montai in legno e partii. Tornato ieri seppi da Frecavalli che Baruzzi
partì realmente il martedì 22 come aveva stabilito, ma che per certe ragioni avrebbe
consumato in viaggio circa quindici giorni benché andando col corriere.
Vedendo io dunque che le mie notizie le porterebbe troppo più tardi di quello che io
avrei creduto, ho pensato di rimediare al possibile con la presente, onde tu non abbia a
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stare in pena né per me né per la cambiale, quantunque l’avviso datoti da me
precedentemente del mio giro per questi laghi etc. ti potesse pure spiegare in qualche
modo il mio silenzio. — Il mio viaggetto adunque è terminato come cominciò, felicemente
in verità, ma fra diluvii continui. Ho veduto spettacoli prodotti dall’acqua. I danni di
queste provincie subalpine, e le rovine della Svizzera e de’ luoghi circostanti sono orrendi
ed incalcolabili. Il terribile di questa Natura commossa presenta pure un non so che
d’imponente in riflesso specialmente della qualità de’ luoghi sopra i quali ha infierito e
infierisce. A voce ti narrerò in parte le scene di desolazione che s’incontrano, e si odono
qui raccontare. — Spero che il foglio che ti mandai per Vulpiani avrà appagato il desiderio
che dovevi avere espresso nella tua lettera che non arrivò mai. Le circostanze che mi
accenni intorno a’ tuoi occhi, alle tue fatiche e ai tuoi imbarazzi mi disturbano assai. Da’
mille baci a Ciro nostro che benedico. — Cercherò del Sig. Lucchi. — Circa alla valuta della
cambiale te ne dico qui unite due parole che se vedrà anche Spada non mi dispiacerò. Ti
abbraccio di tutto cuore. Il tuo P.
[In foglio separato, continua:]
LETTERA 104.
Di Milano, 28 settembre 1829
Mia cara Mariuccia
Ebbi in tempo la cambiale Torlonia sopra Marietti per L. austriache 305:50
unitamente alla tua lettera in cui mi dicevi in data del 15 che su detta cambiale avrei avuto
la perfetta valuta di pareggio di colonnati 50, avendo tu pagato costì tutto il di più che costì e qua si
sarebbe potuto pretendere pel cambio etc., onde nulla di meno mi giungesse dei detti colonnati
50 — Vedo tuttavia che il Sig. Torlonia è più amico di S. Matteo pubblicano che di S.
Matteo divenuto apostolo. Il cambio de’ colonnati era ed è di Lire 6 e centesimi 22 per ogni
pezzo. Ecco il conteggio
I colonnati Lire: 50.
moltiplicati p. Lire austriache: 6:22
formano: L. 311:00
Ho avuto: L. 305:50
Scapito: L.5:50
cioè bai: 88. — Non so perché dunque il sig. Torlonia abbia conteggiato a 6:11 invece di
6:22, a quanti il giusto cambio giungeva, quandoché ancora quantunque il Cambio fosse
stato al saggio più sfavorevole, tu eri disposta a pagare a Roma la differenza. E neppure
questo scapito si può imputare a provvigione del Banco Marietti, poiché tocca sempre la
ragione che tu ti esprimesti di sborsare ogni peso al Torlonia onde a me giungessero netti i
50 colonnati. E già sono persuaso che uniti questi 88 baiocchi, indebitamente ritenuti in
onta del Cambio del giorno, al molto più che tu avrai pagato a Roma, per questa miseria di
somma si sarà sopportato il 5, o il 6 per Cento. Bel mestiere quello di S. Matteo! — Questo
santo però divenuto apostolo predicò l’obbligo della restituzione.
Ti abbraccio di nuovo e sono il tuo Belli.
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LETTERA 105.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Milano, 14 ottobre 1829
Mia cara Mariuccia
Nulla più disordinato del nostro carteggio di quest’anno. Per me tu sai che ti ho
regolarmente scritto da ogni luogo dove sono stato. Vorrei lodarmi altrettanto delle lettere
tue, non che tu non me ne abbia spedite, ma che le avessi io ricevute. Già si smarrì quella
prima in cui cominciasti a parlarmi di Vulpiani, la quale neppure ho più saputo dove mi
fosse stata da te diretta, come non so altresì se abbi tu ricevuto il foglio che per Vulpiani ti
spedii, né se andasse bene in quel modo. Insomma dalla tua del 15 settembre latrice della
Cambiale di L. 305:50 io nulla ho più veduto de’ miei caratteri. Eppure te ne riscontrai il 20
settembre per l’occasione di Baruzzi e quindi al mio ritorno da Lugano avendo udito da
Frecavalli che Baruzzi partito di qui il 22 settembre si sarebbe fermato alquanti giorni in
viaggio benché andando col corriere, ti ripetei alla lettera per la posta sotto il 28 onde tu
non fossi in pena, quantunque da’ miei precedenti avvisi tu dovessi sapere che io era
andato fuori di Milano. Da quell’epoca sino a questa mattina sono andato regolarmente
alla posta tre volte la settimana all’arrivo di ogni corriere e mai nulla vi ho trovato. Sono
persuaso che ciò provenga da impicci passati ma pure ti confesso che ciò non lascia di
tenermi un poco inquieto, sapendo da te che in Roma vi erano grandi malattie: senza di
che tu conosci quanto silenzio incertezza e lontananza siano insieme di fastidio. Intanto
eccomi giunto all’ultimo giorno da me fissato per la mia dimora in questa Città, cosa di cui
ti avrei avvisato prima se non avessi aspettato il tuo riscontro almeno alla mia del 28.
Così stando le cose e avendo io già da tre giorni preso la caparra dal vetturino per
Bologna contava di avvisarti di non spedirmi qui altra lettera e mi duole che forse ve ne
arriverà una allorché sarò partito: spero almeno che non vi sarà nulla di premuroso
altrimenti adesso non saprei neppure dove dovrei invitarti a ripetermene il contenuto.
Eccone la ragione. Per la stessa occasione di Baruzzi io mandai a Fossombrone una lettera
a Torricelli per avvisarlo che dentro il mese corrente sarei andato a trovarlo, riservandomi
a dargliene più precisa notizia circa al giorno in cui sarei arrivato, allorché fossi sulle
mosse di partire da Milano oppure appena arrivato a Bologna. Difatti oggi stesso mi
disponeva a fargli la promessa partecipazione; ma che! andando alla posta — per cercare
tue lettere ne ho trovata invece una di lui che mi scrive da Firenze dove si trova — per suoi
affari: e dai brevi termini della sua lettera arguisco che neppure può avere avuto quel mio
foglio spintogli per Baruzzi. Ecco dunque variato tutto l’ordine del mio viaggio: e ti
assicuro che qui su due piedi, stando a momenti per partire, non posso prendere nessuna
risoluzione che in progresso di viaggio non mi vedessi in necessità di cambiare. Passerò
pel Furlo? passerò per la Marca? passerò per la Toscana? In poche ore che mi rimangono a
restar qui e affollatissime non ho agio di poter risolvere con sicurezza. Tu dunque dove mi
scriverai? Per ora sospendi tutto. Da Bologna ti darò più precisi dettagli e allora ti regolerai
sopra quelli. È una fatalità, ma, cuor mio, non è mia colpa. Vado arguendo che quest’anno
ci rivedremo assai prima: tanto meglio così. Vidi il Sig. Lucchi amabilissimo, che ti saluta.
— D. Antonio partì per Marsiglia: ma mi pare che Roma gli ripasseggi per la fantasia. Di’ a
Ciro nostro che studii e sia buono altrimenti non c’è regaletto. Gli ho comprato una cosa
per una pezzetta di Spagna. Vedrai che vale di più: povero figlio, ci si divertirà e tu la
terrai riposta come già accadde di qualche altra cosa. Si trovava anche a Roma, ma oltre
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che vi sarebbe costata di più, i regali che vengono di fuori sono più graditi. Saluti di qui, e
saluti per costì. Ti abbraccio di tutto cuore. Il tuo P.
LETTERA 106.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Bologna, lunedì 19 ottobre 1829
Mia cara Mariuccia
Son qui da sabato in ottima salute. Ma quel benedetto Baruzzi è curioso! Mi disse che
eccettuati due giorni di dimora in Imola, veniva direttamente a Roma col corriere, e oggi
ho saputo che cinque giorni fa era ancor qui. Chi sa se arriva a Roma nemmeno per
novembre! Mi ebbe poi bene avvertito Frecavalli di qualche di lui ritardo in viaggio, ma
non credevo mai tanto. — Il vivo dispiacere di mancare in tanto tempo di nuove tue, di
Ciro, e della casa mi è pure ieri stato di qualche momento alleviato dal Curiale Deangelis il
quale mi dice che partì da Roma il 3, e che tre giorni avanti era stato da te senza trovarti in
casa. A buon conto dunque so qualche cosa indirettamente di te sino al fine di settembre.
Spero pertanto che da quell’epoca al giorno d’oggi nulla ti sia accaduto di sinistro. La
posta per Roma parte oggi alle 3 pomeridiane, e alle 5 arriva quella di Milano. Smanio che
arrivino dunque le 5 per vedere se Moraglia mi abbia spedito qualche tua ivi arrivata dopo
la mia partenza da quella città.
Sto qui aspettando Torricelli che deve arrivare da Firenze nella settimana.
Arrivandoti la presente giovedì 22 in ora che tu possa aver tempo di rispondere azzarda
una linea all’indirizzo di Bologna in cui tu mi dica queste sole parole: noi stiamo tutti bene
addio. E tanto dico azzarda un sol rigo, in quanto che conosco che quantunque ti riescisse
di rispondermi in pronto corso, pure la tua lettera non giungerebbe qui che domenica 28,
nel qual giorno io non so se potrò più trovarmi in questa Città; nel qual caso sarà minor
male che vi resti una lettera che ti sia costata la minor fatica possibile. Tuttociò poi che
devi dirmi di esteso, scrivilo sabato 27 e indirizza la lettera, senz’altro ricapito, a Fano,
dove io passerò o vada o no a Fossombrone. Vedi quanta confusione produce questo
incaglio di tue lettere per un mese, motivo per cui sperando io d’ordinario in ordinario di
riceverne, mi fuggì l’opportunità di avvisarti in tempo il mio itinerario, al che si è poi
aggiunta la improvvisa mutazione di esso per la repentina notizia della dimora di
Torricelli. Mariuccia mia, da me non dipende il non aver fatto di meglio. — Intanto sappi
che con Deangelis non ho parlato di nulla, perché mentre io pranzava nella trattoria di una
locanda, egli passò colla valigia per andar su nella stanza destinatagli, essendo arrivato in
quel punto. Mi disse due parole e poi seguì il facchino. Allora non volli disturbarlo:
stamattina non l’ho trovato quando sono andato alla sua locanda a cercarlo. — Un bacio a
Ciro. Cento a te. Il tuo P.
LETTERA 107.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Bologna, venerdì 23 ottobre 1829
Mia cara Mariuccia
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Brava Mariuccia mia: hai pensato benissimo; e la tua lettera mi ha trovato a Bologna.
Ti assicuro che mi ha consolato più questa tua lettera che non lo avrebbe fatto un terno; mi
ripongo in tranquillità dopo tanto tempo di mancanza di tue nuove; mentre è certo che
dalla tua del 15 settembre nulla più ebbi, né mai vidi quel Sig. Gamorra. — Non so come
tu abbia ad inculcarmi di passare da Terni, mentre questa è cosa che io faccio tutti gli anni,
e parmi già noto fra noi che lo avrei praticato nell’anno corrente. Ti sembrerebbe forse che
io potessi chiuder gli occhi alla urgenza degli affari di casa quando riguardano te e Ciro? A
me penserei meno. Se la Cuccoma non minchiona io partirò di qui lunedì 26, e mi tratterrò
una giornata in Pesaro per vedere il Sig. Andreatini, e un altro giorno a Fano onde
trovarmi allo spaccio delle lettere in caso che ve ne sia una tua. Torricelli non può per ora
lasciare Firenze. Vorrebbe ad ogni costo che io lo rappresentassi come dice egli in casa sua
perfino che egli tornasse; ma io gli ho risposto che per ogni riguardo non credo bene di
andare dove manca il padrone. Dunque tirerò di lungo, in modo che fra i Morti e S. Carlo
conto di essere in Terni. — Ricevo grandi favori dal Dottor Mazza che ti saluta con
Scarabelli; e ambidue abbracciano Ciro. Dunque il nostro Cirone ancora non vuole studiar
bene? Non dubitare, Mariuccia mia, che arriverà a tempo quanto ogni altro. Intanto però
convengo che si debba stargli sopra. Ti salutano i coniugi Massari, ed i Celsi, e il Dottor
Labella che ho veduto mezz’ora fa. Ricordami agli amici e prendi un abbraccio dal tuo P.
LETTERA 108.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Fano, giovedì 29 ottobre 1829
Cara Mariuccia
Due righe, che il corriere parte. Son qui da due ore. Pesaro viene prima di Fano:
dunque ciò che mi dici dell’affare Antaldi non è in tempo; ma non lo sarebbe stato
neppure prima perché quantunque avessi fin da Bologna avvisato Andreatini del mio
passaggio, egli non ebbe la mia lettera essendo da varii giorni assente da Pesaro e per varii
altri giorni lo sarà. La moglie e i giovani di studio ignorano tutto. Da Antaldi non andai,
perché non avendo potuto sapere da Andreatini lo stato dell’affare temei di
compromettermi in qualche punto da me ignorato. — Prendo delle intelligenze colla
Marcolini (da cui pranzo oggi, e che è gravida, e ti saluta) perché potendo ritirare in tempo
le carte da Pesaro le porti ella stessa a Roma per dove parte di qui il 4 di Novembre: in
caso contrario ci penserà l’avvocato Cadabene. — La Battaglini ti saluta, e ti loda del bel
contratto fatto con Piombino. La famiglia Borgogelli è in campagna: l’altra dell’abate non
lo so. — Baci mille a te, e a Ciro. — Se io trovo vettura parto domani: se no appena la
trovo. Scrivo con le penne della Battaglini... dunque...
Il tuo P.
La Marcolini sarà a Roma il 7 e va ad abitare tra la Stamperia camerale e i SS. Angeli
custodi in casa di un certo Bellini.
LETTERA 109.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
99
Lettera sigillata a sigillo la mattina del
sabato vigilia di tutti i Santi dell’anno
1829, a mezzodì.
Cara Mariuccia
La vettura fu trovata appunto la stessa sera in cui ti scrissi l’ultima mia. Partii
dunque da Fano la mattina di ieri Venerdì 30, e giungerò a Terni verso il mezzodì del
lunedì 2, appunto nel momento in cui il portalettere ti ricapiterà questa mia. Già per lettera
ho avvisato il Sig. Pietro Spada di Cesi, onde avanzar tempo. Ti ripeto quel che ti dissi,
cioè di aver preso bene dei concerti fra la Marcolini e l’avv. Cadabene sul ritiro e l’invio a
Roma delle carte Antaldi. Se giungeranno in tempo a Fano prima della partenza della
Marcolini, le porterà ella stessa. Nella combinazione attuale non ho potuto far di meglio.
— Trovai nella vettura sei orzaroli. Gli orzaroli mi perseguitano! Uno mi sedeva accanto,
tre incontro, e due in serpa. Ma a Fossombrone, primo rinfresco a 15 miglia da Fano,
passai in altra vettura con 4 gesuiti. Ora vado facendomi santo sino a Terni. Dico rosarii,
ufizi di tutte le razze, litanie, deprofundis, salmi penitenziali, giaculatorie. Se fosse un frate
solo, alzerei un poco la testa; ma contro quattro, un solo secolare ha brutto giuoco. Dunque
mi adatto di buona grazia alle circostanze, e faccio buon viso. Nelle ore poi di ricreazione o
narriamo tutti e cinque a vicenda dei belli esempii edificanti che io per la parte mia
m’invento, ovvero io leggo dei bei libri di orazione alla latina intitolati Dies Sacra, che i
buoni gesuiti mi hanno offerto per divertirmi in grazia di Dio. — Ho con me un certo mio
povero libretto non scritto dal diavolo ma neppure dall’angiolo Gabriello: ma figurati, non
ha più faccia di comparire, e riposa nel sacco sino a nuov’ordine. — Sai che dicono per la
locanda? Ih! guarda che bel giovanotto si portano a Roma i gesuiti per novizio. Ecco la prima
parola di vanità che da ieri mattina mi è uscita di bocca: sia detta però in semplice via di
relazione de verbo alieno.
Tanti baci a Ciro e la benedizione. — A te mille abbracci.
Il tuo P.
Cristaldi non è più lui. Ricci forse anch’egli. Mattei... ma chi glielo dice? Dunque
quest’anno senza dubbio si va in dogana.
LETTERA 110.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 4 novembre 1829
Mia cara Mariuccia
Ricevo la tua di ieri. — Gli Sc. 25 di Silvestro sono già in mie mani: così gli altri Sc. 15
del fratello Francesco Diomede. Circa alle altre riscossioni periodiche non manca che De
Sanctis e Peppino. Il dare di De Sanctis per frutti del censo è di paoli i quali al ritiro
prossimo del capital di Sc. 28 gli si dovranno abbuonare in diffalco della rata comodi non
concessagli mai dall’ab. Conti sin dal principio della legge che la prescrisse. Ho poi detto
prossimo ritiro del Capitale perchè il Maggiore Marco Setacci sicurtà del De Sanctis è attuale
amministratore di certi fondi spettanti alla eredità del suddetto, dimodoché è suo interesse
di ritenere la somma per la estinzione di un debito che graverebbe anche lui. Mi ha
dunque giurato che ne’ primi mesi del 1830 questo affare sarà terminato. — Con Peppino
100
non ho ancora fatto i conti, ma temo anche io che pel saldo delle somme dovute da lui si
dovrà accordargli qualche poco d’indugio. Cosa faresti se non paga ora? Lo vorresti citare
quando non lo abbiamo citato per emergenze più serie?
L’affare Cardinali prende sotto il mandato che si può prendere da un momento
all’altro. Egli ora si raccomanda perché lo aspettiamo fino a che si purifichi il vino della
recente raccolta, lo che accaduto promette di vendere subito e pagarci. Io voglio fargli il
progetto di prendere invece la entrante quantità di vino da vendersi piuttosto a nostro
conto, onde sollecitare la cosa e prevenire il caso che il contadinaccio si venda il chiaro e il
torbido e si mangi i quattrini. Se egli accudisce al progetto la cosa è fatta: se ricusa, è
indizio di frode futura; e allora ordino la estrazione del mandato che vorrei eseguire sul
med.° vino anziché sul terreno, giacché le esecuzioni sui fondi sono algebra ed espongono
spesso al meno che sia al pericolo di dovergli aggiudicare il fondo colla rifaz.e del di più
del valore, lo che nel caso nostro, stante le modicità del nostro credito, ci darebbe da fare.
Ma pare che il vino non lo tenga a casa sua, né so se riusciremo nello stratagemma di
andare ad assaggiarlo per iscoprire dove si trova. Basta, sta tranquilla: Cardinali non è
attualmente in Terni, andando in giro per le fiere con la polvere da caccia: se lo vedrò ci
parlerò io: se no, lascierò le cose istruite al Peppino.
Il danaro del compratore del terreno Pelucca, il danaro cioè che noi sequestrammo è
già depositato in mano del negoziante Camilli. Vi sono altri sequestri contemporanei al
nostro, ma pare certo che ne avanzi per quietar tutti. Si anderà avanti colle citazioni
declarari et consignari, se bene ho ripetuto questi gerghi forensi. Quando i Pelucca
andassero in Segnatura, ciò sarebbe sempre avanti l’uditore e non in pieno tribunale stante
la bassezza della somma: e questo rifugio del debitore svanirebbe mercé pochi altri scudi
di spesa e poco altro tempo di indugio.
Oggi dopo pranzo, se non pioverà, salirò a Miranda per vedere il terreno Valle
Caprina. Voglio un poco vedere se si può preparare un affitto per la scadenza della
Colonia che succederà al prossimo Marzo. Certo è però che quell’oliveto è mal situato.
Pare intanto che per quest’anno dovrà produrre circa le 5 some d’olio, due e mezzo delle
quali toccherebbero a noi. Vi è per tutto una grande abondanza di olive, e l’olio abbassa il
prezzo. Il tempo però è crudo assai; e se gela addio abondanza.
La proposizione di Pietro Spada è quella stessa che rifiutammo anni addietro,
l’acquisto cioè della Caprareccia. Ho tornato a rispondergli che la Caprareccia è la dote del
resto, e distratta sola pregiudica in pregio gli altri terreni. Babocci ha qualche speranza di
condurre il Monastero di Cesi ad impiegare nell’acquisto di que’ fondi certe somme che va
ad incassare fra non molto tempo. Io l’ho impegnato ad occuparsene.
Venerdì dovrebbe di qui passare la famiglia Marcolini per essere a Roma o sabato o
domenica, purché il Conte sempre afflussionato abbia potuto partire oggi da Fano com’era
stabilito. Allora sentirò se portano loro le carte Antaldi. Mi dissero a Fossombrone che se
non si combina con la Marchesa Antaldi stiamo male perchè il Marchese Antaldi non ha
più niente del suo. Sarebbe una bella buggiancata anche questa!
Del lasciapassare alla finfine m’importa sino ad un certo punto; dunque ti ringrazio,
ma non ti dar troppa pena. Lo vedi che D. Antonio aveva per la testa Roma? Proprio
proprio ho gran piacere del di lui ritorno, e salutatemelo tanto tanto tanto. — La vivacità
di Ciro nostro mi dà poco paura. Lascia fare al tempo. Qualche poco di disturbo ce lo darà,
ma paura non deve darla. Ciro, Mariuccia mia, verrà un brav’uomo. — A Spoleto vidi
Uguccioni che ti saluta. Hai riso sui Gesuiti miei compagni? cioè, il Cielo me lo perdoni,
hai riso sui fatti che accaddero fra noi? Questa lettera è già troppo piena, ma nel venturo
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spero dirti qualche altra cosetta ancor ella curiosa. — Vorrei far sì che per la sera di Martedì
10 io fossi a Roma. Addio, cara Mariuccia mia, abbraccio te e Ciro, e saluto gli altri.
Il tuo P.
LETTERA 111.
A GIOVANNI BATTISTA MAMBOR — ROMA
[1829]
Sia ammazzataccio tutti li gargantacci fracichi che accimenteno li poveri fijji de
madre che nun danno fastidio a gnisuno. Ma varda sì che bella legge de canaccio arinegato
che ce vorrebbe lo spadone de San Paolo prima arremita ce vorrebbe, pe’ fragneje
l’animaccia drento in de la merda a ste carogne de gente ciovile che vonno parlà cor quinni
e’r quinnici e cor ciovè, e poi, Cristo pe le case, te sbrodoleno giù certe azzione che nun le
faria nemmanco er boja che se l’impicchi a quanti che so, ste crape che strilleno Roma e
Toma e ce batteno de cassa, e rugheno come cagnacci de macello; e poi ch’edè? Si sentono
un rogito de somaro fanno a fugge pe lo scacarcio. Sentime, Titta, primo de mo te tienevo
in condizione de giuvenotto de monno, ma mo te sbaratto pe’ carogna quant’è vero la
Madonna Santissima che nemmanco semo indegni d’anominalla. Come, sangue de mi
padre! Malappena me dicheno: Moà, Peppe, lo sai de chi è la festa oggi? — No, de chi? — De
Titta Marmoro. — e io do de guanto a la penna, che accidentaccio quanno che l’ho pijjiata in
mano, che averebbe avuto in cammio da maneggià er cortelluccio. Me viè lo sgaribbizzo
de stennete sur un sonetto da Dante Argeri, e poi te manno a scrive ’na lettera de discurso
de sagnatario liquida nus fragnete come brodo di trippa pe aringretatte de la povesia che
m’è amancato er tempo de misuralla; me metto le cianche in collo, e m’ariscallo er fedigo e
tutti l’intestibili pe arrivà ar portoncino tuo, prima che quella paciocca de tu sorella me lo
sbattessi in der grugno; l’arrivo dereto, je l’appoggio; je dico de famme l’obbrigazione
d’acconsegnallo ar Sor Titta che se pulisce er culo co la man dritta; e tutte ste graziosità che
ecquine! E tu panzaccia de vermini d’un porcaccio da va affogato drento a un pantano de
piscio de somaro piagoso de porta Leone, me vienghi a risardà cor lanzo balordo de le
millanta grazie e antrettante quarantine, pe’ buttamme insinente l’imprecazione de famme
crepà in sanitate rospite d’er prossimo mio comm’e’tte stesso a li quinnici de st’antra
settimana eh? Accidenti, va’, si nun pregassi er Signore, ch’è tanto misericordioso, de fatte
sciojje er bellicolo a te. E che fa che nun caschi de faccia avanti proprio mo? — Sentime
Titta: San Giovanni nun vo tracagna; e tie’ all’ammente ste parole mia: nemmanco er
sommo pontefice Pio Ottavio co la stora e la mitria; e er capitan Pifero co’ li suoi suizzori co
le guainelle fatte a pisilonne; e er Cardinal Ruzzela cor vigereggente, e li palafragneri, e li
scopatori, e Monsignor Governatore co quer negozio c’arinfresca le chiappe, e tutti li
cristiani e l’aretichi der monno cattolico me poderebbero tienè che si te trovo p’er vicoletto
nun te mettessi un deto in bocca e un antro ner persichino pe famme de te un manicotto
cor pelo indove sì e indove no, pe er tempo d’er rifriggerio; e accusì imparerai a avè un
tantino più d’ingratitudine a chi te fa bene; che già come dice quello? Lava la testa ar
somaro, ce perdi la lescia e er sapone; fa’ carezze all’orzo, e chiamerai soccorzo; giuca co li
cardi, e te n’accorgerai presto o tardi; gratta la rogna ar mulo, e te paga a carci in culo. E
mica me l’invento io sti fonnamenti che cquine, sai? Va’ a sguerciatte in ner Tasso
Bardasso e te li troverai drento in ner parafrigo de
Intratanto Arminia in vallombrose piante
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D’antica sèrva d’er cavallo ascorta
T’ho vorsuto fa tutta sta chiacchierata pe fatte vede che nun semo carogne ’na
buggiarata, e che sto pezzo de carne ce sta be’ in de la bocca come a querchidunantro. De
restante io nun tiengo er dente avvelenato co gnisuno, e fa conto che ste cose te l’abbi ditte
come ceci bianchi spassatempo. Si vo’ fa pace, vie’ stasera da Manfredonio a li tre scalini, che
c’è un vinetto badialaccio de tre fichi la baggiarola ch’arifiata li vivi e li morti ammenne. Ce
troverai Caterina la guercia, Luscia la santola, Rosa ficamoscia, Nunziatella de li Bordati
de Sora, Giartruda Ciancarella, la mojje d’er froscio, la Cicoriara de ponte rotto, la
peracottara de li paini, la fijja zitella de Salataccia, Tribuzzia la sediara d’er catichisimo,
Menica la bagarinella de Mercato, Nanna quattrochiappe, e Agnesa mia quella che je
dicheno: quanto sei bona. — E poi ce viengheno lo Stracciaroletto de Borgo, er tornitore de
San Mautte, Gurgumella, Panzella, Rinzo, Chiodo, Roscio, Cacaritto, Puntattacchi,
Dograzzia, Bebberebbè, Napugliello, Cacasangue, Codone, Magnamerda, Panzanera, er
cechetto de le quarantora, Feliscetto d’er mannolino, er cavarcante de Guidoni, er mozzo
Russio d’er principe Cacarini, er cammoriere d’Artemisis, er Maniscarco de la linia,
Galluzzo er baffutello de Monte Brianzo, er Rigattiere de la pulinara, er barbieretto de San
Tomasso imperiore, lo spennitore de Palazzo, Grespigno lo scarpinello de la Subburra, li
du’ chirichi de San Neo e Tacchineo, Pazziani lo spazzino e er cerusico Campanile a
braccetto.
Lì facemo bardoria, cantamo li ritornelli, je la toccamo co la tarantella, bevemo quer
goccio, facemo le passatelle, ballamo er sartarello, tastamo er sedici a quelle paciocche:
insoma ce divertimo senza l’offesa der Signore. Dunque viecce si ce voi vienì; e si nun ce
voi vienì, cocete in dell’acqua tua come li spinaci.
LETTERA 112.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Pesaro, sabato 15 maggio 1830
Mia cara Mariuccia
Appena parlato con me, mercoledì 12, l’Avvocato Bottoni dovette andare a Fano, e
questa mattina ritorna. Però non si è potuto parlare della minuta che ti annunziai nella mia
antecedente.
In mancanza di affari ti racconterò alla buona un fattarello affinché tu che ami
trattenerti in discorsi di nuove, trovi in questa mia lettera un poco di pascolo alla tua
inclinazione.
Cominceremo col dire che per la crescente civiltà del nostro povero secolo, non v’ha
più asino, per somaro che sia, che non istudii oggimai come un cane, per lasciarsi addietro
i suoi emuli nella carriera delle lettere dell’alfabeto. Così ogni onesto spacciatore di caffè in
tazze, il quale non ami la sua bottega convertita in un deserto della Tebaide, deve
procacciarsi al meno uno zibaldone o alla peggio un Courier des Dames, pronti uno e l’altro a
pascere i faticosi ozii dell’erudito avventore bisognoso di assaporare con pausa il suo
bicchier d’acqua. — Dietro tali principii, il Caffettiere de’ Nobili di questa città, Nunzio
Righetti, pensando come soddisfare all’uopo, senza pagare ai ministri della posta
pontificia i soliti beveraggi di agenzia, pregò un suo amorevole cliente, Banchiere della
Ripa, ebreo, onde alcuno de’ di lui corrispondenti di Milano lo associasse direttamente a
certo foglio periodico. Scrisse il fedele israelita al confratello cristiano, pubblicani
103
entrambi, e gli commise di oprar sì che il Sig. Nunzio Righetti venisse inscritto nell’Albo di
tanti altri benemeriti della letteratura. Giunto il tempo di venire la prima spedizione, la
prima spedizione arrivò, puntuale come il giorno delle Ceneri appresso all’ultimo di
Carnevale. Arrivò, dico, e si vide rispettosamente diretta «A SUA ECCELLENZA R.ma
MONSIG.re RIGHETTI NUNZIO APO.co IN PESARO». — Il caro Direttore della posta,
che aveva le sue buone ragioni per dichiarare ad ogni modo scismatica quella disgraziata
gazzetta, letto appena l’indirizzo scandaloso, pensò di coalizzare uno contextu il lucro
cessante delle sue tasche col danno emergente della dignità prelatizia: e poiché alle
generose risoluzioni non va dato tempo di raffreddarsi, preso fra mani il corpo dei due
peccati salì di corsa all’uficio del collega Sig. f.f. di Direttore di pulizia, che c’entrava come
il Gloria nella messa di requie. In quale altro modo doveva andare la faccenda? Le lacune
di una stampata cedola intimatoria, buona tanto al sesso mascolino che al feminino, furono
tosto riempiute a penna da uno scriba di genere neutro; e dopo un’ora appena, il Nunzio
di conio lombardo stava già avanti al suo giudice per essere degradato. — Dite un po’,
temerario, da quando in quà siete voi Nunzio? — Da trent’anni, otto mesi e sei giorni,
Eccellenza. — Chi vi ci ha fatto? — Il padre Curato del Duomo, Sig. Direttore. — Recitate
voi l’imbecille? — Perdoni: avanti a V.E. non mi sarebbe possibile. — Volete dirmi
un’ingiuria? — Non glie la voglio dire. —Dunque voi vi spacciate all’estero per Nunzio
Apostolico? — Veramente io mi spaccio per Nunzio Righetti, e quell’Apostolico sarà
probabilmente un titolo disertore della corte Austriaca; poiché vorrei aver l’onore di
morire qui addosso a S.E. se ho mai avuto pel capo altri apostolati che quello di predicare
indegnamente la gloria delle mie bevande calde e fredde, e di bandire la riputazione delle
mie marmellate. — Ma dunque quella Ecc.za Rev.ma come vi si è ella appiccata? — Senza
merito mio, Eccellenza, e poco più poco meno come si appiccano de’ cordoni rossi e delle
sciarpe turchine a tanti petti indegni forse di chiudere un cuore anche da caffettiere e da
tripparolo. — Siete un impertinente. — Sig. Direttore, mi armonizzo per non far
dissonanze.
Il Sig. f.f., buon dilettante di chitarra francese, intese subito la malignità del frizzo; e
mi duole dover ripetere tre parole lubriche nelle quali a quel punto proruppe. Ma a storico
fedele disconviene meno una oscenità che una negligenza. —Cazzus! esclamò dunque il
Sig. faciente-funzioni, fottetemi in profosso questa carogna.
Con tutto ciò, intorno al vocabolo Carogna, non debbo dissimulare a discarico del
Magistrato, che le opinioni dei filologi non vanno d’accordo: poiché se da un canto è vero
che un dignitario di Roma vietò un giorno a me stesso che col ministero di quella voce io
potessi indicare onestamente pure un asino morto, chi non ricorda dall’altro la purità, il
candore, e la eleganza con che il piissimo Cesari di cruschevole memoria chiamò Divina
Carogna, il Sacrosanto Corpo di Cristo? — Era la quistione a tai termini, quando il
Circonciso, fatto avvisato dell’abbaglio del gazzettiere e del pericolo di Monsignore,
comparve col copia-lettere sotto il braccio a difendere per acta et probata la innocenza del
Nunzio. L’onesto Giudeo, possessore in giro di Banca e in metallici per circa un milione,
doveva chiarire ogni dubbio con somma facilità.
E così fu. Solo si vuole, che il Caffettiere, al consueto fornimento dei dessert mosaici,
si obbligasse per articolo segreto di aggiungere un’appendice in servigio de’ politici e degli
Epistolarii, al prezzo da liquidarsi colle differenze delle dignità e delle sportule hinc inde.
Avvisato quindi l’editor Milanese del grancio, il Caffettiere rimase e rimane in pace a
costruire i pasticci. — Buono per me intanto che il Sig. f.f. è andato a riunirsi a’ suoi
antenati!
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Questi f.f. sono lettere assai ficcanaso: ed altronde un abile poliziaco deve sapere
anche quello che ignora, nella stessa guisa che un’onesta spia dice la verità fino
allorquando mentisce.
Siamo al solito giuoco del corriere. Se arriva in tempo, aggiungo: altrimenti abbraccio
te, abbraccio Ciro, saluto gli amici, e spedisco.
Il tuo P.
Mi arriva la tua di giovedì 13. La scorro con l’occhio, e vedo che tra questa mia e le
precedenti ho esaurito quanto potrei qui solo ripeterti. Solamente ti aggiungo che vidi
giovedì il Corriere Belli che ti portava le carte da giuoco. Da lui avrai avuto le mie notizie
orali. Ti abbraccio nuovamente con Ciro.
LETTERA 113.
ALLA MARCHESA VINCENZA ROBERTI — MORROVALLE
[Da Pesaro, 8 giugno 1830]
... È vero, il tempo non è mai lungo, e la regolarità abbrevia tutto. Oltre a ciò, le
medesime occupazioni ogni giorno ripetute dietro la guida del dovere e sotto lo stimolo
delle affezioni domestiche acquistano ben presto ne’ cuori bennati un genere di dolcezza
che vanamente si cercherebbe fuori delle virtuose abitudini. La stessa monotonia de’
luoghi diviene per noi allora una particolare sorgente di piacere. In ogni oggetto crediamo
di riconoscere un testimonio delle nostre azioni lodevoli, e un compagno fidato delle care
emozioni che ci premiarono l’anima al compimento di quelle. Chi troppo cambia di
esercizi e di stanza, educa i suoi pensieri al desiderio, i desideri alla cupidità, la cupidità
all’intemperanza; e così da sensazioni soverchiamente variate ed attive, esce finalmente il
mal frutto della trista indifferenza e del tedio tormentoso. Al contrario in un ritiro
tranquillo, in un ritorno continuo d’idee sperimentate, l’uomo moderato raccoglie la
propria imaginazione in se stesso, e la impiega ad esaminare meglio le risorse ed il fine
della esistenza. Famigliarizzato ogni dì più con que’ suoni, con que’ colori, con quelle
forme, con quelle fisionomie del giorno precedente, si ritrova in costante accordo con loro,
e fingendosi del resto un mondo a suo modo, lo accomoda facilmente alle modificazioni
del suo spirito. Quando le passioni dell’uomo ristretto dentro un circolo angusto di terra si
celano alla onnipotenza dei casi, il di lui cuore trova nell’ozio di esse quella placida
spensieratezza che ne deriva i benefici elementi della felicità. E quando la mente di lui,
affrancata dall’esterne distrazioni, conservi la libertà di se stessa, può allora conoscere
l’intenzione della natura, seguirne le leggi, adoperarne i soccorsi, ad aspettare in pace
dalla di lei fedeltà l’adempimento delle speranze della vita.
Per dirvi ora due parole di me vi assicuro che al punto della vita a cui sono,
cominciano già assai a potere su di me i pensieri di riposo, di semplicità e di futura
consolazione. La vita umana, oltrepassato di poco il suo mezzo, non si compone più che di
reminiscenze, le speranze e i progetti periscono in un fascio appena la mano fredda del
tempo ne addita la tardità in ogni nuova intrapresa. Senz’altro avviene che di un dolore
esasperato ogni dì più dall’idea della distruzione che si avvicina, la virilità precipita nella
vecchiezza, e guai, guai a que’ vecchi che non si saranno preparati di buon’ora una riserva
di conforto! Schivati nell’universo, espulsi dirò quasi dal posto che occupano nella società,
costretti a cedere vigore, bellezza, salute, carezze a chi gl’incalza senza posa alcuna, essi
rivolgonsi indietro aridi e afflitti spettatori degli altrui godimenti, a cui non è più loro
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lecito aspirare. La gioventù, oltre all’allegrezza sua propria, può trovare de’ piaceri
dovunque, e fino negli stessi difetti degli uomini; laddove la vecchiezza sfortunata non
può rifugiarsi che nelle loro scarse virtù; al giovane è sempre aperto il gran teatro delle
illusioni a traverso alle quali i contemporanei si offrono a lui; pel vecchio non rimangono
che le risorse della realtà, quasi tutte pur troppo dure e desolanti. L’anima sua s’inasprisce,
e i suoi difetti non più velati da alcun’apparenza di amabilità, lo abbandonano al solo
conforto della pazienza e della compassione. Per risparmiarmi pertanto al possibile la
umiliazione di que’ generosi sentimenti, io penso di fabbricarmi una felicità domestica,
una felicità tutta indipendente dalle vicende del mondo; e ringrazio la Provvidenza che mi
abbia concesso un piccolo amico, il quale, ricordevole forse un giorno dei diritti acquistati
dalle mie cure alla sua riconoscenza, mi amerà, spero senza le viste interessate della
personalità. Ancor io, dunque, se potessi, sceglierei asilo in un angolo ignorato di terra,
dove l’elezione congiunta con la necessità mi abituassero poi grado a grado a far di meno
di agi di strepito, di varietà, di appetiti, di gloria, di tutto ciò insomma che aggirandosi
nell’eterno vortice delle cose peribili, ci vieta di pensare a noi stessi. L’amicizia di un mio
figlio, e quella al più di un altro compagno che io avessi incontrato per la strada solitaria
scelta per mio viaggio all’eternità, potrebbero bastarmi per dire: Ecco una vita che finirà
senza rammarico...
LETTERA 114.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
D’in sull’Isauro, il giorno de’
SS. Giovanni e Paolo M.M.
[26 giugno 1830]
Caro Checco
Sono molti giorni trascorsi dacché io doveva e voleva rispondere alla tua giunta,
venutami nel riscontro del Sig. Biagini, il quale si azzarda a scrivermi su carta intonsa!
Questo lusso incivile non ancora dai libri si era esteso ai pistolarii.
Tanto ti dico e basta:
Il resto lo saprai nella catasta.
(Chiari)
Tenerissimo l’epitaffio per la cara defunta! Parmi che già da lungo tempo meditandolo
tra me ne facessi lettura. Ti ringrazio ora di questo dolore, che mi è piaciuto di rinnovare.
Ma guarda che orecchiaccio egli è il mio! E non mi si è ficcato mo in capo che il volle fare
del titolo avrebbe giovato meglio alla malinconia posto prima di Della sorella sua?
È una mia incaponatura (badiamo alla p.); ma questo vuol dire avere una testa.
Bell’essere acefalo.
Ho mandato incartati a Torricelli i saluti tuoi e quelli del Sig. Domenico Cianca, pel
quale ho pure riverito il conte Cassi. Torricelli poi vi rifà salutati (come Coluccio) entrambi.
E già che siamo sulle spalle del Cianca, calchiamole un’altra volta, e poi basta. Digli
così: il gran Padre Destino ha dato un’accettata sulla corda che doveva legare Gazzani e la
Ducrò. Quella si è spezzata e questi se ne sono portati un pezzo per uno. Silenzio tanto
sulla corda che si fabbricava quanto sul taglio che l’ha troncata. Se ne parlerà a suo tempo.
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E voi che diavolo v’impasticciate di nuove, di passione e di gazzette? Faccio quello
che mi pare, disse figurino. — De’ nostri progetti parleremo meglio a voce: spero presto.
Auguro davvero di cuore un ristabilimento a quella povera Erminiuccia! Abbracciami
Peppe, e il buono... no, ottimo Giorgieri.
Ma eh? Povero Giorgio IV! ad uso di ricetta. —
Ed ora avremo forse un recipe Guilhelm pro usu. Pillola dura! E il Lord Wellintone, che
farà? —
Oh pure i grandi romori nel gabinetto di Queluz!
La Porta si sganghera. Santa-Fé gronda: Gallia arde. A Buenos Ayres tira aria cattiva.
Megico dà in ciampanelle: Don Fernando cogliona i figli maschi di S. Luigi: Dante Algeri
prepara una tragicommedia cum notis variorum. S. Nicholaosko piglia Armeni in Salviano,
se non li compera a sconto di pigione. Intanto le nuove elezioni oltre-monte si affrettano; i
Dipartimenti bestemmiano per carità; e il Ministero cerca di lavorarli alla Polignacca.
Lauda finem.
Tanto ti aggiungo e basta:
Il resto lo saprai nella catasta.
(aut. cit.)
Ecco, c……..!, come si sviscera il Mondo!
Spero di partire di qui tra pochissimi giorni. —
Mettiti sulla porta, e quando passano amici, fa loro un baciamano per me.
Ma quel P.L., p.e. o ex gr? Scrive, canta e stampa, che l’andrà bene? Veramente questa
la indovinerebbe anche Giona che non dava sempre nel segno. Oh buon Cavalierino! In
Africa avrebbe ragione Maometto; e la profezia prudente rivolterebbe la testa. Tutto il
vaticinio è infiammato dallo spiro di Domus-aurea. Ma se poi si apre la foederis-arca che
qualche altro profeta minaccia? Allora... ma perché si ha da aprire? Lasciamola chiusa; e
abbracciamoci che è tempo.
Il tuo 996.
LETTERA 115.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Pesaro 13 luglio 1830 alle 10 antimeridiane
Checco mio
Bene fecisti, Caterinella. A Ferretti voglio sempre bene; e diglielo. Dunque sta meglio?
Gaudeo. — Sai? Da queste parti tutti mi dimandano che sia certo Avv. Andrea Bàrberi che
scrive circolari onde spacciare una traduzione sua del prezzo di 4 paoli. Io rispondo: è un
giudice. — Che razza di giudizii va dunque facendo degli uomini? essi rispondono: — ed
io: Uhm! — Sarà due ore un tal Piatelletti Ministro di Casa Antaldi mi ha domandato se io
conosceva Piccardi. Il Piatelletti non sa che fare del segreto lasciatogli da Piccardi in corpo.
Ed eccoti la tua lettera che mi parla di Piccardi. Lo troverò in istrada perché io parto a
mezzogiorno in diligenza. Ecco perché scrivo male; ché del resto... eh! eh! — Abbraccia te e
lo Sdiquilito
Il tuo Belli
107
LETTERA 116.
A LUIGI VIVIANI
[6 agosto 183]
Ho finalmente avuto gli elementi del metodo Jacobot, concernenti i principii
d’insegnamento universale secondo il principio della emancipazione intellettuale, da cui la
Francia e più il Belgio vanno attualmente ottenendo conquiste di dottrina assai vicine al
prodigio. Non più i processi barbari dall’incognito al cognito, ma dal manifesto all’occulto:
non il falso spirito di sintesi, fra non intesi elementi; ma la benefica ragione d’analisi
stabilita sopra idee già possedute: ecco quel che prepara nell’età nostra alle menti puerili
uno sviluppo maraviglioso di quelle facoltà che non negate dalla Natura quasi ad alcuno,
la educazione conserva in così pochi alla società defraudata. Ma io la prego di credermi:
l’opposizione completa e dirò diametrale che questa moderna scoperta presenta incontro
ad ogni vecchia pratica d’istruzione, dovrà in Roma richiamare gl’istruttori alla qualità de’
discepoli, prima che possa dare alla patria un allievo: danno, da durare ai figli e ai padri
che gli amano, finché la prepotenza del pregiudizio e dell’interesse non sarà vinta negli
educatori dalla verità e dalla filantropia.
Per me, voglio io stesso fare una prova sopra me stesso onde il mio Ciro colga il
frutto di un sistema di associazione ideologica, stato sempre consono co’ miei principii,
tanto che vado quasi orgoglioso d’averla presentito in certi miei lavori di storia, delineati
presso a poco sul disegno che oggi nel Nord si colorisce con sì bel premio di successi.
Del resto mi piacerà di sapere se la enciclopediola che ho avuto l’onore di procurarle
Le sembri almeno capace d’insinuare ne’ Suoi cari bambini le elementari nozioni delle
quali il Mondo Nuovo non permette più la ignoranza...
LETTERA 117.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, martedì 28 settembre 1830
Mia cara Mariuccia
Mentre sto aspettando la tua lettera di oggi, che il corriere di dimani mi dovrebbe
certamente recare, ti andrò dicendo due parole e sulla tua del 25 e sulle altre nostre cosette
di affari. In primo luogo ti confesso che la mancanza di tuoi caratteri nell’ordinario di
domenica scorsa mi aveva un poco sorpreso, stante la talquale importanza delle tue
risposte: ma lungi dall’attribuire il tuo silenzio a tua omissione, io lo riferiva ad impicci di
posta. E quasi fu così. Appena pranzato ieri vidi arrivarmi Gnoli correndo, il quale avendo
rifrescato a Narni era solamente di passaggio, ed aveva lasciato in piazza il legno e i suoi
tre compagni di viaggio. Da lui seppi la dimenticanza dell’impostamento, ed ebbi la tua
lettera. Uscii per riaccompagnarlo alla carrozza, e trovai la sua compagnia essere tre
curiali: Caramelli e Polidori diretti a Venezia, e Federici (quello che sposò la figlia vedova
dell’Ambrosi) incaminato a Milano. Tredici miglia lontano da Roma aveva ribaltato per un
ruotino uscito dall’asse: essi però fortunatissimi non si fecero neppure un livido, né il
legno soffrì nemmeno una graffiatura. A Civita il vetturino ebbe la nuova della morte di
un suo fratello, e qui poi ha dovuto prendere un rinforzo di cavalli. Malgrado tutto ciò i 4
viaggiatori hanno in due giorni allegramente potuto percorrere la via da Roma a Spoleto.
— Mentre io rimetteva in legno l’avv. Gnoli fra le corna di due o trecento bovi perugini
108
che passavano per Roma, eccoti un’altra vettura di passo! Chi è? È Puccinelli con tutta la
sua famiglia che va a visitare il figlio maggiore nel Collegio di Spello. E qui toccate di
mano, addii, etc. etc. Gnoli ha ritratto dal viaggio molto giovamento, e questo puoi farlo
credere con sicurezza alla moglie che mi saluterai. — Nulla ti dissi di Spoleto, non avendo
ciò merito di occuparmi. In quattro giorni ho veduto, letto, e disposto. Credo che potrà
andar bene. — Va bene dell’inscri.e Trivisani. E Deminicis non risponde! Uhm! — Circa a
Frosconi avrai comunicato la risposta a Zuccardi. Insomma, cos’è? È poi svanita la fortuna
dello zio della moglie? o che sia morto? Ma se fosse morto lasciandole bene, esse non
avrebbero abbandonato la loro benedetta Parigi. Mi confondo. — Se rivedi il Marchese
Antici salutamelo; anzi per suo mezzo vorrei (se fosse possibile) far chiedere scusa al Sig.
Honory se nell’unico momento in cui lo vidi, il bisogno del dire e del dimandare altre cose
mi fece mancare al dovere di offerirgli la società ristretta della nostra casa. Potresti per
mezzo del Marchese Antici, a tuo e mio nome, far supplire? — Le notizie di Ciro nostro mi
consolano assai. Io penso di occuparmi molto della sua vita, se Iddio prolunga la mia.
Dagli tanti baci per me; e ringrazia Stanislao. — Venendo ora all’affare con Peppino, non
credere che mentre io procuro di persuaderti pro bono pacis, io non traveda il punto vero
della ragione; ma che vuoi fare con questi cervelli duri e storti come corni? Se Fratocchi
non ti farà per la tua porz.e qualche agevolezza avremo evitato con 25 paoli un’altra
tiritera che finirebbe il giorno del giudizio. Tu sai che con altre persone e in altri affari ho
voluto e saputo sostenere il tuo diritto, ma qui mangio ad una tavola e tratto con gente
diversa, e mi parrebbe aver l’aria di un cursore sotto le cibarie, malgrado tutto lo
splendore del dritto che esercitassi. Quindi accetto con riconoscenza l’arbitrio che mi dai.
Se peraltro fosse in tempo (come credo bene) di togliere dalla procura l’espressione delle
spese del rogito di essa, potrei procurare di fare un altro tentativo per fartele risparmiare:
altrimenti lasciamo correre. — Saluta e ringrazia Pippo.
Qui piove sempre, e vi son feste d’ogni genere per la fiera di Campitello. Io non esco
mai di casa, e passeggio assai pel salone. — Ricevo la tua del giorno corrente: qui non c’è
più carta: dunque ti aggiungerò un altro mezzo foglio. Ti abbraccio di cuore.
LETTERA 118.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, venerdì 1° ottobre 1830
Mia cara Mariuccia
Avrai avuto la mia di mercoledì 29 settembre. In quest’ordinario non ho avuto tue
lettere: spero che ciò sia per aver tu mancato ieri di tempo in cui rispondere alla sudd.a
mia. Nella notte da mercoledì a giovedì alle 11 meno 10 secondi pomeridiane, si è sentito
un terremoto molto forte e ondulatorio a quanto mi parve. Io aveva cenato da mezz’ora e
stava scrivendo appunto la parola terremoto per servirmene in certo mio lavoro. Appena
chiamato rispose. Scrivo in una bottega: che penna! Ti abbraccio, e mi riporto all’ultima
mia. Sono il tuo P. Mille baci a Ciro.
LETTERA 119.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
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Di Veroli, giovedì 26 maggio 1831
Mia cara Mariuccia
Parve un destino! Non dirti neppure addio prima di partire benché fra noi ne fosse
poco prima stato parlato! Ma Publio stava alla finestra del camerino fumando; Menicuccio
andava su e giù seguitando i facchini: io in sala a far la guardia alla casa e al bagaglio che
restava tuttavia su. Quindi dovetti scendere io stesso per invigilare alla collocazione e alla
salvezza degli oggetti: allora chiamato discese anche Publio, e Menicuccio salì. In questo io
avrei dovuto ritornare su a salutarti, ma il vetturino m’intontì colla fretta e partì. A
Fontana di Trevi mi accorsi del mio mancamento, e ne mostrai gran rammarico. Publio
voleva tornare indietro, ma a me parve tardi, ed oltre a ciò cosa irregolare il ribussare alla
porta, e far rialzare Menicuccio che forse già rientrava nel letto. Tu mi avrai peraltro
aspettato, e ti sarai maravigliata del mio procedere; e se forse il moto del legno non ti
avesse avvertita della mia partenza, non avresti saputo che pensare non vedendo più
alcuno. Publio però e questi della famiglia possono essermi testimonii del rammarico che
fin qui ho sempre dimostrato del fatto. — Alle 4 uscimmo dalla porta Maggiore, cioè circa
alla levata del sole; ed all’avemaria eravamo già sotto le mura di Veroli: viaggio
felicissimo, eseguito con rapidità, interrotto da sole tre ore di rinfresco cioè due a
Valmontone, 25 miglia da Roma ed una all’osteria di Alatri, 5 miglia distante da Veroli:
viaggio, ripeto, felicissimo, in ottimo legno, con eccellente vetturino, pieno di libertà e
comodo, sotto begninissimo cielo, e sopra una lieta strada fra amene campagne. Qui ho
trovato affettuosa ospitalità, casa superba, e clima eccellente, benché ancora alquanto
freschetto. Io arrivai così leggiero come quanto partii: 60 miglia mi parvero una delle
trottate fatte da noi insieme per Roma. Sto bene, ho appetito, e odo dirmi che di ora in ora
mostro un viso più chiaro e più vivo. Miracoli, so bene, l’aria non ne fa; ma pure il
buon’animo che accompagna queste assicurazioni de’ miei ospiti mi riempie di gratitudine
e di fiducia nell’avvenire. Della festa qui celebrata martedì a sera e ieri per la...
LETTERA 120.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Veroli, martedì 7 giugno 1831
Mia cara Mariuccia
Sono al solito dispiacere, di udirti così oppressa di fatiche, delle quali quando sono
lontano non posso darti un sollievo, e quando son vicino neppure, mentre tu sempre mi
ripeti esser la nostra una barca da condursi da una sola mano: la qual cosa per dir la verità
nella massima parte la credo. Ma almeno allorché la perversità de’ tempi vorrà
permettertelo, procura di prendere qualche poco di svario. Anche qui la stagione va
strana. Allorché arrivai, trovai freddo; poi il tempo parve rivolgersi al buono: da qualche
giorno però sono tornate acque, venti e stravaganze. Intanto io sto coperto della mia lana,
e non soffro di simili variazioni. L’appetito regge e le guance pare che si rigonfino
alquanto. — Io stesso ho secondato i tuoi sproni su Publio onde fissi con la madre la mia
dozzina. Egli però soffre di una porzioncella di quella indolenza che rimprovera nel
fratello Icilio; questo non nuocendo nulladimeno alle di lui buone qualità. Ma spero che lo
farà quanto prima e te ne darà ragguaglio. Egli già non è affatto capace di dolo; perciò
solamente per tuo avviso ti faccio sapere che la vettura sin qui con tutte le spesette
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straordinarie di viaggio fu da noi due pagato a metà. Col vetturino verolano avrebbe
pagato lui avendoci affari particolari. Ma questo motivo non sussisteva più con un altro
conduttore. — Vedremo cosa saprà fare quel capo-d’opera di Vulpiani. Io credo che se egli
si approfitterà della ospitalità che noi già gli offrimmo per un mese, non ci sarà lecito di
tirarci più indietro. Dio volesse che ciò potesse contribuire a far risorgere i di lui affari
onde migliorino anche i nostri con esso. Ma particolarmente in queste circostanze di
tempi, chi sa! — Dimmi un poco: trovasti un tomo del Giraud che Publio lesse la sera
antecedente alla nostra partenza? Mariuccia mia da’ mille baci a Ciro nostro, e benedicilo.
Amami poi e credimi il tuo P. che ti abbraccia di cuore.
LETTERA 121.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Veroli, martedì 14 giugno 1831
Di molta soddisfazione mi sarebbe riuscito e mi riuscirà quandunque sia il vedere il
carattere del nostro caro Ciro ed in esso una prova del di lui ben essere. Ma poiché,
siccome benissimo tu dici, una lettera, per quanto breve la si voglia, egli da per sé non
potrebbe né concepirla né farla, così sono contentissimo che ciò accada allorquando la
necessaria assistenza ti resterà meno incomoda a prestargliela. Intanto abbraccialo di tutto
cuore per me. — Publio mi risponde che egli ti ha scritto nell’ordinario scorso, cioè sabato
11. Sul proposito però della mia dozzina non ha fatto fin qui nulla, e questa mattina alle
mie istanze assai premurose opponeva l’essere a me facilissimo l’offrire quello che mi
paresse secondo la proporzione del trattamento che io vedo farmisi. Il trattamento è quale
in una famiglia si può desiderare; ma che io mi avanzi a fare offerte o contrattare su ciò
che deve non solo risguardare un interesse mio personale ma la stessa mia propria
delicatezza, lo vedo oltre le forze del mio carattere. Quindi alle nuove preghiere da me
avanzategli affinché accomodi egli questo affare secondo il già convenuto concerto, mi ha
promesso che certamente lo farà, e che tu poi senza complimenti conchiuderai a piacer
tuo. Circa al Sig. Bochet, qualora dietro buona giustificazione tu avrai sborsato del denaro
al di lui raccomandato, per altrettanto di meno accetterai e pagherai l’ordine, se mai te lo
spedisse per l’intero senza prima essersi con te chiarito sui pagamenti anteriori. Io mi
ricordo assai bene che quando Vulpiani disse di voler venire a Roma, aggiunse che
avrebbe seco condotto il figlio Domenico. Per lo che la nostra offerta non avrebbe oggi
cambiato termini. — Non saresti per avventura stata un po’ troppo generosa col Dottore in
proporzione del numero delle visite? Nulladimeno non trovo a ridire su quel che hai
creduto di fare, tanto più in riguardo alla buona ed amorevole cura da lui usatami. — In
casa Falconieri è difficile che la conversazione si regga. Co’ begli anni fuggirono loro anche
tutte le belle e piacevoli cose. Pure è gente che merita molto pel loro buon cuore e la loro
costante amicizia. — Mi dispiace assai il funesto caso di Angelina, e neppure ho udito con
indifferenza la disgrazia dell’amica di Margherita, quantunque non la conoscessi. — È
certo che la pendenza Trivisani può contarsi a veglia!
Ringrazio senza fine il buono amico Stanislao del gentile paragrafo da lui aggiunto
sotto la tua lettera degli 11. Piacevoli mi riescono le cose che egli mi dice circa alla mia
salute, ed altrettanto grate le notizie del Torricelli, al quale ha sul mio conto risposto
benissimo, ed il vero. Mi sorprende però di vedere la tardanza del di lui raggiungere il
suo. M.r Delegato di Ascoli. A quest’ora lo avrei creduto partito. — Vedendo Biagini
111
salutalo tanto tanto, e dimandagli se è finita la faccenda pecuniaria con Scifoni e Marini.
Saluto tutti gli amici, e ti abbraccio con vera affezione.
Il tuo P.
LETTERA 122.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Veroli, sabato 8 giugno 1831
Non mi fa maraviglia che nel passato giovedì non avessi tu ancora alle 2 pomeridiane
ricevuto la mia del 14, n° 4, mentre sai bene che talvolta il portalettere tarda. Quel che mi
fa specie si è come giovedì tu non avessi avuto ancora la lettera che Publio mi torna ad
accertare di averti spedita la sera di sabato 11. In quella egli dice che ti dava discarico a
quel che ti doveva dire. Dentro questa stessa settimana però egli ti ha scritto un’altra volta
per mezzo del vetturale Geralico che fa ricapito a Grotta-Pinta; e in questa lettera deve
averti parlato della mia dozzina. Spero che a quest’ora ti sarà arrivato tutto. — Diverse
cose mi vanno passando per la mente riguardo agli ostacoli che tu mi dici insorti
nell’affare Corsini. Non te ne tengo ciononostante proposito, onde non pormi a fare
l’indovino. Mi duole però assai che anche questo sia venuto ad aggiungersi alle altre tue
non poche brighe. — Ciro, ripeto, lo farai scrivere quando potrai: intanto mi basta di
sapere che egli, unitamente a te, stia bene. — A Stanislao replicai nell’antecedente. — Il
Sig. Dolcibene a te cognito mi fece molte cortesi esibizioni prima della mia partenza:
profitterei della sua bontà se mi facesse venire alla prima occasione di un Conduttore di
Diligenza (diligente) tre scatolette di terra—cattù di Mondini e Marchi speziali a S. Paolo in
Bologna, delle quali una con aroma, e due senza aroma. In tutto saranno tre paoli, costando un
paolo l’una. Colla prima occasione poi che si presenterà, dopo venute da Bologna, mi farai
il piacere di mandarmele. — Mi dirai poi qualche cosa in proposito alla mia dozzina di cui
non so nulla. Spero che sarà una cosa discreta. Alla presente (se non hai cose di somma
importanza) non rispondere subito, onde rimetterci in corrente senza incrociature. Amami,
Mariuccia mia, e sta bene.
Il tuo P.
LETTERA 123.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Veroli, martedì 21 giugno 1831
Mia cara Mariuccia
Nella carissima tua di sabato 18 cominci colla mia salute, di un nulla io ti aveva detto
nella mia antecedente. Ma tu hai riflettuto benissimo: niuna nuova, buona nuova. — Publio,
oltre alla lettera ch’egli sostiene averti inviata coll’ordinario degli 11, ed oltre ancora
all’altra rimessati per via del vetturale che va a Grotta-Pinta, te ne ha scritta una terza nella
quale riepilogò tutto. Questa poi mi pare sicurissima perché andai ad impostarla io stesso
il giorno 18 insieme con la mia n° 5, la quale avrai certamente ricevuta. Ieri Publio andò a
Frosinone e torna questa sera. Là ci è stata la festa di S. Silverio Protettore della Città.
Tanto egli quanto l’amico che ve lo ha condotto colla sua carrettella volevano condurvi
112
anche me, ma tu sai se un paio di migliaia di corna di buoi e quattro migliaia di zoccoli di
cavallo sieno oggetti di chiamarmi a correre. E quando vi avrai aggiunto un fuochetto
artificiale di 20 o 30 scudi ecco tutto ciò che deve far superare l’antipatia di trovarsi in
luoghi strettissimi in mezzo a una confusione di villani. Vi andrò anch’io a Frosinone, ma a
cose quiete: tanto più che amerò di vedere Renazzi e la moglie. — Vedi che circa ai
pagamenti Bochet non accadranno incrociature, e forse questo modo di pagamento a rate
potrà, credo, riuscirti più comodo; quantunque tu mi risponderai che se il francese non ti
avvisa prima, la dilazione delle rate equivale a zero.
Sempre mi confermo che non giudicai male della certa specie di eccessività nel
pagamento del medico: e vedi che tu pure ti eri tenuta agli Sc. 44, che andavano benissimo.
E poiché non mi avevi fatto la storia della discrezione dottorale, io dovetti crederla
generosità tua. Or guarda che lappa che è quel sig. Medico! Bisogna che creda che durante
questa mia ultima malattia abbiamo vinto un terno. Nella malattia antecedente per 40
visite si contentò di Sc. 10, che tornano a bai: 25 per visita; ed ora ha portato il suo merito
sino quasi alli paoli 5 per ogni salita di scale. Bel guadagnare circa uno scudo al giorno, in
venti minuti, con una sola clientela! Per Bacco nuoce quasi più il medico che la malattia!
Se tu vuoi vedere lo specchio delle nostre ipoteche attive, va’ al credenzino del mio
lavamani, e nei vani che passano tra protocollo e protocollo troverai inserito un mezzo
foglio di carta che le comprende tutte, meno quella circa Peppino rimasta in bianco per la
indolenza invincibile di Garavita. Detto foglio, appena tu ti accosterai, ti salterà agli occhi.
Intanto però ti dico che la ipoteca a Fioravanti non esiste tanto perché l’epoca (come
apparisce dalla posizioncella che ti ho lasciato) fu privata, quanto perché non si è potuto
inscrivere neppure giudizialmente pel non essersi mai presa sentenza circa il debitore. Di
Trivisani però esiste il borderò in posiz.e, mandatomi a mia richiesta l’altr’anno da
Giacopetti che ne lo incaricai. — Ti raccomando a questo proposito la rinnovazione
imminente contro Costanzi. — Questa notte è partito di qui il tenente Onofri venuto quasi
inutilmente a far reclute in questa provincia. Dice che verrà a vederti. — In Veroli è
maritata una figlia della Valdambrini, credo quella che doveva prendere Orlandini. L’ho
veduta una volta qui in casa. Ora è in convalescenza della rosolia. Abbraccio di nuovo te e
Ciro nostro.
Il tuo P.
LETTERA 124.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Veroli, 25 giugno 1831
Mia cara Mariuccia
Rispondo alla tua de’ 23 in cui mi chiedi conto del trattamento che io qui ricevo onde
su quello e sulla soddisfazione che me ne risulta stabilire una norma circa la moderazione
o eccessività della dozzina proposta in Sc. 12 mensili. Già in altra mia io ti dissi che quello
che in una famiglia casareccia si può sperare io qui l’ottengo. Per darti però una migliore
idea delle cose entrerò un po’ meglio nel dettaglio di esse. La bontà e la premura con cui
qui sono trattato sono grandi, e anche somme, e anche diremo eccedenti, trasformandosi
assai di sovente in un assedio da far capitolare la resa senza neppur l’onore delle bandiere
spiegate. Ma che vuoi fare? L’unica che potesse qui avere una giusta idea del mondo civile
e di quanto può fare la vita riposata e paga, sarebbe la Sig.ra Nanna; ma premettiamo
113
anche in lei un certo tal quale guasto procedente dalla operosità insistente ed efficace
dell’esempio che la circonda; e se poi ci aggiungeremo in diffalco tutta la parte d’animo
che deve ella concedere ai Sagramenti, alle Chiese, alle preghiere, ai digiuni e a qualche
altra praticuccia di religione, le cure che le restano disponibili nel cervello e nel cuore
possono certo bastare e bastano a farne una eccellente madre di famiglia ed un’ottima
economa di una casa, ma non mai una donna, dai cui consigli, e previdenze e providenze
abbia a nascerne quel bell’ordine di proprietà e di comodo il quale con gli elementi qui in
casa esistenti si potrebbe sperare e ottenere. Quindi, per dire più specialmente di me, una
superba stanza piena di tele di ragno: elegantissime persiane che la furia continua dei
venti qui dominanti vuol sempre in agitazione, e in istrepito, e chiuse, per mancanza de’
necessari fermagli: dodici ampii cristalli sporchi in modo che non la vista degli oggetti
esterni, ma né anche la luce solare può quasi più avervi passaggio: un moderno
camminetto di bel marmo bianco affumicato dalle esalazioni interne del bucato del
pianterreno: un larghissimo letto dal quale escono i piedi di fuori per la sproporzione delle
misure, soffice in modo che o i detti piedi, o la testa, od i fianchi vi s’ingolfano fino agli
abissi: una nobile coperta che scopa la terra da tutte le parti: una scrivania alla moda colla
zella incozzata in più d’un luogo; due ben modellati comò, con tiratori che vogliono
chiudersi da quella parte che loro più piace: una lucerna ricolma d’olio e ridondante come
una fontana: un’altra senza boccaglie e i di cui stoppini all’improvviso ti si nascondono e ti
lasciano al buio: una tovaglia finissima sparsa di frittelle, una camera da pranzo tutta
addobbata di bel parato e di oggetti da cucina: tre gatti che si fanno pagare il loro ufficio
contro i topi a furia di saltarvi fin ne’ piatti che vi stanno davanti mille mezzi per
difendersi dalle mosche, e nulladimeno un milione di mosche per ogni palmo quadrato di
spazio: una sostanziosa cioccolata da tagliarsi a fette, una studiata minestra senza brodo e
colma di pepe o garofani, un pollo ricercato sparso da un capo all’altro di schiuma:
carbone sparso qua e là, caduto dal canestro a chi stira: un’insalata cotta, ma cotta in tanta
estensione del termine che non vi rimangono più che le fibre: un solo cucchiarino da caffè
per tutta la carovana: neppure uno sgommarello per dar la zuppa, un’acqua calda per la
barba e pei denti piena di fuliggine, o di fondi di caffè, o di grasso di pila, o di rimasugli
d’ovo sbattuto, o finalmente odorosa di fumo. Un collo di camicia col baffetto, un gilè colla
ciancicatura, un fazzoletto col bughetto rispettato. Etc. etc. etc. Il trattamento poi di cibarie
è quale la estrema scarsezza di questo paese può farlo ottenere migliore e non burlo. La
mattina cioccolata: a pranzo minestra tre cose e talora più: quindi caffè: e la sera si
ripeterebbe altrettanto ma io vado assai piano (*). Onde procurarsi però il vitto da fornire
la tavola, dice la Sig.ra Nanna (e la credo) che deve quasi metter gl’impegni. Le carni
scarse e non troppo buone; rarissimi polli, erbe quasi nessuna: insomma un paese senza
industria e senza coltura. Quindi carissime le vettovaglie che conviene disputarsi in piazza
un coll’altro e incettarle anche prima che arrivino. E la Natura pure produce qui come
altrove! Or figurati se è ora così che il governatore attuale vi ha in qualche modo
provveduto, cosa sarà stato prima, che il forno spesso mancava di pane; non vi era mai
mercato, si vendevano con fraude quasi tutte le carni morticine del territorio, e il
pizzicarolo non teneva fuorché cacio pecorino, merluzzo salato, e salacche tarlate. Pure qui
tutti contenti in questo paese.
Venendo ora alla dozzina, sul serio, computata colazione, pranzo, cena, e se volessi
merenda: computato l’alloggio, il lume, il consumo di biancheria, la lavatura e stiratura, e
la servitù, qui dove tutto si ha caro e con difficoltà, non mi pare eccedente. Già non vi starò
neppur molti mesi per mille ragioni municipali, ed atmosferiche, e civili. Mi basterebbe
ricuperarvi perfettamente la salute, e poi ambulo. Col dimorarvi ho scoperto un clima di
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un’incostanza infernale: certe strade che sembrano scale dell’ultimo piano del Palazzo Poli; e
poi certi abitanti... e poi certi speziali... Basti dire che il primo fra questi è un doratore, che
di cento medicine ne tiene in bottega una dozzina al più; e spesso manca di cassia; e
quando l’ha, se non gli tenete sempre gli occhi addosso e vi divagate un tantino, traffete vi
ci ficca la mela cotta, o l’acqua, o il diamine che se lo porti: e ciò per aumentare il peso
senza diminuzione del fondo di farmacia. — Un medico quindi!... ma che medico! fa’ dei
pessimi sonettacci satirici, ma pure lo credo assai più abile in quelli che nel conoscer la
febbre. — A proposito, da varii giorni mi ripizzicano de’ doloretti al petto, alle braccia, e
alle mani: un buon medico di Frosinone progetterebbe una ben saturata decozione di...
di... (non so se lo scrivo bene) di legno guaivo presa per 40 mattine, sostenendo egli che
dopo un male reumatico lungo senza un decotto non si guarisce mai bene. Che ne direbbe
Mazzucchelli? — È finita la carta. Addio: addio. Abbraccio di tutto cuore te e Ciro nostro.
Il tuo P.
(*) E se fra giorni volessi mangiare magari, ché anzi questo è un soggetto di angustia
il salvarmi dalle continue offerte e dagli stimoli di questa natura.
Publio è andato oggi a Ferentino a seccarsi e perdere il sonno. Io ho preferito di fare il
mio comodo: e questa sera quando tornerà gli darò la tua lettera che ho ritirata per lui alla
posta.
LETTERA 125.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Veroli, 30 giugno 1831
Partirò certamente, Mariuccia mia, e con questi di casa non è necessario alcun
pretesto, avendogli io già manifestato chiaramente che la stemperatezza di questo clima
mi caccia. Circa all’interesse sono contentissimi che tu lo accomodi con Publio: si potrà
ratizzare sulla mia dimora fatta fino al punto della partenza. — Tu mi dimandi perché non
ti ho dato prima un cenno delle cose che ti dissi nella mia precedente. — Te ne ho parlato
quando era tempo di aprir bocca. Il tempo anteriore fu consumato in esperienza. Appena
qui giunto, e per qualche giorno di poi, ti dava buone nuove di mia salute, e diceva la
verità. Lo stomaco era stato il primo ad accorgersi del mutamento di clima e se n’era
mostrato contento. Dopo sono succeduti ad avvedersene i muscoli, ed hanno collo
stomaco fatto causa a parte. Allora ho aperto gli occhi io, e ho cominciato meglio ad
osservare la bisogna. Questo paese è situato sopra una montagna tutta scogli, e tutta
scoperta. Ieri cambiò temperatura cinque o sei volte, e sempre da un eccesso all’altro. Me
lo avevano dipinto per un paradiso: potrei anche crederlo per l’elevatezza sua, ma pel
resto somiglia meglio all’inferno. Non ti dico che l’aria non sia buona: non può anzi essere
che ottima; ma per reggere alle stravaganze delle montagne è necessaria una costituzione
meno scompaginata della mia. Ciò riguarda al fisico. Circa poi al civile non ti dissi nella
mia ultima che la metà. Figurati tre giorni addietro la Sig.ra Nanna non trovò un uovo per
tutta Veroli, onde darmelo la sera. Ieri mattina fece girare e battere ad ogni porta onde
trovare un paio di piccioni. Li ebbe finalmente a gran ventura, ma grossi come due quaglie
le costarono due paoli.
Ieri sera io aveva necessità di un poco di cassia: il povero Publio dové tornare a casa
senza averla potuto portare. Per farmi un poco d’insalata cotta, bisogna ordinare la cicoria
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un giorno avanti. Purtuttavia questa tavola è molto a sufficienza provvista, ma tutto
gronda sudore di chi lo ha procacciato. La carne di macello si deve comperare quando c’è,
e poi metterla in grotta. — In quanto poi all’interno della casa essa è bella e sarebbe anche
assai comoda, ma la poca cura manda tutto in deperimento. La cortesia de’ padroni di casa
può dirsi senza uguale, ma è una cortesia campagnola che ti porrebbe la casa in collo senza
comprendere che il peso eccederà le tue forze. Prenda un poco di questo: sono tenerissimi:
e saranno cavoli. — Senta com’è delicato e leggiero questo umido: e saranno funghi, la di
cui leggerezza la misurano a peso di stadera, e non a capacità di stomaco. E mangi qui, e
riprenda lì, e assaggi di questo, ma lei non mangia niente, ma lei muore di fame, ma lei fa
penitenza: e beva un altro bicchiere: e si sforzi; e faccia un poco di merenda ma i suoi
dolori provengono da debolezza, etc. etc. Intanto io vado scoprendo certe codiche di porco
cotte col lesso, vado sentendo pepe e garofani, bevo un’acqua che sa di terra, benché a
questi signori sembri acqua celeste, e debbo tutto giorno lottare contro le cordiali
insistenze di chi è incapace di essere illuminato quando certe cose non le capisce da sé. —
Mi dicono: Lei sta sempre solo, e si annoierà. Come vuoi fare altrimenti? Io ho bisogno di
riguardi. Se scendo all’appartamento della signora, trovo tutto aperto, e spesso per le
stanze fischia la tramontana come in piazza. È vero che qualche volta al mio apparire si
chiude qualche finestra in qui e in là, ma io mi accorgo assai bene che quello che giova a
me nuoce agli altri, e riesce loro un gran sacrificio. Figurati, la conversazione è composta
di tre o quattro persone che giuocano a calabresella in mezzo proprio di una stanzetta con
quattro finestre, due porte e un camminetto, che vale a dire sette buchi tutti spalancati. La
Sig.ra Nanna sta in camera sua a dir le orazioni con le figlie; ed io in camera mia a
sbadigliare, ma almeno a finestre chiuse. A due ore e mezzo ceno. Publio e il Governatore
che fan parte della calabresella, cenano verso le due e vanno spesso a letto coll’alba. Potrei
io far questa vita? — Venghiamo adesso alla mia partenza. Ho fatto consiglio colla Sig.ra
Nanna e con Publio. Due mezzi vi sono: o la diligenza di Frosinone, o la vettura. Col
primo mezzo eviterei la pessima nottata a Valmontone, ma c’è l’incomodo di andare di qui
a Frosinone con tutto il bagaglio; e questo è poi soverchio per la condotta della diligenza.
In vettura porterei tutto con me, ma si fa la tremenda nottata fra le cimici di Valmontone.
Or senti bene. Dimani torna da Roma quel vetturino che io cacciai via allorché venni qui.
Con esso combinerò il giorno ed il modo del partire, e se egli (come qualche volta lo fa)
accudisce a fare tutta una tirata, te ne avviserò, e tu mi favorirai di farmi trovare alla porta
la facoltà del Conte Moroni firmata e bollata col suggello di uficio a scanso di dispute. E se
potrai unirci anche un lasciapassare te ne sarò grato. Ci sentiremo però meglio quando avrò
parlato col vetturino.
Intanto ho scritto alla Roberti, ma solamente per prevenirla. La decisione definitiva la
prenderò a Roma, perché vorrei almeno arrivare da quella povera gente senza dolori. Se
mi ripigliano là, pazienza; ma scendere dal legno per così dire onde mettermi a letto, non
mi parrebbe coscienza; e neppure mi azzarderei a un viaggio lunghetto se non mi sentissi
in forze e in sanità sufficiente. Oltrediché arrivato a Roma dovrò riformare e mutare faccia
al bagaglio per passarlo dal baulle alla valigia, e lasciare tante cose che per la diligenza
peserebbero troppo. Dunque il posto non me lo fissare. Questo si fa presto; ed altronde
non mi parrebbe prudente l’obligarmi così in anticipazione a un proseguimento di viaggio
che per qualunque motivo mi potesse riuscire ineseguibile pel già fissato momento. Non
mi dilungo di più, avendo scritto abbastanza, e dovendo presto correre ad impostare
perché è tardi. Abbraccia Ciro nostro, e benedicilo. Intanto godo anticipatamente del
piacere di rivederlo unitamente a te, che stringo al cuore dicendomi
Il tuo Peppetella.
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LETTERA 126.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Morrovalle, 31 luglio 1831
Mio caro Neroni
Dove siete? Io son qui, dopo aver passeggiato per molti giorni la provincia di
Campagna, troppo bello e sfortunato asilo di ladri.
Mi tratterrò in questa terra alcun poco di tempo, alieno pel corrente anno da’ miei
giri nel Nord d’Italia: ché tre mesi di mori-e-non-mori; 14 libbre di sangue accordato
generosamente alla punta di una lancetta e alle trombe di 65 mignatte; dodici vescicatoi;
un paio di dozzine di purghe, un battaglione di lavemens, Monsieur; un codicillo di
senapismi; 50 giorni di sole bevande insustanziose; una penitenza, una eucarestia, e un
preludietto di crisma; le son coserelle da non menar tanto per l’allegra due gambe di un
povero galantuomo. E così è che mi convenne non ha guari scontare sette anni di perfetta e
robusta salute, co’ quali era io stato dal 24 al 31 premiato di un altro settenario di
patimenti sofferti già dal 17 al 24. Laude sempre ne sia alla Provvidenza che si degna
assaggiarci nel crogiuolo de’ malanni. Basta di me. E voi, mio stracarissimo amico, come
state? come ve la passate? Fra le delizie certo di una consolante famiglia, giunta da età e
stato di coronare le paterne sollecitudini. So de’ vostri due figli che han dato soggetto ad
encomii pubblici per la loro eccellenza nella bell’arte che vi ha sempre sedotto. Bravi! Me
ne rallegro e con essi e con voi. I Voltattorni? Li saluto tutti e singoli; e qui sta bene un etc.
Abbraccia Neroni suo
G. G. Belli
LETTERA 127.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Morrovalle, giovedì 18 agosto 1831
Mia carissima Mariuccia
Riscontro due tue lettere dell’11 cioè e del 13. — Circa alla prima ti dico che ho fatto a
queste Signore l’ambasciata della coperta: se vorranno ordinarla te ne riparlerò a suo
tempo. — Mi dispiacque di darti disturbo intorno al Cholera Morbus, ma ne fui spinto a
parlare dallo stretto interesse civico, familiare e personale, che in casi simili non può
certamente tacere. La storiella delle Monache de SS. Domenico e Sisto già io la sapeva dalla
stessa bocca di Mazzucchelli che la ripete ogni momento: ma malgrado della sicurezza di
lui e di tutta Roma in un flagello di questa natura, non è meno vero che ci facciamo
illusione miserissima, dapoiché questo morbo desolatore si avvanza sempre a passi di
gigante, ed ha già di molto trapassato il Danubio che si sperava potesse esserne una
barriera. E lasciamo stare la strage che mena ne’ luoghi da noi più remoti: l’11 luglio a
Pietroburgo di circa 500 malati non se ne salvarono 15.
Basta, nella universal cecità che pare sempre destinata ad accompagnare agli occhi
umani questa specie di flagelli, l’unico conforto è certo quello di sperare nell’aiuto celeste,
benché sarebbe sempre assai meglio sperare nel Cielo e d’aiutarci alacremente, onde i
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nostri sforzi fossero benedetti di felice successo. Ma è purtroppo sicuro che dopo aversela
presa in canzona allorché il male sarà a porta del popolo, si ordinerà in fretta in fretta una
processione. Non voglio più estendermi sopra un argomento così desolante, il quale non
può non affligerti, Mariuccia mia, senza nessun compenso. Lasciamo fare alla
provvidenza: seguiremo la sorte degli altri. — Intorno però alle perniciose e al vaiuolo che
mi dici affliggere attualmente Roma, conosco anch’io la difficoltà di garantirsene; ma pure
son persuaso che fra cento affetti, ottanta o novanta apparterranno alla classe di chi si è
avuto meno cura: almeno usando delle precauzioni, e poi cadendo pure nel male, questo
riuscirà meno maligno. Dunque, per carità, gran cura a te ed a Ciro, il quale da un
momento all’altro aspetto di udirlo vaccinato.
Vengo ora, alla tua de’ 13. Secondo quanto mi avvisi sul ritorno indietro delle lettere
a Bondì, quella da me scrittagli il 7 dovrà retrocedere a Macerata, dov’è la Direzione che la
spinge a Sinigallia. Quando potrò avere occasione di farne fare ricerca, ne avrò pensiere;
benché non so se a me la renderanno. Intanto ho oggi stesso riscritto alla M.sa Antaldi ne’
termini da te indicatimi; e speriamo vederne un successo. Forse forse Fioravanti pagherà i
frutti in agosto, come promette; ma ecco che anche in quest’anno abbiamo perduto
l’occasione del pagamento della sorte la quale è per noi di grande importanza, stante la
difficoltà della qualità del contratto. Più si tarda, peggio è; e però io aveva pensato di
assalire il debitore per sorte e frutti senza più parlargliene. Se ora paga i frutti è certo che
chiederà altra dilazione per la sorte. Tu però che stai al regime della casa, queste cose le
vedi meglio di me; dunque fa’ tu, che è ben fatto. Godo della stipulazione con Corsini. Qui
piove sempre, fa umido e freddo: e quando queste tre cose non accadono, vi è invece una
quantità di vapori secchi, che tingono il Sole in verde, in bleu, in giallo, e in bianco. Passa
da un colore all’altro come una lanterna magica: e si guarda ad occhio nudo. Che stagione!
Che anno! Tanti saluti di questi signori: io abbraccio Ciro e te di tutto cuore. Il tuo P.
P.S. Devi avere avuta la mia degli 11, segnata per equivoco col n. 8: doveva portare il
n. 7. Essa ti faceva mille augurii per la tua festa.
LETTERA 128.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Morrovalle, martedì 23 agosto 1831
Mi approfitto, mia cara Mariuccia del ritorno che fa a Roma Meconi, per inviarti la
presente risposta alla tua del 18. Tanto meglio l’aver lasciato Veroli a tempo! In quest’anno
per verità l’atmosfera è minacciata dappertutto; ma sotto il Cielo di Veroli si deve soffrirne
assai più che altrove, per la incostanza naturale a cui va quel clima soggetto. Arrivato io
qui, dopo alcuni giorni ebbi una lettera di Publio, in cui, come io già me l’aspettava, si
faceva un bello elogio di quel soggiorno, diventato un paradiso terrestre appena dopo la
mia partenza! Aria dolce, tranquilla, cielo sereno, sole temperatissimo, e gioia universale!
Non so cosa direbbe adesso il buon Publio, seppure l’amor del nido de’ suoi morti antichi
non lo accecasse sulle bare de’ morti moderni. Qui almeno, se il tempo è strano e
veramente imperversa, le morti son rare e colpiscono quasi solamente dei vecchi, o de’
giovani di vita strapazzata e per lo più ritornati dai lavori delle campagne romane. In
questo territorio di Morrovalle si vede sì qualche perniciosa, ma poche: nell’altro di
Montesanto, dove andai ieri a visitare la famiglia Marefoschi, ne sono scoppiate di più,
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benché l’aria vi sia tenuta per forse più salubre ancora che questa. Ed io penso, appunto
nella maggiore elasticità di quel clima consistere la principal ragione del maggior numero
di malori. Più elevata, più scoperta, e in conseguenza più incostante nella temperatura.
Ho riso assai e ho fatto ridere la famiglia Roberti sulle 3 avemarie a te e 10 a Ciro.
Bisogna senza dubbio convenire nel tuo pensiero che il nostro nuovo penitente ne avesse
un carro a quattro cavalli! Se va avanti con questa proporzione, a 20 anni non avrà più che
il tempo di far penitenze. Spero che queste riflessioni lo persuaderanno di più della
necessità di esser buono e far sempre il suo dovere. Così Iddio lo benedirà, e gli uomini gli
daranno lode e riverenza. Come si conosce bene che in Roma si trascurano affatto tutte le
salutari osservanze! Non trovarsi ancora un buon pus! fa meraviglia! Il giorno 20 ebbi
riscontro di Macerata non esser là ritornata la lettera che io scrissi il 7 a Bondì in Sinigallia
sotto l’indirizzo dei Sigg. Cave e Bondì: il 21 dunque scrissi direttamente al Direttore della
posta di Sinigallia, pregandolo, benché non mi conosca personalmente, di respingere
quella lettera o direttamente a me o vero in Roma alla Ditta Sigg. Cave e Bondì, a cui è
diretta. Vedremo che ne nascerà. Ti dissi già che avevo ripetuto alla M.sa Antaldi, dalla
quale non ho ancora riscontro. Due Elene avrai avuto tu da complimentare: la Barbèri di
cui mi parlasti, e la Lovery che è più secondo il tuo cuore. Di’ a Stanislao che in seguito
delle di lui notizie ho scritto a Torricelli, benché da Veroli già gli dassi discarico della
procura della cresima di Ciro. Lo ringrazio intanto senza fine il nostro buon Stanislao, che
saluto, e che spero stia in ottima salute. A proposito, di’ a Biscontini, che al mio passaggio
da Spoleto, non vidi Plinj ma un di lui giovane che egli mi fece trovare per dirmi che
Riochi aveva pagato qualche cosa e si disponeva a pagare il di più. Do a Meconi un libro
che ti passerà: mettilo nel mio studio: è una buona edizione di una ottima storia da me
comprata a Macerata per pochi baiocchi. Saluto tutti, ed Ossoli: e ti abbraccio con Ciro.
Il tuo P.
LETTERA 129.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Morrovalle, domenica 4 settembre 1831
Bramoso, mia cara Mariuccia, di compiacerti, mi accingo all’opera di cercare
informazioni sul Collegio di Osimo. Non mi reco espressamente sul luogo distante di qui
circa 30 miglia, perché per convincermi col fatto delle cose che caverò da buone fonti mi
bisognerebbe passare del tempo onde assistere alle lezioni, conversare co’ Maestri ed
acquistare l’esperienza necessaria a conoscere l’abilità di questi e la efficacia de’ loro
metodi. Però ti prevengo del molto mio dubbio circa alla preferenza che questo vecchio
Collegio Vescovile possa meritare sul rinnovato di Perugia che ha una celebre università,
un gabinetto, una specola e un museo, a contatto ed aiuto. Certo egli è bene che in una
Casa di educazione regolata da Vescovi l’influenza de’ mirabili sistemi della moderna
istruzione arriverà appena dopo un altro mezzo secolo, quando cioè già sarà tarda. Tutti i
lumi che io già posseggo in mente intorno al collegio in quistione si riducono all’aver esso
dato ne’ passati tempi de’ bravi preti, abilità che forse non ha oggi perduta. I professori
saranno eccellenti, ma di oscuro nome son certo. Le risorse poi di Osimo in fatto di scienza
e di ornamenti fanno aggricciare le carni a pensarle. Non ti aggiungo altro su ciò: queste
sono mie idee che probabilmente i fatti potranno smentire. Rispetto per ciò sempre le
ragioni che tu abbia per inclinare alla contraria opinione e quando me le avrai manifestate
le valuteremo insieme e le confronteremo colle mie per decidere in un punto di tanta
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importanza. D’altra parte io stimo Meconi per un buono e bravo giovanotto: ma non lo
ritengo assai competente per dar giudizii di cose che poco riguardano la sua sfera e la sua
esperienza in somiglianti materie. Il nome che può aversi acquistato il Collegio ne’ vecchi
tempi, tra il vecchio modo di vedere, e tra i passati bisogni del secolo, possono illuderlo
come possono illudere molti altri: e se aggiungi a queste considerazioni l’altra dello stare
ivi in educazione un individuo della famiglia Marefoschi a lui tanto attaccata, potrai tirare
una conseguenza de’ suoi elogi con poco pericolo d’ingannarti. Ma vedremo, e saprai.
Intanto ti prego caldamente di passare urgenti istanze al nostro Biscontini affinché ricerchi
presto fra’ suoi libri, e ti dia la copia del programma del Collegio perugino ch’egli più
volte mi promise in reintegrazione di quella che per di lui consenso mandai a Torricelli. Se
ne avrà bisogno per fare con quella ciò che a suo tempo ti dirò. — Ho piacere che tu sii
andata a visitare i miei parenti. Povera Costanza! Senza legato! — Va bene de’ danari da te
dati al francese di Bochet. La carta bollata per le quietanze non serve a nulla: dovremo
forse litigare con Bochet? Spero di no. Come sono contento all’udire che si speri di aver
trovato un buon pus! Così almeno avremo preservato quel caro figlio da un malanno. E
circa a mali, mi rattrista che tu vada ricadendo nella riscaldazione. Badaci, e non
trascurarla. Le migliori notizie del Principe di Piombino mi hanno fatto piacere. Da tre
giorni è qui ripartito il poco di sereno e di caldo che da poco aveva ricominciato. Tira un
vento da gettare per terra, fa freddo e umido: piove e vien grandine in qua e in là. Quale
anno! Con tutto ciò io me la vado passando competentemente. Oggi è finito il solenne
triduo celebrato in questo paese a preservazione del Cholera. Che dice ora Mazzucchelli?
Ci crede che venga? Spero che i medici romani leggano le molte opere, e i moltissimi
articoli de’ giornali scientifici e letterarj che ne parlano in tutti i sensi. Ne ristringessero
almeno un qualche metodo preservativo e curativo per la povera Roma! Benedici Ciro e
abbraccialo come di cuore ti abbraccio. Il tuo P.
P.S. Ti rendo i saluti di Casa Roberti.
LETTERA 130.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Terni, mercoldì 5 ottobre 1831
Checco mio
Fra non molto ci riabbracceremo. Intanto ti fo precorrere la notizia che vengo carico
di nuovi versi da plebe. Ne ho sino ad oggi in 153 sonetti, sessantasei de’ quali scritti da
dopo la metà di settembre (crescono). A guardarli tutti insieme, e unendovi col pensiere
quel di più che potrà uscire dai materiali già raccolti, mi pare di vedere che questa serie di
poesie vada a prendere un aspetto di qualchecosa, da poter forse davvero restare per un
monumento di quello che è oggi la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la
sua lingua, i costumi, le usanze, le pratiche, la credenza, le superstizioni, i pregiudizi, le
notizie, e tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene, al mio giudizio, una impronta che la
distingue d’assai da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale che la plebe di lei
non faccia parte di gran cosa, di una Città di sempre solenne ricordanza. Di più mi sembra
non iscomporsi da novità la mia idea. Un disegno così colorito non troverà lavoro da
confronto che lo precedesse. I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non
di poetica, come nessun popolaccio n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura sua,
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viva sempre e fresca, perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non mercate. Direi
delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie.
Perché tanto queste diverse nella plebe di una Città da quelle de’ cittadini della Città
stessa? Perché non frenati i muscoli del volto alla immobilità che la educazione civile
richiede, si abituano alle contrazioni della passione che domina e dell’affetto che stimola; e
prendono quindi un diverso sviluppo corrispondente quasi sempre alla natura dello
spirito che que’ corpi anima e dirige. Che se ne’ cittadini non accade una totale uniformità
di fisionomie, ciò si deve alla fondamentale differenza de’ tratti specialmente proveniente
dalla ineguaglianza degli ossi che le carni rivestono e dal non aver mai la Natura creato
nulla di simile, ma di consimile. Vero però sempre mi par rimanere che la educaz.e che
accompagna l’incivilimento, fa ogni sforzo per ridurre gli uomini alla uniformità: che se
non vi riesce quanto vorrebbe, è forse uno de’ beneficii della creazione. — Il popolo quindi
mancante di arte, manca di poesia. Se mai una ne cerca, lo fa sforzandosi d’imitare la
illustre. Allora il plebeo non è più lui; ma un fantoccio male e goffam.e rivestito di vesti
non attagliate al suo dosso. Poesia propria non ha: e in ciò errarono quanti mai sin qui
vollero rappresentare il dir romanesco in versi che tutto mostrano lo sforzo dell’arte sulla
natura e della natura sull’arte. Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano
escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione, senza pure inversioni di sintassi o
troncamenti di licenza se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso: insomma
cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso; ecco il mio scopo. Il numero poetico
deve uscire come per accidente dal casuale accozzamento di correnti e libere parole e frasi;
non iscomposte giammai, né corrette, né modellate, né accomodate, con modo diverso da
quello che ci può mandare il testimonio delle orecchie. Che se con simigliante corredo di
colori nativi giungerò a dipingere tutta la morale e civile vita e la religione del nostro
popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non disprezzabile da chi guarda
senza la lente del pregiudizio. Non casta, non religiosa talvolta, sebbene devota e
superstiziosa, apparirà la materia e la forma; ma il popolo è questo; e questo io ricopio,
non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e, più lasciata senza
miglioramento. A te e a Biagini, ed in voi agli amici di maggior mia confidenza io darò a
vedere gli ultimi lavori delle mie ore d’ozio, persuaso che la delicatezza e l’amicizia
d’entrambi non ne trarrà fuori che la sola lettura. Ne rideremo poi insieme; e queste risa ci
varranno a prepararci l’animo alle possibili sciagure che ci minaccino. Abbraccia tutti
quelli che mi son cari: addio.
Il tuo Belli
La mia salute è mediocre. La tua?
LETTERA 131.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
[31 dicembre 1831]
Mio caro Torricelli
La tua lettera del 27 mi ha tutto pieno di dolore. Vi leggo quanto tu hai dovuto e devi
sentire in questo luttuosissimo avvenimento: nel bacio e nel sorriso paterno, di’, non hai
trovato oggi un premio, un gran premio, della filiale carità? Il tuo padre morendo si è
ricordato che tu non gli hai afflitto gli ultimi giorni di vita malgrado qualche piccola
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durezza che potesse averti usata. La di lui benedizione discese sul tuo capo e passerà certo
ai figli de’ tuoi figli. Ora sii uomo, un uomo filosofo; sollevati e pensa quante vite sono
attaccate alla tua. — Ho delineato oggi un rozzo pensiero da servire per una idea allo
scultore in metallo. Vedilo intanto tu, e rimandamelo, perché non ne ho un doppio. Io
stimerei che la grandezza fosse conveniente così. Sto pensando che se le lettere ti sembrano
grandi al giusto difficilmente si potranno incidere nette nel marmo e più difficilmente
riempire il graffito con l’oro in modo che risalti. Per l’incisione in marmo vorrebbero le
lettere essere di taglio più ampio e profondo che non comporta la proporzione del mio
modello: e fatte più grandi, ne risulterebbe un tutto di soverchia mole e di soverchio
prezzo (benché questo non sarà mai piccolo): l’anello soprattutto vi si smarrirebbe alla
vista. Non si potrebbe dunque tirare la tavola di bronzo oliva-cupo, incidervi le lettere e
dorarle? L’annettervele in rilievo costerebbe troppo caro. Ma son curioso io che ti vo’
facendo l’economo.
Ho preso l’ardire di cambiare qualche parola alla inscriz.e: non però con l’animo di
preferire la mia alla tua lezione. Due o tre volte ho posposto la 6a colla 7a linea, ma poi ho
lasciato così suonandomi meglio all’orecchio e alla mente. Circa alla punteggiatura io sarei
contento a questo. Il carattere corsivo, che ne ammetterebbe di più, parmi che sconvenga. Le
parole di tuo padre in diverso colore mi spiacerebbero: la diversa mole le distinguerà
assai.
Dopo la linea 12 non è necessario alcun segno di divisione. Vedo le migliori epigrafi
che non ne hanno. Il ritorno al carattere piccolo, e il senso staccato non lasciano luogo a
questa necessità.
Venendo all’affare Consolidato, vedo, sì, un capitale di Lire italiane 4761,27; pel quale
il Tassini avrebbe dato Sc. 300. Questa specie però di offerta egli la fece in quella stessa
lettera in cui avvisava tuo padre che il frutto di quel Capitale era stato fissato dal Monte di
Milano a Sc. 25 annui. Nelle lettere posteriori peraltro il medesimo frutto si vede calare
invece a 25 lire ital.e, e poi a L. 24,50, aggiungendovi che soltanto per equivoco si era da
lui, Tassini, parlato in addietro di scudi là dove s’intendevano lire. Mi fa gran meraviglia
come un Capitale che ridotto a unità romana al cambio del 535 forma una somma di Sc.
889:95, abbia a rendere un frutto di L. 24,50 equivalenti a Sc. 4:57 ½. Il Consolidato essendo
al godimento del 5, non rappresenterebbe questa somma annua neppure un valore di
cento scudi. Ci deve dunque essere qualche motivo occulto.
Un’altra cosa ho rilevato dal carteggio Tassini, cioè che prima dell’arrivo a lui della
procura del q.m tuo padre, pareva che i denari stassero in tasca: dopo l’arrivo della procura
(con la facoltà di alienare) si direbbe quasi che neppure il Monte Napoleone o la
Commissione mista avessero pensato ancora a liquidare il credito. Il Tassini assume
d’improvviso un certo discorso d’irre orre che non garbeggia molto. Ho già fatti varii
quesiti in proposito alla Direz.e del debito pubblico; e se posso averne le risposte, come mi
sono state promesse, prima della partenza del corriere d’oggi, te le aggiungerò qui sotto.
Altrimenti ad aliam. — Circa poi alla alienabilità della vendita, oggi il Governo é poco in
credito, e perciò appena si potrebbe ricavare un 75 per 100 capitalizzato il frutto al 5. Mi
spiego? Ogni Sc. 5 di rendita sono riguardati rappresentare un capitale di scudi 100.
Orbene questi scudi 100 oggi diventano 75, ed anche meno per chi vuole evitarli: eppure in
commercio era già arrivato il consolidato romano al 105 per 100, e il Milanese al 100, cioè
alla pari. Ma ora...
Aspetterò dunque che tu abbi fatto alla tua elegia, i cambiamenti che stimi
convenienti, e, avuti questi, metterò tutto nella sua lezione e busserò alle porte degli
Odescalchi. Va bene così?
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Davvero la Circolare mi sa di muffa.
Credi l’A.A. miglior dicitore?
Mi congratulo teco pel ristabilimento del tuo bel Torquatello che mi abbraccerai,
come abbraccerai anche il futuro mio santoletto Amantino dal viso dell’Armi. È più così
serio? Sant’Anna aiuti la tua Clorinda.
Mariuccia ti fa le sue sincere condoglianze e ti esorta con me alla rassegnazione.
Addio, addio. Ti abbraccia il tuo Belli.
Di Roma, l’ultimo dell’anno 1831
LETTERA 132.
A GIACOMO FERRETTI — ROMA
[4 gennaio 1832]
Mio caro Ferretti
Eccoti la introduzione. Leggila, e dimmi il tuo parere; perché il criterio tuo mi sta per
cosa non comune. Ti accludo anche due altri sonetti che l’ha fatti chi jje pare e ppiasce.
Riprenderò tutto lunedì 9 verso le 3 ½ pomeridiane, alla qual’ora sarò da te, purché il
tempo non vada all’estremo del cattivo, e neppure a quello del buono, lo che in inverno è
peggio forse che il tristo per un cerotto mio e tuo pari. Il tuo Sig. Avelloni sarà per
avventura scandalizzato da alcuni soprattutto de’ miei quadretti poetici: ma tu ripetigli il
motto da me tolto ad Ausonio «lasciva est nobis pagina, vita proba,» cioè «scastagnamo ar
parlà, ma aramo dritto.» Eppoi queste cose restano (almeno per ora) nelle menti de’ soli
amici, i quali, e tu il primo gentilissimo fra essi, mi usano certo la delicatezza di non
conservarne altra nota che quella che resti loro nella memoria, lo che solo Iddio potrebbe
togliere. Ti abbraccia il tuo
Belli
4 del 1832.
LETTERA 133.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, sabato 14 gennaio 1832
Mio caro Torricelli
La tua ultima è del 3: ti sei tu forse maravigliato del mio silenzio? Ma
Del vecchio (ladro) guardavam la traccia.
Il vecchio però non si è lasciato trovare. Potrebbero ben trovarlo gli occhi della
giustizia, o criminale, o civile. Ma che! In certi paesi, la prima, guarda più in cagnesco i
buoni che i malvagi, ed altronde il legale probo di cui ti parlai è di avviso che il tuo caso
contro il vecchio ladro non presenta tutti i caratteri da aprir l’adito ad una azione contro il
corpo, dapoiché sino a tutto il fatto della vendita le cose procedettero regolari: nel resto
tuo padre (di troppa buona fede sugli antecedenti) non ti ha lasciato che un credito contro
uno inonesto anzi fraudolento procuratore. Per aver titolo a procedere di crimine, dice il
legale, bisognerebbe poter provare una frode sugli antecedenti. Basta, io legislatore, in
certi casi, manderei in galera gli antecedenti e i susseguenti. Circa poi all’azione civile,
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ecco come stanno le tue cose. Il Tassini non più impiegato al Cracas: senza scarpe in piedi,
disperato, stoccatore per vivere. Vivente Leone XII, imprese un giornale ecclesiastico, con
sua rappresentanza, ma con occulta opera del P. Ventura teatino. Dopo alcuni numeri
l’Imprenditore si mangiò le quote anticipate de’ Soci, e il giornale arrenò. Gli ecclesiastici e
i filoecclesiastici, a’ quali il giornale piaceva, ricorsero al Papa. Il Papa chiamò il Tassini.
Questi, come puoi credere, era preparato alle ciarle. Conclusione dell’abboccamento si fu
che Leone fece dare al Tassini Sc. 600 per ristorare l’impresa. Dopo due altri numeri, o
meno, la impresa naufragò, e gli Sc. 600 andarono ove poi caddero le somme e i tartufi di
Torricelli. Fu coglionato un Papa, e meno i ferri che non volle imporgli, non seppe che
fargli! [....] Non terminarono qui le mie ricerche. La tua cartella fu venduta il 4 agosto 1829
a un Michele Ajani. Io, giusta la probabilità, lo stimai l’Ajani Michele del Cracas, nel cui
uficio era impiegato il Tassini. Ma che! Il Michele Ajani del Cracas è già morto da otto anni,
e l’uficio Cracas nel 1829 era (salvo i particolari contratti di famiglia) tra le mani di...
Cavalletti e dei cognati suoi Angelo e Pietro Ajani, l’ultimo de’ quali è anche egli morto da
alcuni mesi a questa parte. — Ma il Consolidato di Gio. B. Torricelli venduto al Michele
Ajani (come è scritto in Amm.e del debito pubblico) si possiede almeno da alcuno de’
discendenti di lui? Nessuno della famiglia Ajani ha mai comperato rendite pubbliche.
Dunque chi può essere questo Ajani compratore? Il Michele no, perché morto ab antiquo: i
due figli di lui no, perché non possessori di vendite pubbliche. Piano: vi è un quarto Ajani,
un Michelino Ajani attuale alunno dell’ospizio degli orfani, procedente da altra linea Ajani.
Ma questo è un fanciullo, è un orfanello; e questa gente non compera. Però il Michelino ha
un tutore.
Chi è questo tutore? Monsignor Ginnasi: peraltro nella intestaz.e di vendita,
dovrebbe essere in questo caso stato scritto Mons. Ginnasi come tutore etc., e non
rudamente Michele Ajani dacché un fanciullo degli Orfani non fa certo quello che gli agenti
ufficiali di Cambio dovettero presentare al Censore del Debito pubblico insieme col
procuratore Tassini quali persone illis notae. Mi resta dunque di parlare con Mons. Ginnasi;
e poi se il di lui pupillo non fu il compratore, come io credo, dimanderò all’Amm.re del
Debito pubblico come sia che si vendano rendite pubbliche a nomi mentiti, ad incogniti. Ci
riudiremo. Intanto tu vedi se tu avessi costì più fortuna con l’altro baron fottuto amico del
baron fottuto Tassini.
Non ho avuto il tuo anello: per ciò non mi sono ancora mosso per la cornice etc.
Conosci tu la seguente sciarada del fu Giulio da Pesaro? La riportava un numero del
giornale delle dame sul finire del 1831. Così mi fu detto da chi me la recitò.
Città Greca è il mio primo illustre al Mondo.
Si fa bianco per gli anni il mio secondo
Penetra il tutto mio dentro il cervello
Od in un buco che il tacere è bello.
Quando avrai tempo e cuore mi manderai la tua variante alla elegia di Properzio, ed
io farò fare il rinaccio: pregherò l’Odescalchi perché lo si faccia. Sei ancor padre in 4°?
Come è finita la faccenda Ugolinesca? Sei Deputato? Lo Zurla che disse?
Epigramma di autore a me cognito, per la occasione in cui fu da Bologna mandato
oratore alla S. Sede il poliglotto Mezzofanti, (ora prelato).
Sagacemente invia Bologna a Roma
Un orator che intende ogni idïoma:
Ché a Roma, a farsi onore,
È d’uopo un oratore
Che sappia delle lingue almeno quelle
124
Parlate nella Torre di Babele.
Il tuo Califfi
alias 996
LETTERA 134.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 2 febbraio Candelora del 1832
Mio caro Torricelli
È vero il tuo precedente annunzio, in fieri, della consegna di un anello a un corriere;
ma poiché di tutti i caricamenti de’ corrieri si manda dall’Ufficio postale un avviso ai
domicilii, la mancanza di questo avviso mi fece supporre che la consegna non fosse
accaduta de facto, e tu avessi mutato mezzo di spedizione. Ad ogni modo ieri ritirai lo
astuccetto con entro l’anello, la cui immagine bellissima è appena distinguibile attraverso
di un cristalletto di superficie sfregiata. Dove tu non fossi affezionato anche a detto
cristallo (il cui logoramento ti si può forse affacciare alla mente quasi testimonio del lungo
uso che ne fu fatto dal tuo padre), io ti proporrei di farcelo cambiare, nel che la miniatura
guadagnerebbe moltissimo. Dimmene il tuo parere.
Dàgli e ridàgli, ho finalmente parlato con Mons. Ginnasi. Mi ha fatto ripetere il
discorso quattro volte, e poi non ha capito niente. In ultimo un po’ bene un po’ male, con
qualche aiuto di fianco sono giunto a mettergli in capo la metà di quel che io voleva: ma, lo
vorrai credere? si è perduto tutte le cartelle de’ consolidati da lui acquistati pel di lui
pupillo Michele Ajani. Cercò per tutto, a più volte, e non giunse a ritrovare queste
benedette cartelle. Era curioso il vederlo mettersi le mani fra i capelli, e di tempo in tempo
domandarmi se fosse danno l’averle perdute! Da un libriccino di ricordi ricavò pure l’acquisto
acefalo di un consolidato che comincerebbe col tuo nella data della compera, non però
nella cifra della vendita, dapoiché il tuo era di Sc. 4:50 annui ed il suo è di Sc. 6. Il prelato
poi non conobbe né il venditore né il procuratore. Il tutto passò per le mani di un agente di
Cambio. Ma appena io gli ripetei per la 5a volta il portentoso nome del Tassini, ammutolì,
inarcò gli occhi, e mi disse: oh! il Tassini! è mio debitore: quando lo avrà trovato me lo
mandi. Ci dividemmo allora colla intesa che io tornerei nel futuro sabato 4 per leggere la
fatale cartella, qualora sia ritrovata. Gli lasciai memoria scritta e partii.
Intanto il portentoso nome del Tassini segue a farmi scoprire nuovi tratti del suo
valore quante volte lo pronuncio nelle ricerche che ne vado facendo. Ho scoperto
mangerie, furti, stocchi, piccoli, grandi, pubblici, privati, e tutti corredati di bellissimi
amminicoli. Te ne risparmio le storie. Dove sarà egli mai? nessuno lo sa. L’unico luogo
dove non è di certo, benché lì solamente dovrebbe trovarsi, è la galera. Il Piva non è più
impiegato alla Dogana di terra: dicono che ho capito male: è a Ripagrande. Andrò là ma
[....] Avesse ad essere un altro furbo! [....] Anche per questa lettera, mio caro Torricelli,
nulla, o quasi nulla. Ma il male viene dagli spini del fiore che mi hai messo tra mani.
L’appartamentino Belli pe’ mesi di aprile e di maggio! Se verrò non istarò tanto
quanto tu dici. Dio ti dia pazienza nel tuo nuovo genere di vita. Saluto tua moglie,
abbraccio i tuoi figli e te affettuosamente. Addio.
Il tuo Belli
125
LETTERA 135.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 4 febbraio 1832
Mio caro Torricelli
Per dimenticanza di un mio domestico la qui acclusa non andò alla posta nel suo
debito corso. La riapro pertanto e qui la inserisco in modo che formisi il volume di una
sola lettera.
Questa mattina ho riveduto Mons. Ginnasi. La vendita ch’egli comprò pel suo
pupillo Michele Ajani si fu appuntino la tua di Sc. 4:50 ½ annui formanti un Capitale di Sc.
90:10, pel quale al Cambio allora corrente sborsò al Tassini Sc. 85:59 ½. Il Tassini dunque
ha rubato per capitale Sc. 85:59 ½ e per frutti arretrati a tutto il giorno 30 giugno 1829 Sc.
41:29. In tutto Sc. 126:88 ½.
Questo Signore è irreperibile. Il Piva, che non pare cattiva persona, dice che dal mese
di Dicembre, anzi dalla vigilia di Natale in cui cenò il Tassini con lui non lo ha più veduto
senza più sapere dove siasi ficcato, perché ha per certo lui aver cambiato casa. La dimora
vecchia era nella via de’ Coronari, ma la nuova nessuno la conosce. Forse si è voluto così
questo birbante sottrarre alle ricerche dei molti da lui derubati, che sono assai assai, ed
ogni giorno ne discopro di più. Ti assicuro, Torricelli mio, che io non perderò di mira lo
scoprimento di lui, ma intanto non posso dirti di più. Ma scopertolo poi che ne trarremo?
Fa una cosa: scrivigli una lettera dicendogli tutta la cosa netta e tonda quale da me si è
scoperta, e finisci per minacciargli una querela criminale. Vediamo un poco di spaventarlo,
se ne potesse cavare un costrutto.
E ti abbraccio di tutto cuore
Il tuo 996
LETTERA 136.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 10 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Due righe per annunciarti il ricevimento del pacco da te inviatomi. Esso contiene
appunto ciò che io desiderava: e mi pare bene che io errai nel chiedere due paia di
stivaletti bianchi, giacché trovo che le due paia più nuove, fatte l’anno scorso, sono le
cenerine di tela russa e quelle di nankin naturale. Sono sempre in attenzione della
risoluzione che prenderà Pippo Ricci sull’invio degli Sc. 40 che tengo per lui, siccome gli
scrissi il giorno 3 corrente, nel qual giorno ne scrissi contemporaneamente anche a te col
mio n. 3. Domani o dopo domani vado a Pesaro con Torricelli, e ne ritorneremo dopo due
giorni conducendo la di lui suocera ad un casino di campagna che Torricelli ha in questi
contorni, ed ove passeremo tutti insieme un mese.
Avrai udito che in Ancona accadono de’ sussurri, ed i Carabinieri sono rinchiusi e
guardati dai francesi. Pare che tutto provenga dalla imprudenza di un ufficiale di quel
corpo, il quale all’istanza un po’ viva di certi cittadini che chiedevano la restituzione di un
ottonaio carcerato per fabbricazione d’armi vietate, si vuole che corrispondesse con un
colpo di pistola il quale uccidesse un uomo che usciva di chiesa pe’ fatti suoi. Il popolo
126
parve molto indignato. La frequenza di simili sconcerti pei diversi luoghi dello Stato non
può essere favorevole al ristabilimento della buona intelligenza reciproca, tanto necessaria
pel ritorno di un ordine desideratissimo, al quale ciascuno dei partiti dovrebbe cospirare,
cooperando col sagrifizio d’una parte del proprio orgoglio e del sommo diritto che
affaccia. Il Mondo pare oggimai una caldaia di mosto. Per ora grand’acido si sviluppa:
quando ci consoleremo col vino di tanto fermento? Iddio ci tragga da tanti imbarazzi, ci
faccia buoni, ci consoli, amen.
Tanti baci a Ciro nostro che benedico di cuore, come di cuore ti abbraccio.
Il tuo P.
LETTERA 137.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 19 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Apprendo dalla tua del 17 la spedizione della scattola del Sig. Camilletti, e ne ho
parlato a Torricelli, il quale contentissimo di tutto ti ringrazia senza fine delle tue sollecite
premure per lui. Allorché l’invio sarà giunto, ne avrai avviso e ti si spedirà il resto
dell’importo. Gli scudi Trenta che ti spedii martedì 15 gli avrai forse a quest’ora ricevuti,
seppure non ti arrivino colla diligenza di martedì 22. Scrissi giovedì a Pippo dandogli
ragguaglio del viaggio Marcolini, e pregandolo di saluti per te e per Ciro. Torricelli ed io
avevamo finalmente risoluto di andare dimani a Pesaro per tornare dopo due giorni, ma
chissà se lo stato della Contessa ce lo permetterà. Di giorno in giorno essa si è ridotta nel
modo quasi simile a quello in cui mi ridussi io l’altr’anno. I tempi qui infuriano
invernilmente dopo sentitosi per qualche giorno un caldo veramente da luglio. — Ti
ringrazio rapporto alla Mancini, e riferirò a’ di lei parenti le tue parole. La gita alla Vigna
Lelmi mi è un garante che la tua salute del 17 fosse migliore di quella del 16, lo che mi dà
molta consolazione. Venendo a Ciro, godo assai di vedere in lui un certo amor proprio,
mentre da questo, allorché è moderato, procedono tutte le virtuose e lodevoli azioni degli
uomini. Benedicilo e abbraccialo per me. Il sufficiente stato di salute del buon Cav.
Galiano mi dà piacere, e i suoi saluti altrettanto. Intendi già che io li contraccambio sempre
che tu possa farglieli ricevere. La mia salute è buona, ma gli stessi riguardi che osservo per
conservarla tale mi tengono moscetto moscetto, dappoiché sappi che dal mio arrivo a
questa parte due sole volte ho potuto azzardare di uscire di Casa, oltre la visita a
Marcolini: ed altronde qui dentro non vi sono attualmente motivi di sollievo, stante la
malattia della Contessa e la insociabilità del paese. Che vuoi fare? Vedo bene che da
qualche tempo un destino avverso perseguita i miei viaggetti: ma
Purché non venga
Madonna Morte
L’iniqua sorte
Si stancherà.
Saluto tutti, e abbraccio affettuosamente la mia Mariuccia.
P.
127
LETTERA 138.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 22 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Di pienissimo gusto di Torricelli e di tutti è riuscito il monumento mandato dal Sig.
Caminetti, per dare al quale io ti spedisco oggi franchi i residuati scudi quindici che gli
consegnerai dietro la quietanza di saldo in Sc. 45. Detta quietanza inseriscila in una tua
lettera e mandamela. S’intende già che il Sig. Camilletti faccia il suo ricevuto a favore dirett.e
di Torricelli per le tue mani. Torricelli torna nuovamente a renderti le maggiori grazie che sa
pel bel modo con cui l’hai in questa circostanza favorito. Della Sig.ra Mancini va benissimo
tutto ciò che tu dici, e ne feci parte a’ di lei parenti. Intanto ti ringrazio anche di ciò
nuovamente. Io non volli farti nessuna specie di rimprovero circa la regolarità delle cose
che possa io dirigere a favor tuo: soltanto intesi di metterti su ciò l’animo in quiete per
questa e per tutte le altre possibili circostanze future. Va bene di Lazzarini e di Paniani. —
Le stesse parole che Piccolomini ha risposte a te le rispose a me prima della mia partenza:
ciò vuol dire che non ha più pensato da quel tempo a far nulla. Se vedi il Sig. Perozzi,
salutamelo. Domenica scorsa, vedendo una ottima giornata, detti una corsa a Pesaro,
viaggio di tre sole poste, e ne tornai ieri, lunedì, conducendo meco la Madre della
Torricelli che sta molto aggravata. Antaldi mi pagò Sc. 20, frutti a tutto marzo pp.to. i quali
sono in mie mani. Il buon tempo dura ancora: oggi è il terzo giorno: Dio ce lo conservi.
Delli Sc. 10 che mi facesti ritenere sui denari di Ricci ti risposi in globo nella lettera a Ciro.
Andò benone così, e torno a manifestare la mia soddisfazione. Povero Ciro! Non poteva
ancora vedere i Cavalli! Ma pure egli ricorderà che una volta ci si addormentava e
straniva. Ora però è più grande e giudizioso, e troverà più gusto in quel divertimento. Io
lo abbraccio e benedico col maggior affetto. Così faccio con te, dalla benedizione in fuori.
Sono il tuo
P.
LETTERA 139.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, giovedì 24 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Ricevo la tua carissima del 22 e la riscontro. Non è già complimento che mi ha
ritenuto in casa tanto tempo, ma come ti accennai, la malvagità dell’atmosfera. Oggi è il 5°
giorno che si respira, benché pare già che si vada un poco rannuvolando. Io sto bene in
genere, perchè mi sono avuto riguardo, ma vado sentendo de’ doloretti agli articoli dei diti
delle mani e de’ piedi, ai polzi, ai gomiti, alle ginocchia etc. Passeranno. — La Contessa
Torricelli sta molto male: le cavano gran sangue: insomma ricordati di me nel 1831: tale è
ella ormai: di modo che qui v’è tutt’altro che allegria. Ci vuol pazienza. Godo della buona
salute di Ciro, e della tua competente vado sperando meglio. Dunque Borghese è stato
trasportato da Firenze a Roma?
Non avrai trovato alla diligenza gli Sc. 15 che ti avvisai in predizione nella mia del
22. Il motivo fu perché andato alla posta la mattina non ci trovai nessuno, e tornatoci dopo
128
il pranzo trovai che allora passava il corriere, e non fu più tempo di depositare. Depositai
però ieri, e martedì 29 gli Sc. 15 per Camilletti saranno in Roma all’ufficio. È un ritardo che
a nulla nuoce. La ricevuta del Camilletti per gli Sc. 45, come ti dissi la spedirai a me. —
Dimanda a Biscontini se ebbe poi la risposta di Plinj sul suo conto di stragiudiziali nella
causa Marcotte a Ricchi.
Benedico e abbraccio Ciro nostro, e ti abbraccio affettuosamente
il tuo P.
LETTERA 140.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 29 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua 26 cadente. Io sto meglio de’ miei doloretti reumatici. Per tre sere ho
fatto de’ pediluvii con acqua aceto e senape: per due mattine ho preso cremor di tartaro
etc. — Anche la Contessa sta meglio, benché da quattro giorni sieno qui riprincipiati i
venti e le pioggie. Godo del divertimento di Ciro nostro alla Commedia de’ ragazzi; e mi
spiace che i Cavalli ti abbiano annoiata. — Dici benissimo: ho avulso Sc. 40.
Mariuccia mia, la posta sta per partire, ed io chiudo la presente per arrivare in tempo.
Do mille baci a Ciro e a te, saluto tutti e sono
il tuo P.
LETTERA 141.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 7 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Ricevo la tua del 5 e mi sorprende che Pippo non ti abbia riferito le cose che io gli
scrissi per te coll’ordinario del 2 corr., relative alla tua del 29 p.to Maggio. Nello scorso
ordinario del 5 ti aggiunsi qualche parola a piè di una lettera che volle scriverti il nostro
Torricelli. — Qui ancora il tempo segue ad essere alternato da fitto estate e fitto inverno:
piove quasi sempre, e quando non piove tira un vento furioso; insomma è una diavoleria.
La Contessa segue al solito: io me la passo. — Mi fa gran pena il sentirti così convulsa; ma
spero che finalmente questo infame tempo si placherà. — Di’ a Spada che un po’ più in là
risponderò alla sua lettera. Abbraccia e benedici il nostro caro Ciro, e credimi sempre
affettuosam.e
il tuo P.
LETTERA 142.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 16 giugno 1832
129
Godo assai, mia cara Mariuccia che finalmente questa tua da sì lungo tempo
sospirata gita di Monte Cavi sia pure accaduta. Ma se io debbo dal tempo che qui fece
giovedì 14 arguir quello che avrà fatto in que’ paesi, dovrei temere assai del buon esito
della tua allegriata, imperocché qui soffiò tutto il giorno un turbine furiosissimo. Basta, voi
altri non sarete stati sciocchi di avventurarvi. Lo avrei voluto vedere quel caro Ciro sul
somarello! Ci fu alcuno che prendesse possesso? — La Contessa cominciò ieri ad alzarsi
per una oretta. Essa ti saluta e così Torricelli. Anche egli è stato alcun poco malato. Un po’
più di lui lo è stata una di lei figlietta, e più di questa la cameriera della Contessa: tutti
contemporaneamente. — Il mio dito si è sciolto e scrivo bene da me. — Bravo Cardinali!
me l’aspettavo! — Salutami tutti gli amici, dà mille baci a Ciro nostro, e ricevi da me il
solito affettuoso amplesso.
Sono il tuo P.
LETTERA 143.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 19 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Il racconto della tua gita mi ha fatto passare una bella mezz’ora, benché avrei amato
udire che ti avesse fatto lo stesso buonpro che al nostro amatissimo Ciro. — M’indovini
per aria e poiché lo comandi, ecco per ora in succinto la narrazione del fatto. Il pretesto del
dito e tutto il resto fu un puro artificio per non metterti in pena. Ora pare tutto finito. Il 4
mi posi in letto con febbre ed infiammazione di gola, presa collo star sempre in casa e in
vetrina. Dal 4 all’11 mi fecero 9 sanguigne dalle braccia e una dal piede. Il giorno 17 mi
attaccarono 17 mignatte alla gola e il giorno 11 altre 53 nel medesimo sito. Jeri al giorno mi
alzai un poco dopo di avere avuto per 15 giorni a’ miei fianchi sempre il medico il
chirurgo e lo speziale. La mia Camera era trasformata in un arsenale di caraffe, di
caraffine, di acque, di olii, di cassie, di cartine, di sciroppi, di spugne, di ghiaccio etc-etc. e
ti dico ghiaccio perchè nel giorno 12, vinta appena l’acutezza estrema del male, mi si posero
a cacciare in gola ghiaccio e gelati; e così ho durato per 5 giorni dì e notte senza alcuna
interruzione. — Adesso mi si curano le ulcere natemi in gola. — Ti assicuro che un assalto
simile forse non l’ho avuto mai. Ah! vedo che per questa mia gola è finalmente necessaria
una risoluzione per liberarmi per sempre da un tanto flagello. Ricadere ogni momento, ad
ogni leggerissima causa: perdere tutto il sangue ogni tantino: conservare di ogni ricaduta il
lievito per una nuova: patir tanto: correr rischio di ammalarmi in viaggio e dove Dio sa:
spender tanto; e forse alla fine diventare un canchero!... A tutto ciò avere un rimedio facile,
non doloroso o pochissimo, breve, senza conseguenze, e non farlo? Già da molto tempo
molti valenti professori mi ci hanno consigliato: in oggi poi me ne mostrano la precisa
necessità. Io ho due tonzille scirose: ebbene estirparle, e buon anno. In due minuti tutto è
fatto. Fra due o tre mesi, tutto bene esaminato, voglio farlo: e tu se ami la mia vita ci
acconsentirai. — Ho scritto già troppo. Tutti ti risalutano: ed io ti abbraccio di cuore con Ciro
nostro.
Il tuo P.
P.S. Il diligentissimo medico, bolognese, scuolaro di Tommasini, segue sempre a
visitarmi con assiduità.
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LETTERA 144.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, 21 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua 19 corrente che a cagione della solennità del Corpus domini ho
ricevuto pochi momenti prima dell’impostare. Dalla mia precedente avrai udito tutto
quello che in ristretto concerne la sbiossa da me sofferta. Ora la convalescenza progredisce
lentamente ed allorché sarà compiuta io volerò a Roma nelle mie stanze in compagnia di te
e di Ciro e degli altri amici veramente fatti pel mio cuore. — Tu non vuoi conti, ma come
farne a meno? — Degli Sc. 40 da me avuti in tre volte, me n’erano restati al principio della
malattia 26, coi quali io aveva, più che a sufficienza per soddisfare tutti gl’impegni e le
spese fino a pie’ fermo in Roma. Ma vedi, cuor mio, quale diluvio mi è venuto addosso. Il
solo medico mi ha fatte 60 visite, delle quali varie di notte. Poi tante sanguigne, tante
mignatte, tanti crestieri, tante medicine, neve, gelati, doveri di mance di più...
In questo frangente ero lì per chiederti qualche cosa nel mentre che questo Dr.
Baglioni corrispondente di Pippo Ricci è venuto a propormi di lasciare in mie mani Sc. 40
per Ricci stesso. Io ne scrivo a Pippo in questo medesimo corso e lo prego di venire subito
da te per concertare questo affare, parendomi utile che tu non spenda per affrancarmi
danaro. Nella lettera a Pippo sviluppo meglio simile interesse, sicuro che quanto a lui dico
potrà forse anche a te convenire. Perciò qui mi astengo dal dire di più, essendo l’ora tarda
e le forze poche. Spero nel giorno di lunedì 25 avere su ciò una risposta da te concertata
con Pippo per mia quiete. Mia cara Mariuccia, io sono afflittissimo di aver cagionato alla
Casa quest’altro dispendio nelle attuali purtroppo luttuose circostanze: ma come si fa?
Come cozzar col destino? — Ti rendo i saluti della famiglia Torricelli, e ti prego risalutare
chi si è ricordato di me. A Ciro mille benedizioni e baci. A te poi un milione di abbracci. —
Smanio di ritrovarmi fra voi altri.
Sono il tuo P.
LETTERA 145.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Fossombrone, martedì 26 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua di sabato 23. Ecco il motivo del mio artificio per nasconderti il mio
stato: temevo di darti troppa pena, ma tu mi forzasti a dir tutto, e tutto fu detto. Intanto
però, cara Mariuccia, non agitarti più affatto perché io son guarito, ed ogni giorno sto
meglio. L’unica cosa che conservo sono quelle dogliarelle nelle articolazioni delle mani e
de’ piedi: ma, come ti dissi nella mia precedente, qui ti ripeto che il Medico mi assicura un
tale incomoduccio dovermi lasciar libero allorché farò dei bagni. Non attribuire
menomamente a mio desiderio di palliarti l’importanza della operazione delle tonsille.
Tutti i professori mi hanno sempre in ogni luogo assicurato, come questi attualmente mi
confermano essere detta estirpazione una cosa ridicola e da non farne alcun caso. Il dolore
131
è piccolissimo e infinitamente minore che quello della estrazione d’un dente: il tempo per
eseguirla può al più estendersi a due minuti: l’emorragia se un poco di emorragia accade,
si arresta in momenti con l’uso della neve tenuta in bocca. Insomma io ti ho detto la pura
verità: ciononostante ad autunno c’è tempo, ed avremo agio ed opportunità di parlarne
per fare il tutto col più scrupoloso giudizio. Che se verificheremo insieme che in simile
operazione c’è tutt’altro che da porsi in orgasmo, non ti pare un gran beneficio quello di
liberarmi per sempre da tante maledette angine?
Torricelli è tutt’ora a Sinigaglia: al suo ritorno gli farò i tuoi ringraziamenti: gli ho
intanto fatti alla moglie la quale non vuole ascoltarli. Di ciò parleremo meglio a voce. — Sii
certa che io non mi metterei in viaggio quando non mi sentissi capace di sopportarlo,
sarebbe di partire dentro la settimana futura, secondo che potrò e dove il medico non lo
giudicasse opportuno. La mia idea su ciò trovare qui una occasione per venire a piccole
giornate sulla via del Furlo. Tre motivi mi persuadono a scegliere questo partito: 1° il non
voler passare presso Ancona con la diligenza, dove questo legno è spesso assalito dai ladri:
2° evitare tre giorni di continua scossa con tre nottate di cammino: 3° il vero incomodo del
giungere a Roma di notte. Su ciò ci risentiremo meglio. Se intanto ti fosse possibile di
ottenere il solitissimo lasciapassare, sarebbe cosa buona. Io posso riportare piuttosto
qualche cosa di meno che non qualche cosa di più di quello che portai via da Roma.
Circa all’affare di Ricci, benché non abbia potuto udire il di lui voto, esiggerò gli Sc.
40 per suo conto, e quello che non ne spenderò lo condurrò a Roma per darlo a lui o a te
secondochè sarà stato composto fra noi tre questo affare. Forse la disgraziata
combinazione di D. Pietro Lante può essere utile alla salute di Ricci padre, togliendolo a
quella vita solitaria e cogitabonda che sempre conduce.
La notizia di Galiano mi ha veramente sorpreso! Povero G. R. colle sue speranze!
Tutti i dolci e le visite delle tre damigelle, tutto gettato! — Anche io però ci perdo, diciamo
la verità, imperocché già mi andavo introitando delle altre belle trottate in quel
comodissimo legno nelle deliziose giornate estive! Ma senza burla od egoismo, mi dispiace
sul serio di non vederlo più!
È un pezzo che Cencio Rosa doveva avere il grado, ma io credevo qualche cosa più
che sotto-tenente. — Eccoti ancora da mia parte una bella letterona. Lo scriverti non mi ha
punto incomodato, ed altronde c’erano a dire varie cosette. Finisco qui dopo averti pregato
di benedire Ciro nostro e di coprirlo di baci. Mi vado consolando sempre colla speranza
che egli si ricordi del suo papà, e che studii. Quanto godrei se al mio ritorno lo udissi
leggere velocemente e a senso due pagine! — Ti abbraccio di vero cuore, Mariuccia mia, e
sono il tuo P.
LETTERA 146.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
[fine giugno 1832]
Mio caro Checco
E da Mariuccia e da Ricci avrai udito le mie peripezie.
«Eppuro eccheme quà: gnente pavura». (Io)
Senza dunque altra giustificazione tu vedi qual fu il mio ritardo di riscontro alla tua
del 5 giugno spirante. Se la faccenda andava un poco più avanti invece di giugno ero
spirato io.
132
Allorchè Biagini scriverà al valoroso Malvica fa’ che gli dica da mia parte che io ho
letto il paragrafo per me e ne ho aggradito la compitezza dell’espressioni. Esse stesse però,
moderate ed oneste quali potevano uscire dalla penna di un gentiluomo quale Malvica è,
mi hanno purtuttavia fatto dubitare che da me sino a Lui la natura delle mie opinioni e
delle parole sul di lui libro bellissimo de’ sepolcri etc. abbia per avventura potuto alterarsi
per successivi malintesi, mentre le doti dell’opera che il Malvica vuole modestamente
segnalarmi sono appunto quelle che io trovo ed apprezzo in quel suo lavoro pieno di
ardore, di dottrina e di virtù. Le uniche mie pochissime osservazioni cadevano e cadono
sul solo artificio di poche fra le molte inscrizioni onde il volume va ricco. In questo mi
parve che anche voi amici vi accordaste con me: e se così fu, o tutti dicemmo bene o
c’ingannammo tutti. Oltre la lettura da me fatta in Roma dell’esemplare che me ne die’
Biagini, l’ho replicata in questa Città maturamente, al quale effetto portai meco il libro. E
già mi accingevo alla estensione dell’articolo per l’Oniologia, quando mi assalì la mia fiera
malattia che fece colare dodici volte il mio sangue. Pretermesso allora ogni pensiere che
non fosse di cura, mi sopraggiunse la tua del 5 col paragrafo di Malvica, il quale mi fece
mutare idea, onde evitare ogni credibilità di prevenzione sinistra che mi si potesse
supporre dell’opera da esaminarsi, ed anzi da lodarsi quasi in tutto.
Malvica però non sarà frodato dall’articolo, seppure non mi manchi una promessa di
chi non mi ha mancato giammai: e nell’articolo che rimpiazzerà il mio il nostro Malvica
otterrà gli elogi e le osservazioni di ben più degna penna che la mia. L’estensore ha egli
per mia cura letto anch’egli due volte il libro e ne ha concepito il desiderio di conoscerne
l’autore.
Chiudo questo lungo paragrafo co’ miei affettuosi saluti per quel nobilissimo
ingegno che tanto onora e più è per onorare la Sicilia e l’Italia.
Non mi resta più tempo per te. L’ora della chiusura della posta già batte: e così tu,
Biagini, Piccardi etc. pigliatevi un sacco di abbracciamenti del vostro Belli.
«E se nel sacco qualcosella avanza,
Datene...»
P.S. Non so se, rispondendomi tu, io potrei avere qui la tua risposta. Dunque tu hai
talento e capisci cos’hai da fare.
LETTERA 147.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
[7 agosto 1832]
Amico carissimo
Ho udito che abbiate ricevuto dal re di Napoli una nuova decorazione, e ne ho
giubilato come di uno de’ pochi casi ne’ quali vedo fra gli uomini posarsi il fregio sul
merito, e perciò più ne ho giubilato che questo merito riconosciuto risieda in chi mi onora
della sua cara amicizia. Se la notizia è vera, come ho dei dati per credere, piacciavi di
accrescere la mia sodisfazione con una vostra diretta conferma. Da non molti giorni io
sono tornato a Roma dopo un altro breve viaggetto di poco oltre a due mesi. Qui seguo il
mio solito genere di vita: ritiratissimo e solitario. Mi aspetto di udire altrettanto di voi,
meno il vostro sollievo serale de’ quartetti in famiglia.
Vi faccio i saluti di mia moglie e vi prego di passare i miei rispetti a tutti i vostri.
133
Sono di cuore
Il vostro amico e servitore
Giuseppe Gioachino Belli
Palazzo Poli, 2° piano.
Di Roma, 7 agosto 1832.
LETTERA 148.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Sabato 20 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
Manca un quarto alle 10 e già siamo a Baccano per rifrescare. La vettura è eccellente,
e i cavalli volano. Ciro sta benone e saluta tanto tanto la sua mammà pregandola a stare
allegra.
Un’ora e mezzo prima dell’Avemaria siamo giunti a Civitacastellana, e appena preso
alloggio ho mandato il nostro Ciro con i due fidi angioli custodi a vedere il Duomo, il
ponte, la fortezza (di fuori) e lo svizzero che batte le ore sul campanile. — Tornato a casa, e
udendo dire da me che la camera assegnataci doveva per certo essere frequentata da molti
sorci, de’ quali si vedevano gl’indizii e si udivano gli strilletti, egli il nostro Cirone ha
subito esclamato: Questo è certo non vedete che anche sul pagliaccio de’ letti ce n’è l’avviso?
Queste due lettere S.A. significano Sorcio Amato. Infatti ogni paglione aveva un bollo marcato
con dette iniziali. — Ora è la ½ ora di notte. Ciro giuoca a carte con Domenico, e osserva
che la sua mammà starà con Don Ferdinando. — Or’ora si cena e poi si va a letto. Buona
notte anche a te, cara Mariuccia da parte di noi tutti.
Narni 21 — ore 10 ½ antimerid.e
Siamo giunti sani e salvi. Ciro mangia d’assai buono appetito. Abbiamo veduto
Bucchi che ti saluta. Sta grasso. La moglie sta magra e torna a Roma sul fine del mese. —
Nel dubbio di fare in tempo a Terni, imposto qui la presente. Se l’ora lo permetterà ti
scriverò pure da Terni, e così avrai le notizie nuove di là. Siamo in legno e scrivo qui
dentro; perciò Ciro non può aggiungere di più. Tanti rispetti d’Antonia e Domenico, co’
saluti per Annamaria ed Antonio.
Ti abbraccio di cuore il tuo P.
LETTERA 149.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Mammà mia, io sto bene, e mi diverto vedendo Terni che mi piace, e ci ho trovato un
anfiteatro come Corea. Vi assicuro che non mi manca altro che di stare con voi. Ma vado a farmi
uomo, e questo pensiere deve dare a me coraggio, e a voi consolazione. Tutti vi salutano; ed io vi
bacio la mano chiedendovi la benedizione.
Ciro vostro.
Di Terni, lunedì 22 ottobre 1832
134
Mia cara Mariuccia
Come ti dissi nella mia, data di Narni, non giunsi qui in tempo per impostarti un
cenno del nostro ottimo arrivo. Fummo accolti con somma cordialità da Teodora,
Mariuccia e Peppino. La moglie é restata a Torre Orsina con la figlietta, perché questa è
raffreddata, e pel bisogno di attendere alla vendemmia, lo che obliga pure Peppino a
tornarvi oggi dopo pranzo. Ciro piace a tutti quelli che lo vedono, e mostra una franchezza
per tutto, in tutto e con tutti, che fa piacere a guardarlo. Ogni tanto mi va egli dimandando
cosa farà adesso Mammà. Io gli rispondo che starà afflitta per la sua mancanza ed egli dice
povera Mammà!
Ho veduto Corazza: siamo restati d’accordo che al mio ritorno lo avviserò e andremo
a Cesi sulla faccia del luogo con un muratore e combineremo il tutto secondo il giusto e
l’onesto. Stocchi credeva che a me potesse piacere di prendere lo stesso il semestre
d’affitto. Gli ho mandato a dire da Corazza che il danaro serve a te in Roma, e però,
dovendo io subito ripartire per Perugia, o mi fornisce col denaro i mezzi di spedirtelo
franco, o lo affranchi egli stesso alla tua direzione. Già ti ricorderai che in questo semestre
ci toccano non già Sc. 105 ma bensì Sc. 97:81, stanti gli Sc. 7:19 che si debbono a Corazza. —
Circa agli Sc. 50 che questi deve dare tuttora per residuo del prezzo del terreno
vendutogli, o me li pagherà al mio ritorno da Perugia (e in questo caso gli si abbuoneranno
per essi altri Sc. 1:25 di frutti a tutto marzo 1833; epoca in cui entrerà in possesso del
fondo); ovvero li pagherà in quell’epoca come meglio a me piacerà. — Alla riapertura del
tribunale, intorno alla festa di S. Martino, sarà finita la pendenza con i frati Agostiniani,
pel sequestro circa Piacenti. Allora io sarò in Roma o starò per entrarvi, e firmeremo
insieme la procura ad esiggere, secondo i termini che in detta epoca sarò ad indicarti. — Io
vorrei ripartire per Perugia dimani mattina, ma il vetturino che ci ha condotti fin qui non
può venire, e sinora altro legno non s’è trovato. Prima che cada il giorno ciò può accadere.
— Il tempo è bello e Peppino voleva condurre Ciro in legno alla caduta e poi di là a cavallo
alla Torre; ma cavalli in questi tempi di vendemmia non si sono trovati, ed altronde
vetture non si possono prendere stante la privativa della Posta, la quale poi costa troppo.
Egli ha un legnetto, ma attualmente manca di cavallo. — Oggi penso di mandar Ciro a
vedere il così detto Sasso di S. Paolo a mezzo miglio fuori le porte di Terni, dove il fiume
imbattendo in un enorme macigno piantato a traverso il suo corso, forma un salto
bellissimo. Sarà questa vista una miniatura della cascata che vedrà un giorno. —
Mariuccia mia, pensa a sollevarti quanto più puoi, e sii persuasa che Ciro sta bene e
meglio starà sempre coll’aiuto del Cielo. — Antonia e Domenico non cessano d’insistere
perchè io ti porga i loro rispetti, e ti mandi i saluti per la Signora Annamaria la Decana e
per Antonio il novizio.
Martedì 23.
Non siamo oggi partiti per mancanza di vettura; partiremo però dimani mattina: si
rinfrescherà a Spoleto: la sera a Fuligno; e giovedì mattina saremo a Dio piacendo, in
Perugia; ciò accadrà presso a poco allorché tu leggerai la presente. — Ciro ha fatto una
grande amicizia con un canòne di casa. Bisogna vedere come questa bestia gli corre
appresso per tutto. La seconda amicizia poi l’ha stretta con un bell’albero di fichi che sta
giù nell’orto. Ogni tanto corre giù, e sta contemplandolo a testa alta e bocca aperta. Questa
mattina Domenico ed io siam saliti sull’albero, ed egli era fuori di sé raccogliendo da basso
i fichi che gli facevamo cadere. Non credere però che ne abbia mangiati: li ha tutti portati
in casa per pranzo. Già egli parla di Terni e delle sue strade, come di Roma; e mostra una
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prontezza tale che credo non avergli mai scoperta dapprima. Le mangiate e le dormite son
come quelle d’Albano, e sta rosso e duro come una mela rosa. Ieri fu, come ti dissi, al sasso
di S. Paolo, e tornato a casa imitava con salti e suoni di bocca il rumore e il moto di quel
fenomeno d’acqua. Oggi è andato a S. Martino, al Monumento, alla Madonna del Rio, e
verso la strada di Piedelmonte. Antonia e Domenico gli sono sempre al fianco: io per verità
faccio il poltrone. —
Finisco col pregarti nuovamente a star del migliore animo che puoi. Tutti ti salutano,
e Ciro ti bacia la mano chiedendoti di nuovo la benedizione. Io ti abbraccio di tutto cuore;
e sono al solito
il tuo P.
LETTERA 150.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 25 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
Partiti ieri mattina da Terni arrivammo ieri a 22 ore e mezzo a Fuligno, dove
girammo alquanto per far vedere alla mia gente la Città e i guasti del terremoto. Dopo
bene albergato si è ripartiti questa mattina a giorno e alle ore 11 antimeridiane eravamo
già qui in Perugia distante da Fuligno 22 miglia. Tutto è andato benone. Smontati appena
in locanda è venuto a vederci Biscontini il quale ha fatto tutti i patti col locandiere e ci ha
assistiti a pranzo. Dimani pranzerà con noi: noi poi andremo per un paio di giorni alla sua
villeggiatura. — Ho mandato alla posta, e infatti eravi la tua del 23 con l’inclusa carta
bollata che ti rispingo firmata. Circa alla assicurazione ci avrei sempre badato benché tu
non me lo avessi detto. — Ho già parlato col sarto e col calzuolaio. Il primo farà a Ciro un
abito nero, due pantaloni e gilè simili (tanti ne fanno gli altri) soprabito e pantaloni di
borgonzò e feraiuolo simile: il calzuolaio poi gli farà due paia di scarpe. — Domani
andremo a visitare il Collegio, e allora ti saluterò il Presidente Colizzi: oggi sono tutti in
campagna. — Appena vedrò Micheletti gli farò il tuo saluto. — Di Stocchi già ti dissi nella
mia di Terni 24 corr.e; feci a Corazza molte premure, ma nulla vidi prima della mia
partenza. Spero che non vorrà prendersela così comoda. — Va bene della De L’Arche: se si
esigge, dimmelo, ed io le ne accuserò subito il ricevuto. — Biscontini mi fornirà tutto il
danaro che mi occorrerà. — Ho parlato lungamente e continuamente con Ciro di te, ed
oggi in particolare gli ho letto il paragrafo della tua lettera: egli dice che ti dia tanti e tanti
baci sulle mani e sul viso da parte sua, e ti chieda a suo nome la benedizione. — Noi
stiamo tutti bene. Antonia e Domenico ti riveriscono. Biscontini ti saluta: io ti abbraccio di
vero cuore.
Il tuo P.
LETTERA 151.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, sabato 27 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
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Noi seguitiamo tutti a star bene: ieri conducemmo Ciro a vedere il Collegio: ci ricevé
il Presidente Colizzi che ti saluta. Lo stabilimento non può essere meglio esposto né più
propriamente tenuto. Tutto bene. Bel refettorio, bella cucina, bel teatrino, bei bigliardi,
bellissimo oratorio, insomma tutto bello, proprio e decente. Si è stabilito che per
quest’anno Ciro starà fra i piccoli, onde abbia più cura, non parendo ancor tempo che
dorma in una camera solo, né essendo capace di quegli studii che occupano i mezzanelli.
Starà dunque in un grazioso dormitorio scompartito in vaghi lettini di ferro, tutti nuovi.
Accanto al suo lettino, che è coperto di un vidò bianco, avrà il suo tavolinetto da posar le
sue cosette, e un attaccapanni coperto da tavoletta e tendina. — Egli entrerà lunedì
prossimo, onde andare subito alla scampagnata che in quel giorno tocca; ed è meglio, a
sentimento di tutti, che partecipi di questi ultimi giorni di divertimenti onde al suo
ingresso non metterlo subito al travaglio. Ciro è il più bello di tutta la sua camerata.
Avvicinatosi ai suoi futuri compagni (fra i quali sono Grazioli, Sartori e Bartolucci) tutti gli
si andavano mettendo accanto per vedere se era più alto o più basso di loro, e poi tutti
pregavano il Presidente che lo facesse restare a pranzo con loro. — Appena Ciro sarà in
Collegio, noi andremo per due giorni al casino di Biscontini e poi tornati a Perugia vi
passeremo altri due o tre giorni per visitarlo: quindi partiremo per Terni. — Addio,
Mariuccia mia: Domenico e Antonia ti riveriscono: Ciro ti bacia la mano e ti chiede la
benedizione, ed io ti abbraccio di cuore
il tuo P.
LETTERA 152.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 30 ottobre 1832 — martedì
Cara Mammà mia, io sto bene e contento, e vi chiedo la benedizione, baciandovi la mano con
rispetto ed affezione.
CIRO VOSTRO.
Mia cara Mariuccia
Hai ragione veramente di lagnarti che nella lettera che ti diressi il 25 non vi fu nulla
di carattere di Ciro, come altresì nulla vi avrai trovato nell’altra del 27, ma sappi che dette
due lettere per varie circostanze furono da me scritte e chiuse in somma fretta. Eccoti nella
presente due righe di questo caro figlio scritte da lui questa mattina nella camera del
Presidente Colizzi. Ieri, come nella mia precedente ti avvisai, seguì il suo ingresso in
Collegio. Alle 9 lo mandai con Antonia e Domenico per udire a quale ora si poteva tornare
con lui e con la canestra del corredo, onde fare la consegna così di esso come della roba:
egli corse sempre avanti sino alla porta del Collegio, ed arrivato dentro non volle più
tornare indietro, di modo che Antonia e Domerico ve lo lasciarono e tornarono soli,
maravigliati dell’allegria e franchezza da lui mostrata nel prendere subito possesso del suo
nuovo domicilio. Dopo le 10 vi tornammo tutti insieme col bagaglio, e trovammo Ciro
cogli altri ragazzi della sua camerata in un salone, che è la platea del teatro, dove faceva il
capo-popolo giuocando a palla, e dirigendo e vincendo tutti in quell’esercizio. Era un bel
vedere con quale ilarità e destrezza si tratteneva in simile favorita occupazione dentro un
gran vano vuoto, circondato da mura amplissime e senza alcuno impedimento, neppur di
finestre, che stanno assai in alto. Mi disse il prefetto che già avevano i ragazzi fra loro
accozzato una commediola d’invenzione, nella quale al solito Ciro si fece rimarcare per la
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sua franchezza e lepidezza. — Dopo qualche tempo passarono al giuoco delle boccette
nella sala de’ bigliardi. Il cattivo tempo non permise la campagnata: e si divertirono tutto il
giorno in casa.
Questa mattina è uscito a passeggiare nel suo uniforme nero con tutti gli altri
compagni: oggi a 22 ore vi torna un’altra volta. Lo abbiamo trovato contentissimo di tutto,
del vitto, del letto, degli usi etc. etc. Accanto al suo bel lettino ha il suo tavolinetto con
tiratorini, il suo comodino chiuso, insomma tutto l’occorrente.
Il Presidente Colizzi m’ha assicurato che è il più caro ragazzetto che abbia veduto: e
l’Economo del Collegio mi assicura che non già un novizio egli si mostra ma sembra un
veterano. Dunque, Mariuccia mia ringraziamo Iddio di questa nostra risoluzione. — Il
tempo guastatosi non avendoci permesso d’andare al Casino di Biscontini, io penso di
partire di qui venerdì 2 novembre. La sera vorrei essere a Spoleto per trattenermici il
sabato mattina onde tentare di parlar con Plinj che al mio primo passaggio non trovai,
stando egli a Monte Falco. Perciò lo avviso oggi per lettera, come avviso altresì Corazza e
la casa Vannuzzi del mio arrivo a Terni nella sera di sabato 3. — Scrivo oggi anche a
Stocchi e alla De L’Arche. — Qui si sono spesi e si spendono dei buoni quattrini: al mio
ritorno avrai il conto di tutto, onde metterlo nel libro delle memorie della domestica
economia. Ciro, separatamente dal suo scritto, mi ha incaricato di dirti tante altre cose per
lui e di darti trecento baci. I saluti di tutti per tutti e i miei affettuosi amplessi per te. Sono
il tuo
P.
P.S. — Ciro è tutto in festa perchè ieri sera vinse in Collegio una tombola, con cui ha
dato trattamento di caffè e latte a tutti i convittori.
LETTERA 153.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì, primo novembre 1832
Mia cara Mariuccia
Gran motivo certo di consolazione mi riesce e deve ancor a te riuscire il vedere con
qual brio, contentezza e buona grazia il nostro Ciro si presta alla nuova vita che ha
intrapresa. Non si fa mai aspettare in niun uficio e in niuna circostanza degli usi di
comunità: non abbisogna di alcuno stimolo, né guida, né assistenza: tutti i superiori sono
incantati di lui, e tutti i ragazzi han gli occhi sopra esso. Ogni giorno noi lo abbiamo
visitato, e ieri andammo a far ciò nell’ora del pranzo del Collegio. Mangiava con un
piacere e con una disinvoltura, facendo al solito tutto da sé, che innamorava il vederlo.
Come poi siano i Convittori trattati e con qual’ordine e proprietà non è cosa da dirsi così di
leggieri. La lettura del pranzo dura momenti, e poi i ragazzi son sempre dispensati dal
silenzio, facendosi loro facoltà di parlare scambievolmente, purché ciò sia alquanto sottovoce e con decenza; mentre, come mi diceva il Presidente Colizzi, questo non è un
seminario vescovile, ma un instituto di educazione civile, donde debbono uscire giovani
destinati al conversare e a tutti i migliori usi della società. Questa mattina di buon’ora
Antonia e Domenico sono andati a vederlo: allegro come il consueto, e s’incamminava
allora alla colazione che consiste in una pagnotta di 5 onze e due fette di prosciutto, il tutto
di eccellente qualità. Egli ha detto a Domenico e Antonia che gli salutassero tanto la sua
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Mamà, e le dicessero da sua parte che egli è assai contento e studierà assai. Più tardi ci
andrò a vederlo anch’io, e verso sera ci si tornerà. Domani mattina poi ripartiremo di
Perugia: la sera saremo a Spoleto: ivi starò il sabato mattina per veder Plinj, a cui ho
scritto, e per ritirare dall’uficio delle ipoteche la cancellazione (che ordinai al primo
passaggio) della inscrizione Castelli e Avv. Conti. Sabato a sera poi sarò a Terni, dove ho già
avvisato tutti per lettera. Stimolai, come ti dissi, nuovamente lo Stocchi a spedirti il
semestre del quale abbisogni. — Adesso adesso si va in un casino qui vicino dove
Biscontini ha preparato un convito a me e varie altre persone scelte.
In questo punto ricevo la tua del 30, che è tale da mettermi in costernazione.
Mariuccia mia, se non vale a consolarti il ripeterti con la maggior sincerità dell’animo mio
l’eccellente stato di spirito e di luogo in cui si trova il nostro, figlio, io non so più cosa dirti.
Ieri mentre pranzava così esultante, gli si avvicinò Domenico dimandandogli dove fosse
più contento, se a casa o lì. Senza esitare un momento egli rispose: Qui, e quel David (il
suo cameriere) è un gran bravo giovanotto. Consolati, mia cara Mariuccia, e credi al tuo
aff.mo P.
LETTERA 154.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Terni, sabato 3 novembre 1832 alle 4 ¾ pomeridiane
Ciro mio caro
In questo punto siamo qui arrivati, e il mio primo pensiero è di darti questa notizia
onde tu sappia che il nostro viaggio è stato felice e che noi pensiamo sempre a te. Io mi
persuado che tu stia benissimo, siccome allorché ti lasciai e spero fermamente che la tua
condotta tanto nel costume che nello studio sia, e sia sempre per essere lodevole. Questo è
lo scopo di ogni desiderio della tua mammà e mio, e questo è altresì ciò che tu devi alle
amorose cure di chi attualmente veglia alla tua educazione. Riverisci per me, mio caro
figlio, il Sig. Professor Presidente Colizzi e il Sig. Economo Don Antonio Ribacchi. Credo
che io starò in questa Città sino a tutto il giorno di Mercoledì 7 corrente, e poi tornerò a
Casa per far compagnia a Mammà. Antonia e Domenico t’inviano mille e mille saluti, ed
altrettanto fanno questi nostri parenti. Io poi amorosamente ti abbraccio e ti benedico.
Il tuo Papà.
LETTERA 155.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, domenica 4 novembre 1832
Mia cara Mariuccia
Secondo l’itinerario già precedentemente partecipatoti, giungemmo ieri sera in
questa Città. — Lasciammo Ciro giovedì sera in ottimo citato di salute e al solito
contentissimo della sua sorte. Per mostrarti come ivi è bene raccomandato, e con quanta
facilità noi potremo essere al giorno di tutto ciò che lo riguardi, sappi che i Coniugi Rossi
(quelli che vennero a pranzo da Biscontini anni indietro con Scifoni ed altri) lo visiteranno
ogni festa, lo terranno raccomandato colle loro molte conoscenze, e lo assisteranno in
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qualunque occorrenza. — Micheletti lo conosci: il fratello di Micheletti è Computista del
collegio, e molto ivi ben veduto: una Signora che va a sposare detto fratello di Micheletti è
intrinseca amica del bravo e caro D. Antonio Ribacchi economo e factotum del collegio, il
quale va in casa di lei ogni sera dall’avemaria ad un’ora, e poi dicendo d’aver tanti figli da
assistere torna al Collegio fra essi che lo amano come un padre. Il rettore Can.co Cambi è
parente del mio amico Procacci di Spoleto, il quale gli raccomanderà continuamente il
nostro Ciro. — La famiglia di Monsig. Cittadini Vescovo di Perugia è tutta amica di
Domenico, e mediante l’ascendente che il Vescovo non manca di avere su quell’istituto
ancora, essa famiglia terrà esatta cura de’ vantaggi di Ciro. I professori dell’università, fra i
quali il chiaro Mezzanotte col quale ho stretto amicizia, dovendo andare in collegio ad
istruirvi i giovanetti delle classi inferiori, avranno gli occhi su Ciro. — I Camerieri, il
guardarobiere, e tutti gli altri addetti all’instituto, bravissima e amorosa gente, non
mancheranno di assisterlo, e anche d’informarci in caso di bisogno dirigendosi
specialmente a Domenico, che ha seco loro combinato ogni cosa. — Aggiungi a tutto ciò i
reali meriti del Collegio stesso, e la eccellenza vera del carattere del Presid. Colizzi, e poi
dubita e temi pel figlio nostro. Lo so, tu addurrai la ragione di non vederlo: ma ti deve
consolare il pensiere che egli si va intanto facendo un degno uomo e stimabile. Presto tu
avrai le sue nuove dirette. — Nel partire da Perugia pregai Biscontini di rispingermi qui la
lettera che tu possa avermi inviato a Perugia giovedì primo del mese. Oggi dopo il pranzo
aspetto poi tue notizie dirette da Roma. — Io credo che starò qui intorno a quattro giorni,
secondoché potrò decidere quando avrò veduto Corazza e Stocchi e terminato le faccende
con essi. Non perdo neppure di mira qualche altra cosetta che vi è da fare: quella però e
frati Agostiniani non può materialmente definirsi che verso i 20 del mese. Farò i conti con
Peppino sulle dative da lui pagate in quest’anno, ho già esatto l’annata di F.co Diomede
prima di andare a Perugia: stimolerò Desanctis per la prima rata del censuccio di Sc. 28:50
che deve restituire in tre anni per convenzione da noi fatta l’altro antro; e se non paga,
ordinerò che si citi. — Se tu puoi al solito farmi avere il lasciapassare mi farai cosa grata.
— Peppino, la moglie e la figlietta sono ancora a Torre Orsina. — Mariuccia mia, procura
di star bene e il più sollevata che puoi: così operando mi darai gran consolazione, e te ne
sarò gratissimo. — Antonia, Domenico, e le cugine ti dicono mille cose: io ti abbraccio di
cuore, e sono il tuo P.
Noi torniamo a Roma carichi di baci di Ciro per te e di sue ambasciate pure per te.
LETTERA 156.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, giovedì 15 novembre 1832
Mio caro figlio
Per varie combinazioni, fra le quali la pioggia non ebbe l’ultimo luogo, mi trattenni a
Terni tanto che giungendo a Roma la sera di martedì scorso vi trovai la tua lettera del 10,
giunta al mio indirizzo nell’antecedente lunedì. In essa trovo, mio Ciro, motivi di
consolazione, sia in riguardo al buon stato di tua salute, sia per rapporto alla lusinga che
tu porti di aggradire colla tua condotta a’ tuoi ottimi Superiori, ma finalmente a motivo
della soddisfazione che mi mostri del nuovo tuo stato.
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Vivendo, tu conoscerai un giorno quello che tutti gli uomini sperimentarono, la
vanità cioè di tutto quanto non è merito e virtù; e questa verità, che ti viene dalla bocca di
un padre che non saprebbe mai ingannarti, ti sostenga il coraggio e la ilarità nel bel
cammino sul quale la mia tenerezza ti ha messo. — Se ciò non si contrarii alle regole di
codesto instituto, mi piacerebbe oltremodo che tu nella tua corrispondenza con me e con la
tua Madre non abbandonassi quel certo tuono di affettuosa confidenza che noi sempre
t’inspirammo, e da cui tu mai non iscompagnasti il rispetto dovuto dai figli a’ loro parenti:
di maniera che i dolci titoli di papà e Mammà ci giungerebbero assai più cari degli altri di
Signor Padre e Signora Madre. Ripeto però che io subordino questo mio desiderio alle
leggi della educazione del luogo dove tu ti ritrovi. Quello però che assolutamente io
t’inculco è il modo delle soprascritte da usarsi sulle tue lettere. Nessun titolo, Ciro mio. A
me semplicemente «Signor Giuseppe Gioachino Belli», e a Mammà tua «Signora Maria Conti
Belli» e basta. In Casa nostra non vi sono titoli di nobiltà fuorché abusivi, per una invalsa
consuetudine nata da parentele. Il mio carteggio poi e quello di Mammà ti prego di
conservarlo tutto, dappoiché io sono assai attaccato alle memorie di famiglia. Altrettanto
noi qui faremo delle lettere tue che tu non mancherai di indirizzarci regolarmente secondo
le norme del Collegio. — Gli amici di Casa, che tu hai pel mio mezzo salutati, ti
ringraziano e risalutano cordialmente; ed io ti prego di porgere i miei distinti ossequi,
uniti a quelli della tua Mammà, a’ tuoi Sig.ri Superiori, e distintamente al Sig. Professore
Presidente Colizzi. — Mammà ti benedice, mio caro Ciro, con tutta la effusione del cuore,
ed io faccio altrettando ripetendomi
tuo aff.mo Padre
Palazzo Poli, 2° piano.
LETTERA 157.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, martedì 27 novembre 1832
Mio carissimo figlio
Niun’altra consolazione può mai venirmi maggiore, e neppure eguale a quella che mi
apportano le tue lettere, e che potranno esse arrecarmi, allorché, siccome nell’ultima tua io
vi troverò sicurezze della tua condotta, della tua salute, e del tuo amore per me e per la tua
buona Mammà. La nostra esistenza, Ciro mio, è una cosa che va disciogliendosi come tutto
il resto del Mondo; ma la speranza di vedere un giorno in te un frutto onorato delle nostre
cure fa quasi parere di avere cominciato una nuova vita al principiar della tua.
Ricevo con gratitudine l’onore de’ saluti del Sig. Presidente; e in quanto al Sig.
Rettore, che si è compiaciuto di aggiungere del Suo nella tua lettera del 24, io qui intendo
di rivolgermi a Lui direttamente per ringraziarlo delle Sue gentilezze, ed assicurarlo
insieme che io saprò risarcirmi del dispiacere di non averlo ancora conosciuto, allorchè mi
recherò in maggio a Perugia per trattenermici qualche tempo.
Ad Antonia, mio caro Ciro, a quell’Antonia che tanto amorosamente ha vegliato
sempre su te fin dalla tua nascita, è dispiaciuto di non vedersi mai nominata nelle tue
lettere. Tu sai quanto ti ama questa eccellente donna che per le sue virtuose qualità merita
quasi un titolo a dirsi appartenente alla nostra famiglia. Sii riconoscente, mio caro figlio, a
chi ti ha fatto del bene, e pensa che la gratitudine è la sola virtù terrena che potremo
portare nel cielo, dove, come dice un autore eccellente, non vi sono né perdoni da
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dimandare né grazie da ottenere, ma resta solo l’amore de’ beneficii. Parrà a te forse che io
voglia portare le mie parole alquanto fuori della intelligenza propria della età tua: ma a
me, Ciro mio, piace di parlarti come si deve ad un uomo che dev’essere uomo ogni dì più:
e poiché la conversazione fra noi stabilita della nostra corrispondenza mi fa lusingare che
tu abbia un qualche giorno a rileggerla per grato passatempo del cuore, così amo che
alcuna almeno delle molte frasi delle quali si compone una lettera di famiglia, possa
servire a secondare in te lo sviluppo delle morali intelligenze. Né di rado pure accadrà che
le cose stesse che io ti dico confronteranno con le massime a te sviluppate da’ tuoi ottimi
Superiori, nel che troverai una prova della verità che dirigge le loro bocche e la mia.
Addio, mio carissimo figlio: io non voglio più lungamente separarti da’ tuoi doveri.
Mammà ti benedice con me. Tutti gli amici di casa, fra i quali il Sig. Dr. Ferdinando, il Sig.
Canonico Spaziani, il Marchese Ossoli, e i Sig.ri Avv. Ricci, Spada e Biagini ti salutano con
le più cortesi parole. Ti salutano altresi Domenico, Antonio ed Annamaria, i quali, oltre
Antonia, compongono la nostra buona famiglia. Ama, Ciro mio, il tuo aff.mo Papà.
P.S. Di qui innanzi avrai le mie lettere affrancate: così la tua piccola borsa farà questo
risparmio. Nell’ordinario passato non vi pensai.
LETTERA 158.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 5 marzo 1833
Mio caro figlio
Nella mia penultima lettera ti raccomandai di non ripeter più la tanta tardanza de’
tuoi caratteri, ma vedo che ciò è subito tornato ad accadere, dappoiché dal tuo foglio del 2
febbraio non hai più scritto. Questa è una cosa che dà molta molestia a tua madre ed a me;
ed io sopratutto, amante rigidissimo delle discipline stabilite e convenute, non posso
vedere senza molto rammarico che l’inosservanza di una di esse cada appunto sopra un
articolo che valse fra gli altri a determinarmi al distaccarti da me. Due lettere al mese,
siccome prescrive il regolamento del Collegio, se non sono sufficienti a consolare un padre
della lontananza di un unico figlio, bastano pure a fargliene sostenere il danno, in armonia
colla idea della educazione a cui i genitori pospongono la contentezza della presenza de’
figliuoli loro. Mi farai pertanto cosa gratissima, mio caro Ciro, se pregherai in mio nome
chiunque attualmente dirige la tua piccola segreteria, di mantenere in te una diligenza di
carteggio che non abbia mai più a rinnovarmi il rammarico di richiamarti a memoria un
punto per me del massimo interesse. Abbiti, figlio mio, gli abbracci e le benedizioni della
tua Mammà, ed i saluti singolari di ciascuno degli amici e della famiglia. Sono con la solita
tenerezza
Il tuo aff.mo Padre
LETTERA 159.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, sabato 9 marzo 1833
142
Mio caro figlio
È precisamente accaduto quello che avvenne la volta precedente. Lo stesso giorno in
cui io scriveva a te fu quello della tua data nello scrivere a me. Spero però di averti in
modo manifestato le mie idee, che quindi impoi il nostro carteggio tornerà ad essere e si
conserverà regolare. Di molto conforto mi è riuscito il sapere da te l’allegro modo col quale
si è nel tuo Collegio trapassato il tempo carnevalesco, e quanto i goduti passatempi
abbiano contribuito al ricrearti l’animo e al confortarlo a nuove prove di coraggio nello
studio, resoti ormai dall’abitudine più piano ed aggradevole. Così è, Ciro mio: i sollazzi
sono allo spirito quel ch’è il cibo al corpo. Gli alimenti lo ristorano dalle fatiche e
gl’infondono vigore per fatiche novelle; nel tempo che le fatiche stesse abbisognano
all’uomo onde poi assaporar meglio il divertimento, il quale, non condito dal desiderio, è
simile ad una vivanda, che, quantunque saporosa e delicata, riesce insipida e nauseante
senza lo stimolo dell’appetito. Guai a chi mangia nella sazietà; e così, misero colui che
estingue lo spirito in diletti non mai alternati dal travaglio. Il languore, la noja e il disgusto
di sé ne faranno un essere morto prima di morire, e in poco dissimile dai candelabri e dalle
statue che van decorando i luoghi delle sue dissipazioni. È inutile che a questo passo io ti
ripeta l’assicurazione della paterna sincerità. Tu lo sai che io non seppi mai ingannarti: ma,
nell’attuale soggetto, alla verità delle mie parole voglio unire il soccorso della tua stessa
memoria. Non ricordi tu, Ciro mio, quante volte il giuoco troppo continuo ti ha riempito il
cuore di svogliatezza; e tu, deluso nella tua lusinga di sollievo, passavi da un giuoco
all’altro senza mai trovar quello che ti dasse il diletto di cui abbisognavi? — Io, lo confesso,
talora ti abbandonava a te stesso e ti lasciava fare, perché appunto una verità non
insinuata da alcuno, ma sollevatasi spontanea nel nostro cuore dal gran fondo
dell’esperienza ci mette meglio nell’animo un principio salutare, che un giorno richiamato
opportunamente ad esame sparge la nostra vita passata di una luce che c’illumina
l’avvenire. Comprenderai bene, Ciro mio, queste mie riflessioni? Ne dubito: ma convinto,
come sono, che alcuno de’ tuoi eccellenti superiori ti aiuterà a penetrarle, non tralascio di
fartele e per tuo bene e per mia stessa soddisfazione. Non puoi credere quante cose
affettuose ti dica la tua buona Mammà, la quale, allorché giunse la tua lettera, corse ella
medesima a portarmela, tutta ansante di consolazione. Tutti gli amici che tu hai nominati,
e così ciascun individuo della nostra affezionata famiglia ti ripeton cordialmente i loro
saluti. Solamente, ti ripeto, il Sig. Toceo noi non lo vediamo, ed io non so neppure se sia in
Roma. E di tanto ciò basti.
Io ti abbraccio, mio caro figlio e t’incarico de’ mie rispetti a’ tuoi Sig.ri Superiori.
Benedicendoti finalmente mi ripeto
tuo affez.mo Padre
LETTERA 160.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 21 maggio 1833
Mio carissimo figlio
Ogni tua lettera è una nuova consolazione per la tua buona Mammà e per me.
L’udirti sano e studioso ci rallegra in modo che non saprei facilmente spiegartelo. Segui,
Ciro mio, segui con coraggio ad applicarti agli studii i quali, se ti daranno alcuna fatica, ti
diverranno essi medesimi il più dolce premio degli ostacoli che avrai superati colla
143
perseveranza; perché lo sviluppo progressivo che succede nelle facoltà intellettuali a
misura del loro esercizio, va a poco a poco tant’oltre, che giunge finalmente ad
innamorarci del nostro dovere. Allorché le tue idee si andranno ordinando, allorché il tuo
spirito verrà culto, quando col bel corredo di scienza che ti si prepara conoscerai cosa è il
Mondo, cosa è l’uomo, e qual’è il nobile destino di questo, ringrazierai ben di cuore la
Provvidenza che si compiacque riporti nel numero di coloro ai quali le Maraviglie di Dio
non sono nascoste dall’infelice ignoranza. E qui figurati, o figlio mio, la gioia che io
proverei, se trovandomi, come io spero, al tuo saggio di settembre, ti vedessi onorato di un
premio disputato nobilmente agli altri cari giovinetti che ti accompagano nella tua
carriera. Sarebbe quello ai miei occhi quasi un mio stesso trionfo, poiché nulla di bene o di
male può a te mai arrivare, che io non io consideri come cosa mia propria.
Forse il Sig. Presidente ti avrà detto che io meditava di farti un dono lavorato colle
stesse mie mani. Te ne avrei potuto anche fare una sorpresa, ma amo anche più il
mettertene in aspettazione. Esso consiste in tre morali novellette, e secondo la tua capacità,
da me tradotte dall’inglese, pur da me ricopiate in guisa ben bene intelligibile, e fatte poi
legare in forma di libretto con qualche discreta eleganza. Quelle con permesso de’ tuoi
Superiori tu leggerai, e potrai ancora fare udire a’ tuoi compagni d’età e di studio,
dappoiché io stimo che un buon fanciullo possa per la loro lettura diventare migliore.
Riceverai il libretto da me direttamente nell’entrare del prossimo giugno, allorché ti
stringerò al mio cuore, e ringrazierò caldamente chi prende cura di te. Riverisci intanto a
mio nome i Sig.ri Presidente, Rettore, ed Economo: ricevi la benedizione di Mammà e la
mia: aggradisci i saluti de’ nostri affezionati famigliari, e credimi sempre tuo
amorosissimo Padre
LETTERA 161.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
[28 maggio 1833?]
Caro Checco
Eccoci a 500. Forse mi arresterò un momento: forse non mi arresterò. Leggi intanto la
dozzina che mancava alla mezza chiliade, e più tardi verrò io a riprenderla per porla in
collegio. Ieri sarei venuto: ma che tempo non fu? Il buono. Oggi che non è il cattivo sarò ad
udire se la mia armata possa racconciarsi. Chi leggesse, altri che te, questo foglio, direbbe:
qui c’è congiura di certo: e non saprebbe che si tratta di sonetti... [solda]tini di stagno.
Questa dichiarazione sia un... in caso che Antonio dasse per via... e lo frugassero alla
granguardia: benché...
martedì 28.
Sono il tuo
g. g. b.
LETTERA 162.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 6 giugno 1833
144
Mia cara Mariuccia
Ieri mattina tre ore avanti il mezzodì, avendo dovuto staccare un legno per me,
finalmente potei partire da Spoleto, e jeri sera alle 23 ½ stavo alla porta S. Pietro di questa
Città. Siccome detta porta conduce alla passeggiata del Frontone, mi cadde in mente un
desiderio e una lusinga insieme di potervi incontrar Ciro di ritorno dal passeggio. Detto,
fatto. Appena sono sotto all’arco della porta, eccoti la Camerata de’ piccoli del Collegio che
passo passo entra in Città. Al sentire i sonagli, Ciro nostro, vispo come un cardello, si
rivolge, e mi riconosce al momento, benchè io stassi al buio dentro un legno con le
bandinelle tirate. Mi vide pel davanti, e disse scuotendo le zampette: ecco Papà. Per allora
ci salutammo e non più. Io mi fermai per dare il passaporto etc. etc. e la Camerata andò
innanzi: ma poi sbrigatomi, la raggiunsi sotto alla fortezza presso alla nuova apertura. Lì
discesi e abbracciai Ciro. Non ti so dire come lo vidi sano, bello, allegro, colorito e
prosperoso. È il più grande de’ suoi compagni, sta forte e robusto, e pare un bel fiore di
primavera. Gli dissi qualche cosa di te e della famiglia, lo baciai per tuo conto, e ci
lasciammo per rivederci stamattina. Sono infatti escito per ciò, ma che vuoi? Per arrivare
soltanto al Caffè a far colezione mi sono bagnato come in una fontana, tanto era ed è il
diluvio che, accompagnato da vento e freddo, vien giù in questa orrenda giornata. Ho
dovuto tornare alla locanda, aprir la valigia, e mutarmi fino dirò alla camicia. Quindi non
calmando l’ira del tempo, gli ho mandato un biglietto dal Cameriere di questa locanda
della posta, dove mi è forza sostare per ora sotto alla mannaja dell’onesto cliente di
Biscontini. Appena il tempo lo permetterà, escirò per far qualche cosa e vedere qualcuno.
Intanto ho fatto prendere alla posta la tua lettera del 4. Godo delle buone notizie di
Angelica quanto mi rattristo di Bertinelli. Non so se a Roma si sarà fatta la processione: qui
no per la furia dell’acqua. — Ti avviso che Frecacavalli ti dovrà prima di partire riportare i
miei Promessi Sposi in tre volumetti. Se lo vedi, salutamelo. — Giorni indietro è qui stato
carcerato in piazza Menicucci, con dispiacere di tutta la Città, la quale del resto è trista ma
tranquilla. — Nello scorso ordinario ti spedii da Spoleto il mio N° 5 con tutto il necessario
nell’affare Canale. Per oggi non so dirti di più. Ti abbraccio di vero cuore, e sono
il tuo P.
LETTERA 163.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, sabato 8 giugno 1833
Non rispondo ad alcuna tua
perché in questo ordinario non
ne ho avute.
Eccomi, mia cara Mariuccia, a darti pieno ragguaglio di ciò che concerne il nostro
Ciro. Ieri mattina, malgrado la continuazione della solita pioggia mi recai al Collegio dove
fui ricevuto dal Sig. Presidente Colizzi e dal Sig. Rettor Cambi, i quali uno e l’altro ti
salutano. Il secondo andò in persona a chiamar Ciro nella sua Camerata, e poco dopo me
lo vidi comparir davanti nel solito aspetto di contentezza, vivacità e buono umore. Mi
dimandò di Mammà e poi di Antonia e quindi di Domenico e di Annamaria: nè obliò
alcuno de’ parenti e degli amici. A tutte le dimande io soddisfeci, e lo abbracciai e baciai
molto per te e per tutti gli altri. Alla richiesta del come e quanto fosse egli pago della sua
vita del Collegio, mi rispose un sì con quella sua tanto cara maniera giojosa, con cui una
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volta ci rallegrava in famiglia ed ora rallegra e guadagna il cuore di tutta la Comunità.
Non ti saprei dire la soddisfazione da lui provata al vedere il pallone cominciò a saltare e
stropicciare le mani, dicendo che appunto arrivava a proposito, perché il pallone
antecedente si era finito di rompere nelle recenti campagnate di Maggio. Oltre a giuocarci
tra compagni al modo consueto, il Maestro di fisica si occupa di tanto in tanto di
gonfiarglielo di gas idrogeno, ed allora que’ ragazzetti si divertono in farlo ascendere e
ritirarlo quindi a terra mercé uno spaghetto dal quale è frenato. E bisogna sentire come
Ciro e Grazioli, tutti due specialmente conoscano gl’ingredienti ed il processo di questa
fisica operazione. In appresso si passò ai soldati. Nuovi scoppii di gioia: ed altra gioia ai
due cartocci di mandorle e confetti di Antonia e Annamaria che ringrazia senza fine,
siccome immensamente ringrazia te della cioccolata, della quale è assai ghiotto. Insomma
egli disse, battendo in terra i piedi: Tutto buono: una cosa meglio dell’altra. E quanto aggradì
il mio libretto! Me ne lesse subito la lettera dedicatoria, parlando a zompetti alla perugina,
come se qui fosse nato e stato sempre.
Se lo sentissi quanto è curioso! non pare più romano. Negli studii ho avuto nuova
conferma che si conduce benissimo, e secondo le precise parole del Rettore, batte i migliori
che nella sua Camerata distinguevansi prima del suo ingresso in Collegio. Ha già delineata una
carta dell’Irlanda, la divisione geografica delle parti principali di tutti i regni e altre terre
del globo, la sa a mente come il paternoster; e così comincia a conoscer benino la
grammatica italiana. Nella Calligrafia poi il Maestro fa adesso scrivere a lui gli esemplari
pe’ suoi compagni. In una parola non puoi farti una idea adeguata di quanto dia piacere il
vederlo e l’udirlo.
Ho interrogato il guardarobbiere per quel che si deve fargli ancora di vestiario. Mi ha
risposto che [...] una sola mutatura per casa. Io dunque la farò eseguire, e m’informerò
ancora se vi sia bisogno di altro per questo caro figlio, come di peculio, di scarpe, etc. etc.
Egli desidererebbe da me certi pezzetti di cartoncino dipinto che si vendono in una
bottega da lui conosciuta, i quali diversamente combinati formano certe piacevoli figure.
Io voglio contentarlo, ed un giorno dopo pranzo me lo farò consegnare, e portandolo a
spasso lo appagherò. Darò pure qualche cosetta di mancia al guardarobbiere e al
Cameriere, che entrambi gli prestano molte attenzioni. Del resto o per loro cura, o per
propria esattezza, Ciro nostro è il più pulito della Camerata.
Questa mattina ho veduto il Sig. Angiolo Rossi che è stato malato per 15 giorni di
podagra. Ci andai appena arrivai in Perugia, ma avendo udito al suo negozio che era in
letto, non volli infastidirlo. La moglie non l’ho ancora veduta. Al contrario in casa Monaldi
ho trovato la moglie sola, e le ho lasciato la lettera di Biscontini pel Marito. Il Sig. Luigi
Micheletti e la Signora Cangenna mi hanno ricolmato di gentilezze: essi andavano
strologando il capo per trovare il modo di poter combinare il modo di ricevermi in casa. Io
però, non volendo permettere il loro incomodo, ho profittato della dozzina che mi hanno
trovata in Casa Fani, pel Corso, incontro alla Mercanzia. Ho un decentissimo alloggio,
pranzo di zuppa, tre piatti e frutti, e la sera zuppa, un piatto e frutti. Alla colazione e alla
biancheria penso da me. Per questo trattamento ed alloggio pago dieci scudi al mese, ed
ho già fin da oggi anticipato il primo mese a tutto il 7 di luglio. Non ho potuto ancora
vedere il Signor Bianchi. So peraltro da Lovery che egli è istruito del mio arrivo, e che mi
vorrà rivedere egli stesso. La sua famiglia passerà in campagna, credo, tutta la state, e
sento che un giorno voglia condurmi a vederla e conoscerla. Tuttoció per relazione di
Lovery il quale sta benone, ma un poco in pena sulla salute del padre. Qui, come sai, vi è
Oldani, il quale mena un sussiego come un Ministro di Stato. Sta sempre sulla sua, dà
udienza alla grande, porta una certa fittuccia all’asola del vestito, parla con mezze parole,
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si dà per primo minutante del Ministero dell’Interno, e fa ridere tutti quelli che lo hanno
veduto portiere di questo uficio di delegazione.
Lo stesso Luigi Micheletti che gli prestò 18 scudi perché potesse fare il viaggio di
Roma la prima volta che vi venne, è trattato da lui col tuono di un superiore verso un
dipendente. Quanto siamo curiosi noi uomini! Io non l’ho ancora veduto ma se con me fa
il pallone assaggerà il mio bracciale.
Io non ti dirò, Mariuccia mia, di essere già senza danari affatto, ma fin qui non è stata
che una continua svenarella per tutto e in mille maniere. Quindi se tu volessi dire a
Biscontini che disponesse il Sig. Rossi, la Signora Rossi, o chi crede, perché mi si
somministrasse della moneta alla mia richiesta, mi faresti piacere. Io poi segno sempre
ogni baiocco che mi esce di mano, e buttarne non ne butto davvero. Forse un altro al fine
del giuoco se n’uscirebbe col risparmio di qualche scudo in meno di quello che spenda io,
ma in me vi sarà un po’ di troppo onde non farmi guardar dietro: spreghi, però, no
davvero. La carta è finita. Ricevi mille baci di Ciro che ti chiede la benedizione, e saluta
Antonia, Domenico, i di lui figli, Annamaria, etc. etc.
Sono il tuo P.
LETTERA 164.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Perugia, 2 luglio 1833
Mio carissimo Checco
Che ti potrei più dire intorno alla tua lettera del 31 maggio? Ella è rimasta nell’uficio
postale di Terni fino a jeri, per quante premure io abbia fatte colà praticare, appena seppi
da Mariuccia che tu mi ve l’avevi spedita. A quest’ora la tua Ode o è stampata o sta per
esserlo con que’ ritocchi che il tuo buon gusto non può, via facendo, non averti suggeriti.
La ode è bella, tenera, gentilissima, e tu lascia poi stare che la sia o classica o romantica,
qualora pure i romantici e i classici non abbiano un cuore di diversa natura. Dovunque
parla la verità con parole convenienti al soggetto e alla situazione, lì è bellezza ed effetto
immancabile, o che la inspirazione venga di Germania o di Grecia. Le muse son figlie della
Memoria, e la Memoria moderna ha ben altre da contarcene che non quella di Pericle e
d’Augusto. Perché andare al tempio della Gloria per una sola via e sempre per quella? Se
l’Oriente ha la sua, l’Occidente ne ha fabbricata un’altra; e così altre il Mezzogiorno ed il
Nord. Ciascuno parte da casa sua né ad uno straniero è chiuso il dritto di viaggiare per le
strade degli altri col passaporto della Ragione, prima e vera regina degli uomini. Non era
necessario avvertimento perché io m’avvedessi del furto, sor ladroncello buggiarone.
Arrivato a quel di là etc. esclamai: te conosco, maschera. Ma, post confessionem remittuntur
tibi peccata tua.
Di’ al nostro Biagini che nel prossimo 4° fascicolo dell’Ontologia Torricelli mi ha
pregato di mandare avanti una sua epistola al Marchetti, dalla quale egli vuol far conoscere
chi parlerà del Malvica. E quel Chi è lo stesso Torricelli che mette fuori alcune sue
inscrizioni domestiche e un ragguaglio di un funere da lui celebrato alla Memoria del
padre. Nel successivo 5° fascicolo poi uscirà il suo discorso intorno i Sepolcri e le iscrizioni
del Malvica. Intanto nel 3° fascicolo già pubblicato fu inserito lo squarcio eruditissimo e
giudiziosissimo del Malvica stesso intorno all’arte del tradurre. Mi dice il Mezzanotte quello
squarcio (che deve far parte di un’opera del Malvica sulla letteratura italiana) non esistere
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che in sue mani (cioè di Mezzanotte) e in ms.; ma io mi taglierei la gola se quello stesso io
non l’ho già letto, et quidem, stampato, et quidem possedendone io stesso un esemplare, et
quidem... eppure Mezzanotte dice di no; eppure io dico di sì. Che ne dice Biagini nostro
che le cose malvicane le sa come le proprie? — E per tornare all’articolo Torricelli, appena
sarà in luce sul giornale, io ne farò estrarre, come stabilii con Biagini, una cinquantine di
copie delle quali ne lascerò cinque per l’estensore ed una per me. Le altre 44 verranno a
Roma, affinchè quattro se ne dividano fra te, Biagini, Piccardi e Ricci, e le altre 40 si
spediscano in Trinacria che vuol dire Sicilia, a Panormo che significa Palermo. E il Piccardi e
il Ricci salutameli teneramente, prima il primo perché lo vedrai prima, e quindi l’altro
perché... poi. E salutami Costanza, e salutami tua cognata, e salutami chi ti pare, e buon di’.
Fa di star sano se ci sai stare, se no sta’ incomodato a comodo tuo, purché ti mantenga
sempre in salute, a consolazione di chi t’ama come me scrivente.
G. G. B.
P.S. Sai? Ciro sta bene, grasso come un tordo, rosso come un peperone, vispo come
un grilletto, buono come un angiolo, studioso come un ciceroncino: metti insieme le
similitudini, o i cinque soggetti del paragone e fanne una filza. E di’ un po’ un’altra cosa:
all’ultima strofe della tua ode Costanza non ce n’ha aggiunta un’altra che venga dire: più
tardi che sia possibile?
LETTERA 165.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, sabato 6 luglio 1833
Mia cara Mariuccia
Questa mattina ho ricevuto la tua del 4 contenente la citazione da presentarsi al Sig.
Bianchi. Per oggi non è stato possibile di averla spedita dai cursori, come io aveva tentato
ed erami lusingato. Te la spingerò coll’ordinario di martedì 9 e tu l’avrai il giovedì 11. —
Del Sig. Angelici va bene: ne riparleremo ad ottobre. — Le pillole le ho avute, e ti
ringrazio. Il ritardo dell’acqua della scala non nuoce. — Scriverò ad Antaldi. Ciro lo vedo,
come ti dissi, due volte la settimana, oltre quando lo incontro al passeggio. Hai tu dubbio
che non te lo abbracci spesso e che non gli parli sempre di te? — Giovedì egli mi pregò che
lo raccomandassi al Rettore affinché gli permetta qualche volta di prendersi un mezzo
gelato quando è assai caldo, e secondo ché egli si sia portato bene, tanto più che gli altri
compagni lo fanno. Di assai buon cuore io intercessi presso il Rettore per questa piccola
soddisfazione, ed il Rettore, graziosamente annuendo, rispose che Ciro è tale buono e
studioso ragazzo che anche colla sua propria voce avrebbe ottenuto questo permesso. Io
dimandai allora al Rettore se dovevo rifonder nulla nel deposito del particolar peculio di
Ciro: egli soggiunse esservene ancora intatta la metà, cioè Sc. 3, tantoché il Calzuolaio non
ha ancora portato il conto de’ lavori fatti per Ciro. Pare che il Rettore quindi creda che
detto peculio particolare destinato a diverse spesette straordinarie potrà bastare fino verso
novembre. Allora avremo lo sfogo dell’erogazione etc. — Dimani tornerò al Collegio e ti
benedirò e bacerò faccione nostro, nominando anche Antonia. — Tanto per
quest’ordinario. Sèguita ad averti cura, e non lasciare i bagni. Sono abbracciandoti di tutto
cuore
Il tuo P.
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LETTERA 166.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Perugia, 9 luglio 1833
Checcarello mio
Mi caschi la testa se so dove mettermi le mani per fare i ritocchi che si desiderano alla
mia ode. Le cose di getto, come venne giù quella, forman un masso così compatto che vàllo
a scomporre! e per ognuno de’ cambiamenti proposti, benché in sé apparentemente assai
piccoli, mi bisognerebbe non solo il cesello, ma il forbicione per tagliare il filo che dritto
dritto vi corre per entro, e Dio sa quali nodacci mi converrebbe poi farci per raccapezzar
l’unità. E li farei anche que’ nodi, e vorrei anzi farli; ma, ripeto, mi caschi la testa se so
dove mettermi le mani. Non si dà uomo più imbrogliato di me nel bisogno delle
correzioni, e perciò se Iddio non mi aiuta alla prima, guai! — Diamo un po’ una
guardatella a’ tuoi cinque appunti:
1° Di vostra union beò. Vorrebbero sciogliere quella union in tre sillabe? Lì non si può
senza sciogliere il verso; e da capo, mi caschi la testa se trovo un altro pensiere per
sostituirvi un altro verso che dica quel che il primo diceva. Dunque ho paura che la unione
resterà intatta, tanto più che ai poeti (come al Papa) data est potestas ligandi et solvendi dove
non sia caso riservato ad Apollo: rotta di collo.
2° Spir etc. Lo spiro non è proprio l’unum et idem che lo spirito, quantunque nato
dallo stesso padre e dalla medesima madre! Io intendeva del soffio, dell’afflato divino che
forma lo spirito: e in ogni modo poi che questo spiro s’intenda, mi pare che possa patire
l’apocope di cui è capace il sospiro, come lo sono tanti altri nomi che escono in iro, non
eccettuato il Sig. Casimiro il barbiere.
3° Vedestù. Qui do un po’ di ragione a chi la chiede, ma tornerei per la quarta volta
all’imprecazione contro la mia povera testa che vorrei pure conservar sulle spalle. Questa
stanzetta è come la prova dell’antecedente siccome quella è la soluzione dell’altra più
addietro: ed io vi ho proprio bisogno di far quella dimanda al marito, onde persuadendosi
si consoli.
4° Transito, voce non bastantemente poetica? Lasciamo in pace il Baron-DeMajo —
requiescat, che non conosceva il vocabolario poetico.
Io lo conosco e direi quasi la bestemmia di averci trovato dentro quel transito nel
senso appunto che mi chiedeva la mia circostanza, dove io credeva che ci stesse assai
meglio che Morte o qualunque altro sinonimo di questa gentil Signora. Il passaggio dello
spirito dal corpo al cielo, dal tempo all’eternità: una idea di moto solenne, accompagnato
dalle tre virtù, e terminato in seno a Dio, dov’è perpetua immobilità di vita! E siccome
appunto questa specie di Morte io adombrai nella strofa precedente «Non vedestù ne’ placidi
Moti del suo passaggio», pel medesimo motivo stimai che la voce transito servisse bene al
complemento del concetto senza offesa del vocabolario poetico. Ma se mi sono ingannato,
passo alla 5a imprecisione e lì resto. Avanti.
5° Non più i sommessi gemiti etc. Echeggian pel silenzio etc. A questo passo viene in ballo
lo Spada. Sentimi, Spada mio. Qual’è la specie d’istantanea contraddizione che tu vi trovi? In
due raffronti potrebb’ella trovarsi: o tra il sommessi e l’echeggiano, o fra l’echeggiano e il
silenzio. Io credo che tu parli della seconda. Diciamo pure d’entrambe. I lamenti in chiesa
sogliono essere sommessi, ma non tanto quando sono veramente lamenti, che non suscitano
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un suono, e nel suono un’eco, o quell’equivalente rimbombo che noi battezziamo talvolta
per eco. (I ragazzi poi alla prima Comunione fanno quegli altri belli strilletti, ai quali niun
sordo vorrebbe negare il merito di un sonoro per eccellenza.). Circa all’echeggiare nel
silenzio io intendo di quel suono che deciso e non deciso, qual’è precisamente quello di un
pianto mezzo represso, suole udirsi in modo che quasi il silenzio stesso di un tempio non
n’è assolutamente vinto: ed oltre a ciò, appunto perché un’eco si ascolti, rendesi necessario
che il luogo nel quale l’eco si suscita non sia turbato da altri suoni a quello stranieri, di
maniera che ad ogni rinnovarsi e cessare di quell’unico suono, il silenzio proprio del sito
resti vinto e poi torni, come per intervallo. Queste mie spiegazioni ti parranno facilmente
arzigoli: ma io travedo che se le avessi fatte meglio, e tali che rendessero appuntino le idee
che in esse vorrei sciogliere, tu ti stringeresti nelle spalle, e diresti: Vuole aver ragione?
diamogliela, ché già quasi l’ha.
Stringiamola in conclusione. Io non vedo, per quanto pensi, in qual modo contentare
chi mi onora dei suoi consigli. Non è superbia, perché io ne so meno di tutti. La è vera,
assoluta, invincibile difficoltà di dire altrimenti. Se voi altri amici trovaste il verso e il
modo di cinque sostituzioni che adempiendo al fine cercato non nuocciano ai riguardi del
filo, del getto, della unità, del concatenamento, della reciprocità, o di che diavol’altro vogliam
dire esistente nel tutt’insieme della mia ode, se trovaste, dico, quel verso e modo, suggerite
il balsamo come additaste le piaghe, ed io abbasserò il capo sotto la macchina di Mastro
Titta. Se ciò non accade, e se la Ode non meritasse di vivere senza quei tagli, ti assicuro,
Checco mio, da leale uomo, che rimetto in te il darla in luce o nasconderla come tu
crederai più spediente al tuo onore o a quello dell’ottima amica, che tutti piangiamo. Non
badare all’orgoglio d’autore: cacciala nel cestino, come fanno i Cardinali e i Ministri di tanti
memoriali che han più ragione del mio cencio di ode. Un bacio a tutti gli amici, e altrettanti
per te.
Il tuo Belli
P.S. Ho capito del cerotto del Canonico Pereyra: ne chiederò, e se v’è, lo porterò.
Altro P.S. Ho fatto un sonnetto, cioè un’appennicarella (che non s’avesse a
confondere con sonetto, cosa che in Arcadia può accadere facilmente), e mi è tornato in
capo quel Vedestù. Vogliamo dire
Non parve a te ne’ placidi etc.?
Se a te la va, magari che il sonno mi aiutasse ancora nel transito, nella union, nello spir
e nell’echeggiar!; ma una buona dormita mi ci vorrebbe per tanta roba; e allora potrei
rispondere alle lodi: bagatelle: gli ho fatti dormendo. E seriamente, a tanti e tanti non verrebbe
meglio così che vegliando? Per esempio fra i molti nominiamo a cagion d’onore l’onesto
Villetti buon padre di famiglia, e lo specchiatissimo D. Raimondo Pigliacelli più degno di
pastorale e di bugia che di una pelliccia canonicale. Va a non dire allora al sonno con
Seneca: pars humanae melior vitae!
Bravo il Missirini! Pungoli al Borghi. Mazzocchi allo Azzocchi.
LETTERA 167.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 9 luglio 1833
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Eccoti, mia cara Mariuccia, la citazione eseguita contro questo Sig. Bianchi, al quale la
mostrai prima della legale presentazione, ed egli se ne mostrò pago dicendo che se non
avesse avuto d’uopo del mandato di consegna per sua giustificazione mi avrebbe tosto
consegnato il danaro, come farà appena il documento sarà in ordine. In quel caso, fatti dire
da Marini se pagata la somma sequestrata io debba rilasciare al Bianchi il mandato, che
egli mi chiederà certamente tanto per documento contro il Marcucci quanto per pezza
giustificativa verso la Cassa Camerale. — Domenica io fui a pranzo da lui, e vi fu anche
Lovery.
Sono andato questa mattina espressamente al Collegio per vedere Pietruccio Grazioli,
che ho trovato in buona salute al solito. Di lui scrivo direttamente in questo medesimo
corso al Sig. Avvocato suo padre. In questa occasione mi son fatto chiamare anche il nostro
toretto al quale ho consegnato un barattoletto di manteca che mi aveva dimandato, e dieci
palle per la provvista, dirò, di tutto l’anno, mentre le ultime mandategli sono già, com’è
naturale, tutte in sepoltura. La soddisfazione di quest’altro suo desiderio gli è riuscita
gratissima. Il Rettore ha fatto a Ciro un elogio avanti a Grazioli nella circostanza di dirmi
che il Grazioli oggi è in penitenza per aver rotto già il quarto libro di geografia ricomprato
questa mattina dallo stesso Sig. Rettore per paoli sette. È vero che Ciro è minor tempo che
sta in Collegio, ma pure il di lui primo libro di geografia ancora è buono, e Grazioli che
non è poi tanto più anziano di Ciro in Collegio ne ha già cucinati quattro. Questa cosa però
all’avvocato non gliela scrivo. Nella settimana passata il nostro figlio ha fatto sempre tutti
bene tanto nella geografia che nella lingua italiana, di modo ché i superiori si chiamano
sempre più contenti di lui.
Senti questa. Un pittore ha qui esposto un quadro che dipinse per Milano, ed
avendolo esposto ha mandato fuori alcuni biglietti a stampa con una linea in bianco da
riempirsi col nome del destinatario, onde invitare persone a vedere il suo lavoro. Che ha
fatto Ciro! Se n’è procurato uno, lo ha empiuto col mio nome, e poi piegato in regola me lo
ha dato affinché io goda di questo piacere. Ti assicuro che ciò mi è stato di molta
soddisfazione. — Della salute di questo caro figlio nulla ti dirò. Tu sai che in ogni estate si
dimagrava ed impallidiva. Se lo vedessi adesso sta meglio di quello che era a Roma
l’inverno. Bisogna certo convenire che questo Collegio è esposto in una gran bella e
salubre parte della Città! E per finire pure una volta di Ciro egli ti chiede la benedizione e
ti dà tanti baci. Saluta pure infinitamente Antonia, Annamaria, Domenico, i di lui figli e
tutti gli amici. — Il guardarobiere dice che sei paia annue di calze, tre bianche e tre nere,
sono sufficientissime, perché il Collegio le fa raccomodare all’occorrenza, e perché
facendone di più si spregherebbero col crescere del ragazzo. Mi scordavo di dirti che
appunto la diligenza di Ciro nel conservare le sue cose, ha reso così mite il consumo che
già t’indicai del suo piccolo peculio in deposito. I danari di Grazioli volano, per lo sciupo
particolarmente de’ libri scolastici, i quali, secondo i regolamenti, sono naturalmente a
carico de’ rispettivi studenti.
Le notizie della tua miglior salute mi hanno veramente consolato. Non mi dici però
se hai poi cominciato o no i bagni. Io sto bene, ma credo che questa sera mi farò la ormai
divenuta consueta sanguigna di precauzione, sentendo quella solita ottusità che di tanto in
tanto mi sorprende. I miei polsi infatti sono assai pieni e una slentatina di vena mi si dice
molto opportuna. Anche questi professori sono di sentimento che per qualche tempo io
dovrò fare così, e, passato poi il periodo che attualmente ha preso la mia macchina, si
potrà diradare i salassi, e ritornare a poco a poco all’antico equilibrio. Ciò di cui qui si
manca è il comodo de’ bagni per la scarsezza di acqua, circostanza che ha fatto sì che
quest’uso salubre non siasi introdotto in pubblico e sia poco praticato in privato. Questo
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Sig. Angiolo Rossi mi va da molto tempo facendo istanza perché io lo accompagni per tre
o quattro giorni a Sinigaglia. Io non ci sono niente niente disposto e spero di sicuro di
sgabellarmela, anzi me la sgabellerò. Torricelli poi mi fa per lettera più forza ancora
affinché vada a passare almeno una settimana con lui. Dicendo però di no a Rossi, negherò
anche a Torricelli, la cui Fossombrone è sulla stessa strada di Sinigaglia.
È vero: mi pare che Frecavalli non possa essersi piccato. Se lo vedi, salutamelo.
Di Antaldi va bene. Io aveva già preparato la lettera per impostarla questa sera. È
meglio che resti inutile.
Sono obligato a Marcelli della sua cortesia.
Mi ha scritto Corazza che appena finite le mietiture farà il riscontro delle piante
secondo la nota che glie ne mandai. Dice che ti mandò gli altri due prosciutti, ma che non
ne ha avuto riscontro.
Babocci per ora non mi ha fatto sapere altro.
Qui piove regolarmente ogni giorno, e molte di queste acque sono temporali belli e
buoni. Insomma pare che quest’anno a Perugia non vi sarà estate.
Non mi pare d’aver altro da dirti per quest’ordinario. Ti abbraccio dunque di tutto
cuore, e ti prego di salutarmi chi ti chiede di me.
Sono il tuo P.
LETTERA 168.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 25 luglio 1833
Mia cara Mariuccia
Risconto la tua del 23. — Farai fare la sola gabbia piccola al prezzo di Sc. 1:20, purché
sia bella e forte; e poi me ne darai avviso. Starò aspettando il Sig. Fani con le cose da te
consegnategli, ed eseguirò appuntino la tua commissione col nostro figlio. L’ho veduto
questa mattina, e l’ho trovato rosso e rotondo come una mela-appia. In questa settimana i
suoi studii gli hanno fruttato un ottimo e tutti bene. Gli è venuta una vogliarella. Amerebbe
di avere un paio (almeno) di racchette e qualche volantino. Io gliel’aveva promessi dopo il
mio ritorno a Roma, ma pare che il povero ciuco amerebbe più oggi l’uovo che domani la
gallina. Le racchette dovrebbero, egli dice, essere di quelle che hanno da una parte la
cartapecora e dall’altra la reticella di corda di budello; ovvero colla sola cartapecora perché
il botto del colpo è l’affar principale. In casa dovrebbero esserci ancora quel tali cartocci da
raccogliere i volantini per aria. Ci si potrebbero unire. Povero figlio! Si porta bene. Gli
vogliamo negare questa soddisfazione? Egli ti chiede la benedizione, ti abbraccia, e saluta
Antonia e tutti.
Va bene di Costanzi. Ti accludo la carta firmata in bianco. — Io credo però che il Sig.
Fabj con quelle offerte e dimande voglia scoprir terreno. — La sentenza è notificata. Il Sig.
Bianchi ad ogni mia richiesta (che sarà pronta) mi darà gli Sc. 14:42 dietro mia semplice
quietanza a tuo nome, benché io non sia nominato nella causa. Farò la quietanza colla
riserva delle spese. Intanto sappi che la presentazione, con copia rilasciata al domicilio, ha
importato baiocchi 37 ½. Fa’ aggiungere questa partita al conto. — Ringrazio tanto il
nostro Ricci. — Lo stato della povera Angelica mi fa molta pena. — Saluto tutti e ti
abbraccio di cuore.
Il tuo P.
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LETTERA 169.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 8 agosto 1833
Mia cara Mariuccia
La tua del 3 corrente invece di arrivarmi il 5, come dovevami, è giunta jeri. Appena
impostata la mia precedente n. 23 passai avanti al Collegio di Ciro, come fanno le
rondinelle, le quali per ogni volta che s’imbucano nel nido vi volano attorno almeno
trecento. Trapassato che ebbi di un poco il portone, mi udii chiamare a voce bassa: Papà,
papà; e nell’alzare il capo vidi Ciro alle finestre del suo dormitorio, che mi faceva de’
baciamani. Quindi a poco si affacciò anche il Cameriere David accanto a Ciro, e ad un’altra
finestra il prefetto, il quale mi partecipò che per quel giorno, stante il tempo dubbio, non si
andava a spasso, ma invece si conducevano gli alunni a giuocare negli spiazzi del
Collegio. Il nostro figlio aveva in capo un berretto di lanetta nera, che era mio, e glielo
regalai quest’ottobre nel suo ingresso all’instituto. Mi piacque di vedere che ancora lo
conservi. Questa mattina gli ho fatto la visita del giovedì, giusta il costume, e gli ho letto le
cose a lui appartenenti della tua lettera del 3. Egli le ha udite con molta attenzione e ilarità,
e poi se l’è volute rileggere da sé, dicendomi infine: Papà ringraziate la Mamma a nome mio,
ditele che stia bene, e che io Le do tanti baci e le chiedo la benedizione. E dopo incaricatomi de’
saluti per Antonia e per tutti gli altri, ha finito con due zompetti. Qui sopraggiunsero i
Sig.ri Presidente e Rettore, che gli fecero mille carezze, e m’incaricarono di dirti mille cose
da loro parte. Il Sig. Pres. Colizzi poi aggiunse che per ora sarà difficile assai che possa
farti in Roma un’altra visituccia. Circa all’affare Costanzi va bene. Io seguito sempre a
ripetere quanto ti dissi, cioè che il Signor Fabj di lui curiale non venne a parlarti che per
cercare di pescare qualche altro vampiro da opporti. Intanto però non so cosa vorrà
sostenere. Di Bertinelli nulla mi fa specie, e non so come quell’uomo vorrà cavarsela da
tante pastoje nelle quali tiene avvolti i piedi. — Povera Angelica! Quella è una donna
perduta. Evviva la spenditrice universale! Ti costerà fatica, ma ne uscirai di certo con
onore. Fa’ i miei complimenti con lo sposo. — Vado a scrivere a Terni intorno a Canale, e
vedremo che si potrà fare. Del resto tu hai operato molto e bene a questo proposito.
Se ti dovessi raccontare al vivo l’acqua che qui cadde tutto jeri e il furioso temporale
di questa notte, farei opera inutile per la sua difficoltà. L’acqua si è mangiata nella nottata
una strada che si faceva di nuovo, e i tuoni saranno stati un migliaio. Ah! Iddio liberi
l’Italia nell’autunno da qualche calamità! Basta, a buon conto Ciro nostro dice che non ha
udito niente perché ha fatto, come fa sempre, tutto un sonno.
Vedo ancora per Perugia l’Avvocato Marsuzi, il quale con un piglio a destra ed un
altro a sinistra, e camminando a gran falde spalancate, prende tutto il corso per sé.
Debbo farti i saluti. del Sig. Luigi Micheletti e della Signora Cangenna di lui moglie,
come altresì della Sig.ra Marchesa Monaldi, la quale manda spesso da me un professore di
letteratura del Collegio di Ciro a informarsi delle mie nuove. Ogni tanto vado io stesso a
riverirla. Ieri, con quel delicato diluvio, venne detto Professore, e mi offerì da parte della
Sig.ra Marchesa la chiave del suo palco al teatro nobile ogni volta che io la desideri. Forse
una sera che non piova e non sia freddo (vedi pretensione!) l’accetterò. Del resto anche senza
questa chiave io frequento moltissimo il teatro, mentre in 64 giorni dacché sono a Perugia
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(ed il teatro ha agito sempre) vi sono stato per mezz’ora una sera onde vedere il teatro
civico, dove allora erano le recite.
Procura di star bene anche tu, amami, e credimi sempre il tuo
aff.mo P.
LETTERA 170.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 22 agosto 1833
Cara Mariuccia
Riscontro la tua del 20. Tanto l’altro jeri mattina quanto jeri mattina e giorno, e
finalmente questa mattina sono stato presente agli esami annuali del Collegio Pio. L’udire
que’ cari ragazzetti a parlare di tante cose erudite, scientifiche e amene, era un piacere da
muover le lagrime. Ciro nostro fu esaminato jeri al giorno sulla grammatica italiana, e
questa mattina ha subìto l’esame sulla geografia. Nella grammatica si portò assai bene,
avendo sempre risposto assennatamente, con precisione e con grazia alle varie quistioni
promossegli dagli esaminatori, professori della Università. Nella geografia poi non ti so
dire con quanto garbo e possesso ha dato sulla carta la descrizione di tutta l’Asia. Se ne
stava ritto in piedi avanti al quadro eretto sul cavalletto e lì con la sua bacchettina in mano
andava indicando i luoghi, le posizioni e i confini, a mano a mano che veniva esponendo
con la voce. Senza mai impuntarsi, e parlando chiaramente e con pausa, ha esaminato
tutto il suolo dell’Asia; ne ha indicato le principali Città, i fiumi, i monti: ha distinto le
dominazioni, ha annoverato le particolarità dei luoghi e dato un dettaglio delle produzioni
e del commercio delle varie nazioni di quella parte di mondo. Bisognava udirlo a
profferire netti e spediti que’ brutti nomacci da fracassar la lingua d’ogni galantuomo.
Quella regione gli è toccata a caso: del resto egli conosce tutto il globo egualmente. Anche i
tre suoi compagni, e specialmente Grazioli, si sono portati assai bene. Grazioli poi ha
l’abilità di delineare all’improvviso col gesso sulla lavagna la superficie di qualunque
parte di Mondo. Ha poi Ciro fatto, per esporlo al saggio di settembre, un grande specchio
di varii caratteri con a piedi una bella cartina geografica miniata. Il Maestro di calligrafia
mi disse jeri: il suo Sig. Ciro è il mio sostituto. Molte e molte carezze gli sono state fatte
questa mattina dal professor Mezzanotte che lo ha interrogato. Insomma Ciro è un bravo
ragazzetto, buono, studioso, e amato da tutti. Egli ti chiede la benedizione e ti abbraccia,
mandando i consueti saluti. — Fu un mio equivoco l’aver udito che già fosse deciso dover
Ciro dare il saggio pubblico. Ciò non è ancora stato determinato, e dipende da certe regole
dell’instituto, anche estraneamente all’abilità. Io spero però che di certo gli toccherà,
benchè del primo anno di convitto. Te ne darò notizie a suo tempo.
Mi duole di Celani, ma più e più del male del povero Pietro Mazzarosa. Confido però
che a quest’ora già starà meglio. Mi congratulo della buona riuscita delle tue provviste, e
del regalo ricevutone. — Parlerò alla Rossi della gabbia e ci sentiremo. Non so se ti dissi
che essa non vuole che il marito sappia questa sua commissione di modo che è bene che
ciò lo senta Biscontini onde in qualche circostanza (non prevenuto) non avesse ad
uscirsene col Sig. Rossi.
Godrò sapere l’esito della causa Costanzi. — Qui, malgrado la stagione orribile, non
vi sono gran malattie, meno qualche poco di reuma da non farne caso. — Farai bene ad
andare in Albano, ma vacci in buona ed allegra compagnia.
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Sicuro, Calcagni d’Albano è fratello della Contessa Toruzzi. Come diavolo
commettere una simile imprudenza! Figurati che incendio rovinoso! quel gran locale, e
destinato a quell’uso! proprio, poveretto, piove sul bagnato.
Di’ a Biagini, quando lo vedi, che ho letto la sua lettera al Prof. Mezzanotte, il quale
lo ringrazia e conviene in tutto e per tutto con lui. E salutamelo.
Ringrazio chi si ricorda di me e, al solito abbracciandoti sono
Il tuo P.
LETTERA 171.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Perugia, 27 agosto 1833
Mio caro Checco
Che diavolo di poema vorresti tu ch’io ti mandassi se in tutto il tempo da che son qui
non ho saputo formare un pensiere che mi valesse una parola? Mi chiederai dunque come
io passi la mia vita, poiché sei quasi anticipatamente persuaso che io non vada in alcun
luogo, e conservi le mie casalinghe abitudini di Roma. Sto in casa, sto in camera, e leggo.
Passeggio quando l’atmosfera lo concede, passo qualche mezz’ora nel negozio del libraio
Bartelli, visito il mio Ciro due volte per settimana, e il resto in casa, in camera, e leggo. Ho
portato meco da cominciar de’ lavori e da finirne d’incominciati, ma sarà l’aria troppo fina
ed elastica, io, ti ripeto, non so formare un pensiere.
Tu mi desti una vagliatina giudiziosa della mia ode per la povera Lepri: quando
vedrai che setacciata me n’ha fatta Torricelli, sentirai allora che nespole! A dargli retta,
come forse vorrei, bisognerebbe aprire un buco sino al nucleo della terra, e seppellirla
laggiù, acciò il mondo non restasse impestàt, per dirla alla vicariana, cioè secondo
Monsieur Vicar. È vero che il Torricelli conchiude le sue osservazioni esser quelle di un
trecentista, ma buggiararlo quel beato Trecento come la sona! Or tu mo stampala, ardila,
nettatici, dàlla a salumaio, falla portare dal fiume: ti do carta bianca.
Di Ciro fatti dare notizie da Mariuccia, la quale sino al giorno corrente ha sempre
avuto da me il regolar gazzettino intorno alla vita ed ai fatti di questo caro raponzolo, e
direi meglio raperonzo per amor del Trecento. Il tuo bacio glielo darò giovedì, press’a
poco all’ora in cui tu riceverai la presente.
Qui non sono niente e poi niente rigidi in fatto di censura di stampe: anzi si stampa
tutto senza che questi buoni Revisori vi mutino un ette. Ciò ti farà piacere. Lascia però
ch’io ti dia il contropelo. Tutto deve mandarsi alla Censura romana, meno (per grazia) gli
articoli del giornale, che da rami divengono bacchette, e meno gli avvisi di nuove tinte per
le scarpe, osterie da aprirsi e tridui da celebrarsi. Protesto altamente contro la taccia del
miscere sacra profanis: ma quando la cosa è così, e bisogna dirla tutta in un tempo, va a fare
altrimenti.
Come va che Biagini mi dimanda se mi ricordo del cerotto che mi commettesti? Non
l’ha già avuto e pagato?
E tu che fai? Scrivi? Leggi? Mangi? hai le tue regolari deiezioni? Aprimi il cuore.
Veramente il cuore accanto alle deiezioni non te lo doveva metterci, ma ripeterò, quando
bisogna dir tutto in un fiato, va a fare altrimenti!
Qui una comica Compagnia Ciarli-Brenci etc. etc. dopo avere gridato cinquanta sere,
passò a gridare a Spoleto, dove il pover’uomo del prim’uomo (Brenci) morì una bella sera
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sul campo della gloria. Almeno dicono che morisse a sospetto di fuga. No, lo dico
seriamente e con dispiacere: fu colpito d’apoplessia e morì sul palco. Ferretti lo avrà
conosciuto. Salutamelo il caro Giacomo, o fammelo salutare con tutta la famiglia. Stanno
tutti bene?
E salutami Biagini, Ricci, Piccardi e suoi, tuo padre, tuo fratello, Lepri, Pulieri, Rosani
e chi ti pare, ché pare anche a me.
E ti abbraccio.
Il tuo B.
LETTERA 172.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 3 settembre 1833
Mia cara Maruccia
Rispondo alla tua del 31 passato agosto. Domenica vidi Ciro nostro, il quale si
dispone pel saggio pubblico che sarà giovedì 5 corrente alla mattina. Nel dopo pranzo
della seguente domenica succederà la solenne premiazione. Egli è giudicato già degno di
premio: credo però che il successo debba dipendere da un bussolo con qualche altro di
eguale suo merito. In ogni modo l’onore sarà sempre lo stesso. Vado facendo eseguire
d’accordo col bravo guardarobiere varii lavori nel corredo di Ciro pel mezzo-tempo e pel
futuro inverno, stagioni che qui sono molto distinte l’una dall’altra. A cose fatte ti darò
ragguaglio di tutto quanto è stato giudicato necessario di fare. Questo guardarobi e il
cameriere della Camerata sono due veramente eccellenti giovanotti, ed io alla mia
partenza li rimunererò con un’altra mancia delle premurosissime attenzioni che mostrano
al nostro caro figlio. Dalla mia precedente avrai udito quando arriverà a Roma il vetturale.
Va benone intorno alle vedute di Roma etc, e ne ringrazio te e l’ottimo Biagini che mi
saluterai tanto tanto. Mi ha consolato la guarigione di Mazzarosa, come seguita a
rattristarmi lo stato infelice della povera Angelica.
Qui è caduta la neve sulle montagne di confine, e fa molto freddo. Ciro ti bacia la
mano, ti abbraccia, e ti chiede la benedizione. Saluta poi Antonia e tutti. Io ti abbraccio e
sono di cuore
il tuo P.
LETTERA 173.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 7 settembre 1833
Cara Mariuccia
Ricevo la tua del 5, e la riscontro. Lo stesso malvagio tempo che tu mi descrivi essere
stato a Roma in detto giorno fu egualmente qui, unito a un sensibile freddo, di modo che
ci volle tutto il mio desiderio di udire Ciro al saggio che mi determinasse ad uscire di casa;
ed uscii tutto vestito da inverno. Sono varii giorni che diluvia di continuo. Vedremo
domani se vorrà, il Signor Tempo permettermi di concorrere allo spettacolo della
premiazione, di cui poi ti darò un distinto ragguaglio. — Ho mandato a vedere se alla
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posta fosse giunto il pacco per Ciro: mi han detto di no, mentre i gruppi qui non vengono
che il lunedì, siccome non ne partono che la domenica, mentre nelle sole domeniche parte
di qui il Corriere per Fuligno e ne ritorna il lunedì. Gli altri due corsi settimanali si fanno
per via di staffette latrici di sole lettere. Dunque darò al nostro caro figlio il regalo appena
sia giunto. Circa alla spedizione della gabbia va bene; e darò a Ciro tutto ciò che vi è
annesso per lui. — La tua intenzione riguardo a Costanzi è buona, ma bisogna poi vedere
se il mobilio della sua casa potrà saldare gli Sc. 1200, più qualche arretrato che siavi di
frutti spese etc. Oltre di ché insorgeranno delle dispute sulla comproprietà dei fratelli ed
altri di famiglia. Perciò sta’ oculata. Vedi di far sollecitare la liquidazione delle spese
Marcucci, affinché si possa ultimare il tutto con Bianchi fin ch’io sarò qui.
Ti accludo un foglio bollato e da me firmato in bianco, onde tu te ne serva a tuo
senno. L’ho sottoscritto in basso per lasciarti più spazio a scrivere: per la qual cosa, fatta
prima una minuta ti regolerai sulla quantità del bianco da riempire. — Ho piacere che il
nostro Biagini abbia già avuto il cerotto che mi richiese.
Il figlio del dottor Micheletti è morto realmente. Questo ragazzo d’indole assai
recalcitrante ripugnava a tutte le volontà paterne, e più alle di lui disposizioni intorno alla
educazione. Mutati varii luoghi ne’ quali era stato messo a studiare, finalmente pareva che
nel Collegio di Arezzo si fosse un poco calmato.
Ma, avvicinandosi l’epoca delle vacanze, voleva ritornare a farle a Casa. Il padre che
conosceva che una volta tornato si sarebbe penato a farlo ripartire, gli lasciò libera la scelta
tra il villeggiare in una bella campagna che possiede il Collegio Aretino, e tra il passare ad
un ameno casino di certi Signori d’Arezzo, di lui Clienti. Udita il fanciullo tale alternativa
a lui ingrata, che fa! Una sera si avvolge un panno bagnato attorno al collo e un altro in
testa, e poi aperta la finestra si pone in letto per dormire. Casualmente il Rettore vide dalla
sua stanza la finestra aperta del Micheletti, e recatosi nella di lui camera gliela chiusa. Il
ragazzo all’udire aprir la porta si pose la testa fra i lenzuoli, e finse dormire cosicché il
Superiore credette la finestra di lui esser rimasta aperta per dimenticanza e più non vi
badò. Riuscito il Rettore, si rialza Micheletti e bagnati di nuovo i panni ripete il mal
giuoco, ed anzi riaperta la finestra vi si sdraiò sotto sulla nuda terra, e così seminudo si
addormentò. Figurati alla mattina! Fu ritrovato tutto gonfio. Interrogato ripetutamente
confessò finalmente il tutto, e dopo una orribile malattia di 24 giorni spirò lunedì 2 alle ore
tre pomeridiane. Il povero padre è al colmo dell’afflizione, tanto più che avendo il Collegio
tardato a scrivergli fino al 15° giorno del male, ed essendo giunta la lettera mentre egli era
a Città di Castello, ha saputo il caso poco prima della morte. La moglie del Micheletti partì
bene subito, ma delirando sempre il figlio non l’ha potuto vedere. Eppure a malgrado che
il povero padre si rammarichi tanto, pure confessa che forse la provvidenza ha così
disposto per risparmiargli altre lagrime più amare che il figlio avrebbe un giorno potuto
fargli spargere. Noi, cara Mariuccia, ringraziamo Iddio che Ciro nostro è savio, e i suoi
superiori più assai diligenti. Ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
LETTERA 174.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 10 settembre 1833
Cara Mariuccia
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Jeri non ebbi tue lettere, ma bensì la spedizione per Ciro, al quale corsi subito a
portarla. E giunse bene a proposito, mentre nella solenne premiazione di domenica
nominato Ciro a tre premii, uno cioè in lingua italiana, uno in geografia ed uno in
calligrafia, non ebbe la sorte di conseguirne alcuno, non essendo mai uscito al bussolo in
cui fu posto il suo nome tre volte co’ suoi competitori nelle tre classi enunciate. Nella
geografia ebbe due altri emuli, uno solo nella lingua italiana, e cinque nella calligrafia. La
sortizione di tutti i nomi in competenza si fece alla presenza degli spettatori a suono di
sceltissima banda, la quale si tramezzò a tutti gli atti della funzione. Dispiacque a tutti i
Superiori la poca fortuna di Ciro, al quale però furono tanto più prodigati elogi da essi e
da molti astanti, in quanto che si sapeva che i competitori più fortunati di lui erano tutti
del secondo anno di collegio, e Ciro del primo; circostanza che pure a detta di alcuno si
poteva meglio calcolare dai giudici che stabilirono l’ordine della premiazione. Io ti
spedisco per la posta il libretto di prospetto. So che ti converrà avere delle noje alla
dogana, ma pure pensando che ti farà piacere il leggerlo te lo mando. Aggiungo su questo
proposito che il Rettore convenne con me che forse i primi elogi della scuola si
convengono a Ciro, ma che dovendo purtuttavia gli esaminatori e i Consuperiori del
Collegio attenersi ai risultati positivi degli esami trimestrali, non potevano negare una
parità a chi realmente la ottenne. Ciro poi si espresse che quantunque avrebbe amato il
conseguimento di qualche premio, nulladimeno si appagava dell’onore che la sorte non
può contrastargli.
Non ti puoi figurare la di lui gioia al ricevere le vedute di Roma e la pianta. Disse che
quello era il suo premio. Tutti i ragazzetti della sua Camerata gli si affollarono intorno, ed
egli fece da Cicerone. I ringraziamenti che ti fa sono infiniti; e così ti chiede la benedizione,
ti abbraccia, e saluta Antonia, Domenico e tutti. — Ti debbo dire che da alcuni giorni soffre
della flussione all’occhio destro, la quale però, come vedi, non gli ha impedito di fare
regolarmente le sue faccende. Il professore del Collegio gli ordinò certi bagnoli approvati
da altro eccellente oculista Sig. Achille Dottorini, che io ci ho già condotto due volte a mio
conto, e ce lo farò tornare fino a completa guarigione. Il Dottorini, che Biscontini deve
certo conoscere, mi assicura che non è niente, e neppure gli ha vietato che possa
discretamente applicare.
Sta’, cara Mariuccia, tranquilla, e assicurati che con un poco di cura svanirà questo
male, il quale è molto minore di quello che Ciro ebbe già a Roma all’occhio medesimo varii
anni addietro. Appena sarà un poco più diminuito il sangue comparsogli sul bianco
dell’occhio, all’angolo esterno, il bravo Dottorini gli darà un collirio che servirà a guarirlo
del tutto e a rifortificare i vasellini ingorgati. In caso poi che tardasse alquanto il sangue a
svanire saranno applicate alle tempie due mignattine per accelerarne la risoluzione. Ti ho
dato notizia di questo piccolo incomodo del nostro caro figlio, acciò semai ti venisse
saputo per parte indiretta, non ti prenda alcuna pena, e ti fidi di me. Del resto Ciro sta in
piedi, allegro, e se la ride; e i superiori gli hanno tutti i più delicati riguardi perché non abbia
aria o altri nocumenti esteriori.
Domenica sera andò qui in iscena una opera in Musica, intitolata la Orfanella di
Ginevra, cantata benissimo. C’è un basso poi, chiamato Angelini Dossi che a Valle farebbe
fanatismo. Io comperai un palco al second’ordine per 50 baiocchi, onde salvarmi dalla piena
della platea, e mi divertii moltissimo. Le decorazioni sono eccellenti. L’opera è al teatro
Nobile vicinissimo alla casa dove abito. Aspetterò la gabbia. La Signora Rossi è
contentissima della scattola che ci hai fatto fare. La medesima Signora ti prega dirle come
sono grandi le pelli di ermellino, e quanto costano l’una. Per la grandezza puoi fartela dare
in modello dal pellicciaio, e poi col lapis disegnarmene la circonferenza sulla tua stessa
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lettera. — Avrai avuto la mia, dove ti parlai de’ lavori di sarto che faccio fare per Ciro,
tanto per l’autunno che pel prossimo inverno. Ti abbraccio di cuore, e sono il tuo P.
P.S. È general voce che il Marchese Ettore Florenzi sia morto al suo casino della
Colombella.
LETTERA 175.
A ORSOLA MAZIO — ROMA
Di Perugia, 24 settembre 1833
Carissima Orsolina,
Io già sapeva che tu saresti balestrata in ottobre: ti ringrazio però di avermene data
partecipazione tu stessa, e tengo ciò in conto di quella gentilezza che ti distingue. Sii felice,
cara cugina, e felice quanto il mio cuore ti desidera e quanto tu meriti di essere. Lo sposo
che la provvidenza ti ha destinato ha tutti i caratteri da farti presagire una bella vita di
pace. Sii felice, ti ripeto. Io vidi andare a marito tua madre: vedo oggi il tuo imeneo, e così
spero trovarmi un giorno agli sponsali della prima tua figlia. Allora io era quale ora tu sei,
e al futuro matrimonio della tua prole tu sarai quale adesso io mi trovo. Parlo di età. Io vo
sempre sventuratamente innanzi a te; e quando tu ancora vigorosa abbraccerai i tuoi
nipotini, mi sarà forza di bamboleggiare con essi. Vedi, cara cugina, come ancora fra le
gioie possano trovarsi pensieri di malinconia. Ma e poi perché? Se io sarò vecchio, lo
saranno tutti quelli che vivranno di poi, e beato chi guardando sui giorni vissuti non vi
troverà vergogna che lo faccia arrossire. Dunque, innanzi, e ciascuno adempia alla propria
missione.
Se le tue nozze accadessero verso la fine di ottobre, o almeno a mese inoltrato, io
spererei di trovarmi personalmente ad accompagnarti all’altare. Se poi dovrà accadere
altrimenti, mi contenterò in arrivando di salutarti Matrona.
Avrai avuto in mia casa notizie del mio Ciro, e delle belle speranze ch’egli mi dà.
Salutami testa per testa tutti i tuoi, e in favore della circostanza i saluti pel caro
Balestra sien due, e più se ti piace reiterarli. Sono veramente pago di averlo preso parente.
Perdoni, Signora Sposa, la confidenza cuginale di questa mia lettera, e mi creda
sempre
Suo aff.mo cugino G. G. Belli
LETTERA 176.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 24 settembre 1833
Cara Mariuccia
La guarigione di Ciro mi ha per due ordinarii trattenuto dallo scriverti, onde, non
essendovi più un urgente bisogno di carteggio in tutti i corsi postali, rimetterci in regola.
Rispondo pertanto oggi alle tue carissime de’ 17 e 21. Comincerò dal dirti che Ciro seguita
a star bene, anzi mi dice il cameriere che neppure gli fa più i bagnoli. Io l’ho veduto fin qui
ogni giorno, e nel solo sabato scorso che non lo vidi, lo incontrai alla Università dov’è
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l’esposizione del concorso annuale e triennale delle belle arti. Giovedì 19 non solo non
andò Ciro in campagna ma non ci andò neppure nessuno del collegio, stante il pessimo
tempo. Vi andarono però jeri, ed io li vidi tornare. Ciro era tutto vispo e contento. Ti dice
egli al solito mille cose affettuose, baciandoti la mano e dandoti i saluti per Antonia, etc.
etc. — Circa ad Angelica, se i polmoni son tocchi, il parto non la può salvare.
Non so perché tanto strepito per la scoperta del corpo di Raffaello, mentre si è
sempre saputo che stava sotterrato in quel luogo. Se lo volevano fuori lo potevano scavar
prima. In tutti i modi, certamente questa è per le arti una bella reliquia. — Ora che
Biscontini non c’è chi guiderà, il nostro delicato affare con l’avv. Costanzi? E Biscontini
non torna in Curia che ad anno nuovo! Che carte vuoi che abbia occulte Costanzi? Non ne
può avere, e se ne avesse, le avrebbe già tratte fuori. Egli tenta come tanti altri che girano
mille tribunali per pagar quattro in luogo di uno. Ti ringrazio de’ saluti di Zia Teresa e
Mariuccia, come ancora della notizia del matrimonio di Orsolina. In questo ordinario ho
avuto da lei stessa la formale partecipazione, e vado a risponderle rallegrandomi. — Bravo
Biagini! Birbo quel Pippaccio! — Ho avuto lettera di Corazza il quale dice che gli orribili
tempi hanno impedito fino ad ora la consumazione della conta degli alberi, la quale però
spera di finire in questi giorni, finita la fiera di Campitello. I ristauri sono a buon punto.
Secondo i termini del contratto egli e Stocchi vanno ad eseguire un taglio nella Macchietta,
e perciò stanno all’ordine quattro prosciutti, che io gli scrivo di mandarteli. Ho avvisato
anche Babocci del mio ritorno a Terni circa il 10 ottobre.
I tempi qui seguitano ad essere bestiali, ed io mi sento tutto indolito. Come salvarsi
del tutto? Hai tempo a star dentro: l’aria fredda e umida penetra per ogni luogo. Sono
abbracciandoti di cuore il
tuo P.
LETTERA 177.
AL DOTT. RAFFAELLO BERTINELLI — ROMA
Perugia [5 ottobre 1833]
... La vostra lettera, segnata da Voi col 23 settembre, non giunse a questo uficio
postale che il 27, ed in quel giorno io era in letto con febbre di reuma, che per varii altri ha
durato ad affligermi. Nello scorso ordinario io mandai ciò a notizia di mia moglie, di
modoché se voi in oggi la vedeste sappiate che questo non è più per essa un mistero.
Tuttavia il male non è stato grave, ed ora me ne trovo libero.
Mi affliggono veramente le novelle che di voi mi date, e veggo con amarezza che non
sia ancor sazia la fortuna di perseguitarvi, quandoché nel Mondo avrebbe dove assai
meglio e con più di giustizia esercitare le sue persecuzioni. Ma poiché quasi sempre gli
avvenimenti sono condotti dalla mano degli uomini, i quali poi al complesso de’ loro
maneggi si compiacciono d’attribuire l’astratto nome di Sorte, non è da stupirsi se i mali
effetti della lor gravità cadano più spesso sui migliori che non sui tristi, dappoiché o questi
raramente mancano di armi di difesa contro gli attacchi de’ loro uguali, o gli ultimi amano,
piuttostocché offenderli, farseli complici nella eterna insidia che tendono alla odiata virtù.
Comprendo le mie parole dover giungere fiacco balsamo e inefficace alle acerbe vostre
ferite, ma poiché so pure che l’esser compatito nella sventura è, se non altro, un male di
meno, io intendo che voi, prendiate per ora dalla mia penna que’ conforti che non
mancherei di apprestarvi vicino onde ajutarvi a sostenere i colpi della disgrazia la quale
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siccome tutti gli altri mali agenti della terra non sa poi a lungo resistere contro una
determinata costanza.
Tenetevi cara la tibi-Seraphina, nella quale veggo più semplicità che mal’animo
contro di voi. Poverina! Sarebbe necessario un cuore di bronzo per tener saldo contro i
combinati attacchi di una raffinata malizia, di maniera che fra tante suggestioni perverse
non è maraviglia che il di lei nuovo cuore vada fluttuando.
Io parto di qui fra quattro giorni. Addio, caro Bertinelli: sono sempre il v.ro aff.mo
a.co
Belli
LETTERA 178.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Terni, 15 ottobre 1833
Mio caro Ciro
Giunsi in questa Città la sera di domenica 13 dopo un felicissimo viaggio. Ti assicuro
che l’essermi allontanato da te mi ha costato molta pena, la quale è però mitigata
dall’averti lasciato in buona salute e così bene affidato qual sei. Procura di conservarti sano
col moderato uso di tuttociò che ti si concede al sollievo dello spirito e del corpo, e fa’ che
le notizie che io andrò di te ricevendo mi riescano sempre di consolazione sotto ogni
rapporto, così di salute, come di condotta e profitto, tantoché col rivederti nel prossimo
anno ti ritrovi convenientemente più vicino al perfezionamento a cui ti si va conducendo.
Riverisci per me il Sig. Presidente, il Signor Economo, e il Sig. Prefetto. Amami e
ricevi la mia benedizione.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 179.
A CIRO BELLI — ROMA
Di Terni, 24 ottobre 1833
Mio caro Ciro
Mi ha scritto la tua mamma le seguenti cose sul tuo conto. Io ti copio qui appresso le
medesime parole della sua lettera. Eccole.
«Ieri ho ricevuto una lettera di Ciro, diretta a te. Credo che abbia sbagliato
dirigendola a Roma invece che a Terni, poiché diversamente mi sembrerebbe assai
singolare che io non ci sia nominata nemmeno con un saluto. Mi dispiace peraltro che,
ancorché fosse destinata per Terni, non ci abbia messo nessuna parola per quelli di Casa
Vannuzzi, nostri parenti, che pure egli conosce, e dai quali ha ricevute molte finezze al suo
passaggio per quella Città. Bisogna che Ciro sia un poco più premuroso sul punto della
gratitudine. Ora dimentica sempre anche Antonia, che è per lui come una seconda Madre; e
a me non piace tanta disinvoltura, la quale col tempo diviene durezza ed egoismo. Debbo
pure osservare che le ultime due lettere scritte da lui tanto a te che a me, sono così tirate
via e di un caratteraccio così brutto, che fanno nausea: ed anche di questo non sono
contenta. In questo modo egli fa mostra di peggiorare piuttosto che migliorare».
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Tu sai, Ciro mio (riprendo qui io tuo Papà) che molte volte ti ho a Perugia
rimproverato della tua indifferenza e negligenza nel dimandare nuove della tua tenera
Madre, la quale non sarebbe mai stata fra noi nominata se non te ne avessi parlato sempre
io pel primo. Comprendo che circa le lettere che tu scrivi te ne vien data la minuta bell’e
fatta, ma chi stende la minuta non è obligato di conoscere tutti gl’impegni del tuo cuore
verso le persone alle quali tu devi mostrare riconoscenza. Devi tu stesso pregarlo ad
includerci le debite menzioni. Riguardo al carattere, badaci un poco di più, caro figlio, e
non mostrar di disimparare. Riverisci per me i Sig.ri tuoi Superiori, e credimi sempre
tuo aff.mo Padre.
LETTERA 180.
A CIRO BELLI — ROMA
Di Roma, 30 novembre 1833
Mio caro figlio
Riscontro la tua graditissima lettera del 19 spirante, e ti faccio stimolo con la presente
a scrivermene un’altra quanto prima, onde istruire la tua Mammà e me stesso del tuo stato
di salute e di tutto il resto che ti concerne. Io già sapeva, sin dal mio partir da Perugia, che
i tuoi studii pel nuovo anno scolastico dovevano essere l’aritmetica e la lingua latina: mi
ricordo anzi che circa a quest’ultima tu mi dicesti essertene già tanto anticipato qualche
principio dal tuo buon Maestro Sig. Felicioni. Mi piacerà oggi di udire come ti sembri
riuscirti difficile questo dotto idioma. Io però tengo per fermo che le notizie che tu già
possiedi di grammatica in genere, sienti per facilitare d’assai i progressi in una lingua così
necessaria a chi nel Mondo vuol sapere. Ed è tanta, Ciro mio, la necessità del conoscere la
lingua latina, che non solo la ignoranza di essa ci priva della conoscenza di tanti capid’opera originali, ma ci niega altresì il possedere a perfezione la stessa nostra lingua
nativa, che, figlia della latina, prende da quella il più bel lustro delle sue forme. Allorché
tu avrai familiare la superba lingua del Lazio, sarai stupefatto delle bellezze sublimi degli
antichi Autori; e le stesse carte che tu scriverai, riterranno l’indole delle tue buone letture.
Il Sig. Rettore sa se io ti dico il vero. Studia dunque, o mio Ciro: un poco di fatica sarà un
giorno ricompensata da infinito piacere e da gloria. Te lo prometto.
Riguardo alla Calligrafia, mi sembra, Ciro mio caro, che tu vada prendendo qualche
difetto, il quale con qualche attenzione potrai facilmente ritoglierti. Per esempio, la lettera
F, che una volta era da te scritta secondo le forme più lodevoli, ora la fai nel seguente
modo... Questa, figlio mio, è una forma un po’ sconcia, e disarmonizza nella scrittura colle
lettere vicine. Giudicherai tu stesso della Verità delle mie asserzioni dalle due parole che
qui appresso io ti segno
affetto
difficoltà.
Non vedi tu, Ciro mio, che nel modo scritto alla tua guisa le due ff sembrano
piuttosto due lunghe zeta, tantoché quelle due parole si leggono meglio per azzetto
dizzicoltà che non per affetto difficoltà? Di dove hai cavato questa barocca forma di lettera?
— Nel resto poi bada di non tirar via nello scrivere. Io so che fra gli studii non si può
scrivere sempre con tanto agio e tanta attenzione, mentre l’applicazione ed il tempo
debbonsi economizzare in favor del soggetto che si scrive, e non già totalmente o in gran
parte concedersi al carattere con cui si scrive: ma almeno in qualche particolar circostanza,
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dove lo studio non entri per primo, sii accurato nello scrivere in modo da non perdere
un’abilità che avevi acquistata. E in quanto alle lettere che mi dirigi, sieno esse più brevi,
se vuoi, ma più corrette, imperocché io ci trovo non poca negligenza nella ortografia, e per
conseguenza molte correzioni. Riflessione, Ciro mio, riflessione in ogni cosa, e non si
sbaglia mai, o raramente.
Come ti trovi nella nuova Camerata? — La famiglia Fani mi scrisse i tuoi saluti: il Sig.
Biscontini me li ha portati. La tua Mammà ti dice mille cose piene di amore e di tenerezza,
e ti esorta a studiare, esser buono, e stare allegro. Antonia e gli altri nostri buoni domestici
ti salutano. Presenta i miei rispettosi ossequii ai Sig.ri tuoi Superiori, e ricevi i miei
abbracci e la mia benedizione.
Il tuo aff.mo Padre
LETTERA 181.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 19 dicembre 1833
Mio carissimo Ciro
Non dubitare, non perderti di animo. La lingua latina, sul principio dello studiarla,
suole riuscire un poco difficile a quasi tutti; ed io mi ricordo che anche a me accadeva
altrettanto allorché io era della tua età, e, come te, principiante. Di mano in mano però
l’esercizio continuo, e l’abitudine che ne consegue, rendono familiare qualunque più
astrusa difficoltà. A te non manca ingegno. Non ti dico ciò perché tu ne insuperbisca,
mentre il talento e tutto quello che abbiamo al Mondo di buono è dono gratuito della
Providenza, e non già nostro merito particolare. Intendo solamente di dimostrarti che con
disposizioni sufficienti di spirito non si deve disperare di buon successo in nulla di quanto
s’intraprende con ferma volontà. Il peggio che possa accadere a uno studente è il diffidar
troppo di sé, e lasciarsi sgomentare dalle prime difficoltà, inseparabili da tutti i nuovi
sperimenti. Col coraggio e colla perseveranza ogni giorno si guadagna una vittoria sopra
gli ostacoli, e non solamente si superano i presenti, ma si acquista ad un tempo il vigore
per superare i futuri. I più famosi uomini della Terra sono stati fanciulli, niuno di essi era
nato istruito: tutti si trovarono nuovi al principio nella carriera del sapere. Che mai
sarebbe accaduto di loro, e quale di tante famose opere avremmo noi oggi, se alle prime
difficoltà sbigottiti, si fossero arrestati sulla via che li condusse poi a tanta altezza di
gloria? Tu hai detto saggiamente che raddoppiando d’impegno speri di far que’ progressi
che lo studio non nega mai alla costanza. Quello che oggi ti sarà sembrato oscuro e
spinoso, col ritornarci sopra a mente serena e non divagata ti si farà dimani chiaro, molle e
fiorito. Vedi, o mio Ciro, la natura d’inverno. Ti parrebbe mai che quel prato sterile, nudo e
malinconico dovesse poi ben presto ricoprirsi di tutti i doni della fecondità? Eppure pochi
raggi di un benefico Sole di primavera bastano a produrre il miracolo. Dov’erano nevi e
brine sorgono indi a poco pingui erbe e vaghissime; e colorite frutta appaiono sugli aridi
rami degli alberi. Altrettanto accade nell’uomo. Esso non ha da principio che la capacità di
produrre; ma il calor dell’ingegno unito al tempo e alla pazienza lo muta a poco a poco in
tutt’altro da quello di prima e dice la Sagra Scrittura che colui che seminerà con lagrime,
raccoglierà esultando vale a dire, che le fatiche sostenute nel coltivare saranno premiate
dall’allegrezza della raccolta. Sta’ dunque di buon’animo, Ciro mio: studia con fiducia di
riuscire, e riuscirai. Il profitto verrà da sé, senza quasi che tu te ne accorga: e un giorno
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sarai certo che io ti diceva la verità. Studio, coraggio, e il successo è infallibile. Tuo padre
non t’inganna.
Ho veduto il Signor Presidente Colizzi. Egli mi ha dato buone notizie di te, e ti vuol
bene. Procura dunque, mio caro figlio, di non demeritare mai la di Lui grazia, né quella
degli altri tuoi buoni Superiori. Sii umano, gentile, obbediente, assiduo ne’ tuoi doveri, e
grato alle cure che ti sono prodigate in tante maniere. Ama pure, e rispetta i tuoi
compagni, imita il buon procedere di ognuno e non invidiare la gloria di alcuno. Sii
sempre verace ed umile, e quando mai ti avvenga di fallire, ringrazia chi ti ammonisce.
Questi consigli ti diamo tua Madre ed io, ed intendiamo che siano il miglior regalo che
possiamo farti per le imminenti SS. feste, che desideriamo felici a te, a’ tuoi Superiori e a
tutto il Collegio. Fra giorni poi avrai qualche cosetta da goderti per amor nostro. I giuochi
però saranno meno, perché ormai ti fai grande. Ti benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre.
P.S. Oltre a Mammà (che ti benedice con me) ti salutano tutti i buoni amici di Casa, e
Antonia, e Domenico e gli altri nostri amorosi familiari.
LETTERA 182.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 26 dicembre 1833
Ciro mio
In questa cassetta che, come nell’anno scorso, ti sarà stata mandata dal Sig. Angiolo
Rossi, e che tu dopo averla vuotata gli restituirai, sono i piccoli doni che ti godrai in
quest’anno per amor nostro, secondo che io ti avvisai nella mia lettera del 19.
Vi troverai dunque:
1° Un pangiallo, dono di Annamaria.
2° Un torrone, dono di Domenico.
3° Un cartoccio di mandorle attorrate, dono di Antonia.
4° Un’altro di confetti, dono di Antonia.
5° Una cassettina di colori, dono del Sig. Marchese Ossoli.
6° N. 7 pennelletti con loro bacchettine.
7° N. 6 piattini da stemprarvi i colori.
8° Un cerino.
9° Due trucchi da terra.
10° Due paja guanti.
11° Un pajo straccali.
12° Una piccola scrivania.
13° Le tue carte mimiche.
14° Il bucciotto, rappresentante il Cavallerizzo.
15° La pompa ad acqua.
16° Il ritratto del Buffon.
17° Le Novantanove disgrazie di Pulcinella.
18° Quattro barattoletti di manteca, fatta da Antonia.
19° Ventiquattro aranci.
20° Un pallone da camera.
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21° Quattro libre di cioccolata.
Vorrei sapere quando principieranno le recite nel Collegio, quale commedia si
eseguirà; e quale parte tu precisamente vi abbia.
Il Signor Presidente Colizzi ti saluta. Tu riverisci da parte mia e di Mamà il
degnissimo Signor Rettore e il Signor Economo, e per mezzo di questi anche il Sig. Luigi
Micheletti e di lui Consorte, augurando a tutti un buon Capo-d’-anno.
Tutti i nostri parenti ed amici ti salutano, e ti esortano a farti onore, per gloria di te
stesso, e della famiglia, che un giorno spera da te il suo lustro.
Tua Madre intanto ed io travagliamo per prepararti uno stato che tu poi dovrai
consolidare co’ tuoi proprii meriti.
Addio, mio caro figlio. Ricevi la nostra benedizione.
Sono
il tuo affezionatissimo padre
P.S. I nostri buoni domestici ti dicono mille cose affettuose, le quali tu riceverai con
gratitudine.
LETTERA 183.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, sabato 1° febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Giunto di notte a Terni, t’impostai le due righe già preparate fin da Roma, le quali
avrai ricevute. Non avrei mai creduto di essere in tanta compagnia nella diligenza.
Eravamo otto. — Nella prima giornata e nella notte consecutiva si ebbe diluvio. Jeri poi da
Fuligno fin qui un vento agghiacciante e così impetuoso che faceva prova di atterrare il
legno. Oggi è nuvolo, freddissimo, e minaccia neve. E la bella è che tutti affermano che
sino a jeri si era qui avuta una primavera. Sempre io mi porto appresso il buon tempo.
Arrivai qui jeri sera, e non ti dirò la sorpresa di questa buona famiglia, che ha messo
sossopra la casa onde farmi festa e graziosa accoglienza. Questa mattina poi ho goduto
l’affetto prodotto in Ciro nostro dalla mia repentina visita. È rimasto estatico, e poi colla
voce agitata mi è saltato al collo, dicendo: Papà! è Papà! E Mammà è venuta? Poi ha
principiato a saltare rosso come un gambero. Egli sta di un bene da non potersi spiegare,
colorito, prosperoso, lietissimo, e con due guancie grosse e dure come due pietre. Mi ha
condotto a vedere la sua camera, dove ha portato zompando la tazza da noi donatagli, e
da lui gradita oltremodo. Oggi dev’essere giunta a Roma la lettera in cui egli ci dava conto
dell’esame trimestrale. I Superiori ne sono restati contenti e mi han detto che Grazioli
stesso gli è rimasto di un grado inferiore. Lunedì sera andrò ad udirlo recitare in una
Commedia intitolata: i Golosi. Dicono che ha una parte non tanto breve.
Se dovessi riferirti tutte le cose da lui dettemi per questo mio viaggio, e per te, e per
Antonia, Domenico, etc. etc. non finirei mai. Parlava, saltava, e si stropicciava le mani,
battendole quindi per festa che veramente veniva dal cuore.
Di’ al Sig. Dr. Micheletti che appena arrivato (a tre ore di notte), consegnai a
Barbanera pel di lui studio la lettera e il plico. Circa a questo, è curiosa che smontato io di
diligenza mi scomparve dinnanzi il Sig. Bianconi che doveva consegnarmelo. Dovetti
dunque farlo cercare per le locande di Fuligno per chiederglielo. Egli, trovato che fu, mi
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mandò per risposta che nulla doveva egli darmi per Perugia. Mi fu pertanto forza, mentre
io pranzava, di rimandarci una seconda volta il cameriere di Pollo con una ambasciata più
viva e circostanziata. Allora venne indietro il plico.
Col locandiere Pollo ebbi battaglia. Di questa parleremo e rideremo poi a voce col
Dottor Micheletti.
Sappia Biscontini che dallo stesso Barbanera ho fatto avvisare il Dr. Speroni. Ancora
però non ho veduto alcun di lui messo per ritirare la roba che debbo consegnargli. (Ecco
che arriva il Dr. Speroni). Ho incontrato per istrada questo Sig. Bianchi, la cui famiglia poi
visiterò. Mi ha detto il Rettore che a loro richiesta, otto giorni indietro, condusse in loro
casa Ciro, che ne fu ricolmato di finezze.
La sola visita che è stata da me fatta finora è al Sig. Rossi nel suo sgabbuzzino. Egli
sta bene e saluta te e Biscontini.
Io ho freddo, sto bene, ti abbraccio di cuore e ti prego ricordarmi agli amici. Sono
il tuo P.
P.S. — Martedì 4 puoi azzardare due righe di risposta. È vero che se debbo trovarmi
la sera del 5 a Fuligno per la diligenza della notte, non potrei avere la tua lettera; ma in
ogni modo sarà bene che me la invii per tutti i casi che in detto giorno non mi facessero
ripartire, mentre Ciro non è affatto contento di soli quattro giorni, e questi Signori Fani ne
vorrebbero almeno sette. Basta, vedremo. Benedici Ciro che lo desidera tanto.
LETTERA 184.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 4 febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Rispondo alla tua del 1° corrente. — Come ti dissi nella mia dello stesso giorno, io già
sapeva l’arrivo a Roma della lettera del nostro Ciro. Sapeva altresì dell’altra lettera di Casa
Fani, e me ne hanno qui manifestato il contenuto. Ti ringrazio delle notizie che mi dai
dell’Accademia del Venerdì 31, e mi rallegro che tu abbia goduto di una bella serata.
Anche io sono qui andato sino ad ora una volta al teatro, e questa volta fu sabato a sera,
essendovi stata opera tanto la vigilia che il giorno della Candelora. La esecuzione della
Norma mi piacque ben poco. La Taccani (meno l’antipatia) è sul gusto della Tacchinardi. Il
tenore cantò come un bagherino, movendosi come un manipolatore di torroni. Il basso e
nella voce, e nella figura, e nella mimica, e nel vestiario, pareva un confratello del
Suffragio che siasi alzato il cappuccio. Del resto non occorre parlare.
Jeri sera fui al teatrino del Collegio Pio. Le decorazioni e il vestiario sono senza pecca.
I convittori declamano come violini scordati. Due soli ragazzetti de’ più piccoli mostrano
qualche disposizione naturale. Pronunciano tutti alla barbarica, e dicono degli spropositi
sistematici, che il Sig. Direttore doveva prevenire. Ciro non recitò jeri sera, ma insieme con
altri compagni comparve da soldato nella farsa del pitocchetto, e con essi eseguì delle
evoluzioni militari, che furono il più bel pezzo della serata. Erano assai cari que’ raponzoli,
in uniforme e baffetti, marciare armati a suono di tamburo, ed obbedire con sufficiente
precisione al comando di un colonnello, rappresentato da uno de’ collegiali più grandi, che
aveva parte nella farsa.
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Egli, cioè Ciro, recita questa sera, ed io andrò ad udirlo. Essendo egli uno de’ piccoli,
spero per questo motivo che sia meno cagnolo degli altri maggiori, perché qui vedo che
appunto la natura che inclinerebbe al buono è poi falsata in appresso dalla pretensione che
va in sull’esagerato, e dalla direzione di un soggetto, i cui allievi me lo fanno calare di
credito.
Ci fu anche un ballo di cinque ballerini, pure collegiali. Consisteva in una specie di
contradanza di un centinaio al più di zompetti e di alzate di braccia concertata per dieci
scudi da quel manichino vecchio del Serpos, al quale avrei invece contato dieci nerbate
sulla schiena degna di un basto sdrucito. Ha ridotto questi poveri ragazzi, che sembrano
dieci salami attaccati a cinque prosciutti, prendendo il prosciutto per vita e il salame per
gamba.
Io domani non partirò più, perché non essendo ancora attivata la diligenza nuova per
Todi e Narni, se io andassi a Fuligno onde attendervi la diligenza ordinaria che vi passa
nella notte seguente tutti mi dicono che in questi ultimi giorni del romano carnevale si può
scommettere cento contro uno che non vi troverei posto. Che farei allora a Fuligno? E
troverei altra vettura subito, quando anche volessi stare in viaggio tre giorni? Sarà dunque
più prudente che io parta di qui domenica 9, per profittare del seguente corso di diligenza
che arriverà a Roma la mattina dell’11, ultimo giorno di Carnevale, pel qual corso mi
soggiungono tutti che si può invece scommettere la testa che il posto vi sarà, mentre chi
vorrà correre ai soli moccoletti? Intanto ci riudiremo in seguito. Ciro sta benone: ti saluta, ti
abbraccia, e ti chiede la benedizione.
Nell’aritmetica egli ha fatto in tre mesi quel che gli altri in due anni. Così
precisamente mi ha detto il maestro. È arrivato a tutti i calcoli delle frazioni e si dispone
già ai calcoli superiori, introduttivi alle operazioni algebriche. Nella lingua latina ha dato
anche saggi assai sufficienti.
Circa poi alla sua dolcezza, bontà e modestia, ti assicuro che non solo in Collegio, ma
è lodato anche per la Città. Egli saluta Antonia, Domenico etc. Di’ mille cose per me ai
Calvi, a Biagini, Spada, Pippo e a tutti gli amici.
Ti abbraccio di nuovo e sono
il tuo P.
LETTERA 185.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 6 febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua del 4 corrente. Martedì sera come ti dissi, fu la serata che andò in
iscena Ciro. Recitò egli in una commediola in due atti, della Rosellini di Firenze, intitolata:
I Golosi. I due ragazzi erano Ciro e Grazioli, ai quali accaddero certe avventure spiacevoli,
per essere entrati in un orto altrui a spogliare un albero di frutta. Il carattere però che
rappresentava Grazioli era di un giovanetto sprezzatore dei consigli della età matura,
laddove al contrario quello dell’Enrichetto, di lui cugino (parte di Ciro) si opponeva alle
derisioni e irriverenze dell’altro. La dissero entrambi benino e con molta disinvoltura,
malgrado una ben piena udienza che ingombrava il teatro. Io non soglio farmi velo alla
verità di privati affetti; e perciò qualora ti dica e ti ripeta che que’ ragazzetti declamano
con maggior naturalezza che i più grandi, credimi. Una volta Ciro dimenticò due o tre
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parole di un suo discorso, e senza smarrirsi fece un’alzatina di spalle e tirò via. Tutti risero.
Un’altra volta, dovendo dare ad una villanella due frutta che aveva in saccoccia, se ne
scordò; e dopo qualche momento ricordatosene, disse: ah! a proposito..., e, cavatele fuori, le
consegnò. Que’ raponzoletti ebbero molti applausi.
Mi ha dimandato questa mattina il nostro Ciro quando io parta. Gli ho risposto:
domenica mattina. Egli allora: bravo, bravo, Papà: va benone: così state un po’ più: va benone. E
qui due zompetti al solito, e una stropicciata di mani. Egli ti saluta tanto e poi tanto, ti
chiede la benedizione, e ti promette di farsi onore. Saluta anche Antonia, Domenico, i di
lui figli ed Annamaria. I giuocherelli da noi mandatigli hanno fatto furore.
I tempi sono assai cattivi, e di carnevale qui non ce n’è neppure l’idea, meno il teatro,
ed alcune feste di ballo, le quali, come puoi pensare, io non frequento affatto.
Ieri sera incoronarono al Teatro la prima donna Taccani, con molta derisione della
più sana parte della Città. Incoronata per mano d’un genio, che n’ebbe da essa la mancia di
uno scudo, fu ricoperta da una pioggia d’oro come Danae, colla sola differenza che gli
zecchini si commutavano in un diluvio di pezzetti di talco gettati giù dai cieli del palco
scenico. Al fine poi dell’opera la Signora fu condotta a casa fra bande e torcie in un legno
da gala della Regina di Baviera. E qui notisi di passaggio che questa Signora dell’altissimo
canto ha avuto qui la paga di trecento scudi. Ma una corona, una pioggia di talco, e un
trionfo l’hanno posta in Perugia nell’ordine delle dame di fama europea. Iddio però gliela
mandi buona, perché di detronizzazioni in questo malaugurato secolo non è penuria; e le
corone che da un paese si danno, spesso da un altro si tolgono. Povera Taccani allora; e più
povera Perugia! La Taccani è una buona donnina di secondo ordine. Ma a quelle di primo
cosa darà il Trasimeno?
Saluta tutti, e ricevi un abbraccio di cuore
dal tuo P.
Alla presente non rispondere, perché io sarò partito allorché arriverebbe il riscontro.
LETTERA 186.
A FRANCESCO CASSI — PESARO
Di Roma, 15 marzo 1834
Pregiatissimo amico
Il corriere del 13 mi portò il vostro manifesto colle due annesse tessere di
dichiarazione che voi proponete a’ vostri antichi Soci, onorevoli forse tutti come voi dite,
ma non tutti per avventura egualmente generosi. — Coll’ordinario poi di oggi ricevo la
cara e gentil vostra del 9, marcata in arrivo il 13, ma non più presto pervenutami, stante la
mancanza dell’indirizzo, che io raccomando a tutti i pochi miei corrispondenti al fine di
non andare a farmi pestare inutilmente le coste per dieci volte all’inferriate postali, e
perder quindi la virtù della perseveranza proprio in quel torno che mi avrebbe fruttato
una lettera. Il portalettere però, che conosce me e le mie mance, trovata oggi la vostra
epistola negli scaffali dell’Uficio, ne l’ha tolta, ed ora vi rispondo al momento.
Per soddisfare alla dimanda intorno al numero delle copie che rimangono in essere
de’ quattro fascicoli sino ad oggi stampati, non parmi poter fare di meglio che riepilogare
qui le notizie datevi con due miei fogli del 27 e 29 Luglio 1830, riscontrate prima in vostro
nome il 5 agosto seguente dal Sig. Honory, e poscia da Voi medesimo sotto il 19 del
168
medesimo mese. In questa anzi e successiva vostra del 16 ottobre, detto anno, mi
annunciavate che le carte della gestione Cavalletti, speditevi da me il 29 luglio anteriore,
erano sotto l’esame vostro e del Sig. Vincenzo Bontà, del quale esame mi avreste poi
partecipato il risultamento: e a ciò si rimase. Intanto le notizie eccole qui:
Copie esistenti
dei fascicoli:
1°
2°
3°
4°
In carta
ordinaria
N. 33
- » 53
- » 66
» 105
_____
N. 257
Totale per fascicoli
Fasc.° 1°... N. 54
Fasc.° 2°. . . » 89
Fasc.° 3°. . » 110
Fasc.° 4°. . » 175
_______________
. . . . . . . . N. 428
Velina bianca
Velina perla
N. 20
- » 31
- » 34
- » 57
_____
N. 142
N. 1
--» 5
-» 10
-» 13
_____
N. 29
Totale per qualità
Carta ordinaria . . . N. 257
Velina bianca . . . . . » 142
Velina perla . . . . . . . .» 29
corrisponde al . . . N. 428
Questo è il numero de’ quaderni deposti presso di me dal distributore Sig. Cavalletti,
e questo è il medesimo numero che deve al presente esistere, perché quantunque da me
non riscontrati prima di scrivere la presente, pure so che da luogo in cui stanno niuno può
averne rimossi.
Attenderò dunque il Sig. Biolchini per mostrargli il detto fondo e per tenere con lui
que’ proposito che meglio crederà egli giovare alla vostra ristorata intrapresa; e ben
volentieri mi recherei tosto io medesimo a visitarlo, dove io sapessi chi sia e in qual parte
abbia dimora, cose entrambe a me ignote, dappoiché io, poco al fatto della letteratura romana,
niuno mai vedo di coloro che sono da lui segretario assistiti. Questi Signori arcadisti
tengonsi troppo in sull’alto, senza pensare che vien sempre la falce del Tempo a fare di
tutto le debite detrazioni. Isthuc est sapere, non quod ante pedes modo est videre, sed
etiam illa quae futura sunt prospicere. E quando Terenzio ciò scrisse chi sa che in quel
futura non volesse anche considerare il giudizio degli uomini. — La carta mi manca, ma
non il desiderio di trattenermi con voi. Fate dunque che non mi manchi di che trattenermi
in questa occupazione. Sono il vostro aff.mo amico e servitore
G. G. Belli
Palazzo Poli 2° piano
Autografo nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro.
LETTERA 187.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 25 marzo 1834
Carissimo figlio
169
Alle altre tue qualità, delle quali confesso di non saper lamentarmi, va però in te
unita una certa malattiola di cervello, di cui desidererei veramente che tu ti guarissi. E non
ti pare difatti di avere il cervelletto un po’ guasto, allorché tanto facilmente dimentichi così
il tuo dovere di farmi avere le tue nuove, come il desiderio che la tua Mammà ed io
nudriamo di riceverle? Te lo ripeterò ancora: io non credo che ciò in te nasca da difetto di
cuore, poiché il solo sospettarne mi causerebbe il più grave rammarico. Ma se in queste
tanto frequenti negligenze (condannate dai regolamenti del tuo Collegio, ed accusate dai
miei replicati lamenti) si debba far grazia al tuo cuore ed assolverlo sino dalla possibilità
della colpa, ritorna sempre più evidente la giustizia del mio dubbio sulla leggerezza di
quella tua testina, alla quale non manca altro per volar via che metter fuori due ali come
quelle de’ passeri. Tu, in questo rapporto, prendi, mio caro Ciro, una ben nociva abitudine.
L’avvezzar l’anima nostra a troppo spesse negligenze, fa sì che questi atti di trascuranza
prendono a poco a poco un carattere d’indolenza su tutti que’ nostri doveri, la osservanza
de’ quali richieda il minimo fastidio e la più lieve fatica. E sappi, Ciro mio caro, e credilo, e
scolpiscitelo bene in mente, che le abitudini contratte nella fanciullezza difficilmente poi si
abbandonano in età più matura, anche a malgrado della ragione che persuade e della
volontà che stimola a correggersi. Forse talvolta una risoluzione ben ferma e determinata
potrà dare all’uomo avviziato qualche vittoria sopra se stesso, ma sempre le antiche
inclinazioni si studieranno di prevalere, e quando anche il trionfo della ragione e della
volontà sia completo, quale prudenza è mai quella e quale interesse è di un Uomo, che si
riserbi tanti sforzi futuri per combattere un nemico e cacciarlo di casa, quando con sì poca
fatica poteva prima impedirgli l’ingresso? Anche in questa mia lettera io conosco il
bisogno de’ soccorsi del gentilissimo Signor Rettore, onde farti bene penetrare il senso
della presente mia morale lezione. Tu già sai esser mio desiderio che tu rilegga nel tempo
futuro le mie lettere, e così la maggior chiarezza ed evidenza che prenderanno allora a’
tuoi occhi serviranno tanto a convincerti dello sviluppo del tuo intelletto quanto della
verità de’ miei avvertimenti, suggeriti dalla esperienza che è la prima e più sicura guida
delle umane operazioni.
Ringrazia in mio nome il Signor Rettore della lettera da Lui scrittami il 20, e
previenilo (come è dovere) che quanto prima io andrò a mettermi di concerto col Sig.
Vincenzo Fani, onde principiare a darti le preliminari nozioni della Musica, avanti di
venire alla pratica dello strumento, il pianforte.
Mammà, che ha ricevuto la tua del 20, ti benedice ed abbraccia. Altrettanto faccio io,
incaricandoti de’ miei rispetti a’ tuoi superiori.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 188.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
[14 aprile 1834]
C. A.
Quanti erano gli altri? 75. Volgi il numero, ed eccotene 57. Su questi la solita riserva.
Non così sugli altri due non romaneschi, che anzi... È roba di stagione. Ne mando anche a
Biagini.
Ti abbraccio di cuore.
14 Ap.e
170
Il tuo B.
LETTERA 189.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
[24 aprile 1834]
Caro Checco
Ieri sera non parlai de’ due sonetti qui inclusi perchè, quantunque fatti, mancavano
delle note. Leggitili eppoi me li renderai, non avendone io altra copia, e dovendone fare un
certo uso. Ti abbraccio.
24 aprile 1834
Il tuo Belli
LETTERA 190.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, giovedì 8 maggio 1834
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua del 6 corrente. Le nuove del nostro Ciro le avrai già avute dalla mia
precedente. Esse continuano ad essere le medesime. Questa mattina è venuto in questa
Casa Fani insieme alla sua Camerata per veder passare la processione delle Rogazioni che
si è fatta un’ora avanti il mezzodì, con un vento che gettava i Cristi per terra, e infasciava
le teste de’ frati nelle loro tonache. Oggi dopo il pranzo sono io stesso andato a prenderlo e
l’ho portato a spasso con me. Egli sta sempre colla solita allegria e con due guance che
paiono pietre. Ti chiede la benedizione, ti dà mille baci, de’ quali alcuni per Antonia, e ti
prega salutargli Domenico, Annamaria, Biagio e Gregorio. Circa a quest’ultimo, ha riso
udendo la di lui speranza di venir qui a trovarlo coi danari del terno. Compiaciti
finalmente di riverire in di lui nome tutti gli amici.
In quanto alla dimanda che mi fai intorno al danaro di cui io creda abbisognare fino
al mio ritorno a Roma, ti dico che di non molto più avrei d’uopo; ma poiché nel mio
passaggio per Terni vi dovrò pagare almeno otto copie d’archivio d’istrumenti e certe fedi
catastali e di registro per la Congregazione del Patrimonio Canale (che te ne dovrà
rimborsare, secondoché disse Biscontini essere stato stabilito), così sarà bene che tu mi
spedisca una venticinquina di scudi, pei quali però puoi prenderti largo fin verso i venti
del mese, quando così ti piaccia. La mia dozzina è già pagata, e le spese per Ciro e qualche
altra per me occorrente alla giornata vado facendole a poco a poco. Ti saluta la famiglia
Rossi, e porzione di questa Casa Fani, mentre le Signore, meno la Madre, partirono jeri per
la campagna, a dieci miglia di distanza, dove resteranno quindici o venti giorni in un
luogo detto la Spina. Di ciò peraltro, vedendo Angiolino Vani, non fargliene motto, mentre
ignorando io se vogliono che lo sappia, mi spiacerebbe che questa notizia gli andasse per
parte mia. A mano a mano che ti capita l’occasione salutami Checco, Biagini, Pippo,
Ferretti, il can.co Spaziani, Casa De Witten, Casa Marini, e gli altri amici della nostra
famiglia. Procura di non scalmarti tanto, se i caldi seguitano. Qui jeri tirò una fredda
tramontana. Ti abbraccio di nuovo e sono
171
Il tuo P.
P.S. Oggi ho scritto a Stanislao Bucchi per avere il Certificato ipotecario onde
stipulare con Vannuzzi. Ieri venne a Perugia espressamente il Sig. Luigi Micheletti e mi
pagò Sc. 1:95 per Biscontini.
LETTERA 191.
A GIACOMO FERRETTI — ROMA
Di Perugia, sabato 17 maggio 1834
Caro Ferretti
Tu mi dicesti: scrivimi; ed io ti scrivo. E per non venirti avanti con le mani vuote, ti
mando quattro ciarle in versi, se vuoi, per lo Spigolatore. Ho qui letto un serto di sonetti
tributati da chiari nomi alla memoria del giovanetto Adolfo Mezzanotte, morto alle speranze
della patria e del padre: e ci ho voluto cacciare il naso ancor io. È temerità ma non sarà né
la prima né l’ultima de’ poetastrelli miei pari. L’ultima parola del tredicesimo verso è un
predicato che poco anzi nulla conviene al suo subbietto, ma sì al frutto di esso. Io però ho
avuto bisogno di quel traslato, e forse potrà perdonarmi sì in vista de’ molti obblighi ai
quali mi sono nel sonetto vincolato. Eppoi in poesia si è talvolta trovato di peggio. Questa,
per verità, non sarebbe una buona ragione, ma almeno m’illude la coscienza. Come stai?
La tua famiglia che fa? Salutamela. Qui fa caldo e freddo a ore; e si va dal mussolo al
borgonzone, come del fritto all’arrosto.
Abbracci: addio
Il tuo aff.mo amico
G. G. Belli
LETTERA 192.
AL PROF. ANTONIO MEZZANOTTE — PERUGIA
[19 maggio 1834]
Amico carissimo
Lessi ieri di fiato la Olimpia del vostro povero Adolfo, nonché i funebri versi
dell’amicizia, dai quali è l’opera accompagnata. Chiuso il libro, scrissi il Sonetto che vi
mando in tardo testimonio della mia ammirazione per un giovinetto il di cui corpo deve
aver ceduto all’azione dell’anima.
Fra i molti peccati che potrete notare nel mio meschino lavoro accuso intanto io
medesimo spontaneamente la poca convenienza che lega il suggetto e il predicato messi in
fine del 13° verso, dappoiché tra arbore e precoce abbisogna il grado intermedio di frutto.
Ma poichè a qualche difficoltà mi ha assoggettato il riepilogare con qualità contrarie,
e in due versi, le tre proporzioni già sviluppate, spero che l’ardire del translato mi si vorrà
da voi perdonare. Nulla dimeno su questo come sugli altri spropositi, mea culpa, mea
culpa, mea maxima culpa.
Dal momento in cui venni da voi giovedì, e vi trovai dormiente, sono tuttora in casa
per un reumettaccio preso pel repentino abbassamento della temperatura atmosferica. Io
172
sono un termometro, un barometro e un igrometro. Vedete dunque in me in intiero
gabinetto fisico.
Vi abbraccio di cuore come meritate; e sono il vostro amico
Di casa, 19 maggio 1834.
G. G. Belli
[segue il sonetto: «Fiamma, cui l’esca in gradual misura»]
LETTERA 193.
A MELCHIORRE MISSIRINI — FIRENZE
Di Roma, 18 giugno 1834
Mio carissimo Missirini
Allorché giunse a Roma la Vostra lettera del 4 maggio, a me indirizzata, io ne era da
pochi giorni partito e mi trovava in Perugia, dove a brevissimi intervalli torno sempre a
recarmi trattovi dall’amore del mio figlio, che sta ivi educandosi in quel buon Collegio Pio,
instituito e diretto dal sommo uomo Don Giuseppe Colizzi, romano di nascita ma di fama
italiana. Trovato dunque il caro vostro foglio in mia Casa, avidamente l’ho letto,
nuovamente rallegrandomi della vostra amicizia e gentilezza, comunque cose non nuove a
me che in tanti anni ne godo e conosco il pregio. Sulle parole di sconforto, colle quali pure
mi avete alcun poco amareggiata la piacevole vista de’ Vostri caratteri, io non so che dirvi,
al buio qual sono del tenore delle disgrazie onde vi dite travagliato. Queste, giammai non
mancano alla vita, e meno a quella de’ buoni e degli innamorati degli uomini e del loro
bene. Di qualunque natura poi elle si siano, molto malagevole riesce il consolare un
sapiente, il quale, a malgrado della sua cognizione del Mondo e della trista parte che vi
tocca alla virtù, ti dice pure io sono infelice. Ogni genere di conforto tratto dagli aiuti della
filosofia egli già lo conosce, e inutile troppo gli verrebbe da altri quando nol trovi efficace
nella stessa propria sapienza. Vergognandomi io pertanto di assumere gli uficii del
consolatore con Uomo tanto a me superiore per animo e senno, vi farò ripetere due
parolette da Seneca, del quale niun saggio che viva sdegnerebbe considerarsi discepolo:
Res humanas ordine nullo
Fortuna regit: spargitque manu
Munera carca, peiora forens.
Io però mai non soglio meravigliarmi de’ fausti successi del malvagio, sommati in
confronto de’ buoni eventi del virtuoso, e sempre su ciò vado ripetendo a’ miei amici che
delle due strade aperte agli umani desiderii per giungere al loro scopo, l’inonesto può
batterle entrambe, mentre non avendo scrupoli di mettersi su quella del torto gli è pur
sempre libero l’andare per quella del dritto: laddove all’onest’uomo non essendo scelta da
fare non può egli giungere al bene che per un solo cammino. Pare quindi assai naturale in
questo, come in tutto il resto delle umane cose, che più sono i mezzi e più facile il fine.
Certo è nulladimeno che a’ vostri qualsivogliansi mali peggior rimedio non potevate
apprestare che quello di avvolgervi lo spirito fra i sepolcri e fra le tante scoraggianti idee
che offre la Morte; seppure bello e virtuoso pensiere di scemare qualche male alla umanità
soffrendo non vaglia esso solo a bilanciare in voi tutto il disgusto che deve venirvi dal
quadro il più luttuoso della nostra caducità. Ma io temo che voi leverete quella vostra
potente voce, e sarà indarno. Alcuni radicali pregiudizii, e peggio se fomentati da
173
malinteso spirito religioso, prima di svellersi intieramente dall’indurito suolo della società,
deve passarvi sopra gran ferro di tempo, e gran fuoco di filosofia. Il primo sempre lavora
ma nel senso solo di distruzione dove non venga aiutato dalla luce dell’altro. Il Mondo vi
pare filosofo? Appena nelle società più civili io conterei un centesimo di uomini civilizzati.
Altra è la politezza, altra la filosofia: quella investe la superficie e la fa bella: questa
penetra la massa e la rende buona. E il Mondo sinora non è a rigore che bello. Vero pure è
sempre che migliorandosi, per gli sforzi insistenti de’ Saggi, il centro delle ramificazioni
sociali, i raggi obbediscono al di lui impulso e girano spesso ciecamente attorno a un
nucleo di benefica non conosciuta e non meritata influenza. Levate dunque sempre la voce
Voi animosi che avete petto da tanto, e se un sollecito esito non coronerà le vostre
speranze sotto i vostri occhi che ne vissero bramosi, vi sosterrà il conforto di quella gran
verità: di’, di’, di’, e qualche cosa resta. Molte forze, tutte cospiranti ad un fine, spesso
vincono la stessa natura.
I miei amici ed io abbiamo trovato bellissimi e di voi degni i due vostri sonetti per la
Tacchinardi - Persiani e per la Ronzi. Il nostro Ferretti li riproduce in questi fogli romani.
Non so se questo Architetto Sig. Gaspare Servi, Direttore de’ due giornali artisticoletterarii il Tiberino e lo Spigolatore, vi abbia l’atto avere un libriccino di poesie offertegli
dagli amici nella recente occasione del suo matrimonio colla Sig.ra Annetta Contini figlia
del Colonnello di questo nome. Ad ogni modo voglio terminare d’imbrattare questo foglio
di carta col trascrivervi lo strambottaccio fattogli da me. Brutto pagamento io vi do per
l’invio de’ soavi versi Vostri, ma la botte dell’aceto non può dar greco o Chianti. Sorbitevi
sù questa amara bevanda, e se la vi par troppo amara, serrate gli occhi e la bocca dicendo:
transeat a me. — Prima di passare a’ versi, conchiuderò col dirvi in prosa che la gentilezza
del Sig. Camillo Torriglioni vi farà pervenire la presente, e che io sono e sarò sempre
vostro amico ed ammiratore.
Giuseppe Gioachino Belli
Palazzo Poli, 2° piano
[Segue l’ode «Il Sole dell’Imeneo»]
LETTERA 194.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 26 luglio 1834
Mio carissimo figlio
Con la massima consolazione la tua Mammà ed io abbiamo letto la tua lettera del 24
corrente; perché ci è il più sicuro testimonio dell’esser tu perfettamente guarito. Farai
molto bene se, come dici, ti avrai per l’avvenire que’ discreti riguardi che ti possano
preservare da una ricaduta. Io ignoro come sia andata questa volta; ma se mai avesse
contribuito al tuo male qualche soverchia mancanza di cautela, spero che potrà servirti di
esperienza pel futuro. Figlio mio caro, il dolore è il miglior maestro degli uomini; e la
memoria di quello che già si è sofferto serve a darci regola nella nostra condotta. Vivendo,
e osservando naturalmente i casi umani, ti avvedrai da te stesso di questa altra verità che ti
accenno.
Già al mio partire di Perugia io ti aveva promesso che verso il mese di agosto ci
saremmo riveduti. Ciò dunque accadrà entro la prima dècade dell’entrante mese.
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Dal Sig. Professor Colizzi ha la tua Mammà ricevuto notizia della visita da te fatta
alla Sig.ra Principessa di Danimarca. Questa Signora è venuta oggi verso il mezzodì a
trovare la tua Mammà, e, non avendola rinvenuta in Casa, tornerà questa sera per darle
nuove di te.
Pel giorno 12 agosto io già sarò di certo a Perugia, ma se mai per qualche imprevista
circostanza non vi fossi ancor giunto, ti ricordo di spedire in quello stesso giorno martedì
12 agosto una lettera a Mammà, onde le giunga il 14 vigilia della di lei festa ed insieme del
di lei giorno natalizio. Tu sai quanto devi alla tua buona Mammà, e perciò non fare che
essa in quella circostanza, nella quale tutti i parenti e gli amici sogliono congratularsi,
manchi di una prova della memoria e dell’affetto di un figlio. Su questo dunque ci siamo
intesi.
Torna a riverire in nostro nome i tuoi Sig.ri Superiori: ricevi i saluti e i rallegramenti
di tutti quelli che ti conoscono: seguita a star bene, e fatti onore. Ti abbraccio e benedico
insieme con Mammà, e sono il tuo
aff.mo padre
LETTERA 195.
ALLA MARCHESA VINCENZA ROBERTI PEROZZI — MORROVALLE
Di Roma, 31 luglio 1834
Cara amica,
non mi fate passeggiare per una ridicolezza di sessanta baiocchi. Nell’ultima vostra,
data di Morrovalle, luglio 1834 mi diceste: nell’ordinario ventuno ve li spedirò etc. Il fatto è però
che sino a questo giorno non è venuto niente in nessun ordinario. Che questa gran somma
l’aveste tenuta voi o l’avessi avuta io, era indifferente, ma poiché mi annunziate
l’impostamento, in tal caso è meglio che l’abbia io anziché la tenga il pubblico ufficio.
Vedete dunque se la Posta di Macerata abbia spediti questi benedetti sei paoli, e in caso
che sì, annunziatemi il giorno della spedizione onde farla nota a questi Ministri che la
niegano. Io vi sto seccando per simile inezia, ma convenite che nella circostanza attuale
farei male a lasciar correre, onde regalare dei paoli alla Ill.ma Amministrazione. Neppure io
godo di tener dietro a certa sorta di affaroni.
Al ritorno della vostra risposta io non sarò più in Roma, partendone dopo dimani.
Ma ci sarà chi farà per me secondo che Voi vi compiacerete indicarmi direttamente, di che
poi mi si darà avviso dove io potrò ritrovarmi. Salutatemi tutta la Vostra famiglia,
compreso il Sig. Giuseppe vostro suocero e credetemi il vostro affez. a.co e serv.re
G. G. Belli
LETTERA 196.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 12 agosto 1834
Mia cara Mariuccia
Partito da Terni colla diligenza domenica alle 2 dopo il mezzodì arrivai a Fuligno la
sera alle 9 circa, e vi passai la nottata. Ieri mattina poi, volendo proseguire il viaggio per
175
questa Città, non trovai un posto, e ad un’ora dopo il mezzogiorno dovei prendere un
legno, altrimenti andavo a rischio di consumare a Fuligno il risparmio che volevo
ragionevolmente fare nella vettura. Qui pure però ebbi una delle solite porcherie da’
vetturini, della quale parleremo in voce, mentre mi preme ora di parlarti di Ciro. Ieri sera
non giunsi in tempo per vederlo. L’ho però veduto questa mattina, e l’ho trovato
estremamente contento della mia visita. Egli mi ha subito fatto mille dimande di te. La di
lui salute è affatto ristabilita e si è ben rimesso, stando inoltre d’un umore lietissimo.
Interrogato da me sulle probabili cause della di lui malattia, mi ha risposto che forse
dev’essere stato qualche improvviso colpo d’aria senza alcuna preoccupazione, lo che mi
confermano il Rettore e gli altri. Mi ha recato nella sua stanza a vedere il pianforte, che
mantiene benissimo, e del quale è oltre ogni dire contento. L’acqua della Scala gli è stata
gratissima; ed avendone ancora una caraffina della precedente, ne ha regalato una della
nuova al Rettore, che l’ha assai gradita. La cioccolata pure gli è giunta accettissima; ma
dove ha dato in salti è stato al vedere il cannocchiale. Vedremo poi venerdì cosa dirà
dell’astuccio. Egli si preparava già a scriverti una lettera per la tua festa, e dice che son già
varii giorni che faceva i conti sull’ordinario postale che ti facesse giungere la sua lettera il
più vicino che fosse possibile al giorno della tua festa. — Lunedì 18 si dà principio agli
esami generali dell’anno scolastico, e durerà il saggio anche il martedì e il mercoledì. Te ne
darò a suo tempo il ragguaglio. Il nostro Ciro intanto si va preparando per riuscire il
meglio che saprà. Egli ti chiede la benedizione, ti dà mille baci, e ti dice di star
tranquillissima sulla sua salute, perché ora si sente assolutamente bene. In Collegio varii
sono stati i ragazzi malati di gola, e lo stesso Cameriere di Ciro, dopo di averlo assistito
ebbe anch’egli una angina più forte assai di quella sofferta da lui.
Al Presidente Colizzi non ho ancora fatto la tua ambasciata perchè non l’ho fin qui
veduto.
Ho già pagato un mese della mia dozzina, e soddisfatto lo stipendio di giugno e
luglio al Maestro di musica Sig. Fani. Fra qualche giorno poi gli pagherò il Metodo
generale dello studio al pianforte che gli ha fatto copiare, e, per mio ordine, rilegare come
un libro onde coll’uso non gli si sciupi nell’adoperarlo. Questo metodo, dei migliori che si
conoscono, era necessario, e la spesa andrà unita alle altre occorse per le cose preparatorie
a quest’ornamento che vogliamo dare al nostro carissimo e meritevolissimo figlio.
Qui l’aria è molto più fresca che a Roma, passandovi una differenza di varii gradi, in
causa dell’elevazione del suolo e della ventilazione assai libera. A me però piaceva più il
caldo uguale ed unito della nostra Città.
Ho veduto questa mattina in Casa Bianchi il tenente Lovery, che sta bene, e meglio
che quando era a Fuligno. Se vedi la madre, dille che le di lui circostanze di servizio sono
ancora le stesse che gli rendono impossibile il lasciare la sua Compagnia, che manca di
Capitano.
Un saluto a tutti gli amici, e alla nostra famiglia. Sta’ bene Mariuccia mia, e il Cielo
possa concederti mille e mille altri giorni simili a quello del prossimo 15 agosto, che tu
puoi credere quanto io ti desideri felice e lieto per mia consolazione e del figlio nostro,
acciocché riuniti un giorno tutti e tre godiamo insieme il frutto delle nostre più care
speranze. In questo desiderio ti rinnovo la protesta della mia sincera affezione, e sono di
cuore il tuo
P.
176
P.S. È verissimo che Ciro fu assistito colla maggior premura ed attenzione,
specialmente dal suo buon Cameriere. Darò per conseguenza mancia doppia a questo
bravo giovanotto.
LETTERA 197.
A GIACOMO FERRETTI — ROMA
Di Perugia, 21 agosto 1834
Caro Ferretti
Si dà per certo che Gamurri abbia preso per sei anni il teatro di Tordinona. Si suppone
pertanto che possa essere in Roma persona che lo rappresenti. Su queste due basi il Sig.
Angiolo Fani, quel medesimo che tu conoscesti in compagnia del tenore Furloni, mi ha
pregato di scriverti se sarebbe possibile il trovarsi un impegno per essere scritturato nel
prossimo carnevale come prima viola, posto che egli ha occupato in molte orchestre, e fra le
altre a Bologna, a Sinigaglia, ed anche a Roma nel carnevale rotto a mezzo dalla morte di
Papa Leone. Io ignoro se tu avresti mezzi da favorirlo. Se ne hai, spero che vorrai
impiegare in suo pro’ qualche parola.
Dammi nuove di tua salute, e della tua famiglia. Il mio Ciro sta bene e si fa onore. Io
sto così così in questo urtantissimo clima. Ma v’è Ciro e ci vuol pazienza. Salutami gli
amici e credimi sempre
Il tuo aff.mo amico vero
G. G. Belli
P.S. Devi aver avuto una lettera del Prof. Mezzanotte.
LETTERA 198.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 26 agosto 1834
Mia cara Mariuccia
Per quest’anno non sarà necessario il supplir noi ai torti che potesse soffrir Ciro dalla
fortuna nel bussolo dell’estrazione de’ premii. Egli a buon conto ha già assicurato il primo
premio assoluto nell’aritmetica ragionata; e pel resto poi si vedrà, mentre per la lingua latina
sarà imbussolato nel giorno e nell’atto istesso della premiazione solenne, la quale accadrà
nel dopo-pranzo del giovedì 4 settembre. In questi giorni intanto il Signor Ciretto se la
diverte, essendo il Collegio condotto a tutte le feste della Città in luoghi sicuri e distinti.
Fatti leggere da Biscontini il programma de’ divertimenti perugini della corrente
settimana, esposto nell’Osservatore del Trasimeno di sabato 23, e a tutto quello che vi udrai
(meno il teatro) i Collegiali sono condotti. Perugia in questi giorni è trasformata in una
Casa del diavolo. Io, al mio solito, non vado a veder niente, e neppure mi sono ancora
ridotto a recarmi al teatro. Non ho proprio voglia di nulla, né mi sento il coraggio di
esporre la mia vacillantissima salute ad alcun minimo rischio. Mi trovo già vecchio e fuori
quasi del Mondo.
177
Ho piacere che Antonia abbia poi scritto, e godo di udirla guarita prima di averla
saputa ammalata. Dissi un giorno a Ciro (parlandogli indifferentemente delle visite che di
tanto in tanto riceve) che all’entrar di novembre vedrebbe forse qualche conoscente della
nostra famiglia. Quel munelletto mi rispose subito: è Mammà; e ad una mia negativa
soggiunse: dunque è di certo o Antonia o Domenico. Io allora volsi altrove il discorso, perché
quel furbo mi avrebbe capito per aria. — Dopo dimani lo rivedrò al Collegio, seppure non
lo incontrerò prima, ed allora lo saluterò e benedirò da tua parte. (L’ho veduto poco prima
di impostare la presente. Sta benone, e ti abbraccia).
Al mio partire da Terni lasciai Vannuzzi col Chirurgo che stava allora tagliandogli un
carbonchio sotto l’ascella destra. In quest’ordinario mi ha scritto riguardo ad una certa
commissione che mi dette la moglie, e mi dice di esser quasi guarito.
Ho avuto una lettera di Ferretti, che mi annunzia nella sua famiglia esser qualche
solito malannuccio. Pover’uomo! Combatter sempre colla salute è un gran ché!
Se pei primi dell’entrante mese fossi in grado di mandarmi un poco di danari, mi
faresti piacere. Avendo speso circa a sette scudi e mezzo pel viaggio da Roma a Terni e da
Terni a Perugia, dieci per la dozzina d’un mese, due pel Maestro di Musica di Ciro a tutto
luglio, qualche mancia in Collegio, e qualche altra mia spesetta giornaliera, degli Sc. 25:64
da me sin qui avuti poco più ne rimane. Al mio ritorno in Roma poi faremo la solita
distinta della somma totale servita per me, e di quella servita per Ciro, nella quale figurerà
la Musica, il vestiario, le mance, la solita scorta annuale nelle mani del Rettore, e qualche
altra cosetta che avrò stimato necessario d’impiegare per lui.
Il Sig. Angiolo Rossi sta male di podagra, i di cui accessi sonogli divenuti molto
frequenti. Egli, la moglie, il Dottor Micheletti, e il Presid.e Colizzi ti dicono mille cose.
Non so se Biscontini sappia che verso la fine di settembre verrà a Roma il Dr.
Speroni. Se non lo sa, diglielo in mio nome.
Salutami tutti gli amici di Casa, e specialmente Spada, Biagini e Pippo, a mano a
mano che andrai vedendoli. Manda pure i miei rispetti in casa Marini e in casa De Witten.
Dubito che Orsolina e Balestra non torneranno davvero per adesso, ed alla Madre per
quest’anno gliel’avranno ficcata.
Procura, Mariuccia mia, di star bene, e credimi sempre di cuore il tuo
aff.mo P.
P.S. È a Perugia Enrichetto Dedominicis. L’ho veduto col Marchese Uguccioni, che ti
saluta, come ti salutano anche il Conte Solone Campelli di Spoleto, che è pur qui, e
Menicucci.
Ho trovato un conticino di medicine servite per la malattia di Ciro. Io era
nell’opinione che anche la spezieria andasse a carico del collegio, ma sul libretto de’
regolamenti ho verificato il contrario, e così l’ho saldato. Ciro mi ha dimandato un giuoco
di scacchi. Gliel’ho preso di poco costo, ma pure bellino. — Gli ho fatto rilegare alcuni libri
di studio, che erano alquanto sciupatelli perché in origine legati in rustico. Etc.
LETTERA 199.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 2 settembre 1834
Mia Cara Mariuccia
178
Riscontro la tua del 30. Nello scriverti la mia precedente non ti parlai della mia
vacillantissima salute perché in quel giorno fossi realmente malato, ma per le tristi
esperienze giornaliere del disordine del mio temperamento, di che tu stessa da tre anni a
questa parte sei pur troppo testimonio. Tu sai cosa è divenuta la mia povera macchina
dopo la breve malattia del 1831, e la non meno terribile del 1832, sofferta da me in
Fossombrone, benché di minore durata. Da quelle due fatali epoche il mio sangue è in
continuo stato d’irritazione; e se io voglia esser sincero, non un solo giorno passò mai
perfettamente contento di me. Conosci tu bene tutti i motivi accumulati assieme per
mantenere in me vivo questo principio d’irritabilità; e quindi l’aumento dell’umor mio
malinconico, al quale non trovo sollievo che nella pace della solitudine. Solitudine poi
senza qualche applicazione per me è impossibile: dunque ecco il quadro delle mie attuali
necessità.
Per ritornare all’espressioni sfuggitemi nella mia lettera del 26, ti ripeto che io in quel
giorno non era realmente malato, ma purtuttavia già da sei giorni mi sentiva molestato
dalle mie accensioni ora alla gola, ora in tutta la bocca, e nel collo, e pel petto, e per la
schiena, e per le spalle, e per le viscere: un po’ in qua e un po’ in là. Purtuttavia nella stessa
sera, che era placidissima e temperata volli tentare di andare ad udire la Straniera al teatro,
e, come lo aveva preveduto, mi annojai terribilmente. Nel Mercoldì stetti così così: il
giovedì 28 ci crebbe il mio fuoco, malgrado le grandi bibite che ho sempre fatte, malgrado
rigorosa dieta che sempre osservo, e malgrado l’astinenza dal vino. Così me la passai
ardendo sino al sabato 30, nel qual giorno mi si fece trarre dieci once di sangue. Ma il
dolore, particolarmente nel petto cresceva in un grado ben doloroso, dimodoché domenica
fu di precisa necessità di cavarmi un’altra libra di sangue che appena caduto nel bicchiere
si coagulò in modo, che dopo fasciatomi il braccio io voltai il bicchiere sottosopra, e il
sangue vi restò fisso come fosse di cera. Mi hanno dato dei calmanti e dei purganti: mi han
fatto dei clisterii, ma col solito vano successo. Oggi sto meglio e profitto del miglioramento
per scriverti la presente ed assicurarti dell’avanzamento della mia guarigione.
Circa ai danari potevi pure mandarmi quel che per ora potevi.
Volendo tu, per altro, un’idea da me della somma, ti faccio riflettere che dovrò
ordinare l’occorrente vestiario d’inverno per Ciro. E più pagare un paio di calzoni di tela
russa ordinaria per lui, mentre il Pres. Colizzi ha giudiziosamente stabilito di farne un
paio a tutti i collegiali onde risparmiare loro i calzoni di scottino neri ne’ due mesi della
villeggiatura.
Dovrò pagare il metodo di pianforte che ordinai, come ti dissi altra volta. Pagherò le
due mesate di agosto e di settembre al Maestro Fani.
Rinnuoverò il deposito nelle mani del Rettore, e un poco più forte dell’ordinario,
volendo io che l’accordatore lo paghi egli mensilmente. In quanto alle future mesate di
Fani non ho ancora deciso come mi regolerò e ne parleremo in seguito.
Pagherò il Medico, il Chirurgo e lo Speziale per me. Quindi dovrò pensare a qualche
altro poco di tempo che mi tratterrò qui oltre il mese, mentre i due mesi intieri non ve li
passerò più come avevo divisato, e ciò ond’evitare l’aria pungente dell’approssimarsi di
ottobre.
Finalmente dovrò pensare al viaggio del ritorno. Per tutti questi fini, mandami se
puoi una trentina di scudi, che se mai per caso non bastassero a tutto, vi sarà tempo a
pensarci.
Io so che tu non vuoi udire da me parlare di conti, ma siccome io mi faccio un gran
carico delle spese della nostra famiglia, così non so evitare di entrare in questi dettagli
persuaso come sono che la più stretta economia in cui vivo non lascia di esigere delle spese
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necessarie per tuttociò che ho nominato. Conosco, ti ripeto, che a’ tuoi occhi io non
abbisogno di prove e di giustificazioni: contuttociò soffri le mie minuzie come una mia
particolare soddisfazione.
Di Devillers va benissimo.
Ieri venne a trovarmi il nostro Ciro col Sig. Rettore. Egli sta benissimo, e giovedì sarà
premiato. Io non potrò, credo, andare alla funzione perché finisce di notte, e si fa in una
sala che pel gran concorso di gente è caldissima. A suo tempo però te ne manderò il
programma come nell’anno scorso.
Ti ringrazio veramente di cuore delle tue care ed affettuose espressioni e ne
riparleremo in voce.
Mi ha scritto Babocci, e di ciò pure parleremo poi. Intanto si fa quel che si deve. —
Antaldi non ha ancora dato riscontro. Vedrai che vorranno pagare tutta l’annata assieme.
Regoleremo in seguito anche questa faccenda.
Procura di star bene, e ricevi gli abbracci del nostro Ciro ed i miei. Sono sempre il tuo
Aff.mo P.
LETTERA 200.
A GIACOMO FERRETTI — ROMA
Di Perugia, 11 settembre 1834
Mio caro Ferretti
Eccoti un’altra mia lettera, la quale spera di trovare te più tranquillo, tua moglie più
vocale della Selva di Dodona, Barbaruccia senza tosse, Chiarina smummiata, e Cristina
libera della sua piastra di piombo. Vorrebbe anche trovar guarito Gaiassi che tu mi desti
quasi per disperato.
Il Mezzanotte, al quale partecipai il tuo paragrafo, mi disse di salutarti. Deve egli
averti mandato a quest’ora una sua ode sugli esercizii equestri dati dal Guerra in Perugia.
Fani si è diretto a Gamurri per mezzo del Tenore Peruzzi che canta in questo teatro. Il
Sig. Peruzzi abita nella medesima casa, dove io alloggio, ed anzi dorme in una stanza
accanto alla mia. Avendo io spesso parlato di te con lui, ha voluto che scrivendoti ti facessi
mille saluti in suo nome. Egli partirà, credo, il 16 per tornare a Bologna dove è domiciliato.
Ottimo giovane!
Sull’articolo della mia salute ti dirò solamente che se non mi facevo due sanguignoni
in 24 ore, la finiva male; come poi la dovrà finir male con tanti necessari salassi. Qui è il
caso dell’incendio. O bruciarsi, o gettarsi dalla finestra. — Io mi dissanguo, e intanto il
calore delle mie viscere si mantiene. E non bevo vino, e ingozzo fiumi d’acqua, e mangio
come un grillo. Ah! bisognerà cercare qualche sistema di cura, altrimenti gli anni nestorei
da te auguratimi vorranno essere pochetti!
Ti mando 14 versi scritti ieri dal Sig. 996 per M.ma Enrichetta Meric Lalande che ha
trattato i Perugini come cani, malgrado le sue buone varie migliaia di franchi. Essa,
indipendentemente del suo orgoglio che le fa trascurare anche i mezzi restatile, è una
stella in tramonto. Vanta che potrebbe venire a Roma anche con 20.000 franchi. Se
l’impresario gliene dà mille, e la prende (odi Geremia) l’impresario fallisce. Ma Gamurri
ha ben altro pel capo, e ci regalerà piuttosto la Ungher o la Schutz (ho scritto bene?)
qualunque delle quali vale in oggi per dieci Madame Enrichette, con tanto minore
superbia. — Del resto i 14 versi del Sig. 996 potranno servire di svegliarino contro
180
l’avarizia di Madama e delle sue consorelle di pretensione. Sarebbe ora di finirla con
queste file di migliaia accanto a poche cifre di quarti-d’ora. E qui cadrebbero in acconcio
due versi di un altro poeta amico tuo:
Che ad estirpar tal musico sozzume
Non basta un secchio ma vi vuole un fiume.
Salutami tanto Maggiorani, Biagini, Spada, Quadrari, ed altri amici che tu vada
vedendo. E sono di te e della tua famiglia
amico vero
G. G. Belli
PER FAMOSA CANTATRICE
Questa superba Dea del ciel di Francia,
Che, vana ancor d’un appassito alloro,
Sogna i trionfi e il plauso alto e sonoro
De’ più bei dì che le fioria la guancia,
Non paga pur che italica bilancia,
Come al suo Brenno già, le pesi l’oro,
Sprezza la mano che il civil tesoro
Profonde in trilli ed in canora ciancia.
Badi però, che sorgeran Camilli
A rovesciar quella bilancia sozza
Ove senno e virtù cedono ai trilli.
E, per dio, cesseranno i tempi indegni
Che a disbramar la fame d’una strozza
È poco il censo che distrugge i regni.
996
LETTERA 201.
A RAFFAELLO BERTINELLI — ROMA
Perugia, 23 settembre 1834
La vostra lettera del 15, perché mancante del mio secondo nome nell’indirizzo ha
passato quella sorte alla quale io volli ovviare allorché assunsi quel distintivo che mi
individualizzasse tra la folla dei Giuseppe Belli che corrono il Mondo. È capitata nelle
mani di un Giuseppe Belli nativo (credo) di Città di Castello, e finalmente l’ho io avuta
jeri, aperta per colpa dell’equivoco e non dell’uomo.
Io non sono in collera con alcuno: non posso dunque esserlo con Voi, e tanto meno
poi in quanto che io manco di que’ meriti che abbiano a far correre un amico a vedermi,
almeno allorché sono malato. Vivete dunque tranquillo, e lasciate in pace Esaù e Giacobbe
nel Santo seno di Abramo.
La mia salute è sempre vacillante. Ciro prospera e si fa onore.
Dopo domani io lascio questa Città.
Qui ha cantato la celebre Sig.ra Enrichetta Meric Lalande. Un certo Sig.
Novecentonovantasei ha pubblicato alcuni versi in di lei onore. Voglio trascriverli perché han
181
fatto romore, e da quando teatro è teatro non si è mai più udito un simile elogio il quale
tende ad encomiare la Signora Lalande e le di lei consorelle nella bell’arte del Canto. Vi
abbraccio e sono
Il V.° Belli
LETTERA 202.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 15 novembre 1834
Mio caro figlio
Ieri tornò Domenico e mi portò la tua lettera del 6. In questa lettera tu, Ciro mio, ne
hai fatta una delle tue solite. La tua Mammà che tanto ansiosamente aspetta e legge ogni
lettera che da te procede, nello scorrere quest’ultima non ci trovò neppure una parola per
lei, come se essa non esistesse sulla Terra. Ma ti pare mostrare un buon cuore col
dimenticare così ogni dovere di amore, di rispetto e di gratitudine? Ciro mio caro, tu hai
una mente troppo leggiera, la quale non si risente che di momentanee impressioni.
Bisogna dunque studiarsi di correggere una inclinazione naturale che frutta vivi dispiaceri
a noi per adesso, e che un giorno ne frutterà a noi insieme e a te medesimo. Sappi che la
tua povera Mammà, la quale non pensa che a te, rimase jeri assai afflitta della tua
colpevole dimenticanza. Per rimediare alla meglio al tuo errore io ti consiglio di diriggere
a Mammà stessa la prima lettera che tu scriverai, chiedendole scusa di un fallo che il
nostro amore vuole ben credere involontario. Spero io poi che in quella lettera a Mammà
non sarò scordato io alla mia volta. E scrivila bene.
Circa ai regali, de’ quali mi ringrazii, hai preso un equivoco grosso. Noi questa volta
non ti abbiamo mandato che il fazzoletto nero da collo e la Rosa de’ Venti. Tutto il resto fu
dono del buon Domenico, il quale non dev’essere frodato della tua gratitudine.
Antonia è ritornata prima di Domenico, molto afflitta dal non aver potuto passare
per Perugia onde rivederti.
Ringrazia in mio nome il degnissimo Signor Rettore della di lui lettera e di ciò che in
essa mi dice e m’invia: e riveriscilo distintamente, come ancora il Sig. Presidente Colizzi.
So che quest’anno ai tuoi studi si è aggiunta la Storia, che è la prima maestra della
vita.
Applica dunque, sii buono, e ricordati di noi.
Ti benedico ed abbraccio di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 203.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 23 dicembre 1834
Mio caro e carissimo figlio
Non potevi farmi una più grande sorpresa di quella che ho da te ricevuta nella tua
lettera latina, la quale sebbene io medesimo avrei conosciuta improntata dell’opera
dell’ottimo Sig. Rettore, purtuttavia mi è stata una testimonianza parlante dei progressi
182
che ad ogni modo tu vai facendo in una lingua così bella e tanto necessaria a chiunque
voglia nel Mondo distinguersi dal volgo degli uomini. Senza il latino è ben difficile
arrivare alla vera sapienza, dappoiché quanto di classico e di sublime si sappia desiderare
tutto si ritrova nei libri di quegli altissimi ingegni che resero un giorno famosa la patria
nostra, e di una fama che dopo tanti secoli ancora dura e non sarà mai per mancare.
A misura che tu, Ciro mio, ti avvanzerai negli studi, ti innamorerai di questo idioma
e delle stupende opere che in quello sono scritte. Grazie dunque, mio carissimo Ciro,
grazie di questo bel dono che mi hai fatto, poichè io lo tengo appunto in conto di regalo e il
più accetto che tu potessi mai farmi, e tanto più quanto che in quelle parole meo consilio io
leggo una prova della tua intenzione di farmi piacere. Sulla lettera nulla ho da rilevare,
mentre gli stessi errori nei quali eri trascorso nel mettere in pulito la minuta, sono stati
dalla mano maestra corretti. Di un solo piccolo rilievo io mi contenterò, ed è circa all’anno
della data. Lo so che noi siamo nel 1834 e che tu nel 1834 scrivevi, ma pure avendo tu
adottato lo stile antico di datare, io crederei che invece di dire XV Kalendas Januarii
DCCCXXXIV avresti tu dovuto scrivere XV Kalendas Januarii MDCCCXXXV.
Il Signor Rettore potrà dirti se io abbia torto.
Nel risponderti io aveva divisato farlo in latino, ma poi mi hai dato soggezione,
adesso che ti vedo diventato un Ciceroncino: e ho detto fra me stesso: se dio mi guardi io
scrivessi qualche sproposito, che bella figura farei io vecchio avanti a un dottore di neppure undici
anni? Dunque eccoti una lettera italiana, ma scritta più col cuore che con la mano. — La
tua Mammà ha aggradito il tuo foglio al pari di me, ed entrambi ti incarichiamo di rendere
mille e mille grazie al tuo degnissimo Sig. Rettore per la cortese assistenza prestatati. La
tua epistola ha girato le mani dei nostri più buoni amici, e tutti hanno diviso la nostra
consolazione.
Ieri ho consegnato al Vetturale Castellino la solita cassetta diretta in Casa Fani per
esserti inviata in Collegio. Essa dovrebb’essere a Perugia sul finire di questa settimana. Tu
vi troverai qualche piccolo dono per la ricorrenza del nuovo anno. Siamo stati in molto
pensiere su che mandarti. I giuochi non sono più degni di un Marco Tullietto, nè tu sembri
più desiderare bucciotti. Cose di lusso e di mollezza non ti convengono per le varie
disposizioni del Collegio. Dunque cosa mandarti? Contentati del poco che vi rinverrai: e
piuttosto se un’altra volta desidererai qualche cosa, indicamelo, e spero che si tratterrà di
oggetti da poterti appagare. — La scattola non serve che la rimandi ad alcuno. È troppo
vecchia e sciupata. Se ti serve a qualche uso mettila sotto il tuo letto: altrimenti fanne
quello che vuoi.
Un piego color di rosa che vi è dentro, diretto a codesto Sig. Dottore Ferdinando
Speroni, se potesse senza molto incomodo di qualcuno essere ricapitato alla libreria
Bartelli ne sarei grato a chi si prendesse gentilmente questo disturbo.
Dimanda al Sig. Felicetti se hai bisogno di nulla nel tuo corredo, come camicie, calze
etc. ed, avendone bisogno, per quando si dovrà fartene l’invio. Rispondimi su ciò.
Mammà, gli amici e i domestici (particolarmente Antonia) ti rendono infiniti augurii
per le feste e pel nuovo anno; ed io vi unisco anche i miei per tutti gli ottimi tuoi Superiori
e Maestri.
Ti abbraccio e benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 204.
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A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 27 gennaio 1835
Mio caro Ciro
Riscontro la tua del 15 cadente. — Due ore dopo avere impostato la mia precedente
incontrai per la strada il Sig. Professor Colizzi arrivato in Roma poche ore prima, e lo
trovai nella sua solita buona salute, ciò che mi fece sommo piacere. Dal medesimo, che ho
quindi riveduto altre volte, ebbi le buone notizie della tua salute, ed anche sufficienti
relazioni intorno ai tuoi portamenti tanto morali quanto scolastici. Le medesime cose mi
conferma il vigilantissimo Sig. Rettore, il quale mi riverirai e ringrazierai del gentile
riscontro da Lui dato alle mie dimande relativamente a codesto Sig. Tozzi.
Ai primi dunque dell’imminente mese cade nel Collegio il consueto saggio
trimestrale. Procura alacremente, Ciro mio caro, di non restare addietro agli altri. Ne’ soli
difetti vorrei che tu fossi l’ultimo: ne’ fatti d’onore godrei udirti sempre il primo.
Comprendo benissimo non esser ciò sempre possibile, dappoiché la medesima gara
animando anche gli altri, non è più dalla volontà individuale che dipende l’avanzar gli
altrui passi, ma sì invece dal vario vigore accordato a cadauno dalla Provvidenza. In
questo caso basta che la coscienza non ci rimproveri di non esser giunti a quel punto a cui
le nostre forze sarebbero state sufficienti.
Tu avrai senza dubbio udito a spiegare la parabola evangelica del padrone e de’
servi. Uno ebbe dal Signor suo cinque talenti, e tanto s’ingegnò che al Signore li rese in
capo a un tal tempo, con più altri cinque di lucro. Domine, quinque talenta dedisti mihi, et ecce
alia quinque superlucratus sum. Un altro servo al contrario prese i cinque talenti di sua parte,
li seppellì, e, ritornato il Signore a chiedergli ragione del suo traffico, glieli restitui non
diminuiti ma neppure aumentati.
Credi tu che il padrone si rimanesse pago al non trovarvi diminuzione? No, figlio
mio: l’obbligo del servo era di accrescere e non soltanto di conservare: e così cosa accadde?
Il pigro trafficatore fu paragonato a quegli alberi infruttiferi, i quali, non dando di sé che il
legno de’ rami e del tronco, non sono utili che a far fuoco. Difatti non mai accade vedere
che un Agricoltore getti alle fiamme una pianta feconda. I talenti della parabola erano
monete, ma sotto il velo di quelle monete noi dobbiamo intendere le buone disposizioni
dell’anima, colle quali ciascun uomo che vive è obbligato a procacciarsi valore e fama di
buon aiutatore della società di cui Iddio lo volle individuo. Il Vangelo, Ciro mio, è il libro
della verità, e il primo Maestro della morale umana. Quanto dunque in quello si racchiude
non dev’esser preso quale passatempo e fuggilozio, ma in senso di guida infallibile delle
nostre operazioni. I pericoli da esso dimostrati sorprenderanno chiunque non modelli la
sua vita a norma di que’ sapienti precetti.
Sarà buon uficio di cortesia se tu andrai dimandando al Sig. Maestro Fani notizie
della salute della Sig.ra Angiola, caduta in non lieve infermità. Quella Signora ti ha
dimostrato molte premure, e tu non fartene notare per dimentico.
La tua Mammà ti benedice ed abbraccia. Gli amici e i domestici, specialmente
Antonia, ti salutano. Riverisci i tuoi Superiori e credimi sempre l’aff.mo tuo padre.
P.S. Amerei sapere a che ti trovi nello studio della musica.
LETTERA 205.
184
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma 3 febbraio 1835
Mio caro Ciro
Colla tua del 29 perduto gennaio mi fai de’ rimproveri da’ quali debbo difendermi.
Delle tue lettere, alle quali ti lagnavi non avere avuto riscontro, la prima fu da me
riscontrata nella mia al Sig. Rettore a cui in quello stesso ordinario dovetti scrivere, e la
seconda te l’accusai il 27, come tu stesso hai veduto. Mi dirai che questo mio riscontro fu
un poco tardo; ma a questo proposito io ti ho già detto altra volta che mi piace scriverti
verso l’epoca precisa in cui per le consuetudini del collegio tu devi mandarmi una tua
lettera. Operando in tal modo io vengo a darti come uno stimolo e a risvegliare la tua
memorietta, che talvolta si è in questo rapporto addormentata. Ti pare, Ciro mio, che io
saprei dimenticarmi di te? Pure lo sai quanto io e tua madre ti amiamo. Ho scelto questo
giorno per risponderti, stanteché oggi secondo qualche ordinario ecclesiastico ricorre la
tua festa, facendosi commemorazione di S. Ciro Alessandrino, nobile medico. Tu sei Ciro,
potrai conseguire la nobiltà della virtù, ed esser medico di te stesso mediante un regolar
metodo di vita: e così, dalla patria in fuori, somiglierai al tuo santo. Santo poi non ti ci
spero: mi basta che sii buono.
La mia presente, oltre a ciò, ti arriverà in punto che i tuoi Saggi saranno bene
incaminati. Io questa volta non posso assistervi; ma chiudo gli occhi, e mi pare di essere
presente in codesta sala accademica, e vederti sull’impalcato a far l’obligo tuo. Da questa
mattina fino a tutto il prossimo giovedì rari momenti passeranno ne’ quali io non rinnovi
nel mio spirito l’idea di questa mia assistenza intellettuale ai saggi tuoi e de’ tuoi bravi
emuli. Ne attendo con ansietà i successi.
Dimanda al Sig. Felicetti se tu abbisogni di camicie e di calze e per qual tempo ti
potranno occorrere, affinché vi sia agio di lavorarle. Rispondimi su ciò.
Il Signor Presidente non ho potuto in questi giorni vederlo: appena lo vedrò gli
presenterò i tuoi ossequi.
Tu intanto presenta i miei e quelli di Mamà tua al degnissimo Sig. Rettore. Antonia e
gli altri domestici ti salutano, gli amici di casa ti abbracciano, tua madre ed io poi e ti
salutiamo, e ti abbracciamo e ti benediciamo affettuosamente.
Sono il tuo aff.mo padre
LETTERA 206.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 17 febbraio 1835
Mio carissimo figlio
Riscontro la tua lettera del 7 corrente, il cui ricevimento ti feci già accusare per mezzo
del Sig. Vincenzo Fani che mi saluterai.
Veramente, Ciro mio, di quel mediocre se ne poteva fare di meno. Il peggio è per me
che un mediocre del Maestro significa assai più che uno degli esaminatori, perché l’esito di
un esame non sempre prova l’abilità o l’ignoranza di un discepolo: laddove al contrario i
voti del precettore sono la vera e precisa manifestazione del merito e demerito dello
scolare in tutto il periodo di studio del quale si tratta. Adesso dunque io vo vedendo che
quel benedetto mediocre influirà maluccio sullo scrutinio della premiazione. Da ciò prendi,
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Ciro mio, esempio della irrimediabilità del tempo perduto. Il fatto sarà sempre fatto, e non
si può più ripetere indietro. Se fu fatto bene, ci frutterà utile; se fu fatto male, ci frutterà
danno. È vero che a tutto può darsi un rimedio, ma sempre il passato è passato. Una volta
un bambino aveva perduto un soldo, e piangeva. Il padre per calmarlo gliene dette un
altro, dicendogli: eccoti ricco come prima. Ma il fanciulletto, possessore della nuova moneta,
seguitò a cercare la smarrita, dicendo: se ritrovo quell’altra sarò più ricco di prima. Così è del
tempo e del profitto di esso: potremo riparare al perduto con un novello impiego di
volontà; ma se ci fosse dato richiamare a noi quel che fuggì, saremmo felici del doppio.
Studia, Ciro mio caro, studia di cuore e senza interruzione. Un giorno benedirai, credi a tuo
padre, benedirai le fatiche della tua fanciullezza.
Eccoti vicino alle recite carnevalesche. Reciti tu quest’anno? In tutti i modi divertiti, e
col divertimento rinfranca il tuo spirito per le tue applicazioni.
Il Sig. Fari mi partecipò la tua idea di studiare la introduzione della Straniera: Voga
voga etc. — Bravo Ciro mio, imparala bene.
La tua Mammà ti ringrazia delle amorose espressioni da te usate con lei, ti benedice,
ti abbraccia e ti dà mille baci. Così ti salutano i nostri amici, Antonia e gli altri domestici.
Il Sig. Presidente sta bene e ti saluta anch’egli. Tu presenta i miei rispetti al Sig.
Rettore, e credimi, pieno di amore
il tuo aff.mo padre
LETTERA 207.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 5 marzo 1835
Mio carissimo figlio
Nella tua lettera del 21 febbraio, in cui rispondi alle mie riflessioni su
quell’importuno mediocre da te riportato negli esami, prometti di fare il possibile affinché il
futuro esperimento vada assai meglio. Intanto mi dici che pel passato ci vuol pazienza. Hai
ragione, Ciro mio: ci vuol pazienza. Che si può fare di meglio che esercitare questa bella
virtù, la quale diviene altronde necessità quando manca affatto un migliore rimedio? Te lo
diceva anche io che al fatto, al passato non si può far più ritorno. Né io ritornerei più su
questo punto se precisamente questo tuo confortarmi alla pazienza non mi suscitasse
qualche riflessione novella. La pazienza è un un’amabile dono della provvidenza,
destinato a consolare i rammarichi della vita e a contentare l’uomo in quella moderazione
d’animo che dà risalto alle sue più belle prerogative.
Ma sventuratamente questo prezioso regalo del cielo cede assai presto ai ripetuti
cimenti. Il nostro caso dell’esame non entra ora fra le cause alle quali io voglio indirizzare
la tua attenzione. Esso è un lieve danno che tu puoi ben risarcire, e ciò basti. Voglio invece
darti regola che può servirti in tutte le occasioni in cui ne’ tuoi rapporti colla società sia
luogo all’esercizio della tolleranza. Tu devi agir sempre come se tutti gli uomini fossero
impazienti e non ne perdonassero una. La troppa, buona opinione dell’altrui clemenza e
facilità diviene in noi un abito di trascurare soverchiamente l’adempimento de’ nostri
doveri; e così, oltre il pregiudizio di avvezzarci disattenti e poco curanti della perfezione
nostra, a cui l’indulgenza, o l’educazione degli uomini può concedere quel che le manca, si
consegue un altro mal frutto, cioè quello di doverci a nostre spese disingannare su quella
stessa, benignità che supponevamo negli altri salda a qualunque provocazione. Non
186
voglio mica dirti con ciò che tu debba principiare dal riputare tutti gli uomini una gabbia
di leoni e di orsi rabbiosi, o un eserciti di nemici implacabili, vigilanti sempre per attaccarti
nella tua parte più debole. No, Ciro mio, gli uomini dobbiamo crederli tutti più buoni e
mansueti di noi. Io intendo rimovere da’ tuoi giudizi l’eccesso, il quale guasta tutte le più
lodevoli qualità della mente e del cuore. Te lo ripeto: non giudicare impazienti tu devi gli
uomini, ma operare come lo fossero. In questo modo, o abbiano essi o non abbiano questa
virtù, tu sarai sempre al sicuro. Le soverchie lusinghe di trovare in altrui quella bontà per
noi che noi stessi ci siamo negata quando abbiamo male operato, ci gettano un giorno o
l’altro in un mare di guai dove si affoga. — Se questa mia lettera fosse al di sopra della tua
intelligenza, prega alcun tuo Superiore di dichiarartene lo spirito. Così, a poco a poco,
principerai a meditare da te.
Il Sig. Presidente, che ho veduto da poco, ti ritorna i tuoi saluti. Gli amici e i
domestici, specialmente Antonia ti dicono mille cose. La tua buona Mammà ti abbraccia,
siccome faccio io.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 208.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 9 aprile 1835
Mio carissimo figlio
Il giorno 12 corrente è il tuo compleanno. Nella prossima domenica ad un’ora di
notte tu termini l’anno undecimo della tua vita e cominci il decimosecondo. Vedi, Ciro
mio, come fugge il tempo! A te ancora non pare così, perché i fanciulli, spensierati per
natura, non pongono mente a quel che significa una girata di ago sul quadrante di un
orologio; e perché sul bel principio della loro carriera non par loro poter vedersene il fine.
Ma tutto ha termine, Ciro mio, e l’avrà anche il Mondo.
Non vedi tu che a forza di anni, di mesi e di giorni il Mondo si è già invecchiato di
circa a sei secoli? E i giorni, che formavano que’ mesi e quegli anni, di che sono essi stessi
composti? Di ore: di minuti. Quanto dura un minuto? sessanta battute di polso. Come il
tempo è veloce! Hai tu mai osservato una mostra che avesse la lancetta de’ minuti secondi?
Ogni oscillazione del pendulo ne fa saltare uno! Nulla è più proprio a far meditare l’uomo
sulla fugacità della vita quanto uno di simili oriuoli. Negli altri il movimento è appena
percettibile senza una determinata attenzione, la quale poco vi si presta, poiché,
soddisfatto l’intento di veder l’ora in un dato punto del giorno, se ne ritrae subito lo
sguardo. Con molta sapienza è stato rappresentato il tempo sotto le forme di un vecchio,
stante l’età che ha percorsa: alato, per indicare la celerità sua: armato di falce, onde
simboleggiare la distruzione da lui portata a tutte le cose; e munito di un orologio a
polvere, perché siccome gli atometti o granellini dell’avena cadono dal recipiente
superiore a quello inferiore, nella stessa maniera tutti gli enti creati precipitano nel nulla
per non riaiziarsene più.
La providenza così ha voluto; e niente di ciò che ebbe principio può essere eterno,
fuorché le anime coi loro meriti e demeriti. Da tutte le esposte riflessioni puoi facilmente
cavar da te la conseguenza, a cui ti volli condurre. Impiegar bene il tempo, perché più non
ritorna mentre presto trapassa; e farsi un cumulo di azioni meritorie, dalle quali dipender
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la nostra felicità nel tempo, e nella eternità. Rifletti seriamente a queste verità gravissime, e
principia a fare da uomo.
Nel giorno della tua nascita noi ti vorremmo fare qualche regalo, ma non sappiamo
di ché, pei motivi che ti spiegai un’altra volta. Dimmi pertanto cosa tu potresti desiderare
che ti convenga, e noi procureremo di contentarti. Ne potresti consultare col Sig. Rettore
che mi riverirai distintamente, col Sig. Prof. Colizzi, anche in nome della tua Mammà.
In questo preciso momento ricevo la tua lettera del 7. Le parole che già ti aveva
scritto qui sopra tornano bene a proposito anche per la circostanza della comunione che
vai a fare per Pasqua. Ecco un altro passo che ti deve condurre alla perfezione. Ora la tua
Mammà non è in casa. Appena sarà ritornata farò conoscerle il tuo desiderio di rivederla.
Aggradisco i saluti che mi fai. Alle Sig.re Fani rimandali per mezzo del Sig. Vincenzo
che riverisco.
Ti abbraccio, mio caro figlio, e ti benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 209.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 19 maggio 1835
Mio caro figlio
Rispondo alla tua lettera del 16, la quale tanto la tua Mammà quanto io abbiamo
infinitamente aggradita come quella che ci dà una prova del tuo maggiore impegno nello
studio della lingua latina, lingua necessarissima a chi voglia far buona figura di dotto nella
società. Bravo dunque, bravo, Ciro mio: tu corrispondi perfettamente alle nostre intenzioni
e ti acquisti sempre maggiori titoli alla nostra benevolenza. Non comprendo però il motivo
che possa averti fatto astenere dall’esporti per due consecutivi trimestri all’esame
dell’aritmetica, tanto più che mi dici essere stati soddisfacienti i tuoi risultati settimanali, e
malgrado che nell’anno scorso tu riuscisti a guadagnare il primo premio assoluto.
Circa alla musica pure son contento. Ringrazia e saluta in mio nome il Sig. Fani, e
pregalo a coltivarti sempre negli esercizi fondamentali che ti spedii l’anno passato. Così,
eseguendo i pezzi di studio potrai divertirti, ed acquisterai franchezza e profondità.
Non dubitare, Ciro mio caro: nel prossimo giugno qualcuno di noi verrà a vederti.
Ancora non si è potuto risolvere chi verrà, perché la tua Mammà ha moltissimi impicci, ed
io faccio una cura il di cui tralasciamento potrebbe nuocere a quella salute che pel mezzo
di essa mi pare di andare riacquistando. Qualcuno ad ogni modo verrà: stanne tranquillo.
Siccome peraltro questa venuta non potrà accadere che intorno alla metà del mese, fammi
il piacere di informarti dal guardarobiere se si possa ritardare fino a quell’epoca il
rinnovamento degli oggetti di vestiario de’ quali mi scrive il Sig. Rettore aver tu bisogno
per la stagione estiva. Che se di qualche cosa avessi tu urgenza, ad un cenno che tu me ne dia
io pregherei qualcuno a Perugia onde se ne incaricasse al momento. Intanto al principio
della ventura settimana credo che potrò mandarti i fazzoletti.
Segui a leggere, Ciro mio, la vita di Cicerone, e fa’ di divenire tu ancora un
Ciceroncino.
Riverisci da parte di noi due il Sig. Rettore e il Sig. Presidente, e ricevi i nostri
amplessi e le nostre benedizioni.
Sono il tuo aff.mo padre
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LETTERA 210.
A GIACOMO FERRETTI — CIVITAVECCHIA
Roma, 28 maggio 1835
Caro Giacomo, alias Jacopo
Non so dirti quanto e quanto piacevole mi sia giunta jeri sera la tua del 24. Dopo due
giorni dalla tua partenza io mi recai in tua casa in cerca di notizie ed ebbi quelle del tuo
proprio arrivo. Da quel tempo in poi non aveva altro saputo. Veramente io poteva tornare
a dimandarne, ma non l’ho fatto, e mea culpa. — Chillo strafalario de lo Sig. Tomasiello
Galluzzo mi portò i tuoi saluti una sera prima dell’arrivo della tua lettera. — Anche qui il
Signor Giove si fa onore sotto le invocazioni di tonante e di pluvio. — De’ teatri che ti dirò?
Tu ne saprai forse più ancora di me che non vi vo mai. Sento però che Argentina se la batte
con Valle. Canes cum canibus facillime congregantur. Circa alla salute della tua buona
famigliuola avrei voluto una parola sola: BENONE: ma la spero in seguito. Già, pel giorno
10 o circa mi prometto di udirla dalle vostre stesse e vive voci. Io sto piuttosto benacchette
col pollastro. — Il Cianca ti saluta, il Cecco purzì e Mariuccia figùrati. — Ho scritto pel
giornale di Perugia un non breve articolo sui Bagni di Lucca del chiarissimo Conte di
Longano, che Iddio tenga lontano. Udremo che ne dirà la censura. Ti mando intanto 42
versi di un amico tuo. Costì siete in cinque preteriti: all’uno o all’altro potranno servire. Ti
abbraccio toto corde, dico mille cose affettuose, alla tua famiglia e sono il tuo
Belli
Quarantadue versi di Novecentonovantasei
AL PRINCIPE MARCO ANTONIO BORGHESE
NEL GIORNO DELLE SUE NOZZE
Io non so qual tu sia, perché la sorte
Tanta, o Marco, fra noi pose distanza
Di quanto cede mia povera stanza
Allo splendore di tua nobil corte.
Ma pur, se il testimon della sembianza
Può del costume far le genti accorte,
Una non t’hai di quelle anime morte
Di codardia nel fango e di baldanza.
Però il secondo de’ tre dì solenni
Di tutto il corso dello uman viaggio
Non con lusinghe a festeggiar ti venni.
Prence, ricorda quanto indegno oltraggio
Faresti al mondo, se il valor che accenni
Non scendesse per te nel tuo lignaggio.
PER LA CAUSA SFORZA
Sotto gli auspicii di cotal che adorna,
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Bestemmiando, l’umano col divino,
Nell’arena rotal Giulio Sforzino
La quarta volta a battagliar ritorna.
Crede il Mondo però, seppure non torna
Lo inchiostro in latte e l’acqua fresca in vino,
Che don Giulio e donn’Anna e Don Marino
Saran disfatti e n’avran mazza e corna.
E tempo è ben che cessi il vitupero
Di madri e di sorelle snaturate
Che infaman sé per offuscare il vero.
Oh Giudici di Dio, voi le salvate,
Ributtando il rossor dell’adultero
Sull’avarizia e sul mentir d’un frate.
AL PROFESSORE D. MICHELANGELO LANCI
PEL PREMIO QUINQUENNALE DELLA CRUSCA NEL 1835
Deh, Michelangiol mio, come hai tu posta
La sublime opra tua dentro lo staccio
Di quelle scimie di Giovan Boccaccio
Per cui Monti sprecò tempo e Proposta?
Meglio oh quanto era il fartene una rosta
Da cacciar mosche, o involgerne il migliaccio,
O accenderne un falò pel berlingaccio,
Mal grado delle veglie che ti costa!
Quando, più ch’essa, ha prezzo oggi un sermone,
E sopra un Lanci si solleva un Buffa,
Morto in terra è il poter della ragione.
E i buon messeri della crusca muffa
Dan prova al Mondo omai che il loro frullone
Gira, come il cervel, di buffa in truffa.
LETTERA 211.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, domenica 21 giugno 1835
Mia cara Mariuccia
Con ottima nottata e con mattinata non molto calda siamo qui felicemente giunti
un’ora e tre quarti prima di mezzogiorno. Si è fatto un bel camminare. Abbiamo trovato
tutti di casa Vannuzzi in ottimo stato di salute: ed appunto jeri ed oggi stavano parlando
di me e maravigliandosi che io quest’anno ancora non passassi. Ho detto loro che poco è
mancato che rivedessero te: ne sarebbero stati tutti lietissimi.
Or ora mangeremo un boccone (zucche per me), e poi al mezzodì proseguiremo il
viaggio che speriamo prospero come lo è stato fin qui.
190
Se vedi Spada o Biagini, salutali, e chiedi loro notizie del povero Ferretti che jeri sera
mi dissero essersi fatta già la seconda sanguigna. Un saluto agli amici e alla famiglia,
anche per parte di Domenico.
Ti abbraccio, cara Mariuccia, di tutto cuore e sono
il tuo P.
LETTERA 212.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 23 giugno 1835
Mia cara Mariuccia
Dalla mia n° 1 avrai avuto le notizie del nostro ottimo viaggio fino a Terni. La
presente ti darà ragguaglio del resto. Pernottammo a Fuligno, e jeri mattina prendemmo
un legno per Perugia uniti ad altre due persone della Diligenza, le quali erano dirette a
quella Città, dove arrivammo un’ora e mezzo prima del mezzogiorno. Smontati alla
locanda della Corona, dove abbiamo preso albergo, dopo mezz’ora circa ci recammo al
Collegio. Ciro ebbe un gran piacere di vedermi, ma a prima giunta non aveva riconosciuto
Domenico, che stava lì con me in camera del Rettore. Vedi chi ti ho portato? dissi io a Ciro.
Egli allora Oh! Domenico! e gli saltò incontro. Ci dimandò subito subito di te, e si mostrò
rammaricato del non esser tu venuta come sperava. Assicurati, Mariuccia mia, che questo
Cirone sta di una salute che non si potrebbe desiderar migliore. Grasso, duro, colorito,
allegro e mattaccino ch’è un piacere. Ci portò in camera sua e ci fece udire al pianoforte il
Coro Voga voga. Lo suona benino, e pel poco tempo dacché studia la Musica, a cui le altre
occupazioni più gravi lasciano scarso spazio, ce ne possiamo contentare. I Superiori si
chiamano soddisfatti del di lui studio e de’ di lui portamenti. Ha egli infinitamente
aggradito il regalo della moneta d’oro, e te ne ringrazia. Egli medesimo l’ha depositata in
mia presenza nella borsetta ov’è la doppia. Delle due paia di guanti a maglia uno gli va
bene, e l’ha ritenuto: l’altro lo riporteremo a Roma con tutto il bollo, onde vedere se possa
cambiarsi in un paio più grande. Ciro ha fatto una mano e un piede da apostolo. Al mio
arrivare jeri in Collegio trovai che Ciro aveva già preparata la minuta di una lettera per te,
onde mandartela per mezzo del Conte Ettore Borgia che va a ripartire a momenti. Il mio
arrivo gli ha reso necessario il farci qualche piccolo cambiamento. Domenica a sera, dopo
tutta la giornata festeggiata in onore di S. Luigi, ebbero i Collegiali alcuni fuochi di artificio
in uno degli spiazzi del Collegio e poi innalzarono un pallone costruito da loro. Vi fu
anche bella illuminazione. Oltre molto concorso di gente, v’intervenne anche il Delegato.
Questa mattina siamo tornati al Collegio per concretare il da farsi relativamente al
vestiario del quale Ciro ha bisogno, ed abbiamo riparlato con lui che al solito stava come
un becco cornuto. Mi ha espressamente incaricato di scriverti le sue notizie, di mandarti
mille baci, di chiederti per lui la benedizione, di salutare gli amici che lo ricordano, e di
dire mille cose ad Antonia. — Credo che Domenico scriva a parte ai suoi figli.
Ho veduto il Sig. Angiolo Rossi, ma non ancora la Sig.ra Chiarina. Mi dice il marito
che essa va soffrendo di un certo gonfiore alle gambe.
Le Sig.re Bianchi sono in Campagna, e così la Sig.ra Cangenna Micheletti. La famiglia
Fani sta bene e ti riverisce. Così ti saluta il Dr. Speroni. Di’ a Biscontini che ho ricapitato la
sua lettera in proprie mani al Sig. Brizi. Speroni gli ha spedito un pacco di fascicoli del
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giornale per febbraio e marzo, e c’è compreso anche quello per me. Il 4° volume del Prof.
Colizzi uscirà sui primi di luglio.
Dammi, Mariuccia mia, buone nuove della tua cara salute: dammene anche se ne hai,
di Ferretti, e saluta tutti gli amici.
E qui di vero cuore ti abbraccio.
Il tuo P.
P.S. Fammi il piacere di mandare i miei saluti al mio caro Maggiorani, e gli farai dire
che già ho parlato per la sua raccolta. Bramo udire buone nuove della tua salute.
LETTERA 213.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Perugia, 27 giugno 1835
Caro il mio Cecco
Mi è stato scritto così: «Il Buffa si è portato a Firenze per brigare in Corte a suo prode.
Che non può mai la briga fratesca?»... Io ho risposto così:
Corri dunque sull’Arno, o cucullato,
Onde alfin l’arciconsole benigno
Ti getti la sustanza nello scrigno
Della mezza corona che ti ha dato.
Corri, e in alta avrai lo Infarinato
E lo spirto gentil de lo Inferigno:
Ch’esser non puote che a te sia maligno
Chi die’ rovello all’immortal Torquato.
Ma se avanzo d’onore e di vergogna
Pungesse ancor quegl’incruscati petti,
Tu sai, domenican, che ti bisogna.
Dolci sorrisi, lusinghieri detti,
Arti fratesche: e poi Roma, e Bologna
E Flora e Italia il tuo trionfo aspetti.
Dunque: «E Don Giulio e Donn’Anna e Don Marino
Ne andar disfatti e n’ebber mazza e corna».
Gran Santo Re David! Desiderium peccatorum peribit.
Mi pare che lo dica David: No? Si? Domandalo allo Scultore. Io tornerò a Roma assai
presto. Credo che partirò di qui domenica 5, e in due salti eccomi alle Convertite. Apri
intanto le braccia.
Salutami Biascio e Ferretti che spero già guarito con Barbaruccia. Un saluto anche a
Lepri, che già ne avrà avuto un altro dal Sig. Pietro Bettanzi mio compagno di viaggio e di
mensa, nel senso però di desco e non più.
Andando in casa Piccardi - Ratti - Ruspoli tocca la mano per me a chi voglia lasciarsela
toccare. Con chi acconsenta fa peggio.
Una ave senza pater e gloria al Sig. Alessio e alla famiglia di tuo fratello.
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A Roma piove, e qui non canzona. Un frescarello poi che Dio tel dica. Eppoi un
Uomo!...
Ciro sta bene e si fa grosso e sottile. Salutatemi gli amici di casa, mi ha detto. Dunque
ce n’è la tua buona porzione.
È notte ed ora di cena. Addio: vado a mangiare il mio empiastro.
Ego sum, io sono, il tuo Belli bello e buono.
LETTERA 214.
AL PROF. ANTONIO MEZZANOTTE (?) — PERUGIA
Di Roma, 15 luglio 1835
Amico carissimo
Il primo fascicolo, o, per dir meglio, volume delle vostre opere da voi direttomi, si è
trovato. Peraltro il secondo e i successivi mandatemeli colla indicazione del domicilio, non
trascurata da me sulla schedola di associazione, cioè
Palazzo Poli, 2° piano.
Stringete la mano con mia procura al gentilissimo ed ottimo vostro prof. Massari,
raccomandandogli quel tal figlio de’ sei baiocchi.
A proposito! non vi lasciai il 2° sonetto sulla faccenda Lanci-buffiana. Avete il primo,
dovete avere quest’altro, per mandarli insieme al paradiso delle cartacce. E perché qui non
entra ve lo scriverò alla voltata del foglio.
Dunque abbiatevi un V.S. da carte di musica, che alcuni spiegano per Vossignoria.
Questo modo d’interpretare io lo conosco, perché vivo nel paese degli antiquari.
S.P.Q.R. Senatus Populusque Romanus
S.P.Q.R. Soli Preti Qui Regnano.
Prima del sonetto due altre parole. Dite al M.se Prof. Antinori che il cucullato si crede
dai linguisti o linguacciuti che siano, possa applicarsi per modo estensivo ad ogni genere e
specie di claustrali, essendosi detto da buoni poeti fra i quali il Monti, chiercho e cocolle per
preti e frati.
O buona o non buona ragione, io me la ingollo, ché la mia serve d’indulto. Circa poi
all’Arciconsolo, fu egli appunto la pietra dello scandalo. Ed ora sia il capro emissario
solvens pro cuncto populo. Ditegli anche questo.
Ora trapassiamo al sonetto in nome di Dio. Intanto stringete il lucchetto e mantenemi
schiavo.
Il vostro 996
[segue la copia del sonetto: «Corri dunque sull’Arno, o cucullato»]
LETTERA 215.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 16 luglio 1835
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Mio carissimo amico
Ritornato appena da una delle mie frequenti escursioni a Perugia, dove ho il mio
Ciro in collegio, mi son veduto ricapitare in nome di vostro fratello Filippo due esemplari
di una Lettera di Eveno Aganippeo ad un suo amico diretti da voi con sopraffascia uno a mia
moglie ed uno a me. Potete pensare se questo invio mi ha fatto piacere, e se me lo ha fatto
per più titoli, tanto come un testimonio del non essere io mai morto nella vostra memoria,
quanto pel pregio dell’opera e per l’interesse della relazione che la costituisce. Ed io che
vostra mercè conosco codesti luoghi e li sconosco sì bene, ho, leggendo la vostra
descrizione, creduto quasi di rivederli in realtà, e provato un senso di soddisfazione al cui
complemento non mancava che la vostra compagnia. Il racconto poi del rappacificamento
tra i due paesi vi so dir io che m’ha commosso sino a inumidirmi gli occhi tanto i generosi
atti di virtù signoreggiano il cuore umano. Intorno al quale avvenimento una curiosità mi
rimane da appagare e una preghiera da farvi. Chi fu quel gentile, sul capo del quale pose
Apollo la Corona come al principal promotore della riconciliazione di due popoli?
Scommetterei qualunque cosa men preziosa della vostra amicizia essere stato colui che si
nomina alle linee 18 e 24 della pagina 6a, due linee degne d’essere incise in bronzo. Se mi
sono ingannato nella mia congettura dovrò credere che in S. Benedetto viva un altro Voistesso.
Vengo ora a dirvi che il vostro dono è giusto venuto a trarmi una spina dal cuore. Io
era con voi in collera. Seppi un vostro figlio essere stato in Roma, e voi non me lo
indirizzaste. In lui avrei onorato lui e il padre. Io non voleva più venire a vedervi, con
vendetta da buon cristiano rendendo bene per male. Ora su ciò si vedrà, e allora sarebbe la
vendetta più acerba.
Le mie occupazioni sono continue: mi occupo in appianare la futura carriera
letteraria di mio figlio. Attualmente gl’illustro uno dei tre poemi di Virgilio, e gli distendo
un ampio piano di Mnemonica, perché se mai dovrà perdere la memoria, come va
succedendo a me, abbia pronto un soccorso. Ho anche scritto uno scartafaccio pel quale ho
da un libraio di Parigi offerta di 100.000 franchi, non per l’eccellenza dell’opera ma per la
novità della materia e della forma. Ma i tempi corrono ad essa contraria, e verrà forse in
sepoltura con me.
Riveritemi la vostra famiglia. Salutatemi tutti i Voltattorni, e Pippo Lenti e la moglie.
Che n’è del Comite nostro? Mariuccia vi ringrazia e vi stringe la mano. Sono il vostro G. G.
Belli
palazzo Poli.
P.S. Vi spedisco un mio vecchio ciafruglio, recentemente stampato in un giornale per
cui scrivo qualche articolo come Iddio vuole.
LETTERA 216.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 30 luglio 1835
Mio caro Ciro
Rispondo alla tua del 25. Vedo che non mi hai data risposta alla dimanda che ti feci
nella mia precedente, cioè se conservi ancora le vedute e la pianta di Roma che noi ti
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regalammo. Non mi ricordo di avertele in quest’anno trovate fra i tuoi impicci. Mammà ti
abbraccia, saluta e benedice.
Come tu sai, il giorno 15 agosto è il giorno della di lei nascita e del nome di casa.
Dunque tu dovrai al solito scriverle, e siccome io dubito di qualche tua leggiera
dimenticanza, te lo ricordo. Eccoti qui appresso la minuta della lettera che le manderai e
che dovrai impostare immancabilmente la sera di giovedì 13 agosto — Ricevi i saluti degli amici,
della famiglia, e di Antonia specialmente: riverisci i tuoi Signori Superiori, e prenditi i miei
abbracci e la mia benedizione.
Il tuo aff.mo padre
Perugia, 13 agosto 1835
Mia carissima Mammà
Scrivo questa lettera e faccio conto che vi arrivi sabato 15. Se in quel giorno Voi riceverete le
congratulazioni e gli auguri di tutti i parenti ed amici, è molto più giusto e doveroso che vi
concorrano i voti di un figlio che tanto vi deve e tanto vi ama. Vogliate dunque aggradire, Mammà
mia, questa prova della memoria che io conservo di Voi e della vostra tenerezza, e siate convinta che
tutti i miei desiderii sono rivolti al fine di vedervi menare lunga e tranquilla vita, alla felicità della
quale io procurerò sempre di contribuire con tutto lo sforzo della mia volontà. Queste Mammà mia,
non sono vane parole di lingua ma sincere espressioni del cuore, giacché io non posso aver cosa più
cara che i miei genitori. Spero non lontano il tempo in cui potrò con le azioni provarvi la verità di
quel che oggi vi dico. — Ricevete i complimenti de’ miei Sig.ri Superiori, beneditemi, e credetemi
Vostro aff.mo figlio Ciro
LETTERA 217.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 3 settembre 1835
Mio caro figlio
Alla tua lettera del 29 passato agosto rispondo per mezzo del Signor Evangelisti,
cugino de’ Sig.ri Fani, e addetto allo studio del Signor Biscontini. Egli torna a Perugia e ti
recapiterà le presente. Veramente dopo le mie speranze e le tue promesse quel nuovo
mediocre mi ha non poco sorpreso e disgustato. Questa benedetta lingua latina mi pare che
tu non la voglia in corpo, ed al contrario senza di essa farai pessima figura nella carriera
del sapere, e vedrai più difficili i seguenti tuoi studi letterarii. Come la nostra Società è
costituita, un uomo che voglia distinguersi dal volgo ha necessità assoluta della lingua
latina. — Che farai tu nell’anno venturo? Vorrai seguitare nella medesima classe, e
passarci e consumarci tutto il tempo del tuo convitto in collegio? Ciro mio, voglio
concederti che questa lingua ti riesca difficile, e realmente non è facile, ma le difficoltà si
vincono ad una ad una, come le altezze delle montagne si superano a passo a passo. Un
uomo, al quale venga ordinato di trasportare da un luogo all’altro mille libre di peso,
sbigottirò, se il peso non è divisibile in parti, non però se lo sia. Egli allora ne
trasporterebbe anche il doppio, il triplo, centuplo etc. Il solo tempo a la perseveranza gli
basteranno al bisogno. Anche un bambino, ad once ad once, può eseguire quello stesso
trasporto. Così devi dire di te o della lingua latina. Se gli ostacoli ti si facessero incontro
tutti insieme come un torrente improvviso, io sarei il primo a riconoscer giusto in te e
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naturale lo smarrimento dell’animo e la mala riuscita. Ma i tuoi Maestri non ti dividono
eglino forse quel torrente di giorno in giorno in sottili facili ruscelletti? Resisti, persisti,
Ciro mio, e vedrai la verità del proverbio gutta cavat lapidem.
Circa alla spazzola pel pianforte hai ragione, ma non se ne sono mai trovate da questi
spazzini che ci dicevano aspettarle di Germania La ho dunque ordinata, facendone io un
modelletto, ad uno di questi nostri stupidi e negligenti artigiani di Roma. Appena avuta te
la spedirò.
Mi hai salutato in nome della Signora Cangiani: m’immagino che avrai voluto dire
Signora Cangenna. Se vedi o Lei o il Sig. Luigi Micheletti, ritorna loro i miei ossequi.
Riverisci i tuoi Signori Superiori e così i Sig.ri Maestri Speroni e Fani. Mammà ti abbraccia
e benedice. Gli amici di casa e i domestici, particolarmente Antonia, ti salutano. Sono di
cuore
il tuo aff.mo padre.
LETTERA 218.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 15 settembre 1835
Mio carissimo figlio
Ebbi in tempo la tua dell’8 corrente, e non risposi subito sperando poterti dare buone
notizie della scopetta pel pianforte, da me ordinata secondoché già ti accennai. Ma,
siccome io prevedeva, mi hanno fatto una porcheria e una cosa inservibile per tutti i versi,
malgrado tutte le più minute mie dichiarazioni intorno alla forma, alla grandezza e all’uso.
Ho pertanto dovuto ordinarne un’altra a un diverso scopettaro, e il cielo me la mandi
buona ancor questa volta. Dovrebb’esser fatta per venerdì prossimo, e in questo caso
pregherò il Sig. Dottor Micheletti di portartela nel suo ritorno a Perugia.
La tua Mammà ed io siamo restati oltremodo contenti de’ tuoi successi nella recente
premiazione. Quantunque tu non sii stato nominato ad alcun primo premio, purtuttavia
quattro nomine non sono da calcolarsi per nulla, tanto più che esse abbracciano tutte le
classi nelle quali ti sei tu in quest’anno occupato. Abbine dunque, Ciro mio caro, i nostri
affettuosi rallegramenti, e ricevi pur quelli di tutta la nostra famiglia, e de’ parenti e degli
amici, ai quali non ho trascurato di far conoscere i tuoi trionfi. Forte adesso, Ciro mio,
coraggio, e avanti senza arrestarti. Vedi pur bene che le difficoltà poi si vincono. Tu
entrasti in collegio nel 1832: ebbene che avresti tu detto prima di quell’epoca, se avessi
assistito ad una premiazione di fanciulli negli stessi studi che tu adesso coltivi? Ti sarebbe
stato impossibile il concepire come quelle tenere menti avessero saputo aprirsi a nozioni
secondo il tuo vedere astrusissime. Eppure ci sei arrivato ora anche tu. Hai studiato di ora
in ora, di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno; ed ecco la intiera somma di
tante piccole fatiche e di que’ gradati profitti. Come abbiam detto del passato, argomenta
tu pel futuro. Gli ostacoli si vincono collo stesso progresso con cui la lancetta di un oriuolo
percorre il quadrante. Pazienza, tempo, e perseveranza; e si diviene sapienti.
Benché la sorte ti abbia favorito in due bussoli della premiazione, pure noi vogliamo
darti un segno a parte della nostra soddisfazione. Il Signor Micheletti adunque, ti
consegnerà, oltre la scopetta, un altro oggetto col quale speriamo che ti divertirai molto,
senza che sia un giuocherello. Ti prego però fin da ora di tenertelo a conto, perché costa
assai e perché merita il titolo di passatempo anche di una età più matura della tua.
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Conserva le tue cose, Ciro mio, e pensa che ormai ti disconverrebbe troppo lo sciupio de’
fanciulli.
Amerò di conoscere a suo tempo i nuovi studi ai quali ti si farà applicare nel nuovo
anno scolastico.
Ormai son principate le tue campagnate. Si va quest’anno a caccia colla civetta?
Cacciatori malpratici, fortuna di uccelli.
I parenti, gli amici, i domestici (particolarmente Antonia) ti salutano. Ti saluta anche
la cognata del Sig. Bianchi la quale è in Roma. Mamma ed io ti benediciamo e abbracciamo
di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 219.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 19 settembre 1835
Mio carissimo figlio
Il Sig. Micheletti favorisce recarti la presente ed il resto. Eccoti quanto ti annunziai
nella mia antecedente del 15. — La scopetta pel pianforte mi pare che possa andar bene.
Che se mai i peli sembrassero al Signor Fani forse alquanto lunghetti, gli sarà facile sotto la
sua direzione il farli un poco accorciare, ciocché potrebbe compiacersi di eseguire il Sig.
Felicetti che ha pratica del maneggio delle forbici. Fa’ leggere al Sig. Fani queste mie
parole, le quali io però conchiudo con dire che a me, i peli della scopetta non sembrano di
lunghezza sconveniente al loro uficio. Salutamelo il Sig. Fani, e digli che faccia egli
altrettanto con la sua famiglia. Tieni da conto, Ciro mio, questa scopetta, e non rovinarla
col gettarla qua e là, o col giuocarvi. Essa può essere eterna.
Unito ad essa troverai un libro contenente i costumi civili, ecclesiastici e militari della
Corte papale. Avendo tu (come mi assicurasti) conservato le vedute di Roma che ti furono
già da noi donate, questi costumi possono riuscirti piacevoli, e di utile trattenimento
intorno alle cose della tua patria. Non mandarli a male, ché mi dispiacerebbe, tanto pel
disprezzo che mostreresti ai nostri regali, quanto per la somma di varii scudi che
sarebbero come gettati. Tu ora sei un ometto, e ti disconverrebbero le negligenze della
infanzia. Hai capito, Ciro mio?
Colla prossima venuta del Sig. Biscontini avrai le sotto-calze di cotone da inverno, e
quindi a poco ti sarà spedito quanto occorre per rinnovare il tuo vestiario per la detta
stagione. Va bene?
Tutti ti salutano al solito, e Mammà ti abbraccia con me e benedice. Riverisci i tuoi
Sig.ri Superiori, e credimi pieno per te di tenerezza
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 220.
A GIACOMO FERRETTI — ROMA
Di casa, lunedì 21 settembre 1835
Mio caro Ferretti
197
Tu sai come io per le delicate ragioni già a te manifestate non aveva in mente di
scrivere per la Bettini, o, almeno, di non inviarle i versi, onde non far forza alla sua
volontà. Ma che vuoi! un pensiere improvviso mi si è cacciato nella penna e in un
momento è voluto venir fuori in inchiostro.
Cotto e mangiato. Adesso scritto il sonetto, adesso ricopiato, adesso a te diretto; e
siamo alle 9 di questa sera. Ecco gli umani propositi. Il mio sonetto è un compendio della
storia del mondo fisico e del mondo sociale, come la Bettini parmi un compendio del bel
sentire degli uomini.
Non dirmi che io ti tenga pel mio portalettere: tu mi sei troppo di meglio. Dunque,
per cortesia del tuo animo, se vedi alcuno pel cui mezzo mandare alla Sig.ra Bettini il mio
microcosmo, ti sarò grato del tuo favore, come lo ti fui per risguardo al Sig. Domeniconi. E
due. Poi... ma ascolto Stazio che mi ricorda
Quid crastina volveret aetas
Scire nefas homini.
Amami, saluta la tua famiglia, saluta il povero Zampi, ed abbimi sempre aff.mo amico
G. G. Belli
[Retro è aggiunto] Mi ha scritto il Fani se potesse venire per 1° della 2a coppia di viole
a Tor di nona, onde per tuo favore parlarsene al Tassinari.
LETTERA 221.
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[29 settembre 1835]
Gentilissima mia Signora Amalia,
fra le cortesi accoglienze della sua casa io dimenticai ieri tutto il resto del mondo,
perché il mio spirito non sa fare che una cosa per volta. L’avvocato Biscontini mi aveva,
imposto di riverirla, d’intercedere per lui un perdono anticipato alla mancanza che le di
lui brighe gli faran forse commettere di non venire ad inchinarlesi prima della di lui
prossima partenza per Perugia, e finalmente di chiedere in di lui nome i Suoi comandi per
quella città. Procuro di rimediare oggi alla mia omissione di ieri nello stesso tempo che
riparo l’altra mia storditaggine intorno ricapito della lettera di Fani. Anche per questa
potrei però addurre una scusa: la mia fretta di venire da Lei. In tutti i modi convengo per
amore di sincerità, la mia memoria essere abitualmente un po’ inferma, e ne’ suoi esercizi
abbisogna di analogie e di rapporti. Ecco, per esempio, le tre parole Perugia, Amore ed
inferma, poco anzi scritte, mi han fatto mo ricordare che il giornale scientifico-letterario di
Perugia stampò una mia novelletta, intitolata Amore infermo. De gli estratti esemplari
mandatimene dal Direttore me ne resta ancor uno, che pare aspettasse Lei in Roma
affinché il fondamentale pensiero della novella ricevesse una solenne mentita. La prego,
mia gentilissima Signora Amalia, di riceverlo in piccol testimonio della mia divozione a’
Suoi grandi meriti, rapporto ai quali la mia memoria avrà in avvenire poche confessioni da
fare e meno assoluzioni da chiedere.
Presenti i miei ossequi alle Sue Signore Madre e Sorella, e mi conservi nell’onore di
essere Suo d.mo ed aff.mo servitore
Giuseppe Gioachino Belli
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Di casa, 29 settembre 1835.
LETTERA 222.
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[2 ottobre 1835]
Gentilissima Signora Amalia,
nella prossima notte parte l’avv.to Biscontini per Perugia. Facendo io seguito a
quanto Le scrissi martedì, La prevengo di ciò, perché, avendo Ella a Perugia fresche
relazioni, possa approfittarsi di questo incontro ad ogni Suo piacere. Verrò io stesso dopo
il pranzo a ricevere in procuratorio nome i Suoi ordini. Sarebbe superfluo ed anche
temerario il qui aggiungere che io con simile avviso non presumo disturbare
menomamente la Sua libertà. Ella mi aspetti, non mi aspetti, faccia il pieno Suo comodo.
Basterà, dov’Ella esca mi lasci una parola in Sua casa, benché all’estremo il non trovare
pure alcuno lì sarà una risposta anche quella. Unico male in tuttociò il non poter riverirla.
Le raccomando quel mio povero convalescente. Gli abbia cura e lo guardi dalle
intemperie. Una recidiva! Dio guardi! Il Tempo non salverebbe meglio della Ragione. Io
però gli spero tanto di vita che possa venire in un baule a fare un viaggio con Lei. Si dice
che i viaggi rimediano a tutto.
Perdoni le mie scipite facezie, e mi creda seriamente
suo Servitore vero G. G. Belli
Di casa, venerdì 2 ottobre 1835.
LETTERA 223.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 13 ottobre 1835
Mio caro figlio
Ricevo la tua letterina del 10, e mi maraviglio di non trovarci neppure una parola
intorno alla scopetta pel pianforte e al libro di costumi che fin dal 19 settembre ti spedii pel
mezzo del Sig. Dottore Micheletti. Che egli non ti abbia fatto la consegna di quegli oggetti
è impossibile, ed altronde io te ne ho tenuto parola anche nella mia lettera unita alle calze
di cotone (e non di lana, come tu dici), di cui mi accusi il ricevimento. Dunque da che
dipende il tuo silenzio sui nostri doni? Da disprezzo non voglio neppure supporlo. Io
dovrei inquietarmene e rimproverartene con qualche serietà; ma prima voglio udire le tue
ragioni, se ne hai di plausibili. Che se mai ciò dipendesse dalla tua solita ed abituale
spensieratezza, mi darebbe poco coraggio per continuarti le mie attenzioni. Basta, ogni
prudente giudice deve prima ascoltare le difese e poi condannare od assolvere. Io ti
desidererei innocente perché non so avvezzarmi alla idea che tu possa divenire un egoista
e un ingrato. Nulla io pretendo da te fuorché studio e bontà. Ma pare a te, Ciro mio, che il
non riconoscere le altrui premure andrebbe d’accordo con la bontà che da te desidero? Io
so bene che se qualcuno ti percuotesse, tu gli diresti: Mi hai fatto male. Or bene, allorché
alcuno ti usa un favore, non dovrai tu dirgli: Mi hai fatto bene? E quando il beneficente si
contenti di questa sola risposta, trascurerai tu il dargliela? Insomma fra la scopetta ed il
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libro si ritrovava pure una mia lettera. Bisogna dire che siasi smarrita fra le tue cartacce:
altrimenti essa medesima ti avrebbe ricordato il tuo dovere. Arrestiamoci qui, perché io mi
avveggo di trascorrere a quella sentenza che non voleva più ora pronunciare. Intanto
restiamo buoni amici, e diamoci un bacio. La tua buona Mammà ti benedice ed abbraccia.
Gli amici, Antonia e gli altri domestici ti salutano. Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e la
Sig.ra Grazioli se la vedi.
Mi ripeto colla solita tenerezza
il tuo aff.mo padre
LETTERA 224.
AL SIGNOR ESTENSORE DEL CENSORE UNIVERSALE DE’ TEATRI — MILANO
Di Roma, ottobre 1835
Onorevole Signore
La nobile ed assennata risposta fatta da V.S. ad alcuni rilievi della Gazzetta
Piemontese sul Melodramma La Pazza-per-amore del nostro concittadino Sig. Giacomo
Ferretti, avendoci in Lei mostrato un franco amico della verità, ci dà animo a pregarla
d’inserire nel suo divolgatissimo foglio queste parole, scritte nello spirito di esercitare un
nuovo atto di giustizia contro due laconici articoletti del giornale Il Figaro (N.N. 73, 83)
relativi all’Opera di Roma nella corrente stagione autunnale. Venne in quelli annunziata la
caduta della musica del Ricci, Gli Esposti, seguita dalla rovina di uno dei capi-d’opera
rossiniani, L’assedio di Corinto; con nuda e secca sentenza se ne addossò la colpa alla prima
donna Sig.ra Annetta Cosatti e al tenore Sig. Alberti. Noi non sapremmo negare il poco
fortunato successo dell’uno, come osiamo sostenere che l’incontro dell’altro pareggiasse la
gloria già ottenuta sulle medesime scene allorché fu prodotta sotto gli auspici del valore di
un Galli, il cui solo nome è un elogio, e la cui sola comparsa assicurava un trionfo, pria
ch’egli andasse a trapiantar nel nuovo mondo i lauri mietuti nel vecchio. No, per verità e
per giustizia diremo tutt’altro. Ma il ciel chiuda la bocca di chiunque volesse far eco alle
accuse del Figaro onde giustificare i motivi di que’ disgraziati naufragi. Perì, è vero, il
naviglio del Ricci, meno però per l’imperizia dell’equipaggio che per le forme del legno
poco atte a correr queste acque. Snello, spalmato, elegante, ma non troppo fatto pel Tevere,
entro a’ cui vortici (stupendo a dirsi) affonda talvolta miseramente ciò che lieto galleggia
sul Ticino o sull’Adda. E, per lasciar le metafore, verremo a conchiudere che l’Alberti non
è certo un Rubini, non è un Duprez, non è quel che una volta fu il David; ma neppure è un
cantore da chitarrino, siccome al Figaro sembra ch’ei sia. Né alla Cosatti debbonsi
concedere i pregi delle Malibran, delle Ronzi, delle Ungher, e delle altre poche celebrità
dell’odierno teatro, chiare in Italia, chiarissime fuori, e rimunerate ovunque in una sera
con quanto consolerebbe per un anno numerose e virtuose famiglie. La Cosatti, più umile
di tutte costoro, le quali non sempre si possono avere, non merita purtuttavia di comparire
ne’ pubblici fogli quasi capro-emissario carico de’ peccati del popolo. Dotata dalla natura
di gratissima voce e robusta ed estesa, non povera di sentimento e d’intelligenza, di un
aspetto da non mandare le genti in delirio ma neppure da far chiuder gli occhi a nessuno,
essa nulla poté aggiungere all’Opera come nulla le tolse. Non incontrò nella musica del
Ricci; ma chi piacque in essa? La Sig.ra Amalia Pellegrini, dice il Figaro. — Signor Figaro,
noi abitiamo a Roma ed Ella a Milano dove fu indotto in equivoco da una romana
relazione che guardò agli effetti senza curarsi delle cause. Sappia Ella dunque che se la sua
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gentile concittadina riscosse un applauso nella prima sera (e forse lo avrebbe meritato
eguale nelle successive) l’uditorio, che era annoiato, volle rallegrarsi un momento. Questa
abbiasi per istoria vera quanto la scoperta delle Indie. Lungi la malignità da noi che
stimiamo la Sig.ra Pellegrini al suo giusto valore. Ma il solo averla posta sopra alla Cosatti
fa scorgere che in quell’applauso ci fosse qualche cosa sotto. Il pubblico applaudì, la
Pellegrini ringraziò, e tutto finì in buon umore. — Venne poi L’assedio di Corinto, la Cosatti
vi trovò canto per lei, e gli evviva salirono al Cielo. Eppure quel maraviglioso lavoro non si
sostenne! Perché? A ciò risponda Maometto.
Terminiamo questo ormai lungo cicaleccio colla seguente appendice. Il Figaro ha una
pagina consacrata ai teatri. Ebbene, parlandovi delle nostre disgrazie non si scordi di
notarvi le nostre fortune. Ci compiange egli nella musica? Ci invidii dunque nella prosa; e
narri alla Lombardia, almeno una volta, come in Roma si trovi adesso e fanatizzi i Romani
la comica Compagnia Mascherpa, nella quale per tacer di vari altri, una Bettini, un
Domeniconi, un Colomberti e un Gattinelli son quattro colonne da sostenere il peso di
qualunque drammatico edificio.
G. G. Belli
LETTERA 225.
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[Roma, 26 ottobre 1835]
Amabilissima mia Signora Amalia
I nostri discorsi (così come suole accadere conversando, che di uno in altro proposito
principiasi talora da un paio di occhiali e si finisce coll’incendio di Troia), ci condussero
negli scorsi giorni a parlare di quella romana generazione di letterati, i quali, fra sé
ristretti, e schivi di tutt’altri e tutt’altro che non sia loro e in loro, regalansi
scambievolmente il modesto titolo di santo-petto, e ciò per la santità del loro amore verso le
lettere del Trecento, beate quelle e beato questo per omnia saecula saeculorum. Ricorderà,
gentil Signora, come io le narrassi essere uno di costoro venuto a morte nel 1834, e aver
commossa la mia povera musa novecentista a piangerne l’amarissima perdita. Or bene io
Le invio oggi i versi spremuti dal mio dolore in quella lugubre circostanza, e consecrati a
tutti i Santi-petti compilatori del giornale-arcadico, giornale profetico che, zoppo più di
Zoilo nelle sue pubblicazioni, suole spesso annunziare, con data per esempio del ’32,
antichità dissotterrate nel ’33. Se questa non è profezia bell’e buona, Dio sa cosa ell’è.
L’illustre defunto ebbe nome Girolamo Amati di Savignano. Fu veramente buon
grecista, buon latinista, buono scrittore italiano. Molto seppe e moltissimo presunse. Con
pochi usava: degli altri non rispondeva neppure al saluto. Sordido e senza camicia sotto i
panni: di volto satiro e così di parole; e tuttavia ne’ suoi scritti, per umana contraddizione,
non raro adulatore dei potenti. Stridulo poi nella voce come cornacchia, e ruvido nel corpo
e ne’ modi, quanto il rovescio d’una impagliatura di sedia. A quella corrugata fronte,
degnissima di un posto nella commedia de’ Rusteghi, profondevano i di lui cari fratelli il
nome solenne di fronte omerica in grazia forse del cervello che ricopriva. Ne’ miei 14 versi
e nella nota dichiarativa incontransi alcuni fiori di lingua, onde vanno sparse le carte e
olezzanti i colloqui de’ Santi-petti ai quali il Segato di Belluno niente saprebbe più dare
oltre quanto lor concesse prodiga la natura. Se v’è da ridere, Signora Amalia, rida con me:
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se poi, anzi che di riso, provi Ella senso di nausea, laceri questi fogli e si rallegri colla
dimenticanza e de’ Santi-petti e del loro encomiatore
Gius. Gioach. Belli
Di casa, 26 ottobre 1835
IN MORTE DI GERONIMO NOSTRO
O Santi-petti, o primi arcadi eroi,
D’ogni savere e gentilezza ostello,
In cui lodiam quanto di raro e bello
Formar seppe Natura e prima e poi:
Spenta è la luce che mostrava a noi
Carità benedetta di fratello
Sulla omerica fronte, ove il suggello
Fu di spregio d’ognun fuor che di voi.
Levate alto gli omei, le genitali
Blandizie vostre, e i modi lusinghieri
Onde fra voi vi divolgate uguali.
E come già rendeste allo Alighieri,
Date suffragio a lui di Parentali
Fra il pianto, i rosolacci ed i bicchieri.
LETTERA 226.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 14 novembre 1835
Mio caro e povero Torricelli
Come è bugiardo il mondo! quanto breve, e mal locata la gioia dell’uomo! Tornato io
a casa ben tardi nella mattina delli 12 (?), trovai sul mio scrittoio una lettera, il carattere del
cui indirizzo, non visto da tanto tempo, mi rallegrò. Era tua lettera. Non fosse mai giunta,
o non l’avessi mai letta! E fu ventura la trascorsa ora al rispondere: nel mio sbalordimento
ti avrei scritto delirj. Le prime parole di quella — Martedì Clorinda fu lietissima ad un pranzo
di suo cugino — mantennero, accrebbero anzi il mio piacere ingannevole. E se al tuo dolore,
a te ingenuo, a te non seconda vittima del funebre caso si potessero mai da me amico tuo
attribuire oratori artifici in mezzo al pianto, ed alla desolazione, parrebbe quel lieto verso
destinato quasi a rendere più straziante l’inatteso effetto del resto terribile. Già dalla
seconda linea — quel «tornò a casa in ottimo stato di salute» principiò a gelarmi il cuore,
perché nel corso ordinario della vita simiglianti frasi non sogliono usarsi mai, se non,
preliminari di funeste notizie. O la giovane, bella, e gentile tua sposa! piangi, mio
Torricelli, piangi, che ne hai ben motivo. Non sarò io quel freddo spettatore della tua
miseria, che venga a tentare il tuo nobile animo colle comuni risorse della sistematica
consolazione. Sì, esala nel pianto, un’angoscia, che, trattenuta, potrebbe fare a lutto sei
orfani. Chiudi gli orecchi agli zelatori del fato, e del cielo: tu ne sai più di loro. L’umanità
ferita chiede oggi, sola, gli affetti del tuo cuore, e le meditazioni del tuo spirito, e l’amore
deve farsene il signore assoluto. Tu molto perdesti: non tutto; e ne hai verità in quei sei
volti, copie fedeli della cara immagine, che si dileguò. Ma la provvidenza albergò nel
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nostro petto più tenerezze, quella di figlio, di amante, di marito, di padre, di amico tutte le
hai tu conosciute, e profondamente sentite. Una ti fece gemere, e ancora ti fa, sulle ceneri
del tuo buon genitore: due altre ti si risvegliano adesso più imperiose che prima, perché la
natura oltraggiata dalla morte si vendica sul cuore più prossimo al colpo, e perché nella
perdita è più la coscienza, che nel possesso, e nel medesimo acquisto. Dunque ciò, che ti
rimane e di prole, e di amici non è per ora compensato del troppo, che ti mancò. Tu però
offeso dalla morte in quel che ti tolse, saresti ad un tempo offensore di quel che ti lascia, se
all’umanissimo e bollente tuo animo volessi imporre di forza, e di slancio il conforto
pericoloso degli uomini materiali. La cristiana rassegnazione non abbisogna per trionfare
sulla nostra fralezza, della mentita impassibilità dello stoico. Umiliare il pensiero ribelle
all’onnipotenza è segno di pietà, e di ragione. Asservire gli affetti, che onorano la nostra
specie, è pruova di vizio e di ferina stoltezza. Così, tu piangi, mio caro, per sollevarti il
cuore degnamente, e conservarlo sano a’ tuoi amici, e a’ tuoi figli. Il tempo, sedatore di
tutti i moti dell’universo, ti restituirà poi quella calma, che, accompagnata ora sempre da
dolce mestizia, dà fede perenne di una vecchia sventura patita in chi meritava continuità
d’ogni bene. Intanto io associerò le tue alle mie lagrime, sapendo tu bene quanto quella
bell’anima castamente mi amasse, perché tu mi amavi, e come io vi ricambiassi dello stesso
affetto, che a te mi congiunge. Bacia per me i tuoi cari figli, e quando li condurrai ad
infiorare la tomba materna, tra le mani tenerelle di quello, che dovrò io tenere al
sacramento della confermazione, poni un fiore di più, con l’animo che sia gittato sulla
pietra in pietosa memoria della mia afflitta amicizia.
Il tuo G. G. Belli
LETTERA 227.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 8 dicembre 1835
Mio carissimo figlio
Rispondo io per la tua mammà alla lettera che tu le inviasti il 28 novembre. Ad
entrambi noi piace assai di udire le tue promesse di un maggiore impegno nell’esercizio
delle scale musicali. Lo conosco, quegli esercizi sono alquanto aridi e poco gustosi, ma
senza di essi, Ciro mio, non si può davvero giungere alla perfezione del suono. Insomma,
nella musica come in ogni altra arte o scienza gli elementi riescono sempre duri e difficili,
ma, superati quelli, per ogni grado di pena sofferta se ne guadagnano mille di
soddisfazioni e di gloria. Non prevedi tu, Ciro mio caro, il diletto che procurerai a te stesso
e agli altri allorché adulto e desiderato potrai far mostra de’ tuoi talenti in un adornamento
che la moderna educazione tanto aggradisce? Se tu non avessi a sapere che la sola musica,
saresti un soggetto molto comune: con la unione però di più solidi fregi, i quali saranno gli
studi del tuo collegio, quella della musica farà di te più risalto. Mi pare avertelo detto altre
volte: nei momenti di fastidio per gli ostacoli di qualunque progresso bisogna pensare al
riposo e al bene futuro; e questa idea non puoi credere quanto alleggerisca i travagli
presenti. Io parlo per esperienza; ed ho mille volte provato la realtà di quanto ti vo’
dicendo. Spesso anche a me sembra spinoso un lavoro: ebbene, io allora chiudo gli occhi, e
con quelli della mente trascorro a vagheggiare i successi che me ne possono derivare
nell’avvenire. Entrato appena in me questa persuasione sento raddoppiare la mia lena e il
mio coraggio, e mi pare un prato molle ed ameno ciò che prima mi aveva sembianza di
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una valle piena di scogli e di tenebra. Io ti parlo di me perché tu devi essere quel che son
io: tu ed io anzi siamo e saremo sempre una medesima cosa; ed allorché, finita la tua
educazione, ritornerai a vivere con me, ci aiuteremo scambievolmente dei nostri lumi
reciproci, e godremo, spero, giorni tranquilli e onorati nella soddisfazione de’ nostri
doveri.
Mammà ti saluta, abbraccia e benedice insieme con me, siccome insieme con me ti
prega di riverire il Sig. Presidente, il Sig. Rettore e gli altri tuoi Superiori. Antonia e gli altri
domestici, non che gli amici di casa, ti dicono mille cose cortesi. Io sono
il tuo aff m° padre
LETTERA 228.
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[14 dicembre 1835]
Cortesissima Signora ed Amica
La cara donna pianta in queste mie rime fu Teresa Sernicoli, sorella del professore di
questo nome, il quale acquistò grado e onore di cavaliere non per ventura di natali e di
cieco favore, ma per meriti veri nella santa arte che volge a salute della umana vita il ferro,
i cui benefici e le offese ebbero forse una allegoria sapientissima nella lancia di Achille,
causa e rimedio di aspre ferite.
Amabile per forme e più per costumi, andò colei moglie ad Annibale Lepri, favorito
dalla fortuna di agi e dalla natura di alti sensi e raro cuore. Religiosa, amena, casta e
compassionevole formò essa la delizia del marito e il decoro della casa per diciassette anni,
e di trentanove morì nel 1833 lasciando il suo sposo non padre, però che fra tanti doni non
volle il cielo concedere fecondità, forse per renderle meno penosa la immatura morte.
Molti distinti uomini con soavi carmi ne lagrimarono il fato, fra i quali vi nominerò
Giacomo Ferretti e per l’amicizia che a lui ci lega, e perché la prima figliuola di lui,
Cristina, ebbe nome e nuova madre per quella benedetta al sacro fonte della rigenerazione:
circostanza atta a farne dolce la memoria anche a Voi che non la conosceste, a Voi sì tenera
dell’affettuosa famiglia del nostro amico.
Vivete sana e sempre più cinta di gloria.
Roma, 14 xbre 1835.
G. G. Belli
LETTERA 229.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 22 dicembre 1835
Mio carissimo figlio
Ebbi la tua del 12, e mi piacque leggervi le promesse che in essa mi fai, tanto più per
una specie di convinzione che mi dimostri intorno alla verità dei miei consigli.
Si sta preparando, Ciro mio, qualche cosetta da mandarti secondo il consueto fra le
feste e il capo d’anno. Ho fatto costruire espressamente una scattola per queste spedizioni,
ed ho ordinato che vi sia messa una serratura con due chiavi, una delle quali manderò a te
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perché la conservi, ed un’altra la riterrò io, affinché la scattola possa andare avanti e indietro
tra Roma e Perugia come una specie di bauletto, senza bisogno d’inchiodare e schiodare, e
senza necessità di rinnuovare tanto frequentemente quest’oggetto di trasporto. Darò
dunque ordine al vetturale che dopo averti lasciata la cassetta venga a riprenderla per
riportarmela vuota in un altro viaggio che farà egli per Roma.
Oltre i saluti della Signora Cangenna che tu mi facesti, ebbi una lettera nella quale mi
parlò gentilmente di te, e me ne dette buone nuove. Se tu la vedi riveriscila in mio nome, e
dà un bacio al piccolo Cencino.
Presenta gli ossequi della tua Mammà ed i miei a’ tuoi Signori Superiori e Maestri, ed
in ispecial modo al Sig. Presidente e al Sig. Rettore, ai quali farai mille auguri di felicità per
le prossime Sante feste e pel successivo nuovo anno.
Gli amici, i parenti e i domestici, fra i quali principalmente Antonia ti dicono mille
cose affettuose. La tua buona Mammà ed io ti benediciamo e abbracciamo teneramente, e
preghiamo Iddio perché ti ricolmi l’animo di allegrezza nel tempo natalizio come
nell’anno nuovo, e per lunghissima vita, tutta onorata ed utile al tuo bene e all’altrui.
Ricevi queste espressioni dell’amore vero ed ardente del tuo
aff.mo padre
P.S. Poco prima di mandare alla posta la presente mi è giunta l’altra tua latina scritta
il 19 corrente, cioè nel 14° giorno avanti le calende di Gennaio 1836. Bravo, bravo, Ciro
mio; e benchè tu ancora non tocchi a sublimità nel possesso di questo idioma (siccome mi
dici), purtuttavia io son contento, e ne ringrazio il gentilissimo tuo Sig. Maestro, del quale
con molto piacere e mio onore trovo i saluti e gli auguri nella tua lettera. La tua Mammà,
benchè meno dotta del suo Ciro, pure presso mia spiegazione ha potuto gustare le tue
latine eleganze e te ne rimerita con mille nuovi abbracci. Così te ne fanno plauso coeteri noti
ac affines.
LETTERA 230.
A NATALE DE WITTEN
nel giorno 25 dicembre 1835
Dopo trecensessantacinque giorni,
Ed un giorno di più quando è bisesto,
Torna il Santo Natal con tutto il resto,
Cioè i Magi, il presepio e i suoi contorni.
Io non mormoro già ch’esso ritorni
Bensì mi lagno che ritorna presto.
Perché ad ogni tornata è manifesto
Che ci crescono addosso i capricorni.
E non appena pei caffè in vetrina
Scopro i primi pangialli, io dico: male!
Vedi come l’età passa e cammina.
Basta, lasciam da parte la morale;
E piuttosto gridiam questa mattina:
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Viva il Natale ed il Signor Natale!
G. G. Belli
LETTERA 231.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 9 gennaio 1936
Mio carissimo Torricelli
La composizione, o, secondo il linguaggio de’ tipografi, la pizza della tua inscrizione,
è fatta. Non si può ancora imprimere perché l’incisore non ha fatto il monogramma del
Cristo da porvisi in alto, il quale manca al Salviucci nella grandezza proporzionata al
nostro bisogno. Io però non cesso dallo stimolare.
Sul sonetto pel capo-d’anno ecco come la penso io ai versi 5° e 6°. — Il servo è il servo
e il tiranno è a dirittura il padrone: il che si riferisce all’opre: il numero è l’anno 1835: l’appiè
del trono è il punto dove si congiungono i rapporti del comando e della obbedienza, e dove
l’anno gli accoglie tutti nel suo seno per ritenerveli quasi cosa presente per tutta la durata
dell’anno stesso, finito il quale sogliono gli uomini considerare perfettamente passati i fatti
in quello accaduti. Così dicesi è cosa di quest’anno; così fu cosa dell’anno scorso etc. Terminato
l’anno, gli avvenimenti di quello, prendendo di un colpo natura di cosa remota, cadono
coll’anno stesso in grembo ai secoli che sono compiuti e riuniti all’eternità, nella di lei
parte antecedente al punto del presente, che è il solo momento da cui si possa concepire
divisa. Difatti l’eternità mancando di estremi, neppure dovrebbe di ragione aver parti, le
quali suppongono un mezzo. Quel tal che credo possa ritener più relazioni colle opre che
non col servo e col tiranno, mentre costoro in caso obliquo e in vera obliquità di azione non
istanno nel verso se non per caratterizzare le qualità dell’opre di servitù e d’impiego; di
modo che alle sole opre vien consecrato tutto il resto di quella quartina, dove il servo e il
tiranno non figurano più. Dopo tante ciarle apparirà forse meno dichiarata la matta idea
che io pretesi di esprimervi. Dio guardi però quel sonetto che abbisogna di tanti
commenti!
Ti ringrazio del bel sonetto del Sig. Donini il quale si assapora senza uopo di
arzigogoli. E così ti sono obligato per la cara e stracara ottava del Sig. Montanari. Come vi
ha preziosamente riuniti i due nomi di Clorinda e Torquato! Ecco un modello rarissimo
dell’arte di giuocare sui nomi con severa convenienza al soggetto.
E già che siamo in proposito di sonetti, saprai, o, se nol sai, tel dico io, che il Barone
Ferdinando Malvica di Palermo s’è insorato con egregia donzella. Voleva miei versi. Gliene
scrissi 14, ma un comune nostro amico, il caro ed eccellente Biagini che nel 1830 ti feci
conoscere, non ha creduto che gliel’inviassi, onde (son sue espressioni) non fargli cascare il
cuore in terra. Li mando a te, che, povero Torricelli, il cuore in terra già ce lo hai. Unisci
dunque dolore con isdegno, e leggi i miei 14 versi, seppure non debbano chiamarsi meglio
154 sillabe.
Ho letto la pistoletta del Santo-petto S. B. — Potrebbe farmi miracoli, getterebbe
l’opra ed il tempo. Caratterizzato un uomo, tutti i suoi attimi prendono il colore del suo
carattere. Io sono irreconciliabile, e chi ha offeso un mio amico ha vituperato me, perché io
considero nell’onore tutti i viventi obbligati in solidum. La lettera è bella e dolce, di quella
venustà e mollezza che spiravano le lettere di quel morto capo-di-setta che ti sorrideva e
pugnalava.
206
A proposito del Malvica, nominato più sopra, rimandami per qualche occasione il
suo-mio libro di epigrafia etc. Ti abbraccia il tuo B.
[In foglio a parte il sonetto al Malvica:]
Immagini di vita, o Ferdinando,
Pegni di voluttà fur gl’imenei,
Infin che arriser più benigni Dei
A questo di virtù suol venerando.
Ma da che Italia nostra è messa al bando,
E fra l’onta di barbari trofei
Nacque in lei morte e par viver in lei,
Chi môve all’ara de’ môver tremando.
D’onor, di senno e carità ripieno,
Se da sposa feconda avrai tu figli,
Pensa a qual terra li deponi in seno.
Terra povera d’armi e di consigli,
Terra cui mai non sorge un dì sereno,
Terra di servitù, terra d’esigli.
LETTERA 232.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 12 gennaio 1836
Mio carissimo figlio
Ho molto piacere che tu sia rimasto contento degli oggetti da noi inviati per tuo uso
pel recente Capo-d’anno. È stato quel che si è potuto fare tanto in vista delle regole del tuo
Collegio che non permettono oggetti di lusso, quanto per rispetto delle circostanze de’
tempi in cui la stessa prudenza non concede che si pensi a troppe superfluità, riuscendo
anche difficile il far fronte ai puri bisogni. In ogni modo, abbiti, Ciro mio, in quelle cose un
testimonio della nostra premura per te; e vivi sicuro che noi faremo sempre tutti i nostri
sforzi affinché non ti manchino oneste soddisfazioni, in premio della diligenza che ti
raccomandiamo incessantemente ne’ tuoi doveri. Tu non devi pensare per ora che ad
acquistare virtù ed istruzione, e le rimanenti cure per la tua felicità non verranno in noi
giammai a diminuirsi. Tu formi l’unico oggetto di tutti i nostri pensieri, affinché un giorno
tu possa benedire la nostra memoria. Se non avrai ricchezze da sfoggiare e insultare gli
sguardi del Mondo, spero che ti avremo preparato un miglior patrimonio di onore e
d’istruzione, che ti procacci una vita tranquilla e modesta fra l’approvazione e la stima
degli uomini. Tutto in terra perisce, tutto, Ciro mio, fuorché il decoro di un’anima elevata,
schietta ed ornata di salda cultura; e fino l’invidia e la malignità de’ malvagi giungono a
render poi giustizia ad un merito reale che non si smentisce da se stesso. Ti voglio
convincere della bellezza della virtù e della forza che questa esercita anche sugli uomini
viziosi. Sai tu cosa è la ipocrisia? È un’imitazione attenta e studiosa di tutto ciò che le
umane azioni hanno di buono e di lodevole. Ebbene, la ipocrisia è un vizio perché assume
falsamente un esteriore virtuoso onde ingannare. Ma non vedi tu dunque che lo stesso
207
vizio confessa così il bisogno di nascondersi sotto le spoglie della virtù? Non si chiama ciò
un vergognarsi della propria bruttura? Non si scopre in quell’artificio la superiorità che
tutto il Mondo è forzato a concedere al giusto, all’onesto? Se pertanto la virtù può parere
bella talvolta anche simulata, perché non vorremo noi acquistare la realtà che non ha
d’uopo di fraudi per sostenersi a fronte di tutti gli eventi? L’ipocrita, l’impostore fatica per
apparir virtuoso, ma l’uomo onesto lo sarà e per sentimento altrui e per propria coscienza;
e la coscienza è il primo giudice che noi dobbiamo rispettare e temere.
I primi suffragi di noi stessi li dobbiamo ricercare in noi stessi. Quando un malvagio
è scoperto, al disprezzo comune deve necessariamente unire quello del proprio
convincimento, nel che consiste il primo e il più tremendo gastigo della colpa. Lo studio,
fatto con cuor retto e col fine di migliorare la propria natura, contribuisce prodigiosamente
al conseguimento della bontà, perché chi studia cerca la verità, e la verità è come una
fiaccola accesa da Dio per guidarci al possesso del vero bene. Rifletti, Ciro mio, a queste
ragioni, e parlane coi dotti tuoi Superiori che ti sono in luogo di padre. Io non posso così di
lontano che accennarti qualche punto che l’esame e il discorso ti debbono sviluppare in
tutta la loro ampiezza e illuminare di tutto il loro splendore.
Dimmi, Ciro mio: come senti freddo? — Reciti al teatrino quest’anno?
Tutti, e specialmente Antonia ti salutano. Pochi giorni addietro parlai di te
lungamente al Sig. Avvocato Gnoli.
Riveriscimi i tuoi Sig.ri Superiori ricevi le benedizioni e gli abbracci della tua
Mammà. Ti stringo al cuore, e sono il tuo aff.mo padre.
LETTERA 233.
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[Roma, 20 gennaio 1836]
Mia gentilissima amica, nulla di più sconcio che le cose fuor di proposito. Avrei
pertanto dovuto non mandarvi oggi le qui unite melensaggini che scrissi ieri pel
libercolaccio il quale dovrà usurpare nel Vostro baule uno spazio assai meglio occupabile
anche da un paio di calze da scarto. Ma il desiderio di dimostrarvi che ancor lontana dalla
vista non potete esser remota dal pensiero di chi Vi conosce, mi han fatto bravare le
convenienze. Due altre considerazioni contribuiscono pure alla risoluzione, un po’ strana
per verità in riguardo alla circostanza penosa della Vostra famiglia: l’una cioè riposta nella
mia speranza che la Cecchina stia oggi meglio di quello che ieri sera mi annunziò
Biscontini: l’altra appoggiata alla vostra libertà di leggere o non leggere le mie sciocchezze,
secondo il vario consiglio dell’animo.
Se nulla è al Mondo di che io oggi mi dolga, ciò è il vedere come io sia stato profeta
circa alla infermità della vostra buona sorella. Ah! così avesse voluto ascoltare le insistenze
di un querulo amico! Ma non volgiamo gli occhi all’indietro. Percorriamo invece con ogni
specie di voti e di auguri il lieto giorno della ricuperata salute, ed il momento di gioia che
dopo quello la attende. Salutatela in mio nome, e mostratele calma onde trasfonderne in
lei.
Riverisco la Signora Lucrezia, e mi confermo con tutti i sentimenti degni di Voi
Di casa, 20 gennaio 1836
Vostro servitore ed amico
G. G. Belli
208
LETTERA 234.
AL CONTE FRANCESCO CASSI — PESARO
[21 gennaio 1836]
Gentilissimo e rispettabile amico
Mi fu il giorno 14 recapitata la obbligantissima Vostra del 7 relativa al passaggio
delle vostre stampe farsaliche dalle mie alle mani del Sig. Pietro Biolchini segretario del
Giornale Arcadico. In quel giorno io guardava il letto per reuma, male da cui pochissimi
vanno immuni in questo rigidissimo inverno. Si dovette pertanto rimettere l’operazione ad
altro giorno, e fu infatti eseguita nel Martedì 19. Poche notizie, come ben potete
comprendere, sono io stato in caso di procacciare al Sig. Biolchini de’ fatti antichi, e meno
schiarimenti per l’azione futura, dappoiché dopo la transmissione che pel mezzo della
Diligenza io vi feci il 29 luglio 1830 di tutte le carte relative alla cessata gestione del
Cavalletti, onde fossero da Voi e dal Sig. Bontà esaminate, io rimasi privo di qualunque
documento che potesse aiutarmi a riannodare nella mia mente o avviare nell’altrui un filo
qualunque di questa per voi poco fortunata orditura. Ma se, ripresi in qualche modo i capi
della spezzata tela, potesse mai riuscirvi utile in qualche parte la mia meschina
cooperazione, Voi, col Sig. Biolchini e chiunque altro vi rappresenti, mi troverete sempre
ilare e pronto a’ vostri servigi.
Che poi dirò della cortese liberalità Vostra nel dono di un esemplare del nobilissimo
vostro lavoro? Io non so come abbia potuto da Voi meritarmi un sì prezioso regalo. Ma nel
tempo stesso che ho in me vanamente cercato i titoli a tanto favore, non ho saputo pure
trovarmi animo a rifiutarlo. Lo accetto dunque, e l’aggradisco quanto si deve, cioè
moltissimo; e, valendomi delle vostre facoltà sulla scelta della carta dell’esemplare, ho
creduto tenermi egualmente lontano da’ due estremi, e scegliere il mezzo. Mi sono per
conseguenza ritenuta una copia in carta velina bianca di ciascuno de’ 4 fascicoli. Così i
quadernetti che vennero presso di me in deposito in numero di 428 sono in oggi da me
stati consegnati al Sig. Biolchini in n° di 424. Il Sig. Biolchini poi, che naturalmente era
istruito del tratto di vostra cortesissima a mio favore, mi ha promesso che ricevendo egli i
mancanti fascicoli del compimento dell’opera, mi farà in Vostro nome tenere quelli che
dovranno completare il mio esemplare.
Due occupazioni ho io oggi avute relative a Pesaro. L’una piacevolissima, cioè questa
lettera a Voi che tanto stimo ed amo: l’altra assai ingrata, ma pure indispensabile, cioè la
spedizione di una citazione al Sig. Marchese Antaldi, col quale, avendomici Voi così bene
avvicinato nella mia dimora a Pesaro nel 1830, avrei pure voluto conservare per sempre
buona ed onesta armonia. Ma poiché il Sig. Marchese Ercole, attuale guidatore delle
faccende e degli interessi della nobil famiglia, mi ha usato il poco urbano contegno di non
rispondere neppure alle mie lettere di molti mesi (lettere, voglio dirlo, cortesissime) non
mi resta che la via spinosa che dovetti battere allora.
Comandatemi, mio caro e rispettabile amico e credetemi sempre Vostro aff.mo a.co e
serv.e Giuseppe Gioachino Belli.
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 21 gennaio 1836.
LETTERA 235.
209
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[Di Roma, 31 gennaio 1836]
Dacché i primi studi delle storie e della ragione politica dei popoli principiarono a
svilupparmi un senso nella parola di Patria, il sommo pensiero che abbia di poi occupato
continuamente il mio spirito quello si fu delle cause della italiana decadenza, non che di
quella specie di fato che questa già sì potente e pur sempre nobilissima terra mantien vile e
derisa. Vane, se non al tutto ingiuste mi parvero ognora le querele d’Italia contro la
violenza straniera, quando la principale vergogna debba ella vederla sul proprio volto, e il
roditor verme suo vero cercarlo nelle stesse sue viscere. Succedute le cupidigie dell’oro
all’amor della gloria, all’ardire l’insolenza, agli stenti de’ campi l’ozio e le lascivie, e alle
magnanime imprese le discipline del fasto e del triclinio, la pubblica vita divenne privata,
e, sciolto il gran vincolo simboleggiato sapientemente ne’ fasci de’ littori, ciascun uomo si
raccolse in se stesso, non più cospirando al comun bene ma inteso all’individuale suo
comodo. Surse allora uno scettro su milioni di spade, e la servitù di ciascuno segnò il
termine dell’impero di tutti per dar principio ad una nuova grandezza, falsa ed instabile,
perché scompagnata dall’universale interesse che è anima e vita delle nazioni.
Or voi, gentilissima amica, rimarrete per avventura stupefatta come e perché da sì
pomposo esordio io discenda a parlarvi di tanto esigua cosa quanto pochi miei versi, il cui
debole suono si perde e smarrisce per entro al romore di quelle vaste vicende.
Meditava io appunto nell’anno 1825 sui miseri destini di queste nostre belle contrade,
allorché l’Amor-personale, vecchia ed eterna origine delle italiane sventure, venne a
dividere gli animi di un romano sodalizio, che dal culto de’ numeri musicali s’intitolò
Accademia Filarmonica. Il malnato scisma separò l’onorevole instituto in due distinti corpi,
né l’uno né l’altro de’ quali poteva bastare a se stesso. Parvemi quella discordia circostanza
atta e pretesto per levare alto la voce, e, sgridando i miei sconsigliati cittadini su quello per
sé oscuro suggetto, far balenar a’ loro occhi una luce dileguatasi in tanta abbiezione e
dimenticanza de’ civili doveri.
Composi quindi e pubblicai la Canzone che qui appresso vi transcrivo, né volli darle
alcun titolo speciale, vagheggiando la speranza che ne’ più svegliati de’ miei lettori potesse
entrare almeno un dubbio che io sotto lievi apparenze avessi forse occultato più sublimi
verità, non concesse dalla condizione dei tempi a libero esame. Varii difatti penetrarono il
mio intendimento: il massimo numero però non ne trasse altro giudizio fuorché della
sproporzione di que’ miei clamori ad una meschina lite fra musici.
Ma a Voi, entrata oggi a parte del mio segreto, cosa rimarrà oggi a dire dei miei
poveri versi? Null’altro se non che piacciavi usar loro indulgenza, non minore
dell’amicizia con che onorate in ricambio la mia servitù.
G. G. Belli
Roma, 31 gennaio 1836.
LETTERA 236.
AD AMALIA BETTINI — ROMA
[1 febbraio 1836]
Carissima, amica,
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l’anima umana è come uno strumento musicale, in cui, benché taciti, si nascondono
gli elementi di tutti i tuoni, gravi o acuti, malinconici o lieti. Non aspetta essa che il tocco
esterno onde manifestare la sua occulta potenza, e non solo del suono provocato ma di
tutti gli altri ancora corrispondenti al sistema della sua propria armonia. Così tu leggi un
di que’ libri che colpiscono la immaginazione tosto ti si risveglieranno mille sensazioni di
che tristezza forse t’ignoravi capace, e un vortice d’idee nuove e sconosciute sorgerà a far
eco a quelle con cui un’arcana legge le pose in analogia, stabilendo fra loro quasi un
metafisico magnetismo. Ecco, io ho letto l’Antony, con tanto sapere e passione da Voi
tradotto; e per tutt’oggi è certo che io penso come Dumas. Ma domani? Maraviglioso
ingegno! Il Mondo aveva una nuova faccia, ed ei l’ha dipinta. La di lui Adele muore assai
più sublime di Lucrezia.
Vi rendo il Vostro manoscritto, avvisandovi che per questa generazione esso non sarà
mai cosa da Roma.
Conservatemi la grazia della vostra amicizia.
Il vostro servitore ed a.co
G. G. Belli
1° febbraio 1836.
LETTERA 237.
AL CONTE FRANCESCO CASSI — PESARO
Di Roma, 4 febbraio 1836
Mio rispettabile amico
Nella vostra lettera 28 gennaio, giuntami contemporaneamente col 5° fascicolo della
vostra Farsaglia che graziosamente volete donarmi, ho veduto un novello documento
della non simulata compitezza che vi distingue fra i dotti d’Italia, e del come un generoso
animo possa di buona fede illudersi fino al punto di attribuire a’ giusti suoi ammiratori
una parte del proprio merito e la stessa luce che da lui su quelli si spande. Che sono io?
Che so? Cosa ho fatto pel Mondo e per Voi, onde abbiate a prodigarmi sì lusinghiere
espressioni, le quali, se io non le sapessi partite da cuore ingenuo, mi umilierebbero dove
oggi mi tentano a vanità? Né vogliate già sospettare che così Vi parli per sostenere con Voi
una gara di complimento: ché troppo male risponderei alla sincerità vostra, e mostrerei di
sconoscere la vera indole dell’amicizia di cui è proprio talvolta il dir falso colla intima
persuasione del vero.
Voi mi onoraste a Pesaro della vostra familiarità: avemmo insieme franchi discorsi
che ci apersero scambievolmente il fondo del nostro spirito; ma niuna lusinga doveva
restarmi che da’ quei colloqui, pe’ quali io penetrava il vostro ingegno, avesse in Voi
potuto passare un concetto di me da esserne in oggi chiamato a mover giudizio sopra una
vostra opera già lodata da lodate penne, e da tanti desiderata, e, quantunque ancora
incompleta, citata pur già non di rado dove avesse ad allegarsi Lucano. Nulladimeno,
poiché in ogni caso nel negare il proprio suffragio a chi lo richiegga per quanto esso vale,
la umiltà assumerebbe forma di scortesia, io Vi dirò brevemente (e lo giurerei, dove fra
onesti uomini abbisognasse) poche versioni de’ classici essermi sembrate tanto nobili e
splendide e veramente italiane quanto questa da Voi intrapresa del difficilissimo poema
dell’ardito cantore di Cesare e di Pompeo. A Voi esperto nella storia delle umane tristizie
non parrà maraviglia se le strida delle mulacchie spesso levinsi a soffocare il canto de’
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cigni. Ma che perciò? Le poche medaglie de’ genii sorgeranno sempre dal fiume dell’oblio
per andar depositate dal tempo nel tempio glorioso dell’immortalità. E questa è già
vecchia peste d’Italia che dove balena una luce là molti soffii maligni corrano a spegnerla:
contenta piuttosto la invereconda ignoranza alle tenebre universali che non ad un raggio
rivelatore della di lei turpitudine. Ogni opera dell’uomo porta le impronte della frale di lui
natura: sufficiente prova lo stesso vostro originale, malgrado delle sue tante parti sublimi.
Ma come le civili critiche, criticabili anch’esse possono avvicinare un lavoro alla perfezione
per quanto la perfettibilità umana il consenta, così i sarcasmi e gli oltraggi debbono quasi
far credere esservi giunto: perché lo scherno è carattere d’invidia; e quella sozza non morde
mai in basso. A queste parole sono io trasceso per solo intendimento di calmare in Voi una
specie di peritanza in cui Vi veggo ondeggiante nel bilanciare il vostro oro colle spade
insolenti dei Brenni della Letteratura. Voi dispregiate, lo so, le ciance di chi non sa usar
meglio sua vita che logorando l’altrui; ma nuda di esterni conforti difficilmente la vera
modestia non si rattrista in segreto de’ tentativi della maldicenza, e non dubita se fra i vani
clamori si nasconda alcun germe di giustizia e di meritata severità. Animo, amico caro e
rispettabile: onorate, siccome sempre faceste, gli urbani consigli, de’ quali piccol’uopo
anche avete, ma ricordatevi insieme che un vasto mare non si solca senza procelle e pirati.
Cercherò di vedere il Sig. Biolchini per udire da lui se io possa per qualche modo
cooperare a’ vostri vantaggi, non ostante la mia nullità e l’isolamento in cui di ragione son
tenuto e mi tengo.
Se avete occasione di trovarvi col Sig. Marc. Antaldo Antaldi Vi prego fargli
conoscere i giusti motivi delle mie ostilità.
E con tutti i sentimenti degni di Voi mi confermo
Vostro aff.mo ed ob.mo amico G. G. Belli.
LETTERA 238.
AD AMALIA BETTINI — LIVORNO
[27 febbraio 1836]
Mia carissima Amalia,
i versi qui precedenti erano già da dieci giorni destinati a servir di risposta: oggi
invece vi verranno come proposta. Capite? cioè, è meglio dire mi spiego? perché la mala
intelligenza è più spesso vizio delle lingue che degli orecchi. Insomma, facciamoci a parlar
chiaro: io aspettava a bocca aperta, ad occhi aperti, a braccia aperte, ad anima spalancata,
qualche vostra notizia, e mi era intanto quelle 1595 sillabacce rimate e acciabattate su Iddio
sa come, per darvi mala paga a segnalato favore; ma le notizie si sono azzoppicate per via,
o affogate fra le nevi dell’Appennino. Fintanto dunque che non vada il cane di S.
Benedetto a cacciarnele, e tutte intirizzite me le porti a riscaldarsi con me, io voglio mo
spedir loro incontro i miei peotici arzigogoli. Ne già vi fumi pel capo il ghiribizzo di
credermi impastato di quella tal pasta perugina che pretenderebbe una lettera per minuto:
il cielo ce ne scampi. Io conosco bene la vostra arte, i vostri impegni, le vostre brighe, i
vostri cassoni, i vostri denti, la vostra... vogliamo dirlo? diciamolo, la vostra poltroneriola,
e tutte le altre vostre cosette. Eppoi, eppoi, non siamo noi già di amore e d’accordo che mi
avreste scritto quando il Signore ve ne spedisse la vocazione? Per questa volta però non
siamo nel caso. Voi siete partita contro voglia; avete viaggiato in cattivo tempo; siete
andata lontano (al conto ch’io faccio) 13.500 miglia, quante ne corrono agli antipodi del
212
Vaticano; potevate aver sofferto; noi, dico noi, soffrivamo delle vostre possibile
sofferenze... Dunque? Dunque l’aspettazione non è ascrivibile a petulanza; ma sibbene ad
piam causam, come diconci sempre i nostri buoni sacerdoti quando vogliono le cose a modo
loro. Ma la Bettini non ha potuto scrivere. Va bene: scriverà dunque quando potrà, e
intanto scrivo io che ho il calamaio bell’e ammannito. Sapete? Un Ferrettino è nato
domenica 21, alle 7 della mattina, a far compagnia alle sorelle; e lunedì 22, alle 6 della sera
andò in chiesa a farsi chiamare Luigi. Fra i sorbetti io dissi:
Servo suo, signor Giachimo.
Date un bacio per me a Vostra Madre, perché sappiate che uno gliene ho dato da me
stesso quando partì, e non me ne pento. In quanto poi alla Cecchina, l’è un altro paio di
maniche. Stringetele la mano con mia procura sino a farle gridare Caino. E a Voi? A Voi
mille affettuose parole. E quando mi risponderete, ché pure una risposta me la sono
promessa, badiamo ai pronomi. Da Voi a me io non sono terza persona, ma seconda. Circa
poi al numero attribuitemi quello che Iddio v’ispira, benché il singolare.
È più gentile assai, fa più buon bere.
De’ saluti di Mariuccia ve ne do colla canestra sì per voi che per la Sig.ra Lucrezia e
per la Cecchina. E quell’angiol di Angiol Biscontini? Si farà i fatti suoi da sé. Sono il vostro
G. G. Belli
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, sabato 27 febbraio 1836.
Mentre io stava chiudendo questa letterina per mandarla alla posta, eccoti una cara
epistoletta data di Livorno il 23. Oh va’ a dire che la Mamma del corriere potesse con
ragione rimproverarlo d’essersi presa una scalmatura! L’epistoletta è firmata da una
Amalia B. Quanti bei nomi potrebbero portare sulle spalle quella testa del B.! Ma un foglio
sì caro e disinvolto e obbligante non saprebbe essere stato scritto che da una Bettini, la più
cara, la più disinvolta, la più obbligante donna ch’io mi conosca. Dunque io rispondo alla
Bettini, e vado a colpo sicuro! Quanti orrori mi dipingete, mia amabile amica! Raccapriccio
nel ravvicinare per un momento l’idea della vettura rovesciata al pensiero di Voi. Sieno
grazie al cielo a mani giunte perchè in Voi preservò noi da disgrazia. Qual maraviglia del
vostro incontro? Andate a declamare a’ Turchi, agl’Irrochesi, e li convertirete tutti in
lingua italiana, come gli apostoli convertivano in lingua ebraica i greci e i latini. Eppoi già
avete udito Coleine, e basta. Ed io povero Daniello grido e griderò sempre: anzi diventerò
un Giona, e tuonando alla mia patria, se non vi richiama presto, le intimerò il tremendo
quadraginta adhuc dies etc. Però il mandare d’accordo la sollecitudine del vostro ritorno con
quella de’ miei desiderii mi pare più lavoro da patriarchi che da profeti. E voi fate leggere i
miei scarabocchi? E non avete più in mente l’epigramma del frontispizio? Va bene; se pel
mondo non commetteste qualche sproposito, sareste troppo pericolosa. Beato il Mascherpa
che ha una buona quaresima! e più beati i Livornesi che per voi l’hanno ottima! La
quaresima romana è veramente quaresima, specialmente dopo quel carnovale che oggi è
fuggito a Livorno. Voi mi chiedete versi, ed io vi aveva prevenuta. Un Daniello non si
smentisce mai. Vi saluterò la famiglia Ferretti, con la quale non ho sin qui parlato che di
due persone, dell’Amalia cioè e della Bettini, perché voi sola valete per due, e dico poco.
Biscontini vi risponderà nel venturo, mille brighe forensi gli assorbiscono il po’ d’ora che
rimane alla sera. A questo punto della mia lettera datele un’occhiatina da capo a fondo
come fece Giacobbe a quella tale scaletta, e poi dite in coscienza se non si chiami pagar la
posta a ragion veduta. In un foglio di carta un archivio!
213
G. G. B.
Mi chiedete se vi permetto un abbraccio. Eh! Figuratevi se questo cuore arde.
Servitevi pure e riprendetene da me cento, e tutti da galantuomo. C’è più carta bianca?
LETTERA 239.
AD AMALIA BETTINI — LIVORNO
Roma, 29 febbraio 1836.
Alla mia prima celia coleiniana non vi sdegnate, amabilissima amica, se mando
appresso questa ingamiense. Elevato da Voi alla dignità di vostro poeta cesareo, se non di
Vostro consigliere aulico, io non posso tradire un ufficio che mi compiaccio confondere
con la idea di prerogativa. Eccomi dunque Vostro Menestrello, Vostro bardo, Vostro
trovatore, e con tanta mia maggiore felicità in quanto la religione e la legge non ancora vi
posero al fianco un Raimondo di Rossiglione il quale trattandomi da secondo Cabestaing
vi desse a mangiare un cuore disposto in tutto a piacervi fuorché nelle pentole di cucina.
Acuta di mente come gentile e tenera per natura, dovete aver penetrato l’unico fine dei
miei fabliaux, quello cioè di trastullarvi se mi riesca, a far sì che un pensiere da Voi rivolto
a questa vecchia città si accompagni per via ad un sorriso ravvivatore de’ brevi diletti che
abbiate potuto gustarvi fra le glorie della vostra virtù presa ne’ più bei sensi del
vocabolario. Niente di male in Voi, niente di male in me, niente di male in nessuno.
Ridiamo, carissima Amalia, giacché a questo siamo quaggiù condannati, che le gioie
dobbiamo fabbricarcele quasi tutte da noi, la spontaneità appartenendo presso ché
esclusivamente al dolore. Ma quale de’ due, o l’eroe o il cantore, farà miglior figura in
questa poetica mediocrità?
Di ch’io mi vo stancando e forse altrui?
giudica tu che me conosci e lui
(Petr.)
Voleva mandarvi la mia novella intitolata Una storia cefalica, benché il domenicano
l’abbia mutilata appunto nel nodo ove andavano a riunirsi le fila e l’intendimento
dell’invenzione. Il di più ve lo avrei scritto a penna; ma al momento dell’addio a questa
lettera la stampa sta sotto il torchio. Il mio Ciarlatano è tuttora sullo scrittoio del
Reverendissimo, e chi sa! Sto adesso scrivendo in parecchie favolette la vita di Polifemo.
Forse sarà fatica gettata. Tout pour le mieux; e che viva Maître Pangloss. Mettetemi alle
ginocchia delle Sig.re Lucrezia e Cecchina, come io mi pongo ai vostri piedi chiedendovi la
santa benedizione.
Il V/° aff.mo a.co e s.re
G. G. B.
LETTERA 240.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 12 marzo 1836
Mio caro Torricelli
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Ti sei mal rivolto per l’emendazione del tuo disegno: io non sono dell’arte; e se pure
una volta misi la bocca e le mani nel monumento per l’avello di tuo padre, allora fu mio il
concetto, ma lo espresse un artista.
La inscrizione del Muzzi mi pare, almeno nella prima metà, alquanto impicciata, e la
tengo per una di quelle belle cose che vengono dette bellissime quando alla mostra di esse
preceda quella del nome del loro autore. È assai difficile, io credo, che gli effetti di una
sensazione antecedente non si spargano sulle susseguenti e non le modifichino, allorché vi
s’interponga un rapporto unisono con ciò che in noi regna come opinione stabilita. Da due
punti si può partire per misurare una estensione qualunque. Nella scala proporzionale del
merito epigrafico Muzzi sta al sommo grado, come io (se facessi epigrafi) mi troverei al più
basso. Mettiamo per un momento quella inscrizione nel bel mezzo, e ravviciniamo poi ad
essa i due nomi: l’uno discenderà per quanto l’altro s’innalzi; e quando si ritrovassero uniti
al livello, la perdita del primo equivarrebbe al guadagno del secondo.
Quindi, se l’avessi scritta io, dovrei forse andarne superbo: dal Muzzi peraltro si
poteva sperare un po’ meglio. Che se io, inetto al fare, mi azzardo tuttavia al dire, so che il
giudizio […] talvolta sua rettitudine nel solo intelletto aiutato dai confronti
dell’esperienza. Pochi sapranno p.e. disegnarti una foglia, eppure molti diranno con
ragione: quell’albero non me lo presenterebbe la natura quale io qui lo veggo dipinto. Nel
nostro caso concreto, oltre la tua ossequiosa prevenzione in favore del Muzzi, un principio
di trasporto verso chiunque accarezzi le tue predilezioni, può in te confondere gli atti del
cuore con quelli della mente, ed alterare i termini dell’equazione ne’ calcoli della tua stima;
cosicché se al Muzzi e alla sua epigrafe si volesse attribuire la formula A+B per esprimere
due quantità uguali ad X, tu vi sostituiresti i valori positivi 1+1 = 2 là dove io direi 1 + ½ =
1 ½.
Nulladimeno il tuo giudizio che fosse di tanto caduto sotto la influenza della
passione poté essere di altrettanto rettificato dalla conoscenza dell’arte sulla quale si
aggirò, intantoché il mio sentimento nato nell’ignoranza dell’arte può anch’esso
ravvicinarsi al vero per la opposta via della mia equanimità relativamente al soggetto
donde prende la prima origine il tuo trasporto, cioè l’amore: poiché tutte le cose al mondo,
ed anche le astratte, son capaci di quantità, e le qualità contrarie insieme si elidono quando
fra loro esiste uguaglianza. Volendo pertanto compromettere in altri le nostre contrarie
sentenze, tutta la indagine del nostro giudice dovrebbe, penso, ridursi al sapere se abbiasi
a dar più peso nel tuo giudizio all’azione del maggior sapere, o nel mio a quella della
miglior tranquillità d’animo. E qui confesso che non mi presenterei al tribunale con
soverchio coraggio. Ristringerò quindi col ripetere che la epigrafe non mi pare indegna di
lodi la quale a te sembrò bellissima; ma al tempo stesso bramerei, per tuo conforto, che tu
t’avessi più ragione di me, e che in quella tenera epigrafe non esistesse difetto.
Terminata la cicalata, è tempo di venire agli abbracci.
Il tuo G. G. Belli
LETTERA 241.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Roma, 29 marzo 1836
Mio caro Ciro
215
Mi arreca molto piacere l’aggradimento da te dimostrato al libretto che ti mandai.
Esso alla mole è ben piccola cosa, ma, come tu stesso saviamente dici, può molto e dilettare
ed istruire. Volendo dargli una scorsa di lettura ti servirà ciò per iscandagliare la quantità
e qualità di materie in quello contenute; ma non è a questo scopo di lettura seguìta e
ordinaria che simili opere sono immaginate e dirette. Tutti i libri che hanno la forma di un
dizionario, tutti i repertorii ordinati col sistema alfabetico non ad altro mirano fuorché a
soccorrere uno studioso al momento di qualche speciale occorrenza su tale o tal’altro
soggetto. E chi leggendo solamente dal principio alla fine un vocabolario di lingua si
lusingasse di imparare quella lingua a quel modo, farebbe ridere sino Eraclito che in vita
sua sempre pianse. È vero che in quel vocabolario tutte si troverebbero le parole della
lingua e le frasi e tutti i modi del dire; ma che perciò? tutto quello che va come per salti
nella mente, e non vi si colloca con metodo, e non vi rimane a far parte di una serie d’idee,
svanisce presto e si perde, seppure non fa di peggio. La perdita di qualche notizia
acquistata sarebbe un male non tanto grave: il danno più forte consiste nel disordine e
nella confusione a cui si abitua la nostra mente nell’afferrare qua e là idee e sensazioni non
disposte fra loro con alcuna armonia. Una catena avrà cento anelli: se tu me li presenti tutti
scomposti e isolati in un canestro, non solo io non avrò da te una catena, ma quasi neppure
comprenderò a quale uso mi potrebbero quelli servire. Uniti però essi e insieme collegati,
ecco in un momento la lucida comprensione del tutto: ecco la catena: ecco quel corpo unico
benché composto di cento parti, delle quali una sola che si afferri tira seco al debito uso
tutte le altre compagne. Perché, Ciro mio, i nomi o i cognomi delle persone si dimenticano
così facilmente senza un lunghissimo uso di ripeterli? Perché i nomi delle persoti non
hanno alcun rapporto né alcuna connessione necessaria con chi li porta; e tu invece di Belli
potresti chiamarti Cambi, e saresti sempre quello stesso uomo che sei. Il nome dunque non
è sì necessariamente congiunto colla tua persona o colla tua effigie che il solo vederti
debba a chi ti vede ricordare come ti chiami, quando costui non abbia col molto praticarti
supplito per via di abitudine al lieve fondamento su cui appoggiano e riposano l’idea di te
e l’idea del tuo nome, accidentalmente fra loro accozzate e senza (dirò così) un cemento o
una colla che le unisca insieme per necessità di raziocinio. Moltissimi uomini si lamentano
della loro cattiva memoria, ma se l’avessero presto coltivata e aiutata in gioventù
coll’ordine e col metodo, quante e quante cose non piangerebbero poi dimenticate!
Tu dunque leggi per ora, se vuoi, il mio libretto, ma questo sarà un solo passatempo:
per rendertelo veramente utile, come qualunque altro libro composto nella forma di un
dizionario, è necessario che tu vi ricorra spesso alle opportunità, le quali saranno
frequenti. P.e. parlerai o penserai ai vantaggi recati all’uomo dalla scrittura? Corri sul
libretto a cercare carta e inchiostro. Tuttociò che allora leggerai di questi due oggetti resterà
impresso nella tua mente perché anderà ad ordinarsi in una serie di idee che la mente
aveva già disposta e incominciata, né così un’idea caccierà l’altra come una incognita
forestiera. Se questa mia lettera ti riuscirà, come dubito, oscura e duretta, prega il gentile
Signor Rettore a spiegartela in mio nome. — Nella mia antecedente ti dimandai se tu
avessi qualche desiderio da soddisfarsi: tu non mi hai risposto. Rispondimi dunque, ed io
procurerò di appagarti. Il giorno 12 aprile tu compirai 12 anni, cosicché quel dodici del
mese sarà il più solenne di tutti gli altri dodicesimi giorni di aprile che vedrai scorrere nella
tua vita. Fa’ dunque in quel giorno un forte proposito di essere un uomo virtuoso e
onorato. Io verrò a trovarti verso la fine di maggio, e allora ti porterò quello che
lecitamente avrai desiderato e chiesto al tuo Papà che ti ama tanto. La tua Mammà ti
abbraccia e benedice di cuore come faccio io. Gli amici, i parenti, i domestici e
specialmente Antonia, ti salutano. Tu riverisci da mia parte i Signori tuoi Superiori. Se il
216
vetturale non è tornato a prendere la cassetta, ci penserò poi io medesimo. — Il tuo aff.mo
padre.
LETTERA 242.
AL MARCHESE ANTALDO ANTALDI — PESARO
[24 maggio 1836]
Veneratissimo Signor Marchese
Per farmi più breve l’amarezza di questa lettera io Le risparmierò il racconto dei
modi coi quali il Signor Marchese Ercole Suo figlio mi strascinò a spedire la citazione per
scudi quaranta che in nome di mia moglie Le fu presentata il 9 febbraio pp.to, giorno di
martedì e perciò postale per Pesaro. Fu allora che, scosso il Sig. Marchese Ercole da
quell’atto della mia risoluzione, ruppe il Suo ostinato silenzio e mi scrisse una lettera con
data del giorno anteriore (lunedì 8), ricevuta da me il dì 11, nella quale schivando ogni
discorso intorno alla citazione venne ripetendo le solite promesse indeterminate e le
consuete dimande di nuove tolleranze da aggiungersi alle vecchie così mal corrisposte.
Risposi io il 13 accusando le tante delusioni della mia buona fede e deferenza, e
nulladimeno conchiudendo che avrei accordata per gli scudi quaranta una ultima dilazione
sino a tutto il mese di Marzo se al cader di detto mese mi avesse pagati scudi sessanta,
stanteché coincideva in quell’epoca la maturazione del terzo trimestre di frutti arretrati. E
per tutta garanzia della mia tolleranza e della sospensione degli atti non dimandai che la
di lui positiva parola d’onore. Replicò il Sig. Marchese e mi richiese di estendere la
dilazione sino allo spirar d’aprile, pel qual tempo mi assicurò del pagamento degli scudi
sessanta, sulla sua positiva parola d’onore. Ripetendo io il 23 concessi la proroga alla parola
d’onore del Sig. Marchese, purché il danaro fosse in Roma il dì 30 aprile. E così, messi da
parte gli atti giuridici, io viveva tranquillo sopra un pegno che un Cavaliere stima non solo
più della roba ma anche più della vita. Arrivato però il mese di maggio senza l’arrivo della
somma promessa, mi feci lecito il giorno 7 di dirne due altre convenienti parole al Signor
Marchese Ercole, aggiungendogli essere io purtuttavia convinto della superfluità della mia
lettera imperocché senza dubbio a quel giorno il danaro doveva essere in viaggio. Eppure
io m’ingannava, perché il Sig. Marchese, accusando un’assenza da Pesaro, non mi
riscontrò prima del 15 per dirmi che la diligenza che passerebbe da Pesaro il sabato 21 mi
avrebbe portato scudi trenta, cioè la metà, essendogli stato impossibile nel momento (sono le di
lui parole) di potere accozzare l’intiero. Se questo si chiami soddisfare ad una positiva parola
d’onore io lo faccio decidere a Lei, uomo di nobil nascita e di più nobile ingegno. Ma pure
v’è di peggio, dappoiché questa mattina è arrivata la diligenza, e i ministri m’han detto
nulla esservi di Pesaro per la mia famiglia.
Prima dunque di riaccingermi ad una nuova e durevole guerra, a cui sono spinto da
viva forza, io ho voluto dirigere a Lei questi miei ultimi lamenti, affinché Ella, fatta
consapevole dei giusti motivi della mia collera, non trovi maraviglioso il mio chiuder
d’orecchi ad ogni altra futura proposizione. Svanita una volta fra due civili persone la
parola d’onore, non resta altra garanzia se non quella comune anche ai volgari, cioè la
forza della giustizia.
Io mi rammarico assai, e forse più di Lei, di questa asprezza, e tanto più dopo che
l’ultimo momento da me passato in Pesaro nel 1830 mi aveva inspirato lusinga che fra noi
nulla più di spiacevole si eleverebbe. Né mi dica al Sig. Marchese Ercole essere affidata la
217
amministrazione della famiglia. Ella n’è il capo, ed a Lei perciò mi sono rivolto. Ho l’onore
di ripetermi, Signor Marchese,
Suo dev. ob.mo servitore G. G. Belli
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 24 maggio 1836.
LETTERA 243.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, sabato 18 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Giunto in questa Città alle 4 pomeridiane e avendo buono spazio di dimora sino alle
4 del mattino di domani, ho voluto darti un’anticipazione di mie notizie nel medesimo
tempo che tu, come dicesti, mi stai dando le tue dirette a Perugia. Alla presente tu non
rispondermi fino a che non avrai avuta la mia prima perugina.
Il viaggio fin qui è stato felicissimo, e tale spero il rimanente.
Ecco la mia compagnia. Io sono al primo posto: alla mia sinistra siede una perugina
la quale tiene più al basso che all’alto se si deve arguire dallo stia comido che mi va spesso
ripetendo a motivo di una figlioletta di cinque anni che dorme tutto il giorno fra noi due e
ha scelto me per prestarle uficio di materasso. Incontro alla donna si trova il tenente
Frantz, il quale non pare nemico e molto meno nemico vecchio di lei. Dirimpetto a me è un
Sig. Francesco Soncino, giovane, ed è quel tal cugino dell’Avv. Grazioli, che doveva partir
giovedì. Avrai udito ieri il legno a retrocedere sulla nostra piazza: ebbene si tornò a
prender lui a SS. Apostoli, mentre alla prima passata di là non trovarono il palazzo. Dietro
le spalle del Soncino è un frate conventuale, e dietro quelle del tenente, cioè accanto al
frate sta il sergente armato di fucile, cosicché sembriamo una carrozzata di dio-sa-chi.
Ho parlato con Vannuzzi e Babocci etc. Tutti ti salutano. Io aspetto buone nuove
della tua salute e ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
P.S. Mille cose a tutto il mondo da mia parte.
LETTERA 244.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, martedì 21 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Nel riscontrare la tua del 18 mia prima cura e principal desiderio sarebbe di
occuparmi delle cose concernenti la tua salute per me preziose sopra ogni altro bene; ma
poiché ti suppongo anelante di avere da me un discarico intorno allo stato in cui ho
trovato Ciro, principio da questo articolo. Essendo io giunto ieri mattina un po’ troppo
tardi per potermi recare a vederlo, mandai subito qualcuno ad avvertirlo del mio arrivo e
ad annunziargli la mia visita pel dopo-pranzo. Fu trovato tutto allegro e in grande
occupazione per allisciarsi bene da tutte le parti onde farmi buona figura al mio giungere.
218
Io dunque ci andai il giorno ed entrai la porta nel medesimo punto in cui terminavano le
scuole: erano 22 ore. All’improvviso vidi da una folla di ragazzi in fondo al corridore
staccarsene uno di gran carriera con tutti i libri sotto il braccio e col calamaio in mano, e
gettarmisi addosso. Indovini già chi potesse essere. Ci abbracciammo e baciammo, e
quindi subito mi dimandò: come sta Mammà? Bene mi ripugnò il cuore di dirglielo, nel
momento che tu soffri tanto: mi riparai pertanto dietro uno di que’ mezzi-termini che
giovano al mondo, e gli risposi eh ringraziamo Iddio, nella idea che sempre ci suggeriscono i
predicatori di lodare la provvidenza così del bene come del male. Il povero figlio fu colto
al cristiano lacciuolo, e rimase soddisfatto. Salimmo quindi alle camere del Rettore
parlando e di te e della nostra famiglia: ivi feci l’esposizione de’ donativi de’ quali rimase
contentissimo, e te ne ringrazierà coll’ordinario venturo. Voleva farlo oggi, ma io ho
creduto dividerti in due volte le nostre notizie: in questo modo ti parranno doppie. La di
lui salute non può desiderarsi migliore: è veramente un ragazzo che consola a guardarlo,
colorito, robusto, vivace, lietissimo. È cresciuto colla sommità della testa al mio mento: ha
fatto una mano pochissimo più piccola della mia, ma più polputa e tenera: il piede poi è da
apostolo. Ora abita una bella, spaziosa e allegra camera con due finestre verso la
campagna: quella di prima era più angusta e con un solo balcone che guardava l’interno
del collegio. Il pianforte e ogni altro mobile stanno in questa nuova stanza assai ben
situati, e la luce e l’aria che vi si gode han potuto anch’esse contribuire al far sì che io non
abbia trovato un baiocco di debito collo speziale a conto di Ciro. Ne vuoi di più? — Dello
studio i superiori son contenti, e così dell’indole amabile del caro nostro figlio che si fa
gradito a tutti. Egli mi suonò un pezzo di musica, in cui dice avere assai faticato per la
parte del basso piena di tuoni e di posizioni. Intanto le di lui dita arrivano già all’ottava in
sui tasti. Ti dico io che poveretto chi avesse uno schiaffo da Ciro! — Le calze nere gli
furono ricapitate. — Del libro dell’adolescenza è rimasto assai contento perchè già lo aveva
un di lui compagno, Mosti di Ferrara. Il Giovedì poi gli è piaciuto a dismisura, e non l’ha
nessun altro. Egli ti abbraccia, bacia, e chiede la benedizione. Saluta quindi Antonia,
Domenico, e tutti gli amici e i parenti.
Il mio viaggio non poteva riuscire più felice se ne togliamo il pensiere della tua salute
che mi segue sempre. La notizia che mi dai del nuovo vescicante mi rattrista per una parte
conoscendo il bisogno che te lo procurò; ma dall’altra mi fa crescere la speranza di udirti
per esso più presto fuori di queste calamità. Sii paziente, mia buona Mariuccia, e coopera
colla tranquillità dello spirito alla guarigione del corpo. — Non trovai Bucchi a Spoleto;
ma parlai colla moglie e gli lasciai tutto. Egli partendo il dì innanzi per urgenza di uficio
l’aveva prevenuto del mio passaggio. Io poi lo vidi la sera a Fuligno dove fece ricerche di
me. Farà tutto pulito. La moglie è rimasta soddisfattissima dello scialle. Addio, mia cara
Mariuccia, ti abbraccio di vero cuore e sono il tuo P.
LETTERA 245.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, sabato 25 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Non credo di abbandonarmi alla lusinga se dalla lettura de’ tuoi caratteri del 23 io
traggo soggetto di vive speranze intorno alla prossima e stabile tua guarigione dopo tanti
spasimi coi quali te la sei ricomprata e dopo tutti i sospiri che ce ne costa il ritorno. La più
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breve durata degli assalti del tuo male e la loro tanto minore intensità, andando di pari
passo col rimarginamento delle piaghette del capo, mi sembrano dover annunziare una
generale e assoluta cedenza di tutto il complessivo disordine in cui la tua salute era
caduta. Il tardo momento però, cioè l’epoca della stanchezza del morbo, nel quale io
suggerii l’applicazione della nota erba, non può farmi troppo insuperbire sulle vere
cagioni del tuo miglioramento circa alla supurazione che volevamo arrestare.
Nulladimeno, se di qualche giorno o di qualche ora avesse quel rimedio per avventura
contribuito all’acceleramento del desiderato beneficio, sarebbe sempre questo per me un
motivo di viva consolazione, ed anzi io voglio perfino illudermi sulla positiva efficacia
della mia ricetta onde accarezzarmi una vanità in armonia colla mia affezione per te. Lo
capisco, il primo merito della tua guarigione, che io già vagheggio assicurata, si deve
attribuire alla cura de’ tuoi professori; ma pure mi piace di crearmi un orgoglio simile a
quello della mosca che arava sulle corna del bue.
Troppo è stato il piacere causatomi dalla tua lettera perché io ti rimproveri
l’infrazione del precetto che ti avevo dato di non iscrivermi di tuo pugno. Ti ringrazio
quindi della tua premura in mancanza di segretarii: potevi però esser persuasa che non mi
sarebbe sfuggita la considerazione dell’angustia del tempo nell’ordinario di giovedì,
tantoché il non aver visto oggi le tue lettere non mi avrebbe messo in pena, per la facilità
dell’attribuire questa mancanza al suo vero motivo. — Il nostro caro figlio sta sempre
come un fiore, ed a quest’ora avrai avuto la di lui lettera di giovedì 23. Nel dopo-pranzo di
detto giorno egli stette sempre con me. Gli ho questa mattina per mezzo del maestro di
musica mandati i tuoi saluti, e dimani (domenica) andrò io medesimo a trovarlo e lo
abbraccerò e benedirò in tuo nome.
Col Sig. Bianchi, il quale mi aveva raccomandato Regaldi, ho fatto molte risate sulla
maniera di agire di costui. Bianchi me lo diresse, assediato dalle di lui premure onde venir
raccomandato a qualcuno. — Insomma ha fatto quattrini: ecco per lui l’interessante. Ora
non avrà da far altro che lasciar Roma e trinciarle i panni addosso, parendogli forse di aver
guadagnato poco.
Qui fa caldo: figurati a Roma!
Di’ a Biagini, se lo vedi, che sto aspettando qualche occasione per mandargli il cerotto
da Frontini. Salutami lui e tutti gli amici, e i domestici, e chi chiede di me. Abbiti cura
scrupolosa, e ricevi mille abbracci dal tuo aff.mo P.
LETTERA 246.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 30 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Malgrado il licenziamento dei professori e la guarigione esteriore della testa, sento
purtuttavia con rammarico non essere tu ancora esente dal male primitivo, le cui reliquie ti
affliggono ancora e ti tormentano di tempo in tempo. È un gran destino! Né potendo tu
ancora occuparti in nulla, perché Mariuccia mia cara non mi mantieni la promessa già
fattami, di scrivermi cioè per altrui mano? A buon conto la tua del 28 l’hai dovuta vergare
in due tempi. Dio lo sa se il vedere il tuo carattere mi consola, ma questo mio piacere è
distrutto dall’idea del danno che può arrecarti lo scrivere.
220
Comprendo che il secco modo che tien Ciro nel suo carteggio può amareggiare una
madre amorosa quale tu sei: ti assicuro però, mia cara Mariuccia, che nostro figlio sente
ben più di quello che esprime: egli mi chiede sempre di te con molta premura e si mostra
gratissimo alle molte prove del tuo amore. Non affliggerti pertanto di questa apparente
tiepidezza: egli ti ama assai e conosce a fondo quanto ti deve: prova di che ti sia l’ardente
desiderio ch’egli avrebbe di rivederti durante il suo corso di studi. Che vuoi fare,
Mariuccia mia? È un ragazzo, ed i ragazzi come anche moltissimi adulti quando sono a
spiegare colla penna i loro sentimenti non sanno da che parte principiare né cosa dire.
Credimi, il di lui cuore è buono ed affezionato, ma, fintantoché non ristarà in mezzo a noi,
difficilmente ne potremo ben conoscere e valutare le affezioni. Quando questa mattina l’ho
rimproverato della di lui freddezza e brevità soverchia della di lui lettera a te, ha fatto gli
occhi rossi e mi ha pregato a chiederti scusa in suo nome. Perdonalo, Mariuccia mia, ed
assicurati che Ciro è e sarà un buon figlio. Il carattere poi più o meno carezzevole dipende
dalla natura, né egli n’ha colpa. — Spero sabato 2 di potere per mezzo di un impiegato di
questa posta mandare franco per via della diligenza, o diretto a Parlanti o non so ancora a
chi altri, il pacchettino di cerotto per Biagini con sopraccarta al tuo nome e al tuo indirizzo.
Quando lo avrai avuto lo darai a Biagini, vedendolo. Il prezzo è di bai: 35 che ritirerai o no
come più crederai bene. — Cercherò la cunzia per Rotondi. — Dimmi quanti mazzi di carte
da giuoco vorresti. — Mi scrive Babucci dicendomi di non averti direttamente ringraziata
della procura Olivieri contro Camilli, perché sapendoti inferma ha temuto incomodarti. Si
esprime però verso di te con sensi di estrema gratitudine. Molte cose mi dice su codesto
affare che io non conosco, e credo che ne avrà tenuto diretto proposito con chi di ragione.
— Circa al terreno Marotta ne parleremo al mio ritorno. Un certo Piacentini ne aveva
avanzato qualche parola di compera, ma i di lui affari col fallito Camilli lo hanno per ora
fatto desistere da questa intenzione. In tutti i modi il terreno non resterá abbandonato.
Insomma, ne parleremo. — Intorno al 15 luglio il Professor Colizzi verrà a Roma, e
pensiamo, potendoci combinare, di venire insieme. Basta, o che egli acceleri o che ritardi la
di lui venuta, egli porterà a Roma la cassetta di Ciro, la quale gli ho progettata per un certo
di lui trasporto di libri, mentre il sesto ed ultimo tomo della sua opera è finito. — Ti dico
intanto una cosa in segreto: egli mi ha dimandato se io conoscessi qualche prete abile per
l’impiego di Vice-Rettore che va a stabilirsi in collegio. Io gli ho nominato l’Abate Fidanza.
Al mio ritorno li faremo abboccare insieme perché Colizzi prima di tenergliene proposito
lo vorrebbe vedere e parlarci. Se tu credessi intanto di scandagliare il di lui animo, fallo
pure, purché però l’Abate Fidanza non si mostrasse inteso della cosa avanti a Colizzi. —
Oggi porterò Ciro con me. Rendi i miei saluti a tutti, e credimi qual sono di tutto e vero
cuore
Il tuo aff.mo P.
P.S. La povera Nanna Cerotti sarà venuta da noi, eh?
LETTERA 247.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, sabato 9 luglio 1836
Mia cara Mariuccia
221
In questo ordinario non ho trovato alla posta tue lettere, segno che mi hai
compiaciuto nel non prenderti la scalmatura di rispondermi giovedì. Spero però di avere
tuo riscontro col corriere presente per avvisarti che la mia partenza di qui accadrà (salvo
impiccio) nel giorno del prossimo martedì 12. Il vetturino col quale ho già pattuito non sa
ancora dirmi se potrà partire la mattina o il giorno, né se impiegherà in viaggio tre
giornate o tre giornate e mezza. Per entrambe le dette due varietà di movimento io non
posso precisarti se il mio arrivo accadrà nella sera di giovedì 14 ovvero nella mattinata o
nella sera del seguente venerdì. Fra questi due estremi però io dovrei essere a Roma, ove
non si dasse qualche ostacolo impreveduto, potendosene frapporre al mondo tanti da non
mettere in alcuna pena. Per Ciro ho fatto tutto, lo lascio in floridissimo stato, avrò al
momento del mio partire passato ventitrè giorni presso di lui: è dunque ormai tempo che
ritorni vicino a te, dove potrò forse essere un poco più utile che qui. L’altro ieri condussi
Ciro a spasso con me e a prendere il gelato. Ordinai anche qualche pastarella: il caffettiere
ne portò alcune di varie specie: Ciro ne mangiò un paio, e poi disse esser meglio che il
resto se lo mettesse in saccoccia per avvezzarsi a mangiar tutto, non potendosi mai sapere
gli eventi del mondo. Così scherzò con molta grazia su quel tutto, sul doppio senso di
qualità e di quantità. È un gran furbaccio: di poche parole, ma pesate. — Jeri verso sera lo
trovai al passeggio, e mi fece una bella scappellatona guardandomi con quegli occhi di
fuoco. Questa mattina l’ho riveduto al collegio, dove sono andato affinché il Rettore mi
mostrasse gli altri romani. Con Ciro erano sette, cioè, tre Sartori, un Caramelli, un Grazioli
e un Fiorelli; e tutti in eccellente salute. Credo che tutti mi daranno qualche lettera per le
loro famiglie. Domani tornerò in collegio, e poi anche lunedì. Intanto prenditi tanti
abbracci e baci di Ciro nostro che ti chiede la benedizione e ti prega de’ soliti saluti.
A quest’ora avrai veduto Publio Jacoucci colla mia lettera e coll’involtino pel nostro
Biagini. Se questi verrà da te mercoledì a sera salutamelo e digli che Ferretti si penti del
primo elogio fatto a Regaldi, e poi gliene fece un secondo nello Spigolatore (insulso e
scorretto) del ’30.
Questa notte parte il Delegato che va pro-legato a Ferrara. Mi pare che la di lui
partenza accada tota plaudente civitate. Tu, figlia di Curia, devi comprender questa latino: se
no, chiama aiuto nella curia domestica. — Abbiamo a Perugia caldo e qualche tropea
periodica. In questo punto io scrivo fra i tuoni. Ti dico all’orecchio che Colizzi ha
dimandate informazioni dell’Ab. Fidanza, e le ha avute ottime. Egli però ha degli impegni
con altri soggetti. Basta, se al Fidanza converrà questo uficio, speriamo di superarli.
Bisogna però non mostrare che io ti abbia fatte queste confidenze anticipate.
Salutami tutti, Mariuccia mia, ed abbiti un abbraccio di vero cuore dal
tuo aff.mo P.
LETTERA 248.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 8 settembre 1836
Perché il Panzieri avesse copia della tua inscrizione era necessario che tu mi dicessi:
danne una copia a Panzieri. Ma tu non mi scrivesti mai quel comando, e posso affermarlo
con sicurezza perché tengo attualmente la tua nota sott’occhio. Se ora dunque hai tu detto
a qualcuno: ne incaricai Belli, sostituisci a queste parole le altre: voleva incaricarne Belli; e così
mi salverai dal nome di stordito presso il volgo ignaro. Faremo una cosa: ho ancora la
222
copia che non potei dare al Duca […]. Manderò quella al Panzieri, e sarai certo che almeno
non servirà ad uso di cartoccio per dolci o per fondo a un baule.
Il Cholera fa pensare ogni padre. Se mai... dà un occhio al tuo figlioccio. Tu lo vedi, io ti
rimando la tua stessa preghiera che non cadrà come seme in arena. — Egli, cioè Ciro, ha
ottenuto il primo premio in algebra e il secondo in umanità. A novembre s’inoltrerà più
nelle matematiche e nello studio dei classici. È un buon ragazzo, quieto, cortese, diligente,
ma insieme vivace come vuole età e robusta complessione. Tu rifletterai che vivace e quieto
fanno a calci. No, ha quieto lo spirito e vivace il corpo, o, se vuoi meglio, la quiete e la
vivacità regnano in lui come in Cielo Castore e Polluce: ognuna sorge alla sua ora. I
Superiori lo amano, ed io... se dicessi lo adoro toglierei temerariamente alla religione una
frase che neppure starebbe al concetto. Vorrei inventare un verbo nuovo per condensare in
una parola l’espressione di quanto io sento per lui. Figurati se il cholera verrà, come
verrà!... Te lo ripeto: al caso... dà un occhio al tuo figlioccio.
Tanto io rispondo alla tua lettera del 30 agosto, che non riscontrai prima d’oggi per
un forte motivo. Da molti giorni mia moglie è ricaduta nel medesimo male, che già non era
mai totalmente cessato, e soffre più di prima. Io non ho un momento di tempo né un filo di
cervello, e la mia casa è l’albergo della tristezza. Se tu mai capiti a Fano, o vi capita qualche
tuo amico, dì o fa’ dir da mia parte al Prof. D. Michelangiolo Lanci che io ho spesso
dimandato sue nuove a chi poteva darmene, e così della Sig.ra Vittorina di lui nipote. Digli
o fagli dire ancora essere finalmente pubblicato il 3° volume del Mezzanotte, il quale per
averlo ha dovuto litigare collo stampatore, e forse gli sarà necessario di assumere un altro
pe’ volumi futuri.
Il Conte Cassi terminò finalmente la sua impressione della Farsaglia italiana. Egli mi
fece cortese dono di un esemplare a mia scelta. Io scelsi la carta velina bianca. Non ho
ancora ricevuto il 6° fascicolo, ma non dubito di esser da lui dimenticato nelle spedizioni
che ne farà.
Abbraccia i tuoi figli a mio conto, non esclusa l’Adelina la cui età soffre ancora questo
atto di confidenza dal di lei suocero e tuo amico vero
G. G. Belli
LETTERA 249.
AL CONTE FRANCESCO CASSI — PESARO
[24 settembre 1836]
Pregiatissimo amico
Per graziosa disposizione della Vostra cortesia mi ha il Sig. Biolchini rimesso il sesto
ed ultimo fascicolo della Farsaglia fatta da Voi pomposa di splendida veste italiana.
Mentre per tutto il caro dono io mi affretto a significarvi la mia gratitudine, non so al
tempo stesso tacervi d’esser rimasto attonito nel trovare il mio nome fra quelli i quali,
chiari la massima parte di propria luce, sono da Voi destinati all’immortalità sì nelle vostre
carte come nel marmo che per quelle sorgerà ad onore della italiana sapienza. Se peraltro
io ve ne movessi querela offenderei certamente il pensier vostro delicato e vi darei forse
sospetto di poca veracità, incredibil parendo che senza eroica virtù l’umano amor proprio
sinceramente si sdegni di gloria meritata o non meritata, checché poi suoni in parole la
modestia convenzionale e fattizia della social civiltà. Vorrei soltanto farvi riflettere, dove
non vi apparissi anche in ciò troppo ipocrita, che la prerogativa di amico Vostro, di cui
223
senza dubbio io vado orgoglioso, potrebbe agli illustri de’ quali mi faceste compagno
sembrare al più un titolo di domestica benevolenza anziché un dritto a pubblica
testimonianza, postoché in me colle doti del cuore, non discare forse a qualche mio
contemporaneo, non si accoppiano i requisiti della mente necessarii a figurare fra i posteri
in compagnia d’ingegni assai più distinti. E non sarebbe forse probabile che la generosità
dell’amicizia vi avesse fatto illusione sino a cangiar natura e quantità al nulla o al
pochissimo da me operato in servizio della vostra nobile impresa? Ma basti, ché lo temo
non il linguaggio della verecondia avesse infine a condurmi alle frasi della inurbanità. A
voi piacque associare le mie felci a’ vostri lauri (perdonatemi questo marinesco seicentume),
ed io in tutti i modi vi ho un debito di gratitudine se non altro per la uficiosa intenzione.
Or che posseggo intiera la vostra versione prenderò a leggerla ordinatamente, onde
gustarne le bellezze al loro posto, cosa sino ad ora da me non eseguita, poiché troppo
riuscendomi grave il dovere interrompere per lungo tempo una interessante lettura, e
avendo pur voluto in qualche modo appagare la mia brama di conoscere il vostro lavoro,
sono andato tratto tratto scorrendo alcune parti, provviste tutte dei lor pregi speciali ma
prive di quello reciproco della continuità e proporzione.
Un’altra cosa io vi vuo’ dire. Voi avete promesso a’ vostri associati il dono di un
foglio di varianti. Io non sono associato, ma spero che il dono maggiore attrarrà a mio
vantaggio il minore, verificandosi anche in questo caso per vostra liberalità uno degli
assiomi i più divolgati. E se non mi credessi di soverchio ardito vi pregherei pure
favorirmi di quel tale commiato alla vostra traduzione, già son circa due anni dato da Voi
in luce, parendomi ricordarlo diverso dalla licenza con la quale chiudeste in oggi il
volgarizzamento. — Sono con sincera stima ed affezione
Il Vostro amico e servitore Giuseppe Gioachino Belli
palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 24 settembre 1836.
LETTERA 250.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 19 novembre 1836
Ciro mio
Non ho voluto che il Signor Biscontini partisse per Perugia senza recarti una mia
lettera. Spero che l’obligante pensiere del Signor Presidente nel destinarti una ripetizione
particolare nell’algebra ti sia riuscito piacevole e consolante. Ciò ti rafforzerà non poco
nella scienza del calcolo, necessarissimo a chi desideri bene avanzarsi e profittare nelle
scienze, dalle quali tanto conforto deriva e tanta dignità a chi le coltiva. Te lo ripeto, mio
caro figlio, e tu vedrai verificate le mie parole: questo è l’anno che principierà a scoprirti le
dolcezze che sinora ti sono rimaste nello studio nascoste. La geometria e poi la fisica
cominceranno ad aprirti la mente a sublimi verità celate a tanti e tanti uomini, benché la
maggior parte dei fenomeni che ad esse si appoggiano vada tuttogiorno cadendo loro
sott’occhio. E altrettanto dico della letteratura. Le bellezze dei classici non potranno
mancare di scuoterti l’anima, imperocché io mi lusingo che a te non manchi una spirito
capace di sentire e di sollevarsi a poco a poco dalle scipitaggini della fanciullezza, la quale
senza lo studio e perciò senza il sapore rimane in molti uomini eterna, cosicché essi
passano dalla puerilità alla vecchiezza possiamo dire di un salto, stranieri quasi al mondo
224
in cui vivono. Sappi, Ciro mio, che appena tu nascesti io dissi a tua madre: questo figlio un
giorno formerà la gloria della nostra vita e l’onore della casa nostra; e tanto io dissi perché era
sicuro che dandomi Iddio i mezzi non avrei nulla trascurato per indirizzarti al bene. Tu
devi adesso corrispondere alle mie intenzioni e a quelle analoghe di tua madre, non che
alle cure amorose e veramente paterne di chi veglia alla tua istruzione. Io non credo né
pretendo che tu abbia a far prodigi: a questi son riserbati gl’ingegni straordinarii; ma
perché Iddio non ti ha neppure negato un mediocre talento, trafficalo, Ciro mio, onde un
giorno non ti sia diretto il rimprovero del Vangelo al Serve nequam. Me n’esco in qualche
paroletta latina perché so che a quest’ora tu la debba intendere.
Dunque il Sig. Rettore ti assisterà privatamente in algebra. Corrispondi, Ciro mio,
con diligenza e gratitudine alle di lui premure, e fammelo udire contento di te.
Mammà ti abbraccia e benedice come faccio ancor io. I parenti, amici e domestici ti
salutano.
Antonia vorrebbe sapere se tu hai bisogno di camicie, calze o altro. Chiedine al Sig.
Felicetti e rispondimi su questo proposito, affinché si possa principiare a tempo il lavoro
delle cose necessarie. Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, e credimi
tuo aff.mo padre
LETTERA 251.
AL SIGNOR NATALE DE WITTEN — ROMA
nel di Lui giorno onomastico 25 dicembre 1886
Quando, Signor Devittene mio bello,
Nella Santa mattina di Natale
Sente romor di passi per le scale
E poscia tintinnare il campanello,
Dica pure: ho capito, è il servigiale
Col solito rimato indovinello
Che mi manda quel màghero cervello,
Quel moccicon del mio compigionale.
Ella però, Signor Natal, sa come
Io mi chiami Giuseppe, e qual contatto
Sia fra il suo ne’ Vangeli ed il mio nome.
Lascio dunque che il padre putativo
Si rallegri in Natal, benché in quel fatto
Non ebbe uficio totalmente attivo.
G. G. Belli
LETTERA 252.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 30 gennaio 1837
225
Mio caro figlio
Dalla tua lettera del 26 rilevo il gradimento col quale ricevesti i regaletti che il Sig.
Vetturale volle portarti a comodo suo.
Circa ai risultamenti degli esami di prima letteratura, non che ai successi nella stessa
facoltà in tutto il trimestre, non vi è stato male: nella geometria però mi pare che si sia
zoppicato. Io so che buona parte della mediocre riuscita negli studi un po’ gravi dipende
in te da mancanza di sufficiente attenzione. Tu sei troppo sbadato, ti abbandoni spesso più
del dovere e ti distacchi con pena dai passatempi, dai quali Ciro mio, non ricaverai
null’altro fuorché pentimento del tempo perduto. I sollazzi son fatti unicamente per
ristorare le forze dello spirito affaticato, e in questo senso anch’essi presentano la loro
utilità anche all’ingegno come alla salute del corpo: ma se un infermo volesse prendere
due o tre dosi di medicina tutte in un colpo, o accelerare troppo i periodi nell’uso di esse,
in luogo di guarire ne morrebbe. Sii riflessivo, Ciro mio caro, pènetrati de’ tuoi doveri,
persuaditi del fine a cui son dirette le occupazioni di un giovanetto bennato, e pensa che
gli anni passano e non si ricuperano mai più. In ogni tua lettera (sul fatto degli esami) ho
sempre letta questa espressione: speriamo che nel futuro trimestre andrà meglio; ma vorrei che
questo benedetto meglio arrivasse veramente una volta. Se tu non fossi in realtà capace di
far più, ti compatirei e prenderei da te quello che si potesse: ma tu l’ingegno lo hai, quando
vuoi servirtene: tutto il tuo difetto, e in tutte le cose, consiste in una soverchia leggerezza
di carattere che ti rende indifferente quanto merita di venir gravemente considerato. Ciro,
oggimai non sei più un bambino, e fra sei o sette anni (che formano la metà della tua vita
già scorsa) il Mondo può già pretendere da te qualche cosa, e chiederti conto del tempo
impiegato e dei mezzi consumati per divenire degno dell’altrui stima. E bada, Ciro, bada,
che gli uomini giudicano se stessi con indulgenza ma gli altri con severità. Se io vivrò
nell’epoca della tua gioventù e della tua virilità, sono sicuro di udire da te la confessione
delle verità solenni che ti vado ora prodigando con poco frutto e forse con minor tua
persuasione. Avresti un gran torto se non prestassi fede a tuo padre, a un padre che tanto
ti ama e rinuncerebbe di buon grado alla propria felicità per la tua, quando lo stesso tuo
bene non formasse tutto intiero il suo contento. Credimi dunque, figlio mio, e abbandona
le tue puerilità. Studia con senno, ed applica di buona fede a quello che fai. Un altro
argomento voglio addurti per ultimo. Tua madre ti promette di venire a visitarti se
riceverà migliori notizie intorno alle tue applicazioni. Ascolta finalmente i consigli de’
buoni tuoi Superiori, e riguardali come voce di Dio. — Tutti ti salutano. Mammà ti
benedice, ed io con essa. Son il
tuo aff.mo padre
LETTERA 253.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 22 febbraio 1837
Ciro mio
La tua lettera 9 corrente mi ha cagionato un indicibile piacere, né minore è stata la
gioia che ne ha risentita la tua buona ed affettuosa madre. Io era sicuro che la promessa di
una visita di Lei, a condizione di un maggiore impegno in te pe’ tuoi studi, ti avrebbe
scosso e riempiuto di nuovo ardore nella bella carriera che devi correre onde benemeritare
di Dio, de’ tuoi genitori e della civil società. Ma se il novello stimolo ti ha punto, e se i
226
successi de’ tuoi studi ne verranno migliori, ciò prova pure che le forze e la capacità di far
meglio non ti mancavano. Godo io quindi che l’amor di figlio sia entrato a far parte di
questa tua metamorfosi da svogliato in attivo, ma aggradirò insieme di vederti in futuro
zelante de’ tuoi doveri non solo per la lusinga delle ricompense (di qualunque natura esse
vogliansi), ma bensì per la intima e schietta convinzione che il bene operare è bello e
buono in se stesso. Io voglio assolutamente che tu divenga un ometto di garbo, un
individuo un po’ distinto dalla turba degli uomini volgari, una personcina insomma da
eccitare in altri stima e desiderio, e non disprezzo e nausea: e gl’ignoranti e i viziosi han
sempre fatto nel mondo questo bel guadagno di nausea e di disprezzo. Quanto è dolce,
mio caro Ciro, il presentarsi a’ suoi simili con tali meriti che ci guadagnino un’accoglienza
festosa e onorata! Di qual conforto riesce il girarci gli occhi dattorno e veder dovunque al
nostro apparire il sorriso della compiacenza! Non per verità né per orgoglio si vuol
procurare questo trionfo, ma pel rispetto che ciascuno deve a se stesso, ma per l’omaggio
che da tutti merita la virtù. Non ti parlo poi dei vantaggi più sostanziali riserbati all’uomo
onesto e sapiente. Per lui non v’è miseria, se però alla onestà e alla sapienza imparò ad
accoppiare la umiltà, la piacevolezza e la disinvoltura. Studia dunque a coltivarti lo spirito
e il cuore, e, te lo assicuro, sarai felice; anzi saremo felici, perché la tua formerà sempre la
mia felicità.
Fammi il piacere di consegnare la qui unita lettera all’ottimo Sig. Presidente Colizzi, e
riveriscimi i Sig.ri Rettore e Vice-Rettore.
I parenti e gli amici ti salutano: ugualmente i domestici e in ispecie Antonia.
Abbi cura della tua salute e ricevi colle mie benedizioni quella di Mammà che ti
abbraccia di tutto cuore come faccio io
tuo aff.mo padre
LETTERA 254.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 21 marzo 1837
Carissimo figlio
Non volli riscontrare a suo tempo la tua del 2 corrente per vedere se mancandoti
l’occasione di una mia lettera da rispondervi avresti avuto memoria di scrivermi
spontaneamente nella ricorrenza di San Giuseppe. Mi sono ingannato supponendoti un
po’ più riflessivo che al tempo passato. L’unica circostanza che ti scuserebbe da questa
negligenza sarebbe una indisposizione di salute. Questa cosa però mi dorrebbe assai, e
perciò non voglio neppure pensare a supporla. Sarà dunque stata colpa del solito
cervelletto vuoto del Signor Ciro Belli, il quale al 12 di aprile termina 13 anni ed entra in
14, e ancora fa il pupazzetto. Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, ricevi le benedizioni e gli
abbracci della tua Mammà aggradisci i saluti de’ parenti, amici e domestici che ti
augurano le buone feste, e ricordati un po’ più del tuo
aff.mo padre
LETTERA 255.
AD AMALIA BETTINI — LIVORNO
227
Di Roma, 29 aprile 1837
Carissima Amalia,
18 marzo 1836! Sarà dunque ora di rispondere alla vostra livornese di sì vecchia data;
e questa benedetta ora sarebbe giunta molto più presto se io stesso non avessi creduto di
ricevere riscontro da Voi ad una mia contemporanea, che s’incontrava con quella in
cammino, affidata da me alla casa ebrea di commercio Cave e Bondì, da cui doveva esservi
rimessa colla diligenza che meritate voi idol del vecchio e nuovo testamento. Se Belli risponde
subito all’Amalia, io diceva, e l’Amalia risponde subito a Belli, eccoti un altro
incrocicchiamento di lettere, ecco altre dimande di cose già dette, ecco un assalto di
scherma, di cui le bôtte e le parate si mischiano e si confondono con le parate e le bôtte.
Una buona e regolare corrispondenza deve andar come il giuoco della palla: battuta e
ribattuta; ché allora còntansi bene i falli, e guai a chi se la lascia cadere. Ma voi zitta, ed io
quieto: uno aspettava l’altro, e ci ponemmo a sedere perché non avevam fretta nessuno dei
due. Poi partiste, giraste, forse balzata dal cholera qua e là... chi vi poteva arrivare?
Altronde, se pure la colpa esclusiva del silenzio era mia (e me ne voglio persuadere), tanto
faceva poi trenta che trentuno: mi buttai alla macchia, a chi s’è visto s’è visto. Saluti vostri
per verità ne sono andato ricevendo; né io, diciamo le cose come stanno, ve ne ho respinti
pochi o pel mezzo di Ferretti, o pel canale indiretto di Quadrari, o pel retto organo del
buon Coleine, il quale, per parentesi si è messo a fare il fornaio, cosicché quando (e sia
presto) tornerete a Roma i più bei maritozzi della metropoli saranno per Voi, benché
invece di un maritozzo io vi desidererei piuttosto un marito, né voi, spero mi vorrete dar
torto. Insomma, alle corte, lo riceveste o no quel mio foglio dai figliuoli di Giuda? Esso vi
portava quattro ciarle in prosa e più di quattro chiacchiere in versi, strette e stivate sulle
tre pagine quanto il popolo tra le panche di Valle quando declamavate la Lettrice e quelle
altre diavolerie da farlo singhiozzare più di S. Pietro al canto del gallo. Io vi dirigeva una
seconda epistola intitolata Niente di male come la commedia di Bon, con la sola differenza
che la commedia di Bon è bella, e la epistola dio ce ne scampi. Se l’epistola é volata nella
luna, niente di male anche qui: ne conservo l’originale, e se ne potrà cavare altra copia
quando non vi disgusti il rubare un quarto d’ora alle vostre più geniali occupazioni per
abbandonarlo alle mie povere cicalate.
Ho saputo le vostre malattie e quelle della Mamma, che sono pur vostre, e me ne
sono veramente rammaricato. Come state ora l’una e l’altra? Ditemi bene, altrimenti vo’ in
bestia, ciocché accadrebbe senza uscir di me stesso. Mariuccia, or più or meno, è sempre
inferma, ed ha inoltre quasi affatto perduta la vista. Veramente vive la poverina assai
mesta e caduta d’animo. Io me la passo benuccio e neppure mi ha sino ad ora visitato la
grippe, ospite di tutte le case, dazio di tutti i petti, esercizio di tutte le lancette.
Infine dalla vostra ultima lettera, che ho sotto gli occhi, è scritto: Addio, poeta cesareo:
un ultimo abbraccio dalla vostra aff.ma Amalia. La prima frase vale un tesoro, la seconda un
Perù. L’esser vostro poeta aulico potrebbe far battere il cuore anche ad un Byron: il
ricevere poi un abbraccio, benché incartato, dalla propria adorata sovrana (e qual
sovrana!) deve scaldare il sangue anche d’un rettile fino al grado della ebullizione. Ma
circa al poeta cesareo Voi a Roma mi dicevate di più. Mi dicevate: Quando io sarò regina (e
in un certo senso lo siete sempre stata) voi diverrete il mio poeta e il mio consigliere di gabinetto.
Eh, in quanto al poeta mandiamola buona: quel consigliere però... quel consigliere!... Il
passato non darebbe gran lusinga per l’avvenire. Che se voi... Chissà!... Ma passiamo a un
altro discorso.
Non posso, a rigore parlando, farvi i saluti di anima nata, avendo io afferrata la
penna all’improvviso, per modo d’insorgenza, in un impeto d’inspirazione, mezz’ora
228
prima che parta il corriere. Le vocazioni bisogna ascoltarle subito, Amalia, altrimenti si
rischia di perdere l’anima e il corpo: questo almeno è il dogma che popola i nostri
conventi: al resto ci pensano i catenacci. Ciononostante, meno quella povera vittima di
Presidente, tutti m’avrebbero empite le orecchie di mille belle parole per Voi se avessero
saputo ch’io vi andava a scrivere. Ricevetele dunque anticipate, e senza scrupolo, perché
già son certo che me le restituiscono prima di notte e con qualche cosetta d’usura.
E la Cecchina che fa? quella cara, quell’affettuosa appiccicarella? Ma io che mi era
creato suo compare, eh! come vanno le cose de sto monno! Già, come dice quello? L’uomo
propone e dio dispone. — Non se move fojja ch’er Signore nun vojja. — Matrimoni e
Vescovati stanno in celo distinati. — Chi pecora se fa er lupo se la magna. — Er lupo muta
er pelo, e er vizio mai. — Acqua quieta vèrmini mena. — Fidasse è bene, e nun fidasse è
mejjo. — Nun se dice quattro fin che nun sta ner sacco. E che risponde quell’altro? Chi la
fa l’aspetta. — Le montagne nun s’incontreno. — Non tutte le palle ariescheno tonne. —
Tanto va la gatta all’onto che ce lassa er pelo. — Tanto va er secchio ar pozzo sin che ce
lassa er manico. — Dio non paga ogni sabato, ma la dimenica nun avanza un quattro
gnisuno. — Ogni medajja ha er su’ roverzo. — De maggio puro se fa notte. — Er tempo è
galantomo. — Cor tempo e co la pajja se matureno le nespole. — La vipera s’arivorta ar
ciarlatano. — Si l’oste ne coce per tutti ce n’è. — Chi la tira la strappa. — Ar bervede’
t’aspetto. — Nun sempre ride la mojje der ladro: e via discorrenno. — Intendiamoci,
perché non nascano equivoci: tutte queste belle gentilezze sulle spalle di quel cuor di Bireno
e faccia di Bertoldo.
Stringete la mano affettuosamente alla Mamma e alla Sorella, e ponete a mio debito,
seppure nel libro-mastro della vostra memoria v’è intestata, la mia partita.
Ricevete finalmente da me un savio e rispettoso... che cosa?
Quello con cui chiudeste la vostra lettera del 18 marzo 1836. — Sono il vostro
servitore ed amico.
G. G. Belli
LETTERA 256.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 11 maggio 1837
Mio carissimo figlio
Dalla cortesia del Signor Avvocato Grazioli ebbi la tua lettera 2 corrente. So che vai
preparandoti per gli esami trimestrali, e ne attendo ansioso il successo. Nel venturo
giugno io verrò a riabbracciarti e a rallegrarmi con te de’ profitti che tu possa aver fatti in
questo altro anno di studio dacché non ci siamo veduti. Ciro mio, la tua buona Mamma si
ricorda di averti promesso una visita se tu la meritavi con buoni portamenti di studio e di
condotta, e la sua voglia di rivederti è sempre ardentissima; ma non credere, mio caro, che
se ella non viene ti manchi di parola. Da qualche tempo la di lei salute è un poco
sconcertata, benché in modo non serio né allarmante, e per ora non potrebbe forse esporsi
al disagio per lei nuovo del viaggiare. Non ti mettere perciò in pena, Ciro mio: Mammà non
istà veramente male, ma deve soltanto osservare un certo regime che le prescrive un
metodo di vita piuttosto uniforme, onde più presto riprendere il suo primiero florido stato
e allora con maggior sicurezza e soddisfazione procurarsi il piacere di rivedere un figlio
229
che tanto ama. Vivi dunque lieto, studia e renditi sempre più degno del nostro affetto che
non ha limiti al di qua di quanto in natura è possibile.
Vedrai il Sig. Biscontini, e ti darà ulteriori notizie di noi. Egli si trattiene in Perugia
pochissimi giorni.
Ritorna i miei rispettosi saluti agli ottimi tuoi Sig.ri Superiori ed alla obligantissima
Signora Cangenna allorché la vedrai.
Tutti al solito ti salutano, e fra i primi Antonia. Mammà ti abbraccia e benedice con
me
tuo aff.mo padre
LETTERA 257.
AD AMALIA BETTINI — LIVORNO
Di Roma, 27 maggio 1837
Veramente, mia cara e buona Amalia, allorchè null’altro si abbia ad offerire fuorché
scorze spremute di agrumi o vuoti baccelli di fave fa sempre miglior figura chi si presenta
colle mani in mano. Nulladimeno questo modo di farmivi innanzi, quando fosse alquanto
frequente, trasgredirebbe di troppo un certo vostro precetto, che, sebbene vecchio e forse
da voi stessa dimenticato, purtuttavia di tempo in tempo reclama osservanza, poiché una
legge rimane sempre obbligatoria sino a che non venga abrogata dal legislatore.
Prendetevi dunque ciò che posso darvi, e operate da clemente sovrano chiudendo gli occhi
sulla entità del tributo di un suddito poverello. Voi volete qualche volta versi da me: io
non aveva altri versi che quelli: sicché o magna sta minestra o sarta sta finestra, dicono le
nostre buone lane di Roma. Attualmente io bado pochissimo alla burrascosa letteratura:
sono tornato ai più pacifici studi delle scienze, astronomia, fisica, geologia... Un animo da
cui va fuggendo la gioventù abbisogna di calma; e le lettere, specialmente in certi tempi
ambigui, procurano pochissime ed effimere soddisfazioni. Gloria io non ne cerco, e sarei
da legare se ne covassi la pretensione. Dunque che fare per non traversare la vita fra gli
sbadigli e il tedio d’esser nato? Osservar la natura. La dolcezza, Amalia mia, che si trae
dalla contemplazione dell’universo non può trovar paragone ed apre all’uomo una tutta
nuova esistenza. I miei libri di parole sono pertanto ora chiusi per dar luogo a quelli di
cose. Porto rammarico del faticoso stato in cui vivete. Ma nella vostra professione gran
piaceri e grandi pene! E poi quando vi attaccate coll’animo a qualche paese, eccoti le
Ceneri e simili altri giorni di tristezza, e da capo in pellegrinaggio. Avrei voluto
inchiodarvi a Roma, ma fatalmente non posso disporre del chiodo del destino. Non so
darmi pace della inutilità dei rimedi che tentate in soccorso della vostra Mamma. E a
Roma con pochissima cura stava tanto benino! Ah! quel chiodo! quel chiodo, ditele mille
affettuose parole in mio nome, ed altrettante a Checchina appiccicarella. E della Marietta
che n’è? sta bene? è sempre con voi? Salutatemela se c’è. Mi faceva lume per le scale con
tanta buona grazia! Mariuccia sta un poco meglio, ma non degli occhi. Essa vi ritorna tutte
le cordiali espressioni che le usate. Ma che tempi, eh? che stagioni! che annate! che secolo!
Teta Ferretti con la figlia Chiara sono a Frascati da varii giorni, e presto ne ritornano
col bambino allevato. Giacomo e le altre due figlie Cristina e Barbara stanno qui e
m’incaricano di salutarvi a tutte e tre.
Sono sinceramente il V/°
G. G. Belli
Palazzo Poli, 2° piano
230
LETTERA 258.
AL CONTE FRANCESCO CASSI — PESARO
[3 giugno 1837]
Gentilissimo amico
Tutto avrei aspettato tranne potesse una Vostra lettera giungerrni causa di cordoglio:
imperocché, non essendo ciò immaginabile in verun altro contatto con Voi, se non per
rispetto a qualche Vostra sventura, avevate negli ultimi anni troppo sofferto per temersi
serbata dalla Provvidenza anche una prova, e la più acerba, al Vostro coraggio. Io che
conobbi Colei che piangete, e le virtù sue, e la lieta semplicità che le abbelliva, so
apprezzare la perdita da Voi fatta, e tanto maggiormente me ne addoloro con Voi, mio
povero amico, quanto meglio m’è noto il vostro cuore affettuoso e l’amor tenero che vi
chiudevate per una figliuola amabilissima, esempio delle sue pari, conforto invidiabile de’
Vostri giorni in quella parte appunto della vita in cui languendo a’ nostri occhi le esteriori
attrattive di un mondo pieno di fallacie, ci cresce a proporzione il bisogno delle
domestiche dolcezze. Or come prestarvi consolazione in così desolante calamità? A voi
nulla vien nuovo di quanto in simili circostanze san dire la religione e la filosofia.
Abbandonati pertanto i comuni conforti a chi debba toccare animi al Vostro inferiore, io
rispetto in silenzio le lagrime che spargete, e Ve ne imploro anzi dal Cielo copia (se è
possibile) ancor più larga, dappoiché nell’abbondanza di quelle trovasi pur talvolta dai
disgraziati quasi un risarcimento de’ mali senza rimedio. Nulladimeno io desidero che
quanti amici godono su me il vantaggio non dell’attaccamento alle Vostre qualità, ma della
vicinanza alla Vostra persona, Vi si raccolgono intorno, e con delicate sollecitudini
procaccino di accelerare a pro Vostro il momento in cui suol la natura finalmente ai
profondi dolori sostituire ne’ travagliati petti la pace malinconica della rassegnazione.
Accogliete, infelice amico, le meste parole qual lugubre consuonanza del Vostro giusto
lamento; e poiché Vi odo invocare dall’altrui compassione alcun amorevole refrigerio,
pensate se debba io sinceramente compiangere al Vostro danno, io padre siccome Voi
eravate di unica prole, la cui esistenza fra tanta caducità delle umane cose forma
l’incessante pensiero delle mie speranze e de’ miei timori.
Sono di vero cuore.
Di Roma, 3 giugno 1837
Il Vostro ob.mo e aff.mo amico
Giuseppe Gioachino Belli
LETTERA 259.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 6 giugno 1837
Mio carissimo figlio
E ti pare che io debba non esser contento di te? Sono invece contentissimo, ed
altrettanto è contenta la tua buona Mammà, la quale ti abbraccia e ti benedice mille volte.
Quei tre male e quei sei mediocri in entrambe le facoltà sono così vinti e superati dai 52 bene
231
e dagli 84 ottimi che peccherei forse di sottigliezza se li andassi a pescare nella tanta acqua
che li sommerge. Certo, in questo trimestre hai ottenuto dalla tua diligenza successi ben
superiori a quelli del trimestre precedente. Spero però, Ciro mio, che non vorrai stancarti,
ma seguitare alacremente allo stesso modo. E chi sa? chi sa non possa venire un trimestre
di tutti ottimi? Ti parrebbe tanto difficile? Eh, nell’urna dei possibili, c’è anche questa
possibilità. Figurati allora le cioccolate! figurati i premi al fine del corso annuale! Ma ciò
sarebbe pur nulla a riscontro colla gloria attuale e il vantaggio futuro. Basta, ad ogni modo
io ti ripeto che sono assai soddisfatto de’ tuoi portamenti. — Se nulla di contrario ci si
frappone io conterei di partire da Roma il 24 per venire a riabbracciare il mio Ciro. In
risposta alla presente dimmi con franchezza se tu abbia qualche desiderio che noi
possiamo soddisfare.
Ritorna, Ciro mio, i miei rispetti ai Sig.ri tuoi Superiori, al Sig. Prof. Mezzanotte e alla
Sig.ra Cangenna. Gli amici, i parenti, i domestici, e specialmente Antonia seguono a dirti
mille cose obliganti. Addio, Ciro mio caro: ti abbraccia e benedice
il tuo aff.mo padre
LETTERA 260.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Terni, 25 giugno 1837
Mia cara Mariuccia
Due righe per dirti che sono arrivato bene in questa Città alle 11 antimeridiane. Fra
mezz’ora si riparte e si deve mangiare. Sono fuggito a vedere i Vannuzzi. Ho veduto le
donne perché egli non era in casa. Scrivo in piedi in piedi con un zeppaccio. Dammi per
carità tue notizie, abbiti cura e sii docile nel farti medicare.
Saluto tutti, e ti abbraccio in massima fretta.
Il tuo P.
LETTERA 261.
A MARIA CONTI BELLI — ROMA
Di Perugia, 27 giugno 1837
Mia cara Mariuccia
Siccome già avrai udito dalla mia di Terni, io arrivai colà ottimarnante, e con pari
buon viaggio giunsi in questa Città alle ore 7 ½ antimeridiane del giorno di ieri. Non mi
dilungherò quindi sulle altre particolarità del viaggio come di troppo lieve interesse, ed
anzi piuttosto inopportune pel motivo che ti ritarderebbero ciò che più brami sapere, cioè
le notizie del nostro carissimo figlio. Nessuno ha esagerato nel rappresentarcelo vegeto
sano e lietissimo: io l’ho trovato tanto bene quanto avrei saputo desiderarlo. È forte, è
florido, fa consolazione il vederlo. Va anche molto crescendo, poiché se l’altr’anno
arrivava colla sommità del capo a toccarmi il mento, in quest’anno mi tocca il naso; di
modo che tu puoi desumere presso a poco una misura, prima di veder la precisa e totale
che secondo il solito riporterò a Roma. Lo trovai nelle camere del Rettore, ascoltando la
sua ripetizione di matematiche. Mi vi condusse il Professor Colizzi, il quale appena udì
232
che io era giunto in collegio corse ad incontrarmi quasi barcollando per le scale, tanta fu la
fretta con cui le discendeva. Buono, ottimo vecchio! Egli sente profondamente il tuo stato,
siccome n’è pure rammaricatissimo Ciro benché io abbia con questi tenuto un linguaggio
più mite onde non affliggerlo senza utilità. Ho soltanto detto a Ciro che tu vai soffrendo di
qualche febbretta e di un certo mal d’occhi che t’impedisce di venire a trovarlo e di
scrivergli di tua mano. Il resto che gli ho tacciuto passerà poi anch’esso, e allora sembrerò
aver detto intieramente la verità. Ha egli ricevuto la cioccolata e l’acqua della Scala con
molto piacere, e te ne ringrazia mandandoti cento baci e chiedendoti la benedizione. Saluta
poi i parenti, gli amici e i domestici, con una speciale commemorazione per Antonia.
Questa mattina sono tornato a vederlo, e l’ho trovato al pianforte col M.stro Fani, a cui ho
già intavolato il mio discorso circa al termine delle sue lezioni. Il Rettore e il Pres. Colizzi
sono meco intieramente d’accordo sulla cosa e sul modo. Cercherò il M.stro Tancioni per
rinnovare con lui le pratiche, che saranno tanto più naturali in quanto è stato questi
recentemente assunto dai Superiori in altro Maestro del collegio, a scelta dei padri dei
convittori fra lui e Fani.
La Sig.ra Cangenna si è mostrata rapita pel dono del portatasche etc. Essa, il marito, i
coniugi Rossi e il Sig. Bianchi ti salutano e ti augurano sollecita e perfetta guarigione. Il Dr.
Micheletti non l’ho ancora trovato in casa; ma mezz’ora dopo il mio arrivo le carte di
Biscontini già erano state da me a lui ricapitate. Di’ allo stesso Biscontini che Rossi mi ha
passati gli Sc. 33; e che avendo io parlato con esso a lungo (ed anche con altri) dell’affare
dell’agenzia parmi che la cosa possa andar bene. — Dammi buone nuove della tua salute.
Io già le aspetto domani con ansietà. Io sto alla Corona. Ti abbraccio di cuore e sono
il tuo P.
LETTERA 262.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 11 luglio 1837
Mio caro carissimo figlio
Hai purtroppo ragione di piangere sulla perdita di una Madre così buona e a te
affezionata. Ah! Iddio ci ha colpiti, Ciro mio, nella parte la più viva del cuore. Sia fatta la
sua volontà. Prega, prega sempre per la pace di quell’anima benedetta che spargerà su noi
dal cielo le benedizioni dell’Altissimo colle sue intercessioni. Non ti parlo della
desolazione mia: essa è al colmo, e solo nel mio dolore e nelle immense fatiche che ora
sostengo mi regge il pensiero degli obblighi che mi legano alla tua cara esistenza. Io ti sarò
sempre padre amoroso e sollecito del tuo bene; e se quel che farò per te assoggettando la
mia vita ad una continua serie di sacrificii non bastasse ad assicurarti intieramente quella
felicità che il mio cuore vorrebbe prepararti, non sarà colpa mia ma dei casi guidati dalla
mano divina. Ringrazia, mio caro Ciro, chiunque ti consola e ti ama, e preparati a renderti
sempre più degno della affezione di sì buone genti, e della stima di coloro con cui andrai
un giorno nel Mondo in contatto. Amiamoci, mio caro figlio, e confortandoci
scambievolmente della nostra reciproca tenerezza rimettiamo il resto alla benefica
provvidenza del Cielo.
Sono il tuo amorosissimo padre
233
LETTERA 263.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 22 luglio 1837
Mio carissimo figlio
Le tue affettuose lettere mi fanno piangere di tenerezza, e queste soavi lagrime
raddolciscono un poco quelle amarissime che io sempre verso per la perdita fatale ed
irreparabile da noi fatta. Sia benedetta la volontà della Provvidenza! Prega Iddio, Ciro mio
caro, pregalo sempre pel riposo di quella cara anima che ci ha lasciati nel dolore. Applica
in di lei suffragio le tue orazioni e le comunioni tue, e vivi in modo che essa dal luogo di
salute dove al certo la bontà sua deve averla collocata, si consoli nel vedere in te un erede
delle sue belle virtù. Raccomanda poi ancor me a Dio, perché mi regga la salute e la vita in
tuo aiuto. Tu, Ciro mio, sei nel Mondo ancora innocente, e le preghiere della innocenza
trovano grazia nel cospetto del Signore. Siamo onesti, Ciro mio, e forse saremo un giorno
tranquilli. Ti ringrazio delle tenere parole colle quali cerchi di confortarmi ad avermi
riguardo. Mi risparmierò, figlio mio, fin dove mi concede il debito che ho di occuparmi
della tua felicità, per quanto se ne possa sperare in questo mondo. Tu intanto attendi
serenamente a’ tuoi studi ad allo adempimento de’ tuoi doveri; conservati nelle tue buone
disposizioni di dolcezza di obbedienza e di gratitudine a chiunque ti fa bene, e pensa al
giorno nel quale ci riuniremo per vivere insieme da galantuomini e onorati cittadini.
Tutti, parenti amici e domestici, ti salutano: Antonia fra i primi. Riverisci tu in mio
nome l’impareggiabile Sig. Professor Colizzi, il Sig. Rettore e il Sig. Vice-Rettore e
chiunque ti chiede di me. E allorché vedrai la buona Sig.ra Cangenna dille molte parole
amichevoli. Ti benedico ed abbraccio con tutto il cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 264.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 19 agosto 1837
Grazie, mio caro Ciro, delle tue cordiali espressioni. Esse valgono a sempre più
spronare il mio già vivo impegno nel procurare per quanto mi è possibile il tuo bene. Sì,
figlio mio, tu finirai un giorno i tuoi studi e Dio vorrà riunirci per non mai più separarci. Io
sarò allora tua guida, e tu mio conforto. Se avremo fortuna ne godremo a lode della
Provvidenza: se ci mancherà, vivremo di fatica e di onore, le due prime glorie dell’uomo.
Nel mese venturo io probabilmente muterò casa; ma tu ne sarai avvertito in tempo. Questa
dimora non é più da me né per me.
Addio, Ciro mio caro: aspetterò notizie degli esami. Salutami l’impareggiabile Sig.
Professore Colizzi e di’ al Sig. Rettore che fra giorni io farò con lui il mio dovere. Riverisci
anche il Sig. Vice-Rettore e gli altri tuoi Superiori. Ricevi gli abbracci e le benedizioni del
tuo aff.m° padre
LETTERA 265.
A CIRO BELLI — PERUGIA
234
Di Roma, 26 agosto 1837
Mio carissimo figlio
La tua lettera del 22 cadente mi ha fatto lungamente piangere di tenerezza. Come
non essere contento, Ciro mio, de’ tuoi portamenti? Se tu mi fossi vicino, ti stringerei al
mio cuore per dimostrarti con quali sensi io abbia ricevuto le notizie sul successo de’ tuoi
esami generali. Sappi, mio buon Ciro, che tu sei avviato per una bella strada: io te lo
annunzio, e Iddio benedirà le mie predizioni. Ma che dirai che io non ti mando nessun
regalo? Questo era il solito uso, vivente la tua povera mamma. Mi chiamerai avaro o
sconoscente? No. Ciro mio: non sono né una cosa né l’altra. I tempi però volgono tristi,
figlio mio, e la nostra casa ha ricevuto una grande scossa. Non dubitare però: io farò tutto
il possibile per appagarti per quanto potrò. Se verrà come spero, Biscontini nel prossimo
ottobre a Perugia, ti manderò qualche cosa pel suo mezzo. Egli poi ti dirà quello che è bene
tu sappia. Vivi tranquillo. Riverisci, Ciro mio, i Sig.ri tuoi Superiori e la buona Sig.ra
Cangenna. Il Sig. Bianchi mi ha scritto una cortesissima lettera e in questo ordinario gli
rispondo. Tutti ti salutano e specialmente Antonia. Ti abbraccia e benedice di cuore
il tuo aff.mo padre
LETTERA 266.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Roma, 9 settembre 1837
Ho ricevuto, mio caro figlio, la tua lettera del 5 corrente e i due libretti del saggio e
della premiazione di questo anno. Vedo con piacere che, avendo tu studiato, ti abbia pure
voluto la sorte rimunerare col buon successo in uno de’ due bussoli. Le Vite del Plutarco
sono cosa bellissima e classica. Io ne ho (anzi l’hai tu stesso, perché la roba mia è tua) una
elegante edizione fiorentina in un solo volume corredata di bei rami. — Eccoti dunque,
Ciro mio, nuovamente nelle ricreazioni autunnali, per poi di bel nuovo tornare a
Novembre alle occupazioni che debbonti fruttare nel Mondo e stato e considerazione.
Questa è la più giusta ed onesta vicenda nelle umane azioni: fatica, riposo, e fatica. A suo
tempo, e quando tu lo saprai, mi verrà grata la notizia de’ nuovi studi che ti si preparano
pel vegnente anno 1838, che sarà il sesto del tuo corso di educazione e il 14° di tua vita.
Come aumenti e invigorisci il tuo corpo, così maturerà la tua mente e si perfezionerà il tuo
cuore. Ama tutti, Ciro mio, rispetta tutti, e sarai amato e rispettato. Rendi i miei saluti co’
miei rispetti ai Sig.ri Presidente e Vice-Presidente, al Sig. Bianchi e alla Sig.ra Cangenna,
tutte ottime e cordiali persone. Così, vedendola, mi riverirai la gentilissima Sig.ra
Marchesa Monaldi. Tutti ti salutano e applaudono: Antonia la prima. Io ti abbraccio e
benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 267.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 23 settembre 1837
Ciro mio
235
Hai ragione e fai bene. Le vacanze son tempo di sollievo, per ristorare le forze
consumate nelle applicazioni dell’anno e per riprendere nuovo vigore onde poi sostenere
le altre del corso di studi consecutivo. Intanto i più miti esercizi scolastici, continuati
tuttavia ne’ due mesi di ricreazione, ti serviranno mirabilmente a ritenere il frutto ricevuto
negli altri dieci mesi di doppio travaglio. Sta’ di buon animo e tranquillo, mio caro figlio; e
come hai sino ad ora trascorsi in collegio cinque anni non totalmente indegno della
soddisfazione a della benevolenza degli amorosi tuoi Superiori, vi passerai il minor
numero che te ne rimane prima di ritornare con me, che, se Iddio mi conserva la vita e il
coraggio, ti guiderò per mezzo alle contingenze del Mondo dove ancor tu dovrai far la tua
parte, ma parte di onesto uomo siccome m’ingegnerò di dartene esempio. Ci affaticheremo
allora insieme, e le fatiche onorate di entrambi risulteranno in tuo maggiore profitto. Tu
mi dai dei saluti di care e rispettabili persone, cioè dai Sig.ri Presidente, Rettore, e ViceRettore, non che della Sig.ra Cangenna e del Sig. Bianchi. Di mano in mano che li vedi
ripeti loro i miei più cordiali e rispettosi saluti. Ti fo intanto quelli de’ pochi parenti che
vedo e dei pochissimi amici che ci sono restati. Morta la tua povera Madre la nostra casa è
deserta. Così fa il Mondo, Ciro mio. Ti abbraccio e benedico di cuore.
il tuo aff.mo padre
Ti salutano Antonia e Domenico che presto non potranno più stare con me.
LETTERA 268.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 10 ottobre 1837
Mio carissimo figlio
Riscontro la tua 30 settembre. Sono molto contento di udirti applicato all’esercizio
epistolare: ti servirà molto il sapere ben comporre una lettera, nel che parecchi anche
sommi uomini spesso smarrisconsi. Non già che importi ciò grande difficoltà, ma perché
pochi sanno conservarsi nel bel mezzo dello stile che alle lettere conviene. Naturalezza,
precisione, concisione per quanto il soggetto lo concede, grazia, talora festività, correzione
ortografica e sobria interpunzione, sono i principali pregi di una lettera. A poco a poco ti
farai bravo intanto avverti un po’ meglio alla ortografia.
Fammi il piacere di dire al Sig. D. Antonio Ribacchi che il tuo semestre anticipato di
retta che scadrà il primo giorno del prossimo novembre gli sarà pagato o personalmente
dal Sig. Biscontini che a quell’epoca si troverà a Perugia, o per mezzo di qualche suo
corrispondente. Biscontini si è già diviso da me e abita dov’era l’Avvocato Gnoli al Gesù.
Io partirò dal Palazzo Poli al fine di questa settimana ed andrò ad abitare in casa dei nostri
parenti Mazio, al Monte della farina n. 18, primo piano. Tu dunque nelle tue lettere metterai
di qui innanzi quell’indirizzo, e bada che la lunga abitudine di scrivere Palazzo Poli non ti
trasporti tuo malgrado la penna. Usaci riflessione.
Quanto mi addolori il lasciar questa casa dove ho passato 21 anni sempre in
compagnia della tua povera Mamma, e dove tu sei nato, non te lo puoi immaginare. Ma
son rimasto solo, la pigione è assai cara, e le spese giornaliere troppo superiori alle attuali
forze del nostro patrimonio. Dunque bisogna rassegnarsi alle disposizioni della
Provvidenza e benedire gli eventi che a Dio piace di ordinare. Il separarmi da Antonia e da
Domenico è un’altra prova della mia rassegnazione. Ma essi ci resteranno sempre
236
affezionati. Ho ceduto a Domenico quelle stanze che per separata locazione da noi si
tenevano superiormente al nostro appartamento. Egli vi albergherà Antonia, ed anche
Annamaria la quale io manterrò fin che vive. Mi farai cosa grata se scriverai ad Antonia
una graziosa letterina in cui con brevi frasi ma affettuose tu la ringrazii delle cure da Lei
sempre avute per te, e la preghi di dire in tuo nome altrettanto a Domenico. Né scordarti
della buona vecchia di Annamaria. Ecco un nuovo soggetto d’esercizio epistolare. La
lettera per Antonia Ceccarelli puoi mandarla al solito indirizzo del Palazzo Poli.
Riverirai in mio nome tutti i tuoi Sig.ri Superiori, ed anche il nuovo Sig. Rettore
benché ancora io non abbia l’onore di conoscerlo. Salutami anche tutti i nostri buoni amici
di Perugia, fra i quali la Sig.ra Cangenna sta attualmente occupandosi pel tuo vestiario
d’inverno. Quando la vedrai partecipale il mio nuovo domicilio.
Addio, Ciro mio caro. Ti abbraccio di cuore e ti benedico.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 269.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 26 ottobre 1837
Mio caro figlio
Alla tua lettera 18 corrente rispondo con questa che ti sarà portata dal Sig. Biscontini
il quale parte questa mattina colla diligenza. Egli te la farà ricapitare da qualcuno giacché
non si ferma per ora a Perugia ma prosegue il viaggio fino a Città di Castello. Di là tornerà
a Perugia pel giorno di tutti i defunti (2 nov.), ed allora ti verrà a trovare e parlerà con te di
molte cose a mio nome. Tu considera che ti parli io stesso nelle sue parole. Ti mando pel
suo mezzo libbre 4 di cioccolata ed egli ti provvederà costì dello zucchero e del caffè per
mio conto, se tu come credo lo desideri. Di più, Ciro mio, non posso regalarti attese le
nostre attuali circostanze. Anch’io faccio a meno di tante cose di cui prima godevo.
Ricordati, Ciro mio, di suffragar l’anima della tua povera Mamma nel giorno della
Commemorazione dei fedeli defunti. Prega Iddio per lei, ed ella intanto lo pregherà per
noi onde ci assista e ci consoli.
Pare che sabato 21 tu non abbia poi scritto ad Antonia. Essa me ne avrebbe parlato.
Se non hai potuto, fallo, Ciro mio, più presto che potrai, e non Le dire che l’hai fatto a mia
insinuazione. Dalle questa prova di gratitudine alla buona Antonia, e nomina nella lettera
anche Domenico.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e quanti hanno la bontà di chiederti di me.
Ti abbraccia e benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
Monte della Farina n. 18
LETTERA 270.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 2 novembre 1837
Mio caro amico
237
Non so se da qualche vaga voce e accidentale sia potuto venire a’ vostri orecchi la per
me terribile disgrazia avvenutami il 2 luglio ultimo. La mia buona Mariuccia in quel
giorno morì. Già da oltre un anno ella soffriva di mali umorali vaganti dalla testa alla
membra, ed ora appena giunti ad una specie di encefalite. Il 26 giugno io partii di Roma,
dovendo necessariamente recarmi presso mio figlio a Perugia, e la lasciai poco bene.
Veramente io non voleva partire, ma ella mi vi spinse, ed io tanto più la compiacqui
quanto meno il suo morbo pareva dar serie inquietudini. Volendo poi trattenermi a
Perugia solo dieci giorni non dubitai di andare. Ma dopo il quarto giorno del mio arrivo,
ebbi una lettera d’un amico allarmantissima. Volai a Roma, e la trovai già morta. Neroni
mio, qual dolore! Ella mi era tutto: moglie, amica, madre, consolatrice amorosissima. Tutto
mi è mancato con Lei. E nel mio temperamento cupo, concentrato, malinconico, irritabile,
figuratevi il mio stato di isolamento come debba essermi insopportabile. Voi che avete
cuore, e bel cuore, immaginatelo senza che io ve ne dica di più. Da quattro mesi non faccio
che sospirare e piangere e consumarmi. Ho tutto riperduto ciò che di bene (e gran bene)
aveva acquistato ne’ tre anni di un rigido regime dal quale mi era stata ridonata perfetta
salute. Dolore di spirito, veglia continua e tormentosissima, dispiaceri gravi e di ogni
natura, fatiche nuove e molte, mi hanno ridotto un uomo degno di compassione. Se un
giorno ci rivedremo abuserò della vostra pazienza, col racconto de’ miei patimenti.
Povera donna! Morire senza né il figlio né il marito vicini! Lasciar sola la vita e priva
de’ conforti estremi del sentirsi chiuder gli occhi da una mano amica quanto può esserla
quella de’ nostri più cari! Non avere io potuto abbracciarla e prometterle, piangendo, di
vegliar sempre al bene del figlio! Ella ne sarà stata persuasa, ma il sentirselo ripetere in
quegli ultimi momenti deve dar tanta consolazione e tanto coraggio! Ah! pazienza.
Voglio adesso chiedere un piacere alla vostra amicizia. Da più anni mia moglie
esigeva dalla Cassa dell’Amministrazione de’ Beni ecclesiastici di Fermo, dove è capo il
Sig. Mons. Bartolucci di S. Elpidio, una somma trimestrale di Sc. 14:59 ½ proveniente da
una ritensione mensile fatta in questa Computisteria Camerale sull’onorario del Sig. M.se
Antonio Trevisani, uno degl’impiegati in detta Amministrazione. La persona che
gentilmente favoriva mia moglie, con procura di lei, esigendo ed inviando a Roma le
somme trimestrali, non ha più voluto dopo la morte di lei continuare questo favore. Io
manco a Fermo di amicizie. Una pratica da me usata in Computisteria Camerale, onde far
qui voltare di uficio le somme, ha mancato di successo, benché il Computista mi è
benevolo, opponendosi ciò alle regole di amministrazione. Non avreste voi dunque, mio
caro Neroni, qualche onesto e gentile amico colà che in vostro riguardo volesse ogni tre
mesi ritirare la detta somma e spedirmela? Io gli manderei una procura nella mia qualità
di padre e legittimo amministratore di Ciro erede universale della Madre (ab intestato)
come apparisce da un pubblico istrumento stipulato in atti Fratocchi il 7 luglio ultimo.
Giace di già inesatto un trimestre senza che io abbia ancora potuto trovare il canale onde
ritirare a Roma i denari. Vedete un poco, mio buon amico, di aiutarmi in questa
circostanza, tanto più che ho grandi urgenze da soddisfare. E vedete la mia temerità! Non
potreste voi stesso ricevere la mia procura, e ad ogni trimestre mandare al Sig. Bartolucci
la vostra ricevuta e ritirare l’equivalente? Se ho, così dicendo abusato troppo dell’amicizia,
perdonatelo all’amicizia stessa, e diminuite la mia impertinenza colla vostra opera
trovandomi chi per amor vostro mi favorisca. Io ne vivo in isperanza.
Addio, mio caro amico. Iddio vi conservi lungamente al bene e alle delizie di
famiglia. Io ne sono privo. Mio figlio è buono, gentile, studioso, ma è piccolo e da me
lontano. Per più motivi non posso ancora richiamarlo con me. Sono con tutto il cuore
il vostro amico G. G. Belli.
238
Monte della Farina N° 18.
P.S. Ho dovuto cambiar casa.
LETTERA 271.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 2 novembre 1837
Ciro mio
Ho veduto la tua lettera ad Antonia. Bravo Ciro! Siamo sempre riconoscenti a chi ci
ha fatto del bene. Antonia e Domenico hanno gran diritto alla nostra benevolenza. Essi
non sono più con noi, ma se ne ricorderanno sempre, e noi ricordiamoci sempre di loro.
Biscontini ti avrà fatto avere la mia del 26 ottobre. Al di lui ritorno udirò i risultati dei
discorsi che avrà tenuti con te.
Temo che tu non saprai leggere la mia presente lettera. Scrivo con pena perché mi
trema la mano. Ho scritto troppo ieri ed oggi; e poi questo è un giorno che molto influisce
sulla mia macchina. Suonano le campane, figlio mio: per chiamar suffragio ai defunti; e tu
sai chi noi abbiamo perduto. Or via, basti di ciò: Iddio ci darà forza per rassegnarci alla
Sua volontà.
Studia, cuore mio, studia di cuore e con mente più serena che puoi: sii buono, dolce,
manieroso, e fatti amare da tutti. Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, amami sempre come io ti
amo, e ricevi i miei abbracci e le mie benedizioni. Sono il tuo aff.mo padre.
P.S. La presente ti verrà dalla gentilezza della Sig.ra Cangenna che si occupa tanto di
te. Siile grato, Ciro mio: essa veglia su te come una madre.
LETTERA 272.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 11 novembre 1837
Ciro mio
Il Signor Conte Francesco Moroni, la cui madre Sig.ra Contessa Maria ebbe sempre
tanta bontà ed amicizia per la tua, viene a Perugia direttore della posta e mi favorisce
recarti questa mia lettera. Ho ricevuto la tua del 7 corrente. Il Signor Vice-Presidente
Cambi mi aveva già fatto conoscere i tuoi studi per l’entrato nuovo anno scolastico. Iddio
ti mantenga sempre le buone disposizioni che mostri di voler profittare in essi e negli altri
che farai in avvenire. Dallo studio nasce il sapere, e da questo congiunto alla bontà
dell’animo e alla gentilezza delle maniere dipenderà tutto il bene della tua vita. Non
acquistata o perduta la stima degli uomini onesti, tutta la nostra esistenza diviene una
serie di rammarichi tanto più pungente quanto più ne siamo noi stessi gli autori
trovandone le cagioni nelle nostre opere. Pondera bene, Ciro mio, queste terribili verità,
alle quali si suole pensare troppo leggermente dalla comune degli uomini, e perciò si
veggono al Mondo tanti falli e tante sventure.
239
Circa alle tue idee di continuare nella musica vado oggi stesso a scriverne al nostro
Signor Biscontini, e ne parlerai nuovamente con lui. Ho scritto, e consegnata la lettera al
Sig. Conte Moroni, al tuo nuovo Superiore Sig. Don Fausto Bonacci. Ti gli ho
raccomandato, ed ora raccomando a te di mostrartigli sempre obbediente, sottomesso,
riconoscente e gentile. Riveriscimi gli altri tuoi Sig.ri Superiori, e così la buona Sig.ra
Cangenna e la Signora M.sa Monaldi, allorché le vedrai, ringraziandole de’ saluti che sì
spesso m’inviano per tuo mezzo.
Tu dicesti alla Sig.ra Cangenna di non conoscere i nostri parenti Mazio, in casa de’
quali oggi io abito. Non te ne ricorderai, Ciro mio, ma spesso io ti ci ho condotto allorché
eri in Roma, ed anzi (e questo te lo devi ricordare di certo) il marito della mia cugina,
Orsolina Mazio, che allora non l’aveva ancora sposata e le abitava incontro, ti fece il
ritratto pochi giorni prima della tua partenza da Roma pel Collegio. Quel ritratto è poi
sempre stato il conforto della tua lontananza per la tua povera Madre; ed a tale scopo io lo
feci fare. Ora io lo conservo presso il mio letto siccome essa usava, benché noi non
abbiamo mai avuto bisogno di tal segno materiale per ricordarci ad ogni momento di te. —
Questi parenti dunque ti salutano e bramano di presto rivederti. Così ti salutano i nostri
amici, che sono pochi ma ottimi. Addio, Ciro mio, ama sempre
il tuo aff.mo padre che ti abbraccia e benedice.
LETTERA 273.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 14 novembre 1837
Mio veramente gentilissimo amico
Di quanti conforti la pietà umana o la civiltà mi è venuta sin qui prodigando a
sollevarmi l’animo caduto in tanta deiezione per la perdita della compagna della mia vita,
niuno più dolce ed efficace delle semplici parole da voi adoperate per un fine sì santo
quale è quello di consolar gli afflitti. Voi, Neroni mio, conoscete il cuore dell’uomo, e
sapete di più distinguere cuore da cuore: così secondo i casi e le persone versate il balsamo
che se intieramente non sana una piaga incurabile, la sparge almeno di salutare dolcezza
che fa parere grato anche il dolore allorché lo compatisce un animo cortese e generoso. Né
mai più né meglio conosciamo il prezzo dell’amicizia, che quando vivendo disgraziati ci
vediamo attorno persone amorose e bennate, tutte sollecite di attenuarci le pene con cui la
provvidenza volle provare la nostra rassegnazione. Io dunque in mezzo a’ miei patimenti
benedico Iddio che mi vi fece conoscere dapprima, e poi sperimentare così benevolo. È
vero, mio caro Neroni, io debbo conservarmi pel mio figlio onde non fare di questo povero
innocente un orfano abbandonato. Che sarebbe di lui fra tanta corruttela? Chi lo
guiderebbe, chi lo salverebbe dalle infinite insidie e dagli errori innumerevoli dove vanno
a inciampare talora anche gli avvisati e gli accorti? Io dunque ho l’obbligo di mantenere la
mia esistenza per la sua felicità. Penerò, veglierò, mi travaglierò, e quando poi avrò di
questa povera pianticella formato un albero saldo abbastanza contro le tempeste del
secolo, dirò allora a Dio: è compiuta la mia missione: nunc dimittis servum tuum, domine.
Voi siete già sciolto da un tanto dovere; ma ora i vostri figliuoli impegneranno la giustizia
eterna a concedervi la retribuzione che vi siete meritata, e così vivrete lunghi anni nel
premio maggiore che possa sperare la virtù paterna: quello di vedere il suo sangue senza
macchia al cospetto degli uomini.
240
Troverete qui unita la procura che la vostra bontà mi ha concesso inviare al vostro
nome per la trimestrale esigenza, e di cui vi tenni proposito nella mia antecedente, in
codesta Amministraz. dei Beni ecclesiastici di Fermo. Mi pare certo avervi avvisato essere
giacente un trimestre inesatto, cioè quello di luglio, agosto e settembre prossimi passati.
Alla fine del venturo dicembre scadrà il trimestre oggi corrente. Abbiamo sempre usato di
esigere trimestralmente e non mensilmente onde diminuire la noia de’ troppi minuti e
frequenti dettagli. Sino a tutto giugno sonosi percetti per cadaun trimestre Sc. 14:59 ½; ma
in seguito può esser più, può esser meno secondo l’entità dell’onorario del debitore e i
sequestri de’ di lui creditori, benché su questo ultimo proposito l’ultima causa sostenuta
dalla fu mia moglie contro alcuni coaspiranti al riparto dovrebbe lasciare invariabile il
riparto attuale. Ad ogni modo Voi prenderete quello che vi daranno, compiacendomi in
qualunque caso di accennarmi i motivi addottisi per dichiarazione de’ cambiamenti che
s’operassero.
Circa alla trasmissione delle somme mediante il proporzionato concambio che avete
in mira sulle percezzioni in Roma di vostro fratello, ne sarei contentissimo. Sul di lui
mutamento di stato, che io ignoravo, la penso appuntino come Voi, e credo che quello che
in ciò gli è accaduto di meglio sia la erudita, dotta, elegante, disinvolta e giudiziosa
epistola che gli avete indirizzata per festeggiare le sue gioie colle glorie della vostra patria
comune. Bella mente sana che avete! Invidio la chiarezza e semplicità de’ vostri argomenti
sì liberi dagli arzigogoli stiracchiati di tanti archeologi e storiografi che si lambiccano il
cervelluzzo per accomodar colori a un disegno che non vorrebbe riceverli. Voi avete
condotto le vostre assennate ricerche sin dove l’ipotesi confina e si confonde colla verità.
Eccovi il mio schietto giudizio. Se ho errato mi piace aver errato con voi.
Sin qui voi sapete la metà sola de’ miei mali, ed è quella che soglio narrare a tutte le
gentili persone. Oggi ne confido l’altra metà alla delicatezza dell’amico. Voi ne stupirete.
La mia buona moglie, per troppa fiducia e generosità di condotta, ha lasciato al figlio un
patrimonio assai offeso. Quanti anni di pene mi bisogneranno per formare al mio Ciro uno
stato! Ed anche chi sa!... — Io dunque cerco ogni via per sollevarlo, faticando, dal mio peso
personale. Perciò non arrossisco dirvi che se mai udiste in codeste parti che alcun vostro
conoscente avesse affari da affidare in Roma a chi non fosse capace di tradire la fiducia de’
suoi committenti, io presterei la mia opera in assistenza di ogni discreta persona.
Intendiamoci però: in qualunque vostra occorrenza voi siete il mio padrone e il mio nuovo
discorso non vi riguarda. Non si può dire ciò che io sarei pronto ad operare per voi che mi
avete resi sempre tanti favori.
Amate dunque e comandate liberissimamente il vostro servitore ed a.co
G. G. Belli
LETTERA 274.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 28 novembre 1837
Mio carissimo figlio
Riscontro le tue due lettere del 10 e del 19 cadente, ricevute da me la prima per
mezzo del Sig. Avv. Gnoli e la seconda per parte del Sig. Conte Moroni. In quella sei
tornato ad assumere il pronome ella e lei. Tu sai che non mi piace. Amo che tu mi rispetti:
godo però meglio che il rispetto vada unito a una moderata confidenza che riesce assai più
241
affettuosa. Quindi il Voi mi appaga assai più; e mi parla più al cuore. Io sono tuo padre, e
insieme il primo tuo amico e confidente; e il rispetto lo voglio attendere da te più nella
corrispondenza dei sentimenti e nella consuonanza delle azioni che non nelle parole, sotto
le quali non di rado può celarsi una fallacia tanto maggiore quanto meno apparisce. Una
soverchia familiarità mi offenderebbe perché temerei che, considerandomi tu troppo alla
pari, svanisse a’ tuoi occhi la gravità e la importanza de’ miei consigli e si perdesse così il
frutto delle paterne e insieme amichevoli mie insinuazioni. Il freddo tuono altronde della
civiltà di pura convenzione disgiungerebbe di soverchio i nostri animi e potrebbe
all’affezione della natura sostituire i vuoti omaggi del complimento. Amami, Ciro mio,
metti in pratica i miei avvertimenti, e questo è il maggior rispetto che io desidero da te.
Odo con piacere i nuovi studi che ti sono assegnati per questo 6° anno della tua
educazione. Iddio benedica le cure de’ tuoi Maestri e le tue fatiche. Mi si dice però che
nella lingua latina sei ancora un po’ tiepido. Eppure ne dovrai trarre nel Mondo tanto bene!
Ho parlato di te col Sig. Biscontini. Ebbene, poiché lo desideri, acconsento che tu
riprenda lo studio della musica, e ne vado a scrivere al Signor Vice-Presidente col quale ne
tenni varii colloqui allorché era Rettore.
Col Sig. Presidente Prof. Colizzi ho anche tenuto lungo proposito intorno a te e a
quanto ti concerne. Egli ti ama, ed ha per te molta bontà.
In vita della tua buona Mamma era solito il mandarti qualche dono pel Natale. Oggi i
tempi sono cambiati, Ciro mio, ed io non saprei cosa inviarti per detta prossima epoca. Se
tu abbisogni di qualche cosa o nudri alcun particolare desiderio, fammene consapevole, ed
io procurerò di appagarti. — Studia con coraggio e serenità d’animo. I giorni e gli anni
passano, e poi viene il tempo in cui si raccoglie secondo che si è seminato. Riverisci i tuoi
Sig.ri Superiori, e ricevi i miei abbracci e le mie benedizioni.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 275.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 13 dicembre 1837
Ciro mio
Per mezzo del Sig. Presidente Colizzi devi avere avuta la mia del 4 corrente. Ricevi
ora quest’altra che favorirà consegnarti il Sig. Caramelli.
Ho con estrema consolazione udito che di giorno in giorno tu abbandoni quella certa
negligenza nella quale avevi ricominciato gli studi, specialmente di letteratura. Bada, Ciro
mio caro, bada: se tu non istudi con fervore e di vero proposito sarai infelice. Credi a tuo
padre. Se io dovessi un giorno vederti vittima della tua stessa pigrizia e indolenza, ne
morrei di dolore, e tu avresti questo peccato sull’anima. Per carità, figlio mio, non
istancarti. Gli anni passano presto, e presto raccoglierai il frutto delle tue attuali fatiche. Tu
cresci, la tua mente va maturando colla età: è dunque vergogna l’operare senza senno. Fa’,
Ciro mio, che allorquando vivremo insieme io abbia a benedire la provvidenza
dell’avermiti dato. La tua povera Madre non ha potuto vedere i tuoi successi, ma adesso
prega Iddio in cielo per te. Renditi degno delle preghiere di quella benedetta che si
rallegrerà delle virtù che tu acquisterai. E riguardo a me, vorresti tu pagare d’ingratitudine
le tante mie cure e sollecitudini? No, Ciro mio, dà consolazione a tuo padre che ne ha
bisogno per sostenere il carico della tua guida nel Mondo. Io sono qui solo e senza nessun
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altro conforto fuorché quello della speranza della tua buona riuscita. Se questa fallisse mi
troverei troppo male ricompensato. Dunque, sù, coraggio, avanti sempre: bontà, studio e
gentilezza: ecco quello che voglio da te. Me lo prometti?
Spero che sarai contento dell’averti io ripristinato la musica siccome tu desideravi.
Anche questa potrà molto nel Mondo giovarti. Lo vedrai.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e ricevi da me saluti, abbracci e benedizioni.
Il tuo aff.mo padre.
P. S. Ti ripeto, Ciro mio, che se per S. Natale desideri qualche cosa da poter
corrispondere alla nostra facoltà me lo parteciperai onde io procuri di soddisfarti. Appena
ti riesce dà l’acclusa alla Sig.ra Cangenna.
LETTERA 276.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 16 dicembre 1837
Caro e gentilissimo amico
Ebbi ieri la obbligante Vostra del 10 corr. con in seno l’ordine di Sc. 14:54 ½ tratto da
vostro fratello Conte Filippo sopra questo Sig. Paolino Alibrandi furiere delle guardie
nobili, e da Voi speditomi in pareggio netto degli Sc. 14:59 ½ che vi compiaceste esigere
per mio conto da cod. Cassa de’ Beni ecclesiastici di Fermo nell’affare Trevisani pel
trimestre luglio, agosto e settembre p.p.ti. — Il Sig. Alibrandi me lo ha questa mattina pagato.
Sta ora per maturare l’altro trimestre di ottobre, novembre e dicembre, le quote de’ quali mesi
giacciono nella medesima Cassa in seguito delle mensili ritenute sull’onorario del Sig.
Marchese Trevisani. Entrato dunque il prossimo gennaio Vi prego a vostro comodo
ritirarne l’importo.
Direttissimi rapporti amichevoli io non ho coi compilatori del giornale arcadico, ma
non mi è mancato mezzo di pormi con essi in comunicazione riguardo all’articolo che
desiderate inserto nello stesso giornale. Ieri sera consegnai la vostra epistola a un bravo
giovane, amico d’uno dei più influenti collaboratori, onde lo impegni ad appagare il mio
nel vostro desiderio. Non ne ho ancora risposta, né ho voluto che l’indugio di essa Vi
ritardasse la notizia che io Vi doveva circa all’incasso dell’ordine. Presto però deve
ripartire di Roma il vostro amico Conte Orazio Piccolomini, il quale vi sarà latore di una
mia, e in essa spero annunziarvi il risultamento delle mie premure pel piccolo servizio che
mi chiedete.
Favoritemi dire molte parole affettuose per me al caro Pippo Lenti (lo chiamo colla
confidenza dell’antica amicizia che ci lega) che rivedrei tanto volentieri, siccome ardente
desiderio nudro di riabbracciar Voi dopo così lunga separazione. Quindici anni! Quanti
altri ne passeranno prima di riavvicinarci?
Sono di vero cuore e pieno di sincera stima
il Vostro aff.mo e obbligatissimo amico Giuseppe Gioachino Belli.
LETTERA 277.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
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Di Roma, 26 dicembre 1837
Gentilissimo amico
Per mezzo del nostro caro Piccolomini V’invio questa lettera, annunciatavi fin dalla
mia precedente speditavi per la posta il 16 cadente.
La vostra illustrazione archeologica della Città di Ripatransone è ora in mano del
Signor Salvador Betti, uno de’ primi compilatori del giornale arcadico; e sono stato
assicurato da chi gliel’ha trasmessa che o comparirà tutta intiera nel giornale o ne verrà in
quello fatta menzione. Voglio sperare di non esser deluso.
Ieri uscii di letto dopo otto giorni di malattia del solito carattere infiammatorio. Ah!
se non mi posso aver cura!
Circa al mio affare ed a’ vostri favori mi riporto alla mia del 16.
Auguro di vero cuore a Voi e a’ vostri più cari un felice anno. Il Cielo lo mandi
migliore di quello che cade.
Sono sinceramente
Il vostro aff.mo e obbligatissimo a.co G. G. Belli.
LETTERA 278.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 30 dicembre 1837
Mio caro figlio
O l’altro ieri dopo pranzo o ieri mattina dev’essere partito di qui un canestrello al tuo
indirizzo. Il Sig. Raffaello nipote di codesto Sig. Angiolo Rossi mi ha favorito consegnarlo
a un suo amico il quale viene a Perugia, e così tu lo avrai in breve per mezzo del detto
Signor Angiolo. Avrei voluto, Ciro mio, mandartelo per le sante feste, ma sono stato
infermo parecchi giorni colle mie solite accensioni di sangue, impedito perciò di
potermene occupare, giacché ora debbo far tutto da me. Nel canestrello troverai un
pangiallo, quattro torroni, un poco di confetti e di mandorle attorrate, e due mostacciuoli
di Napoli. Ti serviranno per addolcirti la bocca il giorno di pasqua epifania. Non ho potuto
né saputo mandarti altro: ho pregato però la eccellente nostra amica e padrona Signora
Cangenna Micheletti d’indagare i tuoi bisogni e i tuoi desideri e di appagarli a Perugia
senza che io stia ad accrescere il volume della spedizione, giacché per via particolare
sarebbe indiscreto il caricar troppo chi ci favorisce, e per mezzo de’ vetturali importerebbe
un dispendio inutile il trasporto di cose che si trovino a Perugia. In quanto al pangiallo
esso è cosa romana e ho voluto inviarlo da qui. Conserva il canestrello, potendo servire ad
altri usi.
Ho con piacere appreso dalla tua del 19 cadente che il discorso del rispettabile Sig.
Prof. Colizzi, unito alle speciali mie insinuazioni, ti abbia fatto impressione. Così è, mio
caro Ciro, noi non ci troviamo più nello stato in cui sembravamo posti dalla Provvidenza.
Ma comunque vadano le cose, benediciamo sempre la Mano che regola le sorti degli
uomini, vedendo quanti stan peggio di noi benché forniti di molto maggiori meriti che noi
non abbiamo. L’onore, Ciro mio, ci terrà luogo di splendore e di lusso. Una vita modesta e
virtuosa può consolare l’uomo cristiano e ragionevole da tutti gli attacchi e le inimistà
della fortuna. Tu sei determinato a calcare una strada di rettitudine. Iddio benedica le tue
savie intenzioni. Né io mi stancherò mai nel procurare il tuo maggior bene, assistendoti
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assiduo e vigilante sino a che il Mondo possa conoscere i frutti de’ tuoi travagli e
rimunerarli. Allora io sarò vecchio, e tu renderai a tuo padre le cure ch’egli avrà prestato
alla tua fanciullezza. Questa è la giusta vicenda de’ doveri di famiglia: il più debole deve
ricever protezione dal più forte. Il debole ora sei tu: presto lo sarò io, se il Cielo vorrà
conservarmi tanta vita da vederti uomo formato ed abile al disimpegno degli obblighi
sociali.
I nostri pochi ma buoni amici ti rendono mille saluti e insieme coi nostri parenti ti
augurano un felice capo-d’anno. Fa’ tu altrettanto in mio nome co’ Sig.ri tuoi Superiori,
ringraziando spezialmente l’onorevole Signor Rettore delle confortanti parole aggiuntemi appiè
della tua lettera. Di’ anche molte cose amichevoli per me al Signor Tancioni, e fallo contento
di te. Alla Sig.ra Cangenna e al Sig. Bianchi ho scritto particolarmente nel passato
ordinario. Ti abbraccio, figlio mio caro, e ti benedico di cuore, pregandoti da Dio ogni
felicità.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 279.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 15 febbraio 1838
Mio caro e buon Neroni
Vi scrivo in letto dove mi trovò l’11 corrente la obbligante vostra dell’8, contenente
l’ordine di vostro fratello Conte Filippo sopra questo Sig. Paolino Alibrandi per scudi
quattordici e bajocchi 54 ½, prodotto netto della esigenza da voi cortesemente fatta per mio
conto in Sc. 14:59 ½ della Cassa de’ Beni ecclesiastici di Fermo pel sequestro c. il M.se
Trevisani relativo all’ultimo trimestre del caduto anno. Jeri mi capitò un amico il quale mi
andò a realizzar l’ordine, che fu puntualmente pagato. Fu una fortuna nel mio attuale
isolamento: così posso oggi darvene subito avviso. Non è poco che finalmente codesti
Sig.ri pagatori siensi compiaciuti di dare ciò che da molto avevano in mano; e l’han dato
quando già ritengono giacenti le due quote di gennaio e febbraio del corrente anno.
Questa loro renitenza sempre più accresce pertanto le mie obbligazioni verso di voi per
moltiplicati incomodi che ne dovete soffrire.
E il mio male qual’è? Il solito, Neroni mio, infiammatorio. Sto da sei giorni a brodo, e
per brodo do sangue. Son debolissimo di membra e di capo. Ad ogni nuovo accesso di
febbre però mi torna un vigore falso e apparente che debbo poi restituire alla natura nelle
ore consecutive. Ora però sto alquanto meglio de’ giorni passati, e per ciò mi è pure
riuscito di scrivervi.
Spererei esser presto guarito. Finisco per rimettermi disteso sotto le coltri e per
mandare alla posta la servaccia di casa, seppure saprà ficcare una lettera in un buco. Che
mutazione di scena! Pazienza.
Vi abbraccia di cuore
il Vostro aff.mo amico G. G. Belli
LETTERA 280.
A CIRO BELLI — PERUGIA
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Di Roma, 10 marzo 1838
Mio sempre carissimo figlio
Riscontro la tua del 6 corrente. Credo che a quest’ora potrai aver principiato a
sperimentare la verità delle mie passate assicurazioni, colle quali ho in ogni tempo voluto
metterti nell’animo il coraggio che nasce dal sapere come gli studi tanto più divengono
lievi e piacevoli quanto si allontanano più dagli aridi elementi. Chi principia a studiare la
gramatica non sa fin d’allora prevedere sino a quali belle ed utili conseguenze debba
condurre quel non troppo amabile sminuzzamento di parole e d’idee, né quella incomoda
ricerca continua giù per le pagine di un vocabolario. Ma viene poi fuori a poco a poco una
bella lingua ed una capacità franca di distinguere non solo e classificarne le parti con
esatta precisione dentro le più famose opere de’ classici, ma ancora di intendere le alte
cose che pel ministerio di quella lingua hanno scritte gli autori stessi onde erudirci ed
ammaestrarci in sapienza e in virtù. Così puoi dire del calcolo. In origine il più, il meno, e
gli y e gli x e le radici e i quadrati etc. non ti saranno apparsi tanto geniali. Oggi però che vai
e sempre più andrai di giorno in giorno scendendo alle applicazioni di quelle chiavi delle
scienze esatte, devi principiare ad accorgerti di quanto conforto ti riuscirà allo spirito
l’aver superato il fastidio delle prime fatiche. E credimi, Ciro mio, troverai presto
maraviglie filosofiche morali e letterarie che t’incanteranno e ti faranno benedire la
provvidenza dell’averti concesso il gran beneficio dello studio. Io so che tu mi vuoi bene e
sei persuaso del mio amore per te. Questo mio amore dunque ti convinca della realtà di
quant’io ti vo avvisando. Abbandona, Ciro mio, ogni resto d’inclinazioni fanciullesche, se
mai tuttora ne conservi, e seriamente volgendo tutto il tuo animo alla tua cultura ti
preparerai la maggior felicità che sia concesso all’uomo di sperare sulla terra. Non mi
ricordo se ti ho mai detto che io ti ho lavorato due eleganti globi, celeste e terrestre. Ti
serviranno quando tornerai a stare con me. — Ho veduto il Signor Biscontini e gli ho fatto
la tua ambasciata. Tutti di qui ti salutano. Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e i nostri buoni
amici, e ricevi i miei teneri abbracci con infinite benedizioni.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 281.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 20 marzo 1838
Mio caro figlio
L’altr’anno tu ti dimenticasti della mia festa: quest’anno me ne dimenticava io;
tantoché se non fosse giunta a proposito la tua lettera del 15 a ricordarmela, forse la festa
di S. Giuseppe mi sarebbe arrivata improvvisa come arrivano i lampi. Non è più, Ciro mio,
il tempo in cui queste giornate riconducevano nella nostra famiglia scambievoli sogni di
memoria e di affetto. Sol tu adesso rimani col quale io ricambii simili atti sì dolci; e tu colla
tua lettera amorosissima mi hai per verità dimostrato una tenerezza che molto mi
commuove. Grazie, mio buon Ciro, grazie alle tue care espressioni: mi hai fatto un gran
bene, e te ne rimuneri il cielo col farne un giorno a te gustare altrettanto. E mi rallegro poi
specialmente della tua graziosa letterina perché il Sig. Rettore mi assicura essere ella tutta
tua, sentimenti e parole. Il Signor Rettore merita da me cieca fiducia né voglio credere che
tu abbia saputo illuderlo con una fallace assicurazione. La lettera è molto affettuosa e
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disinvolta; e, composta da te fa onore al tuo profitto nell’arte di pensare e di scrivere.
Coraggio, Ciro mio caro; tu divieni uomo ogni giorno. — Ho gran piacere che tu principii
a gustare Cicerone e Virgilio, portenti di sapere e di genio.
Ti prego, Ciro mio, di ringraziare caldamente in mio nome il Signor Rettore per le
obbliganti cure che prende d’informarmi sempre di te. Deve avere un bel cuore codesto
rispettabile tuo Superiore.
Quando vedrai la gentilissima Sig.ra Cangenna, alla quale dobbiamo tanto, le darai la
qui unita mia lettera.
Ringrazia tutti i tuoi Sig.ri Superiori e così gli amici degli augurii cortesi inviatimi pel
tuo mezzo, e riveriscili da mia parte. Questi nostri parenti, e così gli antichi domestici,
stanno bene e ti risalutano. Domenico però è afflitto per la recente perdita che ha fatto
della Madre, la quale egli amava moltissimo.
Segui, Ciro mio, a studiare con fervore e diligenza: te ne troverai un giorno contento.
Abbi cura della tua salute, sii buono, amami, e ricevi mille abbracci e benedizioni del tuo
aff.mo padre.
P.S. Attualmente io sto passabilmente bene.
LETTERA 282.
AD AMALIA BETTINI — VENEZIA
Di Roma, 22 marzo 1838
Cara Amalia,
il mio silenzio, rimproveratomi più volte in vostro nome dal nostro Ferretti, eccolo
oggi compensato da una lettera lunga quanto una quaresima; seppure possa chiamarsi
risarcimento un infarcimento di ciarle che o spacciate in prosa o in verso non perdono mai
la loro papaverica natura. Troppo mi sono però taciuto con Voi, mia affettuosissima amica,
perché in sul primo riaprir della bocca io potessi impedire a tutti questi strambotti il
precipitarmisi fuor delle labbra come un branco di pecore o d’altri animali meno innocenti,
addensati all’uscio che toglieva loro l’aria e la luce. Da molto tempo io sentiva il bisogno di
consacrarvi esclusivamente un’ora di parole oltre le tante ore che voi occupate nel mio
pensiero. Ma se noti vi sono in parte i motivi dolorosi che tutto han cambiato il tenore
della mia vita, mi perdonerete l’esser questa ora giunta sì tarda. E quando mi sarà
concesso il desiderato conforto di rivedervi in questa città e di tornare alle dolcezze della
vostra compagnia, vi istruirò allora del mio stato di fatica e di isolamento. Intanto io non
perdo uno de’ vostri passi né de’ vostri successi. I comuni amici, i viaggiatori, i giornali,
tutti io vo’ interrogando per saper notizie della carissima Amalia, sì ricca d’ingegno e di
cuore. Non mi dite lusinghiero. Perché lo sarei? A un omicciuolo mio pari non sarebbe
lecito vagheggiare scopo né premio di adulazione, quando anche foste voi donna da
potersi adescare con simili mezzi, troppo inferiori ai meriti degni d’interessarvi a pro di
chi, possedendovi, sapesse farli valere con delicatezza. Oltrediché Voi mi avete forse
conosciuto non falso e tanto modesto quanto lo comandava ogni principio e di carattere e
di circostanza. Un po’ di elogio anche a me; e questo dopo essermi da me stesso chiamato
giustamente omicciuolo! Ebbene? non possono darsi omicciuoli sinceri e rispettivi? Anzi
un gran numero, perché quelle sono per solito virtù da minori. Voglio un poco udire come
voi la pensate.
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Ma quel povero nostro Ferretti! Sempre malattie, e di tutti i generi e tutte terribili.
Non se ne potrebbe tesser chiara la storia.
Egli vi saluta, come vi saluta il cav. Rosati che parecchi giorni addietro ebbi occasione
di vedere. Da quando ho perduto Mariuccia abito vicino a Ferretti.
Mi dice Ferretti che voi siete per tornare in compagnia di Mascherpa. In questo caso
mi pare più sperabile il rivedervi a Roma. Mascherpa non teme tanto questo viaggio come
il Nardelli. Amen, amen, amen!
Come sta la Sig.ra Lucrezia? Quale più le convien, Roma o Venezia? Dite Roma, se non
volete farmi arrabbiare. E la Cecchina? e l’appicciccarella? Si ricorda ella mai del povero
Belli? del poeta cesareo di sua sorella? Or bene, allontanate per mezza giornata da Voi le
occupazioni e gli amici, e consumate tutto quel tempo a dir loro tutte quelle belle o brutte
cose che io loro direi se fossimo insieme.
Adesso poi che vi ho scritto non mi punite del peccato vecchio col voltarmi le spalle.
Rispondetemi quattro parole di quelle che sapete dire Voi quando volete lasciar la gente
col cuore inzuccherato.
Vi bacia la mano rispettosamente il vostro
G. G. Belli
Monte della Farina n° 18
LETTERA 283.
A FILIPPO GELLI, SEGRETARIO DELL’ACCADEMIA TIBERINA — ROMA
[30 marzo 1838]
Chiarissimo Sig. Segretario
Con piacere e gratitudine ho ricevuto dalla S. V. la cortese partecipazione del general
decreto accademico col quale venne dichiarata come non avvenuta la mia rinunzia del
1828. Così dopo un lungo decennio io godrò di ritrovarmi fra onorevoli e distinte persone
dalla cui compagnia mi allontanai per motivi da non esser più ricordati.
Ho tardato due giorni oltre il dovere a riscontrare il Suo foglio del 27 a fine di poter
più concludentemente rispondere all’inclusovi biglietto d’invito per un componimento
lirico sulla Passione del Redentore. — Questo sarà da me recitato, avendolo io già
espressamente scritto.
Voglia, Chiarissimo Sig. Segretario, non isdegnare le sincere espressioni di ossequio
del
Suo d.mo Servitore e Collega G. G. Belli
30 marzo 1838
LETTERA 284.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 5 aprile 1838
Mio carissimo figlio
Ebbi prontamente dal gentilissimo Signor Conte Moroni la tua del 27 marzo, e ti
ringrazio dell’esserti approfittato di questa occasione per darmi tue nuove, le quali godo
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di udir buone, malgrado del reuma di testa che mi dici aver sofferto. Forse darà una
fuggita a Perugia il Sig. Avvocato Filippo Ricci, Aiutante di studio in questo tribunale
della S. Rota, ed amicissimo della nostra casa da moltissimi anni. Egli è savio, dotto e
gentile, e si compiace per amicizia dirigere le mie operazioni nella guida del tuo ristretto
patrimonio. È partito per Spoleto, e se mai arrivasse a Perugia mi ha promesso che
verrebbe a visitarti. Fagli allora buon viso come a persona degna d’ogni stima e
gratitudine.
Oggi ad otto, cioè giovedì 12 corrente, all’un’ora di notte, tu compierai il 14° anno
della età tua. Vedi, Ciro mio, come celermente ti avvicini alla gioventù, lasciandoti indietro
l’adolescenza! Nello stesso modo devi abbandonare ogni leggerezza che suole andar
compagna di questa. Io però, mio caro figlio, per quanto ascolto della tua condotta, sono
contento di te, e solamente ti esorto a corroborarti nelle tue felici disposizioni ad una
buona riuscita. Rifletti sempre, o mio Ciro, che io andrò invecchiando, e che tu un giorno
dovrai non solo condurre te stesso fra le vicende del Mondo, ma assistere e sostenere
altresì il tuo padre che tanto t’ha amato e ti ama. Se allora tu possederai virtù solide e
meriti reali, gli uomini te ne daranno il compenso; ed io giunto al termine della mia
carriera potrò chiudere gli occhi nella consolazione di lasciarti felice. Ah! quanto allora
benedirai la provvidenza per averti ella concessa la volontà di applicarti all’esercizio de’
tuoi doveri! Tranquillo e onorato non dovrai arrossire né di te né de’ tuoi genitori. Segui
pertanto con ardore ne’ belli tuoi studi, tutti nobili e utilissimi, per non dir necessarii.
Godo molto di udire essere in te venuto il piacere della lingua latina. Rènditela, Ciro mio,
famigliare questa illustre lingua, e sappi che negli esami per essere ammesso a questa
romana università si deve rispondere in latino. Ciò per tua norma. I parenti, gli amici e gli
antichi nostri domestici ti salutano. Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e gli amici nostri
perugini. Ti abbraccia e benedice il tuo aff.mo padre.
LETTERA 285.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 12 maggio 1838
ore 6 ½ pomeridiane
Mio caro Ferretti
Pranzava io questa mattina allorché un famiglio, o bidello, o portiere della
Soprintendenza de’ tabacchi mi ha recato la tua di jeri piena di liete e di non liete notizie:
relative queste ultime alla tua cianca ed alle convulsioni della Sig.ra Rossi. Il dottore già
deve conoscere quest’ultima cosa perché l’ultima volta che lo vidi in di lui casa (e fu
mercoledì 9) aveva tra le mani una lettera di Rossi. Immagino che quell’avvenimento non
vi sarà stato obliato dallo sposo scrivente. In tutti i modi farò di trovare Maggiorani e lo
spronerò alla partenza, la quale, accadendo, accadrà in mia compagnia, quandoché sia, e
così sia. — Io entrai in pena per l’acqua di jeri che forse poté sorprendere in viaggio le tue
pellegrine che ebbi il piacere di aiutare a salire in carrozza. Già, si sarebbe bagnato il legno
e non esse; ma pure ho udito a dire che i viaggiatori non desiderano acqua fuorché in
rarissimi incontri. Questa volta era superflua.
Prima di rientrare questa mattina in casa mi sono recato a visitare la famiglia Pazzi,
ed ho avuto un bellissimo dialogo collo Stortino Pietruccio, egli parlando di dentro ed io di
fuori come lo spazzino di Euticchio. Le ultime parole della scena essendo state: eh,
quell’omo, Mamma sta su da Ferretti, la sono andata a vedere dov’era e l’ho trovata bene:
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bene la figlia: bene il Peppetto. Costui, ad ogni carrozza che ode passare corre sotto le
finestre gridando: ecco Papà e Gigio. La casa tua va mettendosi in sesto. Mentre io parlava
con Anna Maria l’è stato ricondotto il fuggiasco figliaccio che ieri non si accostò neppure a
bottega. L’ha sgridato la madre; l’ho sgridato anch’io con un vocione da pedale d’organo.
Ma si predica al deserto. Quello è un mobiluccio da forca, così Iddio ne lo scampi.
Mi sono stati recati i quaderni 21 e 22 de’ benefattori dell’Umanità. Vuoi che li ritiri
anche per te?
Checco Spada, presso cui scrivo questa lettera, ebbe da me il brano di foglio dove
parlavi di Lepri. Te ne darà risposta qui sotto.
Tutti ti salutano; e tu salutami tutti, tua moglie, le tue figlie e Gigi, al quale farai un
bacio per mio conto. Ti abbraccio di cuore
il tuo Belli.
LETTERA 286.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 14 maggio 1838
Mio caro Ferretti
Tu mi hai mandato due Pattòli, due Rios de la Plata. Ma io giovedì udii all’Arcadia
un altro epigramma giocoso (del medesimo fabbricatore che aveva lavorato quello sull’arte
metrica) da incacarne tutti i tuoi poetici fiumi auriferi e argentiferi.
Dopo scritta la mia di sabato 12 la lasciai a Spada affinché aggiuntovi infine quanto
dovea dirti del suo, la portasse a Lopez giusta le istruzioni da te lasciatemi. Quindi passai
da Lopez a prevenirlo. Ma andato Spada da Lopez colla lettera, egli risposegli che pel
giorno appresso, cioè per la domenica, avrebbe mancato di occasioni. Checco allora stimò
ben fatto l’impostartela onde non ti tardasse troppo la risposta di Lepri. Jeri poi venne
Checco da me a parteciparmi il suo operato. Ora io non so se tu mandi alla posta. Dunque
se non ci hai mandato, mandaci e troverai la mia del 12.
Ed ecco nuovamente il tempo che ti dà guerra! ecco l’acqua ecco il freddo, ecco il
diavolo e la versiera. E quel povero Gigio? La febbre?! Pare veramente che siavi un destino
deputato a perseguitarti. Dopo averti assicurato della estrema parte che io prendo alle tue
traversie non posso conchiudere se non colla solita parola: pazienza. Abbici pazienza e
coraggio; ché già né di questo né di quella ti manca. L’abitudine del soffrire ciò in noi
produce di buono che ci fa dura la pelle.
Tornai jeri mattina in casa Pazzi. Tutto va bene; e Carolina, pulita e splendente come
un ermellino, mi dette il tuo plico de’ tesori albanensi. Or ve’ dove s’è cacciato l’intruso
Apollo col plettro in mano e l’archibuso al collo!
Appena piegata la presente passerò da Lopez e gliela consegnerò.
Salutami capo per capo tutta la tua famiglia e raccomanda la prudenza a chi n’ha più
di bisogno. Non è stagione questa, né codesto è clima da prendersela ariosa.
Ti abbraccio di vero cuore.
Il tuo Belli.
LETTERA 287.
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GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 16 maggio 1838
Mio caro Ferretti
Tornato io a casa dall’Accademia Tiberina la sera di lunedì 14 vidi sul mio scrittoio la
tua del giorno precedente; ed apertala, e trovatavi in seno l’altra per Annamaria, subito mi
condussi alla costei abitazione onde il ricapito non le tardasse un momento. Annamaria mi
disse che le tue lettere, dentro alle sue ritrovate, le porterebbe Michele nella mattina
seguente (jeri 15) a coloro cui erano dirette, cioè ai Sig.ri Terziani, Giobbe e Lopez.
Io passai jeri da quest’ultimo, e seppi aver puntualmente ricevuto il tuo foglio, al
quale avrebbe risposto pel mezzo del Sig. Sigismondo, consegnando a lui ancora quante
carte avesse per te sino all’istante della di lui partenza. Vi aggiungo io però questa mia per
dirti che jeri mattina, circa alle 3 pomeridiane, partorì Orsolina molto felicemente, e tanto
felicemente che la creatura usciva mentre la levatrice entrava: di maniera che tutti i
preliminari accadessero senza la cooperazione della Signora Comare. Quando il feto avrà
avuto il battesimo sarà una Cecilia come l’ava paterna.
La famiglia Pazzi sta tutta bene. A casa tua ogni cosa va in regola. Giovedì secondo le
tue istruzioni sborserò la prima rata ebdomadaria di bai: 15 per sollievo del povero Peppe,
che aspetta sempre la carrozza. Un poco più in là consegnerò il salario alla Carolina.
I paoli 15 gli avrà poi la madre quindici giorni dopo accadutogli quel che accadde jeri
ad Orsola. Tutto andrà in regola etc. iuxta mentem. Sul resto riposa.
Nelle due notti scorse ha qui continuamente diluviato. Se in Albano è accaduto
altrettanto, avrai almeno potuto dire: Nocte pluit tota, redeunt spectacula mane.
Ho veduto Maggiorani e te l’ho salutato. Noi avremmo voluto venire in Albano
domani, ma il tempo non è da incoraggiare alle peregrinazioni. Salutami l’ottimo Rossi e
digli tutto questo, e rallegrati con lui per la guarigione della sposina.
Il Boschi è arrivato, o, dico meglio, il Bosco. Vedrò di sapere quando agirà per
avvisartelo in tempo. Ma se mai si producesse Venerdì, né io arriverei ad avvisarlo né tu
arriveresti a’ suoi giuochi, che mi dicono essere vere diavolerie. Lunedì al Caffè nuovo
faceva sparire sino direi la panchette e i lampadari. Vinse poi tutti al bigliardo, giuocando
egli a stecca volante.
Tutte notizie datemi da Cencio Rosa, perché sai che io non frequento i caffè. —
Confortato assai dalle migliori nuove che mi dai del tuo Gigio attendo ansiosamente di
udirlo al tutto guarito. E mi dirai come se la passa Cristina. Già, la stagione non sorride
finora ai convalescenti. E tu, mio Ferretti? E la tua gamba? Sei costretto a tenerle
compagnia dentro casa? Voilà ce que c’est que d’avoir des jambes. Ma il male passa e le
gambe restano.
Lunedì il Sig. D. Fabio etc. recitò un Sonetto in Accademia Tiberina, per la morte di
un virtuoso suo amico. Se la prendeva colla Morte perché fura i migliori e lascia stare i rei.
Leggi ora quest’altro, scritto da certa persona che v’era presente.
Jer sera un galantuom di que’ cotali
Da ricordar con rispetto parlando,
Siccome il galateo mostraci quando
Ci accada nominar piedi o maiali,
Un Sonetto leggea contro il nefando
Stil che tien Morte nel vibrar suoi strali
Contro la miglior parte dei mortali,
251
Mentre poi la peggior lascia campando.
Morte, ei gridava, ah intendi a’ prieghi miei;
E se pieno vuoi sempre il cataletto,
Risparmia almeno i buoni e ammazza i rei.
Zitto, io gli dissi allor, sii benedetto!
Che se morte t’ascolta, ahimé, colei
Non ti fa terminar manco il Sonetto.
Mille parole amichevoli alla tua famiglia, e credimi sempre il tuo aff.mo Belli.
P.S. Dicono che sia fuggito per debiti quel Betti che cantava e giuocava di bussolotti.
Tordinona, pieno come un moggio di miglio andò alle stelle. Argentina fiaccheggia.
La ex Regina del Piemonte va avanti e dietro pel Corso con due carrozze e un battistrada.
E noi a piedi! Seppure.
Torlonia, pochi giorni addietro, pagò settemila scudi in oro sopra bellissima cambiale
falsa.
— Vogliono stampare sull’Album il mio Goticismo.
LETTERA 288.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 10 maggio 1838
alle 9 antimeridiane
Caro Ferretti
Mercoledì sera io fui da Anna Maria, e la lasciai senza indizi di parto. La mattina
appresso udii che aveva partorito. Lasciai passare la giornata di giovedì, per convenienza,
e jeri mi recai a visitarla. Si lagnava di molti e ripetuti dolori. Peppe, udendo piangere il
bambino, prese un bastone e voleva darglielo in capo, dicendo: Mamma, mandalo via.
Non venimmo, Maggiorani ed io, in Albano giovedì 17 perché il dottore disse che se
il mercoledì non si vedeva il tempo disposto al buono non sarebbe stata prudenza
l’avventurarsi a una gita incomoda e trista. E mercoledì fu pessimo tempo, benché
neppure giovedì consolasse. Benché però si fosse avuto nella giornata di venerdì un
paradiso, non erasi in tempo di decidere, giacché bisognava partire a buon’ora, e di più
doveva il Dottore affidare altrui i suoi infermi sin dal dì precedente. Hoc dices Rossio,
sigaristae praeclaro.
Pare che il Bosco darà la sua prima serata venerdì 25. — Balestra gli fa il ritratto in
litografia. Jeri mattina venne qui in casa (io non c’era) e fece girare il capo a queste donne,
che già non ci vuol molto. Volava tutto. Alla trattoria di Lepri sono scene.
Ma lasciamo il Bosco e passiamo alla Casa e alla famiglia. Mi congratulo con te di
vero cuore pel miglioramento di Gigio. Di te mi davi buone notizie nella tua del 14: nella
seguente poi del 17 non me dici parola. Ne auguro bene; e rispondendo io qui ad entrambe
voglio più fidarmi il cuore a questa che a quella.
Tutti gli amici ti salutano senza fine, e fanno sempre voti per la tua tranquillità e per
quella della tua famiglia sì amabile. Biagini e Spada mi dicono sempre mille cose
affettuose per te. Orsolina sta bene. Da Anna Maria ci tornerò dentro la giornata.
252
Abbiti cura, e di’ altrettanto in mio nome a tua moglie e alle figlie. Ti abbraccia in
fretta il
tuo Belli.
Monte della Farina, n° 18.
LETTERA 289.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 19 maggio 1838 (sabato)
ore 7 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Questa mattina ho risposto alle tue del 14 e del 17.
Lopez non aveva occasione per inviarti il mio foglio. Dal suo negozio son dunque
passato alla casa di Zampi. Egli non c’era, ma ho lasciato la lettera al servitore
raccomandandola etc. etc.
Dopo il pranzo poi mi è giunta dalla posta l’altra tua di jeri (18). A questa do
immediato riscontro. Anna Maria sta bene, Carolina bene, Peppe bene, gli Stortini bene, la
forca di Checco bene... peccato! Paradiso Santo! — Il neonato bene anch’esso.
Ho poco fa dato una rivista alla tua casa, aprendo tutte le finestre. Fra un’ora
Carolina le richiuderà. Si aprono due volte al giorno, motivo per cui non vi è difetto
dell’elemento sì geniale à Madame Thérèse Ferretti e a tempo e fuor di tempo.
Avrei voluto trovarmi presente all’asinesco trionfale ingresso a Castello. Cosa da
inginocchiarsi come avanti alla Mula del Papa. Va bene: così le tue ragazze si scuotono e si
divagano.
Ma per!... ci attaccherei un moccolo. Questa tua gamba che diavolo ha? Se non fosse
gamba tua gliela farei passar bella. Chi è il Santo delle gambe? Gli vorrei dire un pater
noster per te. Ma ne dimanderò o al Gambalunga o al Gambacurta, o all’Abate Sgambali
che lo dovrebbe sapere. Anche Gamberini e Zampi ne debbono aver conoscenza. E il
Cianca nostro no? E Checco e Cianca e le Pagliari, e la Balestriera e la Mazieria, e tutti ti
dicono vale valete et valetote. Bacia la mano a tutte le tue Signore per me. Veramente è un
po’ temeraria questa mia commissione; ma vedi? Anche Anna Maria mi ha affidata
Carolina per visitare da solo a sola il tuo appartamento. Povero quel galantuomo che
merita tanta fiducia! Privilegio de’ vecchi. Eppure anche questo è qualche cosa. Ogni età
ha i suoi mali e i suoi beni. Eppoi che dice Barbara? Anche Quadrari è un buonissimo
galantuomo.
A momenti viene la carrozza per battezzare questa Cicilietta. Ho fatto l’ambasciata
segreta ad Anna Maria. Ne ha molto goduto. E come no? Bona signa! Io plàudite, io!
Sono andato questa mattina a trovare Maggiorani e la moglie per salutarli in tuo
nome e della tua famiglia e de’ coniugi Rossi! Verremo in questa settimana? Uhm! De
futuribus contingentibus e quel che segue.
Ti ringrazio delle notizie dei piselli, delle fave, del pesce, delle provature, della
ricotta, del maiale, delle aringhe, dell’acqua, del vino, e di padron Paciocco portabandiera
di Bacco. Ma come scrivo eh? Altro che i bei caratteri
Nati di gota e longobarda lega!
Ma che vuoi? La fretta sempre mi si divora, né ho pur tempo di temprare la pena. Tu
sei buon lettore come scrittore. Dunque leggi quel che trovi e buona notte.
253
Fra le tue istruzioni c’è Dare Sc. 2 ad Annamaria 15 giorni dopo partorito. Se non hai
ragioni particolari in contrario non si potrebbe accelerare qualche giornetto? Potrebbe,
povera donna, averne bisogno. Benchè non ne sappia nulla gli arriveranno come due
angioli. Ti abbraccio, e tu abbraccia
il tuo Belli.
LETTERA 290.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, martedì 22 maggio 1838
ore 4 ½ pomeridiane
Mio caro Ferretti
Rispondo a tre tue lettere, due cioè di domenica 20, ed una di jeri 21. — Portai io
stesso la tua lettera a Firrao. Egli non era in casa ma parlai colla madre e colla nonna, le
quali con molta ilarità mi ricevettero, e, parlando di te, mi ripeterono più e più volte che se
tu dai una sfuggita a Roma ti voglion vedere.
Jeri al giorno venne da me Carolina in fretta in fretta. Dice: Sig. Giuseppe, Lanari ha
mandato questa chiave pel Sig. Giacomo. Io l’ho presa, ma crede mamma che abbia fatto
male a non dire che il Sig. Giacomo non è a Roma. — Dico: Dunque? — Dunque, dice, mi
ha detto mamma che la portassi a Lei. — Ed io, dico, che n’ho da fare? — Dice, eh faccia un
po’ Lei, Perché il Sig. Giacomo dovrebbe venire a Roma stasera.
Per veder chiaro in questa faccenda e per regolar la cosa in modo che non ti spiacesse
il rifiuto della chiave nel caso che tu venissi, io me n’andai dal Sig. Sigismondo,
dicendogli: Sig. Sigismondo, la cosa sta di qui fin qui. Eccole la chiave in anima e corpo. Se
Ferretti viene, come anch’Ella crede, gliela dia: se Ferretti non viene, Ella se la tenga: e se
Ella non se la vuol tenere la rimandi a Lanari onde Ferretti non contragga obbligazioni
senza suo frutto dentro. Egli mi rispose: è quasi certo che Giacomo verrà, ma se pure non
venga, in tutti i modi voi ritenete la chiave e andate al teatro. Con questa autorizzazione
mi misi in giro e procurai che se tu venissi all’improvviso ti trovassi nel palco in mezzo a’
tuoi amici: Biagini, Spada, Zampi e me. Poi eccoti che mi pianto a casa d’Annamaria ad
aspettarti. A mezz’ora di notte non eri arrivato. Intanto arrivò il battezzato Sante Luigi
seguito da un bel fiasco di vino e da un piattone di biscottini. Ci fu anche la parte mia, ma
sul vino feci passo. E mi godetti i bei propositi delle varie commari, fra le quali la commare
nera.
A ¾ di notte me ne andai lasciando ordine a Michele che se tu arrivassi venisse a
chiamarmi. All’1 ½ eccoti Michele ad avvisarmi che sul mio portone v’era Zampi. Mi vesto
e discendo. E Ferretti? Uhm! — E Ferretti? Eh! E ce ne andiamo insieme al teatro ad
aspettarti. Suonò mezzanotte, e tu stavi ancora in Albano.
Questa mattina mi ha detto Pippo Ricci: hai veduto Ferretti che venne a Roma ieri
sera? — Non è venuto. — Ma come?! Mi disse ieri che partiva a 21 ore! — Che vuoi che io
ne sappia? non è venuto. Annamaria così mi ha detto un’ora fa. — All’1 e ¼ pomeridiane
da capo Belli da Annamaria. Nessuno. Rientrato in casa trovo la tua di ieri dove non si
parla di viaggio, ma di progetti di viaggio etc. etc. Adesso torno da Annamaria ad
ordinare il preparamento dei tre articoli di vestiario da te indicatimi.
Bosco è inquietissimo per le ebreate del Sig. impresario Iacoacci.
Gli frulla di andarsene senza far giuochi, e piuttosto dare accademie fra qualche mese
quando sarà vuoto Argentina. Alibert è troppo lontano; Tordinona... eh, Tordinona... è
254
Tordinona... e non so se Tordinona, o Torlonia, o che so io... basta: Bosco è colla mosca al
naso. L’ho veduto poco fa da Balestra che gli ha fatto il ritratto in litografia. Bello.
Procurerò di veder Maggiorani. Ma potrà egli, ma vorrà egli venire giovedì? Chi lo
sa? Credo che a Rossi converrà aver pazienza, e rivederlo a Roma. Io verrò (se non con lui)
in altra compagnia e in altro giorno, quando me lo permettono l’atmosfera, la salute e gli
impicci.
Tutti i salutati ti risalutano. Tu di’ mille cose amichevoli per me alla tua famiglia ed a’
coniugi Rossi. Consola Gigio, compatisci la tua gamba, sopporta me e le mie ciarle e prega
Iddio che ti mandi piselli a scafare in compagnia delle tue buone figliuole. — La famiglia
Pazzi sta meglio de’ suoi parenti della Lungara.
Sono con la testa imbrogliata e il sangue acceso.
Il tuo Belli
P.S. La Pia, musica assai iona.
Adesso trovo in casa d’Annamaria un’altra tua del 20, recata ora dal Sig. Nicola.
Vado a portare a Lopez la striscetta scritta per lui. So che Bosco vuol venire a trovarti in
Albano. Ho fatto le ambasciate sui 3 articoli di vestiario.
LETTERA 291.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 22 maggio 1838
Mio carissimo figlio
L’esito de’ tuoi esami, notificatomi dalla tua lettera 19 corrente, mi ha pienamente
soddisfatto siccome tu prevedevi. L’ho voluto confrontare con quello del trimestre
antecedente, e vedo che gli corrisponde.
La sola differenza consiste in ciò che nell’altro trimestre ottenesti da’ Signori
esaminatori un bene con più in umanità, e invece nella stessa scuola ti è oggi toccato dai
medesimi esaminatori un bene semplice.
Ma a questa lieve differenza è pronta un’ampia compensazione nella totalità de’ voti
da te riportati in tutto il trimestre, imperocchè in un numero di lezioni minore di quello
del trimestre antecedente la relativa proporzione degli ottimi è maggiore, e di più non vi si
trova alcun male, mentre in febbraio me ne annunziasti pur due. Ecco il confronto, da me
ricavato esaminando le tue lettere, perchè, come tu sai, io le conservo tutte, e così bramo
che tu custodisca le mie. So peraltro che tu in ciò mi compiaci.
Nel primo trimestre
Trigonometria:
Ottimi N. 28
Beni......... 11
Mediocri... 1
___________
Voti.... N. 40
Nel secondo trimestre
Geodesia:
Ottimi N. 19
Beni........... 3
Mediocri... 1
___________
Voti.... N. 23
Umanità:
Ottimi N. 63
Umanità:
Ottimi N. 63
255
Beni......... 42
Mediocri... 6
Mali.......... 2
___________
Voti N. 113
Beni......... 23
Mediocre.. 1
Male......…—
___________
Voti N. 87
Riepilogo totale fra le due scuole:
Ottimi in tutto N. 91
Beni....................... 53
Mediocri................ 7
Mali....................... 2
_________________
Voti in tutto N. 153
Riepilogo totale fra le due scuole:
Ottimi in tutto N. 82
Beni....................... 26
Mediocri................. 2
Male....................... —
__________________
Voti in tutto N. 110
Dal soprascritto specchio risulta dunque una crescente proporzione di buon successo
ne’ tuoi studî ed io te ne sono gratissimo. Bravo, Ciro mio.
Mi è piaciuto di vedere il Conto delle spese semestrali fatto da te stesso per ottimo
consiglio del prudentissimo Sig. Rettore. Nulla trovo a ridire su quelle partite e tutto va
benissimo. Ti prego dire al Sig. Rettore che un poco più in là manderò qualche altra cosa
per ristorare l’assottigliato deposito.
La tua forchetta va spesso soggetta a rompersi. Quando verrò a Perugia, ciocché sarà
forse nel futuro agosto, vedrò di rimediarci stabilmente facendola cambiare in altra intiera
e più solida.
Io sono persuaso, mio caro e buon Ciro, che tu abbia sempre viva la memoria della
tua eccellente madre; ma pure voglio per tempo riavvalorarti il pensiero circa al giorno in
cui ella ritornò fra le braccia del Signore. Ciò accadde nella domenica 2 luglio. Vorrei
dunque che nella domenica 1° luglio di quest’anno tu facessi le sante divozioni in suffragio
di quella bell’anima, se mai a Dio piacesse di tenerla ad espiare qualche sua fragilità.
Ritorna i miei ossequi rispettosi a’ tuoi Signori Superiori e a’ nostri amici di Perugia.
Questi di Roma, e così i parenti e gli antichi domestici, fanno altrettanto con te salutandoti
affettuosamente. Fra gli altri ti dice mille cose il Sig. Avv. Grazioli, padre di Pietruccio tuo
antico compagno.
Ti abbraccia e benedice
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 292.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 29 maggio 1838
Caro Ferretti
Ieri al giorno, nelle sale dell’Accademia tiberina mi fu da Zampi consegnata una tua
del 27; ed io già dalla mattina ne aveva depositata una mia per te presso il gobbo.
Il Rosso ebbe i tuoi bai: 40, dicendo ruvidamente: mbè. A proposito del piccione
amico del tuo Gigio, il Padre Secchi lesse all’accademia un mezzo migliaio d’ottave nelle
quali si parlava di un certo angiolo che Sisto V° voleva acchiappare per le ali. Non fu
chiaro se lasciò nessuna penna fra le mani del Papa, ma anch’esso come il tuo piccione si
256
sottrasse alla divota persecuzione. L’angiolo raccontò a Sisto V° la storia romana e gli
dipinse tutte le brutte morti degl’imperatori cattivi: e tutto questo affinché il Papa
innalzasse la guglia di S. Pietro. Ci vedi chiaro? Degli astanti non poté vedere chiaro
alcuno, perché tutti finirono con gli occhi serrati. L’accademia fu affollata di gente e di
versi. Della prosa Salviana parleremo a voce.
Moltissimi tiberini, primo fra’ quali il Padre Rosani, mi dissero di salutarti, e fan voti
per la tua povera cianca. In questo però i primi voti sono i miei.
Finora resta ferma la Zampiano — mia venuta per domenica 3. Il tempo però
potrebbe imbrogliarla. Oggi è nuvolo e puzza di cacio.
Raccomandati i canarii e il gatto. Parlato dei letti pel 26 giugno. Salutati e salutandi.
Contraccambio di tutti.
Di cholera in Roma non si parla, almeno per ora.
Il neonato di Annamaria si è gonfiato nelle parti sessuali. Vedremo che sarà. Per me
direi: paradiso santo.
Bosco altercava domenica, al giuoco del pallone, con Iacoacci e Mitterpoch e
Tassinari etc. Povero Bosco! — Lo udì Biagini.
Addio, addio, a te e alla tua cara famiglia. Ti abbraccia
il tuo Belli
P.S. È venuto Chimenz a visitare il bambino di Annamaria. Non ne pare spaventato
affatto. Ha ordinato frequentissimi bagnoli di bollitura di malva e papavero.
LETTERA 293.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 30 maggio mercoledì 1838
ore 9 ½ antimeridiane
Mio caro Ferretti
Alle ore 7, cioè due ore e mezza fa, ho avuto due visite contemporanee e relative
entrambe al mio buon Ferretti: la prima era dello stalliere di Mandrella con un tuo plico di
ieri 29, contenente lettera per Zampi e lettera per Cavalletti: la 2a dell’esattore di Torlonia
(era il Sig. F.co Costantini) il quale mi disse: È lei il Sig. Belli? Ego sum. — Fa lei gli affari
del Sig. Giacomo Ferretti? — Distinguo. Li faccio e non li faccio. Cose di famiglia sì: cose
patrimoniali no. Ma perché questa domanda? — Perché ho qui una cambiale di Sc. 329:40
tratta dai fratelli Giacchetti di Prato a carico di Lorenzo Magni e pagabile dimani 31 al
domicilio eletto presso il Sig. Giacomo Ferretti. È dunque necessario il sapere dentro
domani 31 se il Sig. Ferretti abbia o no fondi del Magni, e se possa fornir notizie al Banco
Torlonia su chi abbia o dove si abbia a pagar la cambiale.
Partito l’esattore ho pensato recarmi presso tuo fratello se mai avesse qualche
cognizione di questo affare. Nulla me ne ha saputo dire, se non che dubitava esserci forse
un equivoco di nome (altra volta accaduto) fra te e Giovanni Ferretti libraio alla Minerva.
Ed io troccola dal Sig. Giovanni alla Minerva. Non c’era. Sta qua, sta là: da Ercole a
Pilato: da Caifasso ad Anna. Finalmente l’ho trovato. Il Sig. Giovanni si è stretto nelle
spalle ed ha fatto il nescio-nescionis. Non ha egli alcun fondo, non conosce il Sig. Magni (che
se lo mangi il demonio) non sa nulla né di cambiale, né di Torlonia, né di domicilio. Se ne
avesse avuto sentore io correvo subito da Torlonia per risparmiarti questo fastidio, benché
poi il debito non è tuo, e se un matto si è dato commercialmente per tuo ospite, senza
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manco avvisartene, suo marcio danno. Intanto però correrà il protesto, ci sarà la multa
della cambiale non bollata: nasceranno spese, conti di sconti: conti di ritorno ed altre simili
bancarie gentilezze. Io te ne scrivo subito. Se tu mai (ciò che non credo) ne avessi sentore
fa che domani 31 Torlonia ne sia avvisato. Intanto mi raccomanderò al gobbo che la
presente per costà non ti manchi.
La tua per Zampi l’ho consegnata alla Sig.ra Teresa. L’altra pel Cavalletti, l’ha presa
dalle mie mani il Franceschini in assenza del principale.
Ma vedi mia insolente temerità. I nomi rapprossimati di Bosco e di Cavalletti, il
ravvicinamento delle due idee Accademia e Giornale mi hanno messo in pizzicore di Tiresia
o di Trofonio. Tu dovresti aver parlato a Cavalletti del Bosco, perché del Bosco parli poi
Cavalletti a noi altri profano volgo. Eh? ho imparato la divinazione col metodo
angloamericano in 12 lezioni. Che se ho fatto cecca indovinerò una altra volta. Neppure i
profeti del vecchio testamento erano sempre di vena.
Tuo fratello mi ha dato la qui inclusa pel Sig. Vice-governatore. Eccotela: dagliela.
A casa tua va tutto in regola. Annamaria presto andrà a darci le mani attorno. Questa
mattina il bambino di lei è più gonfio di ieri sera. Si è mandato a richiamare Chimenz.
L’edema è montato all’umbilico. Me ne dispiace, ma pure un fanciullo di pochi giorni, in
una famiglia di tanti fanciulli e quai fanciulli! Con mezzi di fortuna equivalenti a
centesimi... Non è meglio il paradiso Santo? Io lo ripeto convinto del sì. Ma la madre è
sempre madre.
Visaj nulla ancora ha per te.
Pippo Ricci ti saluta e ringrazia.
Lopez l’ho visitato adesso: ti saluta anch’egli. I Balestra? gli Spada? i Biagini? Ti
salutano. E tu non vorrai salutarmi alcuno? Sì. Salutami tua moglie, e Cristina, e Chiara, e
Barbara, e Gigio, e il piccione di Gigio, e Rossi, e la moglie di Rossi, e Albano, e il lago di
Albano, e Ferretti e il cuor di Ferretti: la miglior cosa che sia nel mondo.
La carta è finita: dunque finisca la lettera; ma non finisca no mai l’amicizia e gli
amplessi del tuo frettoloso
Belli
LETTERA 294.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, giovedì 31 maggio 1838
ore 7 ½ pomeridiane
Mio caro Ferretti
Mezz’ora fa ho ricevuto da Annamaria, e Annamaria da Belardini, la tua del 29 con
entro l’Ode del Borgo pel Bosco, soggetti spessissimo confinanti. È bella. In un paio di luoghi
mi pare un po’ contorta; ma, ti ripeto, è bella, e te ne ringrazio. A proposito di versi il
R.S.P.M. mastica alquanto sulle mie ottave antigotiche. Il P. Rosani ha assunto di aprirgli
gli occhi, e sarebbe meglio la testa.
Manco male che mi dai una volta buone notizie della tua gamba, oltre quella sulla
miglior salute della tua famiglia. Che la prosperità tua e la loro imiti il suono della fama
che crescit eumdem, come si spiega il ch. Tommaso Manzini.
E Gigio ha ragione: il sole è callo. Avrà anche ragione un altro giorno quando dirà è
tonno e sbrilluccica. Bisogna mandare questo ragazzo a Greenwich.
258
Ho pagato bai: 05 invece di 03 per la canapuccia. V’era un conto vecchio per derrata
canepucciaria che finiva questa sera. Dunque ho fatto come Giano: ho guardato dietro e
avanti.
Il Peppe Pazzi, più pazzo di cervello che di cognome, ha ricevuto oggi la sua sportula
e il suo congiario settimanale. Sta bene, salta e bastona.
Annamaria è afflittarella. Il povero suo bambino, il Sante già sta fra i santi del
Paradiso. Però intende anch’essa il favore che può averle in ciò fatto la provvidenza.
Dunque si rasserenerà presto. L’edema progrediva. Ieri mattina, chiamato, tornò Chimenz
e disse: Ma siete curiosa! volete voi che il gonfiore passi tutto in un colpo. Ci vuole il suo
tempo. E il tempo infatti l’aumentava. Verso sera cessò il bambino di poppare. Nella
nottata è uscito da questo pantano senza imbrattarvisi un’unghia di piede. Cielo rubato, e
furto senza gastigo. Credo che questa morte equivalga a vita per Peppe. Con quel Santino
di mezzo lo vedevo brutto. Difatti le due comari (la nera e la gialla), (coccarda austriaca)
dicevano oggi: stà alegri, Peppe, ch’ai arisalito lo scalino, e abbada de nun riscègnelo. A questo
però ci deve badar più la madre e il Sig. Michele.
Spero che la mia di ieri, 30, consegnata da me stesso in propriis manibus gobbi-met, ti
sarà giunta. V’era dentro una lettera di tuo fratello, pel Vice governatore, e v’era il mio
avviso della faccenda Torlonia.
Non ci vedo più a scrivere. Suona l’ave Maria e il lume non è acceso. È ora di finirla e
andare a visitare padron Giuseppe il gibboso per mettergli la presente sulla coscienza.
Vammi salutando le tue donne e il tuo cavaliere astronomo.
Non trovo mai Zampi in casa onde combinar per domenica.
Cercherò Rossi per dargli il ben tornato. E mi sa mille anni di darlo a voialtri, tutti
rossi come cardinali e grassi come fornitori.
Sono il tuo Belli
Orsolina ha il petto indurito a destra. Teme.
LETTERA 295.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 1 giugno 1838 al mezzodì
Mio caro Ferretti
Ieri sera, a due ore di notte, un quidam in abito verde-aspetta, col pistagnino di
velluto nero-pallido, bussò alla porta di mia casa. Io dimandai: chi è? — Amici. — A
questa bella risposta aprii e mi udii chiedere se fosse in casa il Sig. Luogotenente Belli. —
Belli sì, e il luogotenente no, io risposi. — Dopo non poche parole si venne a concludere
che il quidam aveva in tasca una lettera per me, trovata da lui (egli diceva) all’albergo della
Palombella. Trovata! Come! Trovata! — Insomma era la tua del 30 maggio. Fatta la
consegna il Sig. latore non se ne andava, ma si diffondeva sulla porta in complimenti
disinvolti franchi e sugosi, come quelli del figlio del Sig. padre. Mi venne l’inspirazione di
offrirgli la mancia per l’incomodo, ma una altra inspirazione non meno persuasiva mi
diceva: non gliela dare, perché infine l’esteriore del quidam tanto poteva imbarazzare una
offerta quanto poteva compromettere un vado-liscio. Vinse la inspirazione del no, e in
compenso feci lume per le scale, onde colui non si facesse male.
259
Buggiarà la tua gamba e glielo dico di cuore. Ah! se ne avessimo quattro da far due
leva e due metti!
Annamaria si va tranquillizzando. Sta bene e così tutti.
Quando questa mattina mi enumerava i saluti da darti per tutta la famiglia, quel
biricchino di Peppe ha finito il discorso dicendo: e a Gigio.
Pare fermo che verremo domenica: Zampi, la moglie ed io; e per compiere la
carrozzata pensa il tuo compare di aggiungerci il Goto-Checcomaria. Tuo fratello mi darà un
involtino per te, forse.
Ho visitato Rossi. Come è vegeto! La moglie non era vestita, perché son ito mattino.
Mi ha mostrato la cartella o il portafoglio del Mago. Ti saluta.
Le notizie della vecchierella Firrao le ho dalla bocca del Canonico che ti riverisce a
nome di tutti. Sta meglio, povera vecchietta. Insomma bussa bussa e non le aprono mai.
Meglio così. Vivano le tue gagliarde camminatrici! Salutale sino alla noja, che abbiano a
dire: basta per carità.
Checco, Menico, e questi miei ti mandano mille vale e valete. Pigliali per moneta fina e
spendili meglio che puoi. — Sono di cuore
il tuo Belli
LETTERA 296.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 2 giugno 1838
ore 9 antimeridiane
Mio caro Ferretti
Dal sig. Bennicelli, a condotta di un garzoncello in grembial da cucina ravvolto
attorno al capo, ho in questo momento ricevuta la tua lettera del 31 maggio. Lode a Dio
che non la è un uovo da bere: altrimenti sarebbe giunta un poco stantìa. Dunque allorché
tu la scrivevi ignoravi la fine del povero Sante Luigi, il quale appena affacciatosi allo
spettacolo del Mondo ha richiuso le finestre e non ne ha voluto più sapere niente. Io te ne
parlai appunto nella mia del 31, e te ne ho replicato nell’altra di ieri. Annamaria benché
avente viscere di madre, va a conoscere il bel cambio fatto dal figlio, e la diminuzione de’
propri imbarazzi domestici. Solo de’ patimenti di nove lune non le resta un compenso. Lo
avrà nelle intercessioni di un angioletto. Ora io esco di casa e vado a trovarla. Se nulla v’è
oggi di nuovo lo aggiungerò appresso in lapis. Peppe Pazzi accenna grandi disposizioni
per l’arte del pionnier o direm noi del marrajuolo. Carolina è rubizza: Checco, vassallo;
Vincenzo e Pietruccio storti de cuore. E per essi il paradiso non verrebbe come l’anello al
dito? Eppure campano! Ma di qual vita! Ah! qualche volta sarei tentato di trovar pietosa la
legge di Sparta.
Ma volgiamoci a idee liete, e parliamo della tua cara famiglia.
La comare-di-ferro dello Zampi, che all’alimento del Camaleonte sa talora accoppiare
anche il più sostanzioso delle umane mense, che fa? dev’essere venuta invidia di
Misuratori e maraviglia di peso. Iddio la dilati in peso e misura di salute: amen.
La Cristina, nostro bilunare spavento, che dice? È ella contenta dell’atmosfera di
Ascanio? Le gambette sue fanno più cecca? Credo di no, e mi aspetto di trovarle domenica
(domani) sulle guance due belle tinte di rosa e di ligustro. Ligustro! Mercanzia arcadica.
260
La buona a casereccia Chiaruzza ha ella mandato a baboriveggioli i suoi pedicelli? Le
voglio veder domenica (domani) una pelle liscia e tirata come quella di un timballo, ma
strategico e non gastronomico.
La Barborin speranza d’ôra, come disen i milanesi, si divora libri come Saturno
figliuoli? Le vuo’ portare i volumi di V. Tomaso, operetta istruttiva e dilettevole da passare
il tempo in oneste veglie e piacevoli conversazioni. Ed eccotela fare il suo significativo
sorriso, e dire a mezza bocca quel Caro. Mi sta in testa che Barbaruccia è più allegra delle
altre. Quella sua viva mente si commuove ad una lieve scintilla. Buona ragazza! Ma già in
casa tua chi non è buono? Io quando ci capito.
E Gigio? E il faccione, guancione, capoccione, scapiglione? Come vanno gli amor col
suo piccione? Tengo dieci dozzine di buchi belli e fatti da applicarglieli domenica
(domani) attorno al collo come una collana di coralli.
Dunque, sissignore, domenica verremo.
Zampi e la sua Teresa,
Belli, uom di poca spesa,
E il teutonico Piave
Da tenerselo caro e sotto chiave.
Tuo fratello mi parlò dell’agosto albanese. Peccato che le tue Dame non veggano per
quest’anno il lago di piazza Navona! E peggio sarà che, quando torneranno, Belli... ohé,
ohé, ho sbagliato mese. Si trattava di luglio e non di agosto, Ebbé? che male c’è? Si sbaglia
tanto sugli uomini, che può perdonarsi un quivico da lunario.
Sono il tuo Belli
Della tua cianca mi vengono i fumi.
LETTERA 297.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, giovedì 7 giugno 1838
ore 7 ½ antimeridiane
Caro Ferretti
Riscontro quattro tue lettere ricevute da me ieri nel seguente ordine di consegna:
1a 5 giugno 1838 — portata dal gobbo-met.
2a 4 giugno 1838 — Ore 2 ½, a cena — portata da anonimo
3a 4 giugno 1838 — datami da Lopez
4a 6 giugno 1838 — ricapitatami dal viaggiator Menico Cianca.
Nella prima mi partecipavi la sospensione di un viaggio metu israeliticae societatis,
epperciò il ritardo di un’altra tua lettera.
Portai subito le incluse a Zampi e a Piave. — Fa’ tesoro delle voci e neologie del tuo
Gigio. A suo tempo se ne potrà formare una nuova Proposta. Vedrai che il ragazzo a poco a
poco scioglierà i passi. Io credo che la difficoltà del camminare dipenda soltanto dal modo
di voltar le gambe colle punte de’ piedi troppo in fuori. — Son persuaso che nella
collezione Leonardiana di farfalle avrai trovato di che divertirti. Come godo che la buona
Cristina azzardi già valorosa non lievi passeggiate! A questo proposito falle vedere gli
acclusi versacci N. 14 e quindi accendici il lume.
Nella 2a trovo le cose non lette nella precedente pel detto motivo ebraico. — Come
sarebbe?! Aspetti le cerase dei cinquanta scudi?! Me ne rido. Me le sono volute mangiar io.
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Non son uomo da buttar via un piatto di quella spesa. Pareva che lo stomaco nel digerirle
si accorgesse di quel che teneva sullo stomaco. Va a smaltire 50 scudi in una sessione! Non
ci voleva che il budello di Marcantonio e la perla di Cleopatra.
La 3a mi istruisce dei rapporti fra il Divino amore e l’amore di vino, cose che in certi
individui, in certi giorni, e in certe applicazioni, si ristringono dal binario al monadico e
divengono un unum et idem. Quale barbarie! e qual colpa in chi non la dissipa! Invece del
cerusico io metterei in affare, per adesso, il boia, e quindi precettori e Catechisti di sociali
doveri, e Iddio e la patria meglio dei crocesegnati.
Il tuo Petrarca in due tomi fu subito alloggiato al suo posto dietro al capezzale della
tua cara risorta.
Ed eccoci alla 4a lasciata jersera chez-moi dal Biagino rivale del Gemelli-Carreri
perlustratore del mondo. Io non era in casa perché passai la serata presso il nostro
Maggiorani rimessuccio in salutella piuttosto benino. Eravamo in sette a dir minchionerie
intorno ad una tavola, rotonda niente meno che quella di Arturo; cioè Maggiorani, Tavani,
Luchini, Feliciani, Pasquali, Baroni e me infrascritta sagratario. Mi son messo in ultimo per
amor di Galateo; ma là eravam tutti eguali e a perfetta vicenda come già i grotteschi
intorno al circolo bollettonario, salvator delle reciproche teatrali convenienze. Aspettavasi
il Rossi colla sposa, ma avranno preferito il riposo e qualche altra faccenda non simile.
Tutti que’ signori, con più la moglie del Maggiorani,
...la sua sposa pudìca,
La Costa del suo seno, Elena bella
Diversa tanto da quell’altra antica,
ti dicono salve ed ave a bizzeffe.
Or ora porterò a Piave la letterina che per lui desti a Menico Cianca, siccome
consegnerò la presente ad Annamaria onde la passi alle bisacce de’ due pellegrini Michele
e Giuseppe, i quali vengono a visitarti e sciogliere il voto nel vero santuario d’amicizia e
d’onore: a casa tua.
Orsolina dovrà soffrire un taglio per mano del Savetti. Vedo molta indifferenza in chi
se ne dovrebbe disperare. Eh mio Ferretti! Non omnes omnia. Abbracci e saluti di tutti gli
amici. Il Lanci mi ha incaricato dirti aver lui preparato un colpo di scudiscio pel Betti,
nominandolo e per Rosani non nominandolo, detrattori della Lanciana interpretazione
sulla inscrizione della statua etrusco todina. Cioè, Rosani non alluse nel suo Carmen alla
interpretazione del Lanci, ma disse che il senso della inscrizione resterà misterioso per
molti anni. Longumque manebit in aevum.
Questo al Professore è dispiaciuto perché i poeti non debbono giudicare del valore
dei paleografi già entrati in lizza, né presagire sui successi degli altri futuri dichiaratori di
cose archeologiche.
Circa al Betti, che parlò chiaro e con poco rispetto del Professore D. Michelangiolo,
questi stamperà che colui è imbisognato di sparnazzare articoluzzi da giornale etc. — Entrate le
vacanze parte Lanci e va a Venezia a stampare.
Addio, addio: ho cento cose che mi tirano fuori di casa e mi tolgono alla tua
compagnia. Questa notte sono stato in letto tre ore.
Salutami perciò le tue Signore.
Il tuo Belli
LETTERA 298.
262
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, venerdì, 8 giugno 1838
Ora 1 pomeridiana
Mio caro Ferretti
Con un solo quarto d’ora d’intervallo mi sono giunte questa mattina di buon’ora le
due tue lettere della vigilia d’oggi, una per mano di Carolina, primogenita della famiglia
antimedicea, e l’altra a condotta di un valoroso sans-culottes, vice-gobbo commesso del
superior dicastero Mandrella.
Mezz’ora dopo le due accluse pel copricapo e quella pel capo-copri (Lopez cioè e
Quadrari) giacevano tranquillamente ne’ loro luoghi di salvazione.
La Pazza e non matta Carolina ebbe il prospero da 20 fichi largitogli in tuo nome da me
cassiere, elemosiniere, complimentario, depositario, f.f. etc. della Maestà Sua Giacomo
primo, secondo, terzo, sino al millanta. I prosperi - Lambertini, alias papetti, commuovono i
cuori e rallegrano le pupille. La Carolina impapettata, con tanto più di rassegnazione
soffrirà il tardato materno regresso.
Oh la tua appetitosa colezione castellana! I lattarini dentro la tua padella potevano
dire ciò che testé ha detto morendo il Principe di Talleyrand, nel mostrare a dito un suo
pronipote presso al suo letto di morte. Vedete o signori, cos’è il mondo! Quello è il
principio; questo è il fine. Infatti i lattarini vedevano ancora il lago e già si trovavano nella
padella.
Mi rallegro della letizia di tua casa allo sbarco di Peppe, il cui accompagnatore
(nuovo Tiresia) mutò sesso, forse per opera di Bosco o dell’arco-baleno: diverso però in
questo dal pupillo viaggiatore itacense, che a lui una Minerva femmina divenne un
Mentore maschio, laddove al pellegrino de’ Pazzi un maschio Michele si trasformò in una
puerpera Annamaria. Nè la bussolottata fra’ due generi avrà certo prodotto fra voi che la
haec trovasse minori accoglienze che l’hic. Ai soli hoc mala ciera per tutto. Ma [...].
Suggellisi questa scombiccheratura e passi dal mio scrittoio al pluteo del famoso
gobbo di corte: che afferra i fiaschi e li condanna a morte.
Quindi fumeranno le Maziesche minestre,
E in quelle brodosissime lagune
Disseterem le nostre epe digiune.
Addio Giacomo più mio che tuo: ama il più tuo che mio
Geggebè
Mandoti di saluti una bisaccia
Da sparnazzarne in casa un tanto a testa
Ne’ giorni di lavoro e in que’ di festa
Quando si lava ogni cristian la faccia.
Così buon pro vi faccia
Il tempo, e l’aria e il cielo del paese,
E possiate campar cent’anni e un mese.
Dio facciavi le spese,
E d’adipe e pinguedine v’abbotti
Che sembriate ortolani e passerotti.
Vuotate anfore e botti:
E se volete i dì più lieti e belli
Toglietevi a compagno il Bassanelli.
263
Tanto vi dice il Belli,
E v’augura dal ciel pioggia di manna
Da gridar: pancia mia fatti capanna.
LETTERA 299.
A TERESA FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 11 giugno 1838
un’ora di notte
Gentilissima ed estenuatissima e macilentissima
Signora Teresa Ferretti
I gobbi sono persone amabilissime, e servizievoli più ancora di un servizievole, ma
quando manca la materia cosa può fare un gobbo, fosse anch’egli un dromedario o il
famosissimo Gianni? Quel povero Sig. Giuseppe vice-Mandrella ha sudato una camicia, se
l’aveva indosso, per trovare almeno un paio di mesenterii che si potessero adagiare su due
cuscini tanto che servissero di pretesto a far partire una vettura per Albalonga. Ma non
signora; non c’è stato verso di raccapezzarli; e le fatiche e i pensieri del vostro e mio caro
Ferretti han dovuto rimanere immobili come un’eredità giacente sotto curator giudiziario.
Alzatosi col canto del gallo erasi egli posto in giro perché la canestra contenente tutti gli
oggetti da spedirsi fosse pronta ad ogni fischio del gobbo; ma il gobbo non ha fischiato, e la
canestra bell’e ammannita e condizionata sta qui sotto i nostri occhi aspettando la
misericordia de’ vetturini. Ma non andrà sempre così, diceva un giorno la spidiera
all’arrosto; e dimani a bella punta di giorno speriamo che una carrettella, una carrozza, un
carrettone, un landò, un tilbury, un drosk, uno strascino, una barrozza, una lettiga, una
carriuola o un altro qualunque canchero locomotivo vi depositerà a’ piedi dieci
foderottone, mezza libra d’amido, uno scuffino verde, dieci borchie con dieci ferri, un
sapone da macchie, un cappelletto per Cuppetana, diversi pezzetti di cotone, altro cotone di
due specie, e 14 matassine economiche da mezzo baiocco l’una. Ne volete di più? Manco la
discrezione.
Dopo le promesse passiamo alle ammonizioni. Badiamo alla salute, Madama e
Madamigelle, perché la salute non si compera dal pizzicarolo, e starei per dire neppure
dallo speziale, benché gli speziali sieno d’opinione contraria. La verità al suo luogo.
Giacomo sta bene e meglio di me che sto come un toro: Sempre attivo e fervido
accoppia i santi pensieri di padre di famiglia ai dolci riguardi dell’amicizia. — Sono colla
compiuta mi’ stima etc. etc.
Il V. aff.mo ed obb.mo Belli
LETTERA 300.
A TERESA FERRETTI — ALBANO
Di Roma, martedì 12 giugno 1838
all’Angelus Domini nunciavit Mariae
Madama e gentilissima amica
È suonato. — Chi è? — Il giacchetto del gobbo (Tuttociò accadeva questa mattina alle
9 antimeridiane). — E cosa cerca il giacchetto del gobbo? — Porta una lettera: — Una
lettera di dove? di chi? — D’Albano: di chi poi ve lo dirà il carattere della sopra-scritta.
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Leggo al veramente chiarissimo e, appresso a tanto chiarore il mio nome e cognome e
domicilio, scritti in buona grammatica e ortografia da una penna capace di squisitissime
gentilezze. Questo, dico fra me, è della Signora Teresa Ferretti. Si spezza il suggello, si
spalanca la lettera, e... carissimo consorte! Diamine! Di questi farfalloni vi scappano?
Presto si richiuda il foglio e si spinga al padrone. Posso accertarvi che non ne lessi più in là
ritenendo che Voi, di due lettere preparate e chiuse, una per Giacomo e l’altra forse per
me, aveste errato l’indirizzo, scambiando per equivoco i nomi. Ma poi il nostro Ferretti ha
spiegato il busillis significandomi siccome egli stesso vi avesse commesso il dirigere la
lettera a me. Ma potevate rimediarci con una sopraccarta. Diamine! Cimentare la umana
curiosità e metterla a repentaglio di leggere sillaba per sillaba tutti i fatti di cosa vostra! Il
mio terrore dunque di diventare un intruso contro il voto vostro e del galateo mi ha tenuto
al buio dell’incomodo da Voi sofferto: sino a che, vedutici insieme Ferretti ed io presso lo
Zampi (alle ore 2 pomeridiane) non mi è stato da esso il tutto narrato spiegato e
comentato. Una parola, in grazia, Signora Teresina garbata. Parliamoci qui fra noi
all’orecchio, sotto-voce e senza testimoni. Ci sarebbe pericolo che questa improvvisa
indisposizione sia derivata da qualche diremo cipolletta od aglietto di più del solito e
consueto? A un affezionato Maggiordomo, tenerissimo della conservazione de’ suoi
padroni, sia perdonato l’ardire della dimanda e la temerità del sospetto.
Ah! quando io stesso, povero servitore senza livrea, vi scriveva jersera quelle
memorabili ammonizioni sulla salute, pareva che uno spirito delle mezzane regioni mi
andasse sobillando al cuore que’ consigli presaghi quasi del bisogno loro e della attuale
opportunità. Siete stata male? Se vi sentite in ciò la coscienza netta, e tanto netta da fare in
guazzetto il mea culpa, vi compiangerò assai e più cristianamente. Ma se mai quel
benedetto quinto peccato ci avesse cacciato per entro una puntarella di coda, allora poi
compassione sì, perché la nostra santa religione ce lo comanda, purtuttavia pregherò il
caro Dott. Bassanelli di correre su e giù per Albalonga o corta che sia, e di ordinar man
bassa su quanto di cipolle ed agli vi abbiano esposto al femminile appetito, il commercio e
l’agricoltura collegate in bel modo dalla moderna politica economica. E tutti mandi al
diavolo gli aglietti e le cipolline, senza alcun rispetto a qualunque nume egiziano che per
entro vi alberghi. E pare a voi che i numi d’Egitto gli Osiridi, le Isidi, i Tifoni, e i Canopi, e
gli Anubi e tanti altri simili inquilini d’obelischi e piramidi perdano mai la lor natura
indigesta allorché fannosi più modesti abitatori d’agli e cipolle? Sono essi oggi tutti numi
dannati; e voi vorreste cacciarvi in corpo tutta una casa del diavolo in una sola boccata?...
A proposito di boccata, Ferretti ed io abbiamo pranzato presso lo Zampi. E che bocconi! e
tutti senz’aglio né cipolla per grazia di Dio. — Questa sera poi Monsieur Jacques e
Monsieur Joseph assisteranno gratis (la più bella parola del vocabolario latino) ai giuochi
del Mago Bartolomeo, previo il dono di due polizini d’ingresso fatto dal Mago al mio
padrone. Ecco una giornata bene spesa, siccome ecco una lettera terminata all’oscuro. Ci
vedo appena per depositarci i saluti per le ragazze e per Gigio Cuppetana. Sono il vostro
aff.mo amico
G. G. Belli
LETTERA 301.
A TERESA FERRETTI — ALBANO
[Giovedì 14 giugno 1838]
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Fra l’amarezza de’ sofferti danni
S’io mi ti mostro mai lieto e faceto
Bada, donna, e non dir: quest’uomo è lieto;
Che dicendo così troppo t’inganni.
Né dal cuor vien quel riso né al segreto
Giunge del cuore ad alleviar gli affanni,
Come per foco e sovrappor di panni
Un umor non si espelle acre ed inquieto.
Schietta natura crederai tu spesso
Là dove l’uomo per ingegno ed arte
Illuder tenta e lusingar se stesso,
Se conoscer mi vuoi vieni in disparte
Mentre io sospiro in suon cupo e dimesso,
Né giudicar di me dalle mie carte.
Ciò premesso ha la Signora Teresa torto marcio e cappotto e prende grilli per buffali
nel suppormi di ilare umore per quattro facezie e ribòboli e passerotti che mi sono
scappati di penna in un momento di ubriachezza suscitata dal vapor d’aglio e cipolla di
Madama Ferretti. Senza burle vi assicuro che il mio spirito tutt’altro è che tranquillo, e se
qualche frizzo mi si affaccia alle labbra procede più da natural bile e mordacità che non da
voglia di fare il lèpido o il mattaccino. Anzi vedete quanto la mia stessa natura
impertinente ha perduto del suo vecchio taglio, spuntandosi come un ago d’Inghilterra.
Ieri sera fui amorevolmente condotto al rinnovato Argentina dal caro nostro Giacomo.
Ebbene fra quelle melodie birmane, o samoiede, o cufiche, o caldaiche, o sonnambule che le
siano, se io mi fossi trovato sveglio in petto il prurito di puncicare, la messe non mancava
per certo a farmi divenire un vero cannibale. Bravo il mio signor Lillo! Io lo consiglierei a
fare l’ortolano ed innestare il popon nella zucca. Una pompa sibaritica e più asiatica forse
che francese, uno splendido scenario e tre voci da paradiso non bastare a render soffribile
ciò che in altre circostanze di vestiario di pennello e di gole avrebbe forse rinnovato in
iscena la strage degl’innocenti. Mentre il reo sarebbe stato uno solo! Ci divertimmo
dunque assai assai assai, e beato chi di noi cinque (che cinque eravamo) poteva star più
prossimo al catenaccio.
Passiamo ad un altro soggetto. Il signor Filippo Zampi il Zumalacarregni del pozzo
delle Cornacchie, a me cognito e qui presente ed accettante, m’incarica di dirle un Mondo
gentilissimo d’impertinenze e tutte annodate a quell’antico filo neppure spezzato dal favor
della pizza diretta e dedicata alla Comare di ferro.
Perché, Signora mia Teresa garbata, dopo quella sua trascuraggine di saluti donde
nacque la guerra di Troia, si compiace Ella di ripetere i suoi silenzî ingiuriosi? S’immagina
forse che il Sig. Zampi sia un bamboccio da imbonire colle sculacciate? Lo Zampi è offeso e
arrabbiato come un idrofobo, è un furioso all’isola di San Domingo (Piave non vuole andar
via se non metto un codino, siccome egli saggiamente si esprime. E il codino vuol dir
saluti). Se non fossi io ve lo vedreste a cavallo a una canna venirvi a dare un mozzico al
naso, rinsellare il cavallo e partire. Dunque salutatelo o finisce male davvero.
Il Sig. Lopez sta invitando Ferretti a pranzo per domani (venerdì 15) e gli promette di
dargli da mangiare a spilluzzico perché non ha quattrini da buttar via; e Ferretti allettato
da queste seduzioni ha promesso d’andarci. La Signora Regina e sue figlie son qui e vi
salutano, e così il pittore del Monte della Farina e così il Felicetto Quadraro che naturalmente
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ha da venir dopo il pittore. — Piave se n’è ito: dunque vi posso dire a quattr’occhi e in
confidenza che egli conserva ancora in una scatoletta i quattrini destinati al gresso e regresso
per venirvi a trovare. Eh? che vignaccia! Aver fra voi un Goto-chiomato senza spesa
d’imballaggio e dogana! E non gli è mica un goto da affogarsi in un gotto. Se ne ride
l’amico d’una masnada di Mirmidoni bell’e cresciuti, ed armati di picche, cori, fiori e
denari, benché di questi ultimi un po’ meno degli altri nonostante la scattoletta del sacro
deposito del gresso e regresso:
Mi chiamo gesso
Con una mano scrivo e l’altra casso
E chi fidasi a me per Dio sta grasso.
Via non fate fracasso
Perché suoni cotanto il campanone
È segno che vien fuor la processione.
È venuto il garzone
Di Messer gobbo mentr’io vi scriveva
Blandizie da compar di Adamo e d’Eva;
E per questo la leva
Vi son ito a levar della campana
Perché voi la trattaste alla marchiana.
Quest’altra settimana
Vi scriverò di peggio, Iddio vi guardi.
Per ora parte il gobbo, e adesso è tardi.
Saluto le ragazze e sono il vostro
aff.mo amico Belli
che non ha paure delle vostre minacce
LETTERA 302.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 14 giugno 1838
Carissimo e pregiatissimo amico.
È finalmente pubblicato questo volume del giornale arcadico, da me atteso con tanta
impazienza perché doveva esso contenere l’articolo sulla vostra dissertazione intorno a
Cupra marittima oggi Ripatransone. Il giornale cammina già sempre con molta lentezza,
ma questa volta si è fatto anche più aspettare essendosi trattenuto sotto i torchi quanto
bastasse per dar tempo alla stampa di tre fascicoli mensili tutti in un corpo.
Pubblicatosi appena il volume, il Cavalier Fabi Montani, autore dell’articolo che vi
riguarda, conoscendo la mia premura per esso me ne ha inviato a casa una specie di
estratto che io vi spedisco oggi sotto fascia onde possiate leggerlo subito e vedere con qual
rispetto vi si parli della vostra opera e de’ vostri talenti. De’ quali persuaso io quanto e più
che tutt’altri vi esorto e prego di continuare a spendere il fino vostro criterio e la vostra
non comune erudizione in aiuto delle archeologiche ricerche italiane, sin qui non poco
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strapazzate da menti o poetiche troppo, o preoccupate o leggiere: salve le eccezioni
comandatemi dalla giustizia.
Ed io che faccio? Se voi mi dirigeste questa mia dimanda colla quale talora da me
stesso io m’interrogo, dovrei rispondervi: nulla.
Io ho lo spirito agghiacciato e quasi che morto. La memoria mi va sempre ogni dì più
languendo in guisa che né solamente dimentico le poche cose da me già lette e sapute, ma
le scarse letture permessemi in oggi dal nuovo e penoso mio stato d’isolamento non mi
lasciano pur traccia delle notizie che di pagina in pagina io ne venga o ricuperando o
acquistando. Ciò per un uomo che sapeva di non esser creato di sola materia deve riuscire
assai sconfortante e gettarlo in una deiezione di spirito tormentosissima e in un tedio
assoluto di una vita resa affatto vana ed inutile. A sollevarmi dal mio visibile abbattimento
i pochi miei amici di Roma vollero negli scorsi mesi far violenza alla mia restìa volontà
ripristinando il mio nome nell’albo dell’Accademia tiberina da me già fondata, ed a cui per
amor di quiete ragionevolmente rinunziai nel 1828. Ma cosa posso più fare in pro di
questo instituto? Per la prosa, giusta esigenza del secolo, mi manca oggi il tempo, la serenità
e la suppellettile del sapere, stante che lo scarso che io potessi già avere acquistato ne’ miei
studi letterarii e scientifici, mi equivale adesso per la perduta memoria ad un patrimonio
alienato, e per conseguenza a miseria più aspra perché non stata sempre sì intiera. Circa i
versi, mi son questi venuti da buon tempo in fastidio, come allettamenti d’una gioventù
che m’è fuggita, e come cose pochissimo in oggi soddisfacienti alla età in cui viviamo.
Purtuttavia, siccome più facile riesce il rimare che non il severo parlar da Oratore, qualche
verso l’ho pure composto in questi ultimi mesi, rubando qualche ora al sonno e al riposo
onde non violare il tempo reclamato dalle mie sacre occupazioni di padre. Tre de’ miei
amici (Sig.ri Francesco Spada, Domenico Biagini e Avv. Filippo Ricci, dotti tutti e amorosi)
han voluto far pubblico uno di que’ miei pochi e cattivi componimenti intitolato il
Goticismo. Esso vedrà per loro cura la luce in uno de’ prossimi numeri del romano Album: e
poiché eglino ne faranno estrarre degli esemplari a parte, io ve ne spedirò uno sotto fascia
appena verrà fuori dalle stampe. Vi servirà a solo fine di conoscere che io di più vi darei se
avessi di più e di meglio. Intanto, avendo io dovuto donare al Cav. Fabi Montani il vostro
libretto vorrei pregarvi mandarmene un altro colla stessa memoria di vostro carattere che
ricordi sempre essermi da voi stato donato. — Il nostro Orazio Piccolomini sarà contento
della promozione del fratello alla carica eminente di Presidente delle Armi. Presto vedrete
passare di costì la lor Madre.
Il vostro silenzio dall’8 febbraio in poi mi è stato sufficiente per conoscere che codesti
Signori addetti all’amministrazione de’ Beni ecclesiastici non hanno creduto bene di
sborsare le quote dovutemi sul sequestro Trevisani pel trimestre di gennaio, febbraio e marzo
passati, malgrado che il danaro sia colato in loro mani ad ogni principio di mese. Vorrei
sperare che scadendo un altro trimestre fra pochi giorni si compiaceranno essi di sborsare
contemporaneamente tutto il cumulo del semestre dal 1° gennaio a tutto il corrente giugno,
somma che giace di già intiera in cassa. Io mi sono sempre astenuto dall’avvertirne Mons.
Tesoriere sul dubbio che ciò possa spiacervi pei rapporti di conoscenza che voi abbiate con
codesti Signori. Assicuratevi però che essi mi arrecano molto danno con questa loro non
retta condotta.
Sono di vero cuore abbracciandovi
Il Vostro vero amico e servitore
G. G. Belli
Monte della Farina N. 18
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LETTERA 303.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 14 giugno 1838
Mio caro figlio
Mentre mi giungeva la tua del 31 maggio andava viaggiando verso di te una mia
lettera dello stesso ordinario. Essendo ormai corso d’allora buon tempo senza che noi ci
siamo dati scambievoli notizie, rompo io il silenzio per seguitare a darti prove della mia
memoria, la quale tanto più volentieri e spesso a te rivolgo in quanto che il mio cuore è
sempre più disposto ad amarti per conseguenza degli elogi che mi pervengono della tua
condotta. Non superbirne però, Ciro mio, di queste lodi: ricorda sempre che la bontà e
l’adempimento de’ nostri doveri è un altro dovere esso stesso. Ha scritto un famoso
autore: Vitavi culpam non laudem merui. Così astenendosi dal male e praticando il bene si
evita più la colpa che non si meriti la lode. Ma se questa ci viene pure tribuita si riceve con
gratitudine e quale nuovo stimolo a sempre meglio operare. E guai a quell’uomo che per
un falso sentimento ed abbietto, onorato a torto del santo nome di umiltà, si rendesse
insensitivo alla lode. Da quella bugiarda umiltà passerebbe a degradare del tutto la
sublimità della umana natura. Io non parlo qui del desiderio di biasimo e di mortificazione
stato sì vivo ne’ santi. Essi però bene e santamente operarono, e la umiltà loro fu un
eroismo soprannaturale, dono miracoloso del cielo. Intendo io di ragionarti de’ sentimenti
connaturali all’uomo in risguardo soltanto de’ suoi rapporti col Mondo, dove la lode
modesta deve necessariamente commovere un modesto animo a maggior compiacenza
delle azioni virtuose e lodevoli.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e saluta gli amici come ti salutano questi amici e
parenti di Roma, nonché i nostri antichi domestici.
Di’ alla Signora Cangenna che mi è giunta la sua del 9 corrente, intorno a cui la
ringrazio e le risponderò. Ti abbraccio di cuore e benedico.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 304.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, venerdì 15 giugno 1838
Mio caro Ferretti
È sembrato un destino! Il diavolo ci ha ficcato la coda. Ti avevo promesso di vederti
prima della tua partenza e di metterti in carrozza, e non ho potuto. Fra tutte le procellose
giornate trascorse dopo il mio cataclismo, niuna forse più arrabbiata di oggi. A mille
impicci disparatissimi affollatimisi sul capo questa mattina aggiungi il lasso di tre ore
dovutesi da me passare alla sperella del sole sotto il Gianicolo, a motivo di certa differenza
che va a divenire forense circa una descrizione e consegna di fondo appartenente allo
slabbrato patrimonio del mio figliuolo. Pieno di fuoco nelle viscere e grondante sudore ho
finito di mangiare un boccone per darmi ad intendere di aver pranzato, né prima delle 4 ½
mi è stato possibile di fuggire in tua casa e in quella d’Annamaria. Il Sig. Giacomo è partito
proprio in questo momento, mi ha detto la madre di Peppe; e ho da lei saputo che tu hai
dimandato più volte di me. Lo so: avevi a dirmi qualche cosa. Ma che faresti? Scrivimela e
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ti servirò. Si danno circostanze per le quali si è costretti a mancar di parola senza colpa del
proprio carattere. Salutami la tua famiglia. Colla testa svanita e dolente mi ripeto
Il tuo Belli
LETTERA 305.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 16 giugno 1838
Ore 10 antimeridiane
Mio caro Ferretti
A primo uscire di camera ho questa mattina trovato sul mio scrittoio un plichetto a
me diretto col subito di grazia. Dalle informazioni poi prese in famiglia ho rilevato esser
provenuto il plichetto da mani odorose di stabbio; dimodoché dovendo forse venire da
Albano e null’altro contenendo fuorché una lettera da consegnarsi a te subito di grazia, il
latore qualunque ci ha subito serviti entrambi in mezzo alla rognonata. Delle cose scritte
nella lettera, suggellata a fuoco sotto marchio di targa [...] fra un caduceo ed un ramo di
quercia sotto corna d’alloro, devi a quest’ora saperne più forse tu stesso che non io, benché
m’abbia il tutto fra mani. Nulladimeno ti rispingo la lettera quasi
Anima che là torna onde partìo.
Ma se la mia poca arte araldica non mi ha cuccato nella interpretazione della parte
blasonica del plichetto, quasi voglio invelenirmi come la vipera dello stemma per ciò che il
cultore dell’arte salernitana m’abbia suggellato una lettera senza neppure scrivervi dentro:
asino d’Arcadia, consegna l’inserta al tuo Maestro, e va a fiume. A fiume non ci sarei forse
andato, malgrado della mia propensione alla santa ubbidienza, ma in modo avrei disposto
le cose che fossimo tutti rimasti contenti come tre pasque, fra le quali entra anche quella
della befana.
Ma al mio Signor dottore El Bassanelli
E’ non cale del Belli una bucciata,
Bench’egli si trarrìa sino i budelli
Per fargli onore e il chiamerebbe Tata.
Ed io sotto quell’Egli intendo il Belli,
Come sotto quell’El ho sconsagrata
La gran parola che l’arabe arene
Salva udirono un giorno al sommo bene.
E sconsagrata l’ho perch’io discreto
Dar non potendo il gran valore antico
Al decimo segnal dell’alfabeto
Nella inizial del nome d’un amico,
L’ho ridotta a indicar Luca o Loreto
O Lazzaro, o Luigi, o Ludovico
O Liborio o Lorenzo o Liberato
O altro nome del libro del curato.
Che se poi la targa del suggello, laureata, roverata e serpeggiata, non appartiene al
Bassanelli, tutti i miei castelli in aria essendosi dileguati come le uova fra le mani di Bosco,
270
confesso e riconosco
che la bestialità di mia scienza
merita pentimento e penitenza;
e quando tornerò ad Albano, se più tornerò ad Albano, il nostro Dottore guardimi pure in
cagnesco, che gliene dò amplissima licenza.
Perch’io merto dolore e penitenza.
Oh abbiateci pazienza
Signor Ferretti mio, s’io scrivo male:
Non è colpa del nostro naturale.
Ho una penna animale
Ed una certa carta e un certo inchiostro
Che ne bestemmieria sino il Cagliostro,
Il quale a tempo nostro
È stato come dire un santarello
Da pigliarne a biografo il Burchiello.
Voi avete cervello,
E conoscete pur che quando io scrivo
Sembro un Mastro Bodoni redivivo.
Non mi fate il cattivo
Dunque in veder le zampe di civetta
Di questo foglio scribacchiato in fretta.
Poi, chi la fa l’aspetta,
E voi mi spedirete letterine
Come san farne i galli e le galline.
Ma è tempo di por fine
A tutto questo anfanamento a secco,
Perché ho vuota la vena e asciutto il becco.
Vi saluta Ser Cecco
E il Deramone e il Balestriero e il Cianca
In quest’ultimo fil di carta bianca.
Voi passate la banca
Dei saluti alle vostre quattro donne
Per le quali io vi mando un eleisonne.
E qui col come e ronne
E busse ed altro sustanziale addobbo
Io mi vi inchino e vò a trovare il gobbo.
G. G. Belli
Bene le Anne Marie, le Caroline, i Peppi, e le due scale-a-lumaca dei Vincenzi e
Pietrucci. Dei Checchi non me ne occupo un [...].
LETTERA 306.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, domenica 17 giugno 1838
271
Ben ch’abbia afflitti di dolor la gola
E gli articoli tutti e i segnacasi
Pur mi ti faccio a dir qualche parola.
Erano ott’ore, od otto e un quarto quasi,
Quando stamane il vice-gobbo amico
Venne, ed io lieto al suo venir rimasi,
Poiché seco recava un tuo gran plico
Gravido d’altro plico per colei
Che s’ha de’ Pazzi il bel cognome antico.
Ed oltre al plico destinato a lei
V’era pure un listel pel copri-testa
Di me e gran parte de’ consorti miei.
Tosto io con gamba studiosa e lesta
Portai l’uno alla buona Annamaria
E l’altro al Lopez, benché fosse festa.
Trovai Madama Pazzi in compagnia
Della figlia e dei figli piccoletti:
Ito era il grande a qualche birberia.
La salutai e il tuo plico le detti,
Mentre Peppe, quel furbo farfarello,
Veniami intorno a dimandar confetti.
Pel Lopez, alla luce d’un portello
Lo sorpresi mentr’era sbacchettando
La cupola dell’ultimo cappello.
Mi lesse il tuo biglietto sghignazzando,
Aggradì i vale della tua famiglia,
E altrettanti suoi vale io ti rimando.
Or sono al mio scrittoio ed ho le ciglia
Fise in sul foglio tuo a me diretto,
Che ha di stabbio più odor che di vainiglia.
Tu dopo il pranzo e pria d’irtene a letto
Me lo scrivesti il sedici di giugno,
Cioè ier, se il lunario il ver m’ha detto.
Del tuo Gigi in talare codicugno
Odo i passi più franchi, e omai mi credo
Che n’avrem certa la vittoria in pugno.
Correr per casa e sgambettar lo vedo
Giù pe’ laureti della villa Doria
E trascorrerli tutti in men d’un credo.
Canta, Ferretti mio, canta vittoria,
Né dell’aria vivifica d’Albano
Fia per noi questa la men bella gloria.
Quanto a Cristina tua cui va pian piano
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Restando il capo ignudo di capelli,
Non si sgomenti, o si sgomenti invano.
A giovanetta mai non mancâr quelli,
E presto ella n’avrà morbidi e lunghi,
E belli come i primi e ancor più belli.
Ma è forza che da questo io mi dilunghi
Per dire un prosit alla tua mogliera
Per le ingollate fragole ed i funghi.
Làscialene mangiar tutta una fiera
Con cipolle e con agli e citrïuoli,
In casa e fuori, e di mattina a sera.
Lenti aggiungavi pur, ceci e fagiuoli,
E cicerchie e con simili civaje,
Buona lega de’ funghi prataiuoli.
Quelli son cibi, e non ti dico baje,
Da impinzarne la pancia a crepa-pelle
E da cuocerne pentole e caldaie.
Qual prò ti fanno i manzi e le vitelle?
Qual prò l’acquaccia che diciam noi brodo,
Da maledirlo in tutte le favelle?
Porri mangi e radici, e ne la lodo,
E vi rimangi su radici e porri,
E rincacci così chiodo con chiodo.
E se mai credi ch’io faccia lo gnorri
Parlando come dire a badalucco,
Ben fuor del vero, o mio Giacomo corri.
Esser bestia vorrei come Nabucco
Pria di dir cose che smentisce il cuore,
Vorre’ in bocca serrar lingua di stucco.
Dopo il foglio del gobbo, a dodici ore,
O, per parlar romano, a mezzogiorno
N’ebbi un altro da incognito latore.
Il qual, tuttoché giunto al mio soggiorno
Dopo quello del gobbo di Mandrella,
Pur m’apparisce più vecchio d’un giorno.
Sotto la luce della prima stella
Me lo scrivesti tu, Giacomo mio,
Disceso appena giù di carrettella,
Onde mandarmi affettuosi addio
Per quanti amici tu lasciasti a Roma,
Compreso il Maggiordomo che son io.
D’Orsola chiedi tu? Porta la soma
D’aspri dolor e molti al casto seno,
E, infelice, ne geme attrita e doma.
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Se tu meco ne soffri anch’io ne peno,
E per lei vo’ pregando a giunte mani
Il Signor Gesù Cristo Nazzareno.
Buone nuove ti do del Maggiorani,
Ma il polso della sua buona compagna
S’oggi è tranquillo nol sarà dimani.
Ieri calcai per te piazza di Spagna
Per sapere in tuo nome della vecchia
Che un giorno muore e un altro giorno magna.
La morte halla tirata per l’orecchia:
Venerdì le fu dato il sagramento,
E a novo banchettar già s’apparecchia.
Ed io povera coda di giumento
Forse avrò appena il cinquantesim’anno
Mentre alla ghiotta sarà dato il cento!
Cesare intanto n’ha tutto il malanno,
Pagar dovendo il medico e il chirurgo
C’ogni otto giorni a sentenziar la vanno.
Grazie all’alvino ubbidiente spurgo,
Pari la vecchia all’araba fenice
Può dir morendo: post fata resurgo.
Quella signora Emilia viaggiatrice
Che insieme al Carbonarsi hai tu veduta,
Di te gran bene e di tue donne dice.
Ella pel Corpus-domini è venuta
A Roma, e presto tornerà alla Fratta,
Ma pria pel mezzo mio la ti saluta.
A’ tuoi due fogli la risposta è fatta:
Non manca ora che darla al dromedario
Perché ti giunga difilata e ratta.
Né credo, o mio Ferretti, necessario
Dir ch’io m’inchino alla fama corusca
Dell’inventor del gran vocabolario
Che farà un giorno disperar la crusca.
Il tuo G. G. Belli
LETTERA 307.
GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 18 giugno 1838
Ore 10 antimeridiane
Amice mi
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Domi tuae scribo, ed ho davanti gli occhi, e fra momenti sotto le mani il volume
Celsiano. Te lo spedisco oggi pel solito famoso canale Mandrelliano. Ho ricevuto, e già l’hai
capito, la tua del 17 unita al pacco libri (Hugo e Byron) da riporsi nelle scancie.
Insieme col Celso avrai dai vetturini del Mandrella due altre spedizioni, cioè una mia
epistola di ieri e un paio di scarpe di jeri sera. Non è partita stamane alcuna vettura.
Dunque, io ho detto, chi porta 30 può portare 31.
Il vetturino (lo credo tale e tale disse di essere) che portò il tuo pacco di libri girò
tutta la contrada, si scontrò in Annamaria, etc. etc. ma diligente come un cane da caccia
volle fiutar proprio la quaglia, e sapeva egli il perché. Aveva più fiducia nella borsa del
Signor Belli che non in quella della Signora Pazzi pel grande argomento del porto, o
buona-mano, o beveraggio che sia. Però è stato puntuale.
La lettera al De Belardini va adesso. O la porto io, o Carolina in mia vece.
Leggerò questo gran sonetto di quello strafalario del Fumasoni. Ma i Luigi
decimiquarti non vi son più. Peccato! Il Fumasoni si comprerebbe un palazzo; ed oggi
potrebbe appena acquistarsi una a palazzina.
Abbi cura del tuo ventre; metti in bagno il piscione Prof. Cuppetana; saluta e le tue
donne e il Bassanelli, e credimi il frettoloso tuo amico
Belli.
LETTERA 308.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 18 giugno 1838
Ore 6 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Al Sig. Belli soprannominato G. G. è arrivata due ore dopo il mezzodì una tua lettera
unita ad altra per Annamaria, contenente quest’ultima un pacco pel Sig. Servi. La moglie
di Michele ha situato il pacco Serviano sulla sua toelettina, specie d’altare inviolabile
donde nessun’altra mano ardirà rimuoverlo se non la destra del compagno di Baldassare e
Melchiorre. E Annamaria e Carolina in lingua semicristiana, e Peppe in lingua strona,
dicono salute a te, alla tua fungofaga, alla tua dischiomata, alla tua pidiscellosa e
st’antr’anno sposa, alla tua astratta e al tuo novello Pergamino
Perso - etrusco - caldaico - latino.
Tutte le quali impertinenze, uscite dalla boccaccia sprocedata di coloro, io intendo
non approvare, e ci protesto sopra e sotto, e di qua e di là, e dentro e fuori,
Però ch’io non vuo’ guai co’ superiori.
Io venero, stimo e rispetto tutti i singoli miei padroni e le mie padrone, e prima di metterli
in ridicolo
O mi fo sbudellare o infilo un vicolo.
Bada, Ferretti mio, al tuo colon, al retto, al cieco, al digiuno, etc. E se credi che alcuni cibi ti
faccian male
Non te li far venir su per le scale.
Orsolina ha acquistato un altro buco per una nuova suppurazione. Savetti dice che la
faccenda vuol esser lunga. Ella soffre, il marito tarocca, la balia dà mezza zinna, e presto
forse la darà intiera. Progetti svaniti: guai a cavaceci.
Ho raccolto una sporta di saluti, rispetti, inchini, sorrisi, parolette, di qua, di là, da
donne, da uomini, amici, parenti e benefattori. Te li mando tutti in un fascio, come sarebbe
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un pot-pourri, un millefiori, un cappon di galera. Danne uno spicchio a cadauno de’ tuoi,
serbando la tua porzione per te oltre le mollichelle del piatto. Piatto fa rima a Gatto. Ebbene
il tuo gatto vive in tranquilla e anacoretica solitudine, fornito a dovizia di vettovaglie o
vittuaglie, secondo le varie lezioni del Cesari, del Cecilia, e del Marola e dell’Azzocchi,
quattro pinacoli di Monte-Glossario.
Né a’ tuoi canarini vien penuria di canapuccia per consolarli del cantar tuttodì senza
che orecchio gli ascolti, siccome ballava la ebrea di Balzac nell’eternità del deserto teatro.
Orribile condanna!, ma che io pure affibbierei a certi arcadi amici miei e tuoi. Sonettare per
omnia saecula saeculorum senza una bocca che dicati bravo, senza due mani che ti battan
le nacchere! E chi sa che nel codice di casa non sia qualche articolo di tal fatta da vendicare
il genere umano dai misfatti Fumasoniani, Barberiani, e via discorrendo? Ah! se il cielo
m’avesse privilegiato della cistifellea dello Scannabue, vorrei scorticar loro quelle
orecchiacce e far loro strillar caino peggio che non accadde ad Agarimante-Bricconio e ad
Egerio-Porco-Nero.
Ama il tuo Belli.
Lo Spada nostro ti chiederebbe il Tibullo del Biondi per leggerlo, secondo che gli
promettesti, e poi letto restituirtelo. L’hai in Roma? Vuoi dargliene? Profitto di questo
cantoncello ch’era destinato all’ostia pria che la materia crescesse sotto la penna.
LETTERA 309.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, martedì 19 giugno 1838
ore sei pomeridiane
E sai tu, Giacomo mio, cosa ho fatto? Trovandomi fra le mani i libri da te inviatimi
per riporli a dormire sino al suono di novella tromba, ed avendoli già installati a domicilio,
un secondo pensiero più persuasivo del primo me li ha fatti ricavar fuori onde appagare il
mio desiderio di paragonare la Tudor alla Borgia, e la Maria alla Lucrezia: non già per
pescarci dentro le metafisiche simiglianze trovate dall’autore (o prima o poi che la penna
sua gli avesse scritti) fra i drammi della Lucrezia e del Triboulet, ma sì coll’unico scopo di
confrontarne i meriti letterarii fra i due lavori della Regina di Inghilterra e sulla Duchessa
di Ferrara, sulla figlia di Enrico VIII e sulla bastarda d’Alessandro VI. Io aveva fatto
conoscenza con quelle due famose eroine d’Hugo in tempi distanti e senza intenzione di
metterle una accanto all’altra per vedere qual fosse più alta di spalle. Ebbene, oggi ti dico,
e, se vuoi, dammi torto, che l’inglese cede d’assai alla inspirazione italiana; e giudico di
tanto superiore il lavoro della Lucrezia a quello della Maria di quanto l’obelisco del
Laterano sovrasta ai pinoli granitici piantati per paracarri lungo la nuova strada del Corso.
Io credo in quel volo veder Hugo perdersi fra le nuvole, e in questo dibattersi fra le
cupole e i tetti, sempre a vista di chi non s’alza da terra che per la virtù muscolare di un
salto. Pochi certo sapranno anche sollevarsi all’altezza che il fantastico francese seppe
segnare nella sua Tudor, ma fra que’ pochi alcuno può lasciarselo sotto e fargli cader pietre
sul capo; laddove sembra a me che, fatta estrazione dalle morali mostruosità e dalle
sregolatezze della fantasia, il concetto della Lucrezia e la macchina di quella scenica azione
stancherà sempre ed ali ed areostati di chi tentasse seguirlo pel cielo immenso in cui si
lanciò lo scrittor temerario. Riderai, buon Ferretti, dell’ardire di un povero rettile par mio
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nel misurare i voli, e stabilir quasi una metrologia delle letterarie ascensioni. Eppure io ho
una macchinetta ad hoc, uno strumentuccio assai attivo che in simiglianti speculazioni rade
volte mi inganna: il cuore. Quando esso ha fortemente battuto, provo spesso la
soddisfazione di trovare i suoi moti meccanici e naturali in armonia coi giudizi de’ più
riveriti cervelli della letteraria comunità. Nella Tudor io volevo commovermi: la Borgia mi
commosse: là il mio cuore si agitava, qua mi balzava dal petto. Grazie intanto alla tua
spedizione di libri: vi ho sopra instituito un esperimento in qualità d’uomo-spirito. Ciò mi
darà un po’ d’energia per sopportare il peso de’ travagli come uomo-materia.
E sissignore, la tua lettera di jeri 18, fa or parte del fascicolo della tua cara
corrispondenza, mentre il plico pel Vera aspetta il padrone in casa de’ Pazzi senza congiura.
Annamaria la vedo in buonina salute: Carolina in buonona. Il Checcaccio tiene la
testa fasciata, perché un solito umoraccio annuale gliel’ha fessa come un granato. Quattro
capelli tagliatigli per forza, quattro unzioncelle d’unguento, ed eccotelo già fra poco in
istato di correre per Roma a salta-la-quaglia, e di cozzare sin colle corna del diavolo suo
aio e maestro. Gli Stortini tirano via come possono. Ogni pelo un bozzo: ogni passo una
cantonata. Peppe poi, oh in quanto a Peppe l’è un altro paio di maniche. Dà più di quel che
promette, e con un martello alla mano va picchiando alla spietata
Mollia cum duris et sine pondere habentia pondus.
Costì moderato, dici tu: costà smanioso, rispondo io. E lo scoliaste nostro aggiungevi
caldo, benchè il reverendo Prof. Cuppetana legga callo, cioè sostanza cornea del derma.
Ebbene? Come e quanti si raccolgono nuovi vocaboli dai fornelli di quell’al-glotto-chimista?
Tesaurizzi tu Padre? Oh te beato! Sì presso alla fonte! Io poverello in questo avido
fondaccio non m’ho soccorso che ne’ putenti arcaismi d’una favella fradicia per quasi sette
secoli di vita. Il tuo Cuppetana te ne dà di sì rigogliosa e fresca da starne fresco come la
paretaria. Capo-basso avanti le sei Signorie vostre e schiavottiello.
Il tuo G. G. B.
LETTERA 310.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 20 giugno 1838
Mio caro Ciro
Dimani parte di qui la gentilissima Signora Maddalena Caramelli, madre del
giovanetto Augusto che va a visitare nel Collegio ov’è insieme con te convittore. Ebbe ella
la bontà di parteciparmi questo suo viaggio perché io potessi approfittarmene se mai ti
dovessi scrivere. Eccomi infatti a valermene onde riscontrare la tua del 12, che ritardata al
solito di un ordinario non mi giunse prima del giorno 16. Così mentre questa tua lettera
veniva verso di me andava camminando verso di te l’altra mia del 14 che avrai avuta dal
degnissimo Sig. Rettore. Riverisci lo stesso tuo buon Superiore, e ringrazialo in mio nome
della cura ch’egli si prende di non lasciar passare occasione senza darmi buone notizie di
te.
Credo che a Perugia, siccome qui, benché colle debite proporzioni, sarà tornato il
caldo.
Ho aggradito i saluti della obbligatissima Signora Cangenna, alla quale ti prego far
giungere la qui unita, o dandola a Lei stessa se la vedi, o facendola passare nelle mani del
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Sig. Luigi Micheletti allorché si rechi alla Computisteria del Collegio, ovvero usando un
altro mezzo che ti venga possibile.
Non so se tu ricordi aver qualche volta udito che io nella prima mia gioventù fondai
a Roma un’Accademia letteraria col nome di Tiberina. Nel 1828 me ne ritirai per savii
motivi che un giorno ti spiegherò. Intanto sappi che dopo dieci anni alcuni miei ottimi
amici e sapientissimi han voluto che io tornassi a quell’instituto da me abbandonato,
sperando essi che ne trarrei sollievo al mio spirito malinconico. Io gli ho soddisfatti, ma
con tutt’altro scopo, che è il seguente. Siccome la mia vita sempre solitaria mi ha fin qui
reso a tutti ignoto, ho in oggi conosciuto che ciò non potrebbe essermi più conveniente nel
nuovo stato della nostra casa. Quindi l’idea di acquistare buoni ed utili rapporti pel tempo
in cui dovrò presentare te al Mondo e aprirti una strada di stabilimento, mi persuase al
riprender parte nelle cose che accadono in detta ragunanza di uomini dotti e influenti. Fra
gli scritti da me finora letti colà, i miei amici han voluto stamparne uno entro un certo
giornale romano, e me ne faranno estrarre alcuni esemplari. Ciò accadrà fra due settimane.
e allora io te ne spedirò un paio di copie, una per te e l’altra pel Sig. Rettore dal quale ti
farai spiegare ciò che vi si contiene. Il componimento è in versi, ed ha per titolo Il
Goticismo. Vi si sferzano le nuove mode nelle arti e nelle lettere, con cui si fanno oggi
ridicoli gli uomini. E poiché tu sei vicino ad entrare nel Mondo mi pare bene che principii
a conoscere qual sia il lato dal quale si debba esso schivare o almeno non imitare. I miei
soliti rispetti a’ tuoi Sig.ri Superiori e agli amici. Ricevi tu poi i consueti saluti da tutti. Ti
abbraccio e benedico
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 311.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, mercoledì 20 giugno 1838
Ore 6 pomeridiane
Eccomi qua, Sig. Giacomo, o Giacopo, o Jacopo, come Le pare. Sono a darle conto del
mio servizio dopo l’arrivo della sua di ieri 19. — Il pacco Vera sta a far compagnia al
gemello, finché il Vera non tolga e questo e quello. — Il Tibullo-Biondi è passato dalla
biblioteca Ferretti a quella Spada. E costui ringrazia colui. — Il Manzoni completato passò
dalle mani del Raggi a quelle del Belli. — Il Visaj nihil habet per ora. — Il Servi, da me
fatto ieri avvisare per mezzo del Padre Ascenso, ritirò iersera il caricamento giacente per
lui in casa Pazzi. — Il Quadrari, avvisato da me-me, ha levato la sua lettera dal Caffè di S.
Luigi. — Anna Maria de-universis fa la madre di famiglia. Carolina fa il bucato in via della
Farina N° 36 secondo piano. — Peppe grida, corre, martella.
Degli altri uno a sedione uno a stampella.
Checcaccio ritorna alle sue onorate occupazioni. — Michele va a caccia forestieri,
ma... fa caldo e i forestieri vengono col passaggio dei tordi.
Questo episodio non l’avrà il gobbetto
Ma il Signor Sigismondo l’architetto.
Ei si parte diman da’ sette monti
Per veder certe cose a Tor-tre-ponti.
Dàgli le figlie tu perché pian piano
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Le meni all’infiorata di Genzano.
Son ben fidate e torneran la sera
Sotto la scorta della tua mogliera.
E se tu non ci vai pon tutte sotto
Alla giurisdizion del Poliglotto.
Chi lor vorrà dar guai, Muccio mio bello,
In compagnia d’un uom come gli è quello?
Rispetteran la femminile gualdana
C’abbia a capo il Maestro Cuppetana.
Egli con due vocaboli de’ suoi
Farà Celti fuggir, Senoni e Boi.
E se tornan, con quattro paroloni
Farà Boi rifuggir, Celti e Senoni,
Che cacciandosi dentro alla foresta
Diran: chi è mai quest’uom? Qual lingua è questa?
Tu studia, amico mio, giaci e t’impingua:
Le tue donne a scortar basta una lingua.
Mangia, o Iaco, piselli e lattarini
E insalata de’ Padri Cappuccini;
E dai Conventuali abbiti pure
Per un soldo un canestro di verdure.
Niun qui a Roma ortolano manigoldo
Te ne darebbe tante per un soldo.
I nostri rivenduglioli son ladri
E non fan come i reverendi padri,
Che ti danno l’erbucce, e che so io,
Men per danar che per amor di Dio.
Questo è un paese, o mio caro Ferretti,
Che non ti puoi salvar manco sui tetti:
Cerca ognun di campare a spese tue,
E per uno che dan chiedono due.
Io mi son fatto un paio di stivali
Che rassembran due veste d’orinali.
La suola vi sta in lita col tomaio,
E quattro pezzi sono anzi che un paio.
E pure quel ladron del ciabattino
Tre scudi vuol da me d’argento fino,
Dicendo che un pochetto di sconquasso
Non è cosa da far tanto fracasso.
Dunque statti in Alban, Giacomo, e credi
Che qui nulla cammina co’ suoi piedi.
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Basta il detto; ma innanzi ch’io suggelli
Pregoti riverirmi il Bassanelli;
E per me bacia il lembo delle gonne
Di quelle quattro perle di tue donne,
Teresa, Chiara, Barbara e Cristina,
Degne d’andar in voce anche alla Cina.
E tu, o Terpandro dalle quattro corde
Da me t’abbi un amplesso ex toto corde.
Il tuo G. G. B.
LETTERA 312.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, venerdì 22 giugno 1838
Ore 5 pomeridiane
Caro sor Padrone
Passando io questa mattina dal negozio di Lopez vi ho trovato la vostra lettera di
mercoldì 20, lasciatami secondo l’indirizzo dall’amico Zampi. Per vedere il gran pesce non
era più tempo. Già vendevasi a fettine e fettone per baiocchi 18 la libbra ed anche per 20 o
25 secondo il genio de’ compratori. Dicono che fosse uno sterminato storione, ma che
insieme vi si trovassero due smisurati tondi. Così mi ha detto una certa Signora Dorotea
della quale ecco le precise parole: ci suono un storione molto grandissimo e un tondo o due salvo
il vero, e lo so dalla Signora Malta delli gipponari ch’è persona che lo puole sapere, e tutto assieme
pesa settecento e passa libbre tra tondo e storione che nissuno ha possuto mai vedere una cosa
accossì tale come questa di pescaria d’oggi, che s’assicuri certo che non si va più in là nemmeno per
le mille. A tanto bel tratto e fiorito non mancava alla Signora Dorotea che inzepparci dentro
(per fàs e Caifàs) il Maggiorasco dell’Achillini Marinese che ad ogni modo vi avrebbe fatto
sempre miglior figura che non in quel beato sonetto dedicato a S. Barnaba profligatore de’
contagii e del roco terremoto. Bisogna dire che il roco terremoto si fosse infreddato e
accatarrato per qualche colpo d’aria sofferto fra quelle pericolose colline Marinesi o
Frascatane. Ma se il Sig. Fumasoni-Biondi, anziché porre in ridicolo il povero terremoto
per un po’ di cimurro di testa e per un tantin di catarro, gli avesse fatto amministrare una
o due once di siroppo di viole, avrebbe operato più da cristiano; e il mordace sonetto
camminerebbe altrimenti.
E, a proposito di terremoto, a Costantina in Africa si sono sentite alcune scosse. Un
dotto Ulema ha spiegato al comandante francese la cagion naturale di quel fenomeno. Il
globo, dice il dottor Musulmano, è sostenuto da un gran toro sulla punta di un corno. Allorché il
toro è stanco, da un corno fa saltar il globo sulla punta dell’altro; ed ecco il terremoto chiaro
chiaro come la sperella del sole. Si sa che la nostra terra deve stare appoggiata a qualche
cosa. Il toro poi si appoggia dove può, e tutto va in regola.
Ah! quel costume di dare al tuo Gigio il sobriquet di Cuppetana mi fece saltar via dal
capo il suo vero nome e la sua festa di ieri. Ne avrei fatta onorevol menzione nella mia N°
9. Ad ogni modo mille anni ed accetti il voto infra octavam.
Bada dunque di non calcare il capo al serpente. Guardati attorno ne’ tuoi passeggi.
L’ipsa conteret caput tuum non fu detto per la suola delle nostre ciabatte.
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Qui non piove acqua ma raggi di fuoco. È da tre giorni un caldo sufficiente alla
graticola del diacono S. Lorenzo.
Ammiro Bassanelli e compiango Cristina: l’uno per togliere, l’altra per perdere il
primo fregio di una testa femminile. Ma capelli e guai non mancano mai. Lo sanno pure la
Signora Malta e la Signora Dorotea.
I due plichi pel Vera mi giunsero; e se a te giunsero tutte le mie dal N° 4 al N° 9, ne
avrai in alcuna d’esse avuto contezza.
Orsola sta così così. La bambina dimani parte per Calvi colla balia.
Ti dò tutti i saluti di tutti per tutti, e fra tutti fa’ che valgano quelli del tuo
Belli.
P. S. Prima di casa Gobbi rivedo casa Pazzaglia. Saluti e saluti di maschi e femmine
per femmine e maschi. Prenda ciascun la sua parte e l’intaschi. Vera non si vede. Se avrà
voglia verrà, come si è d’intelligenza.
LETTERA 313.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 23 giugno 1838
Ore 4 pomeridiane
Così, mio caro Ferretti, la lettera tua di ieri 22 come il pacco libri ch’eravi annesso, mi
sono giunti questa mattina.
Il Triboulet, ossia Le Roi s’amuse di Victor Hugo mi è già altrettanto noto quanto io
conoscevo prima d’ora la Lucrezia e la Maria. Trovandomi in mano queste due ultime
allorché tu me le spedisti da Albano onde riporle nella tua biblioteca mi nacque il
desiderio di confrontarle, cosa da me non mai praticata per averle lette in separati tempi, e
con diverse disposizioni d’animo. Oggi però rileggerò ancora il Triboulet, onde vedere
quale impressione mi lasci nell’animo alla seconda lettura, in un’epoca assai amara della
mia vita, lo spettacolo di un misero padre subissato sotto i minuti piaceri del trono.
Le tue segrete resteranno impenetrabili sino all’aria ed al sole. Io ti compatisco quanto
può cuore umano compatire le sventure non meritate. Ti chiamo io sempre povero martire,
che tal sei per motivi estrinseci ed intrinseci a te: fortuna nemica troppo, ed animo troppo
sensitivo. Ottimo uomo e padre ottimo di famiglia meriteresti assai più benigni riguardi
dalla provvidenza.
Anche a Roma, e forse più qui che costì, il caldo crescit eundo come la Fama. Guai a
chi abbia affari nella mattina! e gli affari si trattano quasi tutti in quelle ore.
E Vera non si mostra. Michele col quale ho parlato in casa sua tra mezzogiorno ed
un’ora, si propone di andarne a far ricerca domani. Io glie ne ho ben insegnata la casa,
benchè attualmente stante l’assenza delle donne, credo non ci si trovi mai alcuno.
Maggiorani sta benino: la moglie non troppo. Pochi giorni indietro alla di lei
vignuola a porta Cavalleggieri ebbe una colica e fu riportata a casa.
Pensano entrambi di assaggiare l’aria di Campagnano, per unire lo scopo della
villeggiatura a quello di provvedere a certi affari di famiglia. Pel primo punto io
dissentirei altamente, non potendo comprendere come (a quanto essi dicono) il clima di
Campagnano possieda migliori qualità di quello di Roma, quando a sole due miglia di
distanza Baccano avvelena sino le rane ed i passeri.
281
È stato male il nostro buon Rossi con una gastrichetta. Oggi è uscito. Egli e la moglie,
ingenua donnina, salutano caramente te e la tua famiglia.
Il Marchese D. Luigi Del Gallo Roccagiovine mi ha mandato in dono (credo lo
manderà anche a te) il suo stampato progetto per migliorare la navigazione del Tevere, col
motto di Brindley: Iddio non ha fatto i fiumi che per alimentare i canali. Così i fiumi senza
derivazioni di canali non servono, non servirono, e non serviranno mai a niente. — E un
Del Gallo fa un dono a un Belli!
Lunedì 25 giugno 1838, prova del Sig. Cav.re Gaspare Servi all’Accademia tiberina,
annunziata con nuovo esempio sui pubblici fogli: ci sarà dunque tutta Roma, anzi tutta la
Comarca anzi tutto lo stato e qualche fetterella di estero sin dove giunge il Diario. Vedi
quale apprensione per noi poveri legittimi suppedanei! — Non vi vuol niente a trovarsi
faccia a faccia coi 40 di Parisi e di Orciano, sotto la presidenza d’Arago e di Betti.
Altro avvenimento. Giovedì 21 alla sera, nel Caffè Atenaico di Valle, fu aspra
sanguinosa e tragica lacerazione di denti canini ed unghie gattesche contro la fama del
povero Costantino Mazio per certo articolo sulla musica di Lillo, anzi sulle musiche in
genere, anzi (meglio) sui libretti in massa. Otto o dieci lingue di vipere fecero il loro
dovere dalla ora 1 ½ alle 3 ½ di notte.
Finirono la fiera carneficina col trasformare a penna il nome di Mazio in quello di
Matto; e così restò il foglio sui tavolini del Caffè, e vi rimarrà fino al futuro giovedì, ad
publicam comoditatem. Avverti però che i giudici, o i manigoldi, ne sapevano meno del
reo.
Chi dice: Bosco passerà ad Argentina; chi dice: Bosco passerà a Sinigaglia. Sono fra i
secondi coloro che dubitano della licenza vicariale per la novena di S. Pietro, mentre si
crede che dopo S. Pietro l’incantatore vada a Sinigaglia onde operarvi di concerto con
Lanari. Intanto però il demonio di Bosco si riposa, e giuoca alla Mora con quello di Socrate
fra un cancello e l’altro del Castello di Plutone.
Ti debbo i ringraziamenti di Spada pel prestito del Tibullo di Biondi.
La presente ti giungerà pel mezzo di Monsieur Felichet qui va partir demain pour
Albano. Nous sommes dejà d’accord que je lui laisserais ma lettre au café de Saint Louis a
Ripetta e mò pozzo chiamamme romano peggio de lor’antri.
Casa Pazzaglia, non parente degli Zelli, riverisce e saluta. Gli amici riveriscono e
salutano. Io saluto e riverisco Padre, madre, figliuole e figliuolo.
Il tuo G. G. Belli.
LETTERA 311.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 27 giugno 1838
mercoledì ore 8 pomeridiane
Dal solito Triboulet di Mandrella mi si è ricapitata la tua di ieri con entro due
letterine per tuo fratello, che io stesso ho lasciato in mano di Lopez. Costui teneva presso
di sé una lettera (non so di chi) al tuo indirizzo: e così un giornale da inviarti. Ho io ritirato
entrambe le cose e te le spedisco qui unite.
È comperata la pezza di fettuccia bianca inamidata e tesa dalle sorelle Piccirilli che
salutano il Sig. Giacomo Ferretti.
282
I dettagli tuoi su Cristina e sulle tue angustie per lei mi stringono l’anima. Son padre
anch’io e d’un cuor paterno non d’ultima qualità: quindi comprendo il tuo dolore e ne
partecipo. Povero Ferretti! Quando avrai pace? Quando l’avremo?
Vidi Zampi ieri sera al caffè e lo avvisai della consegna da me fatta alla moglie della
lettera che tu mi avevi compiegata per lui. Mi dimandò dello stato sanitario di tua
famiglia; ma io, benché quasi persuaso che tu stesso gliene avrai scritto qualche cosa,
purtuttavia legato dal segreto da te impostomene risposi irre orre come rispondo a tutti
onde non mentire nec citra nec ultra dal vero.
E bisogna davvero badarci a quel lutin de ton fils. Di giorno in giorno i fanciulletti
vengono imitando più e più i capriuoli inerpicandosi dove meglio ne viene il destro o la
voglia: pericolosi in ciò più i maschi delle femmine, parendo quasi che la natura abbia
destinato il nostro sesso alle temerarie imprese ed ai gesti d’ardire. Dunque, sì, badaci e
facci badare; ma già questi consigli miei vengono superflui alle sollecitudini della paterna
e amorosa tua vigilanza. Stampagli un ben sonoro bacio per me su cadauna di quelle belle
guanciotte buone da servire per due cuscinetti da macchina elettrica.
Biagini dev’essere in viaggio tornando da Frascati per dove partì ieri una cum variis
pistoribus vel panicocolis aut frumentariis sive etc. e non altrimenti etc. Laonde i tuoi
saluti li farò quando etc.
Orsolina omiopatizzata sta... come sta? Chi lo capisce? Io no pel dio Ercole sul cui
altare si giura la verità. Il medico si porta appresso in una scattolina da anelletti
La spezieria con tutto il necessario
Per medicar l’esercito di Dario.
Che ne caverà? Indovinala grillo. Intanto per non farla morir di fiamma l’ammazza di
fame. Il Signore benedica questo discepolo del sublime Hanchemann (che non so se si
scriva così, non ricordandomi delle lettere componenti il suo nome da me letto sulle sue
opere), e dia tempo al moscerino di portarsi in aria la colonna traiana attaccata a un’aletta.
Io ignoro come a questo proposito la pensino i Ch. Dottori Carbonarsi e Bassanelli;
ma il sangue bollente non mi par brodo da raffreddarsi con una gocciola d’acqua tolta da
un secchio in cui ne fu infusa altra gocciola d’altro vecchio, e così di gocciola in gocciola e
di secchio in secchio da trovarne la quantità e le proporzioni nelle tavole logaritme. Essa,
la povera paziente, ti saluta senza fiato.
Qui troverai nel pacco:
1° Lettera responsiva di Vera
2° Lettera datami da Lopez
3° Giornale come sopra
4° Lettera di Quadrari (che non ho veduto)
5° Pacchetto di cerotto
6° Fettuccia bianca
7° Calze nere, paio uno
8° Un fagottello di pezze bianche
N. B. I ventagli non si mandano perché Quadrati non gli ha portati.
Al momento di chiudere la presente e impacchettarla ricevo le altre tue del 26 e 27
coll’involto de’ libri. Annamaria e Carolina e Peppe sono qui meco e gioiscono al pari di
me delle buone disposizioni postergali della tua cara Cristina. Dieu en soit loué et vous
tienne en joie.
Non conosco l’opera di Gioia di cui mi parli. Ne farò ricerche e se la troverò l’avrai:
altrimenti perde la Chiesa.
Saluti inchini baciamani etc. etc.
283
Il tuo Belli.
P. S. Vincenzone aspetta il sonetto per S. Pietro.
LETTERA 315.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma 28 giugno 1838
Mio carissimo amico
Ho ricevuto una lettera senza firma e senza data; ma quando anche non me ne
manifestasse l’autore un ordine di Sc. 14:50 che vi ho rinvenuto in seno, bastava il carattere
della scrittura, e la cordialità delle espressioni per annunziarmela vostra. Ma vi prego, mio
caro Neroni, di non parlarmi più di esattezza. Dopo i disturbi che vi prendete per me
sarebbe pur bella che io ci andassi facendo il sofistico! Purché la cassa abbia pagato e paghi
dietro la vostra richiesta, sul resto che passa fra voi e me nulla è da dire. Voi non dovete
pensare più a me che alla vostra salute, non solo preziosa all’amicizia, ma alla famiglia di
cui siete il capo e l’onore.
Vi accludo dunque la esazione da me già fatta degli Sc. 14:50 sulla Cassa di questo D.
Paolino Alibrandi foriere delle guardie nobili, e con ciò io sono soddisfatto del trimestre di
gennaio febbraio e marzo pagati per la ritenzione sull’onorario Trevisani.
Le mie 21 ottave sul goticismo sono già stampate e usciranno in luce sabato 30.
Appena quindi avrò avuti gli estratti promessimi ve ne spedirò per la posta due esemplari,
poiché vi siete compiaciuto non isgradire la mia povera offerta.
Ricordatevi, Neroni mio, che io dovetti donare al Cav. Fabi Montani la vostra
dissertazione archeologica. Ne vorrei una copia per me arricchita del vostro nome a penna
a memoria del dono.
Abbiatevi cura. Voi lo potete più di me. E fraternamente vi abbraccio
Il V°. Belli.
LETTERA 316.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, il giorno di S. Pietro 1838
Ore 5 pomeridiane
Mio caro Ferretti
La tua del 28, cioè della vigilia d’oggi, fu da te spedita al mezzodì, ma il Sig. Gobbo
riverito non me l’ha portata che questa mattina due ore prima del mezzodì. Dunque quasi
da un mezzodì all’altro. Quindi l’inserta per Vincenzone non è arrivata a tempo, come a
tempo sarebbe al contrario arrivata se la Compagnia Gobbo e cointeressati me l’avesse fatta
avere jeri sera. In mancanza di Michele è corsa Carolina, ma il chichìbio di M.r Silvestri,
stato in isperanza sino a jersera aveva dimesso ogni idea di complimento poetico e
gastronomico. Servirà pel 1839, se saranno tutti vivi in cucina e in cenacolo.
E Quadrari? Uhm! Periit memoria eius cum sonitu. Mi spiace pe’ tuoi ventagli; ma io
non ne ho colpa, perché non è stato affare affidato a me. Tutto dunque sulla coscienza del
Sig. Felice Campacent’anni.
284
Non so se congratularmi o dolermi della repentina chiusura nella ferita di Cristina.
Sembra anche a me che qualche giornetto di spurgo non ci stesse male e la natura non
l’avrebbe aborrito. Insomma quel dubbio di un nuovo taglio mi disturba, non parendomi
troppo comode queste benedette operazioni in duplicata a guisa di lettere di cambio. La
povera ragazza pagò a sufficienza sulla prima senza che vi fosse bisogno di fare onore
anche alla seconda, con più il conto di ritorno del complimentario Sig. Pietralata autore di
molestissimi complimenti.
Mi fo carico del malumore della poverina: mi penetro dello stato d’orgasmo in cui
devi tu vivere: valuto al giusto segno il rammarico della madre e delle sorelle della tua
interessante figliuola. E se io aggiungendo una angoscia di più alle non poche delle quali
mi sento oppresso e vinto lo spirito, potessi divenir atto a sollevar voi tutti dai vostri
patimenti, credi, Ferretti mio, che non esiterei un momento a caricarmi di questa giunta
onde asciugarvi sul ciglio una lagrima. Ma abbiamo bel dire e bel fare: colle ciarle non si
paga l’oste; e per solito chi più compatisce meno può consolare, siccome i più consolati son
quelli che più si commuovono alle altrui sofferenze. Altronde poi, mancando di mezzi di
consolazione, si dovrebbe quasi tacere per non parere spacciatori di parole che poco
costano a dirsi, e meno ancora a scriversi non essendo neppur necessario in questo ultimo
caso il corredo mimico e tonico di boccacce e occhiacci a sghembo e di tuoni elegiaci da
picchiapetto. Tu però che da molti anni hai conoscenza del mio animo, mi presterai, spero,
quella fede che pure le nude parole hanno talora merito di conseguire quando le
suggerisca il cuore piuttosto che l’universale vocabolario dove è libero di pescare tanto ai
sinceri quanto ai bugiardi e a’ traditori. L’esperienza è sola maestra di verità, né basta la
mensa e il rosario e il digiuno per conchiuderne: — costui tien religione nell’anima.
Altrettanto deve dirsi degli ufici scambievoli fra l’uomo e l’uomo. Vuoi conoscere la lealtà?
Chiedila al tempo.
Non volendo ho cambiato indole alla mia lettera trapassando a comunissimi luoghi
di morale. I miei discorsi si risentono dell’amarezza del mio spirito. Io, sempre
malinconico, in questi giorni mi trovo anche più afflitto perché in questi medesimi giorni
accadde or fa un anno l’avvenimento distruttore del mio riposo. Né lunedì 2 luglio io so
vedere dove mi caccerò a sospirare. Qui nessuno m’intenderebbe. Lasciamo fare alla
provvidenza che manda le brine in proporzione col fuoco da dissiparle. — Ora per dire il
vero, m’accorgo d’aver proceduto ben poco delicatamente in questa sfilata di piagnistei.
Invece di procurarti qualche sorriso fra le tue pene son venuto a funestarti colle mie
inopportune lamentazioni da geremia. E davvero mi par d’essere un geremia. Quomodo
sedet sola civitas plena populo, ripeto io talora fra me quando mi trovo tra la folla di tante
liete o apparentemente liete persone. Per me è deserto quel luogo dove nessuno
m’appartiene ed io non appartengo ad alcuno. Non è vero legame dove manca vera
contemperanza di sensazioni. I pochi miei buoni amici mi amano, ma cosa possono fare
per me? Darmi teorie che io già conosco senza saper condurle a pratica malgrado de’ miei
continui sforzi. Eppoi i miei pochi amici non possono vivermi sempre vicini; e allorché essi
mi lasciano io tosto rientro nella mia desolazione fossi anche immezzo a un festino. Ma
basti di ciò.
Perdonami tante inutili querimonie. Sei però degno di ascoltarle perché la natura ti
privilegiò di un cuor tenero, che la sventura ha poi migliorato.
Ho parlato a diversi del Gioia sulla influenza de’ climi etc. A farlo apposta nessuno
conosce quest’opera.
Va’ mo intorno salutandomi tutti.
Orsolina così così. Gli amici e i Pazzi m’incaricano delle lor solite litanie.
285
Sono il tuo Belli.
LETTERA 317.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, l’ultimo giorno di giugno 1838 (sabato)
Ore 5 pomeridiane
C. A.
Dal Professor Silvagni ebbi il plico col tuo Foglio e Compagni. (Il foglio principale restò
meco e i compagni vennero diramati unusquisque in provincia sua. I due allo Zampi e al
De Belardini gli ho portati subito io: l’altro al Terziani l’ho inviato a spese delle gambe
pazzesche.)
Te Deum! Laus Deo! Agimus tibi gratias! Sit nomen Domini benedictum! Quando dal
divieto di discendere quattro gradini e calare di un piano si trapassa al permesso di
transferirsi a un Duomo e ad una villa Doria, convien pur dire che le faccende dalla parte
de’ cortili sien così quiete e rassicuranti che un professore igiaco possa smargiassarla da
Giulio Cesare, esclamando: Veni, vidi, vici. E colga il malanno chi teco non se ne rallegra.
Per questo motivo non cresceranno le mie sventure. Anzi non saprei su chi potrebbe cader
l’imprecazione, andando io persuaso che quanti ti conoscono ne proveranno molta gioia e
sincera.
E se noto a Cristina è che i sodali
Di casa tua (brava e discreta gente)
San che fra i quattro punti cardinali
Le apparve una meteora all’occidente,
Ah dille ancor che in cento carnovali
Non istarebber mai sì allegramente
Com’oggi che il fenomeno scortese
Ratto disparve e serenò il paese.
Viva mo’ il tuo Messer Ciancarella! Oh cecitate delle menti umane! Tu lo prendevi per
testuggine e quello era un cerbiatto. Vedi come te la lavora? Per carità, Ferretti: dàllo in
mano a chi nell’uomo tiene il cervello da più che le gambe; che un popo’ l’amichetto trovi
d’ansa, di gammone o di levatura, ti scappa da casa e te lo vedi con una torcia inalberata
precedere la diplomazia europea.
Come un giorno le furie anguicrinite
Correan squassando le sulfuree tede
Innanzi alla quadriga di Plutone.
Trecentottantasei mortaletti! altro che la romana girandola! Con ventun botto di
meno e sparandone de’ restanti, uno per giorno, avrebbero contentato S. Pietro un anno
intiero senza scucir le tavernelle a tanti bravi galantuomini che amassero meglio le botti
che i botti. Io non posso vedere i quattrini consumati in faville. Eppure non par gioia se
non viene in compagnia di quella cara polvere che il diavolo si porti chi l’ha inventata. Né
so perché Ariosto non mandasse un Colaimme al Rev. Schwartz, il frate nero, come ne
scagliò sugli archibusieri che pure senza la invenzione della polvere avrebbero fabbricato
innocenti ferri da calzette e da ricci.
286
E Biagini con tutto il pagliaro; e Spada con tutto il fodero, e Lopez con tutti i cappelli;
e Zampi colla mojje e col fijjo, e col fijjo del fijjo; e la pazza co’ pazzerelli suoi, ed Orsolina
colla sua febbriciattola etc. etc., hanno aggradito le tue salutazioni e te ne rendon pariglia.
Cercherò Maggiorani quanto prima e gli leggerò il tuo paragrafo.
Per dirti un’altra parola di Orsolina, la spacciano per isfebbrata del tutto. A me non
sembra così. Aspetto però di tastarle il polso a guarigione perfetta, per iscoprire se in istato
di salute normale il polso di lei mantenga normalmente una certa frequenza di pulsazioni,
come qualcuno sospetta. Tutto è possibile. Sinora penso il contrario. Videbimus infra.
1° alla Sig.ra Teresa
2° alla Sig.ra Cristina
3° alla Sig.ra Chiara
4° alla Sig.ra Barbara
5° al Sig. Luigi
Saluti e riverenze per ordine di anzianità.
Il signor Bassanelli venga extra ordinem e n’abbia anch’egli la suo porziuncula. Rido
per ubbriacarmi. Ti abbraccio di cuore
Il tuo Belli
287
Giuseppe Gioachino Belli
Le Lettere
Volume secondo
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LETTERA 318.
A GIACOMO FERRETTI – ALBANO
Di Roma, lunedì 2 luglio 1838
(giorno nefasto)
al mezzodì (ora luttuosa)
Mio caro Ferretti
Tornando a casa in questo punto da una mia fabbricaccia dove ho faticato da nove
ore italiane sino a quindici e mezzo trovo sullo scrittoio una tua lettera di ieri (primo
corrente) con in seno altra per Savetti che sarà quanto prima ricapitata dal Sig. Pazzi al
quale personalmente l’ho consegnata. L’avrei portata io medesimo ma ho bisogno di
un’oretta di riposo e poi vado a pranzo dal buon Pippo Ricci, il quale, ricordevole di
quanto m’accadde un anno fa in questo giorno, ha voluto che desinassi con lui e due altri
amici.
Il pacco dal Sig. Banducci patrigno di Rossi l’ebbi puntualmente e te lo accusai.
Di Quadrari avrai udito le nuove dalla mia di ieri inclusa nel pacco (ventagli N° 4)
che ti spedii pel solito gobbo.
Di Zampi so tutto e ti parlai ieri anche di lui. Oggi non l’ho ancora veduto.
Sempre più mi rallegro per le notizie di Cristina.
Capite? Il Sig. Prof. di linguistica Don Grufo Papera Cuppetana non vuole starsene in
casa! Infatti le prime lingue furono inventate all’aria aperta ed al sole, come la confusione
venne all’ombra della torre di Babel. Egli aborre le ombre domestiche quasi aduggitrici del
genio.
La vecchia Firrao sta benone. Anche la moglie di Luigi ed il figlio Cesare. Vi è stato
questa mattina Michele.
Tutto e sempre raccomandato alla Pazzi. La casa tua cammina in casa tua come il tuo
orologio cammina in casa mia.
Bacherozzi molti. Dai sorci nessun danno. Il gatto va scarnacciando e sta in vigore di
caccia.
Michele dorme dove tu desideri che dorma.
Orsolina si è un poco alzata, ma fiaccarella e slavatella.
Il sarto Sartori vorrebbe (senza portarselo via) osservare un certo costume in un tomo
del tuo Ferrario. Annamaria, a cui fu fatta la richiesta ha buttato la broda addosso a me. Io
la riverso su te. Vuoi tu o non vuoi? Ti contenti o non ti contenti? Ci sarebbe presente il
guardiano.
Non ho a dirti altro se non che ti abbraccio e ti prego dir belle parole alle tue Sig.re e
dare un bacio a Gigio.
Sono il tuo Belli.
288
LETTERA 319.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, martedì 3 luglio 1838
ore 5 ¾ pomeridiane
Mio caro Ferretti
Mi recai ieri alle 2 ½ dopo il mezzodì, in casa di Zampi onde ritirare la lettera di
condoglianza per l’anniversario etc., scrittami da te il primo corrente ed annunziatami con
altra dello stesso giorno. Zampi non era in casa e non potei averla. Mi si faceva tardi per
andare a pranzo da Pippo Ricci, come ti dissi nella mia di ieri N° 19. — Alla sera però
tornando al mio domicilio la trovai sul mio scrittoio, e poi stamattina me n’è giunta pure
dallo Zampi un’altra di piccolo formato che tu mi scrivesti sin dal 27 giugno per
annunziarmi la spedizione di libri fattami da te a mezzo della madre di Rossi. Bisogna dire
che il buon Pippo Zampi l’abbia ricevuta con tanto ritardo perché anche Lopez questa
mattina si maravigliava di aver oggi avuta una tua del 27 giugno per mezzo di Zampi.
Non meno delle care e consolanti parole da te adoperate poteva io aspettare dal mio
Ferretti nel giorno in cui tutti mi si rinnovarono i dolori della sofferta disgrazia. Io vedo
che un anno è assai poco al ristabilimento della tranquillità. Né il tenor di vita che mi è
forza menare saprebbe venire in soccorso del tempo onde cospirasse insieme alla mia
pace. Molta fatica, moltissimi pensieri, gravi danni, infiniti pericoli si associano ad
abbattere il mio spirito già per se stesso pusillanime e creato solo per la vita ritirata,
uniforme, et procul negociis. La rilassante stagione fa il resto. Intanto io vo per la mia
strada alla meglio, o alla peggio, determinandomi al mio dovere colle parole già si
famigliari alla povera Mariuccia: su, a tirare il carrettone. Le ruote cigolano, le stanghe mi
scorticano la pelle, il carico va cadendo di qua e di là per la via; ed io pur tiro finché arrivi
a porta Leone.
Ringrazio cordialmente il Dr. Bassanelli. Le nostre circostanze però, per quanto so di
lui, diversificano alquanto benché esteriormente di ugual natura. Egli si rivolge indietro
per timore di essere seguito, ed io mi rivolgo per desiderio di vedere chi più non vedrò. Se la
favola d’Orfeo si potesse spiegare in due modi, a me converrebbe quello più
compassionevole, quantunque poi solo io di noi due farei il viaggio dell’averno per
ripigliarvi la compagna perduta. Queste considerazioni, forse poco delicate io diriggo a te.
Il Bassanelli non sappia fuorché la mia riconoscenza alle sue cordialità.
I Pazzi e le Pazze stan bene e al solito salutano. È tanto continua questa notizia che
mi ristringo a dartela in poche parole. Ti basti sapere che tutto, e per tutto, è in regola.
Orsolina va alzandosi di letto, ma le forze debbono venire da lontano. Le aspetta. —
Ieri al giorno vidi Giobbe, e questa mattina D’Eramo. Entrambi vogliono essere da me a te
ricordati mercé un cortese saluto. — Checco, Biagini, Pippo Ricci etc. ti dicono vale, anzi
valete vel valetote. Fanne dunque parte a chi di ragione.
Ho parlato a mezzogiorno colla Sig.ra Maddalena Caramelli, ritornata da Perugia
dove ha il figlio in collegio, compagno di Ciro, benché d’inferior camerata. Mi ha dato
ottime notizie del mio orfanello sì per riguardo della salute come per quello della bontà e
degli studi. Si è cattivato l’universale benevolenza coll’assiduo esercizio de’ suoi doveri. —
Mille cose alla tua cara famiglia.
Il tuo Belli che ti abbraccia
289
P. S. Che confusione! adesso mi dice Annamaria che questa lettera non mi è venuta
per mezzo di Zampi ma di De Belardini. Non mi raccapezzo. Spesso trovo lettere sul mio
scrittoio senza sapere chi me le ha lasciate.
LETTERA 320.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, mercoledì 4 luglio 1838
(nefasto) — ore 9 antimeridiane
Mio caro Ferretti
Mattino mattino un garzone Mandrellico, a quanto me ne dicono i connotati, è
venuto a portarmi una tua senza data, che io però suppongo piamente esser di ieri. Ma
andiamo per ordine e non anticipiamo gli eventi.
Ieri verso sera volli vedere se Monsieur Visaj (col quale tu sei un unum & idem, o,
come disse Carlin Porta, corna e pell, camisa e sédes, scisger e buell) avesse libri per te.
Contentone il rospaccio affricano della mia dimanda, che veniva a tradursi per lui in
lingua da paoli o scudo, mi pose fra mani N° 4 volumi del Lebeaud (55 a 58) una
distribuzione (VIII) della galleria storica, e il vol. 13° collezione di romanzi. Tengo tutto
presso di me ignorando se tu desideri qualche cosa in Albano. Paronmi però spezzature da
non meritare la pena dell’invio. Basta: tu dices, ego faciam.
Già in altra mia degli andatissimi giorni ti avvisai del ritiro fatto da me del Manzoni
completato chez Mr. Rayons, vulgo Raggi.
Passiamo adesso alla tua lettera che chiede risposta. Ed ecco la risposta. Si farà di
tutto affinché:
...quelle care
semi-egizie morate bestiuoline
che ne’ cessi ed acquai vedi albergare,
non trapassino a domiciliarsi fra tuoi libri, i quali in casa tua non son certo destinati né a
ricovero né a pastura di animaluzzi né di animaloni. Se poi il caso dovesse contemplarsi in
casa mia, i soli topi vi avrebbero qualche jusquesito per doppio motivo, e perché io non
leggo (e allora studia il bibliotecario) e perché i topi hanno qui affinità di famiglia, siccome
consanguinei della Signora Nanna. Fra le tue mura nulla si verifica di tutto questo.
Sarà fissata al Sig. Sarto Sartori un’ora certa perché frughi nel tuo Ferrario invece dei
bacherozzi. Ma il tuo Ferrario ha le figure in nero o a colori? Se non fosse colorito (ciò che
non rammento) porterò il frugatore a casa mia dove troverà tutto lo spettro del prisma,
rimpasticciato su quelle povere figure. E questo cambio di luogo si effettuerà sotto la mia
livrea di tuo Maggiordomo e come affare di tuo cenno onde te ne goccioli addosso quella
poca stilla di merito che ne può derivare.
A mensa-il-Ricci non fummo che quattro. Egli, il Sig. Vallard Segretario del Principe
di Russia; l’avv. Vera, segretario dello studio di Silvestri; e io sotto-croce-segnato. Mi fu
forza certamente di ciarlare. Si ciarlò molto, ma si ciarlò in prosa come ciarlano diversi
dell’Accademia tiberina verso ventitré ore.
Il maestrino Vera è partito questa notte.
Mi spiace più assai il tuo dolor di capo che non la stessa morte del Ciamberlano
che nell’ultimo albergo
Ha per sempre adagiato e pancia e tergo.
290
Già porterai berrettino; e poi manda su vapore di caffè o d’altra acqua leggermente
aromatizzata. Tu sai che fra l’aromatico e il reumatico passa non lieve analogia in molte
bocche.
Perché non accadrebbe altrettanto in qualche testa? Fuor di celia; io credo che
qualche fumigazione vaporosa potrebbe giovarti.
Non vorrei però che Bassanelli mi udisse e mi dasse la huée.
Passerò da Lopez per ricevere il pacco di cui mi favelli. Se peraltro tu parli del pacco
di tre o quattro giorni addietro, l’ho già ricevuto.
Io ritengo fermamente che il tumore della povera Cristina sia il finis-coronat opus
della storia del suo morbo, fonte di tanti rammarichi. Ne spero bene. E i capelli? Caddero
sotto la forbice?
Non è a mia notizia l’avventura veliterna. Non potrà però molto tardare a spandersi
sino alle mie non corte orecchie.
Qui ha piovuto due o tre volte. Domenica molto, lunedì meno, jeri poco. Purtuttavia
la pioggia di ieri fu per me la più abbondante perché mi visitò le spalle.
Oh povero Gigio! Ravvolto fra la polvere come le carovane del Sahara fra i vorticosi
monti di arena! Tienlo per mano, e se ti sfugge tiragli il capezzòlo. Tutto meglio che far la
fine d’Encelado.
E se viene, e se lo visiti, e se lo vedi, farai il mio gran piacere salutandomi il Card.
Micara e parlandogli di me, delle mie circostanze e della mia antica amicizia (allorché
entrambi eravamo cerasa, adesso egli è ananas ed io osso di prugna). Un giorno gli farò
conoscer mio figlio.
Maggiorani partirà dimani o forse anche venerdì. Questa sera vado a veglia in casa
sua. Gli farò la tua ambasciata celiaca.
Il quadro di S. Giuseppe è quasi finito. Bosco ha fatto piuttosto quattrini. Io, che ne
ho pochi, non ci vado.
Orsolina la strappicchia e ti saluta caramente.
Così tutti i tuoi amici ti salutano e ti abbracciano.
Tu dici a me: coraggio, Belli. — Coraggio, Ferretti mio, io ti rispondo.
Sono il tuo Belli.
LETTERA 321.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, giovedì 5 luglio 1838
ore 3 pomeridiane
Debbo, mio Ferretti, riscontrare oggi tre de’ tuoi fogli di diversa data.
1a Una tua lettera del 10 giugno (e doveva certo dir luglio) consegnatami questa
mattina da Lopez alla sua officina dove giunse jersera.
2a Altra del 2 luglio corrente, consegnatami in tutto e per tutto come sopra.
3a Altra di jeri (4) recatami poco fa dal Sig. Gabrielle.
Animo dunque. Rispondo alla 1a. Essa, piccolissima di formato non parla fuorché
dell’arrivo de’ quattro ventagli al tuo domicilio. Approva il pagamento degli Sc. 2 eseguito
in mie mani dal Sig. Campacentanni. Finalmente annunzia che di essa andava ad esser
latore un peintre français, il quale in puntualità e diligenza ce l’ha lavorata vulgo alla
polignacca. Igitur de hoc satis.
291
Passiamo alla 2a — Racchiude la 2a l’equivoco necrologico tra il Ciambellano e il
Ciamberlano, manipolatore il primo di crustulette e l’altro di pasticci: vir popularis quello, e
questo vir patritius. Ed ora comprendo che io aveva ragione quando jeri leggendo nella tua
del giorno 3 la notizia secca secca del funerale del Ciamberlano, poco chiaro ci vidi. Mi
mancava la precedente storia della morte, giuntami dopo quella della sepoltura.
Forse il Celi non prevede a torto il passaggio del Maggiorani dai colli Campagnesi a
quelli Albani o Aricini. Non so ficcarmi nella testa come l’aria di Campagnano valga a
ridonar salute a chi la perdette sotto l’atmosfera di Roma. Maggiorani dice di sì e sarà. Feci
parte jeri sera al nostro dottore delle notturne peragrazioni celiache. Egli ne torce il griffo
come il Celi lo torce sulla villeggiatura Maggioranica. La partenza di Maggiorani da oggi è
differita a sabato. Non solo egli, ma la famiglia e tutti i soliti amici, dottori e non dottori,
che si trovarono allorché ti nominai al dottore, m’incaricarono di salutare te e le tue donne.
Avanti. Eccoci in corrente cioè a parlare della tua lettera di ieri 4.
Piperno mio, perché questa mattina
Tanto ci assorda il suon della chimpina?
Così avrebbe a te parlato, il 1° luglio, M.r Cuppetana, se com’è legislator di favella
fosse sparnazzatore di versi.
Cennene, o mio figliuol; la vecchia Albano
suona a morto in onor del Ciamberlano.
Ti ho suggerito uno schizzetto di risposta pel caso che l’avvenimento funebre
dovesse da te drammaticamente mandarsi alla posterità mercé una piccola giunta agli Sc.
300 consumati in suono nenie e candele,
a spese di Mencacci o Don Michele.
A Roma è sempre caldo il giorno: sempre fresca la notte. Almeno abbiamo due
divisioni grandi, nette, elastiche, intelligibili. Se però torna a piovere addio regole.
Ho visitato il Bosco, munito del passaporto della tua lettera. Indovinala? Mi ha subito
piantato fra le mani due primi biglietti, rammaricandosi di non poter regalare un bel palco
a te e alla eccellente tua famiglia. La di lui salute zoppica e va moscia assai. Egli è affilato,
tosse, e trova naturalmente che nel teatro Argentina fatica molto: per lo meno il decuplo
che non in quella saletta del pianterreno di Ruspoli. Occupatissimo e fiacco, vuolmi
interprete presso di te de’ sentimenti suoi amichevoli, contando così di averti come
riscontrato della dolcissima tua. Con un biglietto andrò io a godere de’ giuochi. Per l’altro
volevo che Biagini e Spada se lo disputassero a sorte, ma quando udii Biagini aver già
visto il Bosco e Spada no, superando ogni altra considerazione soggiunsi: «Spada eccolo a
te. Voi due non siete or più innanzi a me in questo soggetto nella medesima posizione». Meco
dunque verrà Spada; e tu n’hai il merito originario.
Vengano i libri che mi annunzii. Andranno a far compagnia ai loro simili e staranno
allegramente.
Siamo giunti allo spiacevole articolo della tua lettera. Ti caverai sangue? Te lo sei già
forse cavato? E Barbara sente mal di gola?!! Che destino arrabbiato è mai questo! Aspetto
con ansietà buone notizie da dispensarne agli amici.
Mi piacerà assai il riabbracciarti, siccome mi fai sperare, verso la fine del mese; e
tanto più ne godrò in quanto circa alla metà del mese consecutivo cerco di poter dare una
fuggita a Perugia dove mi chiama il povero Ciro, che non ha veduto più alcuno dopo la
morte della madre.
Lo stesso viaggio mi si fa necessario per altre urgenze d’affari a Terni.
292
Eppure mi nuocerà assai lo staccarmi dalle faccende di Roma. Ma in due luoghi ad
un tempo non può trovarcisi che un santo Antonio da Padova o un altro de’ suoi consorti.
Fa aggradire a Cristina le mie felicitazioni pei lodevoli spurghi della sua parte
convalescente. E giacché M.ma Teresa e Chiara e Gigio stan bene, di’ loro che l’amicizia
dell’aria equivale a quella dei Principi. Nuoce il troppo ed il nulla.
Vidi ieri sera Zampi. Sta ancora tonto tonto.
Ti abbraccia il tuo Belli
P. S. Anna Maria e i suoi godono ottima salute e mi costituiscono organo de’ loro
sentimenti etc.
La lettera per la Orsini, inserta nella pigra tua del 2 è già andata al destino. La recava
io stesso quando trovato per caso Aniceto Orsini gli ho detto: da’ questa a tua madre. Io
poi verrò a riverirla.
LETTERA 322.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, venerdì 6 luglio 1838
ore 11 ½ antimeridiane
Mio caro Ferretti
Dalla stalla Mandrella ebbi jer sera il pacco libri contenente Barnave, Mérimée, Lebeaud,
e Mengotti. Erasi unita una lettera con entro altre quattro lettere per Quadrari, Pietralata, e
Sig.ri Ferretti e Carnevali.
Tutto già ricapitato.
Due righe di riscontro:
Eccoti la Ortensia del Sografi in 5 volumi.
Manco male che Cristina siasi rassegnata allo starsene in letto per qualche giorno. Ciò
le accelererà la guarigione. Ah Chiara, Chiara! Impertinentella! È maniera quella di
assaggiare il caldo de’ ferri? Se era in Albano io finiva male. Povero Giacomo! Vero
martire!
Spero che Barbara sia guarita, e che tu dalla progettata sanguigna avrai raccolto
pronta salute.
Anche a Roma coliche e diarree. Io sto oggi malissimo: fuoco interno, dolor di petto e
stanchezza sepolcrale. Eppure sotto sferza d’un sole ardentissimo debbo girare per
urgentissimi affari dopo aver faticato al tavolino come un asino. Non sarò il primo asino
che fatichi a tavolino. Tiriamo innanzi sino alla fine.
Raccontai ad Annamaria in presenza di Peppe la lusinga che ebbe Gigio di vederlo.
Peppe rideva. Orsolina si alza e si dice guarita; ma non ricupera le forze. Dimmi. Se mai si
volesse da questi di casa mandarla in Albano a prendere circa 40 giorni d’aria buona,
1° vi sarebbe nel tuo casamento, ed anzi (meglio) nel tuo piano, una stanza per
riceverla? Mobiliata, s’intende.
2° nel caso positivo, quanto sarebbe il fitto?
3° i padroni di casa le presterebbero assistenza, come di rifar letto, pulire ecc? Farle
un boccone da mangiare?
4° per questo secondo titolo quanto pretenderebbe?
Pare che Balestra abbia questa idea di mandar la moglie a villeggiare, e, se la
mandasse, bramerebbe che essa vivesse presso a chi non la lasciasse sola e abbandonata a
293
se stessa. Egli forse dovrebbe restare in Roma a lavorare, e perciò pensa di raccomandare
Orsolina a qualcuno, sempre in caso che la villeggiatura sia decretata.
Addio Ferretti mio, ti prego salutarmi teneramente la tua famiglia e di ricevere da me
un amichevole abbraccio.
Il tuo Belli
P.S. Ho trovato per via tuo fratello che andava da Lopez a vedere se ci fossero tue
lettere per lui. Abbiamo parlato insieme 5 minuti sempre di te. Eccoti una lettera di
Quadrari. Egli la portava mentre si ricapitava a lui la tua di ieri.
LETTERA 323.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 7 luglio 1838
Mio carissimo figlio
Riscontro la tua del 23 giugno responsiva alla mia inviatati per mezzo della Signora
Caramelli. Dopo il di lei ritorno io ho veduta questa Signora ricevendone ottime notizie
della tua salute e de’ tuoi portamenti. Iddio ti rimuneri, Ciro mio, della consolazione che
mi dai.
Anche in Roma il caldo è giunto assai avanti. Alcuni giorni però di pioggia han
portato di quando in quando forti squilibri di temperatura; e le serate si mantengono
sempre ben fresche. Ciò nuoce alla nostra salute. Regnano in Roma coliche e diarree.
Perugia ancora deve aver sofferto stranezze e termometriche e barometriche.
La presente ti sarà fatta avere dalla impareggiabile Signora Cangenna unitamente
alle due copie a stampa che ti annunziai. Riverisci i Sig.ri Superiori, ricevi i saluti de’
parenti, amici e antichi domestici, studia, sii buono e vivi felice. Ti abbraccia e benedice
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 324.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 7 luglio 1838
Ore 10 antimeridiane
Mio caro Ferretti
Ricevo insieme le due tue 4 e 6 luglio, quella del 4 l’ha mandata adesso il Sig. De
Belardini che se la covava da tre giorni siccome sa Annamaria. L’altra del 6 non so chi
l’abbia portata. Né so pure se mi manchino altri tuoi fogli. Tu hai il modo di conoscere la
mancanza de’ miei: il numero progressivo.
Si puliranno i rami (fossero anche molti) ed il ferro fuso; e si sciacqueranno i fiaschi.
Ieri tuo fratello mi lesse una tua storia sul male di Cristina.
Io farò di vederlo per contracambiarlo col racconto che ne fai a me. Povera Cristina!
Ma non meno, disgraziato Giacomo! Bravo, mille volte bravo il buono amico Albìtes!
Mi consolo di udire i progressi delle gambe di Gigio. Né la lingua si fa far torto.
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Per carità, non ti esporre a troppo lunga dimora in chiesa. Il fresco ti rovina. La
divozione è cosa ottima; ma la salute in un padre di famiglia non ha prezzo minore.
Michele ha avuto la tua ½ lettera col ¼ di lettera per la Sig.ra Clementina Ferretti.
Quel faccia-di-cane del bibliopola somiglia sempre quell’altro faccia-di-cane di Attila
flagellum Dei.
Ieri consegnai a Pippo Ricci due esemplari del mio goticismo perché li desse alla
Signora Peppina Marucchi di Albano, che te li farà avere.
Aggradisco le notizie e i saluti di Sciultz. Come andrà l’appetito? Qui si è attaccato il
manifesto di Canova per l’Arena.
Bosco dette ieri sera la sua ultima accademia. Promise tutte cose nuove, e le promise
anche dal palco scenico oralmente. Furono poi tutti robbi vecchi; terminò colla sua
fucilazione: cosa assai sciapa per verità. Il popolo mormorò assai.
Ieri Quadrari disse ad Annamaria: Vado ad Albano. — Perché non passa dal Sig.
Belli a farglielo sapere? — E perché ci ho da passare? Per amicizia io avrei soggiunto se
fossi stato lì: per amicizia e per udire se Belli Maggiordomo di Ferretti avesse nulla da
mandare al Padrone.
Io avrei fatto così. Né la mia casa è fuori di strada per chi va a visitare Annamaria.
Ti saluto per tutti, e ti prego di saluti a tutti. Non mi resta tempo che per abbracciarti
a sospetto di fuga e ripetermi
Il tuo Belli
LETTERA 325.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 9 luglio 1838
(ore 2 pomeridiane)
Era io ancora in letto, mio caro Ferretti, questa mattina alle 9 antimeridiane, e mi ci
trattenevano dei dolori e caldo d’intestini, allorché M.r Campacentanni (stato già a
depositare presso Annamaria il pacco libri, portatomi quindi da Carolina) è venuto a
posare in mie mani una tua lettera di ieri. Abbiamo parlato un po’ insieme di tutto ciò che
ha relazione a cadauno vostro stato domestico e sanitario. Tra le altre cose mi ha detto
Quadrari essersi da te all’istante della sua partenza ricevuta la mia N. 25 contenente le
risoluzioni circa ad Orsolina; alla quale mia lettera, segue a dir Quadrari, tu mi darai
riscontro in oggi. L’attendo dunque, e presto il contenuto d’esso qua si conchiuderà tutto.
Mezz’ora dopo è venuto il garzone del Mandrello con l’altra tua pure di ieri, con in
seno le due per Zampi e Terziani, che sono subito andato a ricapitare io stesso affinché non
soffrissero ritardi, stante l’assenza di casa di Michele che non le avrebbe portate fuorché
dimani. E da Zampi e da Terziani avrai riscontro se devi averlo.
Poi ho veduto tuo fratello e lungamente si è conversato di te.
Già ti assicurai ieri che la Signora Carnevali ebbe in tempo la cappelliera ecc.
Leggo, intendo, sento, provo quasi, tutto ciò che tu mi dipingi di bruno e mi descrivi
di amaro nello stato del tuo cuore per risguardo a Cristina tua. Offri anche questo
patimento alla provvidenza che ci assaggia in crogiuolo. Se io potessi essere in Albano
come non posso neppure essere in letto, procurerei con un po’ di compagnia e di artificiali
facezie o di piacevoli letture diminuire il tedio delle lunghe ore della tua cara inferma, e
lasciare a chi l’assiste alquanto più di tregua onde sollevar lo spirito e ricrearsi fuori della
stanza dove si soffre. Ma io per ora sono pianta indigena di questo ingrato terreno, e
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traslocata non menerei più i frutti che mio figlio ne attende e ha diritto di raccoglierne. Ho
ricevuta oggi una lettera di quel buon Ciro, scritta dal suo pensiere e dalla sua mano con
senno e disinvoltura da 25 anni. Iddio me lo voglia felice a prezzo ancora della mia vita!
Non ho bisogno di nuove parole sulla tenerezza di Chiara. Io diceva poco fa a tuo
fratello: Chiara sarà una madre di famiglia da andar per modello per le case e ne’ libri. E tu
lo vedrai. Ciascuna delle tue buone figlie ha una particolare virtù nell’indole concessale
dalla natura.
La casa Pazzi gode di buona salute, ma non di uguale fortuna. Non son questi i
migliori mesi dell’anno in cui Michele possa procacciarsi guadagni sufficienti per lui e per
la famiglia. Se questi poverini non avessero nel tuo cuore una protezione e un soccorso
superiore anche alle loro speranze ed alla tua stessa facoltà, passerebbero assai
funestamente i lor giorni. Essi ti benedicono, pregano per te e ti salutano con effusione
d’affetto.
T’attendo dunque a Roma quando, come prometti, vi darai la corsa d’ore pe’ tuoi
affari.
Fra giorni debbo ritirare da Visaj, tuo Pilade, tuo Bizia, tuo mezzocuore, un altro
volume.
Crederai tu che Maggiorani nostro respiri già i balsami di Campagnano. Mainò,
Messere. Il povero dottore, dalla notte del 4 al 5, sta in casa con molestissime vertigini,
principiate da uno sconvolgimento fierissimo di stomaco. Ebbe, giovedì 5, il più violento
vomito che sappia immaginarsi, ed ora non può peranco muover passo ove non sia
sorretto da qualcuno, e se vuole tenersi ritto non istà sicuro senza un saldo sostegno che lo
salvi dalle conseguenze di un capogiro. Si spera però che questo stato penoso, e per lui al
tutto nuovo, finirà presto. Io sono andato e vado a visitarlo, con insolito esempio che
l’infermo esca di letto per visitare il medico. Non altrimenti ho io, oprato questa mattina.
Prenditi i soliti saluti: fa’ i soliti saluti: addio.
Il tuo Belli
LETTERA 326.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, venerdì 13 luglio 1838
(ore 5 pomeridiane)
Ferrettuccio mio
Mentre dalla casa Pazzi, dove erami stamani recato alla solita tutelare visita, mi
disponeva a incamminarmi per la facile dispensa delle tue tre lettere destinate pel Caffè di
S. Luigi, pel negozio Feoli e per la piazzetta delle Cornacchie, sopraggiunto Michele famulus
plateae hammele tolte di mano per desiderio d’impiegar le sue gambe in questa tua
bisogna. Quello dunque che io voleva ottenere portandole da me, cioè la maggior
sollecitudine, si è ugualmente conseguito pel ministerio del capitato Michele.
Ho già meco il Thadéus, il Byron, il Mengotti e il Brisset. Andranno fra i socii.
Questa notte è partita Mad.a Zampi per Napoli. Traversava ella Albano in vettura
mentre tu vi dimoravi in letto. Chi va, chi sta, chi dorme, chi veglia; e così il mondo fa il
suo dovere.
Mentre io ti scrivo Turando l’incantatore apre a Corea la sua ultima ludificazione
annunziata tutta nuova ma con titolo di giuochi tutti vecchi. Il popolo mormora di varie
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soperchieriole e di parecchie impasticciatine, intantoché Cartoni si duole, e non
privatamente né sottovoce di cert’altra gherminella di diverso genere.
Basta, questo è il tempo nel quale anche i Boschi camminano come al secolo della bo.
me. d’Orfeo; e presto la burrascosa Senogallia si godrà nel suo seno questo, o bosco, o buco
o selva, o foresta che sia, tratto dall’orfico suono incantatore dell’oro e dell’argento, musica
assai più potente che non quella di cetra o di lira. Buono che allo strumento della tua e
della mia borsa niuna cordella venne meno per causa e per effetto d’incanti!
In quattr’ore di riposo forzato, in quattr’ore da me trapassate sotto il mio tetto
aspettando mitigamento ad una mia accensione di sangue e nel petto e nelle minuge, ho
scritto 20 ottave di-mezza-tacca, il cui soggetto è Bartolomeo Bosco, detto Turando
l’incantatore: ottave da non pubblicarsi né a stampa né a penna, ma soltanto passabili per
una recita in tiberina il 23 corrente, dopo la prosa azocchiana sui romano-franzesi. Dio ci
salvi dai pomidoro!
Eccoti una lettera, un biglietto e un giornale che ho trovato nel dormitorio di Lopez, e te
ne invio perché vengano in refettorio con te.
Di Cholera asiatico ne verbum quidem. Qualche acciaccatella individuale di cholera
sporadico qua e là, non contagioso, non insolito in estiva stagione, non ispargitore di
allarmi. Questo è il bullettino sanitario. Pax tibi, Marce.
Caldo sbardellante fra i sette colli di Roma: fiacchezza brodosa ne’ 150.000 colli de’
Romani.
Costì tutti vengono: di qua tutti partono. I magnati e i ricchi, che suona lo stesso, chi
per le transalpine chi per le subalpine regioni. I mosciarelli
Pe’ vicini castelli —; e tutti i guitti
Restan qui soli radicati e fitti.
Sbarazzatomi dell’extra passiamo all’intus, cioè a quello che più interessa il tuo ed il
mio cuore.
Lo vedi, Ferretti? Lo vedi se il cuore chiacchiera anch’egli? Io mi sentia in seno una
voce dicentem mihi: Santa Maria in cacaberis aiuterà presto il tuo Giacomo. Amen, io
risposi.
Ma se finita è già la cacarella
Non lasciar così presto il tamarindo
Né il brodo della zampa di vitella
Che in caso ugual beeva anche Labindo.
Quando poi le tue povere budella
Saran più salde, o buon figliuol di Pindo,
Allor fia tempo che tu dica il vale
Al medico, al beccaio e a lo speziale.
Sulla inerzia della guarigione Cristinica rammentati per tuo conforto del famoso
adagio: Chi va piano va sano e va lontano.
E fu nella circostanza dell’invenzione di tanta verità che i proverbii cominciaronsi a
chiamare col nome di adagio, perché andar piano e andare adagio son come Cola e mastro
Cola.
Qualche altro giornetto e poi anche per quest’altro malannuccio canteremo Io
triumphe!
E Maggiorani pure si accosta alle probabilità campagnaniche. I capo-giri possono
dirsi terminati; e il Cencino è cattivo assai, buono indizio di prossimo ristabilimento nella
salute. Ne’ due scorsi giorni giaceva abbacchiatello e più Céncio che Cêncio, siccome
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dissero a Libert bon’anima. Il padre sorride di speme e pare già altr’uomo. Gli ho fatto
un’ora di compagnia parlandogli di te e de’ voti di tutti i tuoi pel pronto cessamento delle
sue sventure. Quindi gratitudine in lui tenerissima, e preghiere a me di ringraziarti.
Pumex adest in cubiculo meo. Ursula nostra ponet illam in cubicolo tuo, ut cultor
tuus possit dicere se arida modo pomice expolitum.
Fa cantare al tuo maestro Cuppetana la seguente classica strofa [uorsa] o runica,
trovata già dal celebre settentrionalista Annibale Ursino
Gaude, zalmatica, frisce e tanghina
Pruspera tacca, pandorina:
Brucca, brucca, Madagascàr.
Et inclinato capite tibi vobisque salutem dico.
G. G. B.
LETTERA 327.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 14 luglio 1838
(sabato ore 8 pomeridiane)
Amico mio carissimo
Due delle tue che mi annunzi avermi diretto sotto data di ieri sonomi finora
pervenute: una cioè distinta in 6 capi od articoli, ed un’altra accompagnante il bozzetto di
un cartellone d’invito alla tragedia Cuppetanico-samoiedo-otentotta.
Sul volto del Maggiorani van risorgendo ameni sorrisi, quasi iride dopo spaventosa
tempesta. Il di lui capo si rafferma: il petto e il ventre del figliuolo si calmano. Forse anche
lunedì potrebbe accadere la scarrozzata per gli ozii di Tifo. Ho trovato in casa di lui Mad.a
Chiarina Rossi che prendeva la consegna delle cose in quella esistenti onde tenerle e
mantenerle da buona inquilina e diligente usufruttaria, e quelle poi rendere e restituire
piuttosto migliorate che deteriorate ed anzi accresciute che diminuite etc; — perché così
ecc., e non altrimenti ecc., sotto pena ecc. Invece di cattedra nel romano archiginnasio noi
procureremo alla onorevole Signora Teresa Terziani Ferretti un mandato di
rappresentanza alla camera de’ Comuni, dove, adiuvante Minerva, si può trarre il fiato per
tutto il settenario de’ meati del corpo. Ivi ella parli e riparli, arringhi e declami, sostenga e
si opponga, ed influisca sui destini dell’Orbe. Gran dono del Cielo gli è quello di una
libera e abbondante loquela! Né per ciò che tu me ne dici, avrebbe motivo tua moglie di
rivolgersi al Signore esclamando: aperi Domine, os nostrum. Ma per le viscere di G. C. non
le comunicare il mio paragrafo, per evitare il danno che ne verrebbe al nostro povero
Lopez se ella aprisse uno spaccio di cappelli più a buon mercato de’ suoi.
San Durante segue a tenere in protezione la Rossi. Tu, in diffalta di lui, rivolgiti a
Santa Reparata. Il Dio Redicolo non riporta più indietro nessuno. Quindi tu devi attenerti
a altri patroni per tornartene alla tua prima anti-stercoraria salute. Riposo, Ferretti: regime;
et taberna-culum tuum reserabitur.
Ma che pomici eh? Rifiutale, se ti dà animo, per quelle di Melo, di Sciro e delle isole
Eolie.
Il consiglio di famiglia ha deciso che potendo bastare le notizie da me già date
sull’ora dell’arrivo Orsolanico, il pranzo si avrà ben agio di ordinarlo oralmente senza
pericolo di macelli di pizzicherie o di forni serrati.
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Pispo Bisonnino fu fratello uterino di Giulia Epponina moglie di Giulio Sabino di
buona memoria. Si distinse nelle campagne battriacomio-machiache di Trasosmontes
allorché Don Pizaro di Catalogna prese d’assalto Tor-sanguigna e Castel-fusano per conto
d’Albumazar di Carpentieri dopo la famosa sua fuga da Valpelosa. Ruppe quindi in tre
scontri di chiave maschia la Regina Sierra-Morena, che, non ostanti i rinforzi di 30.000
Bucanani sbarcati in coche-d’oeuf nella baia de’ Pirenei, fu presa in catene e menata e
rimenata pe’ mercati e le fiere del Mondo fino a che non accadde la riforma del calendario
Giuliano che pose termine a tutte le differenze fra il cielo e la terra. Allora ebbe la sua
pensione di ritiro, e da quel giorno infatti il valoroso Pispo attese a riformare gli affarucci
di casa sua, come abbiamo da una lapide etrusca, non intesa ancora da alcuno, che si
conserva insieme col lapis philosophorum nelle cantine di Testaccio. Eccoti in semplici e
poche parole quanto io so e posso dirti, o mio Giacomo, per soccorso di Messer Cuppetana
il tragedo albanese. Egli però, a mio giudizio, avrebbe nella classica storia del suo
Bisonnino tanto materiale o comento da impugnar la tragedia sino a dignità ed estensione
di poema, come accadde a Milton nel suo Signor Satanasso, che qui nomino per cagione
d’onore.
Vedendo da lungi il Pietralarga o Pietralata che sia, te l’ho orecchiato, dicendogli: e
quando va Ella ad Albano? — Nella seguente settimana. Ma la Signora Cristina come sta?
— Io allora dàgli fuori tutti i bullettini in perfetta succession cronica. — Bene, ha conchiuso
il Cerusico: Se la piaga è piena e non rilevata in girum ad usum vulcanici crateris, nihil
timendum. Ego vero videbo et iudicabo.
E sai tu da parte di chi debbo salutarti? Del Don Francesco Petrini, trovato da mio
cugino Mazio in un salone di Castel S. Angiolo con zimarra e berretta pretina. Molto
insieme parlarono: molte cordiali parole il detenuto disse al non suo giudice Mazio onde a
me da questi si riferissero: e tra le molte io ne ho udite non poche affettuosissime da
spingersi sino alle tue amichevoli orecchie. Il destino dell’ex-curato volge allo sviluppo e
già lo sviluppo sarebbe accaduto senza una malattiola del processante Alliata che fece
restare in ozio e la penna e il calamaio scrutantes corda et renes. Ma lo Alliata è da buon
tempo benigno verso il Petrini, quoad vero furtum, nec de coeteris erat quaestio.
Quindi a bene sperar m’era cagione
Di quella belva la gaietta pella.
Ho saputo oggi da Lopez essere nella giornata partito M.r Felice Campacentanni. Se
io lo sapeva ti mandava due righe pel suo mezzo. Mi era stato detto che partiva dimani.
Al punto di terminar la presente mi si fa avere da Zampi una tua dell’11. Quel canale
è divenuto un po’ sporco. L’acqua non vi scorre più pronta; ma lo Zampi non deve averne
colpa. Nella tua suddetta dell’11 mi parli del pappafico nerobleu di Cristina, e del di lei
miglioramento d’umore. Dio le dia rallegrazione come a te.
Testo da me posto in fronte alle ottave per Bosco.
Sed neque tam facilis res ulla est, quin ea primum
Difficilis magis ad credendum constet. Itemque
Nihil adeo magnum neque tam mirabile quidquam
Quod non paulatim minuant mirarier omnes.
(Lucret., De nat. rer.)
Ama il tuo Belli
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LETTERA 328.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 16 luglio 1838
(ore 9 antimeridiane)
A quattro tue lettere, o mio caro Ferretti, io debbo riscontro ricevute tra ieri e questa
mattina; e sono:
1° Lettera del 13 corrente (per mano cortese incognita): arrivatami dopo di tutte.
2° Lettera del 14, portata dal vetturino che caricò Madama Balestra.
3° Lettera del 15, ricapitatami da M.r Arbalète, alias Balestra.
4° Altra del 15, recata da Campacentanni ad Annamaria e da Carolina a me, perché al
Campacentanni starà forse in capo che le mie scale sieno insaponate. Andiamo per ordine.
Alla 1a — Orsola è arrivata: dunque le cose da te dettemi intorno al suo ménage
rimangono non bisognevoli d’altro riscontro.
Bosco nella ultima ludificazione coreica del 13 andò alle stelle.
Remedium: medela sibilationibus dierum antecedentium.
Parte a momenti, se già non è partito per la Gallia Senonia.
I presagi del povero Canova sono sic et in quantum. Ci scapperà la pagnotta sino ad
un certo segno.
Dunque Felici Felicecto, Felicis de Felicibus et Felicitae Feliciam, felicitatem.
Di Maggiorani udisti le migliori novelle e la prossima partenza. Nuove di oggi non
posso dartene, perché prima di uscir di casa voglio chiudere la presente né posso tornare a
pranzo prima delle 2 o 2 ½ pomeridiane. Altronde voglio consegnar presto la lettera al
Gobbo onde la spinga certamente al Albano colle partenze delle ore calde.
Alla 2a — Dal Balestriero (che tornando io a casa ieri sera trovai già a letto, e vi
dimora tuttora mentre io ti scrivo) ebbi due pacchi di biblioteca e guardaroba. Tutto già
riposa al suo luogo.
Il caldo romano frigge le nostre povere membra. Ieri esposi per momenti il
termometro all’ombra, ad ore 10 ½ del mattino, e mi salì a 28 gradi. Figurati al mezzodì e
poi! È vero che soffriva l’azione del riverbero, ma i nostri corpi la soffrono anch’essi e ne
sentono la temperatura.
I carri di belve debbono essere il famoso serraglio di Advinent inglese.
Ti parlo col cuore. Le notizie della non ancor solida salute di tutti voi mi rattristano
oltre modo. Povera Cristina! E tu e Gigi ancora in liquidazione e senza le carte in regola?
Questo per verità è fastidioso incomodo, ma pure da non alterarti cotanto. Il vero
cordoglio viene dal fato persecutore di quella cara tua figlia. Vorrei trovarmi in Albano per
sollevarvi tutti come per me si potesse il meglio, o per via di aiuti manuali, o per mezzo di
ciarle o di letture o di celie; chè il bisogno di confortar gli amici cava facezie anche dalla
bocca di chi non avrebbe a dar che sospiri. Salutami tanto tanto la tua Cristina e pregala in
mio nome, in nome di un sincero e devoto amico, a vivere più in calma che può.
Tornerà il sole. Post nubila etc. Pietralata mi disse (e te lo partecipai) che nella
settimana verrebbe.
Alla 3a — Questa è la lettera Balestraria.
Alle molte particolarità ch’egli dovrebbe significarmi, secondochè mi annunzii, nulla
posso risponderti perchè ci avanziamo verso le 10 ed egli dorme ancora a... sturato. Le
molli piume non lo hanno spaventato mai. Figurati oggi dopo il gran viaggio di ieri!!!
Alla 4a — Gaudeo de Ursulae Tonique possessu in domo domui tuae proxima.
300
Non così mi rallegro del tuo scrivere e stancarti per 8 ore continue malgrado i
contrari consigli della diarrea che non è il maggior tonico del mondo. Ma, hai ragione: Dio
vuole così! Tollat unusquisque crucem suam. Certuni però se la lasciano addietro e la
consegnano ai Cirenei. Ma tu non sei di quelli: Tu, buon padre e buon marito, l’abbracci
con ardore; e con coraggio la porti.
Mi onorerò assai della conoscenza che vuoi farmi fare del Chiarissimo Dandolo.
Notizie in globo: Miscellanee: varietà.
La tua lettera per Quadrari la portai al caffè benchè si trovasse egli in Albano e
coll’orecchio prossimo alla tua bocca, che gli avrà ripetuto a voce tutto il contenutosi in
quella.
Ieri l’altro la tue cugine dimandarono ad Annamaria, recandosi espressamente da lei,
se tu avessi mandato alcun’altra lettera per loro. Pare che aspettino qualche nuovo lume
da te.
Michele Dementi, o Pazzi che sia, ha preso un anno di tempo per iscandagliare
l’umore del Toto fratello dello scalpellino al vicolo de’ Scannabecchi: Toto tira per adesso
45 baiocchi al giorno; ma è giuvenotto d’annà avanti e da tirà presto li cinquanta e li sessanta
baiocchi come gnente.
Visitai ieri sera il Rev.mo P. Rosani con Checco e Menico. Vuole egli farmi stampare
le ottave boschiane come lo furono quelle sul goticismo. Debbo copiarle e dargliele. Ci porrà
esso il suo nihil obstat e poi penserà eziandio a tutto il resto. L’eziandio me lo aspetto già per
le spalle. Chissà quanti ne udrò alla tiberina del 23! La mente gravida di queste precisioni
me ne ha fatto sdrucciolar sulla penna. Prènditelo come caparra di più olezzanti fioretti del
cimitero puristico.
........
Oggi, alle 22 ore di voiatri italiani, ovvero alle 5 ¾ di noi romanifranzesi,
scoppieranno i tuoni pindarico - anacreontico - sperandistici nella Pinacoteca Capitolina,
in honorem Principis Apostolorum B. Petri de Galilea.
Massi il capitolo; De Romanis le ottave.
Non lo crederai. De Romanis aveva scritto questo verso
Sull’Italia e sul mondo universal notte.
Spada glielo dichiarò sciancato, e l’autore negò come Pietro sino alla terza volta.
Finalmente si venne al giudizio della conta e della mezzacanna, e chi doveva restar colla
bocca aperta la spalancò.
Eppure l’orecchio di Pippo è assuefatto al numero poetico! Eppure... — Oh và mo a
censurar Napoleone se fece la Campagna di Russia, quando un poeta consumato scrive un
versaccio di 12 sillabe piane, e s’inciprignisce in difesa della retta misura. — Spada ha
scritto un veramente maschio sonetto. — Io, chiamato e richiamato dal Cavalier Fabi —
Montani Laureanico nomine, ho dovuto accorgermi con mio rossore che S. Pietro nulla
voleva dalla mia mente né della mia penna.
Neppure un pensiero mi nacque. — Iddio non permetta che un giorno il portinaio
del Cielo vedendomi unto-unto alla porta non mi gridi dalla gratella
Questi è colui che mi pospose al Bosco?
Se ne ritorni via: non lo conosco.
E sì che Bosco mi potrebbe aiutare!
Di là son finiti i bussolotti, et l’on n’escamotte pas les clefs du paradis.
301
Alleluja! S’è svegliato Balestra. Su tutto è stato fra lui e me cicalato. Stanza, altre
stanze con letterate francesi, Cristina, tu, passeggi e non passeggi, Gigio, Chiara, Barbara,
Madama Madre, etc. etc. tutto passò in rivista. Ma è ora che io termini e chiuda. Debbo
radermi, vestirmi, uscire, passare da casa tua e poi mettermi in giro per la mia via-crucis
d’oggi.
Saluto te e tutti, e ti abbraccio
Il tuo Belli
LETTERA 329.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
[16 luglio 1838]
L’incredulo al Vaticano nella solennità di S. Pietro apostolo.
Sonetto
Se alcun giammai con fasto ampio e profano
Fra que’ sacri recessi abbia il piè volto
Ov’è il prisco e fatale eroe sepolto
Per cui surse e grandeggia il Vaticano,
Che detto avrà, spirto protervo e insano,
Veggendo un popol reverente e folto
D’incensi e d’inni ad onorarvi accolto
Il Santo suo Pastor Padre e sovrano?
Che mai quivi ei dirà nel veder quanto
Della fe’ che scendea dal divin trono
Onor più grande si dispieghi il manto?!!
Nieghi quella celeste e di chi è dono:
Dica però s’ei non ascolti intanto
Arcana voce in cor gridargli: io sono.
F. Spada
14 luglio 1838
Per l’adunanza solenne tenuta dagli arcadi nella pinacoteca capitolina il 16 luglio 1838.
Relazione
1) P. FINETTI — Prosa — Parallelo fra S. Pietro e S. Paolo. — Bello stile e buoni
concetti; ma qualche tendenza ad una orazione panegirica.
2) P. BONONCELLI — Carme — scolasticamente buono: filosoficamente e
poeticamente così così.
Gregorio XVI va a visitare il sotterraneo di S. Pietro, e l’apostolo, anche prima che il
suo successore apra la bocca, per chiamarlo e onorarlo, già s’è alzato su dal sepolcro onde
riceverlo e far gli onori di casa.
3) AB. GIANNELLI — Sonettaccio — Tiriamo un vel su quel sonetto da chiamarsi un
coso.
302
4) CAV. FABI — MONTANI — Sonetto. — L’arrivo di S. Pietro a Roma (se mai ci
venne). — Quando fu finito e dopo i consueti rumori di mani, l’autor cavaliere andava
circolando e dicendo: niente, niente: è una cosetta. Forse diceva la verità.
5) AB. SORGENTI. — Sonetto. — La (solita) navicella di S. Pietro. Né bianco né nero:
cenerino.
6) SPADA — Sonetto — Lo conosci. Non fece effetto.
7) AB. BAROLA — Ode — Passiamo avanti.
8) SIGNORA ORFEI — Sonetto — La decapitazione di S. Paolo.
Vi furono i tre balzi (di rubrica) della testa: vi fu verso la fine il suo salve, e tutte le
altre debite coserelle de more.
9) SIG. MASSI — Capitolo — L’ultima notte de’ SS. Apostoli Pietro e Paolo nel carcere
Mamertino.
Stupendo lavoro per lingua, costruzione de’ versi e d’immagini.
10) P. GIACCOLETTI — Decasillabi latini. — Cosa da udirsi buoni-buoni e zitti-zitti
come santarelli.
11) SIG. ZAMPI — Sonetto contro le serve. Sarebbe da dirsi alla tua albanese
Che val diciotto bei paoli al mese!
12) SIG. POGGIOLI FIGLIO — Ode a Roma. Metro Manzoniano: vivacità, lunghezza:
generalmente belle idee: lavoro da giovanetto che sarà per divenire qualche cosa. Grata
voce nel recitare.
13) AVV. PIEROMALDI — Sonetto — Portae inferi non praevalebunt. — Nel sonetto
però hanno prevaluto, perché la fu una tentazione del demonio bella e buona.
14) AVV. GNOLI, vestito da abate. — Ode. — La chiesa cattolica simboleggiata nella
(solita) navicella. — Talis pictatio talis pagatio perché fu pagata di venti o trenta colpetti di
mano stanca e svogliata. Scritta però bene?...
15) AVV. ARMELLINI — Sonnetto.
16) CAV. DE ROMANIS — Ottave. — Prosa in listarelle di undici sillabe l’una.
Vi si parlò di biblioteche, di libri, e di carta, e pergamena ed altre materie da stampa.
Sogna il guerriero le schiere etc.
Udienza fratesca, prelatesca e poco cardinalizia. Tre cardinali, cioè Giustiniani, Sala
ed un terzo che mi è entrato da un occhio e m’è uscito dall’altro, nello stesso modo che
varie poesie mi presero le orecchie per porton di trapasso. — Secolari, ossien laici, pur ve
ne furono. Due soli soprabiti fra tutta l’udienza e il palcoscenico: quello del Geva e quello
del De Romanis. Il secondo però andava decorato da un bel ciondolino d’oro ad un’àsola,
ciocché lo estolleva più che alla dignità di un frac d’etichetta. — Donne? tre: la poetessa
Dionigi-Orfei; la moglie del poeta (vero poeta) Massi; e la zia paterna del piccolo
Sabatuccetto, chiamato dall’avv. Corsi il poetino pontificio, cioè in altri termini il
pappagalletto di nonno. Guardie poi capitoline per tutto, sì che le sale della protomoteca
parevano un
forte castello antico
che al di là delle fosse abbia il nemico.
Fabi-Montani correva avanti e dietro come un fra-Mazziere che regoli la processione.
Io me ne rimasi accantonatello fra due colonnette, basi di due antichi pittori, de’ quali
avrei voluto avere in mano la tavolozza e i pennelli.
E son Giuseppe Gioachino Belli
303
LETTERA 330.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, mercoledì 18 luglio 1838
(Ore 9 ½ antimeridiane)
Ieri, mio caro Ferretti, mancai di tue lettere e così tu mancasti di mie risposte. In
compenso però ne ho avute due questa mattina, delle quali una appartiene al dì 16 e l’altra
al 17. Pretende il Gianni del Palazzo Sinibaldi che mancassero ieri vetture, ed essere perciò
arrivati questa mattina entrambi i fogli. Sia o non sia così conviene ingozzarla.
Appena uscirò di casa porterò al Caffè solito la lettera Quadrarica. La Balestrica è già
consegnata al devoto femineo sesso. Il pittore dorme ancora e sogna bei soggetti per quadri
larghi e lunghi quanto Campo-vaccino. Grazie intanto per le notizie Orsoliniche e
Toninesche; e salutazioni per mio conto alla madre e al figliuolo. Di’ alla prima esser ieri
venuto il bàlio con ottime nuove della piccola Cecilia.
Non mi meraviglio dell’ascendente di Chiara su tutte le creature. Con quel cuore
amoroso pacifico e caramente attraente. Quella sarà un giorno una Madre di Famiglia da
disgradarne la Madre de’ Gracchi. Sto fisso in questo presagio.
Dove maggior grazia e più comici sali che in Molière? Di certe penne non si
temperano più.
Libri faceti faceti, come tu ti esprimi, io, Ferretti mio, non ne ho. Quando aveva
quattrini da spendere in libri, io gl’impiegava in soggetti che mi procacciassero qualche
cosa di meglio che una risata. Lo so, nelle circostante della tua cara Cristina ci vorrebbero
facezie e buffonerie: sensazioni insomma che controbilanciassero in letizia le noie e gli
affanni del presente suo stato. Come mai! Durare la piaga così pigra e stupida, né
risolversi a sentire l’azione de’ rimedi che vorrebbero spingerla al termine! Perché, Ferretti
mio (ma forse l’hai fatto) perché non iscrivi una lettera a Pietralata o ad Albites? O vuoi
piuttosto che io vada a parlar loro in tuo nome? Se me ne incarichi io volo ad entrambi o a
qualunque de’ due tu m’indicherai.
China! Allume!! Oh!! Dio benedica la gomma, il laudano e il tamarindo, e l’integro
collegio della loro miscela. Voglio sperare, anzi esser certo, che non più ascolterò ritorni
dal tuo stato solido al liquido; perché quella è la via che alla lunga menerebbe
all’aeriforme. Vedi teoria degli areostati.
Caldo in Roma ne fa, e ne fa assai, ma quelle smanie a furia di popolo, ma quelle
invocazioni di Sancti et Sanctae Dei che ti hanno supporte, le son favole da dirsi al focone
fra 5 o 6 mesi. — Così circa il Cholera. Ti ripeto che coliche ed ancora cholera sporadico,
circolano fra varii ventri, e qualcuno ne inviano a babborivéggioli. Questo sì; ma cholera
asiatico, propriamente detto, tutti si accordano a negarlo a spada tratta. Quel che poi possa
accadere in futuro lo sa colui che può cambiare anche i lattarini di Castello in belle e buone
cipolle d’Egitto, al gusto di certi parati che più al vegetale inclinino che non al regno
animale. Roma sta veramente tranquilla sull’articolo cholera, cioè sul flagello del 1837: e le
paure albanesi non possono per verità esser eco di timori romani, perché i romani
mangiano, beono, dormono, passeggiano, vanno ai fuochetti, prendono limonate e
pappine col maggior sangue freddo (sotto un caldo di 29 gradi) e colla più ermolaica
indifferenza del mondo.
Le nervose però non si fanno desiderare. Ne sta sempre sul muore e non muore la
Polidori-Righetti: ne fu sepolta una bella giovinetta Rossi o De Rossi, o simil nome, che io
non conosceva. — Altri infermi qua e là.
304
Il Venuti che villeggiava in Albano, tornato in Roma alla sua abitazione (quella a S.
Giacomo degl’incurabili, vecchio domicilio del gran Canova) trovò la casa derubata. Ha
perduto per 3 o 4 mila scudi di gioie etc. I denari non gli hanno trovati: altrimenti
sarebbero volati anche quelli e il botto era forte. Chiavi false. Si sono trovate le porte
richiuse, lodevole diligenza dei Signori della umana visita, affinché il povero Venuti non
fosse esposto a qualche incursione di ladri. — Non temere, o Ferretti, per la tua casa: è
guardata. Di giorno ci si capita sempre, e la notte ci dorme Michele. La casa del Venuti era
solitaria ed aveva nome di ricca più della tua. Ma, ripeto, la tua si guarda.
Sono state levate e ben condizionate le tendine della camera detta di Annamaria, di
quella da pranzo, e dell’altra dove si stira. Si dice che il barbiere farà poscia il testo come se
le tendine fossero sinonimi di codine e parrucche.
Maggiorani è partito. Mi recai lunedì mattina con dieci libri per la lettura villereccia
della moglie, e suona... suona... niuna risposta. Finalmente un inquilino dell’ultimo piano
disse: chi è? — Amici. — Chi vuole? — Il dottore. — Non c’è. — E dove sta? — A
Campagnano. — E quando è partito? — Stanotte. — Grazie tante. — Padrone mio. —
Perdoni. — E di che cosa? — Del disturbo. — Si figuri. — Col si figuri finì il dialogo. Ieri
tornai a suonare sperando trovare i Rossi subinquilini provvisorii. Silenzio, e finestre
serrate a vetri scuri e persiane. Voglio vederne la fine. Cercherò il Rossi e saprò il perché
non sia più ito al tutorio subinquilinato.
I Pazzi stan tutti bene, e li vedo ogni giorno e spesso più volte in un giorno. Pregano
sempre il cielo per te. Abbiti i loro saluti e quelli de’ nostri amici, per te e per la tua
famiglia. Ti abbraccia ed aspetta
Il tuo Belli
Ti mando un fascicolo giornali, tratto dal purgatorio di Lopez. Visaj non ha ancora
altro. Ci tornerò presto.
LETTERA 331.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, giovedì 19 luglio 1838
(ore 8 antimeridiane)
Mio caro Ferretti
Al mio ritorno a casa ieri sera, e fu un poco tardetto per motivo di un congresso che
mi occupò molto tempo, fu a me consegnata la tua di ieri (18) avente in seno una lettera
per Monsieur tesoriere che a momenti l’avrà nelle mani. Vivine riposato.
La dolorosa storia della tua Cristina, che viene poi ad essere la storia de’ tuoi stessi
dolori, mi mette nell’anima un fastidio indicibile. È veramente crudele il vedere una
giovinetta, fresca, graziosa, morigerata, sobria, divenuta da tanti mesi la vittima di mali sì
lunghi e fastidiosi, sì aspri ed inerti! Nella mia incertezza d’animo sul parlare o non
parlare a Pietralata ed Albites, nella tua smania di vederli, smania di cui non mi avevi
incaricato istruirli in tuo nome, non sapeva ieri che farmi. Purtuttavia, udendoti in tanto
orgasmo per la loro mancanza, e sapendo da te che sino al Dottor Bassanelli bolliva in
petto il desiderio di abboccarsi con qualcuno di essi, obbedendo io ad una inspirazione mi
posi in cerca di Pietralata, e, finalmente trovatolo, gli tessei il racconto de’ fatti, senza però
dirgli positivamente se il mio passo dipendesse o da tuo impulso o da mia spontaneo
moto, ma dando tuttavia al mio discorso un tale indirizzo che sotto una analisi potesse
305
risolversi in manifestazioni attribuibili piuttosto al mio personal desiderio di
corrispondere alla brama che tu nudrivi di rivedere il professore secondo le sue promesse
e di riceverne consigli e norme pel trattamento futuro di un male ribelle sinora ai praticati
mezzi di cura. Ed appunto io scelsi il Pietralata per questo colloquio, perché egli e non
l’Albites mi aveva negli andati giorni promesso di recarsi presto costa, e perché ancora mi
parve che l’Albites col suo carattere severo e perentorio mi avrebbe al certo dimandato se
il mio discorso fosse un’ambasciata che tu pel mezzo mio gl’inviassi: al che non so come
avrei potuto rispondere, dappoiché il sì opponevasi al vero e contrariava forse le tue
intenzioni, ed il no menava seco la natural conchiusione seguente: ed Ella dunque, Signor
Belli, come ed a che mi viene a tenere questi propositi?
Il Pietralata si mostrò penetrato della tua circostanza, ma dicoti il vero, non mi
promise con sicurezza di venire. Non ho potuto sin qui, diceva: vedrò se verso sabato, se al finire
della settimana, mi riuscisse di dare una corsa ad Albano: farò il possibile e l’assicuro che porrò ogni
mio studio nel disbrigarmi da molte urgenze che qui mi trattengono, onde portare al Sig. Ferretti
un conforto che ardentemente m’è a cuore di procurargli. — Puoi figurarti, mio caro Ferretti, se
io tentassi con ogni calore di argomenti e d’insinuazioni di corroborare le sue buone
disposizioni. Ma verrà egli poi? Potrà egli venire?
Fortunatamente però trovo nella tua lettera che tu stesso ti sei diretto ad Albites. Era
il mio consiglio, il mio voto di ieri, espressoti nella mia N. 33.
O direttamente o pel mio mezzo era bene stimolare alcuno di questi signori a
soccorrerti. Ora vedremo quale successo otterranno e le tue preghiere ad Albites e le mie
premure a Pietralata. Di due uno si muoverà, o venendo o scrivendo, e tu saprai come
regolarti in faccenda di tanto prezioso momento.
Lo vedo, lo comprendo, lo sento: le tue personali indisposizioni non traggono origine
fuorché dalle amarezze dello spirito.
Quando io assumendo un tuono leggiero e burlesco ti diceva parole di scherzo
sull’incomodo dal quale eri afflitto, non altro scopo io m’aveva se non quello di risvegliare
in te una scintilla del tuo buon umore, e così aiutarti con una mano a sollevarti per breve
momento dallo stato di depressione in cui l’animo tuo veggo naturalmente caduto sotto il
peso di tante sventure, tutte congiunte a vincere il tuo non comune coraggio. Oggi ti parlo
sul serio e con quella gravità che sempre regna nel mio pensiere anche allorquando io lo
maschero in frasi di ridente apparenza. Ti compiango, mio buon Giacomo, e sospiro per te
e con te.
Questa famiglia ti ringrazia delle notizie d’Orsolina che io ho loro comunicate. Ti
salutano e la salutano. Tonino verrà del naturale materno. Tutti di casa Pazzi stan bene.
Peppe o sarà magnano o maestro di cappella, perché sempre batte, ma forse più questo che
quello perché al battere accoppia il gridare, e probabilmente avrà l’uno e l’altro se è vero
che la musica prese le mosse dall’incudine.
Salutami persona per persona, le tue donne e l’ometto. Stringi la mano al Dottor
Bassanelli e datti un bacio allo specchio per conto del tuo
Belli
LETTERA 322.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, venerdì 20 luglio 1838
(ore 8 ½ antimeridiane)
306
Prima, caro Ferretti, di aver qualche cosa da dirti in riscontro di alcuna tua lettera che
sia per arrivarmi, voglio anticipare due parole in ordine a un soggetto che potrebbe
riuscirti comodo qualora particolari tuoi motivi non ti consigliassero a negargli la tua
attenzione e il tuo assenso. Vi ha persona che per giusta cagione e con ragionevole desiderio
brama di trovare un fidato appoggio presso Mons. Tesoriere in prò di un suo diritto
incontrastabile che la malafede e l’aridità di alcuni suoi emuli vorrebbe render dubbioso e
precario. Questo individuo bisognoso di spalla presso il Tesoriere intende rimunerare
generosamente chiunque volesse assumere il carico di corroborare e difendere i di lui
diritti nell’animo per verità retto del prelato, ma assediato e insidiato da privati interessi
altrui, coperti dalle maschere del pubblico bene.
Pensa Ferretti mio, che un buon regalo, onestamente e per giustissimo titolo guadagnato,
non deve offendere né l’integrità né la delicatezza di un carattere simile al tuo, tanto più
che qui non è quistione di chiedere una grazia, ma di ottenere che si osservi la giustizia in
un caso che ha risvegliato molti appetiti. In questo affare io non ho né avrò alcun interesse
di qualunque specie voglia riguardarsi: così non vengo a tentare il tuo animo in cosa che
mi potesse procacciar utile, né voglio nella mia proposizione far giuocare alcuna molla
dell’amicizia che passa fra noi. Tu rifletti se un incolpabile profitto in un innocente
impegno potrebbe convenire a’ tuoi principii ed alle tue circostanze, e decidi
genericamente pel sì o pel no. Se ti risolvi al no, tutto è terminato, anzi come non detto: se
poi scegli il partito dell’assenso, sappi che al tuo vicino arrivo in Roma ti si manifesterà il
nome dell’individuo e la qualità dell’affare. E siccome tu non avrai (nelle poche ore della
tua dimora in Roma) il tempo necessario all’esser posto addentro nelle particolarità della
cosa, darai un appuntamento in Albano alla persona per cui ti parlo, ed essa verrà colà
espressamente a darti tutte le occorrenti informazioni e gli opportuni schiarimenti. Allora
poi fra voi combinerete un giorno in cui ti fosse comodo il tornare in Roma, dove sarai
condotto senza tua spesa come senza tua spesa ricondotto in Albano dopo il tuo colloquio
con Monsignor Tesoriere. Io credo bene che Monsignore udrebbe la ragione di chiunque
dalla bocca di chicchessia, e non ricuserebbe buon diritto a veruno; ma la giustizia
ascoltata sopra un labbro amico sembra più bella.
___________________
Ore 10 antimeridiane:
Ecco una tua di ieri (19).
Continua il tuo Passio. Disgraziato amico! E quando avevi da passare una
villeggiatura così angustiata, tanto faceva che il cielo ti avesse inspirato al cuore di
rimanertene qui, dove almeno (poiché il destino ti condanna a simili necessità) avresti
avuto i professori ad ogni moto di volontà, e senza sospirarli da lungi siccome in una terra
d’esilio. Ma dei tanti qualcuno si moverà: Albites, Pietralata, Conti... qualcuno insomma. E
mi meraviglio come non ascolto mai parlare di un chirurgo albanese. Ai nomi di
Carbonarzi e di Bassanelli non dovrebbe andare unita egli forse una riputazione chirurgica
corrispondente? Voglio dire che una Città che vanta due medici sì abili non avrebbe a
mancare di un altrettanto bravo operatore.
Sull’umore ecc. che vuoi che ti dica Ferretti mio? Stringiti nelle spalle ed abbi
pazienza. Rifletti che più pace può fabbricarsi in famiglia, meno si sentono i colpi della
fortuna. Così ti esorto a soffrire le astrazioni di Barbara. Essa è una buona fanciulla; e se la
natura la fece astratta convien compatirla. Ammonirla sì ancora, onde il difetto
abbandonato a se stesso non metta più profonde radici, e affinché i danni che ne risultano
307
si diminuiscano al possibile; ma del resto, caro Ferretti, cosa faresti? Lo so, io ti consiglio, e
poi ne’ casi miei fo la cresta. Ebbene, allora sgridami tu.
Gigi dunque tratta il galletto come l’aquila di Siberia vorrebbe conciar i galli degli 80
e più dipartimenti: vi riuscirà meglio un Luigi che un Niccolò, vista la diversa specie dei
galli.
Questa mattina alle 18 italiane i materassai saranno in faccende a casa tua sotto la
presidenza della Moglie e madre dei Pazzi. Se Campacentanni non comparirà, pagherò io
e tutto andrà come un olio. — I canari cantano e scanipucciano: il gatto ruguma la sua
carnaccia caponissimamente ad usum Laurentii... e quelle care — semi-egizie morate bestioline —
Che ne’ cessi ed acquai vedi albergare, sembrano essersi ritirate a quartiere d’inverno in mezzo
alla nostra furiosissima estate. Almeno dice Annamaria che non se ne veggono più.
E badi a lui il Dr. Fava: il Giobbe è dominio del Lanci, caccia riservata de’ di lui feudi
scritturali. Vi avesse a passar guai! Bisogna bene informarsi della charta de foresta.
Saluta Orsolina da parte mia e di questi miei parenti (che non mi sembrano molto
assetati di venire ad udir le sue nuove quando mi arrivan le tue lettere. Tu faresti
altrimenti). Il tutto fra parentesi.
Dico mille cose affettuose alle tue donne e dò un bacio all’orientalista e occidentalista
Ser Cuppetana. Tutti gli amici ti salutano.
Il tuo Belli
LETTERA 333.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, 23 luglio 1838
(Ora 1a pomeridiana)
Prima, mio caro Ferretti, di ricevere la tua di ieri 22, io era già andato da Annamaria e
l’aveva trovata in letto ma in uno stato meno penoso de’ giorni precedenti. Avuto poi la
tua lettera sono tornato dopo un paio d’ore da lei e le ho passati i tre paoli che sono stati
da essa ricevuti come tre angioli; e te ne rendo in suo nome tremila benedizioni. Questa
famiglia conosce il tuo cuore. Il medico ha trovato la febbre piccolissima. Dura ancora il
gonfiore e l’indolimento al ventre, ma in grado più lodevole.
Che la lettera della Scheri fosse scritta da Pietralata lo seppi dopo averla spedita. Dici
bene: val più il consiglio di un professore che osservò. Nulladimeno è sempre bene aver da
parte voti di più.
Un’altra volta che mi riparlerai di solleciti indennizzi e di simili birberie, ti spedirò pel
mezzo del gobbo un carico di bastonate. — Sarebbe mo bella! Non faresti tu altrettanto per
me? Non farmi indemoniare. Tu ordina ed io son qui per servirti.
Io son tuo maggiordomo
Come scrive uno istorico da Como.
Questi miei parenti son mezzi matti: saprai poi tutto.
Non ti dico più per ora onde non prendermi oggi la seconda arrabbiatura, sopra
questo soggetto. Più abbisogno di pace e più il diavolo mi manda veleno. Saluta dunque
Orsola per mio conto e taci a lei il resto. Anche codesta buona donnetta ha uopo di
tranquillità. Procuriamolene per quanto è in noi.
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Vincenzone è venuto a sapere se tu fossi per caso a Roma. Voleva farti un regaletto
gastronomico per S. Giacomo. Gli è stato risposto da Annamaria: glielo facesse per S.
Teresa.
Se tu ti troverai in Albano sabato 28 credo che io verrò o con questi miei che si
recheranno a vedere Orsolina, o colla persona che ti dovrà parlare pel progetto d’impegno
presso il Tesoriere. Dissi credo perché le mie giornate son numerate dal destino, e spesso
mi trovo legato quando spero esser libero delle mie povere gambe. In tutti i modi ci
vedremo presto o costà o costì e parleremo. Oggi ancora non ha piovuto sotto un calore
allessatorio e arrosticolare. Io mi son cibata e beuta l’acqua girando per le strade del Rione
Monti senza conchiudere un caro ed amato zero.
Salutami tutta la famiglia e di’ a tua moglie che sapendosi da me quanto ella divide
teco le premure per la casa della buona Annamaria e con quanto affetto ami ella il
bambino cresciuto insieme con Gigio, io mi do e darò ogni pensiero di assistere persone
tanto a voi due e a’ figli vostri affezionate.
Intendo poi di confortare la buona Cristina a soffrire con rassegnazione e coraggio gli
ultimi avanzi di un esperimento volutosi fare dalla provvidenza sulle di lei virtù. Temperi
l’animo alla calma, e paghi così con qualche sorriso l’operoso e vigile amore d’un padre, se
non forse unico, raro e per mente e per cuore. Dimani è la festa sua. Spero che la sua gioia,
malgrado de’ suoi patimenti, corrisponderà ai desiderii che nelle buone e amorose
famiglie sorgono in simili circostanze: desiderii di reciproche tenerezze e di rinforzamento
de’ nodi soavi del sangue, i quali non si ristringono che per mano d’amore, consigliero di
scambievoli compiacenze. Sono sempre il tuo Belli.
LETTERA 334.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 24 luglio 1838
Ciro mio
Ebbi in tempo la tua 7 corrente; ma poiché io ti aveva intanto spedito il mio Goticismo
per mezzo della Sig.ra Cangenna aspettava di risponderti quando avessi avuto nuove da
te dell’arrivo di quel mio libricciuolo. Finalmente ti scrivo anche senza detta notizia.
Dopo la metà di agosto spero poterti riabbracciare e passar pochi giorni vicino a te. I
nostri affari mi richiameranno poi presto a Roma dove nessuno è che possa guidarli in mia
vece. — Riverisci in mio nome gli eccellenti tuoi Sig.ri Superiori e specialmente l’ottimo
Sig. Rettore che anelo di conoscere personalmente. — Allorché vedrai la tanto cortese
Sig.ra Cangenna Micheletti dille molte parole amichevoli per te e per me. Sai tu che Ella
avrà la bontà di ricevermi in sua casa pel tempo della mia dimora in Perugia? Un bel tratto
di cortesia. Ritorno a te i saluti degli amici, de’ parenti e degli antichi domestici. Ti
abbraccio e benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 335.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 30 luglio 1838
309
ore 2 pomeridiane
Son salvo, amici miei, son salvo alfine, e, come la buona memoria di Don Ciccio
trovomi in questo beato Purgatorio onde affinarmi l’anima e renderla degna dell’eterna
gloria: amen. E già da ieri, mentre tornando a Roma percorreva (un po’ a sghembo per
verità) l’archetto di meridiano che di sud a nord separa Albano da questo Caputmundi,
ebbi preziosa occasione di esercitare quella virtù che più forse di tutte le altre sorelle è
capace di mandarti al cielo per linea recta omnium brevissima. La pazienza dico, sì
opportuna, sì utile, sì necessaria a chiunque trovasi fra gli attriti innumerevoli dell’uomo
coll’uomo, attriti dai quali se cavi salvo il naso è prodigio. Entro una conchigliuzza
univalva, decorata del festoso nome di carrettella secondo i neologi, e di basterna giusta le
squisitezze arcaiche di Monsignore Azzocchi, io mi trovai stipato a dolermene le costole e i
calli, con due villane e un canonico, che vorrei dir pretaccio se non me ne ritenesse
la reverenzia delle sante chiavi.
Coi lombi e le spalle contro un dorsale parallelo alla caduta de’ gravi, io m’aveva in
faccia una lentigginosa Madonna non so se muta o addormentata, ed al fianco sinistro il
buon sacerdote che incrocicchiava un paio di gambacce bernoccolute con due specie di
zamponi di Modena appartenenti all’altra donna concessami dalla provvidenza a
compagnia di tre ore della mia povera vita. Sozza, maltagliata e ruvida quanto una
vezzosa figlia dell’età dell’oro, beavami l’olfatto con profumi d’aglio e sudore, la vista con
un mascherone di muso incorniciato alla ebraica entro un moccicchino color di brodo di
cicerchie, e l’udito con scempiaggini degne della comare di Cacasenno. Eppure Messer lo
Calonaco pareva andarne in visibilio, tante erano le sghignazzate e tanti gli occhiolini che
le rendeva in ricambio de’ culinari frizzetti lanciatigli da colei alla vita; cosicché se a tanto
vogliasi aggiungere qualche non infrequente strettarella di artigli che succedeva sotto il
coperchio di un cappello a tre pizzi sostenuto dalle quattro ginocchia e coperto da un
fazzoletto del prete (bianco quanto neve inzuccherata d’ossido nero di Manganese) se ne
dovrebbe conchiudere a scapito della carità esistere già fra quelle due bell’anime un certo
rapporto magnetico da far recere per arcano consenso i più intrepidi stomaci di Tartaria.
E difatti la gentil coppia smontò ad uno stesso portone ed andossene al diavolo come
Paolo Malatesta e Francesca da Polenta. Nulladimeno il buon prete era dotto in ogni
rubrica dello scibile, sì che varrebbe a mettere in tarantella la geografia di Maltebrun non
che la storia ecclesiastica dell’Orsi. Allorché presso alla scomparsa Torre di Mezzavia,
incontrammo l’ottimo D. Miguel de Braganza Alcantara, che portato da quattro cavalli,
come Fetonte nel giorno della famosa ribaldatura, tornava a fecondare le vergini d’Alba,
narrò il sacerdote alla sua fragrante catecumena quello essere il vero, legittimo e naturale
Re de’ Portogallesi, per distinguere i figli del Portogallo dalle frutta d’arancio. E quando,
sfuggiti noi dai complimenti dell’Octroi passavam sotto alle eterne pietre del Colosseo,
non mancò il nuovo Abelardo di spiegare alla novissima Eloisa come quel gran palazzone
tutto a finestre fosse stato espressamente fabbricato da un altro re più antico di Don
Michele per farci martirizzare i santi martiri che non volevano rinnegare la fede come la
rinnegano a tempi nostri i tanti e tanti settenari delle sette inventate dal diavolo e dalli
francesi. E la cara donnetta prese come doveva le sette per 5 + 2 = 7 con giudiziosissima
equazione da piazza Montanara.
Giunto io appena parlai con Annamaria, le parlai di voi tutti e di Peppe Battistoni.
Ella e i suoi Pazzi stan bene, salutano e ringraziano. Quindi subito diramai personalmente
le tue lettere allo Zampi e a tuo fratello col quale ho poi parlato questa mattina. Avrai sue
notizie.
310
Ti mando una stampa che può servirti nel tuo consiglio di liquidazione. Dimani ti
spedirò il Cesare del Cecilia.
Salutami quell’una e indivisibile triade del conte Dandolo e il Conte Dandolo e il
dottor Fava, dottissimi e gentilissimi uomini.
Salutami la tua filoatmosferica moglie.
Salutami Ser Cuppetana e Padron Battifolle.
Salutami la feroce Orsolina e il tremendo Tonino, e di’ alla madre di Tonino se ha e
dove lo tiene il cotone da far le sue calze, e dove anche tiene la roba e il modello pei corsè.
Queste dimande vengono a Lei da Balestra.
Sono in somma fretta
il tuo Belli.
LETTERA 336.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, lunedì 30 luglio 1838
(ore 6 pomeridiane)
Mi giunge, caro Ferretti, la tua di ieri sera. Dovrebbe aver seguita questa trafila. Da te
ad Albites, da Albites a Casciani, da Casciani a De Belardini, da De Belardini a Belli; e Belli
da De Belardini l’ha avuta, cioè dalla serva di De Belardini. Orate pro nobis.
Ho dimenticato nella mia di questa mattina, n° 41, di dirti che Annamaria s’incaricò
del procurare il pronto ricapito del tuo foglio all’Ansani mediante il canale de’ di lui
giovani, lavoranti ne’ nostri contorni, da lei ben conosciuti.
Sono tornato oggi presso la famiglia Pazzesca pel doppio scopo di leggere ad
Annamaria le cose che mi dici per essa, e di andar seco a casa tua per cercare i Comentarii
di Cesare tradotti in lingua strona da Gianfrancesco.
Non ho trovato che i gobbetti: le due donne non erano in casa; et quidem dimani
mattina vanno a stirare di buon’ora presso le Ferretti-Cagnoli. Se dunque non potessi tu
avere il Gianfrancesco dimani sera l’avrai il 1° agosto, quasi contemporaneamente col
perdono di San Francesco che scriveva i fioretti meglio del Gendarme interprete di GiulioCesare dittatore. Iddio perdoni i peccati della terra.
Ho parlato collo Zampi, e non col Zampi, che non vorrei m’avesse a toccare uno
scappellotto da Monsignore Azzocchi. Dice dunque lo Zampi che ti ha raccapezzato carta,
e la consegnerà ad Annamaria. Così o Madama Pazzi te la porterà essa medesima, o te la
farò avere nel baulle del globo, tempore abili.
Non frigus sed estus Romae vespere dominico dum Alba perentiebatur ab aquilone.
Abissinia e Siberia a quattordici palmi di distanza! Infatti, dicono le zone oggidì, a che
servono le nostre invidiose distanze ora che gli umani vapori circolano per la terra più
veloci che non i vortici cartesiani? Avviciniamoci, facciamo causa comune, e formiamo
dell’equatore, de’ tropici e de’ poli, una sola famiglia. Quindi il guazzabuglio di
temperature: quindi lo zero sotto al braccio all’80: quindi i ghiacci giuocanti a tressette colle
vampe di Sahara: quindi il popolamento de’ cemeteri e il tripudio de’ beccamorti.
Mehercle! Gesusmaria!
Quello che in tutto ciò mi pizzica è la infermità del cordiale Dottor Bassanelli. E il
Dottor Carbonarzi rimane solo?! Digli cave canem, bada alla canicola; che condita con due
sprazzetti di bruma iperborea può fargli pagar salata la carità del mestiere. Ma come si fa?
311
Il Cerusico vede per metà: lumen [...] dextro etc. e in queste stagioni bisogna spalancar
quattro lanterne; né poi la chirurgia adempie bene le parti della medicina, sì come vuole la
Bolla quod divina sapientia; benché in tempo di carestia pan di veccia e vino di nespole. Il
chirurgo dia dunque un occhio e una mano, come in simili incontri avrebbero fatto
Polifemo e Caffarelli, che non poteano dare di più.
Quando andrai o manderai, fa’ che l’infermo Bassanelli conosca i voti che io spingo
in su in su pel suo prossimo ristabilimento. Amen.
E tu l’hai sempre co’ nostri conti. Sta quieto, ci troverai pure il cerotto, il cataplasmo,
la pittima, l’orvietano e tutto quel che bisogna. Ma le son cose da parlarne alla rinfrescata,
post acquas, sotto il segno di libra.
Allora il dare coll’aver si scriba.
Viste allor le partite a fetta a fetta
Dirai: tanto ho da dar, tanto mi spetta.
Chiàmati al cospetto Orsolina, e dille:
Comare, la tua Tilde
Più forte è d’Alboino e d’Almachilde.
Lo stomaco di lei fatto è sì sodo
Che digerir potrìa bollette al brodo.
Ha due occhi da dirli due saette,
E più acuti di quei dell’Accemette,
Il quale è un Monsignor come tu sai
Che tutti quanti adocchia i nostri guai.
Prenditi uno per fianco i rispettabili signori Conte Dandolo e Dr. Fava, e se non
isdegnano una mia stretta di mano fagliene sentire che se ne accorga il cuore. Non per
confidenza né per temeraria familiarità, ma in guisa di franca manifestazione di
amichevoli sentimenti. Io li rispetto come onorevolissimi uomini; ma avendoli conosciuti
sì umani e disinvolti, mi salta il ticchio di trattarli da amici e l’anglomania del giorno esige
che della schietta amicizia sia dimostrativa misura
Una stretta di carpi e metacarpi
Che sino il Padre Sarpi
A quel torcer di mano
Ne giurasse al Concilio sano sano.
Ah! se non fosse finita la carta! vorrei dirti tante belle parole per le tue donne e per
Pispo Bisonnino.
Si contentino della buona intenzione.
Il tuo Belli.
LETTERA 337.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 4 agosto 1838
(ore 11 antimeridiane)
Rispondo, mio buono e affettuoso Ferretti, alle tue del 2 e 3 corrente.
312
La tua lettera a Giorgi sarà presentata dimani; l’altra pel Montanelli è già impostata
all’estero. Vivi tranquillo. Così potessi tu viver quieto sullo stato della tua disgraziata
figliuola!
La carta dello Zampi non si è mai veduta; né so più cosa alcuna di lui stesso. Prima
d’ammalarmi passai dalla di lui casa e dimandai al servitore se aveva qualche ordine dal
padrone circa a certa carta. Mi rispose negativamente. Se la carta fosse stata lì pronta,
l’avrei finita portandomela via da me. In tutto questo procrastinamento de die in diem non
ho io dunque ombra di colpa.
Annamaria va alzandosi. La febbre è cessata, il medico licenziato, ma il dolore le
alberga tuttora in seno. Dall’ultimo parto questi benedetti dolori...
Io prendo purganti senza successo. Come prendermi acqua di erba tettonica. Oggi
voglio un po’ alzarmi per vedere se la posizione verticale fosse più promovente
dell’orizzontale.
Ti ringrazio affettuosamente delle tue care sollecitudini per la mia salute assai
sconcertata. La mia vita e la mia attuale situazione possono mal tenermi sano e mal
risanarmi infermo. Sit nomen Domini benedictum. Non accagionare i dibattimenti
accademici della mia infermità: non mi passarono la pelle. Altri dispiaceri più gravi e
procedenti da cause più importanti mi hanno empiuto l’anima tanto da impedirne
l’accesso a sensazioni di ordini inferiori. Eppoi il mio male sembra doversi ripetere da
principii di turbato traspiro. Mi ha però colpito in un ben sinistro momento! Pazienza.
Già conoscevo per fama il Ferrari e la sua sublime opera. Pare che adesso la natura si
faccia giuoco dei prodigii e si compiaccia nel confondere le regole del suo consueto
procedere. A 25 anni esser così maturi e di senno e di conoscenza di fatti! Sino ai 14 l’uomo
suole esser pochissimo per se stesso, un punto matematico rispetto al mondo e alla società.
E in undici anni saltare in groppa ai profondi filosofi sessagenarii! Leggerò avidamente
quell’opera, ma la mia mente non è quella di Vico, né di Ferrari, né di Ferretti, né di
Dandolo o Fava. Io ho uno spirito di corta portata e solo capace del pensiero fuggitivo. Lì
vedo che, se avessi pace e ozio, potrei forse cavarmi fuori dagli ultimi. Alle vaste
concezioni la mia vista intellettuale si perde: non le abbraccio.
Non so come Orsola viva ancora nella persuasione di vedere oggi Tilde. Dice Balestra
averle sino dal 2 scritto il contrario. Tilde sta benissimo, ma verrà fuori col padre quando il
padre potrà tornare in Albano: crederei a settimana inoltrata, cioè verso i dieci o in quel
torno. Ciò mi pare dover conchiudere presso quanto ascolto qui in casa. Salutamela la
buona Orsola, e così le eccellenti tue donne. E abbracciami Gigio. Di’ mille cose ai dotti due
veneti, ed ai dottori Bassanelli e Carbonarzi. Il pericolo di questi ultimi mi fa paura.
Tralascio di scrivere perché vado in sudore di debolezza.
Sono il tuo Belli.
LETTERA 338.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, martedì 7 agosto 1838 (ore 7 antimeridiane)
Giorno di S. Gaetano padre della provvidenza. Utinam!
A due lettere rispondo, mio caro Ferretti, a quella cioè che mi scrivesti la sera del 5 e
all’altra inviatami jeri avuta da me jeri sera ad ora inoltrata.
313
Sono dunque spianate le Mazio-Balestrarie ossieno Orsolangiolesche difficoltà, e
dissipati i dubbii sul viaggio paterfiliale. Laus Deo animabus purgantibus. Io pure ho preso
tre purganti, eppure? Eppure me ne sto come avessi sorbito tre tazze di bollitura di
nespole e di tasso-bardasso. Ma seguitiamo il riscontro ordinato della corrispondenza, senza
divagarci in quisquilie.
Non so qual figura avrei fatto a mensa fra voi altri sei (che potete pisciare in ogni
neve) in ispezialità ragionando d’arti, così a me familiari come la modestia a un lombardo
soldato della sgiaffa. Mi sarebbe toccato il pisciar nel vaglio, ad esempio della buona
memoria di Boccanera allorché volle metter zizzania tra gli ellèno-quiriti. E bene mi
avveggo esserti in quel pranzo caricato d’idee artistiche sino alle meningi e al ponte del
Varolio, dappoiché, scrivendo su tal soggetto a me povera pulce, adoperasti la tecnica voce
piramidare, la quale insieme coll’altra (non meno uficiale) del prosciugato ascoltasi tuttodì
per gli 10.000 studi di questa metropoli delle arti. Vi avrei dunque piramidato? Sì, come
piradava il Sig. Frediani sulla piramide di Cheope allorché ne scriveva lettere a mamma
Europa, condite qua e là di sciarade, logogrifi, bifronti, omonimi, e fredianesche. Io posso
farmi lecito appena di dar sulla voce a chi si attenti di entrare in filologia popolana. Lì poi,
sia detto con santa umiltà, me la stigno sino col Sig. Bernieri di pseudoromanesca
memoria. Sul resto faccio moccin-moccino, troppo fortunato dell’essermi rimasta
sufficiente memoria da ricordarmi del Sutor etc. Arti io? Al più al più quella del
suolachianelle.
Ho veduto in di lui casa questa mattina il nostro buono avvocato Pippo Ricci,
ricevendone Scudo uno a pro di Annamaria. Egli parte dimani per Diosadove; e
nell’angustia del tempo dice non essergli riuscito raccapezzare di più.
Mi dirai dunque de mandato uxoris tuae in quante parti e in quanto tempo dovrò
spingere quel colonnato nelle fauci della povera madre di Peppe. In questa eguale mia
angustia di tempo, tra il ritorno di lei e la partenza di me, credo sarà bene che io
gliel’applichi tutta in un boccone. No? Sì? Dic.
Fra poco passerò alla casa Pazzi il tuo plico per Michele e le tue notizie
gastronomiche per Carolina. Costei si sentirà accesa di virtuosa invidia e punta di
generosa emulazione udendo la storia de’ materni banchetti. Peraltro credo che Orazio
parlasse anche di lei quando cantò il Pindarum quisquis studet aemulari.
E certo, perdinci, che se anch’io recandomi a visitare amici (specialmente non
sanissimi) da un paese all’altro, trovassi impostata sul portone una cassa crociata, mi
sentirei invasato da un tremore di tutti i nervi della mia persona. Che aveva da sapere la
povera Annamaria che proprio in quel giorno una vecchia di settant’anni si era presa la
libertà di morire sotto la suola delle tue scarpe? Cosa da voltarsi la bocca dietro.
Circa gli Sc. 1:50 di agosto per Carolina ti debbo fare la seguente avvertenza. Il primo
del mese, trovandosi la madre di lei con molto morbo e senza affatto quattrini mi
domandò cinque paoli a conto, né io ebbi cuore di negarli. Tu dunque non dovrai dare più
che uno scudo per simile articolo.
Convien dire che il Bassanelli sia composto di bassanella per reggere saldo, anzi per
risanare, fra tanti urti e atmosferici e professionali. Digli per me: Tibi gratulor, mihi gaudeo, e
vatti con Dio.
E sicuramente che mi saluterai il Card. Micara quando tornerà. Diancine! Esser
ripartito quando io mi disponeva a salire alla sua rocca!
Ho risposto a tutto? No, manca qualche paroletta sulla mia salute. Zoppica come
Asmodeo dopo la démêlée avec M. Pillardoc. Le medicine fanno effetto nelle mie viscere
quanto i veccioni sul cuoio del buffalo d’Affrica. Bella gloria aver le viscere buffaline! La
314
cassa del mio petto pare un violino dato sulla testa di uno scolaro, proficiscente come la
discepola del Cianciarelli, la famosa pianofortista che succhiò il latte dalle poppe di
Madama Pazzi.
Ignoro cosa sarà accaduto nel secondo battibuglio tiberino di iersera. Que’ bravi
signori, costituiti in assemblea costituente e in corpo legislativo, fabbricheranno un codice
di capocciate. Il genere della discussione, il metodo dell’arringare, le declamazioni
coristiche che adottano e seguono, non possono menare che a mutare in piaga una
scalfittura. Io non ci andai perché la sera sto meglio a casa, e perché il petto mi consiglia al
silenzio. Debbono essere stati proposti il Conte Dandolo e il Dott. Fava. E, se proposti,
ammessi di certo tota plaudente civitate.
Dunque Cristina meglio? oh evviva!
E non ci resta neppure la carta pei saluti hinc inde.
Sottintendili.
Sono il tuo Belli.
LETTERA 339.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 7 agosto 1838.
Due righe per accusarti il ricevimento della tua 27 luglio e per dirti insieme che alla
metà del mese io spero di partire. Voglio trovarmi a Perugia all’epoca de’ saggi. Allora
riceverai dalle mie stesse mani un altro esemplare della stampa che facesti benissimo a
dare al Signor Rettore invece di quella che gli prese quel tal Signore di Napoli.
Tu mi chiedi della mia salute. Non va troppo bene, Ciro mio. Godo però di un bel
risarcimento nell’udire che tu vivi sano. Bella età è la tua, caro figlio. Mantenendo in tutto
un savio regime non può non conservarsi a’ tuoi anni ciò che la natura ci abbia dato di
buono in una felice complessione.
Avrai la presente dalla obbligantissima Signora Cangenna che ha la bontà di
ricevermi in sua casa nella breve mia dimora a Perugia.
Ricevi i saluti di tutti i soliti, e porgi i miei ossequi a’ tuoi Sig.ri Superiori.
Ti abbraccia e benedice di cuore il tuo aff.mo padre.
LETTERA 340.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, mercoledì 8 agosto 1838
(ore 2 pomeridiane)
Ti rilancio la presente ad Albano a carica di balestra e in questo foglio ti avrai, mio
buon Giacomo, evasione a due tue lettere, una del 6 ed una del 7. Quella mi è giunta oggi
unitamente a due pacchi libri per mezzo del Sig. Pietro Luchini: l’altra, arrivatami pure
questa mattina per le mani del nunzio Gabrielle.
Ed è bene che Annamaria torni oggi, perché mi pare di udire che M.r Michele è stufo
di fare l’Argo alla figlia. Egli porterà la lettera al Giorgi.
Iddio sia lodato pel miglioramento della piaga d’occidente!
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Io mi sento acciaccati tutti e quattro i punti cardinali e le 6 parti del Mondo.
Il passo a volo de’ Sig.ri Dandolo e Fava m’impedirà con mio dispiacere di vederli. Ma
post aquas.
Veramente sfortunato questo povero Rossi! Poche gioie avrà certo dal matrimonio.
Addio patrimonio!
La buzzera! A nove anni già la POLAGRA?! È una faccenda da impensierire un
povero padre amante dei figli. Compatisco assai assai il Giorgi per questa non indifferente
sciagura. E dici bene come una intiera Sorbona
Dovunque volgi gli occhi
Noveri più disgrazie che baiocchi.
Ecco dunque Orsola fra tutte le sue contentezze.
(RF. al segreto. La nuvoletta la conosco io, e so da quale pozzanghera s’è levata ad
oscurare il sole. Son nebbie che si dissipano, ma abbassano sempre il barometro della pace,
ed avvezzano l’atmosfera alla future procelle).
Ti mando un Corriere dei teatri. Vorrei meglio spedirti un corriere de’ lotti colla notizia
di una cinquina da te giuocata.
D’Eramo doveva farmi avere una lettera per te. Gli dissi jeri sera che avrei avuta
occasione di spedirtela tuto cito et iucunde. Non la vedo. Se verrà prima che la balestra
scocchi riceverai la carica più forte. Altrimenti ti colpirà la sola mia lettera impiombata col
Corrier de’ teatri.
Ti salutano Giobbe
Spada
Le Pagliare
Le Mazie.
I nostri Dandolo e Fava passarono in Accademia come due razzi coruschi.
Quel tal Marchese del Piemonte, del quale hai tu scritto a d’Eramo non è ancora in
Roma. Si deve creder così perchè il suo nome non è comparso né in Consolato né in
Legazione di Sardegna. Ieri sera il vice-Consolo ne richiese in mia presenza al Conte
Broglia Ministro plenipotenziario di S.M. Savoiarda. Non si è veduto. D’Eramo mi
condusse dal Ministro per un mio imbroglio, cioè per l’imbroglio di un imbroglione che ha
imbrogliato la povera mia moglie, ed ora vuole imbrogliar me, e m’imbroglierà, malgrado
del Conte Broglia che non ama gl’imbrogli!
Salutami capo per capo chi ti appartiene per sangue e per amicizia.
Sono il tuo Belli che ti abbraccia.
LETTERA 341.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, giovedì 9 agosto 1838
(ore 8 antimeridiane)
Io già ve l’ho avvisato un’altra volta colle buone, sor coso mio, e voi ci ricascate. Ma
che diavolo m’esci ogni tanto a parlare di conti e di saldi? Questi sono pensieri da
accogliersi in mente dopo le ferie autunnali. Passerò a Carolina il residuale scudo per
agosto, passerò tutto il passabile a chiunque occorra di passare quel che tu vuoi passare, e
finiscila per amor delle anime sante del purgatorio. Non m’infradiscià, direbbe un parente
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di Pulcinella. Io invece ti dico e ti replico: chiudi quella malnata boccaccia in un profondo
necessario silenzio. La partita poi della riconoscenza, che tu vuoi serbar sempre accesa, è la
più strana bislaccheria che ti vien su pel cervello. Se io avessi anche operato qualche
nonnulla per te, dimmi non avresti tu fatto altrettanto per me in consimile circostanza?
Dunque eccolo tutto saldato liquidato e ammortizzato questo benedetto articolo della
riconoscenza. Tu pensa, pensa a rinfrancare la salute tua e quella della tua buona figliuola.
Il resto è baia che non monta un frullo,
E non val manco il picciolo sesterzio
Che si spendeva a’ tempi di Catullo,
E d’Ovidio Nasone e di Properzio.
Dabitur scutum riccianum Annae Mariae de dementibus, cito, illico et immediate.
Vidi eam aliquantulum reimpellicciatellam in coloribus et carnibus suis ob aerem Albae et
triclinia Jacobi; nec amplius faciunt sua crura Jacobum. Oh utinam potuisset Albae
svernare diutius! Genae eius inflatae fuissent de popina tua; atque genua eius valida ad
stadium agonis in tua cella vinaria.
E sai tu cosa io faccio attualmente per guarire? Scrivo e sgambetto come un ossesso
onde pormi in grado di partir davvero alla metà del mese lasciandomi dietro meno spine
che posso. Nel conforto di rivedere il mio Ciro troverò le risorse igieniche negatemi dal
riposo de’ materassi e dalle ingollate preparazioni del Professor Peretti. Quando tornerò a
Roma mi rivedrai giglio delle convalli e cedro del Libano. Il pensiere che fra pochi giorni
abbraccerò mio figlio mi elettrizza come una bottiglia di Leida, come una batteria di
Muschembroech il borgomastro. Que voulez vous? j’y tiens, disse a Giove cert’altra persona.
Ma quel povero Pietruccio dell’avvocato Grazioli non ha potuto poi raccontarla! Puoi
immaginarti il dolore del padre e della madre. Anche a me ha fatto gran rincrescimento,
tanto più che il giovinetto era stato compagno di Ciro. Un fiore troncato in sullo stelo! una
rugiada svaporata ai primi raggi del sole! Ah! quasi meglio per lui; ma pe’ genitori no, no,
no. Chi resta ed amava merita più lagrime che non chi amava e scompare. La morte
estingue una vita e ne impiaga un’altra a cui rimangono i sensi per desiderare il riposo del
sepolcro.
I libri portatimi da Annamaria stanno fra gli altri che gli han preceduti, aspettando
novelle compagnie. Anzi tutto ciò si può mettere facilmente in versi. Vedi come la prosa
diventa talor poesia, e la poesia prosa, con bella gara di gentilezza.
I libri che portammi Annamaria
Stanno fra gli altri che gli han preceduti,
Aspettando novella compagnia.
Addio, caro Ferretti, debbo prepararmi per la via-crucis d’oggi. Vattene in giro per
casa e prendi in petto chi trovi e chi non trovi, dicendo a tutti e singoli passati presenti e
futuri: ti saluta Belli. E fra quelli anche alle balestre; e non aver paura, ché non le sono armi
da fuoco. Spara e fuggi.
E facendovi qui duemila inchini
Davanti a voi la berretta mi cavo
E in tutto quello che non sian quattrini
Mi vi offerisco, e vi rimango schiavo.
Il tuo bietolifero Belli.
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LETTERA 342.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Roma, sabato 11 agosto 1838
(ore 8 antimeridiane)
Dalla destra del Balestra
Ritornato al Campidoglio
Mio Ferretti, ebbi il pacchetto
Con due libri e con un foglio.
Al giornale degli Abruzzi,
Sia che odori o sia che puzzi,
Non darò certo di naso;
Ma però sii persuaso
Che il bel Canto, ahi troppo breve!,
Sul gran giorno in para sceve
Cuor, cervello e tutti i visceri
Già mi scosse e confortò.
Da quel Dandolo e quel Fava
Gentil coppia onesta e brava,
Nulla mai che non sia bello
E pel cuore e pel cervello
Fra le scienze e fra le lettere
Né si fe’ né si lodò.
Quella è gente che non ama
Di dar vita o di dar fama
A poetiche quisquilie,
Ad ampolle e rococò.
Evviva Maria
E chi la creò.
Ed oh quanto t’invidio, o mio carissimo Giacomo, del tuo desinare oggi con que’ fiori
di gentilezza! perché io sempre ho pensato e sempre ho trovato vero niuna gioia tanto
soave scendere all’anima quanto quella che si suscita a mensa fra cari parenti o fra amici
affettuosi, culti e modesti. Allora il cibo va in tutto sangue e la bevanda in buon’umore e in
consolazione innocente. Due giorni invidiabili passerai tu dunque o Ferretti. Uno oggi
presso il Conte Dandolo: l’altro dimani fra le tue mura domestiche, celebrando
l’onomastico della seconda figliuola, per cui dovresti andar padre superbo quando anche
tu non avessi le altre due, ciascuna delle quali potrebbe formare la gloria di una famiglia. E
non istarmi a dire: Belli si è messo a far l’adulatore. No, lo so anch’io quando c’entra; e tu
sai s’io so dare della scimmia e della sciuerta a chi meriti d’essere proverbiata.
E parlando più specialmente di quella fra le tre che dimani è la Signora della festa, mi
sono ingegnato anch’io di scrivere un brindisi alla meglio, onde far eco a tutte le belle cose
che i commensali tiberini spareranno fra lo Expectare dapes et plenae procula mensae.
Eccolo qui; e perdoneranno.
Questo vino nun me lassa la bocca amara:
A la salute de la sora Chiara.
318
Ognuno da quel che può. Così Berni seniore scrisse i suoi giocondi capitoli a Messer
Hieronimo Fracastoro e a Maestro Piero Buffeto: così il Berni iunione ha rimpinzato una
tarantella colla storia romana sino alla Battaglia d’Azio.
E se non vien più giù Dio ti ringrazio.
Nelle opere umane bisogna cercar la buona intenzione; e nessuno presumerà mai che
i due Berni abbian voluto far male. Il primo certo nol fece: il secondo neppure, se vogliamo
dar retta alla carità cristiana che difendendolo a spadatratta ha provato in barbara et
baralipton poter le carte di lui riuscire utilissime alla cozione di melenzane e di frittate
rognose, assai meglio i paterni stivali non servono alla propagazione de’ calli e degli occhipollini. — Incoraggiato da sì nobili esempi io fabbrico brindisi, e tu sai che Brindisi l’è un
tocco di città che sino Orazio Flacco trattò con tutti i debiti rispetti, benché avesse tante
altre cose da fare nella tenuta di Roma-vecchia.
S’io trovassi anzi qualche buon canale
Da mover Berni a ritornare in sella,
Spererei trarne un’altra tarantella
Dal diluvio al giudizio universale,
Mentre il padre cucisse uno stivale.
Annamaria è prevenuta. Le mutature Peppesche saranno ammanite in casa etc, e il
tuo lettino rifatto in puellarum cubiculo.
Ma dimmi, che Dio ti aiuti: che male poi ci sarebbe se nel tuo inno al Tasso entrasse
qua e là qualche fioritura di ritornelli mammaneschi, o di passagalli cauponarii, o di melodie da
carraccio? E non conti per nulla la novità? Lascia dunque cantare Comare Nena usque ad
strangulationem et ultro; e Tasso, e Dante, e Ariosto e Petrarca e tutta quell’altra turba
d’imbrattacarte si chiameranno abbastanza onorati se tra i loro elogii troveranno a mo’ di
parentesi un
Fior de piselli
Come una scimmia voi fate li balli
Eppoi cantate com’er re d’uscelli.
Questo è il secolo de’ Goti, bravissima gente che se sapesse scrivere non avrebbe tanti
scrupoli alle calcagna.
Varietà, Ferretti mio, natura, natura ignuda e cruda com’esser dovrebbe la verità:
ecco le vere, le limpide forme del bello. Tasso e Meo Patacca a braccetto! Si sarebbe mai
visto niente di meglio nel Mondo-nuovo, o nella lanterna magica, o nella fantasmagoria?
Dixit Jordanus Annae Mariae: Ecce locutus sum ad Fortinium, et tres bussolae in aula
magna renovabuntur. Amen.
Ego sum: io sono
il tuo Giuseppe Belli bello e buono.
LETTERA 343.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Perugia, martedì 21 agosto 1838
Mio buono e caro Spada, amicus ut alter ego.
319
Una botta al cerchio e un’altra alla botte, cioè una lettera a Biagini e una lettera a te,
lasciando ad entrambi la facoltà di scegliere fra la botte e il cerchio la rappresentanza che vi
parrà meglio convenire. Ci giurerei che Biagini vorrà per sé in tutti i conti la botte per
motivi d’analoga corporatura.
Arrivato che fui a Perugia scrissi a Biagini. Egli intanto scriveva a me con un tuo
poscritto a pie’ di pagina. Ora io prendo l’accessorio per il principale, e, riscontrando il tuo
PROSCRITTO o coscritto che fosse, verrò a calmare la tua matta stizzaccia proceduta dal
non saper fare i conti né procedere da galantuomo. Io partii giovedì 16, corsi sempre
(meno 30 minuti di cena a Civita Castellana, e 60 minuti di consegna, scarico, carico,
pranzo e ricerca del governatore della Dogana a Fuligno) e giunsi qua’ a due ore di notte
del venerdì 17. Scriverti da Civita era impossibile per angustia di tempo, e inconcludente
per soverchia vicinanza di luogo. Da Fuligno no, perché il corriere già era pronto, e lo
incontrai per istrada.
Dunque da Perugia. Ma il primo corso cadeva qui il 18. E non iscrissi io il 18? Scrissi
a Biagini parole per te, e scrissi a Biagini perché più prossimo a casa Mazio-Belli. Senza
questo riflesso vi avrei imbussolati nel cappello, e beato chi usciva! Il sortito sarebbe
sempre stato nunzio al compagno. Due lettere erano troppe per due corpi ed un’anima, né
devesi moltiplicar enti senza grave ragione. E come il Sig. Spada si aspettava una mia
lettera sabato 18? Bisognava che me la portassi già scritta in saccoccia, come io già soleva
talvolta praticare colla bo. me. di Mariuccia pel caso che nulla fosse accaduto per viaggio.
Ma i termini generali in quest’anno potevano riuscire vani secondo i varii incidenti della
mia salute. Insomma ho da dirne di più? Scrissi appena arrivato, e tra Biagini e me esisteva
già questo accordo. Dunque zitto, quieto, mosca, e acqua in bocca, Signor Rugantino
Covielli, con tutte le sue ciarle di generosità e di vendetta. E impari le convenienze.
La mia salute è discreta, e me la vado qui confortando col vedere ed udire il mio
Ciro, che pare una personcina di garbo.
E di’ a Biagini che gli porterò il fascetto di cannelli di cerotto che mi richiede. Ne
debbo portare anche a Ferretti. Anzi, circa a Ferretti, sappi che mi ha scritto pur egli. Io non
gli rispondo se prima non ho in pronto una certa notizia (o positiva o negativa) della cui
ricerca mi incaricò innanzi alla mia partenza. Se da Biagini, da te, o da qualche altro di
comune conoscenza, si avesse occasione di dirigergli qualche lettera, aggradirei gli si
facesse sapere quanto poco sopra t’ho espresso.
Ho veduto tuo cugino Luigi, ed a varie mie interrogazioni su differentissimi soggetti
non ho potuto ricavare altre risposte che ma... poi... perché... non si può... quando... si sa... hè
hè... capisco che... pure... dico..., e via discorrendo. Mi pare concentrato non poco. È sempre in
casa Fani.
Salutami l’Accademia tiberina se l’incontri ed ama il tuo riconoscente amico
G. G. Belli.
LETTERA 344.
A GIACOMO FERRETTI — ALBANO
Di Perugia, 28 agosto 1838
Mio caro Ferretti.
Alla tua affettuosissima lettera del 16, da me qui ricevuta il 20, non ho prima d’oggi
risposto avendo voluto riscontrarti allorché potessi darti le notizie bramate dal Dott.
320
Bassanelli per Celso. Di questo motivo di ritardo feci consapevole il nostro Biagini, al
quale commisi di salutarti quando ti scrivesse. Passerai dunque al Dott. Bassanelli il qui
unito foglietto dove troverai quanto si può dire e sapere intorno al soggetto del di lui
quesito.
Ed aveva io certo stabilito di non più partire, sembrandomi imprudenza il mettermi
in viaggio nello stato in cui mi sentiva. Ma poi la mattina del giovedì, trovandomi un po’
meno male e consultatone il Dr. Pasquali, tornai all’abbandonato pensiere, riannodai le
sciolte fila, mi cacciai in diligenza e mi commisi alla sorte. Già non era nuovo per me il
considerarmi in viaggio per un sacco d’ossa, secondo la notissima espressione della pratica
forense. Né mi riuscì malaccio. Ora sto passabilmente benché questo clima sembri fatto
apposta per dar la tempra agli acciai. Fuoco e gelo.
Quello che mi dà veramente noia è l’udire del nuovo allargamento della piaga di
Cristina. Ah! lo vedo e lo credo ancor io: Cristina guarirà bene a Roma, dove in breve ci
riuniremo tutti per confortarci a vicenda di scambievolezze amichevoli. E vi saranno
presto anche gli amabilissimi Conte Dandolo e Dr. Fava ne’ quali il cuore non fa torto
all’ingegno. Riveriscimeli cordialmente.
Mio figlio è grande, forte, dolce e studioso. Parla poco, pensa molto e mi ama.
Di’ mille parole affettuose per me alla tua cara famiglia, ed anche ad Orsolina se è
più in Albano al giungervi di questa mia lettera.
Insomma Petrini è libero! Alleluia.
Sono il tuo aff.mo amico
G. G. Belli
LETTERA 345.
A LUIGI CERROTI — ALBANO
Di Perugia, 30 agosto 1838
Mio caro Gigi
Il locandiere de l’Hôtel d’Europe o, come qui dicono, dell’Otello, è un buffone. La
lettera ch’egli ti ha mandata appresso per la posta io me la portai meco alla locanda nel
dopo-pranzo del medesimo giorno in cui ebbi il piacere d’incontrarti per le vie di questa
Città. Entrai nel portone dell’albergo mentre ne usciva la Sig.ra Duchessa di Sora per
recarsi a trottare colla Sig.ra Contessa Conestabile della Staffa. Dimandai di te: mi si
rispose da un ragazzettaccio (scriviamolo più chiaro) ragazzettaccio di Cameriere essere tu
uscito in quel punto per andare a passeggio. A colui lasciai la lettera e il mio nome perché
il tutto ti fosse consegnato al tuo ritorno. Signore, non dubiti appena il Signore rientrerà in
casa, Ella, Signore sarà servito. Servo suo, Signore. E poi con tanta bella signoria il Sig.
pivettaccio mi servì nella rognonata, per dirla alla romanesca. — Del resto ti ringrazio del
meglio che hai potuto fare circa alla lettera ed ai saluti Spada-Biagini.
Questa mattina ti ho salutato Ciro, che mi ha commesso di fare altrettanto io con te.
— E Bianchini chi lo vede mai? Partì, poi ripensò meglio per via, e tornò. Allora lo vidi
teco. Adesso mi dicono essere occupato di continuo nella copia di un Raffaello presso il
Conestabile. Quando m’apparirà gli dirò: Vi saluta Cerroti.
E giacché sei in Albano, va’ in via del Vescovado n° 49, 3° piano. Ivi troverai
Giacomo Ferretti cum uxore eius et filio et filiabus. Ho udito essere inferme Cristina e
Barbara. Di’ a loro tutti che me ne duole, e poi aggiungi mille parole amichevoli.
321
Scrissi a Ferretti il 28. Avrà avuto la mia lettera oggi.
Stammi bene, Gigi mio, goditi dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco, e di tutto
quello che trovi al mondo di meglio.
Sono cordialmente
il tuo aff.mo amico e parente
G. G. Belli
LETTERA 346.
A FRANCESCO SPADA — ROMA
Di Perugia, 8 settembre 1838
Sic vos non vobis fertis aratra boves. Biagini mi scrive e tu paghi la mia risposta. Va
bene: un giorno Castoro e un giorno Pollice, nati entrambi da un uovo, al che allude Virgilio
nella prosecuzione del testo: sic vos non vobis vellera fertis oves, benché egli usasse l’uovo
in numero plurale non bastandogliene forse uno solo. E infatti a un galantuomo vuoi
dargliene meno d’un paio? Tanto varrebbe dargli del cappone addirittura. — Ma dunque
il Sig. Biasciuti non ti disse che io mi sarei occupato intorno al Gallieni? Bisogna
conchiudere o che Cianca abbia lasciato le parole in pizzo alla lingua, o che io le lasciassi in
punta alla penna, due strumentacci uno peggio dell’altro: della quale osservazione non può
Padron Menico adontarsi quando mi vede osservante del precetto prima charitas incipit ab
ego. Il motivo della dilazione al mio riscontro circa il Gallieni nacque da ciò, che l’Ospedale
de’ Pazzi trovasi in un certo sprofondo fuor di Perugia, nell’interno della quale città nulla
o ben poco si conosce di quanto accade laggiù. Vista io dunque la inutilità delle mie incerte
ricerche, mi sono questa mattina calato a S. Margherita (nome dell’Ospedale de’ Pazzi)
rivolgendomi direttamente al Cavalier Direttore dello stabilimento. Fattagli la mia
dimanda, nominatogli il soggetto e descrittagliene la persona, mi ha il Sig. Direttore
cortesemente risposto non essere mai venuto fra’ suoi infermi alcuno che si riferisse a que’
connotati.
Nulladimeno, per di lui spontanea offerta, ho girato da capo a fondo tutto lo
stabilimento onde osservare i molti miglioramenti introdottisi dal 1832, nella quale epoca
io lo aveva visitato. Non pare un luogo di reclusione e di cura, ma un ridente e ordinato
collegio di educazione. I poveri romani Bettanzi e Antisèri eccitano veramente una
profonda compassione: Ti narrerò poi un colloquio da me avuto colla sventurata LudovisiFortuna, del quale conserverò per molto tempo penosissima sensazione. Barbellini morì. —
Di tuo cugino ti parlerò in Roma. Pare non isperabile alcun miglioramento. Egli è sempre
in casa Fani, ma si dice che Sneider voglia ricondurlo a Roma.
Belle, Checco mio, quelle tue sciarade! Scritte benissimo davvero, ma la chiarezza è
poi quella che ti colpisce alla prima. Non aveva io neppure terminato di leggerle e già le
aveva indovinate: la prima Chierico, e la seconda zucchero d’orzo. Non fidandomi però
troppo temerariamente alla mia perspicacia e potendosi forse dar loro un’altra eguale
buona interpretazione, ne ho spedita una copia all’Accademia de’ Quaranta di Parigi e
un’altra all’Accademia de’ quaranta d’Orciano, per udire il sentimento di quegli ottanta
Ominoni; e allora penso che potremo star di buon’animo.
In certi trabocchetti, Signor Francesco mio, non mi ci farete cadere, per brios. Per
grazia del Cielo io son nato nel grembo di S. Madre Chiesa, e so bene non esserci al Mondo
che una sola e misera Madonna. Tutte le immagini diverse e i differenti lor titoli non sono
se non altrettante invocazioni sotto le quali la divozione cristiana si compiace di venerare
322
l’unica Vergine e Madre che la rivelazione ci die’ ad adorare. Dunque il no da me detto a
Perugia vale quanto il no dovuto dire alle falde dell’Aracoeli. Eppoi Rimanti: non voglio. —
Son triglia di scoglio. — Ti basti così. — E questi pochi versetti di più che classica fonte,
bastino per tutta risposta ai molti versi romantici de’ quali Mastro Menico (uno de’
fondatori dell’Accademia Tiberina) si avvisò d’infarcire la sua letteraccia del 4 corrente.
Legga, legga il Bisso quel signor poco-di-buono, ed impari a poetare con proprietà di
vocaboli e senza tanto enorme abuso di licenze. Il Mont, la lettra, la vò, al su’ etc. Vi par
maniera questa di scrivere con decenza? Nemmeno ci si azzarderebbe un Marchetti.
Vergogna! Un fondatore d’accademie! un impiegato superiore dell’Annona e grascia! un
raziocinatore dell’illustre Consorzio de’ fornaî! un galantuomo col frontino! Ve lo dirò io
che cosa è, perché io ho il naso lungo e le cose le capisco per aria. L’amico si trovava
imbrogliato col numero delle sibille, e sarebbe entrata nella misura una sibilla di più del
dovere. E non serve che lo neghi; la faccenda deve essere andata sicuramente a quel modo.
Circa poi al su’ e al ve’ conchiudete pure che il Signor letterato sa di grammatica quanto il
Gobbetto Nalli s’intende d’intuonazione. Ma quello che fa scandalo e raccapriccio è il
vederlo azzardarsi alle parole latine. Haeternum! aeternum coll’h!!! Dunque il signore non
legge mai neppure l’uffiziolo della Madonna? Se facesse uso di quel libretto vi troverebbe
infilzate di aeternum che non finiscono mai. Quando non si sa la lingua latina non si
scrivono lettere per la posta, conciossiaché la posta non è stata instituita per gli asini ma
per le persone di garbo. E zitto.
Sicché Massi se l’è sentita all’osso pizzillo. Difatti la lettera di Biagini pizzicava più
della frusta di cartapecora che temporibus illis mi fece assaggiare Michele il Campanaro
nelle sale di D. Andrea Conti il cicoriaro del Collegio Romano. Intanto però la chitarra è
venuta, e Massi imparerà a non tener gli uomini per Cassandrini. E zitto.
Oh, ascoltate entrambi adesso di Ciro. Giovedì 6 egli ed un altro convittore si
esposero ad un pubblico saggio di geodesia. Un certo fratone dal centro della sala di
udienza dimandò a Ciro una dimostrazione del modo di correggere le livellazioni per
conto delle rifrazioni della luce. Ciro delineò una figura e poi si accinse al calcolo. A mezzo
della operazione saltò fuori un ingegnere ad arrestarlo chiamando erroneo quel calcolo.
Ciro lo lasciò parlare, e quando colui ebbe finito gli rispose: Mi pare che il Signore prenda
equivoco. La mia dimostrazione risponde benissimo alla dimanda che mi è stata fatta. Io
debbo occuparmi della rifrazione della luce, ed ella pare voglia parlare della sfericità della
terra. Mi lasci prima terminare il mio calcolo, e poi colla stessa figura dimostrerò il secondo
suo caso. E così accadde. L’uditorio rimunerò Ciro con un applauso. — E avete, amici miei
cari, da notare che quel secondo caso neppure era compreso nell’indice de’ capitoli ai quali i
due Convittori eransi obbligati di dar risposta. — Finito il saggio tutti i maestri, i Superiori
e qualche altro astante andarono a rallegrarsi con Ciro perché senza suo sgomento avesse
mortificato il Sig. ingegnere, o ignorante, se corresse in buona fede, o maligno se fu suo
scopo il confondere uno studente. La Città intiera attribuisce però al Sig. ingegnere
entrambe le qualità. — Sembra dunque non esser Ciro sì addietro nell’arte del calcolo.
Ebbene, indovinatela un po’, amici miei. Questo piccolo Matematico in erba va spiegando
invece inclinazioni all’avvocatura. Dice che gli autori di eloquenza gli piacciono assai. Ma,
Ciro mio (io gli dimando) sarai poi forte nel latino, nelle lettere e nell’arte oratoria? Egli mi
risponde: Non dubitate Papà. — Iddio lo voglia. Ma che al successo avessimo poi ad
ingannarci! Basta, intanto tiriamo innanzi sulle due vie, e quindi vedremo. — In tutti i casi
una cosa non pregiudicherà l’altra.
Io partirò di qui lunedì o martedì: mi tratterrò in Terni una coppia o un terzetto di
giorni, e poi m’incamminerò verso Romaccia, dove, se non ci foste voi due e pochi altri, mi
323
parrebbe andare in galera. Per la qual cosa, signori cosi miei, non mi rispondete perché la
vostra lettera non mi troverebbe più qui.
Se tu o Biagini poteste portare in mio nome una notizia al R. P. Tessieri Direttore del
museo Kircheriano mi fareste piacere. Si dovrebbe dirgli che dopo mille ostacoli ho ieri
potuto finalmente parlare con questo Sig. Marchesino Orazio Antinori, al quale aveva io
fatto varie visite come pur molte ne aveva egli fatte a me senza mai scambievolmente
trovarci. Egli dice avere già da qualche mese spediti al P. Tessieri parecchi uccelli
preparati, consegnandoli a un tal Massimi addetto all’Ospedale di S. Spirito e abitante in
casa del perugino D. Benedetto Sebastiani accanto alla chiesuola di S. Giuliano al Sudario. Fra
non molto procurerà di mandare i rimanenti che deve ancor preparare. Bramerei che il P.
Tessieri sapesse queste cose prima del mio ritorno, onde accelerargliene la cognizione,
tanto più che ne’ primi giorni della mia dimora in Roma temo di aver faccende tali e tante
da impedirmi di recarmi a riverirlo così presto come vorrei. L’ora più propizia per trovare
il P. Tessieri è fra le 22 e le 23. —
Saluti ai soliti: abbracci a te: abbracci a Biasciuti:
Trecento Fabî in un sol giorno estinti. — chiusa in grazia della rima.
Il tuo, il vostro Belli.
LETTERA 347.
A LUIGI MAZIO — ROMA
Di Terni, venerdì 14 settembre 1838
Mio caro Gigi
Ieri giunsi finalmente in questa cornuta (e, se non avessi scrupolo delle parolacce,
direi volentieri fottuta) città. A Perugia ho perduto due giorni nel labirinto vetturinesco.
Oggi dovrei pormi in campagna pe’ miei poveri affari; ma grazie a Dio, piove, e fra gli
oliveti non si va né in tilbury né coll’ombrella.
Se dimani li Signor Tempo si contenterà mi recherò a questa benedetta via-crucis
campestre: altrimenti quando la mia buona-stella vorrà. Debbo andare in giro per gli
avanzi del vecchio rustico patrimonio di Ciro, gridando per piani e per colli e per valli:
ossa arida, venite ad judicium; e così sempre si grida quando non si è avuto giudizio a tempo.
Ma basta de’ lai di Abacuc. — E quando sarò a Roma? — Eh... quando? Spererei, vorrei
lusingarmi, nudrirei desiderio; avrei bisogno per la metà della vegnente settimana. Da
martedì 18 in poi ogni giorno ogni istante può essere il mio. Ciò è bene che tu sappia, ciò è
bene che sappia Nannarella, e la Casa et omnes habitantes in ea, e Biagini per tuo mezzo, e
Spada per mezzo di Biagini, e gli altri amici per mezzo di Spada, e il Mondo per mezzo
degli altri amici. Non ti fidare del tuono di questa lettera. La leggerezza è in me spesso
maschera della convulsione di spirito, o artificial mezzo di stordimento.
Salutami tutti, e spendi questi quattro baiocchi per l’anima del tuo aff.mo cugino
G. G. Belli.
P.S. Non rispondere alla presente, scritta con un zeppo prestatomi per amor di Dio,
perché forse il tuo riscontro non mi troverebbe in questa terra; a fra poco dovrò forse dire:
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc... Iddio sa qual catapecchio.
324
LETTERA 348.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, martedì 18 settembre 1838
Mio carissimo figlio
Partito ieri da Terni alle ore 4 pomeridiane sono qui giunto in diligenza questa
mattina alle 8. Mi approfitto subito del corriere di oggi per darti notizie del mio ottimo
viaggio e del buono stato di mia salute, siccome già te le detti in parte da Terni nel giorno
13. Eccomi dunque nuovamente in Roma ad occuparmi de’ nostri affari, onde far loro
prendere a forza di perseveranza la migliore piega possibile, o, per dir meglio, diminuirne
il danno. Sono persuaso, Ciro mio, che tu ancora sarai per cooperare al medesimo fine
mediante una attenta e diligente applicazione a’ tuoi attuali doveri, il cui adempimento ti
riuscirà un giorno di efficacissimo mezzo a stabilirti nel mondo e correggere gli oltraggi
della fortuna. Divertiti intanto nel tempo delle vacanze, e attendi a prendere nella
ricreazione autunnale forze novelle e allegro coraggio per l’imminente nuovo anno
scolastico. Riverisci per me il Sig. Presidente Colizzi e tutti i tuoi Sig.ri Superiori e Maestri:
prendi da me mille affettuosi abbracci e credimi sempre il tuo amorosissimo padre.
LETTERA 349.
ALL’AVV. RAFFAELLO BERTINELLI — FOSSOMBRONE
Di Roma, 28 settembre 1838
Mio caro Bertinelli
Fra il vostro dolore vi prego di usare della vostra virtù per soffrire anche la molestia
d’una mia lettera, che io vi scrivo però non colla intenzione di farmivi maestro di
rassegnazione ma sì di mostrarvi come mi siete nel cuore e fra i primi de’ miei pensieri. —
Dopo la vostra partenza di Roma per ricondurvi, povero Bertinelli, alle dolcezze della
famiglia, io infermai co’ miei soliti accessi d’infiammazione nel sangue, e così trapassai
tutti i giorni sino al decimosesto di agosto in cui mi fu forza risolvermi a partire per
Perugia. Il moto mi giovò, e più poi l’aria di Perugia e la vicinanza del mio caro figlio,
grande, sano, forte, studioso, modesto e gentile.
Queste cose io vi ho detto per farmi scusa presso di voi se non mi riuscì di recarmi
allora alle Mantellate a ritirare il dolce ricordo della vostra pietosa amicizia. Ho però
adempiuto a siffatto mio debito dopo il mio ritorno accaduto in questi ultimi giorni, ed è
attualmente con me quel caro pegno delle vostre fraterne più che amiche intenzioni. Ma la
R. Madre Superiora, nel consegnarmelo con molta gentilezza di parole e di modi, mi
afflisse col racconto di nuove sventure che voi certo non meritavate, seppure con quelle a
Dio non piacque provare ancora maggiormente la vostra cristiana fortezza. La R. Madre
fece passare nel mio animo tutto il cordoglio che ella sente per le vostre tribulazioni, e fra
noi si convenne che io vi avrei scritto per esser tolti da un’incertezza penosa circa
all’ignorato esito della malattia del vostro ottimo padre. La buona Religiosa nulla ha più
saputo dopo la notizia dei ricevuti conforti di religione dell’autore della vostra vita. Non vi
spiaccia, Bertinelli mio, dirmene qualche cosa di più, onde sapere sino a qual grado noi
dobbiamo o compiangervi o rallegrarci con voi.
325
Prima però di scrivervi ho voluto poter vedere il Rev. Prof. Tizzani che al mio ritorno
seppi essere in Roma. Mi recai perciò jeri a S. Pietro in Vincoli per salutarlo e parlargli di
voi. Non lo trovai e gli lasciai scritto il mio nome. Intanto perché non trascorra più tempo,
spedisco questa mia lettera, e confido sarà da voi ricevuta con sentimenti uguali a quelli
che me l’hanno dettata.
Stringete per me affettuosamente la mano a Torricelli, se lo vedete. Ma non dubito
che lo vediate, dacchè l’anima di lui soave e gentile nol fa mancar mai là dove siano
lagrime da tergere e conforti da amministrare.
Vogliatemi bene, mio caro amico, e ditemi se qui posso far nulla per voi in
contraccambio delle sollecitudini da voi concesse a mio vantaggio in questo mio tempo di
disinganno. Sono di cuore
Il Vostro aff.mo e obbl.mo amico
G. G. Belli
Via Monte della Farina n° 18
LETTERA 350.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 14 ottobre 1838
Dall’ottimo tuo Signor Rettore ti sarà data questa mia lettera (responsiva alla tua 9
corrente), della quale mi favorisce esser latore il Signor Fiorelli che parte per Perugia con
un altro figlio da collocare in Collegio.
Quello che tu mi dici intorno al proverbio arabo, relativo alla umana saggezza, è
giustissimo. Troppo disdirebbe all’uomo il non divenir saggio che in grave età. In tutte le
epoche della vita nostra dobbiamo amare il giusto ed il retto, nel che risiede la prima
saggezza che da noi esigono Iddio ed il mondo: in tutti i giorni del viver nostro abbiamo
obbligo di acquistar nuova dottrina per conferire alla saggezza nostra progressivo
aumento ed insieme un carattere più rispettabile. Non vorrei però che intorno a questo
soggetto tu cadessi in un equivoco ed assumessi una opinione contraria alla comune
sentenza che suole attribuire il senno alla età matura dell’uomo. Questo generale giudizio
è esattissimo e vero quanto il proverbio arabo, quantunque sembrino fra loro in
contraddizione. Dicendo il proverbio la saggezza si acquista non già col viver molto ma col
vedere, e perciò non essere nel numero degli anni ma bensì nel cervello, viene a significare che se
l’uomo aspettasse dal solo tempo la lucidità della mente e la umana prudenza vivrebbe
ingannato dal suo proprio giudizio. Deve egli assiduamente affaticarsi in migliorare le sue
facoltà intellettuali e correggere le inclinazioni del cuore, affinché, giunto a vecchiezza, la
sua sapienza e la sua giustizia non sieno state il solo frutto degli anni ma sì ancora la
conseguenza de’ suoi virtuosi esercizii. Quindi fra due persone studiose di migliorarsi,
l’una giovane e l’altra vecchia, questa avrà più senno di quella perché operarono in suo
prò e gli anni che corsero e lo studio che nel loro corso gli accompagnò: laddove quella
non possederà fuorché il beneficio del sapere, il quale però si acquista e cresce col beneficio
degli anni. Dammi, o Ciro, un giovane stato sempre solerte, e un vecchio stato sempre
accidioso, ed io ti dirò subito: ha più senno il tuo giovane; ed in ciò si verifica pienamente il
proverbio arabo. Ma di un vecchio e di un giovane vissuti sempre entrambi innamorati
della sapienza il vecchio godrà il privilegio di un maggior senno perché ebbe più tempo di
acquistarlo col molto ed assiduo contemplare. Né senza motivo diede Iddio alla gioventù
vivacità di spirito e capacità d’intraprendere: somministrò così ad esso i mezzi di farsi
326
forte nel bene. Negletti que’ fecondi semi a lui posti nell’anima e soffocate nella ignavia le
buone disposizioni dello spirito e del cuore, l’intelletto muore prima dell’uomo per difetto
della prima cultura. L’ultima età della vita può conservare ma non già fare acquisto.
Quindi scende al giovane la obbligazione di fare per tempo tesoro di cognizioni e di virtù,
onde, giunto alla maturità, godere del titolo onorato di savio che in ogni tempo fu
specialmente ai vecchi (seniores) attribuito.
Ciro, la giovinezza è pari al Sole
Che mentre il mondo a illuminar si appresta
Rallegra il colle, il prato e la foresta
E fin le balze più selvagge e sole.
Presso a lei tutto si compone in festa
E germoglian dai vepri le vïole,
Mentre la fredda senettù si duole
Di viver pigra, abbandonata e mesta.
Ma un Dio regola i fati; e se quei dienno
Al giovane vigor, gioia e salute,
Fer grande al vecchio un altro dono: il senno.
Tristo però il mortale, o filiuol mio,
Che nemico del cielo e di virtute
Chiuderà l’intelletto al don di Dio.
Io già sapeva aver dato il Bosco un’accademia in Collegio, ed era persuaso che
dovesse averti divertito.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e chi ti chiede di me. Abbiti mille saluti de’ parenti ed
amici nostri, e così degli antichi domestici. Sta’ bene, divertiti, e ricevi benedizioni ed
abbracci dal tuo aff.mo padre.
LETTERA 351.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 3 novembre 1838
Mio carissimo figlio
Dal cortesissimo Signor Fiorelli mi è stata recata la tua lettera del 28 scaduto ottobre.
È dunque finito questo ottobre, durante il quale tutti sogliono darsi a qualche ricreazione
per ristoro dello spirito, affaticato nell’esercizio de’ rispettivi doveri. Ora ciascuno va
ritornando a poco a poco alle interrotte occupazioni e al disimpegno delle proprie
incumbenze. Ancor tu, mio buon Ciro, ti prepari di già a riprendere i tuoi studi, quegli
studi che debbonti far uomo; e mi piace che fra i motivi dai quali sei spinto a procacciarti
istruzioni ed onore, abbi tu contemplato anche quello del decoro del tuo Collegio. Dicesti
benissimo, imperocché poco buon nome il Collegio ricaverebbe da allievi fiacchi ed
asinelli. Bravo: studia per te, pel collegio e per tuo padre, a cui fuori di te non resta altro
conforto. Sii dunque alacre ed operoso, perché l’accidia è madre de’ guai.
La tua lettera mi ha molto soddisfatto. Scritta con naturalezza, e non priva di qualche
buona grazia, se l’hai fatta da te (come spero) mi dà non poco a sperare de’ tuoi futuri
progressi. Ti conforto pertanto a continuare nel tuo stile disinvolto ed a scrivere
327
francamente come parleresti se volessi discorrere di quelle medesime cose. Gli ornamenti
del dire verranno di poi a poco a poco, e senza che tu te ne avvegga, a misura che ti
avanzerai nell’esercizio della classica eloquenza. Ma scrivi (te ne prego) sempre da te,
perché mai non saprebbe andar solo quell’uomo che sempre camminasse appoggiato.
Principiato che sia il nuovo corso scolastico mi parteciperai a quali studi abbianti
destinato.
Intanto, senza che tu me ne abbia fatta parola, io di qui so tutto quel che tu fai, e ti
vedo sino fra i tuoi lavoretti meccanici. Come saranno graziose quelle scattoline di cartone
pel gabinetto de’ minerali! Bada, Ciro, che le non ti vengano sciancate ed a sghembo.
Vorresti che ti fischiassero? Grande scorno sarebbe questo per chi riscosse applausi nelle
soluzioni di problemi geodetici e nel suono di sinfonie di Rossini.
Ed a proposito di musica, già m’aspetto di udirti nel settembre 1839 ad eseguire
qualche gran concerto di formidabile difficoltà. Salutami il caro tuo maestro Signor
Tancioni, e digli quale specie di presagi mi vada girando pel capo. E vorrei quindi che tu
imparassi un po’ d’accompagnamento; ma un po’ per volta, non è vero?
Anche a Roma va principiando il rigido.
Ingruit hyems qualis solet esse novembris. (x)
Tu però hai tutti i tuoi pannerelli a proposito, e col sangue bollente della gioventù ti
riderai dell’inverno e de’ suoi sfrenati rigori.
La pianta del Pincio non posso ancora mandartela perché non è ancora in ordine.
Spada l’aveva finita, ma indovinala un po’: gli si è imbrattata d’olio, e deve rifarla da capo.
Egli ci usa questa attenzione gentile, e a noi non conviene una indiscreta petulanza. Ma
l’avrai, non dubitare. Ogni promessa è debito: promissio boni viri est obligatio.
Riveriscimi il Sig. Rettore al quale scrissi il 30 ottobre. Così pure presenta i miei
complimenti al Sig. Presidente, ed anche al Signor Prof. Benvenuti il quale si è incomodato
a venire due volte in mia casa senza mai trovarmi. Né io sapeva la sua dimora: altrimenti
sarei andato da lui. I parenti e gli amici e gli antichi nostri domestici ti salutano. Tu fa’
altrettanto colla Sig.ra Cangenna e co’ nostri amici perugini.
Addio, Ciro mio caro; ti abbraccio e benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre.
(x) Ti avvedrai che queste parole non sono un verso, benchè ne abbiano il suono ed
anche in parte le quantità prosodiache.
LETTERA 352.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 4 dicembre 1838
Mio caro e buon Ciro
Non prima del 2 corrente ho avuto la tua del 21 passato, alla quale oggi rispondo. È
probabile che dopo qualche mese il Sig. Prof. Mezzanotte principii a prepararti almeno
nella lettura del greco; e, prendendo la metafora dal gergo de’ giuocatori, la sarà pure una
mano avanzata. Mi rallegro molto per la tua buona salute, né della mia ho attualmente
motivo di lamentarmi. Iddio vorrà, spero, conservarci l’uno per l’altro.
Eccoti la storia della pianta del Pincio. Vedendo io che al nostro Spada mancava il
tempo per rifarla dopo esserglisi macchiata d’olio la prima, né avendo io più agio di lui
328
per occuparmene, da me stesso, ho pensato di rivolgermi all’autore del libro archeologico,
nel qual libro era riportata la pianta. Il detto autore, Sig. Cav. Luigi Cardinali, mio buon
amico, non ne aveva altri esemplari, ma mi ha dato il rame onde farne cavare delle stampe.
Io dunque le ho fatte eseguire, e te ne spedirò otto o dieci copie, alle quali ho fatto
aggiungere il prospetto della piazza del popolo che apre l’ingresso al passeggio del Pincio.
Ne terrai una per te, e darai le altre a chi ti piacerà, non trascurando il Sig. Rettore, dove
possa aggradirne egli la offerta. Ti prevengo però che lo stato attuale del Pincio ha subito
qualche piccola variazione da ciò che viene indicato nella pianta. Se non troverò più
sollecite occasioni ti spedirò le stampe insieme col solito piccolo regaletto di pangiallo
romano.
I nostri parenti, amici e antichi domestici ti son grati per la memoria che conservi di
loro. Ciò fa onore al tuo cuore. Essi tutti ti risalutano. — Studia di cuore, Ciro mio, e
divieni sempre più un ometto. Riveriscimi i tuoi Sig.ri Superiori e la Sig.ra Cangenna, di
cui il Sig. Biscontini mi ha recato i saluti. Ti abbraccia e benedice il tuo aff.mo padre.
LETTERA 353.
AL PROF. ANTONIO MEZZANOTTE — PERUGIA
Di Roma, 6 dicembre 1838
Gentilissimo amico
Ho ritirato dalla posta la vostra ode il 6 settembre, pendant (come direbbero i francesi)
del 5 maggio del Manzoni. In quest’ultima però si parla di Morte e di Sbigottimento: nella
vostra suona vita e speranza. Io ve ne ringrazio di cuore.
Riguardo al greco per Ciro il Sig. Rettore Bonacci mi scrisse: io gli risposi: egli mi ha
replicato. Nella piega presa dal Collegio riguardo ai metodi d’istruzione convien prendere
ciò che si può e come si può.
Intanto vi son grato delle cortesi disposizioni del vostro animo a pro di mio figlio, e
farò ancora ch’egli le valuti quanto deve. Tutto ciò che nel greco potrà Ciro acquistare
prima del suo egresso dal Collegio, sarà sempre un di più da non trascurarsi, e gli gioverà
per gli studi posteriori, come voi benissimo dite, dovunque abbia a farli.
Se io avessi tempo da ricopiare, che non l’ho davvero, vi manderei in piccolissimo
contracambio della vostra nobile ode un’altra mia ode, scritta a sospetto di fuga per
recitarla nell’Accademia solenne dei tiberini domenica ventura. È intitolata L’arrivo di
Milord, e tratta in uno stile tra il serio ed il faceto dell’attuale affitto delle case di Roma. Ve
la farò peraltro sentire a suo tempo in Perugia, e sino a quell’ora dormirà fra le mie
scompigliate cartacce:
Tum resurget creatura
Iudicanti responsura.
Riveritemi la vostra famiglia e Sig.ri Prof.ri Antinori e Massari. Sono cordialmente il
V° aff.mo a.co e servit.e
G. G. Belli.
LETTERA 354.
329
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
Di Roma, 11 dicembre 1838
Mio sempre caro e onorevole amico
In seno alla obbligantissima vostra del 2 corrente ho trovato un ordine di Sc. 14:60
tratto dal conte Filippo vostro fratello sopra questo Sig. Paolino Alibrandi foriere delle
guardie Nobili; e con questo io sono saldato del trimestre di luglio agosto e settembre
ultimi sul sequestro dello stipendio del Sig. Mar. Antonio Trevisani. Sarei veramente un
indiscreto se non che una parola ma un solo pensiere io movessi sui piccoli ritardi della
esigenza, dei quali voi avete voluto gentilmente chiedermi tolleranza. A me basta che la
Cassa pagatrice non differisca i pagamenti scaduti, allorché Le sono richiesti. Quel che poi
passa fra Voi e me non deve alterare le vostre occupazioni e angustiarvi. Io so che Voi
pensate a me, e questo mi tiene tranquillo. Quando potrete esigere il cadente trimestre lo
farete, ed io ne attenderò il risultato a vostro comodo e ve ne sarò sempre obbligato come
lo avessi avuto nel giorno stesso della scadenza.
Ricordatevi, mio caro e valoroso amico, che se pubblicherete qualche altro vostro
lavoro, o archeologico o d’altra natura, io mi terrò in credito di un esemplare, e non vi
assolverò mai dal peccato della omissione.
Nella sera di domenica 9 l’Accademia tiberina tenne solenne adunanza con un
discorso del Padre Rosani generale dell’Ordine delle scuole Pie, sui romanzi storici. — Vi si
udì un superbo poemetto in versi sciolti del dottore Fava di Padova, sulle rovine di Tivoli.
È il poemetto diretto a Chiara Ferretti una delle tre amabili figlie di questo nostro letterato
Giacomo Ferretti, e trovasi recentemente stampato in una elegantissima strenna del
Vallardi di Milano. — Io dissi un mio strambottaccio intitolato: L’arrivo di Milord. Qualche
socio dell’Accademia vorrebbe farlo pubblicare come già il Goticismo. Sono io però
convinto che gli accadrà la sorte de’ miei versi intitolati Bartolommeo Bosco, i quali non
ottennero il lascia-passare. Ma se mai avvenisse il contrario, la prima copia sarà pel mio
Neroni. In detto scritto è attaccato un po’ vivacemente un certo uso moderno di Roma.
La mia salute, della quale mi chiedete cortesemente notizia, va reggendosi alla
meglio, e per la vita che debbo menare posso chiamarmene contento. Contribuisce però a
conservarmela il conforto che mi viene continuamente da Perugia, donde mi scrivono
sempre lusinghevolissime parole intorno al mio Ciro. Se non avessi questo ragazzo, mèta e
premio di tutti i miei pensieri, sarei già caduto a pezzetti.
Bramerei di sapere anch’io come vada la salute vostra dopo gl’incomodi che già mi
annunziaste; e così pure mi fareste cosa graditissima se mi poneste a parte delle
soddisfazioni che possano venirvi dalla vostra famiglia. Voi meritate di essere fatto felice.
Ho udito a dire che stia per venire a Roma la moglie del Conte Orazio Piccolomini. Ne ha
egli scritto a qualcuno che gli ho io fatto conoscere allorché vi è venuto l’ultima volta. E
voi? Non vorrete voi più riveder Roma? È fatta più bella, sapete? Il formale presso a poco si
mantiene lo stesso, ma il materiale ha migliorato d’assai; e per solito in Roma non si cerca
che questo.
Vi ho pregato più d’una volta de’ saluti per Pippo Lenti e pei Voltatorni.
Non vogliono più essi ricordarsi di un vecchio conoscente?
Addio, mio caro Neroni, amate sempre il vostro sincero e obbligatissimo amico
G. G. Belli.
LETTERA 355.
330
A NATALE DE WITTEN — ROMA
[25 dicembre 1838]
Corre al mondo una voce universale
E sino per le stampe è stato detto
Il misero poeta esser costretto
A morirsi di fame all’ospedale.
Eppure la poesia, Signor Natale,
Oggi ha fruttato un pranzo al mio sonetto;
E quattordici versi, io parlo schietto,
Mi par che un pranzo non li paghi male.
Ah, se le cose a questo modo or vanno,
Mi do tutto ai sonetti, e spero bene
Farne trecensessantacinque all’anno.
Anzi chi sa se aprendomi due vene
In luogo d’una, insiem non mi daranno
Co’ pranzi ancor le rispettive cene?
25 Xbre 1838
996
LETTERA 356.
AL PROF. ANTONIO MEZZANOTTE — PERUGIA
Di Roma, 5 febbraio 1839
Mio buono e gentilissimo amico
Il Prelato Monsignore Gabriele Laureani, Custode generale d’Arcadia, Custode della
biblioteca Vaticana, abita nel Vaticano.
Conosceva io già e pel mezzo del Sig. Rettore Bonacci e per quello ancora di Ciro le
vostre cortesi disposizioni verso di quest’ultimo, confermatemi poi da Voi stesso, a cui feci
i miei ben dovuti ringraziamenti. E recentemente il mio Ciro mi ha annunziato il principio
delle lezioni destinate a fargli anticipare qualche parte della istruzione che gli dovrebbe
toccare nel venturo 1840. Di ciò io aspettava a ringraziarvi con tutto il cuore nella prima
occasione che mi si fosse offerta di scrivervi. Voi obbligantissimo me la porgete oggi e con
parole e con fatti che tutto mi empiono di conforto e di riconoscenza. So bene come dovrò
scrivere a Ciro.
Sempre più mi cresce amore per il mio caro figlio udendone gli elogi in bocca di
sapienti e gravi persone, fra le quali il vostro voto mi vale per molti. È buono, povero Ciro,
e fa il suo dovere. Ed io farò il mio verso di lui. Se Iddio mi concede tant’altro di vita da
vederlo adulto, spero di lasciarlo nel mondo uomo onesto e onorato.
Seppi purtroppo la perdita lagrimevole da noi fatta nel virtuoso Antinori. Morì egli il
sabato, e nel seguente lunedì già io lo piangeva, dolendomene con quanti mi capitavano
avanti. Mi prese anzi in mal punto la luttuosa notizia, avendomi trovato infermo, e però in
maggior disposizione a risentire la tristezza dei dolenti annunzi. Ottimo uomo! In età
ancor sì fresca mancare alla vita, agli amici che lo veneravano e alle lettere che egli
illustrava e coi costumi e colle opere! Compatisco al vostro dolore e vi credo. Voi che avete
331
sempre vissuto con lui in uniformità di studi e di sentimenti! Vi sarò gratissimo della
elegia che mi promettete e che mi giungerà cara tanto pel soggetto quanto per chi lo trattò.
Credo che in essa avrete fuso il concetto espressomi nella vostra lettera cioè: Si diradano
assai quelli dell’antica scuola: ed oggi chi resta? i pazzi guastatori d’ogni bell’arte. Amen.
Abbracciate per me il mio Ciro, e ditegli essersi da me ricevuta la lettera sua del 28
gennaio insieme con i libri, e tutto ciò pel mezzo del cortesissimo Sig. Marchese Rodolfo
Monaldi. Io gli risponderò non appena avrò da lui avuti i dettagli de’ voti del trimestre,
secondo il solito. Intanto io gli aspetto assai buoni, presso quanto me ne avete detto voi in
genere.
Amate il vostro aff.mo e devotissimo amico e servitore.
G. G. Belli
LETTERA 357.
AD AMALIA BETTINI — LIVORNO
Di Roma, 26 febbraio 1839
Mia cara Amalia, pare insomma che Livorno sia per me un luogo di propiziazione.
Tutte le vostre lettere mi giunsero date da codesta benedetta città, non esclusa pur quella
ultima del 3 luglio 1837 su cui invece di Bologna scriveste Livorno. Fra Livorno e me
esisterebbe in voi forse un’idea intermedia, una immagine riconciliatrice, un influsso di
grazia, che scendendovi in cuore ve lo ammollisca e vi faccia dire povero Belli? E così
questo povero Belli ha avuta la vostra celeste letterina del 20 corrente, l’ha letta, l’ha riletta,
e poi l’ha studiata, e finalmente ha esclamato: Oh, la dolcissima cosa! che se in questo
beato secolo di tribuna e di calcoli fosse lecito il turbare la requie alle ceneri de’ Numi ed
alle ossa delle Fate, io, da buon pastorello di Arcadia, vi canterei come i vostri caratteri
abbiano rinnovato sull’ira mia quel miracolo stesso che già le vipere di Medusa operarono
sulla balena di Andromeda, e lo scudo di Atlante su quell’altro animalaccio di Olimpia.
Tenendomi però nel giusto mezzo fra le vecchie e le nuove dottrine, non profanerò, spero,
la moderna filosofia con l’assicurarvi essere pe’ vostri incantesimi caduto dal mio petto lo
sdegno, al modo che il divino balsamo fece uscire il ferro dalla gamba di Enea. E tutte
queste perle di erudizione ve le regalerei ancora a compensare il seducente quadretto da
voi dipintomi della riposata cameruccia in cui fingete seguir dovrebbe un nostro ingenuo
colloquio. Ma questo colloquio accadrà egli più? Sino a tutto il 43 (cinque anni!) no
certamente; e poi?... Dopo io sarò vecchio, avrò la podagra, e rimarrò incapace di sentire il
fuoco de’ vostri discorsi. Voi mi avete mandata una lettera aperta: io ve ne rendo una
chiusa; ma in ogni modo la penna non è mai buona procuratrice della lingua. La mia
salute? eh, la mia salute si risente della tristezza del mio animo; e questo ve lo dico sul
serio come vi direi tante altre cose che non vi dico. Non badate alle mie barzellette.
Richiamato ai tiberini, dopo dieci anni di silenzio, recito parole che li fanno sbellicare dalle
risa, mentre pure io scrissi coi sospiri sul labbro e colle lacrime agli occhi.
Conosco il tasto della ilarità. Tocco quello, ed esso fa l’uficio suo. Io rimango intanto
freddo e malinconico. E voi siete lieta, Amalia? Le vostre glorie, la salute vostra, e il
prospero stato della Mamma e della sorella mi sembrano per voi operosi elementi di
buon’umore. Or bene, rallegrate me pure e non potendo venir qui in carne ed ossa veniteci
almeno nella litografia che vi fu fatta per la Pia de’ Tolomei. Oh! mandatemela; me ne
avete messo un desiderio da anima purgante. Ravviserete subito l’Amalia: così mi avete
detto. Possibile che non troviate un pellegrino che voglia visitare questi nostri santuarii!
332
cercatelo per mare e per terra, e munitelo in viaggio della vostra immagine. Io poi la
metterò sotto cristallo, e le dirigerò mattina e sera fervorose giaculatorie. Va bene così? Un
po’ bene e un po’ male; ma il nulla è poi meno del poco, siccome vogliono gli aritmetici.
Chiedete versi? Eccovi ubbidita: tal sia di Voi. Oggi l’Arrivo di Milord: un’altra volta
Bartolomeo Bosco. Prima però dei versi terminiamo la prosa, e chiudiamola con due belli
salutoni, grandi come le Ande e i Pirenei, uno all’amabile Sig.ra Lucrezia e l’altro alla
buona appiccicarella. Sono e sarò sempre di cuore il vostro
G. G. Belli
Ho mutato pensiero. Questo avanzo di pagina doveva servire al principio dell’ode.
Ma no: facendo bene i conti della materia e dello spazio mi accorgo che i versi possono star
tutti da loro in una delle due carte e lasciar questa tutta alla prosa e all’indirizzo. Così
volendo mostrar quelli e non questa, si fa una bella divisione fra gli agnelli e i capretti, e
quali mandansi in cielo e quali agli abissi. Alcuni de’ tiberini volevano stampare questa
ode (e le ottave su Bartolomeo Bosco) come fecero imprimere il Goticismo. Ma il permesso
de’ superiori... Allora pensarono farne pubblicaz. altrove. Io mi vi opposi, per la difficoltà
della correz. fuori degli occhi miei, specialmente alla ortografia e alla interpunzione, da me
adottate, nel che sono fastidiosissimo. Vi avrei colla stampa risparmiati un po’ gli occhi.
LETTERA 358.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
[14 marzo 1839]
Mio sempre carissimo amico
Coll’ordine tratto il 2 corrente dal vostro fratello Sig. Conte Filippo sopra questo Sig.
Paolino Alibrandi, e da voi speditomi nella vostra del 4, giuntami non prima dell’11, io ho
esatto la somma di Sc. quattordici e baiocchi cinquanta procedente dagli Sc. 14:59 ½ saldo
dell’ultimo trimestre del prossimo passato anno sulla mensile ritenzione a carico del Sig.
Marchese Antonio Trevisani che voi vi compiacete di esigere per me; e i detti Sc. 14:50
(depurati dal bollo per la quietanza solita a rilasciarsi costì, meno qualche inconcludente
frazione di cui non occorre parlare) il Signor Alibrandi me gli ha pagati benché non avesse
per ora fondi del Sig. Conte Filippo.
Come m’affigge, mio caro e buono amico, l’udirvi sempre incomodato co’ vostri
dolori reumatici! Tanto più vi compatisco in quanto so anch’io per prova ciò che si soffre
per questo male aspro, pigro, e affliggente lo spirito ugualmente che il corpo. Dal principio
dell’anno sino ad oggi, sono già stato tre volte infermo di reuma, e obbligato a giacere in
letto parecchi giorni per volta. Il resto del tempo, ossiano gl’intervalli fra l’una e l’altra
malattia, mi scorre pure assai tristo perché un continuo e non lieve dolor di testa mi
tormenta e si oppone al libero esercizio delle mie facoltà mentali e della mia persona in
servigio de’ poveri affari del mio caro figlio. Pazienza: Iddio mi vuol mortificare nella
parte più delicata e sensitiva.
Per farvi passare un momento di più con me avrei voluto trascrivervi qualche cosa
che nell’anno scorso dissi in Tiberina, ma vi assicuro che lo scrivere m’offende assai la
testa, perché l’applicazione di qualunque genere, e più quella degli occhi, esacerba la mia
emicrania. Il mio medico, eccellente, sta in osservazione sui caratteri di questo male onde
333
procurarmi un rimedio non peggiore del male come talora purtroppo accade.
Confortiamoci entrambi, mio ottimo amico, e speriamo dopo le nuvole il sole.
Io vi rinnovo intanto le proteste della mia gratitudine pei fastidi che vi prendete per
me, e mi rammarico di non sapere in qual modo mostrarmivi riconoscente fuor che di
parole. Ma dovunque voi mi giudichiate atto a servirvi avrete sempre in me un sincero
amico e un servitore diligente.
Il vostro aff.mo G.G. Belli
Di Roma, 14 marzo 1839
LETTERA 359.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 4 aprile 1839
Mio carissimo figlio
Riscontro le tue lettere del 19 e 30 marzo caduto, ringraziandoti degli augurii che
nella prima mi fai per San Giuseppe e nella seconda per la Santa Pasqua. Non occorre che
io ti dica da quali sentimenti sia nel mio cuore corrisposta la tua dimostrazione di affetto.
Dal Signor Caramelli, che dopo la notizia da te datami del suo ritorno fui a visitare,
ho ricevuto speciali informazioni intorno al buon stato di tua salute e alla soddisfazione
de’ tuoi Sig.ri Superiori pe’ tuoi portamenti.
Quando il Sig. Avvocato Pieromaldi avrà potuto tornare a vederti aggradirò di
sapere cosa ti sia sembrato di Lui e della sua gentilezza.
I versi che t’inviai sono abbastanza ricompensati dal piacere col quale mi assicuri
averli ricevuti e letti. Non ti dispiacere, Ciro mio, se la natura sembri non volerti poeta. La
poesia è dolce ed amena cosa, ma seduce un po’ troppo lo spirito di chi a lei si dedica ed io
so di avere perduto per essa una parte preziosa de’ miei anni giovanili, che avrei potuto
più utilmente impiegare. Amerò sempre meglio che tu gusti la buona poesia altrui anziché
vi ti eserciti tu stesso. Oggi vi è troppo da fare nel mondo; ed un discreto scrittore di prose
otterrà più favore dalla moderna società e assai maggiori mezzi di esistenza che non un
poeta anche ottimo. Segui dunque le disposizioni della tua mente la quale tende più al
positivo che all’ideale, né ti dolere se la fantasia ceda in te all’intelletto. Credimi, Ciro: un
giorno te ne troverai contentissimo.
Non sei stato esattamente informato circa alle Commedie scritte appositamente per
questo Ospizio di San Michele. Non mai il Nota ma sì il Giraud ne compose alcune di lieve
portata, e tutte per soli personaggi maschili. Queste però non videro mai le stampe; né poi
è sì facile il farne ricopiare i manuscritti, i quali, come puoi ben pensare, appartengono
esclusivamente al luogo pio come privata proprietà. Il Sig. Cardinal Tosti, che li conserva
presso di sé, non me li comunicherebbe in niun conto quando anche io avessi con Lui
qualche aderenza. Questa è anche la opinione di qualche altra persona con cui ne ho
tenuto proposito. Tu sai se io amerei soddisfarti in ogni onesto tuo desiderio. Esistono
alcuni volumetti di commediole composte da Giulio Genoino di Napoli, e stampati in
quella Città coi tipi della società filomatica nel 1831. L’opera è intitolata Etica drammatica
per la educazione della gioventù. La metà delle commediole è scritta per soli uomini, e l’altra
metà per sole donne. Se quelle convenissero al tuo collegio, se ne potrebbe far ricerca; ma
bisognerebbe prendere tutta la collezione (che mi pare di 8 volumi) perché in ogni volume
si trova una commedia per uomini ed una per donne.
334
I nostri parenti, gli amici e gli antichi domestici ti ritornano i loro saluti. Tu rendi i
miei ossequi a’ tuoi Sig.ri Superiori, alla Sig.ra Cangenna e agli altri amici, primo fra i quali
il Sig. Prof. Mezzanotte.
Ti abbraccia e benedice di vero cuore
il tuo aff.mo padre
LETTERA 360.
AD AMALIA BETTINI — BOLOGNA
Di Roma, 13 aprile 1839
Mia buona Amalia, i numeri son due, mi gridava una volta il maestro fra stirata e
stirata d’orecchio: i numeri son due, e le persone son tre. Nel sèguito della mia vita ho poi
verificato che il maestro aveva ragione. Ma allora che per ricreazione mi si dava la
tombola, i numeri mi parevano tanti! Eppure non son più di due: singolare e plurale. Il
primo riservato a una sola persona, il secondo esteso a tutto il genere umano. Le porzioni
non paiono per verità troppo giuste: vi figura forse un po’ troppo il sistema monarchico;
ma le hanno fatte così e ci vuol pazienza. Almeno i Greci, incastrandovi in mezzo il duale,
v’indoravano la pillola, e il passaggio restava men duro. Peggio poi quando i legislatori
delle buone creanze, cacciato il naso fin ne’ codici delle lingue, imbrogliarono ogni regime
de’ precedenti sistemi. Qui voi mi chiederete, o cara Amalia, perché tanto preambolo a una
lettera familiare. E appunto qui vi voleva. Nella parola familiare sta la chiave del mio
Abracadabra. Uditemi bene. Del Lei, dell’Ella e del Vossignoria io non ho mai fatto uso con
voi, fuorché nell’indispensabile cerimoniale de’ primi colloquii. In appresso e a voce e in
carta venne fuori sempre il voi, non tanto per ossequio ai bandi del galateo quanto perché
realmente le vostre grazie, la bontà vostra e i vostri talenti vi facevano parere a’ miei occhi
un compendio di molte care persone. Ma appunto pel complesso delle vostre qualità
avvezzatomi quindi a considerarvi men prima che unica nel vostro sesso, andò la logica
riprendendo a poco a poco i suoi diritti sulla mia mente, sì che mi vidi più d’una volta in
procinto di accogliere nelle mie lettere le schiette regole grammaticali. Quando però al
ruminare quella dolce seconda persona del numero singolare io mi sentii un certo
sollevamento nuovo di costole, presi sospetto non venirmi forse il consiglio direttamente
dal cervello, ma che invece un altro viscere più impertinente cercasse di cavar la castagna
con la zampa del gatto. E infatti conobbi poi essere stata una tentazione bella e buona, una
tentazione cordiale mascherata da nome e da verbo, perché la mi svanì ad un segno di croce.
Senza di ciò Voi, povera Amalia, sareste oggi stata stordita da un tu tu tu, peggio che da
una batteria di girandola.
Venendo ora alla refrigerante vostra lettera del 14 marzo, eccovi i principali motivi
de’ quali non ne riceveste da me una risposta a Livorno fra 8 giorni siccome mi avevate
ordinato.
1) Faceste l’indirizzo in Casa Ferretti, al ponte della farina; ed io abito al Monte della
farina, e non in casa Ferretti. Ciò produsse alcuni equivoci pe’ quali la vostra del 14 mi
giunse il 21 allo spirare cioè del prescritto ottavario.
2) Il vostro foglio mi trovò in letto con reuma e potente emicrania.
3) Mi piaceva rispondervi a ritratto veduto; e questo di giorno in giorno sembrava
dover essere qui. Il Sig. Cav. Rosati però non l’ebbe prima del 10 corrente alle 11
antimeridiane. Me lo mandò subito.
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4) Circolava una voce che sarebbe venuta a Roma la compagnia Nardelli per la
primavera. Presso le notizie da Voi datemi sull’impegno con Bologna io non ci credeva
gran fatto! ma pure avendo io visto apparecchiare il teatro e pagarne l’affitto, stavami
aspettando lo scioglimento di questo nodo gordiano. Avrei assai assai più amato
rispondervi colla lingua che non colla penna.
Ora, io son guarito, il vostro ritratto è innanzi a’ miei occhi, voi siete a Bologna:
dunque conviene usare l’inchiostro, riserbando il fiato a migliore occasione, che il cielo si
degni affrettare.
Già si prepara la cornice per la mia Amalia litografica. Caro quel ritratto! Eppure v’è
chi sostiene che non vi somiglia; e bisogna litigare. Io però me lo guardo e gli faccio le mie
confidenze. Ma ditemi: voi me ne prometteste un esemplare ed io ne ho avuti due, uno
cioè in carta della Cina ed un altro in carta comune. Il secondo debbo io darlo a qualcuno?
Debbo darlo a Ferretti? A...
Avete voi mai vedute, Amalia, le belle sale della romana accademia filarmonica? Mi
pare di sì, e credo vi ci conducesse un Angiolo; benché fosse stato anche un demonio, il
paradiso ve lo formavate da voi. Ebbene l’accademia tiberina vi ha trasferita la sua
residenza; e la sera del lunedì 8 vi si tenne la prima adunanza con prosa di Ferretti sulla
vita e le opere di Francesco Avelloni. Verso la metà dell’Accademia io declamai una elegia
della Taddei sullo stesso argomento della prosa, e infine chiusi il trattenimento leggendo
84 miei versi rimasti, divisi in 6 gruppetti di 14 versi l’uno, intitolati: Il campione de’ vocaboli
— Una parola di lingua — Il purista —Il neologo — I testi di crusca — Lista del centro destro. Ve
li trascriverei, ma un foglio di carta non è poi la piazza di S. Petronio.
Dal mio ritorno fra i tiberini non iscrivo più nel vernacolo popolare. 2000 sonetti pare
che bastino e avanzino. E voi, signorina mia, così mi andate voi propagando le mie
bosinate? Invece di cacciarle, come direbbe l’Arciconsolo, nel dimenticatoio, le fate ronzare
nelle orecchie de’ buoni cristiani! Ma avete ragione: son roba vostra; e della roba sua
ciascuno può usare a suo genio. Io però protesto contro le conseguenze: e vi cito alla
rifazione di danni, spese e interessi. Intanto eccovi il Bartolomeo Bosco. Questo non ha
paura di Voi, perché è capace di dimenticarvi fra le mani un indulto per la quaresima.
Guai a chi la piglia coi maghi! Fossi mago io, vi farei uno scongiuro. Voi dite che ci
rivedremo. Amen; ma intanto gli anni volano e la vita se ne va a spasso. A questo
proposito udite:
Vedeste voi questo mantel consunto.
Insomma vi ho scritta un’altra lettera più grande della repubblica di S. Marino. Con
simili carteggi si paga la posta a ragion veduta.
La Ferretteria vi manda pel mio mezzo cento e un saluto, ad uso di salva reale. Ed io
vi prego aggiungervi uno zero, e farne così mille e dieci per mio conto alla Sig.ra Lucrezia
ed alla cara appiccicarella. Altro che i 110 ceci!...
Oh, è ora di finirla. Prendetevi un bacio sulla mano dal
vostro poeta cesareo
G. G. Belli
Monte della Farina, 18
LETTERA 361.
A CIRO BELLI — PERUGIA
336
Di Roma, 23 maggio 1839
Ciro mio
Dalla tua cara lettera del 16, giuntami in ritardo, ho con piena soddisfazione ricavato
intorno al successo de’ tuoi esami quanto può farmi fede della diligenza colla quale tu hai
nello scorso trimestre atteso ai tuoi doveri relativi allo studio. Mi pare insomma che di
ottimi non sia penuria. Macte animo dunque, mio caro Ciro, e innanzi senza paura. — Il
risultamento de’ voti di scuola pel corso del trimestre in matematica me lo manderai
un’altra volta: per ora mi è bastato il voto generale del saggio.
Aggradisco le gentilezze del veramente obbligante Signor Conte Ranieri. Sono io
però stato sfortunato qui in Roma circa al praticare con lui gli atti del mio dovere. Di tre
volte che ho cercato di visitarlo non l’ho trovato in alcuna. La prima volta parlai col di lui
domestico, la seconda colla padrona della Casa dov’egli abitava, e l’ultima volta lasciai un
mio biglietto di visita nel buco della chiave della sua porta.
Anche qui abbiamo avuto finora un pessimo tempo e stravagantissimo. Da molti e
molti anni le stagioni han perduto il regolare lor corso; cosicché dal freddo si passa
rapidamente al caldo estivo, e dall’estate si precipita poi nuovamente nei rigori invernali,
senza quelle intermedie gradazioni di temperatura così necessarie affinché i nostri organi
si abituino dolcemente ai passaggi da uno all’altro estremo. Cause astronomiche di simili
stravaganze non ne esistono, come alcuni semplici van credendo e spacciando: bisogna
dunque cercare la spiegazione nel nostro globo stesso, e attribuirle forse a qualche
squilibrio elettrico fra l’atmosfera e la terra. Infatti i generali e frequentissimi terremoti, gli
uragani, inondazioni, i contagi ed altri paurosi flagelli che tuttogiorno udiamo
annunziarci, uniti alle acque, alle nevi e alle grandini fuori di stagione per le quali soffrono
e i nostri corpi e le nostre campagne, non paiono potersi riferire fuorché ad un agente
potentissimo qual’è l’elettricismo, siccome tu saprai fra poco tempo nello studio della
fisica. Sarà per te molto piacevole lo studio di quella scienza, che apre gli occhi sui grandi
fenomeni e sulle più vaghe operazioni della natura. Ecco dunque passato l’arido delle tue
mentali applicazioni: ecco verificarsi a poco a poco le mie predizioni e le mie promesse.
Ciro, (io ti diceva anni indietro) Ciro mio, i tuoi studi attuali, le tue elementari pratiche possono
assomigliarsi ad una rozza porta, ad una ripida scala, per cui si vada ad un appartamento pomposo
e tutto splendente di lumi per un lieto festino. —Tu già ti trovi nelle prime sale di
quell’appartamento magnifico, e già travedi la luce delle superbe stanze più interne. Segui
ad inoltrarti con franco piede, e presto ti vedrai in mezzo a un delizioso spettacolo.
Ho scritto il 16 alla cortesissima Sig.ra Cangenna, la quale, come tu devi sapere, è
stata male; ma tu non me ne dicesti mai nulla. Ella s’incarica colla sua solita bontà di
provvederti ciò che per ora ti è necessario. — Meno qualche ostacolo che vi si frapponesse
io ti riabbraccerò nel giorno 19 agosto.
Riveriscimi tutti i tuoi Sig.ri Superiori e Maestri, e ricevi i consueti saluti di quanti ti
conoscono. Sono abbracciandoti e benedicendoti di vero cuore
il tuo aff.mo padre
P.S. — Ho dovuto riaprire la lettera, essendomi imbattuto per la via nel portalettere
che mi ha dato un foglio scrittomi dal Sig. Rettore il 20 corrente.
Dì dunque in mio nome al Sig. Rettore che io non ho alcun rapporto con Direttore del
Diario romano; ma che nulladimeno appena avrò avuto dalla posta il caricamento sotto
fascia (del quale egli mi parla) mi darò tutto il pensiere di servir Lui e i Sig.ri Consuperiori
del Collegio, nel che spero di riuscire senza molta difficoltà.
337
Non avendo io però potuto ancora ottenere dalla posta il ridetto invio sotto fascia
non sarà così facile che la riproduzione di esso possa accadere nel più prossimo numero
del Diario. In tutti i modi farò il meglio che mi sarà possibile.
LETTERA 362.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI — S. BENEDETTO
[29 maggio 1839]
Mio caro ed onorevole amico
Ieri al giorno mi fu da questo Sig. Paolino Alibrandi pagato l’ordine di Sc. 14:50, da
Voi speditomi in seno a Vostra del 21, per l’ammontare di Sc. 14:59 ½ relativi al primo
trimestre del sequestro Trevisani dell’anno corrente. Io seguo sempre a ringraziarvi
dell’amabile cortesia colla quale Vi compiaceste usarmi questo per Voi fastidioso favore.
Basterebbe la molta amicizia che io vi professo, e che meritate da chiunque conosce le
vostre care doti, perché io mi rattristassi per l’ostinato malore che vi tormenta; ma un’altra
cagione ancora si unisce alla prima onde più e più Ve ne compatisco quella cioè de’ miei
patimenti per un dolore di capo fisso e invincibile da varii mesi. Non mi lascia esso in pace
né giorno né notte. Chi pena, mio caro amico, si fa più carico delle altrui sofferenze. Varii
medici da me seriamente consultati, e messi con diligenza al fatto de’ sintomi di questo
mio malanno, sono tutti d’accordo nell’attribuirlo ad un indebolimento de’ nervi cerebrali.
Mi curo quindi in coerenza di simile dichiarazione; ed oltre la cura positiva debbo unirvi
la negativa, consistente nell’astinenza da ogni mentale travaglio, eccettuati quegli
indispensabili voluti dagli affari del patrimonio del mio figlio, pel quale anche morrei con
ilarità quando ciò potesse essergli utile. Senza però il divieto de’ medici sento già
abbastanza in me stesso la incapacità degli esercizii di spirito, tanto le mie facoltà
intellettuali hanno perduto la loro energia. Pochissimo concepisco e nulla ricordo.
Pazienza: passerà forse anche questo; benché nella età mia si può al più conservare ma
difficilmente si ricupera il perduto. Lasciamo ad ogni modo che il cielo si ricordi di noi e ci
sollevi dai nostri patimenti. La rassegnazione è pure un conforto, quando non ne abbiamo
un migliore.
Amatemi sempre siccome vi amo e vi onoro.
Il vostro obb.mo amico G.G. Belli
Di Roma, 29 maggio 1839
LETTERA 363.
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma, 15 giugno 1839
Mio caro figlio
Veramente riscontro un po’ tardi la tua del 1° corrente; ma avendo io disegnato di
mandarti la mia risposta per mezzo del Sig. Avv. Salvador Micheletti che venne a dirmi
prossima la sua partenza, non ho potuto eseguire il mio progetto, dacché il viaggio del Sig.
Micheletti, che doveva accadere fin dal 10, si è andato differendo di giorno in giorno.
338
Ho con estremo piacere rilevato dalla tua lettera che le mie assicurazioni circa al
diletto a te preparato dalla fatica degli studi inferiori vanno a poco mostrandoti la verità
da cui mi furono dettate. Eppure non sei ancora entrato pienamente nel dominio delle
scienze le più proprie a consolare l’intelletto ed il cuore. Poco però ti resta a percorrere di
cammino, e ben presto sarai quasi in un mondo novello. Te lo assicura il tuo Papà che è il
primo amico che tu possa avere su questa terra.
I successi di tutto il trimestre nella tua applicazione dell’algebra alla geometria son
tali da appagare qualunque uomo il più esigente. Su cinquanta voti riportare 46 ottimi e 4
beni non mi par poco onore: Iddio ti rimuneri, Ciro mio, del conforto che tu mi dai. Resto
sempre nella mia determinazione di partire da Roma il 19 agosto, salvo qualche ostacolo
imprevedibile.
Intanto rispondimi alle seguenti dimande
1) Vuoi tu che io ti porti un altro volume di musica ridotta, per lasciartelo in cambio
dell’altro che ti mandai al principio dell’anno? — Se il Sig. Tancioni lo stima opportuno io
te ne porterò un secondo e mi riprenderò in primo per restituirlo alla famiglia Ferretti.
2) Hai tu bisogno di manteca? e in caso affermativo quanti barattoli ne desideri?
3) Gradiresti acqua della Scala?
4) Ti occorre null’altro?
Ti incarico, mio caro Ciro, di recarti presso l’ottimo tuo Signor Rettore e di porgergli
mille grazie in mio nome per le dolci e obbliganti parole da Lui aggiunte alla tua lettera.
Codesto eccellente Signore ha molta bontà per noi che siamo sì scarsi di mezzi per
degnamente contraccambiarlo. Procura tu almeno dal tuo canto di mostrartegli
riconoscente coll’obbedirlo e col seguire i suoi savî consigli.
Presenta i miei rispettosi ossequi al Sig. Presidente, al Sig. Vice-Presidente, ai tuoi
Maestri e agli altri tuoi Superiori. Riverisci anche qualunque si degna parlarti di me, ed in
ispecie la gentilissima Sig.ra Cangenna, dalla quale ebbi una cortese letterina del 6
corrente.
Sono sempre carico di saluti per te, tanto de’ nostri parenti ed amici quanto de’ nostri
antichi domestici.
Tutti continuamente mi chieggono notizie di Ciro. E come sta Ciro? e come si porta
Ciro? e cosa studia Ciro? e come si fa grande? e quando torna? E le mie risposte pare che
soddisfacciano a tutti.
Amami come io ti amo e ricevi i miei abbracci e le mie benedizioni.
Il tuo aff.mo padre
P. S. Ciro mio, il 2 di luglio ricordati della tua povera madre. Suffragane l’anima con
qualche pia opera.
LETTERA 364.
AD AMALIA BETTINI — RAVENNA
Di Roma, 25 luglio 1839
Mia cara amica, se dopo un invito sì lusinghiero, o piccante stimolo, o generoso
permesso che vogliamo chiamarlo, io conservassi nella mia epistolare corrispondenza colla
più amabil donna le slavate forme del dire prodotte dalle civili sgrammaticature del Voi,
meriterei di essere dalla plenaria corte di Tolosa condannato nelle orecchie e negli occhi ad
un eterno supplizio di Ella, di Lei, e di Vossignoria, a non trovar più nelle lettere della cara
339
donna una confidente parola di consolazione. Lungi dunque da noi quella idra incipriata
da galateo, nemica di ogni spontaneità ai vivi e negata ai morti, perché al limitar del
Sepolcro non è più tempo da scherzi e principia il regno di verità. Tu! Soave parola di
amicizia e d’amore, primo grado del social termometro per salire dallo zero della
cerimonia sino alla ebollizione del sentimento, esci ormai dal fondo del mio cuore, ove
stavi aspettando di esser chiamata, e vattene a Ravenna. Là presso la tomba di Dante
troverai chi ti aspetta, fra le inspirazioni che da cinque secoli emanano da un pugno di
cenere, unico avanzo di un fuoco, che dall’Italia illuminò l’universo. Questa tirata, Amalia
mia, m’è riuscita un po’ gonfia e non verrebbe male assimigliata ad una batteria di razzi
alla Congrève o ad un parco di cannoni alla Perkins. Avrò dunque giudizio se lascerò
simili slanci ai Guerrazzi e ai Dumas, contentandomi invece di aleggiar terraterra come
una rondinella di aprile. A me non concesse natura fuorché (sì e no) il pungoletto del
frizzo: i paroloni, i concettoni, i figuroni furonmi da lei rifiutati come dal pedagogo le
marionette a un ragazzo cattivo. Ma il tu quando sbucherà egli dal guscio? quando verrà
egli a occupare il luogo apertogli dalla Tua bontà? Zitto, Amalia: egli ha fatto già capolino.
Monna bontà gli ha dato coraggio, ed ei le si è attaccato alla vesta. Attenta che eccolo.
Caccia la testa pian piano e va stendendo i suoi cornetti da lumacone e le sue zampe da
tartaruga: qual metamorfosi! L’hai tu visto? Di rettile si trasformò in volatile, e già si
scapriccia sul Montone e sul Ronco. Quante cose vorrei dirti, o cara amica! quanti
rallegramenti vorrei farti pe’ tuoi grandi successi nell’arte nobilissima della declamazione!
Le tue corone mi parvero posar sul mio capo ed esser cosa mia, tanto è l’interesse che io
prendo per tuttociò che ti esalta. Oh, come io mi trovo piccino accanto a te! L’anima tua
fervida e sensitiva; la tua superiore intelligenza, la cultura del tuo spirito mi fanno
rientrare in me stesso e deplorare il mio nulla. E tu parli a me di mie raccolte e di stampe?
Lascia, lascia morire nell’oblio le mie inutili sillabe già troppo ornate dal seguirti in parte
ne’ tuoi portafogli, ed al parer tollerabili a chi, udendole o lette dal tuo labbro o encomiate
dalla tua cortesia, confonde forse i loro co’ tuoi meriti e ne giudica sotto l’influsso
dell’entusiasmo che tu ecciti in ogni petto capace di generose impressioni. La mia vanità
non si estende dunque più oltre che ad un cantuccio nel tuo taccuino; ma poiché questa
vanità non mi sembra peccaminosa dove tu la giustifichi, io mi vi abbandono senza
scrupolo e ti trascrivo 112 versi, tratti dal purgatorio delle mie tante corbellerie. Beati loro
che passano in paradiso! Ferretti ha molto aggradito il tuo ritratto, te ne ringrazia assai, ti
saluta con tutta la sua famiglia e ti scriverà. Coleine è ancor celibe. Gli ho parlato della tua
intenzione di scriver[gli]; ed egli si accinge a prevenirti. E tu non ti fai ancora sposa? Il 17
agosto io partirò per Perugia: il 17 settembre sarò nuovamente in Roma a tirare il
carrettone della vita. Tu sempre in giro, mietendo palme per tutte vie che non menano a
Roma! Sono in collera co’ tuoi Nardelli, colle tue compagnie reali e con quant’altro ti tien
lungi dalla cupola di S. Pietro.
Fa’ 3.794.621 saluti in mio nome alla Sig.ra Lucrezia e alla buona appiccicarella. Sono
e sarò sempre di cuore
Il tuo a.co e servit.re
Se qualcuno mai avesse la semplicità (i semplici son tanti!) di voler copia di qualche
mio verso, ti prego di non dargliene né fargliene dare.
LETTERA 365.
340
A CIRO BELLI — PERUGIA
Di Roma il giorno di San Pietro del 1839
Ciro mio caro
Rispondo alla tua del 25 cadente, in poche parole perché non ho carta, ed oggi è festa.
Avrai un altro volume di suonate,
Avrai qualche uscita di variazioni,
Avrai la manteca,
Avrai l’acqua della Scala,
Avrai quel di più
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Giuseppe Gioachino Belli Le lettere