PRESENTAZIONE DEL DIRIGENTE SCOLASTICO
Perché i Nuovi Annali Umbertini?
Il Liceo Classico Statale “Umberto I” di Palermo è un’Istituzione Scolastica che ha ben
224 anni di esistenza, una longevità che supera di 74 anni l’età dell’Unità d’Italia. Già nel
1788 nel Convento di Sant’Anna di Palermo ritroviamo le cosiddette Scuole Normali gestite
da Ecclesiastici, un’innovazione rispetto all’istruzione tradizionale riservata agli
aristocratici, un dato di grande modernità nel quadro europeo del tempo. La Scuola
Normale di Sant’Anna nel Novembre 1860 diventò il Ginnasio di Sant’Anna per volontà del
prodittatore, il generale di ventura Giuseppe Garibaldi. Dal 1878 il nome venne mutato in
Ginnasio Principe Umberto, dal 20 Giugno di quello stesso anno venne istituito per Regio
Decreto il Regio Liceo Ginnasiale Umberto I. Le sedi sono state due: quella di origine, il
Convento di Sant’Anna, che oggi ospita in modo suggestivo il Museo d’Arte Moderna e
l’attuale piuttosto recente edificio razionale e funzionale (del 1953) sito in Via Parlatore
non lontano dal cuore della città attorno a Piazza Politeama.
La vita della nostra Istituzione Scolastica è stata raccontata attraverso la pubblicazione
di Annali con discontinuità in due fasi: la prima a partire dal momento dell’intitolazione al
Principe savoiardo Umberto I, dal 1878 per un totale modesto di tre anni, fino al 1881, e
poi, dopo un salto di tempo di 42 anni, dal 1923 fino al 1935. Una ricostruzione accurata,
appassionata e appassionante degli annali umbertini offre un saggio pubblicato nel
presente numero a firma del Prof. Bernardo Puleio.
Da allora sono passati ben 77 anni senza Annali, un tempo nel quale il Liceo ha vissuto
attivamente tutte le vicissitudini della storia del Paese e della nostra Città, ricoprendo un
ruolo determinante nella formazione di tantissimi giovani palermitani e non solo,
formazione caratterizzata da una forte identità e sentimento di appartenenza. Oggi
riprendiamo la pubblicazione degli Annali per dare voce alla volontà del Liceo Umberto I
di Palermo di partecipare in modo attivo e consapevole alle trasformazioni culturali e
sociali in atto nell’epoca dell’inarrestabile globalizzazione e di rendere esplicita una
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proposta formativa in grado di rispondere con attualità e capacità previsionale alle
esigenze dell’utenza scolastica.
Abbiamo individuato alcune nuove direttrici formative che per realizzarsi hanno
bisogno di innestarsi profondamente nella tradizione dell’ Umberto I, nei più remoti studi
umanistici dei tempi della Scuola Normale di Sant’Anna e nella storia ed evoluzione del
Liceo Classico come tipologia scolastica. Vogliamo guardare al futuro decisamente, ma
con i piedi ben piantati nella tradizione. Gli elementi che abbiamo deciso di privilegiare in
una visione strategica sono:
· acquisizione di dotazione tecnico-didattica avanzata, con un deciso svecchiamento
della strumentazione informatica e laboratoriale;
· acquisizione con tutte le risorse disponibili di Lavagne Interattive Multimediali
(LIM) e processo di formazione-aggiornamento dei docenti e dei tecnici di
laboratorio per un ampliamento del loro uso nella didattica quotidiana;
· consistente apporto di temi e argomenti matematico-scientifico-tecnologici nella
programmazione e realizzazione dell’Ampliamento dell’Offerta Formativa (i
cosiddetti progetti pomeridiani), sia con finanziamenti europei sia nazionali;
· sviluppo del settore Orientamento nella direzione dell’approdo agli studi
universitari e verso le professioni;
· raccordo con altre Istituzioni Scolastiche e territoriali per la creazione di una
Cultura d’Impresa capace di realizzare una prospettiva occupazionale nel Territorio
per gli allievi nella nostra Regione;
· attualizzazione e fruizione diffusa di contenuti della cultura classica attraverso la
creazione già a partire dal corrente anno scolastico di una compagnia di
Drammaturgia Antica. Il gruppo si è recentemente esibito per gli allievi di un liceo
di Parigi e andrà a Maggio a recitare nel teatro greco di Palazzolo Acreide
all'interno dei programmi dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa;
· sviluppo di conoscenze e competenze della tradizione musicale coreutica attraverso
la creazione già a partire dall'anno scolastico in corso di un coro polifonico
partecipato da allievi, ex allievi e famiglie. Il coro diretto dal maestro Giovanni
D'Asta si è recentemente esibito di fronte agli allievi di un Liceo di Cracovia
(Polonia) e presso il Teatro della nostra sede Succursale;
· mantenimento e intensificazione delle modalità di comunicazione della scuola con
le famiglie. Le crescenti esigenze educative dei nostri tempi può essere affrontata
con efficacia solamente attraverso un'azione coordinata e concordata tra gli
educatori scolastici e le famiglie. Pensiamo che sia di vitale importanza formativa
offrire agli allievi, ai giovani in generale, un mondo degli adulti capace di esprimere
valori condivisi e strategie educative unitarie. Il realizzarsi dell'ipotesi contraria non
potrebbe che agire come elemento di destabilizzazione degli equilibri talvolta fragili
di esseri in formazione, quali sono gli adolescenti.
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Negli Annali vengono presentate due figure di antichi Presidi: Nicola Stranieri da
Barletta che firmò le prime pubblicazioni d’Istituto dal 1878 al 1881, nominato all’incarico
più per meriti politici (fu unitarista della prima ora e filosabaudo) che didattici o
accademici e il napoletano Giovanni Cupaiuolo, promotore degli Annali dal 1923 (dirigeva
la scuola già dal 1918) al 1932, il quale invece seppe lungamente dare lustro al Liceo
Umberto I per valore di iniziative didattiche e organizzative, e per ampia visione culturale.
Sua fu l’invenzione dei Trattenimenti umbertini, serate culturali vissute con l’istituzione di
uno dei primi cineforum scolastici d’Italia (tradizione viva a tutt’oggi), e attraverso la
produzione di concerti musicali. Col ricavato delle serate il Preside Cupaiuolo seppe
dotare l’Istituto di apparecchiature didattico-scientifiche per quei tempi avanzatissime.
Rovistando in un magazzino di anticaglie da alienare ci siamo di recente imbattuti proprio
nell’antico proiettore del cineforum degli anni venti e trenta del Novecento: modello EOS
prodotto da Cinemeccanica di Milano, con blocco Croce di Malta a bagno d'olio e obiettivo
da 35 mm. Lo stiamo ripulendo e oliando, e anche se non dovesse più funzionare, però lo
terremo in vista in un luogo frequentato dell’Istituto in memoria di un tempo lontano nel
quale il Liceo Umberto I produsse cultura per i suoi allievi, per le loro famiglie,
rivolgendosi alla città tutta. Che è precisamente ciò che vogliamo continuare a fare noi con
una programmazione di alto profilo artistico e culturale prodotta in gran parte dalla
comunità umbertina da offrire alla stessa comunità umbertina e al territorio,
reinterpretando lo spazio che abbiamo deciso di chiamare Teatro delle Arti.
I quattro concerti musicali dal vivo realizzati nel corrente anno scolastico presso il
Teatro della sede succursale in fondo riprendono e ripropongono proprio i Trattenimenti
Umbertini, con la differenza rispetto al passato, che fino ad oggi i ricavi dei concerti sono
andati in beneficienza all’Associazione Jus Vitae di Padre Antonio Garau, un prete dallo
straordinario impegno antimafia, laddove in futuro se la programmazione culturale del
Teatro delle Arti dovesse produrre ricavi significativi potremmo utilizzarne in parte per
dotazioni scolastiche. Dipenderà dalle risorse che in futuro le Istituzioni ci garantiranno: la
necessità di risparmio sembra essere la tendenza e la prospettiva più certa, perciò nell’era
dell’Autonomia dovranno essere accresciuti gli spazi di interlocuzione con tutti gli
stakeholders, il territorio, gli utenti diretti e indiretti, possibili fonti di finanziamento esterne
rispetto a quelle tradizionali. Il presente Annale per esempio viene pubblicato grazie ad un
finanziamento dell’Istituto Bancario Unicredit che gestisce il servizio di tesoreria della
nostra Istituzione Scolastica e della Palazzolo Serafino srl Forniture e Servizi per l'Ufficio,
ai quali rivolgiamo un vivo ringraziamento.
Cosa vogliono essere i Nuovi Annali Umbertini? Nella nostra intenzione vogliono
rappresentare il frutto di un’attività di ricerca scientifica e nel contempo un prodotto
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culturale di buono spessore che dall’interno del Liceo viene proiettato oltre che sulla
comunità umbertina anche sul corpo sociale territoriale. I Nuovi Annali Umbertini infatti
nascono a partire dalla consapevolezza del grande valore professionale rappresentato dal
corpo docente in prima istanza, ma anche delle altre componenti scolastiche: gli allievi, le
famiglie, il personale ATA. Si tratta di dare seguito ad un compito istituzionale che è
quello di produrre ricerca e di rappresentarla.
Il Dirigente Scolastico
Prof. Vito Lo Scrudato*
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*Vito Lo Scrudato, Palermo 1958, ha studiato Lingue e Letterature straniere presso l’Università
di Palermo, la Philipps Universität di Marburg an der Lahn e la Maximilians Universität di
Wuerzburg. Dal 1986 è stato docente di Lingua e Civiltà Francese presso Scuole Statali Secondarie
di Palermo, Vicenza e Agrigento; dal 2000 al 2005 ha svolto la funzione di Lettore Ministeriale
presso la Gutenberg Universität Mainz (Germania).
L’11 Luglio del 2003 ha conseguito un Dottorato di Ricerca (Dr. Phil.) cum Laude presso la
Johannes Gutenberg Universität Mainz con una trattazione sul tema: Il brigantaggio in Sicilia tra
´800 e´900 – un caso esemplare e due temi orali: Multilinguismo in Sicilia dalle origini ai nostri
giorni e Letteratura Siciliana dalla Magna Curia di Federico II a Tomasi di Lampedusa;
successivamente ha accettato l’invito della Goethe Universität di Francoforte sul Meno a
conseguire una Habilitation con una ricerca (in fase di redazione) sui rapporti di Leonardo Sciascia
con la Letteratura francese.
Dal 2007 al 2011 è stato Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico Statale Ernesto Basile nel
quartiere palermitano di frontiera di Brancaccio. Dall'inizio dell'anno scolastico in corso dirige il
Liceo Classico Statale Umberto I di Palermo.
Attualmente si occupa di Ricerca nell’ambito dell’Orientamento (Percorsi formativi e
professionali) e di nuove tecnologie applicate alla Didattica.
Ha scritto i seguenti volumi: Teatro Instabile, quattro atti unici a carattere sperimentale, Ed. Il
Paese, Cammarata, 1993; Prudente perversione, romanzo, Ed. Il Paese, San Giovanni Gemini, 1993;
Mare d'azolo, racconti. Ed. ILA Palma, Palermo, 1994; Scrittura effimera, saggi giornalistici, Ed. Il
Paese, Cammarata, 1995; Rotative, romanzo, Ed. ILA Palma, Palermo, 1996; La sindrome di
Cenerentola (scritto assieme ad Elisa Albani), romanzo epistolare, Mazzotta Edizioni,
Castelvetrano, 1998; La magara – Processo di stregoneria nella Sicilia del ´500, Editore Sellerio,
Palermo, 2001; Il brigantaggio in Sicilia tra ´800 e´900 – un caso esemplare, Editore Peter Lang,
Francoforte sul Meno, 2004); Varsalona, l’ultimo brigante; Pietro Vittorietti Editore, Palermo,
2010.
Ha scritto e pubblicato i saggi: Latifondo e brigantaggio, fenomeni vecchi nel giovane Stato
Unitario d`Italia. Il caso Sicilia, in Atti del Convegno del 18° Forum Junge Romanistik,
Alterungprozesse: Reifen – Veralten – Erneuern a cura di E.K. Müller, H. Siever, N. Magnus,
Romanistischer Verlag, Bonn 2003; La magara: Hexenverfolgung auf Sizilien im 16. Jahrhundert in
Moderne Sprache 47 (2003) Edito da Thomas Lindner, Edition Praesens, Vienna.
Giornalista pubblicista ha fatto parte della Commissione Cultura dell'Associazione della Stampa
di Agrigento.
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Il Liceo classico Umberto I e la storia degli Annali e degli Annuari
di Bernardo Puleio
Premessa
È con grande emozione ed entusiasmo che, seguendo l’illuminata decisione del nuovo
dirigente scolastico, professore Vito Lo Scrudato, di ridare vita, a quasi ottant’anni di
distanza dall’ultima pubblicazione degli Annuari (così si chiamavano in epoca fascista i
volumi che rendicontavano della vita degli istituti d’istruzione secondaria superiore), ad
un nuovo numero degli Annali, il primo del nuovo millennio nel nostro Liceo, ho avuto il
piacere e l’onore di studiare e analizzare testi che appartengono ad epoche e modi vivendi
lontani da noi.
Il piacere deriva dal gustare, leggendo le storie quel sapore che l’hanno in sé. L’onore
(l’onere) dell’incarico deriva dalla responsabilità assegnatami di far rivivere, parzialmente,
alcuni periodi della storia dell’Istituto, attraverso la ricostruzione dei contenuti degli
Annali (che furono redatti per i primi tre anni di vita del Regio Liceo – Ginnasio Umberto I
di Palermo, a partire dal 1878, l’anno della fondazione) e degli Annuari (a partire dal 1923
e fino al 1935).
Quella che segue non è e non può essere la Storia complessiva del Liceo, ma, in relazione
alle forze dello scrivente e, limitatamente agli anni e ad alcuni riferimenti presenti nei testi
esaminati, è il tentativo, si spera ragionato, ma certamente appassionato, di dare voce,
indagare, comprendere la prospettiva umana e didattica di docenti, spesso di grandissimo
livello che, negli anni, hanno costruito un patrimonio culturale di assoluto spessore,
facendo del Liceo Umberto I di Palermo un’istituzione di straordinario rilievo.
Studiare i programmi, la struttura dell’istituto, le circolari diramate dai capi d’istituto,
significa anche, in piccolo, provare a ricostruire, a livello di microstoria, le istituzioni, i
modi di concepire l’istruzione e, attraverso essa, la vita della Nazione e l’idea di
cittadinanza.
Di quei lontani anni non è rimasto nulla: anche la sede storica, l’ex convento francescano
di S. Anna, dopo il trasloco, nel 1960, negli attuali locali di via Parlatore, dopo un
magnifico ammodernamento è stata destinata ad altro (splendido) uso, ospitando la sede
della Galleria d’Arte moderna.
Eppure, sia pure nella totale diversità dei tempi e delle istituzioni si respira, se è lecito
coniare un termine anomalo, un sentimento che accomuna, a distanza di tempo, quanti,
docenti ed ex docenti, alunni ed ex alunni, hanno condiviso, per un tratto, un pezzo del
loro cammino insieme: è come una sorta di orgogliosa appartenenza, di esclusività a cui si
può dare nome di umbertinità.
Infine, sia perdonata una nota personale, rileggendo le vicende e i fatti più salienti degli
anni Trenta, tentando di ricostruire gli uomini e i loro percorsi, naturaliter mi sono
imbattuto nella figura di mio padre che, del regio Liceo Ginnasio Umberto I fu alunno alla
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fine degli anni Trenta e che pure in un periodo difficile per la Nazione, dagli austeri
corridoi di S. Anna seppe trarre, grazie anche ai suoi insegnanti, l’amore per la libertà e
l’ardore per abbracciare studi filosofici.
Alla Sua memoria di ex umbertino è dedicato questo piccolo saggio, qualunque possa
essere il suo valore.
Gli Annali: dal 1878 al 1880
Fin dal 1788, nel convento di S. Anna, funzionavano delle scuole, le cosiddette scuole
normali, dirette da religiosi.
A riformare l’ordinamento scolastico nell’isola dopo la cacciata dei gesuiti fu chiamato un
religioso illuminato e illuminista, amico ed estimatore del viceré Caracciolo: padre
Agostino De Cosmi, uno dei più grandi pedagogisti europei del suo secolo.
La sua idea era semplice e innovativa:
"Merita d'essere sradicata quella malvagia e disumana politica che fomenta l'ignoranza nazionale, e la mancanza dei
lumi del popolo; sul falso presupposto che si governino meglio gli uomini degradati ed accecati, degli uomini
illuminati".
L'impostazione della scuola normale si opponeva nettamente al tipo di educazione
aristocratica ed elitaria tradizionalmente impartita dai gesuiti: la parte più retrive della
nobilitas palermitana, con in testa il Villabianca, insorse dichiarando sprecati i denari
pubblici impiegati nell’operazione.
Con l’arrivo dei garibaldini, un decreto prodittatoriale del 3 novembre 1860, stabilisce che
le scuole normali, compreso il collegio degli insegnanti formato da religiosi (con
l’eccezione del rettore), passino al nuovo
e costituendo Ginnasio di S. Anna.
A prescindere da ogni altra valutazione (è chiaro che il nuovo stato, in mezzo a difficoltà,
contestazioni e opposizioni anche rilevanti, si annette le istituzioni culturali precedenti,
indirizzandole verso nuove finalità e scopi educativi, in linea con gli interessi sabaudi),
può essere interessante ricordare una celebre espressione, pronunciata, nel 1861, dal
discusso principe S. Elia, figura politica rilevante, per indicare le aspettative della
cittadinanza palermitana che ammontava all’incirca a duecento mila unità: la principale
industria dei nostri avi sarebbe consistita nel supplicare il re di un impiego e nel pregare
Dio per ottenere una vincita di un terno al lotto.
In quel momento esisteva a Palermo il Ginnasio Nazionale, annesso al Regio Liceo, che, a
partire dall’anno scolastico 1865-6 sarà intitolato a Vittorio Emanuele II.
Nel 1862 verrà istituito anche il Convitto Nazionale, ma gli istituti classici palermitani
restavano due: il Regio Liceo e il Regio Ginnasio di S. Anna, che, si badi bene, in quel torno di
tempo, funziona dalla prima alla quinta ginnasiale, con esclusione delle classi liceali.
Nell’anno scolastico 1876-77 il Ginnasio annesso nell’ex convento di S. Anna muta il suo
nome in Ginnasio Principe Umberto.
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Su sollecitazione del nuovo (e illuminato) ministro dell’Istruzione Pubblica, Francesco De
Sanctis, il 20 giugno 1878, viene stilato il regio decreto che dota la città di Palermo del suo
secondo liceo classico: nasce così, sotto gli auspici del grandissimo italianista irpino,
sostenitore appassionato della causa nazionale, il Regio Liceo ginnasiale Umberto I: è l’anno
scolastico 1878-9. Ecco il testo del decreto del 20 giugno 1878, autentico atto di nascita del
nostro liceo:
Umberto I, per grazia di Dio, e per volontà della Nazione Re d’Italia, «Veduta la legge del 13 Novembre 1859, numero
3725, e il Decreto 17 ottobre 1860 del Prodittatore della Sicilia: sulla proposta del ministro, abbiamo decretato e
decretiamo:
ARTICOLO UNICO:
È istituito nella città di Palermo un secondo Liceo, che si aprirà nell’a. scol. 1878-9 […]
UMBERTO
FRANCESCO DE SANCTIS
Una circolare pubblicata il 20 novembre 1874 dal ministro Renato Bonghi, faceva obbligo
agli istituti di istruzione secondaria del regno di stampare, ogni anno, una relazione che
consentisse ai cittadini di conoscere e apprezzare la struttura, l’organizzazione e
l’operosità di alunni e professori, includendo i programmi svolti, la dissertazione di
almeno uno degli insegnanti, la struttura della scuola, la suddivisione degli alunni, i
programmi etc.
Dal momento che, però, lo Stato non sosteneva i costi della pubblicazione, ben presto, gli
Annali scomparvero. Così, ad esempio, nel nostro Istituto, furono pubblicate tre edizioni
soltanto per i primi anni di vita (dal 1878 al 1881).
La circolare n. 44 del 26 maggio 1923, ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile, introduce
l’obbligatorietà della pubblicazione degli Annuari (sulla cui articolazione, i presidi
vengono lasciati sostanzialmente liberi), che costituiscono una concreta manifestazione che
volge nello stesso tempo ad esprimere la viva coscienza della propria particolare individualità e a
dare alla Nazione la prova documentaria dell’interna vitalità delle sue scuole.
Dopo un’interruzione durata oltre quarant’anni, nel 1923, sotto la direzione di uno dei più
grandi presidi del nostro istituto, Giovanni Cupaiuolo, riprendeva la serie della
pubblicazione degli atti relativi alla vita del Liceo, sotto il nome di Annuari.
Attraverso gli Annali e gli Annuari scolastici, in generale, è possibile ricostruire
interessanti pagine di storia locale che spaziano dalla consistenza dei fondi d’istituto al
catalogo dei testi adottati e ai libri contenuti nelle Biblioteche, alle circolari presidenziali e
ministeriali, alle conferenze e attività integrative.
È chiaro anche, per quanto riguarda gli Annuari di epoca fascista, che è possibile
ricostruire, soprattutto a partire dall’anno scolastico 1925- 1926, il grado di progressiva
fascistizzazione delle istituzioni scolastiche; dunque l’istituzione di questi opuscoli,
diventa, nella mente del regime, uno strumento di controllo e di propaganda all’interno
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delle istituzioni scolastiche, dove peraltro, occorre ricordarlo, vennero istituite
organizzazioni paramilitari fasciste come i balilla, gli avanguardisti, le giovani fasciste etc.
Anche il nostro liceo non poté sfuggire a questo tipo di infiltrazione e di sovvertimento, di
corruzione delle coscienze che è il frutto peggiore, insieme all’adulazione serva e prona,
della mancata libertà di insegnamento. Tuttavia, mi pare opportuno elogiare, in questa
sede, anche a causa dei tempi non facili in cui dovette operare, l’azione del capo d’istituto,
Giovanni Cupaiuolo che cedette il minimo indispensabile alla retorica e agli strumenti
vessatori dell’epoca (e certamente in misura minore di altri capi d’istituto).
1878: il primo anno del Regio Liceo- Ginnasio Umberto I
La vita del nuovo istituto non si apriva nel modo migliore (e parafrasando Virgilio “se la
mente non fosse stata stolta”, il re ne avrebbe dovuto trarre le necessarie conseguenze): il
17 novembre del 1878, mentre il re Umberto I (succeduto al padre, Vittorio Emanuele II,
morto nel gennaio di quello stesso anno) e sua moglie Margherita erano in visita a Napoli,
l’anarchico lucano Giovanni Passannante, salì sul predellino della real carrozza e,
sguainato un pugnale fuori da un fazzoletto rosso nel quale era scritto: «Morte al Re, viva
la Repubblica Universale, viva Orsini», attentò, infruttuosamente, alla vita di sua altezza
(rimasto leggermente ferito): seguirono gravi incidenti con morti ammazzati in diverse
città del paese.
Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti diede
pubblica lettura di una sua Ode a Passannante. Di tale ode si conosce solo il contenuto dei
versi conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi: «Con la berretta d'un cuoco faremo una
bandiera». Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode; in seguito fu arrestato per aver
manifestato a favore degli anarchici che erano stati a loro volta tratti in arresto per i
disordini generati dalla condanna di Passannante.
La reazione fu esasperata: l’intera famiglia dell’attentatore fu arrestata (madre, 2 fratelli,
tre sorelle) e internata fino alla morte presso il manicomio criminale di Aversa: il sindaco
del paese dovette chiedere perdono e alla città lucana che si chiamava Salvia, fu imposto
di cambiare nome in Savoia di Lucania (e così ancora si chiama): l’attentatore, condannato
in prima istanza alla pena capitale, fu poi rinchiuso in una minuscola cella, alta 140 cm
presso l’isola d’Elba, con addosso una catena di 18 kg e poi dopo la morte il suo corpo fu
straziato e decapitato per effettuare studi “scientifici” di antropologia criminale.
Contro la deriva liberticida in atto, prese la parola il ministro Francesco De Sanctis.
Nel febbraio del 1878, il cardinale Pecci veniva eletto al soglio di Pietro, scegliendo il nome
di Leone XIII: sarebbe stato un pontificato innovativo e illuminato, foriero di molti
progressi in un momento difficile dei rapporti tra Stato e Chiesa, di fronte ad un contesto
segnato sempre di più da scontri e rivendicazioni sul piano del lavoro.
Per quanto attiene alla vita della felice città di Palermo va ricordato che in tutti i collegi, alle
elezioni politiche del 1876, la sinistra liberale, spregiativamente chiamata dagli avversari il
partito esagerato (a cui si contrapponeva l’epiteto ingiurioso rivolto alla destra di torinesi
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che suonava come traditori e sopraffattori) aveva prevalso e si era gridato allo scandalo,
parlando di infiltrazioni mafiose. Erano seguiti accesi dibattiti parlamentari sul problema
dell’ordine pubblico nell’isola, con annessa decisione di aprire un’inchiesta parlamentare
che non avrebbe sortito grandi effetti.
Tuttavia, ed è l’elemento più rilevante, in quel clima di grande attenzione (e
preoccupazione) verso la Sicilia, due deputati toscani della destra liberale, Franchetti e
Sonnino, privatamente e con grande ardimento sarebbero sbarcati a Palermo, seguendo
una loro inchiesta personale, straordinariamente suggestiva e interessante ancora oggi,
pubblicando le loro ricerche col saggio- inchiesta La Sicilia nel 1876.
A parte la denuncia del fenomeno mafioso, delle sue
molteplici collusioni e
dell’arretratezza in cui versava l’isola, può essere interessante ricordare che a giudizio dei
due visitatori eccellenti (Sonnino sarebbe diventata una stella di primo piano della politica
nazionale, mentre Franchetti, nel 1917, colto da disperazione dopo Caporetto, credendo
perso tutto, si sarebbe suicidato), un paio di particolari interessanti saltano all’occhio
relativamente alla vita palermitana dell’epoca: la città godeva di una delle migliori
illuminazioni europee a gas1, mentre i cittadini, soprattutto in presenza di forestieri, si
divertivano, con certo gusto macabro, a raccontare dei tanti posti in cui si erano verificati
delitti (che all’epoca erano tanti, compresi quelli di alcuni giornalisti scomodi)2.
Inutile dire che grandissima era l’influenza di Ignazio Florio sulla vita artistica, culturale,
politica ed economica della città, mentre ancora, nessuna donna si era laureata presso
l’Università palermitana (la prima si sarebbe laureata in Lettere nel 1885).
Nel 1878 (il sindaco era l’italianista e da sempre antiborbonico e filosabaudo Francesco
Paolo Perez), si erano verificati, nella vita cittadina, due episodi significativi.
A maggio, la Corte d’Assise aveva pesantemente condannato i membri di un’associazione
mafiosa di Monreale gli Stoppaglieri (da stuppagghiari, tappo, turacciolo): ma, a Catanzaro,
dove il processo fu trasferito per legittima suspicione, in Appello, gli imputati furono tutti
assolti (prevalse la linea difensiva incentrata sulla macchinazione inventata dall’ex
questore Albanese, una figura molto controversa delle forze di polizia d’allora).
Inoltre, un’epidemia di vaiolo nero flagellava la città. A causa di questo motivo, fu presa
la decisione di fare slittare l’inizio dell’anno scolastico. Pertanto fu solo il 1° dicembre che
nell’ex convento di S. Anna, alla presenza del prefetto, dei delegati municipali, di tutto il
collegio dei professori del Regio Liceo- Ginnasio Umberto I e del Regio Liceo- Ginnasio
Vittorio Emanuele II, il preside, Nicola Stranieri prese la parola per la solenne
inaugurazione del nuovo istituto.
Il discorso del preside era infarcito di retorica:
1
Merito del sindaco Emanuele Notarbartolo che peraltro, dopo mille polemiche, aveva posto la prima pietra
del costruendo teatro Massimo, i cui costi, ben lungi dagli inizialmente previsti 2.500.000 lire sarebbero
rapidamente raddoppiati.
2
È un’abitudine ricordata anche da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, allorché il figlio del principe di
Salina rievoca una serie di delitti per sconvolgere il visitatore piemontese Chevalley.
11
Palermo […] esprime coll’apertura d’un nuovo Liceo in che modo senta l’ufficio suo nell’Italia rinnovata. […]
L’augusto patronato di Umberto I, del cui glorioso nome la Maestà del Re volle con decreto del 5 ottobre scorso
fregiarlo, è arra di singolare affetto a questa classica terra siciliana ed alla vetusta sapienza palermitana. […] Dal
venerato Padre ereditando Egli, il Giovane Re, il valore, la lealtà e la fede gagliarda nel glorioso avvenire d’Italia, volle,
con uno tra i primi atti del regno, che accanto al Liceo Vittorio Emanuele sorgesse Questo altro a testimonianza della
progrediente cultura nazionale nell’amore dei cittadini […]. Due monumenti questi che ricorderanno sempre, come la
Casa Savoja all’eroismo e valore nelle armi unisca il culto delle lettere, delle scienze e delle arti. In essa l’Italia tutta, e
questa nobile parte in ispecie, vede ogni dì, piucché mai incarnato il grande concetto di Federico II: Istruzione e libertà.
Il preside non poteva fare a meno di ricordare che in quel luogo erano sorte alcune scuole,
a suo avviso,
poco razionali e non rispondenti alla cultura generale e media che addimostrano che la Sicilia, terra d’armonia e
d’amore, anche sotto il dispotismo s’industriava cibare col pane della vera sapienza i figli suoi.
Poi, con un’incursione che avrebbe forse fatto sbigottire anche Pindaro, il preside
concludeva così:
Due grandiosi avvenimenti, come due gigantesche figure, si parano innanzi da noi: i Vespri ed i Mille. I primi
succedono alla cultura sveva, e vendicano la gloria di Federico e la morte di Manfredi; i secondi, spiegando con nuovo
eroismo il tricolore nazionale, all’estremo mezzogiorno, corrono a dar la mano alle altre terre, e nell’unità della Patria
compiono il pensiero dei padri nostri.
Al di là della retorica e della piaggeria verso le istituzioni e le tradizioni dei luoghi che lo
ospitavano, Nicola Stranieri era un preside di lungo corso: nativo di Barletta dove aveva
diretto una scuola da lui fondata, laureato in Filosofia a Napoli, dopo il 1860 aveva iniziato
una proficua carriera di preside e rettore presso istituti governativi: ad esempio aveva
diretto con successo, incrementando il numero degli alunni, il Convitto nazionale
Giordano Bruno di Maddaloni in provincia di Caserta, con grande gioia di Luigi
Settembrini, che di quell’istituto era stato allievo.
Forse conosceva personalmente Francesco De Sanctis, che decise di inviarlo a Palermo,
offrendogli l’opportunità di dirigere una scuola in una grossa città e mandando un uomo
di fidata lealtà alle istituzioni sabaude, fornito di esperienza in un posto non facile in cui
le istituzioni filogovernative erano guardate con estraneità se non peggio.
Gli Annali pubblicati sotto la direzione di Stranieri videro la luce presso l’ufficio
tipografico di Michele Amenta.
In quel primo anno di vita, 427 alunni frequentavano l’istituto in 10 classi (alle otto classi
curriculari si aggiungevano una prima ginnasiale B e una prima liceale). Colpisce il
numero di iscritti nella terza ginnasiale: 62!
Il secondo anno scolastico
Col secondo anno scolastico (1879-80) entriamo nel vivo del funzionamento della scuola.
L’anno scolastico, come ci informa una nota del preside, era cominciato il 15 Novembre
per le classi liceali e il 10 per quelle ginnasiali (5 all’epoca), a causa del protrarsi degli
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esami di riparazione. Gli esami della quinta ginnasiale si sarebbero completati il 18 agosto
1880.
La scuola si componeva di 10 classi: 6 ginnasiali (vi insegnavano 10 professori, tutti
maschi, di cui 4 sacerdoti, docenti di materie letterarie: la religione, ovviamente, all’epoca,
non era contemplata nell’insegnamento) e 4 classi liceali (la prima era stata divisa, per il
sovraffollamento di alunni in 2 tronconi): vi insegnavano 7 professori (tutti maschi) tra i
quali spiccano tre nomi prestigiosi di altissimo livello: le lettere italiane erano affidate ad
Ugo Antonio Amico (poeta, letterato, grande saggista e traduttore, ardente sostenitore
della causa nazionale); Pietro Cavazza insegnava Latino e Greco, mentre Florestano Tano
era docente di Matematica (laureato alla Normale di Pisa nel 1872, nel 1881, avrebbe
pubblicato, mentre insegnava nel nostro istituto, un elegante testo: Sopra due serie di Gauss e
di Heine).
Il professore Tano, dalle aule di S. Anna si trasferì a Roma, dove insegnò nel regio liceo Umberto I, quindi
nel 1891 ritornò a Palermo, per partecipare al concorso a cattedra di Algebra complementare, ottenendo un
positivo consenso dalla commissione, composta, tra gli altri, dal celebre Cesàro, come testimonia la seguente
relazione: “Il professore Tano appartiene da vari anni all'insegnamento secondario, ed è attualmente professore nel R.
Liceo Umberto di Roma. Egli presenta al concorso sei note: […] quattro, relative alla teoria dei numeri, presentano
alcuni teoremi nuovi e dimostrazioni nuove ed eleganti di teoremi conosciuti”.
Negli anni successivi, a Palermo, per quanto attiene agli studi matematici, si sarebbe
verificata un’importante rivoluzione che avrebbe fatto della nostra città, in linea con la
belle époque dell’età dei Florio, un imprescindibile punto di riferimento con la creazione del
Circolo di Matematica che avrebbe annoverato tra le sue fila i più importanti cultori su
scala mondiale della disciplina e la cui sede, nel 1900, si trovava in via Ruggero Settimo,
collocata al numero civico 38.
Nel nostro liceo insegnarono, in quel periodo, illustri matematici, diventati poi cattedratici,
come Giovanni Maisano (ordinario di algebra complementare a Palermo) e Michele
Cantone (ordinario di fisica sperimentale a Napoli).
Interessanti alcune annotazioni sull’orario e le discipline: la quarta ginnasiale aveva un
monte ore di 25 ore di lezioni settimanali (6 ore di Greco, sempre alle prime ore: s’iniziava
alle 8), 6 ore e 20 minuti di Latino, 5 ore di Italiano, 3 di Aritmetica (sempre le ultime!) e 3
ore e 20 muniti di Storia (ma la disciplina comprendeva unitariamente anche la geografia).
Tre giorni alla settimana le lezioni terminavano alle 11.20, gli altri giorni alle 13.
Le quinte ginnasiali mantenevano lo stesso numero di ore (il greco sempre all’inizio della
mattinata).
Molto strano l’orario del triennio: anche se il computo totale delle ore oscilla tra 25 (in
prima) e 27 (in terza), gli orari presentano buchi incredibili con soste che iniziano alle
11.20 e terminano in alcuni casi alle 12.30, per cui le lezioni si chiudono sempre alle 14 e,
addirittura in prima, il sabato, alle 14.30. L’insegnamento di Latino e Greco passa dalle 8
ore della prima alle sette (tre ore e mezza a disciplina) di seconda e terza che, in
quell’anno, come informa una nota presidenziale, per l’alto numero degli alunni, vengono
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distinte in due diverse unità, facendo una deroga alla legge che prevedeva l’insegnamento
congiunto per le classi seconde e terze liceali di Latino e Greco. L’insegnamento
dell’Italiano si articola in 5 ore in prima e 4 nelle rimanenti due classi. La Storia ha un
curriculum di tutto rispetto: 4 ore e mezza in prima e tre nelle rimanenti classi, invece,
l’insegnamento della Filosofia è, piuttosto sacrificato, due ore in prima e seconda, tre
nell’ultima classe.
Qualche problema si verificò nell’anno di grazia 1879-80 per l’insegnamento della
Ginnastica (come si diceva allora): la scuola non aveva una sua palestra e l’insegnamento
si teneva per un totale di due ore alternate, presso la palestra sita in casa Professa: per
motivi non chiariti, quell’anno, il Comune di Palermo tolse gli strumenti ginnici
destinando ad altro uso i locali. Morale della favola: le lezioni iniziarono a febbraio in un
locale che, graziosamente, come scrive nella sua relazione finale Gaetano Pagano (dal
preside, non senza una nota discriminante, non qualificato come professore, a differenza
degli altri docenti del regio liceo Umberto, ma come istruttore di Ginnastica), fu messo a
disposizione dalla Società di Ginnastica palermitana.
Al solito, alle istituzioni lacunose, devono sopperire i privati: peraltro la sede della
palestra collocata vicino al Papireto e quindi non esattamente nei pressi della sede centrale
(si sarebbe tentati di dire nulla di nuovo sotto il sole, pensando al disagio causato dagli
spostamenti attuali tra centrale e succursale) creava non poco nocumento per i ragazzi.
Veniamo ad alcuni numeri relativi al 1880: nel complesso, l’istituto era frequentato da 432
alunni così suddivisi: 87 in due prime ginnasiali, 49 in seconda, 41 in terza, 36 e 34 nelle
due quarte ginnasiali, 56 (!) nell’unica quinta, 37 e 38 nelle due prime liceali, 40 nella
seconda e 20 nella terza (quell’anno si diplomarono solo 10 alunni dell’ultima classe).
Dati impressionanti sulle bocciature o i ritiri: in prima ginnasiale 23 respinti su 87; in
seconda 12 su 49; in terza 14 su 41; in quarta 24 su 64;, alla licenza ginnasiale (nella classe
pollaio!) 12 su 56 erano stati fermati.
Una severità non indifferente contrassegnava le due prime liceali, dove 30 alunni su 75
non ce la facevano; 16 su 40 i fermati in seconda e, come si ricordava prima, il 50% dei
respinti nell’ultima classe. In totale 131 casi di insuccesso scolastico, pari al 30,32% della
popolazione studentesca.
Un altro dato interessante e, oggi, fuori dal comune, è costituito dal maggior numero di
licenziati di provenienza esterna (22) rispetto agli alunni interni. Data la facilità delle
bocciature, non stupisce che la maggioranza dei licenziati avesse un’età alta (20 anni): si
arriva anche a 25 anni (un caso), mentre due sono i superbravi “sottoetà”, Castrense
Gristina nativo di Prizzi e proveniente dall’Istituto Franco e l’alunno interno, il
palermitano Giuseppe Marchesano. Un solo allievo esterno aveva 18 anni e 3 (di cui uno
interno) avevano compiuto i 19 anni.
Nella sede storica di piazza S. Anna a gestire i 432 alunni erano addetti: 17 professori, un
segretario, un assistente al gabinetto di Fisica e Chimica, 2 bidelli (uno per il ginnasio e
uno per il Liceo), un inserviente e un portinaio.
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Proviamo ad entrare nel vivo del funzionamento della scuola nell’anno di grazia 1880: il 14
Marzo, il preside spediva al ministro dell’Istruzione Pubblica un telegramma per
esprimere i sentimenti di profondo affetto e devozione di tutte le componenti in occasione del
natalizio dell’Augusto Re, patrono di questo Liceo.
Il 22 maggio 1880 i chiarissimi professori Michele Kerbaker ed Emanuele Fergola della
Regia Università partenopea aprivano una diligente, minuziosa e amorevole ispezione che
fu chiusa (altrettanto amorevolmente) il primo giugno, quando i due illustri professori,
dopo avere interrogato alunni e professori, tennero una conferenza dinanzi al Collegio dei
professori, dichiarando la loro soddisfazione per l’andamento generale degli studi e della
disciplina, anche se non mancarono di elargire consigli (amorevoli?) ai professori: il
preside Stranieri, pure accennando alle difficoltà dovute all’istituzione di una nuova
scuola, giustamente, con malcelato orgoglio, mostrò soddisfazione per i risultati raggiunti
e riconosciuti alla scuola da lui diretta.
Le prove d’esame, come si evince da una circolare del maggio 1881, non erano uguali per
tutte le scuole del regno: al momento degli esami, alla presenza degli alunni, veniva
sorteggiato da un allievo un libro di esercizi (tra almeno 4 diversi testi) e, ad apertura a
caso, si sceglieva il tema o la versione o la prova di matematica ad hoc.
Tra i testi in adozione la facevano da padroni Schulz e Curtius per le discipline classiche,
Fornaciari (Disegno storico della letteratura italiana) per l’Italiano.
La grammatica greca dell’illustre professore Curtius, docente di filologia classica a Lipsia, sostenitore
dell’anomalia e fondatore del gruppo dei Neogrammarian, sin dal suo apparire, nel 1852, era stata tradotta
in più lingue (nel 1868 videro la luce le edizioni in francese e in italiano) ed aveva riscosso un successo
internazionale considerevole, con oltre 20 edizioni: fa piacere pensare che gli alunni del Regio Liceo
Umberto I studiassero, al pari dei loro coetanei delle migliori scuole europee, su testi innovativi e consolidati
al tempo stesso. La casa editrice Loescher aveva pubblicato fin dal 1872 l’eserciziario latino di Ferdinando
Schulz.
Mancano indicazioni sui libri di testo di Storia triennale (la disciplina è articolata in 5 corsi
distinti per argomenti), mentre per la Filosofia, il professore Di Giovanni, figura di rilievo
nel panorama culturale e religioso della Sicilia dell’epoca, erudito cultore della storia della
filosofia isolana e intellettuale aperto alle trasformazioni che, a partire da lì sarebbero
intercorse nel mondo cattolico e nei rapporti con la politica (il sacerdote, nativo di
Salaparuta, si avvicinò al Toniolo e fu in alto pregio presso Leone XIII), adottava due suoi
testi, un manuale, Princìpi di filosofia e passi scelti dal suo commento all’Organon
aristotelico.
Siamo in grado anche di conoscere quali temi fossero affrontati dagli alunni.
Ad esempio, nella classe-pollaio del quinto ginnasio, il reverendo Vincenzo Martorana,
così insegnava il timor di Dio ai suoi allievi, attribuendo il seguente compito ad inizio
d’anno scolastico:
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Si espongano per lettera ad un amico i bei proponimenti fatti durante il corso dell’anno scolastico, i divertimenti ideati
per mandarli ad effetto durante nelle vacanze, e come poi non si siano potuti effettuare, verificandosi il proverbio che
dice: L’uomo propone e Dio dispone.
Così tanto per il gusto della curiosità, giusto per porre una ipotetica domanda: se qualche
alunno avesse trascorso una bella vacanza tutta rose e fiori e l’avesse descritta, malgrado
quel perentorio diktat a proposito dei proponimenti non realizzati, sarebbe stato
considerato un argomento fuori tema (e quindi da rimarcare con un voto deficitario) o
un’insubordinazione (da punire, magari con una nota)?
Di tutt’altro livello gli argomenti affrontati da Ugo Antonio Amico: per esempio la sua
prima lezione era incentrata sul tema (molto stimolante in epoca di costruzione a volte
anche forzata sul piano culturale dell’identità nazionale): De’ sommi è patria il non averne
alcuna.
L’Amico incentrava anche una rilevante attenzione sulle vicende di storia e letteratura
locale (da Antonio Veneziano al duomo di Monreale). Di grandissima attualità doveva poi
risultare un tema molto sentito in epoca di verismo e positivismo: L’arte sarà bella senza
idealità?
Umanista e poeta, l’Amico è una delle figure più interessanti e rilevanti dell’epoca.
Nel 1860 succedette al Carducci nell'Istituto "Galvani" di Bologna. Insegnò nei licei di Pisa, Firenze e Palermo
e fu libero docente di Letteratura Italiana presso l'Università di Palermo dal 1893 al 1898. Nella nostra città,
prima di approdare al nostro istituto, diresse la Scuola femminile di perfezionamento e nel 1871 insegnò nel
Regio Educandato femminile "M. Adelaide".
Fu sostenitore dell'unità nazionale e nel 1860 fu funzionario, a Torino e poi a Firenze, del Ministero della
Pubblica Istruzione e segretario particolare del ministro Carlo Matteucci. Collaborò alla rassegna Curiosità
letterarie dell'editore Zanichelli e fu amico del Carducci. Si occupò anche di opere di S. Bernardo,
Sant'Agostino, Torquato Tasso e Annibal Caro.
Dopo avere ricordato, sia pure schematicamente, gli alti meriti del matematico Florestano
Tano e dell’italianista Ugo Antonio Amico, è opportuno soffermare l’attenzione, sulla
terza colonna del regio liceo Umberto I, nei suoi primi anni di vita: l’insigne grecista Pietro
Cavazza.
Il terzo numero degli Annali del Liceo, pubblicato nel 1882, è in gran parte occupato da un
rilevante saggio monografico del professore Cavazza: Apollonio Rodio e il suo poema.
Seguendo il metodo storico- filologico, tanto caro alla ricerca positivista della scuola
tedesca (e l’autore dà prova di avere letto nell’originale i testi di studiosi quali Weichert,
Merkel, Schneider, Preller, ecc.), Cavazza dimostra come nel poema di Apollonio vi siano
costanti rimaneggiamenti del mito e dei viaggi degli argonauti in chiave filoegizia (a
cominciare dall’affermazione che la Colchide sarebbe stata colonia egizia), spiegabili col
tentativo, che doveva stare a cuore al bibliotecario di Alessandria, di trovare quante più
convergenze possibili, nell’ottica dell’unità, tra il mondo egizio, a maggior ragione in età
ellenistica, e la cultura greca.
Quindi, soffermandosi sull’accusa, più volte rivolta all’autore, di mancanza di poeticità, il
professore “umbertino”, pur sottolineando una certa debolezza di sentimento nei primi
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due libri, intravvede autentica capacità poetica nella descrizione di Medea, rappresentata
per lo più come donna in preda a passioni e non secondo il topos consolidato e, per certi
versi, retorico, della maga.
Nel terzo libro, Apollonio, descrivendo colla finezza dell’arte sua il dramma di Medea,
travagliata dal pudore, dalla parola data, dai legami alla sua famiglia, ma sempre più
inesorabilmente stretta dalla forza dell’amore, si dimentica di essere grammatico e
raggiunge i vertici della poesia.
Lasciamo spazio alla parola, elegante e coinvolgente del professore Cavazza:
Qui abbiamo gli sfoghi incoerenti di un affetto irresistibile, la lotta disperata di chi si appiglia come ad ultimo scampo
alla morte, di chi vuol vivere alle dolcezze della gioventù e dell’amore. Ed Apollonio, maestrevolmente scrutando
l’animo della sua Medea, ne palesa i riposti sentimenti, ed espone i disegni contraddittorii, che or l’audacia ed ora lo
sconforto, ora la cura ed or l’obblio della sua fama le suggeriscono. Dov’è la maga che sa arrestare il corso de’ fiumi
impetuosi, attutare l’ardore del potente fuoco, fermare il cammino della sacra luna (III, 530-33)? Qui non abbiamo più
che una donna, la quale pensa ed opera soltanto per forza della sua passione e si agita, pur nel tumulto de’ suoi affetti,
in un ambiente del tutto umano.
Lo studio su Apollonio Rodio costituì il trampolino di lancio del professore Cavazza che,
alcuni anni dopo, ritroviamo docente di Filologia e Letteratura greca a Firenze, presso
l’Istituto di Studi Superiori (come si chiamava allora l’ateneo fiorentino, al quale solo negli
anni Venti del secolo trascorso fu assegnato il nome di Regia Università): tra gli altri, ebbe
come alunno, Gaetano Salvemini che ne ricorderà con affetto e stima sia la competenza sia
la dedizione.
Infatti il Cavazza, anche nei giorni festivi, la domenica mattina soprattutto, insegnava privatamente,
gratuitamente, agli alunni più notevoli, lo studio della lingua tedesca, utilizzando l’originale della
grammatica greca del Curtius, già adottata al Liceo Umberto, dove molto probabilmente aveva preso anche
l’abitudine di fare lezioni suppletive nei giorni di vacanza, come ci informa una nota del preside Stranieri,
per l’anno scolastico 1879-80 (in verità nella nota si fa riferimento, genericamente, a docenti che, con grande
soddisfazione di tutti, tennero lezioni e conferenze nei giorni di vacanza).
A partire dal 1887, mettendo a frutto, la sua esperienza di insegnamento nella scuola
superiore, il Cavazza avrebbe iniziato a curare una collana di classici greci per le scuole
con l’editore Sansoni (è suo un commento sull’orazione Contro Agorato di Lisia) e poi nel
1891 fu prescelto, incarico di assoluto prestigio, come relatore d’inizio anno accademico, a
Firenze tenendo una lezione, poi pubblicata da Le Monnier, intitolata Aristotele e la
Costituzione di Atene.
Con il Cavazza cominciò un felicissimo succedersi, nelle aule di S. Anna, di professori di
discipline classiche di straordinario livello: per quel torno di anni esaminati, basterà
ricordare i nomi di Enrico Cocchia, diventato poi ordinario di Letteratura Latina e rettore
presso l’Università di Napoli, e di Augusto Mancini, docente nel nostro istituto nel 18978, ordinario di grammatica greca e latina a Pisa ed autore, indizio di quella polimorfica
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versatile abilità che abbatte gli steccati della mediocrità settoriale, di un’opera considerata
ancora oggi indispensabile e insuperato punto di riferimento: Storia di Lucca.
Anche per l’insegnamento della Filosofia, fin dagli esordi, il nostro istituto ha potuto
contare su eccellenti maestri: Giovanni Cesca (1881-2) divenuto ordinario di storia della
Filosofia a Messina; Giovanni Dandolo (1891-2) ordinario di Filosofia teoretica e poi
Preside di facoltà a Catania.
All’inizio del nuovo secolo, per i tortuosi corridoi di S. Anna, transitavano l’italianista
Eugenio Donadoni (1903-04) e poi, a ridosso del primo conflitto mondiale, Antonio
Aliotta (sarebbe diventato ordinario di Filosofia a Napoli) e il grandissimo Vito Fazio
Allmayer che, dal 1913 al 1922 insegnò nel nostro liceo, dopo avere ottenuto la libera
docenza nel 1918.
Giovanni Gentile, divenuto ministro dell’Istruzione lo volle a Roma come consigliere. Nel 1925, tornato a
Palermo, Fazio insegna Storia della filosofia, Filosofia teoretica Filosofia morale fino al 1950, diventando
preside di facoltà nel 1939. Nel 1951 si trasferì a Pisa, dove morì nel 1958.
Sul pensiero dell’illustre filosofo è particolarmente significativa questa riflessione di
Franco Cambi:
“La formazione di Fazio-Allmayer è stata del tutto palermitana, ma attuatasi nella Palermo europea
dell'inizio secolo, quando vi operano – filosoficamente – il Gentile dedito alla costruzione dell'attualismo, di
quel sistema a chiave critico-metafisica che fu una tappa, se pur centrale e in parte definitiva, della sua
ricerca, e la ‘Biblioteca filosofica’ dell'Amato Pojero con tutta la sua carica socratica e la sua apertura a voci
diverse della filosofia italiana, da Croce a Guastella, a Orestano e a temi à la page del ‘fare filosofia’,
soprattutto religiosi. Così la quota del suo pensiero è nazionale ed europea insieme”.
L’Annuario del 1923
Dopo un silenzio durato quarant’anni sulle attività del Liceo, nel 1923 vengono pubblicati
gli Annuari del Regio Liceo- Ginnasio Umberto I di Palermo. A partire dal 1918 e per 14 anni
(si tratta in coabitazione con Francesco Lo Iacono, capo d’istituto dal 1950 al 1964, primo
ad inaugurare la nuova sede di via Parlatore nel 1960, della più lunga presidenza finora,
dell’Istituto) a dirigere la scuola era stato chiamato, proveniente dal Liceo di Lucera, il
latinista Giovanni Cupaiuolo, allievo, a Bologna, di Carducci, amico del Torraca e uomo
di grandissimo spessore culturale, fornito di grande valenza pedagogica.
Il preside ripercorre la storia dell’istituto e fornisce annotazioni interessanti, ad esempio
informa che, dietro espressa richiesta di alcuni docenti, in primis Vito Fazio Allmayer, una
lapide commemorativa era stata realizzata per ricordare i 21 alunni caduti durante la
prima guerra mondiale: alla presenza di autorità civili e militari, dopo un discorso del
preside e un’orazione del professore di Italiano, Paolo Colombo, si era tenuta una
manifestazione commovente e toccante.
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Il libro degli Annuari del 1923, pubblicato presso la tipografia del Boccone de Povero nel
1924, si apre proprio con la riproduzione della lapide commemorativa (oggi,
ingiustamente, a mio avviso, quasi come a volerne fare cosa estranea, rimossa ai margini
dell’istituto all’interno del colonnato del cortile).
Mi hanno in particolare sempre commosso le sorti avverse di due ragazzi: Giovanni Ferro
Luzzi e Domenico Iacoponelli.
Luzzi morì a Freikofel il 9 giugno 1915, una delle prime vittime italiane del conflitto, il
primo alunno dell’istituto, caduto, subito dopo le giornate del maggio radioso di
dannunziana e guerrafondaia memoria. Questo infelice ragazzo sarà morto appena
arrivato, senza neanche conoscerla la guerra. Al contempo, mi colpisce il destino
dell’ultimo caduto Domenico Iacoponelli, morto sul monte Grappa il 19 settembre 1918
alla vigilia quasi dell’armistizio (pochi giorni ancora e sarebbe scampato): deve essere
stato un terribile gioco del destino morire pochi giorni prima della pace. Commovente
anche l’iscrizione:
Nell’epico cielo ove fra i santi e gli eroi puri splendete o giovani la scuola vostra nutrice con un sorriso di lagrime
benedicendo vi enumera.
Dei caduti della seconda guerra mondiale, nessuno si è preso cura di lasciare memoria
alcuna.
Il preside Cupaiuolo, nell’Annuario del 1923, fornisce alcune interessanti annotazioni: i
locali di S. Anna procuravano disagi, infatti molte aule erano piccole, carenti sotto il
profilo igienico, inadatte a contenere 35 alunni per classe, per come era stabilito dalla
legge. D’altronde, la scuola essendo collocata al centro della città, mentre si procedeva ai
lavori di trasformazione di via Roma, si trovava a godere dei vantaggi (accessibilità dei
mezzi di trasporto) ma anche a subire tutti i difetti della vita in mezzo alla città (rumori
che disturbavano il normale svolgimento delle lezioni).
Senza mezzi termini, il dirigente accusava l’amministrazione comunale, alla quale era
demandata la custodia e la salvaguardia dei locali, di non attivarsi a sufficienza.
L’istituto ormai contava quasi settecento alunni, suddivisi in 17 classi dell’indirizzo
classico e 5 dell’indirizzo moderno: per volontà ministeriale si concludeva in quel 1923 la
sperimentazione durata dieci anni del liceo moderno (solo a partire dalle quarte ginnasiali
gli alunni che avessero scelto l’indirizzo moderno studiavano discipline diverse,
sostanzialmente simili alla piattaforma dell’attuale liceo scientifico): 131 alunni erano
iscritti alla sezione del liceo moderno.
Una parziale soluzione ai disagi logistici sarebbe potuta venire, scriveva il preside, dalla
piena ristrutturazione (tante volte promessa, ma solo parzialmente attuata, dall’istituzione
comunale), del terzo piano dell’ex convento. Solo la disciplina congiuntamente al senso di
responsabilità degli alunni, diceva il preside, impediva che nei corridoi tortuosissimi non
si verificassero incidenti (fatto tanto più rilevante se si tiene conto che l’età degli alunni
oscillava dai 10-11 anni della prima ginnasiale ai 18- 19, ma spesso anche 20, dell’ultima
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classe). Il preside Cupaiuolo auspicava una scuola diversa, fornita un decoroso
arredamento per rappresentare, anche nei fatti, l’idea del bello.
Lasciamo la parola all’appassionata ed attualissima riflessione del preside:
Il gusto del bello, nei giovani, non deve, a parer nostro, formarsi soltanto sui libri e per la parola dei maestri. Il bello
deve essere, come a dire, vissuto dai giovani: le linde pareti di un’aula scolastica, l’arredamento decoroso, un corredo,
anche se modesto, di bei quadri o di belle statue, la bellezza insomma, del luogo è, essa stessa, efficacissimo mezzo di
educazione.
Il collegio dei professori era composto di 28 professori, di cui tre donne, tutte e tre
supplenti (due insegnanti di scienze ed una di educazione fisica).
Una qualche annotazione sul costo dei libri di testo: in quarta ginnasiale i testi costavano
(esclusi i libri consigliati) 340 lire (130 lire costavano il vocabolario di latino, GeorgesCalonghi e il dizionario di greco, il Gemoll).
In prima Liceo, dove pure non c’era l’aggravio del costo dei dizionari, il computo totale
ammontava comunque alla considerevole cifra di 332 lire.
Tanto per dare un’idea del costo dei testi: il salario di un operaio specializzato, in quel
1923 non arrivava a 350 lire mensili (e la maggioranza delle famiglie era monoreddito): il
celebre calciatore Rosetta, proprio in quell’anno trasferitosi dal Vercelli (dove non
percepiva salario) alla Juventus, guadagnava mille lire al mese, generando molte
polemiche per un reddito considerato immoralmente esagerato.
La I e la IV ginnasiale della sezione A erano composte soltanto di ragazze, invece la I e la
IV della sezione B da maschi: le altre classi erano miste.
Nell’albo d’onore che contiene i nominativi degli alunni la cui media sia pari ad almeno
otto decimi, per quanto attiene alle classi del Ginnasio inferiore, troviamo iscritti 7 maschi
e 4 femmine.
Anche nelle quarte e quinte ginnasiali i più bravi risultano i maschi (6) al cospetto di una
sola alunna (Italia Carini). Nel triennio conclusivo, nessun allievo raggiunge la media di
otto nella classe finale, solo 5 nelle classi intermedie, tre di loro sono ragazze.
Per volontà del preside viene istituita una cassa scolastica della quale, scrupolosamente
viene fornita la contabilità attiva, mentre apprendiamo che generose sottoscrizioni erano
state raccolte per la costituzione di un parco della rimembranza (probabilmente dei caduti
della prima guerra mondiale), per la targa degli alunni del liceo caduti, per l’assistenza ai
ciechi di guerra, per un ricordo marmoreo per le mamme dei caduti, per i danneggiati
dall’eruzione dell’Etna, mentre la cospicua cifra di 895 lire era stata impegnata per un
nuovo drappo alla bandiera.
Un sostegno a parte per l’istituzione di un’unità locale della Croce rossa giovanile con un
donativo di quasi seicento lire completa il quadro del buon cuore e della sensibilità
umbertina.
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Interessante è il capitolo riguardante le passeggiate ginniche a cui spesso erano abbinate le
gite d’istruzione: ai nostri occhi oramai smaliziati da viaggi intercontinentali e da viaggi
d’istruzione in giro per l’Europa, le mete di novant’anni fa possono apparire giurassiche.
Oltre ai monumenti della felicissima città di Palermo, erano state organizzate visite a
Monreale, S. Martino delle scale, Solunto e sin anche alle rappresentazioni classiche della
lontana Siracusa.
C’era però attenzione anche alle attività pratiche e industriali: infatti erano state visitate
aziende ormai scomparse, come il cantiere navale Roma a Mondello e la Vetriera di
Romagnolo.
L’Annuario del 1924
Pubblicato per i tipi del Boccone del Povero nel 1925, l’annuario segna, per un verso, il
ritorno all’antico, cioè alla scrittura saggistica.
Ad apertura sono presenti quattro saggi: il primo, redatto dal dotto preside Cupaiuolo,
riguarda una polemica che si era innescata un anno prima, quando, incautamente, era
stata data la notizia, dimostratasi del tutto infondata, del ritrovamento di tutto il corpus
della storia liviana. Ripercorrendo dottamente la storia della fortuna del celebre storico
latino, il preside ricorda, come già a partire da Marziale si faccia riferimento alla gran mole
dei 142 libri (ingens Livius) che sarebbe stata la causa prima per il fiorire di epitomi,
favorendo la pubblicazione parziale in decadi, come probabilmente già immaginato e
voluto dallo stesso autore, cosa questa che, alla lunga, avrebbe nuociuto alla possibilità di
globale conservazione dell’opera. Probabilmente, conclude il Cupaiuolo, in un saggio di
straordinaria efficacia anche sul piano della metodologia della ricerca filologica, sarà
difficile, almeno per le vie dei tradizionali codici, ritrovare nella sua interezza, il testo
liviano a meno del rinvenimento di altre fonti come, in quegli anni, gli scavi di Ossirinco
certificavano. In conclusione, occorre tenersi lontano da falsari e cialtroni che, forse già da
tempo, a partire dal rinvenimento in epoca rinascimentale di testi liviani possono avere
agito dannosamente.
E qua in aggiunta alle note di Giovanni Cupaioulo, si potrebbe ricordare che uno dei più
grandi impostori della storia culturale siciliana, l’abate Giuseppe Vella, originario di
Malta, ma di sicilianissima mentalità, alla fine del diciottesimo secolo, non solo inventò di
sana pianta, organizzando una serie di ricatti e speculazioni, spacciandoli per veri, alcuni
codici arabi e normanni che avrebbero potuto cambiare il corso della storia siciliana, ma
aveva in mente di rendere noto il rinvenimento di in codice in lingua araba contenente
tutti i 142 libri di Tito Livio!
Il secondo saggio è redatto dal vice preside, il prof. Gaetano Fazzari, docente di
matematica, che mostra un’incredibile dimestichezza con gli epigrammi dell’Antologia
Graeca, dove, in 48 testi, sono contenuti problemi di aritmetica e di algebra. Partendo da un
passo del libro XI dell’Odissea, in cui facendo riferimento al calcolo dei buoi che
pascolavano in Sicilia era nato il cosiddetto problema archemideo (considerando che
nell’antichità problema archemideo era per lo appunto sinonimo di questione estremamente ardua e
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spinosa), il professore Fazzari, attraverso una serie di equazioni, arriva ala conclusione che
calcolando tutti i buoi (bianchi, bruni, screziati) si arriva al numero 77766 seguito dal altre
206541 cifre.
Il professore Ernesto Paci redige il terzo saggio, Il fenomeno degli eclissi solari, dove
partendo dallo studio dell’eclisse solare del 1919 fa il punto sugli strumenti adoperati per
studiare il fenomeno.
L’ultimo saggio contiene una precisazione sull’ultima allegoria del Paradiso di Dante ed è
frutto di un dotto e accurato lavoro di un professore campano, Michele Di Nardo che,
sebbene giunto nel nostro Liceo solo a partire dal 1925, viene ospitato negli annali del
1924.
Il professore fu un autentico cultore di Dante: dopo la sua morte la vedova donò alla
biblioteca comunale di Castellammare di Stabia, ben tremila libri sul poeta fiorentino.
Con dotto e persuasivo commento, traendo spunto dal commento del Torraca, il Di
Nardo, in polemica con il Di Capua, dimostra che la conclusione del poema non ha un
significato di tipo teologico, che Dante non chiede la perseveranza nella Grazia, ma
semplicemente, uniformandosi alla volontà divina, il poeta raggiunge la catarsi.
Data la carenza dei mezzi della cassa scolastica, apprendiamo che, ricorrendo a strumenti
che, approssimativamente, qualche creativo ministro dell’economia, definirebbe di finanza
creativa, la scuola organizza una serie di collette per acquistare un proiettore.
Insegnanti e alunni s’inventano di tutto per racimolare soldi: dalla proiezione di alcuni
film (I promessi sposi, I misteri di Parigi, Lucrezia Borgia) alla vendita dei volumetti della serie
“Amore e Luce” presso l’educandato Maria Adelaide, alla vendita dei biglietti per assistere
alle conferenze, organizzate, la domenica mattina, da alcuni professori della scuola
(Salvatore Comes parla sugli effetti dell’alcolismo e la tubercolosi, mentre Giuseppe
Ferrante si occupa dei templi greci e di Agrigento): vengono così racimolate 2.735,61 lire.
Il Liceo comincia ad assumere proporzioni significative: sono presenti tre sezioni
complete, per un totale di 24 classi: sono state costruite due aule nuove e tre sono state
ampliate.
Da Roma, il Ministero, presieduto da Giovanni Gentile, ha inviato all’Istituto “e, pare, a
tutte le scuole del regno” (come aggiunge il preside), una somma cospicua relativamente al
fabbisogno dei libri della biblioteca e dei gabinetti di fisica e di chimica: è impressionante
il catalogo dei nuovi libri acquistati (da Pascal a Romagnoli, da Manacorda a De Sanctis,
cui si aggiungono intere collezioni di classici latini e greci e I Dialoghi di Confucio). Viene
instituita una biblioteca circolante degli alunni.
Naturalmente vengono organizzate riunioni ad hoc per studiare il Nuovo ordinamento degli
studi medi (a seguito della riforma Gentile che veniva pienamente attuata proprio nel 1924).
Curiosamente, uno degli argomenti della seduta plenaria del consiglio dei professori,
giorno 23 Gennaio reca la seguente dicitura: Coordinamento delle materie e sovraccarico
intellettuale.
22
Il 14 aprile è riunito il consiglio della classe V C con, all’ordine del giorno, il seguente
tema: Provvedimento disciplinare (per la cronaca, la classe formata da 17 alunni, si ritrova
a fine anno con 10 discenti, dei quali solo 7 saranno promossi). Sono iscritti 615 alunni (si
verifica sì un decremento, 59 alunni, rispetto all’anno precedente, in quanto il liceo
moderno è stato scorporato, ma limitato dal fatto che, all’incirca, si sono verificate una
cinquantina d’iscrizioni in più).
E’ interessante notare che vanno scomparendo le classi pollaio: la media di alunni per
classe è 25,62. Le prime ginnasiali e le prime liceali sono le classi più numerose (35 alunni
per ognuna delle sei classi) ma, nelle quarte ginnasiali sono presenti rispettivamente 21,
19, 17 alunni (i colleghi del biennio, oggi, questi numeri li possono solo sognare!): le
seconde liceali sono composte di 21, 22, 24 allievi e nelle classi di maturità troviamo 16, 20
e 19 alunni.
I dati destano uno sconforto preoccupante: le classi odierne, sono sostanzialmente più
invivibili e sovraffollate di quelle dell’età fascista!
Veniamo ai dati relativi all’insuccesso scolastico (non ammessi o ritirati): in prima ginnasio
non superano la prova 53 alunni su 105, un po’ più del 50%, in seconda 47 su 99 (47,47%)
23 su 58 in terza (39,65%). Nel ginnasio superiore, complessivamente la media dei fermati
è pari al 35% (42 alunni su 120). Al triennio superiore si registrano 105 casi d’insuccesso,
per un totale, in tutto l’istituto di 280 respinti, più del 45%
Impressionanti i dati della maturità: in 3A 13 alunni su 16 sono respinti, mentre nelle altre
due sezioni gli alunni non licenziati sono soltanto il 50%.
Le lezioni vengono interrotte il primo aprile per l’arrivo nella nostra città del ministro
Gentile, dal 3 all’8 dello stesso mese per le elezioni politiche (quelle che si svolsero in un
clima di intimidazione inaccettabile. Com’è noto, il deputato socialista Giacomo Matteotti,
per aver denunciato i brogli fu rapito e assassinato). Dal 5 al 7 di maggio la scuola è chiusa
per la visita a Palermo del Presidente del consiglio dei ministri.
L’Annuario del 1925
Sempre per i tipi del Boccone del Povero, escono gli Annuari relativi all’anno scolastico
1924- 25.
Si registra un decremento considerevole: si perdono più di cento alunni. In totale si
iscrivono 501 alunni suddivisi per 24 classi, per una media di 20,87 alunni per classe.
Mentre scrivo queste note, 9 Dicembre 2011, l’istituto è frequentato da 1190 alunni
suddivisi in 44 classi per una media di 27,045 alunni per classe.
Dati da far rabbrividire: il sovraffollamento delle classi, in spazi spesso angusti o non del
tutto idonei, è, di gran lunga peggiore, dei dati di età fascista! Ecco cosa produce una
politica basata solo sui tagli e che non miri alla qualificazione dell’insegnamento e alle
condizioni in cui si impartisce, disprezzando i discenti e le loro legittime esigenze.
I dati dell’insuccesso scolastico restano sempre, nel 1925, piuttosto alti: 168 non ce la fanno
(33,53%)
23
Doveva funzionare, una sorta di coordinamento, per classi parallele dell’insegnamento di
tutte le discipline in generale e dell’Italiano in particolare, infatti è possibile conoscere
quali temi venissero assegnati in tutte le classi e inoltre i titoli erano uguali in tutto
l’Istituto.
L’anno scolastico era suddiviso in 4 bimestri: il titolo dei componimenti assegnati è assai
istruttivo e indicativo del tipo di educazione che si impartiva. Molti titoli, soprattutto nel
Ginnasio inferiore, riguardano la povertà, la sofferenza, il dolore ed ovviamente anche le
letture effettuate.
Ecco qualche titolo (II bimestre, II ginnasiale): In una casa signorile si festeggia l’onomastico
della mamma. In una casa di fronte si piange la morte del capo di famiglia. Riflessioni. (Titolo che
sembrerebbe discriminatorio nel volere distinguere la vacuità, femminilmente lussuosa,
della festa della mamma dalla tragicità del lutto per il capo di famiglia).
La terza ginnasiale, sicuramente dopo il famigerato discorso di Mussolini del 3 Gennaio
1925, affronta un tema che in altre circostanze riguarderebbe esclusivamente la storia del
Risorgimento: Mazzini e l’idea nazionale.
Onestamente, mi sarei trovato in grosse difficoltà ad affrontare, da studente, uno dei temi
della quinta ginnasiale, estremamente sintetico e pregnante: Aiutati e Dio ti aiuta.
Le prime liceali erano alle prese con un titolo interessante, un riadattamento dalla Ginestra:
Gli uomini non sono ridicoli se non quando vogliono parere se non quello che non sono (Leopardi)
C’è un titolo che potrebbe rispecchiare l’aria fascista che, obtorto collo, si doveva respirare
nel paese (ma va detto che, a prescindere dalla citazione liviana, effettivamente, di
argomentazioni simili è infarcito il Principe di Machiavelli e forse per questo motivo, il
tema viene assegnato alle seconde liceali): In multitudine regenda plus poena quam obsequium
valet (Tacito)
D’altronde, le terze liceali affrontavano un argomento spinoso: La Rivoluzione francese e
Luigi XVI.
Ma su tutti emerge particolarmente, il seguente titolo di impronta quasi deamicisiana,
segno evidente veramente di un’altra Italia, semplice, fatta di buoni sentimenti, non priva
però di qualche ridicolaggine (tema assegnato alle seconde ginnasiali):
Mai avevo visto tanta neve, quanta oggi se ne vede sui monti della Conca d’oro! Non volevo andare a scuola per il
freddo; ma la mamma mi fece vedere attraverso i vetri del balcone tanta povera gente e tanti ragazzi mal vestiti, che
andavano frettolosi al lavoro, e andai a scuola.
In quel 1925 si realizzava il sogno del preside Cupaiuolo: la scuola si dotava del
proiettore; l’intera cifra, necessaria all’acquisto, 4.646 lire, era pari alla somma ricavata da
tutte le attività di volontariato (conferenze, vendita di libri e opuscoli) organizzate da
docenti e alunni. Inoltre, il salone delle conferenze veniva arredato con sedie, evitando
l’indecoroso spettacolo di dovere trascinare i banchi con annessi sedili dalle classi.
Il preside, autentica mente illuminata e pronta a cogliere l’utilità, anche didattica, di
alternativi mezzi di comunicazione, informava che non solo era stato di fatto impiantato
un cinematografo a scuola (e ben poche dovevano essere allora nella Nazione, le scuole
24
dotate di simili mezzi), ma che aveva anche insistito affinché gli alunni si recassero di
mattina a teatro a seguire soprattutto Shakespeare (Amleto, Re Lear, Otello).
Giovanni Cupaiuolo non solo aveva dotato l’Istituto di pellicole a carattere scientifico, ma
credeva fermamente che le proiezioni cinematografiche (oggi parleremmo di strumenti
multimediali e iconografici) servissero all’accrescimento ed alla diffusione della cultura, al
raffinamento del gusto estetico.
C’è di più: le proiezioni (Il sacco di Roma, Giovanna D’Arco, L’inferno di Dante, L’Odissea e le
prime due parti del Trittico di Bonnard) entrano a far parte integrante del lavoro
scolastico, in quanto precedute da spiegazioni e lavori in classe e anche da conferenze.
È esagerato dire che a Palermo, presso i locali del Liceo classico Umberto I, nella
primavera del 1925, nasceva il primo cineforum della Nazione?
Di tutto questo grande lavoro a beneficio della scuola, da parte di un grandissimo preside
che molto ha fatto per il liceo, a Roma si erano pienamente accorti: un encomio, firmato da
Giovanni Gentile lo testimonia. Lasciamo la parola a Giovanni Cupaiuolo, che quasi a
margine dell’annuario, con voce sommessa, senza mai una parola fuori luogo ne dà
notizia:
Ci sia consentito di chiudere questi cenni, intorno alle istituzioni integrative della scuola, con poche e modeste parole di
tuttavia grande e legittima soddisfazione per il nostro istituto, voglio dire e per il collegio insegnante e per gli alunni.
Il superiore Ministero, approvando la relazione del Preside intorno al funzionamento del Liceo- ginnasio Umberto I
nell’anno 1924-25, ha voluto anche aggiungere l’espressione del suo alto compiacimento per le iniziative dell’istituto,
specialmente riguardo alle opere integrative della scuola. La lode del Ministro deve avere, per noi tutti, questo grande e
particolare valore: deve cioè esserci incoraggiamento e sprone a proseguire con costanza nel desiderare e nel compiere il
bene!
A conclusione delle note sull’annuario del 1925, va ricordato che alcuni saggi (uno del
preside sugli elegiaci greci ed in particolare su Tirteo e Mimnermo, uno del professor
Longi sulla gorgiana Apologia di Palamede, uno del professor Paci sulla Luna, e
l’immancabile saggio del vice preside, il professore Fazzari sull’Ettadecagono regolare
convesso), come di consueto, arricchivano la pubblicazione umbertina.
Un’osservazione particolare merita la conferenza tenuta dal professore Salvatore Comes
sulle dottrine biogenetiche ed evoluzionistiche: senza mezzi termini, l’illustre professore
(contestualmente all’insegnamento liceale aveva ottenuto la libera docenza),
spregiudicatamente per quell’epoca, si schierava dalla parte di Darwin, tanto inviso, in
quel momento alle autorità cattoliche, e spiegava agli alunni addirittura le teorie radicali
dei neodarwinisti.
L’Annuario del 1926
Il fascismo entra chiaramente e prepotentemente, interferendovi, nella la vita del Liceo.
Il 27 ottobre del 1925 viene effettuata una commemorazione della marcia su Roma (era un
obbligo imposto a tutte le istituzioni scolastiche).
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Nella liturgia del regime che si proponeva come religione politica del cittadino, la marcia
rappresentava una tappa fondamentale, una celebrazione di tipo iniziatico. In genere nei
licei un docente di Storia e Filosofia teneva un discorso. C’erano scuole, dove l’entusiasmo
era decisamente presente: gli alunni del Liceo scientifico Torricelli di Faenza, il 28 ottobre
1926 si recarono a Ravenna, per una grande adunata, mentre è interessante leggere le note
tratte da un registro di una maestra elementare piemontese.
Nella scuola di Prato Sesia, piccolo paese della collina Novarese, una maestra annotava nel
’28:
«La Marcia su Roma è stata degnamente ricordata agli alunni prima in classe, poi con la partecipazione al corteo che è
sfilato dal Municipio per le vie imbandierate del paese fino al monumento dei caduti ove il Segretario Politico lesse il
Proclama del Duce e distribuì la carta del lavoro, mentre gli alunni delle scuole cantavano “Giovinezza”».
Nelle aule dell’ex convento di S. Anna, nei tre corsi ormai istituzionalizzati, tre erano i
docenti di Storia e Filosofia: uno era supplente, uno straordinario, l’altro, Emanuele
Catalano, ordinario e per di più libero docente a Pedagogia: per prestigio e anzianità di
ruolo, a lui sarebbe dovuto toccare l’incarico di pronunciare il discorso (ovviamente
celebrativo) sulla marcia su Roma. Ma non fu così: il professore Catalano probabilmente si
rifiutò, come si può evincere dal fatto che non tenne neanche il 20 aprile un altro discorso
celebrativo sulla giornata coloniale italiana congiuntamente al Natale di Roma.
Fu il professore straordinario a tenere un discorso di cui siamo in grado di conoscere i
contenuti nella sintesi molto succinta che curò il preside, si direbbe con un qualche
imbarazzo a paragone delle più dettagliate ed entusiastiche relazioni su altre conferenze
tenute quell’anno a scuola, per esempio sull’arte greca e sul centenario di Francesco
d’Assisi.
Seguiamo il ragionamento del discorso celebrativo, al fine di ricordare che cosa può
produrre la mancanza di libertà unita ad un facile entusiasmo fanatico:
Mussolini trovò gli uomini coraggiosi per mettere in atto quella nuova coscienza nazionale che appartiene alla
tradizione veramente italiana, la tradizione del Risorgimento. Nella critica di Mazzini e di Gioberti contro
l’individualismo settecentesco, così come nella critica di Vico al razionalismo matematico cartesiano, insegnamento che
si sarebbe riversato in uno dei suoi migliori alunni, Vincenzo Cuoco che tanto peso avrebbe avuto su Manzoni, era
(Vico, Cuoco, Mazzini,
Gioberti, Manzoni, in buona sostanza, venivano arruolati alla causa, diventavano
anticipatori del fascismo!).
possibile intravvedere la nascita di quella nuova coscienza che caratterizzava il fascismo
Ci sarebbe da ridere al pensiero di siffatte mistificazioni se non sovvenisse il ricordo, non
solo della persecuzione dei martiri antifascisti, ma del baratro verso cui la Nazione, ad
occhi chiusi, credendo e obbedendo, e poi anche combattendo, andava incontro!
Volendo rinsaldare propagandisticamente il fascismo al Risorgimento e, inserendolo nel
solco di una tradizione liberale, così chiosava il conferenziere:
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Il Fascismo è, dunque, come il rivivere di una tradizione ininterrotta della vita spirituale italiana, è la manifestazione
della nostra originalità nazionale, di quella missione storica civilizzatrice che il popolo italiano si è scelto nei secoli.
Tre giorni di vacanza venivano istituti per la morte e i funerali della regina Margherita,
mentre una circolare presidenziale del 16 gennaio 1926 annunciava l’istituzione, nella
scuola, del gruppo Balilla.
Dalla relazione del preside si evince che il dirigente era ai ferri corti con le autorità locali,
eccessivamente negligenti al punto da non curare neanche i minimi particolari di
manutenzione, accusa che non riguarda solo il liceo Umberto, ma le scuole di Palermo che,
in generale, sottolinea Cupaiuolo, devono sostenere delle vere e proprie lotte.
Alunni ed ex alunni si sono dati da fare affrescando i corridoi della scuola con disegni di
soggetto classico.
In quegli anni studiava presso il Liceo uno studente che sarebbe diventato un maestro
dell’arte figurativa italiana: Renato Guttuso che, dalla natia Bagheria, si era trasferito a
Palermo per frequentare lo studio del pittore Pippo Rizzo. Molto probabilmente avrà
partecipato all’opera di abbellimento decorativo dell’Istituto: chissà se di qualche suo
disegno è rimasta traccia (certamente non a scuola).
Il preside lancia una stoccata finale, mitigata da un riferimento al risveglio della Nazione
che può essere interpretato in molti modi ma, che, a mio parere, mitiga il clima di forte
polemica che avrebbe potuto offendere qualche autorità locale:
Certo che troppo manca perché noi possiamo dire che la nostra è una bella scuola! Occorrerebbe un po’ di buona volontà
nel Comune; occorrerebbe che il Comune intendesse, oggi in particolare, in questo grande e salutare risveglio della
Nazione, che la Scuola ha una così alta funzione di vita da meritarsi un interessamento molto maggiore da parte di
chiunque, ma specialmente da parte di quelle autorità che hanno il dovere di garentirle perfetto il suo materiale
funzionamento!
Possiamo sbagliarci, ma sembra che il dotto latinista abbia usato gli strumenti
dell’eloquenza patriottica- nazionalista per ottenere, a vantaggio dell’Istituto tanto amato,
le migliori condizioni, nella lotta con gli enti locali che, dalle ripetute relazioni del preside,
appaiono dei bastian contrari.
Quell’anno, il ministero taglia di due terzi i fondi della scuola, riducendoli a 2.500 lire.
In verità, quell’anno è la scuola che finanzia lo Stato: viene istituita una raccolta
(ovviamente obbligatoria per gli istituti) intitolata Il dollaro alla Patria, per cui vengono
raccolte 2.875 lire, ben più di quanto lo Stato (fascista) abbia fatto per il nostro liceo!
Quell’anno si verificano alcuni rilevanti episodi: viene istituito un premio in onore di un
alunno morto (Gaetano Fichera); per la prima volta (il Concordato è dietro l’angolo), si
parla di istruzione religiosa, impartita da tre sacerdoti, insegnanti nella scuola (due
insegnavano materie letterarie nel Ginnasio inferiore e superiore, uno era supplente di
Filosofia) agli alunni delle prime tre classi ginnasiali dei tre corsi.
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Anche in questo caso per la prima volta, il liceo partecipa alla fase finale di una
manifestazione sportiva: il concorso di ginnastica nazionale che si svolge a Cagliari a
maggio dove i ragazzi ottengono un onorevolissimo terzo posto assoluto. Per affrontare
le spese degli undici atleti e del professore Placido Perroni che li accompagna, il preside
prima ricorre ai soldi della cassa scolastica (679 lire), quindi organizza un vero e proprio
laboratorio teatrale polivalente.
In data 15 maggio 1926, al teatro Bellini, gli alunni della Scuola si esibivano in uno
spettacolo, diremmo avanguardistico consistente in un saggio ginnico e in due
rappresentazioni: Addio Giovinezza! e la commedia brillante di Nino Martoglio, I civitoti in
pretura. Il ricavato serviva a finanziare la squadra di ginnastica in partenza per Cagliari.
Venivano istituite vere e proprie Accademie di scherma con alcune esibizioni a cui
partecipavano professori e alunni (cosa questa guardata con entusiasmo dal preside che
intravvede, nell’attività sportiva, come anche nell’incontro fuori dalla scuola, uno
strumento di unità maggiore tra docenti e discenti). Il professore Stefano Mercadante,
incaricato di Scienze, sfida alla spada alunni della scuola.
Le proiezioni vengono utilizzate per attività didattiche, ma anche per quelli che il preside
chiama I trattenimenti della scuola: in pratica ogni sabato da dicembre a maggio, gli alunni
e le famiglie potevano partecipare alle attività del cinematografo, formando una comunità
sempre più forte all’interno di un sano divertimento non scevro dall’interesse culturale dal
senso estetico che moltissimo premeva al preside.
Ma oltre al cinema e alla scherma si tenevano anche spettacoli musicali in cui gli alunni
suonavano il pianoforte e cantavano (arie dalla Tosca di Puccini, come anche dalla Forza del
destino di Verdi, ma anche canzoni siciliane).
Con grande gioia apprendiamo che a suonare al pianoforte in quell’anno 1926 (si sarebbe
diplomato a luglio a soli 16 anni!) c’era un alunno speciale il cui nome sarebbe entrato
nella storia della musica classica e sinfonica non solo isolana ma internazionale: Ottavio
Ziino.
Il maestro Ziino, diplomatosi prima al conservatorio Vincenzo Bellini della nostra città, poi all’Accademia di
S. Cecilia, è stato compositore e direttore d’orchestra, direttore artistico dell’Orchestra sinfonica siciliana,
che, grazie a lui ha raggiunto negli anni Cinquanta e Sessanta vertici straordinari, ha anche fondato la
Settimana di musica contemporanea, facendo della nostra città un punto di riferimento nell’ambito delle
rassegne di musica classica.
Infine una breve annotazione sui saggi comparsi sul numero dell’Annuario.
Il saggio del professore Alfonso Potolicchio, insediatosi nella scuola a partire dal 1926,
incentrato sulla pubblicazione delle Memorie dell’abate napoletano Antonio Genovesi,
colpisce per il tono assolutamente laico delle osservazioni. Nel riferire dei contrasti, in
materia di metafisica e teologia, tra l’abate e il clero napoletano e, in particolare il cardinale
Spinelli, il saggista parla di aguzzini della curia di Napoli, assolutamente incapaci di
fronteggiare le nuove istanze che il Genovesi andava diffondendo, e accaniti suoi nemici.
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Dopo molte insidie, fortunatamente, l’abate, ottenuta la cattedra di Economia, poté
attendere serenamente ai suoi studi. Il professore Potolicchio osserva con rincrescimento
che le nuove Memorie, concludendosi nel 1755, non gettavano una nuova luce sugli anni,
gli ultimi, più fertili della speculazione del Genovesi.
Infine qualche osservazione sul saggio del grecista Enrico Longi, Note polibiane, in cui si
insiste sulla grande competenza militare dello storico greco, che designa con accuratezza
la figura del perfetto comandante, come nessuno storico antico e nessun moderno ha mai
saputo fare. Questa riflessione potrebbe stupire: tra i moderni si sarebbe potuto citare
Machiavelli (I dialoghi dell’arte della guerra, apparsi nel 1521 avevano ottenuto gran successo
ed erano stati l’unica opera pubblicata in vita dal segretario fiorentino, per non parlare del
Principe, dove i riferimenti alla perizia militare del capo di Stato sono continui).
Forse il Longi ha presente una novella di Matteo Bandello (I, 40) che, testimone oculare,
denunciava l’imperizia del Machiavelli nello schierare la truppa della lega di Cognac in
occasione del conflitto sfortunato con le milizie imperiali che, insuccesso dopo insuccesso,
avrebbe avuto come epilogo tragico, il sacco di Roma, nel 1527. Il professore umbertino
puntualizza che il comandante ideale per Polibio deve essere fornito di νοῦς e πρόνοια.
L’Annuario del 1927
Alla fine del 1926, la conquista dello Stato da parte dei fascisti e l’instaurazione del regime
erano cosa fatta e consolidata.
Ne sono chiaro segnale il Manifesto degli intellettuali fascisti (sostenuto in primis da Giovanni
Gentile) nell’aprile del 1925 (cui si contrapporrà, minoritariamente, il Manifesto crociano),
l’ultima battaglia, nel luglio di quello stesso anno, persa dai liberali nelle elezioni
municipali a Palermo con la sconfitta di Vittorio Emanuele Orlando ad opera della lista
fascista capeggiata da Cucco: per la delusione, avendo compreso cosa i tempi
prospettavano, Orlando nel mese di agosto si dimise dal seggio parlamentare che
occupava da quasi quarant’anni. L’avere ridotto al silenzio gli oppositori dopo
l’esperienza dell’Aventino con la loro messa al bando o con la loro soppressione fisica
(basterà ricordare i nomi di Matteotti, Giovanni Amendola, Piero Gobetti, sulla cui rivista,
il socialista Gaetano Salvemini, dal 1924 partito in esilio verso l’Inghilterra, aveva fin
dall’inizio della presa del potere fascista profetizzato: “il fascismo avrà le corna rotte in
politica estera”) erano inequivocabili segnali.
Nel novembre del 1926, subito ad apertura dell’anno scolastico, prendevano forma alcune
delle leggi “fascistissime”: la reintroduzione della pena di morte, la soppressione di tutti i
giornali e delle riviste antifasciste, l’introduzione del confino di polizia per tutti gli
oppositori, l’istituzione di un tribunale speciale per la difesa dello Stato, l’espulsione dal
Parlamento degli aventiniani.
L’8 novembre, contro ogni diritto, pur godendo dell’immunità, veniva arrestato
l’onorevole Gramsci: prima deportato al confino di Ustica, sarebbe stato sottoposto ad un
decennio di carcere durissimo che ne avrebbe irrimediabilmente minato le condizioni
fisiche fino alla morte. Dal carcere, febbrilmente e lucidamente, la mente dell’intellettuale
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sardo legge, annota, chiosa, compone con disorganica organicità i Quaderni dal carcere,
testo di fondamentale importanza della cultura novecentesca e afferma la sua libertà
d’uomo a dispetto del tiranno che lo ha imprigionato.
In un bel passo di Pirandello e il pirandellismo, così scrive Leonardo Sciascia:
A questo punto, crediamo venuto il momento di citare Gramsci, e di rifarci al suo punto di vista. Bisogna tenere conto
ch’egli scrive in carcere, non ha a soccorrerlo che pochi libri e la sua limpida e certa memoria: e in quel silenzio fisico
che lo circonda, che porterebbe altri alla fiacchezza e alla disperazione, egli miracolosamente diviene accanto a Benedetto
Croce, l’uomo più libero che sia possibile trovare nell’Italia del fascismo. Non diciamo libero nel pensare politico
soltanto, ma nella più ampia e sconfinata libertà intellettuale.
In materia di politica economica, il nuovo ministro Volpi, instaurando una politica
deflazionistica emise un provvedimento chiamato Prestito del Littorio: in pratica, per
risolvere il problema del debito pubblico e della debolezza della lira, il governo fascista
statuì il prestito forzoso a tutti i creditori in possesso di titoli di Stato, in cambio di un
interesse apri al 3,5% imposto su base quinquennale e trentennale.
L’opinione pubblica accettò supinamente (d’altronde c’era poco da fare) e, a seguito della
ventilata deflazione, gli stipendi furono diminuiti di circa il 20%: secondo l’opinione di
alcuni economisti, la manovra del governo permise ai piccoli risparmiatori di recuperare
parte delle loro rendite che avevano progressivamente perso peso ma ebbe effetti negativi
sull’economia della grandi imprese sia perché l’eccessivo rafforzamento della lira non rese
più appetibili le nostre esportazioni sia perché le aziende con l’imposizione del prestito
(una vera manovra antiliberista), erano prive della necessaria liquidità.
Naturalmente le scuole dovevano fare la loro parte, perché occorreva anche non solo
consolidare i debiti precedenti (complessivamente, pare che la manovra abbia interessato
27,5 miliardi di lire) ma anche accaparrare nuovi quattrini.
Le scuole non erano solo strumento di propaganda e di indottrinamento, di catechismo
fascista, di formazione all’obbedienza nei confronti del regime totalitario, ma
funzionavano anche, per certi versi, come serbatoio, come strumento di reperimento di
fondi a vantaggio dello Stato!
Così l’11 dicembre 1926, il professore Emanuele Catalano, in una conferenza imposta con
circolare ministeriale a tutte le scuole per inneggiare alla bontà del prestito littorio, al di là
del trionfalismo di facciata, molto onestamente, ammette che, in tre mesi, da luglio ad
ottobre si sono venduti 2 miliardi e mezzo in meno di buoni del tesoro (italiani più poveri
o meno fiduciosi nel regime?) e nel fondo cassa ci sono appena 61 milioni: ovviamente è
una crisi di sviluppo!
Ma insomma, a buon intenditor… Quell’anno gli alunni volontariamente versarono 2.388,50
Lire a favore del Prestito Nazionale del Littorio (in pratica dallo Stato centrale veniva
imposta una tassa aggiuntiva a carico delle famiglie!)
La conferenza di cultura fascista del 20 aprile s’intitolava, significativamente, Prepariamo la
via all’impero.
30
Ad inizio d’anno, il 6 ottobre, il preside avrebbe dovuto tenere un discorso che nella
liturgia dei riti fascisti, soprattutto in quell’anno per volontà ministeriale, avrebbe dovuto
essere un discorso solenne e suonare come un’esaltazione simbiotica di scuola e fascismo.
Solo parzialmente, Giovanni Cupaiuolo assolve al compito impostogli: come lui stesso ci
informa, pronuncia poche parole sul tema La nuova scuola e poi lascia la parola ad un
altro professore, lo stesso che entusiasticamente l’anno precedente aveva commemorato la
marcia su Roma che significativamente si pronuncia su Scuola e fascismo, sottolineando
come lo studio delle discipline debba essere finalizzato all’apprendimento dei valori della
cittadinanza fascista.
Per quel che può valere in quei tempi di forzata omologazione, si può dire che nei locali
del Liceo Umberto I non ci fu quel tono trionfalistico (o per lo meno, sicuramente, il
preside non si prestò personalmente) che il regime aveva stabilito: è per lo meno un segno
di coraggiosa resistenza civile.
Nell’organigramma del liceo si verificano dei sostanziali mutamenti, infatti il vice preside
non è più il professore Fazzari (collocato a riposo): inizialmente il vice preside è il
prestigioso professor Comes che però viene nominato preside del liceo-ginnasio di Noto;
al suo posto subentra un docente di matematica, il professore Lugaro.
Il preside per qualche tempo si assenta dall’Istituto perché è chiamato a Roma come
componente della commissione per la promozione dei professori per merito distinto.
Nel nostro liceo prosegue l’azione dei Balilla, mentre vengono istituti per la prima volta
gruppi di Avanguardisti.
Prosegue l’istruzione religiosa fornita gratuitamente dai docenti sacerdoti (tra i quali va
annoverato padre Ernesto Paci, che, ottenuta la libera docenza di astronomia, svolse
incarichi dirigenziali negli osservatori astronomici di Catania e di Palermo).
All’alunno Vittorio Ziino il ministero per meriti speciali aveva offerto un viaggio
d’istruzione in Germania e allora la scuola, con i suoi modesti mezzi, istituisce
un’iniziativa pregevole: offre tre viaggi d’istruzione a Siracusa in occasione della
rappresentazioni classiche agli alunni Edoardo Battaglia, Matteo Sortino (per meriti
scolastici) e all’alunna Gemma Cloos, in quanto la migliore iscritta alla biblioteca circolante
degli alunni. Al viaggio d’istruzione per le rappresentazioni si aggregano anche alcune
insegnanti di altre scuole.
Dal ministero arrivano 8.000 lire di cui 5 mila vengono impegnate per l’acquisto di
materiale scientifico per il Gabinetto di Fisica.
C’è però un dato nel bilancio che fa riflettere. La scuola ha investito 8000 lire nel prestito
del Littorio, ma, occorre chiedersi se i soldi siano effettivamente arrivati da Roma, oppure
se siano arrivati fittiziamente per essere poi reinvestiti sotto forma di acquisto di titoli.
Comunque, in ogni caso, la scuola ha liberamente effettuato l’investimento sul prestito
nazionale (10.800 lire su 13.529,54 complessive del residuo attivo sono impegnate nel
prestito forzoso)
Un altro dato colpisce, soprattutto se si tiene conto delle ristrette risorse di cassa: nel
dicembre del 1926 vengono acquistate 168 copie della biografia ufficiale su Mussolini,
scritta dal giornalista Giorgio Pini e offerta gratuitamente ai migliori studenti.
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Il costo complessivo è pari a 756 lire, una cifra considerevole, pari ad esempio alla somma
totale dell’incasso ricavato dalla proiezione dei due film più gettonati quell’anno nella
stagione cinematografica del Liceo Umberto I (proiezioni alle quali partecipavano
pagando, alunni, docenti e famiglie).
Neanche gli Annuari venivano distribuiti gratuitamente, perché, se da un lato Giovanni
Gentile, con un colpo di penna, aveva stabilito l‘obbligo della redazione, era poi toccato ai
presidi trovare le risorse per finanziare gli opuscoli (si può mediamente calcolare che oltre
ai costi dei libri e alle 10 lire d’iscrizione annua, in genere, mediamente, un alunno del
nostro istituto abbia speso in quel torno di tempo, all’incirca altre 15 lire annue per
raccolte varie).
È evidente che, come per il prestito forzoso, la scuola (sarebbe interessante avere i dati
anche per altri istituti) sia stata forzosamente costretta a comprare il libro in considerevoli
quantità e che Giovanni Cupaiuolo, facendo fronte, degnamente, ad una non degna
richiesta abbia fatto ricorso ai soldi della cassa.
La scuola si abbona a prestigiose riviste: Rivista di filologia e d’istruzione classica, Rivista di
fisica e matematica, mentre dal ministero arriva in dono l’annata di una delle più belle
pubblicazioni del panorama culturale nazionale: Nuova antologia.
Altro graditissimo dono è un pianoforte che naturalmente viene subito utilizzato per i
trattenimenti del Liceo.
L’attività cinematografica prosegue in grande stile anche perché all’Istituto è stata
attribuita la funzione di Cineteca regionale delle scuole medie.
A maggio, al teatro Bellini vengono effettuate due rappresentazioni: la messa in scena
della brillante commedia di Thomas Brandon, La zia di Carlo; su iniziativa di un comitato
formato da nobilissime signore (la duchessa dell’Arenella, la baronessa Silvia Vannucci,
donna Beatrice Spadafora Lanza di Scalea), sotto la direzione del maestro Giacomo
Tantillo, docente presso il Regio Conservatorio Bellini, ha luogo un concerto in cui
suonano gli alunni dell’Istituto a favore della cassa scolastica.
Più volte tra novembre e febbraio vengono convocati consigli di classe (per la verità a
partire da quell’anno scolastico anno non si parla più di sessione dei consigli di classe o
del collegio dei professori, bensì della più cameratesca adunanza) per prendere
provvedimenti disciplinari: in particolare il 18 febbraio si riuniscono due consigli (I e II C)
e l’indomani il preside dirama una circolare.
La scuola è frequentata da 572 alunni suddivisi in 24 classi (23,83 la media degli alunni per
classe).
Viene introdotta una strana statistica mirante a censire le attività dei padri degli alunni:
138 sono professionisti (circa un quarto), 183 gli impiegati (il numero più cospicuo), 95
industriali o negozianti (che razza di accostamento!) 13 gli operai (il liceo classico era
sostanzialmente scuola d’élite discriminante) 97 possidenti o agricoltori ( che assurdità
indicare sotto un’unica voce contadini e proprietari), 20 i militari, 26 gli incerti!
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L’ Annuario del 1928
L’Annuario del 1928 contiene la bibliografia completa dei docenti dell’Istituto, davvero
rilevante sia per quanto attiene agli studi sulle discipline classiche del professore Longi
che, per esempio, ha curato uno studio sulle sopravvivenze greche nel dialetto siciliano,
sia dei numerosi studi in utramque linguam del preside, sia per quanto attiene alle
monografie del professore Longo su Verga e la letteratura dialettale, sia per i saggi del
professore Catalano sul naturalismo e l’anarchismo nella pedagogia moderna (ovviamente
è un testo scritto molto tempo prima dell’avvento del regime), sia per quanto attiene agli
studi di ambito scientifico, in primis del professore Fazzari, di don Paci e di Antonio
Colozza.
Il preside ringrazia sentitamente il professore Fazzari, collocato a riposo, elogiandone
sentitamente il maestro e l’uomo, che, come estremo atto di generosità verso l’Istituto, ha
donato alla biblioteca, che finalmente da quell’anno ha un suo locale, importanti e rari libri
e riviste di matematica tra cui spiccano i rendiconti del Circolo matematico di Palermo dal
1899 al 1919.
Il sacerdote Giuseppe Ferrante, docente di materie letterarie al Ginnasio inferiore, andava
in pensione, ottenendo dalla Curia, un significativo avanzamento di grado: da canonico
della basilica della Magione, veniva insignito dell’ambitissima carica di rettore: portandosi
dietro l’augurio del preside e l’esperienza degli anni umbertini (purtroppo morirà poco
dopo).
Il Comune finalmente aveva dipinto i locali, ma annotava il preside, il problema era
strutturale: infatti, non essendo il luogo adatto ad ospitare una scuola che soffriva di
angustie (non si potevano aprire in locali autonomi il Gabinetto di Fisica né quello di
Chimica), occorreva o disporre di nuovi locali (ma occorreranno più di trent’anni!) oppure
sopraelevare l’edifico di un piano.
Da Roma erano arrivate 2.500 lire; la scuola subiva un decremento di una trentina
d’alunni (542 ne era il numero totale); le classi erano 22 (media 24,63 alunni per classe).
Tuttavia è utile precisare che veniva completata un’iniziativa esperita l’anno precedente:
nei tre corsi si insegnavano tre lingue diverse (francese nella A, inglese nella B, spagnolo
nella C). Ci definiamo moderni, aperti alle lingue e al mondo, ma oggi nel nostro Istituto si
studia solo inglese e, parzialmente, ma in due sole classi, francese.
I trattenimenti si arricchivano, oltre alle ormai classiche proiezioni di film, di 4 concerti
musicali, tenuti e organizzati gratuitamente dal maestro Tantillo che metteva su un
complesso di archi formato da maestri tutti diplomati al Conservatorio.
Malgrado le rassicurazioni governative in materia di deflazione, nel 1928, gli Annuari
costarono per la loro pubblicazione, 500 lire in più dell’anno precedente (20% in più).
Dal Ministero arrivavano sollecitazioni a potenziare l’educazione musicale dei giovani (e
va ricordato che a cavallo tra gli anni Venti e Trenta la scuola musicale italiana, formatasi
in epoca precedente, produsse opere di notevole livello: basteranno i nomi di Alfano,
Malipiero, Respighi, Pizzetti, Casella).
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Non minori erano le sollecitazioni a tenere accurate lezioni di geografia (ovviamente per
intenti coloniali: infatti, durante quell’anno si parlò di Libia, Albania e Jugoslavia, ma
anche di America meridionale e Garfagnana). La professoressa Maria Todaro, docente di
lettere in una quinta ginnasiale, tenne una pionieristica conferenza (di cui purtroppo
manca il resoconto) sulle religioni indiane.
Stimolante pure l’argomento della conferenza tenuta dal professore Colozza: Il clima
dell’Italia nei suoi rapporti con la vegetazione.
Più volte le circolari richiamano gli avanguardisti all’obbligo di partecipare alle adunate:
il 27 ottobre i balilla e gli avanguardisti dell’Istituto partecipavano alla rivista passata da S.
E. Michele Bianchi, in occasione del quinto anniversario della marcia su Roma (ed è da
notare l’abitudine forzosa ad uscire, a riversare masse di persone in divisa, infatti non
basta più la commemorazione all’interno dell’istituto).
Ai migliori alunni vennero offerti 4 viaggi d’istruzione gratuiti ad Agrigento per le
rievocazioni classiche del 1928, mentre altri premi consistenti in abbonamenti a riviste o in
libri furono assegnati ai più bravi.
Purtroppo, sugli Annuari non si faceva più menzione dei temi assegnati agli alunni e
siamo privi di un importante rilevatore del lavoro ma anche della forma mentis dei docenti.
La probabile spiegazione consiste nel fatto che i testi, al fine di recuperare le spese di
pubblicazione, venivano venduti principalmente ai candidati esterni, un numero rilevante
di allievi, e quindi, per ragioni di spazio, diventano sempre più dettagliate le notizie
relative ai programmi, sia quelli svolti in classe sia quelli su cui vertevano le prove
d’esame, a discapito di altre notizie. I casi d’insuccesso sono in totale 176 (pari al 32,4%).
Tra i testi in adozione si segnala l’antologia della letteratura italiana di Momigliano, la
storia della letteratura dell’Allodoli, il Sommario di storia della filosofia del De Ruggiero
adottato dal professore Modica nella sezione B, mentre al triennio, congiuntamente nelle
tre sezioni, venivano adottati, per il Latino, il manuale di Bassi e Cabrini, per la letteratura
greca il testo di Vitelli e Mazzoni.
La scelta del testo scritto dal De Ruggiero va segnalata perché a quel tempo, anche se
l’illustre professore poteva vantare l’amicizia e la stima di Croce e Gentile, diventava una
scelta pericolosa, visto che l’autore era uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali
antifascisti del 1925: anche se nelle aule del nostro Liceo necessariamente entrava la gran
fanfara della retorica fascista, il pensiero liberale non era del tutto morto.
L’Annuario del 1929
Il numero di questo annuario non si trova nel nostro Istituto ma è consultabile presso la
Biblioteca Centrale Regionale di Palermo.
Il I giugno del 1929 si reiterava, ma in forma ancora più solenne, il rito della celebrazione
della memoria degli alunni caduti durante la prima guerra mondiale. L’occasione era
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offerta dal decimo anniversario dell’istituzione della lapide commemorativa.
La celebrazione commemorativa degli alunni caduti venne riproposta nella sezione che
occupa la parte normalmente dedicata agli studi saggistici. Furono raccolte le lettere degli
alunni combattenti morti sul fronte (di cui oggi non resta traccia), quindi ad ognuno dei
caduti fu intitolata un’aula della scuola.
Il preside tenne un breve discorso a carattere sostanzialmente pedagogico, rivolto agli
alunni, in cui se è vero che nella parte finale è contenuto l’elogio di un discorso del capo
del governo che ricorda i doveri del cittadino al servizio dell’interesse dello Stato, è pur
vero che il centro delle riflessioni è occupato dal celebre sermone di Pericle, pronunciato
alla fine del primo anno della guerra peloponnesiaca.
È il discorso in cui Atene è definita (e Cupaiuolo lo ricorda esplicitamente) scuola
dell’Ellade. Nella celeberrima testimonianza tucididea (che non può essere citata in questa
parte dal preside), Atene viene elogiata, non senza un sentimento di agiografico
compiacimento, come culla della democrazia che non imita ma è oggetto di imitazione:
Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più di esempio che imitatori. E poiché
essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia:
di fronte alle leggi per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto
riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in
un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale ma più per quello che vale. E per quanto riguarda
la povertà, se uno può fare qualcosa di buono per la città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale
(Tucidide, II,36,1).
Il preside, invece, ricorda come lo statista ateniese, nel suo discorso, abbia celebrato e
onorato la memoria dei combattenti caduti per la patria: in ogni caso avere preso a
modello Pericle nel discorso in cui, come ogni studente liceale di formazione classica sa
bene, viene osannata la Costituzione democratica, è una scelta coraggiosa e indipendente.
La sensazione è quella di una duplice dimensione: infatti, ogni discorso pubblico
dovrebbe diventare occasione di propaganda pedagogica in qualche misura riconducibile
all’ideologia fascista (e un preside non può scappare da queste situazioni illiberalmente
imposte), ma l’uomo di cultura, quasi a irridere la messinscena del regime, cerca, nella
base della sua cultura classica, modelli di libertà allusivamente proposti.
Si prenda infatti la parte a cui esplicitamente allude il preside in cui Pericle incorona
Atene, scuola dell’Ellade: è un passo che segna il trionfo pieno dell’indipendenza
dell’individuo:
Concludendo, affermo che di tutte le città è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente
volga individualmente la propria indipendente personalità a ogni genere di occupazione e con la più grande versatilità
accompagnata da decoro ( II, 41, 1 ).
Un autentico studioso e ammiratore della classicità non può che essere un uomo libero che
ama il bello.
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Molto interessante e ricca di informazioni è la prolusione tenuta dal professore Mauro
Muccini, docente di Lettere Italiane nel triennio della sezione C ed ex combattente.
Degli alunni caduti sono fornite notizie (spesso si trattava di militari decorati, che si erano
distinti per coraggio che, malgrado le ferite ricevute più volte, non si erano mai tirati
indietro, ritornando ad occupare la posizione in trincea). Sono pubblicate alcune foto
(quasi tutti i ragazzi indossano la divisa): per lo più gli alunni ricoprirono ruoli di
sottufficiali, sottotenenti, qualcuno tenente, uno portò i galloni di capitano, uno fu soldato
semplice. Il professore Muccini ricorda come questi giovani, anche nel momento delicato
dei combattimenti, mantennero sempre forte il loro legame d’amore col loro Liceo:
mandavano lettere, cartoline con saluti e quando si ritrovavano in Sicilia, per brevi licenze,
non mancavano mai di fare una visita a S. Anna.
Nella famiglia Giuliano, il dramma fu doppio: due fratelli, Paolo e Salvatore, ex alunni
della scuola, morirono rispettivamente sul S. Michele, nel 1915 e sull’Hermada, una collina
vicino Trieste, baluardo inespugnabile degli austriaci, nel 1917.
Forte dovette risuonare la commozione quando il relatore pronunciò queste parole:
il professore s’inchina oggi a questi magnanimi come un discepolo umile e devoto a maestri grandi.
Dalle foto, probabilmente ufficiali, di fronte a fotografi dell’esercito, emergono, a parere
mio, giovani visi seri, tirati, quasi preoccupati: sognavano l’avventura, ricorda il
professore, si trovarono invischiati nella spiacevolissima e turpe guerra di trincea.
Cattura l’attenzione il bel volto del capitano dei granatieri di Sardegna, Domenico
Palazzotto. Era un gran bel giovane, sorrideva fiero della divisa indossata: di lui il
professore Muccini riporta il frammento di una lettera, molto probabilmente scritta dopo
la rotta di Caporetto:
Che pensate costì? Cosa fa Palermo? Attende ansiosamente. Ma è l’ora di muoversi. E’ suonato il momento della grande
attività. Eppure c’è chi tenta abbattere le nostre anime, c’è chi cerca distruggere. Venite a vedere il nostro esercito, che
nobile esempio quotidiano di valore: esso è in piedi, forte come mai, pieno del desiderio di vendetta.
Morì sul basso Piave nel luglio del 1918, mentre, in testa ad un reparto d’assalto, penetrato
tra le fila nemiche, sguarnito di adeguata protezione, fu mortalmente colpito dal lancio di
una bomba.
A proposito di guerra, va ricordato che un reduce, il bidello Nicolò La Valle, gravemente
ferito in combattimento, morì a causa del fisico mutilato e molto debilitato, in quell’anno,
il 1929, all’età di 34 anni. Il preside ne traccia un bel ricordo:
La Scuola non dimenticherà il lavoratore modesto ma zelante nell’adempimento del dovere; non dimenticherà
soprattutto la grande bontà di Lui, quella bontà che gli conciliava affetto sentito e sincero.
La somma messa a disposizione dal ministero è pari a 2.500 lire: viene adoperata
soprattutto per l’acquisto di documentari e proiezioni a carattere scientifico e per
materiale didattico utilizzabile per l’insegnamento della Storia dell’Arte.
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Tra i film trasmessi dalla cineteca d’Istituto va ricordato Il fu Mattia Pascal, per la regia del
francese Marcel L'Herbier, con Ivan Mosjoukine nel ruolo di Mattia, con lo stesso scrittore
come protagonista (il 1929 è l’anno in cui Pirandello viene nominato a far parte
dell’Accademia d’Italia).
Proseguono i concerti tenuti a titolo gratuito dal maestro Tantillo, mentre viene istituito un
premio di cui beneficia Bernardo Gristina, alunno della III A, che durante la settimana
delle vacanze pasquali parte con un biglietto di seconda classe, offerto dalla scuola, per un
importo pari alla rilevante cifra di 760,55 Lire, per una crociera in Tripolitania.
Le casse dell’Istituto vengono rimpinguate con un credito pari a 14 mila lire circa.
L’Annuario del 1930
È l’ultimo annuario interamente curato dal preside Cupaiuolo che, nel settembre del 1932,
si trasferirà a Napoli. Si tratta di un volume “frettoloso” e manchevole di alcune delle
solite annotazioni: non vi compaiono infatti le indicazioni sui libri di testo, le singole
dettagliate voci di bilancio, la consistenza e i dati statistici delle classi, il catalogo delle
circolari.
Inoltre, per quanto attiene alla saggistica, essa consta di un solo apporto, il testo di una
conferenza pronunciata dal preside il 29 novembre del 1930, presso la scuola superiore
Turrisi Colonna, in occasione della cerimonia della Inaugurazione dell’anno scolastico nelle
Scuole Medie di Palermo, alla presenza di autorità civili e militari. Il fatto che a tenere
l’orazione sia stato prescelto il preside del Liceo classico Umberto è un chiaro segno del
prestigio di cui l’Istituto godeva, ma dimostra anche il personale prestigio del preside, la
cui apertura mentale, l’istituzione della cineteca scolastica, l’approdo a nuove integrative
forme di didattica, costituiva un fiore all’occhiello nell’ambito della scuola palermitana.
Fare un discorso inaugurale in un’occasione di una celebrazione pubblica ufficiale celava il
rischio della retorica e della demagogia, aspetti entrambi assai diffusi nei costumi
dell’epoca. Giovanni Cupaiuolo trova un escamotage: tiene un lungo discorso su Virgilio
del quale in quell’anno si era celebrato il bimillenario della nascita. Si badi però che il 29
novembre le celebrazioni virgiliane erano già finite, in quanto appartenevano al
precedente anno scolastico (ad esempio, nelle aule del nostro Liceo si erano tenute cinque
conferenze, a partire dal 13 febbraio e fino al 4 giugno). La commemorazione
dell’anniversario virgiliano è, in data 29 novembre 1930, un argomento vecchio: infatti, di
solito, in circostanze simili, l’attenzione s’incentra principalmente sui programmi prossimi,
le ricorrenze future su cui sarà incentrato il nuovo anno scolastico, ovviamente non
trascurando anche i dati riguardanti il passato prossimo. Incentrare l’attenzione sul già
fatto appare poco in linea con un certo attualismo giovanilistico, fatto di mete, speranze e
traguardi da raggiungere, caro all’immagine fascista di un paese in continuo progredire.
Senza mezzi termini, di fronte alla qualificata presenza di un uditorio importante, in
un’occasione simile, un oratore in linea e in sintonia con le aspettative del regime avrebbe
dovuto tessere l’elogio della scuola fascista, della rinascita della Nazione e via blaterando.
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Cupaiuolo sa che non può uscire fuori da certi canoni ma sa anche che non vuole essere il
docile strumento di una retorica falsa e patriottarda. La scelta di Virgilio, con una serie di
riferimenti filologici precisi ai testi del poeta mantovano può costituire una coperta e una
via di fuga. Parziale, però perché in quell’anno 1930, del poeta mantovano (poeta italico)
si era fatto quasi un antesignano dell’epoca fascista.
Nel discorso di Cupaiuolo i termini fascismo, fascista, duce non compaiono mai. Si parla al
massimo del fatto che grazie alle sane e sapienti direttive del Governo nazionale, è tutto un
grande risveglio di quell’idea classica che per secoli è stato l’elemento predominante della nostra
grande storia. Certo il preside sa bene che l’idea classica è un contenitore troppo eterogeneo
che si può declinare in forma laica o servile, come presa di coscienza di sé o come puro
decoro formale o addirittura come pedanteria vuota. A lui, cultore autentico, della
classicità piace prendere quella parte di buono che il risveglio di attenzione verso la
classicità poteva fornire: del resto, delle strumentalizzazioni, delle mistificazioni,
ovviamente non può parlare.
Esalta e, non è, per quei tempi, cosa di poco conto, l’ideale di pace dell’opera virgiliana e il
dolore per la guerra, infatti la sensibilità del poeta latino diventa sentimento di un dolore
universale (in controtendenza con la vulgata fascista che fece di Virgilio il cantore
dell’epico trionfo romano). Viene lodato il poeta georgico, viene elogiato il ritorno alla vita
dei campi. Qui forse è l’unico momento di cedimento, quando l’oratore dichiara che il
Governo Nazionale si orienta verso gl’insegnamenti delle Georgiche per cui si realizza la
saggia politica del ritorno alla vita dei campi con una ferrea disciplina di lavoro, con una vita
onesta e pura di coltivatori: più che un Virgilio fascistizzato, qui abbiamo un ribaltamento:,
infatti è la politica del regime ad essere rovesciata in termini bucolici. Cupaiuolo, per
niente in linea con le dottrine imperanti, propugna una tranquilla vita d’ozio, esalta la
pace e incentra la sua attenzione sul poeta del dolore universale.
D’altronde, qualche decennio prima, Giovanni Pascoli, aveva invitato i socialisti a seguire
Virgilio, a tornare a essere contadini e veri amanti della terra alla maniera del mantovano,
definendo Virgilio un prototipo di socialismo (cosa che ai socialisti appariva
assolutamente ridicola). A ognuno il suo Virgilio: d’altronde, alla luce delle Lezioni
americane di Calvino, sappiamo bene come ogni età manipoli e falsifichi i classici che,
d’altronde, sono paradigmatici per questa loro capacità di resistere ma anche di adeguarsi
flessibilmente alle manipolazioni e, in definitiva, ai bisogni che le varie generazioni
producono ed esprimono.
Con grande dignità, Cupaiuolo ha affrontato un tema non facile, in un’occasione non
semplice: il merito gli va riconosciuto in pieno se, a leggerlo a tanti anni di distanza,
l’ordito del suo discorso appare perfettamente logico e scevro da servile adulazione.
Poco altro sappiamo dall’annuario: dal ministero arrivano 2600 lire, impiegate, per lo più,
nella biblioteca. Arriva però anche l’obbligo che, ad occuparsi dei concerti, debba essere
l’opera nazionale Balilla: sicché anche in questo campo l’azione della scuola viene limitata.
Gli alunni rappresentano Così è se vi pare di Pirandello, autore organico al regime ma con
qualche sofferenza. Il testo proposto segna il trionfo del relativismo e testimonia
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l’impossibilità dell’acclaramento della verità a cui si aggiungono l’alienazione e la
parcellizzazione della psiche umane: temi non in linea con gli orientamenti del fascismo.
Un altro obbligo ministeriale consiste nel fatto che debbano essere tenute conferenze di
cultura fascista: si comincia con la commemorazione della marcia su Roma a cui in
quell’anno si aggiunge l’esaltazione della politica rurale e demografica del Regime (scritto
così con la maiuscola senza neanche il pudore dell’ipocrisia svelata), segue poi
un’interessante commemorazione della vittoria della prima guerra mondiale: il professore
Mario Muccini, docente di lettere italiane, ex combattente decorato più volte, racconta le
sue esperienze belliche.
Il 21 febbraio si svolge una conferenza su Il carattere rivoluzionario del fascismo, quindi, ad
un alunno maturando, tocca il compito di relazionare sui cinque volumi della Storia del
fascismo del Chiurco che gli erano stati offerti in premio in occasione dell’apertura
dell’anno scolastico (premio o punizione?).
Ma l’aspetto più bello è il contenuto dell’ultima conferenza (si sarebbe tentati, per il suo
carattere ossimorico di definirla una specie di satira): Il significato storico dell’opera di Cesare
Beccaria ed il progetto del Nuovo Codice Penale. Vuoi vedere che anche l’autore del trattato Dei
delitti e delle pene è un precursore del fascismo o che il giurista Rocco è un seguace dello
spirto tollerante e ostile alla pena capitale del filosofo dei Lumi? Retorica offrendo spunto
e, Ragione venendo meno (è una lezione da non dimenticare) questo ed altro in un’aula
scolastica si poté fare.
Gli Annuari del 1931 e del 1932
Nell’aprile del 1933, dopo due anni di silenzio, ritornano gli Annuari con un numero
contenente i resoconti di due annate (1930-31; 1931-2). Si notano subito alcune novità: la
tipografia è cambiata, poiché non è più quella del Boccone del povero, in cui vece sono
subentrate le Grafiche Castiglia; in basso sulla prima di copertina e poi nel frontespizio
della prima pagina accanto all’anno di pubblicazione fa bella mostra di sé il numero
romano iscritto tra parentesi (XI).
Secondo una normativa statuita il 27 ottobre del 1927, che metteva in atto una disposizione
dell’anno precedente, era fatto obbligo, in tutte le occasioni pubbliche, di indicare accanto
alla serie degli anni scanditi dall’avvento cristiano, un numero romano che si riferisse
all’era fascista (molto modestamente Mussolini si paragonava a Cristo e riteneva giusto
che la sequenza del computo degli anni dovesse essere calcolata secondo i tempi di una
nuova era scandita a partire dall’ottobre del 1922, data della marcia su Roma!). Benché
questa disposizione fosse già in vigore da alcuni anni, mai sotto la direzione di Giovanni
Cupaiuolo, una simile ridicola pagliacciata aveva avuto luogo sulle copertine degli
Annuari.
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Una nota del nuovo preside Ernesto Anzalone3, redatta a Palermo,
aprile 1933 XI
dichiara anzi, a ben vedere, non dichiara proprio nulla:
Il presente Annuario avrebbe dovuto pubblicarsi, come i precedenti, sotto la direzione del Prof. Giovanni Cupaiuolo,
preside dell’Istituto fino al 15 Settembre 1932. Trasferito a Napoli il mio egregio predecessore, al quale mando, in nome
mio e di tutta la Scuola, il più cordiale saluto e i più vivi auguri, ho voluto che si riprendesse al punto in cui egli
l’aveva lasciata la pubblicazione dell’Annuario di questo nobile Istituto.
Stimatissimo preside, ben radicato nell’ambiente palermitano dove viveva da 14 anni,
considerato un dirigente all’avanguardia, sempre citato nel merito distinto, Cupaiuolo
aveva infatti lasciato all’improvviso la direzione del nostro Istituto trasferendosi a Napoli,
forse per consentire alla numerosa famiglia (era padre di 10 figli) migliori possibilità
lavorative, in una zona del paese meno periferica.
Tra le novità del 1931 notiamo che nel consiglio di amministrazione della cassa scolastica è
entrato un rappresentante dell’opera nazionale balilla, il senatore Giuseppe Vizzini (segno
che il regime inserisce dovunque uomini suoi e fa crescere il potere e il controllo sulla
società civile delle sue organizzazioni).
C’è bisogno di dire che una nota del preside ci informa che la totalità degli allievi era
iscritta ai balilla e che si stava aprendo una sezione delle giovani fasciste a scuola?
Tra i saggi meritano una sia pur breve citazione le scelte antologiche con annesse
traduzioni dei epigrammi tratti dall’Antologia Palatina ad opera di Giuseppe Longo e la
silloge di testi umanistici latini (elegia del Poliziano ed elegie ed epigrammi di Ercole
Strozzi) assai finemente proposti dal professore Gerlando Lentini. Il reverendo Paci,
professore di matematica e docente di astronomia all’Università pubblica un ultimo saggio
(infatti, universalmente compianto, si sarebbe spento a 57 anni nel 1934) Sul moto
oscillatorio semplice.
Il numero degli iscritti, nel 1930-1, ha subito un’impennata sbalorditiva, toccando quota
711 (media 29,62 alunni per classe: oggettivamente mal distribuiti, infatti, si passa dai 7
alunni della IV C ai 44 della IC e ai 43 delle altre due prime liceali).
La spiegazione consiste nel dovere computare, oltre agli iscritti, il numero esorbitante dei
candidati esterni, molti dei quali, se ammessi, frequentano l’istituto.
Nel 1931, 390 sono i candidati esterni di cui 258 saranno promossi (è invece fortemente
diminuito il numero di maturandi esterni: sono solo 5).
I casi d’insuccesso scolastico degli interni sono 141 (19,83%).
Nell’ultimo anno di presidenza di Cupaiuolo la scuola ha raggiunto il considerevole
numero di 754 allievi (in pratica un aumento di circa il 50% in pochi anni): il preside
lamenta per l’ennesima volta l’inadeguatezza di locali troppo angusti rispetto alle esigenze
dell’Istituto.
Una direzione provvisoria e d’urgenza, che sarebbe durata un anno circa: infatti il professore Catalano,
proprio quell’anno nominato preside, sarebbe ritornato nelle aule di S. Anna come capo d’istituto nel 1933 e
vi sarebbe rimasto fino al 1943 e poi di nuovo a partire dal novembre del 1944 fino al 1947.
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L’ultimo Annuario: dal 1932 al 1935
Nel 1936, a cura di Emanuele Catalano, divenuto preside dell’Istituto nel 1933, viene
pubblicato l’ultimo numero degli annuari che racconta, tutti insieme, gli ultimi tre anni
della vita del liceo.
A partire dal 1933 viene istituita la I D e l’anno successivo la I E.
Qualche ragguaglio sull’insegnamento della religione cattolica: nel 1932- 33 troviamo la
prima donna a impartire il sacro insegnamento nel nostro Istituto; si chiamava Carlotta
Kurunis. Un altro docente (aveva 24 anni) destinato a una carriera ecclesiastica di
primissimo piano era padre Pietro Marcatajo, nativo di Caccamo, che aveva conseguito la
laurea in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma; per molti anni
avrebbe insegnato presso il Seminario Arcivescovile e le Scuole Statali. Successivamente
ricoprì molte e delicate mansioni, come quelle di Assistente della FUCI, Presidente del
tribunale Ecclesiastico Diocesano, Pro-Vicario Generale, Direttore dell'Ufficio Catechistico
regionale, membro del Consiglio nazionale per la Pastorale scolastica, Vicario Episcopale
per l'Educazione Cattolica. Protonotaro Apostolico e 1a Dignità (Ciantro) del Capitolo
Metropolitano, fu Rettore della Chiesa di S. Rosalia annessa all'Istituto delle Ancelle del
Sacro Cuore; Direttore della scuola Superiore di servizio Sociale " S. Silvia " e Presidente
dell'UNITALSI della Sicilia occidentale.
Il primo saggio intitolato L’Albania e L’Italia, redatto dal preside, si conclude con alcune
annotazioni discriminanti nei confronti degli jugoslavi, considerati inferiori sul piano della
civiltà, oppositori della crescente infiltrazione italiana nell’orbita albanese:
E lascino solo all’Italia il compito di provvedere al risorgimento spirituale ed economico della nazione albanese, poiché
soltanto l’Italia, per volere di Dio, trovasi in grado di operare il miracolo fatto da Gesù a Lazzaro.
D’altronde, in epoca di trionfalismi imperialistici e di campagne etiopiche, non c’è da
aspettarsi molto di diverso relativamente a riflessioni di politica estera.
Un altro argomento di attualità politica è presente nell’Ode del professore Giuseppe
Longo, per certi versi bella, I morti Di Bligny: si osservi la data di composizione, il 18
novembre 1935.
Nell’estate del 1918 il II Corpo d’Armata italiana si trovava a operare intorno a Reims (tra gli altri militavano
alcuni nipoti di Garibaldi e Curzio Malaparte). A partire dalla notte del 14 luglio, sulla collina di Bligny,
improvvisamente, l’esercito tedesco sferrò un attacco micidiale che costò la vita a migliaia di soldati italiani
(circa 5 mila alla fine a cui vanno aggiunti 4 mila feriti): era fondamentale non cedere e non spianare la
strada ai tedeschi verso Parigi e, seppure ridotto in malo modo, l’esercito italiano tenne. Poi, a partire dal 18
luglio, l’arrivo del contingente transalpino cambiò le sorti della battaglia.
Il 7 settembre 1934, Mussolini, alla viglia della conquista dell’Etiopia, di fronte alla ventilata minaccia delle
sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni, come per esorcizzarne il pericolo, ricordava i seimila morti di
Bligny, dicendosi certo che il generoso popolo di Francia non avrebbe sanzionato la Nazione italiana che era
venuta in suo soccorso col sacrificio dei suoi figli.
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Il clima internazionale nel 1935 era diventato ostile verso il nostro paese: ad esempio una violenta campagna
d’opinione sui giornali americani accolse in modo sfavorevole Luigi Pirandello che era andato negli Stati
Uniti allo scopo (operazione fallita, probabilmente a causa del clima antitaliano) di concludere una lucrosa
cessione di diritti con alcune majors cinematografiche americane. Il 7 novembre venivano statuite le sanzioni
all’Italia e il 18 (data di composizione dell’ode del professore umbertino) diventavano operative. Intristiti e
amareggiati i morti di Bligny, immagina il professore Longo, lasciano scoverchiate le tombe e il suolo di
Francia e marciano verso l’Italia.
Con grande delicatezza e competenza, il professore Gerlando Lentini continua la sua
erudita incursione nel latino degli umanisti, traducendo alcuni passi tratti dal De amore
coniugali del Pontano, dimostrando che, nel grande poeta napoletano, l’uso del latino non è
esercizio retorico o puro gioco letterario ma strumento vivo per esprimere, con tenerezza
di toni, gli affetti della vita familiare.
Docente di lettere greche e latine nel triennio della sezione A era il professore Corrado
Gallo la cui relazione finale viene pubblicata. A parte il fatto che nella scuola di quei tempi
si leggevano, in originale, classici in quantità straordinarie (impossibili oggi da
raggiungere), messe da parte considerazioni oggettivamente inaccettabili, come ad
esempio il fatto che l’elemento maschile riesca meglio a studiare discipline che richiedono un
impegno serio (il professore lamenta che non ci sia in tutta la sezione una sola ragazza che
si sia distinta per volontà e intelligenza contemporaneamente!), attribuita ai tempi la
discutibile attualizzazione tra Cicerone e il fascismo, entrambi portatori di ordine e
salvatori della patria, c’è un tratto di elegante e interessante annotazione sulle difficoltà
della traduzione nelle prime liceali.
Emerge un senso di profonda modernità e di attenzione estetica alla traduzione, con
particolare riguardo alla valenza che la traduzione dovrebbe avere, in un periodare
contraddistinto dal riferimento al primo canto del Purgatorio:
Nell’affrontare la traduzione [gli alunni] non si preoccupano di cogliere l’intima essenza del contenuto di una bella
pagina di prosatore, odi una mirabile lirica di un poeta, ma si fermano alla lettera, come se questa non avesse un suo
proprio valore ideologico e sentimentale, come se non rappresentasse prodigioso strumento nelle mani di un artista per
esprimere il proprio mondo interiore. Solo dopo uno sforzo martellante gli alunni riescono a disincagliare – mi si
permetta questa immagine barocca- la navicella della loro mente dalle aride secche di un filologismo primitivo ed
ingenuo, essenzialmente meccanico e mortificante, che non comunica con lo spirito al di là della materia.
Una breve scorsa a una circolare diramata l’11 giugno 1933:
In questo giorno giunge a Palermo, insieme coi membri del Consiglio nazionale del Fascismo, S. E. Starace, Segretario
del Partito. In tale occasione tutte le forze giovanili dell’opera Balilla, appartenenti al nostro Istituto, in perfetta divisa,
inquadrati da tutti i Professori della Scuola, si recano allo sbarcadero di S. Lucia, per accogliere gli eminenti personaggi.
Mi sia consentito di concludere queste note, riproponendo una riflessione di Giuseppe
Antonio Borgese, nativo di Polizzi Generosa, professore di Estetica a Milano, più volte
“visitato” dalle squadre fasciste, mentre faceva lezione (era liberale e aveva scritto sul
Corriere della sera diretto da Albertini). Per non giurare fedeltà al regime, nel 1931 emigrò
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negli Stati Uniti, sposò la figlia di Thomas Mann e, nel 1937 scrisse Golia-marcia del fascismo
in cui paragonava l’intera nazione a una scolaresca guidata dal maestro cattivo, il maestro
di Predappio, Benito Mussolini:
“Oggi tutta l’Italia, una nazione di più di quaranta milioni di abitanti, non è che una classe elementare, dove tutti dal
re e dai professori d’università fino al rozzo contadino, sono stati rimessi in calzoncini corti, a sillabare in coro le parole
che il maestro nero ha scritto sulla lavagna. Ai bambini, quando sono disubbidienti, si può infliggere una punizione
corporale; lo stesso, in fondo, si può fare con gli adulti”
Bernado Puleio
docente di Italiano e Latino
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IL LICEO UMBERTO DA UN ANNO ALL’ALTRO - TRASFORMAZIONE
DELL’IMPEGNO QUOTIDIANO DI CIASCUNO IN CONTRIBUTO
ALLA CRESCITA DELLA CITTÀ DI PALERMO
di Maria Butera
Il 1 settembre 2011 nel nostro Liceo si è verificato un cambio al timone della dirigenza
scolastica.
La figura del Preside, termine che io continuo a preferire e ad amare, è stata sempre
importante per la vita di ogni scuola, ma, da quando è entrata in vigore la normativa
sull’autonomia scolastica, il dirigente si muove con maggiore libertà nella gestione
amministrativa e didattica, determinandone anche, in un certo senso, la “rotta” .
Nei precedenti dieci anni e mezzo il Liceo Umberto è stato diretto da Antonio Raffaele con
competenza e professionalità: la sua dichiarata formazione salesiana gli ha sempre fatto
porre il benessere degli alunni, sotto ogni aspetto, al centro delle sue preoccupazioni e del
suo impegno di Preside.
Il nuovo dirigente, Vito Lo Scrudato, all’inizio del suo mandato, ha voluto rassicurare
tutti, dichiarando più volte che era sua intenzione muoversi secondo il criterio della
continuità, sia della lunga e prestigiosa storia del Liceo Umberto, sia di quella più recente
che era stata posta in essere dal suo egregio predecessore.
È ovvio però che la personalità, la sensibilità, l’impostazione culturale di ciascuno di noi si
riflette nei comportamenti ed anche nelle scelte all’interno del proprio lavoro.
Pertanto il nostro nuovo preside ha focalizzato l’attenzione su due priorità poste al centro
della sua azione: anzitutto ha privilegiato il potenziamento dello studio delle discipline
scientifiche che costituiscono l’area culturale prescelta da molti dei nostri studenti nel
proseguimento degli studi di ambito universitario, a cui, d’altronde, si raccorda una
maggiore attenzione all’orientamento in uscita per indirizzare, nella maniera migliore, i
nostri alunni verso sbocchi occupazionali più confacenti alle loro potenzialità.
Uno dei desideri che il dirigente ha formulato, con grande sensibilità e pertinacia, consiste
nel riprendere la tradizione della pubblicazione de “Gli Annali del Liceo Umberto”,
interrotta nel 1935. Rileggere gli Annali precedenti consente di entrare nella vita del Liceo
di altre epoche: il resoconto dell’attualità di “ieri”, oggi è, per noi, anche, fonte
preziosissima per conoscere la storia.
Mi permetto di tracciare, schematicamente, alcuni ragguagli sulle attività di formazione
(rivolte agli insegnanti come anche agli alunni), durante l’anno scolastico 2011-12, presso il
nostro liceo.
Nell’ambito dell’attenzione alla formazione dei docenti, si è svolto un corso di
aggiornamento dal titolo ”La didattica dei saperi tra competenze, discipline e valutazione
nell’attuale contesto pedagogico”.
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Si è svolto poi un corso sulla leadership scolastica rivolto principalmente agli insegnanti ed
anche al personale Ata. L’obiettivo è consistito nel fare acquisire competenze trasversali su
tematiche connesse alla partecipazione e alla gestione della vita della scuola.
Infine, il prof. Francesco Sabatini ha parlato agli insegnanti del tema: ”Produttività e
semplicità della grammatica valenziale e sua applicazione all’analisi dei testi”.
Ovviamente, notevole attenzione è stata rivolta agli alunni: si è mantenuta l’iniziativa di
fare conseguire, a chi lo volesse e ne avesse i requisiti, la patente per il ciclomotore,
tenendo il corso a scuola.
Alcune classi ginnasiali hanno potuto seguire un corso di nove ore di educazione stradale
tenuto dal reparto di Polizia competente del settore.
Si è riproposta l’opportunità di fruire del “Pronto soccorso didattico” per diversi mesi,
offrendo spiegazioni e sostegno agli alunni in difficoltà in diverse materie. Al termine del
primo trimestre si sono attivati i corsi di recupero per gli alunni che avevano mostrato
lacune in Latino, Greco, Inglese, Scienze, Matematica.
In occasione della “Giornata della memoria” si è data l’opportunità agli alunni del
ginnasio di riflettere sul dramma dello stermino degli ebrei vedendo il film “Joana che
visse nella balena” mentre, gli allievi liceali hanno assistito alla proiezione di “ Train de
vie”.
All’interno del POF si sono realizzati tanti progetti, molti dei quali si ripropongono già da
diversi anni, ne cito solo alcuni: shiatsu, informatica, scacchi arte e musica, mitopsicologia,
laboratori di pallamano, pallavolo e ginnastica e poi, in linea con la volontà di potenziare
gli studi scientifici, si è stimolata la partecipazione alle Olimpiadi di Matematica e di
Fisica.
Il professore Gianvito Graziano, presidente nazionale dei geologi, ha parlato gli alunni del
grave problema dei frequenti disastri geologici in Italia.
Il giornalista sportivo Nando Sancito ha intrattenuto gli alunni delle seconde liceali sul
tema: ”Il potere dei senza potere - storie di uomini alle olimpiadi di Hitler”.
Si sono acquistate tessere per consentire la partecipazione degli studenti alla stagione di
prosa del teatro Biondo ed a quella di lirica del teatro Massimo.
Il giornalista Angelo Scuderi ha tenuto una conversazione per gli alunni di prima liceale
su: ”Informazione e comunicazione - il dna delle notizie”.
Si è pubblicato un bando per ricordare il nostro alunno illustre Giovanni Falcone.
L’iniziativa è rivolta a tutte le scuola medie superiori della città e della provincia, invitate a
mettere in scena una rappresentazione teatrale sulla legalità, in generale, o sulla figura del
magistrato ucciso in particolare.
Si è data attuazione a tutti i PON che erano stati approvati nell’anno precedente e si è
portato a compimento, con notevole fatica, il POR “Legalmente”. Vista la complessità di
attuazione del progetto, il dirigente ha dovuto chiedere ed ottenere la proroga. Il percorso
si è articolato in varie fasi: seminario di storia, laboratorio di narrazione, laboratorio di
informatica per alunni ed adulti, laboratorio di teatro che si è concluso con la messa in
scena di una rappresentazione dal titolo ”La legge ed il sentimento” che consta di
un’antologia di passi tratti da Eschilo, Sofocle ed Euripide ( questo spettacolo sarà messo
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in scena anche in un liceo di Parigi). Si è realizzato anche un coro drammaturgico teatrale
che si esibirà anche in un liceo di Parigi.
Orientamento in uscita:
Il collegio universitario Arces ha tenuto una conferenza di orientamento e con la stessa
associazione si è stilata una convenzione.
Si è promossa la partecipazione alla manifestazione “Orientasicilia 2011”.
Gli alunni di terza liceale hanno incontrato l’Associazione diplomatici: due nostri studenti
hanno partecipato ai Model United Nations a New York, dove hanno simulato il
meccanismo di funzionamento degli organismi operanti nelle Nazioni Unite.
Il 22 febbraio 2012 si è svolta una giornata di orientamento rivolta a tutti gli studenti delle
terze liceali dell’istituto. Si sono tenute conferenze da operatori di varie università a cui ha
fatto seguito la visita, in palestra, di varie postazioni di orientamento specifico.
È stato realizzato un corso di educazione bancaria e finanziaria affinché le scelte
economiche degli alunni potessero essere fatte con una consapevolezza maggiore.
Le forze armate sono state presenti nel nostro liceo per presentare gli aspetti più
caratteristici della carriera militare ed i vari corpi dello stato come possibili realtà per uno
sbocco lavorativo.
Grande impulso si è dato anche all’orientamento in entrata. Si sono svolte tre giornate di
apertura della scuola, due in centrale ed una in succursale, perché gli studenti che
frequentano la terza media potessero conoscere, a fondo, l’offerta formativa del nostro
liceo; i colleghi impegnati nel settore hanno fatto un’azione capillare in tutte le scuola
secondarie di primo grado della città e della provincia ed il risultato ha premiato la bontà
dell’azione intrapresa, segnando una significativa crescita nel numero degli iscritti in
quarta ginnasiale per il prossimo anno.
Nella logica del rispetto della tradizione consolidata negli ultimi anni, il preside ha
consentito che si svolgessero il cineforum e le feste serali. Si è anche ripreso lo svolgimento
della “Settimana degli studenti”, mantenendo inalterata la didattica antimeridiana e
consentendo l’attuazione nel pomeriggio di iniziative culturali, sportive ed anche ludiche.
Attenzione è stata riservata anche alle problematiche sociali: si è continuato a consentire a
due associazioni, che si occupano della donazione del sangue, di essere presenti per
sensibilizzare i nostri alunni sull’importanza di tale gesto di solidarietà.
Si è tenuta una conferenza sulla prevenzione della talassemia, si è consentito all’Ail di
spiegare i tumori del sangue agli alunni delle prime liceali e poi si è data la possibilità di
vendere a scuola le uova pasquali; il cui ricavato è stato impiegato per i fini
dell’associazione che consistono nella ricerca e nel sostegno alle famiglie degli ammalati
che vivono lontano dalle sedi degli ospedali dove vengono ricoverati i loro congiunti.
Nella stessa logica di attenzione a chi è in difficoltà, si è stipulata una convenzione con
l’associazione Cilla per consentire a giovani parenti di degenti lontani per lunghi periodi
dalla loro residenza abituale per interventi chirurgici e/o terapie, di frequentare
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temporaneamente la nostra scuola ,evitando un’interruzione didattica di durata
considerevole.
È stato presentato ad alcune seconde liceali il Banco alimentare che provvede a livello
nazionale a fare arrivare cibo agli indigenti.
I viaggi d’istruzione si sono svolti scegliendo come mete Praga per le terze liceali,
l’Umbria per le quinte ginnasiali e si è confermata la partecipazione alle rappresentazioni
classiche di Siracusa.
Rapporti scuola-famiglia: si è attivato il servizio Scuolanet per far conoscere ai genitori
tramite Internet, assenze, voti degli scrutini, certificati dei propri figli.
Valorizzazione della succursale: vi si sono svolti due concerti, in occasione
dell’approssimarsi del Natale e a Carnevale nei quali la prof.ssa Romina Copernico ed il
suo gruppo hanno egregiamente suonato l’arpa celtica.
Attenzione agli edifici ed agli strumenti: uno dei primi interventi del dirigente è consistito
nel far liberare sia la sede di via Parlatore sia la succursale della gran mole di materiale
ormai inutilizzabile accumulatosi. Nella sede della succursale è stato realizzato il
potenziamento dell’impianto elettrico; infatti i lavori per potenziare la quantità di energia
erogata si erano interrotti e ciò impediva il funzionamento delle pompe di calore. Presso la
sede centrale è stata inaugurata “La sala benessere”, dotata di attrezzature per il fitness,
fruibile da tutte le componenti della scuola.
Come si può facilmente osservare, è stato un anno molto ricco di iniziative di vario genere:
una struttura così articolata e complessa come la nostra scuola può funzionare bene solo
con il concorso di tutte le componenti, ognuna delle quali deve fare la sua parte fino in
fondo, altrimenti il meccanismo si inceppa; sicuramente però chi la dirige ha un ruolo
determinante perché si può scegliere di “rimanere a galla”, continuando a ripetere
stancamente soltanto ciò che si è sempre fatto, oppure si può mantenere in vigore tutto ciò
che di buono si è realizzato, cercando, sempre, però di migliorare l’offerta formativa e la
qualità della vita di chiunque operi all’interno dell’istituto.
L’anno che ci accingiamo a concludere è il mio trentunesimo di insegnamento in questa
scuola, Ho visto avvicendarsi sei presidi e sono grata ad ognuno di loro, dal primo
all’attuale prof. Vito Lo Scudato, di avere sempre cercato di profondere il meglio delle
proprie energie fisiche e culturali perché il nostro amatissimo liceo continuasse a
mantenere alta la sua ormai più che centenaria tradizione di scuola al servizio della città,
di scuola che ha formato generazioni di giovani che hanno ricoperto successivamente
cariche di altissimo livello in tutti i settori possibili, anche al di fuori dell’Italia e
dell’Europa, mantenendo sempre forte il senso di appartenenza umbertina e dando così
lustro al nostro vetusto e sempre giovane Liceo Umberto I.
Maria Butera
Prima Collaboratrice del Dirigente Scolastico
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Identità e ricordi di un umbertino ottantenne
di Francesco Paolo Magno
Considero e chiamo “umbertino” chi, per motivi di studio o per motivi di lavoro, ha trascorso
una parte notevole della sua vita dentro la comunità del Ginnasio-Liceo statale "Umberto I"
di Palermo. Sottolineo, inoltre, che l'identità di una persona dipende non solo dalla storia della
sua famiglia, ma anche dagli ambienti (luoghi e comunità), in cui gli è accaduto e gli accade di
vivere la sua vita, per periodi lunghi o brevi.
Io ho vissuto la mia vita dentro la comunità del Ginnasio-Liceo "Umberto I" nei seguenti
periodi:
·
·
·
·
·
·
nell'anno scolastico 1944-1945
negli anni scolastici 1947-1948 e 1948-1949
negli anni scolastici 1949-1950,1950-1951, 1951-1952; allievo
nell'anno scolastico 1963-1964; docente
a partire dall’anno scolastico 1983-1984 fino al 1988; come genitore
anno scolastico 1988- 89, come ispettore
ANNO SCOLASTICO 1944-1945
Nell'anno scolastico 1944-1945 frequentai la prima classe ginnasiale, nella sede,ubicata allora in
piazza Croce dei Vespri. L'edificio della scuola si affacciava, in larghezza, sulla via e sulla
piazza, intitolate a S. Anna : esso mostrava le ferite provocate dal bombardamento del I marzo
1943, durante il quale, un docente di Scienze naturali fu colpito a morte, mentre il Preside, il
prof. Emanuele Catalano,un valoroso pedagogista, fu gravemente ferito (a lui fu riconosciuta in
seguito un'invalidità civile permanente. Anche una delle figlie del prof. E. Catalano, la prof.
Laura Catalano, fu Preside di Istituti scolastici così come Preside fu anche il genero, il prof.
Giuseppe Nicosia).
Ricordo che in diverse aule dell'edificio l'accesso era impedito da due ruvide sbarre di legno
disposte diagonalmente nel vano della porta non più esistente. In una di queste aule
inaccessibili era visibile, nel pavimento avvallato, un ampio foro, causato dalla caduta di una
bomba.
Nell'anno scolastico 1944-19415 la prima delle cinque classi ginnasiali equivaleva a quella che
poco dopo divenne la prima classe del triennio di Scuola media. Infatti, già nell'anno scolastico
successivo, cioè nel 1945-1946, io e i miei compagni, insieme con il nostro docente di Lettere (il
burbero prof. Giuseppe Rindone, che spesso impiegava quattro ore consecutive, per esporre la
lezione di Storia, e riusciva a mantenere sempre desta la nostra attenzione), fummo trasferiti in
un vecchio edificio di via Celso, dove funzionava la Scuola media nella sua nuova struttura.
Preside della Scuola media di via Celso era il prof. Gherghi.
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ANNI SCOLASTICI 1947-1948 e 1948-1949
In questi due anni scolastici frequentai prima la classe IV, e poi la classe V del Ginnasio, nella
sede di via Valverde. Le classi liceali funzionavano, invece, nella sede centrale di piazza
Croce dei Vespri. In quegli anni l'Istituto "Umberto I" ebbe a Partinico una succursale, che
divenne in seguito un Liceo autonomo (il Liceo classico "G. Garibaldi"). Il Preside, prof. Francesco
Lo Iacono, dopo essere stato rinchiuso, per la sua precedente militanza di fascista, nel campo di
concentramento di Padula, era stato reintegrato nelle sue funzioni: egli aveva affidato la guida
della sede di via Valverde alla prof. Carola Lo Forte Comandé, che, essendo una donna alta e
bella, era da noi adolescenti chiamata con uno specioso appellativo: “A bona forti”.
Nelle due classi del Ginnasio ebbi come docente di Lettere (Italiano, Latino, Greco, Storia, e
Geografia) la prof. Gaetanina D'Anneo, brava, ma dal carattere mite e timido. Ricordo che,
quando, nel giorno fissato per una prova scritta di Italiano, ci presentammo storditi e rattristati
per il disastro di Superga (in cui erano periti tutti i calciatori del Torino di Valentino Mazzola), la
prof. D'Anneo ci assegnò, come tema da svolgere, l'esposizione dei sentimenti e dei pensieri,
suscitati in ciascuno di noi da quell'infausto evento: fu un luminoso esempio di empatia tra
docente e alunni.
La docente di Francese, la prof. I. Aiello, se un allievo pronunziava in modo improprio la
congiunzione quand, ci ripeteva, con ironia, che Kant era un filosofo tedesco. Noi, per ridurre
il tempo, durante il quale l'insegnante esercitava la sua severità nei nostri confronti, le
chiedevamo (proprio all'inizio della lezione) di poter ripetere collettivamente il "Padre nostro" e
1’"Ave Maria": la prof. L. Aiello acconsentiva, e la ripetizione di queste due preghiere divenne
il rito iniziale di ogni lezione di Francese.
Negli anni '80 del Novecento seppi che la prof. L. Aiello era ricoverata in un ospizio per vecchi
(a Palermo, in via Enrico Albanese),e che rimaneva giorno e notte a letto, in preda alla paralisi.
Andai a visitarla: l'incontro, contrariamente alle mie aspettative, fu molto asciutto e totalmente
asettico.
Nell'anno scolastico 1948-1949, al termine delle lezioni, sostenni gli esami di Licenza ginnasiale.
Allora, se la prova scritta di Italiano fosse risultata insufficiente, non si era ammessi alla prova
orale di quella disciplina, e si era obbligati a sostenere nuovamente, nella sessione autunnale, la
prova scritta di Italiano; se questa era superata, finalmente si poteva sostenere anche la relativa
prova orale.
Nella prima sessione di esame come prova scritta di Italiano ci fu assegnato il compito di
commentare alcuni versi di un poeta italiano : "Il carro oltrepassò colmo di fieno, e ancor ne
odora la silvestre via. Fai tu come quel fieno: lascia buona memoria, anima mia". Commissario
di Lettere in quell'esame di licenza era la prof. Giuseppina Di Giorgi. Un ricordo mi lega alla
figura della prof. Di Giorgi. Accadde che, durante lo svolgimento delle prove orali dei miei
compagni, io fossi presente nell'aula della Commissione d'esame, avendo in mano un libro, che
riproduceva il testo greco del "Nuovo Testamento" (precisamente il testo greco del manoscritto
Vaticano n.1209, curato e tradotto in inglese da Benjamin Wilson). Si trattava del libro intitolato
"DIAGLOTT" e a me regalato da Iris Donnelly, una giovane americana, che faceva parte del
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gruppo di Testimoni di Geova, giunti a Palermo e operanti in un appartamento di via
Ludovico Antonio Muratori (nelle immediate vicinanze di via Salvatore Salomone-Marino,
dove abitava la mia famiglia). La prof. Di Giorgi mi chiese di farle vedere il libro, che avevo in
mano, e, avendo notato che si trattava di una pubblicazione non ortodossa, mi invitò ad andarla
a trovare in piazza Pretoria nella sede delle suore di S. Caterina, che la ospitavano, essendo essa
di Giuliana.
ANNI SCOLASTICI 1949-1950,1950-1951, 1951-1952
In quegli anni scolastici frequentai le tre classi del Liceo nella Sez. C. Come he già detto, le classi
liceali funzionavano nella sede di piazza Croce dei Vespri.
Le alunne entravano dal piccolo ingresso, che si affacciava su questa piazza, e le loro aule si
trovavano nella parte sinistra dell'edificio, in cui era severamente proibita la presenza anche
momentanea di un alunno (noi dicevamo che la parte sinistra dell'edificio era il gineceo
dell'Istituto). Gli alunni entravano dal grande portone, che sorgeva nell'atrio interno e le nostre
aule erano ubicate nella parte destra dell'edificio: la divisione dei sessi era assoluta e inviolabile.
ANNO SCOLASTICO 1963-1964
In quest'anno scolastico ricevetti l'incarico di insegnare l'Italiano, il Latino e il Greco in due
prime classi liceali, istituite ex novo (la I liceale della sez. E, e la prima liceale della sez. F). Per
l'intero anno scolastico 1963-1964 fu mio alunno Salvatore Provenzani, che, divenuto adulto, fu
prima docente e autorevole sindacalista della Scuola, e, successivamente, Preside dell'Istituto
tecnico statale "Don Luigi Sturzo" di Bagheria.
Durante la mia supplenza nella classe I della sez. B ebbi come alunni Salvino Mazzamuto e
Memi Salvo, il primo era figlio del prof. Pietro Mazzamuto, il secondo, del prof. Franco Salvo.
Nella storia del Liceo "Umberto I" Pietro Mazzamuto e Franco Salvo sono due figure
indimenticabili; accanto a loro, insigni maestri di formazione giovanile furono i professori
Renzo Lo Cascio, Gaetano Giafaglione, Corrado Gallo, Salvatore Russo, il sacerdote Pietro
Marcatajo, Ignazio D'Aiello, Salvatore Onufrio....).
Nei primi mesi dell'anno scolastico 1963-1964 mi capitò di assistere, diverse volte, ai ridicoli,
infantili screzi tra il prof. Corrado Gallo (ordinario di Latino e di Greco nelle classi liceali della
sez.D) e il prof. Rosario Pontorno. Io arrivavo assai presto nella sede del Liceo e andavo a
sedermi nella sala dei professori. Anche il prof. C. Gallo e il prof. R, Pontorno arrivavano
presto, e ogni volta accadeva una scena da teatro comico. Dei due docenti quello che arrivava
prima raccoglieva alcuni fogli di carta straccia, e, attraverso la fessura superiore dello sportello,
li cacciava a forza nell'armadio del collega, che ancora non era giunto. Non so quale fosse la causa
di questo comportamento: c'era fra i due docenti un sentimento di reciproca, incontenibile
gelosia?
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ANNI SCOLASTICI 1983-1984.1984-1985,1983-1986,1986-1987 e 1987-1988
In questi cinque anni io e mia moglie (la dott. Maria Felicia Crapisi) fummo presenti in seno alla
comunità del Liceo "Umberto I", quali genitori della nostra unica figliola, Ada Magno, allora
alunna nelle classi (ginnasiali e liceali) di questo Istituto. Allora io, mia moglie e mia figlia
occupammo non gli spazi, che erano previsti dalle norme scolastiche sugli organi collegiali, ma
quelli che ci erano suggeriti e dettati dalla nostra formazione.
ANNO SCOLASTICO 1988-1989
Dall'anno scolastico 1983-1984 (dopo essere stato, per quattro anni, Preside incaricato del Liceo
scientifico statale di Corleone) ero divenuto Ispettore della Scuola secondaria superiore (nel
Settore linguistico- espressivo/ settore Materie letterarie) e fin dall'inizio avevo ricevute l'incarico
di Coordinatore della Segreteria ispettiva siciliana.
Nell'anno scolastico 1988-1989 mi fu affidato un incarico assai delicato. Le classi liceali della sez.
D dell' "Umberto I" erano considerate, allora, le più prestigiose e le più appetibili dell'intero
Istituto, e, tuttavia, in quell'anno scolastico era accaduto un fatto imprevedibile: numerosi
genitori di alunni e di alunne della classe II, sez, D, denunziarono l'anomalo comportamento di
un docente. Tra i genitori di quegli alunni e di quelle alunne c'erano figure assai rappresentative
della città: due alti Magistrati, il dott. Paolo Borsellino e il dott. Luigi Croce, l'amministrativista,
prof, Guido Corso, e altri docenti dell'Università di Palermo.
Il Provveditore agli Studi di allora, il dottor Natale Betta, affidò a me l'incarico di svolgere le
necessarie indagini. Lo svolgimento delle indagini mise in luce l'esistenza di un disagio assai
acuto nella classe II della sez. D, con gravissime conseguenze sulla salute psichica dei discenti.
L'Amministrazione scolastica provvide, trasferendo in un altro Istituto il docente inquisito.
Ricordo che alcuni funzionari della Sovrintendenza scolastica regionale della Sicilia (nella cui
sede noi Ispettori eravamo ospitati) commentarono con ironia il fatto che il giudice, il dott. Paolo
Borsellino, venisse a trovarmi, per i necessari colloqui, trasportato da una macchina blindata e
scortata da numerosi poliziotti. Se si pensa a quello che avvenne successivamente (la strage di
via D'Amelio), l'ironia di quei funzionari risulta gratuita e ingenerosa. Durante la mia vita ho
constatato che la maggior parte dei Siciliani, che sono forniti di istruzione, lasciano solo e
incompreso chi si batte per la Giustizia. Questa gente istruita ubbidisce al principio del "quieta
non movere": essa ignora (o dimentica) che in parecchi punti del Vangelo è detto apertamente
che "necesse est ut scandala eveniant".
Quando ho deciso di scrivere un articolo per il primo numero degli Annali del Liceo classico
statale "Umberto I" di Palermo, era mio intendimento individuare e indicare quelle esperienze e
quegli eventi, che, vissuti da me in seno alla comunità di questo Istituto scolastico, hanno
contribuito a formare la mia identità di uomo e di educatore.
Dopo la lunga carrellata di ricordi mi accorgo che è impossibile soddisfare in questo articolo il
mio originario intendimento. Se mi accadrà di scrivere ancora sugli Annali del Liceo "Umberto
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I", è probabile che riesca a realizzare il mio primo desiderio. Per ora mi basta ripetere, insieme
con il poeta Virgilio: "sat prata biberunt".
Franceso Paolo Magno
Ispettore Scolastico
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MEMORIE DI UN "UMBERTINO"
di Paolo Allegra
Correva - eccome, se correva... - l'anno del Signore 1968. L'estate era calda, come al solito,
ed io con altri compagni trascorrevo i giorni assolati e le notti afose sui libri, per preparare
la maturità. Quella di una volta, intendiamoci, con quattro scritti e tutte le materie agli
orali, compresi i programmi dei due anni precedenti. Il terremoto del Belice ci aveva
"graziato" ed all'ultimo momento ci era stato comunicato che avremmo preparato solo i
"riferimenti" agli anni precedenti: una sorta di estratto dei programmi. Ma l'ansia di
quell'esame pungeva assai più delle zanzare.
Poi, finalmente, i fatidici giorni. Ed infine la tanto agognata maturità. Era la fine di
un'avventura, eravamo maturati, eravamo "maturi", finalmente adulti, pronti al grande
salto verso l'Università, verso le professioni, verso la vita produttiva.
L'avventura era iniziata cinque anni prima, il primo di Ottobre del 1963. Una generazione
di studenti invadeva le classi dell'allora nuovissima sede scolastica del "Liceo Ginnasio
Umberto I" che prendeva il posto della storica sede di Piazza S. Anna.
Per me il Classico era una scelta praticamente univoca: Papà, Mamma, Zii, Cugini, tutti al
classico. Figuriamoci se poteva immaginarsi altra destinazione. E, d'altra parte, ero, come
sono ancora, pienamente convinto che non esista altra scuola per costruire un sapere
poliedrico, completo, solido. Avevo già imparato a leggere il Greco con un cugino più
grande, anch'esso Umbertino: mi intrigava questa Lingua così armoniosa, complessa,
elegante. Sapeva di mistero, di scienza, di filosofia, di arcano, di poesia, di musica.
Gli anni passarono sereni fino all’ultimo anno. Nessuna materia fu un vero e proprio
scoglio. Si andava a scuola con i libri sottobraccio, chiusi da una fettuccia elastica rossa o
verde con gancio metallico. La scuola era ancora troppo pregna di valori per avere bisogno
della enorme quantità di libri di ora. Allora bastava un piccolo libro per ogni materia, al
resto provvedeva l’insegnante con la sua robusta preparazione.
A ricreazione si usciva sulla Via Parlatore e si andava al bar. Venne poi l’epoca del pane e
panelle. Era il primo liceo e divenne tradizione fiondarsi a comprare il panino alla stazione
Lolli e consumarlo sul marciapiede della stessa nel breve tempo concessoci per la
ricreazione. Ciò durò ininterrottamente per tre anni. Fino alla chiusura della scuola, nel
mese di giugno del 1968.
Negli anni del Ginnasio mi sembrava di essere ancora uno studente di scuola media, solo
più evoluto. Il Classico era la scuola di élite per eccellenza. Gli altri, quelli che élite non
erano, andavano altrove. Ma non era un'élite economica o sociale, o meglio non era solo
quella; era un'élite culturale, quella che capisce la differenza tra le cose. La grande svolta
avvenne col passaggio al Liceo. Fu lì che incontrai quelli che avrebbero impresso un segno
indelebile nella mia vita. Un segno che porto con me ancora oggi che, superata la fatidica
soglia dei sessanta, ho conosciuto tanti aspetti più o meno belli dell'esistenza. Un segno,
tanti segni, che mi hanno permesso di affrontare gli studi universitari e la professione di
Architetto, ma soprattutto, mi si creda, mi hanno permesso di affrontare anche la vita.
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È proprio così: io ho imparato a vivere sui banchi di questa gloriosissima Scuola. E me
l'hanno insegnato i miei Venerati Maestri che non mi insegnarono solo il Latino o il Greco,
la Storia o la Filosofia, l'Italiano, la Matematica, la Fisica. No: mi insegnarono cosa, dentro
ognuna di queste materie, mi poteva aiutare a discernere, a capire, a decidere. Mi
insegnarono a vivere. Si chiamavano:
·
·
·
·
·
Serafina Drago (Italiano) che declamava Dante ad occhi chiusi e con aria ispirata, che si commuoveva alle
lacrime parlandoci di Ungaretti, che vibrava di entusiasmo leggendo il Manzoni…
Gioacchino Melazzo (Latino e Greco) che spezzava le sigarette a metà in classe per fumare meno, che ci
rimproverava pesantemente in siciliano se la versione andava meno bene del previsto (del tipo "Allegra, ma
chi-ffai, cugg…? Aieri pigghjiasti setti e stavota pigghji rui?"), che era sempre disposto a reinterrogarci se non
eravamo preparati, che si adirava ferocemente, ma poi ci raccontava delle barzellette (divertenti) per
sdrammatizzare l'accaduto.
Nino Modica, che ci fermava con un gesto della mano se la nostra risposta all'interrogazione non
corrispondeva alla sua impostazione metodologica: "… il Discorso, Allegra, il Discorso…" ovvero: "… dove vai?
Porto pesci…" a voler dire che la risposta e la domanda non si corrispondevano.
Gerolamo Monaco (Matematica e Fisica), di aspetto aristocratico, con la sua inconfondibile pelata e con
un ineffabile sorriso ad illuminare il suo faccione tondo; era un classico che le sue ore fossero a seguire quelle
di Storia o di Filosofia e lui pazientava fuori dall'aula cinque, dieci minuti. Poi, quando non ne poteva più, si
affacciava alla porta e si rivolgeva al Collega con la frase "Ci sei tuuuu?" E noi, giù, a ridere come matti.
Padre Neri, gesuita di grande spessore, capace di capire e di guidare spiritualmente l’incipiente temperie
sessantottina.
Non li ho chiamati Professor Tale, Prof. Talaltro. Semplicemente perché sarebbe stato
come confinarli entro un ruolo. Non erano un ruolo: erano, furono, Maestri di scienza ma
soprattutto di Vita. Ed oggi che tutti sono nel Mondo dei Giusti, ogni volta che la memoria
corre a Loro, sospinta da un ricordo condiviso con vecchi compagni o con me stesso, o da
una citazione, o dalla pagina di un libro, non posso non chinare la testa davanti alla
grandezza dell'insegnamento che mi hanno impartito.
Forse non ricordo più molto bene Leibniz, forse non so più tradurre all'impronto Tacito,
forse ho dimenticato le formule di prostaferesi (anche se devo dire, a mia discolpa, che
leggo volentieri in greco i Tragici o i Lirici) ma non dimenticherò mai tutto il resto: i
contenuti più profondi del Loro insegnamento, la saggezza e l'umanità che ci donarono e
che ci insegnarono a donare.
Furono anni bellissimi, di una bellezza crescente, a mano a mano che ci si avvicinava alla
conclusione del percorso. Il più bello, e quello che ricordo meglio, fu il terzo liceo, la mitica
“terza E”, che si concluse con la Cena di Addio il 1° giugno 1968. La organizzammo,
presso il Ristorante “Al Gabbiano” di Mondello, Renato Lo Porto ed io, assieme
all’onnipresente Daniela Paladino. Renato disegnò i segnaposti personalizzati, con il nome
accompagnato da una caricatura o da un simbolo che lo rappresentasse.
Scegliemmo il menu, ma non ricordo proprio più quale fosse stato… organizzammo la
regia dell’Evento ed il protocollo dei posti a tavola. Sul lato lungo in riva al mare ci
ponemmo noi, i “migliori”, con le ragazze più carine. Sul lato opposto, gli altri, ovvero
quelli che non avevano dato alcun contributo all’evento e le ragazze meno carine.
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Va da sé che la prima tavolata era di Prima Classe, tutti abbastanza comodi, mentre gli
altri stavano un po’ più stretti. Il posto d’onore lo ebbe il Preside con la sua gentile
Consorte, c’erano poi il professore Modica e Signora, Monaco, Billitteri, la supplente di
Italiano. Mancava solo Melazzo, assente forse per un lutto familiare.
Agli angoli presero posto “Quirino” e “Crispino”. Ala fine della cena leggemmo un peana
in rima, scritto su preziosa pergamena, nel quale prendemmo bonariamente in giro i nostri
Professori, ognuno col suo piccolo vizio o la sua caratteristica peculiare. Per chiudere, due
riuscite imitazioni, preparate da me e da un compagno per tutto l’anno.
Ce ne tornammo a casa non senza qualche lacrimuccia, con la consapevolezza che lì si
cambiava pagina. Lì finiva un’epoca, una fase della vita e se ne apriva un’altra densa di
incognite. Tutto doveva ancora accadere….
Voglio chiudere con un augurio sincero a tutti, al Preside, ai Docenti, agli Alunni: al
Primo, di tenere sempre alta l'immagine di una Scuola che è Storia nella cultura
palermitana.
Agli Altri, di essere per i loro discepoli un faro di saggezza e di sapienza cui guardare
quando, lontani gli anni della scuola, le notti della vita avranno bisogno anche di un'altra
luce, oltre a quella dei Genitori e della Famiglia. In altri termini, di essere - prima che
professori (un mestiere), Maestri (una missione).
Agli Ultimi di cogliere sempre, nelle parole dei loro Insegnanti, la ricchezza profonda che
la loro esperienza e la loro dedizione può elargire.
A tutti, di essere oggi e sempre orgogliosi di essere "Umbertini".
Paolo Allegra
Architetto, sezione E, anni scolastici 1963-1968
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SAGGI E CONTRIBUTI DEI DOCENTI
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ALLA RICERCA DELL'ALEPH PERDUTO
Può il clima determinare la cultura e addirittura la morale?
Un rovello tutto siciliano
di Vito Lo Scrudato
Dall’Enciclopedia estraiamo un frammento della definizione di “clima”: il complesso delle
condizioni atmosferiche che caratterizzano una parte più o meno ampia della superficie terrestre,
prese nel loro valore medio e nel loro consueto succedersi. Gli autori di Sicilia ne hanno fatto
tutti un grande scriverne in ordine, soprattutto, alla domanda da un milione di euro (vale
più del dollaro), se il clima dell’isola ha avuto un’influenza decisiva nello sviluppo
(sottosviluppo) attuale della società civile, della cultura, dell’economia, dei modelli di
convivenza, dell’indole degli individui più o meno sanguigni e inclini alle coltellate,
luparate o più modernamente alle raffiche di mitraglietta e alle esplosioni d’auto bomba, e
se insomma i siciliani hanno tutti i difetti che gli si conoscono e riconoscono per colpa del
sole troppo forte che li intorpidisce e li fa diventare pigri, invidiosi, litigiosi, dispettosi e
volubili o se i raggi dell’astro non c’entrano per niente e allora il problema rimane senza
immediata soluzione. Perché i siciliani e la Sicilia sono nello stato in cui sono? Sciascia, che
era Sciascia, in uno scritto del 1959 pubblicato nel volume Pirandello e la Sicilia (Sciascia
Editore, 1968) in un clima di generale crescente euforia per il Gattopardo non riuscì invece a
dissimulare il fastidio per il piglio snob del blasonato Giuseppe Tomasi di Lampedusa che
a suo dire era affetto da congenita e sublime indifferenza.
Accusa il racalmutese: La Sicilia del Gattopardo ha un vizio di astrazione - come dire? –
geografico-climatica e cita le parole che il Principe di Salina rivolge all’ingenuo Chevalley (lo
furono poi veramente ingenui i colonizzatori piemontesi?):
Ho detto i siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano... Adesso
anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale
non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè, per così
dire. Sarà. Ma...”
Sciascia contrattacca con malcelata insofferenza:
Ma ci permettiamo noi di obiettare, in quanto a clima e paesaggio, l’Arabia non è da meno della Sicilia e ciò
non ha impedito a un popolo disperso e indolente di muovere alla conquista di tutte le terre mediterranee.
E sbotta:
Perciò siamo più portati a sottoscrivere le idee dell’ebreuccio tedesco che non le considerazioni del Principe
Salina.
E non sfugga che Sciascia chiama idee quelle dell´ebreuccio tedesco (a quanto hanno scritto
Proudhon e l’ebreuccio si era limitato asetticamente a scrivere l’autore de Il Gattopardo),
mentre riduce a considerazioni le convinzioni del nobiluomo (non c‘è da dubitare della
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perfetta identificazione tra il Lampedusa ed il personaggio-antenato), operando un
ripristino gerarchico del suo mondo di valori e dei meriti intellettuali. Quanto poi ad un
destino di potenziali conquistatori che Sciascia non esclude per gli indigeni di Sicilia
parimenti alla sorte fulgida ed eroica dei guerrieri della penisola arabica, ci rimane da
annotare la considerazione agrodolce che finora, assieme al genio magari esagerato di tanti
individui, noi siciliani abbiamo operato avvilenti conquiste di mafia e un qualche spurio
tentativo di esportare antimafia. Ci vorrebbe anche per noi un Maometto in grado di farci
alzare il tiro verso maggiori incredibili ambizioni, ma, noi lo sappiamo, i profeti hanno
fortuna meno che altrove proprio in Sicilia e a tal riguardo a farne le spese, tra altri, fu lo
stesso Sciascia. Quando, dopo una vita di testimonianza antimafia (aveva spiegato a tutta
una generazione cos’era divenuta la mafia) e di illuministica tensione civile, venne
ingenerosamente accusato sulla frastornante piazza nazionale (i giornali) di essere
ambiguo e di fare oggettivamente il gioco della mafia (occorrerebbe tornare sui debiti non
ancora saldati di certa cultura ufficiale italica nei confronti del racalmutese). È colpa del
clima dunque l’attuale stato di cose in Sicilia? Tomasi di Lampedusa facendo la cronaca
del trasferimento della famiglia del Principe di Salina da Palermo alla residenza estiva di
Donnafugata (che era la residenza di Santa Margherita Belice e non di Palma di
Montechiaro) così descrisse il paesaggio e il clima interno della Sicilia:
“Gli alberi! Ci sono gli alberi!” (...) Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli eucaliptus i più
sbilenchi figli di Madre Natura; ma erano anche i primi che si avvistassero da quando alle sei del mattino, la
famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste
che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente
alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente delle discese; passo e trotto, del resto
egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere che ormai non si percepiva più se non come
manifestazione sonora dell’ambiente arroventato. Si erano attraversati paesi dipinti in azzurro tenero,
stralunati, su ponti di bizzarra magnificenza si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano
costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia
d’acqua: sole e polverone. All’interno delle vetture, chiuse appunto per quel sole e quel polverone, la
temperatura aveva certamente raggiunto i cinquanta gradi. Quegli alberi assetati che si sbracciavano sul
cielo sbiancato...(...) Intorno ondeggiava la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate; il
lamento delle cicale riempiva il cielo; era come il rantolo della Sicilia arsa, che alla fine di Agosto aspetta
invano la pioggia.
Lasciando da canto il clima per un momento e volendo correggere il grande maestro
racalmutese che per primo avallò un errore in ordine all’individuazione storica della
residenza estiva della famiglia Salina - un paese della provincia di Girgenti che potrebbe anche
essere Palma di Montechiaro (Sciascia, Pirandello e la Sicilia, cit.) - poi creduto vero
lungamente dopo di lui, ripercorriamo con l’autore del Gattopardo il viaggio che da
Palermo lo portava in una delle quattro dipendenze di campagna possedute dalla
famiglia. Il racconto intitolato I luoghi della mia prima infanzia dichiaratamente
autobiografico fu pubblicato sull’onda del fulmineo successo de Il Gattopardo da Feltrinelli,
con prefazione di Giorgio Bassani, nel 1961:
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Esse [le residenze di campagna] erano quattro: Santa Margherita Belice (non per caso messa per prima, era
certamente la più amata), la villa di Bagheria, il palazzo a Torretta e la casa di campagna a Raitano. Vi era
anche la casa di Palma e il castello di Montechiaro, ma in quelli non andavamo mai. La preferita era Santa
Margherita, nella quale si passavano lunghi periodi...(...)
Il racconto I luoghi della mia prima infanzia rievoca uno dei viaggi estivi alla volta della casa
di Donnafugata a Santa Margherita Belice che appartenne al Principe Filangeri di Cutò,
padre del bisnonno materno, viaggio fatto in parte in treno e in parte sopra un landau che
portava la famiglia di mattina prestissimo fino alla stazione Lolli da dove prendevano il
treno per Trapani. I treni del 1905, quando l’unica automobile circolante nel capoluogo
isolano era l’électrique dell’anziana signora Giovanna Florio, erano notevolmente diversi da
come siamo abituati a pensarli oggi: senza corridoi e quindi senza ritirata; - narra Tomasi di
Lampedusa – e quando ero molto piccolo ci si tirava dietro per me un vasino da notte in orribile
ceramica marrone comprato apposta e che si buttava dal finestrino prima di arrivare a destinazione.
Il controllore faceva il suo servizio aggrappato all’esterno della vettura.
Il paesaggio che il piccolo rampollo dei Gattopardi in dissoluzione vedeva fluire dal
finestrino certo a non folle velocità e tra i fumi delle locomotive a vapore, era lo stesso
paesaggio di quello raccontato nel romanzo che gli diede fama postuma - lui
irrimediabilmente contumace, scrive Matteo Collura nell’intensissimo ed emozionante In
Sicilia (Longanesi, 2004), - basta leggerlo per accorgersi delle analogie e poi di precisi ed
inequivocabili riferimenti. Leggiamo dal racconto autobiografico:
Durante delle ore si attraversava il paesaggio bello e tremendamente triste della Sicilia occidentale: credo che
fosse allora tale e quale come lo trovarono i Mille sbarcando (la testa gli andava sempre ai tempi dell’epopea del
nizzardo) (...) Il sole già ardente ci cuoceva nella nostra scatola di ferro, ed alle stazioni non c’era da aspettare
nessun rinfresco (che invece veniva concesso alla comitiva di famiglia in quel fatidico 1860 all’ombra di spelacciati
eucaliptus); poi il treno tagliava verso l’interno, tra montagne sassose e campi di frumento mietuto, gialli
come le giubbe di leoni. Alle undici finalmente si arrivava a Castelvetrano, che allora lungi dall’essere la
cittadina civettuola e ambiziosa che è adesso: era un borgo lugubre, con le fognature allo scoperto e i maiali
che si pavoneggiavano nel corso centrale; e miliardi di mosche. Alla stazione che già da sei ore rosolava sotto
il solleone ci aspettavano le nostre carrozze. (...) La strada diventava montuosa: attorno si svolgeva lo
smisurato paesaggio della Sicilia del feudo, desolato, senza un soffio d’aria, oppresso dal sole di piombo. Si
cercava un albero alla cui ombra far colazione. (...) Ci si metteva in carrozza. Erano le due, l’ora veramente
atroce della campagna estiva siciliana. Si andava al passo perché cominciava la discesa verso il Belice. (...)
Non eravamo lontano e mia madre sospinta dal suo amore per Santa Margherita, non stava più ferma, si
sporgeva ora da uno sportello ora dall’altro. “Siamo quasi a Montevago.” (...) passato Montevago tutto
andava meglio. La strada era dritta e piana, il paesaggio ridente. “Ecco la villa di *!” “Ecco la Madonna delle
Grazie e i suoi cipressi!”.
Quest’ultima espressione della madre dello scrittore è la prova ulteriore che la
Donnafugata del Gattopardo è quella di Santa Margherita Belice e non la residenza di
Palma di Montechiaro (ci duole di dovere espropriare una città che ha sofferto nel recente
passato di gravi atti di esproprio e di prepotenza ad opera di cosche di malavitosi). La
medesima espressione infatti si trova nel romanzo quando in prossimità dell’abitato
l’autore scrive: fra non molto si sarebbe giunti alla Madonna delle Grazie che, da Donnafugata,
era il termine delle più lunghe passeggiate a piedi.
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Il volumetto dei racconti poi è in altro modo strettamente connesso con Il Gattopardo
soprattutto nel racconto Il mattino del mezzadro che nelle intenzioni dello scrittore doveva
fornire il primo capitolo ad un altro romanzo I gattini ciechi arenatosi nella fase iniziale e
che avrebbe dovuto essere una specie di seconda puntata, o se si vuole, la continuazione
del primo. Ambientato ai primi del ‘900 lo scrittore palermitano vi raffigurava la
situazione peggiorata della Sicilia a quarant’anni dall’unificazione: il Principone di Salina,
lo zione, massiccio, imponente, capace di robusta autoironia aveva passato le consegne a
Fabrizietto Salina, appena l’ombra del grande nonno. A partire dal diminutivo che
colpisce il nome e che ce lo rende rimpicciolito, infantile, incapace di grandi analisi e di
grandi decisioni.
I nuovi ricchi, gli Ibba, avidi, rozzi e feroci erano di gran lunga peggiori rispetto ai pur
detestati e plebei Sedàra, mentre i nobili si erano definitivamente dissolti, degenerati,
tarati come vuole molta letteratura e la genetica parentale, insomma rimbambiti (mentre
nel Gattopardo i blasoni non ne escono poi tanto male, al contrario):
Don Batassano considerava tutti questi nobili come dei morti di fame (...) Il principe A. era spendaccione, il
principe B. donnaiolo, il duca C violento, il barone D. giocatore, don Giuseppe E. spadaccino, il marchese
“estetico” (voleva dire “esteta”, eufemismo a sua volta per indicare cose peggiori).
Se Giuseppe Tomasi di Lampedusa rivendicò con orgoglio l’appartenenza di casta, pure
sentiva il disprezzo che circondava la sua classe, allo stesso modo della crisi di identità di
funzione sociale che colse l’ultima nobiltà palermitana, che si rifugiò in sterili studi o
pratiche esoteriche che ne decretarono definitiva rovina e scomparsa, fase raccontata con
rispetto e grande capacità evocativa da Matteo Collura nel denso In Sicilia:
Tacciono, ora, le vecchie ville e i giardini un tempo odorosi di gelsomino; tacciono i palazzi in cui la sera confluivano – i
portoni lasciati aperti, i maestri di casa impeccabili ad accoglierle – le spensierate comitive degli aristocratici. Tacciono
le rovine che patetiche s’intravvedono tra la dissoluzione di vicoli e strade: tace il mondo dei Gattopardi e dei Florio
(questi ultimi simbolo di una borghesia che si guadagnò sul campo i galloni di un vero e proprio ruolo
dirigente, ultimo sprazzo di luce di una teoria di perdenti, in un’epopea di vinti predestinati come raccontati
da Verga e dallo stesso Lampedusa), mentre tutt’intorno è un condensarsi di rumori, un frastuono cupo e continuo,
l’espandersi del respiro stesso della città che cresce, lavora, produce, festeggia e, come nei pirandelliani Giganti della
montanga, “ne tremano i muri”.
E si coglie nello scrittore agrigentino un disagio esistenziale causato dal rumore prodotto
dalla città, dal suo traffico automobilistico invasivo, che come formicaio ne occupa ogni
angolo senza riguardo per i silenzi del passato e per le penombre dei palazzi di quella
nobiltà che non ha saputo fermare il proprio declino e l’inesorabile scomparsa. Collura
sembra avere nostalgia per quelle figure residuali di una Palermo che non c’è più e
tradisce la voluttà con la quale riproduce in consonanti e vocali i nomi e i titoli delle
tragiche figure quando trascrive i cognomi multipli riverberanti illustri dimore del centro
palermitano seguiti dalla specificazione che legava quegli uomini al possesso di antiche
località disperse nell’Isola, da loro spesso neppure mai visitate:
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nella morte Raniero Alliata di Pietratagliata era stato preceduto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dai
fratelli Piccolo di Calanovella, da Corrado Niscemi, da Fortunio di Belsito e da Bebbuzzo Sgadari “singolare
figura di mecenate e musicologo”, dallo storico Corrado Fatta delle Fratte e dal Principe Pietro Mirto, il
quale scriveva in francese libri di elegante futilità...
Già libri futili, ancorché eleganti, come futili ed eleganti furono quelle figure epigoni di un
passato che potrebbe non essere stato più illustre fino all'’ultima fase di dissoluzione.
Perché viene irresistibile la tentazione di pensare che da lungo tempo la nobiltà siciliana
aveva abdicato alla propria funzione dirigente (nel senso di forza trainante di progresso) e
che già ai tempi della conquista garibaldesca la nobiltà si presentava in rotta come l’esercito
di Francesco II di Borbone vanamente vagante malcomandato nella Sicilia aggredita dai
Mille e poi asserragliato con sporadici eroismi a Gaeta, tutt’al più dedita a mirare stelle e a
produrre dotte e salaci disquisizioni non prive di spirito, come quelle del principe Fabrizio
Salina, che rifiutò di assumere la carica di senatore del Regno adducendo tra l’altro ragioni
climatiche, come dal seguente brano che ci riporta al tema del clima e della sua ipotizzata
influenza sull’indole degli indigeni di Trinacria:
Questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza di Taormina,
ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li
conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a
strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con
minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della
Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere
sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è
pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti
asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di
sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima...
Eccola esposta a tinte forti la visione deterministica del Principe di Salina in ordine ai
nefasti effetti del clima e perciò del paesaggio sui siculi pigri, assetati e accaldati. Pontifica
il Principone in faccia all’attonito cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segretario
della prefettura di Girgenti, il vero vincitore del duello secondo noi, nonostante certe
apparenze di mediocrità avallate anche dalla versione cinematografica del grandissimo
Visconti. Risponde lucido e concreto Chevalley, da uomo che è pienamente dentro la
storia: “il clima si vince (la frase sarà piaciuta a Sciascia), il ricordo dei cattivi governi si
cancella (...) ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Non aveva
creduto ad una sola parola del Salina il modesto funzionario piemontese, lo tradisce la sua
risposta, perché le verità se vengono dette orgogliose allora non sono più verità, ma
risentimenti, tutt’al più sentimenti.
Qualche pagina prima nel libro scritto da un gran signore (l’espressione è di uno Sciascia
sempre arcigno) troviamo un altro ritratto del paesaggio siciliano che tende di certo a
gemellare l’ambiente con l’indole degli isolani, generando il noto cattivo stato di cose
(elegante il Lampedusa!). Gli occhi prestati all’autore sono ancora quelli del Principone
che a caccia con il fido organista Ciccio Tumeo si perde nella solarità della campagna:
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L’aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la
mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si
fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde.
Al di là di ogni presumibile dubbio qui Lampedusa non sta parlando del paesaggio tout
court, bensì del paesaggio in funzione metaforica, in definitiva della realtà siciliana e a
tradirlo sono gli aggettivi che usa e che altrove da lui sono riferiti impietosamente alla
Sicilia e ancor di più ai siciliani: sconfortate e irrazionali, fase delirante della creazione,
dementi le onde. È la realtà storica e sociale ad essere, secondo il gran signore scrittore,
sconfortante, irrazionale, delirante e demente. Ma che a forgiarne le caratteristiche sia stato
il sole eccessivo e le piogge impetuose è un dato contestato oltre che da Leonardo Sciascia,
anche da Matteo Collura che dello scrittore racalmutese sembra avere colto il senso più
profondo dell’impegno civile verso la redimibilità possibile della Sicilia.
Collura, autore dell'originalissimo racconto Associazione Indigenti, si pone una domanda
nuova che porta avanti il problema dell’influsso del clima sulla cultura degli uomini: esiste
un rapporto di causa ed effetto tra il paesaggio (perciò il clima) e il sentire morale della
gente? La risposta meditata lungo tutto il volume In Sicilia si articola in un’ammissione
parziale e una negazione recisa:
Si, è vero, esiste un legame tra un determinato paesaggio e il carattere della gente che lo anima. Ma non
esiste, non può esistere, un rapporto tra quel paesaggio e il sentire morale di quella stessa gente. E aggiunge:
La Sicilia, ora so, in questo non fa eccezione; e se quel rapporto vi appare connaturato è perché esso è stato
sistematicamente violentato, corrotto, avvelenato dalla storia. Ecco il perché di tanto stravolgimento, di tanto
oltraggio al paesaggio. S’illudono così di cambiar casa, gli inquilini della storia, mentre è questo nostro
tempo a sfrattarli, togliendo loro una consapevolezza di cui andare fieri e, nello stesso tempo, di cui
diffidare.
Collura si era messo in viaggio attraverso la memoria sedimentata dai libri per pagine di un
romanzo amato ed odiato per capire ancora una volta perché gli uomini, in questa terra dolente,
esprimono la medesima amarezza, l’identica malinconia che il paesaggio esprime. E prosegue per
esplicitazione riprendendo un’affermazione dal diario di Jean Genet: Si è sempre parlato
dell’influenza del paesaggio sui sentimenti, ma non credo si sia mai parlato di quest’influenza su un
atteggiamento morale.
Quali sono poi le qualità morali che si potrebbero attribuire ai siciliani quali deterministici
effetti del clima e del paesaggio? Ne prendiamo una delle più appariscenti e strombazzate
da letteratura, cinematografia e televisione: la gelosia e la violenza nella riparazione
dell’onore leso; gli esempi nella cronaca mal raccontata, nella cinematografia (ah, grande
Pietro Germi che almeno condì il piatto con gustosa ironia!) e nella letteratura si sprecano
ed hanno alimentato il luogo comune.
Il marito siciliano sarebbe stato (l’adozione del tempo passato ci sembra d’obbligo e da
sola risolve il problema) preda di un parossistico sentimento del possesso sia della roba
accumulata anche a costo di sacrifici indicibili (Mastro don Gesualdo), sia delle persone
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della famiglia, in particolare delle donne di casa, mogli e figlie, mentre i figli maschi hanno
sempre avuto licenza di insidiare l’onore degli altri a patto di non incappare nella lama del
coltello o nei pallettoni di un fucile da caccia caricato a lupara di un sanguigno cornuto,
padre o marito.
Eppure a ben guardare, a volere osservare più da vicino, e volendo con intenzione
rimanere nel mondo arcaico non ancora contaminato dalla cultura delle telenovelas,
addirittura alla società da profonda provincia ottocentesca, scopriamo che c’erano invece
manifestazioni emblematiche di coscienze elastiche improntate a tornacontistico realismo.
C’erano già allora di quelli che comunemente con un’antinomia apparentemente
insanabile vengono chiamati i cornuti contenti. Ci sono due esempi narrativi in uno
scrittore ingiustamente relegato alla dimensione di minore, il sambucese Emanuele
Navarro della Miraglia, nei quali due uomini fanno scelte comportamentali atipiche a
partire da motivazioni profondamente diverse.
Il primo dei due è Rosolino Cacioppo, giovane borgese innamorato in modo profondo ed
autentico della Nana (titolo di un romanzo pubblicato nel 1879), una bella figliola, che però
ebbe la sventura di essere stato il giocattolo momentaneo di un galantuomo (galantuomo, si
fa per dire), il tipico galantuomo di paese, che ovviamente dopo il trastullo l’abbandonò
ad un futuro di presumibile infelicità. In tutto il paese di Villamaura (Sambuca di Sicilia)
non si sarebbe trovato un solo giovane anche di condizione infima disposto a prendere in
moglie una ragazza disonorata. E invece si fece avanti il piccolo proprietario Rosolino
Cacioppo che – pur avendo nozione diretta della tresca di Rosaria col galantuomo Pietro
Gigelli - non esitò a ribadire un forte sentimento di amore per la giovane e così la sposò. A
quanti già allora trovarono non plausibile, quantomeno non verosimile e sicuramente non
tipico, tale personaggio rispose Luigi Capuana:
I veri siciliani chi li vuol conoscere li troverà nel racconto del Navarro della Miraglia La Nana. “Quelli lì? ho inteso dirmi da qualcuno – Ma somigliano proprio a noi, non hanno nulla di speciale! E` una disillusione!
- Non so che farvi, ma vi assicuro ch’essi sono autentici, nei più minuti particolari. Anche l’amico Cameroni
non sa persuadersi in che maniera non si trovi nel libro del Navarro né una pistolettata, né la più piccola
coltellata; e non vuol mandar giù quel Rosolino che sposa la Rosaria da lui amata, benché sappia quel che è
già avvenuto tra essa e il galantuomo Gigelli. Eppure la chiusa del racconto del Navarro è quanto di più
siciliano si possa mai immaginare. La pistolettata che il Cameroni ci avrebbe voluto sarebbe stato invece un
pretto convenzionalismo e il Navarro ha fatto bene a non caderci.
Ma Capuana si ferma e non sa dirci perché Navarro della Miraglia ha fatto bene, oltre al
riconoscimento del merito d’essere felicemente sfuggito ad un convenzionalismo. Ce lo
spiega Sciascia quando scrive che il processo di sofisticazione della morale sessuale proviene dal
mondo “borgese” (che si identificava e in certe zone continua ad identificarsi, con la mafia). Prima
aveva scritto: sembrerà un paradosso: ma i sanguinosi risarcimenti dell’onore raramente si
verificano nell’ambiente mafioso (e perciò proverbialmente i siciliani non mafiosi usano dire che i
“Mafiosi sono tutti cornuti”, a consolazione di quel che dai mafiosi subiscono). Lo scrittore di
Sambuca dunque aveva registrato nella Nana una modificazione della morale sentimentale
e sessuale dei soggetti sociali della piccola proprietà agraria siciliana anticipando gli
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stravolgimenti che saranno portati a pieno compimento artistico e concettuale da Luigi
Pirandello, un altro agrigentino.
Il secondo personaggio controcorrente di Navarro della Miraglia è una figura
maggiormente negativa, portatore di una morale deprecabile (fa venire nostalgia dei
delitti d’onore convenzionali), ma anch’esso un emblema degli accomodamenti dell’etica
coniugale in un’accezione capace di anticipare le conclusioni di personaggi pirandelliani
come Tararà del racconto La verità (1912) e Ciampa della commedia ‘A birritta cu’ i
ciancianeddi, il Berretto a sonagli (1917).
La formazione della visione pirandelliana della vita, – scrive infatti Sciascia - avviene nel processo
di decomposizione, di sofisticazione, della morale sessuale tradizionale. Il personaggio navarriano
di cui discorriamo si chiama Francesco Lisanti ed è il protagonista del racconto Filofosia
coniugale che apre il volume Storielle siciliane (1885). Questi viene da subito presentato
come un predestinato al compromesso morale, intanto perché pigro all’eccesso:
No, no, Francesco Lisanti non era propriamente nato per il faticoso mestiere del falegname.
Questa l’apertura del racconto, dove l’aggettivo faticoso toglie ogni dubbio circa la ragione
dell’inadeguatezza del giovane all’arte.
E specifica:
aveva il corpo troppo gracile e la lena troppo corta. Le membra gli si spossavano subito, maneggiando
l’ascia; il fiato gli mancava spingendo per un momento in su e in giù la sega. Durante l’estate era una pietà
vederlo sudare come Cristo miracoloso...
La morte del padre gli pose immediati drammatici problemi di cruda sopravvivenza e
poco lo consolavano le sgocciolature di caffè e di cioccolata che rimediava frequentando
opportunisticamente le sacrestie (velata, ma neanche troppo, stilettata ai preti che si
riservavano dolci sapori in un contesto di generalizzata miseria). E allora Francesco Lisanti
aguzzò l’ingegno e si guardò attorno, per accorgersi che una bella ragazza di buona
condizione fu - come nel caso della Nana - sedotta da un rampollo di piccola nobiltà di
paese, il figlio del barone Ponzio (bello il nome, ché si potrebbe completare con Pilato, uno
che dopo il diletto-delitto se ne lavò con viltà le mani), e presto abbandonata al duro
destino di donna non maritata, ma già gravida. Scoppiò la tragedia - come da copione, - la
giovane venne battuta dal padre e segregata. Fino a che in un momento d’assenza
dell’iroso genitore, Carmela si affacciò sulla porta per prendere una boccata d’aria. “Adesso
che il male è fatto bisogna cercare rimedio - la consolò Francesco che poi propose: - non so se mi
avanzo troppo, e vi prego di perdonarmi la libertà: ma se volete sono qua io”.
Dopo una breve esitazione di Carmela, il falegname pigro e morto di fame riuscì a
maritarsela. Si trasferì in un altro paese e lì fece della moglie un capitale da cui trarre
reddito, cedendola al medico Leonardo Cuttitta col quale divenne compare in forza delle
cordiali frequentazioni. E a quanti potevano malignare sulla relazione indovinata del
medico con Carmela, Francesco rispondeva:
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“Mi fido di don Leonardo e lo lascio venire in casa, perché non c’è galantuomo più galantuomo di lui e
perché d’altra parte mia moglie conosce il suo dovere e sa come regolarsi. Dio non lo deve permettere, ma se
caso mai un giorno o l’altro mi succedesse una disgrazia, sappiate che io non farei come fanno tanti mariti di
mia conoscenza e non sarei contento finché non avessi bevuto il sangue dell’amante di mia moglie”.
Bastava salvare le apparenze dunque. Al conciapelli mastro Vanni che lo insultò in modo
diretto e in presenza di terzi diede appuntamento per l’indomani mattina in un luogo
deputato ai duelli di mafia, ma né don Ciccio (così veniva chiamato Francesco nel nuovo
paese), né mastro Vanni vi si recarono al mattino dopo. Infine, e qui si compì l’ultimo stadio
dell’abiezione morale del protagonista, spuntò in paese un giovane pittore per dipingere la
volta della Chiesa Madre, dal quale Carmela volle farsi ritrarre a sera tarda e senza troppi
vestiti. Don Leonardo, il medico, lo scoprì, se ne ingelosì e sospese per un certo periodo le
visite presso l’amante. Il racconto si chiude con la supplica del marito della donna a che il
professionista tornasse a cornificarlo (e a mantenerlo):
“Se la vedesse, proverebbe una stretta al cuore. Via, si rabbonisca; venga. Carmela non ha commesso alcuna
mancanza; ma in conclusione quand’anche avesse fatto qualche ragazzata col pittore, il male non sarebbe
grande. Certe cose non lasciano traccia e non hanno conseguenze. Uno più, uno meno, che importa? Non se
ne prenda troppo pensiero. Crede che io non capisca e non veda? Quando si vuol essere felici, bisogna
chiuder gli occhi”. (...) Don Leonardo (...) tornò la sera stessa da donna Carmela, e d’allora in poi c’è tornato
sempre, ad onta di tutto.
E con gli effetti deterministici del clima e del paesaggio sul carattere o addirittura sulla
morale dei siciliani come la mettiamo? Se le manifestazioni comportamentali in ordine a
carattere e a morale si presentano - come si presentano - in forme molteplici e
contraddittorie cosa si può concludere? Tentiamo una soluzione: la Sicilia è una metafora
d’eccellenza, un luogo fisico e mentale (culturale) capace di contenere in forma latente o
esplosa le caratteristiche dell’esistere universale, come un laboratorio dove si consumano
tutti gli esperimenti pensabili, una specie di Aleph borgesiano quale luogo dove si
concentrano in un buco nero ipercompresso il male ed il bene, il bello ed il brutto, il
sublime e il repellente, l’abbondanza e la miseria, la notte e il giorno, la pace e la violenza,
il cielo e la terra, il freddo e il caldo.
La più grande isola del Mediterraneo ha catalizzato il pensiero di molti autori (e non solo
siciliani) e si è presentata a questi come un enigma di non facile soluzione. Perciò tra i
tentativi di spiegarne la natura, l’essenza, le contraddizioni, per vincere le delusioni da
eccessivo innamoramento, si è fatta strada nella testa di schiere di intellettuali siciliani e
sicilianisti, la scorciatoia di una spiegazione climatologica-paesaggistica. Il clima e il
paesaggio e i suoi presunti influssi sul carattere e addirittura sulla morale degli isolani si è
configurato come chiave di comprensione di fenomeni umani, storici e culturali
difficilmente riassumibili in un’unica visione concettuale (la realtà è più complessa e
frammentata), incorrendo questi pensatori in un errore filosofico, un’illusione addirittura
di tipo metafisico (il clima dagli effetti demiurgici sul carattere dei siculi). Davvero
crediamo che non possa esistere un effetto diretto tra clima e paesaggio e il carattere e la
65
morale degli uomini. Perché – lo diciamo col pragmatismo che spesso guidava Sciascia –
tutto si muove, anche ciò che rimane ai margini della storia o di questa essendo solo
inquilino, anche il clima può cambiare, i climatologi anzi minacciano per l’immediato
futuro mutamenti apocalittici, il paesaggio in Sicilia è nel frattempo cambiato e i siciliani
sono già diversi, ma non necessariamente diventati migliori.
Vito Lo Scrudato
Dirigente Scolastico
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I ditirambi “anomali” di Bacchilide
di Mario Matteo Pintacuda
Tradizionalmente, il ditirambo è la composizione corale in onore di Dioniso, nato come
canto di culto rivolto al dio del vino e della forza vitale della natura. Nel corso dei secoli il
ditirambo divenne un vero e proprio genere letterario, mantenendo peraltro i caratteri
gioiosi e anche trasgressivi che lo caratterizzavano.
I sei ditirambi di Bacchilide di Ceo (VI-V sec. a.C.), però, di dionisiaco hanno ben poco e
per di più quelli meglio conservati sono rivolti ad Apollo, inducendo il sospetto che si
tratti piuttosto di peani. Gli alessandrini tuttavia hanno classificato queste composizioni
come ditirambi e una conferma dell’esattezza di questo dato viene dal ritrovamento del
Papiro di Ossirinco 1091 che contiene, classificati come ditirambi, alcuni frammenti delle
stesse composizioni. Questa apparente incoerenza è stata variamente interpretata nel
tempo: sembra da escludere che i filologi alessandrini si siano sbagliati nell’attribuire il
genere letterario a questi componimenti (anche se non va dimenticato che essi erano ormai
cronologicamente lontani dal contesto di fruizione dei carmi). La discrepanza indica
piuttosto che al tempo di Bacchilide i confini di status tra ditirambo e peana non erano più
così netti e che il nostro poeta poteva pertanto attuare una contaminazione tra generi
(fenomeno che avverrà poi con regolarità in età ellenistica).
Di recente è stata proposta un’interessante ipotesi di mediazione, che ricorre alla
definizione più generica di κύκλιος χορός4 per indicare dei componimenti “caratterizzati
da un contenuto narrativo, non necessariamente dionisiaco, ma genericamente mitologico.
La disposizione circolare del coro ditirambico, attribuita dalla tradizione ad Arione di
Metimna, potrebbe invece essere stata un’innovazione introdotta fra VI e V secolo da Laso
di Ermione, destinata a migliorare il livello della performance, grazie al contatto visivo fra i
coreuti…, incrementando così la competitività negli agoni: essa risulta da subito decisiva
nella definizione dell’identità del coro ditirambico rispetto a quello drammatico,
caratterizzato invece dalla disposizione rettilinea, e inoltre, essendo svincolata dal
riferimento a un contesto rituale specifico, finisce per poter essere estesa anche a canti
eseguiti al di fuori dell’ambito strettamente dionisiaco”5.
Dunque, il ditirambo “vero e proprio” dovette subire l’influsso di altre differenti tipologie
di canti, mutando e potenziando il suo aspetto, fino a diventare un genere “aperto” a
sperimentazioni di varia natura. In età ellenistica, poi, le definizioni di κύκλιος χορός e
διθύραµβος finiranno per convergere, indicando dei canti corali narrativi di argomento
eroico, che si presumevano (probabilmente in modo fittizio) eseguite da una formazione
circolare in un ambito agonale.
Cfr. in proposito i recenti studi di D. Fearn (Bacchylides: Politics, Performance and Poetic Tradition, Oxford
2007) e P. J. Wilson (The Greek Theatre and Festivals, Oxford 2007).
5
R. Sevieri, Bacchilide – Ditirambi, La Vita Felice, Milano 2010, p. 9.
4
67
I due “ditirambi” più apprezzati, nonché più discussi, di Bacchilide sono il XVII e il XVIII,
contenenti invocazioni ad Apollo e aventi come protagonista* mitico il re di Atene Teseo.
Come negli epinici del poeta di Ceo, il mito assume un tono da fiaba; il Ditirambo XVII (I
giovani ovvero Teseo), infatti, narra la prova che Teseo deve superare per dimostrare la sua
origine divina (da Poseidone).
La narrazione si collega ad un celebre mito: ogni anno quattordici giovinetti ateniesi (sette ragazzi e sette
ragazze) dovevano essere condotti a Creta, per essere sacrificati al mostruoso Minotauro, in ubbidienza
all’imposizione di Minosse, re della potente isola; costui voleva far così espiare agli Ateniesi l’uccisione di
suo figlio Androgeo. Lo stesso Minosse va ad Atene per scegliere i giovinetti da condurre con sé; ma l’eroe
Teseo decide di partire con loro, per salvare i ragazzi dalla morte. Durante la navigazione, Minosse,
invaghitosi di una delle fanciulle, Eribea, ne sfiora con la mano la guancia. Teseo lo rimprovera e si proclama
pronto a difendere la fanciulla; vanta poi la sua origine da Poseidone. Minosse, adirato, butta il suo prezioso
anello in mare6, invitando Teseo a riprenderlo tuffandosi nel regno di suo padre; chiede poi al proprio
genitore Zeus un fulmine, come segno della sua benevolenza. Il fulmine appare, ma senza paura Teseo si
tuffa in mare, dove viene condotto dai delfini alla reggia sottomarina di Poseidone. Anfitrite, una delle
Nereidi, gli regala uno scialle ed una corona, con cui l’eroe riappare sulla superficie del mare presso la nave,
che intanto aveva continuato la navigazione; i giovani esultano ed intonano un peana, mentre Minosse
sbigottisce.
Nel componimento ha grande rilievo la figura di Teseo, che assume le connotazioni di
esponente di un eros “legittimo”, che si contrappone alla ὕβρις erotica di Minosse.
Potrebbe sembrare strano che un tale ruolo sia rivendicato da un eroe molto noto come
seduttore (sia di Arianna sia di un’Elena ancora bambina), ma la prospettiva filo-ateniese
adottata da Bacchilide lo ha indotto a “glissare” su questi aspetti, raffigurando invece in
Teseo l’opposizione ateniese alla talassocrazia cretese e, più in generale, a tutte le
manifestazioni illegittime e prevaricatrici.
Dopo il tuffo in mare, Teseo entra in una dimensione fiabesca, sottolineata dalla
prodigiosa scorta dei delfini e dalla fulgida apparizione delle Nereidi. Queste divinità
marine erano ritenute κουροτρόφοι, cioè protettrici dei giovani nelle fasi “di passaggio”; i
moderni antropologi hanno dunque colto in questa sezione mitica il riferimento ad un
“rito di passaggio”, quello della prova iniziatica rituale dell’efebo 7. Il fatto poi che le
Nereidi svolgessero anche la funzione di accompagnatrici nell’aldilà si può ricollegare al
concetto di “morte dell’adolescenza”, che segna il passaggio di Teseo alla nuova fase
esistenziale che lo attende.
Anche i doni che l’eroe riceve da Anfitrite costituiscono una sorta di “equipaggiamento”
che gli consente di entrare senz’altro nel mondo “adulto”, come un “giovane sposo” ormai
6
Una vicenda simile (ma solo per il dettaglio dell’anello gettato in mare) compare in Erodoto, ove il tiranno
Policrate di Samo getta in mare il proprio anello più prezioso accettando un consiglio del faraone Amasi, suo
amico e alleato, che lo esorta ad evitare l’invidia degli dèi; ma l’anello viene miracolosamente recuperato
allorché un pescatore gli consegna un pesce che lo ha inghiottito; l’episodio preannunzia la rovina di
Policrate (cfr. Erodoto III 39-43).
7
Per analoghi salti in mare di eroi, cfr. Od. V 333-334 e Virgilio Georgiche IV 357 ss.; a questo tipo di prova
iniziatica allude Pausania (II 34).
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in grado di compiere imprese straordinarie. Tali doni infatti “appartengono alla sfera dei
più tipici attributi nuziali” e costituiscono il “contraltare al modello negativo
rappresentato dal comportamento violento e arrogante di Minosse, incapace di dominare
gli impulsi passionali e di incanalarli entro le forme socialmente accettabili del legittimo
legame matrimoniale”8.
Delle future imprese di Teseo è infine prefigurazione l’epifania dalle acque (“sorse intatto
dal mare”, v. 122, trad. Sevieri), che provoca lo stupore silenzioso di Minosse e le grida
esultanti dei giovani ateniesi.
Esiste peraltro una differente chiave di lettura della discesa sottomarina di Teseo: secondo
Calame, essa andrebbe letta come αἴτιον della presenza di cori ateniesi, maschili e
femminili a Delo, nonché come giustificazione mitologica della talassocrazia ateniese
sull’Egeo; l’epifania di Teseo rappresenterebbe dunque la “rinascita” della città di Atene,
protetta non solo da Atena ma anche da Poseidone e quindi legittimamente mirante al
dominio sul mare9.
Il carme nel complesso unisce brillanti doti descrittive a notevole tensione drammatica: si
susseguono diversi colpi di scena, è assai teso lo scontro fra i due protagonisti maschili
(Teseo e Minosse), è mirabile la descrizione “fantastica” della discesa negli abissi.
Tipicamente bacchilidea, poi, è la tendenza a “sezionare”, con grande abilità narrativa, un
episodio del mito (qui circoscritto al “viaggio di andata” di Teseo verso Creta), iniziandolo
in medias res e tralasciandone gli sviluppi successivi.
A livello stilistico, si nota la tecnica epicheggiante, l’aggettivazione abbondante ed
accuratissima, dominata dall’uso di epiteti composti, la tendenza alla narrazione diluita.
Ancora più discusso è il celebre Ditirambo XVIII (Teseo). L’ode, in quattro strofe, è cantata
da due semicori che dialogano tra loro impersonando Egeo e un gruppo di cittadini
ateniesi. Il ditirambo è stato composto in occasione della traslazione delle ossa di Teseo da
Sciro, voluta da Cimone nel 474 a.C., ed è probabile che sia connesso con le celebrazioni
dell’efebia, una sorta di rito di passaggio dalla giovinezza alla maturità. Al centro di
questo dialogo è la sorpresa per l’arrivo di un misterioso, giovane e forte eroe in città, che
solo alla fine Egeo riconoscerà essere il figlio Teseo.
Nella struttura dialogata di questo ditirambo alcuni studiosi vedono, come è noto, un
esempio del nucleo primitivo della tragedia, nata, secondo quanto dice Aristotele (Poetica
1449a), dall’improvvisazione di quelli che cantavano il ditirambo. Altri però, forse più a
ragione, vedono al contrario un influsso della tragedia (già presente ad Atene al tempo di
R. Sevieri, op. cit., p. 126.
Cfr. C. Calame, Pratiques poétiques de la mémoire, Paris 2006, pp. 143-194. A ben vedere, la vicenda non
presenta un rigore logico assoluto: infatti non si fa più alcun cenno all’anello gettato in mare da Minosse e
che Teseo avrebbe dovuto riportare alla superficie. È stato osservato che Teseo ha di fatto superato la prova
riemergendo dalle acque e che nemmeno Minosse ha rispettato i patti, dato che ha fatto proseguire la
navigazione; ma probabilmente il vero motivo dell’incoerenza è che la divagazione “fiabesca” nel magico
mondo degli abissi ha distratto il poeta e lo ha condotto in una diversa dimensione, ove i normali parametri
razionali vengono accantonati.
8
9
69
Bacchilide) sul ditirambo, che avrebbe assunto in questo caso una insolita forma dialogata.
Comunque stiano le cose, il Ditirambo XVIII testimonia ancora una volta la capacità di
Bacchilide di apportare cambiamenti originali ai generi letterari esistenti.
Mario Pintacuda
docente di Latino e Greco
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INNAMORATA DELLA FILOSOFIA
La ragione poetica di Maria Zambrano di Daniela Musumeci
“…Ho rivelato - o, meglio, mi si sono rivelate - tre forme di ragione: la ragione quotidiana
(e questa è riconosciuta), la ragione mediatrice [il µεταξύ su cui torna tanto sovente
Simone Weil, l’Eros platonico incarnato?] e la ragione poetica, forse la più ispiratrice” 10.
Così dice di sé Maria Zambrano e per questa ragione poetica chiede - se mai - di essere
ricordata. La sua è infatti una scrittura nomade, come nomade fu gran parte della sua vita,
in fuga dalla dittatura di Franco: di quel nomadismo autentico, così diverso dall’erranza,
dall’esilio subito e non scelto, dallo spaesamento, un nomadismo che è “la capacità di
ricreare la propria dimora ovunque”11 poiché si radica nel Sé, “nel desiderio di lasciarsi
alle spalle la modalità lineare del pensare, lo stile teleologicamente ordinato di
argomentare che ci è stato insegnato”12.
Maria nasce in Spagna nel 1901. “Quando seppi da mia madre che Maria è il nome delle
acque amare, delle acque originarie della creazione su cui riposava lo Spirito Santo
quando ancora nessuna cosa esisteva, mi colse un’allegria profonda per il fatto di sentirmi
partecipe - come il mio nome mi indicava – di quella condizione di purezza e di fecondità
e anche, ahimè, di amarezza”13.
Il padre, socialista e amico di Antonio Machado, aveva fondato a Segovia una Università
Popolare. Quando la famiglia si trasferisce a Madrid, Maria studia alla scuola di Ortega y
Gasset. È più volte tentata, però, di lasciare la filosofia per un impegno politico più
concreto. “Non comunicai a nessuno la mia decisione di abbandonare lo studio della
filosofia, finché un giorno indimenticabile, credo nel mese di maggio, entrò un raggio di
luce attraverso una tendina nera che copriva una delle fessure dell’edificio di San
Bartolomeo che davano su un patio. Il professor Zubiri stava spiegando niente di meno
che le Categorie di Aristotele. In un attimo io mi ritrovai, non tanto presa da una
rivelazione folgorante, quanto pervasa da qualcosa che si è sempre mostrato più adatto al
mio pensiero: la penombra toccata d’allegria. E allora, in silenzio – nella penombra, più
che della mente direi dell’animo, del cuore – si dischiuse a poco a poco, come un fiore, la
netta sensazione che non avevo forse alcun motivo per abbandonare la filosofia. Così,
come se si trattasse di un fatto naturale, quell’estate mi immersi nella lettura dell’Etica di
Spinoza e della terza Enneade di Plotino”.14 E sarà su Spinoza la sua tesi di dottorato: la
ricerca, la costruzione di una mistica carnale, che resterà la sua, il cammino verso una
trascendenza che muove dalle viscere (entranas) più profonde della propria vita come della
filosofia. È amica di Federico Garcia Lorca e di Rafael Alberti.
Quando scoppia la guerra civile si trova in Cile col marito, lo storico Alfonso Rodriguez
Aldave. Ma nel 1937 decide di tornare per difendere la Repubblica. E nella Spagna
Quasi un’autobiografia in Aut Aut, n°279, 1997, pag. 129,
Rosi Braidotti, Soggetto Nomade, Donzelli, Roma 1994, pag. 21.
12 R. Braidotti, ibidem, pag. 35.
13 Aut Aut n°. 279, pag. 127
14 Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1991, pag. 4.
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dilaniata dalla rivoluzione incontra Simone Weil. Che cosa si dissero le due donne? Così
affini per lo strettissimo intreccio fra spiritualità e attività politica e sociale; così simili per
aver scelto e sperimentato una scrittura deliberatamente antisistematica e frammentaria,
una scrittura aurorale che si fa poesia e preghiera… 15 Non abbiamo purtroppo documenti
in proposito. Ma possiamo immaginare che si siano comprese. Più tardi, su suggerimento
di Cristina Campo, Maria leggerà la Weil, i cui libri sono stati ritrovati nella sua biblioteca.
Per entrambe il gesto filosofico è disvelamento. “Dal momento che la verità arriva, ci viene
incontro come l’amore, come la morte e noi non ci rendiamo conto che ci stava assistendo
ancor prima di essere percepita, che è stata innanzi tutto sentita e presentita. […] La
preesistenza della verità […] presenzia al nostro risveglio, alla nostra nascita.”16
All’inizio del 1939 comincia l’esilio che durerà quarantacinque anni. “Credo che l’esilio sia
una dimensione essenziale della vita umana, ma dicendo questo mi mordo le labbra,
perché vorrei che non ci dovessero essere esiliati, ma che tutti fossero esseri umani e al
tempo stesso cosmici, che non si conoscesse l’esilio” 17.
Tra il 1954 e il 1964 è in Italia con la sorella Aracoeli, amatissima, con Elsa Morante,
Cristina campo e altri, un sodalizio fertilissimo. Trascorre lungo tempo a Cuba. Ritorna in
Spagna nel 1984 dove scrive e pubblica senza sosta, fino alla morte nel 1991:Verso un sapere
dell’anima, Chiari del bosco, La tomba di Antigone, I luoghi della pittura e quella che è l’opera a
lei più cara e forse il suo testo filosofico più significativo, Il sacro e il divino. “Quanto ho
scritto l’ho offerto con rassegnazione, direi con umiltà, se è possibile dire l’umiltà di se
stessi, ma io non parlo dell’umiltà nella vita, bensì nel pensiero. Il mio pensiero si offre, si
dà, io stessa mi do completamente senza aspettarmi niente”18.
Non le si renderebbe un buon servizio discettando sulle fonti, i temi, le analogie e le
differenze con la tradizione presenti nel suo pensiero; anzi, sarebbe un doloroso
fraintendimento, un costringerla a ripiombare nella pesantezza del trattato, della silloge e
di quanti altri generi dotti e accademici sono stati escogitati che lei ha sempre evitato,
librandosi lieve tra la gravità e la grazia, per usare un’espressione della Weil che anche in
Zambrano ricorre. Maria sceglie sì di fare i conti con Cartesio e Husserl, Nietzsche –
prediletto – e Freud, ma a modo suo, facendo centro nel cuore, ascoltandone il battito, il
ritmo, la musica e su quella lasciando sgorgare le parole, la Parola. Dalla fusione di Logos
ed Eros nasce la Filosofia come la Poesia. “Il pensiero, quanto più è puro, tanto più
possiede la sua misura, la musica”19. La poesia è parola velata, metafora che si apre
all’illimitatezza; la filosofia è parola svelata, immacolata concezione della parola, regno del
limite. Invece il sistema, le operazioni della logica nascondono, banalizzano piuttosto che
rivelare: “Tutti gli uomini muoiono, e dunque anche Socrate [come recita il più quotato
esempio di sillogismo per le scuole], non tutti però muoiono come Socrate. […] La
riparazione […] inizia sempre, minima offerta, con un indugiare dell’animo e del pensiero
Simone Weil, Quaderni, Adelphi, Milano 1993, 4 voll.
M. Zambrano, Chiari del bosco, B. Mondadori, Milano 1977, pagg. 29-30.
17 ABC, 28 agosto 1989.
18 Aut Aut n°. 279, pag. 128.
19 M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, pag. 40.
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concesso al suo morire […], forse si occulta qualcosa in una morte così famosa. E’
necessario prestarle un ascolto più fine”20.
Ed anche la pittura è un evento (nel senso heideggeriano di dimora dell’Essere forse): “un
evento nell’intimità, un mistero. […] La pittura nasce nelle caverne, ma nasce dalla luce
[…]. Si colloca in un tempo altro, tra la penombra e una luce rivelatrice, che l’avvicina
all’intangibile, alla dimora del misterioso […], come uno specchio o un enigma”21,
specialmente la pittura sacra: nel candore lucido, purissimo dei bianchi di Zurbaran “tutti
gli enti e le cose sono nella piena promessa del loro essere, quando la bianchezza appare
avvolgendoli tutti nel mistero dell’annunciazione che li raccoglie e li trascende” 22.
Tocca però soltanto alla filosofia muovere l’ultimo passo: compiere per intero la
trascendenza, elevarsi dal sacro al divino. E, in quell’itinerarium mentis in Deum, in quel
pellegrinaggio alle sorgenti, come lo chiama Lanza del Vasto, le uniche scritture possibili
sono i Dialoghi, le Epistole, le Meditazioni, le Guide, scritture nomadi e frammentarie,
ancora una volta, perché scritture d’esperienza e di esperienza sapienziale, antitetiche ai
sistemi, come La Guida dei perplessi di Mosè Maimonide o Il Castello Interiore di Teresa
d’Avila. “La perplessità si produce quando la conoscenza è tale da lasciare margine al
rischio, quando dobbiamo rischiare nello scegliere.[…] Nelle situazioni vitali è difficile
distinguere tra i vari aspetti un prima e un dopo. Tutto avviene simultaneamente in una
visione che apre le porte dell’anima e che innamora. Visione e non sistema, poiché si tratta
della visione della propria vita che non può offrirsi in un sistema. La vita ha sempre una
figura, che si offre in una visione, in un’intuizione, non in un sistema di ragioni. Noi siamo
figli dei nostri sogni”.23
Sarà bello, a questo punto, soffermarsi su un libricino prezioso della Zambrano, scritto nel 1967, La
tomba di Antigone24.
Della tragedia di Sofocle l’interpretazione più famosa e forse più accreditata resta quella proposta
da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito25: l’armonia immediata ma apparente della “bella vita
etica nella polis greca” nasconde in realtà una contraddizione dolorosissima tra Nomos e Fusis,
legge storica e legge naturale, incarnate rispettivamente nel divieto di Creonte e nel desiderio di
Antigone di dar sepoltura a Polinice. Insepolto per tradimento della città di Tebe lo vuole il
tiranno, in nome della Ragion di Stato; sepolto e in quiete, al riparo dall’ingordigia dei rapaci, lo
vuole la sorella, in nome del comando divino. Non c’è mediazione altra che il destino di morte in
questa antitesi impossibile: colei che fu generata contro natura, contro natura verrà sepolta viva.
Eppure a uno sguardo femminile si danno possibili letture alternative.
Il contrasto fra le due sorelle, proprio all’inizio della tragedia26, potrebbe costituire una sorta di
gioco di specchi, quasi Ismene fosse il doppio di Antigone e la sua perplessità e la sua timida
M. Zambrano, Chiari del bosco, pagg. 45-46.
M. Zambrano, Luoghi della pittura, Medusa, Milano 2002, pagg. 19-20.
22 M. Zambrano, ibidem, pag. 114.
23 M. Zambrano: Verso un sapere dell’anima, pagg. 74 e 76.
24 M. Zambrano, La tomba di Antigone, Milano 1995
25 Cit. in Cioffi Galli Luppi Vigorelli Zanette, Il testo filosofico, vol III, Milano 1993 – pag.216.
26 Sofocle, Antigone, Atto I Scena I, vv. 1-95.
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ritrosia costituissero il controcanto alla fiera determinazione dell’eroina, la quale allora non
comparirebbe più inesorabilmente granitica, ma complessa e sfaccettata, mentre una controvoce
intima, segreta, le svela la sua fragilità di fanciulla, che nulla sa della vita e della morte, dilaniata
fra l’orgoglio e il pudore di essere donna27.
Adriana Cavarero28, che il libro della Zambrano ha letto e commentato, interpreta tutta la vicenda
come una tragedia del corpo, abbandonato, esposto, sotterrato quando ancora respira, riesumato: il
corpo di Polinice, materializzazione dello scontro fra potere e amore; il corpo di Antigone,
rinchiuso in una tomba che è un utero, viscere della Terra come viscere della Madre; i corpi di
Antigone ed Emone affiancati infine sulla scena, nell’epilogo, squadernati in faccia al pubblico
come non avviene in nessun altro dramma classico. Il corpo, il grande rimosso della filosofia
occidentale, è qui al centro, se ne fa questione, è ingombrante, difficile liberarsene; è al centro ma
martoriato, nascosto e disvelato al contempo.
Diverse filosofe, da differenti punti di vista, ritengono che la filosofia costituisca una sorta di
esorcismo contro la paura della morte29, con la sua ricerca ossessiva di un principio
indiscutibilmente primo e immortale, immutabile, universale e neutro: la negazione della
corporeità, l’aver dimenticato che ciascuno di noi è “nato di donna”, l’aver preteso di fare del
pensatore “un’alata testa d’angelo senza corpo”, per dirla con Schopenhauer, ha portato a
misconoscere il luogo della nascita, perdendone la naturalità e innescando così il terrore della
morte della quale pure s’è persa la naturalezza. Pochi sono stati capaci di scrivere con Montaigne:
“moriamo non perché siamo malati, ma perché siamo nati”.
Ecco dunque che Antigone, sul limitare tra notte e aurora, è anche sul limitare tra vita e morte:
sepolta viva, muore senza morire, vive senza vivere.
Maria Zambrano la incontra e la accoglie, lei figlia di Edipo, incarnazione dell’enigma della
nascita, proprio là dove Sofocle l’abbandona, sulla soglia della tomba30, e, con un’operazione simile
a quella che Christa Wolf compie con Cassandra31, ne recupera la memoria e il sentire. All’opposto
del prigioniero della caverna platonica, che viene alla luce, nasce, nell’interpretazione di Luce
Irigaray32, Antigone-Zambrano s’inoltra nell’ombra, nelle viscere della terra, incontro a una morte,
che si rivelerà il ritrovamento di se stessa, e dunque una sorte di seconda nascita. Antigone come
l’”antidonna”, l‘eroina tutta d’un pezzo, senza rimpianti né incertezze o inquietudini, l‘agguerrita
giovane che sfida il tiranno con fiero cipiglio, è, secondo la Irigaray, frutto paradossale
dell’immaginario maschile; altra è l’Antigone che deve partorire se stessa. Il suo ingresso
nell’antro, infatti, costituisce una “seconda nascita”33, perché è “la rivelazione del suo essere nello
speculum justitiae”, che si configura come un sacrificio, letteralmente un gesto sacro.
Nel Prologo, la Zambrano ipotizza che il personaggio di Sofocle abbia attratto tanti poeti, come
Hoelderlin, “per la compiuta poesia in cui il suo essere diafanamente si realizza: la vocazione di
D. Musumeci, Sorelle (poemetto inedito).
A. Cavarero,Corpo in figure, Milano 1995 - pag.17-62, oltre all’appendice dedicata proprio al lavoro della
Zambrano.
29 H. Arendt, La vita della mente, Bologna 1987, specie dove parla di una “filosofia della carne” che ricorda la
“filosofia delle viscere” della Zambrano - pag.114.
S. Weil,Quaderni, Milano 1993.
A. Rich, Of Woman Born, 1976, cit. in Restaino, Cavarero, Le filosofie femministe, Torino 1999 – pag.65.
30 M. Zambrano, La tomba di Antigone, 1995, pag.20 (introduzione di Rosella Prezzo).
31 Christa Wolf, Cassandra, Roma 1996.
32 Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, Milano 1989 – pag. 94.
33 La tomba…pag 57.
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Antigone precede il diversificarsi di filosofia e poesia”: solo il mito può adombrare il mistero, solo
il tacere, il silenzio della tomba che è “nido e culla”, può far sbocciare la parola, la parola che è
rivelazione solo se è parola poetica, schiusura di significati in penombra, polisemia, “chiarita
dell’Essere” come una radura di bosco34, Così dal silenzio germina la consapevolezza.
Tra la notte e l’aurora, Antigone, reclusa, riflette su se stessa e sulla “sua solitudine senza scampo”,
comprende di non trovarsi ad una fine ma di essere ad “un transito”: “non posso morire, finché
non mi si dia la ragione di questo sangue e la storia non esca di scena [ …] Solo vivendo si può
morire”35.
Così immagina, in un lucido delirio, una sequela di incontri e colloqui, con la sorella, il padre, la
nutrice, la madre, i fratelli ed infine Emone e Creonte, colloqui e incontri attraverso i quali, mentre
cerca se stessa, si fa tramite per donare consistenza e pregnanza e realtà a tutti coloro che l’hanno
avvicinata e che da lei, o meglio dal suo essere “transito” attendono non giustificazione e perdono,
inutili più che inottenibili, quanto piuttosto dotazione di senso.
Ecco, ad esempio, le parole che rivolge ai fratelli: “Non c’è niente che possiate amare senza
spezzarlo per il desiderio di prendervelo tutto, senza lasciare nulla all’altro? [ …] Sì, io so che tutte
le vittorie poggiano sul pianto e che il sangue, per quanto copiosamente si versi, non
ammorbidisce il cuore dei vincitori: [ …] Non mi lasciano i miei fratelli senza gloria, caduti ai piedi
del nulla. E, più sfortunati di me, erranti, senza un centro verso il quale dirigersi. Oh, Morte,
aspetta a venire finché non si riconcilino, finché io non sappia dove ricondurli…”36
Anche in questo lavoro teatrale, dunque, in cui la Zambrano si è cimentata un po’ come Simone
Weil nella “Venezia salvata”, anche qui come altrove, come sempre, la sua è “una scrittura di
trasformazione, una filosofia incandescente”37.
Daniela Musumeci
docente di Storia e Filosofia
Chiari di bosco è il titolo che Zambrano sceglie per una sua opera in omaggio ad Heidegger.
Ibidem, pag. 79.
36 Ibidem, pag.103.
37 Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, Milano 2004.
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La scrittura e l’inquisizione ne Il giorno della civetta
di Bernardo Puleio
Nella conversazione con Davide Lajolo Sciascia38 afferma:
“Il giorno della civetta è un buon libro che non amo. Ha avuto troppo successo e per ragioni anche esterne. Non
rimpiango di averlo scritto. Tutt’altro: ma è irritante accorgermi qualche volta che lo si legge come un ragguaglio
folcloristico”.
Probabilmente tra i ragguagli folcloristici può essere annoverata la celeberrima
classificazione dell’umanità suddivisa, secondo la mentalità del boss mafioso don Mariano
Arena, in cinque categorie che degradano inevitabilmente dall’uomo39 (di cui il boss, massa
irredenta di energia umana pretende di essere esatto giudice) al quaquaraquà.
A corollario di questa surrettizia schematizzazione si sviluppa un altro episodio famoso: il
cosiddetto saluto delle armi, l’attestazione di reciproca stima, nel nome dell’umanità tra il
vecchio capomafia e il capitano Bellodi40, parmense, ex partigiano, dai modi gentili, che,
non umiliando il boss posto in stato di fermo, non utilizzando l’esercizio del proprio ruolo
come strumento vessatorio, ottiene il rispetto del suo antagonista, memore, sulla sua pelle,
di ben altre umiliazioni, indegne di un uomo (sia nel senso di chi reca l’offesa che di chi la
riceve), durante la dittatura fascista, all’epoca del prefetto Mori.
Da questo emozionante momentaneo (folcloristico?) accostamento dei due antagonisti
sono scaturite, sul piano esegetico, molteplici interpretazioni, le principali delle quali
vengono qui, per comodità del lettore, sinteticamente riproposte, come necessaria
premessa, prima di entrare in medias res.
Secondo Cattanei41, il mafioso, attraverso il gioco dialettico, esprime una sofferenza antica,
rappresentata con ambigua abilità. D’altronde, a giudizio di Pasolini 42, la mafia,
38 D. LAJOLO, Conversazione in una stanza chiusa, Sperling & Kupfer, Milano, 1981, p. 55.
39 Nel linguaggio mafioso, il termine “uomo” spetta all’affiliato. Può essere interessante ricordare una
commedia dialettale di Luigi Capuana, Lu cavalieri Pedagna, in cui è presente il palermitano Carru Longu
espressamente definito nella didascalia come mafioso. A lui si rivolge, ingelosito e invaghito di una cantante
che non vuole abbandonare la scena, il vecchio cavalier Pedagna, per fare dare una lezione (ppi ’nsignaricci
l’educazioni) all’impresario (L. CAPUANA, Teatro dialettale siciliano, a cura di P. MAZZAMUTO, Giannotta,
Catania 1974, a. I, sc. VII, p. 207): Lu cavalieri Badami! Grapemu beni l’occhi! Carru Voscenza nun ci havi
apinsari. E’ ’nmanu d’omini. Ma quando il cavaliere viene a sapere che Elsa, la cantante di cui è invaghito se la
intende con un barone e vorrebbe farlo seguire, Carru non ottiene il successo sperato, perché, anche se il
capomafia vuole fare intendere che si tratta di affare degno di uomini, per alcuni suoi gregari è invece un
compito da sbrirru (evidentemente il barone godeva di alcuni appoggi). Nella dialettica mafiosa, a “uomo” si
contrappone “sbirro” (a. III, sc. I, p. 231): Carru Secunnu la prijera di voscenza, iu cci dissi a li picciotti: Cu’ si
senti l’armu di fari ’na aprti di veru omu? Si trata di chistu e chistu. Voscenza lu sapi come su’ li picciotti. Certuni
s’arrunchiaru; cci spaia malu! E Turi ’u Nicu arrispusi: Chissa è parti di sbirru; iu nun mi cci mmiscu.
40 Cfr. L. SCIASCIA, Il giorno della civetta, in Opere (1956-71), a cura di C. AMBROISE, vol. I, Bompiani,
Milano 1987 (da questo momento sarà utilizzata l’indicazione Vol. I, seguita dal numero di pagina ), pp. 4667.
41 L. CATTANEI, Leonardo Sciascia, Le Monnier, Firenze, 1980, p. 63: «Il gioco dialettico sbalza il
personaggio, lo rende quasi accettabile. Un capolavoro d’ambigua abilità, in certo modo d’impostura. Arena
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metastorica presenza, connaturata alla dimensione siciliana, rende inquieto il moralismo
di Sciascia.
Secondo un’acuta interpretazione di Antonio Di Grado43, un aspetto ricorrente nei testi
sciasciani è l’impossibilità di una verità assoluta, frutto di una coscienza monastica: la
verità è dialogicità, sdoppiamento, “interazione di punti di vista antitetici”.
Non va dimenticata, a giudizio di Massimo Onofri44, la pietas, il “sentimento religioso del
vivere”, caratteristica imprescindibile dello scrittore siciliano.
Di avviso completamento diverso è l’aspro giudizio formulato da Gaspare Giudice 45, per il
quale don Mariano è espressione di eroismo e “machismo”, caratteristica rinvenibile anche
ne Il contesto e in Todo modo, dove i detectives diventano complici degli assassini o assassini
essi stessi. In questi testi sarebbero presenti «strutture narrative convergenti verso finali di
tipo tecnicamente mafioso».46
Può essere utile ricordare47 che il capitano, dopo un attimo di emozione e di umana pietosa
condivisione con un uomo vittima della violenza fascista contro la quale il partigiano
Bellodi ha preso la via della montagna, ritorna in sé, togliendo la patente di umanità a Don
Mariano:
E le pare da uomo ammazzare e fare ammazzare un altro uomo?48
D’altronde l’indagine del capitano proseguirà, finché gli sarà possibile, in maniera
inflessibile.
Occorre inoltre tenere presente la seguente testimonianza rilasciata dallo scrittore a
Marcelle Padovani49, nel libro-intervista del 1979, La Sicilia come metafora:
Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere
presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così lottando contro la mafia io lotto anche contro me stesso, è come una
scissione, una lacerazione.
La scrittura, nel suo stesso farsi, mette in moto un procedimento tragico: lo scrittore
prende coscienza della perversione che è nella società siciliana, si rifugia nella solitudine 50:
finisce per incarnare l’antichissimo acume siciliano […]. Sciascia non può aderire al suo ”credo” e gli presta
battute di formale ovvietà».
42 P. P. P ASOLINI, Mafia, ambienti e personaggi di Leonardo Sciascia, in A. MOTTA, Leonardo Sciascia, La verità,
l’aspra verità, Lacaita, Manduria (Le), 1985, p. 225
43 A. DI GRADO, Approssimazioni a Sciascia, in Idem, Espressionismo e altro Novecento, Maimone, Catania,
1988, pp. 120-22.
44 M. ONOFRI, Storia di Sciascia, Laterza, Bari – Roma 1994, p. 109.
45 G. GIUDICE, Leonardo Sciascia, L’ancora del mediterraneo, Napoli,1999, p. 42.
46 Ivi, p. 38.
47 Su questo punto e sulla convergenza di altre coppie di racconti sciasciani Cfr. B. PULEIO, I sentieri di
Sciascia, Kalòs, Palermo 2003, pp. 48-9.
48 Vol. I, p. 468.
49 M. PADOVANI, La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano 1979, p. 74.
50 Ibidem, p. 46.
77
Qui da noi è profondamente radicata l’idea che, per essere completamente se stessi, bisogna essere soli, che la solitudine
è il luogo di <<ritrovamento>> di sé; che gli altri ci spartiscono, ci sezionano, ci moltiplicano – oh Pirandello! – che con
gli altri non si riesce a essere creature, ma solo personaggi.
L’emarginazione è lo strumento che consente, con ironia e umorismo, di prendere le
distanze dalle deformazioni della società: l’io penso dello scrittore si contrappone alla
mafiosità della società siciliana, alla concezione antropologica del potere come fatto in sé
mafioso51, ma, contestualmente, sulla propria pelle, come in corpore vivo, fa i conti con le
proprie radici, con le proprie origini.
Le opere di Sciascia sono attraversate da una forte e continua tensione dialettica che si
snoda lungo due principali assi: in primo luogo, il conflitto tra il soggetto e la massa,
caratterizzato dalla lotta dell’individuo e della sua coscienza contro la deformazione
operata da una società-non società, profondamente intrisa di mafiosità su cui, quindi, si
innesta una dialettica, per così dire, riflessa, di tipo letterario, nel momento in cui lo
scrittore rappresenta e dà voce alla realtà della Sicilia. 52
Date queste premesse, sarà ora importante seguire l’indagine svolta dal capitano Bellodi e
provare a rintracciarne gli elementi più significativi.
Il romanzo, scritto nel 1960, viene pubblicato l’anno successivo, dopo una serie di tagli e
modifiche, di cui Sciascia dà informazione nella nota conclusiva.
Il testo che leggiamo non corrisponde in pieno alla volontà dell’autore che non ha potuto
usufruire di quella piena libertà di cui uno scrittore [...] dovrebbe sempre godere.53.
Infatti sarebbe potuto incorrere in una denuncia per oltraggio e vilipendio 54 delle
istituzioni rappresentate, in qualche caso come colluse o incapaci: da qui la necessità di
mutare qualcosa rispetto al disegno originario, di rendere anonimi alcuni notabili politici.
Dispiace osservare che, sotto il piano della libertà d’informazione, nel 1960, le cose non
erano molto dissimili, da quando, all’inizio del secolo, il giovane don Luigi Sturzo55,
51 Ad esempio, ironicamente, Il contesto (1971) è una parodia ( L. SCIASCIA, Opere (1971-83), vol. II, a cura di
CL. AMBROISE, Bompiani, Milano 1989, p. 96) “di un apologo sul potere nel mondo che sempre più digrada nella
impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa” .
52 Cfr. B. PULEIO, L’eroismo tragico dei personaggi di Sciascia, in Idem, Il paradigma impossibile, Nuova Ipsa,
Palermo, 2005, pp. 79-102.
53 Vol. I, p. 483.
54 Da lì a pochi anni, Sciascia avrebbe conosciuto a suo danno la censura, di quello che Pasolini amava,
icasticamente, disprezzare come “il regime democristiano, fascista e mafioso”. Infatti, la commedia L’onorevole
(1966), in cui si parlava di un onorevole democristiano emblema di malaffare e corruzione, fu censurata e
non poté avere libera circolazione.
55 Sul numero del 21 gennaio del 1900, in un articolo intitolato La Mafia, commentando le vicende in pieno
svolgimento del processo che vedeva imputato Raffaele Palizzolo come imputato dell’omicidio
Notarbartolo, così interveniva Sturzo. (Cfr. G. MONTEMAGNO, Scena in rivolta. Teatro politica in Sicilia
(1860-1960), Palermo 1989, p. 51.): <<Chi ha seguito con attenzione il processo, vedrà come anche quest’ultimo fatto è
un effetto della mafia, che stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; di quella mafia che oggi
serve per domani essere servita, protegge per essere protetta; ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma, penetra nei
gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, costringe uomini creduti fior di onestà ad atti
disonoranti e violenti. Oramai il dubbio, la diffidenza, la tristezza, l’abbandono invade l’animo dei buoni, e si conclude
78
dovendo ricorrere allo pseudonimo di zuavo, denunciava la contiguità dei rapporti mafia
siciliana-politica nazionale, sviluppando, allo stato embrionale, una riflessione, che, Il
giorno della civetta, in contesti e situazioni diversi, sembra avere portato compiutamente a
termine.
Per quanto attiene invece al piano del contesto siciliano di quel momento,
schematicamente, si possono ricordare alcuni significativi episodi: a Palermo, dal 1959, era
sindaco Salvo Lima, tristemente famoso, insieme a Vito Ciancimino, assessore ai lavori
pubblici, per avere dato inizio al cosiddetto sacco edilizio.
Alla facilità delle concessioni edilizie, vanno aggiunte le infiltrazioni mafiose (tre
prestanomi56, tutti pensionati, erano titolari di 2.500 delle 4.000 licenze).
Ad Agrigento, nel marzo del 1960 veniva assassinato l’ex capo della squadra mobile,
Cataldo Tandoy, così come venivano uccisi il sindacalista Paolo Bongiorno e il giovane
(aveva 25 anni) giornalista, Cosimo Cristina.
L’opinione pubblica rimaneva sbigottita di fronte all’arresto di 4 frati di Mazzarino,
accusati, tra l’altro di estorsioni e di omicidi.
Il romanzo di Sciascia si apre con l’omicidio, in una piazza affollata, nel paese di S., al
momento della partenza della corriera per Palermo, di Salvatore Colasberna, presidente
della cooperativa edilizia Santa Fara. Il Colasberna è reo, agli occhi del capomafia don
Mariano Arena, di avere rifiutato la protezione mafiosa, comunemente accettata dalle altre
società edilizie. Se è vero che la Santa Fara, messa ai margini, può aggiudicarsi solo piccoli
lotti di appalti pubblici, è però pur vero che l’onore del capomafia sarebbe sminuito se
anche una sola azienda decidesse di rifiutare il riconoscimento della sovranità mafiosa:
dopo alcuni inziali avvertimenti, Salvatore Colasberrna viene eliminato da un
pregiudicato appena uscito di galera, Diego Marchica, contattato da Pizzuco, uomo di
fiducia del boss.
A. S. opera il maresciallo dei carabinieri Arturo Ferlisi, che, in un’evoluzione positiva del
personaggio, si avvicinerà al capitano Bellodi, fino a condividerne la volontà di
allontanamento dall’inquinata società siciliana (fatto molto significativo per il maresciallo
che, a differenza del capitano, è siciliano e ben radicato, all’inizio, nel contesto locale)
chiedendo il trasferimento a L’Aquila.
Il primo atto dell’indagine di Bellodi, comandante della caserma di C., consiste nel
convocare i due fratelli della vittima e gli altri soci della cooperativa: in caserma, dopo
l’iniziale omertosa reticenza e fuga di tutti i possibili testimoni del delitto, abbiamo una
piena rivelazione della mentalità siciliana, in cui, rispetto a un comune sentire, vergogna e
onore sono totalmente stravolti.
per disperare. […] Gli alti papaveri commettono all’ombra concussioni, furti, omicidi; e quando si è arrivati con l’acqua
al collo, si tenta il salvataggio.>>
56 G. SAVAGNONE, La Chiesa di fronte alla mafia, S. Paolo edizioni, Milano 1995, p. 30.
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I due fratelli Colasberna e gli altri soci della cooperativa edilizia Santa Fara aspettavano l'arrivo del capitano: stavano
seduti in file, vestiti di nero, e i due fratelli con neri scialli spugnosi, la barba lunga, gli occhi arrossati; aspettavano in
una sala della Stazione Carabinieri di S., immobili, gli occhi fissi ad un bersaglio colorato dipinto sul muro e alla scritta
che diceva 'luogo per scaricare le armi'. Bruciavano di vergogna per il luogo in cui si trovavano e per l'attesa. Niente è
la morte in confronto alla vergogna.57
Avere a che fare con le forze dell’ordine, sia pure come vittime, era (?) considerato nella
Sicilia del 1960, in un contesto di rovesciamento ideologico, un fatto disonorevole.
Di questa mentalità, per lo meno a partire dai Malavoglia,58 la letteratura siciliana fornisce
molti spunti.
L’apparizione del capitano fu un elemento di tranquillante e razzista rassicurazione
Il capitano era giovane alto e di colorito chiaro; dalle prime parole che disse i soci della Santa Fara pensarono
'continentale' con sollievo e disprezzo insieme; i continentali sono gentili ma non capiscono niente.59
In caserma si verifica un episodio importante, a partire dal quale prende le mosse questo
saggio: i fratelli Colasberna e i soci della cooperativa, terminate le domande del capitano
che, pur in presenza dell’omertosa reticenza dei testi convocati, ha mostrato di capire e
sapere quale sia la motivazione dell’omicidio, attendono impauriti di fronte al
verbalizzante carabiniere Sposito, perché quella che hanno di fronte è la scrittura del
potere ed il potere è inquisizione,
Di nuovo in fila sedettero davanti alla scrivania, nell'ufficio del maresciallo: il capitano seduto nella sedia a braccioli che
era del maresciallo, il maresciallo in piedi; e di lato, seduto davanti alla macchina da scrivere, c'era il carabiniere
Sposito. Aveva una faccia infantile, il carabiniere Sposito: ma i fratelli Colasberna e i loro soci dalla sua presenza ebbero
mortale inquietudine, il terrore della spietata inquisizione, della nera semenza della scrittura. Bianca campagna, nera
semenza: l'uomo che la fa, sempre la pensa dice l'indovinello della scrittura. 60
Occorre non equivocare: non si tratta della diffidenza dell’umile semianalfabeta nei
confronti di ciò che non possiede in pieno.
Infatti ne Le parrocchie di Regalpetra (1956), Sciascia aveva espresso la fede degli ultimi nella
scrittura, come giustificazione del suo impegno letterario61:
La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse – un
colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizie e il
sopruso. Paolo Luigi Courier, vignaiolo della Turenna e membro della Legion d’onore, sapeva dare colpi di penna che
erano come colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna: una
Vol. I, p. 396.
Il giorno del processo al giovane ’Ntoni, arrestato per contrabbando, una gran parte del paese di Acitrezza
è chiamata a testimoniare per comprendere, come voleva l’avvocato difensore Scipioni se tra il carabiniere
don Michele e il giovane ci fosse rivalità. Don Franco si reca in tribunale ma è pallido più dell’imputato e
spaventato (G. VERGA, I grandi romanzi, Mondadori, Milano 2001, XIV, p. 261):
Don Franco non ci aveva mai avuto a fare colla giustizia, e gli rompeva le scarabattole dover comparire per la prima
volta davanti a quella manica di giudici e di sbirri che uno ve lo mettono dietro la grata come ’Ntoni Malavoglia in un
batter d’occhio. Alle comari, don Franco raccomanda di parlare il meno possibile dei rapporti tra Lia-Michele
e il giovane Malavoglia (p. 262): Che vi venga il colera! soffiò loro lo speziale facendo gli occhiacci. Volete che
andiamo tutti in galera’ sappiate che con la giustizia bisogna dire sempre di no, e che noi non sappiamo niente.
59 Vol. I, p. 397.
60 Ibidem.
61 L. SCIASCIA, Opere, vol. I, cit., pp. 9-10.
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80
“petizione alle due Camere” per i salinari di Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che
vanno a servizio. Certo un po’ di fede nelle cose scritte ce l’ho anch’io come la povera gente di Regalpetra: e questa è la
sola giustificazione che avanzo per queste pagine.
Si tratta di sfiducia nei confronti della scrittura legale, che diventa esercizio del Potere,
epifania di una perenne atavica minaccia nei confronti del più debole, realizzata nei secoli
attraverso un uso sapiente della pedagogia del terrore nel nome della verità (intesa come
assoluto atto di fede cattolica) e nel nome dello stato (spesso, affidato in Sicilia a un potere
baronale sfrenato e violento).
L’insieme dei due volti minacciosi del potere (religioso e laico) esercitati nell’arbitrio a cui
si dà parvenza di legalità terrorizzano i fratelli Colasberna.
Che Sciascia abbia fatto uso della Ragione, che si sia voltato a guardare indietro a Voltaire
come ad un campione di scetticismo e di relativismo contro ogni intolleranza, che abbia
studiato a fondo i meccanismi della macchina inquisitoriale, considerando un eroe,
l’ostinato eretico, suo compaesano fra Diego La Matina, assassino del suo spietato
carceriere, l’inquisitore monsignore Cisneros, non c’è bisogno di precisarlo. 62
Anche nell’Italia repubblicana, la presenza delle forze dell’ordine è avvertita come
minacciosa inquietante manifestazione di potenziale sopruso, di esercizio della forza.
Si prenda ad esempio il dialogo tra due personaggi anonimi (uno dei quali è un pezzo
grosso della politica), mentre parlano al telefono, preoccupati per l’arresto di don
Mariano63:
«Non sta soffrendo niente, se tu pensi che lo tengano legato alla cassetta o gli diano le scosse elettriche: altri tempi,
quelli delle cassette; ore c'è la legge anche per i carabinieri...».
«Legge un corno: tre mesi addietro...».
La penna per i fratelli Colasberna pesa come una perforatrice, infatti temono che dal
verbale possa scaturire a loro danno una qualche forma d’Inquisizione: quindi
fanciullescamente scappano quasi felici64:
Scrivevano come se la penna pesasse quanto una perforatrice elettrica, come una perforatrice vibrante per l'incertezza e
il tremito delle loro mani. Quando finirono suonò per il piantone: il piantone entrò insieme al maresciallo.
«Accompagna i signori» ordinò il capitano. «Cristo, se sa trattare» pensarono i soci. E per la gioia di essersela cavata
quasi con niente (il quasi restava agganciato a quei loro pezzi di scrittura che il capitano aveva voluto) e per essere stati
chiamati signori da un ufficiale dei Carabinieri, uscirono che avevano dimenticato il lutto che portavano, e avevano
voglia di correre come i ragazzi all'uscita della scuola.
La scrittura in questa prima fase dell’indagine ha un ruolo rilevante: infatti il maggiore dei
Colasberna, Giuseppe, ha scritto una lettera anonima (in un paese dove nessuno parla,
62 Mi permetto di rimandare al mio saggio Sciascia e l’inquisizione in Sicilia contenuto ne Il paradigma
impossibile già citato.
63 Vol. I, p. 458.
64 Vol. I, p. 401.
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tutti scrivono, ma dimenticandosi di firmare), in cui ha fornito la giusta chiave di lettura per
avviare l’inchiesta.
Pertanto, con un minimo di perizia filologica e calligrafica, il capitano effettua una collatio
per individuare l’estensore della lettera, mentre il maresciallo l’osserva senza capire,
nutrendo una grande sfiducia65.
Il maresciallo non capiva perché il capitano stesse applicato a studiare quelle scritture. «È come spremere una cote, non
esce niente» disse, alludendo ai fratelli Colasberna e soci, e a tutto il paese, e alla Sicilia intera.
È come se tutto il romanzo fosse incentrato su una serie di spaccature dialettiche: in primo
luogo viene espresso un macro conflitto tra la parte malata della società che, con la paura e
l’omertà, la potenza politica, s’impone sulla maggioranza, e la parte sana (le forze
dell’ordine, Salvatore Colasberna e la figura del Dibella che, pur essendo un piccolo
delinquente e un confidente di comodo, servile verso la mafia, compie un salto di qualità
riscattandosi notevolmente).
All’interno di ognuno dei due schieramenti esistono poi dinamiche conflittuali
microdialettiche: l’idea di giustizia del maresciallo Ferlisi, almeno all’inizio, è antitetica
alla visione del mondo di Bellodi, così come non sono assimilabili, se non per i vantaggi
tattici che se ne possono ricavare, le funzioni e le concezioni del male dei due sicari,
Marchica e Pizzuco, del vecchio boss Mariano Arena che si porta dietro una lunga serie di
sofferenze e dei potentati politici, locali e nazionali che, in apparenza, mantengono un
volto pulito, ma che non esitano a ricorrere ai favori che il capomafia e la sua struttura
mettono a disposizione, per ovvie ragioni d’interesse economico (don Mariano è
ricchissimo).
Così il maresciallo Ferlisi, inizialmente è inferocito col bigliettaio che non ricorda i volti dei
passeggeri, dalle cui improbabili testimonianze, l’inchiesta potrebbe partire: solo dopo le
minacce dell’ufficiale, il bigliettaio ricorda.
Così, quando viene interrogata la vedova Nicolosi, il cui marito, la seconda vittima del
romanzo, è stato uccio per avere avuto la sfortuna di riconoscere ed essere riconosciuto
dall’assassino del primo delitto, il maresciallo s’infastidisce per l’inutile filologia del
capitano che, nel tentativo di fare ricordare alla signora il nomignolo (ingiuria66)
Vol. I, p. 401
Il nomignolo Malavoglia attribuito alla famiglia Toscano, è un’ingiuria. Così come l’espressione popolare,
riportata da Verga di santo diavolone, sulla quale ha scritto con finezza e nostalgia, all’indomani dei fasci
siciliani, Luigi Capuana (,L’isola del sole [Iª 1914], a cura di N. MINEO, ed. Lussografica, Caltanissetta, 1994, p.
138): E rimpiango il contadino d’una volta che aveva, non lo nego, scatti di selvaggia ribellione, come i recenti
incendiari di Valguarnera e di Caltavuturo, ma irriflessivi, ma quando proprio non ne poteva fare più; e che era buono,
ossequioso, paziente eparco lavoratore, superstizioso parecchio ma nello stesso tempo religioso davvero, e fin nella
bestemmia metteva un senso d’arte, non ingiuriando Dio e la Madonna, ma contentandosi di fare santissimo il diavolo,
l’avversario di Dio.
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pronunciato dal marito, il giorno del primo delitto, ricorre a una serie di disquisizioni colte
su testi di autori siciliani.67
Il maresciallo si fa minaccioso con lo sguardo e la vedova Nicolosi si ricorda dell’ingiuria,
di Zicchinetta68 (è il soprannome che deriva a Diego Marchica dalla continua
frequentazione del gioco d’azzardo):
Il capitano guardò interrogativamente la donna. Lei fece di no più volte scuotendo la testa. Il maresciallo, con gli occhi
che tra le palpebre parevano diventati due acquose fessure, violentemente si protese a guardarla: e lei precipitosamente,
come se il nome le fosse venuto su con singulto improvviso, disse «Zicchinetta».
Non è più tempo per la filologia: i metodi bruschi di Ferlisi sembrano vincenti:
Il maresciallo gli diede un'occhiataccia: ché il momento della filologia era passato, ora avevano il nome; e che significasse
giuoco di carte o santo del paradiso non aveva importanza (e nella sua testa talmente squillavano i segnali della caccia,
eccitandolo, che il santo del paradiso si trovò a battere il naso sulle carte siciliane)69.
In Bellodi trionfa non solo momentaneo scoramento, senso di delusione, ma quasi il
dubbio che la linea vincente possa essere quella della minaccia, del terrore:
dell’inquisizione70:
Il capitano, invece, si era sentito dentro, di colpo, oscuro scoraggiamento: un senso di delusione, di impotenza. Quel
nome, o ingiuria che fosse, era finalmente venuto fuori: ma solo nel momento in cui il maresciallo era diventato, agli
occhi della donna, spaventosa minaccia di inquisizione, di arbitrio. Forse quel nome lei lo ricordava fin dal momento che
il marito lo aveva pronunciato, e non era vero che lo avesse dimenticato. O soltanto nell'improvvisa disperata paura lo
aveva ritrovato nella memoria. Ma senza il maresciallo, senza quella sua minacciosa materializzazione, un uomo grasso
e bonario che di colpo diventa colata di minaccia, al risultato di quel nome forse non si sarebbe arrivati.
Un momento importante è costituito dall’interrogatorio del confidente Calogero Dibella, un
piccolo pregiudicato che vive di espedienti e racconta quello che può dire, che gli altri (i
mafiosi!) vogliono che dica71:
Il capitano Bellodi, comandante la compagnia Carabinieri di C., aveva davanti il confidente di S.: lo aveva fatto
chiamare, con le solite precauzioni, per sapere cosa pensasse dell'omicidio di Colasberna; di solito, quando in paese
succedeva qualcosa di grosso, il confidente si faceva vivo spontaneamente, stavolta c'era voluta la chiamata. L'uomo era
pregiudicato, ladro di pecore nell'immediato dopoguerra e ora, a quanto si sapeva, soltanto mediatore di prestiti a usura:
faceva il confidente un po' per vocazione un po' illudendosi di avere così privilegio di impunità nel mestiere che faceva;
Bellodi è un detective colto, letterato (vol. I, p. 415): Il capitano aveva conosciuto molti siciliani, nella vita
tra partigiani e poi tra i carabinieri: e aveva letto Giovanni Meli con le note di Francesco Lanza e Ignazio
Buttitta con le traduzioni a fronte di Quasimodo. Molto colti sono i riferimenti per quanto attiene alle
ingiurie (Vol. I, p. 417): Sorvolando il panorama letterario siciliano, da Verga al Gattopardo, il capitano era andato a
posarsi su quella specie di genere letterario, diceva, che erano i soprannomi, le ingiurie: che spesso, acutamente,
esprimevano in una parole un carattere.
68 Vol. I, p. 418.
69 Vol. I, pp. 418-19.
70 Vol. I, p. 419.
71 Vol. I, p. 404.
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un mestiere che, in confronto a quello di rubare a mano armata, considerava onesto e giudizioso, da padre di famiglia.
L'aver rubato al passo diceva errore di gioventù.
È in questo contesto che lo scrittore presenta, idealizzandolo72, il capitano Bellodi73:
Ma il capitano Bellodi, emiliano di Parma, per tradizione familiare repubblicano, e per convinzione, faceva quello che in
antico si diceva il mestiere delle armi, e in un corpo di polizia, con la fede di un uomo che ha partecipato a una
rivoluzione e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge: e questa legge che assicurava libertà e giustizia, la legge della
Repubblica, serviva e faceva rispettare. E se ancora portava la divisa, per fortuite circostanze indossata, se non aveva
lasciato il servizio per affrontare la professione di avvocato cui era destinato, era perché il mestiere di servire la legge
della Repubblica, e di farla rispettare, diventava ogni giorno più difficile. Sarebbe rimasto smarrito, il confidente, a
sapere di avere di fronte un uomo, carabiniere e per giunta ufficiale, che l'autorità di cui era investito considerava come
il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; che riteneva la
legge scaturita dall'idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse.
Il confidente, non avendo nessuna intenzione di dire la verità, artisticamente crea la sua
rete d’imposture, di false notizie: secondo uno schema filologico, crea un romanzo di
parole, per ingannare l’inquirente74:
Fin dal momento che aveva saputo della morte di Colasberna, il confidente aveva disegnato la sue menzogna: ad ogni
dettaglio che aggiungeva, ad ogni ritocco, come un pittore che si allontana dal quadro per giudicare l'effetto di una
pennellata, diceva «perfetto: non manca più niente» ma di nuovo si avvicinava a ritoccare e ad aggiungere; e mentre al
capitano raccontava, ancora, febbrilmente, ritoccava e aggiungeva.
Il Dibella sa che gioca d’azzardo e non crede in un’idea di uguaglianza della giustizia 75:
Ma tra mafia e carabinieri, le due parti tra cui muoveva il suo azzardo, la morte poteva venirgli da una sola parte. Da
questa parte non c'era la morte, c'era quest'uomo biondo e ben rasato, elegante nella divisa; quest'uomo che parlava
mangiandosi le esse, che non alzava la voce e non gli faceva pesare disprezzo: e pure era la legge, quanto la morte
paurosa; non, per il confidente, la legge che nasce dalla ragione ed è ragione, ma la legge di un uomo, che nasce dai
pensieri e dagli umori di quest'uomo, dal graffio che si può fare sbarbandosi o dal buon caffè che ha bevuto, l'assoluta
irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal
questore o dal giudice; da chi ha la forza insomma. Che la legge fosse immutabilmente scritta ed uguale per tutti, il
confidente non aveva mai creduto, né poteva: tra i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli ignoranti, c'erano gli uomini della
In un articolo apparso su “La Stampa” il 12 settembre 1982, l’ufficiale dei carabinieri Renato Candida,
conosciuto dallo scrittore all’epoca in cui, come maggiore, capitanava la squadra mobile di Agrigento, autore
di un bel libro (recensito da Sciascia), Questa mafia, all’indomani del delitto Dalla Chiesa, in un clima di
roventi polemiche tra il figlio del generale e Sciascia, dichiarava di non riconoscersi nella figura del capitano
Bellodi, come svelato dallo scrittore solo dopo la morte del generale, perché nel romanzo Bellodi è troppo
idealizzato. Su quest’argomento ritornava Sciascia il 19 settembre sul Corriere della sera (ora in L. SCIASCIA,
A futura memoria, Opere, a cura di CL. AMBROISE, Vol. III, Bompiani, Milano 1991, pp.799-804, p. 801): «Dice
[Candida], in effetti, quello che io, in autocritica, ho sempre detto: che il capitano vi è troppo idealizzato, che è un
portatore di valori e non un personaggio reale»
73 Vol. I, pp. 408-9.
74 Vol. I, p. 406.
75 Vol. I, p. 407.
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legge; e potevano, questi uomini, allungare da una parte sola il braccio dell'arbitrio, l'altra parte dovevano proteggere e
difendere.
L’azzardo del Dibella, la sua capacità artistica di manipolare e costruire finzioni, di giocare
d’azzardo, anticipa nella galleria dei personaggi sciasciani, la figura del perfetto
impostore: l’abate Vella, protagonista de Il consiglio d’Egitto76.
Il disegno di menzogna di Parrinieddu (l’ingiuria del Dibella) frana di fronte ai modi gentili di
Bellodi: il confidente s’era abituato ai modi aspri e terrorizzanti di altri inquirenti che su di
lui non sortivano effetto, ma la sua vocazione di spia sollecitata dalla cortesia di Bellodi come
allodola trillò, facendo il nome di Saro Pizzuco.
Questo improvviso approdo al mondo della verità costerà la vita a Parrinieddu che però,
prima di morire ucciso, invia una terribile lettera al capitano, in cui indica due nomi (uno è
quello di don Mariano Arena), aggiungendo: Sono morto. Ossequi (seguito dalla firma).
La barbarie mafiosa non perdona: il confidente dicendo troppo ha commesso infamità e
deve essere eliminato.
Può essere utile ricordare un atroce delitto di cui si è praticamente persa la memoria e che
fa piazza pulita di alcuni, falsi luoghi comuni, di una presunta etica della mafia di una
volta (che non avrebbe preso di mira né le donne né i ragazzi). Il 26 giugno 1959, nel
palermitano quartiere di S. Lorenzo, mentre si trovava nel giardino di casa, fu uccisa una
ragazzina di 15 anni, Anna Prestigiacomo, rea di essere la figlia di un presunto confidente.
A mio avviso, la morte del Dibella segna un discrimine fondamentale nel comportamento
di Bellodi: non solo gli monta dentro forte la collera, ma vagheggia poteri forti, quelli
adoperati dal prefetto fascista Mori, assumendo un atteggiamento inquisitoriale, tipico
della vecchia Inquisizione, di cui lo stesso capitano avrà coscienza 77:
Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a
muoversi; come i suoi sottoufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo
vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in
Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di
Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua collera di
uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura fascista aveva avuto in
effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni.
La svolta nei comportamenti del capitano è notevole. Bellodi usa mezzi inquisitoriali: fa
arrestare tre persone (l’arresto del Marchica, sul quale grava la testimonianza della vedova
Vol. I, pp. 498-9: “Nella sua mente era il gioco dei dadi, delle date dei nomi: rotolavano nell’egira, nell’era cristiana,
nell’oscuro immutabile tempo del pulviscolo umano della Kalsa; si accozzavano a comporre una cifra, un destino; di
nuovo si agitavano martellanti dentro il cieco passato. Il Fazello, l’Inveges, il Caruso, la Cronica di Cambridge. Gli
elementi del suo giuoco, i dadi del suo azzardo. ‘Mi ci vuole soltanto del metodo ’ si diceva ‘soltanto dell’attenzione’: e
tuttavia non poteva impedirsi che il sentimento ne fosse sollecitata, che la misteriosa ala della pietà sfiorasse la fredda
impostura, che l’umana malinconia si levasse da quella polvere”.
76
77
Vol. I, pp. 429-30.
85
Nicolosi sembra corretto), ma usa il carcere preventivo, il fermo di 24 ore per fare
pressione anche su altri due inquisiti, Arena e Pizzuco, sui quali grava una semplice
nominativa indicazione del confidente, senza nessun altro riscontro oggettivo78:
A C., nelle camere di sicurezza del Comando Compagnia, si trovavano il Pizzuco e l'Arena. Il capitano aveva pensato
che a tenerli per un giorno intero nel bagnomaria delle camere di sicurezza, l'interrogatorio cui doveva sottoporli
avrebbe avuto esito migliore: una notte e un giorno di disagio, di incertezza, avrebbero avuto su quei tre uomini il loro
peso.
Tenere a bagnomaria, fare pressioni su qualcuno per estorcergli la verità, nella persuasione
non dimostrata giuridicamente della colpa, è uno dei cardini su ci si è basata l’Inquisizione
cattolica. Una delle note più aberranti della prassi inquisitoria era costituita dalla
segretezza: l’imputato veniva prelevato, interrogato e torturato senza conoscere il capo
d’imputazione e i testimoni a suo carico. Stare nelle fetide segrete era già indizio di colpa:
come in una specie di processo kafkiano, la colpevolezza è un dato ontologico; ma
d’altronde, non nasce forse l’uomo peccatore, non necessita di un rito di purificazione,
dell’acqua del fonte battesimale per lavare la macchia del peccato originale?
Nel sedicesimo secolo, l’Inquisizione inventò strumenti di indagine e di persuasività
piuttosto rilevanti. Ad esempio il domenicano Umberto Locati79 scrisse un trattato sul
modo di procedere dell’inquisitore, Judiciale inquisitorium, [Roma 1568], in cui si
raccomanda all’inquisitore di procedere con astuzia, in quanto la sua opera mira a
smascherare l’astuzia del diavolo, perciò è lecito all’inquisitore, s’intende a fin di bene, del
bene della vera cattolica fede, dire alcune bugie: ad esempio, l’interrogatorio del presunto
reo dovrà essere effettuato incutendo terrore, facendo credere di sapere dettagliatamente
ogni colpa, fingendo bontà se il reo è disposto ad un’opera di delazione verso presunti
eretici. Prima lo si indurrà a confessare; se l’imputato non confessa, gli si farà vedere un
grosso incartamento illudendolo che le carte parlano delle sue colpe: se l’imputato non
crolla, allora, gli si faranno tante domande per farlo cadere in contraddizione, si da
poterlo, religiosamente e coscienziosamente torturarlo, oppure gli si infiltreranno delle
spie nella stanza (amici dell’imputato coi quali egli si senta più sicuro di parlare, così da
poterlo incastrare. Qualora le prove non siano sufficienti, ma il giudice è convinto della
colpevolezza, facendo ricorso alla pedagogia del terrore, troverà il modo, diabolicamente,
di fare confessare il reo80.
Non si deve dubitare di potere spaventare abbastanza un reo, infatti i giudici nutrono la stessa opinione, di potere
atterrire qualcuno cha appaia reo da molte circostanze extraprocessuali, sebbene nel processo non ci sia indizio alcuno
Vol. I, p. 437.
Cfr. A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, pp. 205
ss.
80 U. LOCATI, Opus quod Iudiciale inquistoum dicitur, apud haeredes Antonij Blandi impressores, Romae, 1570
[I, ed. 1568], p. 145.
78
79
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sufficiente. E sebbene questo terrore sia una tortura, non è considerato una tortura. [...] Il giudice può fingere di volerlo
torturare […] si deve mostrare terribile, parla col solo volto del terrore.
Certo il capitano Bellodi non usa e non può usare strumenti di tortura ma una qualche
astuzia diabolica, un’invenzione che procura inquietudine e tormento psicologico contro
due dei suoi arrestati (il Pizzuco e il Marchica) la escogita. D’altronde, alla fine del duplice
interrogatorio, il capitano mentre si reca in una zona rurale dove sono in corso le ricerche
che porteranno al rinvenimento del corpo di Nicolosi, ha coscienza di avere agito come un
fanatico cane inquisitoriale81:
'Bargello' pensò il capitano 'bargello come me: anch'io col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore': e
più si sentiva vicino al cane di nome Barruggieddu che all'antico, ma non tanto antico, bargello. E ancora pensò di sé
'cane della legge'; e poi pensò 'cani del Signore', che erano i domenicani, e 'Inquisizione': parola che scese come in una
vuota oscura cripta, cupamente svegliando gli echi della fantasia e della storia. E con pena si chiese se non avesse già
valicato, fanatico cane della legge, la soglia di quella cripta. Pensieri, pensieri che sorgevano e si dissolvevano nella
vampa in cui il sonno da sé si consumava.
Merita attenzione osservare come Bellodi abbia tessuto la sua rete, perché all’astuzia della
classica inquisizione si aggiunge la competenza filologica e l’analisi sociologica, per fare
crollare due mafiosi.
L’inquisizione e la furbizia diabolica del capitano consistono nel mettere di fronte, non
nella stessa stanza, ma in modo che potessero vedersi, Marchica e Pizzuco e nel far
credere ad ognuno dei due che l’altro è infame cioè ha vuotato il sacco caricando di
responsabilità l’altro. La strategia consiste di due punti: primo, il capitano interroga il
Marchica mentre, contestualmente, il maresciallo Ferlisi interroga il Pizzuco: i due si
vedono e dal momento in cui ognuno dei due vede che una mano scrive (la scrittura
inquisitrice del verbale), immediatamente pensa che l’altro stia cantando82:
Il Marchica guardava dalla finestra l'ufficio di fronte, vuoto e illuminato: il capitano aveva avuto cura di accendere nel
suo ufficio una sola lampada, quella sul tavolo, e voltandola in modo che la luce battesse sul tavolino a lato, dove il
brigadiere scriveva; per cui la visione dell'altro ufficio era chiarissima al Marchica.
[…] Si aprì di colpo la porta dell'ufficio, e Marchica si volse istintivamente a guardare: sulla soglia il maresciallo di S.
salutò e disse «si è deciso» e alle sue spalle c'era, sbracato, coi capelli scomposti e la barba lunga, il Pizzuco. A un gesto
del capitano il maresciallo si ritrasse chiudendo rapidamente la porta. Il Marchica si sentì affogare nello sgomento: il
Pizzuco, senza dubbio a furia di nerbate, stava per cantare (e il Pizzuco invece era stato proprio in quel momento
strappato al sonno: e aveva la mente lacerata da sogni inquieti e non il corpo dalle nerbate). Vide nell'ufficio di fronte,
nella cruda luce, entrare il Pizzuco, il maresciallo e un tenente: e subito, appena seduti, il tenente fece una breve
domanda: e il Pizzuco cominciò a parlare a parlare; e il maresciallo a scrivere a scrivere. Il tenente aveva chiesto quale
vita, e con quali mezzi, il Pizzuco conducesse: e il Pizzuco stava rovesciando l'edificante storia della sua vita onesta,
intemerata, di intenso lavoro, sulla penna veloce del maresciallo Ferlisi. Ma dentro di sé, dalla voce del Pizzuco, il
Marchica sentiva una storia da ventisette anni di reclusione, ad andar bene: ventisette lunghi anni di Ucciardone che
nemmeno Dio sarebbe riuscito a scaricare dalle spalle di Diego Marchica.
Vol. I, p. 455.
82 Ivi, pp. 438-440
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Ma il Pizzuco parla di dettagli inutili e pensa che il Marchica
stia vuotando il sacco.
A questo punto si presenta il maresciallo col falso verbale83
la scrittura dell’inquisizione coincide con la falsità ed è come scritta col dito del diavolo:
«Non so» disse il capitano «cosa lei pensa di Rosario Pizzuco...». «È una spugna d'infamità» disse Diego.
«Non lo avrei mai creduto: ma siamo d'accordo. Perché, mi pare, infame per voi siciliani è colui che commette l'infamia
di rivelare fatti che, pur meritando la giusta punizione della legge, non dovrebbero mai essere rivelati... Siamo
d'accordo: Pizzuco ha fatto infamità.. Vuol sentire?... Leggi» disse al brigadiere porgendogli i fogli che il maresciallo
aveva portato. Accese una sigaretta e restò a guardare immobile, con gli occhi socchiusi, Diego Marchica che grondava
di sudore e silenziosamente singultava di rabbia. Il falso verbale, che era stato accuratamente preparato, diceva che
spontaneamente ('le nerbate' pensò Diego 'le nerbate') Rosario Pizzuco confessava di avere incontrato tempo addietro il
Marchica, e di avergli fatto confidenza di certe offese ricevute dal Colasberna: e il Marchica si offrì come strumento di
vendetta; ma essendo lui, Rosario Pizzuco, uomo di saldi principi morali, poco inclinato alla violenza e assolutamente
alieno da sentimenti vendicativi, l'offerta fu rifiutata.
In una società omertosa collaborare con l’autorità giudiziaria è infamità. Può essere utile
ricordare, in tal senso, la testimonianza fornita da Leopoldo Notarbartolo84, figlio di
Emanuele, su cosa accadde, nel 1866, durante il cosiddetto “sette e mezzo” (così è definita
la rivoluzione che, nel mese di settembre, per una settimana isolò Palermo dal resto
d’Italia):
Palermo non poté perdonare al Rudinì la sua condotta di quei giorni. Egli fu morto alla vita politica della sua città né
poté vivervi da privato: dovette emigrare, e neanche quando, trent’anni dopo, fu primo ministro, la vanagloria cittadina
poté distruggere l’antipatia feroce che destava. E perché? Perché Di Rudinì era stato al governo contro i suoi cittadini.
Di Rudinì era sbirru, Di Rudinì era ’nfame’. […] I Palermitani onesti (di Siciliana onestà), sentivano disgusto della
condotta di Rudinì.
Il falso verbale è un’opera magistrale perché esclude, tenendo conto dell’omertà, la
rivelazione di nomi altisonanti (di don Mariano Arena quale mandante), per scaricare,
verso il basso, le responsabilità85:
Era un falso magistrale, di perfetta verosimiglianza relativamente ad uomini come il Pizzuco, ed al Pizzuco in
particolare: ed era nato dalla collaborazione di tre marescialli. E il tocco più sapiente era dato dall'ultima affermazione
attribuita al Pizzuco: l'assoluta esclusione della possibilità che esistessero mandanti. Il nome di Mariano Arena, in quel
falso verbale, sarebbe stato un passo irrimediabilmente falso: la nota stonata, il dettaglio inverosimile; e il giuoco si
sarebbe sfasciato nella diffidente valutazione del Marchica. Ma la precisa tecnica di rovesciare in basso, cioè sul
Marchica, ogni colpa, recisamente negando le proprie e respingendo il sospetto che ci fossero dei mandanti, al Marchica
diede l'angosciosa certezza della autenticità: e anzi nemmeno per un istante ne dubitò, la voce del brigadiere che leggeva
il documento adattandosi come colonna sonora alla muta visione di cui, attraverso la finestra, era stato spettatore.
83 Ivi, p. 441.
84 L. NOTARBARTOLO, Memorie della vita di mio padre Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, Tipografia
pistoiese, Pistoia, 1949, p. 63.
85 Vol. I, pp. 442-3.
88
Si evince che i marescialli si sono avvicinati al metodo letterario- filologico del capitano e
che il capitano abbisogna della conoscenza della langue, degli strumenti tipici del
linguaggio malavitoso e della mentalità omertosa di cui più chiara conoscenza hanno le
forze dell’ordine locali. È una sinergia vincente, infatti l’indagine linguistico- filologica
apre la strada all’inchiesta del capitano.
D’altronde la mentalità mafiosa che trova piena espressione in un linguaggio allusivo e
simbolico, rimanda ad elementi semiotici, come in maniera scherzosamente seria annota
Andrea Camilleri86:
La vecchia mafia era maestra di semiologia, che sarebbi la scienzia dei segni che servino a comunicare. Morto
ammazzato con una pala spinusa di ficodinnia supra al corpo ?
L'abbiamo fatto pirchì ci ha pungiuto di troppe spine, di troppi dispiaciri. Morto ammazzato con una petra dintra alla
vucca ?
L'abbiamo fatto pirchì parlava assà. Morto ammazzato con le dù mano tagliate ?
L'abbiamo fatto pirchì l'abbiamo attrovato con le mano nel sacco.
Morto ammazzato con i cabasisi 'nfilati dintra la vucca ?
L'abbiamo fatto pirchì è andato a ficcare indove non doviva.
Morto ammazzato con le so scarpe supra al petto ?
L'abbiamo fatto pirchì sinni voliva scappari.
Morto ammazzato con l'occhi cavati?
L'abbiamo fatto pirchì non voliva arrendersi all'evidenza.
Morto ammazzato con tutti i denti cavati ?
L'abbiamo fatto pirchì voliva mangiari troppo.
E via allegramenti di chisto passo.
Il falso verbale redatto dalle forze dell’ordine, anticipa, molto più compiutamente di
quanto sia riuscito a fare da solo il Dibella, l’impostura scritta, l’invenzione e la
manipolazione dei codici del Vella. Solo nel rapporto rovesciato di società – non società
isolana il falso è incredibilmente attendibile, spiega la verità.
La performance teatrale del capitano e dei suoi ufficiali ha pieno successo, divide i due
mafiosi e il Marchica confessa, tirando dietro il Pizzuco, accusandolo di avergli
commissionato il delitto Colasberna a cui non si sarebbe potuto sottrarre per bisogno:
Erano in gamba, i marescialli che avevano preparato il falso verbale: conoscevano la psicologia di un uomo come Pizzuco
con precisione scientifica; non c'era da meravigliarsi che Diego Marchica ci fosse cascato come in pentola un cappone 87.
Marchica non è delatore, agisce sotto l’impulso della vendetta, perché gli si è fatto credere
che ha subito un torto, ma, nel suo animo resta mafioso, non è infame, non fa altri nomi,
non tira in ballo persone che carogne non sono88 e firma soddisfatto il verbale perché si sente
in pace con la sua coscienza (di mafioso e assassino).
86
A. CAMILLERI, Il campo del vasaio, Sellerio, Palermo 2008, pp. 110-11.
87
Vol. I, p. 449
Vol. I, p. 445
88
89
A questo punto, come nel gioco delle tre carte, occorre chiudere il cerchio della scrittura
legale (inquisitoriale), infatti il capitano Bellodi si ritrova con un falso verbale che gli è
servito come grimaldello per indurre il Marchica a rilasciare dichiarazioni che, come la
nera semenza, hanno formato il corpus del verbale che mette sotto accusa il Pizzuco.
Adesso è la volta del Pizzuco a sentirsi tradito dall’amico complice e lo accuserà di essere
infame. Interessante è il linguaggio adoperato dal Pizzuco, che, tutto infarcito di
giuramenti, di riferimenti religiosi e di santità, rivela, a livello psico-linguistico, quel
delirio di onnipotenza della mentalità mafiosa che si autoinveste del compito di stabilire e
amministrare la giustizia (!):
Pizzuco sul Santissimo Sacramento, davanti a Gesù Crocifisso, sull'anima di sue madre, di sua moglie, di suo figlio
Giuseppe, giurò che quella di Marchica era una infamità nera; e su Marchica invocò, fino alla settima generazione, la
giusta vendetta del cielo: da dove, oltre ai suoi morti già mentovati, per lui pregava anche uno zio canonico morto in
sospetto (era il caso di dire) di santità. Nonostante il raffreddore e l'angoscia, era un parlatore straordinario: il suo
discorso era fitto di immagini di simboli, di iperboli; e in siciliano italianizzato a volte efficace, a volte più
incomprensibile del dialetto schietto89.
Questo è il momento, all’interno del romanzo, in cui Bellodi sembra raggiungere il
massimo del suo successo personale, che, tuttavia, risulterà effimero.
È vero che contro l’azione del capitano cospireranno gli interventi congiunti di alti
potentati politici, locali e nazionali, timorosi che il cerchio delle indagini si allarghi fino a
scoperchiare tutte le collusioni, è vero che saranno inventati falsi alibi per scagionare i due
imputati, ma è pur vero che le confessioni estorte dall’ufficiale con la creazione del falso
verbale non avrebbero retto ad una seria discussione processuale (e infatti il Marchica 90
dichiara di avere agito sotto l’impulso dell’ira a causa di quanto, falsamente, gli aveva
fatto credere il capitano).
La simpatia dello scrittore va, moralmente, al capitano, uomo onesto e costretto ad
operare da solo titanicamente contro tutto e tutti, ma, da un punto di vista legale, per
quanto attiene al diritto, Sciascia sa bene che la ricostruzione inquisitoriale è debole di per
sé: offre una gloriosa via d’uscita al suo capitano, che si allontana dalla Sicilia, andando in
licenza nella sua Parma, prima della catastrofe che, è ben ricordarlo, a prescindere dai falsi
alibi dei due imputati, si sarebbe abbattuta sulla conduzione delle indagini, minandone la
credibilità.
Della debolezza del suo impianto accusatorio, in base alle leggi esistenti allora, ha chiara
coscienza il capitano, nell’interrogatorio con don Mariano91:
È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli
onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti
costituzionali. Un nuovo Mori diventerebbe subito strumento politico-elettoralistico; braccio non del regime, ma di una
fazione del regime: la fazione Mancuso-Livigni o la fazione Sciortino-Caruso. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel
Ivi, p. 446.
Ivi, p. 477.
91 Ivi, p. 465.
89
90
90
covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui
in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio
fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a
sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia
che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i ne-mici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad
annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di
ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il
terreno sotto i piedi... In ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe
duramente punita: qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto ad imbrogliare le carte.
Riflessione di grande importanza, perché pur ammettendo lo scacco subito92, il capitano
Bellodi suggerisce strumenti nella lotta contro la mafia che lo Stato italiano avrebbe
recepito e fatti suoi dopo oltre vent’anni con la promulgazione della legge Rognoni – La
Torre che sarebbe costata, al segretario regionale del Pci, la vita.
Infine, a conclusione di queste note, trasversalmente, può essere utile, per comprendere
fino in fondo il rapporto tra lo scrittore e il capitano, soffermare l’attenzione su due
particolari: il primo è interno al romanzo.
Parlano due personaggi anonimi, il primo è un alto graduato dell’Arma dei Carabinieri
che giustifica l’operato di Bellodi, il secondo è probabilmente un ministro che ha
dichiarato che la mafia non esiste:
«Ma dalla voce pubblica l'Arena è indicato come capo mafia».
«La voce pubblica... Ma che cos'è la voce pubblica? Una voce nell'aria, una voce dell'aria: e porta la calunnia, la
diffamazione, la vendetta vile...».
Nel 1982, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, seguì una
polemica (tra il
sociologo Nando, figlio della vittima e lo scrittore) aspra ed
eccessivamente violenta nei toni e nel merito da entrambe le parti. La polemica
riguardava anche, per così dire, la figura di Bellodi: il generale amava identificarsi col
personaggio sciasciano e lo scrittore mai aveva contraddetto una tale ipotesi, infatti solo
dopo la sua morte dichiarava93 che era Renato Candida l’ufficiale a cui il personaggio è
ispirato.
Nando Dalla Chiesa esplicitava un ragionamento94 che sembra in linea col pensiero
dell’anonimo alto graduato dei Carabinieri, in linea con l’operato di Bellodi (senza mai
citarlo: non so se abbia tenuto conto del romanzo o se le sue siano riflessioni
completamente autonome):
Se non ci sono prove a carico di don Mariano, l’arresto del capomafia, non è un atto inquisitoriale, non si
può configurare come un abuso, proprio per tenerlo a bagnomaria?
93 Cfr. l’articolo scritto da Sciascia il 19 settembre 1982 per il Corriere della sera, ora in A futura memoria, in
Opere, vol. IIII, cit. pp. 798-804.
94 Cfr. l’articolo apparso su Repubblica il 19 dicembre 1982, ora in N. DALLA CHIESA, Delitto imperfetto,
Mondadori, Milano 1984, p. 236.
92
91
Sul sangue altrui si discetta delle prove. Ma quando un’intera cittadinanza ti dice che il tale è mafioso, quale prova
maggiore si pretende? Che senso ha distinguere tra verità “giudiziaria” e verità “politica”? c’è la verità senza aggettivi.
Ora quando l’autorità centrale non interviene su situazioni di dominio pubblico, essa non fa che scaricare
irresponsabilmente su poliziotti e magistrati l’onere di provare ciò che essi sanno
Da qui la necessità, secondo il sociologo di concedere poteri forti all’autorità pubblica, richiesti dal padre fin dal suo
insediamento a Palermo, e l’accusa rivolta a quegli intellettuali (il riferimento implicito è a Sciascia) che, in nome del
diritto, proteggono e garantiscono i mafiosi.
Sciascia replicava il 20 febbraio del 1983 su L’Espresso con un articolo intitolato Anche i
generali sbagliano, sfidando il sociologo a dimostrare, documenti in mano, l’esistenza di
prove precise in possesso del padre (cosa da escludersi totalmente, sosteneva lo scrittore,
perché al generale, prefetto per 100 giorni era mancato il tempo per costruire un’inchiesta
precisa). Al contrario, si potrebbe aggiungere, con troppa immediatezza, a distanza di
poche ore dalla morte del Dibella, il capitano Bellodi arresta don Mariano.
Inoltre, a parere di Sciascia95, le forze dell’ordine avevano in quel momento già fin troppi
strumenti acostituzionali se non anticostituzionali96 (tra i quali cita il ripristino del confino di
polizia) per combattere la mafia. Le riflessioni dello scrittore tra il 1982 e il 1983, in linea
col suo altissimo senso di garantismo, sono anche parzialmente in linea con l’operato di
Bellodi che rifiuta l’alibi dei poteri forti, ma, in qualche misura segnano anche nettamente
un forte distacco dalla strategia operativa (inquisitoriale) e, probabilmente discutibile sotto
il profilo della procedura legale, dell’eroe del romanzo.
Bellodi è esaltato per i valori morali e ideologici che rappresenta, ma lo scrittore sa che il
rischio dell’Inquisizione si ammanta di bei principi.
D’altronde, però la verità della scrittura intesa come impegno civile aveva già espresso,
con la sua forma di moralismo più alto, un’autocritica del personaggio che, non
casualmente, si era sentito a disagio nei panni collerici di fanatico cane inquisitoriale.
Bernardo Puleio
docente di Italiano e Latino
95
96
A futura memoria, cit. , pp. 808-13.
Ivi, p. 812.
92
La Storia, le storie
di Ebe Caracausi
La parola storia deriva da una radice indoeuropea, passata poi nel greco e nel latino: Ϝιδda cui il latino video ed il greco εἶδον (aoristo di ὁράω); l'aggiunta del suffisso –τωρ,
proprio dei nomina agentis, ha prodotto i vocaboli ἱστορία e ἱστορέω; entrambi hanno in sé
il valore, proprio della radice originaria, di investigare, ricercare, ma anche di raccontare
quanto risulta dalla ricerca. Questa è la premessa, insieme consequenziale e
imprescindibile, per parlare di Storia: la narrazione storica deve corrispondere al risultato
della ricerca, quindi a quanto si è visto; da ciò si deduce, dato che in tal caso potrebbero
essere oggetto di narrazione soltanto i fatti avvenuti sotto i nostri occhi, che lo storico deve
essere obiettivo, “come se avesse visto di persona”. Ma può uno storico essere obiettivo?
La risposta non può essere che negativa, in quanto si applica alla narrazione storica la
stessa caratteristica di soggettività, più o meno marcata, più o meno consapevole, che si
riscontra nella scrittura giornalistica: l’una e l’altra risentono delle condizioni socio –
politiche presenti al momento della stesura (dell’opera storica o dell’articolo, non fa
differenza), della maggiore o minore libertà di pensiero, delle convinzioni personali e della
formazione culturale e religiosa dell’autore, delle sue simpatie e amicizie personali, degli
obblighi di riconoscenza o delle opportunità di convenienza nei confronti dell’una o
dell’altra parte.
Per esempio, pur riconoscendo in Tacito un grande storico, è indubbio che la sua è una
visione di parte, quella dell’aristocratico che vede il senato, espressione della nobiltà,
progressivamente esautorato e svuotato delle sue funzioni a favore del princeps: così, viene
tramandata alla memoria la fama di cattivo imperatore non solo riguardo Nerone, ma
anche riguardo Tiberio, il quale, se non aveva le doti di Augusto quanto ai rapporti umani,
fu, tuttavia, un buon amministratore dell’impero, almeno fino agli ultimi anni; e l’affidarsi
di Claudio ai liberti per la burocrazia non fu indice di debolezza e inettitudine ma, al
contrario, della saggezza di un uomo riservato, che sapeva bene di non potersi fidare degli
appartenenti alla sua stessa classe sociale.
Tuttavia, parlando dei giorni nostri, è apprezzabile il fatto che sia stato tacitamente
abrogato il principio secondo cui non si poteva considerare “storica” la narrazione di
avvenimenti relativi agli ultimi cinquant’anni, perché sarebbe stata carente della
necessaria obiettività: questa, come abbiamo visto è comunque difficile da raggiungere ed
entro certi limiti è preferibile l’informazione, anche parziale e faziosa, piuttosto che
l’assoluta ignoranza dei fatti; se l’interesse è genuino, la ricerca di fonti alternative è
sempre possibile.
Ritornando agli studi classici, quando il µῦθος è diventato ἱστορία?
I primi narratori, i logografi, pensavano di non poter raccontare gli avvenimenti umani
senza partire… “dai tempi di Adamo ed Eva”, per usare un detto in uso ai nostri giorni;
noi siamo in epoca p.Chr.n.: rifacendoci alla cultura del tempo, gli autori prendevano come
inizio della narrazione l’origine degli dei e del mondo. È chiaro che una narrazione del
genere aveva ben poco di storico.
93
Una figura di transizione è quella di Ecateo, il quale non dà nella sua opera i risultati di
una ricerca rigorosa della verità dei fatti, ma piuttosto un resoconto dei suoi viaggi. Anche
le sue Genealogie, oggi quasi del tutto perdute, che narravano l’origine delle città, egli
seguiva un criterio diverso da quello della trattazione del mito.
Questo taglio, per così dire, etnografico sarà presente anche nella concezione di Erodoto, la
prima vera figura di storico. La sua opera è improntata infatti al desiderio non soltanto di
dare un resoconto dei singoli avvenimenti, ma di offrire al lettore la cornice appropriata da
cui ricavare una chiave di lettura. Il progetto in sé non è affatto peregrino, in quanto
nessun avvenimento storico può risultare comprensibile se avulso dal contesto sociale,
politico, culturale, religioso, economico… Ciò che risulta stonato in una narrazione di
carattere storico è, da un lato, la prevalenza dell’elemento etnografico, talvolta, sul
resoconto dei fatti, dall’altro, la presenza delle cosiddette “novelle” (Creso e Solone, Gige e
Candaule…), che hanno scopo, prevalentemente, di exempla, ma non possono certamente
essere lette in chiave storica.
Tuttavia, i presupposti per considerare l’opera di Erodoto come storica, cioè come il
risultato di una ricerca, ci sono: l’autore stesso si preoccupa di esporre chiaramente i
principio che lo ha guidato, vale a dire la distinzione fra ciò che ha visto con i suoi occhi
(αὐτοψία), le notizie che ha raccolto (ἀκοή) da fonte attendibile e i rumores, le dicerie.
Naturalmente ci sarebbe da disquisire sull’attendibilità delle fonti e sul criterio (γνώµη)
usato da Erodoto per stabilirne la veridicità, ma in una “ricerca sulla ricerca”, ossia un
percorso sulle origini della narrazione storica, quello che conta è il principio, adottato dal
Nostro, che la Storia è investigazione.
Il passo successivo e determinante nello sviluppo della concezione storica avviene con
Tucidide, il quale definisce la funzione della Storia: essa è κτῆµα εἰς ἀεί, un “possesso per
sempre”; questa definizione ci rende consapevoli non solo della funzione didascalico –
utilitaria della Storia (conoscere gli avvenimenti e gli errori umani affinché non si
ripetano), ma anche del suo valore etico, in quanto non di semplice erudizione si tratta, ma
dell’inizio di un processo di consapevolezza e quindi di assunzione di responsabilità.
Questi concetti verranno anche ripresi, alcuni secoli più tardi, da Luciano, che, prendendo
le mosse proprio da Tucidide, indicherà tutti gli atteggiamenti riprovevoli che sono da
evitare per chi si accinge a scrivere di Storia. Tucidide si dedica al resoconto di
avvenimenti a lui vicini o addirittura contemporanei anche perché ciò gli consente di
verificare la veridicità delle fonti; riserva infatti a fatti più remoti un’attenzione alquanto
limitata. Lo spirito di concretezza che lo anima lo induce ad assumere un atteggiamento
scientifico all’interno dell’indagine storica, a ricercare cioè i meccanismi che intervengono
nelle azioni umane in modo costante e che possono essere utilizzati da chi ricerca un
legame logico fra i vari avvenimenti; coerente con tali premesse, in base al principio che
ogni evento, non solo storico, ha un’origine, distingue tra cause remote e cause prossime.
Tuttavia, egli è consapevole che gli avvenimenti umani non possono essere soggetti a leggi
così rigide come quelle matematiche o, anche se in misura minore, quelle di natura: fa
spazio, quindi, all’intervento della τύχη, il caso, elemento imponderabile che segna il
94
definitivo distacco dalla concezione di Erodoto, per il quale le vicende dei mortali erano
espressione della volontà degli dei.
Altra cosa dalla narrazione storica è la biografia, che non fa parte della storiografia
propriamente detta, in quanto è incentrata non sui fatti, ma sull’individuo: il quadro
storico rimane sullo sfondo; non viene alterato, ma ne vengono messi in luce soltanto gli
aspetti essenziali per il personaggio. Maggiore deformazione si ha con le biografie di
carattere agiografico, in cui gli avvenimenti vengono visti nella luce più favorevole
all’oggetto della narrazione e l’obiettività viene meno.
Fatte queste premesse, mi interessa particolarmente evidenziare che gli avvenimenti
storici possono essere trattati anche in forma non storiografica, ma all’interno di altre
tipologie testuali, apparentemente lontanissime dall’ opera storica, e di ciò possiamo
trovare diversi esempi illustri.
La prima opportunità riguarda uno degli episodi più importanti, in assoluto, della Storia
dell’Occidente: posto che la Storia non si fa per ipotesi, è indubbio che, se i Greci non
fossero risultati vincitori nelle guerre contro i Persiani, noi, oggi, non saremmo quelli che
siamo: migliori o peggiori non è possibile stabilire, ma sicuramente diversi. L’Impero
persiano avrebbe stabilito un importante avamposto in Europa, la πόλις avrebbe avuto
fine, come struttura sociale e politica, molto prima di quanto non avvenne, in realtà, con
l’Impero romano e, cosa molto più importante, la mentalità orientale avrebbe pervaso di sé
la cultura occidentale. Su questo argomento, la narrazione di carattere storico ce la offre
Erodoto, sullo scontro di Maratona e sulla sconfitta di Serse a Salamina.
ERODOTO, libro VIII
84) Allora i Greci mossero tutte le navi, e subito, mentre prendevano il largo, i barbari gli furono addosso.
86) La massa delle navi andò distrutta a Salamina, messa fuori combattimento dagli Ateniesi o dagli Egineti.
Siccome i Greci combattevano con ordine e rispettando lo schieramento, i barbari, che non si erano tenuti in
linea e non facevano nulla di sensato, dovevano per forza finire come finirono. Eppure erano e si rivelarono
quel giorno assai più validi che all'Eubea, tutti pieni di ardore e timorosi di Serse: ognuno si sentiva addosso
lo sguardo del re.
89) In questa dura battaglia cadde lo stratego Ariabigne figlio di Dario e fratello di Serse, e perirono molti
altri illustri Persiani, Medi e alleati; e anche alcuni Greci, ma pochi; sapevano nuotare infatti e quando le loro
navi venivano affondate, se non morivano nella mischia, si salvavano a nuoto a Salamina; invece la gran
parte dei barbari morì in mare perché non sapeva nuotare. Fu quando le navi della prima fila si volsero in
fuga che ne andarono distrutte di più: infatti quelli schierati dietro, sforzandosi di passare davanti coi loro
scafi per segnalarsi agli occhi del re con qualche bel gesto, cozzavano con le proprie contro le navi in ritirata.
90) Serse sedeva alle falde del monte che fronteggia Salamina e che si chiama Egaleo; ogni volta che vedeva
qualcuno dei suoi compiere in questa battaglia qualche bella impresa, chiedeva chi fosse, e gli scrivani
registravano il nome del trierarca col patronimico e la città di appartenenza. Alla disgrazia dei Fenici
contribuì anche la presenza di Ariaramne, un Persiano amico degli Ioni. Alcuni dunque si presero cura dei
Fenici.
91) Intanto i barbari, messi in fuga, si defilarono in direzione del Falero e gli Egineti, appostati nello stretto,
compirono imprese memorabili. Gli Ateniesi speronavano nella mischia le navi che li affrontavano o che
tentavano di sottrarsi allo scontro, gli Egineti quelle che si allontanavano dalla lotta: quando una nave
sfuggiva agli Ateniesi, andava a cadere fra le grinfie degli Egineti.
92) I barbari le cui navi si salvarono con la fuga ripararono al Falero sotto la protezione dell'esercito di terra.
95
96) Alla fine della battaglia i Greci, tratti a riva a Salamina tutti i rottami che si trovavano ancora lì vicino,
erano pronti a un secondo scontro: si aspettavano che il re utilizzasse ancora le navi rimastegli. Molti dei
relitti furono spinti e trascinati dal vento di Zefiro in Attica
97) Così agiva Serse e intanto mandava in Persia un messaggero a portare notizie sulla situazione del
momento.
99) Ebbene, la prima notizia giunta a Susa, che Serse occupava Atene, rallegrò a tal punto i Persiani rimasti
in patria che cosparsero di mirto tutte le strade, e bruciavano profumi e si abbandonavano a danze e
festeggiamenti; la seconda notizia, al suo arrivo, rovesciò l'atmosfera: tutti si stracciarono le vesti e levarono
grida e lamenti senza fine, chiamando in causa Mardonio. I Persiani si comportavano così non tanto per il
dolore della sorte toccata alle navi, quanto per l'ansia nei confronti di Serse.
100) Queste furono le reazioni dei Persiani nel frattempo, finché il ritorno di Serse non vi pose fine.
Ma un altro racconto di questi ultimi avvenimenti lo troviamo, per bocca di un
messaggero, nei “Persiani” di Eschilo. Il contenuto della tragedia riprende felicemente, pur
sintetizzandoli, gli argomenti esposti da Erodoto: è notevole, in particolare la figura del
messaggero, che è un topos del componimento tragico, ma rispecchia, altresì, gli
avvenimenti così come sono riferiti da Erodoto: dapprima arriva alla reggia la notizia delle
vittorie di Serse, ed il popolo esulta; quando giunge il nunzio a della sconfitta disastrosa, il
lutto è tanto più grave quanto più contrasta con le notizie precedenti. Eschilo, per coerenza
con il punto di vista scelto, quello dei vinti, arriva a maledire Atene, fonte di sventura per
Serse ed il suo esercito, per bocca del coro, composto dagli anziani persiani; naturalmente
il suo orgoglio di Ateniese trionfatore non ne viene minimamente scalfito, anzi risulta
esaltato dal cordoglio degli sconfitti.
ESCHILO, Persiani, vv. 300 e segg.
CORRIERE - Serse, Serse è salvo. Scorge la luce.
REGINA - Luce grande hai svelato, per me, per la reggia, e chiaro mattino dal gelido nero notturno.
[…]
CORRIERE - Ascolta. Per numero puro di navi trionfava lo straniero attaccante. Il nemico aveva un totale di
trecento unità. Discosta, una squadra di dieci, il fior fiore. La potenza al comando di Serse era mille unità,
non mi sbaglio. Duecento più sette gli scafi dotati di scatto senza rivali. Il calcolo è questo. Che dici,
partivamo battuti sul campo? No, no. Sovrumana Forza - chissà - frantumava l'armata, librando sui piatti
sbilanciate fatalità. I Celesti fan salva la città di Pallade santa.
[…]
All'inizio l'ondata di navi persiane teneva. Ma appena la folla di scafi s'ammucchiò nella conca - interrotto lo
scambio d'aiuti, infinita vicenda di colpi ripercossi dai rostri metallici, meccanismi interi di remi in frantumi
- con scaltri volteggi martellava, la flotta dei Greci; rotolavano all'aria le chiglie di navi; la distesa marina
spariva coperta di schegge di scafi, d'umana moria; tutto un rigoglio di corpi, la spiaggia, le creste; allora,
una per una, ogni nave cercava la fuga in un caos di remi. Quanto restava d'una flotta venuta da fuori,
all'assalto. Loro picchiavano forte, troncavano gli uomini in due: una mattanza, diresti, un volo di reti strage di pesce - a colpi di remi scheggiati, di fasciame in frantumi. Impasto di urla dolenti, di singhiozzi
copriva lo specchio dei flutti. Poi la fine. Soffocò tutto la faccia cupa del buio. Che ressa di mali! Passassi
decine di giorni a sgranarli uno per uno, non riesco a dirteli tutti. Devi sapere, nel giro di un giorno non perì
mai così folto fascio di vite!
REGINA - Che abisso fondo di lutti dilaga addosso ai Persiani, soffoca il ceppo straniero!
CORRIERE - Neanche mezzo disastro, questo che ho detto: ascoltami bene. Serie maledetta di colpi. A
bilanciarla, non bastano un paio di pesate, degli altri che ora ti dico.
96
REGINA - Fatalità più atroce di questa? E quale? Che nuova vicenda di pena li assale, li sbilancia ancora più
in basso?
CORRIERE - I migliori di Persia, più freschi, più in forze, che spiccavano alti per spirito fiero e nobiltà di
sangue, a nessuno secondi in lealtà al loro Re, sono tutti caduti, nel fango. Nella morte più opaca.
REGINA - Quanto soffrire, che colpi maligni. Tu mi parli di morte. Come caddero? Narra.
CORRIERE - Un'isola esiste, nello specchio d'acque di Salamina: misera, aspra all'approdo. Pan vi cammina sempre a passo di danza - dove la roccia si perde nel mare. Il Re spedisce laggiù coloro che ho detto: lo
scopo, qualora il nemico disfatto si getti giù dalle tolde alla terra, è serrare nel pugno l'esercito greco, e
finirlo; intanto, strappare le forze persiane al risucchio, laggiù nello stretto. Interprete senza fortuna di ciò
ch'era destino! Dio aveva porto al nemico il fregio dello scontro navale: e subito - corazze, sui cuori, d'ottimo
bronzo - saltarono giù dalla flotta. Stringevano l'isola in un cerchio completo. Noi senza sbocco: non un
varco di fuga. Addosso, fiondati da mano nemica, tempesta di sassi. Scoccati dall'arco, sfrecciavano dardi a
infliggere morte. Poi l'assalto finale. Solo un immenso ruggito e il nemico martella, macella quella povera
carne. Finché cadde divelta ogni vita. Serse scattò ululò lo sguardo fisso a quel baratro nero di mali. Sì, s'era
preso per posto un rialzo elevato, alla riva dello specchio marino: spaziava limpido su tutto lo scontro.
Squarciò la sua veste. Un gemito roco, tagliente. Secco, l'ordine a tutta la gente di terra. Poi il caos, la
partenza, la rotta. Questo è l'evento che a fianco dell'altro merita lacrime tue.
Ancora ad Erodoto possiamo rifarci anche per la battaglia delle Termopili, in cui persero
consapevolmente, e quindi eroicamente, la vita i trecento Spartani al seguito di Leonida.
ERODOTO, libro VII
223) Serse, dopo aver offerto libagioni al sorgere del sole, attese fino all'ora in cui la piazza del mercato è più
affollata e quindi ordinò l'assalto; così gli aveva suggerito Efialte: infatti la discesa dal monte è assai più
rapida e la distanza molto minore che non l'aggiramento e la salita. I barbari di Serse avanzavano e i Greci di
Leonida, da uomini che marciavano incontro alla morte, si spinsero ormai molto più che all'inizio verso lo
spazio più aperto della gola. In effetti nei giorni precedenti si difendeva il baluardo del muro ed essi
combattevano ritirandosi lentamente verso i punti più stretti; allora invece, scontrandosi fuori dalle
strettoie... molti dei barbari cadevano a frotte; dietro di loro infatti, i comandanti degli squadroni, armati di
frusta, tempestavano di colpi ogni soldato, spingendoli avanti continuamente. Molti finirono in mare e
annegarono, molti di più ancora morivano nella calca calpestandosi a vicenda: nemmeno uno sguardo per
chi cadeva. I Greci, sapendo che sarebbero morti per mano di quanti avevano aggirato la montagna,
mostravano ai barbari tutta la propria forza, con disprezzo della propria vita, con rabbioso furore.
224) Alla maggior parte di loro, intanto, s'erano ormai spezzate le lance, ma massacravano i Persiani a colpi
di spada. E Leonida, dopo essersi comportato veramente da valoroso, cadde in questo combattimento e con
lui altri Spartani famosi, dei quali io chiesi i nomi, trattandosi di uomini degni di essere ricordati; e chiesi
anche i nomi di tutti i trecento. Caddero allora anche molti altri illustri Persiani, fra i quali due figli di Dario,
Abrocome e Iperante, nati a Dario dalla figlia di Artane Fratagune; Artane era fratello di re Dario e figlio di
Istaspe di Arsame. Artane nel cedere la figlia in sposa a Dario le assegnò in dote l'intero patrimonio, perché
Fratagune era la sua unica figlia.
225) Colà caddero dunque combattendo due fratelli di Serse. Sopra il cadavere di Leonida si accese una
mischia furibonda di Persiani e Spartani, finché grazie al loro eroismo, i Greci lo strapparono ai nemici
respingendoli per quattro volte. Questo durò fino all'arrivo degli uomini di Efialte. Dal momento in cui i
Greci seppero del loro arrivo la battaglia mutò ormai aspetto: i Greci riguadagnarono di corsa la strettoia
della strada, superarono il muro e andarono a prendere posizione sulla collina, tutti quanti assieme tranne i
Tebani. La collina si trova all'ingresso del passo, dove oggi si erge in onore di Leonida il leone di marmo.
Lassù si difendevano colle spade (chi ancora le aveva), con le mani, coi denti; i barbari li tempestavano di
colpi, di fronte quelli che li avevano seguiti e avevano abbattuto il baluardo del muro, intorno da tutte le
parti gli altri che li avevano aggirati.
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228) In onore di quanti furono sepolti esattamente là dove caddero e di quanti erano morti prima che
partissero i Greci dimessi da Leonida, sono scolpite le seguenti parole:..."Contro trecento miriadi combatterono
qui D'uomini quattro migliaia venuti dal Peloponneso."... (Qui, un giorno, contro tre milioni di nemici
combatterono quattromila Peloponnesiaci). La precedente iscrizione vale per tutti, la seguente per i soli
Spartani:..."Ospite, vanne; e a Sparta tu reca l'annunzio, che qui Per ubbidire alle leggi di lei noi giaciamo".... Così
per gli Spartani; in onore dell'indovino:..."Il monumento è questo del glorioso Megistia. Dello Spercheo la corrente
varcando, l'uccisero i Medi: Quando, indovino ben certo del sopravvenir delle Parche, Il condottiero di Sparta lasciare e
salvarsi non volle"....
Lode immortale ne fa Simonide, nel suo celebre epitafio
SIMONIDE, fr. 531
Dei morti alle Termopili
gloriosa è la sorte, bella la morte,
un altare la tomba, invece di lamenti ricordo, ed il compianto è lode:
un tale sudario né la ruggine
né il tempo che tutto doma oscurerà.
Questo recinto sacro di eroi come compagna
la gloria dell’Ellade ha preso: ne è testimone anche Leonida,
re di Sparta, che ha lasciato grande
ornamento di virtù e gloria eterna.
È evidente, in questo caso, la differenza fra il disteso percorso degli eventi che troviamo in
Erodoto e la concisione del poeta; questo deriva dal fatto che, al di là delle peculiarità
proprie delle due tipologie testuali, l’epitafio è, di per sé, un componimento di proporzioni
ridotte; diverse sono le finalità in rapporto al destinatario, e d’altro canto Simonide
commemora, non racconta; d’altra parte, per la tendenza di Erodoto ad una narrazione
colorita, che dà abbondante spazio alla psicologia dei singoli personaggi (pensiamo
all’episodio di Creso e Solone, che non è propriamente una favola) troviamo,
inframmezzate agli avvenimenti, le considerazioni di Serse e dei suoi consiglieri riguardo
le “strane” usanze degli Spartani.
Un raccordo fra Greco e Latino viene creato, ahimè!, dalla peste che colpì Atene durante la
prima fase della guerra del Peloponneso, a causa della quale perse la vita anche Pericle.
Tucidide, nella sua opera storica, dedica ampio spazio a questa pestilenza (proprio peste
non sembra che fosse), con abbondanza di descrizioni realistiche: questo non deve stupire,
intanto perché le manifestazioni del morbo sono viste, diciamo così, con occhio clinico;
l’arte medica, con tutta la buona volontà, non poteva andare molto oltre la registrazione
dei sintomi, non avendo i mezzi per individuare le cause; inoltre, è preso in
considerazione anche lo sconvolgimento sociale che ne deriva, e per di più in un periodo
così problematico come quello bellico. Non dimentichiamo che qualcosa di molto simile
fece anche Manzoni nel suo romanzo storico. Lucrezio invece, che riporta abbastanza
fedelmente le descrizioni di Tucidide, ha tutt’altro intento: vuole, infatti, mostrare la
devastazione fisica e sociale a cui è soggetta l’umanità, senza che la divinità se ne dia
pensiero. Mentre l’esposizione dello storico ha uno scopo documentario, quella del poeta
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diviene strumento per la dimostrazione di una tesi, l’adesione alla filosofia di Epicuro sui
rapporti uomo – divinità.
TUCIDIDE - libro II
47. I Peloponnesii si trovavano in Attica da non molti giorni, quando prese a serpeggiare in Atene
l'epidemia: anche in precedenti circostanze s'era diffusa la voce, ora qui ora là, che l'epidemia fosse esplosa, a
Lemno, per esempio, e in altre località. Ma nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così
selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo
morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con
maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva
lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi
riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male.
48. A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia al di là dell'Egitto, calò poi nell'Egitto e in
Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli
abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesii, con l'inquinare le
cisterne d'acqua piovana mediante veleno: s'era ancora sprovvisti d'acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il
contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una
progressione sempre più irrefrenabile.
49. Quell'anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se
qualcuno aveva contratto in precedenza un morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente
infermità. Gli altri, senza motivo visibile, all'improvviso, mentre fino a quell'attimo erano perfettamente sani,
erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l'arrossamento e l'infiammato enfiarsi degli
occhi. All'interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava
irregolare e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuto e raucedine. In breve il male
calava nel petto, con violenti attacchi di tosse. Penetrava e si fissava poi nello stomaco: onde nausee
frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i
loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. In più casi, l'infermo era squassato da urti di
vomito, a vuoto, che gli procuravano all'interno spasimi tremendi: per alcuni, ciò avveniva subito dopo che
si erano diradati i sintomi precedenti, mentre altri dovevano attendere lungo tempo. Al tocco esterno il
corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell'ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava
rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato
bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo
nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell'acqua fredda. E non pochi vi
riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro familiari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete
insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Senza pause li tormentava
l'insonnia e l'impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in
cui la virulenza del male toccava l'acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai
patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell'interna
arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male
s'estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da
una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un esaurimento molte volte mortali. La malattia,
circoscritta dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi
dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. Ne
rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la
facoltà di usare questi organi alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la
salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e
da ignorare i suoi cari.
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50. Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano
sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel
particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri
consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto)
questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato. Se ne ha una prova sicura poiché
questa specie di volatili scomparve del tutto e non era più possibile notarli intenti al loro pasto macabro, né
altrove. Ma indizi ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento dei cani, per il loro
costume di passar la vita tra gli uomini.
51. È questo il generale e complessivo quadro della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti
fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall'altro.
Nessun'altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio e in esso confluiva
qualunque altro sintomo si manifestasse. I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche
un'assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una
sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva. (Un farmaco salutare in un caso,
era nocivo in un altro).
Lucrezio, De rerum natura, VI - La peste di Atene
E così, subito questa nuova specie di rovina e di pestilenza o si abbatte sulle acque o penetra persino nelle
messi o in altri cibi degli uomini e nelle pasture del bestiame, o anche rimane sospesa nell'aria stessa la sua
forza, e, quando respirando ne immettiamo in noi gli aliti contaminati, dobbiamo insieme assorbire nel corpo
quegli elementi maligni. In simile modo la pestilenza raggiunge spesso anche i buoi, e la malattia si estende
ai tardi greggi belanti. Né importa se noi stessi andiamo in luoghi a noi avversi e passiamo sotto il mantello
di un altro cielo, o la natura spontaneamente porta a noi un cielo corrotto o qualcosa con cui non siamo
avvezzi ad aver contatto, che può colpirci con l'arrivare improvviso. Tale causa di malattie e mortifera
emanazione, un tempo, nel paese di Cecrope, rese funerei i campi e spopolò le strade, svuotò di cittadini
la città. Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato, dopo aver percorso molta aria e
distese fluttuanti, piombò alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora, a torme eran preda della malattia e
della morte. Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli
occhi. La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue, e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si
serrava, e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue, infiacchita dal male, pesante al
movimento, scabra al tatto. Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto ed era
affluita fin dentro il cuore afflitto dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita. Il fiato che
usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, simile al fetore che mandano i putridi cadaveri
abbandonati. Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso della morte. E
agli intollerabili mali erano assidui compagni un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri. E
un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno a contrarre assiduamente i nervi e le
membra, li struggeva aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati. Né avresti notato che
per troppo ardore in alcuno bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna, ma questa piuttosto
offriva alle mani un tiepido contatto, e insieme tutto il corpo era rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco,
come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro. Ma la parte più interna in quegli uomini
ardeva fino alle ossa, nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci. Sicché non c'era cosa, benché
lieve e tenue, con cui potessi giovare alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre. Alcuni
immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo.
Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi, mentre accorrevano protendendo la bocca
spalancata. La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere i corpi, rendeva pari a poche gocce
molta acqua. E il male non dava requie: i corpi giacevano stremati. La medicina balbettava in un muto
sgomento, mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati, ardenti per la malattia, privi di sonno. E
molti altri segni di morte si manifestavano allora: la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore, le
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ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce, le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii, il respiro
frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli, e stille di sudore lustre lungo il madido collo, sottili sputi
minuti, cosparsi di color di croco e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse. Non
cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il
freddo. Così, quando alfine si appressava il momento supremo, erano affilate le narici, assottigliata e acuta la
punta del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la
fronte rimaneva tesa. E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte. E generalmente quando
raggiava il sole dell'ottavo giorno, o anche sotto la luce del nono, esalavano la vita.
Ancora in terra greca, sul filo delle vicende successive, troviamo la caduta di Atene e il
dominio di quelli che furono chiama i Trenta Tiranni. A questo proposito, Senofonte, che
pure era filospartano, mostra con parole chiare, senza attenuazioni nell’espressione né
attenuanti riguardo al comportamento, l’avidità e la ferocia di costoro. Se non ci
meravigliamo dell’esposizione di Senofonte, ma la riteniamo appropriata obiettività di
storico, possiamo forse meravigliarci della lucidità di Lisia, che nella sua orazione “Contro
Eratostene” si scaglia appunto contro uno dei Trenta, ma, pur manifestando il suo odio ed
il suo disprezzo, espone chiaramente, con lucida successione dei fatti avvenuti a danno
suo e della sua famiglia, le persecuzioni subite, motivandole con l’avidità dei despoti e la
decisione di fare aggio sui meteci, la parte più debole della popolazione, in quanto non
socialmente integrata. La differenza principale è che Lisia sottolinea, poiché si tratta di un
argomento a proprio vantaggio, l’accanimento dei Trenta contro i meteci; tuttavia, non
dobbiamo ritenere che la notizia sia falsa, perché rappresenta la naturale prosecuzione
dell’escalation di potere operata dai tiranni: nel desiderio, preponderante, di arricchirsi,
seguono una linea prudente: cominciano da chi era realmente delinquente ed inviso al
popolo, proseguono con i meteci, che erano cittadini a metà. Ci sarebbe da controllare se è
vera la sottigliezza riferita dall’oratore, cioè la presenza di due poveri fra i dieci catturati,
per distogliere da sé il sospetto di avidità; ma non presenta caratteristiche tali da indurre
al sospetto, dato che gli autori erano uomini feroci, ma non rozzi né sciocchi.
SENOFONTE, Elleniche, II, 3, 11 – 12 – 13 – 14; 21
11 - I Trenta furono scelti non appena furono abbattute le Lunghe Mura e quelle intorno al Pireo. Essendo
stati scelti allo scopo di redigere leggi, secondo le quali avrebbero governato,erano sempre sul punto di
scriverle e promulgarle, ma disposero la Bulé e le altre cariche come sembrava a loro.
12 - In seguito, anzitutto, quelli che tutti sapevano che in democrazia vivevano di delazione ed erano di peso
per i nobili, imprigionandoli li condannavano a morte: e sia la Bulé con piacere votava secondo il loro parere,
sia gli altri quanti erano consapevoli di non essere tali non erano per nulla irritati.
13 - Ma dopo che cominciarono a progettare come fosse possibile a loro trattare la città come volevano
14 – prendevano quelli che volevano, non più i malvagi o quelli di poco conto, ma ormai quelli che
pensavano che, da una parte, minimamente sopportavano di essere disprezzati, che d’altra parte, se
tentassero di opporsi in qualche modo, avrebbero accolto moltissimi sostenitori.
21 – avvenute queste cose, poiché era possibile ormai per loro fare ciò che volessero, uccidevano molti per
inimicizia, molti per le ricchezze; sembrò poi loro opportuno, per avere ricchezze da dare anche alla
guarnigione, prendere anche ciascuno dei meteci, loro stessi ucciderli, i loro beni sequestrarli.
LISIA, Contro Eratostene, 5 – 6; 21 - 22
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5 - Ma dopo che i Trenta, che erano malvagi e sicofanti, si posero al potere,mentre andavano dicendo che era
necessario rendere la città libera dagli ingiusti e volgere i rimanenti cittadini verso la virtù e la giustizia, in
tal modo parlando non osavano agire così, come io cercherò di richiamare alla memoria parlando anzitutto
delle mie faccende ed anche delle vostre.
6 – Teognide infatti e Pisone dicevano fra i Trenta, riguardo ai meteci, che ce n’erano alcuni ostili al governo:
dunque era un ottimo pretesto far finta di punire, ma in realtà arricchirsi; la città era del tutto povera, ma il
potere aveva bisogno di ricchezza. E persuadevano senza difficoltà gli ascoltatori: infatti non consideravano
nulla uccidere uomini, ma tenevano in gran conto acquisire ricchezze. Sembrò dunque loro opportuno
catturare dieci (meteci), e due di questi poveri, perché fosse per loro di difesa nei confronti degli altri il fatto
che non per le ricchezze ciò veniva fatto, ma era molto utile per la cittadinanza, come se avessero fatto
qualcuna delle altre cose a buon diritto.
21 – Questi infatti spinsero verso i nemici molti dei cittadini, molti lasciarono insepolti dopo averli uccisi
ingiustamente, molti che godevano dei diritti civili li resero privi, impedirono di sposarsi alle figlie di molti
che erano in procinto di essere date in moglie.
22 – E son giunti a tal punto di audacia che vengono (in giudizio) per difendersi, e dicono che non hanno
compiuto niente di cattivo e vergognoso.
D’altra parte, la conferma del fatto che i confini fra storiografia ed altri generi letterari non
sono poi così netti ci viene proprio da Tucidide, che, per rendere più vivace la narrazione,
fa pronunziare ai principali attori degli eventi (stavo per dire ai protagonisti) dei discorsi,
veri nella sostanza e realmente esistiti, ma reinventati dall’Autore, che mostra notevoli
capacità retoriche.
Anche Quintiliano, nel X libro della sua Institutio Oratoria, si sofferma sui rapporti fra i
vari generi letterari:
XXXI - Historia quoque alere oratorem quodam uberi iucundoque suco potest. Verum et ipsa sic est legenda ut sciamus
plerasque eius virtutes oratori esse vitandas. Est enim proxima poetis, et quodam modo carmen solutum est, et scribitur
ad narrandum, non ad probandum, totumque opus non ad actum rei pugnamque praesentem sed ad memoriam
posteritatis et ingenii famam componitur: ideoque et verbis remotioribus et liberioribus figuris narrandi taedium evitat.
XXXII. Itaque, ut dixi, neque illa Sallustiana brevitas, qua nihil apud aures vacuas atque eruditas potest esse
perfectius, apud occupatum variis cogitationibus iudicem et saepius ineruditum captanda nobis est, neque illa Livi
lactea ubertas satis docebit eum qui non speciem expositionis sed fidem quaerit.
31 - “Anche la storia può alimentare l’oratore con una sorta di succo ricco e piacevole. Ma anche questa deve
esser letta in modo tale da sapere che la maggior parte delle sue qualità devono essere evitate dall’oratore.
Infatti è molto vicina alla produzione poetica ed in certo qual modo è un carme in prosa, e viene scritta per
raccontare, non per dimostrare, e tutta l’opera nel suo complesso viene composta non per l’azione e la
contesa presente ma per tramandare ai posteri la fama di un grande talento: e perciò tende ad evitare la noia
con parole alquanto desuete e stilemi piuttosto liberi.
32 - Perciò, come ho detto, né la celebre concisione sallustiana, di cui niente può essere più perfetto per
l’ascolto di chi è colto e libero da occupazioni, è adatta ad essere utilizzata da noi presso un giudice distratto
da vari pensieri e troppo spesso incolto, né la ricca fluidità di Livio renderà edotto chi non chiede di
ammirare l’esposizione, ma di prestarvi fede”.
Questa obiezione conferma indirettamente l’abilità retorica di Tucidide, che varia registro
e stile nel momento in cui passa dall’esposizione dei fatti ai discorsi, ma accosta anche il
testo storiografico a quello poetico.
Lo scopo di questa riflessione non è soltanto quello di dimostrare la labilità dei confini fra
un genere e l’altro, ma deve essere il primo passo per una riflessione sulle caratteristiche
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testuali, da tenere in considerazione, così come il contesto letterario, cronologico, storico –
politico, per la corretta interpretazione di un brano. Al percorso teorico, quindi, deve
seguire l’attuazione pratica, che si realizzerà nel rilevare come specifici di un autore, di un
genere e di un testo in particolare l’adozione di un registro linguistico, con le relative scelte
lessicali e semantiche, e di uno stile, che può essere la concinnitas ciceroniana o la brevitas
sallustiana, tendente alla concitazione ed alla sollevazione degli animi,
all’approfondimento del pathos o alla linearità di un’esposizione e perciò persuasiva.
Come esempio pratico, possiamo considerare due testi cronologicamente vicini, composti
nella stessa lingua, sullo stesso argomento, ma di autori diversi e con finalità differenti: si
tratta del celebre ritratto di Catilina, opera di Sallustio, e della presentazione dello stesso
personaggio per bocca di Cicerone.
Anzitutto, è rilevante la posizione che ciascun brano occupa, rispettivamente, nel testo di
cui fa parte: nella monografia di Sallustio è collocato al cap. V; si ricorda qui che i primi
quattro capitoli sono di carattere universale, in riferimento al genere umano, ed i capitoli
successivi trattano le origini di Roma ed il suo decadimento sotto il profilo etico. Viene
posto, quindi, in assoluta evidenza rispetto alla successiva narrazione degli avvenimenti, e
quasi come un punto cardine, nel passaggio dalla trattazione generale a quella particolare
sulla città.
In Cicerone, la descrizione dei costumi depravati di Catilina si trova nella II Orazione,
poiché la prima è servita all’A. per cogliere di sorpresa l’avversario, ed il Senato tutto, con
la sua violenta invettiva. Soltanto quando ha ottenuto intorno a sé l’attenzione ed il
silenzio assoluto, carico di attesa, può dedicarsi ad una prima descrizione, di carattere
generale, delle malefatte di Catilina.
Sostanzialmente, le descrizioni coincidono; tuttavia, la forma è diversa: Sallustio si limita
ad elencare, concisamente, qualità positive e negative, mentre Cicerone si lancia con foga
nell’interrogazione retorica, ed espone le stesse caratteristiche di resistenza fisica come
“vantate” dai suoi amici e seguaci, pur essendo egli un uomo corrotto e scellerato,
sottintendendo, forse, che la vanteria fosse ingiustificata, come se il giudizio morale
potesse inficiare le qualità fisiche, o che non fosse possibile valutare positivamente nessun
aspetto di un tal uomo; ad aggravare il quadro, indica gli amici di Catilina come gli
esponenti peggiori della società romana, argomento che l’altro tratta soltanto in seguito.
Sotto il profilo lessicale, troviamo in Sallustio voces mediae, accanto ad altri vocaboli
decisamente negativi. Se per lui l’animo è audax, in Cicerone, in cui si trovano comparativi
e superlativi di significato negativo, questa qualità viene subito finalizzata ad facinus. Le
libidines generiche e sfrenate sono in Sallustio ridotte ad una sola, quella del potere
assoluto. Infine, il quadro di corruzione generale in cui lo storico inserisce la figura tragica
di Catilina, pur senza per questo giustificarlo, viene dall’oratore ridotto alle individualità
di hominum perditorum.
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SALLUSTIO, De Catilinae coniuratione, 5
L.Catilina, nato da nobile famiglia, fu di grande forza d’animo e di corpo, ma d’ingegno cattivo e malvagio.
Gli furono gradite, fin dall’adolescenza, le guerre fratricide, le stragi, le rapine, la discordia civile e qui
sviluppò la sua gioventù. Il corpo tollerante di fame, freddo, veglia al di sopra di quanto sia credibile a
qualcuno. L’animo audace, subdolo, mutevole, simulatore e dissimulatore di qualunque cosa, desideroso
dell’altri, prodigo del proprio, ardente nelle passioni; abbastanza eloquenza, saggezza poca. L’animo
smisurato desiderava sempre ciò che è smodato, incredibile, troppo alto. Dopo il dominio di Silla, una
passione sfrenata l’aveva invaso di impadronirsi del governo, e non pensava in qual modo potesse ottenerlo;
pur di procurarsi il potere assoluto, non valutava nulla. L’ animo feroce era sconvolto di giorno in giorno
dalla pochezza del patrimonio familiare e dalla consapevolezza dei misfatti, cose che, entrambe, aveva
accrsciuto con quelle arti che ho ricordato prima. Lo esortavano, inoltre, i costumi corrotti della città, che i
mali peggiori e in contrasto fra loro tormentavano: il lusso e il desiderio di denaro.
CICERONE Catilinaria II, 8 – 9
Ma già quale allettamento della gioventù fu mai così grande in qualcuno, quanto in lui? Egli stesso amava
altri assai turpemente, dell’amore altrui molto vergognosamente era schiavo, ad alcuni prometteva il frutto
delle passioni, ad altri la morte dei genitori, non solo spingendoli, ma anche aiutandoli. Ora, poi, con che
rapidità aveva raccolto un gran numero di uomini malvagi non solo dalla città, ma anche dalle campagne!
Non vi fu nessuno oppresso dai debiti non solo a Roma, ma in alcun angolo dell’Italia intera che non abbia
fatto partecipe di questo incredibile accordo di scelleratezza.
E, perché possiate intendere i suoi interessi, rivolti in direzioni contrastanti con vario criterio, non vi è
nessuno un po’ più pronto allo scontro nei giochi gladiatori, che non si professi intimo amico di Catilina;
nessuno, sulla scena, più fatuo e turpe, che non ricordi di essere stato compagno di lui medesimo. E tuttavia,
lo stesso uomo assuefatto alla pratica di stupri e delitti veniva vantato da costoro come forte nel sopportare
freddo e fame e sete e veglie prolungate, usando l’ausilio dell’ingegno e i mezzi della virtù nella passione e
nell’audacia.
I Commentarii di Cesare sono un’opera storiografica o no? Stando alla forma, chiaramente
no: sono, appunto, commentarii, ossia una sorta di cronaca degli avvenimenti accaduti
giorno per giorno, anche se non necessariamente redatta con cadenza quotidiana. Tuttavia,
Cesare mantiene un tono così rigorosamente impersonale da dare ad intendere che tale
cronaca è estremamente obiettiva. Allora, hanno l’imparzialità che dovrebbe essere
propria di uno storico? Ni: vale a dire che possiamo attribuire tale dote al “De Bello
Gallico”, ma non al “De Bello Civili”, anche se potrebbe sembrare diversamente. Per
quanto riguarda la prima opera, Cesare non si limita al racconto delle battaglie e delle
vittorie, ma fa uso di descrizioni geografiche ed etnografiche; è vissuto in quelle terre per
diversi anni, ed ha conosciuto bene i Galli, abbastanza i Germani, quasi per nulla i
Britanni; era un comandante abile ed un combattente valoroso; conosce gli uomini, le loro
virtù, soprattutto militari, ma anche di lealtà, il rigore dei costumi, l’attitudine al comando
dei capi che si trova di fronte, e non ha desiderio né motivo di sminuire il valore dei Galli
in generale e di Vercingetorige, il loro condottiero, in particolare; onore al nemico vinto!
Senza contare che, come nelle partite di calcio, il valore della squadra sconfitta pone in
risalto quello dei vincitori. Con l’altra opera, Cesare s trova in una situazione un tantino
104
diversa: non è il condottiero romano trionfatore sui barbari, ma… un traditore; il senato
romano è legittimamente rappresentato da Pompeo, e lui stesso si è messo contro la patria
nel momento in cui ha attraversato il Rubicone in armi, alla testa dei suoi soldati. Ciò
significa che Cesare non rispetti la verità dei fatti? Niente affatto: è troppo abile per fare
questo; oltretutto non era costretto a scrivere dei Commentarii anche su questi avvenimenti,
quindi, se lo fa, è per trarne un tornaconto. Lo stile del “De Bello Civili” è meno schietto,
più sofisticato della prima opera, ed in questo periodare ampio e ben costruito Cesare fa
scivolare, fra i meandri del discorso indiretto, qualche insinuazione sul conto della politica
di Pompeo negli anni precedenti e delle sue virtù di integerrimo difensore della respublica.
Degno contraltare all’opera in prosa di Cesare, ma soprattutto al suo punto di vista, è il
poema di Lucano, secondo cui non solo le guerre civili sono state la massima sventura per
Roma, ma Cesare stesso, lungi dall’essere invidiato da avversari malevoli, incarna la figura
del nemico dello Stato. A mo’ di esempio, basti citare il fatto che, mentre Lucano fa del
passaggio del Rubicone un punto cruciale, in quanto Cesare, passando con l’esercito in
armi questo confine di Roma, aveva trasgredito il divieto del Senato e le leggi stesse della
Repubblica, lo stesso Cesare neppure menziona il fiume, simbolo del confine (e della
propria trasgressione), ma dice semplicemente che “procedette verso Rimini”.
LUCANO – Bellum Civile I, 204 - 232
Quindi rompe gli indugi della guerra e attraverso il fiume gonfio porta velocemente le insegne...........
Sgorga da una modesta sorgente e si spinge con piccole inde purpureo il Rubicone, quando arde la calda
estate, e serpeggia per il fondovalle e, limite certo, separa i campi dei Galli dalle coltivazioni italiche. Allora
mostrava la sua forza l’inverno e aveva accresciuto le onde il terzo quarto di Luna con la falce gravida di
pioggia e le Alpi che si sciolgono per i soffi umidi di Euro. Per primo attraverso il fiume con gli zoccoli
sonanti si spinge per superare l’acqua, poi il resto della turba rompe per il facile guado le onde percorribili
del fiume ormai violato. Cesare, non appena toccò la riva opposta, superata la corrente, e si fermò nei campi
proibiti do Esperia, “Qui” disse “qui lascio le sacre leggi della pace; te seguo, Sorte. Siano lontani di qui,
ormai, i patti; a questi abbastanza prestammo fede, si deve usare come giudice la guerra.”. Così avendo detto
trascina le schiere nelle tenebre della notte il condottiero instancabile, e più velocemente del lancio ritorto
della fionda ispanica della freccia del Parto mandata dietro le spalle, invade minaccioso la vicina Rimini, e le
stelle abbandonata l’alba fuggivano i raggi del Sole.
CESARE - De Bello Civili I, 8
Conosciuto il volere dei soldati parte per Rimini con quella legione e lì raduna i tribuni della plebe, che si
erano rifugiati presso di lui, richiama dagli accampamenti invernali le rimanenti legioni ordina che lo
seguano.
Se andiamo a considerare un altro brano di Lucano, parallelamente al testo di Cesare sullo
stesso episodio, troveremo delle sorprese: anche nel testo poetico, infatti, ricorre il
costrutto dell’ablativo assoluto, tanto spesso indicato come “marchio” caratteristico della
prosa cesariana; in questa, però, non poteva trovare posto l’apostrofe rivolta a Scipione.
Più significative sono le scelte lessicali: troviamo l’aggettivo nudatus, due volte, e ancora i
105
verbi perdo, ruo, tutti vocaboli che hanno una chiara connotazione emotiva; di contro, in
Cesare ricorre il sostantivo voluntas. Per Lucano, Termo è scacciato, per Cesare fugge: due
diverse prospettive per lo stesso evento.
LUCANO – Bellum Civile I , 462 – 477
La gente etrusca, privata di difesa con la fuga del timoroso Libone, e l’Umbria, scacciato Termo, perse ormai
il diritto di sé. E non conduce la guerra civile secondo i paterni auspici Silla, volto indietro all’udire il nome
di Cesare. Varo, non appena le ali dell’ìesercito mossesi attaccarono Osimo, fugge a precipizio dal lato
opposto delle mura, dimentico di ciò che aveva alle spalle, per dove vi erano selve, per dove sassi. E’
scacciato dalla rocca di Ascoli Lentulo; il vincitore incalza quelli che si ritirano e sconvolge le file, e solo da
una così grande schiera il comandante fugge e le insegne che non guidano nessuna coorte. Anche tu,
Scipione, abbandoni la rocca spogliata di Nocera a te affidata, sebbene una saldissima gioventù si trovi in
questo accampamento, già prima allontanata dalle armi di Cesare per timore dei Parti, con cui il Grande
rimediò ai danni dei Galli, e benché quello stesso chiamasse allo scontro concesse al suocero di usare il
sangue romano.
CESARE – De Bello Civili I, 12 – 13
12 – Frattanto, informato che il pretore Termo occupava Gubbio con 5 coorti, fortificava la città e la
disposizione d’animo di tutti gli Eugubini verso lui stesso era ottima, manda Curione con tre coorti, che
aveva a Pesaro ed a Rimini.Conosciuto il suo arrivo, Termo, non fidandosi della volontà della cittadinanza
conduce fuori dalla città le coorti e fugge. I soldati durante in percorso si allontanano da lui e ritornano in
patria. Curione col massimo consenso di tutti accettò la resa di Gubbio. Conosciuto ciò, Cesare, confidando
nel consenso delle cittadinanze conduce fuori dal presidio le coorti della 13° legione e parte per Osimo; Azio
occupava questa città, portate dentro le coorti chiamava la leva per tutto il territorio Piceno mandati intorno i
senatori.
13 – Conosciuto l’arrivo di Cesare i decurioni di Osimo in massa si recano da Azio Varo; lo informano che la
situazione non è in loro potere; né loro né i rimanenti municipi possono sopportare che il comandante C.
Cesare, benemerito dello Stato, compiute tante imprese sia tenuto lontano dalle mura della città; quindi
tenga conto della posterità e del proprio rischio. Mosso da questo discorso Varo conduce fuori dalla città il
presidio che aveva introdotto e fugge. Pochi soldati di Cesare dalla prima fila inseguitolo lo costrinsero a
fermarsi. Iniziata la battaglia Varo è abbandonato dai suoi; una parte dei soldati ritorna a casa; gli altri
giungono da Cesare, e insieme con loro, catturato, viene condotto L. Pupio, centurione della prima fila, che
prima aveva guidato questa stessa schiera nell’esercito di Gn. Pompe. Ma Cesare loda i soldati di Azio, lascia
andare Pupio, ringrazia gli Osimani e promette che si ricorderà della loro azione.
Naturalmente, si potrebbe continuare su questa falsariga, non all’infinito, ma per un
considerevole numero di argomenti, trattati parallelamente secondo tipologie testuali
differenti; il percorso si amplia, poi se si scelgono come oggetto di investigazione, anziché
singoli avvenimenti, intere tematiche (per esempio i tiranni), o personaggi di grande
rilevanza, su cui si sono versati, come si suol dire, fiumi d’inchiostro, anche se
l’espressione suona, in questo contesto, anacronistica.
Ebe Caracausi
docente di Latino e Greco
106
Siracusa 1914: rappresentazione dell’Agamennone
I ciclo di spettacoli classici di Mario Pintacuda
Nel 1913 il conte Mario Tommaso Gargallo creò un comitato di cittadini siracusani per far
rivivere le antiche opere drammatiche greche nello scenario del teatro greco della città
aretusea. Ispiratore di queste attività era il grande archeologo Paolo Orsi, allora
sovrintendente alle Antichità per la Sicilia e la Calabria. A dirigere l’allestimento
dell’Agamennone di Eschilo fu scelto Ettore Romagnoli (Roma 1871 - 1938), insigne grecista
italiano. Romagnoli si addossò anche l’arduo compito di comporre le musiche e di
occuparsi di tutta la parte artistica dello spettacolo, dalla recitazione al movimento delle
masse e all’istruzione del coro.
I capitali furono in parte anticipati da facoltosi signori di Siracusa ed in parte raccolti
mediante l’emissione di piccole azioni da cinquanta lire, che vennero acquistate da tutto il
popolo. Fu quasi una sottoscrizione plebiscitaria, e ciò dimostra l’interesse che destò nel
popolo siciliano l’annuncio di questa rappresentazione.
Il fervore con cui Ettore Romagnoli si prodigò nella preparazione dello spettacolo
(coadiuvato dall’altro regista Giuseppe Masi) emerge dalle cronache dei quotidiani locali,
che già parecchie settimane prima della recita dedicarono pagine intere all’imminente
avvenimento artistico. Giorno per giorno i lettori furono informati dell’andamento delle
prove, cui parteciparono gli attori Gualtiero Tumiati (Agamennone), Teresa Mariani
(Clitemestra), Elisa Berti Masi (Cassandra), Giulio Tempesti (Egisto), Giosuè Borsi
(Araldo), nonché il coro formato da ben centocinquanta cantori ed il complesso
strumentale di flauti, oboi, clarinetti, fagotti, liuti, lire, timpani ed archi. Le scene furono
preparate dal grande Duilio Cambellotti (Roma 1876 - 1960); i costumi furono ideati da
Costumi di Bruno Puozzo. Inizialmente le prove del coro si svolsero con
l’accompagnamento di un pianoforte, piazzato al centro dell’orchestra. Il 4 aprile
Romagnoli e Borsi effettuarono numerose prove acustiche e controllarono la visibilità dai
vari settori del teatro. Il 13 aprile il quotidiano “L’Ora” di Palermo riferiva che il maestro
Mulè, occasionalmente presente ad una prova, canticchiò un motivo popolare della Conca
107
d’Oro, mentre Romagnoli accennò un ritmo greco del III secolo a. C., ed insieme ne
riscontrarono la perfetta somiglianza. L’arrivo a Siracusa di autorità e di personalità del
mondo dello spettacolo fu registrato quotidianamente dalle gazzette.
La “prima” fu rappresentata il 16 aprile. Riportiamo qui le “Avvertenze” che furono rese
note prima dello spettacolo:
“Il Teatro sarà aperto due ore avanti l'inizio dello spettacolo. Si raccomanda di acquistare i biglietti e di
accedere al Teatro per tempo. I biglietti non sono validi per l'ingresso se staccati dal talloncino-madre e se
perforati. L'accesso ai posti primi, secondi e numerati sarà dal largo corridoio (diazòma) che trovasi al
centro. È rigorosamente vietato di introdursi in qualunque momento nell'Orchestra e nella Scena. Da quando
gli squilli di tromba annunzieranno l'inizio dello spettacolo, il pubblico è pregato di mantenere il più
rigoroso silenzio e di non recar disturbo col cambiare posto, stare in piedi sui gradini, tenere ombrellini
aperti, o in qualsiasi altro modo. Nei primi e secondi posti saranno dati in locazione dei cuscini al prezzo di
centesimi 50 ciascuno per la durata della rappresentazione. I posti numerati saranno muniti di relativo
cuscino. È vietata l'introduzione di altri cuscini. L'introduzione di apparecchi cinematografici è consentita
solo dietro speciali convenzioni col Comitato. Gli apparecchi fotografici con piede sono ammessi solamente
in punti determinati dal Comitato dietro pagamento di L. 10 per ogni apparecchio. Nel caso in cui una
rappresentazione non possa aver luogo nel giorno indicato, non si darà diritto a nessun rimborso, ma i
biglietti serviranno per la rappresentazione immediatamente successiva. Servizio di Posta e Telegrafo,
vendita di bibite, cartoline illustrate e ricordi nell'interno del Teatro” 971.
A dire il vero quella prima esperienza rivelò qualche manchevolezza e qualche ingenuità
in taluni particolari dello spettacolo; a difettare non fu la recitazione che, affidata ad artisti
di grande valore, fu di prim’ordine; ma vennero meno proprio quegli elementi spettacolari
(musica, coro, danze) che avrebbero dovuto fare maggiore presa sulla massa degli
ascoltatori e che invece mostrarono pecche e imperfezioni, dovute certamente a una
mancanza d’esperienza. In definitiva però il coro, composto prevalentemente da studenti
siracusani e dilettanti, si disimpegnò discretamente, mentre le musiche del Romagnoli,
essenziali nella loro contenutezza, si mostrarono aderenti all’ethos del dramma. Il testo
dell’Agamennone venne integrato con cinque brani musicali: un preludietto che
interrompeva il primo monologo della Scolta; un coro inserito nella parodo, in ritmo
anapestico; una preghiera a Zeus, alla partenza dell’Araldo, eseguita dai coreuti* con
accompagnamento di cetra; una monodia alternata a cori* dopo la profezia di Cassandra; e
infine un’elegia angosciosa intonata da tutti mentre il defunto sovrano è trasportato sulla
bara.
Il successo dello spettacolo fu grandissimo; tutti i giornali, nazionali ed esteri, furono
larghi di elogi (fra cui quelli di critici come Renato Simoni, Silvio D’Amico ed Eduardo
Scarfoglio). Purtroppo la guerra 1914-18 interruppe inopinatamente l’iniziativa e per il II
ciclo di spettacoli si dovette attendere il 1921 (con la rappresentazione delle Coefore di
Eschilo).
Mario Matteo Pintacuda
docente di Latino e Greco
1.
108
Cfr. Agamennone 1914 – Teatro greco di Siracusa – Immagini e documenti, con introduzione di Emanuele
Giliberti e nota di Riccardo Reim, Emanuele Romeo editore, Siracusa 1994.
Per un insegnamento consapevole del latino:
metodo natura vs metodo descrittivo-normativo di Maria Rinaudo
Considerazioni preliminari
G. Pittano, nell’ormai lontano 1978, scriveva a proposito dell’insegnamento del latino:
“Dobbiamo abolire … la grammatica? Non diremmo. Dobbiamo piuttosto insegnarla in
modo diverso, dobbiamo ricorrere più spesso ai metodi induttivi e fare in modo che
l’allievo attraverso l’apprendimento della lingua costruisca da sé la grammatica.
L’abbandono di metodi rigidamente deduttivi può permettere di giungere a risultati
scolasticamente più validi e, soprattutto, a risultati culturalmente più significativi. Lo
squallido panorama della ignoranza scolastica del latino, dopo otto anni di studio (in otto
anni si impara il cinese!), dovrebbe almeno rendere avvertiti che qualcosa non funziona. E
non si tratta solo di estraneità della materia. Forse, da questo punto di vista, la cultura
classica ci è meno estranea di quanto gli insegnanti di latino nel loro pessimismo e nelle
loro frustrazioni non vogliano farci credere”98. Dunque ‘qualcosa non funziona’, sostiene
Pittano; ma cosa? Se la causa dell’ignoranza in latino non è l’estraneità della materia (e di
questo dobbiamo essere convinti!), ciò che non funziona è sicuramente il metodo di
insegnamento e il ruolo ‘formativo’ che la tradizione didattica italiana ha da sempre
assegnato al latino, intendendo il latino ‘in funzione di’ e non ‘per sé’ e prescindendo del
tutto da una valutazione neutra che gli assegni una funzione pari a ‘qualsiasi altra materia
scolastica di qualsiasi indirizzo’. Non funziona il metodo perché si fonda sulla centralità
della grammatica che si ritiene l’unica via per un sicuro accesso al latino (a questo
proposito già Pascoli sosteneva che la melma di una grammatica imbecille, … l’analisi
logica grossolana e goffa … si estende ancora ‘come un’ombra sui fiori immortali del
pensiero antico e li aduggia’), ed è ingiustificato l’approccio iniziale al latino, visto come
palestra di logica. Proprio a proposito del binomio ‘latino = logica’, G. Pasquali scriveva:
“Quella logica che si rivelerebbe nell’applicare senza eccezione i canoni della consecutio
temporum e nel distinguere sottilmente tra indicativo e congiuntivo nelle proposizioni
subordinate, non c’è mai stata in latino prima o dopo Cicerone; c’è solo in un certo
Cicerone, e, si può aggiungere, persino in Cicerone non è così logica come nei manuali di
grammatica. In molte proposizioni Cicerone, anche quello delle orazioni più togate e più
limitate, usa indicativo e congiuntivo, presente e imperfetto senza distinzione intellettiva,
caso mai per riguardo a eufonia o a ritmo più che per ubbidienza alla logica. Anche
Cicerone era per sua e nostra fortuna un uomo vivo che scriveva una lingua viva. Ma i
maestri di scuola italiani seguitano a dare un voto buono o cattivo ai ragazzi di liceo,
unicamente secondo che questi rispettino o no la consecutio temporum o adoprino il
congiuntivo nelle secondarie ubbidendo a regole feroci quanto fantastiche. In pratica, chi
usa il tempo più diverso da quello italiano o mette più congiuntivi, riporta la palma; questi
professori sono tutti malati, ho scritto una volta, di coniunctivitis professoria. Poco male se
98
G. Pittano, Didattica del latino, Milano, 1978, p. 94.
109
tenessero per sé questa malattia e non facessero perdere un tempo prezioso agli scolari,
che ne hanno poco, e questo poco dovrebbero impiegare a conoscere la cultura antica, a
risentire, anche nella letteratura, lo stile antico, cioè l’anima antica” 99. E ancora: “Si dà da
tradurre al ragazzo un brano tradotto a sua volta da un classico latino, e si segna errore o
improprietà tutte le volte che il ragazzo non ha imbroccato la parola o il costrutto del testo
originale, quasi quelli fossero i soli possibili. Può invece anche succedere, ed è successo,
che il professore abbia preso il testo della <retroversione> da una raccolta stampata, senza
curarsi di identificarlo; che gli scolari, ai quali l’interesse fa nascere miracolosamente un
fiuto da segugi, scovino la fonte, e che il professore dia un puntaccio a Cesare o a Svetonio.
Ma, in genere, prevale ora tutt’altro metodo. Molti maestri delle scuole medie, sotto
l’influsso di una teoria ormai antiquata secondo la quale, poiché per un certo tratto di
tempo e in certi autori (essenzialmente il Cicerone delle orazioni e dei trattati filosofici e
retorici) il periodo latino è organizzato più rigorosamente che nelle lingue moderne, il
latino doveva essere la lingua logica, e il suo insegnamento mirare alla formazione dello
spirito logico, ripongono l’eccellenza della versione nella logica, cioè nella correttezza
sintattica. Poco male che nei latinucci della maturità quasi nessun vocabolo sia adoprato
come l’avrebbe usato un romano, che l’ordine delle parole oscuri talmente il concetto che
nessuno di noi, se non avesse il testo, potrebbe intendere la versione: tutte queste sono
<improprietà>; errore è unicamente la contravvenzione alla consecutio temporum, il mancato
uso della coniugazione perifrastica, l’indicativo per il congiuntivo nelle subordinate. Il
male è che i maestri deducono tali regole, non già dai testi ma da manuali troppo
normativi: neppure il Cicerone più rigoroso ha usato tanti congiuntivi, ed è stato così
severo nell’uso dei tempi quanto i professori e per riflesso gli scolari d’Italia. Cicerone in
Italia sarebbe forse bocciato alla maturità classica; è vero che egli non intenderebbe i
compiti dei suoi compagni promossi col massimo dei voti. Col massimo dei voti?
Professori di questo tipo non danno mai il massimo dei voti. È tempo che i professori
italiani guariscano della coniunctivitis professoria, che infierisce tra loro più che il tracoma
nei più sudici borghi arabi; è tempo che i ragazzi non siano più tormentati con rarità
sintattiche…”100. Si potrebbe obiettare che oggi, dopo l’abolizione della versione in latino
sia nelle scuole che nelle università, le parole di Pasquali possano non essere più attuali; e
invece, ciò che è più sorprendente e direi paradossale è che, nonostante non sia più
prevista la versione in latino, nella didattica della lingua latina si continua a ragionare
come se si dovesse ‘produrre in latino’ e non ‘comprendere il latino’ di un testo dato.
Dall’osservazione clinica …
Queste riflessioni, lungi dal risultare ormai superate, trovano conferma nella situazione
attuale; i dati statistici relativi ai livelli di apprendimento del latino degli studenti italiani,
99
G. Pasquali, Il latino in iscorcio, in Pagine stravaganti 1, Firenze, 1930, pp. 131-132.
G. Pasquali, Coniunctivitis professoria, in Pagine stravaganti 1, Firenze, 1930, pp. 148-149.
100
110
infatti, non sono certamente rassicuranti: gli esiti dell’insegnamento delle lingue classiche
sono abbastanza deludenti e spesso si verificano due condizioni:
1. nella maggior parte dei casi i risultati sono insufficienti allo ‘scritto’ ma vengono
‘compensati’ (!) dalle verifiche ‘orali’ (ma è possibile farsi un’idea così schizofrenica
di un sapere? E cosa significa alla fine del percorso ‘valutare’ le conoscenze e
competenze effettive?);
2. quando invece i risultati sono buoni o ottimi, anche allo scritto, si verifica quasi
sempre che: a) una ‘buona versione’ di un testo latino dipende in buona parte
dall’uso del vocabolario (senza il quale, spesso, anche gli allievi migliori non hanno
autonomia interpretativa); b) si possiede una discreta idea sul sistema letterario e
una limitata esperienza di lettura di testi in lingua (ormai da tempo, per sopperire
al fattore ‘tempo’, si ricorre alla lettura mista, ossia pochi testi in lingua e molti, a
volte anche integrali, in traduzione italiana); c) le conoscenze grammaticali
‘teoriche’ sono buone, ma nel senso della descrizione di una lingua piuttosto che
della comprensione profonda del ‘sistema lingua’.
E dopo il liceo, del latino appreso a scuola rimangono vaghi ricordi affidati o a qualche
brano di un autore che per vari motivi è rimasto particolarmente impresso nella mente, o a
qualche regola o schema grammaticale, arido, che col tempo si continua a ricordare
‘meccanicamente’, ma di cui si è perso il senso; insomma nessuna abilità di lettura
autonoma di un qualsiasi banale testo di cui è pieno il nostro patrimonio artisticoculturale. Diventa inevitabile, a questo punto, chiedersi a cosa serva ‘studiare’ latino in
questo modo: per non imparare nulla, o quasi, e sicuramente per annoiarsi?
… alla diagnosi…
Quanto osservato dagli studiosi su riportati dovrebbe spingere a mettere in discussione la
convinzione, oggi spesso diffusa tra gli insegnanti, che gli studenti sappiano meno latino e
che abbiano maggiori difficoltà nel suo apprendimento perché non conoscono più la
grammatica, sia italiana che latina; se la conoscenza della grammatica è importante per
riflettere sulle strutture profonde di una lingua, antica o moderna, dovrebbe essere
comunque chiaro che si tratta di riflessione metalinguistica, e che la conoscenza della
lingua non può né dipendere né essere successiva alla riflessione metalinguistica. Diventa
tanto più urgente interrogarsi sul perché del fallimento dell’insegnamento delle lingue
classiche e provare a trovare soluzioni il più possibile efficaci. Si possono individuare i
seguenti difetti nella pratica didattica:
1) approccio eccessivamente teorico, che privilegia lo studio della grammatica,
ritenuta prioritaria e indispensabile per l’apprendimento della lingua, a scapito
della lettura diretta dei testi;
2) scarsa attenzione dedicata al lessico, non ritenuto indispensabile all’apprendimento
della lingua;
111
3) approccio ‘schizofrenico’ al latino, frammentato nelle ore di lingua, lettura di testi e
studio della civiltà e della letteratura, considerati tre momenti autonomi e
indipendenti l’uno dall’altro;
4) scarsa motivazione negli allievi.
Da diversi anni (si pensi al progetto Brocca) ormai si parla di ‘centralità del testo’ rispetto
allo studio teorico della grammatica, e di tutto ciò c’è traccia in molti manuali, sia di
grammatica che di letteratura. Tuttavia, nella sostanza, ciò che è cambiato veramente
rispetto ad anni addietro sembra solamente l’approccio iniziale, induttivo, dal testo alla
norma e dal testo al contesto, ma nella pratica non si mette in discussione l’intero sistema.
In sostanza, l’esperienza dimostra che alla base del fallimento c’è una scarsa frequenza
diretta dei testi in lingua originale e il fatto che, diversamente da quanto si sostiene, lo
studio della grammatica teorico-descrittiva rimane centrale o quantomeno prioritario nella
didattica del latino; anzi viene considerato l’unico mezzo che consente la comprensione
della lingua, trascurando un aspetto da cui invece non credo che si possa prescindere,
ossia il lessico. Infatti viene tuttora concesso uno spazio ridotto e marginale allo studio del
lessico: i lunghi elenchi di vocaboli sono ridotti all’apprendimento morfologico e spesso i
significati sono identificati con i ‘traducenti’, senza che vengano forniti strumenti di analisi
lessicale. Oggi molti manuali si interessano anche a quest’aspetto, inserendo molte schede
lessicali. Ma il problema è sempre lo stesso: le schede lessicali fanno da complemento
esornativo all’impianto che rimane immutato. E quando accade che allo studio del lessico
venga dedicata una maggiore attenzione (lessico per radici, indicazioni sulla formazione
dei termini, prefissi, infissi e suffissi), questa diventa un’operazione astratta, meramente
teorica, basata più sulla memorizzazione che sull’osservazione dell’uso concreto del
lessico nel testo.
Se è vero che il lessico va appreso sistematicamente, è altrettanto vero che esso si può
apprendere usandolo (dall’usus alla doctrina). Scriveva Guido Calogero già nel 1955: “Il
dominio effettivo di una lingua è ben più un problema di conoscenza lessicale che di
conoscenza grammaticale”, e “con molto lessico e niente grammatica si capiscono i nove
decimi di quello che è scritto in una lingua straniera; con molta grammatica e niente
lessico non se ne capisce assolutamente niente”101. Il lessico dunque è fondamentale per
apprendere una lingua, oltre ad essere nel nostro caso lo strumento privilegiato per
conoscere la civiltà greco-latina, ma è altrettanto fondamentale per comprendere la sintassi
di quella lingua; bisogna cioè invertire l’ordine, e capire che è proprio a partire dal lessico
che si ‘determina’ la sintassi e non è dalla sintassi che si ricava il lessico (tradizionalmente
nella didattica del latino si pensa che la comprensione del testo dipenda esclusivamente
dalla comprensione grammaticale, escludendo quella lessicale e semantica).
Per capire tutto ciò bastano alcuni esempi in italiano: nelle espressioni “il libro di Mario, la
giacca di cotone, muoio di freddo, lavoro di mattina, chi di voi ha parlato?, tu sei migliore di
me, la città di Roma è piena di abitanti, ho sentito parlare bene di te, il giardino è pieno di
fiori”, oppure “torno da Roma, vado dai nonni, questo è stato affermato da te, scarpe da
101
G. Calogero, Il panlatinismo, in Il mondo, settembre 1955.
112
tennis, veniamo da amici, veniamo da anni”, cosa ci consente di capire la funzione logica
della preposizione? Certamente non la preposizione da sola, ma o il sostantivo cui è unita
o il verbo o l’intero contesto. Ricorro ad esempi tratti dalla nostra lingua madre,
consapevole della maggiore ‘naturalezza’ e ‘immediatezza’ con cui si può cogliere l’idea,
ma la stessa cosa potrebbe dirsi del latino. Ad esempio, quando la sintassi latina presenta
consulo e i cambiamenti di significato in relazione al differente costrutto, non avviene forse
il contrario, ossia che a partire da un’idea originaria di un lessema si ‘determina’ un
significato specifico se si ‘combina’ il termine con un particolare caso o con una particolare
preposizione? Se si riflette, ad esempio, sull’origine di consulo e sulla sua possibile
derivazione dalla radice di sedeo attraverso il sostantivo consul (cum- solium da *sod-ium =
seggio elevato; dunque il console è chi sta seduto assieme, collega, mentre consulo è il suo
denominativo), i cambiamenti di significato del verbo non derivano dai suoi costrutti, ma
sono esattamente questi ultimi (per la ‘natura’ del dativo o dell’accusativo etc.) a
connotarsi come ‘scelte sintattiche’ che circoscrivono o esplicitano in una certa direzione
un’idea genericamente insita nel verbo in assoluto (per mutuare una terminologia, e non
solo, da un validissimo modello grammaticale, quello valenziale, il dativo o l’accusativo in
questo caso sono gli attanti o argomenti del verbo). È questa l’ottica da cui bisogna
osservare il latino e capire che senza il lessico, seriamente studiato e appreso, i nostri
allievi non possono imparare una lingua. La memorizzazione del lessico, pertanto, non
può essere disgiunta dall’apprendimento morfologico e non può essere episodica, ma
richiede un progetto sistematico e strutturato.
Alla luce di queste osservazioni, dunque, ci si chiede: è possibile oggi imparare il latino, e
bene? La risposta è decisamente positiva. E allora, su quali presupposti teorici bisogna
costruire la propria progettazione didattica? La riflessione grammaticale è fondamentale,
direi necessaria, ma bisogna assegnarle il giusto spazio; la riflessione linguistica intesa
esclusivamente come studio morfosintattico e prescindendo dallo studio del lessico è
impensabile. Partendo dunque da queste premesse, e vista la consapevolezza
dell’insuccesso che deriva da una consolidata tradizione didattica, bisogna interrogarsi
sull’opportunità della scelta del metodo di insegnamento della lingua latina, superando la
rassegnazione, e impegnandosi a trovare le strategie più adatte al conseguimento dei
traguardi formativi.
… alla terapia
Un metodo è semplicemente una via per arrivare a degli obiettivi. La scelta del metodo,
pertanto, deve essere finalizzata al raggiungimento di tali obiettivi. Nulla di più ovvio, in
teoria, ma nella pratica le cose non stanno affatto così. Infatti ciò che prevale nelle pratiche
didattiche del nostro paese è la ‘sicurezza’ data dall’adesione, più o meno rigorosa, a un
metodo consolidato dalla tradizione. È questa, infatti, che mette i docenti al sicuro dai
‘rischi’ del possibile fallimento di una metodologia del tutto innovativa, ma che
soprattutto non costringe a mettere in discussione tutte le certezze (teoriche) acquisite con
l’esperienza attiva e passiva (da docenti e da ex studenti), e che soprattutto mette al sicuro
113
-
la propria coscienza. Si verifica, pertanto, che spesso la scelta del metodo, lungi dall’essere
consapevole e meditata da parte del docente, è conseguenza di inerzia intellettuale, ed è
pertanto tra i principali fattori responsabili dei deludenti esiti di apprendimento delle
lingue classiche.
La scelta del metodo, dunque, deve essere un’operazione consapevole e deve essere
preceduta dalla domanda su cosa vogliamo che i nostri alunni imparino in cinque anni. Il
progetto didattico deve essere formulato in base alla meta, cioè all’utilità della disciplina,
al perché si deve studiare. Se la risposta è “un po’ di grammatica teorica che faccia
ragionare in astratto”, allora il grammaticalismo fine a se stesso e il tradizionale metodo
deduttivo-normativo risulta il migliore. Ma se lo scopo è quello di portare gli allievi a
leggere e comprendere un testo latino autonomamente e con ‘intelligenza’, senza l’uso del
vocabolario, a interrogarlo, a fargli delle domande per ricavarne risposte utili al di fuori
degli angusti confini della scuola, allora il metodo tradizionale si rivela del tutto
fallimentare.
Alla domanda ‘Perché studiare latino?’ si può rispondere sostanzialmente in due modi: 1)
Si attribuisce ad esso un ruolo largamente formativo (latino come strumento); 2) lo si
considera una materia scolastica (attenzione: non disciplina scientifica!) che all’interno di
un curricolo deve generare conoscemze e competenze (latino come fine). Proviamo ad
analizzare i due approcci.
1) Latino come strumento di formazione:
Si parte dalla convinzione che studiare latino serva:
come palestra logica per ginnastica mentale;
a migliorare la comprensione del proprio idioma e della grammatica;
a facilitare l’apprendimento delle lingue romanze;
a procurare conoscenze storiche;
Nella maggior parte dei casi tali presupposti inducono a considerare del tutto naturale il
ricorso al metodo tradizionale, che più di altri si adatta a tale idea astratta del latino. Le
conseguenze di una simile scelta sono:
1) un insegnamento sistematico della grammatica per introdurre alla conoscenza della
lingua;
2) la parola diventa l’obiettivo principale dell’istruzione linguistica;
3) una perdita di motivazione da parte degli studenti già nella fase iniziale.
In altre parole si propone un modello teorico di descrizione linguistica insufficiente a
rendere conto dell’organizzazione gerarchica della frase e che si avvale di terminologia
nozionistica anziché funzionalistica; in sostanza gli elementi linguistici non vengono
definiti su base relazionale e funzionale ma logico-ontologica e le frasi sono descritte come
sequenze di parole. L’apprendimento della regola grammaticale, con finalità applicativa,
precede l’incontro col testo in lingua, secondo un procedimento inverso e un’impostazione
normativa aprioristica, che concede ampio spazio alle eccezioni. La lettura dei testi viene
dilazionata per l’assenza di prerequisiti grammaticali necessari alla decodifica. È un
metodo classificatorio e prescrittivo, avulso da una seria riflessione sullo statuto
epistemologico disciplinare, è segno di una cristallizzazione didattica. E il povero studente
114
di latino si trova alle prese con delle analisi e delle astrazioni superiori a quelle stesse della
sua lingua materna102. Tale scelta, lungi dal sortire esiti positivi, determina le conseguenze
che:
·
·
·
·
·
·
lo studente, che sa declinare perfettamente le eccezioni ma non si orienta nei testi, si
convince subito che il latino non è una lingua (cosa succederebbe in un conservatorio se si
anteponessero il solfeggio e la teoria musicale alla pratica?);
si scinde la morfologia dalla sintassi;
viene trascurato l’apprendimento sistematico del lessico, per il quale si legittima l’uso
esclusivo del vocabolario; con la conseguenza che l’elevato numero dei traducenti fornito
dal vocabolario, tra cui lo studente non opportunamente guidato rischia di perdersi, non
può esaurire la ricchezza delle situazioni contestuali né le potenzialità del lessico italiano;
la traduzione diventa spesso un rompicapo, un indugiare sulla singola parola che viene
inquadrata in sé, a prescindere dalle sue relazioni col testo, e di cui si tenta di indovinare il
significato scegliendolo tra le varie possibilità fornite dal vocabolario;
la traduzione è usata come mezzo di verifica della comprensione di un testo, identificando la
competenza della lingua con la competenza traduttiva.
Lo studente traduce per comprendere, invertendo l’ordine ermeneutico, e si abitua fin da
subito a utilizzare solo la lingua madre come lingua di riferimento, senza riuscire a
comprendere dentro il sistema linguistico latino. Pertanto il testo in lingua non è percepito
come testo, ma come codificazione opaca e complessa.
2) Latino fine a se stesso, ossia materia scolastica che come tutte le altre materie deve
generare conoscenze e competenze.
Se le motivazioni dello studio del latino sono altre rispetto a quanto è emerso, le priorità
degli apprendimenti e le scelte metodologiche fin qui illustrate risultano inadeguate. Pur
nella consapevolezza che il latino ha lasciato una traccia non irrilevante in molti campi del
sapere, dal diritto alla filosofia, dalla medicina alla fisica, dalle scienze naturali alla
teologia, perché non inquadrarlo nella sua autonomia ‘disciplinare’ a partire dai
presupposti epistemologici, insomma destoricizzarlo, liberarlo dall’impalcatura ideologica
e dal peso della tradizione didattica per recuperarne non tanto l’importanza ma la
bellezza, il suo valore intrinseco e non estrinseco? Non è possibile, a mio avviso,
rinunciare allo scopo peculiare dell’apprendimento della lingua latina, che deve servire
per leggere e comprendere i numerosi testi (e non mi riferisco solo alla produzione
classica) giunti fino a noi. Diventa indispensabile, dunque, demolire i pregiudizi, anche
dei poveri studenti, vittime di luoghi comuni, e insistere sulla motivazione. Diceva S.
Agostino: ‘ha maggiore efficacia nell’apprendimento una curiosità volontaria che non una
costrizione intimidatoria’103. Dal ‘500 in poi molti furono ad insistere sulla necessità di
partire dalle cose, dal significato delle parole, dal discorso per poi arrivare alla
grammatica; eppure l’arido astrattismo filologico ottocentesco ebbe la meglio su tanto più
ragionevoli proposte. Allora, se recuperassimo quell’approccio, dalle cose alla riflessione
teorica, dal concreto all’astratto, forse potremmo recuperare alla vita un sapere che certo
Cfr. E. Mandruzzato, Il piacere del latino, Milano, 1989, p. 12: “lo studente si aggira nel mondo classico
come lo straniero che sapesse molte regole che gli italiani ignorano e praticamente nessuna parola d’italiano;
e non chiedesse del pane ma uno dei sostantivi in –e col plurale in –ia”.
103
Agost. Conf. 1, 14.
102
115
non merita di essere considerato mezzo e non fine dell’apprendimento. A questo punto
forse il metodo natura ci fornisce una possibile via da percorrere per l’emancipazione del
latino.
Il metodo natura non è metodo globale, che pretende di eliminare la riflessione
grammaticale e ridurre tutto l’apprendimento linguistico a pura ripetizione meccanica; si
tratta solo (a scanso di equivoci) di posticipare lo studio della grammatica, e porlo come
riflessione sulla lingua, non come astratta e rigida normativa. Il testo attraverso il quale ha
fatto il suo ingresso in Italia è H. Oerberg, Lingua Latina per se illustrata; vol. I: Familia
Romana; vol. II: Roma aeterna. Il primo volume percorre la storia di una famiglia romana,
attraverso le vicende della quale avviene un progressivo apprendimento del latino (lingua,
civiltà, vicende storiche); l’apprendimento, graduale, dunque è globale in quanto non si
impara la lingua prescindendo dal contesto né avviene il contrario, il contesto senza
lingua. In una prima fase la lingua è semplice, per consentire un approccio il più possibile
immediato; poi diventa sempre più complessa attraverso il ricorso al lessico frequenziale e
a testi d’autore progressivamente integrati nella storia continua. Il secondo volume
contiene testi originali di autori latini (Livio, Sallustio, Cicerone e altri prosatori).
Il ricorso al metodo natura comporta naturalmente dei vantaggi, ma anche dei rischi su cui
mi soffermerò dopo. Evidenziamo dapprima i vantaggi:
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·
116
la motivazione degli studenti, determinata dalla loro curiositas di fronte a una ‘storia
continua’: attratti dalle vicende della famiglia romana protagonista del testo, vengono
immediatamenti calati nella vita quotidiana dell’antica Roma, di cui apprendono subito usi,
costumi e abitudini, e così coinvolti apprendono senza annoiarsi;
il successo dei ragazzi: le difficoltà sono così sapientemente calibrate che si trovano ad essere
sempre commisurate alle competenze lessicali, morfologiche e sintattiche che il discente
mano a mano acquisisce. Dunque (ma è fondamentale l’abilità del docente) si evita il rischio
di un fallimento immediato dei ragazzi con la naturale conseguenza della loro
demotivazione;
la lettura intensiva: si apprendono direttamente i vocaboli che vengono a bella posta ripetuti
ad intervalli regolari nei brani proposti, con un’iteratività informata al repetita iuvant; viene
approfondita inoltre la comprensione delle caratteristiche culturali del mondo romano;
la comprensione diretta: si evita fin dall’inizio di chiedere la traduzione dei testi per
costringere gli allievi a pensare in latino; la verifica della comprensione del testo viene
affidata, pertanto, a prove alternative (domande in latino sul testo, esercizi di
trasformazione o sostituzione, o altro);
l’acquisizione del vocabolario (3500 vocaboli): dopo che la forma linguistica è stata
incontrata, discussa, teorizzata, appresa, normalmente continua a giocare un ruolo regolare
nell’esperienza degli alunni, che la incontrano con impressionante frequenza.
L’apprendimento del lessico, inoltre, avviene per associazione con un oggetto, un’azione,
un’idea; il lessico iniziale è semplice, legato a situazioni non lontane dall’esperienza reale dei
ragazzi, e man mano diventa più articolato;
l’assimilazione lenta, continua e simultanea della morfologia e della sintassi. Le proprietà
morfosintattiche vengono prima assimilate induttivamente attraverso il riconoscimento di
strutture ricorrenti, quindi organizzate sistematicamente per essere fissate definitivamente
nella memoria;
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·
la frase è prioritaria rispetto alla parola, i dialoghi consentono l’apprendimento della lingua
in situazione; la mente procede dal concreto all’astratto;
anche quando, nella fase iniziale, il lessico risulta di facile comprensione, non vengono mai
creati neologismi latini per la conversazione quotidiana (del tipo bibo cocam colam, facio picum
nicum), come accade in maldestri tentativi di insegnamento ‘attualizzato’ del latino, ma
viene utilizzato il lessico frequenziale degli autori latini;
notevole è lo spazio dato all’oralità, utilizzata non con fini comunicativi, ma come esercizio
sul lessico;
il testo non è esemplificazione della morfosintassi, pertanto la lingua è concepita come
organismo vivo, strumento comunicativo di idee e non sistema di regole rigide e astratte.
Da non confondere col metodo naturale o globale: quest’ultimo favorisce la
consapevolezza linguistica inconscia e trascura la riflessione grammaticale, perché
finalizzato a una produzione orale di tipo comunicativo, come accade per le lingue
moderne; invece il metodo natura richiede la riflessione metalinguistica a posteriori, e ha
come obiettivo la lettura corrente dei testi d’autore.
È inutile dire che tale proposta, per la sua notevole distanza dalla pratica didattica più
diffusa, non è accolta con molti consensi ed è spesso criticata dalla gran parte dei docenti
(finora in Italia, esclusa l’area campana, nella quale si è diffuso grazie all’azione di Luigi
Miraglia, colui che ufficilamente ne ha promosso l’introduzione e l’integrazione della
versione originaria con eserciziari, risulta più apprezzato al nord, e non per una ‘meno
sentita’ tradizione dei licei, ma sicuramente per una maggiore apertura dei docenti, più
facilmente influenzati dalle ventate mitteleuropee).
Tra le obiezioni vanno distinte quelle aprioristiche e pregiudiziali di chi non conosce il
corso o lo conosce molto superficialmente, e quelle di chi lo ha sperimentato e suggerisce
dei correttivi. Le prime possono essere facilmente smentite, le seconde possono essere uno
stimolo a perfezionare un metodo che certo tale vuole rimanere e che non può trasformarsi
in obiettivo di apprendimento.
Possibili obiezioni di chi non lo approva:
1) è un latino fittizio: nel primo volume è impiegata una lingua artificiale e
inautentica;
2) scopo dell’insegnamento diretto diventa il parlare, la conversazione in situazione
comunicativa e non la lettura dei testi;
3) il corso si disinteressa delle micro lingue e dà un’idea ‘unilaterale’ e dunque non
storica del latino.
La prima obiezione, che certamente non può essere smentita, risulta inopportuna se si
considera che la ragione della scelta di una lingua semplificata sta nella necessità di un
apprendimento graduale e non affidato al caso, apprendimento parallelo di morfologia,
sintassi, lessico. Quando manuali normativi pretendono di usare il latino ‘vero’ e non
fittizio fin dai primi giorni di scuola, nella sostanza prevedono microtesti latini (o frasi o
testi ridotti e opportunamente adattati) solo nella fase della verifica dell’apprendimento di
un elemento grammaticale. Quando come esercizi si danno frasi d’autore, queste sono
assolutamente avulse da un contesto, dunque spesso per i ragazzi non significano nulla.
Da qui si deduce che la frase d’autore ha valore per chi la dà e non per chi la riceve. Gli
117
esempi che riporto qui di seguito, se letti da un esperto conoscitore del mondo latino, per
essere interpretati vengono istintivamente collocati nel loro contesto e dunque compresi
nella loro profondità; ma se ‘dati in pasto’ a poveri allievi che si stanno accingendo da
poco allo studio del latino (sono tratti tutti dalle prime pagine di eserciziari che si vantano
di ricorrere sempre e solo a frasi d’autore), cosa pensiamo che abbiano da comunicare? E
che idea possono farsi gli studenti, che ancora non posseggono le coordinate storicoculturali che consentano loro di dare senso a un’affermazione?
Ecco un elenco significativo: Ardua prima via est (Ov.), Carpe viam (Hor.), Audi, Luna, puellas (Hor.), Statuis
villam ornabo (Cic.), Est aqua portae vicina Capenae (Ov.), Multae bestiae fuga se tutantur (Cic.), Medicina quondam
paucarum fuit scientia herbarum (Plin. Sen.), Fata viam invenient (Verg.), Pone merum et talos (App. Verg.),
Indutiae sunt belli feriae (Gell.), Segestae simulacra in circo videmus (Plin. Sen.), Hannibal consilio arma
Pergamenorum superat (Nep.), Eme, vir, lanam (Plaut.), Vos, Adherbal et Hiempsal, colite, observate hunc virum
(Sall.), Dum stulti vitant vitia, in contraria currunt (Hor.), Etiam in fabulis persona est improvidorum et credulorum
senum (Cic.), Aedes sunt oppletae araneis (Plaut.), Venit bubus quoque pestilitas (Lucr.), Curam navium Moschus
libertus retinebat (Tac.), Veritatem dies aperit (Sen.), Fallaces sunt rerum species (Sen.), Humi iacet (Cic.), Vos
dormitis domi (Plaut.).
Quanto alla seconda obiezione, non si regge se si considera che l’uso attivo della lingua è
funzionale all’acquisizione di nessi, strutture e fraseologia, e non scopo
dell’apprendimento. Dalla pratica didattica risulta, infatti, che è più efficace ricordare un
esempio e da esso risalire alla ‘regola’ che partire dalla norma astratta. Dunque
apprendere, attraverso l’uso attivo, esempi normalizzati dei più importanti fenomeni
linguistici, consente agli allievi, col tempo, di leggere un testo ‘direttamente’,
istintivamente, senza passare dalla regola teorica e, ancor peggio, dipendere interamente
dal vocabolario.
La terza obiezione, infine, può essere superata ammettendo da un lato che si tratta di un
corso di lingua, per cui nella fase iniziale non è detto che emerga completamente il lato
storico del latino (cosa che d’altra parte accade anche quando si ricorre al metodo
descrittivo normativo) e dall’altro che le lezioni dedicate a settori della vita quotidiana
permettono di affrontare ‘antropologicamente’ il lessico settoriale.
Piuttosto è opportuno rilevare alcuni difetti che possono essere corretti da ciascun docente
cui, va detto, spetta sempre la decisione di organizzare il lavoro e operare le scelte
opportune, sia in termini di contenuti che di metodologie, per ottimizzare il tempo e
raggiungere i traguardi formativi nella maniera migliore, ossia con le minori perdite
possibili. Dunque:
1) Sarebbe opportuno ragionare opportunamente sul fattore tempo e aprirsi a una
gestione ‘diversa’ rispetto a ciò che accade normalmente; ossia per l’apprendimento
linguistico completo risultano più efficaci tre anni piuttosto che due. Quindi in un
curricolo verticale (sia con la continuità didattica che lavorando in sintonia tra
colleghi di biennio e triennio) gli esiti sono sicuramente migliori (d’altra parte, già i
‘programmi’ tradizionali, se devono essere svolti nell’arco del biennio, spingono a
scelte e ‘tagli’ già senza prevedere l’apprendimento sistematico del lessico).
118
2) La facile comprensione intuitiva delle prime lezioni fa percepire la riflessione
metalinguistica come inutile sovraccarico, con resistenza da parte degli alunni.
Ebbene, bisogna insistere e abituare fin dall’inizio i ragazzi a un esercizio di
progressiva astrazione.
3) L’assenza della richiesta di traduzione va corretta: la traduzione deve cominciare a
essere contemplata, se non dall’inizio, sicuramente non dopo troppo tempo, e per
due scopi: 1. continua a rappresentare la forma di verifica formativa e sommativa
imposta, fino all’esame di stato; 2. è formativa in quanto induce a formulare ipotesi
e ricercare soluzioni efficaci.
4) Il divieto di usare il vocabolario consegna al triennio studenti incapaci di
consultarlo, che imparano a riconoscere un termine dal contesto e che non si
abituano a formulare ipotesi in astratto; d’altra parte l’introduzione del vocabolario
nella prassi scolastica al terzo anno, ossia dopo un biennio in cui lo studente ha
memorizzato buona parte del lessico incontrato, disabitua immediatamente la forma
mentis degli studenti alla memorizzazione del lessico. Pertanto andrebbe calibrato
nel corso dei primi due anni l’inserimento graduale del vocabolario,
sottolineandone l’importanza come testo da consultazione.
5) Rischi nella valutazione, specie se le verifiche sono troppo conformi ai capitula: in
questi casi si rischia di far prevalere comportamenti mentali non rielaborativi ma
mnemonici.
6) La sequenza di difficoltà è graduata con una certa lentezza e le richieste sono
all’inizio troppo semplici per poi diventare più impegnative quando i ragazzi si
sono abituati a una eccessiva apparente semplicità iniziale; prove più impegnative
all’inizio metterebbero i ragazzi in una disposizione di maggiore rigore e attenzione
analitica al testo.
Alla fine di quest’analisi ritengo significativa l’opinione riportata di seguito per
sottolineare il ruolo fondamentale del docente nella messa in pratica del metodo natura:
“Il docente, libero dalla necessità di selezionare e adattare testi iniziali, con gli inevitabili
rischi dell’approssimazione, si trova così a mettere in gioco le proprie competenze, abilità,
creatività nel guidare il processo induttivo dei discenti e nel trovare i mezzi più idonei a
descrivere fenomeni grammaticali e linguistici, avvalendosi della collaborazione attiva
degli studenti, non solo passivi recettori di regole morfosintattiche, ma protagonisti
interessati del proprio percorso formativo”104.
Maria Rinaudo
docente di Latino e Greco
F. Zanetti, Modelli didattici nella prassi scolastica attuale, in ‘Nuove chiavi per insegnare il classico’, a c. di
Ugo Cardinale, Novara, 2008.
104
119
Riscoprire il coraggio di educare
di Giuseppe Savagnone
Di chi è l’emergenza educativa?
Criticando l’espressione “emergenza educativa”, oggi in voga, che rischia di avallare
l’immagine di una gioventù particolarmente sbandata e ribelle, molti osservano
giustamente che in ogni epoca le nuove generazioni sono state problematiche, inquiete, a
volte trasgressive. In questo non vi è alcuna “emergenza”.
Eppure, forse, vi è un senso in cui il termine appare calzante. Ciò che è veramente nuovo e
allarmante, nel nostro tempo, è l’incapacità degli adulti di offrire ai propri ragazzi un
orizzonte di valori condivisi che possano orientarli. Il vuoto e il disorientamento dei
giovani sono solo uno specchio fedele di quello di tanti loro genitori e insegnanti. Se
un’emergenza educativa esiste, essa riguarda in primo luogo gli educatori.
Questo non significa che essi debbano sempre avere a portata di mano la “ricetta” giusta.
In un’epoca di transizione e in una società complessa come sono le nostre, non esistono
solchi già tracciati su cui si possa procedere in modo sicuro. Ogni situazione nuova è una
sfida alla creatività e all’inventiva di chi deve trovare la risposta adeguata. Non bisogna
lasciarsi paralizzare dall’imprevisto, e tanto meno attardarsi a fare confronti con il passato.
La prima dote dell’educatore oggi è quella di saper ascoltare e interpretare le nuove
esigenze, le nuove istanze, le nuove opportunità che il mondo contemporaneo offre a
profusione, per impararne i linguaggi, intercettarne le aspettative, apprezzarne le risorse.
Guai a barricarsi dietro il solito, indignato: «Ai miei tempi queste cose non succedevano»!
In altri termini, il primo compito degli educatori è di sapersi a loro volta lasciar educare
dalla realtà, senza presumere di saper già tutto. Impareranno, così, a discernere ciò che
nella tradizione è essenziale e ciò che invece era legato a determinate situazioni storiche,
ormai superate. E potranno scoprire nuove prospettive valoriali, della cui importanza solo
oggi siamo in grado di apprezzare l’importanza e che devono entrare a far parte del
patrimonio da offrire alle nuove generazioni.
Educare alla cura dell’essere
Ciò non significa, però, rinunziare al senso profondo dell’educare. È proprio questo che
oggi sembra smarrito. Si confonde spesso, specialmente da parte dei genitori l’educazione
con quell’atteggiamento iperprotettivo di cui anche la scuola fa a volte le spese, quando si
trova di fronte padri e madri che, invece di collaborare col docente, sostengono a spada
tratta, contro di lui, le pretese “ragioni” dei loro figlioli. Neppure, però, si può ridurre
l’educazione alla severità delle misure disciplinari. Posto che c’è senz’altro un valore
educativo anche della punizione, preoccupa l’impressione che da parte del ministero si
creda di aver risolto il problema della serietà della scuola introducendo la sanzione – pur
in sé condivisibile - del cinque in condotta. Una scuola non è veramente adeguata ai suoi
compiti educativi quando boccia, ma quando fa crescere dei ragazzi che non è più
necessario bocciare. Il cinque in condotta, ben lungi dal chiudere il discorso
120
sull’educazione, rende solo più evidente l’urgenza di recuperarne il valore originario,
ristabilendo una corretta pratica educativa.
Un primo passo in questa direzione, contro ogni paternalismo e ogni atteggiamento
meramente repressivo, sarebbe riscoprire il significato dell’educare che, dal latino e-ducere,
“condurre fuori da”, implica una metafora dell’opera con cui l’ostetrico aiuta il bambino a
uscire dall’utero materno. I protagonisti del parto sono il bambino e sua madre, non il
medico. Allo stesso modo si educa qualcuno solo quando si riesce a suscitare in lui o in lei
la cura di se stessi e della propria vita, responsabilizzandoli verso quel bene
immensamente fragile e al tempo stesso prezioso che è la loro identità personale.
Può sembrare che ciò sia superfluo. I giovani – osserverà qualcuno – sono già abbastanza,
anzi forse fin troppo, centrati su se stessi. Ma davvero l’ossessiva ricerca del successo e
dell’accettazione da parte degli altri è indice di un riuscito rapporto con se stessi? Per
dubitarne, basterebbe osservare che essa si traduce in un pressoché totale adattamento alle
mode dominanti, nel vestire, nel parlare, nel pensare. Spesso si ha paura di essere diversi e
di restare soli. E non si trova il coraggio di fermarsi un momento, nella corsa frenetica di
ogni giorno, per scendere nelle profondità di se stessi. Trascinati da meccanismi in larga
misura inconsapevoli, molti – non solo i giovani! – non si chiedono mai chi sono
veramente. Si prendono cura di ciò che hanno e di ciò che fanno, ma non di ciò che sono. È
a questa “cura dell’essere” che forse bisognerebbe innanzi tutto educare.
La cura dell’essere-da e dell’essere-con
La scoperta del proprio essere implica però anche quella della propria storia e della
propria origine. Oggi si vive spesso il succedersi delle esperienze come un fuoco d’artificio
di flashes che non hanno tra di loro alcun nesso e non si collegano in un unico processo. Si
cerca di catturare “l’attimo fuggente”, ma si riflette poco sul senso complessivo della
propria storia. Per questo si fa così poca attenzione alla coerenza dei comportamenti.
Eppure noi siamo la nostra storia. E un io che vive solo di istanti puntiformi rischia di
essere “uno, nessuno, centomila”.
Perciò educare alla “cura dell’essere” comporta che si educhi anche a quella dell’ “essereda”, della tradizione a cui si appartiene, che non è solo il passato, ma quel rapporto col
passato che aiuta a leggere il presente e a progettare il futuro. La scuola, in modo
particolare, dà a volte l’impressione di non riuscire a presentare gli eventi, i pensieri e le
realizzazioni delle altre epoche in modo che possano essere significativi per la storia
personale e sociale dei ragazzi e delle ragazze a cui si rivolge. Questa è archeologia, non
tradizione. Educare significa anche insegnare, attraverso le storie, a raccontarsi e a
costruire la propria storia.
La storia di un singolo si intreccia sempre, più meno strettamente, con quella di tutti gli
altri. Perciò educare alla “cura dell’essere” comporta anche una educazione alla cura dell’
“essere-con”, dei rapporti con gli altri, perché i più giovani non restino vittime delle
tendenze all’individualismo oggi dominanti e imparino a creare esperienze di comunità.
Perché questo accada, non basta che si perseguano fini uguali. I fini uguali non danno
luogo a una profonda unione, ma a concorrenza. Tutti voglio vincere una gara, ma uno
121
solo può vincere e lo farà a spese degli altri. Si crea una comunità quando il fine è
veramente unico per tutti, tale, cioè, che, se anche uno solo non lo raggiunge, neppure gli
altri possono farlo. Com’è un sereno clima familiare, o un riuscito gioco di squadra. Allora
si fa strada la consapevolezza che ognuno, con le sue scelte, condiziona la vita degli altri e
si imparano la responsabilità reciproca, l’attenzione ai più deboli, la gratitudine.
L’essere-per
Le storie, infine, devono avere un senso, nella duplice accezione di “significato” e di
“direzione”. Educare alla “cura dell’essere” significa anche sollecitare nei giovani la ricerca
di un orizzonte di cose vere e buone verso cui tendere; comporta, cioè, l’ educare alla cura
dell’ “essere-per”. La nostra società abbonda di mezzi. Le famiglie, la scuola, ne offrono
ormai di sofisticatissimi. Ma sembrano ormai incapaci di prospettare, sia pure in forma
problematica, dei fini che diano significato a questi mezzi e ne orientino l’utilizzazione.
Emblematico è il venir meno, in tanti ragazzi e ragazze, dell’interesse per la politica.
Ancora nel Sessantotto si parlava di abbattere il “sistema” per costruirne uno nuovo. Oggi
i ragazzi sono assillati da timore di non riuscire a inserirsi in quello vecchio. Ci si ripiega
nel privato e in prospettive a breve scadenza. E’ significativo che, nel famoso film L’attimo
fuggente, in cui tanti giovani si sono riconosciuti, non si parli mai di politica. Il futuro –
come il passato - è inghiottito dal presente. Vietato sognare. O, meglio, vietato sognare
tutto ciò che non si riduca ai propri progetti di autorealizzazione. Educare davvero
significherebbe, oggi, riaprire lo spazio della speranza e del futuro in tutta la sua
ampiezza.
Tutto questo, però, comporta che gli stessi educatori riscoprano personalmente queste
grandi dimensioni della vita e ne testimonino il valore. Non possiamo continuare ad
aspettare che un colpo di bacchetta magica risolva i problemi della famiglia o che un
ministro-messia venga a salvare la scuola. Le cornici legislative, sia per l’una che per l’altra
istituzione educativa, sono senza dubbio importantissime. Vi è, tuttavia, un compito che
nessun legislatore e nessun ministro potrebbe assolvere e a cui, fin da ora, coloro che ne
sono protagonisti non possono e non devono sottrarsi. Abbiamo cercato di metterne in
luce alcuni elementi. Ma, al di là dei singoli concetti, forse si potrebbe sintetizzare questo
compito dicendo che oggi è essenziale ritrovare il coraggio di educare105.
Giuseppe Savagnone
docente di Storia e Filosofia
Per chi volesse approfondire questi temi, mi permetto di rimandare a G. Savagnone - A. Briguglia, Il
coraggio di educare. Costruire il dialogo educativo con le nuove generazioni, Elledici, Torino 2009 [ristampato nel
2011] e a G. Savagnone, Educare oggi alle virtù, Elledici, Torino 2011 [ristampato nel 2012] .
105
122
CONFRONTO TRA VITA ATTIVA E VITA CONTEMPLATIVA
NEL MONDO CLASSICO
di Ada Magno
Tis aristos bios? Problema eterno, perenne.
L'uomo si trova costantemente esposto a due tendenze: da una parte è spinto a rifugiarsi
nella propria “torre d'avorio”, per coltivare se stesso e dedicarsi agli studi, dall'altra è
spinto a calarsi nella realtà politica, ad essere integrato nella società per svolgere, nel caso
dell'intellettuale soprattutto, un ruolo di guida.
Ovviamente le condizioni storiche, oltre che l'indole personale, possono spingere all'una o
all'altra scelta, alla vita contemplativa o alla vita pratica, ma spesso le due tendenze sono
compresenti in un equilibrio non sempre stabile nell'uomo.
C'è in noi l'esigenza di interrogarci su questa doppia natura dell'uomo che, come Seneca,
talora è “uomo del pulpito”, della predicazione, della socialità, talora è “uomo della cella”,
della chiusura in se stesso, come scrive A. Traina.
Il primo a parlare, nel mondo greco, di diversi modi vivendi è Omero che, però, pensa siano
determinati dalla volontà degli dei. Solone, invece, sottolinea che essi sono liberamente
scelti dall'uomo.
In Grecia nasce e si sviluppa il theorein, la vita contemplativa con una sua dignità pari a
quella dell'azione, grazie alla nascita e allo sviluppo della filosofia, che è l'incarnazione del
bios theoreticos, soprattutto grazie alle parole e all'esempio di vita di alcuni filosofi.
In Grecia, pertanto, scholè e ascholia, o theoria e praxis, sono sullo stesso livello, sono due
scelte di vita entrambe approvate. Ricordiamo, infatti, che la cultura, nell'età più antica,
viene promossa all'interno delle corti stesse, dove gli intellettuali hanno un ruolo di
prestigio e appartengono al ceto degli aristoi, che riservano ad altri le mansioni pratiche.
Nel mondo latino, invece, la coppia linguistica corrispettiva otium-negotium ha una valenza
diversa. I Romani sono sin dalle origini negotiosi, e disprezzano l'otium in quanto sinonimo
di desidia, inertia, socordia, in una parola indolenza. Essi sono soldati, contadini, e poi, dopo
le conquiste nel bacino del Mediterraneo, politici e oratori: l'otium è ammesso come pausa
momentanea, per dedicarsi agli studi tra un negotium e l'altro.
Nel mondo latino, dunque, la vena sociale prevale sulla vena individualistica, almeno fino
a Cicerone, con l'esclusiva eccezione di Lucrezio.
Nel mondo greco, il primo a rappresentare, insieme ad Anassagora, l'emblema dell'aner
theoreticos, è Democrito, il quale dedica il suo tempo alla contemplazione pura dei
fenomeni naturali e raggiunge così l'euthumia. Platone (Teeteto) ed Aristotele (Protrettico)
riprendono l'esaltazione del bios theoreticos nelle loro opere e suddividono i vari bioi,
dando la preferenza alla contemplazione vista in chiave mistica, metafisica, possibile solo
per il sapiens e non per l'uomo comune.
Comunque, altre affermazioni in Platone limitano il valore della pura contemplazione, che
deve servire all'intellettuale per gestire il potere e guidare lo Stato. E lo stesso Aristotele,
accanto alla vena contemplativa dell'uomo sottolinea che egli è un “animale politico”
(Politica).
123
Si assiste, poi, ad una disputa tra due allievi di Aristotele: Teofrasto, fautore della vita
contemplativa, e Dicearco, fautore della vita pratica.
Con la trasformazione politico-culturale del IV-III sec a. Cr., con la caduta della polis, e la
riduzione del cittadino in suddito, il crollo della religione tradizionale, anticipato già dal
relativismo sofistico, si assiste alla nascita di nuove filosofie, quali l'Epicureismo e lo
Stoicismo, che suggeriscono un'emancipazione dell'uomo da ogni dipendenza esterna, con
la realizzazione dell'autarkeia.
Per Epicuro la vita contemplativa è la scelta esclusiva, da lui stesso attuata all'interno del
suo “Giardino”; dagli Stoici, invece, è privilegiata la dimensione sociale ma, grazie alla
teoria dell'exceptio, di matrice crisippea, esistono una serie di eccezioni, tra cui l'esistenza
di un potere tirannico, che spingono l'intellettuale a ritirarsi in alcuni momenti a vita
privata. Cleante e Zenone, ad esempio, i primi maestri dello Stoicismo, predicavano la
partecipazione alla vita politica ma non la praticavano; Crisippo, come si diceva, introduce
la teoria dell'exceptio. Nella nuova Stoà, Posidonio è un assertore convinto della vita
pratica, invece Panezio propone un bios sunthetos perchè sostiene che nell'uomo stesso e
nella società ci sono due tendenze, una rivolta all'actio e una rivolta alla contemplatio: se per
l'uomo politico deve prevalere l'actio per il privato cittadino, e ancor più per il filosofo, è
possibile la scelta della contemplatio. Gli ultimi stoici, Seneca e Marco Aurelio, pur
rivestendo ruoli politici centrali, l'uno come consigliere dell'imperatore Nerone, l'altro
come imperatore stesso, arriveranno a sostenere il primato dell'otium sul negotium. In
particolare Seneca considera l'otium il maximum negotium, perchè l'intellettuale, attraverso
gli studi, aiuta non solo la sua comunità ma tutto il genere umano, la cosiddetta Res publica
maior: una cultura, dunque, non fine a se stessa, arida, ma ricca di valenze sociali,
strumento di crescita per la comunità degli uomini. Prima di Seneca nel mondo latino vale
la pena ricordare coloro che cominciarono a dare dignità all'otium: Cicerone e Sallustio.
Entrambi sono costretti al ritiro forzoso dalla vita politica, durante il periodo cesariano (45
a.Cr.) Cicerone, e post cesariano (44 a. Cr.) Sallustio, ed entrambi considerano l'otium come
ripiego nel quale dedicarsi agli studi non con una visione solipsistica ma per essere utili
alla società in altro modo, Cicerone attraverso la filosofia morale e Sallustio attraverso la
storiografia. Entrambi, però, prediligono l'actio.
In epoca moderna l'opposizione tra intellettuali impegnati, “organici” e intellettuali avulsi
dal contesto sociale, ha dato origine ad ampi dibattiti. Noi con il nostro contributo
speriamo di avere sollecitato la riflessione sulla massima senecana “alteri vivas oportet si vis
tibi vivere” convinti che la socialità dell'uomo non distrugga la sua sfera privata ma
l'arricchisca e consolidi.
Ada Magno
docente di Latino e Greco
124
La fisiologia delle passioni in Omero
di Giuseppe Spatafora
Il rapporto corpo-mente nell’epica omerica (IX sec. a. C.) è stato oggetto di studio, ormai
da alcuni anni, all’interno di un più ampio dibattito in merito al tema della
psicosomatica106. Da più parti si è pervenuti all’idea che il carattere oppositivo del binomio
corpo-mente sia peculiare soprattutto della cultura moderna e sia del tutto estraneo a
quella della Grecia arcaica107.
In questa sede riferirò alcuni dei risultati di mie pluriennali ricerche sulla fisiologia delle
passioni nei testi omerici. Indagini che, inevitabilmente per la mia formazione e i miei
strumenti di ricerca, non potevano che partire da una rigorosa analisi linguistica. In questo
mio contributo però, mi limiterò a rimandare per l’aspetto più strettamente filologicolinguistico a miei preesistenti lavori108, mirando invece a chiarire il modello fisiologico
tramite cui sono pensate e descritte le affezioni psichiche nei poemi omerici. Anche in
questo caso riferirò soltanto di alcuni ambiti di ricerca che ho ritenuto più significativi.
In un lessico, come quello dell’Iliade e dell’Odissea, in cui non esistono parole per indicare
una realtà psichica differenziate da quelle che indicano una realtà corporea109, i termini che
indicano il dolore, la gioia, le ansie, la paura, l’ira, la pazzia ecc. hanno un valore concreto,
corporeo ed esprimono forze che, con la stessa fisicità di una lancia, colpiscono gli organi
senzienti.
Affrontando un simile studio ci si imbatte nel problema, assai spinoso, di comprendere le
funzioni specifiche degli organi vitali dell’uomo omerico. Riferisco qui i risultati delle più
recenti ricerche in questo ambito: tutte le funzioni vitali per Omero sembrano concentrate
in un unico organo posto all’interno del petto, descritto attraverso i termini: étor, kradìe, kér,
phrènes e prapìdes110. Le prapìdes sono verosimilmente la membrana esterna che abbraccia il
complesso pericardiale. Procedendo nella descrizione dell’organo, dall’esterno verso
l’interno, si incontrano le phrénes che possono essere considerate il pericardio, una sacca
che circonda il cuore in cui si muove il thymòs, e che svolge tutte le funzioni vitali proprie
dell’intero complesso pericardiale. Il thymòs dipende sostanzialmente dal sangue e dalla
nutrizione. Esso è il principio della sensibilità, dell’emozione, del pensiero, del
movimento, del linguaggio. Il thymòs è dunque lo spirito vitale che, emanato dal cuore, è
contenuto dalla sacca delle phrènes. L’emozione, la volizione, il pensiero non sono altro che
moti del thymòs che si agita all’interno della sacca pericardiale.
La breve digressione si imponeva per permettere una più perspicua comprensione dei
processi fisiologici delle emozioni, ricostruibili in Omero. Procederemo ora ad una
Todarello, Porcelli, 1992, 11-23.
Galimberti, 1991.
108
Spatafora, 1999.
109
Havelock, 1983 e Gentili, 1984, 3-30.
110
Laspia, 1996, 108-113.
106
107
125
esemplificazione di quanto sopra descritto, tramite una descrizione della fisiologia della
paura, che nel greco di Omero è definita dai termini: déos e phòbos.
Nei poemi, in contesti in cui chi agisce è in preda alla paura, più volte i verbi daìomai e
daìzo ricorrono in connessione con gli organi vitali (thymòs e phrénes) . Gli Achei sono
sconfitti:
“E intanto la fuga orrenda, compagna di gelido timore (phòbou), possedeva gli Achei (…), si divideva lo
spirito vitale (edaìzeto thumòs)nel petto degli Achei”(Il. IX 1-8).
E, a proposito del terrore che Ettore incute negli Achei, si dice:
“(…), si divideva lo spirito vitale (edaìzeto thymòs) nel petto degli Achei”(Il XV 629).
Queste sono solo due occorrenze tra le tante che si potrebbero citare sia dall’Iliade che
dall’Odissea, in cui la paura ha come conseguenza la frattura dell’étor o del thymòs. Mi
sembra invece più utile, nella mia prospettiva, definire meglio il significato dei verbi
daìomai e daìzo L’esame di tutte le attestazioni, da me condotto in altra sede111, riconduce
all’idea della divisione di una originaria unità in parti differenziate; ed è proprio tale
significato concreto che si può estendere anche ai passi in cui i verbi occorrono in relazione
agli organi vitali. Ma per comprendere meglio il sintomo della “frattura” dell’organo
risultano utili alcune puntualizzazioni sui termini omerici della paura (déos e phòbos).
Da una lettura delle attestazioni di déos, sembra che lo stato d’animo indicato dal termine
sia una sorta di forza-energia che possiede l’uomo e che muovendo dall’esterno giunge
nell’organo centrale, provocando una serie di effetti destabilizzanti. Significativo per
individuare le conseguenze fisiologiche del dèos è quanto si legge nell’Odissea quando si
parla dell’incontro di Odisseo e dei suoi compagni con Polifemo:
“Così disse, e a noi si spezzò il cuore avendo paura (deisànton)”(Od. IX 256-7).
La paura (in greco déos) è dunque pensata come una sorta di forza-energia che possiede
l’uomo e che muovendo dall’esterno verso l’interno giunge nel cinto pericardiale,
provocando una serie di effetti destabilizzanti. Ancora è significativo che in più passi si
trovi attestato, come effetto-limite della paura, la frattura del cuore. L’impiego quindi dei
verbi daìomai e daìzo indica proprio questa divisione degli organi vitali come alterazione
fisiologica causata dalla paura.
Sulla stessa linea si colloca anche la fisiologia della paura, espressa in Omero dal termine
phòbos che occorre in relazione al nesso thymòs edaìzeto “si divideva lo spirito vitale”. Per
comprendere questa espressione bisogna esaminare la fenomenologia del phòbos, come
appare nei poemi omerici.
Il phòbos coinvolge gli organi vitali e ad un tempo le facoltà motorie del corpo; inoltre è
spesso associato all’idea di freddo (Il. IX 1-2; XIII 47-8) e si trova opposto al termine alké, il
111
Spatafora, 1999, 71-77.
126
cui significato sembrerebbe essere connesso all’idea di un rafforzamento della forza vitale
che si manifesta in calore o ardore. Pertanto sia per il fatto che a phòbos viene associata
l’idea di freddo sia per l’opposizione ad alké, possiamo considerare il phòbos come una
sorta di raffreddamento degli organi vitali. Tale raffreddamento ha l’effetto di rallentare il
flusso delle energie vitali che per Omero dipendono dal bollore sanguigno e dal calore;
tutto ciò può causare la perdita del vigore con l’effetto, attestato in alcuni passi (Il. XI 5447), che l’individuo è impossibilitato a dirigersi con decisione verso il pericolo e dunque
non può che indietreggiare.
A partire da quanto detto possiamo ora tentare una ricostruzione globale del fenomeno: il
déos penetra nel complesso pericardiale, provoca un forte batticuore e può causare la
frattura dell’étor; il phòbos invece può essere considerato come un raffreddamento del
thymòs. Infine possiamo avanzare l’ipotesi che il fenomeno-déos e il fenomeno-phòbos stiano
in un rapporto sequenziale. Dato che l’étor è l’organo emanatore del sangue, ed il thymòs è
costituito dal vapore sanguigno, è possibile infatti supporre che la frattura dell’étor,
causata dal déos, comporti una alterazione del flusso sanguigno e dunque un
raffreddamento del thumòs, in cui abbiamo visto consistere il phòbos.
L’analisi della fenomenologia della paura dimostra come le affezioni psichiche sono
pensate e descritte dall’uomo omerico come forza energetica che si ripercuote nel
complesso pericardiale. Ma questo è dimostrabile in numerosi altri casi analoghi. Mi
limiterò a riportarne soltanto alcuni altri.
A questo schema descrittivo dei vissuti psichici è da ricondurre anche la fisiologia della
gioia, espressa in greco dai verbi chaìro (con il sostantivo chàrma) e ghethéo. I termini che
fanno capo al verbo chaìro indicano la fase in cui la forza-gioia dall’esterno si impossessa
dell’organismo umano, investendolo di una carica energetica. Si veda per esempio
l’espressione: “Gli versava la gioia (chàrin)”(Od. VI 235), in cui l’occorrenza del verbo
“versare” comunica l’idea di gioia come fluido che ha una sua consistenza materiale e che
viene quindi versato. Una fase di scarica energetica sembrano invece indicare il verbo
ghethéo e i termini da essi derivati. Con più precisione, il significato di questo verbo
equivarrebbe a “sprigionarsi di un’energia che genera luce,calore e luminosità” 112. In
conclusione i verbi chaìro e ghethéo sembrano indicare due differenti modalità di “gioire”: il
primo designa la fase in cui l’energia che provoca la gioia viene assorbita dal corpo, il
momento, cioè, di carica; il secondo invece la fase in cui questa energia si sprigiona e si
disperde.
È interessante notare come, nella descrizione della fisiologia delle affezioni
omeriche, appaiano delle strategie atte a neutralizzare le forze psichiche, qualora esse
minaccino definitivamente l’equilibrio fisico-psichico dell’uomo. È il caso della funzione
espressa dal pianto e precisamente dai due verbi klaìo e goào. Il primo, come si evince dai
passi in cui è attestato113, indica il piangere come risposta ad una forte emozione che
112
113
Spatafora, 1999, 87.
Spatafora, 1999, 90.
127
giunge agli organi vitali causando la frattura del cuore (étor). Più volte infatti klaìo e la
frattura dell’etor vengono associati, come per esempio:
“Così disse, e mi si ruppe il caro cuore (étor), piangevo (klaìo), seduto sulla spiaggia”(Od. IV 538-9).
Ma alla stessa alterazione si trovano associati, sia nell’Iliade che nell’Odissea, il verbo goào e
i termini appartenenti a questo campo semantico. Da un’attenta disamina del loro
significato114, si è potuto stabilire che la forma di lamento, espressa da questi termini, ha la
funzione specifica di permettere il superamento della crisi e si propone pertanto come
strategia di difesa nei confronti di una forza che destabilizza profondamente l’equilibrio
psicofisico dell’uomo.
Concludendo: le affezioni psichiche investono l’uomo omerico caricandolo di una energia
che si ripercuote nel complesso pericardiale. Il surplus di energia causa a sua volta
profonde alterazioni nell’organismo, che elabora tutta una serie di strategie per far fronte
alle forze che minacciano il suo equilibrio. In Omero tutti gli stati psichici sono in realtà
stati psicofisici e vengono pensati e descritti come forze fisiche che agiscono sugli organi.
Tutto è fisico e corporeo. L’uomo vive all’interno di un sistema energetico di cui egli stesso
è parte. Il suo corpo vive di energie che, assunte dall’esterno, gli consentono la vita. Ma
questo binomio, assunzione di energia/consumo, non caratterizza soltanto il ciclo
biologico, ma anche gli stati psichici. Tale assunzione di energia può sprigionarsi senza
creare disagi all’organismo, ma può anche provocare gravi lesioni agli organi della vita o
introdurre un surplus di energia che altera l’equilibrio dell’uomo. Il surplus di energia deve
dunque in qualche modo essere espulso per permettere il ripristino del regolare ritmo
vitale.
Bibliografia
Galimberti U. (1991). Il corpo. Milano: Feltrinelli.
Gentili B. (1984). Poesia e pubblico nella Grecia antica. Roma-Bari: Laterza
HavelockE. (1983). Dike. La nascita della coscienza. Roma-Bari: Laterza.
Laspia P. (1996). Omero linguista. Voce e voce articolata nell’enciclopedia omerica. Palermo: Novecento
Spatafora G. (1991). I moti dell’animo in Omero. Roma: Carocci
Todarello O., Porcelli P. (1992). Psicosomatica come paradosso. Il problema della psicosomatica come paradosso.
Torino: Bollati Boringheri.
Giuseppe Spatafora
docente di Latino e Greco
114
Spatafora, 1999, 92.
128
Leopardi e Lamartine, nota a margine de L’Isolement (1818)
e di Alla sua donna (1823)
di Cinzia Billa
Premessa
Il presente lavoro vuol essere una nota a due componimenti poetici. Il lavoro nasce da
un’esperienza fatta in classe, durante l’analisi di una poesia di A. De Lamartine dal titolo
L’isolement, composta dallo scrittore francese “una sera del mese di settembre del 1818” e
facente parte della raccolta Méditations poétiques (1820).
La lettura delle ultime strofe della poesia francese mi ha sorpreso per una strana
familiarità che non potevo attribuire ad un precedente studio della stessa poesia. Mi sono
tornati in mente, invece, i versi di Alla sua donna di G. Leopardi, canto del 1823. Ho detto
questo ai ragazzi e la nostra curiosità si è messa in moto: siamo andati a cercare il canto
leopardiano per verificare eventuali somiglianze e analogie.
Abbiamo scoperto che gli stessi autori del libro di testo citano questa riconosciuta
vicinanza tra alcune poesie di Lamartine ed alcune poesie di Leopardi. Tra queste non è
però menzionata Alla sua donna. In effetti, ad una ulteriore indagine questo accostamento
non è risultato tra quelli fatti da studiosi dei due autori. Anzi, già nel 1932 Leo Spitzer
aveva proposto un paragone tra L’isolement e un’altra poesia di Leopardi, L’infinito, la cui
datazione rispettiva – 1818 e 1819 – rende pressoché contemporanee. La somiglianza con
Alla sua donna, di stesura successiva alla pubblicazione della raccolta del poeta francese,
non ha dunque interessato gli studiosi? In ogni caso, la presenza di tale tradizione critica ci
è parsa legittimare l’ipotesi di un possibile paragone e di un ulteriore approfondimento.
La quaestio che ha guidato la nostra indagine è la seguente: è possibile individuare degli
elementi del canto leopardiano che potrebbero discendere da una lettura della poesia di
Lamartine? E in cosa consistono questi elementi, ossia quale valore assumono nel canto
leopardiano? La nostra indagine può basarsi solo sul paragone tra le due poesie, poiché
non v’è alcun documento che attesti un incontro tra i due poeti o l’avvenuta lettura della
produzione lamartiniana da parte di Leopardi. Tuttavia, da un lato è certa la presenza di
Lamartine in Italia e la sua frequenza di circoli intellettuali e politici, alcuni dei quali
frequentati da Leopardi; dall’altro, l’inestinguibile sete e brama di letture di quest’ultimo e
la sua curiosità per la cultura francese. Individuare dunque il riflesso della lettura
leopardiana de L’isolement può essere interessante per comprendere ulteriormente
l’evoluzione lirica e filosofica del recanatese. Lamartine non è infatti un poeta qualsiasi. E’
e resterà un uomo in lotta con le sue domande sul destino dell’uomo, che i colpi della vita
riapriranno continuamente, alla ricerca di una risposta che la filosofia dei Lumi non era
stata in grado di dare ed in continuo dialogo, anche quando révolté, con la tradizione
cristiana e cattolica. Proprio secondo questa chiave – ossia la posizione filosofica che
emerge dai versi dei due autori come tentativo di risposta a certe urgenze comuni a
entrambi e al contesto di appartenenza – abbiamo proposto un paragone tra le due poesie
secondo i seguenti passi di metodo:
129
1) configurare per tratti essenziali il contesto storico-culturale in cui i due autori si trovano ad operare;
2) collocare i due componimenti nell’ambito della loro produzione;
3) effettuare un’analisi comparativa delle due poesie attraverso un confronto testuale, tracciandone
analogie e differenze;
4) fare delle ipotesi sulle ragioni di una eventuale prossimità dei due testi e paragonare le nostre ipotesi con
quanto già illustrato dalla critica letteraria.
È importante chiarire che il presente lavoro non ha alcuna pretesa scientifica ed è motivato
esclusivamente dal tentativo di ricerca sorto da una curiosità ridestata durante il
quotidiano lavoro di insegnante e studenti in classe. Tutte le critiche che esso merita
costituiscono per chi scrive occasione di nuova conoscenza e di dialogo, frutti che
dovrebbero sempre liberamente crescere all’albero dell’attività di studio. La speranza è
dunque che il presente lavoro motivi altri studenti e insegnanti a paragonarsi con curiosità
e libertà con l’oggetto sempre nuovo di tale studio.
Il contesto storico-culturale, tra secolo dei Lumi e Romanticismo
Quale fu il contesto storico-culturale che caratterizzò il periodo di formazione e della
genesi delle prime opere dei due autori? Alfonse de Lamartine nasce a Mâcon, in
Borgogna, il 21 ottobre 1790; Giacomo Leopardi a Recanati, nelle Marche, il 29 giugno
1798. L’Europa, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, è segnata dalla filosofia
dei Lumi e dai moti rivoluzionari che lasciano spazio all’ascesa napoleonica. Il generaleimperatore, inizialmente accolto come colui che avrebbe portato quegli ideali fuori dalla
Francia, nel 1796 inizia la sua ascesa proprio dall’Italia. Il giudizio sulla Rivoluzione come
insieme di ideali mancati ci sarà lasciato più tardi nelle parole caustiche di G. Flaubert a
George Sand l’8 settembre del 1871, cariche dell’amarezza ulteriore della Comune: “Nous
pataugeons dans l’arrière fond de la Révolution française qui a été un avortement”. Ma il
fallimento degli ideali rivoluzionari procedeva già dal ‘tradimento’ morale e politico di
Napoleone. Nel 1813, anno della sua sconfitta a Lipsia, Leopardi ha quindici anni, ma già
conosce le lingue classiche, l’ebraico, le lingue moderne, la storia, la filosofia e la filologia,
le scienze naturali e l’astronomia. Nella vasta biblioteca del padre Monaldo si dedicherà a
sette anni di “studio matto e disperatissimo”, totalmente autodidatta. Nel 1817 inizierà la
stesura di quello che definirà “colloquio con me stesso”, lo Zibaldone, suggeritagli proprio
da un profugo della Rivoluzione, don Giuseppe Antonio Vogel, parroco alsaziano
rifugiatosi a Recanati nel 1809. In quell’anno Leopardi scrive il sonetto La morte di Ettore
considerato da lui stesso il suo primo componimento poetico.
L’anno precedente, il 1808, Lamartine, appartenente a una famiglia della piccola nobiltà
legata ai Borboni, ha terminato gli studi e, secondo la tradizione di famiglia, dovrebbe
avviarsi alla carriera militare. Il padre però non ammette che il figlio serva l’Impero e nel
1811 lo manda in Italia, presso alcuni cugini che vivono tra Livorno, Pisa e Napoli. Il
rapporto tra Lamartine e l’Italia si intreccerà ulteriormente: nel 1820 sarà nominato
ambasciatore a Napoli, nel 1821 nascerà il suo primo figlio a Roma e nel 1825 sarà
segretario d’ambasciata a Firenze. Uomo politico impegnato, Lamartine dedicherà dei
130
versi estremamente critici e sarcastici nei confronti della situazione politica italiana, che gli
varranno un duello nel 1826 a Firenze.
Proprio l’anno successivo, nel 1827, Leopardi si trova a Firenze, dove è anche Lamartine
che in quel periodo scrive le Harmonies poétiques et religieuses, prima di rientrare
definitivamente in Francia nel 1828. Nessun documento testimonia un incontro tra i due
poeti. Risulta evidente però che partecipavano dello stesso contesto culturale. Lo stesso
Leopardi nel 1824 pubblicava il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, che
nel suo incipit inquadra la situazione italiana in un’ottica comune europea debitrice
proprio del ruolo della Francia:
In questo secolo presente, sia per l'incremento dello scambievole commercio e dell'uso de' viaggi, sia per
quello della letteratura, e per l'enciclopedico che ora è d'uso, sicchè ciascuna nazione vuol conoscere più a
fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di
sventure che è stata fra' popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l'altre nazioni parte
per le vittorie, parte per l'aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra
le nazioni d'Europa, una specie d'uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo
passato da' tempi di Luigi XIV, cioè dall'epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni
avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava; per qualcuna o per tutte
queste cagioni le nazioni civili d'Europa, cioè principalmente la Germania, l’Inghilterra e la Francia stessa
hanno deposto […] gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell’animosità,
dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e
costumi, quantunque si voglia differenti dai propri .
E De Sanctis poneva i due poeti sotto lo stesso segno della crisi dei tempi:
Siamo in tempi di transizione, diciamo tutti: l’arte è in uno stato di crisi. I più grandi filosofi e poeti del
secolo hanno sentito questo sgomento dell’anima innanzi alla demolizione di tutti i sentimenti umani, di
tutti gli ideali […] e di questa morte degli ideali sentite l’eco profonda in Byron, in Musset, in Lamartine, e
nel più grande di tutti, in Leopardi .
È proprio per il loro valore di presa di posizione letteraria e filosofica rispetto a tale
contesto che le Méditations poétiques (1820) di Lamartine possono essere considerate «la
révolution française de la poésie», come afferma A. Loiseleur, curatrice dell’ultima edizione.
In quei versi si realizzava una svolta che segnava l’avvento del romanticismo in Francia e
la rinascita lirica dopo il secolo dei Lumi della ragione. Leopardi, pur prendendo una
posizione critica nei confronti dei teorici del romanticismo, si rivela anch’egli profondo
interprete lirico delle istanze filosofiche che urgono in questa transizione della cultura
europea.
Lamartine scrive delle opere che ne offrono un quadro spesso contraddittorio, che alterna
momenti di raggiunta pace e certezza a momenti di crisi che risentono degli eventi
dolorosi che lo colpiscono. I suoi versi mostrano una continua ricerca di risposta a quelle
domande ultime per cui l’illuminismo aveva tolto ogni spazio in nome di sicure
“magnifiche sorti e progressive” garantite da una ragione ormai libera da ogni principio
d’autorità e debito trascendente. Nella sua lunga poesia l’Homme dedicata a Byron, scritta
alla fine del 1819, Lamartine invita il poeta mai conosciuto, ma che proprio nel commento
131
alla poesia definirà “la plus grande nature poétique des siècles modernes”, a considerare
la possibilità di abbandonare il proprio scetticismo, in forza di un cambiamento possibile
che lui stesso testimonia: dopo aver abbandonato e rifiutato il ‘ciel’, egli si è convertito ad
una religiosità intrisa di cristianesimo e illuminismo:
[…]
Mais, un jour que, plongé dans ma propre infortune,
J’avais lassé le ciel d’une plainte importune,
Une clarté d’en haut dans mon sein descendit,
Me tenta de bénir ce que j’avais maudit,
Et, cédant sans combattre au souffle qui m’inspire,
L’hymne de la raison s’élança de ma lyre.
Gloire à toi, dans les temps et dans l’éternité !
Eternelle raison, suprême volonté !
Toi, dont l’immensité reconnaît la présence !
Toi, dont chaque matin annonce l’existence !
Ton souffle créateur s’est abaissé sur moi ;
Celui qui n’était pas a paru devant toi !
[…]
L’espressione “Une clarté d’en haut dans mon sein descendit, // me tenta de bénir ce que
j’avais maudit” (un chiarore dall’alto nel mio petto discese,// mi tentò di benedire quel che
avevo maledetto) segnala due fattori costanti della poetica lamartiniana: la presenza di
una entità superiore all’uomo e la tentazione di credere a questa entità salvifica, ossia il
bisogno strutturale e ineluttabile dell’uomo di credere a qualcuno di superiore che possa
riconciliarlo con la sua stessa esistenza, con il suo stesso destino e di cui il poeta deve
divenire chantre, cantore. Il linguaggio di Lamartine deve molto alla tradizione evangelica
e biblica, anche quando questo ‘tu’ misterioso viene preso di mira dalla rabbia dell’io
ferito.
È così che in Le désespoir, altro poema delle Méditations poétiques, la rabbia del poeta si
scaglia contro Dio con toni che ricordano il Libro di Giobbe. Lo stesso Lamartine
commenterà così questo urlo in un momento così drammatico della sua vita:
Il y a des heures où la sensation de la douleur est si forte dans l’homme jeune et sensible, qu’elle étouffe la raison. Il faut
lui permettre alors le cri et presque l’imprécation contre la destinée ! L’excessive douleur a son délire, comme l’amour.
Passion veut dire souffrance, et souffrance veut dire passion. Je souffrais trop ; il fallait crier. […] Il y avait bien
d’autres strophes plus acerbes, plus insultantes, plus impies. Quand je retrouvai cette Méditation, et que je me résolus à
l’imprimer, je retranchai ces strophes. L’invective y montait jusqu’au sacrilège. C’était byronien ; mais c’était Byron
sincère, et non joué.
Anche quando Lamartine, di ritorno da un viaggio in Terra Santa tra il 1832 ed il 1833, che
ispirò Souvenirs, impressions, pensées et paysages pendant un voyage en Orient, scriverà
Gethsémani in cui rinnegherà il cristianesimo mosso dal dolore per la perdita di sua figlia,
si renderà evidente questa continua e sofferta ricerca che ha come suo interlocutore la
tradizione evangelica ed il fatto cristiano.
132
L’amore, la vita e la morte, la precarietà del vivere, la delusione, il dolore, il destino
dell’uomo e delle sue passioni sono temi comuni a Lamartine come a Leopardi, così come
forte in entrambi è il tratto autobiografico di tutta la loro produzione. Entrambi li
affrontano sempre in una prospettiva ultima; in Lamartine essa diviene tensione religiosa.
Il titolo Méditations non è casuale. Nel “Commentaire” a L’isolement che pone come prima
delle sue meditazioni e che gli è ispirata dal dolore per la perdita dell’amata Julie Charles,
egli descrive lo stato d’animo in cui si trovava quando scrisse la poesia e come i versi gli
furono ispirati e precisa:
Ma conversation habituelle, selon l’expression sacrée, était dans le ciel. On a vu dans Raphaël comment j’avais été
attaché et détaché soudainement de mon idolâtrie d’ici-bas.
E nello stesso « Commentaire » egli indica nei sonetti del Petrarca la fonte ispiratrice, il
motivo che troverà poi personale espressione. Nei versi dell’aretino, che considera “le
premier poète de l’Italie moderne, parce qu’il est à la fois le plus élevé et le plus sensible, le
plus pieux et le plus amoureux”, egli ama l’irrisolto dualismo e dissidio tra “amour et
prière”.
L’isolement presenta, come vedremo, questa evoluzione dell’animo del poeta dalla
nostalgia per l’amata perduta allo slancio verso “ce bien idéal que toute âme désire”. Cosa
di questo risuona nella poesia Alla sua donna di Leopardi? Prima di procedere all’analisi
dei due componimenti non va dimenticato che quello di Leopardi fu composto a Recanati
in sei giorni nel settembre del 1823 e resta una delle rare interruzioni del silenzio poetico
che dura dal 1822 al 1828 e che lo vedrà impegnato nella stesura delle prime Operette
morali, espressione del suo pessimismo. Esso è pubblicato nel 1824 per la prima volta a
Bologna come ultima poesia delle Canzoni.
L’isolement e Alla sua donna
Come si può notare qui di seguito, il testo delle due poesie presenta delle differenze
formali e di contenuto. Cerchiamo di individuarne la struttura:
L’isolement
Souvent sur la montagne, à l’ombre du vieux chêne,
Au coucher du soleil, tristement je m’assieds ;
Je promène au hasard mes regards sur la plaine,
Dont le tableau changeant se déroule à mes pieds.
Ici, gronde le fleuve aux vagues écumantes,
Il serpente, et s’enfonce en un lointain obscur ;
Là, le lac immobile étend ses eaux dormantes
Où l’étoile du soir se lève dans l’azur.
Au sommet de ces monts couronnés de bois sombres,
Le crépuscule encor jette un dernier rayon,
Et le char vaporeux de la reine des ombres
Monte, et blanchit déjà les bords de l’horizon.
Alla sua donna
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
ne’ campi ove splenda
più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
133
Cependant, s’élançant de la flèche gothique,
Un son religieux se répand dans les airs,
Le voyageur s’arrête, et la cloche rustique
Aux derniers bruits du jour mêle de saints concerts.
Mais à ces doux tableaux mon âme indifférente
N’éprouve devant eux ni charme ni transports,
Je contemple la terre, ainsi qu’une ombre errante :
Le soleil des vivants n’échauffe plus les morts.
De colline en colline en vain portant ma vue,
Du sud à l’aquilon, de l’aurore au couchant,
Je parcours tous les points de l’immense étendue,
Et je dis : Nulle part le bonheur ne m’attend.
Que me font ces vallons, ces palais, ces chaumières ?
Vains objets dont pour moi le charme est envolé ;
Fleuves, rochers, forêts, solitudes si chères,
Un seul être vous manque, et tout est dépeuplé.
Que le tour du soleil ou commence ou s’achève,
D’un œil indifférent je le suis dans son cours ;
En un ciel sombre ou pur qu’il se couche ou se lève,
Qu’importe le soleil ? je n’attends rien des jours.
Quand je pourrais le suivre en sa vaste carrière,
Mes yeux verraient partout le vide et les déserts ;
Je ne désire rien de tout ce qu’il éclaire,
Je ne demande rien à l’immense univers.
Mais peut-être au-delà des bornes de sa sphère,
Lieux où le vrai soleil éclaire d’autres cieux,
Si je pouvais laisser ma dépouille à la terre,
Ce que j’ai tant rêvé paraîtrait à mes yeux ?
Là, je m’enivrerais à la source où j’aspire,
Là, je retrouverais et l’espoir et l’amour,
Et ce bien idéal que toute âme désire,
Et qui n’a pas de nom au terrestre séjour !
Que ne puis-je, porté sur le char de l’aurore,
Vague objet de mes vœux, m’élancer jusqu’à toi,
Sur la terre d’exil pourquoi resté-je encore ?
Il n’est rien de commun entre la terre et moi.
Quand la feuille des bois tombe dans la prairie,
Le vent du soir s’élève et l’arrache aux vallons ;
Et moi, je suis semblable à la feuille flétrie:
Emportez-moi comme elle, orageux aquilons!
134
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.
La poesia di Lamartine è costituita da 13 strofe ognuna di quattro versi alessandrini (12
sillabe) con rima alternata ed ha una struttura molto regolare. Quella di Leopardi, più
breve, presenta cinque strofe di undici versi ciascuna; tutte cominciano con un settenario e
chiudono con due endecasillabi a rima baciata. Ogni strofa presenta una grande varietà
metrica, sia come disposizione dei settenari e degli endecasillabi che come disposizione
delle rime, per cui potrebbe definirsi una canzone libera, la prima della produzione
leopardiana. Anche la sintassi in Leopardi è più libera, come testimonia l’uso frequente
dell’anacoluto.
Da un punto di vista tematico L’Isolement può essere suddiviso in tre momenti che
costituiscono tre passaggi della stessa meditazione e che permettono di individuare tre
gruppi quasi equivalenti di strofe: le prime quattro strofe (vv.1-16); le successive cinque
strofe, dalla quinta alla nona (vv. 17-36); le ultime quattro strofe, o meglio 3+1 di chiusura
(vv. 37-51). Ogni passaggio presenta una forte coerenza e coesione, tanto da permetterne
una precisa sintesi tematica: la contemplazione, solitaria di un paesaggio al crepuscolo
visto dall’alto (“au coucher du soleil, tristement je m’assieds;//je promène au hasard mes regards
sur la plaine”- vv.2-3); il sentimento di disperazione (“Qu’importe le soleil ? je n’attends rien
des jours” – v. 32) per la perdita della donna amata (“Un seul être vous manque, et tout est
dépeuplé” - v. 28); la speranza di un bene più grande oltre la vita terrena (Là, je m’enivrerais
à la source où j’aspire,/Là, je retrouverais et l’espoir et l’amour,//Et ce bien idéal que toute âme
désire,/Et qui n’a pas de nom au terrestre séjour ! vv.41-44).
Il passaggio dalla contemplazione di un paesaggio per lui divenuto insignificante a causa
dell’assenza dell’amata ad un ridestato slancio di speranza poggia su un’ipotesi espressa
in termini platonici: al di là dei limiti della sfera terrestre c’è forse il “bene ideale che ogni
uomo desidera”. Il “mais” avversativo posto all’inizio della seconda e della terza sequenza
qualificano ciò che segue come superamento di quanto precede. Si noti che nella
penultima strofa il poeta si rivolge, quasi in preghiera, proprio a questo ‘bene’ dandogli
del ‘tu’ (v.46). In tale prospettiva, ritornare nell’ultima strofa a considerare la propria
condizione presente di uomo mortale, evocata attraverso il tradizionale paragone con la
foglia appassita in balìa del vento, è proposto come un momento desiderabile, per cui il
vento tempestoso (“aquilons”-v.52) è invitato dal poeta a trasportarlo via. Un altro aspetto
interessante che caratterizza il passaggio dalla disperazione alla speranza è lo spostamento
dall’attaccamento alla donna fisica ad un oggetto di amore più grande, indicato dalla
perifrasi astronomica, “vrai soleil” (v.38), con cui tradizionalmente si indicava Cristo.
Torniamo al canto di Leopardi. Egli parla direttamente alla “beltà” (v.1), dandole del tu e
qualificandola con l’affettivo “cara”. Ma sin dai primi versi si rende evidente che non si
tratta di una donna particolare, reale. Si tratta di un’ “ombra diva” che ispira “amore” al
poeta “lunge” o “nascondendo il viso”, dunque mai mostrandosi del tutto. Da qui sorge la
domanda della seconda parte della prima strofa, le prime ipotesi che, si badi, non
riguardano l’esistere di questa beltà, bensì il dove e il quando essa si collochi: “Forse tu
l’innocente/Secol beasti che dall’oro ha nome,/Or leve intra la gente/Anima voli? o te la
sorte avara/Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?” (vv.7-11). La poesia di Leopardi
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dunque esordisce dando del tu ad una bellezza ideale, una bellezza, potremmo dire, con la
B maiuscola.
La seconda strofa è dominata dalla speranza perduta di poterla vedere “viva” (“omai
nulla spene m’avanza”-vv.12-13) e si apre all’ipotesi ultima: che il proprio “spirto” “verrà”
“per novo calle a peregrina stanza” (vv. 14-15), dove la scelta lessicale dell’aggettivo
“peregrina” (da peragràre, percorrere, viaggiare, composto di per, oltre, al di là; ager, campo
ed estensivamente campagna, territorio, paese) richiama etimologicamente ad un oltre, all’
“altra terra” del v.50, circostanza distante ed estranea rispetto a dove ci si trova, ma che
eredita una connotazione positiva dall’aggettivo “novo” attribuito al sentiero (“calle”). Un
sentiero mai percorso sinora. A questa condizione di viaggio del poeta corrisponde,
attraverso un chiasmo che include i vv.14-19, “te viatrice” del v.18.
A giustificazione della propria disillusione il poeta cita la sua esperienza: Già in gioventù
(“sul novello aprir di mia giornata incerta e bruna”-vv.16-17) egli aveva pensato (“mi
pensai”-v.19) questa bellezza “viatrice in questo arido suolo”(v.18). Tuttavia non solo “in
terra” “non è cosa che ti somigli” (vv.19-20), ma se ne esistesse qualcuna “pari” nel volto,
nell’agire, nel parlare, “saria, così conforme , assai men bella” (v.22). Questo passaggio
aggiunge una informazione riguardo ad una evoluzione avvenuta: la speranza perduta di
vederla viva ha spostato in un oltre la vita questa possibilità di incontro, dopo la morte;
anzi, - e qui usa una frase ipotetica – qualunque bellezza terrena conforme alla Bellezza
sarebbe comunque una riduzione, una bellezza con la ‘b’ minuscola.
Si noti, inoltre, qui la scelta del termine viatrice, quasi fusione di viatico e Beatrice: il viatico è
il nutrimento che sostiene il viaggio e, nella tradizione cristiana, l’eucaristia data al
morente; Beatrice è la donna di Dante, il poeta che fece il viaggio oltre, “nei superni giri”
(v.50). Ed in effetti nella strofa successiva, il poeta ipotizza che se “Alcun t’amasse in terra,
a lui pur fora questo viver beato” (vv. 26-27) e ancora “teco la mortal vita saria simile a
quella che nel cielo india” (vv. 32-33).
In queste prime due strofe vi è una differenza ed una somiglianza con la poesia di
Lamartine. La differenza è che il passaggio dalla donna terrena al desiderio del bene
assoluto Leopardi lo ha già fatto dall’inizio della poesia. Egli attesta con un richiamo alla
propria esperienza passata, la propria disillusione verso il sentimento amoroso che ha per
oggetto una donna fisica. Lamartine è invece stato strappato all’amore ricambiato per una
donna particolare dalla morte prematura di questa.
Il movimento dei pensieri lamartiniani è dunque lineare ed ascendente. Quello di
Leopardi no: egli dà del ‘tu’ sin dall’inizio e poi illustra con un flash-back il proprio
passato che, però, anch’esso reca delle certezze che sono punto di non ritorno.
Inoltre, in Leopardi l’assoluto cui l’io anela è femminile, così come donne erano coloro
dietro il cui viso la beltà gli ispirava amore, ed egli la chiama “cara beltà”, forse “l’una”
dell’eterne idee (vv.45-46). Lamartine ‘dimentica’ la donna fisica per un “bien idéal”. La
prossimità però è proprio in questa opposizione tra l’adesso della vita terrena ed una vita
oltre la vita terrena (v.19). La poesia di Leopardi la ripresenta nella strofa successiva, che
oppone la “mortal vita” (v.32) a “quella che nel cielo india” (v.33), e nelle altre due strofe:
“alta specie”-v.43; “eterne idee”, cui si oppongono “sensibil forma”(v.46), “caduche
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spoglie” (v.48), “affanni di funerea vita” (v.49). Questo ossimoro richiama l’immagine di
‘morto vivente’ della poesia di Lamartine : “Je contemple la terre, ainsi qu’une ombre
errante://Le soleil des vivants n’échauffe plus les morts.” (vv.19-20).
E questa opposizione, che vede la terra qualificata come “arido suolo” (v.18) in Leopardi,
vuoto e deserto (v.34) in Lamartine, si configura in entrambe le poesie come ipotesi di
un’alternativa che possa finalmente adeguatamente soddisfare il desiderio di raggiungere
“ce bien idéal que toute âme désire” in Lamartine (v.43), la “cara beltà” (v.1) con la ‘B’
maiuscola in Leopardi.
Un altro elemento di somiglianza è che in entrambe le poesie, la ricerca è un ‘percorso
dello sguardo’. In Lamartine vi è un largo uso di verbi e sostantivi legati all’azione del
vedere o alle connotazioni visive. Il riferimento all’atto del vedere e al ‘cammino dello
sguardo’ è continuo ( vv. 3, 19, 21, 30, 34, 40) e si accompagna ad effetti-luce legati al
crepuscolo e all’apparire della luna. In Leopardi vi sono meno azioni legate al vedere vero
e proprio (vv. 12, 28), anzi il “vegg’io” del v.28 è usato come sinonimo di “il mio pensier ti
pinge” del v.25 che insiste su una vista dell’anima, dell’immaginazione, una specie di
contemplazione interiore (vv. 19, 40, 43).
Questo movimento ‘inverso’ rispetto alla poesia di Lamartine prosegue con la quarta
strofa del componimento di Leopardi. Essa descrive una situazione molto simile a quella
della prima strofa de L’isolement. Il poeta si siede e si lamenta osservando un paesaggio di
valli, attraversato dal passaggio di qualcuno e dal canto: “Per le valli, ove suona//Del
faticoso agricoltore il canto,//Ed io seggo e mi lagno” (vv.34-36) richiama la prima e la
quarta strofa del testo di Lamartine. Anche qui il poeta ha perso qualcosa. Non è però una
donna in particolare, ma l’amore, la speranza nell’amore che definisce “giovanil error che
m’abbandona” (v.37), ha perso i suoi desideri e la “speme de’ giorni miei” (v.40). Anche
qui dunque una speranza la cui perdita è irrimediabile, come in Lamartine (vv. 24, 32, 3536).
Ed eccoci all’ultima strofa. È qui che il percorso di Leopardi trova una sintesi che è forse il
punto di maggiore vicinanza con L’isolement, in particolare con le strofe dell’ultima
sequenza tematica, dalla decima alla dodicesima. Anche Leopardi si ‘sposta’ sui toni della
preghiera ed usa lo stesso lessico platonico di Lamartine. Essa forse risiede in “altra terra
ne’ superni giri/fra mondi innumerabili”(vv. 50-51) ed anche qui è presente l’immagine del
sole che splende, come in Lamartine (vv.37-38). L’anacoluto finale dell’ultimo verso –
“Questo d’ignoto amante inno ricevi” – ridefinisce e nello stesso tempo esplicita
l’intenzione che muove il canto: sollevare un inno alla “cara beltà” come estremo gesto di
un amante a lei sconosciuto.
La cifra della distanza ed insieme della vicinanza delle due poesie è rappresentata
dall’ultima strofa de L’isolement in cui Lamartine ritorna alla propria condizione presente
pacificato, chiedendo al vento di portarlo via, di anticiparne la morte naturale. La
direzione ascendente e lineare della sua meditazione lo lascia soddisfatto della possibilità
dell’oltre. I versi di Leopardi, come dicevamo, non hanno questa linearità e sono carichi
sin dall’inizio del dialogo con il‘tu’, la Bellezza che egli pre-sente, si ‘pinge’, ma che non
riesce a conoscere. La tensione drammatica traspare nel ‘rimprovero’ dei versi 46-49: “cui
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di sensibil forma//Sdegni l’eterno senno esser vestita,//E fra caduche spoglie//Provar gli
affanni di funerea vita”, cui corrisponde la connotazione sofferta di “ignoto amante”
dell’ultimo verso. Questo rimprovero implicito rende l’inno quasi una preghiera a svelarsi
nell’ora e un voler rassicurare a Lei la sua devozione.
§ Conclusioni
L’analisi comparativa delle due poesie mostra una quantità di somiglianze che proveremo
di seguito a sintetizzare discorsivamente. Il tema è lo stesso: l’io del poeta deluso dalle
esperienze terrene, pur diverse (la perdita di Julie Charles per Lamartine, “i perduti desiri
e la perduta speme” per Leopardi) solleva l’ipotesi di incontrare un ‘tu’ assoluto oltre la
vita terrena. Il linguaggio è in entrambe le poesie fortemente platonico. La situazione
contemplativa è presente in entrambe. Quella di Lamartine, procede in modo più
narrativo, disteso e lineare - l’alessandrino è il verso tradizionale della narrazione orale
nella letteratura francese -, secondo delle sequenze in cui i “mais” costituiscono dei punti
di non ritorno. Quella di Leopardi ‘viaggia’ tra la condizione presente ed il passato che
l’ha determinata. L’ipotesi dell’oltre domina entrambe le poesie.
Alla luce di questo, pare ingiustificato il mancato confronto da parte di una tradizione che
invece ha accostato molte poesie dei due autori e, in particolare, a L’isolement ha
paragonato L’infinito. Eppure vi sono diversi elementi di distanza tra questi due
componimenti: manca infatti ne L’infinito l’accusa di un perduto bene e la chiave ipotetica
dell’oltre come risposta alla condizione di dolore e disperazione (“io nel pensier mi fingo”v.7), manca il “tu”. Inoltre è una poesia dalla struttura più compatta, potremmo dire fatta
per essere letta tutta d’un fiato, in cui l’animo del poeta si immerge progressivamente in
un dolce naufragar.
Molte di più invece le somiglianze con Alla sua donna che persino nel titolo richiama la
situazione in cui Lamartine compose la sua poesia. Resta dunque un’ultima domanda.
Non v’è certezza sul fatto che Leopardi avesse letto la raccolta di Lamartine, e dunque
questa poesia in particolare, prima di scrivere l’ultimo canto prima del suo silenzio lirico.
Ma se ciò fosse accaduto, ipotesi resa plausibile anche dai molti accostamenti che la critica
stessa ha fatto per alte poesie, ci si deve chiedere: cosa Leopardi ha ‘letto’ per sé e per le
proprie istanze nel testo lamartiniano? La possibilità di un “tu” divino, oltre la vita, ma
che pre-sente nell’esperienza dell’ora e che si manifesta “lunge”, come bellezza, in tutta la
sua potenza attrattiva. La preghiera finale dice di tutta la sua urgenza di quella che in
termini cristiani si chiama rivelazione e di cui anche la speculazione del Tìmeo di Platone
giunge a formulare l’ipotesi. E’ l’ipotesi estrema di un io che si abbandona ancora al canto
lirico, prima di un lungo silenzio in cui sarà impegnato con la stesura delle Operette morali.
Riferimenti bibliografici
D. Bevan (ed.), Literature and Revolution, Rodopi, Amsterdam 1989
G.F. Bonini M-C. Jamet P. Bachas E.Vicari, Ecritures, vol.2, Ed. Valmartina, Novara 2009
A. Loiseleur, « Préface » dell’edizione da lei curata delle Méditations poétiques e Nouvelles Méditations poétiques,
Le Livre de Poche, Parigi 2006.
138
A. de Lamartine, Œuvres complètes, Tome I, Paris 1860 anche fruibile dal sito web
http://fr.wikisource.org/wiki/%C5%92uvres_compl%C3%A8tes_de_Lamartine_(1860)/Tome_1/L%E2%80%99
Isolement/Commentaire
F. De Sanctis, “Zola e l’Assommoir”, ne l’Arte, la scienza e la vita. Nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a
cura di Maria Teresa Lanza, in Opere, XIV, Einaudi, Torino 1972
L. Spitzer, Zwei Einsamkeiten. Leopardis “L’infinito” und Lamartines “L’isolement”, in «Archivum Romanicum»
16, 1932, pp.521-539
Allegato 1 - L’isolamento
Sovente sulla montagna, all’ombra della vecchia quercia, / al calar del sole, tristemente mi siedo; / porto in
giro il mio sguardo a caso sulla pianura, / il cui quadro cangiante scorre ai miei piedi.
Qui, sgrida il fiume le onde spumeggianti, / Serpeggia, ed affonda in una lontananza oscura; / Là, il lago
immobile stende le sue acque dormienti / Dove la stella della sera si alza nell'azzurro.
In cima a questi monti coronati da boschi scuri, / Il crepuscolo getta ancora un ultimo raggio, / Ed il carro
vaporoso della regina delle ombre / Sale, ed imbianca già i bordi dell'orizzonte.
Nello stesso tempo, lanciandosi dalla freccia gotica, / Un suono religioso si sparge nelle arie, / Il viaggiatore
si ferma, e la campana rustica / Agli ultimi rumori del giorno mischia dei santi concerti.
Ma a questi dolci quadri la mia anima indifferente / Non prova davanti ad essi né fascino né trasporti, /
Contemplo la terra così come un'ombra errante: / Il sole dei viventi non riscalda più i morti.
Di collina in collina invano portando il mio sguardo, / Dal sud all'aquilone, dall'aurora al tramonto, /
Percorro tutti i punti dell'immensa distesa, / Ed io dico: da nessuna parte mi aspetta la felicità.
Che mi fanno questi valloni, questi palazzi, queste capanne? / Vani oggetti il cui fascino per me è svanito; /
Fiumi, rocce, foreste, solitudini così care, / Un sol esser vi manca, e tutto è spopolato.
Che il giro del sole o cominci o si concluda, / con occhio indifferente lo seguo nel suo corso; / In un cielo
scuro o puro che si corichi o si alzi, / Che cosa importa il sole? non aspetto nulla dai giorni.
Quando potessi seguirlo nella sua vasta carriera, / I miei occhi vedrebbero dovunque il vuoto ed i deserti; /
Non desidero niente di tutto ciò che illumina, / Non chiedo niente all'immenso universo.
Ma forse al di là dei limiti della sua sfera, / Luoghi dove il vero sole illumina altri cieli, / Se potessi lasciare le
mie spoglie alla terra, / Ciò che ho tanto sognato apparirebbe ai miei occhi?
Là, mi inebrierei alla sorgente cui aspiro; / Là, ritroverei e la speranza e l'amore, / E questo bene ideale che
ogni anima desidera, / E che non ha nome al terrestre soggiorno!
Potess’io, portato sul carro dell'aurora, / vago oggetto dei miei desideri, lanciarmi fino a te, / Sulla terra
dell’esilio perché resterei ancora? / Non v’è nulla in comune tra la terra e me.
Quando la foglia dei boschi cade nel prato, / Il vento della sera si alza e la strappa alle valli; / Ed io, sono
simile alla foglia appassita: / Portatemi come lei, tempestosi aquiloni!
Cinzia Billa
docente di Francese
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Ragione e fede. Un dibattito antico oggi ripreso
di Maurizio Barbato
Soprattutto nel mondo anglosassone, da qualche anno si assiste a una singolare rinascita:
la rinascita della filosofia della religione. Per meglio circoscrivere sia l’ambito di questa
disciplina sia la novità della sua rinascita, è meglio aggiungere un aggettivo per
nominarla: filosofia analitica della religione, dove l’aggettivo “analitica” è utile a
distinguerla dalla più vasta e mai tramontata teologia. Mentre infatti la teologia non ha
mai cessato di celebrare tra i credenti i suoi fasti, si può dire che dopo le critiche
demolitrici di Hume e Kant è diventato difficile trovare nel filone principale del dibattito
filosofico occidentale tracce di filosofia della religione. D’altro canto tra la filosofia,
analitica appunto, della religione e la teologia sussiste una netta distanza: mentre la
seconda ha un carattere apologetico, cioè di difesa e di enfatizzazione dei diversi dogmi
(per illuminare, informare, rafforzare la dimensione intellettuale della fede e delle sue
conseguenze), la filosofia analitica si pone l’obiettivo di analizzare, in modo il più
possibile neutrale, i concetti fondamentali della religione. Così, mentre la teologia si
occupa di spiegare un dogma entro l’edificio di una religione ed eventualmente di
spiegarne il perché, la filosofia analitica della religione si interroga su quei perché
esclusivamente.
Le cause di questa rinascita sono certamente varie e numerose. Ma di tutte, quella che mi
sembra più importante e interessante (o almeno quella che più mi stimola personalmente)
è che la filosofia della religione permette di riprendere a discutere di temi schiettamente
filosofici (diciamo la parola: di metafisica) senza tema di cadere sotto il taglio dell’affilato
rasoio di Ockham che per più o meno tutto il Novecento ha condannato all’insignificanza
tali questioni. L’essere di Dio, esista o meno Dio, ci si creda o no, non può essere
analizzato che per via di analisi di ragione pura, non c’è una scienza empirica di Dio che
tolga di mezzo la filosofia della religione, così come la fisica dell’universo ha squalificato
le questioni filosofiche della cosmologia. Ciò consente di riprendere tante splendide inutili
discussioni ma applicate però a qualcosa che urge in ognuno. Inoltre, un secondo fattore
di importanza è, che la fede è fonte di tanti e tanto importanti comportamenti sociali –
distruttivi e costruttivi ma comunque enfatizzati da un clima massmediologico di
dogmatismo e di scontata esistenza del soprannaturale - che è un bene che ricominciasse
(o cominciasse) a diffondersi l’abitudine di cercare di rendere chiare le nostre idee.
I temi della filosofia analitica della religione, penso sia chiaro, sono moltissimi. Ciascuno
di essi, spesso, riprende, arricchendoli, dibattiti presenti in secoli di storia del pensiero. E
soprattutto liberati dall’assenza di libertà, dominante in altre epoche, che rendeva
pressoché impossibile a un pensatore partire da una posizione non teistica o dichiararsi,
addirittura, ateo.
In questo articolo ho scelto di soffermarmi a discutere (in modo certo frammentario) alcuni
dei problemi sollevati dal secolare problema dei rapporto tra fede e ragione, cioè l’antica
questione se l’esistenza (o la non esistenza) di Dio possa essere provata (o dimostrate
fallace) per via di ragione o se ciò è impossibile senza ricorrere alla fede.
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Da dove discenda questo problema della dimostrabilità (o indimostrabilità) della esistenza
(o non esistenza) di Dio è facile vedere. Solo le religioni che considerano Dio come logos,
cioè come ragione, possono includere una tale discussione. Infatti se Dio è ragion esso è
comprensibile. Però essendo logos, cioè la ragione, esso non può essere compreso nella
nostra ragione interamente. Altrimenti saremmo noi stessi il logos (non è questa perfetta
corrispondenza tra Dio e ragione uno dei temi alla base del panteismo di Spinoza?). Da qui
la necessità della rivelazione. In quanto limitati e non potendo cogliere con un atto di
intuizione intellettuale tutte le verità nello stesso modo in cui l’intuizione sensibile ci
permette di vedere tutti gli oggetti posti sopra un tavolo, gli esseri umani hanno bisogno
di un inizio. Un inizio di conoscenza e di ragionamento per credere qualsiasi cosa, anche
per credere in Dio: “io credo che B, perché credo che A. Credo che il ferro sia caldo perché
fuma”. “A” e “il ferro che fuma” sono un inizio. A quale sfera appartiene questo inizio, nel
caso della credenza in Dio? L’inizio è la ragione o è la fede?
Escludendo le posizioni radicali di chi ritiene in se stesso empio il cercare di discutere
razionalmente sull’esistenza di Dio (per esempio il celebre “proprio perché assurdo
bisogna credere” di Tertulliano; oppure l’altrettanto celebre sentenza di Lutero secondo il
quale la ragione non sarebbe altro che la “meretrice del diavolo”; o l’invito di San’Ignazio
di Loyola che, se la chiesa dice che qualcosa è nera e noi pur la vediamo bianca, dobbiamo
credere ch’essa sia nera necessariamente), condanna della ragione spiegata con il fatto che
Dio può in ogni momento fare che ciò che è già avvenuto in passato non sia vero e a
maggior ragione sconvolgere tutte le leggi della logica: ma se questa posizione fosse
vincente, allora la credenza in Dio sarebbe semplicemente inumana e destinata a pochi
eletti-, escludendo dunque la posizione radicalmente antirazionalista, sull’argomento, le
risposte nella storia del pensiero possono ridursi a tre:
·
·
·
A’ - L’esistenza di Dio è una verità alla quale si perviene per una fonte di conoscenza che è
diversa sia dalla ragione sia dall’esperienza, perché oltre a queste due fonti esiste l’impressione del
soprannaturale (come nel caso dei miracoli e delle apparizioni)
A. - L’esistenza di Dio è una verità di ragione, alla quale si perviene o direttamente
analizzando il concetto stesso (è questo il caso delle prove ontologiche da Sant’Anselmo a Cartesio e Leibniz,
in questi ultimi anni ripresentate per esempio da un filosofo analitico teista che si chiama Plantinga [vedi più
avanti]) o indirettamente come derivazione da altre verità logiche o ontologiche (è questo il caso delle
diverse prove dell’esistenza di Dio sviluppatesi da Aristotele a Tommaso, fino a Kant)
B. - L’esistenza di Dio è una verità derivata da un’esperienza di fede (per esempio: il dubbio
e l’amore per l’Essere agostiniani, oppure l’angoscia di Kierkeegaard, o la scommessa esistenziale di Pascal).
L’esperienza esistenziale, nella sua totalità o in alcuni momenti, rimanda in noi necessariamente l’evidenza
dell’esistenza di Dio. Ed è importante notare che in questo caso la credenza in dio non è una verità derivata
(come B da A), ma è una verità immediata, iniziale: è appunto una rivelazione o una conversione. E’ l’inizio
che non deve essere spiegato con altre credenze.
Il campo va subito sgombrato dalla posizione esposta in A’, quella del soprannaturale. In
quanto questa posizione si riduce facilmente a una delle altre due, per il semplice fatto che
se un soggetto ha avuto una sensazione del soprannaturale (se gli è apparso qualcosa: un
miracolo, un essere) è del tutto razionale per lui credere in ciò che ha visto, esattamente
allo stesso modo che il vapore dal ferro gli fa credere che il ferro è caldo; o se non è così
141
immediato, il soprannaturale lo proietta in un’esperienza di fede. Dunque il
soprannaturale non può essere strettamente considerato una fonte di credenza differente
dalla ragione o dalla esperienza di fede: ad una delle due comunque si riduce.
Una seconda osservazione fa fatta preliminarmente: la posizione dell’esperienza di fede, B,
è molto più fortunata e affascinate di A. Essa trova oggi molto alimento nel filone
filosofico ermeneutico, il quale sostiene che se qualcosa può essere creduto qualcos’altro
deve essere dato per scontato; in altri termini: che qualsiasi credenza ha bisogno di
collocarsi su “un testo” che la renda significante, e questo testo è dato per scontato; ciò
equivale a dire in termini religiosi: che ogni conoscenza e ogni credenza deve muovere da
un fede. E, nel considerare la credenza in Dio un inizio che non deve essere spiegato con
altre ragioni, la posizione B è stata ripresa in questi anni dalla cosiddetta Epistemologia
riformata che ha rilanciato con vigore il teismo nel campo della filosofia analitica (che
cercheremo di analizzare più avanti).
E sorgono subito due spinosi problemi analitici. Il primo è quello di stabilire qual è il ruolo
della parola “Dio” nel nostro sistema di significazione: “Dio” è un nome o è una
descrizione? Il secondo è quello, altrettanto collegato a questioni di significato, di stabilire
a che tipo di esperienza epistemica ci si riferisca con il termine “fede”: che cosa s intende
con “credere per fede”?
Il termine “Dio” quando è usato in espressioni quali “credo in Dio”, occupa la funzione
logica di un nome o di una descrizione? “Alessandro Manzoni” è un nome, “l’autore dei
Promessi sposi” è una descrizione. Bene, il tabaccaio di Alessandro Manzoni sapeva
necessariamente chi questi fosse, ma poteva benissimo ignorare che fosse l’autore dei
Promessi sposi; invece lo studente del liceo classico, mentre sa benissimo chi sia l’autore dei
Promessi sposi, non lo riconoscerebbe incontrandolo per strada e certamente non sa che
sigari fumava. Per i due, allora, lo studente e il tabaccaio, l’espressione “credo che X
esista” è ben diversa se si intende con X “Alessandro Manzoni” o alternativamente
“L’autore dei Promessi sposi”. Per il tabaccaio, può essere benissimo che accada che lui non
creda all’esistenza dell’autore dei Promessi sposi, mentr’è certissimo di quella di Alessandro
Manzoni; per lo studente può essere che non esista nessun individuo che comprava i sigari
in piazza Duomo dal tabaccaio di Alessandro Manzoni, ma l’esistenza dell’autore dei
Promessi sposi è per lui una credenza forte.
Spostando la questione su Dio, appare chiaro che l’espressione “credo in Dio” è tutt’altro
che univoca da un punto di vista logico e analitico. Credere in un’entità che ha nome “Dio”,
come Sant’Antonio si chiama “Sant’Antonio”, è una credenza che si avvicina di più alla
credenza mitica: esiste qualcuno che chiamiamo “Dio”, ma può benissimo non essere
dotato per il credente (come accade ed è accaduto) della proprietà di creatore o quella di
onnipotente e così via: ma allora questo tipo di credenza diventa qualcosa di ben diverso,
tipo, appunto, la credenza di un mito personale o locale: del resto non è così con la
credenza nei santi? Invece credere in Dio in quanto descrizione (che è poi in effetti il Dio dei
filosofi) supera ogni impostazione mitologica, perché significa credere all’Essere, per tanti
versi e per via di tanti ragionamenti, necessario o perfetto. Ma è un tipo di credenza
fredda: nel senso che si può pensare pur sempre che tale ente sia necessario ma che non
142
per questo esista. Come i numeri immaginari di Cartesio, i quali sono necessari ma non
esistono (del resto la differenza tra essere necessario, o perfetto, ed essere esistente è la base
delle confutazioni delle prove ontologiche). (Può benissimo essere che “l’autore dei
Promessi sposi”, per quanto logicamente necessario non esista e che il libro si sia formato
per un combinarsi capriccioso di lettere e parole come in un racconto di Jorge Luis Borges).
Insomma la differenza tra “Dio”-nome e “Dio”- descrizione colloca l’espressione “credere
in Dio” in una gamma di significati divergenti. Tanto da rendere difficile per chiunque
rispondere alla domanda: in che cosa credi? E dare un vero significato razionale
all’espressione. Ed esistono serissime conseguenze pratiche a questa divergenza. Non c’è
dubbio per esempio che dal “Dio” nome discende tutto il calore concreto delle religioni
positive; mentre il Dio descrizione, alla base, più o meno, di tutte le prove di esistenza, è
più il Dio universale, l’Essere superiore delle metafisiche, il quale ha molto meno a che
fare con la Storia umana e le umane fatiche.
Altro spinoso problema è gestire il significato di “fede”. Nella storia del pensiero, come
anche nel linguaggio in generale, il concetto di fede, “credere per fede”, tutti gli usi
significativi del concetto, penso che possano riassumersi nelle tre seguenti matrici. Primo:
la fede come la fortissima credenza che si detiene pur in assenza di prove definitive e di
ragioni da allegare a disposizione e pur in assenza di una dimostrazione di cui si sia
capaci. Diciamo che questa esperienza di fede è quella comune a tutti gli esseri umani,
ogni giorno: quando un signore preme il pulsante dell’ascensore che fino alla sera prima
ha funzionato perfettamente, egli ha fede che l’ascensore si metterà in moto anche se non
ha visionato un attimo prima corde, meccanismi e impianto elettrico, e anche se non
saprebbe spiegare tutte queste cause di funzionamento; un altro esempio: abbiamo fede
nel teorema di Pitagora anche se abbiamo completamente dimenticato o non abbiamo mai
saputo come si dimostri, allo stesso modo che crediamo per fede al risultato del teorema di
Goedel quando un grande matematico lo cita; così moltissime persone credono
fermamente e sinceramente che Dio c’è perché sono cresciute in una certa religione, ma
non hanno mai avuto bisogno di dimostrarlo. Questo primo tipi di fede è quello a cui si
affidava Sant’Anselmo con il suo: “Fides quaerens intellectum (la fede richiede l’intelletto)”,
in quanto è una fede che rimanda a prove di esistenza, che le dà per scontate. Il secondo
tipo di fede è quello del fermo assenso; è l’esatto contrario, cioè la sicurezza assoluta che
deriva dalla certezza delle prove: se metto un foglio in un cassetto chiuso ermeticamente e
poi lo riapro ho fede che rivedrò il foglio; se vedo un gatto sul tetto ho fede che c’è un
gatto sul tetto (c’è differenza tra “vedo un gatto sul tetto” e “vedo che un gatto è sul tetto”,
la prima proposizione è un’evidenza per la seconda proposizione). Questi due tipi di fede
hanno molto in comune. Entrambi sono catalogabili sotto l’espressione “aver fede che
(l’ascensore parta, che l’ipotenusa sia un certo rapporto con i cateti, che una teoria formale
è incompleta come ha dimostrato Goedel, che Dio esista secondo la mai religione)”.
Entrambi non sono una nuova forma di conoscenza, diversa e aggiuntiva, rispetto a quello
che già sapevamo: non è che aver fede mi fa conoscere meglio che l’ascensore partirà, che
aggiunge elementi a quelli che già possedevo. In questi casi, come diceva Locke, “la fede
non è altro che un fermo assenso della mente”. Però, ed è decisivo, in entrambi non vi è
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alcuna contrapposizione alla ragione. Non è che credere per fede, in entrambi questi
significati, si contrapponga a credere per via di ragione. Se si chiede il perché di quella fede,
l’interrogato sarà in grado di allegare moltitudini di ragioni, tutte giustificate, razionali e
ragionevoli per credere. Anche se si crede (ripeto) per un evento soprannaturale, non è
razionale e ragionevole credere a un’apparizione quando tutto ci dice che non si è trattato
di un’allucinazione? La ragione che è contrapposta alla fede in questo caso è semmai la
ragione intesa come ragioni naturalistiche e scientifiche. Ma questo non riguarda
l’opposizione tra fede e ragione.
Difficile insomma non dare ragione a quanto diceva Anselmo: fides quaerens intellectum. La
fede, nei due sensi visti innanzi, non può essere presupposto della ragione, è semmai,
sempre il contrario: c’è una credenza alla base di ogni fede, c’è fede in ciò che l’evidenza
suggerisce. In questi casi dunque non c’è vera opposizione fede-ragione e la ragione
sembra prevalere.
Ben diverso è il caso del terzo tipo di significato di “fede”: la fede come confidare, come
affidamento, come speranza, come dare senso. E’ questo, probabilmente il tipo di fede a
cui si riferiscono i credenti più profondi e intimamente presi. Senza dubbio è un’altra via
rispetto alla via razionale: perché qui [più innanzi tenteremo di considerarlo
accuratamente] alle ragioni, atomistiche, molecolari, si contrappongono i motivi per credere,
e questi attengono non a questa o quella evidenza banale, ma si riferiscono a una certa
pienezza di vissuti. Ed è questa pienezza di vissuto, questo senso trovato definibile quale
fede, la fonte da cui sgorga la credenza: la colpa, la gioia, il sentirsi creatura, il sentirsi
amati e protetti, il vedere la luce anche nel fondo delle tenebre, il senso di bellezza e di
armonia di certe situazioni naturali o umane, la gratitudine e lo sgomento perché c’è
l’Essere e non il Nulla, queste e altre tensioni esistenziali sarebbero le basi infrangibili della
credenza. Quindi, se l’espressione che meglio sintetizzava i primi due tipi di fede è stato
“avere fede che”, qui si cade sotto un altro explanans: è “avere fede in” che spiega questo
tipo di fede. Avere fede in Dio. E sorge la prima immediata obiezione. Si può avere fiducia
in qualcuno o in qualcosa se questo si sa già esistente e non si può se non si sa già
esistente. Se questo è vero, allora ancora una volta la fede non è un sostegno sufficiente
alla credenza. Poiché anche per sentire questo tipo di fede come confidare, bisogna già
credere che ciò in cui si confida esista. Quindi, ancora una volta, presenta gravi problemi
accettare la fede in quanto l’inizio della credenza. Ma c’è una seconda obiezione più forte.
Visto che questo confidare nasce da un certo vissuto, come mai alcuni pur avendo i
medesimi vissuti non derivano le stesse conclusioni di credenza? Se la fede è
un’esperienza di senso del vivere da cui scaturisce il credere, perché alcuni pur
condividendo una simile pienezza non traggono simili conseguenze? I casi sono tre. O
evidentemente quella esperienza da sola non è sufficiente a nutrire la credenza poiché in
circostanze analoghe non provoca stessi effetti, e quindi ancora una volta ci vogliono altre
ragioni, altre evidenze per credere, ovvero altre credenze razionali; o – secondo casoquell’esperienza vissuta che chiamiamo fede diventa sensata in direzione di una certa
credenza soltanto in presenza di un precisa tradizione, di precisi costumi e di precise
autorità (testi) morali o intellettuali che l’incoraggino; allora la fonte autentica della
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credenza teistica non si trova tanto nella fede, quanto in quelle tradizioni e in quei
costumi e in autorità che danno un preciso senso a un’esperienza. In ultimo va
considerato un terzo caso; quello in cui un’esperienza di senso dia origine alla credenza in
Dio in quanto esiste un sentire religioso che si radica in una dimensione prettamente
umana, originaria; è quel senso del sacro come dato specificamente umano che il
fenomenologo Rudolf Otto ha sintetizzato nella formula: “la religione comincia da se
stessa”. Allora la credenza non ha bisogno d’altro per iniziare che del vissuto umano
stesso, perché innervata nella natura umana. Ma in questo modo abbiamo soltanto trovato
una spiegazione del fenomeno religioso: è la credenza come fatto che viene semmai
chiarita. Il teista ha trovato una ragione per cui esiste il teismo, non una ragione per cui
esiste Dio da fornire al non credente. Il carattere originario della religione spiega la
religione non la sua verità. Così, al non credente può mancare il sentire Dio, tal quale un
non vedente può non vedere i colori; ma se a un non vedente si può dimostrare l’esistenza
dei colori, resta il problema di dimostrare al non credente l’esistenza di Dio.
Dunque, accidentato appare il primato della fede. Ma quali obiezioni ha sollevato la
presunta preminenza della ragione?
Riguardo all’appello alla ragione incontriamo le seguenti posizioni.
Primo - i sostenitori dell’dea che la ragione ci porta a Dio per via dimostrativa: a questa
posizione appartiene una schiera di pensatori massiccia e forse maggioritaria che comincia
con Aristotele e San Tommaso e arriva ai giorni nostri nelle argomentazioni analitiche
della cosiddetta Epistemologia riformata (vedremo)
Secondo - i sostenitori della irrilevanza della ragione: coloro come Kierkeegaard e come
Wittgenstein tra gli altri, i quali pensano che anche se la ragione riuscisse a dimostrare
l’esistenza di Dio, comunque il passaggio a credere in Dio richiede un salto logico che con
la ragione ha poco a che fare; forse nessuno meglio di Wittgenstein ha espresso nella sua
purezza questo tipo di pensiero: “la credenza religiosa è ciò che non deve avere nessuna
ragione per essere”, “se fossero razionali le credenze religiose non sarebbero religiose”, “il
punto è che se vi fosse l’evidenza questo rovinerebbe l’intera faccenda”.
Terzo - le posizioni della inconcludenza della ragione nella questione di Dio: coloro, come
Marx e come Freud, i quali pensano che il fondamento della religione e della credenza non
sia da ricercare in argomentazioni di qualsiasi natura esse siano, ma che germogli in un
humus di circostanze economiche e sociali (Marx) oppure nei meandri della psicologia del
profondo (Freud) Il senso di questa posizione è che è l’uomo che fa la religione, e non è la
religione che fa l’uomo. Per cui ci siano o non ci siano ragioni per credere, esse sono del
tutto inconcludenti. Secondo Marx: “la religione è il sospiro della creatura oppressa, è
l'anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza
spirito. Essa è l'oppio del popolo”. E Freud argomenta: “la psicoanalisi ci ha reso consueta
l’intima connessione tra il complesso paterno e la credenza in Dio; ci ha mostrato che il Dio
persona altro, psicologicamente parlando, non sia che un padre estatico” . Per il primo
dunque, la religione è una fuorviante consolazione creata dalla condizione di oppressione
e sfruttamento. Per il padre della psicoanalisi è “un sostituto del padre”. Dimostrarne
l’esistenza o l’inesistenza è quindi del tutto inconcludente.
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Questa terza posizione, di Marx e e Freud e dei vari (tra i quali per molti aspetti va
annoverato Nietzsche) che hanno cercato di approfondire la credenza in Dio quale
fenomeno religioso, ha sempre avuto una profonda forza di suggestione e un’enorme
importanza sul piano della critica dei poteri clericali. Esse però, sul piano analitico,
possono essere esattamente rovesciate: come non sono rilevanti, sul perché gli uomini
credano in Dio, le ragioni a favore o contro la sua esistenza, allo stesso modo sulle ragioni
a favore o contro la sua esistenza non sono rilevanti i motivi socio-psicologici o morali per
cui si crede in Dio. In altri termini, gli argomenti di Marx e Freud (e gli altri argomenti di
questo tipo) possono spiegare la religione come fenomeno umano, e possono essere delle
buone ragioni per rigettarla o ridimensionarla; ma non spiegano in alcun modo la
razionalità della credenza o della incredulità. Infatti, ammesso che si possa dimostrare
incontrovertibilmente, che tutti i credenti e gli increduli, lo facciano senza alcuna ragione
razionale, ciò non dimostra all’analisi filosofica che non vi siano buone ragioni.
E infatti, non sono di questo tipo (diciamo: circostanziale) le obiezioni che l’analisi
filosofica può opporre all’appello alla ragione. Esse invece attengono al rapporto tra la
formazione della conoscenza e la possibilità di credere in Dio.
Secondo la filosofia della conoscenza esistono due tipi di credenze (sulla filosofia della
conoscenza punto di riferimento ottimo è Roderick M. Chisholm Teoria della conoscenza).
Per esempio: io posso sapere che c’è ghiaccio al Polo Nord perché posseggo
un’approssimativa conoscenza delle leggi della fisica e del clima, oppure (secondo tipo)
perché sono stato al Polo Nord e l’ho visto. Nel caso in cui la mia credenza sia fondata
sulla mia conoscenza delle leggi della fisica e del clima, io credo che ci sia ghiaccio al Polo
Nord perché credo nelle leggi della fisica e del clima e queste seconde credenze si fondano
a loro volta su altre credenze (per esempio perché credo a ciò che dice il mio vecchio
manuale di fisica). Quindi i credo B perché credo A e così via. Invece nel caso in cui la mia
credenza sia fondata sul fatto che ho visto il ghiaccio, questo “aver visto” può essere
considerato un’evidenza, ovvero una prova, ovvero una credenza che non ho bisogno di
fondarsi su altre credenze. Mi basta l’evidenza per credere una certa proposizione. La
stessa immediatezza di evidenza vale con le leggi della logica: esse sono credenze di base
che non hanno bisogno di fondarsi su altre credenze. Per questa ragione gli epistemologi
distinguono le credenze in due tipi: ci sono le credenze derivate da altre credenze e ci sono
le credenze di base. Si può dire in un altro modo: che tutte le credenze si fondano o sul
direttamente evidente o sull’indirettamente evidente. Ora, per gli epistemologi, tenendo a
mente che essi stanno parlando non di ciò che è vero ma di ciò che si conosce, il direttamente
evidente è un dato o della percezione di uno stato esterno (quello che i filosofi chiamavano
“verità di fatto”) o di uno stato di coscienza (per esempio sono il direttamente evidente sia
la fame che sento sia la legge della transitività che so vera, perché entrambe costituiscono
stati di coscienza). Ora, mentre il direttamente evidente è certo, l’indirettamente evidente
risulta più o meno credibile sulla base della forza delle altre credenze su cui si erge. Ciò
significa che tutte le credenze non funzionano come tutto o niente. Se si crede B perché si
crede A, allora la credenza in B si collocherà in un gamma di forza che dipenderà dalla
forza della credenza in A: possiamo dire si crede B a un grado maggiore o minore a
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seconda di quanto è evidente A, cioè in base a quanto A è “vicino o lontano” da un
direttamente evidente. Una gamma che corre da : “A prova B al di là di ogni dubbio” a “A
è del tutto marginale rispetto alla verosimiglianza di B”: Tutte le credenze dovrebbero
collocarsi in un punto di questa gamma, in parole nette: ogni credenza ha un grado. Ora,
posto che la credenza in Dio non è un direttamente evidente ma è una credenza derivata (e
non di base), qual è il grado della credenza in Dio? A parte i fortunati che hanno assistito a
un miracolo o hanno ricevuto una visione, per tutti gli altri la credenza in Dio, se c’è, deve
collocarsi a un grado di credenza, non può essere una credenza assoluta, naturalmente; e
qual è la linea discriminante, a quale grado di credenza si può dire che questa credenza è
razionale? Dove deve porsi il confine, se è possibile stabilire un confine, tra il teista e
l’ateista? Se esiste una credenza razionale in Dio, quando scatta questa credenza razionale
in Dio, a che punto della scala?
Se le cose stanno così, sembra plausibile che non c’è un grado di credenza che segna a
livello razionale il dislivello tra chi crede e chi non. Poiché è assurdo pensare che esiste un
punto preciso, abbastanza fondato su evidenze, prima del quale non è razionale e oltre
quale diventa razionale credere che Dio esista, allora è evidente che la fede può
incominciare in qualunque punto della scala. Allora, tra la posizione di Tommaso e di
Cartesio che pensano che la credenza in Dio sia fondata sulla ragione (cioè su un grado di
credenza) e la posizione di Kierkeegaard e di Wittgenstein, per i quali si crede in modo
irrilevante rispetto alla sua razionalità, appare vincente la posizione di questi ultimi due:
c’è un salto logico che porta a credere, qualunque sia il grado di credenza razionale si
crede o no, per cause che non hanno a che fare con la razionalità della credenza. La fede in
Dio si pone entro tutta la gamma dei gradi di credenza, perché non si crede per
razionalità. Il credente si colloca in tutta la scala a partire dal “proprio perché assurdo bisogna
credere” “è certo perché impossibile” di Tertulliano al “In ogni parte è un rompicapo, un enigma,
un mistero inesplicabile. Dubbio, incertezza, sospensione di giudizio appaiono essere gli unici
risultati del nostro più accurato esame, concernente il soggetto in questione” di David Hume.
Se vuole aggirare questa conclusione, l’unica alternativa per il teista razionalista consiste
nel sostenere che la credenza in Dio non è una credenza derivata (cioè fondata su altre
ragioni) ma è evidente in sé, cioè è una credenza direttamente evidente (come la
percezione di uno stato di cose esterne, o di uno stato di coscienza) e non indirettamente
evidente. Ora, a meno che questa evidenza non sia data dalla conoscenza diretta di uno
stato di cose esterno (per esempio un’apparizione), o ameno che questa evidenza non sia
data da uno stato di coscienza (come nel caso delle problematiche prove ontologiche, che
pretendono di fondarsi sulle leggi logiche), per assumere l’esistenza di Dio come
direttamente evidente occorre cercare un’altra via.
Negli ultimi decenni questa altra via che permette di accettare l’esistenza di Dio come
credenza di base, ossia come direttamente evidente, ha ripreso vigore grazie alle opere della
cosiddetta Epistemologia riformata (Reformed epistemology) il cui più noto esponente, che
ha rilanciato in termini di filosofia analitica i tradizionali argomenti pro ragione, è Alvin
Plantinga. Cosa ha sostenuto costui? Nelle sue parole: “E’ totalmente giusto, razionale,
ragionevole, e corretto credere in Dio senza nessuna evidenza o argomento affatto” ( i suoi
147
scritti fondamentali sull’argomento in Faith and Philosophy del 1983, oltre a numerosissimi
contributi di filosofia della religione). Ovverosia, usando i termini dell’epistemologia, la
credenza in Dio è una credenza di base, autoevidente, e non ha bisogno di ulteriori
richiami ad altre credenze di sostegno per essere giustificata.
Plantinga muove da un attacco al cosiddetto fondazionalismo classico (classical
foundationalism), la veduta cioè che una credenza o è giustificata solo se essa è una
credenza di base (cioè immediatamente evidente) oppure è derivata da un’altra credenza
di base. Secondo l’Epistemologia riformata, questa ricostruzione della conoscenza, che è
poi quella dell’epistemologia prevalente, non raggiunge i suoi scopi di fondare la credenza
perché o cade nel regresso infinito oppure resta imprigionata nel circolo vizioso. Cade nel
regresso infinito perché non è possibile individuare una credenza che sia autenticamente
di base, cioè a dire infallibile, indubitabile, incorreggibile, e questo porta a fondare ogni
credenza su un’altra credenza e così via all’infinito. In secondo luogo, il postulato del
fondazionalismo classico, che esistono credenze di base o credenze da esse derivate, è a
sua volta una credenza di base oppure no? Da cosa possiamo ricavarne la sua evidenza? E
l’insolubilità del quesito porta alla circolarità: perché in realtà è autoevidente la credenza
che la razionalità riconosce come tale, ma è razionale riconoscere come tali le credenze
autoevidenti. E’ razionale credere ai propri occhi perché è autoevidente; ma è
autoevidente perché è razionale credergli. O detto ancora altrimenti: accettiamo
l’autoevidente perché ci sembra che non abbia bisogno di prove; ma perché ci sembra che non
abbia bisogno di prove? perché è autoevidente. Fin qui arriva l’apistemologia classica con il
suo fondazionalismo. Ma se fosse esatto il fondazionalismo, saremmo condannati a un
permanente e inverosimile scetticismo. Lo scetticismo del regresso all’infinito o del circolo
vizioso
Al contrario, gran parte delle credenze non sono né credenze di base né derivate da
autentiche credenze di base. Per esempio: il ricordo di aver fatto colazione questa mattina,
è forse una credenza di base, o è fondata su un’altra credenza di base infallibile,
incorreggibile e indubitabile? Eppure ci crediamo fortissimamente come crediamo di
essere vivo, e se qualcuno ci prova, non banalmente, che non è vero, non è una semplice
credenza che va in crisi ma un intero mondo dell’esperienza. Come il risveglio da un
sogno. Perché quando ricordiamo di aver fatto colazione stamattina, non è che ricordiamo
semplicemente un fatto, ricordiamo un fatto in quanto vero: cioè, non è autoevidente il
ricordo e basta; è autoevidente il ricordo quando ad esso si aggiunga la verità di ciò che è
ricordato, ma questa non è autoevidente. Ricordiamo e sappiamo che il ricordo è vero. Ma
questo sapere che il ricordo è vero non è un altro fatto che ricordiamo, altrimenti non
potremmo finirla mai (questo secondo “fatto” che ricordiamo, cioè il suo essere vero, su
quale altro “fatto” si fonda?)
Così si può dire che le credenze di base non debbono essere, per la loro autenticità,
necessariamente infallibili, incorreggibili, indubitabili, oppure essere supportate su altre
credenze di questo tipo. Quando si crede veramente, si è giustificati a credere anche senza
diretti supporti razionali di quel tipo, come quando appunto, crediamo in ciò che
ricordiamo. Naturalmente questa credenza deve possedere due requisiti, secondo
148
l’Epistemologia riformata: innanzitutto non può essere una credenza capricciosa, ma deve
essere tollerabile con le altre credenze; in secondo luogo deve essere in grado di resistere
alle obiezioni.
Ciò significa che si può credere in Dio senza alcuna evidenza diretta e senza alcuna
credenza razionale di base e senza una prova “razionale”. In altri termini la credenza in
Dio è una credenza di base, e si è pienamente giustificati a credere fino a che qualcuno
non dimostri il contrario
Ma come tutte le credenze non è una credenza infondata solo perché non deve avere
credenze di supporto. Anche se non ha ragioni di supporto non è infondata perché non si
fonda su ragioni: ma, secondo l’Epistemologia riformata si fonda su motivi. Non vi debbono
essere per forza ragioni per credere, ma vi sono motivi per credere. La differenza cruciale è
che mentre una ragione per credere B è un’altra credenza in A, un motivo assume le
caratteristiche di un piena esperienza, di una totalità di esperienza. Gli esempi che adduce
Plantinga sono chiari: leggere la Bibbia mi porta a credere che Dio stia parlando a me; aver
fatto qualcosa di male mi sento colpevole e spontaneamente credo “Dio disapproverà ciò
che ho fatto”; quando sento la vita “dolce e piena di soddisfazioni”, ho la spontanea
credenza che Dio debba essere lodato e ringraziato; quando mi sento in pericolo ho la
credenza spontanea “Dio mi aiuterà se lo chiederò”.
Tra le più calzanti obiezioni che sono state mosse alla visione della Epistemologia
riformata, la prima riguarda esattamente questa distinzione tra motivi e ragioni per
credere. Non c’è dubbio che vi sono motivi a circondare e orientare le credenze, ma poiché
un’esperienza di senso non può suscitare meccanicamente e direttamente una credenza
deve esservi un’altra credenza che consenta il passaggio. La lettura della Bibbia suscita
direttamente e senza altre credenze di supporto una credenza, però è una credenza di
questo tipo: che stiamo leggendo un libro; la credenza che Dio ci stia parlando deve
necessariamente essere mediata da un’altra credenza del tipo: che la Bibbia è stata dettata
da Dio; senza questa credenza “di passaggio” dalla lettura della Bibbia come si può
derivare la credenza che Dio ci parli? Così se ci sentiamo colpevoli, crediamo che Dio
disapproverà il nostro operato soltanto se crediamo che Dio badi a noi; e così via. Ora,
queste credenze intermedie di che tipo sono? Resta il fatto che una credenza,
singolarmente non può così semplicemente essere sorretta da un motivo senza bisogno di
altre credenze. Inoltre, esiste una sproporzione argomentativa e conoscitiva immensa tra il
tipo di esperienza che motiva una credenza e il contenuto della credenza stessa nel caso di
Dio: occorre passare, per esempio dalla sensazione che le nostre azioni siano approvate o
disapprovate, alla credenza di un creatore dell’universo, un essere infinito ed eterno di
natura non fisica. Ma quante conoscenze e credenze di tipo metafisico, fisico, cosmologico,
morale, ci sono in mezzo, tra la prima esperienza, ossia il motivo, e la credenza in Dio? In
ultimo, se vi è un legame così forte tra esperienza e credenza, perché l’esperienza di un
credente dovrebbe essere cognitivamente superiore all’esperienza simile o uguale di un
non credente? E se una stessa esperienza prova direttamente che Dio esiste ma dalla stessa
esperienza l’incredulo resta tale allora nell’incredulo deve esservi qualcosa che non va.
Infatti, come esistono esperienze che conducono a credere, così esistono esperienze che
149
non conducono a credere. Di questo tipo dovrebbe essere l’esperienza del male (quello per
esempio del genocidio, o quello di un grande e ingiusto dolore subito: si sa che in alcuni
l’esperienza di un lutto ingiusto - questo è un motivo - rafforza la fede, mentre in altri la
nega) che ha portato, tante volte nella storia molti, a dubitare di Dio o di almeno di alcuni
dei suoi tradizionali attributi. Vi sono poi quelli che, semplicemente, dalla loro esperienza
di vita non traggono alcun motivo per credere. Se fosse vero che la credenza in Dio non ha
ragioni, ma solo motivi tratti dall’esperienza, ed è questo il fondamento unico del credere,
da questo legame diretto e immediato tra esperienza e credenza in Dio, dovrebbe
derivarne che il modo di leggere l’esperienza del credente è superiore cognitivamente a
quello del non credente (a meno che credenza e incredulità, per il credente, non siano sullo
stesso piano di credibilità). Se l’esperienza A porta direttamente e senz’altra ragione a
credere, allora chi prova l’esperienza A e non crede deve sbagliarsi in qualche parte; a
meno che non diciamo che in realtà l’esperienza A può portare a credere o a non credere;
ma in questo caso allora l’esperienza A non è un motivo per credere, ma un motivo e basta.
Quindi, il discorso dell’Epistemologia riformata deve tacitamente presumere che chi non
crede patisce una qualche forma di disfunzione cognitiva. Può darsi, ma questa non è una
dimostrazione per nulla, dal momento che si chiama dimostrazione ciò che convince chi
non crede
Vi è inoltre da ridire sul concetto di “giustificazione” della Epistemologia riformata. È
stato osservato che “essere giustificati a credere” ha un significato diverso in presenza di
ragioni e in assenza di ragioni. Quando si è giustificati a credere in presenza di ragioni
significa che a nostra credenza è un indicatore di verità : crediamo qualcosa perché per noi è
vera, in quanto c’è ragione per crederla. Invece, in assenza di ragioni, si è “giustificati a
credere” (perché per esempio vi erano circostanze, cioè motivi, incoraggianti) significa che
la nostra credenza non è inficiata da errori volontari, da omissioni o da bugie; quindi la
nostra credenza è nel caso di assenza di ragioni un indicatore di moralità, come quando ci si
giustifica dicendo “in quel frangente, tutto mi portava a credere che”. Mentre il termine
“giustificare” nel caso della presenza di ragioni è indirizzato e focalizzato su ciò che si
crede (si è giustificati a credere perché è verosimile); nel caso del credere in assenza di
ragioni “giustificare” è più focalizzato verso il modo di credere (si è giustificati perché non
si sono violate le regole). Premessa questa osservazione sull’uso del concetto di
giustificazione, i critici di Plantinga concludono che le sue argomentazioni funzionino di
più quando un credente deve “giustificare” ciò che pensa, piuttosto che quando da
posizione neutrale si debba scegliere una proposizione come vera. In altre parole la
“giustificazione” nel senso di Plantinga vi è quando vi sono già in una persona i motivi
per credere in Dio; ma quando una persona neutrale, cioè priva di particolari motivi che lo
abbiano portato a credere, dove scegliere tra credere in Dio o no, le argomentazioni della
Epistemologia riformata risultano deboli.
Maurizio Barbato
docente di Storia e Filosofia
150
Con i colori contro la mafia
La pittura viscerale e voluttuosa di Gaetano Porcasi
presentata agli allievi del nostro Liceo di Vito Lo Scrudato
“Alcuni paesani spensierati riposavano sotto le fronde degli alberi, sulla riva del ruscello giocavano i loro
figli, sorvegliati dalle giovani madri. Mi hanno detto che gli abitanti di questo felice paesino appartengono
tutti ad una famiglia e vivono in amicizia, sembrava una pagina del racconto dei tempi d’oro …né strepito di
Marte/ ancor turbò questa remota parte (Tasso). Smontammo dai muli per passeggiare alcuni minuti in
compagnia dei contadini sui prati dai fragranti mirti, dai rosei allori e dalla macchia di cactus con le spighe
dalle efflorescenze azzurre. Di malavoglia lasciammo questo piacevole luogo solitario…”
La citazione con cui si apre questa nota è di un viaggiatore russo, Avraam Sergeevic
Norov, politico e letterato, che nell'attraversare l'Isola quando aveva soli 27 anni nel 1822
seppe dare della Sicilia un’immagine di grande freschezza e vividezza, e nel complesso
non priva di comprensione globale della realtà economica, sociale, culturale e storica.
Due elementi accomunano gli sguardi rapiti per l’incanto magico del paesaggio siciliano
dei due viaggiatori meravigliati, quello di Norov e quello di Gaetano Porcasi: il primo è la
percezione dell’eccezionalità della bellezza che può fortemente coinvolgere, addirittura
sconvolgere i sensi e il secondo è rappresentato dalla contemporanea percezione della
materializzazione conseguente, si direbbe necessaria, della proiezione immaginativa di
una societas perfetta, di una dimensione di felicità assoluta, dell’inserimento dentro siffatto
scenario estetico della comunità degli uomini a ricreare i “tempi d’oro”, quelli, per dirla
col poeta dell’Odissea, che hanno narrato della Sicilia mitica “dove i frutti della terra non
coltivati si offrono”.
Il giovane ufficiale dell’esercito zarista viaggiò nell’Isola in era borbonica, una fase della
nostra storia non ancora segnata dalle lacerazioni conseguenti alla scorribanda garibaldina
e alla immediatamente successiva lunga guerra civile che realizzò, con molte
contraddizioni, l’Unità d’Italia. La condizione unitaria – secondo l 'opinione di alcuni
autorevoli studiosi- avrebbe prodotto un generale impoverimento economico e culturale
del Meridione d'Italia e della Sicilia con evidenti ripercussioni su fenomeni come
emigrazione, brigantaggio e mafia. Queste devianze cultuali e sociali hanno tanta parte
nell’opera di Porcasi, pittore segnato da una autentica ribellione alla dittatura mafiosa.
Gaetano Porcasi, classe 1965, di Partitico, capitale minore di mafia, in provincia di
Palermo, sembra essere fuoriuscito dalle profondità della terra di Sicilia, dentro un’azione
generativa che lo ha dotato della stessa consistenza della terra dell’Isola, del suo odore, del
suo colore, del suo carattere forte, voluttuoso, drammatico. Di questa generazione operata
dalla Madre Terra l’artista siciliano conserva e consolida un sentimento di devozione e
soprattutto di amore, un amore tributato alla Sicilia come può farlo istintivamente un
151
bambino innamorato della sua genitrice, che gli ha dato vita, nutrimento e bellezza. Ma
l’incantesimo dell’amore e dell’armonia si è rotto nell’osservazione degli eventi storici che
hanno deturpato il volto della madre adorata. È proprio all’interno di questa bipolarità che
si muove tutta l’opera dell’artista isolano dotato di fulminea intuizione: da un lato c’è
l’osservazione della bellezza estrema e dell’armonia che si fa paesaggio e convivenza
ideale tra gli uomini, “che vivono in amicizia - per usare le parole del viaggiatore russo –
come in una pagina del racconto dei tempi d’oro”; dall’altro l’assistere muto ed atterrito
ad eventi drammatici dell’attualità che si fa storia, drammi della violenza degli uomini
dalla volontà proterva contro altri uomini, ritenuti privi del diritto alla bellezza e
all’armonia. Eventi di violenza questi in definitiva che contraddicono e deturpano un
quadro di perfezione fatta, per dirla ancora con Norov “di fragranti mirti, dai rosei allori e
dalla macchia di cactus con le spighe dalle efflorescenze azzurre”.
La bipolarità della militanza artistica del pittore realizza in tal modo due grandi momenti
nel suo fraseggio pittorico e immaginativo. L’utente dell’arte di Porcasi, l’osservatore dei
suoi quadri, il suo interlocutore viene senza difficoltà trasportato, in volo addirittura
(magia della pittura shock), nel primo dei luoghi, il pianeta Sicilia, dove l’artista viene
travolto lui stesso dalla gioia e dall’amore per la madre di terra e di roccia. In tal modo il
viaggio approda davanti ad una porta che introduce il fruitore della creazione pittorica
dentro un mare di luce e di colori che può sconvolgere, indurre alla pazzia addirittura. Si
viene condotti in un mondo dove “appartengono tutti ad una famiglia e vivono in
amicizia” (Norov), dentro scene in cui gli uomini vendemmiano i grappoli d’uva mentre li
accarezzano voluttuosamente e vi tributano uno sguardo benevolo di ringraziamento per
gli effetti del buon vino, di cui Partitico, il paese di Porcasi, è produttore da tempi remoti
(vi operò lungamente una Real Cantina Borbonica con esiti eccellenti); ma il viaggio dentro
lo stupefacente mondo di Gaetano Porcasi (stupefacente è la Sicilia!), colorato in modo
esagerato dalla gamma cromatica disponibile sulla tavolozza e dall’amore, continua come
in ricca sequenza, per una scorribanda da mozzare il fiato, all’interno di campi di spighe
dal colore del sole, per quadri dove si mostrano antichi nodosi ulivi saraceni dalle chiome
fedeli, dove una ginestra esplode come una minaccia per l’incolumità dell’osservatore,
dove un garbuglio di fronde di limoni potrebbe avviluppare e indurre in forzoso
immobilismo, dove incombenti spinosi fichi d’india minacciano da vicino gli occhi, dove
un pastore sembra volervi presentare con timidezza il campo puntellato dalle pecore fino
alla lama azzurrissima dell’orizzonte, dove una puntuta agave vi sbarra il passo per il
mare, dove dei trebbiatori dentro un deserto rosso faticano a credere che infine il vento
separerà la paglia dal grano, dove una madre allatta il piccolo schermata in modo
insufficiente da rari fili d’erba, dove i girasoli si agitano come mostro dalle tante teste,
dove un’agave, radi papaveri e il mare sullo sfondo contornano la maestà diruta di un
tempio antico greco, dove una mietitrice prende fiato percossa da una vivace folata di
vento, dove un vecchio mulino a vento da salina a mare fa da parziale ostacolo ad un cielo
celeste incontenibile, dove i cocci di un vaso dell’antichità ellenica vengono restituiti dal
mare su una spiaggia, dove infine si animano i volti dei ritratti del pittore partinicese che
tradiscono una grande varietà di emozioni.
152
I ritratti di Porcasi meritano un’annotazione a parte: essi esprimono, oltre che
efficacemente la fisionomia, soprattutto lo stato d’animo del soggetto, ripreso sempre nel
momento in cui gli occhi producono un guizzo appena percettibile, a volte involontario,
che tradisce significati dell’essere profondo. Questi i ritratti degli uomini degni di questo
nome, l’umanità positiva che anima il mondo coloristico di Porcasi, mentre ai quaquaraquà
al servizio del male, ai mafiosi, ai mediocri, agli opportunisti, Porcasi nega lo sguardo, ad
essi il partinicese toglie un attributo essenziale della fisionomia umana, la facoltà di una
relazione profonda attraverso lo sguardo appunto.
E qui entriamo nel secondo luogo della rappresentazione artistica del pittore siciliano: si
tratta degli eventi che hanno negato il realizzarsi della vita felice, il vagheggiamento dei
mitici “tempi d’oro”, si tratta in definitiva della rappresentazione della violenza stragista e
della violenza mafiosa, opera di uomini mediocri e rozzi servitori delle peggiori cause,
ominicchi, per dirla con Sciascia a cui viene tributano un ironico carboncino, che si sono
arrogati il ruolo di signori della vita e della morte, procurando profonde ferite alla Dea
generatrice, la Madre amata. In questo luogo Porcasi diventa epico, narratore di storie di
sangue, narratore degli eroismi encomiabili di tutte le vittime di mafia: uomini delle forze
dell’ordine, giudici, giornalisti, sindacalisti, martiri della Chiesa, gente comune, braccianti
delle lotte contadine…
Le vicende dell’attualità che si fa storia si inseguono senza sosta in procedimenti espressivi
che rendono cupe le tele avvolte dal nero del delitto, dai colori drammatici della silenziosa
complicità, dell’indifferenza e dell’omertà, e dalle parole prese in prestito dai giornali e
fissati all’interno di equilibratissime composizioni pittoriche, efficaci e capaci di
trasmettere il grido di dolore e della ribellione delle genti di Sicilia. Lui che per vivere ha
bisogno della forza e del coraggio di sfidare ogni giorno l’ostilità, l’indifferenza, spesso
l’incomprensione della provincia isolana, dove indomito assieme ad un’avanguardia di
indomiti ha messo mano al progetto di rinascere, di fare rinascere la sua isola, una volta
abitata dagli Dei, di suscitare il riaccendersi di un novello Rinascimento Culturale.
E per far questo all'artista occorre prima di tutto capovolgere il significato dei luoghi,
bonificare gli spazi deputati al delitto, dare un’occasione di redenzione agli uomini, ma
anche agli edifici: come nella recente trasformazione dell’abitazione privata di un boss del
calibro di Bernardo Provenzano in un Museo della Legalità. La magione privata del boss
corleonese, non grande e con le caratteristiche di una casa modesta, posta nel centro
storico popoloso della cittadina palermitana, è adesso non più il luogo di vita di un uomo
dedito al delitto, alla rapina e all’omicidio, luogo di convegni malavitosi, ma è divenuta il
luogo di esposizione di oltre 50 quadri che raccontano con coraggio e partecipazione, con
volontà di non smobilitare l’impegno e tensione etica verso la pienezza di vita in Sicilia. La
casa in questa nuova veste e funzione racconta dunque l’epopea in negativo degli
ignoranti signori della vita e della morte e in positivo di quanti vi si sono contrapposti
finendo loro malgrado col diventare eroi antimafia, martiri in molti casi.
Gaetano Porcasi si ribella alla supremazia della mafia che rende sottomessi e senza dignità
a partire della pochezza degli uomini di Cosa Nostra: prepotenti, supponenti, lesivi degli
interessi anche economici dei siciliani, in definitiva il maggior male, che ha giocato una
153
partita assieme al più spregiudicato potere antimeridionale che della mafia si è sempre
servita per i suoi lavori sporchi: brogli elettorali, omicidi politici, droga, più recentemente
stragi, smaltimento di rifiuti tossici industriali del nord. L’artista partinicese, che ha
ricevuto in omaggio la cittadinanza onoraria di Corleone, sembra proprio volere ridare
legittimità alla vera identità dei siciliani, un’identità culturale ingiustamente confusa con
un’organizzazione criminale che ne ha offuscato il valore e mistificato i significati.
Abbiamo visitato la città di Corleone e il Nuovo Museo della Legalità assieme a Porcasi,
nel corso di una intera giornata, guidati con squisita ospitalità dalla professoressa Rosa
Maria Scuderi. Confessiamo che ci ha accompagnati costantemente la sensazione stridente
e dolorosa che la prima vittima della trista genia di mafiosi corleonesi sia stata proprio la
città palermitana, ricchissima di storia e di arte (viene detta la città delle 100 chiese),
illustre di un passato che si è inteso negare, caratterizzato da una cultura del rispetto e
dell’onore che si è tristemente confuso con la protervia delle cosche, talché l’espressione
uomini d’onore nella realtà andrebbe cambiata in rozzi ominicchi del disonore. La visita a
Corleone è stata l’occasione per conoscere un territorio rurale di grande effetto estetico, il
viaggio si è svolto da Partitico a fiancheggiare il Lago artificiale sul fiume Jato e poi lungo i
terreni ben coltivati delle dolci colline della campagna corleonese. Porcasi è un compagno
di viaggio ideale, è dotato oltre che di acutissimo spirito di osservazione estetica, anche di
un inaspettato senso dell’umorismo e di un eloquio spontaneo e dilettevole. Con le nostre
macchine fotografiche abbiamo percorso il grosso centro interno fin sulla rocca che fu
presumibile fortificazione, poi carcere circondariale e oggi emblema di rinascita spirituale
attraverso l’insediamento dei monaci francescani riformati che vi conducono vita di
assoluta povertà e disagio, se giudicati con i parametri di un’esistenza borghese. Da tutto
ciò il pittore siciliano si fa attraversare, all’interno di un’esperienza di dolore e di nostalgia
per una vagheggiata diversa ed opposta realtà siciliana, dove la solarità del paesaggio e la
pienezza dei colori della sua tavolozza, infine possa corrispondere ad una ritrovata
pienezza di vita dei siciliani.
Porcasi sperimenta così un segmento artistico ed esistenziale che vede infine il
materializzarsi della Sicilia come metafora, emblema e simbolo degli ingredienti della
realtà e della vita degli uomini, che si realizza percorrendo tutte le gamme e le sfumature
comprese tra due estremi: il bianco ed il nero, il bene ed il male. Si tratta in definitiva di un
viaggio nuovo che si inserisce senza contraddizioni nella tradizione della migliore pittura
siciliana: un po’ alla maniera di Gianbecchina un po’ con i colori e le forme di Guttuso. Il
grande pittore bagherese poi ha titolo e piena cittadinanza nel nostro Liceo avendolo
frequentato negli anni giovanili.
L’arte figurativa rappresenta per suo intrinseco valore e significato un messaggio forte di
legalità e di armonia culturale e sociale, ciò innanzi tutto è stato espresso con forza in
occasione di un recente incontro che il pittore Gaetano Porcasi ha realizzato con i nostri
studenti.
Vito Lo Scrudato
Dirigente Scolastico
154
ELENCO DEI DOCENTI E DEGLI ALUNNI
DELLE CLASSI TERZE LICEALI
Anno Scolastico : 2011/2012
3A
Docenti:
·
ITALIANO E LATINO: PIETRO FERRAIOLO
·
GRECO: ADA MAGNO
·
STORIA E FILOSOFIA: CATALDO MOCCIARO
·
MATEMATICA E FISICA: SALVATORE LICATA
·
INGLESE: MELANIA CAMMARATA
·
FRANCESE: CINZIA BILLA
·
SCIENZE: MARIA TERESA TRUPIA
·
STORIA DELL’ARTE: GIUSEPPE ODDO
·
EDUCAZIONE FISICA: PAOLINA MIANO
·
RELIGIONE: MARIA GIOVANNA MASELLI
Alunni:
1 ANELLO CLAUDIA MARTINA 19/04/1994 - 2 ARNAO MARTINA 25/09/1992 - 3 BELLANCA GIORGIO 05/05/1993 – 4
BONGIORNO VINCENZO 28/10/1993 - 5 CAPONETTI LICIA 01/06/1993 - 6 COLLETTI GIULIA 08/03/1993 - 7 CORRAO ELISSA
15/06/1993 - 8 COSENZA FRANCESCO 06/04/1993 - 9 CUCINELLA GIULIO 12/11/1992 - 10 DE CHIRICO GIULIA 02/03/1994 - 11 DI
GESU' LUCA 04/06/1993 - 12 DI SAZIO GABRIELE 04/10/1993 - 13 ENEA PIETRO 03/03/1993 - 14 GALANTE ALESSIA 28/07/1993 - 15
GANCI ANTONINA 06/06/1994 - 16 GARILLI ALICE 08/09/1993 - 17 GERICO JESSICA AGATA 25/03/1993 - 18 GUMINA CRISTIANA
30/06/1993 - 19 IANNIZZOTTO ROBERTA 28/10/1993 - 20 MANNARA ALESSIA 12/02/1993 - 21 MANZELLA MARTINA 08/07/1993 22 NESTOLA SHARON 01/12/1993 - 23 RUSSO ANDREA 09/05/1993 - 24 SANTORO SIMONA 10/03/1993 - 25 SCIARABBA SIMONA
17/05/1994 - 26 VACCARO VALENTINA 28/11/1993 - 27 VASCELLARO VINCENZO 11/08/1994 - 28 VASSALLO ALESSIA 12/07/1993
3B
Docenti:
·
·
·
·
·
·
·
·
·
ITALIANO: GIUSEPPE SANZO
LATINO E GRECO: DONATELLA CORRENTI
STORIA E FILOSOFIA: PIETRO ROMANO
MATEMATICA E FISICA: VINCENZO DI MATTEO
INGLESE: RINA MAZARA
SCIENZE: MARIA PAMPINELLA
STORIA DELL’ARTE: LYUDMILLA BIANCO
EDUCAZIONE FISICA: PATRIZIA BERTOLA
RELIGIONE: MARIA BUTERA
Alunni:
1 ALBANESE CHIARA 23/11/1993 - 2 BOSCHETTI AMANDA 15/10/1993 - 3 BRUSCA MANFREDI 27/05/1993 - 4 CIBELLA ENRICA
25/03/1993 - 5 CIMINO GIULIA 12/09/1993 - 6 DEPLANO MARTA 21/03/1994 - 7 DI FRANCO SARA 01/07/1993 - 8 GERBINO
FEDERICA 13/07/1993 - 9 GUCCIARDI MARCO 09/06/1993 - 10 LO BIANCO PIETRO 07/11/1993 - 11 MANIACI GIORGIA 06/07/1993 12 MESSINA SIMONA MARIA 02/05/1993 - 13 MODICA BENEDETTO MASSIMILIANO 03/08/1993 - 14 MURGIA ALESSANDRO
09/09/1993 - 15 MUSCOLINO EMANUELA 01/07/1993 - 16 PASSALACQUA FERDINANDO 23/07/1993 - 17 PETRUSO SIMONA
24/06/1993 - 18 PUNZI GIORGIA 09/11/1993 - 19 REALE FRANCESCO 29/12/1993 - 20 SOLAZZO GIULIA 08/07/1993 - 21 TORRETTA
ERNESTO 25/03/1993 - 22 TRANCHINA SILVIA 15/03/1993 - 23 UMINA SONIA 12/06/1993 - 24 VASSALLO GIULIA 13/03/1993
3C
Docenti:
·
·
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·
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·
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·
·
ITALIANO E LATINO: ANTONELLA CHINNICI
GRECO: GRAZIA SCARDAMAGLIA
STORIA E FILOSOFIA: MAURIZIO BARBATO
MATEMATICA E FISICA: VINCENZO DI MATTEO
SCIENZE: AUDENZIA MARCIANTE
INGLESE: ROSA MARIA BIANCO
STORIA DELL’ARTE: EMMA NASTA
EDUCAZIONE FISICA: PAOLINA MIANO
RELIGIONE: MARIA GIOVANNA MASELLI
Alunni:
155
1 ALBEGGIANI GIUDICE ELISABETTA 22/04/1992 - 2 BUSCEMA DANIELE 02/10/1993 - 3 CABRI ALBERT JULIUS 27/07/1993 - 4
CALTAGIRONE CHIARA 12/11/1993 - 5 CORSALE GIOVANNI EMANUELE 23/11/1992 - 6 D'ASTA GABRIELE 14/12/1993 - 7 DAVI'
GIORGIA 26/11/1993 - 8 D'ORSA MARIA 07/09/1993 - 9 FRISELLA SARA 16/06/1994 - 10 GERACI DEBORA 19/01/1994 - 11 GIUSINO
DAVIDE 20/06/1993 - 12 GUSELLA GIORGIO 14/09/1993 - 13 GUTTADAURO LA BLASCA ANGELA 10/03/1994 - 14 LA ROSA
LAURA 02/06/1993 - 15 LANNINO RUGGERO 10/11/1993 - 16 LEVANTINO FRANCESCO PAOLO 22/05/1993 - 17 MARCHESE
GIULIA 11/10/1993 - 18 MORREALE ANDREA 26/06/1993 - 19 MORSICATO LUCA 23/02/1992 - 20 NICOLOSI CHIARA 14/01/1994 - 21
PASSALACQUA CECILIA 28/10/1993 - 22 SALEMI CHIARA 30/04/1993 - 23 SGROI GINO GABRIELE 05/04/1994 - 24 SORRENTINO
SARAH 27/11/1993 - 25 TERRANOVA GIUSEPPE 28/11/1994
3D
Docenti:
·
ITALIANO: BERNARDO PULEIO
·
LATINO E GRECO: MARIO MATTEO PINTACUDA
·
STORIA E FILOSOFIA: FRANCESCO CACCIOPPO
·
MATEMATICA E FISICA: ANNA LO PRESTI
·
INGLESE: GIUSEPPINA ZUMMO
·
SCIENZE: ANNA FERRARO
·
STORIA DELL’ARTE: LYUDMILLA BIANCO
·
EDUCAZIONE FISICA: ANNA SPINOSA
·
RELIGIONE: MARIA BUTERA
Alunni:
1 BARONE ANGELICA 10/10/1993 - 2 BELLI EMANUELE 18/11/1993 - 3 CANGEMI SIMONA ANTONINA 28/07/1994 - 4 CASESI
GIOVANNA 28/02/1993 - 5 CHIARACANE CECILIA 23/11/1993 - 6 CHIARENZA ROBERTA 18/02/1994 - 7 CIPOLLA FRANCESCA
21/04/1994 - 8 D'AGUANNO SILVIA 23/12/1993 - 9 DI FRANCESCO ANDREA 29/12/1993 - 10 DI MARCO DILETTA 18/02/1993 - 11 DI
MARCO LORENZA 18/02/1993 - 12 GIORDANO MARTA 26/09/1994 -13 GUAGLIARDO MONICA MARIA SPERANZA 04/02/1994 14 LEONARDI LUCA 18/10/1993 -15 LEONE MARIA ISABELLA 06/11/1993 - 16 MARRA GIADA 05/12/1993 - 17 MILITELLO
FRANCESCA 05/05/1993 - 18 PETRALIA SIMONA 24/05/1993 - 19 RESTIVO GIULIA MATILDE 23/03/1994 - 20 ROCCARO ILARIA
08/11/1993 - 21 SARA' MICOL 15/03/1993 - 22 SORRENTINO ALESSANDRO 05/10/1993 - 23 SPITALERI DEBORA MARIA 10/07/1993 24 TERZO STELLA MARIA CONCETTA 18/01/1993 - 25 ZANCA FEDERICA 08/02/1994 - 26 ZUPPARDO MARIA 24/06/1994
3E
Docenti:
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·
·
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·
ITALIANO: GIUSEPPINA RUSSO
LATINO E GRECO: EBE CARACAUSI
STORIA E FILOSOFIA: ROSA BOBBIO
MATEMATICA E FISICA: FRANCESCA INZERILLO
INGLESE: MARIA RITA COSTANZA
SCIENZE: MARIA PAMPINELLA
STORIA DELL’ARTE: EMMA NASTA
EDUCAZIONE FISICA: GIANCARLO LO PRESTI
RELIGIONE: ROSA SPATARO
Alunni:
1 BUCOLI GIULIA 05/08/1993 - 2 CALLARI VIRGINIA 07/01/1994 - 3 CANGEMI GIULIO 03/03/1994 - 4 CANTATORE MARIA
TERESA 06/12/1992 - 5 CARACAPPA ROBERTA 18/05/1992 - 6 CUCCHIARA LAURA 23/10/1993 - 7 DI FAZIO LUCA 11/08/1993 - 8
GANCI MARGHERITA 15/06/1993 - 9 GIAMBARTINO MARCO 26/09/1993 - 10 GIUFFRE' GAETANO 02/04/1994 - 11 GRAMMATICO
DAVIDE 10/08/1993 - 12 LA CORTE MARTINA 10/07/1994 - 13 LO GIUDICE GIULIA 19/01/1994 - 14 LO PORTO GIACOMO
GIOVANNI 01/08/1993 - 15 MANNO ADRIANA 30/05/1994 - 16 RAMPOLLA SELENE 28/09/1994 - 17 ROTONDO CLAUDIA
30/08/1993 - 18 SCAGLIONE FEDERICA 14/09/1993 - 19 SOLLAZZO MARIA ROSSELLA 18/05/1993 - 20 SPRIO LISA 15/11/1993
3F
Docenti:
·
·
·
·
·
·
·
·
Alunni:
156
ITALIANO: ANNA FIORINO
LATINO E GRECO: GIUSEPPE VENTIMIGLIA
STORIA E FILOSOFIA: GIOVANNA SCELSI
MATEMATICA E FISICA: ALDO SARRO
INGLESE: ANTONINA PASQUA
SCIENZE: MARIA AGRESTI
STORIA DELL’ARTE: LYUDMILLA BIANCO
RELIGIONE: MARIA GIOVANNA MASELLI
1 AFFRONTI DARIO 25/11/1993 - 2 APPICE IRENE 06/01/1994 - 3 BASILE CHIARA 21/08/1993 - 4 BASILE VALERIA 24/10/1993 - 5
BAVUSOTTO GIULIO 01/12/1992 - 6 BONOMOLO EMANUELA 18/12/1993 - 7 CANCEMI SERENA 03/08/1993 - 8 CASTELLO
LUCIANO 4/01/1994 - 9 CINA' ANDREA 07/07/1993 - 10 DELL'ARIA FRANCESCO PAOLO 23/09/1993 - 11 DI MICELI SILVIA
11/04/1994 - 12 FIANDRA FLAVIA 21/10/1993 - 13 FRANZINO BIANCA MARIA PIA 07/12/1993 - 14 MORGANTE GIUSEPPE
25/05/1994 - 15 MUSCARELLA LORETA ANGELA 15/01/1994 - 16 MUSMECI ROBERTO 02/11/1993 - 17 PARLAGRECO FEDERICO
25/04/1994 - 18 POLIZZOTTO NOEMI 12/02/1994 - 19 RAINERI FRANCESCA 31/07/1993 - 20 RE NOEMI 20/12/1993 - 21 REINA PIERA
03/09/1993 - 22 RIZZUTO FRANCESCO PAOLO 25/06/1993 - 23 ROBUSTELLI CLAUDIA 02/12/1993 - 24 ROTOLO FLAVIO 10/09/1994
- 25 SALVIA FRANCESCO 10/01/1992 - 26 SAMMARCO SHAMIRA 05/09/1993 - 27 SAVATTERI GIUSEPPE 03/09/1993 - 28
TUMMINIA ANGELA 27/12/1993 - 29 VENEZIA ANDREA 25/04/1993 - 30 VERDE ANTONIO 23/11/1993
3G
Docenti:
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ITALIANO E LATINO: GIUSEPPINA RUSSO
GRECO: MARCELLA LICARI
STORIA E FILOSOFIA: BERNARDO PIRAINO
MATEMATICA E FISICA: GIOVANNI AMMIRATA
INGLESE: GIUSEPPINA ZUMMO
SCIENZE: MARIA AGRESTI
STORIA DELL’ARTE: EMMA NASTA
EDUCAZIONE FISICA: PIPPO MACALUSO
RELIGIONE: MARIA GIOVANNA MASELLI
Alunni:
1 ALLETTO MIRIAM 07/04/1994 - 2 BONAFE' CHIARA 20/12/1993 - 3 CANTONI LUCIANO 29/10/1993 - 4 CARACAPPA GIORGIA
26/05/1993 - 5 CASTRONOVO ISABELLA 19/02/1994 - 6 CATUOGNO GIULIA 07/09/1993 - 7 D'ANGELO ELSA 03/03/1994 - 8 DI
CARO CHIARA 27/10/1993 - 9 FAZIO VALENTINA 03/12/1993 - 10 ILARDI ALESSIO 21/03/1994 - 11 IOZZI ISABELLA 02/09/1994 - 12
MURATORE FEDERICA 05/12/1993 - 13 RIZZO SABRINA 11/06/1994 - 14 TRINGALI GIUSEPPA VALENTINA 14/02/1993 - 15
TRUPIA GABRIELLA 08/04/1994 - 16 VINCI SANTINA 03/07/1993
3H
Docenti:
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ITALIANO: PIETRO FERRAIOLO
LATINO E GRECO: TIZIANA BARBARO
STORIA E FILOSOFIA: DANIELA MUSUMECI
MATEMATICA E FISICA: SALVATORE RANDAZZO
INGLESE: MARIA RITA COSTANZA
SCIENZE: MARIA TERESA TRUPIA
STORIA DELL’ARTE: LILIANA MEMBRADO
EDUCAZIONE FISICA: PIPPO MACALUSO
RELIGIONE: ROSA SPATARO
Alunni:
1 BARBIERI GIOVANNI 05/07/1993 - 2 BONDI' ANDREA 15/10/1993 - 3 D'AMORE FEDERICA 03/06/1993 - 4 D'AVOLA SILVIA
02/09/1992 - 5 DI GREGORIO ALESSANDRA 07/09/1993 - 6 FERRARA FEDERICA 16/11/1993 - 7 FERRARA GIULIA 04/11/1993 - 8
GAARTHUIS ELIO 05/02/1993 - 9 GIACOMARRA FEDERICO 04/05/1993 - 10 GIARNECCHIA CRISTINA 29/07/1993 - 11 GIORDANO
EDOARDO 27/03/1993 - 12 GIORDANO ENNIO 27/03/1993 - 13 GRECO EMANUELE 18/03/1994 - 14 LA BRUNA GUGLIELMO
26/05/1994 - 15 LO BUE GIORGIA 20/02/1994 - 16 LO PINTO ROSACHIARA 08/02/1994 - 17 MADDALONI VALERIA 12/09/1994 - 18
MERCURIO CHIARA 23/03/1994 - 19 MILAZZO CHIARA 12/12/1993 - 20 PUCCIO ALESSIO 14/10/1993 - 21 SALERNO SIMONA
23/06/1993 - 22 SCORZA FRANCESCO 17/10/1993 - 23 SIMONE BARBARA 23/08/1993 - 24 SPARACINO EDOARDO 13/10/1993 - 25
SPATA FRANCESCA INES 18/09/1994 - 26 TERESI FRANCESCO 11/11/1992 - 27 TERRANOVA LUCIA 24/10/1994 - 28 VOLPES
MARGHERITA 26/02/1994
3I
Docenti:
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ITALIANO: ANTONIETTA ASARO
LATINO E GRECO: CARLO BENINCASA
STORIA E FILOSOFIA: ANNA MARIA VULTAGGIO
MATEMATICA E FISICA: FILIPPA SCOZZARI
INGLESE: MELANIA CAMMARATA
SCIENZE: GAETANO VITA
STORIA DELL’ARTE: GIUSEPPE ODDO
EDUCAZIONE FISICA: ANNA SPINOSA
RELIGIONE: ROSA SPATARO
157
Alunni:
1 BASSO MARTA 24/03/1994 - 2 CANTAFIA MATILDE GIADA 01/09/1994 - 3 CATALANO VALERIA 13/02/1994 - 4 DI TRAPANI
FLAVIA 24/08/1993 - 5 EBREO SARA 25/11/1994 - 6 EMPOLI NOEMI 21/10/1992 - 7 GILIBERTO SARA 17/06/1994 - 8 GUGLIOTTA
ADELE 02/09/1994 - 9 LA TORRE MARIA LAURA 16/02/1994 - 10 LO RE LIVIANA 18/06/1994 - 11 MAGLIULO MANFREDI
14/05/1994 - 12 MUNGIOVINO EMILIANO 28/04/1994 - 13 NASCA MELISSA 18/10/1993 - 14 RIGANO VENERE PIA 14/12/1993 - 15
RIZZOTTO ALESSIA 28/06/1993 - 16 SANTANGELO CLAUDIA 15/12/1993 - 17 SAVIANO FEDERICA 04/06/1993 - 18 SCALICI
MANFREDI 23/03/1994 - 19 SCELFO MICHELA 08/12/1993 - 20 VENTURELLA ROBERTA 05/07/1993 - 21 VESCO SABRINA 03/08/1993
- 22 ZICHICHI ADRIANA 3725 28/06/1993 PALERMO F
3L
Docenti:
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ITALIANO: FRANCESCA BUCALO
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LATINO E GRECO: MAURIZIO CIVILETTI
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STORIA E FILOSOFIA: MAURIZIO BARBATO
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MATEMATICA: FILIPPA SCOZZARI
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FISICA: VINCENZO DI MATTEO
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INGLESE: ANTONELLA PASQUA
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SCIENZE: ANNA FERRARO
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STORIA DELL’ARTE: GIUSEPPE ODDO
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EDUCAZIONE FISICA: ANNA SPINOSA
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RELIGIONE: ROSA SPATARO
Alunni:
1 AGRUSA ALESSANDRO 22/08/1993 - 2 ALFONZO ALESSANDRO 12/05/1993 - 3 ANZELMO FEDERICA 22/05/1993 - 4 BENANTI
STEFANIA 30/05/1993 - 5 BRUGOGNONE ALESSANDRA 29/03/1993 - 6 CHIAVETTA MARTA 02/12/1994 - 7 CUTI MARTA
22/06/1993 - 8 D'ARPA ANDREA 16/05/1993 - 9 D'AUBERT MARTINA 18/10/1993 - 10 DE FRANCISCIS RICCARDO MARIA
05/04/1993 - 11 LA MANTIA ALICE 16/07/1993 - 12 LEONARDI TIZIANA 16/10/1993 - 13 MANISCALCO RICCARDO 21/02/1994 -14
MASTROSIMONE MICHELE 09/06/1994 - 15 MENDOLA CESARE GABRIELE 02/12/1993 -16 MILAZZO MIRIAM 28/07/1993 -17
MIRABILE ALESSANDRO 23/06/1993 - 18 MOTISI GIUSEPPE 12/01/1994 - 19 PORCARO TOMMASO 26/03/1994 PALERMO - 20 RAO
SOFIA 25/12/1993 - 21 SACCA' MIRKO 05/05/1993 - 22 SAVAGNONE SOFIA 15/03/1994 - 23 SCHIAVO FRANCESCA 16/07/1994
PALERMO - 24 VENTURELLA MARTA 29/01/1994
158
INDICE
Nota di Mario: ATTENZIONE - I NUMERI DI PAGINA SI RIFERISCONO A QUESTO
FILE - NEL LIBRO NON CORRISPONDERANNO - AD ES. LA PAG. 2 SARA’
SENZ’ALTRO VUOTA, DOPO IL FRONTESPIZIO… - IO NON INDICHEREI QUI I
NUMERI DI PAGINA, MA LI CALEREI POI IN BOZZA…
Perché i Nuovi Annali umbertini? (Vito Lo Scrudato, Dirigente Scolastico) p. 2
Premessa - Il Liceo classico Umberto I e la storia degli Annali e degli Annuari (Bernardo Puleio)
p. 5
Il Liceo Umberto da un anno all’altro – Trasformazione dell’impegno quotidiano di ciascuno in
contributo alla crescita della città di Palermo (Maria Butera) p. 41
Identità e ricordi di un umbertino ottantenne (Francesco Paolo Magno) p. 45
Memorie di un “umbertino” (Paolo Allegra) p. 49
SAGGI E CONTRIBUTI DEI DOCENTI
Alla ricerca dell'Aleph perduto - Può il clima determinare la cultura e addirittura la morale? Un
rovello tutto siciliano (Vito Lo Scrudato) p. 53
I ditirambi “anomali” di Bacchilide (Mario Pintacuda) p. 63
Innamorata della filosofia - La ragione poetica di Maria Zambrano (Daniela Musumeci) p. 67
La scrittura e l’inquisizione ne Il giorno della civetta (Bernardo Puleio) p. 72
La Storia, le storie (Ebe Caracausi) p. 89
Siracusa 1914: rappresentazione dell’Agamennone (I ciclo di spettacoli classici) (Mario Pintacuda) p.
103
Per un insegnamento consapevole del latino: metodo natura vs metodo descrittivo-normativo
(Mariella Rinaudo) p. 105
Riscoprire il coraggio di educare (Giuseppe Savagnone) p. 116
Confronto tra vita attiva e vita contemplativa nel mondo classico (Ada Magno) p. 120
La fisiologia delle passioni in Omero (Giuseppe Spatafora) p. 122
Leopardi e Lamartine, nota a margine de L’Isolement (1818) e di Alla sua donna (1823) (Cinzia Billa)
p. 126
Ragione e fede. Un dibattito antico oggi ripreso (Maurizio Barbato) p. 137
Con i colori contro la mafia - La pittura viscerale e voluttuosa di Gaetano Porcasi presentata agli
allievi del nostro Liceo (Vito Lo Scrudato) p. 148
ELENCO DEI DOCENTI E DEGLI ALUNNI
DELLE CLASSI TERZE LICEALI
dell’a.s. 2011/2012 p. 152
Indice p. 156
159
In copertina olio su tela da “I mestieri di Sicilia”
di Gaetano Porcasi
Progetto grafico di copertina e impaginazione
di Santo Adelfio
Stampato nel Maggio 2012 presso il
Giovane Locati s.n.c
Via Risorgimento - Locati - Bompietro (PA)
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