007. Un paese di maniaci Noi di Brazzaga, ma non quella che s’inebria d’agrumi pesanti giù in terra di Sicilia, intendo quella pigramente adagiata nel bacino panico del Destra Po, Brazzaga Po Vecchio appunto, siamo davvero gente alla buona. Sempre tutt’orecchi laddove ci sia da prenderci in parola, ma sfingi impenetrabili se qualche animoso marocchino cerca d’accoppiarsi col nostro batacchio di casa. Specialmente nel caso in cui il gingillo non sia già galvanizzato di suo, come dire, s’una foggia appena damascata. O quantomeno eccentrica, a scanso d’equivoci epiteliali che poi sbarellano sotto le sottane e la tirano in manfrina. Come da contratto di locazione solidale insomma, con discriminante sensitiva insediata sul pulsante in rame e un distributore di kebab a gettoni d’oro. Solo in foto però, perché ci vanno su le mosche. Allora possiamo anche permetterci uno sfolgorante «’ttafàtt» 1 sotto i baffi tinti, sebbene asserito con estrema compostezza lessicale. È davvero curioso come tanti maniaci possano ritrovarsi tutti insieme nello stesso posto. Oddio, maniaci è forse un termine un po’ azzardato, visto che si sta a fare i professori di lingue. Una di quelle parole a serramanico che fanno attorcigliare la testa senza nemmeno un filo di Cynar, o che scavano una fossa fatale tra uno stretto dove e un altrove qualunque, tra una manica d’eroi slattati e un manicotto d’imbecilli col moccolo al naso. Stai di qua e sei dei nostri, ti diamo la maglietta a righe però giochi in porta, oppure stai di là a sgranare i fagioli con la zia. Niente mezze misure nel bicchiere. Niente mercato digestivo di gennaio, che lascia solo amarezza dopo i pasti profondi. 1 Versione contratta della ben più nota «Clavàcadtœmàdar», circonlocuzione consolatoria di cui già s’è accennato, cfr. accidente 005, Il salvatore del mondo, evocante un’ipotetica madre universale di collaudata costumanza; s’impiega altresì in situazioni particolarmente pittoresche, come questa per l’appunto, dove un sedicente poveruomo d’importazione s’aggira barcollando sotto il sole con un carico di tappeti da viaggio arrotolati sulla sella, che all’occorrenza sa stendere lì dove si trova, sul marciapiede in calcestruzzo, nel bel mezzo dei portoni, dei coglioni, dei cortili lastricati, e poi non la smette più di sporcarli per finta solo per dimostrare quant’è conveniente farglieli smacchiare. Dai… uno piccolo per quando esci dalla doccia. Capo… ho anche l’asciugamani… Una saponetta al rabarbaro? 65 Di certo non vaghiamo per i campi di granoturco con i coltelli insanguinati fra i denti, e nemmeno andiamo a spiare le ragazze dei paesi vicini nella doccia. Al massimo le tedesche, ma qui non se ne vedono mai. E poi non si tosano le gambe quindi non conta. Anche se con buona probabilità l’intrepido Morselli tremerebbe, e non poco, a sentir tirare in ballo certi argomenti d’agonismo motociclistico. Per non parlare poi di don Curato, del nuovo sindaco, di Sganzerla… A parte qualche riprovevole caso, niente che non si possa far smacchiare a dovere con un fattore di circa quaranta gradi all’ombra, il nostro darci per «maniaci» sta tutto nella passione che ci assale il martedì sera all’oratorio, quando immersi fino al collo in barili pieni di gnocchi, rivoltosi quanto carbonari fuori porta, progettiamo imprese al limite del lecito. Non per niente gli gnocchi sono gente da giovedì. Per onestà dovrei inoltre riferirmi a questa prassi facendo uso soltanto delle migliori sostanze coniugate al passato, poiché essendo tradizione drogata dal tempo, ha ormai esaurito lo sfrigolio dei facili entusiasmi, i suoi quindici giorni di bernoccola. Poi solo indifferenza e birra piccola. Qualche sbirciatina tossica poggiata sul bancone in uno sbadiglio mimetico, ma ciascuno a casa propria. Dunque così sia, e avanzando con ordine, una pastiglia dopo pranzo, una dopo cena. Tutto ebbe inizio per gioco, quando ritoccammo il cartello della sala riunioni con un più intrigante «Coniglio Pastorale» copiato da un opuscolo d’avanguardia parigina, senza fornire ulteriori spiegazioni in merito alla clausola che obbligava ciascuno ad indossare due enormi orecchie da Bugs Bunny per prendere parola. Le aveva raccattate Sganzerla durante una delle sue misteriose escursioni notturne e ci sembravano comode. Roba di classe, coi lustrini. Mica puttanate. Poi il trastullo ci ha preso la mano, anzi direi proprio tutt’e due, complice un provocatore di Reggio Emilia in pantaloni di pelle nera e camicia sfrangiata, inviato dal «Comitato per la Diffamazione dei Brazzaghesi (quelli del Destra Po, neh? perché con quelli siculi non c’abbiamo proprio nulla da ridire)», un martedì sì e uno no, quando la Cempionslìg osservava il suo turno di riposo. 2 Il provocatore sapeva 2 Luogo comune un po’ stantio, ma al mio paese, località tipica dell’universo che trasmette per nascita il giusto strato di muffa da scontarsi prima o poi, e che fa pure comune in diritto carolingio, si scrive solo così. O si parla ancora di «andata e ritorno» e di «Coppa dei Campioni», nonostante le giovani leve inizino già dall’asilo a familiarizzare con certi termini albionici da far venire i capelli bianchi anche ai santini di plastica, alle madonne acquaiole, ai padripio prosciutto e funghi, alle sorelline del don. A dispetto dell’unilateralità incombente sulle nostre schiene ricurve, e pure sul fondo condiscendente delle medesime se mi è consentito suggerirlo, preferisco riportare le speculazioni dei miei conterranei tramite l’idioma che più gli è proprio, non potendo peraltro interpretarne le complesse sfaccettature semantiche avvalendomi d’una lingua che non sia quella lì e basta. 66 esercitare al meglio un discreto fascino sovversivo, e riusciva a farci dichiarare tutto quanto non avremmo mai voluto far sapere in giro ch’eravamo in grado d’affermare anche da sobri, spingendoci nel contempo a sputare di continuo fuori dal secchio in lamiera. A fine serata, dopo averci lasciato a rosolare nel sospetto che fosse imminente un’invasione di motociclisti modenesi corazzati, già tutti incolonnati lancia in resta sulla fascia collinare dell’Appennino, tornava al proprio covo stipato di vocali stravaccate a gambe larghe ben oltre la misura a squadra, infangandoci di terribili calunnie dai lembi meteorici, e asserendo che avevamo spettegolato dal barbiere sulle donne emiliane, o che ci eravamo vantati d’avere per le mani camionate di vacche da trotto di coscia lunga e soprattutto assai più lesta delle loro… «Ah no!» strepitavano i villanzoni incovonati giù a simposio, «Le vacche di Brazzaga sanno pure di tappo!» Ora, di sicuro non siamo stati noi i primi ad approfittare delle qualità giustamente riconosciute alle donne emiliane e di certo non saremo nemmeno gli ultimi. I motociclisti modenesi non hanno mai preoccupato il paese, visto che don Curato conserva ancora grappoli di granate in ottimo stato avanzategli dall’ultimo viaggio umanitario in Bosnia. Ha letto Guareschi in seminario, lui, e sa perfettamente come ci si deve muovere nelle congiunture ortofrutticole. Ma sulle vacche non potevamo assolutamente glissare. Passi che la moglie del povero Beltrami si faccia arrivare il concime fin da Reggio Emilia dove l’aria è più sana, tra una pesca e l’altra. Poverina, è rimasta vedova… Ma sopportare in silenzio certe insinuazioni sulla scarsa natura biologica delle ragazze, quando io stesso ho aiutato Morselli a curarle in varie occasioni con la massima circospezione omeopatica e una siringa, visto che evidentemente erano influenzate, questo proprio no! Le vacche di Brazzaga sono trattate con i guanti tirati su fino alla spalla, concludono i pasti con un cubetto di Parmigiano Riserva, solo Destra Po mantovano che l’altro fa venire le piaghe d’Egitto, e negli abbeveratoi ci mettiamo anche un po’ di lambrusco con gli ormoni. Noi il bevr’in vin ce l’abbiamo dentro. Le ripetute provocazioni meritavano una replica con il sugo. Prosciutto e piselli fu il più votato, burro e formaggio a seguire… o ancora meglio salsiccia per stare sul comodo. Poi invece, date le circostanze, piegammo sulla pancetta. Fu inserita infatti nell’ordine del giorno la voce «Spietata vendetta contro quelli che ci provocano e Similari». Similari era un repubblichino della prima ora che s’era messo a strisciare tra destra e sinistra dopo la ricreazione, a seguito dello spontaneo affievolirsi della fiamma pilota, e non risultava simpatico a nessuno. Coi suoi mazzi di fiammiferi sempre in attesa 67 d’un ritorno tipico da ravvivare di clamori, i suoi cartocci di zolfanelli sempre pronti a brillare per qualsiasi sentore nostalgico nell’aria, i suoi fasci di cerini sempre disposti a promuovere qualsiasi favilla messianica nella brace, ad istigare bagliori a farfalla nei temporali, tremori a cappella tra i pendolari. Sempre nelle tasche di qualcun altro lì vicino, mai le sue, ma sufficienti a scatenare comunque un pandemonio. Quindi ogni volta che si parlava male di qualcuno spuntava fuori inevitabilmente anche il suo nome. Se non altro per onorare la perseveranza ossessiva che ci qualificava come maniaci consapevoli del martedì. E così infatti, tra zuppiere ricolme di sbroda, esalazioni stupefacenti e sadiche grattugie, avvenne anche allora. La prima gita formativa a Reggio fu organizzata un già torrido primo giorno di maggio, quando la città era tutta presa dalla sua festa nazionale e si poteva anche sperare, con un paio di bandierine rosse annodate sull’antenna dell’auto ed un triplice segno della croce a colazione, di passare inosservati malgrado trasportassimo tre enormi altoparlanti a pois fucsia strappati al campanile in restauro. L’Adelina li aveva voluti così perdio, e non c’era stato niente da fare. Avevamo registrato nella stalla di Piva i muggiti d’una pezzata partoriente con il mal di denti, la routine del piccolo veterinario. Si sono sorbiti le tre ore e un quarto del travaglio e i successivi venti minuti d’estrazione a mani nude. Il dottore, non essendo giovedì, s’era scordato i guanti. All’indomani l’affermato giornalista Giacinto Straggi avrebbe parlato nel suo fervente articolo di «…rilevante mormorio di sentita e diffusa approvazione popolare» a seguito dell’entusiasmante arringa del primo cittadino, ex combattente per l’eliminazione metafisica degli ex combattenti. Poi lo Spirito Santo e la Storia patria gli avevano dato ragione, nonché una considerevole mano. Lui allora si era candidato al titolo di sindaco, aggiungendo intanto che c’era la qualifica di «ex» alla carica di combattente, da quelle parti ancora molto evocativa. Ci vantavamo d’essere precisi quanto Romeo il Cimurro nelle questioni personali, un imbianchino di Moglia talmente ordinato nelle finiture che s’era preso il cimurro dal gatto d’una prostituta svizzera. Per cui quindici giorni dopo rinnovammo la circonvallazione interna con l’autobotte, affinché i reggiani potessero apprezzare il prodigioso livello biologico praticato dalle nostre parti. «Denominazione d’origine controllata» si potrebbe anche aggiungere sugli adesivi da mettere ai semafori in qualità di monito ai lavori in corso. Qualcuno lo segni subito per carità, così la prossima volta c’è qualcosa da fare per tutti. Non voglio più vedere sandroni mano nella mano in giro per il parco. L’apice della tensione fu tuttavia raggiunto solo in settembre, dopo la pausa estiva per la gara di pesca. Erano i giorni della Fiera 68 Millenaria di Brazzaga, famosa fino al Ministero dell’Agricoltura giù a Roma, che ogni anno ci spedisce ancora un portiere con stellette allo scopo d’inaugurarla proprio come si deve, in genere quando è finita. Veramente l’ultima volta hanno inviato soltanto la riserva del portiere in carica, schermendosi dietro l’ignobile scusa, per quanto certificata da un tecnico manzoniano, che in panchina si consumano brandelli d’autostima, elemento indispensabile per la rivalutazione contrattuale a tempo indeterminato. Benissimo, noi non abbiamo nulla contro i numeri dodici e nessuna riserva sulle riserve. Dico solo che la nostra fiera meriterebbe un po’ più di stima, insieme ad un portiere titolare dotato d’ampia apertura alare e con uno scampolo di riflessi ancora all’altezza del proprio ufficio. Che sia di martedì o di giovedì non ce ne frega poi nulla. Ancora meno c’importa delle stellette da sceriffo che gli piace d’appuntarsi sluccicone sul petto. Che se le ficchi dove gli pare quelle, insieme ai mantelli da Zorro e agli stivali da Tarzan che senza dubbio s’infila la sera prima d’andare a letto con suo cugino. Basta solo che si porti i guantoni da casa, perché i nostri ci servono e non ci va di darli via così. Che poi la gente si dimentica. Il provocatore era apparso la sera del lunedì vestito a festa, scortato da una squadriglia di bombardieri orfani che abbordavano i tanti forestieri in fila per il biglietto, discorrendo svelti di certe madri abbandonate ragazze da quelli di Brazzaga, e prestando oltretutto cautela a dissipare ogni possibile confusione con la ridente cittadina sicula. «Nonnò, signori… Proprio quelli di Brazzaga Po Vecchio!» Lo sdegno serpeggiava funesto e furono rotte ben presto le fila. La fiera dovette chiudere i cancelli all’altezza dei quadrettini in brodo nel cucchiaio della cena, come non era mai successo prima. Nemmeno quando gli Etruschi stropicciarono le aiuole ai Villani, o quando scesero i Galli dal trespolo e vi salirono i Romani. Nemmeno quando comparvero orde di Germani a cavallo a cercarsi uno stagno, cataste di Franchi a dondolo a piazzare tappeti nel bagno. Nemmeno ai tempi della grancontessa Matilde la gattara, i tempi del sortilegio guelfo di Sorbara, delle tabelline lisciate in contrito ginocchio, delle infiltrazioni insaponate dove manco Pinocchio... Non era successo nemmeno ai tempi grami degli impresari Spagnoli, di quelli Austriaci, dei Napoleoni all’Elba, dei Garibaldi in Uruguay. Neppure quando un maledetto giorno d’aprile un postino Imbecille scambiò nella culla le piante di limone coi rabarbari semplici, spedendo le prime nei fiordi Normanni e i secondi in golena a noialtri Barbagianni. Bello scherzo. I Normanni invece d’accontentarsi già ch’erano abbastanza biondi, ne approfittarono sbarcando in Sicilia per strapiantarle. Mentre i locali se lo segnarono a memoria e quando toccò loro d’occuparsi della 69 transumanza, invasero per vendetta le spiagge della Normandia con un carico di teppisti fatti su niente male, come tanti fusilli da srotolarsi sulla sabbia e ripassarsi a vicenda tra le dune incandescenti. Va detto per inciso che tutti questi dottori maiuscoli si sono anche sistemati comodi nelle palafitte di Brazzaga e non ebbero mai di che lamentarsi. Mica stiamo in provincia di Biella che poi uno se ne torna dritto a casa, soddisfatto ma pur sempre solo. Almeno fino alla prima comunione della piccola, quando al momento del digestivo si resero conto, cazzo! che non c’era abbastanza limoncello per tutti e si dovette moltiplicare l’acqua nei bidoni del Rabarbaro Zucca. Le manzette s’addormirono allora con le galline, gli ammiratori s’ammucchiarono uno sull’altro nelle cantine, i soffritti appassirono mesti nei tegami bollenti e le fanciulle stregate da presagi scroscianti, pure. Ci toccò di rinunciare al concerto delle Mondine Metropolitane, atteso tutta l’estate e strappato alla concorrenza della Festa della birra più grande d’Italia, che poi se le sarebbe riprese. E di corsa. Mentre pregavamo che si mettesse almeno a grandinare per compensazione, fu convocato un Coniglio straordinario. Morselli con la solita irruenza, forse perché gli s’intristiva in cantina, propose di sganciare una bomba atomica come avvertimento. Una piccola via, per quando sarebbero usciti dalla doccia. La mozione purtroppo fu respinta a ragione delle abnormi tariffe adottate dai noleggiatori slavi di tappeti da volo radente. Era così raro trovare un commercialista onesto a quei tempi, neanche a pagarlo… Armando Bottardi lanciò l’idea suggestiva di riempire le piazze con squali tigre corredati di calzini rosa arrotolati sulle pinne, quando Diomede Bertazzoni s’alzò in piedi di scatto e lo prese a pugni. Poi se ne andarono entrambi sanguinanti, ciascuno verso la propria birra di sfumatura ambrata. Non capimmo mai il perché di tanta reazione. Visto però che il giro proseguiva, recuperammo angosciati le nostre orecchie da terra. Per fortuna erano ancora buone. Don Curato consigliò il perdono, guardandosi bene però dal nascondere le dita delle mani e dei piedi esibite completamente incrociate, come appena uscite da una lavatrice industriale. Fu il turno di Sganzerla, il mago del letame, il quale avanzò il sospetto di quanto l’altra volta non fosse stato compreso appieno il gesto in tutta la sua pregnanza simbolica, e quindi era giocoforza necessario ribadirlo per non fare la figura dei figli di babà che hanno ricopiato l’enciclopedia, e si sentono padroni per questo di spandere per mari e monti la propria cultura cinofila. I contadini si opposero in blocco. Senza letame era nato un granoturco da far pietà, per di più privo del caratteristico chiaroscuro che solo Sganzerla medesimo, da 70 cinofiliaco istruito, continuava a smichelangiolare. Noi credevamo più negli effetti digestivi dell’ignoranza aerofaga. Landini fuori di sé aveva persino dato fuoco al campo Eliseo, giacché gli si stringeva il cuore a vederlo così indisposto. Malgrado corresse voce che i Carabinieri avessero sguinzagliato in campagna uno di quei canguri austro-alsaziani addestrati a scodinzolare festosi in aeroporto quando si torna da Amsterdam. Ringhiano come i tortelli della Vigilia se scovano un po’ di marinato esentasse a seguire. Lo sgomento fu totale allorché entrò stranito Antonio Similari. Un silenzio cupo prese possesso dell’assemblea, marmorizzandoci sul fondo delle poltroncine in plastica rossa acquistate al fallimento d’una balera romagnola. Chissà quali chiappe viziose vi si saranno sbracate sopra... Comunque nessuno lo aveva invitato. In preda alla smania di ridurre tutto in militanza politica, avrebbe lanciato sacchi di ciclostilati come giù da un apparecchio in volo su Vienna, col covone impettito da lato e la falce ricurva dall’altro, turbando a martellate littorie le fragili menti operaie già abbastanza intronate dal folclore romano. E le formidabili mietitrebbie? si sarebbero chiesti i poveretti, da che parte staranno? E poi quei ragionamenti deliranti sulla pulizia etnica delle acquasantiere per prevenire gli eccessivi accumuli di tartaro, sulla proprietà comune delle auto sportive a doppia trazione integrale, sugli idromassaggi obbligatori di Stato… Credetemi, di manie ci bastava la nostra. E pure a vacche stavamo a posto. «Propongo l’olio di ricino della cooperativa sociale!» urlò infatti il soggetto, scandendo le parole una ad una con le mani poggiate sui fianchi, quasi fosse una novella Giulietta al balcone e tutti noi giù in piazza un parcheggio intero di Romei impazziti per la treccia. 3 «O in alternativa… quello d’oliva! Ma che sia extravergine…» alzando un pugno sinistrorso al cielo, «altrimenti si formano gli ottani se la frittura è insistita…» pausa… «il fegato mormora…» altra pausa… «e rischia poi d’andare per sempre a Biella senza soste di sorta all’autogrill.» Fu scacciato a badilate e scomparve senza lasciare tracce in alcun modo interpretabili. Si dice che faccia il postino in val Dimarca, ma ancora nessuno di noi è mai andato a controllare di persona l’attendibilità della notizia. 3 «Alfa Romeo, che l’erba cresce» avrebbe detto mio nonno una sera di ritorno dal bar. Cosa intendesse non lo so, ma mi allungò insieme anche una caramella d’orzo appiccicosa. Con tali premesse mi ritrovai crescendo a chiedermi se fosse meglio passare dalla Giulia all’Alfasud invece di riprovarci con la piccola Lucia, o se avesse senso aspettare la nuova Giulietta quando era chiaro a tutti che se l’appiccicava da un sacco di tempo nel parcheggio col Meganoide. Io scelsi di sorseggiare un orzo in tazza grande dopo i pasti apostolici. Questo però lo consigliava anche Romeo il barista e i conti allora tornano in perfetto orario. 71 «C’è del marcio in val Dimarca!» era la scusa da tutti ormai accampata, per non doversi sobbarcare gli oltre duecento chilometri d’autostrada e i settantacinque di stradine tortuose tra i monti, solo per spiare un postino ermeneutico. Antipatico per giunta. «C’è del marcio in val Dimarca!» si sentiva ripetere ogni volta che qualcuno volesse suggerire come il tal posto fosse un po’ dubbio per via dei soliti orecchioni incipriati che ballavano la mazurca, o per i topi palmati che nuotavano nudi nelle piscine olimpioniche del ragù. O ancora per storie assurde di tradimenti a sedile reclinabile, delitti in catena di montaggio, manutentori di madri altrui. Anche usate. «C’è del marcio in Danimarca!» tuonò don Curato domenica primo ottobre dal pulpito, con l’intento d’inquisire gli animi del gregge giovandosi d’una citazione raffinata, a suo dire, tuttavia nota a tutto l’uditorio appecorabile, sempre a suo dire, affinché ciascuno potesse rendersi conto intimamente di quanto il gravoso portafogli caprino, con diabolica ascendenza in pelle d’acero, fosse bisognoso d’una cospicua potatura nei rami biforcuti. Una risata rimbombò infausta nel transetto, prontamente stroncata dal suo cipiglio contraccettivo. Il prelato non s’era reso conto del lapsus dolomitico. Povero don… il tempo non ha riguardi per nessuno… Non importa se hai appena innaffiato l’insalata nell’orto, quando deve piovere, piove per tutti. Quanto alla mania del martedì, devo ammettere a malincuore che le cose non sono più sembrate le stesse. Abbiamo sì coordinato un’ultima scappata in centro a Reggio per suonare i clacson inviperiti in coda ai semafori… ma niente di serio. Gli slanci presero presto a tergiversare sulla spolveratina misto grana. Si organizzava ogni particolare della missione con una serie di piani avvincenti, come esportare sacchi di tafani oltre confine al posto del mangime scaduto, alimentare dicerie vaghe sulla moria del bestiame da macello proprio prima di finire sui banchi dell’emporio, castrare tutti i figli maschi dei reggiani garantiti da un certificato autografo. Solo che poi non sapevamo che farne dei mezzani e il discorso s’infognava. D'altronde seguivamo un testo alla lettera, mica eravamo autodidatti. Non importava quale. L’importante era avere un riferimento scritto bene sulla carta smacchiata a novanta gradi. Un bel Testamento in falsariga underground. Una copia a testa ripiegata con cura nella tasca sbrindellata dei jeans. Perché come ripeteva il don per farci entrare nelle zucche incappucciate alla moda quanto fosse essenziale l’ortografia nei momenti critici, se scripta malet, 72 l’erre sbòrat. 4 Come la storia del cammello irsuto che s’era perso in un pagliaio. A parte che di cammelli non se ne sono mai visti in riva al Po, peggio delle tedesche implumi, se ti recuperano alticcio in un pagliaio da rimonta, la tua parte di scrupolo ce l’avrai pure avuta, no? Discutevamo anche se dare alle fiamme il Vitello d’oro, antico locale del centro e possibile ritrovo degli architetti nemici, forse addirittura il covo del provocatore pellicciaio. Poi all’ultimo nessuno si presentava in tuta ignifuga. Le mogli erano improvvisamente bramose di fragole, il sindaco era stato convocato d’urgenza per la briscola, piovevano rane dal cielo e c’era senza dubbio del marcio in val Dimarca. Anche un casino di cavallette. Il gruppo gradualmente si sfaldò. Don Curato fu il primo a partire per un inaspettato soggiorno a Casablanca, dove suo cugino doveva seguire un ciclo di cure termali a motivo d’un definitivo «reimpianto tecnico finalizzato al recupero dell’operatività vitale», mentre lui coglieva l’occasione per ultimare gli esercizi spirituali al santuario della Madonna della China, la più sellabile delle Madonne marocchine, della quale si sussurrava che lo stesso vescovo di Reggio fosse fedele devoto, sonagli damascati e tappeti da bagno a parte. Non vorrei tuttavia sbiancare i tabernacoli che vanno invece mantenuti al fresco per il bene di tutti. Sganzerla realizzò quanto fosse tutto tempo perso. Aveva cose più importanti da fare lui e andò al bar, prontamente sepolto dai nostri insulti che lo tacciavano d’alto tradimento nel bel mezzo della campagna, memori dell’inconfondibile accento reggiano sfoderato ogni volta che perdeva il controllo di quanto gli era rimasto nel cranio. Landini tornò a casa al galoppo. La moglie aveva scoperto che il martedì sera dopo il regolare Coniglio non andava per niente alla tombola rionale, che avevano smesso di tenerla da oltre dieci anni, bensì con gli amici su a Reggio, dove aveva sentito mormorare che, Madonnina bella, c’erano le puttane ignude… Non venne mai più. 4 N.d.C. Qui è evidente il divertissement che il maestro adotta per notare con la consueta ironia la dabbenaggine di certuni operatori agricoli riuniti in compassato circolo goliardico. Colui che redige il Verbale in particolare, il Gran Coniglio, il narratore in cattedra di pino, raccoglie un motto Perugina di Cicerone, o più probabilmente di suo cugino Ciceroga, ma lo storpia nel suo tipico linguaggio d’ignorantone a placche che s’atteggia a grammatico di mestiere solo perché detiene una stilografica fine per il manico serrato. La versione corretta dell’aforisma tratta invece proprio di tematiche agricole, e recita: (Se è) stretta male, l’erba volat (via). Naturalmente si parla ancora di mietitura d’una volta coi falcetti amanuensi e i covoni impalati, perché delle mietitrebbie, che sarebbero comparse solo molti secoli dopo con la carbonella, il motore Alfa Romeo bialbero e una propensione insospettabile per i sedili ribaltini, ancora non si poteva dire se sarebbero mai state di qua o di là, se avrebbero indossato una maglietta a righe verticali o se avrebbero piuttosto preferito togliersela, come zoccole da pasteggio orizzontale inclini ad accendersi col primo sbruffo venuto da lontano. 73 Rimanemmo quasi in cinque. Oltre a me, spirito palesemente scapolo per una vertenza d’allergie, resistevano gagliardi: Simonazzi perché era un solitario incallito su entrambi i palmi, Morselli perché era stato dimenticato dalla moglie in un pagliaio, il Conte perché era un nobile introverso, e infine il Prigno, abituale avventore di ravanelli bordeaux, condannato per questo ad una vita nella stanza accanto a sgranare borlotti con la sua nuova maglietta a righe, un paio di guanti da veterinario sulle spalle e il Petrus Riserva della zia in circolo. Ormai si faceva «come se». «…e se i reggiani ci facessero la lingua? Noi si castrerebbero anche tutti i loro luridi piccioni, grassi e smargiassi, per farli diventare capponi volanti con gli orecchioni! …e se i reggiani ci facessero lo sgambetto? Noi, di soppiatto, s’andrebbe in duomo, perché pure loro c’avranno un duomo, a far finta di pisciare l’anima dietro l’altare! …e se i reggiani ci vincessero due a zero in un fienile? Noi si porterebbe la nostra bandiera barzotta in corteo trionfale per i portici del centro storico, malgrado tutto! …e se i reggiani poi ci sposassero anche le ragazze? Ah beh allora… noi si sposerebbe tutte quante le loro!» 5 Giorni come quelli non sono più tornati, né mai ritorneranno, poiché erano appunto quei giorni lì e basta, i giorni della nostra beata giovinezza. Così a ventisette anni, quasi ventotto, con gli accendini ben stretti in pugno e tanta nostalgia, ricordiamo ancora i bei tempi orecchiabili che furono, i mitici giorni dei «maniaci» di Brazzaga. Porgo naturalmente le mie più umili scuse a tutti gl’ignari brazzaghesi della regione Sicilia, per gli imbarazzanti equivoci che quotidianamente sono costretti a chiarire a causa di certe dannate malelingue, voci tendenziose che ogni paese, pur con le più sane intenzioni contrarie, è tuttavia costretto ad iscrivere di malavoglia nei registri d’anagrafe e di residenza. Voglia un giorno Iddio renderci giustizia, liberandoci per sempre dalla loro razza perfida e maligna. E intanto che c’è, per cortesia, anche restituirci i limoni offesi per sbaglio, che il rabarbaro qui c’imbarazza l’intestino. E dopo tutti ‘sti gnocchi normanni… insomma Lui sa. Grazie. 5 Passo liberamente ispirato ad una toccante scena del film Tutta colpa del paradiso, di F. Nuti del 1985, storia d’un imbianchino di Moglia che emigra sul monte Emilius in val Dimarca, dove si mette preciso preciso ad imbiancare stambecchi albini, la sola cosa che gli riesca ancora bene. La scena in questione rappresenta il dialogo chimerico che avviene tra il protagonista e un bombardiere orfano immaginario, e snocciola una catena di sant’Antonio fatta di domande incalzanti e risposte bretoni, imprese impossibili al limite del lecito che la fantasia carbonara del dopocena fa sembrare reali come per magia aerofaga. Così, mentre il fanciullo esausto alla fine s’addormenta sulla pancetta affumicata, come sarebbe ora porco zio, il tizio soggettivo, che non a caso fa Romeo di maiuscola, ne approfitta per scappare in alta montagna con l’Ornella, ma in rigorosa Giulietta Lime, seppur imbiancata alla bisogna. 74