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GIUSEPPE PASQUALI
MARINELLI
Atti del Convegno
24 aprile 1993
a cura di
Massimo Morroni
Comune di Camerano
2014
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Sono già stati pubblicati i seguenti contributi:
- M. Morroni, Giuseppe Pasquali Marinelli insigne poeta cameranese del
XIX secolo, in Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le
Marche, 99 (1994), Ancona 1995.
- G. Flammini, Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell'Odissea, in
Studi in memoria di A. Valentini, a c. di S. Baldoncini, Macerata 2000.
- F. Stok, G. Pasquali Marinelli (1793-1875) e le sue parafrasi bibliche in
esametri latini, in Scritti in onore di Italo Gallo, a c. di L. Torraca , Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 2002.
- C. Santini, La versione latina dell'Iliade di Giuseppe Pasquali Marinelli,
in Acta Conventus Neo-Latini Cantabrigensis, ed. R. Schnur, Arizona 2003.
Patrocinio Convegno: Cassa Rurale e Artigiana "San Giuseppe" Camerano.
Patrocini culturali: Accademia Marchigiana di Scienze, Lettere ed Arti Ancona; Deputazione di Storia Patria per le Marche - Ancona; Biblioteca
Comunale "Benincasa" - Ancona; Biblioteca Comunale ed Archivio Storico
"Cini" - Osimo; Biblioteca Comunale ed Archivio Storico - Camerano.
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Presentazione
A distanza di venti anni, vedono ora la luce gli atti del convegno che
si tenne per celebrare, ma soprattutto per far conoscere, il magnifico
personaggio che fu Giuseppe Pasquali Marinelli. Certamente, all’ombra del
Maratta, tutti gli altri cameranesi vengono meno, ma nel caso del Pasquali il
confronto non si pone, troppo diversi essendo gli ambiti di ciascuno di loro
due. Finalmente i letterati ed il grande pubblico acquisiscono la
conoscenza di un erudito che, nel suo secolo, il XIX, stava benissimo alla
pari di nomi spesso citati nelle belle lettere. L’immane fatica, che lo portò a
comporre più di centomila versi esametri in lingua latina, purtroppo è
grande come l’oblio che lo ha ricoperto dopo la sua scomparsa. Le persone
schive subiscono questo destino.
L’assise del 1993 vide raccolti studiosi di ogni parte d’Italia, curiosi
di esplorare ed indagare le opere del Nostro, le quali furono, per l’occasione,
raccolte, rispolverate e messe a completa disposizione. Il loro lavoro si
rivelò pari alla loro competenza, ed ognuno contribuì a mostrarci e a farci
ben conoscere un aspetto diverso del Pasquali. Ad essi va il nostro
ringraziamento per l’impegno che profusero, ponendo nel giusto rilievo
l’opera del nostro compaesano. Essa va considerata ovviamente nello spirito
del tempo nel quale è stata prodotta e del luogo in cui nacque, che nulla
tolgono alla sua validità letteraria.
Per questo l’Amministrazione Comunale si è sentita in dovere di
pubblicare gli atti del Convegno pasqualiano, certa di rendere sia un dovuto
omaggio al Nostro, sia un favore alla comunità letteraria, la quale - da
questo momento - è messa in grado di arricchirsi dell’illustrazione di un
grande poeta latinista che le mancava.
L'Assessore alla Cultura
Jacopo Facchi
Il Sindaco
Massimo Piergiacomi
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Comitato organizzativo del Bicentenario
Sede: Scuole Elementari "L. Sperandei" - Camerano
Prof. Massimo Morroni - Coordinatore
Dott.ssa Luciana Carile
Prof. Nazareno Donzelli
Dott. Franco Graciotti
M. Angelo Magnaterra
Sig.ra Margherita Pelonara
Dott.ssa Simonetta Piangerelli
Comitato scientifico
Prof. Alfredo Trifogli - Presidente
Prof. Guido Arbizzoni
Prof. Massimo Morroni
Prof. Gianfranco Paci
Prof. Ubaldo Pizzani
Prof. Carlo Santini
Prof. Sergio Sconocchia
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Comune di Camerano
Provincia di Ancona
Comitato organizzativo
Bicentenario della nascita del poeta latinista cameranese
Giuseppe PASQUALI MARINELLI
(1793-1875)
Camerano
Aprile Maggio 1993
Calendario delle manifestazioni
Sabato 17 aprile
ore 18
Sede del Gruppo Ecologista "Il Conero" Piazza Roma
Apertura della diaproiezione continuata prodotta dal
Gruppo
ore 21
Chiesa San Francesco
Rappresentazione della commedia di Rolando Mazzoni
"Giuseppe Pasquali Marinelli un uomo, un poeta"
da parte della Compagnia Teatrale Cameranese
Mercoledì 21 aprile
ore 18
Atrio municipale Via Leopardi
Inaugurazione della Mostra allestita dalla Scuola
Elementare "L. Sperandei"
ore 18.30
Aula Consiliare
Presentazione del volume "Giuseppe Pasquali M. Le età di
un poeta. Biographia literaria" di Massimo Morroni da
parte di Nazareno Donzelli
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Venerdì 23 aprile
ore 10.30
Chiesa S. Faustina
Inaugurazione della Mostra documentaria curata dalla
Scuola Media "S. Pellico"
Proiezione video. Presentazione del poeta da parte degli
alunni
Atrio Scuola Media
Mostra elaborati grafico-pittorici sulla biografia del poeta
Sabato 24 aprile
ore 9
Hotel "Tre Querce"
Convegno sulla figura e l'opera del poeta
ore 21.15
Esibizione del Coro "Città di Camerano" presso l'Hotel
Domenica 25 aprile
ore 11
Via Pasquali Marinelli
Scoprimento del busto del poeta e della lapide sulla casa
Esibizione della Banda Musicale "Santa Cecilia" di
Camerano
Domenica 2 maggio
ore 11
Chiesa S. Faustina
Apertura della Mostra "Numismatica e filatelia dai tempi
del Pasquali ad oggi"
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Verso il Bicentenario pasqualiano
In vista del bicentenario della nascita del Pasquali, che sarebbe caduto
il 20 aprile 1993, nel 1990 Massimo Morroni lanciò l'idea di festeggiarlo.
Queste le motivazioni: "A due secoli dalla nascita di un grande cittadino, il
paese di Camerano si interroga - almeno in questa occasione - su che cosa
egli rappresenti ed abbia rappresentato per la sua terra. Anzitutto va detto
che il Pasquali è l'esempio lampante di come una persona possa spendere
tutta la sua vita per gli altri (per la cultura e per i poveri) e poi essere presto
dimenticato. Il poeta visse 82 anni e almeno per 70 fece cultura, inoltre
almeno per mezzo secolo si preoccupò delle condizioni in cui si trovavano a
vivere i più miseri dei suoi compaesani. Che cosa significò il suo impegno
culturale? Significò anzitutto sacrificio, tempo rubato al sonno, allo vsgao e
ad altri impegni più remunerativi, che il Nostro disdegnò per occuparsi in
maniera piena di tenere accesa la fiamma della civiltà e del vero progresso,
quello morale, ben più alto e solido di quello di cui oggi si parla tanto
facilmente, ma che spesso è fatto solo di apparenza. Riguardo alla premura
sociale, la dimostrò intera impegnandosi in prima persona
nell'amministrazione della cosa pubblica, dalla quale non ricavò alcun
interesse materiale, cosa che suona molto strana al giorno d'oggi. Spesso si
trovò a lamentarsi della poca prosperità nella quale viveva, ma mai pospose
l'attenzione verso la povera gente al suo tornaconto privato. Una lunga vita
spesa in questo modo, attraversata per di più da frequenti malanni ed episodi
luttuosi, dovrebbe restare maggiormente incisa nel ricordo storico di un
paese. Perciò, in questi giorni, il tentativo principale è quello di togliere
dall'ombra della dimenticanza la figura del Pasquali e di indicarla come
esempio di correttezza, di onestà, di altruismo, oltreché come dimostrazione
di persona culturalmente impegnata nel senso vero, civile ed umano".
Ad agosto si individuarono alcune persone per formare il Comitato
organizzatore e si pose la sede presso le Scuole Elementari "Sperandei".
L'assessore alla cultura, Burattini, informato del progetto, comunicò che la
Giunta comunale, riunita ad agosto, era disinteressata all'iniziativa.
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Il 21 settembre si tenne la prima riunione del Comitato, alla quale
parteciparono Simonetta Piangerelli, Nazareno Donzelli, Fabio Toccaceli,
Massimo Morroni, Franco Pesaresi, Alberto Recanatini, Giorgio Giostra e
Angelo Magnaterra. Erano assenti: Massimo Berti, Francesco Burattini,
Margherita Pelonara, Carla Pincini e Luigi Pini, che vi avevano aderito. Fu
illustrata la bozza del programma del Bicentenario, che era la seguente: "I Finalità. Ci si propone anzitutto di rivalutare la figura del personaggio, quasi
dimenticato, inserendolo nel suo contesto storico e nel clima culturale del
suo tempo. Inoltre si trae occasione per estendere il discorso anche alla
storia del paese, illustrando nelle linee essenziali la sua fisionomia
ottocentesca. II - Punti nodali. 1) Letteratura latina ottocentesca in Italia e
nelle Marche. 2) Camerano nel XIX secolo: aspetti sociali, economici e
politici. 3) Pasquali Marinelli: a) l'uomo (biografia, il politico, il filantropo);
b) il letterato (il compositore, il traduttore). III - Manifestazioni ed attività:
convegno; mostra documentaristica e fotografica sugli argomenti di cui
sopra; pubblicazioni: 1) atti del convegno; 2) De pugna ad
Castrumficardum; manifestazioni scolastiche; manifestazioni musicali;
manifestazioni artistiche; manifestazioni teatrali". Alla bozza si aggiunsero
le proposte di: un semibusto in bronzo, una lapide per la facciata
dell'abitazione del poeta, un video sulla vita e le opere e un'analisi
grafologica; l'ultima non fu attuata.
Il 10 ottobre il Comitato si incontrò col Presidente della locale Cassa
Rurale, dal quale si venne a sapere che il Comune gli aveva telefonato per
un'iniziativa analoga.
Il 18 ottobre il Comitato definì i gruppi di lavoro e preparò le lettere
per gli inviti agli Enti: Provincia di Ancona, Deputazione di Storia Patria per
le Marche, Istituto Marchigiano di Scienze, Lettere ed Arti, Scuola
elementare di Camerano, Scuola Media di Camerano, Biblioteca Comunale
di Osimo, Cassa Rurale di Camerano.
A novembre la Giunta comunale costituì un proprio comitato,
composto da Recanatini, Toccaceli, Baldini, Iannaci, Strologo e Taccaliti e
propose ad alcuni membri di confluirvi, ma senza esito. Toccaceli e
Recanatini si dimisero da entrambi i comitati.
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L'aspetto organizzativo del convegno, per il settore filologicoletterario, venne demandato al professor Sergio Sconocchia, che iniziò a
tracciarne le linee portanti. Il Comitato scientifico fu formato da U. Pizzani,
C. Santini, G. Arbizzoni, S. Sconocchia, M. Morroni, Trifogli e G. Paci. Si
ricercarono alcuni illustri latinisti nelle Università di Roma, Pisa, Urbino,
Trieste, Macerata, Perugia, Bologna e Trento.
Il 20 aprile 1991 il professor Sandro Baldoncini, dell'Università di
Macerata, presentò l'edizione del De pugna ad Castrumficardum, con
traduzione di M. Morroni e commento storico di M. Coltrinari,
sponsorizzata dalla Provincia di Ancona e dalla Cassa Rurale. Si trattava
dell'edizione di un poema inedito del Pasquali, interessante sia dal punto di
vista letterario - essendo appunto una composizione in versi latini - sia dal
punto di vista storico - costituendo la narrazione di un evento bellicopolitico essenziale per le Marche, per di più visto dall'ottica papalina, oggi
inusitata.
In
quell'occasione,
Simonetta
Piangerelli
collocò
cronologicamente l'opera del Pasquali all'interno della produzione
cameranese; Luciana Carile trattò di "Appunti biografici sul Pasquali",
basandosi sugli opuscoli del 1893; Massimo Morroni presentò l'Iconografia
pasqualiana, una diaproiezione; Massimo Coltrinari ambientò storicamente
la materia del poemetto.
A giugno il Comitato scrisse ai futuri convegnisti, precisando che il
convegno verteva "su due aspetti principali del Pasquali: la figura ed il suo
impegno politico-sociale, e la sua produzione letteraria. Per quanto riguarda
il primo, sono finora previsti quattro interventi, i quali, basandosi su
documenti e testi del Nostro, ne delineeranno la figura umana e le posizioni
ideologico-politiche. Per ciò che concerne l'aspetto letterario, si sono
raggruppate le principali opere pasqualiane, edite ed inedite, in quattro aree
relative rispettivamente a: opere di composizione e opere di traduzione,
suddivise ancora a seconda del contenuto sacro o profano. Accanto a questo
schema, si è pensato alla realizzazione di un'antologia di scritti tratti dalle
sue opere, la quale renda un panorama complessivo e sintetico dell'intera
produzione letteraria. Alla luce di quanto finora esposto, ogni realazione
presenterà quindi un'opera nelle sue caratteristiche tecniche e nelle sue
implicazioni filologico-letterarie, storiche e culturali. In particolare,
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attraverso le traduzioni si evidenzierà il momento della memoria umanistica
e dello spessore culturale, mentre attraverso lo studio delle composizioni si
darà ampio risalto ad ogni elemento della intensa e sofferta sensibilità per
ogni aspetto della realtà e del contesto storico e socio-culturale".
Entro settembre si ebbero le adesioni definitive dei convegnisti:
Sconocchia, Pizzani, Brugnoli, Santini, Flammini, Arbizzoni, Carile, Pirani,
Morroni, Basili, Nicolella e Stok.
Il 7 maggio 1992 si ebbe l'incontro tra il Comitato del Bicentenario
(Morroni) ed il Comitato comunale (Ragnini e Strologo), richiesto da
Morroni il 17 marzo, che portò, a giugno, ad un secondo incontro per
coordinare le iniziative. I rappresentanti comunali si dissero favorevoli per
produrre una mostra, una breve pubblicazione, il convegno, l'apposizione
della lapide ed il coinvolgimento delle scuole.
Agli inizi di luglio apparve un'articolo sul Corriere Adriatico, che
descriveva la preparazione al Bicentenario: "Sono iniziati a Camerano i
preparativi per festeggiare degnamente il bicentenario della nascita di
Giuseppe Pasquali, un poeta latinista del luogo, vissuto per quasi tutto l'arco
del secolo scorso. L'avvenimento occuperà diversi periodi del 1993. A tale
proposito si sono incontrati i membri del Comitato promotore e quelli della
Pro Loco, redigendo un primo elenco delle manifestazioni che dovranno
tenersi appunto dal prossimo aprile. Il Pasquali è un personaggio ricco di
erudizione e di umanità, che deve essere non solo rivalutato, ma addirittura
riscoperto, essendo caduto nel dimenticatoio da decenni. Tutta la sua
esistenza fu suddivisa tra la vita amministrativa e la passione per la poesia
latina.
Compose infatti più di centomila versi in questa lingua (esametri) e
pubblicò le sue numerose opere tra il 1828 ed il 1874, lavorando fino agli
ultimi giorni della sua esistenza, anche se non godette mai di buona salute.
Tradusse molte grandi opere in latino, tra le quali l'Iliade, l'Odissea, la
Divina Commedia, numerosi libri della Bibbia, i Sepolcri del Foscolo,
diverse liriche del Petrarca, del Monti, dello Zappi e di altri poeti. Compose
anche poemi originali, tra i quali una Messiade, due operette rispettivamente
sulle battaglie di Castelfidardo e di Mentana, e una gran quantità di carmi
occasionali. Gran parte del materiale edito ed inedito del Pasquali si trova
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presso la Cassa Rurale ed Artigiana "San Giuseppe" di Camerano, che lo
acquisì dal nipote di Pietro Gianuizzi, un intimo amico del poeta.
Lavorando da circa tre anni, una quindicina di docenti universitari di
Filologia Classica stanno preparando il materiale per un convegno che
illustrerà ampiamente aspetti della produzione pasqualiana, focalizzando le
tecniche del compositore e del traduttore, sacro e profano. In questo modo il
mondo delle lettere sarà arricchito della conoscenza di una personalità che
immeritatamente era passata in secondo piano. Oltre al Convegno, è prevista
una pubblicazione che raccolga saggi sul Pasquali filantropo e
amministratore (fu priore, cioè sindaco, per oltre trent'anni), gli atti
dell'assise e la pubblicazione integrale delle sue opere. Intanto sono in
gestazione anche altre manifestazioni collaterali. Sarà riesumata la messa da
requiem composta in occasione del primo anniversario della morte del poeta
(1876). L'allestimento di una commedia di contenuto biografico renderà
tangibile l'umanità del personaggio, facendone rivivere i momenti biografici
più salienti. I quali saranno illustrati in una mostra che ospiterà i principali
documenti della vita e dell'opera del poeta. Altri momenti collaterali saranno
costituiti dalla costruzione di un busto del Pasquali da porre di fronte alla
sua casa, che egli lasciò in testamento come ospedale per i poveri; dalla
predisposizione di un video di contenuto storico-letterario; dall'analisi
grafologica della scrittura del Pasquali, dalla ricostruzione dei costumi
dell'epoca. Tutte queste occasioni saranno distribuite lungo il 1993 e
vedranno impegnate diverse persone: studiosi, appassionati, studenti e
ragazzi delle scuole locali. Questi ultimi si renderanno tra l'altro anche
disponibili a far d guida ai turisti che verranno richiamati in paese.
Camerano, quindi, si impegna sul piano culturale a rivalutare un suo grande
figlio. Per raggiungere lo scopo, occorre coagulare tutte le forze disponibili
in paese, ed anche fuori, a cominciare dall'Amministrazione Comunale fino
alle aziende economiche ed ai privati".
Agli inizi di luglio, il giorno 9, il Comune inviò la richiesta di
sponsorizzazione per l'organizzazione del Bicentenario, a nome degli enti
organizzatori (il Comitato organizzatore e la Pro Loco), elencando le
principali attività previste
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Il 24 settembre si prese atto dell'adesione di tre Enti: il Comune, la
Cassa Rurale e un Istituto assicurativo. Il presidente della Pro Loco,
Strologo, minimizzò la ricorrenza, mentre Morroni e Recanatini la
presentarono come un'occasione da non perdere.
A febbraio 1993 si ebbe un incontro presso il Comune tra il sindaco
Pincini, l'assessore alla cultura Burattini, il presidente della Pro Loco
Strologo e Morroni. Si demandò tutta l'organizzazione delle manifestazioni
al Comitato organizzatore del Bicentenario, il quale riferì che erano quasi
pronte le seguenti attività: tre mostre, un video, il convegno, il semibusto, la
lapide, la biografia, l'attività teatrale. La mostra, in particolare, intendeva
divulgare tutto il materiale originale pasqualiano che ancora si conserva,
come autografi, manoscritti, documenti privati e pubblici, epistolario,
minute, pubblicazioni, immagini, atti, strumenti di lavoro, miniature ecc. Per
quanto riguarda le pubblicazioni si avevano tre alternative: pubblicare i soli
atti del convegno, oppure gli stessi con un'antologia pasqualiana, oppure gli
stessi con l'intera opera omnia.
Le manifestazioni per il Bicentenario si tennero dal 17 aprile al 2
maggio. In particolare, sabato 17 aprile, alle ore 18, il Gruppo Ecologista "Il
Conero" dette inizio nella sua sede in Piazza Roma alla diaproiezione
continuata da lui prodotta. La sera, alle ore 21, si rappresentò nella chiesa di
San Francesco la commedia di Rolando Mazzoni, Giuseppe Pasquali
Marinelli. Un uomo, un poeta, liberamente tratta dalla biografia pasqualiana
di Morroni. I personaggi, in ordine di apparizione, erano: Maestra, cinque
bambini, il lettore, Giuseppe Pasquali, Vito Pasquali, Maddalena Marinelli,
il cardinale Gaetano Baluffi, il cardinale Cesare Nembrini Gonzaga, don
Saverio Marinelli, due contadini, Pietro Gianuizzi e don Alessandro
Massaria.
Mercoledì 21 aprile, nell'atrio del Municipio in Via Leopardi, alle ore
18 si inaugurò la mostra allestita dalla Scuola Elementare "Sperandei",
quindi seguì la presentazione del volume Giuseppe Pasquali Marinelli. Le
età di un poeta. Biographia literaria di M. Morroni. Si tratta di un'intensa
biografia letteraria del Nostro, basata su tutte le fonti reperibili, tra secolo
XIX e XX, compresi i suoi scritti.
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Venerdì 23 aprile, nella Chiesa di Santa Faustina, si tenne
l'inaugurazione della mostra documentaria curata dalla Scuola Media
"Pellico", con proiezione di un video e presentazione del poeta da parte
degli alunni. Nell'atrio della Scuola Media si aprì la mostra degli elaborati
grafico-pittorici sulla biografia del poeta.
Sabato 24 aprile si tenne il Convegno, sotto l'egida del Comune di
Camerano e della Provincia di Ancona, sponsorizzato dalla Cassa Rurale e
Artigiana "San Giuseppe" di Camerano. Si aprì alle ore 9 presso l'Hotel Tre
Querce, con il saluto alle Autorità, e si protrasse sino alla Discussione della
sera, con l'intervallo per il pranzo. I patrocini culturali furono
dell'Accademia Marchigiana di scienze, Lettere ed Arti, della Deputazione
di Storia Patria per le Marche, della Biblioteca Comunale "Benincasa" di
Ancona, della Biblioteca Comunale "Cini" e Archivio Storico di Osimo,
della Biblioteca Comunale e Archivio Storico di Camerano. La sera ci fu
l'esibizione del Coro "Città di Camerano" presso lo stesso Hotel.
Domenica 25 aprile, in fondo a Via Pasquali Marinelli, di fronte alla
casa del Poeta, alle ore 11 si scoprì il busto e la lapide sulla facciata della
stessa, con l'esibizione della Banda musicale "Santa Cecilia" di Camerano.
Il 2 maggio, alle ore 11, presso la Chiesa Santa Faustina si aprì la
mostra "Numismatica e filatelia dai tempi del Pasquali ad oggi".
Dal Corriere Adriatico del 4 luglio 1992.
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La lapide posta sulla facciata della casa del Poeta.
All'Hotel Tre Querce: il busto di Pasquali Marinelli, M. Morroni, O. Basili e
S. Sconocchia.
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Massimo Morroni
Giuseppe Pasquali Marinelli, insigne poeta cameranese del XIX
secolo
Fino al secolo scorso molti furono i traduttori ed i poeti classicisti, in
Italia ed all'estero, e varia si presenta la loro produzione. Nella nostra
regione il nome del Pasquali va fatto emergere sia per la qualità della sua
poesia sia per la mole dei versi composti (attorno ai centomila).
I genitori del Pasquali furono Vito Pasquali e Maddalena Marinelli (1).
Il padre era oriundo di Montelupone (Macerata), dove era nato il 15 giugno
1765 (2). La madre nacque il 18 gennaio 1766 a Camerano (3).
II Pasquali era affettivamente più vicino al parentado materno
(«Marinella gens») che a quello paterno, tanto che tracciò la genealogia
della madre (4) e ne aggiunse il cognome al suo.
Se si eccettuino gli anni del seminario, i tre trascorsi a Macerata
(1816-18) e i dodici a Roma (1818-30), visse poi sempre a Camerano,
«antichissimo e vago castello in quel d'Ancona, dopo nove miglia circa».
Il luogo natale, oltre che dall'atto di battesimo, è dichiarato anche dal
poeta: «Haud procul Ancona, Cameranum, (parva Marattae/Pictoris clari
patria) me genuit» (5).
Giuseppe Pasquali nacque, primo di sei figli (6), il 20 aprile 1793, alle
ore 9 (7).
Il poeta si soffermerà sul suo anno di nascita, ricordando la
decapitazione di Luigi XVI, avvenuta il 21 gennaio. Per questo fatto
chiamerà l'anno «nimium tristis» e lo porrà come inizio di «clades»,
«furias», «scelera» e «rerum discrimina» che, ai suoi tempi non sono
ancora terminati:
A mille et septingentis cum tertius annus
Post novies denos ingrederetur iter:
Annus proh! nimium tristis, quo victa furore
Cervicem regi Gallica gens secuit.
Ex quo per terras omnes teterrima clades
Irruit, ac furias ponere nescit adhuc.
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Hei mihi quot scelera et rerum discrimina, vidi!
Quantaque ni moriar, forte videnda manenti (8).
A casa il Pasquali ricevette un'educazione cristiana dalla madre, donna
molto religiosa.
Sembra che abbia frequentato solo la scuola di Grammatica, dove
insegnava il canonico don Giuseppe Maria Ottaviani, che egli ritroverà al
Seminario di Ancona. Potrebbe aver avuto come insegnante anche il
canonico Giuseppe Scarafoni, autore di due famose memorie storiche del
paese (9).
Per le sue doti intellettuali e morali, il Pasquali fu inviato dallo zio
Francesco Saverio Marinelli al Seminario di Ancona (10). Qui rimase per
cinque anni. L'ambiente culturale del Seminario risentiva dell'impronta di
alcuni umanisti, che gli trasfusero l'amore per le lettere italiane, latine e
greche.
Nel 1810 il Pasquali iniziò a frequentare il Seminario di Osimo.
Maestro di eloquenza al Pasquali fu Piero Quatrini, discepolo di Pellegrino
Roni e suo successore (11). Per le varie parti della Filosofia, ebbe per
insegnante il padre Nardi, frate conventuale. Nel 1811, dopo appena un anno
di permanenza nel Seminario, il poeta venne iscritto nell'Accademia dei
Risorgenti (12). Di questi anni rimangono numerose composizioni poetiche,
sia in italiano sia in latino, soprattutto sonetti. Si tratta di esercizi in rima,
scritti per le occasioni più diverse, come ad esempio per il carnevale, per
una monacazione, ecc.
Il Pasquali studiò nel Seminario osimano Lettere e Filosofia fra il
1810 ed il 1814, seguì un anno di Teologia nel 1815 e uscì dal Seminario
stesso nel 1816, deponendo l'abito di seminarista.
Tornato nel suo paese, vi restò per poco tempo. Nel novembre dello
stesso 1816 (13) iniziò gli studi universitari a Macerata, dove conseguì la
laurea «in utroque jure», sostenendone gli esami a pieni voti il 19 agosto
1818.
Al periodo maceratese è ascrivibile inoltre la composizione in
esametri latini, un poemetto in tre libri, sulla vergine S.Teodora, donato al
cardinale Bartolomeo Pacca (14). Il 16 luglio 1817 il prelato si congratulava
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in una lettera con l’autore, dichiarandosi inoltre a disposizione per aiutarlo a
sostenere gli «ameni Studi cui dalla natura si vede inclinata» (15).
Ottenuta la laurea, si presentavano due prospettive possibili al
Pasquali: o esercitare la professione forense, per la quale comunque non era
tagliato, dato «l'animo suo tenero, benigno, compassionevole, e in un
religiosamente devoto alla giustizia»; oppure insegnare eloquenza, come
avrebbe voluto, ma per questo lavoro era troppo «debole e gracile».
Si dovette quindi adattare ad un lavoro di impiegato che molto
faticosamente trovò a Roma, come minutante nella segreteria del
Camerlengato (16).
La residenza nella capitale data almeno dal novembre 1818. A Roma
condusse una vita regolata di impiegato molto scrupoloso, tanto da
inimicarsi i colleghi, invidiosi del suo eccessivo zelo.
Per quanto riguarda gli interessi letterari del Nostro in questo periodo,
il Patrignani ricorda che egli «togliendo il più delle volte il tempo anche ai
ricreamenti più onesti ed ambiti, attendeva con tutto l'animo a compor versi
latini», che piacevano agli eruditi e lusingavano vescovi e cardinali (17).
Dal Pasquali stesso sappiamo che in quel periodo tradusse le
«anacreontiche» del Vittorelli, che conosceva a memoria, «nel tempo che
una sera la pioggia mi trattenne lungamente in un caffè» (18). Non frequentò
accademie poetiche: «nei dodici anni che ho dimorato in Roma, non solo
non ho avuto amicizia ma neppur conoscenza, con alcuno di quei tanti
Arcadi e Tiberini». Impartiva anche lezioni di lingua latina ai giovani.
Del soggiorno romano, che si protrasse fino al 1830, restano solo
sedici lettere del 1819 ed una del 1829, tutte indirizzate allo zio don
Marinelli (19). Esse costituiscono una testimonianza molto toccante e viva
di quel difficoltoso periodo.
Al 1828 data la prima pubblicazione del Pasquali. Si tratta del I libro
delle Institutiones juris civilis a Josepho Paschalio Marinellio versibus
expositae, impresso a Roma. Nell'occhiello figurano alcuni versi di Orazio:
«Fuit haec sapientia quondam ... Oppida moliri, leges incidere ligno: / Sic
honor, et nomen divinis vatibus atque / Carminibus venit». In quest'edizione
l'opera non contiene riferimenti né alla realtà del tempo né a personaggi
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contemporanei, come invece si verificherà nella ristampa anconitana in
quattro libri del 1835.
Attorno al 1830 (20) il Pasquali scelse di ritirarsi dal lavoro e di
rientrare al suo paese. Nei primi mesi di quell'anno egli, tra l'altro, aveva
chiesto ed ottenuto dal Pontefice «la licenza di leggere i libri proibiti»,
«bramando far maggiori progressi nelle Scienze» (21).
Ricordando in seguito la decisione di lasciare Roma, scriverà,
riferendosi a Dio: «Qui me Romulea voluit discedere ab urbe / Ac vitam
pago ducere in exiguo» (22). Due sembrano essere stati i motivi principali
che lo indussero a tale passo: il disagio nel lavoro e le sue condizioni di
salute (23).
In seguito, il Nostro passerà il resto della sua vita nell'orizzonte
cameranese, non risultando che lo abbia mai più superato, se non tenendosi
epistolarmente in contatto perlopiù con persone della sua provincia:
«tenuemque coegit vitam agere, abjunctum populis, ac paene sepultum»
(24).
Dallo stesso 1831 data la partecipazione del Pasquali alla vita
amministrativa del Comune di Camerano, la quale si protrarrà fino al 1863,
ricoprendo quindi circa trentatre anni (25). Di questa attività non si conserva
gran traccia nell'epistolario né nei carmi, mentre se ne dà cenno da parte dei
biografi.
Nel 1833 il Pasquali rifiutò una cattedra di eloquenza nel seminario di
Ascoli. A detta del Massaria ciò si dovette a causa della salute (26).
Nello stesso anno egli parla (27) di un lavoro che definisce «mio», per
il quale chiede allo zio i tomi del Vermiglioli, professore di diritto
all'Università di Perugia. Si tratta infatti degli «Elementi ossiano Istituzioni
Civili di Giustiniano imperatore» (28).
Quel che è certo è quindi il fatto che egli non cessò di coltivare gli
studi, iniziati a Macerata, e gli interessi giuridici, protratti anche a Roma
seppur privatamente e con la pubblicazione del primo libro delle
«Institutiones». La sua biblioteca inoltre contiene diversi testi di Diritto
Civile e Canonico (29).
Infatti, nel 1835, escono di nuovo, ad Ancona, «ex officina
Sartoriana»(30), le Institutiones / Juris Civilis / a / J. Paschalio Marinellio /
22
Versibus Expositae, questa volta in quattro libri, naturalmente «Permissu
Praesidum». Sul frontespizio del volume figurano gli stessi versi di Orazio,
già posti nell'occhiello dell'edizione romana. Il Gianuizzi ricopiò
un'«Additio», lasciata inedita dal Pasquali, di 249 versi da inserire tra il v.
850 ed il v. 851 del libro III. Lo stesso inoltre lasciò copia manoscritta di
«XXII Juris quaestiones».
Le sue opinioni politiche diventano esplicite alla fine del poema (31):
trattando del delitto di lesa maestà («crimen lesae majestatis»), il Pasquali
ricorda con parole di fuoco due esempi dei suoi tempi: la rivoluzione
francese della fine del Settecento e le rivolte del 1831 nelle terre pontificie
dell'Italia Centrale.
Per quanto riguarda i fatti francesi così si esprime:
Vidimus, (horret adhuc, tantosque revolvere casus
Mens refugit perculsa malis), immane furentem
Vidimus hanc pestem Gallorum involvere fìnes
Caedibus, horrandaque plagas vastare ruina.
Vidimus, (heu facinus, quod nulla aboleverit aetas!)
Cui pius in populos animus, cui pectore virtus
Plurima, criminibus cooperti more latronis,
Augustum Regis caput abtruncare securi;
Dum tremeret tellus sacro madefacta cruore;
Ac sol, obscura nuptus ferrugine vultus,
Indociles properaret equos immergere ponto;
Pontus et ipse fretis fremeret (32).
Il poeta prosegue poi con l'esaltazione della figura del nuovo
pontefice, Gregorio XVI, eletto nel 1831, e con un accenno alle rivolte
antipapali in Emilia, Marche ed Umbria (1831-32), eventi disapprovati da
Dio che ha mandato una «dira lues», mentre «terrisque ruunt trepidantibus
urbes» (33), spiegati in nota come «Cholera-morbus (34) ac terraemotus
Umbriae».
Infine si formula l'auspicio che le preghiere del papa
Reges ac populos aeterno foedere jungant,
Incipiatque novus saeclis venientibus ordo (35).
23
Sull'opera restano diversi giudizi, espressi da vari personaggi, letterati,
giureconsulti, religiosi.
Dal Morici, estensore della biografia latina del Pasquali, così
leggiamo:
opus edidit, cui titulus Institutiones juris civilis: in quo mirum quanta facilitate
quantaque elegantia, quamvis in re tam arida et poeticis ornamentis minime accomodata,
materiem exornaverit, ita ut nonnullae operis partes etiam juris imperitos magna cum
voluptate detinere possint (36).
Dopo le Institutiones Juris Civilis, il Pasquali affronta la traduzione
latina in poesia di numerosi libri della Bibbia (37), se non di tutta, stando a
quanto afferma lui stesso (38). Probabilmente egli basò il suo lavoro sul
testo della Vulgata, come risulta provato solo per quanto riguarda la
versione dei profeti maggiori e dei salmi (39).
Questi lavori usciranno in due tempi: una prima fase va dal 1841 al
1857 e comprende: Job et Moysis cantica (1841), Job Apocalypsis et Moysis
cantica (1846), Prophetae I (1856) e Prophetae II (1857). Nello stesso anno
uscì il De Sacramentis, che interrompe la pubblicazione delle versioni
bibliche. Quindi si ha la seconda fase con il Liber psalmorum (1864) ed il
Messias (1866).
Nel 1846 il Giobbe venne ristampato in Job Apocalypsis / et / Moysis
Cantica / a / Josepho Paschalio Marinellio / versibus expressa, ad Ancona,
«per Sartorium Cherubinium» (40).
Le differenze tra le due versioni del Giobbe non risiedono solamente
nell'aumento di complessivi 17 versi, passando dalla prima alla seconda, ma
anche in numerose limature, di maggiore o minore entità, che l'autore
apportò, segno del suo costante interessamento al proprio lavoro. Non
trascurabile si pose la collaborazione di Luigi Barili, il quale, tra il 1843 ed
il 1845, inviò al Nostro una fitta rete di osservazioni e controosservazioni,
«specialmente di quelle che riguardano l'intelligenza del testo», testimoniate
da numerose lettere (41).
La tecnica usata nel lavoro delle correzioni prevede diversi scambi:
anzitutto il Pasquali passa la sua minuta (cioè una parte di un'opera) al
primo correttore; ne riceve quindi le osservazioni; risponde a ciascuna di
24
esse; quindi invia le rispettive correzioni e si attende ancora un giudizio
sulle stesse (42). Tutte queste operazioni vengono poi ripetute con gli altri
correttori. Data la complessità dei passaggi, a volte il poeta è costretto ad
intervenire e modificare lo svolgimento dei medesimi, quando ad esempio si
verificano ritardi da parte di qualche correttore.
Contemporaneamente alla versione dei profeti minori (43), il Pasquali
si occupa dei maggiori.
Nonostante l'ammirazione per i sacri testi, il Nostro si lascia sfuggire
una non lieve considerazione riguardo alla lingua della Vulgata, definendola
un «grossolano latino» (44), perlomeno in riferimento alle «Lamentazioni di
Geremia».
La versione dei Profeti uscì in due tomi, ognuno di due fascicoli,
rispettivamente nel 1856 e nel 1857.
Il totale dei versi dei profeti maggiori ascende a 13.985 (dei quali
8.794 nel I tomo e 5.191 nel II); quello dei minori è di 3.007 versi. Il totale
complessivo ammonta a 16.992 vv.
Secondo i primi biografi (45), fu l'amore per la religione ad indurre il
Pasquali a tradurre i libri biblici. Senza dubbio esso costituì una componente
importante, ma solamente una componente. Bisogna infatti tener conto del
tipo misto di produzione letteraria pasqualiana, sacra, ma anche profana, e,
alla luce di ciò, tener presente sia l'educazione umanistica assorbita dal
Nostro, sia appunto l'entità delle maggiori traduzioni (Iliade, Odissea e
Divina Commedia). Tutto ciò considerando, sembra di poter dedurre che
l'amore della religione si accompagnò parimenti in lui all'amore per il verso
latino (46).
Nel 1857 si verificarono principalmente tre avvenimenti: nel febbraio
al Nostro morì l'amatissima moglie. Egli quindi pubblicò il secondo tomo
dei Prophetae; infine con l'imprimatur di novembre-dicembre uscì il De
Sacramentis, dove si trova traccia dell'avvenimento luttuoso (47). Trattando
del «Connubium», il Pasquali rievocò la scomparsa della moglie, rifacendosi
alla scena virgiliana di Enea che, disperato, cerca e invoca la moglie Creusa
(48). I versi sono i seguenti:
Et tu, cara, mihi vivis, penitusque medullis
Fixa haeres, Helene, quamvis et prona senectae,
25
Et mihi rapta seni: te te mens saucia luctu
Nocte dieque vocat; te per loca nota, per aedem
Perque vias, quacumque feram vestigia, quaero,
Ingeminans Helene Helene: loca cuncta resultant.
Esto mei, dilecta, memor; memor, optima conjux,
Esto mei, cujus tantus, dum vita manebat,
Te devinxit amor; quem tot tantisque fovebas
Assiduis curis. Ora, dulcique precare
Voce Deum, ut luctum, quo me tuus angit acerbus
Interitus, relevet... Quid dixi? Tristis amaror
Saeviat usque magis, donec coelestia tecum
Regna adeam, aeternumque Deo et tibi jungar in aevum (49).
Il 7 novembre 1857, con il De Sacramentis sotto il torchio, scrivendo
a don Marino Marinelli, il Pasquali risponde agli ultimissimi suggerimenti
che costui gli aveva inviato (50). Il poema dovette quindi uscire a dicembre.
Il totale dei versi ammonta a 1934. Esiste, senza datazione, un estratto del
poemetto, prodotto da Cesare Gariboldi. Contiene comunque molte varianti
rispetto al De Sacramentis (51).
Tra il 1860 ed il 1864 il Pasquali manda in revisione a don Marinelli
non solo i Salmi, ma anche i due poemi omerici, Iliade e Odissea, sui quali
stava lavorando almeno dal 1848. Ciò che differenzia a prima vista la
pubblicazione dalle precedenti, è una lieve, ma maggiore cura tipografica.
Nel messaggio al lettore, il Pasquali dichiara il suo lavoro non degno
dell'originale, il quale, essendo un «opus lyricum», dovrebbe tradursi non in
esametri, ma in versi lirici.
Il discorso sull'attinenza dell'esametro al testo biblico, è ripreso tra gli
altri da Michelangelo Lanci, orientalista di Fano (52). Vale la pena di
ascoltare le parole stesse del Lanci:
... ho letto i salmi più rilevanti, e mi è spiaciuto trovarli inferiori a quelli del
Buchananne, del Guerrier, del Tossi e del Laché, i quali io posseggo. Il verso esametro, da
voi scelto, nullamente si presta alla lirica bisogna; e ponno esametri soltanto usarsi,
com'altri fece, in alcuni salmi storici e precatorii, non mai in tutti. Di che viene una
intollerabile fiacchezza ne' grandi concetti salmidici, che i leggitori disgusta sì, che il libro
abbandonano (53).
26
Ben diversamente si esprimerà, due anni dopo, il Lanci a proposito del
Messias (54).
Anche il biografo latino si sofferma sulla questione dell'attinenza
dell'esametro:
Quin etiam interdum nimium pedestri musa procedit, maximeque in psalmorum
interpretatione, qui potius vel horationis numeris vel elegiaco carmine vertendi erant; quod
et ipse auctor operis sensit. Sed cum perspicuitati inservire fidumque se esse interpretem
prae ceteris cuperet, arctioris metri compede constringi noluit (55).
A metà settembre 1865, un anno dopo la pubblicazione del Liber
psalmorum, la Messiade è già composta (56).
Nel corso del 1866 uscì la Messias ad Ancona, presso un diverso
tipografo, «olim Baluffi», che stamperà ormai le restanti opere del Nostro
(57). Sul retrofrontespizio figura un'invocazione a Cristo, elevata proprio
quando si vorrebbe negare la sua natura divina (58). La polemica del
Pasquali è rivolta esplicitamente alla Vie de Jésus di Joseph-Ernest Renan,
citato in nota nella stessa pagina, famosa opera uscita nel 1863 e tradotta
l'anno stesso in Italia (59). Scrisse il Massaria:
imperocché egli imprese a scrivere questo poema per isbugiardare l'empio Renan.
Ciò si apprende dai versi che gli servono di prefazione; ma io l'appresi dalla bocca sua ogni
ragione per cui volle scriverlo così (60).
Nel carme CXIV il Nostro si rivolge a Pio IX, lamentandosi con lui
della sua epoca «furens» che ha distrutto «quidquid adhuc fuerat sanctum et
venerabile». Passa quindi a difendere la lingua latina, come elemento di
coagulo tra i popoli cristiani, citando anche il Vida. Ritiene che il suo poema
sia inviso «quod latium, et Christum quod canit esse Deum». Infine dedica
la Messias a Pio IX.
Il primo accenno alle «Omeriche Versioni» si ha in una lettera del
1848 (61), con la quale il Pasquali informa il Marinelli di avere intrapreso
«da qualche tempo» la versione latina dell'Iliade (62) e propone di
mandargli in revisione un libro dopo l'altro. Lo blandisce, quindi,
aggiungendo: «Inveni dilectum meum: tenebo eum et non dimittam».
27
L'invio dei primi due libri del poema dovrebbe essere poi avvenuto
contestualmente all'invio della versione del Cunich (63) «acciò Ella possa
fare della mia con questa il confronto», siccome «dal paragone si conosce
meglio la qualità di una cosa». L'idea di tradurre i poemi omerici provenne
al Pasquali da una visione, come egli stesso narrò. Le apparve in sogno una
Musa Meonide che spronò proprio lui, cultore della lingua latina «inimica
aetate», a tradurre i due poemi. Infatti le versioni del Cunich e dello
Zamagna
laxas pulsat uterque fides:
Saepe inconcinne resonant, ac denique vertit
Insapidis undis nobile uterque merum.
Quindi la Musa lo incita ancora:
Aude, tende chelyn, nostras trahe carmine vires,
Neve sit uberior copia neu brevior.
Tutto ciò comporterà un gran guadagno al Nostro:
Sic eris interpres fidus, cui maxima laus est / Vim simul et sensum reddere prototypi
(64).
La posizione di polemica nei confronti del lavoro del Cunich viene
ripresa ampiamente in tutta la «Prolusio» all'Iliade, per un centinaio di versi,
che si concludono in questo modo:
Nam, quo Cunichii nonnumquam Musa renidet,
Hoc mea perpetuo splenderet praedita cultu.
Atque utinam, quem Cunichius desiderat ipse,
Ille ego sim vates, qui vim transfuderit omnem
Iliadis, magnique tubam exaequarit Homeri» (65).
L'esortazione della visione ebbe effetto immediato sul Pasquali:
Dixit; Pieriusque mihi praecordia fervor
28
Induit, et jussum sum meditatus opus.
Sembra che la traduzione dei poemi omerici venisse condotta dal
Pasquali sulla base di una «versione letterale latina» (66). Quando questa si
rivelava insufficiente, il Nostro chiedeva lumi al Marinelli che possedeva il
testo omerico greco. Il Morici afferma inoltre che il Nostro conosceva
«minime» la lingua greca (67). Ma questa tesi potrebbe essere invalidata se
si intende alla lettera quanto afferma lo stesso Pasquali in un carme:
«Versibus ex Grajis (...) In Latios versam mittimus Iliaden» (68) e ribadisce
ancora: «graeco de carmine versam / In carmen latium scilicet Iliaden» (69),
anche se l'attributo 'greco' può essere riferito all'origine del poema, e non
alla lingua in cui è composto.
Col titolo cunichiano Homeri Ilias latinis versibus auctore Josepho
Paschalio-Marinellio il poema usciva nel 1869 (70) ad Ancona. Prima
dell'ottobre fu pubblicata la Homeri Odyssea latinis versibus auctore
Josepho Paschalio-Marinellio, ad Ancona, sempre presso i successori del
Baluffi. Il Pasquali parlò delle versioni dei poemi omerici in venti carmi
(71), dei quali sei trattano delle due opere insieme, sette della sola Iliade e
gli altri della sola Odissea.
Dal 1871 troviamo un nuovo destinatario del carteggio pasqualiano,
Pietro Gianuizzi (72), che accompagnerà il Nostro fino ai giorni estremi,
occupando il posto che fu già, per almeno vent'anni (dal 1851 al 1870) di
don Marino Marinelli e, prima ancora, dello zio Francesco Marinelli (dal
1817 al 1833).
Il Gianuizzi prenderà parte attiva, in particolare, alla revisione della
versione della Divina Commedia, tra il 1871 ed il 1874. Conforterà gli
ultimi giorni del Pasquali e si farà promotore in occasione del primo
anniversario della sua morte.
Il fitto carteggio che intercorre fra il Nostro e Pietro Gianuizzi, del
quale restano una trentina di lettere datate fra il 1871 ed il 1875 (73), nonché
otto carmi (74), permette di seguire il lavoro della traduzione della
Commedia, dalla nascita stessa dell'idea di compierla fino alla revisione, alla
realizzazione tipografica ed oltre.
Il Pasquali ricorda che, «Praeteritis annis» (75), parlando con un suo
amico, che allora si trovava a Roma per motivo di studio ed ora (nel 1874)
29
era ormai divenuto «Pater» (76), sull'opportunità di scrivere «latinis
carminibus» in quel tempo, si disse che era stata iniziata a tradurre anche la
Commedia di Dante. Perché non portarla avanti? Il proposito, sul momento,
decadde. Ritornò invece a galla nel 1871, all'età quindi di 78 anni, quando
gli fu mandata per caso («forte»), dal Gianuizzi, la versione dantesca del
padre D'Aquino (77). Questo lavoro, del quale il Pasquali aveva letto
qualche brano quando studiava al «Campana» di Osimo, ma di cui si era
dimenticato, non piacque affatto al Nostro:
Obstupui quod tam clarum Pater ille Poëtam
Laeserit, ut nullam redderet effigiem.
Così, «per vedere se si può far peggio di quella del detto Padre», gli
venne «il ticchio» di farne una anche lui, con la fiducia che Dante «clarius
in nostro Carmine posse legi». A questo proposito il Gianuizzi sottolinea
inoltre lo spirito di «patriottismo» che animò il Nostro nel compimento di
tale impresa. Quindi questa fu l'occasione prossima che dette l'avvio alla
versione. Accorgendosi della sua stranezza, lo stesso Pasquali, rivolgendosi
«ad Lectorem», lo invita a non ridere:
Ne nasum crispes, et laxes ora cachinnis
Huius causam operis te didicisse, vale (78).
A metà del giugno 1872 la versione è terminata, compiuta in otto mesi
e mezzo, diversamente dai sei mesi all'inizio preventivati. Ma il lavoro
complessivo, comprendente anche lo scambio delle revisioni tra il Pasquali,
il Gianuizzi ed il Marinelli, si protrasse ancora per quasi un altro anno e
mezzo.
Come si è visto, l'idea della versione della Commedia venne
riconfermata al Pasquali dal lavoro del D'Aquino, da lui peraltro criticato
diverse volte. Oltre quanto sopra riportato, il poeta così si espresse nei suoi
confronti: «l'Aquinate non rende mai nella sua schiettezza e semplicità il
concetto dantesco (schiettezza e semplicità che sono i primi pregi di tanto
autore); ma, o lascia, o diminuisce, o ingrandisce smisuratamente (ch'è il
primario vezzo di lui)» (79).
30
Un'altra versione criticata dal Nostro è quella del Della Piazza (80).
Avuta notizia negativa di essa, si chiede perché, essendo anche peggiore di
quella del D'Aquino, sia stata fatta ristampare (81). Quando il Gianuizzi
gliela procura, e ciò avviene alla fine del lavoro della traduzione, la giudica
«di buona latinità, ma parmi debole e fredda» (82). Inoltre non riesce a
produrre nel lettore lo stesso effetto dell'originale.
È un fatto, comunque, che, traducendo, il Pasquali tiene sott'occhio
entrambe le versioni, confrontando la sua con esse, come afferma in diverse
lettere, in ciò consigliato anche dal Gianuizzi (83), che tra l'altro revisionando il lavoro del Nostro - si comporta nello stesso modo.
Si conoscono poi due commenti della Commedia usati dal Pasquali
durante il lavoro della traduzione: il Benassuti (84), detto anche Benassunti
e definito dal Nostro «onnisciente» e il Venturi (85), entrambi ecclesiastici,
il secondo gesuita.
Il Morici si esprime invece originalmente in questi termini:
Cum tot labores vellet insigni fastigio cumulare, senio prope confectus, mira
alacritate ad Alligherii Comoediam vertendam animum adiunxit: hoc unum metuens, ne
imminens leti vis extremum sibi laborem intercideret. Quem frustra eum suscepisse nemo
putabit, qui animadverterit omnes humaniores gentes, potissimum vero Germanos, qui non
unam et alteram, sed plus quam viginti tanti operis versiones enumerent, in Dantis
Comoedia transferenda certavisse. Quod autem ad iudicium attinet de marinelliana versione
hoc praesertim animadvertendum videtur: plerique loci, in quibus reddendis latini sermonis
ingenium satis aptum interpreti occurrat, multa elegantia multaque facilitate a Marinellio
versi sunt: nonnulla etiam abdita penitusque abstrusa poëticis luminibus feliciter illustrata
artem et scientiam interpretis testantur. Non autem negaveris saepe verborum et
sententiarum aciem vividioresque imagines, quibus summus ille poëta primus usus est,
nostrum dum nimium perspicuitati studet, verbis e medio desumptis vulgatioribusque
sententiis obtundere. Interdum etiam cum arctius duci haereat et ne gressum quidem ab
illius vestigiis arceri patiatur, serpit humi aut perspicuitatem omnino amittit (86).
Alla pubblicazione della Commedia seguì solo il tentativo di farne una
seconda edizione. Ma il 9 luglio 1875 il poeta cessò di vivere.
31
Elenco delle abbreviazioni usate nelle note
ATT = «Attestati degli studi fatti dal Sig. Giuseppe Pasquali Marinelli rilasciatigli dai Maestri e Professori»
B = Opera citata nella Bibliografia (v.), seguita dal numero dell'opera stessa
CAS = De pugna ad Castrumfìcardum
CRA = Cassa Rurale ed Artigiana «S. Giuseppe» di Camerano
D = Documenti vari (seguiti dal n. d'ordine)
DIV = Divina Comoedia
ELI = Elenco delle opere del Pasquali compilato dal Gianuizzi e contenente
anche il numero dei versi
EL2 = Elenco come ELI, ma senza numero dei versi
ELE = Prima parte del volume manoscritto Carmina inedita, seguito dal
numero romano del carme
EPI = Epistolario, seguito dalla nostra numerazione e dalla data
FPM = Fondo «Pasquali Marinelli» presso Biblioteca Comunale di
Camerano
GIU = «Giudizi estratti dalle lettere di ragguardevoli persone scritte intorno
le opere del Sig. Giuseppe Pasquali Marinelli»
ILI = Ilias
INS1 = Institutiones Jurìs Civilis (1828)
INS = Institutiones Juris Civilis (1835)
MES = Messias
NOM = De pugna ad Nomentum
ODY= Odyssea
PR1 = Prophetae t. I
PR2 = Prophetae t. II
PSA = Liber Psalmorum
ROM = Romanorum Pontificum Series
SAC = De Sacramentis
SEP = De Sepulcris
32
Note
1)
Come noto, il Pasquali aggiungerà il cognome della madre al suo. La prima
attestazione di tale comportamento si ha in una lettera che gli indirizzò il cardinale Pacca
nel 1817 (EPI, j2). I due cognomi si ritrovano ancora nel 1818 (in D6 del 18 agosto),
mentre non figurano nelle lettere indirizzate allo zio don Marinelli, datate 1819. In seguito
il poeta verrà addirittura chiamato solo col cognome Marinelli. Ciò si spiega forse con la
notorietà dello zio.
2)
Cfr. Renatorum 1742-80, v. II, p. 260 presso Archivio Parrocchiale di Montelupone.
Gli altri suoi nomi erano Giuseppe, Vincenzo, Modesto e Antonio.
3)
Cfr. Liber Baptizatorum ab Anno 1761 ad Annum 1796, sub data 20 gennaio 1766,
presso Archivio parrocchiale Camerano.
4)
Cfr. ELE, I, Auctoris Genealogia, vv. 1-6.
5)
Ibid., v. 19 s.
6)
Cfr. ELE, I, Auctoris genealogia, v. 5 s. («Hic Magdalenam genuit quae lucis in
auras / Me dedit, ac fratres quinque mihi peperit»). In B2, p. 5 si afferma invece che
Giuseppe ebbe tre fratelli. Uno di essi è comunque Vincenzo (1804-16/9/1885), marito di
Anna Maggi, con il quale il Nostro convivrà dopo la morte della moglie.
7)
Così risulta dall'atto di battesimo (nel volume Battesimi 1761-1796, giacente presso
l'Archivio parrocchiale di Camerario), dal quale sono state tratte anche le notizie che
seguono, e che così si esprime: «Anno Domini Millesimo septingentesimo nonagesimo
tertio die vigesima prima Aprilis Rev. D: Franciscus Marinelli Parocus Auximi ex licentia
baptizavit infantem die 20 hora 9 natum ex Vito fil: qu: Saveri Pasquali et ex Magdalena
fil: Angeli Marinelli conjugio: hujus Parochiae cui imposita sunt nomina: Joseph, Rafael,
Xaverius, Michael. Patrini fuerunt Jacob fil: q: Hyeronimi Angelini Physicus et Anna M:
fil: Joannis Alexandrelli ex hac cura».
Errano quindi Bl e B3 indicando il giorno 21 come data della sua nascita. Lo stesso
Pasquali parla stranamente di 21 («Vitam inii, mense Aprilis, ver molle ferentis / Cum post
bisdenam fulgeret una dies») in ELE, I, versi aggiunti dopo il v. 24.
Il Morici (in B4) parla addirittura di «XVIII Kal. maias», cioè il 14 aprile.
8)
ELE, I, vv. 21-28.
9)
Giuseppe Scarafoni (1768-1835), primo storico di Camerano. Restano di lui una
Istoria Patria e un Estratto di Memorie sulla Terra di Camerano per ciò che riguarda la
Diocesi e la Chiesa Anconitana (1821), entrambi pubblicati postumi in Camerano nei
secoli, a cura di F. TOCCACELI, Ancona 1983. Nel 1864 il Petrelli dichiara di possederne
una copia autografa (v. EPI, jl04 dell'11 maggio 1864). In una richiesta di miglioramento
economico, lo Scarafoni nel 1828 dichiarava più di trenta anni di servizio nelle scuole
pubbliche, per cui doveva insegnare negli anni 1799 e 1800, quando frequentava il
Pasquali, ammesso che insegnasse a Camerano.
10)
Cfr. B1, p. 5; B2, p. 9; B3, p. 8; B4, p. 5; B5, p. 7.
33
11)
II Quatrini era nativo di Montetorto (Osimo, 1747), e insegnò per molti anni al
Campana, avendo come allievi anche due papi. Di lui scrissero il Monti e Pietro Verri. Fu
autore di poesie e poemetti satirici.
12)
Cfr. EPI, 72 (9 gennaio 1872): «Io non sono ascritto che all'Accademia dei
Risorgenti nel Collegio di Osimo, nella quale mi posero quando era ivi alunno». Cfr. anche
l'attestazione n. 2 del Benvenuti in ATT.
L'Accademia dei Risorgenti venne fondata nel 1760 dall'allora rettore del
Campana, can. Stefano Bellini, per far rivivere l'antica Accademia dei Sorgenti. Era
un'istituzione a carattere letterario. Fu ricostituita nel 1843 dal card. Giovanni Soglia e
ancora nel 1924 con il nome di Nuova Accademia dei Risorgenti, ma rimase sulla carta.
13)
Cfr. B2, p. 15. Vedi anche la lettera allo zio datata da Macerata, 19 Giugno 1817,
dove si parla di spese iniziate nel novembre precedente. Allo stesso mese risale un
certificato rilasciato dal parroco di Camerano, attestante gli «ottimi costumi» del Pasquali
ed il compimento degli studi «nei Collegi di Ancona e di Osimo» (D5 del giugno 1817).
14)
Cfr. l'unica attestazione in B2, p. 17. Tra il 1814 ed il 1815 Bartolomeo Pacca
(Benevento, 25/12/1756 - Roma, 19/4/1844), di nobile famiglia, entrato nella Prelatura
romana, nel 1785 fu nominato da Pio VI arcivescovo titolare di Damiata e nunzio a
Colonia. Successivamente fu nunzio a Lisbona, ove ricevette la berretta cardinalizia nel
1795 col titolo di S. Sivestro in capite. Entrati i Francesi a Roma nel 1808-9 ricoprì la
carica di prosegretario di Stato, che tenne ancora nel 1814-15 in assenza del Consalvi,
impegnato al congresso di Vienna, iniziando una politica di vigorosa reazione. Al ritorno
del Consalvi, restò uno dei cardinali più influenti, partecipando tra l'altro alla riforma degli
studi universitari nello Stato della Chiesa. Il 26 settembre 1814 era nominato camerlengo.
Nel 1829 divenne decano del S. Collegio, vescovo di Ostia e Velletri. Scrisse delle
importanti Memorie storiche delle sue nunziature di Germania e del Portogallo e dei suoi
due ministeri in cui ricoprì l'ufficio di prosegretario di Stato. Ora il Pasquali si rivolse a lui,
che era sì coltissimo, ma non poeta, non si sa bene se per la rilevanza del personaggio, o per
l'impegno del Pacca nella riforma dell'Università, o perché fosse una conoscenza dello zio
don Marinelli. Presso questo cardinale il Pasquali lavorerà nel periodo romano. Nel FPM
esistono le Notizie per l'anno M.D.CCC.XXV dedicate al Pacca; in quell'anno figura
camerlengo il cardinale Pier Francesco Galleffi.
15)
EPI, j2 (16 luglio 1817).
16)
Cfr. Bl, p. 7; B2, p. 17; B3, p. 14; B4, p. 5; B5, p. 8. Il Camerlengo, sempre
cardinale dopo il sec. XV, è una delle più alte dignità nella gerarchia ecclesiastica. La sua
attribuzione maggiore è di detenere l'amministrazione delle finanze dello Stato della
Chiesa. Presiede la Camera apostolica.
17)
B3, p. 14.
18)
EPI, 107 (16 febbraio 1874).
19)
Cfr. EPI, dal 2 al 18.
34
20)
II GIANUIZZI (Bl, p. 7), il MASSARIA (B2, p. 17), il PATRIGNANI (B3, p. 22)
ed il MORICI (B4, p. 5) parlano di dodici anni di permanenza a Roma. L'unico che indica
l'età del Pasquali al suo ritorno è B4: «septimum et tricesimum aetatis annum agens».
21)
EPI, j9 (s.d.), dove è anche contenuta la licenza datata «21 Maii 1830».
22)
ELE, VI.
23)
Cfr. B2, p. 19.
24)
ELE, XVI, Ad Em.um Carolum Aloisium Morichinium Aesinatium Episcopum.
25)
Dagli atti consiliari del Comune di Camerano si rileva che nel 1831 il padre del
Pasquali, Vito, risulta consigliere aggiunto dal gennaio al settembre, quando viene
nominato consigliere Giuseppe (20 settembre), che così inizia il suo lavoro di
amministratore. Il 3 dicembre è priore. Per tutto il 1832 il Pasquali risulta priore e fino al
giugno del 1833. Poi ancora dall'ottobre al gennaio 1834, con una breve vacanza. È ancora
priore alla fine di febbraio, poi consigliere anziano fino a tutto il 1835. Ritorna priore tra il
febbraio ed il maggio 1836, quindi tra il settembre ed il febbraio 1837. Riprende la carica
dal giugno fino al gennaio 1838. Dal marzo 1838 a tutto il 1839 è consigliere anziano.
Ritorna priore per tutto il 1840 ed il 1841, il 1844, il 1845, il 1846, il 1847 (con vacanza ad
ottobre). Dal settembre 1849 (dopo la costituzione della Repubblica Romana) al maggio
1851 è presidente della Commissione Provvisoria Amministrativa. Ritorna priore dal
novembre 1851 al 1853 (con vacanza nel gennaio 1852). Per il periodo 1853-1857 sono
andati smarriti i verbali consiliari. Quindi il Pasquali è priore dal dicembre 1858 all'agosto
del 1860, data in cui cessano gli atti consultabili presso l'archivio comunale, i quali
riprendono nel 1861: il 16 maggio viene eletto consigliere e membro della Giunta, ma
figurerà assente in metà delle sedute del 1861, in tutte quelle del 1862 e del 1863. Il 21
maggio di quest'anno viene partecipata al Consiglio la sua rinuncia («come al foglio della
R.a Prefettura n. 6795/15.03 D.l.a in data 13 maggio»). Dal 4 ottobre 1863 negli atti non
figura nemmeno assente.
26)
Cfr. B2, p. 16.
27)
Cfr. EPI, 20 (4 agosto 1833).
28)
L'opera, in tre volumi, pubblicata a Perugia nel 1826, figura nel FPM, dove si
trovano anche le Pandette di Giustiniano riordinate da R.G. Pothier, Venezia 1834, e i
quattro libri delle Imperatoris Justiniani Institutionum, Padova 1760.
29)
Delle opere giuridiche vanno citate almeno le seguenti: Aloysii Sparapani J.C. et in
Camerinensi Accademia antecessoris Elementa Juris Civilis (Camerino 1782); Antonii
Perezii JC. (...) Juris Civilis Antecessoris, Institutiones imperiales... (Venezia 1741);
Titulorum omnium juris tam civilis quam canonici expositiones, Sebastiano Brant, I.V.D.
celeberrimo auctore (Venezia 1564); Flores legum cum suis exceptionibus, &
Declarationibus Ex variis legibus, Glossis, & Doctoribus Collectis, Ab Admodum
Reuerend. D. Thoma de Thomasettis (Venezia 1703).
Di Johann Gottlieb HEINECKE, latinizzato in Heineccius, il FPM conserva tre opere:
Antiquitatum Romanarum Jurisprudentiam illustrantium Syntagma secundum ordinem
Institutionum Justiniani digestum (Venezia 1744) in due parti; Elementa Juris Civilis
35
secundum ordinem Institutionum (Venezia 1788); Recitationes in elementa juris civilis
secundum ordinem Institutionum (Venezia 1819), in due tomi.
30)
I Sartori erano una famiglia di tipografi velletrani, venuti in varie località
marchigiane nella seconda metà del secolo XVIII. Nel 1773 inizia a lavorare ad Ancona
Michele Arcangelo, che si professa anche incisore e dimostra le sue doti nella qualità delle
sue stampe. Nel secolo successivo l'officina sartoriana continuerà con Alessandro, e la ditta
assumerà anche i nomi dei Violanti e dei Cherubini. Cfr. F.M. GIOCHI - A. MORDENTI, Annali della tipografia in Ancona 1512-1799, Roma 1980, p. LXVII s.
31)
Più tardi, scrivendo al Gianuizzi, citerà questa parte dell'opera: «sul fine uno
sproloquio sulle attuali vicende politiche» (cfr. EPI, 80 (2 giugno 1872)).
32)
INS, 1. IIII, vv. 851-862.
33)
Ibid., v. 880.
34)
All'epidemia, dilagata in Europa ed in Italia, si cominciavano a porre severe misure
ad Ancona nell'ottobre 1835. Quindi, presumibilmente, il poeta si riferisce alla presenza di
essa nella penisola e non nella città marchigiana, dove pur dilagò appieno l'anno seguente,
mietendo 716 vittime su di una popolazione di 25.000 abitanti. Cfr. F. BORIONI, Autunno
dell'anno 1836, Jesi 1837.
35)
INS, 1. IIII, v. 887 s.
36)
B4, p. 6.
37)
Le due Bibbie conservate nel FPM sono: la Biblia sacra in latino, suddivisa in dieci
tomi, divisa in Vetus e Novum Testamentum juxta exemplar Vaticanum, «ad usum Collegii
S.Congregationis De Propaganda Fide» (Roma 1768) e la Bibbia del Martini, bilingue, 17
tomi per il Vecchio Testamento (Firenze 1782-87) e 6 tomi per il Nuovo (ibidem, 1788-92).
38)
«Versa mihi est latiis Biblia tota modis», afferma il Nostro in ELE, I e "Tota mihi
est latiis Biblia versa modis" in ELE, CVIII Ad Eumdem, cioè Ad D. Marinum Marinellium.
39)
Cfr. EPI, 27 (3 aprile 1854) e 126 (s.d.).
40)
V. nota 30. Nel 1834, a Venezia, era uscito, in italiano, Il libro di Giobbe tradotto
da Francesco REZZANO, una copia del quale si trova presso la biblioteca del Seminario di
Osimo. Vi figurano anche altre traduzioni, come I Salmi di Davidde tradotti da varii
(Venezia 1835); Il Cantico dei Cantici di Salomone tradotto da Evasio LEONE (Venezia
1836); Profezie e cantici tratti dalla scrittura tradotti da varii (Venezia 1836); Poesie bibliche tradotte da celebri italiani (Milano 1832-34, 3 voli.).
41)
V. EPI, j20, j20 bis, j23, j25, j26, j27, J29, j30, j31, J33, j34, J37, J40.
42)
Cfr. EPI, 21 (4 ottobre 1848).
43)
Ibid., 25 (9 giugno 1852).
44)
Ibid., 27 (3 aprile 1854).
45)
Cfr. Bl, p. 14 «Né l'amor della Religione apparisce minore di quello verso la Patria
dai lavori poetici del Pasquali»; B3, p. 57 «per unica prova di sacro fedele amore a
Religione incominciò a volgere in artistico ritmo latino i volumi divini».
46)
Dello stesso parere è il Morici, che a tal proposito afferma: «Cum autem ab hoc
Judaeorum scribendi genere, splendore atque audacia exultante, illa veterum graecorum
36
latinorumque poëtarum castitas penitus abhorreat, fieri non potuit quin noster latini
sermonis ac poëseos nitorem obumbraret.» (cfr. B4, p. 6).
47)
B4, p. 5: «Hic Helenam Picottiam uxorem duxit, ex qua nullam suscepit prolem,
quamque sibi fato ereptam, suavissimis versibus, in libello qui de Sacramentis inscribitur,
deflevit».
48)
Cfr. Eneide, II, vv. 736 ss. Soprattutto sono da ricordare i vv. 767-770: «Ausus quin
etiam voces iactare per umbram, / implevi clamore vias, maestusque Creusam / Nequiquam
ingeminans iterumque iterumque vocavi».
49)
SAC, 1. II, vv.657-670.
50)
Cfr. EPI, J84 (5 ottobre 1857) e 30 (7 novembre 1857).
51)
II titolo completo dell'opuscolo è: «Raphaeli Parnanzani / Sacrum primitus Numini
Aeterno / sollemnibus caeremoniis / facienti / Caesar Gariboldi Canonicus / laetitiae
officiique caussa / Carmen / de Eucharistiae sacramento / auctore / Josepho Paschali
Marinelli». Uscì «pei tipi di G. Sartori Cherubini».
52)
Michelangelo Lanci (Fano, 1779 - Roma, 1867). Orientalista, abate. Come il
Nostro, visse nell'ambiente della Roma papale della prima metà del secolo XIX. Fu uno
spirito bizzarro, misto di grande erudizione e di fantasticherie. Pubblicò diversi studi eruditi
e liriche, delle quali esistono due volumi presso il FPM: Inni epico-lirici di Michelangelo
Lanci alla fede speranza e carità (Fano 1856) e Poesie di Michelangelo Lanci da Fano
divise in due parti (Fano 1857). A lui il Pasquali indirizza due carmi (ELE, XXX Ad
clarissimum virum Michaelem Lancium e XXXI Ad Eumdem) di ringraziamento per l'invio
di Davidica italice carmina versa. Inoltre lo ricorda in una lettera del 1874 (cfr. EPI, 111),
chiamandolo «professore di lingue orientali».
Cfr. E. FRANCOLINI, Commemorazione, in «Rivista Marchigiana di Scienze Lettere Arti e
Industrie», a. II, fase. 9, ottobre 1872, pp. 134-5; A. MABELLINI, La biblioteca di
Michelangelo Lanci, in «Studia Picena», vol. VIII (a. 1932), Fano 1932, pp. 57-69. Esiste
anche una biografia del fanese Vincenzo Tommasini.
53)
EPI, jl09 (30 novembre 1864).
54)
Ibid., j119 (1 dicembre 1866).
55)
B4, p. 6.
56)
Le opere più note sul Messia sono il Messias del KLOPSTOCK (edizione definitiva
1781), per il quale vedi più avanti, essendosene occupato il Nostro negli ultimi tempi della
sua vita; Der Messias del teologo tedesco Hugo GRESSMANN (1877-1927), uscito
postumo nel 1929; Messija dello scrittore russo Dimitrij Sergeevic MEREZKOVSKIJ
(1865-1941), uscito nel 1924.
57)
In copertina, come in frontespizio, si ha: Anconae / Ex Officina typ. olim
Baluffi/MDCCCLXVI. Nicola Baluffi, tipografo anconitano (1775-3/XI/1859), parente del
cardinale Gaetano, aveva aperto la sua tipografia nel 1805. Cfr. P. GIANGIACOMI, Guida
spirituale di Ancona, Ancona 1932, p. 85.
58)
«Tempore, quo divina tibi natura negatur, / Et tua figmentis gloria deteritur; / Haec
te, Christe, Deum testantia, carmina fudi, / Atque meam volui sic aperire fidem. / Post
37
decies septem geminus me presserat annus, / Nec tamen incoepti terruit asperitas. / Haec
quae, Christe, tibi cecini modo carmina tetris, / Da, precor, aetheriis sedibus inde canam».
Segue una nota riferita al primo verso: «Quo Ernestus Renan impium de Christi vita
libellum edidit» (MES, p. 2).
59)
Joseph-Ernest Renan (Treguier, 1823 - Parigi, 1892), orientalista. La Vita di Gesù è
la sua opera più nota, stampata moltissime volte e tradotta in tutte le lingue, nonché
confutata da altrettante opere di credenti che lo accusarono di negare la divinità di Cristo ed
i suoi miracoli. Fu posta all'Indice.
60)
B2, p. 33.
61)
EPI, 21 (4 ottobre 1848).
62)
Nel FPM si trova un'Iliade di Omero recata dal testo greco in versi italiani
dall'abate Melchior CESAROTTI (Torino 1816), in tre volumi. È presente anche la
traduzione dell'Iliade dovuta al Monti, «terza edizione ricorretta dal traduttore», Milano
1820, in due volumi.
63)
Raimondo Cunich (Ragusa (Dalmazia), 1719 - Roma, 1794), grecista e latinista,
gesuita, arcade. Insegnò retorica nel Collegio Romano (1768-73). Compose moltissime
orazioni, epigrammi (Epigrammatum libri V, Parma 1803; Epigrammata nunc primum
edita, Ragusa 1897) ed elegie alla maniera di Tibullo e Catullo; tradusse Teocrito e gli
epigrammi dell'Antologia greca (Anthologia, sive Epigrammata anthologiae Graecorum
selecta, Roma 1771). Nel 1776 uscì a Roma la sua traduzione in esametri latini dell'Iliade,
Homeri Ilias versibus expressa, di sapore virgiliano, il suo capolavoro.
Presso il FPM si ha invece l'edizione di Venezia, 1784, la stessa che figura nella «libreria»
del Gianuizzi, dove si trovano anche le seguenti altre due opere: Homerus - Ilias graece,
quam vertebant Latine soluta oratione C.G.Heyne, versibus item latinis R.Cunich, italicis
V.Monti, germanicis Woss, anglicis Pope, gallicis Aignan, ibericis Garcia-Malo,
Florentiae, MDCCCXXXVII, voi. II; F. TARDUCCI, Collezione delle Similitudini contenute
nella Iliade di Omero estratte fedelmente dalle due più celebri versioni l'una Latina del P.
Raimondo Cunich della Compagnia di Gesù, l'altra Italiana del Cav. Vincenzo Monti. Si
aggiungono gli argomenti di ciascuna in ambedue le lingue, Roma 1830.
Cfr. G. Tosi, De vita Raymundi Cunichii comentariolum, Roma 1795; S. GLIUBICH,
Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Vienna 1856.
64)
ELE, CXVII, De Iliadis et Odysseae versione.
65)
«Prolusio» all'Iliade, pp. VII-VIII, vv. 86-90. Il desiderio del Cunich è riportato
testualmente in nota, a piè della «prolusio», tratto dalla prefazione della sua traduzione
dell'Iliade: «Equidem arbitrabor me laboris mei fructum cepisse non poenitendum, si
multorum studia commovero, meoque exemplo, aut hic Romae, aut uspiam terrarum,
excitaro aliquem interpretem tanta facultate, quantam rei magnitudo requirat; qui effìciat id,
quod ego hac ingenii et doctrinae tenuitate, atque his occupationibus, efficere non potuerim;
qui denique Homerum exhibeat latine loquentem, non modo eodem carminis genere, quo
ille usus est, verum etiam vi et eadem suavitate orationis. Hunc ego jam nunc animo
prospicio, hunc admiror hunc foveo, hujus veluti formam mihi effingens, excellentiam et
38
magnitudinem contemplans, me ipse contemno, et meam hanc interpretationem prorsus
despicio».
66)
EPI, 52 (22 agosto 1868). In questa lettera è contenuta una richiesta, rivolta dal
Pasquali al Marinelli, di compulsare il «suo Omero» riguardo al termine «clavis» in Iliade,
X, 259. V. anche EPI, j154 (19 giugno 1872). Presso la biblioteca del Seminario di Osimo
si trova l'opera, in due volumi, Homeri Opera quae exstant omnia graece & latine graeca, a
cura di J.H. LEDERLINO e S. BERGLERO, Padova 1744.
67)
B4, p. 6.
68)
ELE, CXXVIII «Ad clarissimum virum Josephum Ignatium Montanarium De
eadem».
69)
ELE, CXXVI, Ad Clarissimum Vìrum D.Patin ex Francicae Academiae Sodalibus
Collegii a litterarum facultate Parisiis Praesidem De eadem.
70)
Le traduzioni integrali dell'Iliade iniziarono già presso i Romani (Gneo Mazio e
Ninnio Crasso nel I sec. a.C; Accio Labeone, Polibio, liberto di Claudio e l'anonima Ilias
latina nel I d.C). Nel Cinquecento Andrea Divo di Capodistria la tradusse in latino e
Cristobal de Mesa in spagnolo. Nel Seicento Anton Maria Salvini la rese in italiano, George
Chapman e Thomas Hobbes in inglese. Nel Settecento Alexander Pope ancora in inglese,
mentre in tedesco si ebbero Leopold Stolberg, Johann Jacob Bodmer e Heinrich Voss; il
Cunich, come visto, la rese in latino. Nell'Ottocento si ricorda la versione del Monti (1810)
in italiano, di Leconte de Lisle (1850) in francese, di William Cullen Bryant (1870) in
inglese. Nel Novecento le traduzioni italiane di Nicola Festa ed Ettore Romagnoli (1924).
71)
ELE, dal CXVII, De Iliadis et Odysseae versione al CXXXVI, De eadem, cioè De
Odysseae versione.
72)
Pietro Gianuizzi (Loreto 10 luglio 1841-1925), figlio di Gioacchino e Giovanna
Giorgetti, di famiglia benestante, proprietaria terriera, e di nobiltà civica. Fin dal 1661,
quando un Bernardo Gianuizzi si era trasferito a Loreto proveniente da Cassano S. Andrea
(Bergamo), i rappresentanti di questa famiglia ricoprirono incarichi nella pubblica
amministrazione della città. Nella famiglia, inoltre, si erano avuti quattro sacerdoti, tutti
addetti alla Basilica loretana, uno dei quali, Lucio, fratello di Gioacchino, laureato in
«utroque jure» alla Sapienza, arciprete del Capitolo della basilica e custode della S. Casa.
Sarà costui che aiuterà Esmeralda Brunori, quando diventerà vedova di Gioacchino con
sette figli, tra i quali appunto Pietro. Egli frequentò il Collegio Illirico della sua città, diretto
dai Gesuiti, dal 1852 al 1860, studiando Grammatica, Umanità, Retorica e Filosofia e
stringendo amicizia con Corrado e Francesco Ferretti di Ancona e Giovanni Benadduci di
Tolentino. Dichiarato esonerato dalla leva, in quanto figlio unico maschio, nel 1862 studiò
Diritto alla Sapienza (1862-65), dove si laureò «in utroque jure», a pieni voti. Durante il
periodo universitario romano, ebbe contatti con ambienti e persone devote al pontefice,
considerando l'annessione una vera e propria invasione. Era per lui un dovere di coscienza
difendere la causa dell'indipendenza di Roma, dando testimonianza di fedeltà al papa. In
questa ottica si pone la sua adesione a diverse associazioni confessionali. Dal 1866 al 1869
fece pratica legale a Roma presso l'avvocato Filippo Bruni. Nel 1867 si distinse a Loreto
39
per le sue istanze con le quali voleva impedire la conversione del patrimonio della S. Casa
in rendita pubblica di Stato. Nel 1868 sposò Gabriella Ferretti, sorella di Corrado e Francesco, dalla quale ebbe cinque figli e tre gliene sopravvissero. Proseguì quindi la pratica
legale a Macerata, presso l'avvocato Pietro Pellegrini, difensore strenuo degli ecclesiastici
contro la prepotenza del governo usurpatore. Nel 1870 continuò lo studio in Ancona.
Conseguito in seguito il titolo di avvocato, ritornò a Loreto. Il 19 dicembre gli nacque il
primo figlio, Alessandro. Prese ad esercitare avanti la locale pretura e, contemporaneamente, si dedicò agli studi letterari. Al 1871 dovrebbe risalire l'inizio dell'amicizia
col Pasquali, con il quale condivideva la formazione culturale e religiosa, la venerazione
per Pio IX e la visione politica. L'epistolario tra i due data dal 1871 al maggio 1875, ultimi
giorni della vita del poeta. Allontanatosi quindi dalla attività forense, dal 1885 partecipò
alle due commissioni (governativa e diocesana) per studiare i progetti di restauro della
basilica lauretana. Per questo scopo nel 1886 fu incaricato dal ministro della pubblica
istruzione di compiere ricerche negli archivi di Recanati e Macerata. Dal 1892 alla morte si
interessò all'Archivio Storico della S. Casa, divenendone «addetto».
Tutta la bibliografia lauretana, a cominciare dal 1884, non trascurò i suoi apporti per quanto
si riferisce alla storia della Basilica ed agli artisti che vi hanno operato. Numerose furono le
sue pubblicazioni, tra le quali: La Chiesa di S. Maria di Loreto, in «Rassegna Italiana», a.
IV, v. III, settembre 1884 (estratto: Roma 1884); Giorgio da Sebenico in «Archivio Storico
dell'arte», a. VII, fase. VI, Roma 1895; Dell'architetto di S. Casa Marino di Marco
Cedrino, Firenze 1885; Lorenzo Lotto e le sue opere nelle Marche, Castelplanio, 1894 ecc.
(un elenco quasi esaustivo possiede il nipote Giovanni Gianuizzi).
I manoscritti del Gianuizzi sono conservati nell'Archivio Storico della S. Casa, donati dal
nipote Giovanni. Comprendono 30 volumi (con trascrizioni di documenti di interesse
lauretano) e 6 buste (con composizioni, memorie o minute di articoli). Cfr. Biblioteca
Storica Lauretana, Guida degli archivi lauretani, a cura di Floriano GRIMALDI, Loreto
1985.
Presso l'Archivio della S. Casa si trova anche gran parte della libreria del Gianuizzi.
Il 20 aprile 1991, in occasione della presentazione a Camerano dell'edizione del poemetto
De pugna ad Castrumficardum del Pasquali, curato da M. Morroni e M. Coltrinari,
Giovanni Gianuizzi tracciò un ritratto biografico del nonno, rimasto inedito, dal quale si è
attinto per le notizie sopra riportate.
73)
Cfr. EPI, tra la 62 e la 120 (passim).
74)
Cfr. ELE, da CXXXVII Ad Lectorem De Dantis versione a CXLIV Ad Eumdem de
eadem, cioè Ad praestantissimum Virum Jurisconsultum Petrum Januizzium De eadem.
75)
Ibid., CXL De eadem, cioè De Dantis versione.
76)
Ibid., CXXXIX Ad Em.um De eadem.
77)
L'edizione dell'opera posseduta dal Gianuizzi, stando alla scheda da lui stesso
predisposta per la catalogazione della sua «libreria», è la seguente: C. D'AQUINO della
Compagnia di Gesù, Della Commedia di Dante Alighieri trasportata in «Verso Latino
40
eroico Cantica» I.a, II.a e III.a coll'aggiunta del Testo Italiano e di brevi Annotazioni»,
Napoli, per Felice Mosca, 1728, tt.3.
Paul Colomb de Batines, nella sua «Bibliografia dantesca», t. I, p. 244 s. (uscita in
traduzione italiana a Prato nel 1845), così scheda l'opera: La Commedia di Dante Alighieri,
trasportata in verso latino eroico da Carlo d'Aquino della Compagnia di Gesù, con
l'aggiunta del Testo Italiano e di brevi annotazioni. In Napoli, per Felice Mosca, 1728, 3
voi. in 8. gr. di 333, 331 e 339 fac. E aggiunge: «Il testo italiano, per il quale adottò il
d'Aquino la lezione degli Accademici, è stampato in caratteri corsivi; la traduzione a fronte
in caratteri romani. Le prime 15 facce del volume primo hanno una Prefazione; le
Annotazioni son poste in fine di ciascun volume. (...) Questa traduzione è in grande stima,
come molto fedele ch'ella è ed anche elegante e piena di bellissimi versi. Per chi non
indovinasse il motivo delle lacune che talor vi si trovano, il traduttore stesso si è fatto un
dovere di spiegarglielo nella sua Prefazione; è dice che disdicevole affatto a scrittore
religioso sarebbe stato il fermarsi sopra cotali luoghi del Divino Poema». Segue
bibliografia.
Lo stesso Colomb de Batines menziona ancora il padre D'Aquino per altre due opere
dantesche: «Le Similitudini della Divina Commedia di Dante Alighieri, trasportate verso
per verso in lingua latina, da Carlo d'Aquino della Compagnia di Gesù. In Roma, nella
stamperia del Komarek, 1707, in 8. di 183 fac., più una carta in fine per l'Errata» (p. 24344) e (p. 669) le «brevi annotazioni latine» del traduttore, pubblicate nella traduzione del
poema.
Un elenco delle traduzioni latine della «Divina Commedia» è riportato dal Colomb de
Batines, il quale anzitutto cita le versioni in versi inedite (di Coluccio Salutati, di Antonio
della Marca dell'ordine dei Minori, di Matteo Ronto monaco olivetano, di Gian Paolo
Dolfin vescovo di Bergamo, dell'abate Cosimo della Scarperia di Firenze, dell'abate Giovan
Girolamo Carli), poi le versioni in versi edite (Frammenti inediti dell'Inferno in versi
esametri latini, tratti dal Codice Fontaniniano, le Similitudini del D'Aquino già ricordate,
Traduzione in versi latini del Canto d'Ugolino, di Carlo Lebeau, la traduzione del D'Aquino
del 1728. Per le conspicue nozze del nobile uomo Domenico Melilupi marchese di Soragna,
colla nobile donzella Giustina Piovene contessa Porto Godi Pigafetta. Padova, tipografia
della Minerva, 1835, in 8. di 48 fac., Per le nobilissime nozze del conte Alessandro Piovene
Porto Godi Pigafetta colla contessa Lavinia Franceschinis. Padova, tipografia della
Minerva, 1836, in 8. di 32 fac., Per le nobilissime del conte Patrizio Magawly colla
contessa Lucrezia Piovene. Padova, tipografia Cartallier e Sicca, 1838, in 8. di 32 fac.,
L'Inferno di Dante, ossia la prima Cantica della Divina Commedia, tradotto e schiarito a
senso preciso di frase in versi eroici latini corrispondenti dal prof. Antonio Catellacci.
Pisa, Ranieri Prosperi, 1819, in 8. di XVI-327 fac., Traduzione del primo Canto
dell'Inferno di Dante in versi latini, Saggio d'una versione latina di Dante Alighieri, Canto
33 dell'Inferno, i Quinque Capitula del Della Piazza. Per quanto riguarda invece le
traduzioni latine in prosa, il Colomb de Batines elenca, oltre una «traduzione latina
inedita», la famosa traduzione compiuta da Giovanni Bertoldi, la quale non poté essere
41
consultata dal Pasquali, in quanto uscì solo nel 1891 (Fratris Johannis de Serravalle
ordinis minoris Episcopi et Principis Firmani Translatio et Comentum totius libri Dantis
Aldigherii cum textu italico fratris Bartholomaei a Colle ejusdem ordinis nunc primum
edita Prati ex officina libraria Giachetti et filii et soc., 1891, a cura di Marcellino da
Civezza e T. Domenichelli), anche se uno dei tre codici dell'opera era alla Biblioteca
Vaticana. Giovanni Bertoldi (Giovanni da Serravalle), nacque a Serravalle, presso S.
Marino, nel 1350 o 1360. Divenne frate minore, vescovo di Fermo. Dal 1414 al 1418 fu al
Concilio di Costanza, dove gli venne suggerito di tradurre la Divina Commedia in latino,
per diffondere un'opera considerata altamente edificatoria. Il suo intento non fu quindi
letterario ed egli stesso definì la sua prosa «incompta et inepta», condotta a costo di una
«privatio dulcedinis complacentiae et pulchritudinis rytmorum». La «translatio» venne
condotta in cinque mesi (dal gennaio 1416 al maggio), mentre il Nostro - per tradurla in
versi - ne impiegò sette e mezzo. Ad essa accompagnò un commento, terminato nel gennaio
dell'anno seguente. Trasferito a Fano verso il 1418, vi morì nel 1445. Cfr. L. NICOLINI, La
vita e l'opera di Giovanni da Serravalle, S. Marino 1923; T. LOMBARDI, Vita e opere di
Giovanni Bertoldi O.F.M. Conv. da Serravalle di S. Marino (1355-1455), Bologna 1976.
78)
ELE, CXXXVII.
79)
EPI, 76 (14 aprile 1872).
80)
L'edizione dell'opera conservata nella libreria del Gianuizzi è la seguente (come
risulta dalla scheda da lui stesso redatta): DALLA PIAZZA (Cajetanus) Vicentinus, Dantis
Alligherii Divina Comoedia Exametris Latinis reddita. Praefatus est et Vitam Piazzae
adiecit Carolus Witte Antecessor Halensis, Lipsiae MDCCCXLVIII, Sumptibus Ioan.
Ambrosii Barth.
Quattro anni prima il Della Piazza aveva già pubblicato una parte della traduzione del
Purgatorio, come rileva Paul Colomb de Batines (in Bibliografìa dantesca, cit., t. I, p. 246
s.): «Quinque Capitula ex Purgatorio Dantis, latinitate donata a Cajetano della Piazza.
Vicentiae ex typis Caietani Longo, 1844, in 8. di 38 fac.». E aggiunge: «Traduzione in versi
esametri dedicata a Antonio Graziani canonico della cattedrale di Vicenza. Un annunzio
inserito nella Gazzetta di Venezia, n. del 15 giugno 1844, promette la pubblicazione della
traduzione di tutto il Poema, col testo a fronte, dell'edizione di Firenze, 1837, che si
comporrà di 7 fascicoli in 8. per Cantica, ed uscirà dalle stampe del Seminario di Padova.
Se l'opera sia ancora in parte comparsa, non so».
81)
Cfr. EPI, 76 (14 aprile 1872).
82)
Ibid., 77 (16 maggio 1872).
83)
Ibid., 79 (25 maggio 1872): «Allora io (il Gianuizzi) le manderò subito la versione
del Della Piazza, tenendo la quale sott'occhio, nel ricopiare che Ella farà la sua, potrà
introdurre in essa tutti quei miglioramenti che da quella le verranno suggeriti. (...) Con ciò
io non intendo che la sua versione si trovi al di sotto di quella del citato scrittore, che anzi
essa mi pare, come altra volta le ho detto, migliore d'assai; ma è purtroppo vero che nessun
umano lavoro potendo riuscire totalmente perfetto, anche da lavori inferiori di merito si può
raccogliere sempre del buono per condurre alla migliore possibile eccellenza ciò che è già
42
per se stesso nobilissimo. Il Della Piazza ha delle pecche ma ha pure delle grandi bellezze
specialmente in fatto di lingua che ordinariamente è assai pura e sente del gusto degli ottimi
poeti latini secondo che Ella mi faceva giustamente osservare. E però particolarmente per
questo lato le può essere utile».
Cfr. anche EPI, 82 (19 giugno 1872) e 105 (6 ottobre 1873).
84)
Questo commento è citato fin dalla lettera EPI, 90 (6 novembre 1872).
Di Luigi BENASSUTI, arciprete di Cerea Veronese, prima del 1871 vennero pubblicate
due Commedie: La Divina Commedia, col commento cattolico di Luigi Benassuti, Verona
1864-68, voll.3, e La Divina Commedia, spiegata alle scuole cattoliche da Benassuti Luigi,
arciprete di Cerea Veronese, Padova 1869-70, voli. 3.
85)
Del commento alla Commedia del padre Pompeo Venturi si ebbe la prima edizione
nel 1732 e undici edizioni tra 1813 e 1852 (cfr. Enciclopedia dantesca, Appendice,
Bibliografia, Opere di Dante, p. 509-514 saltim). Il Colomb de Batines così scheda
l'edizione del 1732 (in Bibliografia Dantesca, op. cit., t. I, p. 669): «Breve e sufficiente
dichiarazione del senso letterale della Div. Comedia, diversa in più luoghi da quella degli
antichi Comentatori, del P. Pompeo Venturi (1732)». E aggiunge: «Questo Comento
attribuito, come notai a fac. 107, al p. Zaccaria, fu prima stampato sotto il velo dell'anonimo
nell'edizioni di Lucca, 1732 e Venezia 1739, ma si trova nella sua interezza soltanto in
quella di Venezia 1849 che è la terza. Troppo vi vorrebbe a registrare qui le numerose
ristampe che di questo Comento si fecero nel XVIII e XIX secolo, e gioverà consultare
sopra di ciò la Tavola delle materie alla voce Venturi. Registrai a fac. 109-110 le
Osservazioni pubblicate dal Rosa Morando sul Comento del p. Venturi».
Il Venturi (Siena, 1693 - Ancona, 1752), letterato, gesuita, insegnò lettere e filosofia in
varie scuole.
86)
B4, p. 7.
Bibliografia
Alle diverse biografie e scritti di seguito elencati, contenenti notizie
riguardanti il Pasquali e le sue opere, si fa riferimento nel testo con la sigla
B seguita dal rispettivo numero di sequenza.
1. Elogio funebre di Giuseppe Pasquali Marinelli insigne poeta latinista
composto e letto in Camerano dall'Avv.o Pietro Gianuizzi nel 1876 (edito
solo nel 1991, v. opera n. 12).
2. Vita di Giuseppe Pasquali Marinelli da Camerano per Alessandro
Massarìa Sacerdote Maestro, Camerano 1893.
3. S. PATRIGNANI, Della vita e degli scritti di Giuseppe Pasquali Marinelli
di Camerano d'Ancona / Brevi memorie storiche, Ancona 1893.
43
4. De Josepho Paschalio Marinellio / Brevis Commentatio, anonima, ma da
attribuire a Giuseppe Morici come si desume da un Elenco degli scritti
pubblicati da Giuseppe Morici, conservato presso l'Istituto Marchigiano
Scienze, Lettere ed Arti di Ancona (libro n. 45), autografo (gentilmente
reperito dalla dott.ssa Giovanna Pirani), dove l'autore dichiara la paternità
dello scritto al n. 75 di tale elenco. È premessa alle Josephi Paschalii
Marinellii ex Hugonis Fosculi de Sepulcris Carmine et Jacobi Victorellii
cantiunculis versiones, Pesaro 1893.
5. 18 settembre 1904. In memoria di G. Pasquali-Marinelli e di Enrico
Jacomini, Camerano 1905. Il nome dell'autore, Michele Maroni, si desume
dalla prefazione.
6. Biografia dattiloscritta dovuta a Vittorio Pizzichini, 1970 (parzialmente
impiegata in «Camerano in versi» (testo n. 8) e riutilizzata per Profili
marchigiani / G.P. Marinelli in «L'alcione / Periodico indipendente della
Riviera adriatica», a. XIX, n.6-7, II semestre 1971, Ancona, p. 4).
7. M. MORRONI - F. TOCCACELI, Camerano. Suggestioni da un terreno di vita,
Camerano 1981, pp. 155 e 156.
8. V. PIZZICHINI, Camerano in versi, Camerano 1982, pp. 29-40.
9. M. MORRONI, Una versione altra della battaglia di Castelfidardo, in
«Ancona provincia», n. 2/83, 1983.
10. M. MORRONI, Materiale riguardante Giuseppe Pasquali Marinelli
posseduto dalla Cassa Rurale di Camerano, inedito, 1985 (rivisto nel 1990).
11. M. MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli, in AA.VV., Terra di
provincia, Ancona 1990, pp. 319-20.
12. G. PASQUALI MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum, Loreto, 1991
(a cura di M. Morroni e M. Coltrinari).
13. M. MORRONI, G. Pasquali Marinelli. Le età di un poeta. Biographia
literaria, Ancona 1993.
44
Sergio Sconocchia
Il latino dei Carmi di Giuseppe Pasquali Marinelli
Tra gli scritti inediti di Giuseppe Pasquali Marinelli che hanno
superato le insidie del tempo sono i Carmi, le trecentosette composizioni
brevi in versi latini, ancora quasi tutti inediti (1).
Quasi tutti trascritti e raccolti da Gianuizzi in un volume
contrassegnato in costa dalla dicitura “I. MARINELLI CARMINA
INEDITA”, i Carmi costituiscono una fonte preziosa per individuare alcune
delle caratteristiche salienti della personalità e della dimensione lirica
dell’autore.
La raccolta, curata da Pietro Gianuizzi (2), che dichiara di collazionare
da vari esemplari delle composizioni che costituiscono l’opera e fornisce
spesso, in apparato, varianti, si presenta abbastanza organica in metri varii
(per lo più distici elegiaci ed esametri) di materiali eterogenei.
Definiti da Pasquali Marinelli (d’ora in poi PM) “le mie piccole poesie
latine” (3), i Carmi sono costituiti da “varie centinaia di piccoli
componimenti originali, in cui, più che in altri, appaiono lo scopo e le sorti
delle maggiori sue opere, le vicende di sua vita, i dolori, le speranze, i
conforti, gli affetti e la filosofia di quell’anima grande” (4).
Il materiale è vario: da I, Auctoris genealogia, una preziosa
testimonianza, più tarda ma premessa alla raccolta, di notizie
autobiografiche e sulla propria opera (5), a carmi, a personaggi diversi,
soprattutto ecclesiastici, su argomenti svariati, sulle vicende della vita e
della morte, alcuni con riflessioni sull’inanità della fama (6).
La produzione dei Carmina ha inizio praticamente negli anni intorno
al 1830; diviene particolarmente intensa con la maturità letteraria di PM,
con gli anni dal 1840 in poi, e si protrae di fatto fino agli ultimi anni di vita
dell’autore.
Un’altra dozzina circa di lettere sono rivolte a giovani e ad exdiscepoli (7).
45
Ci sono anche composizioni di riflessione: una ventina trattano di
morale e filosofia (8); una trentina hanno per oggetto la meditazione
religiosa (9).
Una decina di componimenti l’autore dedica a se medesimo (10). In
altri parla della sua produzione: i Salmi (11); i Profeti (12); il De
Sacramentis (13); la Messiade (14); le versioni omeriche (15); la Divina
Commedia (16), la Serie dei Pontefici (17); in diversi carmi si fa cenno ai
revisori delle sue opere, che consultava in successione, e spesso in modo
incrociato: dapprima don Marino Marinelli e don Cesare Gariboldi (per PM
Cariboldius), poi l’avvocato Pietro Gianuizzi.
Due carmi sono in realtà due ecloghe, sul modello virgiliano (18).
Abbiamo anche temi letterari o grammaticali o etimologici: alcuni
riguardano la lingua latina (19), la poesia (20), le revisioni delle opere (21),
la letteratura (22).
Vi sono carmi di contenuto religioso (23).
Tra i carmi di contenuto politico, alcuni riguardano il potere civile
(24); la Chiesa (25); Pio IX (26); i Pontefici (27); Roma (28), l’Italia (29);
Cavour (30), Garibaldi (31), la Francia (32), Napoleone I (33), Napoleone
III (34), la pena capitale (35).
Vi sono poi altri temi svariati (36): dalla donna (37) al pittore Carlo
Maratta (38); da carmi dedicati a Rossini (39) a Manzoni (40); la “Civiltà
Cattolica” (41); un certamen letterario con l’amico Paolinelli (42);
Camerano (43); il Collegio Campana (44); Colombo (45); Copernico (46);
la gloria (47) e altri per occasioni varie (48); necrologi (49).
Alcuni carmi alludono all’opera di revisione del testo di PM (50).
Opera complessa e originale, i Carmi sono scritti in un impasto
policromo, con suggestioni, riprese, richiami allusivi ai classici: “un
imponente thesaurus di reminiscenze lucreziane, virgiliane, ovidiane”, come
scrive Flammini (51): aggiungerei anche da Orazio (52); e da Ennio, dai
tragici arcaici, Accio e Pacuvio, dai poeti elegiaci, da Cicerone, da Seneca
tragico e – cosa davvero interessante – da scrittori tecnici come Vitruvio,
Plinio il Vecchio, Columella.
Certo per alcune delle citazioni, specie per certi composti nominali o
aggettivali si dovrà pensare che PM abbia attinto citazioni utilizzando il
46
Forcellini (53), secondo l’usus di tanta produzione coeva e la pratica dei
Seminari. Nel caso di PM tuttavia, data la cultura dell’Autore e la sua
memoria “classico-poietica”, non si può certo escludere anche la
reminiscenza e la ricreazione diretta; in una capacità e ispirazione e
predisposizione a versificare fluente e prodigiosa, come attestano la
frequenza, la rapidità e l’intensità delle traduzioni e delle creazioni poetiche:
si pensi, per fare un solo esempio, alla rapidità della traduzione della Divina
Commedia (1871-1874).
Si ha notizia, contenuta in un appunto (54), di trascrizioni da parte di
PM di opere di autori latini, in particolare dei primi cinque libri di Lucrezio
e di cinque satire di Persio (55).
La Biblioteca di PM (56) possiede opere, soprattutto di poesia, di
numerosi autori latini: “Plauto, Terenzio, Velleio Patercolo, Cicerone,
Catullo, Suetonio, Orazio, Livio, Lucrezio, Cornelio Nepote, Properzio,
Ovidio, Tibullo, Plinio il Vecchio, Silio Italico, Stazio, Quintiliano,
Columella, Giuseppe Flavio, Persio, Marziale, Curzio Rufo, Fedro,
Giovenale, Tacito, Lattanzio, S. Agostino, Claudiano, Macrobio, oltre ad
autori posteriori che scrissero in latino (dal Quattrocento all’epoca del
Nostro)” (57).
Un importante aspetto della cultura dell’autore è quello della difesa
del latino (58). Ogniqualvolta ha occasione di menzionare il latino, PM non
può fare a meno di ricordare che gli Italiani del suo tempo disprezzano
questa lingua, dimentichi della sua gloria.
La questione della lingua latina non è solo collegata esplicitamente
con la situazione politica del momento, con il “riscatto risorgimentale”, con
il patrium… decus (59) o con il decus imperii, come è detto in un carme a
Pio IX (60).
Nell’altro carme dedicato a Pio IX (61) l’accusa di disprezzo del latino
è estesa anche ai clericali.
In numerosi altri Carmi ed Epistole, il PM discute dell'atteggiamento
di rifiuto del latino attuandone una difesa: così in varie lettere, come in una
indirizzata al Gianuizzi (62), così nel carme CI, De Latinae linguae
despectione, così nei versi preposti alla Divina Commedia, nella Prolusio
all'Iliade e altrove.
47
Riguardo all'uso della mitologia in contesto cristiano, PM dichiara che
la stessa poesia latina, priva di essa, "cade in sfinimento, perde la sua forza,
il suo nerbo e non manda che un suono debole e roco" (63).
Quanto alla difesa del latino è il caso di ricordare l'analogia
sorprendente con atteggiamenti e argomentazioni affini e ugualmente
accalorate di Monaldo Leopardi, contemporaneo di PM, nell'Autobiografia
(64), soprattutto cc. XI, XII (La lingua latina deve studiarsi) con riflessioni
per molti versi ancora oggi valide (65).
Di ben più ampio e profondo respiro e apertura storico-culturale le
argomentazioni in lode del latino del figlio Giacomo, soprattutto nello
Zibaldone (66).
Ritornando a PM, il suo latino è definito virgiliano da quasi tutti i suoi
lettori e in riferimento a molte delle sue opere (67).
Tra i Carmina inediti il c. I Auctoris Genealogia è importante per
notizie biografiche (68) e bibliografiche.
PM ripercorre qui (vv. 31 sgg.) alcune tappe fondamentali della sua
storia artistica e letteraria. Il carme è dunque importante per la cronologia
delle opere:
** (69) Flore vigens aevi cecini civilia Jura,
Sacramenta dehinc versibus excolui.
Deruptis historiae libris quos Musa repellit
Versa mihi est latiis Biblia tota modis.
Mox et Odysseam, Iliaden tum3 vertere Homeri
Ac sum deinde ausus4 condere Messiaden.
5Ficardum ad Castrum et Mentanam proelia panxi
Strenua concelebrans agmina Pontificis.
Praeterea seriem, multis licet obsitus annis,
Versibus aggressus texere Pontificum.
Denique Dantis iter ductoris carmine latis
Bisdenas cecini mensus Olympiadas.
*** (70) Musas sic latias colui, cum Numine laevo
Itala gens latium sperneret eloquium.
Immemoremque sui, fieri dum libera quaerit,
Se temere externis moribus inficeret.
In apparato è scritto:
48
2 carmina 3 mox 4 Ac ausi tandem 5 Plurima praeterea variis accomoda
rebus[/]Ac variis fudi carmina temporibus.
Come si può vedere PM ripercorre con lucida analisi le età della sua
vita e le fasi salienti della sua creazione letteraria.
Altro carme inedito importante per ricordi autobiografici e immagini il
c. XLII Ad Caesarem Venturam Pictorem.
Haec mea natalis, Cameranum nomine, terra1
Forte quod apparet pars Cumeri esse jugi 2,
Eximios3 virtute viros, et tu, inclyte, telas 4
Reddere spirantes, docte, Maratta, tulit 5
Hunc alacer Ventura sequens, quas gloria servat;
In sedes volucri nunc pede tendit iter.
Euge, bone: haec altrix praestantem terra virorum est:
Cultus opis patriae, tu quoque clarus eris.
In apparato si legge:
1 Camerani nomine tellus - 2 Quod Cumeri apparet pars procubuisse jugi 3 Egregios - 4 doctumque Marattam - 5 Spirantes telas reddere progenuit.
Accennerò ora brevemente ad alcuni interessanti carmi inediti di
argomento letterario. Il primo è il c. XCIX De Italicis poetis:
Quattuor insignes tibi sunt gens Itala Vates:
Petrarca, Ariostus, Taxus, Aligherius.
Ariostos Taxosque alios fors Musa creabit,
At numquam reliquis est paritura pares.
Ille animi affectus, lepor ille, et amabilis ardor,
Quem spirant ambo, nulli imitandus erit.
Si Latiis Italos confers, Eneida Taxus,
Forsan et Ariostus rettulit Ovidium;
Suave melos retulit forsan Petrarca Tibulli:
Nullus at ex Latiis praebet Aligherium.
49
Il c. CI De Latinae linguae despectione è relativo alla nota difesa di
PM del latino. Importante anche il c. CII Ad Josephum Ignatium
Montanarium De comparatione Homeri, Virgilii ac Dantis:
Quo tria contuleris divina poemata mundi,
Sermonem stupui terque quaterque legens.
Nil hae splendidius, nec quod magis explicet artem,
Cujus es esimius doctor Apollineam.
Italiae laus magna quidem, se bina tulisse,
Unum dum tantum caetera terra tulit.
Non minor at laus percipere atque aperire potentem 1
Quantum illa 2 excellent progenuisse Virum 3
1 Non minor est, autem, puto, laus aperire potentem - 2 ambo - Quantum
haec excellent progenuisse Virum.
Parlerò ora di alcune composizioni già edite.
Suggestivo e ricco di richiami letterari a Cunich e Zamagna è il c.
CXVII De Iliadis et Odysseae versione. Riguardano versioni greco-latine
dell'Iliade anche i cc. CXXVIII Ad clarissimum virum Josephum Ignatium
Montanarium De eodem e CXXIX Ad Eundem De eadem.
Costituiscono importanti testimonanze sulla versione dell'Odissea i cc.
CXXX - CXXXVI (71); della traduzione della Commedia i cc. CXXXVII Ad
Lectorem De Dantis versione; CXXXVIII Ad D. Marinum Marinellium. De
eadem; CXXXIX Ad em.um De eadem; CXL De eadem; CXLI De eadem;
CXLII Ad Thomam Vallaurium De eadem; CXLIII Ad praestantissimum
virum iurisconsultum Petrum Ianuizzium De eadem; CXLIV Ad Eundem De
eadem. I cc. CXLV - CXLVI sono relativi alla Pontificum series.
Interessante il c. CXLIX, del 1873, anch'esso già edito, relativo alla
situazione politico-letteraria.
Per fare riferimento ad alcune delle composizioni più letterariamente
elaborate e rappresentative, citerò tre carmi, peraltro già editi. Il primo è il c.
CLVI, che registra un abbandono lirico raramente uguagliato, già fin
dall'attacco:
Domine, ante te omne desiderium meum, et gemitus
50
Meus a te non est absconditus.
Quot mihi jam tantis mens aestuat anxia votis
Iudicio potuit discere nemo meo.
Nemo, nisi arcani qui pectoris intima lustrat,
Quem fugit humani nulla latebra sinus.
Ille meos gemitus, mea scit suspiria solus,
Ille oculis etiam persecat ima suis.
[…]
Nel c. CLVII, ricco di riferimenti letterari, cultura biblica e lirismo si
fondono in risultati artisticamente notevoli. Si noti, nell'attacco, il rinvio a
Isaia XXVI e, nel v. 3, il desiderio, forse, di emulare uno dei versi più
famosi dei poetae novelli, animula vagula blandula
CLVII
Anima mea desiderat te in nocte - Isaia XXVI
Heu mihi quam densis nox incubat atra tenebris!
Talis erat Pharios quae tremefecit agros.
Nubila, lurida, squallida, tetrica, terribilis nox
[…]
Valido anche il c. CLVIII, con attacco fortemente elegiaco
CLVIII
De Dei laudibus post mortem
Quaque die est mihi mors proprior: tibi dicere laudes,
O Deus, in tumulo lingua nequibit iners.
Offero nunc igitur tibi quot praeconia cuncti
Caelicolae atque homines post mea fata canent.
Espliciti echi lucreziani, con richiami alla figura di Venere (l. I) hanno
il proemio e l'invocazione alla Vergine nell'inedito c. CCXCIX
CCXCIX
51
Josepho Prunettio V. Cl. Elegidion
O caeli terraeque patiens spes unica vitae,
Quae afflictis rebus dulce levamen ades
Salve. Te nauta in pelago, te miles in armis
Invocat, et supplex plurimus ambit inops.
Te, mater, venti fugiunt nigraeque procellae,
Atque tuum ad nutum sternitur nuda tumens.
[…]
La triplice anafora del v. 3 te… te… te mater e del v. 5 richiama
esplicitamente Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli.
Anche nel trattare temi profani PM ricorda spesso tradizione e tecnica
dei classici. Acrostici sono gli inediti cc. CCXXVIII Joannes Maria Mastai
(con sequenza JOANNESMARIAMASTAI) e CCLXVI De Napoleone I
(con sequenza NAPOLEOBONAPARTE).
A movenze della tradizione classica latina (spesso le Bucoliche di
Virgilio) si richiama l'inedito CCXXIV Christophori Columbi deprecatio
(cfr. ad es. v. 4 Virique affectus intima corda movent). Ha le marcate
movenze di un'Ecloga piscatoria il c. CCXXXIII In cooptatione Emi Caterini
in patronum municipii Siroli, anch'esso inedito.
Tra le composizioni che mi sembrano più valide in assoluto il già
edito c. CLXXVIII Lemma Academicum Le glorie del Collegio Campana di
Osimo = Che il Retore deve essere Filosofo = Peregrinus Ronius; lo
struggente c. CLXXXVI In adolescentis obitum (anch'esso già edito)
Oh puer infelix, pubenti aetate peremptus
Indueret primo cum tibi flore genas;
[…]
Una delle liriche più belle è l'inedito c. CXCIII In Urbani obitu
Ut flos, purpurei placido sub tempore veris,
Vividus exculta surgit in areola.
Totus suave nitet, dulcemque effundit odorem
Quo late tractus imbuit aerios
[…]
52
Un gruppo di inediti epigrammi lirici è costituito dai cc. CXCIV CCVIII (72), brevi gruppi di versi, spesso distici. Tra essi uno dei più
desolanti è il c. CXCVII, dedicato a se stesso
Triste quidem ex cinere esse ortum, in cineremque redire
Pejus in hunc quoque per multa redire mala.
Nel v. 1 sono presenti le cesure semiternaria e semisettenaria.
Molto intensi anche gli epigrammi CXCVIII - CCIV.
Anche nel seguito della raccolta troviamo alcune composizioni
intensamente liriche. Una delle più belle è il c. CCXL, dedicata a Lodoyx,
che consta di 143 versi.
Blande puer, placida callis qui dulce sub umbra
Egelidas inter Zephyris ludentibus auras
[…]
Uno dei carmi più intensi - già edito - anche per la fusione di lirismo
classico e sensibilità cristiana, è il c. CCXXVI Pater noster. Vi è il senso
della condizione dell'uomo: poemetto cristiano in veste classica, è davvero
un modello di questo genere di componimenti in cui tradizione cristiana e
cultura classica si fondono in sintesi mirabile.
Pater noster
Cum puer est infans, genitricis ab ore docentis
Discit in aetheriis Patrem sibi sedibus esse:
Hoc auritque animo, ac penitus sub corde reponit.
Mox aetate vigens paulatim adolentibus annis
Ingreditur mundum; varioque in turbine rerum
Obversatur agens: hominum commercia quaerit;
Quaerit amicitias: sed tectas undique fraudes
Insidiasque videt: subeunt fastidia vitae;
Poenitet has miseras venisse in luminis auras.
At Patrem meminit, caelo quam degere mater.
Edocuit: reficitque animum, multosque dolores
Fert patiens, variasque vices queis vita laborat.
53
[…]
Venendo a personaggi contemporanei e ad avvenimenti di cronaca si
possono citare, tra i carmi già editi, alcune composizioni: il c. CLXVII De
Missa in inferias Alexandri Manzoni (qui si noti, al v. 3, l'aggettivo
Christiadum, per cui si veda infra, nella sezione linguistico-stilistica); il c.
CLXVIII De Ioakino Rossinio aegrotante (si noti, ad esempio, al v. 5
l'espressione per filium ferreum con cui PM rende "telegrafo"); CLXXI De
ephemeride "La Civiltà Cattolica"; CLXXIII De mortis poena, sulla pena
capitale, appunto (per la quale l'Autore è peraltro favorevole!); CLXXIV Ad
quemdam Marchionem, il Marchese Giulio Mancinforte Fabiani Serafini.
Un gruppo di epigrammi è caratterizzato dalla presenza di elementi
storico-politici. Tali l'inedito c. CCXXIX In Pii IX P.M. adventu Anconam
Indue laetitiae claros urbs Dorica cultus
Ac plausus resonent per fora perque vias
Exultent colles, quibus ardua surgis; et undas
Gaudia pertentent aequoris Adriaci.
Pontificum tibi summus adest, Pater inclytus orbis,
Inclitus et gestis et pietate Pius.
[…]
Tali sono anche i cc. CCLI sgg., che oggi è fin troppo facile, giudicati
in prospettiva nel tempo, definire di stampo notevolmente reazionario e a
favore del potere pontificio. Si veda, per fare qualche esempio, il c. CCLI
De Pontificis Maximi Regno; CCLII De eodem argumento; CCLIII De
Pontificibus; CCLIV De Regio placet; CCLV De regimine constitutionali;
CCLVI (s. t.); CCLVII Ad Italiam; CCLVIII De Italiae Regno; CCLIX In
Comitem Camillum Cavour (dipinto, come nei carmi seguenti, con tratti
pesantemente negativi); CCLX De eodem; CCLXI De eodem; CCLXII De
ejusdem morte; CCLXIII De obitu Monti et Tognetti qui Italicae Unitatis
martyres vocantur; CCLXVI, carme acrostico, già citato supra; CCLXVII In
eiusdem tumulum etc.
***
54
Veniamo ora alla lingua, fluida, ricca e ποικίλη, particolarmente
affine, ad esempio, a quella delle versioni poetiche dell'Iliade e dell'Odissea.
Fornisco qui una breve campionatura di suggestioni e riprese da Lucrezio,
Virgilio, Ovidio, Orazio. Evidenzierò i sintagmi identici o affini.
Come si potrà vedere gli autori più ripresi sono i poeti, preferiti
largamente ai prosatori.
Prenderò le mosse da Lucrezio (73). Nel c. II Ad Deum (Auctor de se
loquitur), v. 17, leggiamo:
Tu mihi nunc tribuis, tranquilla in pace senectam
Per tranquilla… pace si veda De rer. nat. I 31
Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
Mortales…
In XXXIV v. 3 leggiamo:
Per campos liquidosque lacus tibi adesse videbar
Campi liquidi è sintagma lucreziano: cfr. De rer. nat. III 25.
In LVIII 4 la prosodia di suave presuppone u consonantico, come
spesso in Lucrezio:
Oh quam dulce mihi quam mihi suave fuit.
In CLIX Ad S.S. Deiparam, il v. 4
Naufragus infelix nudus et omnium egens!
richiama De rer. nat. V 223 sgg.
[…] ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet, infans, indigus omni
55
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit.
Qui PM sembra addirittura identificarsi con Lucrezio.
CLXXVIII 1 Numquid in aetheris tractus, sine remige penna
richiama De rer. nat. IV 411 aetheriis oris e V 267 aetherius sol.
La locuzione luminis oras di CCXXX 1
Dulce videre patrem qui nos in luminis auras
richiama numerosi passi di Lucrezio, come I 22:
nec sine te quicquam dias in luminis oras;
V 225 ait… cum primum in luminis oras etc.
Del c. CCXCIX vv. 9 - 11 con l'anafora che richiama De rer. nat. I 4
sgg. si è già detto supra.
Per Catullo si veda l'immagine di c. LXII 10
Languidus ut rigua flos recreatur aqua
che richiama Cat. XI 22-24
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.
Per Virgilio abbiamo una serie di sintagmi e loci similes.
Così II 7:
Hic ego tot late aspiciens spectacula rerum
56
richiama ad esempio Georg. IV 3
admiranda tibi levium spectacula rerum
C. VI 8
Quem tua demonstrat pagina mulcet amor
richiama Aen. I 153
ille regit dictis animos et pectora mulcet
e I 197
dividit, et dictis maerentia pectora mulcet.
Per CXII 9:
Sum quaedam latio modulatus carmine, sacris
si può rinviare a Ecl. V 14
carmina descripsi et modulans alterna notavi
o X 51
carmina pastoris Siculi modulabor avena.
Un passo come CLXXVIII 50-51
Obstipuere novi dulcedine percita cantus
Sidera suspensis haeserunt cursibus axes
richiama, oltreché l'attacco famoso di Aen. II 1
57
Conticuere omnes intentique ora tenebant
Aen. II 120
[…] obstipuere animi gelidusque per ima cucurrit
V 401
obstipuere animi: tantorum ingentia septem
VIII 530
obstipuere animis alii, sed Troius heros
o passi come IX 120; IX 123 etc., ma rinvia anche a passi paralleli di
Ovidio, come VIII 616 obstipuere omnes nec talia dicta probarunt; ibid.
765 obstipuere omnes; ibid. 1218 obstipuere omnes.
Il v. 66
Haud secus haec nituit studiis: it fama per urbes:
richiama Aen. IV 173
extemplo Libyae magna it Fama per urbes
Fama malum qua non aliud velocius ullam
e Aen. XII 608:
[…] aedes
hinc totam infelix vulgatur fama per urbem:
demittunt mentes […]
Così CCVII 1
58
Ex desideriis mortalia saecla vivunt
richiama Ecl. IV 46
"talia saecla" suis dixerunt "currite" fusis
Esplicito è, fin nel titolo, il richiamo a Virgilio nel c. CCXXXIX
Ecloga Poliphemica.
La memoria poetica di Ovidio è spesso presente come pessimismo
elegiaco. Così c. VI 25:
Quique dies multos tribuit longamque senectam
richiama, per il sintagma longa senecta, Ov. Met. V 199 …longa senecta
dabat; V 70 censuram longa senecta dabat; si veda Met. V 132 et saxo
longa senecta nocet. Cfr. anche Verg. Aen. 192 canentem molli pluma
duxisse senecta.
La locuzione funus lacrymabile di c. LXI 1
Cum miser uxoris funus lacrymabile flerem,
può richiamare Ov. Met. XIV 751 miserabile funus (74).
Il c. CCXLI 3
Tempore quae certo liquidas secat aequoris undas
richiama certo Ov. Met. I 370
[…] adeunt nudas
et nondum liquidas, sic iam vada nota secantes
certo anche Cat. LXIV 2
59
liquidas Neptuni nasse per undas
ma anche Ver. Aen. V 859
cumque gubernaculo liquidas proicit in undas.
La memoria poetica di Orazio è parimenti intensa. Così XXVI 6
Tu mihi praesidium tu mihi dulce decus
richiama esplicitamente Carm. I 1,2
O et praesidium et dulce decus meum.
In CLXXXIV De crastina die
Ne te cras fallat, multos qui saepe fefellit
Nunc age: nec tibi cras, nec mihi forsan erit.
e in altre composizioni ritroviamo il motivo, tipicamente oraziano, del cras,
del carpe diem, di c. I 11
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
[…]
carpe diem, quam minimum credula postero
e di tante altre liriche di Orazio.
La locuzione dulcis amicitiae di XVI 5
Dulcis amicitiae a teneris mihi foedere iuncti
presente anche in XC 1
Dulcis amicitiae a teneris mihi foedere iunctus
60
richiama Sen. Dial. IX 7, 3 ma anche Porph. a Hor. Ep. I 18, 86 potentis
amici.
Uno strumento efficace di indagine per comprendere bene la tecnica di
PM è l'analisi degli aggettivi composti. Tra essi si registrano neologismi: tali
cornifer, thurichrema, Christiades, per cui si veda infra.
Uno dei composti più frequenti è omnipotens
II 8 Quas tua iam virtus condidit omnipotens.
Cfr. Trad. Od. XV 447 (o 523). Composto documentato a partire da Enn.
Ann. 458 V riserunt omnes risu Iovis omnipotentis
Composti in -cola
- caelicola
CLVIII 4 Caelicolae atque homines post mea fata canent. Cfr. Enn. Ann.
491 Optima caelicolum, Saturnia; Cat. LXVIII 138; Verg. Aen. II 592; X
97; Ov. Met. I 174; Lucr. VI 444; St. Theb. III 235.
- unguicola
Cfr. 26 App. var. 3 tu mihi ab unguiculis sancto devinctus amore. VI 2
Foedere amicitiae iunctus ab unguiculis. Cfr. Lucr. VI 947 corporis
extremas quoque partis unguiculosque; Pl. Epid. 623 usque ab unguiculo ad
capillum summum festivissuma; Plin. Nat. Hist. VII 42.
Composti in -gena
- omnigenus
XX 4 attritum curis omnigenisque malis; LXXXII 40 e XCVII 4
Omnigenisque bonis moribus Oceanus. Cfr. anche Trad. Od. I 130 (alfa
142) e XVIII 182 (sigma 205). Omnigena è neoattestazione virgiliana: Aen.
VIII 698. CIL VI 7578 Omnigena passim vicinia venit.
A)
Composti con terminazione -fer
- anxifer
c. XXIII 2 Anxiferumque crucis carmine sternis iter. Cfr. Cic. Cons. fr. II,
77; Tusc. II 21.
- astrifer
61
c. XXVI 41 Ut tecum astriferam Coeli susceptus in aulam. Cfr. Trad. Od. I
55 (alfa 54 οὐρανόν). E' documentato per la prima volta in autori epici:
Lucano IX 5; Val. Fl. VI 752; Stat. Theb. II 400.
- cornifer
c. CLXXIV 22
Cfr. Macr. Sat. VI 5, 3. Il termine usato correntemente nei classici latini è
corniger.
- florifer
c. XXII 15 Floriferis Rhenus redimivit cornua sertis. Cfr. Lucr. III 1,1;
floriferis ut apes in saltibus omnia libant; Sen. Oed. 649.
- frondifer
c. XVI 16 Frondiferos inter ramos; et clara sereno; c. XCVII 8 Lumina per
ramos mittere frondiferos. Cfr. Trad. Od. IX 105 (iota 118 ὑληέσσα); XIII
290 (nu 346 τανύφυλλος ἐλαίη). Cfr. Nevio Trag. 22 frondiferos locos;
Lucr. I 18 frondiferos… domos avium; II 359; Sen. Oed. 276.
- gemmifer
c. CCXL 133 Candida gemmiferis vincti crura coturnis. Cfr. Prop. III 4, 2;
Sen. Med. 7, 25.
- nimbifer
c. CLXXVII 35 Ernitur Boreae turbine nimbiferi. Cfr. Trad. Od. XII 250 e
351 (cfr. n. 289 e 400). Neoattestazione ovidiana Pont. IV 8, 60.
- pestifer
c. CCXXIX 12 Post varios casus pestiferamque luem. Cfr. Ov. Met. VIII
477.
B)
Composti con terminazione in -ger.
- belliger
c. CCXL 109 Et cava belligero resonanti timpana cantu. Cfr. Trad. Od. III
195 (gamma 217: qui c'è però semplicemente Ἀχαιοί). E' attestato per la
prima volta in Ovidio, Ars II 672; in seguito nel linguaggio di Seneca
Tragico (Phoen. 472) e nella lingua dell'epica (Val. Fl. V 617).
- lauriger
c. CLXXXVIII 8 Et capiti sertum nectare laurigerum. Cfr. Prop. III 13, 53;
IV 6, 54; Ov. Ars III 389; Mart. III 66,3; St. Ach. I 509; Sil. V 412.
62
- squamiger
c. CCXXXIII 16 Quique secant nantes aequora squamigeri. Cfr. Trad. Od.
IV 326 (delta 368 sg. ἰχθύασκον γραμτροῖς ἀγχίστροισιν). E' attestato per la
prima volta in Cic. Arat. 574 (328) e Lucr. I 162.
Altri aggettivi composti interessanti sono due termini in -ficus:
- laetificus
c. XXXVI 13 laetificos ver purpureum caput exerit arvis. Cfr. Enn. Ann.
574; Stat. Theb. VIII, 261; XII 521; Apul. Met. II 31 etc.
- vulnificus
c. XXVI 29 Tu mihi vulnifica fedisti cuspide pectus. Cfr. Verg. Aen. VIII
446; Ov. Met. II 504 etc.
Abbiamo poi una serie di composti vari:
- flexanimis
c. XXIII 6 Tantum flexanimos elicis inde sonos. Cfr. LXIII 7 Quam sapiens,
quam flexanimum! muliercula saepe… cfr. anche Trad. Od. XVII 239 (rho
261 sg.). Flexanimis è attestato in Pacuv. Frag. 177 e 422. Si noti che PM
adatta l'aggettivo (I decl.) alla II decl., forse influenzato da semianimis, per
cui si veda CLXXXVII 21 Semianimum thalamis impiger ille subit;
CCXXIII 29 At quis semianimi (detto di Cristo) saltem salatia luctus; ibid.
54 Immolat extremo vulnere semianimem. Si veda anche exanimis, per cui
LXXXVI 6 Obruit, ut ferme fecerit exanimem.
- implacidus
c. CCXL 114 Sic sic implacidos vident vos ille morari.
- impransus
c. CCLXXVI 112 Impransos donec pronos in caerula currus
- inexorabilis
c. CLXIX 1 Maeonides ait: Unus inexorabilis Orcus
- luctisonus
63
c. CLXXXVII 4 Planctusque ac voces undique luctisonas. Per composti in sonus si veda in Trad. Od. fluctisonus; horrisonus, laetisonus; undisonus
etc. Luctisonus è in Ov. Met. I 372.
- navifragus
c. CCCIV 2 Per mare navifragum duceret incolumes. Cfr. Trad. Od. IV 658
(delta 727 θύελλαι). Navifragus è usato nella lingua epica: cfr. Verg. Aen.
III 353; Ov. Met. XIV 6 navifragum… fretum Stat. Theb. V 415.
- opifex
c. CCXL 36 Aspice quas opifex mira clarissimus arte. Cfr. Pl. Most. 828.
- quadrifidus
c. CCLXXVI 100 Quadrifido, insuetamque humeros ac pectora circum. Cfr.
Verg. Georg. II 25; Aen VII 509. Val. Fl. I 663; Col. IV 33, 4.
- suaviloquens
c. CLXXIX 4 Non secus ac fandi copia suaviloquens. Cfr. Enn. Ann. 303.
- tabificus
c. CLXXVIII, 28 Reddere et aegrorem vincere tabificum. Frequente nei
tragici latini: cfr. ad es. Acc. Trag. Pernici orbifico leto et tabificabili; Lucr.
VI 737. Si vedano in PM composti come damnificus in Trad. Od. V 332 sg.
- thuricremus
c. CCXIV 10 Centum ignes fumant undique thuricremi. Cfr. Lucr. II 353.
- trilix
c. CCLXXVI 95 Et clypeum et loricam armis auroque trilicem. Cfr. Verg.
Aen. III 467; Val. Fl. III 199; Mart. XIV 143, 1; Sil. II 401.
Ancora un aggettivo vorrei evidenziare, neologismo di PM
- christias
c. CCXXV 4 Christiadae exemplum est gentis et Isacidae. Cfr. cc. CCXXIX
24 (Pio IX); ibid. 32; CCXXX 6; CCLXIX 33 Christiadum pater (il Papa);
CCLXXXII 8. Forse modellato sul tipo di Lucr. I 1 Aeneadum genetrix.
Veniamo ora agli aggettivi. Si segnalano quelli con suffisso -bilis,
probabilmente anche perché più adatti allo schema dell'esametro. Essi sono
frequenti ad es. anche nella traduzione dell'Odissea (75).
- horribilis
64
- inexpugnabilis
c. CCXLVII 1 Hic est quem supra, quasi inexpugnabile saxum.
- insuperabilis
c. CCXVII 115 Non ita: quippe etenim magis insuperabile menti.
- intractabilis
c. CCXXXIX 80 Imbribus et rapido manet intractabilis Euro.
- miserabilis
c. CCVII 5 Lapsum igitur petimus vitae. Heu miserabile, vitae
- revolubilis
c. CCXXVIII 14 Afferet immemores aetas revolubilis annos.
Riporterò ora, infine, una lista di aggettivi significativi.
- aethereus
c. CCXL 50 Aethereos propter florenti margine rivos. Cfr. trad. Od. XVII
506 (rho 565).
- auritus
c. CLXV 8 Scilicet auritum se satis esse probat
2 Auribus instructam se nimis esse probat.
- bellatrix
c. CCLXXIII 5 Cur et Neptunus? Bellatrix Roma sinistram.
- corporeus
c. XIII 6 Quae sensus dederunt noscere corporei,
- duplex
c. VI 43 Me duplex infestat hiems, anni atque senectae.
- floridulus
c. CCLXXX 84 Qui te floridulis annis et floribus aequat.
- inexpletus (1)
c. LXVII 5 Mulcet inexpletum; sed quando est talis amicus.
- masculus
c. CCLXIX 17 Saevior ingrueret turbo! Nunc mascula proles.
- misellus
c. VII 3 Oh quantum infelix atque misellus ero!
- morosus
c. CVII 31 Morosum genus est; sed morosissima (nosti).
65
- mysticus
c. CCLXXVI 29 Dum sacros latices et mystica liba sacerdos/immolat…
- pastoralis
c. CCLXXVI 40 Et pastorali gemma donabit et auro.
- pinguidulus
c. CCXL 73 Pinguidulum ac pluma plexum; siccam pede calvam.
- roscidus
c. XCV 2 Missa mihi dono roscida fraga tuo.
- tenellus
c. CCXL 27 Commemorat genibus cum te studiosa tenellam; ibid. 106. Cfr.
ibid. 33 ...et vivo rutilantes lumine ocellos.
- triplex
c. CXLI 12 Qui regnum cecinit triplex Poeta.
Veniamo ora ai sostantivi. Frequenti sono i grecismi, di cui si propone
qui solo un breve specimen:
- chrisma
c. CCLXXVI 16 Praesul et inscriptam perduit chrismate frontem. Il termine
è corrente nel linguaggio ecclesiastico.
- methodos
c. CCXCII 1 Haec tibi quam statuis methodum, Ludovice, docendi. Cfr.
Vitr. I 1, 4; I 6, 9; 9 pr. 6.
- mnemosynon
c. CCXCIII 4 Omni municibus tempore mnemosynon. Cfr. Cat. XII 13.
- sinecdochice
c. CCLXXXV 5 Sive sinecdochice, sive metonymice
- syngrapha
c. CCXC 3 At magis efficiet memorem, si syngrapha nomen.
c. CCXCI 4 Syngrapha, quam misi, nomina quot referat.
Tra i suffissi, uno dei più frequenti è quello in -men. Così
-
iuvamen
66
c. IX 2; CCXXVII 52.
- levamen
c. CCXXIV 6 dulce levamen ades; CCXL 119 levamen in arctis. Cfr. Trad.
Od. X 495 (kappa 554 sg.).
- libamen
c. CCLXXVI 71 olei et libamina sacri; cfr. Trad Od. X 46 3 = kappa 518;
XI 22 = lambda 26.
- ornamen
c. LXVIII 1 lustranda ornamine imago; cfr. Trad. Od. XII 304 = mu 347;
ornamen è hapax in Mart. Cap. VI 587.
- solamen
c. CLXI 3; cfr. Trad. Od. XV 327 = omicron 379.
Meno frequente l'impiego di sostantivi con suffisso -ma. Si veda ad es.
numisma (XIX 1).
Frequenti i sostantivi astratti, che costituiscono talora dei tecnicismi.
Meno frequenti quelli in -tio, di cui tuttavia citerò:
- ambitio
c. CCLXXII 2
- propagatio
c. CCXV Tit. De Christianae Religionis propagatione.
Più numerosi i sostantivi in -tas. Così ad es.:
- aetas
c. CLXXXI 3 circulus aeternae manifesta aetatis imago est.
- commoditas
c. CCXI Tit. De in mundo commoditatibus.
- disparitas
c. XI 2 maxima disparitas
- flexilitas
c. CLXXVII 20 miraque flexilitas
- inanitas
c. VII Tit. De famae post mortem inanitate
- pietas
67
c. XVI 1 Quae sunt Romuleam pietatis asyla per urbem
- prosperitas
c. CXCIX 3 Vera at prosperitas homini, non hisce caducis.
Ibid. 5.
- simplicitas
c. CCVIII 6.
Per altri astratti allego solo pochi esempi:
- gloria
c. CLXXVII 30 Bembe pater, Venetae pulcherrima gloria gentis
- nequitia
c. XXVI 34 Amplius in tanto turbine nequitiae.
- virtus
c. CLXXIX 9-10 Quo vigor ingenii precox? Quo plurima virtus/Aurea? Quo
morum dulcis amabilitas?
Sono frequenti i diminutivi: di essi riporto qui un breve specimen (77):
- ensiculum
c. CCXL 107 Et nunc ensiculo parva nunc eminus hasta
- epistolium
c. LVIII 2 Forte recens legi rursus epistolium; LXXXII 1 Haec tibi
epistolium mea, Caesar epistola portat,
- labellum
c. CCXL 34 Et niveas jam disce genas, et disce labellum
- litterula
c. VI 22 Has qui litterulas me coluisse dedit;
- muliercula
c. LXIII 7 Quam sapiens, quam flexanimum! muliercula saepe
- munusculum
c. CCXL 11 Oscula, si manibus data sunt munuscula nostris.
- ocellus
c. CCXXXIX 25 Ardentes, alioque micantes vertis ocellos; CCXL 33 Illius
et vivo rutilantes lumine ocellos.
- poemation
68
c. CXLVII 4 Deductum proprio ex fonte poemation.
- spiritulus
c. CCXL 115 Spiritulos, suetosque jocos et vertice flexo.
Un cenno vorrei fare ancora al 'colorito' teologico di cui PM riveste
alcuni vocaboli.
Così si veda, per fare solo qualche esempio, CCXXIV Tit.
Christophori Columbi deprecatio; CCXXVII Tit. De immaculato Deiparae
conceptu: v. 6 conceptus; v. 13 facultas; vv. 16-17 Imperium stimulos
addente libidinis aestu/Hi sunt peccati effectus: mox nascere refert. Si veda
anche CCXXXV Tit. In Hypothesim Copernicanam, v. 17 Esto, quod
hypothesis phenomena cuncta resolvat.
***
Mi pare giunto il momento di formulare qualche breve nota su certi
valori più nettamente stilistico-estetici della produzione di PM. I giudizi che
seguono vanno complessivamente intesi come soggettivi anche se, in
genere, fondati su valutazioni di dati lirici o tecnici oggettivi.
Tra gli epigrammi già editi più intensi in assoluto il c. CXXXIII De
vivendi sententia, in cui aleggia sentenziosità classica; il c. CLXIII De
auctoris tumulo, una composizione pensosa; il c. CLXIX con passaggi
eleganti (come al v. 70 Fulget adhuc, tacitisque licet rapidissima Almis…).
Limitandomi ad alcune immagini significative, citerò soprattutto dal c.
CLXXVIII i vv. 38; 40-41; 43-45; 56-58; 69-70.
Aurea vis fandi; hinc Coeli provectus ad axes […]
Humida nox pariat, quot menstrua luna labores
Sustineat, quantumque homines pecudesque iuventur […]
Reddidit ille tibi, quod tempora lucis et umbrae
Constituas, noctique diem, noctemque diei
Ordine perpetuo jubeas subiisse vicissim! […]
Laudibus ornavit meritis; te, barbara, miti
69
Mitior hinnuleo; te puro purior, Agnes
Electro; te Tecla, sonans; mirumque sonanti! […]
Fulget adhuc; tacitisque licet rapidissima pennis
Cuncta premat verratque aetas, nunc nomine Roni. […]
Purezza classica, da Anthologia Latina, è il c. CLXXX In Faustinam
Cattani sepulcralis Inscriptio:
Siste, viator, iter, saxoque huic lumina verte: […]
Inspice: et hoc memori mente, viator habe.
Intenso anche il c. CLXXXVI In adolescentis obitum (già edito):
Oh puer infelix, pubenti aetate peremptus
Indueret primo cum tibi flore genas; […]
Sommessa pensosità intimistica di tipo oraziano è nel c. CLXXXIV
De crastina die già citato:
Ne te cras fallat, multos qui saepe fefellit
Nunc, age: nec tibi oras, nec mihi forsan erit (78).
Intenso anche il c. CLXXXIX In Aloysii Ballerini obitu
Te, Lodoix, ploro: mihi te super omnia earum
Absumptum leto nocte dieque fleo; […]
Certo da questi punti di vista il gruppo di liriche più ricche ed intense
è il nucleo di epigrammi lirici inediti CXCIV-CCVIII, ai quali conto di
dedicare in seguito un'analisi più dettagliata.
Sintagmi particolari e interessanti sono presenti nei Carmi inediti.
V 4 Provocat insanos nauta valens hiemes;
VI Ad D. Antonium Pellegrinum Ecclesiae Lauretanae Archidiaconum et
Vicarium Capitularem, vv. 12 e 19
70
Gloria quid mundi tartara si veniam? […]
Sum steriles nugas, nomenque secutus inane
XIII Ad Eumdem, v. 2
Oh mihi quam carum pignus amicitiae
XIV Ad Em.um Ferrierium, v. 1
O cui cognomen ferreum, sis quamlibet aureus;
XVI Ad Em.um Carolum Aloisium Morichinium Aesinatium Episcopum, vv.
1 e 20:
Quae sunt Romuleam pietatis asyla per urbem […]
Sistere saepe gradum purosque hic aetheris haustus […]
Per il v. 20 cfr. espressioni come aetherios tractus.
Cfr. XVII Ad Eumdem v. 1
Carmina Romuleis tibi de pietatis asylis.
Si noti il costrutto intrecciato a c. XXII In Ejusdem ab Episcopali Sede
Aesinate ad Archiepiscopalem Bononiensem Translatione, v. 1
Multa dolens lacrymisque genas conspersa profusis.
Si vedano gli accusativi di relazione, come a XXVI In eiusdem obitu, v. 16
Obstupuit vires mentis at ingenia.
Si notino anche espressioni eleganti come c. XCI v. 2
Versibus argenteis. Bractea forte fuit
o a c. CXV De eadem (già edito), v. 39
Dic age purpureum properet meruisse galerum
71
c. CCXL, v. 103:
Hoc solitus primo vernante flore juventae
c. CCLXXVI, v. 59:
Imperii specimen, gemmeo diademate textu.
Una sequenza di proposizioni paradossali è in c. CCLIX In Comitem
Camillum Cavour.
Per espressioni un po' ricercate e artificiose si veda CCLXXXIII Ad
Eumdem, vv. 25-26 e 31-32:
Et puto quod marmor sit idem quod amaror, amare
Fit mare: sic dici fecit amarities […]
Corripe cum scribas literam, haud secus atque lituram;
Alitum enim verbo nomen utrisque venit.
Frequenti sono nei Carmina figure stilistiche come allitterazione per
cui si veda, ad es., c. CXII Ad Em.um Bonaparte, vv. 12-13
Poeonii de more viri cum pharmaca praebens
Aegrotis pueris pocula mella init;
chiasmo, per cui si veda, ad es., c. CLXXIX In obitum adolescentis Aristidis
Calzonii Bononiensis maxime spei lyristae (già edito), v. 12:
Restat honos vitae, restat et artis honos.
Nella metrica prevale, come si è già detto, il distico elegiaco. PM
accoglie talvolta, specie nelle composizioni di argomento sacro, metri
consueti della poesia religiosa. Si veda ad es. il c. CLXII Ad SS. Dei et
hominum Matrem (già edito), in cui ritroviamo la struttura metrica del Veni
Creator Spiritus:
O labis omnis inscia
Parens beati Numinis
Parens dolentis exulis.
Es tu reique ac Iudicis (79).
72
Della struttura acrostica di alcuni carmi (CCXXVIII; CCLXVI etc.) si
è detto supra.
Da questo quadro risulta un impasto linguistico particolarmente ricco
e suggestivo, efficace, originale e, vorrei aggiungere, non barocco, ma terso,
snello, guizzante: un latino elegante, vibrato, duttile, ma sempre armonioso,
misurato, lineare, essenziale; insomma pura lingua poetica sostanziata di
letture classiche sterminate, da Ennio alla cosiddetta latinità argentea, ai testi
biblico-cristiani. Altissimi i risultati raggiunti da PM.
Ma è tempo di concludere. Ho cercato di mostrare alcuni dei punti più
qualificanti dell'opera di PM, evidenziando sia dati di rilevante interesse
letterario, sia caratteristiche della "memoria poetica", anzi "memoria
classico-poietica", cioè naturale disposizione a creare e ricreare per
immagini classiche, consapevolmente o inconsapevolmente riprese e
rivitalizzate.
Struttura e lingua dei Carmina rivelano un'institutio seria, profonda e
una memoria prodigiosa cui si accompagnano esercizio ed esperienza
filologica e letteraria consumata e consapevole, e attenta utilizzazione dei
classici anche attraverso la consultazione di testi e dizionari.
I contenuti molteplici, spesso intensamente lirici, la meditazione sulla
vita e sulla morte di un'anima eroica e fragile, mite e tenace, complessa e
candida, rendono quest'opera latina, summa delle esperienze dell'autore,
un'importante testimonianza d'arte e di poesia, degna di essere collocata in
quella tradizione di grandi poeti in latino che ha il suo esponente più noto in
Giovanni Pascoli.
I Carmina sono un canto autentico, fondamentalmente elegiaco e
commosso: un mirabile intarsio di forme, locuzioni, immagini, in un latino
splendido, spesso palpitante e vivo come la personalità di questo umanista
marchigiano dell'Ottocento, schivo e sensibile, la cui opera è ancora tanto
dai più ignorata, quanto degna di essere conosciuta e apprezzata nella sua
validità di documento di alta e intensa lirica.
Non resta che augurarsi che queste liriche abbiano presto un'edizione
critica accurata che le faccia conoscere in tutto il loro valore.
73
Note
1)
L'opera è conservata presso la Cassa Rurale ed Artigiana di Camerano (Ancona).
Per notizie in merito soprattutto ai contenuti si veda M. MORRONI, Giuseppe Pasquali
Marinelli. Le età di un poeta. Biographia Literaria, Ancona, 1993 (d'ora in avanti
Biographia literaria), pp. 72-73. Presso la Cassa Rurale di Camerano è conservata anche
copia autografa di 120 poesie latine varie (cfr. Biographia literaria p. 75; per notizie su
altri autografi superstiti dei Carmina, si veda passim). Per un elenco dei Carmina inediti si
veda ibid., Appendice G, pp. 164-168. Dalla Biographia literaria sono mutuate anche le
varie abbreviazioni (cfr. ibid., p. IV).
2)
Su P. Gianuizzi si veda M. MORRONI, Biographia literaria cit., soprattutto n.
457.
3)
Dall'Elogio funebre pronunciato dall'avv. Pietro Gianuizzi nella chiesa priorale di
Camerano il 10 luglio 1876 e pubblicato in De pugna ad Castrumficardum […], traduzione
di M. MORRONI, commento storico di M. COLTRINARI, Ancona, 1991, pp. 213-214:
"… Mi scriveva Egli sotto la data del 9 marzo 1874 queste parole: 'Ella mi propose di fare
la versione di Pindaro; ma io mi trovo di averne intrapresa altra assai più lunga e difficile,
quella cioè del Poema di Klopstoch (sic!) la Messiade; quando avrò assestato le mie
versioni bibliche e le mie piccole originali poesie latine, mi vi porrò di proposito ed in un
anno spero, se Dio mi dà vita, di cavarci le gambe. Ad ogni modo starò così in questo resto
qualsiasi dei miei giorni meditando (ad onta delle fantasticherie dell'Autore) la passione di
Cristo, onde con esso mi trovi sul punto della mia morte' ".
4)
Ibid. p. 220. Cfr. anche ibid. p. 221 "E di tutti gli altri brevi componimenti sia
originali che tradotti".
5)
Cfr. vv. 31-46 (vedi infra).
6)
Un'ottantina di carmina possono considerarsi come brevi lettere indirizzate ad
amici, corrispondenti, letterati, prelati, familiari (soprattutto D. Marinus Marinellius) e
parenti: si veda Biographia literaria n. 630.
7)
Cfr. Biographia literaria, n. 631.
8)
Ibid. n. 632.
9)
Per un elenco dei circa trenta carmi che appartengono alla meditazione religiosa si
veda ibid. n. 633.
10)
Ibid. n. 634.
11)
Ibid. n. 635.
12)
Ibid. n. 636.
13)
Ibid. n. 637.
14)
Ibid. n. 638.
15)
Ibid. n. 639. Per giudizi sulle versioni omeriche si veda ibid. nn. 475 sgg.
16)
Ibid. n. 640.
17)
Ibid. n. 641.
18)
Ibid. n. 642.
74
19)
Ibid. n. 643.
20)
Ibid. n. 644.
21)
Ibid. n. 645.
22)
Ibid. n. 646.
23)
Ad es. sono dedicati alla Madonna i carmi CLIX; CLX; CLXII; CCXIX; CCXXI;
CCXXII; CCXXIII; CCXXVII. Sono dedicati a Cristo i cc. CLXI Ad Jesum e CCLXXV Ad
Christum.
24)
Cfr. Biographia literaria n. 649.
25)
Ibid. n. 650.
26)
Ibid. n. 651.
27)
Ibid. n. 652.
28)
Ibid. n. 653.
29)
Ibid. n. 654.
30)
Ibid. n. 655.
31)
Ibid. n. 656.
32)
Ibid. n. 657.
33)
Ibid. n. 658.
34)
Ibid. n. 659.
35)
Ibid. n. 660.
36)
Ibid. n. 660-674.
37)
Ibid. n. 661.
38)
Ibid. n. 663.
39)
Ibid. CLXV In aereum simulacrum Ioakino Rossinio musicae praeceptori Pisauri
in foro positum; CLXVI Ad D. Marinum Marinellium De eodem argumento; CLXVIII De
Ioakinio Rossinio aegrotante.
40)
Cfr. ibid. CLXVII De Missa in inferias Alexandri Manzoni.
41)
Cfr. CLXXI De ephemeride "La Civiltà Cattolica".
42)
Cfr. CCLXXXVIII Ad Aloisium Paolinelli; CCXXXIX Ad Eumdem.
43)
I Auctoris Genealogia; XLII.
44)
Cfr. CLXXVIII "Lemma Academicum" - Le glorie del Collegio Campana di
Osimo 'Che il retore deve essere filosofo' Peregrinius Ronius.
45)
Cfr. CCXXIV Christophori Columbi deprecatio.
46)
Cfr. CCXXXV In hipothesim Cupernicanam.
47)
Cfr. VII Ad Amicum De famae post mortem inanitate. VIII De eodem argumento;
IX De eodem argumento.
48)
Cfr. Biographia literaria n. 673.
49)
Ibid., n. 674.
50)
Ibid. n. 688.
51)
Cfr. G. FLAMMINI, Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell'Odissea, in
questi Atti, supra. Anche i contemporanei si rendevano conto delle ascendenze lucreziane
della poesia di PM. Si ricordi il giudizio di Ludovico Menin (EPI, j16 ter del 7 agosto
75
1838), appunto in una lettera al Petrelli: "Mi sembrò di gustare un sapore lucreziano nelle
Institutiones Iuris Civilis. L'autore ha il dono della facilità, dell'eleganza e di uno stile che
ricorda i buoni tempi della latinità".
52)
Già a proposito della versione biblica il cardinale Lorenzo Barili scrive (B1, p. 19
e GIV p.3) che è "un tesoro di latina poesia e di stile virgilianissimo". Per l'imitazione di
Virgilio si veda anche Biographia literaria, n. 248: "Evidente è comunque nella poesia
pasqualiana l'imitazione virgiliana; cfr. ad es. lo stesso inizio del libro III di Job che suona
così: "Obstupuere omnes, defixique ora tenebant" e che ricorda molto da vicino l' incipit del
libro II dell'Eneide ("Conticuere omnes intentique ora tenebant") allontanandosi
evidentemente dalla Vulgata, che all'inizio del cap. XXXII (v. 1) così si esprime:
"Omiserunt autem tres viri isti respondere Job". Del resto il latino di PM è definito
virgiliano da quasi tutti i suoi lettori e in riferimento a molte delle sue opere: cfr.
Biographia literaria n. 719 con i vari rinvii; importante anche la n. 288 che contiene cenni
a giudizi critici pubblicati da un contemporaneo, il Mazzuttini a PM: "In tanto scolorimento
delle lettere latine, e soprattutto della poesia latina, quale ravvisasi a' giorni nostri, somme
lodi si meritano quei pochi che solo fermi reggonsi contro l'irruente piena degli odierni
romantici Scrittori, nemici di tutti i grandi esemplari di Atene e di Roma. Tali sono fra di
noi il Furlanetto, il Trivellato e quanti altri tengono la palestra dell'insegnamento
nell'insigne patavino Seminario, perenne asilo ed inviolata rocca dell'aurea latinità, ed in
Venezia soprattutto il Filippi a niuno secondo nel translatare i poetici numeri dell'Arno nel
maestoso idioma del Lazio. In tanto senno poi sovrano maestro pur siede in Romagna il
Marinelli, che ai sublimi voli degli ispirati Vati aggiunge quasi nuove grazie e bellezze col
farli risonare nelle meste e patetiche note del mantovano Cantore, od a meglio dire alle
dolci armonie di questi infonde sovr'umana grandezza, e senza più le divinizza. Tanto
eccellenti sono i suoi versi, meno poche al più acuto guardo soltanto discernibili mende,
che non più appajono che le macchie del sole…".
53)
Il dizionario è citato da PM in EPI, 41 (in data 10 marzo 1864). Si tratta della terza
edizione del Totius Latinitatis Lexicon, "auctum et emendatum" da Giuseppe
FURLANETTI, stampato a Padova, "Typis Seminarii" nel 1827, in quattro volumi, più
l'Appendix edita nel 1841. Il Forcellini di PM è conservato nel fondo "Pasquali Marinelli"
presso la Biblioteca Comunale di Camerano (= FPM) insieme ad alcune grammatiche latine
(cfr. Biographia literaria, nn. 694-695).
54)
Conservato presso la CRA di Camerano: cfr. Biographia literaria, n. 483 "a
memoria coppiò Lucrezio sino quasi tutto il lib. 5…Coppiò cinque satire di Persio…".
55)
Cfr. anche il citato Elogio funebre di Pietro Gianuizzi, p. 206: "… ecco il Pasquali
prendersi a compagni indivisibili Lucrezio, Virgilio, e quell'altissima schiera di vati che il
vanto della Poesia contrastarono alla Grecia, e per immedesimarsi quasi con essi parte delle
loro opere porsi a memoria e parte copiarne come veggiamo aver fatto del Lucreziano
Poema che trascrisse dal primo fin circa la metà del quinto libro, come delle Satire tutte di
Persio, ed una del Settano, come di molti versi di una tragedia di Seneca che pare esistono
fra i suoi manoscritti".
76
56)
FPM: cfr. Biographia literaria, p. 77, a proposito della Biblioteca Comunale di
Camerano: "Ospita il Fondo Pasquali Marinelli, cioè quella che dovrebbe essere la fusione
tra i libri di don Francesco Saverio Marinelli e la biblioteca del nostro (682). E' composta di
circa 1150 volumi, spaziante tra letteratura italiana e latina, apologetica, ascetica, mistica,
eloquenza, storia ecclesiastica e civile, filosofia, agiografia, Sacra Scrittura. Inoltre
conserva alcune copie delle opere pubblicate dal poeta…".
57)
Cfr. Biographia literaria, p. 81.
58)
Per un'analisi dettagliata di questi problemi si veda Biographia literaria, pp. 81-84
(Latium eloquium) con le note 701-712.
59)
Cfr. ELE XL, v. 4.
60)
Ibid. CXIV Ad Pium IX Pontificem Maximum De eadem, v. 6.
61)
Cfr. ELE CXV De eadem.
62)
Cfr. EPI, 80 (2 giugno 1872): "Si persuada Ella che questo non è tempo da smercio
di libri e molto più se sono latini. L'acqua vuol andar per la china e conviene farvela andare;
e ora ci va a rotta di collo".
63)
Cfr. EPI, 28 (21 febbraio 1855).
64)
Ed. A. Avoli, Roma, Tip. A. Befani, 1883. Dell'Autobiografia è stata recentemente
curata una nuova edizione dalla contessa A. LEOPARDI per la collana Transeuropa, Il
lavoro editoriale, Ancona, 1993.
65)
Cfr. mie considerazioni in Atti del convegno Latino oggi: come, quando, perché,
organizzato dall'Associazione Liceo-Ginnasio "Francesco Petrarca" (30-31 ottobre 1992;
Liceo Petrarca, Trieste), Trieste 1993. Rel. di S. SCONOCCHIA, Cultura scientifica e
tecnica in lingua latina: il linguaggio medico dell'enciclopedia e del manuale, pp. 35-55,
per il problema presente 35-36.
66)
Soprattutto 953 in data 17 aprile 1821 e 2007-2009, in data 28 ottobre 1821. Cfr.
Sconocchia ibid., pp. 36-38.
67)
Cfr. Biographia literaria, n. 719.
68)
Per dati biografici si vedano soprattutto i vv. 1-30: Angelus est atavus, Marinelliae
gentis origo,/Ex quo progeniti quinque fuere viri. Ex hoc Franciscus, de quo satus Angelus
alter,/Angelus antiqui nomen adeptus avi./Hic Magdalenam genuit quae lucis in auras/Me
dedit, ac fratres quinque mihi peperit./Hanc sibi connubio Paschali e stirpe creatus/Vir
iunxit, Vitus nomine dictus erat,/Uxoris generi adscitus; nam prole virili/Quae se connubio
addiceret, hoc caruit […] Pauper vitam egi: artes indignatus avaras/Pauperibus Musis
omnia posthabui.
69)
Al v. 30, in corrispondenza di **, Gianuizzi scrive: "In supracitato exemplari pro
sequentibus duobus disticis leguntur haec quatuor: Jura aetate virens et Job mala plurima
passum/Atque Apocalypsin versibus exposui./Tum quae Tobias, quae Deborah gessit et
Esther,/Quae Ruth, quae Judith quaeque parens Samuel,/Quae Salomon cecinit, cecinit quae
Cantica (in app. carmina) Moses/Reddita carminibus personuere meis./Deinde et
Sacramenta Dei, sanctosque Prophetas/Et numeris Hymnos Davidis excolui".
77
70)
Al v. 43, in corrispondenza di *** Gianuizzi scrive: "In alio exemplari desunt
superiores duodecim versus et pro Musas sic latias in principio sequentis versus legitur:
Praecipue latias excolui".
71)
Questi i rispettivi titoli: CXXX Ad Em.um Carolum Aloisium Morichinium De
Odysseae versione; CXXXI Ad Eumdem De eadem; CXXXII Ad Eumdem De eadem;
CXXXIII Ad Eumdem De eadem; CXXXIV Ad clarissimum virum Josephum Ignatium
Montanarium De eadem; CXXXV Ad Eumdem De eadem; CXXXVI De eadem.
72)
Questi i titoli: CXCIV De humano genere; CXCV De eodem; CXCVI De
aeternitate; CXCVII (s.t.); CXCVIII De in malis patientia; CXCIX De hominis felicitate;
CC De rerum veritate; CCI De pietate; CCII De humanis actibus; CCIII De humanis
affectibus; CCIV De homine; CCV De hominis cum Deo consanguinitate; CCVI (s.t.);
CCVII De hominum desideriis; CCVIII De hominis cum Deo similitudine.
73)
La lettura di Lucrezio, come si è già detto, è attestata anche da un appunto
conservato presso la Cassa Rurale di Camerano: cfr. Biographia literaria, n. 483 cit.
74)
Su questo punto cfr. anche G. FLAMMINI, Giuseppe Pasquali Marinelli
traduttore dell'Odissea, supra.
75)
Cfr. contributo di FLAMMINI, in questi Atti, supra.
76)
Su questo termine cfr. FLAMMINI, supra.
77)
Mi occupo qui dei sostantivi, non prendo in esame i diminutivi di aggettivi, pur
frequenti. Cfr. ad es. candidulus (CCXXXIX 36 candidulis… malis) etc.
78)
Di questa lirica esistono varianti riportate da Gianuizzi: Iam clare ac prompte Clarius ac citius - 2 Fac hodie: tibi cras nec mihi forsan erit - Fac modo: cras etenim non
tibi forsan erit. La composizione richiama il motivo tipicamente oraziano del cras e del
carpe diem: cfr. c. I 11 cit. etc.
79)
Gianuizzi annota nel richiamo: "Haec strophe ab Auctore imperfecta relicta, eius
verbis refecta fuit".
78
Carlo Santini
Il Pasquali traduttore latino dell'Iliade e i suoi predecessori
Sulla biografia del poeta neo-latino Giuseppe Pasquali Marinelli
(PM), nato a Camerano in provincia di Ancona nel 1793 e ivi morto nel
1875, la documentazione più aggiornata è rappresentata dal saggio recente
di Massimo Morroni (1); l'opera di PM resta comunque tuttora del tutto
sconosciuta, né a renderla più nota ha contribuito un congresso tenutosi a
Camerano nel 1993, perché gli atti dei lavori non sono stati pubblicati.
L'opera in versi di PM è assolutamente monumentale: segnaliamo qui,
accanto alla versione latina dei due poemi omerici, l'esposizione in versi
delle Institutiones juris civilis, la versione di buona parte del Vecchio
Testamento, della Divina Commedia, dei Sepolcri del Foscolo e della
Messiade di Klopstock, nonché tre poemi epici sulla battaglia di
Castelfidardo (De pugna ad Castrumficardum), di Mentana (De pugna ad
Nomentum) e sulla presa di Roma (Romae expugnatio), dove PM esprime il
suo lealismo nei confronti dello Stato Pontificio e quindi la sua avversione
per il processo di unificazione nello Stato italiano unitario. Buona parte di
detta produzione di alcune decine di migliaia di esametri è edita, ma resta
una parte rilevante di inediti presso la biblioteca comunale di Camerano.
Dopo un periodo di gestazione di venti anni la versione latina
dell'Iliade vede la luce ad Ancona nel 1869 presso la tipografia degli eredi
Baluffi; un anno dopo gli tiene dietro quella dell'Odissea. Le due versioni
sono segnalate con il primo premio all'Esposizione Provinciale di Ancona
del 1872 con la seguente motivazione: "perché dettate in elegante latinità,
concorrono a mantener vive la tradizione e la coltura della Lingua latina."
(2) Lo stesso PM parla in un componimento tuttora inedito (il n. CXVII
dell'autografo presso la Biblioteca Comunale di Camerano) della genesi
della traduzione; qui immagina di aver avuto una visione in cui "umbra est
Maeonidae sic mihi visa loqui" invitando proprio lui, cultore del latino
"inimica aetate," all'opera del tradurre i due poemi epici "Eja age,
carminibus latiis jam vertere nostram / suscipe Odysseam, suscipe et
Iliaden"; il racconto, pur aneddotico, implica tuttavia un certo coefficiente
79
di autenticità, perché quello di PM è stato, credo, l'ultimo tentativo di una
versione poetica in latino già in piena età della filologia positivista. Parlare
delle traduzioni latine di Omero significa aprire un capitolo non solo di
storia dell'Umanesimo, ma anche della storia del tradurre. A prescindere
dagli esempi del mondo classico, l'età delle versioni latine dei poemi
omerici inizia nel nome di Leonzio Pilato, che traduce sia l'Iliade sia
l'Odissea (1358-62 circa) dietro richiesta di Boccaccio, e si conclude nel
XIX secolo con la editio Didotiana sul testo di Dindorf attraverso un catalogo
ricco di quasi cinquanta lemmi (3). Quella del Pilato fu versione letterale
con vari fraintendimenti ed errori, dovuti alla scarsa perizia della lingua
latina, ma a questa prima prova tennero poi seguito le versioni parziali di
alcuni grandi umanisti (Valla, Poliziano); a partire dalla metà del XVI
secolo, e precisamente dopo la versione poetica dell'Iliade di Eoban Hesse
(Basilea 1540), comincia tuttavia a venir meno il proposito della traduzione
in versi latini con l'eccezione di quella del gesuita messicano Francisco
Javier Alegre e del gesuita raguseo Raimondo Cunich (4) (Roma 1776).
Ogni discorso sul modo migliore di tradurre Omero implica nel XVIII
secolo un accenno al nome di Melchiorre Cesarotti. Cesarotti ha ben
presente quanto sia spinoso nel caso specifico il dilemma tra traduzione
letterale e traduzione poetica, ragion per cui inizia nel 1786 la pubblicazione
di una versione letterale in prosa italiana dell'Iliade, terminata nel 1794 alla
quale affianca un rifacimento in versi sciolti che intitola L'Iliade o La morte
di Ettore. Cesarotti, da buon filologo, come dimostra la sua versione letterale
che rappresenta una vera e propria enciclopedia omerica con molte ricche
annotazioni al testo ("la Critica filologica abbraccia tutto ciò che si riferisce
all'Erudizione antica, che può ridursi a sei capi, vale a dire la Mitologia, la
Geografia, le arti, le opinioni, i costumi, le usanze,") (5) si rende
perfettamente conto dell'impossibilità di dar vita ad una traduzione d'arte,
che rispetti rigorosamente l'originale; in questa prospettiva "risolsi" —
scrive — "di dar a' miei lettori due Traduzioni in cambio di una: la prima in
verso e Poetica, la seconda in prosa ed accuratissima, quella libera,
disinvolta, e per quanto mi fu possibile originale, questa schiava della lettera
fino allo scrupolo, e tale che quanto al senso e al valor preciso dei termini
potrà servire di Testo a chi non intende la lingua." (6)
80
Sempre nell'ambito delle versioni in italiano due casi opposti agli inizi
del XIX secolo sono quelli rappresentati dalla versione di Vincenzo Monti
(1810-1811) e dagli Esperimenti di traduzione dell'Iliade attuati da Ugo
Foscolo nel corso di tre lustri dal 1807 fino alle minute degli ultimi anni
(1822-1826). Il primo, "portato ad ammirare la grande favola iliaca al punto
da perderne di vista il testo in quanto tale e i problemi che vi erano
connessi," (7) trascorre veloce sul testo greco basandosi sostanzialmente
sulle versioni latine, tra le quali in particolare quella di Cunich, ed italiane,
mentre il secondo sente quanto siano ardui i problemi del tradurre,
soprattutto per quanto riguarda la resa del patrimonio formulare.
Nel caso di PM, che con grande determinazione ha scritto solo in versi
latini, il progetto di una traduzione poetica è una scelta obbligata. Non è
quindi casuale che il nome di Cunich — unito a quello di Bernardo
Zamagna, anche lui gesuita e raguseo nonché discepolo del primo e
traduttore latino, a sua volta, dell'Odissea in versi (Venezia e Siena 1777) —
compaia dopo la dedica in distici elegiaci al cardinale Lorenzo Barili nella
prolusio in esametri, là dove PM espone il suo pensiero per quanto concerne
la ratio vertendi. La versione di Cunich era stata infatti valutata dai critici dei
suoi tempi con particolare favore, tanto da assurgere al rango di modello, che
avrebbe reso inutili ulteriori altri lavori in questa direzione, come quello di
PM (vv. 1-3: "Maeonidae Iliaden latiis mandare Camoenis / aggrederis?
nonne haec eadem vulgata Latinis / Cunichii est numeris, plausuque excepta
secundo?"). La critica di PM nei riguardi del Cunich muove da una
considerazione generale che colloca la tecnica del tradurre in una
dimensione letteraria sua propria, ben diversa quindi dalla semplice
padronanza linguistica (8) (vv. 20-23: "qui callet utrasque / linguas, ex qua
vertit, et in quam verti oportet, / aiunt, egregie vertat. — non hercule:
multum / nam distant, linguam callere et vertere recte"). Cunich dà prova di
notevole competenza nella lingua greca, circostanza questa che, come
vedremo, non si può dire per PM, ma la sua dottrina non garantisce a priori il
successo, che dipende invece dalla capacità di entrare in sintonia con il
modello (vv. 24-26: "ut vertas, potius quam docta scientia linguae, / indolis
efficiet paritas qua scriptor uterque / conveniant"). Se è dunque vero —
scrive PM — che al traduttore deve essere riconosciuto lo stesso ruolo del81
l'autore (v. 39: "haud tamen interpres, verum ipse videbitur auctor") per
essere riuscito a riservarsi una sorta di autonomia nella sua sfera linguistica,
Cunich invece, da un lato, rivela palesemente il peso del modello (gravem se
ferre catenam) e dall'altro diluisce, proprio per tale soggezione, il Maeonidae
generosum ac nobile vinum, oltrepassando di tremila versi il testo greco, con
la conseguenza che l'originale ha perso vigore (v. 60: sine nervis, v. 67:
elumbem) e lo stile è divenuto prolisso (v. 60: Carmine praeduro prolixoque; v.
66 s.: pleraque laxe diceret; v. 67: fluxam poesim).
È tuttavia abbastanza singolare che anche Cunich aveva dichiarato
propositi analoghi nell'ampia Operis ratio eidem Cl. V. ab interprete reddita,
che precede la sua versione dell'Iliade. Qui ammette infatti che i modi di
tradurre sono sostanzialmente due, il primo dei quali è quello di quanti
"verbum e verbo convertunt, singulas voces religiose, atque adeo
superstitiose adnumerant, nihil eo, quo positum est loco, mutare audent"
(xx), ma questo genere di traduzione, se risulta idoneo per opere il cui precipuo scopo consiste nel fornire al lettore notizie ed informazioni, appare
invece inadatto e spiacevole (injucundum, ineptum) per la versione d'arte
("si quis transferat ad oratores, aut ad poetas, qui non magis rerum pondere,
quam verborum splendore commendantur"). Cunich sembra quindi
perseguire il miraggio di una traduzione che riesca a conservare il livello
formale del modello, vale a dire ne riproduca il contesto stilistico.
Come si vede entrambi propongono come finalità una sorta di "calco"
nell'intento di far rivivere in modo autonomo nella traduzione il mondo
poetico dell'originale; scrive appunto PM in una lettera del 19 giugno 1872
che "primo e sostanziale pregio di una versione si è che produca nell'animo
del lettore quel medesimo effetto che vi produce l'originale, con non minor
forza, eleganza e fluidità di verso. Ciò si ottiene quando la versione non
sembra versione, quantunque renda l'originale." (9) Gli esiti rischiano
tuttavia di apparire controversi soprattutto quando si è dinnanzi ad uno dei
maggiori problemi per il traduttore della Kunstsprache omerica, vale a dire
la formularità, che è sempre stata per altro un parametro di classificazione
per quanti hanno lavorato sul Fortleben di Omero, sicché come osserva L.
E. Rossi: "sarebbe interessante vedere come i singoli traduttori si sono
comportati di fronte alla formularità." (10) Rispetto a questo modulo
82
fondamentale PM, differentemente da quanto ha fatto Cunich, sceglie la
strada della sostanziale omissione, così come è stato ben illustrato da
Flammini nel caso della Odissea (11) conseguendo lo scopo di rispettare le
proporzioni del modello ("neve sit uberior copia neu brevior") e addirittura
di ridurlo in scala minore. Si tratta infatti di 14917 versi rispetto ai 15692
del testo greco, cioè in termini statistici il 5,57% in meno rispetto al 19,74%
in più di Cunich (18790 versi).
La scelta di PM può essere considerata in certa qual misura
anticipatrice di una presa d'atto alla quale la critica si accingerà con il saggio
di Milman Parry solo sessanta anni dopo. Il sistema formulare quale appare
in Omero, proprio in virtù dei principi di economia (esiste una sola formula
per ogni idea essenziale in una determinata condizione metrica) e di
esaustività (esiste una formula per ogni idea essenziale ed ogni condizione
metrica) che lo governano, risulta essere nel momento ottimale del processo
di trasmissione orale dell'epica greca. La definizione di formula come "une
expression qui est régulièrement employée, dans les mêmes conditions
métriques, pour exprimer une certaine idée essentielle" (12) implica infatti
che proprio perché funzionali al codice formale (stilistico, linguistico, e
metrico) del testo le formule risultino quindi virtualmente intraducibili per
l'impossibilità di familiarizzare il lettore al rapporto nome-epiteto. (13)
A queste considerazioni si aggiunge anche l'accertata scarsa
conoscenza della lingua greca (14) di PM, che lo induce a ricorrere di volta
in volta a don Marino Marinelli (15) per consiglio, per la revisione degli
elaborati, e anche per indagini e verifiche presso la biblioteca del seminario
di Osimo, dove era disponibile il testo greco con la versione letterale latina
di J. H. Lederlin e S. Bergler (16) assai diffusa in quei tempi. Tale
condizione di minorità linguistica non ha tuttavia distolto dall'impresa il
PM, che invece porta avanti questo lavoro secondo alcune precise scelte di
metodo. La prima di queste è rappresentata dalla sostanziale equivalenza di
dimensioni con il modello, circostanza che lo induce ad attenersi agli stessi
due criteri già evidenziati per la versione dell'Odissea, che consistono sia
nell'omissione ovvero nella "resa misurata" (17) e gli epiteti fissi, sia nella
"fusione in un solo verso di due esametri dell'originale" laddove, in contesto
dialogico, il primo dipenda da qualche espressione formulare. (18) Se
83
quindi gli epiteti sono sovente tralasciati (e al riguardo è evidente il
contrasto con la traduzione letterale della editio Didotiana), non è detto che
essi debbano sempre sparire e ovunque come dimostra la presenza costante
di espressioni come rex hominumque Deumque oppure di galea insignis
(κορυθαιόλος).
Accanto a questo criterio è per altro evidente, come vedremo con
qualche esempio, l'intenzione di creare, tramite modificazioni e aggiunte
non irrilevanti al testo greco, un sistema di ponderazione e di colores, che
rappresenti un costante riferimento ai codici del genere epico, quali sono
stati fissati nel contesto della lingua latina (19) — inutile aggiungere a
questo punto che tali modificazioni e accrescimenti dipendono in larga
misura dal dettato epico dell'Eneide.
Il primo assaggio relativo alla tecnica della traduzione in PM
corrisponde ai sette versi incipitari della propositio dell'Iliade, proprio per la
loro riconosciuta e collaudata citabilità mnemonica come anche per il
carattere esemplare ed esemplificativo rispetto all'intera opera; PM li porta
ad otto:
Iram, quam Peleo natus concepit Achilles,
diva, cane; exitialem iram, quae plurima Grajis
damna tulit, multasque virum provolvit ad Orcum
ante diem fortes animas, ipsosque reliquit
alitibus diris canibusque voracibus escam.
Sic Superum Patri visum, cum, lite coorta,
indociles flecti, discordia discidit ardens
Æaciden divum regumque Agamemnona regem
conservando la posizione incipitaria di quella che è "la prima parola del
Poema, come ne è l'elemento," come chiosa Foscolo, ma rinunciando a
mantenere nel primo verso gli altri due segni determinanti θεά e ἄειδε,
come avrebbe meritato invece, sempre per Foscolo, "la venerazione di tutti i
secoli per questo verso." (20) Cunich al contrario, così come rimprovera
(21) al predecessore cinquecentesco Eoban Hesse di avere modificato
arbitrariamente tali segni con dei sinonimi ("Dic mihi magnanimi Pelidae
Musa furorem"), li colloca tutti nel primo verso ("Iram, diva, trucem
Pelidae concine Achillei").
84
PM ha notato anche la marcatura per enjambement di οὑλομένην che
conserva in qualche misura nella ripresa in epanalessi ("Iram... exitialem
iram"). Alcune aggiunte corrispondono invece a sue scelte individuali: la
forma ante diem accentua il motivo della morte prematura dei giovani
guerrieri (προίαψεν), ma il sintagma è stato senza dubbio recepito dal
modello virgiliano, cf. Aen. 1.374: "ante diem clauso componet Vesper
Olympo," nella stessa posizione metrica, e 4.697 "sed misera ante diem
subitoque accensa furore" (che qui si riferisce alla morte prematura di
Didone), oltre che dalla versione italiana del Monti, cf. 1, vv. 3-4: "molte
anzi tempo all'Orco / generose travolse alme d'eroi." Un'accentuazione di
colores è rappresentata dalla coppia alites diri e canes voraces con
l'aggettivo per ogni nome in virtù dell'equivalenza ponderale, come anche
dalla scelta di personificare discordia, che diviene soggetto nel testo latino
al posto dei due contendenti - ed al riguardo va ancora una volta riconosciuta l'influenza esercitata dal testo di Monti, cf. 1.8: "primamente
disgiunse aspra contesa." Viene anche rovesciato l'ordine dei nomi propri
che stanno agli estremi della struttura ad anello del verso greco: Ἀτρείδης...
Ἀχιλλεύς. Alla sfera delle ripetizioni verbali tipica dell'epica latina
appartengono la coppia allitterante discordia discidit e gli altri riscontri
fonici come l'omoteleuto divum regumque e il poliptoto regum regem che
realizza con il genitivo enfatico l'epiteto ἄναξ ἀνδρῶν di Agamennone.
Per la definizione della specifica qualità della traduzione di PM può
qui valere un assaggio di indagine che analizza alcune divaricazioni dal
testo greco, che risultano essere tanto più significative quanto più paiono
configurarsi come il frutto di una scelta di gusto.
L'incontro di Ettore con Paride e Elena a Z 312-368 offre lo spettro
delle possibilità di trasformazioni interpretative realizzate da PM. Ai vv.
307 sg. del testo latino la marcatura moralistica nei confronti di Paride
"invenit hic fratrem, studio fulgentia vano / versantem arma manu" è
esplicitata dalle notazioni sia del brillare delle armi, sia della vanità del
personaggio, notazioni che risultano entrambe aggiunta e specificazione
rispetto alla tenuta impassibile nell'esposto omerico, cf. Z 321 τὸν δ' εὑρ' ἐν
θαλάμῳ περικαλλέα τεύχε ἒποντα. Il v. 310 della redazione latina "juxta
Argiva aderat, famulabus pensa ministrans" trasforma l'etnico in un
85
richiamo allusivo rispetto a Ἀργείη δ’ Ἐλένη di Z 323, proponendo altresì
l'intenzionale romanizzazione della scena con l'iperarcaico dativo rispetto a
μετ' ἄρα δμωῇσι γυναιξὶν / ἧστο, καὶ ἀμφιπόλοισι περικλυτὰ ἒργα κέλευν.
Infine a v. 330 la redazione latina con le parole di Elena "Levir care mihi,
quae tot sum causa malorum" rappresenta un'edulcorazione rispetto alla
forma esplicitamente intensa del greco δᾶερ ἐμεῖο κυνὸς κακομηχάνου
ὀκρυοέσσης (Z 344).
L'aderenza di PM ai fenomeni linguistici e stilistici del testo greco
appare talvolta elevata, nonostante la sua imperfetta conoscenza della
lingua, come ad esempio nel caso di ὀλλύντας τ ' ὀλλυμένους τε di Λ 83
tradotto "cedentes atque cadentes" (11.83) oppure μειλιχίοις ἐπέεσσιν.
ἀμειλικτον δ' ὄπ' ἄκουσαν di Λ 137, che viene reso "verbis sic mollibus illi /
orabant flentes: non mollia rettulit heros" (11.136-137); in altri casi PM
preferisce utilizzare per una voce specialistica del greco un'altra di categoria
analoga, come a Λ 147 ὄλμον, "a round smooth stone," che diviene "ut
buxum versatile," oppure una voce del tutto generica, come a Λ 183 Ἲδηϛ ἐν
κορυφῇσι καθέζετο πιδηέσσηϛ, dove l'attributo πιδήειϛ "rich in springs"
della montagna diviene l'anodino "praecelsae Idae," che solo per acrofonia
potrebbe essergli accostato.
Ho già osservato che i connotati virgiliani della versione di PM
risultano ben riconoscibili. La glossa di Servio segnala le varie occasioni in
cui Virgilio utilizza in modo ragionato e cauto i moduli espressivi del testo
omerico. Non sappiamo se PM abbia mai avuto accesso a Servio, ma la sua
conoscenza di Virgilio gli consente di ricostruire per la sua versione
dell'Iliade alcune delle riprese virgiliane. Cito al riguardo vari casi come
PM 1.510 s. "per tempora divae / nutavere comae : tremuit concussus
Olympus," (A 528: Ἠ καὶ κυανέῃσιν ἐπ' ὀφρύσι νεῦσε Κρονίων, 530 μέγαν
δ' ἐλέλιξειν Ὄλυμπον) da correlare a Aen. 9.105, "adnuit et totum nutu
tremefecit Olympum," oppure PM 5.119 s. "praeterea, quae mortales tibi
densa tegebat / mox oculos, nubem eripui" (E 127: ἀχλὺν δ' αὗ τοι ἀπ'
ὀφθαλμῶν ἒλον, ἣ πρὶν ἐπῆεν) che corrisponde ad Aen. 2.604 ss. "namque
omnem, quae nunc obducta tuenti / mortalis hebetat visus tibi, et umida
circum / caligat, nubem eripiam" e ancora PM 6.291 "frange manu telum
Diomedis, et ipsum / sterne solo ad Scaeas" (Z 306-307: ἅξον δὴ ἔγχος
86
Διομήδεος, ἠδὲ καὶ αὐτὸν / πρηνέα δὸς πεσέειν Σκαιῶν προπάροιθε
πυλάων) da confrontare con Aen. 11.484 "frange manu telum Phrygii
praedonis et ipsum / pronum sterne solo," e ancora PM 8.275 s. "purpureum
veluti florente papavera in horto / demittit, foetu ac verno caput imbre
gravatum" (Q 306-307) da confrontare con Aen. 9.435 ss.: "purpureus veluti
cum flos succisus aratro / languescit moriens lassove papavera collo /
demisere caput" e infine PM 22.87, "mala gramina pastus" (X 94 βεβρωκὼς
κακὰ ϕάρμακα) identico a Aen. 2.471, "mala gramina pastus."
Ma, a prescindere da queste riprese che potremmo definire come
riprese di secondo livello, quello che appare in ogni modo abbastanza
evidente è il travestimento virgiliano di episodi omerici che pure non
dipendono direttamente dallo stesso contesto diegetico e figurale dal quale
sono desunti, ma che ad esso in qualche misura alludono. Anche qui basterà
produrre alcuni esempi: Ettore si rivolge a Paride invitandolo a combattere,
6.316: "quid stas? rumpe moras: te te prius eripe tectis / quam succensa
super procumbant moenia Troiae" (Z 331: ἀλλ' ἂνα, μὴ τάχα ἄστυ πυρὸς
δηίοιο θέρηται) con parole analoghe a quelle con le quali Virgilio fa
svegliare Enea dal fantasma di Ettore nell'ultima notte di Troia, cf. 2.289:
"heu fuge, nate dea, teque his ait eripe tectis;" l'ombra di Patroclo invita
Achille a seppellirlo con la formula "eja age rumpe moras, me conde
sepulcro" a 23.73 (Ψ 71: θάπτε με ὄττι τάχιστα) che troviamo anche in Aen.
4.569 "heia age rumpe moras," dove la situazione parenetica dei due contesti
è analoga (Patroclo appare in sogno di Achille ~ Mercurio appare in sogno
ad Enea) e si ricordi anche Aen. 9.13, "rumpe moras omnis" (Iri appare a
Turno).
Un'ulteriore testimonianza su come PM lavora sui testo omerico
modificandolo alla luce sia degli stilemi e del gusto formale dell'epica latina
sia per i suggerimenti del testo virgliano appare anche in un passo
propriamente descrittivo, quale è la descrizione del θώραξ offerto in dono da
Cinira a Agamennone e descritto a Λ 25-28 al momento che l'eroe lo sta
indossando. Qui (11.24-29) PM preferisce al numerale la forma composta
dell'avverbio numerale con distributivo, che è della lingua epica latina anche
perché suggerita dalla ratio metrica e varia scambiando abilmente i colori
dei metalli (τοῦ δ'ἤτοι δέκα οἶμοι ἔσαν μέλανος κυάνοιο, / δώδεκα δὲ χρυσοῖο
87
καὶ εἴκοσι κασσιτέροιο ~ "hanc cyani denae, bis senae divitis auri, bisque decem
stanni, variabant undique zonae"), inserisce inoltre a v. 27 una nota, squalentia
tergora picti dei κυάνεοι δράκοντες, che ha per presupposto la citazione
virgiliana di Georg. 4.13, "absint et picti squalentia terga lacerti," tanto più
pertinente visto che le lucertole sono anche esse rettili e presentano il dorso
screziato e squamoso come i serpenti della corazza ageminata.
Un ultimo angolo prospettico alla luce del quale valutare la versione
di PM resta infine il confronto con la versione d'arte del Cunich, che il
grande successo aveva canonizzato e dalla quale, nonostante le critiche
mossele, PM in varia misura dipende. Soltanto l'approntamento di un index
verborum, attualmente non disponibile, potrebbe evidenziare in dettaglio il
grado di dipendenza di PM da Cunich, che segue a sua volta i modelli di
Virgilio e Ovidio; tuttavia anche questa modesta campionatura può servire
da esempio, come 24.210-211 Cunich: "Dardanide, confide animo,
gelidumque pavorem / mitte: malae haud venio tibi namque huc nuncia sortis"
~ PM 168-169: "Dardanide, confide animo, moestumque timorem / abjice: non
adsum crudelis nuntia sortis," e ancora 24.585-587 Cunich: "quem fortasse
premunt infenso pectore circum / finitimi nec adest qui cladem ac triste
repellat / exitium" ~ PM 465-467: "illum forte premunt nunc infesto agmine
circum / finitimi nec adest qui vim tristemque repellat / perniciem."
In conclusione l'interrogativo sulla qualità del progetto letterario che
presiede a questa traduzione e sul tipo di lettore al quale PM pensava di
rivolgersi sembra evidenziare un ambito culturale, presumibilmente non
vasto, né sofisticato, ma determinato a mantenersi tenace custode di quella
produzione neo-latina che è frutto dell'istruzione seminariale e gesuitica. I
grandi modelli, Cunich e Monti, (22) non soddisfano PM, anzi la
straordinaria inventiva di Monti, che ricerca la magniloquenza declamatoria
anche a costo di alterare il testo omerico purché l'opera divenga "la più
completa espressione della civiltà napoleonica" (23) gli è sostanzialmente
estranea, nonostante le riprese che abbiamo visto. La critica di PM nei
confronti del Monti viene alla luce in un punto specifico, quando scrive che
"molto errò il Monti, quando tradusse Mi restava Ettorre, l'unico Ettorre"
ad Ω 499-501, perché, così come aveva già notato Chateaubriand, in questo
88
modo il traduttore italiano faceva proferire a Priamo in prima battuta un
nome che Achille sicuramente aborriva. (24)
In definitiva proporrei al riguardo per questa traduzione dell'Iliade la
formula di officina artigianale dove la traduzione è realizzata con grande
impegno, pari consapevolezza e anche quella dose di gusto letterario che
guarda a soluzioni plurime (25) per evitare ogni trasposizione meccanica nel
rapporto tra due lingue.
89
Note
1)
M. MORRONI, Le età di un poeta. Biographia literaria (Ancona, 1993).
2)
Cfr. il catalogo dell'Esposizione Provinciale di Ancona 1872 preparatoria
all'esposizione mondiale di Vienna del 1873. Relazione dell'Ufficio di Presidenza dei Giurati
(Ancona: 1873), 82.
3)
A. PERTUSI, Leonzio Pilato tra Petrarca e Boccaccio (Venezia-Roma, 1964), 521529.
4)
Sulla figura del Cunich (1719-1794) cf. M. VIGILANTE, "Cunich, Raimondo," in
Dizionario biografico degli Italiani, vol. 31 (Roma, 1985), 378-380.
5)
Cfr. L'Iliade o la Morte di Ettore. Poema omerico ridotto in verso italiano dall'abate
M. Cesarotti, tomo IV [= Ragionamento storico-critico] (Venezia, 1795), 321.
6)
L'Iliade, 210.
7)
M. MARI, "Introduzione" in Vincenzo Monti, Iliade di Omero, vol. 1 (Milano, 1990), 29.
8)
II pensiero di PM in merito al concetto di traduzione dipende a sua volta, come risulta anche
da una sua nota alla prolusio, da Tommaso Ceva, gesuita e letterato milanese (1648-1737) che in una delle
Sylvae (Mediolani, 1718) dedicata alla traduzione in latino della Gerusalemme liberata portata a
compimento dal fratello Cristoforo [Christophoro Cevae e societate Jesu De eiusdem versione Latina
Torquati Tassi, 54 ss.] ne celebra la perfetta corrispondenza contestuale con il modello.
9)
MORRONI, Le età di un poeta, 79.
10)
L. E. ROSSI, "I poemi omerici come testimonianza di poesia orale," vol. 1 di Storia
e civiltà dei Greci (Milano, 1989), 136.
11)
G. FLAMMINI, "Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell'Odissea," in S.
BALDONCINI, ed., Studi in memoria di A. Valentini (Pisa-Roma, 2000), 131-165.
12)
M. PARRY, L'épithète traditionelle dans Homère (Paris, 1928), 16.
13)
PARRY, L'épithète traditionelle, 215.
14)
MORRONI, Le età di un poeta, 48.
15)
Sulla figura di Marino Marinelli (Ancona, 1820-1884), presenza costante
nell'epistolario di PM, cfr. MORRONI, Le età di un poeta, 25 e n.235.
16)
Homeri Opera quae extant omnia Grece et Latine [...], curante Stephano
BERGLERO, Transilvano (Patavii, 1791).
17)
FLAMMINI, "Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell'Odissea," 141.
18)
FLAMMINI, "Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell'Odissea," 138.
19)
Cfr. quanto scrivo su Virgilio e la definizione della lingua epica classica in P.
POCCETTI, C. SANTINI, D. POLI, Una storia della lingua latina (Roma, 1999), 279-282.
20)
Esperimenti di traduzione dell'Iliade di Ugo Foscolo, ed. G. Barbarisi (Firenze,
1961/1967), 13.
21)
Cfr. XXIX.
22)
Cunich e Monti, che dal primo era stato largamente influenzato, sono congiunti
per altro anche nella pubblicistica del tempo, come sta ad illustrare la Collezione delle
similitudini contenute nell'Iliade di Omero estratte fedelmente dalle due più celebri
90
versioni, l'una latina del p. Raimondo Cunich [...] l'altra italiana del Cav. Vincenzo Monti
(Roma, 1830).
23)
MARI, “Introduzione,” 5.
24)
Cfr. le Osservazioni sopra alcuni passi della versione dell’Iliade fatta dal Monti
che stanno in allegato all’edizione della versione latina dell’Iliade di PM, 464.
25)
Si vedano in proposito anche le conclusioni alle quali giunge anche F. STOK, “G.
Pasquali Marinelli e le sue parafrasi bibliche in esametri latini” in Scritti in onore di I.
Gallo, ed. Luigi Torraca (Napoli, 2002), 497-523.
91
Frontespizio di Job Apocalypsis et Moysis Cantica (Ancona 1846).
Frontespizio di Prophetae (Ancona 1856).
92
Giuseppe Flammini
Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell’Odissea
93
94
95
96
97
98
99
100
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119
120
121
122
123
124
125
126
127
Frontespizio di De Sacramentis (Recanati 1857).
Frontespizio di Liber psalmorum (Ancona 1864).
128
Ubaldo Pizzani
Un poema sacro di grande suggestione: la Messiade di Giuseppe
Pasquali Marinelli
Trattare in breve spazio della Messiade di Giuseppe Pasquali
Marinelli non è compito agevole ove si tenga conto dell'ampiezza dell'opera
(conta ben 3957 versi articolati in sei canti) e dei molti campi d'indagine
che il suo studio comporta, dall'esegesi biblica alla teologia, dalla tecnica
della versificazione e della parafrasi alle scelte lessicali, dalle ascendenze
letterarie remote ai rapporti con la cultura e col pensiero contemporaneo.
Già la data di pubblicazione, il 1866 (‎1), ha un valore quasi emblematico.
Tre anni prima, nel 1863, era uscita la prima edizione di quella Vita di Gesù
di Giuseppe Ernesto Renan che, con la sua esplicita negazione della divinità
e della risurrezione di Cristo, tanta inquietudine aveva destato nel mondo
dell'ortodossia cattolica; un'inquietudine tanto più giustificata se si
considera che l'opera ebbe immediatamente una grande diffusione sia per
l'ineguagliabile suggestione dello stile sia per l'accattivante riconoscimento
al Cristo dell'altissimo merito di aver fondato la religione dell'umanità come
Socrate ne aveva fondato la filosofia (2), un riconoscimento che poteva
subdolamente edulcorare, fin quasi a renderla meno devastante, la tesi di
fondo. Che però il Pasquali scorgesse nella Vita testé uscita un grave
pericolo per la fede è attestato dai quattro distici premessi al poema che
vien presentato come una sorta di antidoto al veleno che l'opera poteva
iniettare nel cuore dei credenti (3).
Non va però neppure dimenticato che alcuni anni prima, e
precisamente nel 1858, si era verificato in Italia un altro importante evento
letterario, la pubblicazione in Torino della versione completa di una delle
più celebri opere poetiche del Settecento germanico, il Messia del prussiano
Federico Amedeo Klopstock (4). Autore della versione, in armoniosi
endecasillabi italiani, era tal G.B. Cereseto, originario di Ovada e autore di
numerosi altri scritti di argomento letterario nonché di non poche traduzioni
dalle più diverse lingue europee (5). Non sappiamo se il Pasquali avesse
avuto modo di leggere il poema anche nell'originale tedesco: quel che
129
sappiamo con certezza è che l'opera "ad onta delle fantasticherie dell'autore
(l'inciso è del Pasquali stesso)" (6) dovette non poco interessarlo tanto da
tenerlo impegnato nell'ultimissimo periodo della sua vita in un tentativo di
versione, ovviamente in lingua latina, troncato dalla morte a metà del
secondo libro (7). Sappiamo inoltre da fonte sicura che il Pasquali poté
leggere ed apprezzare la Christias del cinquecentista e vescovo di Alba
Marco Girolamo Vida (ripubblicata, fra l'altro, di recente in versione
italiana) nonché l'ancora attuale Vita di Gesù Cristo di Antonio Cesari dalla
quale trasse, come vedremo, spunti di non scarso rilievo (8).
Il Pasquali non fu dunque solo un dotto e raffinato latinista, cultore
dell'antico e meno interessato alle tensioni ed ai problemi del suo tempo,
bensì un uomo che, concretamente impegnato nel sociale, seppe trasfondere
nella sua opera le sue istanze ideali come dimostrano con molta evidenza
anche altri suoi scritti, quali la descrizione in versi latini della battaglia di
Castelfidardo, ispirata da un ben definito intento politico (9), e il suo
interesse per opere contemporanee quali i Sepolcri del Foscolo (10). Ma
come si coniuga, nel caso del poema qui in esame, il suo indubbio
riferimento a problematiche religiose coeve con l'altrettanto evidente
richiamo al filone inaugurato nel quarto secolo da Giovenco e continuato da
poeti quali Mario Vittore, Sedulio, Avito ed Aratore, il cui costante sforzo
fu quello di dare una più confacente veste letteraria allo scabro, ma per lo
più, e malgrado i loro sforzi, assai più efficace linguaggio delle Scritture
(11)? Prima di esperire una qualche risposta a tali domande converrà dare
uno sguardo alla struttura dell'opera.
Come altri ha già osservato (12) il poema del Pasquali si differenzia da
altre sue precedenti esperienze nel campo delle Scritture per il fatto di non
essere una mera parafrasi di uno dei Vangeli, bensì un'opera autonoma sulla
vita e sulla missione del Cristo che parte, ovviamente, dai testi sacri, ma che
si articola secondo uno schema espositivo suo proprio e non senza l'aggiunta
di nuovi episodi dei quali vedremo fra poco la genesi e i tratti originali.
Occorre innanzitutto rilevare che la narrazione non inizia, come ci si
potrebbe aspettare, con un dettagliato ragguaglio sui precedenti della nascita
del Cristo, sulla sua fanciullezza e sull'inizio del suo insegnamento. Dopo
un breve proemio (13) nel quale il poeta chiede alla Musa (unico
130
personaggio mitologico citato nel poema) di concedergli l'ispirazione di
David e dei profeti per cantare l'Uomo-Dio salvatore del mondo, troviamo
riassunte in pochissimi versi (14) tutte le principali vicende che vanno dalla
creazione del mondo all'ultima venuta di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua
che si concluderà con la morte sul Golgota. E' a questo punto che
l'esposizione dei fatti da parte del Pasquali si fa più distesa ed è da qui che
hanno inizio anche i poemi del Klopstock e del Vida.
Il fatto che il poema prenda le mosse dai fatti dell'ultima settimana
della vita del Cristo non impedisce però all'autore di reintrodurre, di volta in
volta, con accorti artifici nel contesto narrativo tutte o quasi le vicende e i
discorsi contenuti nei vangeli, sia nei sinottici sia in Giovanni, nonché, ove
il contesto lo esiga o lo richiami, significativi tratti dell'Antico Testamento.
Né mancano, come s'è già detto, episodi non contenuti nelle Scritture ancora
tutti da studiare.
Tornando all'avvio del primo libro osserveremo subito che la venuta
di Gesù a Gerusalemme offre innanzitutto all'autore lo spunto per esporre le
origini della Pasqua collegata, come è noto, all'esodo del popolo d'Israele
dall'Egitto (16). Segue il miracolo della risurrezione di Lazzaro narrato con
molta ampiezza (17). Il prodigio suscita profonda impressione sia
nell'inferno (il che dà luogo a un primo episodio extraevangelico) (18) sia
fra i dignitari d'Israele. Satana si chiede se Gesù sia veramente il Messia e
se ne convince passando in rassegna i punti salienti della sua vicenda
terrena (l'annunciazione, la nascita virginale, l'adorazione dei magi, la fuga
in Egitto, l'adolescenza trascorsa nel negozio del falegname, le tentazioni
respinte, la cacciata dei demoni). Di qui la decisione di perdere Gesù e la
conseguente adunanza di tutti i diavoli cui rivolge un rovente discorso.
Al tempo stesso in Gerusalemme si adunano i sacerdoti istigati
all'uopo dai demoni (19). Nicodemo pronuncia in assemblea un
appassionato discorso a favore di Gesù (discorso non documentato in
nessuno dei Vangeli) (20) suscitando le ire dei sacerdoti e soprattutto di
Caifa che pronuncia la famosa sentenza profetica che, nel latino del Pasquali
così suona: Unus moriatur oportet: unius interitu prohibenda est publica
gentis/clades (21). Segue la salita di Gesù sul monte dove avverrà la
trasfigurazione (22), ma l'evento è preceduto da un altro episodio
131
extraevangelico: Gesù offre al Padre la sua vita per la salvezza dell'umanità
e il Padre gli assicura la salvezza dei suoi e il costituirsi in Roma della nuova
Gerusalemme (23). L'ultima parte del canto, oltre ad alcuni miracoli (la
guarigione del cieco e dell'indemoniato) (24) e alla parabola delle mine (25),
ci offre alcuni fra i più toccanti episodi del vangelo: la protesta di Pietro di
fronte all'annuncio della prossima morte di Gesù (26), la conversione di
Zaccheo (27) e l'unzione di Betania (28).
Il secondo canto ci offre, nella parte centrale, un elegante esempio
dell'antica tecnica dell'ecphrasis, questa volta chiaramente ispirato al Vida.
Nella prima parte del canto si narra come Gesù, venendo da Betania, dopo
una prima sosta sul colle degli ulivi, compie quel trionfale ingresso in
Gerusalemme che ancor oggi la Chiesa celebra nella domenica delle palme
(29). Lo spettacolo della folla plaudente che fra pochi giorni ne chiederà le
condanna rattrista il cuore del Salvatore che, alla vista di Gerusalemme,
piange sulla non lontana distruzione della città (30). Dopo due notissimi
episodi, la guarigione del paralitico della piscina (31) e la cacciata dei
mercanti dal tempio (32), eccoci giunti all'avvio dell'ecphrasis. Seguendo lo
schema giovanneo il Pasquali riporta la celeberrima risposta di Gesù ai
Giudei che gli chiedevano un segno dell'autorità con la quale aveva cacciato
i mercanti - Destruite hoc templum, destructum in pristina reddam/post tres
ipse dies (33) - e aggiunge l'altrettanto nota assimilazione del tempio al suo
corpo (34). Subito dopo però si allontana dalla sua fonte immaginando che
Gesù entri nel tempio. Qui, dopo la rievocazione della ricostruzione
dell'edificio per iniziativa del profeta Aggeo (35), ha inizio 1' ecphrasis vera
e propria che ha, come s'è detto, un precedente nel Vida, la rievocazione
cioè di tutta la storia della salvezza dalle origini ad Aggeo (e non senza
alcuni riferimenti profetici al Cristo) attraverso la descrizione dei rilievi
scolpiti sulle porte del tempio (36). La stortura è innegabile: la legge ebraica
proibiva nel modo più assoluto il ricorso ad immagini, specie se relative ad
eventi della storia sacra (37). Non oserei però avanzare il sospetto che il
Pasquali, e prima di lui il Vida lo ignorassero: è uno di quei casi nei quali,
come spesso accade, la tradizione letteraria l'ha fatta da padrona sulla realtà
storica (38).
132
Ad ogni modo la presenza nel tempio di Gesù e di alcuni amici ai
quali ribadisce la futura distruzione della maestosa costruzione offre lo
spunto al Pasquali per introdurre un nuovo, significativo episodio extra
evangelium: l'arcangelo Michele, che per secoli aveva preservato il tempio
da tanti pericoli, avendo udito il triste presagio dalle labbra del Cristo,
decide di abbandonare Gerusalemme e raggiungere Roma dove sul colle
vaticano sorgerà il nuovo tempio della Cristianità (38). Il riferimento alla
nuova Gerusalemme, già presente nelle parole del Padre nel suggestivo
colloquio del libro primo, potrebbe non abbisognare di ulteriori
giustificazioni, ma non va forse sottaciuto che a introdurlo è quel Giuseppe
Pasquali che, nel descrivere la battaglia di Castelfidardo a parte Pontificis,
aveva dato una vibrante testimonianza del suo attaccamento alla Roma
Cristiana e al Romano Pontefice nella sua dimensione di sovrano (39).
Il prosieguo del libro si fa di nuovo narrativo e strettamente aderente
ai testi evangelici. Assistiamo così alla mancata lapidazione dell'adultera
(40), ascoltiamo Gesù annunciare la sua prossima glorificazione (41), ci
immergiamo nella cupa atmosfera del lungo discorso escatologico (42),
torniamo ai problemi dell'oggi con la stimolante disputa sul tributo a Cesare
(43), ci interessiamo alla discussione coi sadducei sulla risurrezione (44),
assistiamo alla irritata reazione dei farisei (un po' amplificata rispetto alla
fonte) nell'udire la dura parabola dei vignaioli (45). Solo verso la fine del
canto il tradimento di Giuda stimola il poeta ad ampliare gli scarni dati
evangelici creando ex novo la scena della seduzione dell'apostolo da parte di
Satana, le infami accuse rivolte al Cristo dinanzi ai Giudei, la lieta
accoglienza dell'apostolo da parte di questi al momento della delazione (46).
I due libri intermedi, il terzo e il quarto, costituiscono come nel Vida,
ma con una significativa innovazione, una sorta di grandioso flashback nel
quale, attraverso la tecnica del racconto, vengono passati in rassegna tutti gli
atti e le parole del Cristo relativamente al periodo precedente la settimana di
passione. Il Pasquali immagina che l'uomo dalla brocca, al quale Gesù
aveva inviato i discepoli per la preparazione della Pasqua (47), li accolga
benevolmente rivelando loro di aver assistito al miracolo delle nozze di
Cana, pur non avendo poi seguito il Signore, e di essere stato nella casa di
Lazzaro per consolare le sorelle della sua scomparsa. Invitatili ad un convito
133
li prega di ragguagliarlo su tutto ciò che il Maestro aveva detto e compiuto a
partire da quel primo miracolo. Il contenuto dei due libri altro non è che il
racconto di due non meglio identificati tra i discepoli (48). L'ordine seguito
vorrebbe presumibilmente essere quello cronologico, come risulta
dall'esplicito aggancio, alla fine del quarto libro, con la venuta di Gesù a
Betania per la risurrezione di Lazzaro, ma è ovvio che il Pasquali trovasse
nella ricostruzione di tale ordine, le stesse quasi insormontabili difficoltà
nelle quali si dibattono anche i moderni esegeti (49). Ciò che comunque più
colpisce in questa parte è la quasi pedantesca aspirazione del poeta alla
completezza che gli fa prendere in considerazione, oltre all'onnipresente
Giovanni, tutti i tratti comuni ai sinottici, nonché le varianti e le aggiunte
peculiari di ciascuno.
Col quinto libro ha inizio la narrazione vera e propria della Passione,
anch'essa strutturata attraverso un sottile lavoro di intarsio fra la
testimonianza giovannea e quella dei sinottici. Non viene perciò a mancare
né l'istituzione dell'eucarestia, presente solo nei sinottici (50), né la lavanda
dei piedi, testimoniata dal solo Giovanni (51); al solo Giovanni risalgono
molti dei particolari relativi alla presenza di Giuda nell'ultima cena (uscita
del traditore dal cenacolo) (52), all'arresto di Gesù (caduta delle guardie alla
vista del Cristo (53) e menzione del nome del soldato colpito da Pietro
(54)), al processo civile (maggiori particolari del colloquio di Gesù con
Pilato e sua presentazione alla folla dopo la flagellazione (55)). Per
converso al solo Luca risale l'introduzione di Gesù alla presenza di Erode
(56). Ciò che però più interessa - e ne vedremo fra breve l'importanza - è
l'inserimento nel libro di nuovi ed estesi tratti extra Evangelium: assistiamo
così allo svolgimento di un concilio di angeli convocati dal Padre celeste
(57), all'invio dell'arcangelo Gabriele a consolare il Salvatore
nell'imminenza della morte (58), alla requisitoria contro Gesù pronunciata
da tal Barech davanti a Pilato (59).
Le stesse caratteristiche sono rilevabili nell'ultimo libro. La narrazione
si dipana con estrema linearità sì da rendere praticamente irriconoscibili le
non poche suture fra i quattro vangeli sia per quanto attiene alla via crucis e
al dramma del Calvario sia per quanto si riferisce alle apparizioni del Cristo
risorto, abilmente fuse in un coerente continuum, nonostante la pluralità ed
134
eterogeneità delle versioni offerte dalla quadruplice fonte. Quanto alle
interpolazioni extraevangeliche, esse in questo libro si fanno ancor più
numerose, ma anziché interrompere, sembran rendere ancor più piana e
scorrevole la linea espositiva, creando, inoltre, momenti di estrema
suggestione. Scene quali la discesa di Dio Padre sul Tabor (60), l'aggirarsi
dei demoni e di Satana nei pressi della croce, la contesa fra pax e iustitia
(62), la discesa di Cristo nel limbo dei Santi Padri e nell'inferno e
l'incatenamento di Satana (63), il drammatico contrasto fra Cristo e la morte
(64), il tripudio in cielo al momento dell'ascensione (65) conferiscono a
questo libro un rilievo tutto particolare, quasi che l'autore, a conclusione
della sua opera, abbia voluto dare il meglio di sé anche sul piano della
perfezione artistica, oltre che della fede.
A questo punto possiamo riproporre, in forma più articolata, le
domande che c'eravam posti all'inizio. Quale rapporto possiamo istituire fra
la sobria ed aderente parafrasi dei testi evangelici, cui la patina
classicheggiante ed il moderato ricorso a brevi similitudini quasi nulla toglie
della espressiva semplicità dei modelli, con la non infrequente intrusione,
pur se ben armonizzata col contesto, di episodi extraevangelici
contraddistinti, per lo più, dall'inquietante drammaticità dei contenuti?
Dobbiamo ritenere che il Pasquali sia ricorso a tradizioni cristiane
extracanoniche o che tali intrusioni, come sostenuto a suo tempo da Pietro
Giannuizzi nell'elogio funebre del nostro autore, altro non siano che
"originali invenzioni che però sempre si fondano e scaturiscono dallo spirito
degli stessi vangeli"? (66). Un'indagine al riguardo potrebbe essere alquanto
laboriosa se non ci soccorresse una ineludibile quanto illuminante
constatazione: una buona parte di quelle 'intrusioni' trova un preciso
riscontro tematico sia nella Christias del Vida, di cui s'è già accertata la
presenza nel Messia, sia in bene definiti tratti di quel Messias del Klopstock
che il Pasquali dovette avere presente se è vero, come sostenuto dal
Coltrinari, che nella stessa temperie espressiva del poema sulla battaglia di
Castelfidardo sarebbe ravvisabile "un'aura religiosa" che "risentirebbe
oltretutto della maniera" del poeta tedesco. (67) Occorre però anche rilevare
che quegli spunti, talora dislocati dal Pasquali in momenti diversi della
narrazione, si sviluppano, nel poema latino, in modo totalmente divergente
135
dai modelli, anche se, per converso, la sensibilità klopstockiana finisce con
l'emergere anche in episodi extraevangelici non riscontrabili nel poema
tedesco. Esistono inoltre, come vedremo, singolari convergenze fra i tre
autori anche sul piano più specificamente teologico.
Ma veniamo ai testi. Nel primo libro i riscontri tematici sono di
evidenza palmare. Non è casuale che, come s'è già rilevato, in tutti e tre i
testi trovino posto:
1) un intervento di diavoli, presieduti da Satana, che decidono di perdere
Gesù; (68)
2) l'appassionato intervento di Nicodemo nella riunione del sinedrio in cui
Caifa pronuncia la sua inconsapevole profezia; (69)
3) un colloquio del Cristo col Padre su un altro monte durante il quale il
figlio divino offre la sua vita per la redenzione dell'umanità. (70)
Non ci sembra rilevante che nella versione del Pasquali la
convocazione dei diavoli sia preceduta da una lunga meditazione di Satana
nella quale il principe delle tenebre esprime il sospetto che il Cristo sia il
Messia promesso considerando tutta una serie di circostanze eccezionali
relative alla sua figura: la nascita virginale, la fuga in Egitto per sfuggire ad
Erode, i numerosi miracoli, con particolare riferimento alle resurrezioni e
alla cacciata dei demoni (71). Queste stesse considerazioni infatti ritornano
in gran parte, unitamente al sospetto di base che Gesù sia il Messia, nel
discorso che nel poema klopstockiano (72) Satana rivolge ai diavoli, il che
fa pensare che su di esso il Pasquali abbia modellato la già descritta
meditazione del grande nemico e che ne abbia conseguentemente ridotto il
vero e proprio discorso assembleare, nel quale prevale il motivo della
vulnerabilità di Gesù da parte dei proceres giudei (73). Che poi - si accetti o
non si accetti questa derivazione - la rappresentazione del mondo infernale
nei tre autori sia notevolmente diversa -ricca di riferimenti a una elaborata e
dotta demonologia nel poeta tedesco (74), prevalentemente ispirata ai mostri
della mitologia classica nel Vida (75) e impostata sulla pur suggestiva
assimilazione dei diavoli a divinità teriomorfe nel Pasquali (76) - non deve
stupire e costituisce, se mai, una ulteriore conferma della libertà con la
quale lo scrittore italiano ha rielaborato i suoi modelli.
136
Più difficile è definire a quale dei due modelli, se al Klopstock o al
Vida, sia da riportare il secondo dei due riscontri sopra enunciati. Se è vero
che il Pasquali, come il Vida, attribuisce a Nicodemo un unico discorso in
luogo dei due che, nel poema del Klopstock, questi pronuncia a sostegno
dell'intervento di Gamaliele a favore del Cristo e contro la feroce
requisitoria di Filone, è anche vero che i contenuti dell'intervento sono, nei
tre poemi, inequivocabilmente diversi: ai due appassionati ed alati discorsi
del poema tedesco fa riscontro, nel Pasquali, il tono pacato col quale
Nicodemo ragguaglia l'assemblea sulle profezie sibilline che, in accordo coi
profeti, annunziano l'imminente avvento del Messia e sull'illuminante
colloquio da lui avuto col Cristo secondo la narrazione di Giovanni (77),
mentre nel discorso immaginato dal Vida la difesa di Gesù è
prevalentemente impostata sui miracoli. Anche però il sospetto che il poeta
italiano abbia immaginato, autonomamente da opere che ben conosceva ed
apprezzava, un intervento di Nicodemo nell'assemblea di Caifa contro Gesù
(ovviamente ispirato ad uno precedente e documentato) (78) ci sembra
estremamente inattendibile.
Il terzo riscontro ci è parso il più significativo. E' innanzitutto
rilevabile una peculiare consonanza sul piano teologico: la destinazione ab
aeterno del piano di salvezza realizzato dal Cristo. Alle parole che nel
poema del Klopstock Gesù rivolge al Padre:
Tu solo sai, Tu, o Padre mio,
con qual sublime accordo Tu ed io e il Primo Amore
conchiudemmo insieme il grande patto.
Nel silenzio dell'Eternità eravamo soli, senza creature,
ma con divino amore già guardavamo giù,
verso gli uomini che ancora non esistevano (79)
sembrano far eco i due versi con i quali il Pasquali fa icasticamente
terminare la risposta del Padre:
Haec immota manent velut ante exordia mundi
iam nosti, ac mecum digesti ex ordine cuncta (80).
137
Da rilevare però che anche il Vida non era stato da meno
nell'enunciare tale principio laddove, a proposito del tradimento di Giuda e
delle altre vicende della Passione, fa dire al Padre: omnia quae mecum
mundi ante exordia nosti (81). Che poi il poeta germanico ponga il sublime
incontro nella Domenica delle Palme, a conclusione della fuga del Cristo
dalla folla osannante cui non riconosce più sincerità di intenti (82), mentre
nei poemi del Pasquali e del Vida Gesù raggiunge il monte Tabor con tre
apostoli per sfuggire provvisoriamente alle insidie di Caifa (83), non è una
variante secondaria e indebolisce notevolmente il pur suggestivo riscontro
col Klopstock, come non è secondario che all'incontro solo nel Pasquali e
nel Vida faccia seguito la Trasfigurazione (84).
Unicamente all'iniziativa del "cattolico" Pasquali si deve l'esaltazione,
nella risposta del Padre, del destino cristiano di Roma che ritorna, come già
segnalato, nell'unico episodio propriamente extrabiblico del secondo libro
(85) (ove si escluda la drammatica amplificazione della tentazione di
Giuda). Intendiamo ovviamente riferirci alla decisione dell'arcangelo
Michele di abbandonare il Tempio di Gerusalemme per raggiungere la
nuova sede dell'unica vera religione dove sorgerà la Basilica Vaticana.
Eppure, proprio questo episodio, che il "protestante" Klopstock non avrebbe
mai scritto, risente forse dell'influsso del Messias germanico. La vivace
rievocazione delle innumerevoli circostanze in cui Michele aveva salvato il
Tempio dalle scorrerie nemiche, la diretta citazione delle parole con le quali
il Padre Celeste aveva a suo tempo imposto all'Arcangelo di abbandonare
Gerusalemme per Roma al momento in cui i Giudei avessero messo a morte
il suo unico figlio rivestito di carne mortale, la plastica raffigurazione
dell'aligero che rimette la spada nel fodero e si dirige a volo verso la nuova
sede, sono caratteristiche che assai meglio si addirebbero alle esuberanti
fantasmagorie del poema klopstockiano che al più compassato dettato della
parafrasi evangelica quale si configura di regola nel poema del Pasquali.
Non tenteremo di avvalorare una presunta affinità fra i modi alquanto
divergenti coi quali vien descritta nei tre poemi la tentazione di Giuda (86)
(nel Klopstock Satana si presenta in sogno a Giuda sotto le mentite spoglie
del padre ed insiste sul presunto odio di Gesù nei suoi riguardi, nel Vida,
assumendo l'aspetto di Iora, suo congiunto, sottolinea le presunte empietà
138
del Cristo, nel Pasquali fa leva invece sulla sua cupidigia). Lasceremo anche
da parte i due libri centrali, visto il loro carattere di mera, pur se raffinata,
limpida e leggibilissima parafrasi dei testi evangelici.
Eccoci quindi giunti, coi libri quinto e sesto, alla vera e propria
vicenda della Passione, quella in cui la presenza klopstockiana, sia sul piano
tematico sia su quello espressivo, parrebbe farsi più incisiva e coinvolgente.
L'intrecciarsi dei due aspetti in questa parte conclusiva del poema ci
impedisce, a questo punto, di portare avanti una puntuale analisi dei singoli
episodi: procederemo perciò per temi e motivi senza seguire
necessariamente il dipanarsi dell'azione.
Sul piano più specificamente teologico non possiamo non rilevare in
quest'ultima parte del poema latino una ulteriore radicalizzazione del
concetto di predisposizione ab aeterno della redenzione, che abbiamo visto
essere alla base dell'opera klopstockiana. Nel discorso che Dio Padre
pronuncia nella già ricordata assemblea degli angeli (e di episodi consimili
nel poema tedesco ce n'è parecchi!) si dice espressamente non solo che il
sacrificio del Cristo era stato predisposto ante ordia rerum, ma che la stessa
creazione doveva essere vista in funzione di tale sacrificio:
Quin immo, hoc propter terram polumque creavi
atque hominem: natosque hominum muliebribus alvis
ad vitam prodire dedi, ut divinitus olim
Virginis intactae Deus egrederetur ab alvo. (87)
Viene cosi confermata la tesi leibniziana, recepita dal Klopstock, che
il mondo creato da Dio è il migliore dei mondi possibili, anche e soprattutto
perché per il nostro poeta, come acutamente osservato dal Mittner (88), la
redenzione è superiore alla creazione. E il concetto della ineludibilità della
passione è ribadito dal Pasquali laddove l'arcangelo Gabriele, inviato sulla
terra dal Padre per consolare il Salvatore, lo esorta con una certa dura
fermezza, questa volta non rilevabile in un episodio consimile del
Klopstock, a vincere la sua umana esitazione dinanzi alla prova suprema
(89). Sempre restando sul piano squisitamente teologico non possiamo non
rilevare nel Pasquali un più o meno cosciente cedimento a suggestioni
millenaristiche, laddove immagina che il Cristo, sceso agli Inferi, mette in
139
ceppi Satana predicendogli che sarà provvisoriamente liberato solo
nell'imminenza della fine del mondo e dell'instaurazione definitiva del
Regno escatologico: Hic porro usque iace, dum mundi terminus adsit /quo
fixum est caelo rursus te tempore solvi, / donec in aeternum tandem
religaberis aevum (90). Siamo però anche costretti a riconoscere che tale
impostazione, fra l'altro di dubbia ortodossia, che sembra far coincidere col
sacrificio del Cristo la fine di ogni influsso di Satana sulla vita dell'uomo,
trova una singolare consonanza nella difficoltà, da parte del Klopstock, ad
ammettere la persistenza del male e del mondo infernale a redenzione
avvenuta (una difficoltà chiaramente evidenziata da un episodio altrettanto
eterodosso, la riconciliazione con Dio del demone ribelle Abbadona!).
Un'immagine concettualmente rilevante che ci sembra chiaramente
riconducibile, nel Pasquali, al modello klopstockiano è quella di Dio Padre
che scende corrucciato sul Tabor nell'imminenza della morte del Cristo:
Tum Pater, ut nati letum, quod iura rependat
omnia iustitiae, propius crudele videret,
descendit caelo: Cherubin devectus in alis,
axibus aetheriis flexis, per inane volavit,
ac super aerii consedit vertice Tabor:
trux aspectus erat, qualis, cum se abstulit Adam
criminis indicens poenam (91).
È la stessa immagine, in questo caso non riscontrabile nel Vida, che
ritroviamo all'inizio del quinto libro del poema germanico dove, sempre sul
Tabor, il Padre si appresta a giudicare nel Figlio tutti i peccati del mondo:
"Come è temibile ora il tuo aspetto, o Eterno, come la severità del Giudizio
risplende terribile nel tuo sguardo" dice l'angelo Eloa contemplando
l'Altissimo, e il medesimo motivo ritorna ad ogni istante durante tutto il
dipanarsi del canto (92).
Al di là di queste notazioni, comportanti anche implicazioni
squisitamente teologiche, altre puntuali corrispondenze possono essere
identificate: 1) nella cupa scena dei demoni pure assente dal poema del
Vida, che, assieme a Satana, si aggirano trionfanti intorno alla croce (93) e
che, nel poema del Klopstock, Eloa precipita subito nel Mar Morto (94),
mentre nel Pasquali subiscono la stessa sorte (asphalti nigro sunt gurgite
140
mersi) (95) solo dopo la morte del Crocifisso; 2) nell'intervento, di nuovo
non riscontrabile nel Vida, di Giovanni Battista e Simeone (96) (che,
mentre nel Klopstock lamentano le sofferenze del Cristo, nel poema latino,
per probabile suggestione di un passo del Cesari (97) - un altro autore, come
già detto, ben noto al Nostro - annunciano ai Padri dello Sheol la lieta
novella della loro prossima liberazione); 3) e infine nel tripudio di canti e di
voli che, nel finale di entrambi i poemi, accompagna la gloriosa ascensione
al cielo del Risorto.
Come s'è già avuto occasione di sottolineare una certa eco della
sensibilità klopstockiana, almeno in quest'ultima parte del poema latino, è
presumibilmente ravvisabile anche in episodi non tematicamente dedotti dal
suo poema. Non intendiamo riferirci né al contrasto fra Pax e Iustitia (98),
che si conclude con una finale riconciliazione alla morte del Cristo, né al
colloquio fra Cristo stesso e la morte nell'imminenza della risurrezione (99):
l'allegorismo insito in episodi siffatti ci richiama piuttosto alla mente tutta
una letteratura che, almeno da Prudenzio in poi, divenne topica
nell'Occidente latino. Ci sembrano invece ispirate ai modi, pur se solo ai
modi, del poeta germanico due delicatissime immagini che comunque, nella
loro sobria espressività, documentano come il poeta di Camerano abbia
saputo filtrare e riportare a moduli più confacenti alla sua formazione latina
l'esuberanza del collega d'oltralpe: quella dell'angelo inviato dal Padre
Celeste ad affiggere ai piedi della croce un foglio recante scritta la condanna
dell'umanità peccatrice perché il Cristo la cancelli col suo sangue (100) e
quella, sulla quale torneremo fra poco più in dettaglio, dei due angeli che
dall'alto dei cieli, servendosi delle due ampolle nelle quali era stato a suo
tempo raccolto il prepuzio reciso ed il sangue versato dal Salvatore al
momento della circoncisione, le riempiono a turno col sangue sgorgante
dalle ferite del Crocifisso e lo versano sul mondo (101).
L'esame della struttura, delle componenti dottrinali e delle ascendenze
culturali del poema del Pasquali hanno tolto spazio a quella che poteva
essere una più compiuta ricognizione dei valori espressivi, formali e
linguistici dell'opera, valori, però, che solo una paziente lettura diretta può
mettere in luce in tutta la loro portata. S'è già accennato allo squisito
equilibrio stilistico con il quale il nostro autore ha saputo coniugare un
141
dettato di inappuntabile fattura classica, ma privo di inutili fronzoli e di
superflue ridondanze, con la sobrietà richiesta dagli alti temi affrontati.
Tanto per verificare in breve spazio quanto detto, prendiamo un passo
a caso, nella fattispecie l'inizio della notissima parabola del ricco epulone.
Nella vulgata il passo di Luca (102) suona:
Homo quidam erat dives, qui induebatur purpura et bysso: et epulabatur quotidie
splendide. Et erat quidam mendicus nomine Lazarus, qui iacebat ad ianuam eius ulceribus
plenus, cupiens saturari de micis, quae cadebant de mensa divitis et nemo illi dabat: sed et
canes veniebant et leniebant ulcera eius.
Ed ecco la versione del Pasquali (103):
Quidam dives erat byssoque indutus et ostro,
multis quoque die dapibus nutritus opimis.
Ante fores quidam recubabat Lazarus, aeger,
obsitus ulceribus, mendicans quaeque cadebant
divitis ex mensa, cupidus se pascere micis,
verum nemo dabat, custodes liminis, olli
sanguinolenta canes lambebant ulcera lingua.
Come si vede sul piano dei contenuti l'unica variante aggiuntiva è la
ben trovata identificazione dei cani che leccavano le ferite del mendico con
quelli collocati a guardia della casa, quasi ad indicare che essi, a differenza
del padrone, avevano pietà di lui e non lo allontanavano. Decisamente
innovativo è solamente il lessico chiaramente ispirato al linguaggio
dell'epica classica, ma senza forzature: a purpura è sostituito il più raffinato
ostro, epulabatur splendide diventa dapibus nutritus opimis, ianuam è reso
con fores, plenus con obsitus, saturari con se pascere, illi con olli
(evidentemente virgilianismo), leniebant (che ha presumibilmente suggerito
al Pasquali il motivo della pietà dei cani) con lambebant. Altri termini però
restano in piedi come bysso, micis, nemo dabat (espressione quest'ultima, di
sapore alquanto colloquiale). Riteniamo che difficilmente parafrasi
evangeliche in versi (e ve n'ha parecchie) riescano a dare una veste
dignitosamente letteraria a un testo evangelico con mezzi così semplici che
142
nulla paion togliere al modello della sua genuina e nativa schiettezza, ed
aggiungendo, per giunta un tocco che ne arricchisce il delicato pathos.
E passiamo ora, per un opportuno confronto, ad un passo
extraevangelico di presumibile creazione pasqualiana o, per dir meglio,
abilmente costruito su un tenue spunto vidiano coniugato con una profonda
meditazione del Cesari (104), quello che descrive i due angeli nell'atto di
inondare il mondo col sangue del Cristo (105):
Praeterea huc gemini, caeli stellantis alumni,
adstiterant alii: qui, cum de more vetusto
Abramidae gentis, Iesus genitalia circum
est silice, in generis signum, praecisus acuta,
sanguineas olim guttas partemque resectam
obtulerant patri. Gemmis auroque curuscam
quisque gerens phialam, niveis suspensus in alis,
vulneribusque legens manantem quisque cruorem;
hunc vice perpetua caeli super astra ferebant
ante Dei solium; unde fluens discretus in omnes,
(sacramenta vocant), aeterno flumine terram
irriget, arentem priscus quam reddidit error;
ac sterilem laetis fecundat frugibus orbem.
Un episodio di così intensa suggestione avrebbe potuto dar luogo, ove
il Pasquali avesse voluto emulare il Klopstock su questo piano, a un'orgia
indescrivibile di luci, di suoni e di colori. Ma il fascino del racconto sta
proprio nella sua semplicità. Bastano poche, sobrie notazioni - i caeli
stellantis alumni, la phiala gemmis auroque curusca, le niveae alae con le
quali gli angeli si librano super astra, 1' aeternum flumen del sangue divino
che inonda e feconda la terra - per rendere il quadro di un nitore
difficilmente raggiungibile con l'esuberanza verbale e descrittiva di quello
che, nonostante tutto, continuiamo a pensare sia stato anche in questo caso
un punto di riferimento quasi obbligato per il nostro autore.
Come s'è già detto, arricchiscono la narrazione pasqualiana anche
sobrie e non insistenti similitudini. Così, tanto per fare qualche esempio, nel
primo libro i diavoli che escono dall'assemblea convocata da Satana sono
paragonati a un fastidioso sciame di calabroni, terrore dei viandanti e del
bestiame (106); nel secondo la folla costretta da Gesù a rinunciare alla già
143
pregustata lapidazione dell'adultera viene assimilata a un fanciullo che si
vede sfuggire dalla rete l'uccellino che già pensava di aver catturato (107),
mentre la denuncia di Giuda è accolta dai primores con la stessa gioia con la
quale i marinai salutano l'inaspettato levarsi di un vento favorevole che li
riporta in patria (108); nel quinto l'angoscia che nell'orto degli ulivi pesa
sull'anima del Cristo è paragonata alla massa delle acque gravante su chi è
trascinato dai gorghi verso il fondo (109), mentre dei rimorsi di Giuda si
parla come di un cibo avvelenato che una belva ha ingerito attratta dal suo
dolce sapore e che subito si trasforma in un atroce tormento (110); e sempre
nel quinto mentre Pilato, nel suo sforzo di salvare Gesù, è di volta in volta
paragonato ad un uccellatore nell'atto di manovrare la rete, a un marinaio in
mezzo alla tempesta, a un viandante che cerca un guado e, infine, a un
auriga trascinato alla rovina dai suoi stessi cavalli (111), la folla inferocita
trova nelle immagini di una pentola in ebollizione e di un branco di leoni
affamati che ha scorto in lontananza un armento il suo naturale termine di
paragone (112); da rilevare, infine, nel sesto libro il suggestivo paragone
della Vergine addolorata con uno scoglio percosso dai marosi (113).
Come si vede trattasi di paragoni estremamente calzanti e spesso
improntati, come nel caso dell'adultera e di Pilato, ad una acuta
considerazione psicologica. Ciò che inoltre li contraddistingue è l'estrema
brevità e l'eliminazione di ogni nota descrittiva avventizia e non funzionale
alla loro immediata destinazione. E' la stessa tendenza all'essenzialità che
abbiamo rilevato in tutti gli altri aspetti del nostro poema, essenzialità che
non è mai povertà o aridità espressiva. Proprio la funzionalità delle scarne
notazioni (che fa quindi di queste similitudini qualcosa di molto diverso dai
corrispettivi modelli omerici o virgiliani) ne accentua l'efficacia e ci aiuta a
meglio definire la personalità dell'autore.
Dovendo concludere non ci resta che ribadire che nel Pasquali,
accanto alla grande e profonda conoscenza della lingua letteraria latina che
egli sa maneggiare con estrema perizia, equilibrio e sensibilità senza mai
indulgere a mutili prove di bravura o di vacua erudizione, c'è una spiccata
personalità di scrittore e di pensatore che ben conosce il fine che di volta in
volta si propone, e che si sforza di raggiungerlo senza indulgere a
tentennamenti o imboccando vie traverse. Nel nostro caso si trattava di
144
combattere l'eresia del Renan e si deve riconoscere che sotto questo aspetto
il poema, con la sua rigida ortodossia, l'insistenza sulla dimensione divina
del Cristo ed il supporto di un modello tutto considerato congruente con
l'assunto quale il poema del Klopstock (utilizzato però con estrema
indipendenza di metodo e di giudizio), si deve riconoscere - ripetiamo - che
il poema ha superato la prova e non solo può degnamente rientrare fra la
tarda produzione letteraria in lingua latina di qualche prestigio, ma
costituisce un'importante testimonianza di un periodo storico di profonda
crisi per quanto attiene alla storia del cristianesimo e della stessa Chiesa di
Roma.
145
Note
1)
JOSEPHI PASCHALII MARINELLII, Messias, Anconae MDCCCLXVI. Da una
lettera del 13 settembre 1865 si evince che in quella data il poema era già terminato (cfr. M.
MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli. Le età di un poeta. Biographia literaria, Ancona
1993, p.44 e n.373).
2)
Cfr. G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, con introduzione critica e illustrazioni,
3.a edizione, Milano-Roma 1941, p. 223.
3)
Ed. cit., p.2:
(*) Tempore, quo divina tibi natura negatur,
Et tua figmentis gloria deteritur;
Haec te, Christe, Deum testantia, carmina fudi,
Atque meam volui sic aperire fidem.
Post deciem septem geminus me presserat annus,
Nec tamen incoepti terruit asperitas.
Haec quae, Christe, tibi cecini modo carmina terris,
Da, precor, aetheriis sedibus inde canam.
(*) Quo Ernestus Renan impium de Christi vita libellum edidit.
4)
La composizione del Messias fu notoriamente alquanto lunga e laboriosa. I primi
tre canti furono pubblicati nel 1748 nei Bremer Beiträge. Nel 1751 apparvero i primi
cinque canti e nel 1754 i cinque successivi a completamento dei primi due volumi della
Kopenhagener Ausgabe. Il terzo e il quarto volume uscirono rispettivamente nel 1768 e nel
1773. Edizioni complete e definitive sono le seguenti:
KLOPSTOCK'S Werke. Der Messias, G.Hempel, Berlin 1773.
FRIEDRICH GOTTLIEB KLOPSTOCK, Der Messias, Gesamtausgabe in vier Bänden,
Christian Gottlieb Schmieder, Carlsrhue 1775-1782.
5)
Anche il lavoro di versione ad opera del Cereseto si protrasse per almeno un
decennio. Una prima parte uscì nel 1853, ma bisognerà attendere il 1858 per giungere
all'edizione integrale in due volumi. Va anche ricordato che prima di quella del Cereseto
erano state pubblicate in Italia altre due versioni del Messias: quella dello Zigno
(FRIEDRICH GOTTLIEB KLOPSTOCK, Il Messia. Trasportato dal tedesco in verso
italiano da Giacomo Zigno, Tomi 2, Vicenza 1782) e quella del Pensa (FRIEDRICH
GOTTLIEB KLOPSTOCK, Il Messia. Traduzione di Giuseppe Pensa. Tipografia libreria
Piratta, Milano 1839). Sulle traduzioni del Messia da parte degli ottocentisti italiani cfr.
M.G. PACI MANUCCI, Il "Messias" di Klopstock nelle traduzioni degli ottocentisti
italiani, Roma 1984 (l'opera è di notevole interesse, ma è purtroppo viziata da uno
spropositato numero di errori di stampa, almeno nell'esemplare da me consultato).
6)
Così si esprimeva il Pasquali in una lettera recante la data del 9 marzo 1874 ed
indirizzata all'amico Pietro Gianuizzi che ne fa esplicita menzione nel suo elogio funebre
146
del poeta: cfr. De pugna ad Castrumficardum auctore Josepho Paschalio Marinellio,
traduzione di M. Morroni, commento storico di M. Coltrinari, Ancona 1991, p. 214.
7)
Cfr. M. MORRONI, Giuseppe Pasquali, cit., p.71.
8)
Di tale impegno nel sociale fanno fede le numerose iniziative, soprattutto a favore
dei più poveri, prese dal Pasquali nei diciotto anni nei quali tenne nella natia Camerano la
carica di priore: cfr. De pugna ad Castrumficardum, cit., pp.196-198.
9)
Il poema, dedicato al Papa Pio IX, è dominato da un appassionato spirito
fìlopontificio. Del Papato viene rivendicato il diritto al potere temporale, quale presidio
della fede, mentre è detto, con immagine mitica, che a spingere il Re di Sardegna a
conquistare tutta l'Italia per farne un unico regno è la Seditio (la ribellione), direttamente
generata da Satana così come Pallade era uscita dal capo di Giove: cfr. De pugna ad
Castrumficardum, cit., pp. 9-16.
10)
L'opera uscì postuma nel 1893, in occasione del primo centenario della nascita del
poeta: cfr. JOSEPHI PASCHALII MARINELLII, Ex Hugonis Fosculi de Sepulcris
carmine et Jacobi Victorellii cantiunculis versiones, Pisauri, Typis Fridericianis 1893. Per
altri particolari si veda M. MORRONI, Giuseppe Pasquali, cit., pp. 66-67.
11)
Scrive al riguardo il Simonetti (cfr. M. SIMONETTI, La letteratura cristiana
antica greca e latina, 2.a ed., Milano 1988, p. 334): "Mettersi a gareggiare con la luminosa
semplicità del dettato evangelico era impresa a priori destinata al fallimento, almeno sul
piano poetico".
12)
Scrive il Gianuizzi nel suo Elogio funebre (cfr. De pugna ad Castrumficardum,
cit., p. 213):"Il Messia del Pasquali non è propriamente una semplice versione degli
evangeli, come tutte le altre bibliche suaccennate, ma un poema in cui i racconti degli
Evangelisti sono per modo combinati in un solo che la sostanza dei quattro si condensa e
non ne soffre la semplicità: e dove il racconto de' Vangeli tace, il poeta dà luogo ad
originali invenzioni che però sempre si fondano e scaturiscono dallo spirito degli stessi
vangeli". Come si vedrà tale giudizio è in toto confermato dalla nostra analisi sia per quanto
attiene al pregio della semplicità (che pone il Nostro - non ci peritiamo di dirlo - al di sopra
dei suaccennati e assai più noti autori tardoantichi e anche moderni di parafrasi bibliche in
versi!) sia per quanto si riferisce alle "originali invenzioni" dalle quali, anche se talora
parzialmente ispirate da altri, traspare una spiccata personalità poetica ed una delicata
sensibilità di uomo e di poeta.
13)
Pasch., Mess. ( = Josephi Paschalii Marinellii Messias), I, 1-20.
14)
Pasch., Mess. I, 21-60.
15)
Il punto d'avvio è lo stesso, la venuta di Gesù a Gerusalemme e in tutti e tre gli
autori si parla della folla entusiasta che accompagna il Maestro nel suo viaggio: il Pasquali
(Mess. I, 82-91) ci fornisce una vivace descrizione della folla che contempla ammirata il
Cristo come una nuova stella del cielo; nel Vida (Christ. I, 15-24) si parla ugualmente di
una imponente massa di discepoli in continua crescita; in Klopstock (Mess. I, 27-33) Gesù
avverte l'inautenticità degli onori ancora tributatigli dalla sua gente e fugge su un alto
monte a colloquio col Padre. Da rilevare tuttavia che il Klopstock parte dall'entrata solenne
147
del Cristo in Gerusalemme nella domenica delle palme (alle palme infatti s'accenna
esplicitamente), mentre gli altri due poeti parlano del viaggio, riservando a più tardi la
descrizione di quell'evento (Pasch., Mess. II, 10-30; Vida, Christ. I, 400-435).
16)
Pasch., Mess. I, 68-81. L'excursus è collocato fra la proclamazione della missione
del Cristo che sta per compiersi a partire dal suo viaggio verso Gerusalemme (I, 61-67) e la
descrizione della folla al suo seguito (I, 82-91).
17)
Pasch., Mess. I, 92-139 ( = Io 11, 1-44).
18)
Pasch., Mess. I, 140-254.
19)
Pasch., Mess. I, 255-351. Il brano amplia quanto si legge in Io 11, 45-53.
20)
In effetti Nicodemo aveva parlato a favore di Gesù nel Sinedrio, ma in altra
occasione e precisamente durante la Festa delle Capanne (Io 7, 50-51).
21)
Pasch., Mess. I, 343-345. La frase corrispondente in Io 11, 50 nel testo della
vulgata suona: nec cogitatis quia expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo, et non
tota gens pereat.
22)
Pasch., Mess. I, 411-429 (cfr. Mt 17, 1-9; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36).
23)
Pasch., Mess. I, 352-409. L'episodio è comunque suggerito al Pasquali da quanto si
legge in Io 11, 54 circa il ritiro di Gesù ad Efrem per sfuggire alle minacce dei sacerdoti:
"Iesus ergo iam non in palam ambulabat apud Iudaeos, sed abiit in regionem iuxta desertum
in civitatem quae dicitur Ephrem, et ibi morabatur cum discipulis suis". Inesatta è però la
localizzazione, istituita dal Pasquali in quella zona, del monte Tabor (Mess. I, 355): "arduus
hic superas Tabor mons surgit ad auras". Il monte Tabor sorge nella Galilea mentre Efrem
era una città costruita ai margini del deserto della Giudea e quindi molto più a sud.
24)
Pasch., Mess. 1, 492-506 ( = Mc 10, 46-52; cfr. anche Mt 20, 29-34; Lc 18, 3543); Pasch., Mess. I, 430-455 ( = Mt 17, 14-21; Mc 9, 14-29; Lc 9, 37-43).
25)
Pasch., Mess. I, 525-553 ( = Lc 19, 12-27).
26)
Pasch., Mess. I, 456-491 ( = Mt 16, 21-27; Mc 8, 31-38).
27)
Pasch., Mess. I, 507-524 ( = Lc 19, 1-10).
28)
Pasch., Mess. I, 554-582 ( = Io 12, 1-8; Mt 26, 6-13; Mc 14, 3-9).
29)
Pasch., Mess. II, 10-30.
30)
Pasch., Mess. II, 45-60.
31)
Pasch., Mess. 11, 61-86.
32)
Pasch., Mess. II, 87-100.
33)
Pasch., Mess. II, 104-105. Il corrispondente passo di Io 2, 19 nella vulgata suona:
Solvite templum hoc et in tribus diebus excitabo illud.
34)
Pasch., Mess. II, 108: ast ille suo de corpore dixit = Io 2, 21: ille autem dicebat de
templo corporis sui.
35)
Pasch., Mess. II, 122-144. Il brano è in buona parte una succinta parafrasi di Agg
2, 1-9. Ad Aggeo non v'è alcun riferimento nel Vida.
36)
Pasch., Mess. II, 145-203. Il Vida ci offre lo stesso episodio in Christ. I, 582-723.
Da notare comunque che il Vida parla di rilievi in marmo (582: mostrat miras in marmore
formas) mentre il Pasquali parla di rilievi su porte che (vv. 148-49) cardine aheno surgebant
148
triplices. Il Vida inoltre, prima di passare ai principali episodi della storia sacra ripresi
anche dal Pasquali (peccato originale, diluvio, sacrificio di Isacco, la vendita di Giuseppe,
l'esodo, l'episodio dei serpenti), descrive a lungo l'origine del mondo, assente dal poema del
Pasquali, e termina con l'immagine del pellicano immagine del Cristo, pure omesso nella
Messiade.
37)
Cfr. Ex 20, 4: Non facies tibi sculptile neque omnem similitudinem, quae est in
caelo desuper et quae in terra deorsum, nec eorum quae sunt in aquis sub terra. La
proibizione fa costantemente osservata almeno fino al sec. III d.C: cfr. il Nuovo dizionario
di teologia biblica a cura di P. ROSSANO, G. RAVASI e A. GIRLANDA, Milano 1988,
pp. 173-174.
38)
Da rilevare che comunque il Vida, a differenza del Pasquali, sembra tener conto di
tale proibizione laddove, a proposito dei rilievi del tempio, afferma che (Christ. I, 587-590):
Non illic hominum effigies simulacraque divum,/ arcanis sed cuncta notis signisque notavit/
obscuris manus artificis, non hactenus ulli/ cognita: non potuere ipsi deprendere vates. Non
si comprende però come le aniconiche notae arcanae usate dall'ignoto artista potessero
rappresentare le numerose vicende umane comprese nell'ecphrasis.
39)
L'episodio è tutto pasqualiano, anche se un suggerimento potrebbe essergli venuto
dalle parole che Cristo pronuncia nel poema del Vida mentre si trova nel tempio e
preannuncia la sua distruzione (Christ. I, 579-80: Longe alias pater omnipotens sacra
transtulit oras,/ longe alia vult ipse coli et placarier urbe).
40)
Pasch., Mess. II, 267-296 = Io 8, 1-11.
41)
Pasch., Mess. II, 297-321 = Io 12, 20-32.
42)
Pasch., Mess. II, 322-419. Confluiscono in questo vasto brano Mt 24, l-36; 25, 113; 31-46; Mc 13, 1-8; 24-31; Lc 12, 35- 40; 21, 5 ss.
43)
Pasch., Mess. II, 420-431 = Mt 22, 15-22; Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26.
44)
Pasch., Mess. II, 432-446 = Mt 22, 23-33; Mc 12, 18-27; Lc 20, 27-38.
45)
Pasch., Mess. II, 447-468 = Mt 21, 33-46; Mc 12, 1-12; Lc 20, 9-19.
46)
Pasch., Mess. II, 491-552.
47)
Mc 14, 13; Lc 22, 10.
48)
Nel Vida a fare il racconto non sono due apostoli, ma, rispettivamente, S.
Giuseppe e S. Giovanni che appreso l'arresto di Gesù, si recano da Pilato e, da lui invitati,
gli espongono la vita del Maestro per ottenerne la protezione. Resta comunque
inequivocabile e non certo casuale il fatto che il Pasquali, oltre a dividere anche lui il suo
poema in sei canti, dedica i due libri centrali al racconto, messo in bocca a due distinti
personaggi, dei fatti del Cristo precedenti la passione.
49)
Cfr. G. RICCIOTTI, op. cit, pp. 182-202; 490-492.
50)
Pasch., Mess. V, 7-20; = Mt 26, 26-28; Mc 14, 22-26; Lc 22, 19-20.
51)
Pasch., Mess. V, 21-47 = Io 13, 1-20.
52)
Pasch., Mess. V, 77-78 = Io 13, 20.
53)
Pasch., Mess. V, 233-39 = Io 18, 6.
54)
Pasch., Mess. V, 272 = Io 18, 10.
149
55)
Pasch., Mess. V, 589-592 = Io 19,4-5.
56)
Pasch., Mess. V, 491-497 = Lc 23, 6-12.
57)
Pasch., Mess. V, 132-178.
58)
Pasch., Mess. V, 179-215.
59)
Pasch., Mess. V, 432-451.
60)
Pasch., Mess. VI, 1-9.
61)
Pasch., Mess. VI, 79-90.
62)
Pasch., Mess. VI, 91-107.
63)
Pasch., Mess. VI, 295-408.
64)
Pasch., Mess. VI, 424-451.
65)
Pasch., Mess. VI, 702-729.
66)
Pasch., Mess., De pugna ad Castrumficardum, cit., p. 213.
67)
Ibid., p. 9.
68)
Pasch., Mess. I, 140-254; Vida, Christ. I, 121-235; Klop., Mess. II, 248 sgg.
69)
Pasch., Mess. I, 275-329; Vida, Christ. II, 150-194; Klop., Mess. IV, 1 sgg.
70)
Pasch., Mess. I, 352-409; Vida, Christ. I, 841-929; Klop., Mess. I, 79 sgg.
71)
Pasch., Mess. 144-186.
72)
Klop., Mess. II, 441 sgg.
73)
Pasch., Mess. I, 245-253. Si leggano i vv. 235-237: Iam, Paschae ad festum,
Solymae venturus in urbem,/ progreditur: proceres illi indignantur, et ardent/ infensis odiis:
haec vos incendite.
74)
Rispondono di seguito all'invito di Satana Zefiele, araldo dell'Inferno,
Adramelech, più empio e falso di Satana stesso, Moloch, spirito bellicoso, Beliel, che
vorrebbe tornare all'originaria purezza, Magog, abitatore del mare dei morti.
75)
Il Vida (Christ., II, 143-146) cita, nell'ordine, Gorgoni, Sfingi, Centauri, Idre,
Chimere, Scille e Arpie.
76)
Le scelte del Pasquali (Mess. I, 190-196) cadono sulle divinità teriomorfe d'Egitto:
Anubi, Ammone, Api, Asclepio.
77)
Io 3, 1-21.
78)
Cfr. la n. 20.
79)
Cfr.FRIEDERICH G. KLOPSTOCK, Il Messia, Introduzione e traduzione a cura
di I. Benedetti Cardelli, Torino 1962, p. 18.
80)
Pasch., Mess. I, 408-409.
81)
Vida, Christ. I, 885.
82)
Klop., Mess. I, 23 sgg.
83)
Cfr. Pasch., Mess. I, 351 sgg.: At Iesum, illorum iras (nam funeris hora/ nondum
fixa aderat), vitans, sese inde removit/ desertumque petens, Ephrem secessit ad urbem./
Arduus hic superas Thabor mons surgit ad auras (sull'inesattezza geografica cfr. n.
23)/...Illuc assumens socios Petrum atque Ioannem/ac fratrem, ascendit Iesus; Vida, Christ.
I, 829 sgg.: His actis, iam devexum cum Vesper Olympum/clauderet, egrediens male fida
cessit ab urbe... Ignaros socios Taburi ima in valle reliquit./Ipse autem ascensu superans
150
capita ardua montis/ constitit... Addiderant comites se tantum ex omnibus illis/fidus Ioannes
cum fratre, Petrusque vocati.
84)
Pasch., Mess. I, 410-429; Vida, Christ. I, 931-962.
85)
Cfr. Pasch., Mess. I, 395-402:
tibi maxima Roma
ante omnes, decora alta sacrosque dicabit honores;
ut, quae nunc reliquas cultu regina profano
incestat gentes, sanctis ea ritibus orbem
impleat, ac mundi iam sit regina redempti.
Haec nova Ierusalem: triplici diademate cinctus
Pontificum summus regali hic iure tenebit
terrarum tractus, geminum quod alluit aequor.
L'episodio dell'Arcangelo Michele che abbandona Gerusalemmme per Roma lo si legge in Mess. II,
214-265.
(86)
Pasch., Mess. II, 491-513; Vida, Christ. II, 92-108; Klop., Mess. III, 584-664. Da
rilevare che nel poema del Pasquali Satana usa una tattica decisamente più subdola nonché
diversissima da quella immaginata dagli altri due poeti, tattica che rende, nel contempo, ancor più
odioso e infame il tradimento. Satana dà infatti per scontato che Cristo perirà anche senza il
tradimento di Giuda: tanto vale quindi che Giuda approfitti del momento favorevole per trarne
denaro visto che, in fondo, non sarà lui a provocare la morte del Maestro. Nel poema del Klopstock
Giuda si convince che a parlargli in sogno è stato proprio suo padre, il che rende in qualche modo
più accettabile, da parte di Giuda, l'insinuazione che il Maestro non lo ama e non lo porrà comunque
ai primi posti nel suo Regno. Nel Vida, infine, è l'accusa di empietà contro il Cristo da parte delle
autorità religiose a travolgere il discepolo, il che potrebbe financo costituire una sorta di parziale
giustificazione per un animo religioso.
(87)
Pasch., Mess. V, 147-150.
(88)
L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca, II, 1, Torino 1971, p. 177.
(89)
Pasch., Mess. V, 179-213.
(90)
Pasch., Mess. IV, 404-406. Inevitabile il richiamo ad Apoc. 20, 1-3: "Et vidi angelum
descendentem de caelo, habentem classem abyssi et catenam magnam in manu sua. Et apprehendit
draconem, serpentem antiquum, qui est Diabolus et Satanas, et ligavit eum per annos mille; et misit
eum in abyssum et clausit et signavit super illum ut non seducat amplius gentes, donec
consummentur mille anni; et post haec oportet illum solvi modico tempore". Su questo passo è
fondato il millenarismo lattanziano (l.VII delle Divinae Institutiones) nonché la fantasiosa
escatologia degli attuali testimoni di Geova. Secondo l'ortodossia cattolica l'incatenamento di Satana
non andrebbe inteso nel senso di una totale, per quanto provvisoria, scomparsa della sua nefasta
azione sulla comunità umana, ma così non sembra intendere il Pasquali.
(90)
Pasch., Mess. VI, 2-8.
(91)
Ricorriamo di nuovo alla bella versione della Benedetti Cardelli, op. cit., p. 141. Il
riscontro, questa volta non applicabile al Vida, è valido anche sul piano teologico: in entrambi i casi
vengono giudicati in Cristo tutti i peccati del mondo.
151
(92)
Pasch., Mess. VI, 78-90:
Stabant Abramidum proceres, crudele videntes
supplicium laeti, atque uno simul agmine mixti
Tartarei circum lemures. Ut plurima cornix,
qua Padus, ingrediens pontum, fert gurgite foedam
congeriem rerum, volat ocius agmine denso,
escam inhians: multa nigrescit ab alite tellus:
sic inferna cohors versatur vertice montis.
Ipse etiam Satanas, postquam mortalia membra
exutum Iudam infernas adduxerat umbras,
Ierusalem rediit, Christi miserabile letum
visurus: celsoque sedens in margine Cedron,
illius extremis pascebat lumina poenis,
ac se victorem tumida iam mente ferebat.
(93)
Si leggano, per un opportuno confronto, questi tratti dell'episodio quale si configura nel
Klopstock (trad. Benedetti Cardelli, op. cit., pp. 226-227):
"Eloa stava frattanto sul tempio e vedeva giungere i patriarchi. Egli volse lo sguardo e vide, alti
sopra la croce, Satana e Adramelech librarsi in un selvaggio trionfo, Satana per l'opera già
compiuta, ed entrambi per gli eventi futuri. Eloa osservò, come i ribelli, alti sulle nubi della terra
rotante, misuravano con ampie ruote le più alte volte del cielo... Ma Eloa li fissa in volto con sguardo
dominatore... "io vengo (sono parole di Eloa) nel nome del figlio di Adamo, di Colui che guardatelo! - porta la sua croce! Nel nome del Vincitore degli inferni: fuggite!". Essi fuggirono via
oscuri come la notte. Incalzanti terrori si attanagliarono alle piante dei fuggitivi e li spinsero verso
le rovine di Gomorra nel Mar Morto".
Ci sembra difficile in questo caso, anche in mancanza di un possibile riscontro con il Vida, escludere
o anche solo dubitare che l'episodio derivi al Pasquali da una diretta conoscenza del
corrispondente passo klopstockiano. Ai patriarchi del Klopstock corrispondono gli
Abramidum proceres del Pasquali, l'opera già compiuta da Satana è chiaramente
interpretata dal poeta italiano come riferita al tradimento di Giuda, il "selvaggio trionfo" del
modello tedesco è ben reso da se victorem tumida iam mente ferebat, decisivo e non
eludibile il finale e comune precipitarsi dei diavoli in fuga nel Mar Morto, anche se
cronologicamente diversificato nei due testi.
(95)
Pasch., Mess. VI, 233.
(96)
Pasch., Mess. VI, 308-339. Che al centro del l. X del poema del Klopstock si
assista ad un colloquio fra Simeone e Giovanni Battista può essere significativo, ma il
riscontro in questo caso è alquanto tenue e documenta, se mai, come il Pasquali abbia assai
spesso ripreso dai suoi modelli solo uno spunto (in questo caso l'accoppiamento fra i due
personaggi) per svilupparlo in tutt'altra direzione.
(97)
Cito dalla seguente edizione: La vita di Gesù Cristo e la sua religione con i fatti
degli Apostoli, Ragionamenti del P. Antonio CESARI dell'Oratorio, vol. I, Torino 1852, p.
349 (rag. 47, fine). Ed ecco il testo: "Dopo la quale (la morte di Gesù), quella benedetta
152
anima (Giovanni Battista) raccogliendosi al suo popolo laggiù nel limbo, andò a visitare
que' giusti, Patriarchi e santi del patto antico, Adamo, Abele, Noè, Abramo, i Profeti che la
redenzione si stavano aspettando da tanto tempo. Ed oh, con quanta allegrezza vi fu
ricevuto! Egli raccontò loro come autentico fedele testimonio ogni cosa che aveva veduto e
udito dal Redentore; come conosciutolo essendo ancora in corpo esso ed egli alla madre;
come era nato e vissuto in trenta anni, e già cominciata la sua predicazione; i miracoli da
lui fatti e le parole che esso Gesù aveva loro per mezzo di lui mandato dicendo; che finita
era la prigionia, che indi a poco tempo sarebbe compiuta la redenzione, che cara gli
costerebbe; e che il Redentore medesimo o sarebbe venuto a visitarli di persona, e cavarli
di quel luogo, per menarli seco all'eterno suo regno (cfr. anche ibid. rag. 103, vol. II,
p.83)". Da rilevare, comunque, che anche in questo caso il Pasquali innova non poco
rispetto al suo modello facendo raccontare dal Battista il battesimo di Gesù, di cui non c'è
parola nel brano del Cesari, ed introducendo quindi Simeone di cui vien parafrasato il ben
noto cantico (Lc 2, 29-32).
(98)
Pasch., Mess. VI, 91-107; 234-235.
(99)
Pasch., Mess. VI, 424-451.
(100)
Per la sua espressività val qui la pena di riportare il breve passo nella sua
integrità (Pasch., Mess. VI, 108-115):
Tunc Deus aligeris uni ex astantibus inquit:
hoc cape, quod folium trado; perque aera collem
funereum adveniens, ferali in stipite, Christi
subter fige pedes; haec est sententia, nostra
iam primum conscripta manu; quae dedita morti
est hominum gens, ob scelus exitiale parentum.
Qui scelus hoc sibimet sumpsit letale luendum,
deleat ipse suo conspersum sanguine vindex.
(101)
Pasch., Mess. VI, 120-128.
(102)
Lc 16, 19-21.
(103)
Pasch., Mess. IV, 550-556.
(104)
Lo spunto offerto dal Vida (Chist. VI, 56-60), pur costituendo per il Pasquali un
importante e sicuro punto di partenza, è alquanto generico:
Quidam etiam vidisse ferunt pendere per auras
caelivagos iuvenes feralia robora circum
plaudentes alis, niveaque in veste coruscos
divinum multo stillantem e vulnere rorem
suscipere, et superas pateris perferre sub auras.
Non c'è come si vede il minimo accenno al momento più significativo dell'episodio
pasqualiano, la benefica irrorazione dell'umanità peccatrice col salvifico sangue del Cristo,
né all'altro particolare teologicamente rilevante che istituisce lo stimolante aggancio fra
redenzione e circoncisione. Su di esso medita il Cesari in un passo di grande suggestione
153
(Op. cit., vol. I, rag. settimo, p. 55) che il Pasquali aveva certamente presente e che
riportiamo nella sua integrità:
"Egli dunque fu circonciso, e pel taglio di quella carne innocente, gettò le prime gocce di
quel sangue prezioso, che era già destinato il prezzo della redenzione nostra; e quello fu il
saggio, ed una cotal libagione di quella corrente larghissima, che a sgorgo ne avrebbe
mandato da tutte le vene là sulla croce... Se la circoncisione era (come parve a molti dottori)
istituita a cancellare il peccato originale, che ci aveva a Dio inimicati; ed egli ricevendola in
sé medesimo, diede vista d'essere peccatore, e d'aver a soddisfare un peccato; il quale,
posciaché suo non era, né potea essere, fu dunque il nostro ed i nostri".
Non si può dire che una volta presa visione dei due testi, l'episodio, quale si configura nel
Pasquali, fosse già bell'e costruito. E’ pertanto da ammirare come il poeta di Camerano,
pur partendo da spunti preesistenti, sia riuscito a costruire uno degli episodi più commossi
ed espressivi e, nel contempo, teologicamente fondanti dell'intero poema.
(105)
Pasch., Mess. VI, 120-128.
(106)
Pasch., Mess. I, 247-252.
(107)
Pasch., Mess. II, 285-289.
(108)
Pasch., Mess. II, 535-538.
(109)
Pasch., Mess. V, 123-127.
(110)
Pasch., Mess. V, 367-372.
(111)
Pasch., Mess. V, 523-527; 544-547; 619-621; 542-645.
(112)
Pasch., Mess. V, 599-602; 606-609.
(113)
Pasch., Mess. VI, 159-161.
154
Giorgio Brugnoli
Il De sacramentis di G. Pasquali Marinelli
Gli interessi del Giuseppe Pasquali Marinelli (1) per la trattazione di
temi ecclesiali nascono assai probabilmente dalla sua pratica scolastica in
ambienti ecclesiastici: dal 1802 nel Seminario di Ancona, dal 1810 al 1813
in quello di Osimo. La sua attività in questa specifica tematica ecclesiale fu
sempre applicata al rifacimento in versi esametri di testi d'uso ecclesiatico
su due distinti versanti:
a) il rifacimento di testi scritturali: Job (1846), Apocalypsis (1846);
Moysis cantica (1846); Prophetae (1856-1857); Liber Psalmorum (1864)
(2);
b) il rifacimento di testi catechistici: De sacramentis (1857).
È sintomatico che l'abbandono graduale di questa tematica e il suo
riciclo definitivo in una attività di rifacimento di testi non più d'uso
ecclesiastico ma profano (traduzione del Messias di Klopstock [1866];
traduzione dell'Iliade [1869] (3); traduzione dell'Odissea [1870] (4);
traduzione della Divina Commedia [1874]) abbia come termine post quem
la data (luglio 1863) del ritiro del Pasquali Marinelli a vita privata dopo la
perdita delle Marche e dell'Umbria da parte dello Stato della Chiesa (annessione di Ancona al Regno di Sardegna: 29-9-1860) e nell'imminenza
dell'emanazione del Sillabo (1864).
Il De Sacramentis (5) è dedicato al card. Antonio Benedetto
Antonucci arcivescovo di Ancona e poi cardinale (6). La sua composizione
nel 1857 avrà probabilmente avuto avvio da due importanti avvenimenti
concomitanti, il primo, teologico, sarà stato costituito dalla definizione nel
1854 del dogma dell'immacolata Concezione, il secondo, pratico, dalla
visita pastorale-politica nel 1857 di Pio IX nelle provincie centrali
(Bologna, Modena, Firenze, Pisa) a ridosso della loro imminente (marzo
1860) annessione al Regno di Sardegna.
Il De Sacramentis è diviso in due libri, rispettivamente di 964 e 970
versi, il primo dei quali tratta del Battesimo (vv. 68-416 = vv. 348), della
Cresima (vv. 417-517 = vv. 100), della Confessione (vv. 518-693 = vv.
155
175) e dell'Eucarestia (vv. 693-964 = vv. 271), e il secondo dell' Ordine
(vv. 11-331 = vv. 320), del Matrimonio (vv. 332-690 = vv. 358) e
dell'Estrema Unzione (vv. 691-970 = vv. 279).
Il grande spazio riservato alle trattazioni del Battesimo,
dell'Eucarestia, dell'Ordine, del Matrimonio e dell’Estrema Unzione si
spiega con diverse motivazioni. Alcune motivazioni sono di tipo
narratologico: per l'Ordine, certamente, la dilatazione sarà stata dovuta
all'inserzione nel testo di una lunga Visio mistica dell'autore (vv. 16-68).
Ma altre motivazioni per la dilatazione dell'esposizione di altri Sacramenti
sono certamente di tipo ecclesiale e vanno ricercate nell'indugio dell'autore
su alcune specifiche questioni teologiche presenti nel dibattito teologico in
corso: per l'Eucarestia, il maggior spazio sarà dovuto all'inserzione nel testo
di elementi di polemica con il rito ortodosso (vv. 748-752: sull'ostia se di
pane azimo oppure fermentato; vv. 836-841: se possa essere somministrata
agli infanti appena battezzati), una polemica che rifletterà probabilmente il
dibattito teologico corrente, forse in particolare nelle Marche per i rapporti
con gli ortodossi al di là dell'Adriatico. La lunghezza delle trattazioni del
Battesimo, del Matrimonio e dell'Estrema Unzione si può invece far risalire
a entrambe queste motivazioni: per il Battesimo, all'inserzione di excursus
evangelici, sul Battesimo di Gesù nel Giordano e sul Miracolo della piscina
(vv. 89-118), ma anche alla trattazione polemica del rituale ortodosso del
Battesimo per immersione (vv. 323-340); per il Matrimonio, al riflesso della
polemica teologica corrente nella Chiesa contemporanea sull'Onanismo e il
Condomismo matrimoniali (7) e i matrimoni misti (8), ma anche
all'inserzione dell'excursus sulla moglie morta dell'autore (vv. 657-670); per
l'Estrema Unzione, alla necessità di introdurre elementi (vv. 734-750: sulla
consacrazione dell'Olio Santo e le preghiere di rito) di riflesso della
polemica della Chiesa contemporanea contro il rito ortodosso (9), ma anche
agli excursus sulle morti dello zio materno Francesco Saverio Marinelli,
Arcidiacono (10) della Cattedrale di Osimo (vv. 769-920) e della moglie
(vv. 925-938) dell'autore, Elena Picozzi (sp. 1834 - m. 1857).
Il De Sacramentis è fra le opere del Pasquali Marinelli certamente
una delle più impegnative e forse la più impegnata, «affatto nuova», come
156
fu salutata dall'arciprete Mattè, secondo quanto riferisce Pietro Gianuizzi
nell'Elogio funebre (10 luglio 1876) di Pasquali Marinelli.
In questa sede penserei di metterne in luce alcuni aspetti originali che
credo non siano stati debitamente sottolineati, in quanto vanno molto al di
là di quell'apprezzamento della resa da parte dell'autore della tematica
dottrinale che è stato finora a cuore alla massa degli apologeti, locali e per
lo più in abito talare, di Pasquali Marinelli.
Mi limiterei comunque a due di questi aspetti originali e inediti, il
primo che riguarda l'uso delle similitudini a testo, il secondo che riguarda
gli excursus di carattere personale inseriti dall'autore nel testo.
L'uso delle similitudini nella narratologia catechistica è canonico.
Così ad esempio, la definizione della Contrizione penitenziale di Pasquali
Marinelli (1, 556-563) come un martello (cuspide ferrea) che trita una
pietra:
Tunc te poeniteat; tunc alte ad pectora subsit
Admisisse dolor, dolor acer, et intima prorsus
Corda terens: unde est contritio nomine dictus.
Nam, veluti res praeduras mos cuspide ferrea
Conterere est; sic, quae scelerum traxere rigorem
Indomitum, fas corda acie moeroris acuta (11)
Usque teri atque ideo hunc unum vox ista dolorem
Significat, cui nec similis dolor alter habetur.
discende senza soluzione di continuità dal De Sacramentis di Roberto
Bellarmino arrivando fino al nuovo Catechismo degli adulti proposto dalla
Conferenza episcopale italiana:
Che cosa vuol dire questa parola contrizione? La parola contrizione vuol dire rottura o
spezzamento, come quando una pietra è pestata e ridotta in polvere.
Perché si dà il nome di contrizione al dolore dei peccati? Si dà il nome di contrizione
al dolore dei peccati, per significare che il cuor duro del peccatore in certo modo si spezza
per dolore di avere offeso Dio.
Tuttavia, la similitudine, che segue in Pasquali Marinelli, con il dolore
per la perdita di persone care (1, 564-569) è una sua personale intrusione
nell'esemplarità canonica:
157
Quippe dolet mater crudeli morte peremptum
Filiolum; dolet exanimum pia nupta maritum:
Haud tamen hic dolor est tantus, quem Numine laeso
Mortalem torquere decet. Quis namque dolendo
Aequiparare potest, quae amissa est Gratia? quodque
Amissum est sine fine bonum?
E' importante notare il carattere intimistico-familiare di questa
intrusione perché si tratta di una costante rilevabile anche in altre
similitudini. Citerei il paragone fra la maternità della Chiesa e quella della
madre (2, 1-4):
Mortalem per cuncta sequens vestigia vitae,
Relligio, quas conditio et quas tempora poscunt
Diversas huic praebet opes, ut sedula mater,
Nunquam destituens curas impendere nato.
e ancora quello sulla sollecitudine del prete che porta l'Estrema Unzione (2,
762-768) equiparata a quella di un padre che soccorre il figlio in pericolo:
Nil curat: Christi charitas sub pectore fervens
Sollicitat, cunctosque pati dat posse labores.
Talis, ubi in magno dulcem discrimine natum
Versari pater audivit, se protinus ardens
Proripit; oblitusque sui, prorumpit in omnes
Ancipites casus: vires animumque paternus
Addit amor, nullumque sinit vitare periclum.
e quello sulle preghiere in articulo mortis equiparate alle premure di una
madre che prepara i bagagli per il figlio che parte (2, 839-849):
Qualis, ubi externam sit natus iturus in urbem,
Atque ibi fixurus sedem, tunc anxia mater
Quaeque profecturo, quaeque omnia deinde manenti,
Sunt opus, enixe parat; et degentibus illic
Commendat notis, ne quid vel triste periclum,
Aut crudele malum juveni contingere possit;
Ingeminatque preces, et curis parcere nescit:
Sic pia relligio morientem ac ire parantem
158
Aeternam in sedem, cunctis, quae semita poscit,
Instruit auxiliis; illique precatur, amicos
Quot superis oris habet, ut comitentur euntem
Ac secum in patria laetam dent ducere vitam.
Sullo stesso piano vanno valutate altre similitudini originali (12) che
riguardano elementi caratteriali della vita borghigiana e marchigiana
dell'autore, e cioè la vita contadina, pastorale, marinara e venatoria. E si
confronti in ordine: il Battesimo paragonato all'innesto (1, 83-86):
Non secus ac sterili cum surculus arbore natus
Foecunda inseritur trunco, vetus ille relinquit
Ingenium; frondesque novas, et plurima felix
Poma parit; fructuque epulae cumulantur heriles.
La Confessione del peccatore paragonata all'ultima tavola di
salvataggio del naufrago (1, 522-533):
Qualis saepe ratis, vigili licet illa magistro
Gaudeat, atque nova contextis abiete costis (13);
Cum tamen horrendo bacchentur turbine venti (14)
Per quas missa vias tendit, fit triste procellis
Ludibrium; ac superante salo submergitur undis:
Tum nautae, arrepta tabula, per marmoris aestum
Ad littus trepidi tendunt: si avulserit unda
Hanc etiam, illi aliam rapiunt, terramque capessunt.
Haud aliter, scelerum merso torrentibus undis,
Hoc homini, post baptismum, tabula altera praesto est,
Qua mortem fugit, atque aeternae ad littora vitae
Provehitur: superestque salus haec sontibus una.
I peccati occulti paragonati a una belva che s'intana (1, 549-551):
qualis, sibi conscia facti,
Vel bove vel pecude enectis, se bellua campo
Proripuit, nemorumque cavis abscondidit antris.
159
Il pentimento dei peccati paragonato alla sarchiatura dei campi (1,
571-578):
quare sub pectore tecum
Constitue obfirmans, numquam per tempora vitae,
Quotque erunt, te velle jugo submittere culpae;
Seminaque, ac penitus cunctas eradere corde
Radices, ne deinde mali quid pullulet umquam;
Agricolae in morem vigilis, qui perpete campum
Exercet cura, nec quidquam irrepere gramen
Perpetitur, rastrisque instat duroque bidenti (15).
L'assoluzione paragonata al buon pastore che ritrova la pecorella
smarrita (1, 677-685):
Qualis, ubi amissam, repetens praesepia, pastor
Sensit ovem; mora nulla, gregem simul ille relinquit
Anxius; ac, relegens volucri vestigia gressu,
Omnia scrutatur: si forte invenerit, ardens
Arripit, inque humeros tollit, septisque reportat:
Gratantur venienti omnes; exultat ovile
Laetitia ingenti. Sic, peccatore recepto,
Coelesti majora domo sunt gaudia, quam pro
Omnibus electis: tanta est clementia Caeli!
L'uomo al servizio di Dio paragonato a un mezzadro che porta le
primizie al padrone (2, 69-72):
Qualis, ubi primis se fructibus induit annus,
Agricola, obsequium juri testatus herili,
Hos domino fert dona suo, cum munere gratum
Ostendens animum, et devoti cordis amorem;
I vari gradi dell'Ordine Sacerdotale paragonati alle mansioni di una
fattoria (2, 263-269):
qualis, ditissimus agri,
Exultat vir saepe animi, cum robore pubem
Praevalidam inducit campo, quae viscera terrae
160
Intima perfodiat rastris, atque imperet arvis.
Campus enim Domini magnus, magnoque labore
Indiget, ut fructus pariat.
Peraltro, i versi più nuovi di Pasquali Marinelli sono quelli dedicati
al ricordo della moglie, morta proprio nell'anno di composizione del De
Sacramentis. A parte il di lei convenzionale elogio funebre che chiude il De
Sacramentis (2, 923 ss.), l'invocazione alla moglie di 2, 657 ss. ha
certamente una sua validità lirica:
Et tu, cara, mihi vivis, penitusque medullis
Fixa haeres, Helene, quamvis et prona senectae,
Et mihi rapta seni: te te mens saucia luctu
Nocte dieque vocat; te per loca nota, per aedem
Perque vias, quacumque feram vestigia, quaero,
Ingeminans Helene Helene: loca cuncta resultant.
Esto mei, dilecta, memor; memor, optima conjux,
Esto mei, cujus tantus, dum vita manebat,
Te devinxit amor; quem tot tantisque fovebas
Assiduis curis. Ora, dulcique precare
Voce Deum, ut luctum, quo me tuus angit acerbus
lnteritus, relevet... Quid dixi? Tristis amaror (16)
Saeviat usque magis, donec coelestia tecum
Regna adeam, aeternumque Deo et tibi jungar in aevum.
Qui gli spunti semantici e strutturali che provengono dal Lamento
d'Orfeo per la perduta Euridice delle Georgiche (17) e dal Planctus d'Enea
per la smarrita Creusa dell'Eneide (18), vengono agevolmente e
affabilmente integrati sui parametri di una sentita commozione, e sia pure a
norma di una dignitosa oratoria religiosa, ma nella migliore tradizione della
lirica religiosa neolatina, come era stata ad esempio quella del Pontano.
È da piccoli brani come questi, concluderei, che l'industria
versificatoria del Pasquali Marinelli acquista probabilmente giustificazione
e certamente occasione di commemorazione letteraria.
161
Note
1)
Sul personaggio e l'opera cfr. M. MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli. Le età
di un poeta, Ancona 1993.
2)
Cfr. F. STOK, G. Pasquali Marinelli (1793-1875) e le sue parafrasi bibliche in
esametri latini, in Scritti in onore di Italo Gallo, a c. di L. Torraca , Napoli 2002, pp. 497523.
3)
Cfr. C. SANTINI, La versione latina dell'Iliade di Giuseppe Pasquali Marinelli, in
Acta Conventus Neo-Latini Cantabrigensis, ed. R. Schnur, Arizona 2003.
4)
Cfr. G. FLAMMINI, Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore dell'Odissea, in Studi
in memoria di A. Valentini, a c. di S. Baldoncini, Macerata 2000, pp. 131-65.
5)
Dato alle stampe a Recanati, "Recineti Typis Morici ac Badaloni", 58 pagine.
6)
A 2, 209-215 Pasquali Marinelli ne annuncia la porpora.
7)
Pio VII: Resp. S. Paenitentiariae, 23 Apr. 1822 = 2715 Denz.-Sch.; Gregorio XVI:
Resp. S. Paenitentiariae, 8 Iun. 1842 = 2758-2760 Denz.-Sch.; Pio IX: Decr. S. Officii, 21
Maii 1851 = 2791-2793 Denz.-Sch.; Resp. S. Officii 6 Apr. 1853= 2795 Denz.-Sch.
8)
Benedetto XIV: Declaratio "Matrimonia quae in locis", 4 Nov. 1741 = 2515-2520
Denz.-Sch.; Clemente XIII: Resp. S. Officii ad episc. Coccinesem, 1 Aug. 1759 = 25802585 Denz.-Sch.; Pio VI: Ep. "Exsequendo nunc" ad episcopos Belgii, 13 Iul. 1782 = 1497
Denz.-Sch.; Ep. "Deessemus nobis" ad episc. Motulensem, 16 Sept. 1788 = 2598 Denz.Sch.; Const. "Auctorem fidei" ad univ. fideles, 28 Aug. 1794 = 2658-2660 Denz.-Sch.; Pio
VII: Breve "Etsi fraternitatis" ad archiep. Mogunt., 8 Oct. 1803 = 2705 Denz.-Sch.; Pio IX:
instructio S. Officii ad episc. Mallensem, 4 Iul. 1855 = 2817-2820 Denz.-Sch.
9)
Benedetto XIV: Const. "Etsi pastoralis" pro Italo-Graecis, 26 Maii 1742 = 2534
Denz.-Sch.; Gregorio XVI: Resp. S. Officii, 14 Sept. 1842 = 2762-2763 Denz.-Sch.
10)
E non «arcivescovo», come si crede.
11)
Verg. Aen. 5, 208-209: ferratasque trudes et acuta cuspide contos / expediunt.
12)
Non tratterò quindi qui delle similitudini d'imitazione classica (1, 40 ss.= Verg.
Aen. 9, 3l ss.; 1, 434 ss. = Verg. Aen. 10, 693 ss.; 2, 45 ss. = Verg. Aen. 4,249 ss.) o biblica
(1, 658 ss. = Gli Ebrei al Mar Rosso) o mitica (2, 171 ss. = Il mito di Fetonte).
13)
Verg. Aen. 2, 16: aedificant sectaque intexunt abiete costas.
14)
Ciris 480: cum Afer hiberno bacchatur in aequore turbo.
15)
Verg. Georg. 2,354-356: Seminibus positis superest diducere terram / saepius ad
capita et duros iactare bidentis / aut presso exercere solum sub vomere...
16)
Verg. Georg. 2, 246-247: ora / tristia temptantum sensu torquebit amaror.
17)
Verg. Georg. 4, 526: a! miseram Eurydicen anima fugiente vocabat.
18)
Verg. Aen. 2, 769-770: maestusque Creusam / nequiquam ingeminans iterumque
iterumque vocavi.
162
Orietta Basili
Considerazioni intorno alla Maximorum Pontificum Series
Buona parte della produzione letteraria del Pasquali riguarda la
tematica storico-religiosa o la sfera del sacro: tale interesse può essere
giustificato pensando ad una naturale inclinazione del Nostro, sicuramente
coltivata ed accresciuta dall'ambiente familiare: stando alle notizie forniteci
dai biografi, infatti, la madre era una donna molto religiosa e lo zio,
Francesco Saverio Marinelli, che tanto peso ebbe sulla formazione culturale
e spirituale del Nostro, era un prete (1). Il Pasquali visse sempre in ambienti
fortemente legati al mondo ecclesiastico: frequentò infatti il Seminario di
Ancona, dove assorbì l’amore per le lettere italiane, latine e greche e, nel
1810, iniziò a frequentare il Seminario di Osimo, che vantava tra insegnanti
e studenti uomini di grande valore ed ingegno, tra cui due papi, Leone XII
(1760-1829) e Pio VIII (1761-1830) (2); per dodici anni, infine, lavorò a
Roma, dove si era trasferito nel 1818, come minutante-archivista, nella
segreteria del Camerlengato (3). L’educazione che il Pasquali ricevette fin
da adolescente e la vita che condusse da adulto, dunque, ebbero certamente
un ruolo determinante nella sua produzione letteraria: la Maximorum
Pontificum Series ne è un esempio.
L’opera
La Maximorum Pontificum Series si apre con un carme dedicato a Pio
IX, un pontefice che il Pasquali doveva amare molto, stando agli elogi che
gli indirizza anche in alcuni dei Carmina Inedita. In questa opera si
evidenzia il particolare interesse del poeta nei confronti dei pontefici: in essa
compaiono infatti alcuni componimenti relativi ai papi, alla loro sede, alla
loro storia. Vediamoli: nel carme CCXLVIII l’umanista tratta della sede dei
pontefici indicandola come una torre nella spiaggia che, con il suo aspetto
maestoso, mostra il cammino attraverso il mare (4), permettendo così di
riconoscere e dare il giusto nome a tutto ciò che l’oscurità della notte
nasconde o addirittura capovolge: “Pontificis summi sedes tum discutit
163
umbras/Quidque sit indubie fas nefasque docet” (5). Nel carme CCLIII i
pontefici sono indicati dal Nostro come un ponte che lega insieme cielo e
terra, Dio e gli uomini, secondo un’immagine alquanto comune nel
linguaggio ecclesiastico (6); il grande Dio, scrive il poeta nel carme CCLII,
ha stabilito che essi siano maestri di fede e di moralità; il loro “regnum” è
un fondamentale fattore di equilibrio sulla terra; se venisse a mancare, si
legge nel carme CCLI, si scatenerebbe un diluvio di eventi tristissimi (7).
Era dunque naturale, considerando l’ammirazione e la fiducia che il
Pasquali riponeva nella figura del papa, il quale era tenuto a svolgere l’alta
missione di adoperarsi per la salvezza degli uomini, che egli dedicasse un
po’ delle sue energie alla composizione di un’opera che tratta della storia dei
pontefici da S. Pietro a Pio IX.
Descrizione della Series
La Maximorum Pontificum Series è rimasta inedita: nel 1874, in una
lettera, il poeta manifestò il desiderio di stampare “un volumetto di mie
piccole poesie, cioè epigrammi ed elegiole, fra quali la Serie dei Romani
Pontefici “singulis epigrammatibus” da S. Pietro a Pio IX” (8), ma non
riuscì a realizzare il suo progetto sia per mancanza di fondi che per la morte,
sopraggiunta un anno dopo.
Della Series si possiede l’autografo e la trascrizione in 167 pagine che
fu eseguita dall’autografo per mano dell’avvocato Pietro Gianuizzi, nel
giugno 1876.
Il poemetto si apre con un carme Ad Pium IX Pontificem Maximum:
del resto, la volontà di dedicare questo suo lavoro al pontefice era stata
espressa dal Pasquali nel carme CXLV dei Carmina inedita, nel quale si
legge:
Fors Deus in tantos voluit te attollere honores
Ut mihi sufficeres hanc permanenter opem (9).
Alla dedica a Pio IX succede quella a Pietro Quatrini, che fu
eccellente precettore di Retorica nel Collegio “Campana” di Osimo, dove,
come si è detto, il poeta studiò dal 1810 al 1815. Il Quatrini, nativo di
164
Montetorto, nell’Osimano, era stato discepolo prima e successore poi di
Pellegrino Roni; al “Campana” ebbe tra gli allievi i due pontefici Leone XII
e Pio VIII. In questo carme il nostro umanista lo definisce “Rethorices
praestantissimi praeceptoris” e in una lettera del 1864 dice di lui: “Il
Maestro Quatrini (che intende assai di latino al pari che d’Italiano)”,
rendendo così nota la grande stima nei confronti di questo insegnante-poeta,
che attirò per le sue capacità, anche l’attenzione di letterati come il Monti e
Pietro Verri.
Alle due dediche segue l’inizio vero e proprio del poemetto, che è
diviso per secoli, all’interno dei quali vengono collocati i pontefici, di cui, in
due distici elegiaci, sono trattate in forma sintetica ed incisiva le opere o gli
avvenimenti dall’autore considerati più importanti.
Infine si hanno due carmi De Maximorum Pontificum Sede e 145
Notae, in gran parte tratte dall’opera in tre volumi dello storico belga G.
Henry Wouters, Historiae Ecclesiasticae Compendium, la cui prima
edizione è del 1842 e, per finire, l’indice alfabetico dei pontefici.
L’opera non è datata, tuttavia vi sono elementi che permettono di
risalire con certezza al periodo di composizione.
Va in primo luogo tenuto presente che è sicuramente successiva al
1842, anno della pubblicazione dell’Historiae Ecclesiasticae Compendium
del Wouters, cui, come si è già detto, il Pasquali attinse per le sue Notae;
inoltre nel carme I dei Carmina inedita, il poeta racconta di aver iniziato a
comporre la serie dei pontefici “multus… obsitus annis”: considerando che
era nato nel 1793, si può ipotizzare che si riferisse agli anni Sessanta
dell’800, quando, tra i sessanta ed i settanta anni, doveva ormai sentire su di
sé il peso dell’età.
Ciò che rende possibile individuare con una certa precisione l’anno di
stesura del poemetto è una lettera che il 10 luglio 1869 da Ancona Cesare
Gariboldi invia al Pasquali Marinelli, con la quale ringrazia il poeta per la
gentilezza di avergli fatto leggere "quest'altro bel lavoro" e nel contempo,
come l’amico gli aveva chiesto, muove alcuni appunti.
165
Dunque, essendo la lettera del luglio 1869, la composizione della
Series dovrà essere posta almeno nell’anno precedente, il 1868, quando il
Nostro aveva settantacinque anni.
Ecco il testo della lettera:
Carissimo sig.re Giuseppe
Per obbedirla, ho esaminato gli Elogii dei Romani Pontefici che Ella con tanto studio ha
composti, ed ebbe la gentilezza di farmi leggere. Li ho letti con grandissimo piacere e mi
rallegro con Lei di quest’altro bel lavoro, che mostra con quanto impegno oltre a coltivare
le lettere con sì felice successo, dà opera altresì agli studi sacri. Poche osservazioni mi è
occorso farvi, e questa, poiché Ella me lo impone, mi faccio un dovere di significarle qui
appresso.
Non sarei interamente d’accordo con Lei circa le gesta particolari dei Pontefici dei
primi secoli, dei quali si sa assai poco e questo non è sempre certo.
Non ammetterei parlando di S. Telesforo quell’Huius et ex cura fit Quadragesima,
essendo essa d’istituzione divino-apostolica.
Invece di Marcionem perculit (Iginus) direi Cerdonem. V. Wouters pag. 40.
Nella nota 2 su Valentino direi Aeones con Wouters non Aenones come trovo scritto
da Lei.
Circa S. Sotero, in luogo di quanto Ella ha posto nell’elogio, che da tutti non si
ammette come certo, parlerei di quello che è indubitato, della carità cioè di quel v. Pont.e
nel sovvenire ad metalla damnatos, in exilium eiectos di cui Gavellano S. Dioniso, Eusebio,
citato dal nostro Wouters T. 1, pag. 44.
Circa quanto Ella dice di S. Calisto Uxorem vetuit ducere presbyteros, amerei che
rammentasse quanto ha il nostro Wouters T. 1 pag. 78 sulla Continentia clericorum.
Del Pont.e Liberio non direi che: Sirmi decreta probavit, mentre i più degli storici e
de’ critici al giorno di oggi, per buone ragioni, non l’ammettono.
Nella nota 20 dopo le parole utque vitanda deve dirsi quaeque servanda.
Il tesoro lateranense sotto Severino fu depredato non incendiato.
Alla nota 32 sul Conc. Frullano aggiungerei quello che avverte saggiamente
Wouters neque a RR. Pontificibus, neque ab Ecclesia auctoritatem unquam accepit
quell’adunanza.
La cessione delle Alpi Cozie non fu un dono fu una restituzione. Ciò riguardo a
quanto si ha nell’elogio di Gio. VII Wouters vol. 1 pag. 199.
Nell’elogio di Stefano VIII deve dirsi Vratislaus.
Electus sero quoniam induperator inique Quosdam electores carcere detinuit, non
fu Celestino IV, ma il successore di lui Innocenzo IV.
In Adriano IV non è esatto il numero dei giorni del regno di Lui.
Non trovo in nessun autore quanto si dice nell’Elogio di Nicolò III.
166
Questo è quanto ho creduto notare. Nel citare che ho fatto in questa mia Wouters,
intendo parlare dell’edizione del 1862 che ha notevoli aggiunte.
Mi rallegro nuovamente con Lei pel suo bel lavoro, augurandole dal Signore Iddio le
maggiori prosperità, mi professo con profondissima stima
di Lei
Ancona 10 luglio 1869.
Una profonda stima, dunque, emerge dalla lettera nei confronti
dell’autore di questa opera pregevole sia dal punto di vista storico che
poetico e linguistico. Le notazioni di inesattezze, peraltro non gravi,
riguardano, come si è visto, essenzialmente il dato storico, perché nell’uso
del latino il Pasquali era molto abile e preparato: del resto, ad eccezione
dell’epistolario e di pochi versi, scritti in italiano, il rimanente della sua
produzione letteraria è in latino.
Il latino, secondo l’umanista, in quanto costituisce il sostrato culturale
e storico del popolo italiano non può essere obliato, né, tantomeno, essere
fatto oggetto di scherno, come invece accadeva. Ma c’è un altro motivo che
lo rende, se possibile, ancora più importante: ha rappresentato, e continua a
rappresentare il linguaggio della Chiesa. Ecco quanto recita il carme CXIV
dei Carmina inedita:
Bellum etiam Latio, quamvis memorabile nostri
Sit decus imperii indicitur eloquio.
Utitur hoc etenim ad sanctos Ecclesia ritus,
Scriptaque sanctorum sunt documenta Patrum;
Atque uno sic ore loquens, gens plurima, terris
Didita, Christiadum fit velut una domus.
Pontifices summi per saecula cuncta Camoenas
Foverunt Latias praebueruntque manum.
Hanc sibi Sincerus, sensitque hanc Vida; benignum
Docta omnis sensit turba patrocinium.
Id fuit hoc olim, magis hac aetate decebit,
Qua struit ambobus vis inimica necem.
Hoc tibi de Christo mortalis vindice gentis,
Quod venerans voveo, pignus amoris epos,
Invisum est seclo, ex duplici, Pater optime, causa,
Quod Latium, et Christum quod canit esse Deum.
167
E’ deplorevole quindi che il popolo italiano, che si professa cattolico,
che gode della presenza, nel suo territorio, della S.Sede e del Padre della
cristianità, ignori tutto ciò.
Il latino, chiaramente, era la lingua che meglio di ogni altra si prestava
a tracciare la storia dei pontefici, dal momento che è stata un fondamentale
mezzo espressivo della Chiesa sia alle sue origini, quando era ancora
comunemente parlata, sia quando, in seguito, i dialetti romanzi, nati dalla
sua naturale evoluzione, la esclusero dal circuito delle lingue cosiddette
“vive”.
Giuseppe Pasquali Marinelli e Pio IX
Dall’opera del Pasquali emerge con evidenza la grande devozione che,
come si è già detto, egli nutriva per Pio IX. Tale devozione non ci stupisce,
dal momento che il nostro umanista aveva vissuto sempre in ambienti
fortemente legati al mondo ecclesiastico, ma va notato che ad essa si
aggiunge una forte dose di ammirazione e, si direbbe anche, di affetto: non
bisogna infatti dimenticare che a Pio IX egli rivolge la dedica non solo in
alcune poesie dei Carmina inedita, ma anche nei poemetti De pugna ad
Castrumficardum, De pugna ad Nomentum, Maximorum Pontificum Series.
Quali sono stati i motivi di tale affettuosa benevolenza?
Un elemento che balza immediatamente all’attenzione è che Giuseppe
Pasquali Marinelli e Giovanni Maria Mastai Ferretti sono praticamente
coetanei, essendo il primo nato il 20 aprile 1793, ed il secondo il 13 maggio
1792. Il Pasquali, dunque, è stato testimone oculare del pontificato di Pio
IX, di cui ha potuto seguire la carriera con un entusiasmo reso ancora più
acceso dal fatto che il nuovo papa era marchigiano di Senigallia, una
cittadina non molto lontana dal paese natio del Nostro, Camerano; inoltre
nell’Anconetano erano numerosi i Ferretti, probabilmente parenti del futuro
Pio IX.
La mattina del 17 giugno 1846, dal balcone del Quirinale, il
protodiacono Tommaso Riario Sforza annunziava il nome del pontefice
neoeletto: era appunto Giovanni Maria Mastai Ferretti, che aveva scelto il
nome di Pio IX. Non si vuole ripercorrere la storia del suo pontificato,
168
peraltro nota a tutti, quanto piuttosto cercare di individuare che cosa
significò in ambiente marchigiano l’elezione di un papa della medesima
regione: un uomo e letterato acuto come il Pasquali non poteva non
raccogliere l’ondata di entusiasmo, cui lui stesso partecipava, scaturita da
quell’elezione, e giustificata sia dall’orgoglio di vedere salire al sommo
grado della gerarchia ecclesiastica un compaesano, sia dal fatto che si
riponevano molte speranze per il futuro d’Italia in quel pontefice
che tanto ritrasse dell’Agnello e del Leone della tribù di Giuda, che non si saprà mai
a quale sia stato più simile: se all’uno nella dolcezza, o all’altro nella fortezza; se all’uno
nella mansuetudine o all’altro nell’ardimento; se all’uno nella rassegnazione di vittima, o
all’altro nell’intrepidità di guerriero (10).
Nonostante il Pasquali fosse un conservatore, nemico, dunque, di una
soluzione in senso nazionale della situazione italiana (11), e di ogni
provvedimento che potesse in qualche modo favorire questo progetto ed i
suoi fautori, tuttavia, quando il 16 luglio 1846 Pio IX proclamò un'amnistia
per i reati politici, ancora una volta dimostrò rispetto ed affetto nei confronti
del papa: infatti pur non approvando, coerentemente alle sue idee politiche,
quell’azione, egli, addirittura, nel carme CCXXVIII intitolato a Ioannes
Maria Mastai, giunse ad esaltare l’amnistia (12) con queste parole:
In corde rebelles
Respiciens patrio, veniam largiris, et omnes
Ipse vocas, gremioque foves; ac foedere dulci
Aversos natos patremque innectis amantem (13).
A Roma si gridava “Viva Pio IX” e i festeggiamenti in suo onore
erano estesi ovunque, ma soprattutto nella Romagna e nelle Marche. Il
pontefice si aspettava che la sua città natale avrebbe in qualche modo voluto
dimostrare la gioia per quell’alta dignità a lui toccata; infatti, mentre
attendeva la cerimonia della proclamazione, un quarto prima della
mezzanotte scrisse una lettera da inviare ai fratelli, nella quale si legge: “Se
il comune volesse fare qualche spesa per dare dimostrazione fate in modo,
anzi voglio, che la somma da spendersi sia tutta erogata in cose utili per la
città a giudizio del gonfaloniere ed Anziani” (14). In effetti a Senigallia i
169
festeggiamenti si svolsero dal 27 al 29 luglio, con la partecipazione di
uomini provenienti da altre città, quali Fano, Pesaro, Fossombrone, Jesi,
Ancona, Rimini e Cesena (15).
Si ha testimonianza di feste in onore di Pio IX anche in altre città
marchigiane, come Macerata, S. Ginesio e Ancona:
Qui (in Ancona) siamo in grandi feste, le quali questa sera, con la macchina
grandiosa dei fuochi artificiali, avranno fine. Lo entusiasmo della popolazione è oltre ogni
credere. A centinaia le bandiere Pontificie sono appese nelle botteghe e nelle finestre
addobbate, e portate da persone anche le più civili; le quali girando intorno e giorno e notte
per le Città e pe’ luoghi fanno echeggiare l’aria di evviva all’ottimo Principe, al massimo
Pontefice e quello ch’è più bello è il volere concorde in tutti gli abitanti di ogni condizione,
ed altresì con la truppa, i di cui individui in unione e fino sotto braccio de’ borghesi fanno
eco alle reiterate acclamazioni pel nostro immortale sovrano (16).
Le città erano addobbate, illuminate, si tenevano rappresentazioni
teatrali, spettacoli di ogni genere; alle parole di grazia, di perdono, di giubilo
universale del pontefice “in Sanginesio – si legge in uno scritto coevo –
risposero fra il festivo sonare delle campane i colpi de’ mortari e le sinfonie
de’ Filarmonici, le lagrime, le benedizioni, gli evviva de’ cittadini commossi
altamente dalla clemenza e dal paterno linguaggio del magnanimo Pio” (17).
Durante il suo pontificato Pio IX non conobbe solo la gloria e il piacere di
essere amato: infatti, in seguito agli avvenimenti del 1848 egli si trovò al
centro di polemiche violente e di ostilità tali da costringerlo, il 27 ottobre
1848, a ritirarsi in esilio a Gaeta, ospite di Ferdinando II.
Passato che fu questo difficile periodo, dopo aver ripreso possesso
dello Stato Pontificio, sottrattogli dalla costituzione della Repubblica
Romana, e aver posto mano ad una “illuminata restaurazione” dello stesso,
Pio IX stabilì di compiere nel 1857 un viaggio pastorale nella S. Casa di
Loreto. In seguito decise però, su consiglio del cardinale Antonelli, di
estendere la sua visita a tutti gli Stati, al fine di dimostrare l’inesistenza
delle pesanti insinuazioni che Cavour aveva pronunciato al Congresso di
Parigi del 1856. Egli, infatti, appoggiato dal conte Walewschi, ministro
degli esteri francese, e dal plenipotenziario Lord Clarendon, aveva in quella
sede fatto delle osservazioni circa l’inettitudine del governo pontificio, la
cui unica forza sarebbe consistita nella protezione austriaca e francese, dato
170
che la popolazione non solo sarebbe stata ostile, ma avrebbe anche covato la
ribellione (18).
Da Roma partì il 4 maggio 1857 e l’11 maggio, dopo essersi recato in
numerose città del Lazio e dell’Umbria, giunse nelle Marche: visitò tra le
altre Camerino, Tolentino, Recanati, Loreto, Fermo, Osimo, finché il 22
maggio raggiunse Ancona. La presenza del pontefice nella città dorica è
testimoniata anche dal carme CCXXIX del Pasquali “In Pii IX P.M. adventu
Anconam”. L’accoglienza dovette essere stata festosa, stando a quanto il
poeta narra nei versi iniziali del carme:
Indue laetitiae claros, urbs Dorica cultus
Ac plausus resonent per foras perque vias
Exultent colles, quibus ardua surgis; et undas
Gaudia pertentent aequoris Adriaci.
Che l’anno fosse il 1857 è testimoniato dai versi 13 e 14 dello stesso
carme:
Decimus jam volvitur annus,
Cum tibi Christiadum contigit imperium.
E’ certo, inoltre, che il poeta vide e si avvicinò al pontefice:
Laeta dies, qua sancta licet nos ora colentes
Cernere, et ad sanctos procubuisse pedes! (vv. 9-10).
Ancona era una città particolarmente devota a Pio IX: nelle epigrafi
che venivano esposte nei giorni di festa si leggono lodi ad ogni aspetto
dell’operato del pontefice. Nell’epigrafe in Piazza Maggiore si leggeva che
Dio ha posto Pio IX al governo della Chiesa, perché
l’idea cattolica splendidamente in sé incarnando/anco a’ dissidenti la metta in desio
e la lacrimata unità religiosa d’Europa/germe di quella del mondo/avanzi ed affretti (19).
In Pio IX si vedeva un pontefice che sarebbe stato in grado di operare
un rinnovamento della Chiesa:
171
Iddio/diede a Pio IX il cuore di Tito
la mente di Alessandro e Innocenzo III.
Perché ritornasse la Chiesa
all’antica maestà
ristorasse l’Italia ed il mondo
fosse delizia del genere umano (20).
Egli fu l’artefice anche di importanti opere sociali e umanitarie;
“apportatore di era novella verace” (21), Pio IX dimostrò simpatia alle “vie
ferrate”, considerate come uno strumento attraverso cui la civiltà cristiana si
appresta a nuove conquiste (22); favorì i congressi scientifici, dimostrando
che è possibile conciliare fede e vero sapere (23); non solo amò orfanelli e
poveri, ma volle promuovere anche l’educazione “dei figli del popolo/i quali
nella ignoranza nemico a religione infestissimo/e nei vizi imbestiano” (24).
Questo papa fu autore di “provide leggi e di oneste franchigie” con le quali
“ristorerà il commercio/affinché la solitudine dei nostri porti/più non
commuova a pietà il forestiero” (25). Egli comprese che “la forza dello
Stato/è nell’amore dei sudditi/non nelle armi straniere”; è l’accordo tra
sudditi e principe che “migliora durabilmente lo Stato” (26).
Come risulta da quanto si è fin qui detto, dunque, diverse sono le
cause che hanno prodotto nel Pasquali quel sentimento di particolare affetto
nei confronti di Pio IX, che risulta da molte sue opere: in primo luogo il
fatto che quest’ultimo fosse marchigiano di Senigallia ha inorgoglito non
solo l’umanista, ma tutta la regione che è stata protagonista di vere e proprie
esplosioni di gioia; inoltre va pure notato che all’epoca in cui il Pasquali
Marinelli scriveva la Series, Pio IX aveva ormai completamente
abbandonato la sua iniziale politica liberale e si era ritirato in quelle
posizioni conservatrici e reazionarie tanto care al Nostro, che aveva a questo
punto un motivo in più per lodare l’amato pontefice. Il Pasquali, infatti,
contrario al disegno di unità nazionale e tenace sostenitore del governo
pontificio, affermava la superiorità del pontefice su ogni forma di potere
temporale: la Chiesa, che rappresenta lo spirito, guida le azioni e i
movimenti del principe, che rappresenta il corpo (27). Spirito e corpo, Stato
e religione sono congiunti in un solo essere, ma non in un rapporto di parità,
bensì di armoniosa dipendenza, perché lo Stato ha bisogno della guida della
172
religione per essere nutrito di nuova linfa vitale: l’accordo che si istituisce
tra i due assicura vigore e prosperità allo Stato.
Una fonte per la Maximorum Pontificum Series: le Vitae Pontificum
Romanorum
La struttura della Maximorum Pontificum Series non è inedita, ma
ricorda le Vitae Pontificum Romanorum di Antonio Sandini. Questa opera,
contenuta nella biblioteca del Pasquali e quindi da lui sicuramente
conosciuta, è in prosa, e fu edita due volte in Germania e la terza in Italia,
precisamente a Ferrara, nel 1754.
Il testo si apre con una dedica dell’autore a Carlo Rezzonico, patrizio
veneto e protonotario apostolico, alla quale segue una pagina in cui il
Sandini si rivolge al lettore, cui espone i criteri adottati nel dar forma al suo
lavoro. Egli ritiene importante sottolineare, innanzitutto, di essersi spesso
servito di parole dei Dottori della Chiesa, “quia verba ab gravissimis
Scriptoribus petita non solum magnam habent auctoritatem, sed etiam
afferunt narrationi majestatem aliquam non sine delectatione”.
Oltre che come prezioso repertorio di parole e di frasi, i testi dei
grandi scrittori cristiani sono utilizzati dal Sandini anche come fonti storiche
(“… probatissimos Auctores secutus potiora summorum antistitum gesta
delibo”) e come stimolo alla riflessione e alla discussione intorno a
problematiche teologico-ecclesiastiche.
Dopo l’appello al lettore, si ha l’indice alfabetico degli scrittori più
autorevoli, quindi una pagina in cui viene narrata sommariamente la vita di
Gesù per giustificare la nascita dell’istituzione pontificale: Egli, infatti,
morendo, lasciò sulla terra come suo Vicario l’apostolo Pietro, che fu il
primo papa nella storia della Chiesa.
Il testo vero e proprio, che segue immediatamente, inizia, appunto, da
S. Pietro ed è, come nella Series, ripartito in secoli.
La trattazione di ogni singolo pontefice è più ampia rispetto all’opera
del Pasquali, ma questo è comprensibile se pensiamo che le Vitae
Maximorum Pontificum sono redatte in prosa; inoltre anche le note sono
molto più abbondanti e ricche, soprattutto, di riferimenti alle opere dei
173
Dottori della Chiesa, le cui citazioni sono riportate in corsivo, come nel
testo.
L’ultimo pontefice trattato è Benedetto XIV, eletto nel 1740, quindi
solo qualche anno prima della composizione delle Vitae.
L’opera si conclude con l’indice cronologico dei Romani Pontefici
(Pontificum Romanorum index alphabeticus), alcune pagine in cui i
pontefici sono ripartiti in categorie, ad esempio “Pontifices, qui Viros iustos
retulerunt in Sanctos”, oppure “Qui Imperatores coronarunt” (Pontificum
Varia Genera) e infine un indice alfabetico dei fatti più importanti (Index
rerum).
Le Vitae Pontificum Romanorum hanno un’appendice in un secondo
volume, pubblicato a Ferrara nel 1755, che ha come titolo Disputationes
historicae ad vitas Pontificum Romanorum, costituito di 20 disputazioni
intorno a problematiche teologico-ecclesiastiche, pertinenti alla vita dei
Romani Pontefici. Le Disputationes hanno un parallelo nelle Notae della
Series, in cui il Pasquali Marinelli affronta più ampiamente argomenti
appena accennati nel testo.
Le evidenti analogie tra le Vitae e la Series costituiscono un’ulteriore
prova che il Pasquali conosceva l’opera del Sandini, che ha utilizzato come
modello per l’architettura del suo lavoro e anche, insieme all’Historiae
Ecclesiasticae Compendium del Wouters, come fonte di notizie storiche.
Giuseppe Pasquali Marinelli e la Maximorum Pontificum Series
Di fronte all’opera del Pasquali viene da domandarsi quale sia stato il
criterio da lui adottato nel tracciare la storia dei pontefici, soprattutto di
quelli che, durante il loro pontificato, non hanno tenuto un comportamento
consono all’alta dignità che rivestivano.
Si è più volte messo in evidenza come il Nostro fosse particolarmente
legato all’ambiente ecclesiastico, sia per educazione ed esperienza di vita,
sia perché aveva sempre trascorso la sua esistenza nello Stato Pontificio (per
dodici anni – dal 1818 al 1830 – fu addirittura nella curia pontificia), in cui
il papa e tutti gli altri esponenti della Chiesa erano insieme detentori del
potere religioso e politico. Nelle sue opere non si trovano mai polemiche nei
174
confronti di questo mondo, a parte qualche lamentela indirizzata ai preti, i
quali, per avarizia o disinteresse, non acquistavano né leggevano non solo le
sue opere, ma neppure nessun’altra opera in latino, mentre erano proprio
loro che avrebbero dovuto proporsi come esempio di una rinnovata
attenzione per il latino e la sua cultura.
Date queste premesse viene spontaneo pensare che il nostro umanista
fosse privo di spirito critico nei confronti dell’operato dei pontefici: ciò,
tuttavia, è vero solo in parte. Nel carme De Maximorum Pontificum Sede,
infatti, contenuto nella Series, il Pasquali ammette la possibilità che i
pontefici, in quanto uomini, possano essere deviati da cattivi sentimenti o da
vizi:
Ne stupeas vero sancta si in sede locutos
Pontifices, vitiis non caruisse vides.
Hi quoque erant homines, ideoque obnoxia cunctis
Queis homines subsunt corda cupidinibus.
Egli, dunque, talvolta omette, ma talaltra accenna ad azioni poco
edificanti di un papa, astenendosi, tuttavia, da ogni giudizio negativo.
Vediamo alcuni esempi.
A Bonifacio VIII (1294-1303) egli attribuisce la responsabilità
dell’abdicazione di Celestino V, che fece imprigionare per impedirgli di
tornare a capo della S. Sede. Parlando di Celestino V dice infatti:
Carcere successor clausit, formidine captus,
Ne sedem rursus scandere discuperet.
Nessun genere di giudizio però il Pasquali esprime nei confronti di
questo pontefice, che la storia ci dipinge come autoritario e particolarmente
ambizioso.
Di Clemente V (1305-1314) il Pasquali riferisce il trasferimento della
sede pontificia ad Avignone; parla dell’amicizia con il re di Francia Filippo
il Bello e della soppressione dell’Ordine dei Templari, avvenuta, secondo il
poeta, perché tale Ordine aveva ormai degenerato dalla purezza originaria in
175
atteggiamenti corrotti, lascivi, addirittura in perverse libertà sessuali (… le
stesse accuse che erano state rivolte ai Fraticelli!) e in macabri riti:
… numero divitiis ac possessionibus per omnem Europam in immensum auctus a
pio instituti fine et regula degeneravit; moribusque in deterius mutatis, pessime audiebat.
Insimulabatur quod aggregandi Ordini christianam fidem abjurarent et super Crucem
spuerent, aggregati in clandestinis conventibus aversam et nefandam libidinem
committerent, et in comitiis cranium barbatum et deauratum, quod Baphometum
appellabant, ritu ethnico adorarent (28).
Nessun accenno al vero motivo che scatenò l’orribile massacro: i
Templari avevano ammassato grandi ricchezze ed erano diventati i
principali creditori del re Filippo il Bello, cui avevano fatto forti prestiti.
Autorizzando la soppressione dei Templari Clemente V non solo liberò il re
dai suoi debiti, ma se ne conquistò anche l’amicizia, resa particolarmente
importante dal fatto che, come si è detto, la sede pontificia si trovava
appunto nel regno di Francia, ad Avignone.
Di Giovanni XXII (1316-1334) il Nostro parla riferendo la lotta con
Ludovico di Baviera, di cui, nelle note, fornisce un maggior numero di
particolari; poi accenna alla vicenda dei Fraticelli, setta dalla Chiesa ritenuta
eretica, per la repressione dei quali il pontefice impiegò molte delle sue
energie. Ecco quanto il Pasquali nella nota dice dei Fraticelli:
… schisma in Ordine fecerunt, et cum schismate haresim conjunxerunt. Duas
finxerunt Ecclesias, unam carnalem et divitem, alteram spiritualem et pauperem, cujus ipsi
membra essent, et in qua sola legitimam conficiendi Sacramenta potestatem haberi
contendebant (29).
In realtà, tuttavia, la questione è molto più complessa e le
responsabilità di Giovanni XXII più pesanti di quanto l’umanista non dica.
La setta dei Fraticelli era nata in seguito al dissidio, creatosi all’interno
dell’ordine francescano, tra i Rigoristi e i Rilassati, i primi fautori della
stretta osservanza della regola di S. Francesco, i secondi invece sostenitori
di una interpretazione più largheggiante della medesima, data la grande
espansione dell’ordine e le conseguenti difficoltà di organizzazione.
176
Giovanni XXII era un papa poco incline alla clemenza e alla
comprensione e particolarmente attaccato ai beni materiali, cosa che i
Fraticelli rimproveravano aspramente non solo a lui, ma anche a tutti i
membri della gerarchia ecclesiastica. Per difendere dagli attacchi di questa
setta l’unità della Chiesa, e per difendere anche le condizioni di lusso e di
agiatezza in cui essa si trovava, emanò due bolle, la Ad Conditorem
Canonum (dicembre 1322) e la Cum inter nonnullos (1323), che
offendevano i principi esposti da S. Francesco e in cui tanti suoi fedeli
proseliti credevano, e sminuiva fortemente l’alto significato che la povertà
aveva sempre avuto per la Chiesa.
Con la Ad Conditorem Canonum, infatti, egli rendeva i frati
francescani proprietari di diritto e di fatto di tutti i beni in uso, mobili ed
immobili, facendo così grave violenza alla regola del Santo umbro, che
predicava, per i suoi frati, la povertà assoluta; con la Cum inter nonnullos
dichiarava eretica la teoria elaborata dalla commissione che aveva
partecipato al Capitolo di Perugia (1322), che Cristo e gli Apostoli non
possedettero mai alcuna cosa né in proprio né in comune, poiché non
avrebbe trovato conferma nella Sacra Scrittura e sarebbe stata contraria
all’insegnamento della Chiesa.
Con il suo attaccamento al lusso, con il suo voler perseguire il
benessere materiale, terreno, Giovanni XXII non fu di certo un papa
esemplare, ma il nostro poeta sembra ignorare tutto ciò che di negativo ne
ha caratterizzato il pontificato.
Riguardo a Sisto IV (1471-1484) il Pasquali non accenna affatto alla
politica nepotistica da lui perseguita, che tanto danno recava all’immagine
della Chiesa. Ecco quanto dice di lui:
Piscatore satus. Vaticani est dives ab illo
Bibliotheca novis facta voluminibus.
In Thracas misit puppes atque agmina: festum
Instituit, labis nescia Virgo, tuum.
I versi relativi ad Alessandro VI (1492-1503) iniziano con una
connotazione negativa: “Corde malus, facieque bonus”, di cui nei versi
177
successivi non viene fornito alcun chiarimento. Nella nota, tuttavia, il
Pasquali sembra voler riparare all’audacia della sua affermazione:
Hunc Papam scriptores multi teterrimis coloribus dipinxerunt, Roderici militis (nam
miles fuerat, ac nomine Rodericus) vitia Alexandro Pontifici attribuentes: multa etiam de
ejus electione moribusque, cum jam esset Papa, et mortis genere, circumferuntur, a
Guicciardinio praesertim evulgata, quae prudentibus sanisque criticis non probantur (30).
Dunque, stando a quanto risulta dalla nota, il Nostro non ha espresso
un pensiero proprio, ma si è limitato a riferire quanto era stato detto da parte
di molti scrittori intorno ad Alessandro VI, affrettandosi subito ad
aggiungere che non sono altro che illazioni, peraltro non condivise da
studiosi seri e assennati.
Di Giulio II (1503-1513) riferisce l’indole forte e bellicosa, che lo
indusse, nel 1510, a coprirsi la testa con l’elmo per guidare personalmente
l’assedio contro Mirandola. Ancora una volta non si avverte nei versi del
Nostro alcuna nota di biasimo nei confronti di un atteggiamento così poco
consono ad un pontefice:
Belliger ingenio, ductor fuit ipse cohortum
Pro sacris rebus praelia saepe gerens.
Concilium indixit magnum; nec secius usus
Est Pauli gladio, clavibus atque Petri.
Addirittura egli sembra proprio volerlo giustificare, quando, nella
nota, afferma che un’azione di forza si era resa necessaria “ad superandas
turbolentas pontificatus sui tempestates”.
Con Benedetto IX (1032-m. 1056) egli sembra abbandonare l’abituale
prudenza:
Pontificum fuit iste nepos: hunc sede locavit,
Haud caruisse domum passus honore, pater.
Poene decennis erat: male gessit; eoque repulsus,
Vi rediit: sedem denique deseruit.
178
L’elezione di Benedetto IX era dunque avvenuta per ragioni di
carattere politico, non certo per le sue doti religiose ed umane: del resto,
come poteva essere valutata l’idoneità alla dignità pontificia in un bambino
di dodici anni? Il fatto è che in questo periodo la Chiesa era tristemente
caratterizzata da uno stato di pesante corruzione: non era difficile trovare
preti, vescovi, abati concubinari, coinvolti in interessi tutt’altro che
spirituali; la stessa elezione dei papi avveniva spesso sotto la spinta di
questa o di quella fazione dell’aristocrazia romana. Le notizie fornite dal
Pasquali sono le medesime che il Sandini aveva espresso nella sua opera
Vitae Pontificum Romanorum: il Nostro, dunque, si è semplicemente
limitato a riassumere e riferire quanto il Sandini aveva precedentemente
scritto sull’argomento, senza aggiungere alcuna riflessione personale in
merito.
Al di là di questi accenni, mai accompagnati, come si è più volte detto,
da giudizi negativi, il Pasquali non riferisce i gravi episodi di corruzione
della Chiesa, la decadenza e la miseria spirituale in cui essa versò in molti
periodi della sua esistenza: del resto non ci si poteva aspettare nulla di
diverso da un poeta cattolico marchigiano, che mediante la sua opera voleva
esaltare, agli occhi dei fedeli, la legittimità e la grandezza dei pontefici e
della loro storia.
179
Note
1)
Il Patrignani, biografo del poeta, definisce i suoi genitori “religiosissimi” (M.
MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli Le età di un poeta, Ancona, 1993, p. 1) ed egli
stesso nel carme I dei Carmina inedita, in cui tratta della genealogia della propria famiglia,
afferma: “Omnibus acer erat Relligionis amor” (vv. 16-18).
2)
MORRONI, op. cit., p. 6.
3)
Ibidem, pp. 10-15.
4)
Carmina inedita, carme CCXLVIII, De Pontificis Maximi Sede, vv. 13-15.
5)
“Pontificis summi est sedes, ut littore turris,/Quae, face suspensa, per mare
monstrat iter.” (ibidem, vv. 1-2).
6)
Ibidem, carme CCLIII, De Pontificibus.
7)
Ibidem, carme CCLI, De Pontificis Maximi Regno; carme CLII, De eodem
argumento; De Pugna ad Castrumficardum, vv. 10 ss.
8)
Epistola 107, 16 febbraio 1874.
9)
Carmina inedita, carme CXLV.
10)
Il papa Pio IX, Roma, 1915, estratto da Civiltà Cattolica, serie X, vol. V, quaderno
665 (2 marzo 1878), p. 4.
11)
Metternich, conservatore, preoccupato per l’elezione di Pio IX, esclamò: “Non mi
aspettavo un papa liberale” (A. POLVERARI, Vita di Pio IX, Città del Vaticano, 1986, p.
29).
12)
Il Pasquali sicuramente notò l’importanza dell’amnistia soltanto sotto il profilo
umano e non politico, come atto ispirato esclusivamente da una grande generosità e amore
cristiano.
13)
La proclamazione dell’amnistia ispirò la composizione anche di scritti poetici.
Ecco un sonetto coevo che celebra questo atto di grande umanità del pontefice:
“Torna al padre canuto il dolce figlio
Che i solchi più non ha delle catene;
Torna lo sposo dal lontano esiglio
Della consorte a terminar le pene.
Già già presso alla sponda ecco il naviglio;
Su cui l’amico al fido amico viene;
Al fratello il fratel, che fu un periglio
Si ricongiunge nelle patrie arene.
Oh quanti affetti van confusi in giro!
L’amplesso, il bacio, il palpito, il saluto
Son commisti alle lagrime, al sospiro.
Piangere al pianto altrui si è Pio veduto,
180
Ei, che la gioia del comun desiro,
Rende al gaudio comun questo tributo.”
Il sonetto è di Domenico Venturini, in Ragguaglio storico, dispensa n. 4, p. 29.
14)
POLVERARI, op. cit., vol. I, p. 162.
15)
Una descrizione dettagliata dei giorni di festa è fornita da L. MERCANTINI,
Sinigaglia nei giorni 27, 28 e 29 settembre 1846, in Narrazione delle feste celebrate in
Sinigaglia nel 27, 28 e 29 settembre MDCCCXLVI per la generosa amnistia concessa
dall’immortale Pio IX, Ancona, 1846, pp. 5-19. Su come venne accolta la notizia a
Senigallia cfr. G. MONTI GUARNIERI, Annali di Senigallia, Senigallia, 1961, pp. 317319.
16)
Ragguaglio storico cit., p. 14.
17)
Ibidem, p. 20.
18)
POLVERARI, op. cit., p. 136.
19)
Epigrafi che si leggevano in vari luoghi della città i giorni delle feste, fasc. II,
Ancona, epigrafe I.
20)
Epigrafe I. Si leggeva nel portico del teatro delle Muse.
21)
Epigrafe VII.
22)
Epigrafe II.
23)
Epigrafe IV.
24)
Epigrafe XIV.
25)
Epigrafe IX.
26)
Epigrafe XIII.
27)
Carme CCLVII, vv. 5-6: “at nil corpus agit, nisi quod vult spiritus: ergo/Qui
praeest spiritibus, praeest quoque corporibus”.
28)
Maximorum Pontificum Series, nota 95.
29)
Ibidem, nota 97.
30)
Ibidem, nota 113.
181
Frontespizio di Messias (Ancona 1866).
Frontespizio di Homeri Odyssea (Ancona 1870).
182
Raffaello Nicolella
Giuseppe Pasquali Marinelli, Hugonis Fosculi De Sepulcris.
Introduzione e commento
Introduzione
L'epoca
Ugo Foscolo e Giuseppe Pasquali sono coevi. Il primo nasce a Zacinto
nel 1778. Il Pasquali vede la luce quindici anni dopo, nel 1793. Quando il
Foscolo muore, nel 1827, Giuseppe Pasquali ha 34 anni e risiede a Roma,
dove ricopre la carica d'archivista negli uffici papali.
Ugo Foscolo compone il suo "Dei Sepolcri" fra il luglio e il settembre
1806. L'opuscolo fu stampato a Brescia l'anno successivo 1807.
Difficilmente Giuseppe Pasquali conobbe questa edizione del 1807, anche
perchè la tiratura tipografica fu piuttosto limitata. È più probabile invece
che abbia letto l'edizione uscita a Firenze nel 1856 per i tipi di Felice Le
Monnier.
Non si conosce con esattezza in che anno il Pasquali tradusse in latino
il Carme del Foscolo. Per alcune considerazioni, che verranno presentate a
commento del verso 154, la composizione deve essere datata a molti anni
dopo il 1860.
L'opera fu pubblicata postuma, diciotto anni dopo la morte dell'autore,
nel 1893, in occasione del primo centenario della sua nascita. Fu stampata a
Pesaro, dalla Tipografia Federiciana (typis Fridericianis).
La stesura
Il Carme del Foscolo si estende in 295 versi, la traduzione latina del P.
consta di 255 esametri. La differenza di 40 versi, nonostante la lodevole
fedeltà del traduttore, è dovuta ovviamente non solo alla peculiare sinteticità
della lingua latina, ma anche al fatto che Foscolo compone in endecasillabi,
mentre P. in esametri. A tutti è noto che l'esametro latino, per
l'intercambiabilità tra dattili e spondei, può oscillare da 12 a 17 sillabe.
183
Per il P. il volgere in latino i versi del Foscolo si poneva come un
impegno, ad un tempo, facile e difficile. Il cantore di Zacinto adoperava già
un lessico classico, i suoi vocaboli si discostavano appena dai corrispettivi
latini, mentre i costrutti avevano già l'andatura e l'armonia dei poeti di
Roma. Le difficoltà per il P. sorgevano dal dover gareggiare con versi di
sublime fattura; il suo merito s'evidenzia nell'essere riuscito ad adornare le
rime italiane con una veste latina elegante e leggiadra.
Lo stile
Non è possibile nascondere la rara bravura, con cui il P. sa maneggiare
la lingua di Roma.
È evidente la consumata familiarità che ha coltivato con i modelli
classici, fino ad assimilarne lo stile e a riprodurne con arte i migliori
fraseggi.
A giudicare dal numero dei riferimenti, il poeta più ricorrente
(ventuno volte) è Virgilio, di cui il P. appare ottimo conoscitore. Segue
Ovidio (con tredici reminiscenze) soprattutto delle Metamorfosi e dei
Tristia.
Orazio compare con undici riferimenti e Lucrezio con otto. Tre le
reminiscenze di Catullo (soltanto dai carmina docta) e una di Tibullo.
Questi richiami alla classicità romana non si riducono a meccanici
inserimenti di vocaboli e di costrutti.
Il P. ha la facoltà di ripensare in latino il carme foscoliano e di dargli
nuova vita con una struttura lessicale e poetica, dove non c'è macchinosa
aggregazione, ma spontanea produzione di gradevoli suoni e di melodiosi
ritmi. Perciò la traduzione del P. non appare mai una fredda e cerebrale
trasposizione dei versi del Foscolo.
L'erudizione umanistica cede il posto a una intensa commozione lirica,
dove tra l'italiano e la lingua madre il passaggio è suadente e naturale, senza
forzature né accademismi.
Gli esametri del P. scorrono limpidi e sicuri, carezzevoli all'orecchio e
godibili all'intelletto, in tutto degni, per gusto e raffinatezza, degli
endecasillabi del Foscolo.
184
Incertezze ortografiche
Alcune volte il P. sostituisce la y con la i:
177. piras: invece di pyras.
211. Elisios: invece di Elysios.
Altre volte avviene il fenomeno contrario:
158. inclyta: al posto di inclita o incluta.
1. lacrymae: al posto di lacrimae o lacrumae; ma a 252 ritorna la grafia
comune (lacrimis).
*
Il P. talora preferisce il dittongo oe a ae:
145. coelum: per caelum
163. coeli: per caeli
215. coelo: per caelo
134. coelestibus: per caelestibus.
Ma a 23 coesistono caelestis e coelestis.
9. moestum: per maestum.
243. coecum: per caecum.
247. coecas: per caecas.
Altre incertezze ortografiche:
54. egrum: per aegrum.
179. tetra: per taetra.
189. Retheas: per Rhoeteas.
Anomalie grammaticali
82. Larium: genitivo plurale, invece di Larum.
94. cupressus: adoperato come sostantivo maschile.
185
In alcuni versi il P. trascura l'iniziale maiuscola di nomi propri
o da essi derivati:
45. lombardus (Langobardus)
108. elisiis (Elysiis)
109. anglis
147. ghibellini
151. veneri
153. itala
158. italicis
188. hellespontiacum
189. retheas (Roetheas)
193. dulichio
Il lessico
Il P. abitualmente ricorre a vocaboli della migliore latinità.
I significati e gli impieghi 'post-aurei' sono relativamente pochi:
184. immensurabilis.
199. labilis.
96. viror.
25. functus: nel significato di "defunto".
93. precatus: col valore di "preghiera".
95. effluvium: inteso come "profumo".
140. lavacrum: presentato come "fiumana".
107. fragantia.
155. omnipotentia.
64. fodicare: col significato di "scavare" (al posto di fodere).
130. decubare: impiegato come "riposare".
Discutibile è il neologismo lombardus (45), che poteva essere reso
con Langobardus o meglio ancora con Insuber.
Soltanto due le forme arcaiche:
69. queis: per quibus.
186
244.amplectier: per amplecti.
Quas lacrymae irrorant ac protegit umbra cupressi
num minus est durus Libitinae somnus in urnis?
Cum mihi sol pulcrum non amplius educet istud
herbarum pecudumque genus, nec Musae et amoris
spiritus ulterius nostro sub corde loquetur,
5
huic meae oberranti vitae nunc spiritus unus:
cumque Horae illecebris comptae, non me ante futurae
l. lacrymae: grafia insolita al posto del comune lacrimae o dell' arcaico
lacrumae. Cfr. anche 133. Ma a 252 la grafia ritorna quella comune
(lacrimis).
irrorant: il verbo è tratto da Ovidio (Metam. I, 371): Inde ubi libatos
irroravere liquores.
2. Libitinae: per i Romani era la dea dei funerali. Per un facile traslato
Libitina significò anche la morte, come in Orazio (Carm. III, 30, 7):
multaque pars mei vitabit Libitinam. Soltanto qui il Pasquali usa il vocabolo
Libitina, altrove (12, 32, 122, 167, 191) sempre mors.
urnis: per i Romani era la brocca per attingere acqua, un vaso per
raccogliere le monete, un contenitore per il sorteggio o la votazione, l'urna
cineraria. In questo ultimo significato il P. l'adopera cinque volte (31, 55,
127, 133, 244).
3. pulcrum: il P. preferisce questa forma senza h. Cfr. anche: pulcrae (120)
e pulcram (128); invece pulcherrima (49).
4. herbarum... genus: l'espressione è di Lucrezio (V, 783): Principio genus
herbarum viridemque nitorem terra dedit.
5. sub corde: questo sub indica viva compenetrazione, quasi "in fondo al
cuore".
7. Horae: sono personificate e descritte come fanciulle che danzano davanti
al poeta e lo attirano verso il futuro con il fascino d'illusorie promesse.
iam ducent choreas: nec Carmen, dulcis amice,
exaudire tuum, et moestum, qui temperat illud,
fas mihi erit numerum, amissis quid ferre diebus
solamen poterit saxum, mea ab infinitis
187
10
secernens totum quae Mors serit ossa per orbem?
Spes quoque, Pindemon, fugit, ultima diva, sepulcrum:
ac res quasque sua involvunt oblivia nocte:
continuoque has motu vis operosa fatigat,
15
atque hominum tumulosque suos, terraeque polique
relliquias mutat deletque volubilis aetas.
At sibi cur ante aetatem mortalis amicum
errorem invideat, quo Ditis ad ostia sistit?
8. dulcis amice: Ippolito Pindemonte (1753-1828) coevo di Giuseppe
Pasquali (1793-1875).
carmen... tuum: le "Poesie campestri" pubblicate nel 1788.
9. moestum: invece del più usato maestum.
13. ultima diva: come nel mito narrato da Teognide (V sec. a.C). Al
principio dei tempi, gli Dei vivevano sulla Terra, mescolati tra i mortali; poi
non sopportarono più le calamità della vita umana e abbandonarono questo
mondo. Soltanto la Speranza rimase presso gli uomini. Cfr. Ovidio (Epist.
ex Ponto I, 6, 27): Haec dea, cum fugerent sceleratas numina terras/in dis
invisa sola remansit humo.
sepulcrum: è propriamente il monumento funebre con lapide, mentre
tumulus è il monticello elevato sulle spoglie del morto e infine bustum è il
luogo dove il cadavere è stato bruciato. Il P. adopera tumulus undici volte
(16, 38, 41, 57, 70, 159, 172, 199, 233, 244, 246), sepulcrum quattro volte
(13, 39, 80, 220), bustum due volte (96, 129) senza apprezzabile
differenziazione semantica.
15. vis operosa: ricorda la vis abdita quaedam di Lucrezio (V,1233): res
humanas vis abdita quaedam/opterit.
17. relliquias: (invece di reliquias) per ottenere, con la doppia l,
l'allungamento metrico della e.
19. Ditis: Plutone, il Dio dell'Oltretomba, secondo una reminiscenza
virgiliana (Aen. VI,127): noctes atque dies patet atri ianua Ditis.
Nonne is vivit adhuc, etiam tellure sepultus,
cum sibi mutus erit concentus deinde diei,
dulcibus hunc curis cieat si corde suorum?
Caelestis dos ista hominum: coelestis amorum
mutuus hic est consensus: ac saepe per illum
188
20
nobiscum functus, cum functo vivimus ipsi,
si piae quae infantem iam terra excepit, et escam
praebuit, extremum materno dedat asylum
in gremio: ac nimborum irae pedibusque profani
relliquias vulgi abstineat, sit marmore nomen
ac cineres umbra molli tegat arbor odora.
Funeream ille parum solus desiderat urnam
affectus nullos obita qui morte relinquit;
sique videt post exequias, Acherontis ad umbras
ire dolentem animam, aut magnas sub Numinis alas
confugere inspectat veniae: sed membra relinquit
desertae urticis glebae, quo femina nulla
ploret amans, nec solus sentiat unde viator
quae ad nos natura ex tumulo suspiria mittit.
Nunc tamen ex oculis nova lex removere sepulcra
imperat ac functis nomen contendit: et expers
ille tuus tumuli iacet, o Pimplea, sacerdos,
qui tibi cantando laurum sub paupere tecto
eduxit studio longo, et tibi serta dicabat:
25
30
35
40
20. tellure: vocabolo adoperato anche a 169; più frequente il sinonimo terra
(sei volte 16, 26, 101, 129, 186, 251); raramente gleba (propriamente "zolla
di terra") due volte (36, 104).
25. functus: vocabolo post-classico, usato qui forse per ragioni di metrica o
di variazione lessicale.
26. piae: errore tipografico: leggi pia.
28. profani... vulgi: reminiscenza oraziana (Carm. III,1,1): Odi profanum
vulgus.
30. odora: aggettivo preso da Ovidio (Metam. IX, 87): odoro flore
repletum.
39. nova lex: l'editto napoleonico di Saint-Cloud (1804).
41. tuus... sacerdos: Giuseppe Parini, morto nel 1799.
Pimplea: citata da Orazio (Carm. I, 26, 9).
tuque tuo illi risu ornabas carmina, quorum
Sardanapalus erat lombardus acumine punctus,
est tantum cui dulce boum mugitus ab Abduae
et Ticini oris, qui fercula et otia large
suppeditant illi, et laetam dant ducere vitam.
189
45
Ah ubinam nunc versaris pulcherrima Musa?
Non has spirare ambrosia, index Numinis, inter
sentitur plantas, quarum sub tegmine sisto
maternumque solum, suspirans, pectore volvo.
Tuque hic illi aderas subridens, propter amoenam
hanc tiliam, quae nunc demissis frondibus egrum
dat fremitum quod non senioris protegit urnam,
cui iam praebebat fesso solamen et umbram.
Plebeios inter tumulos tu forte vagaris
inspectura tui sacrum qua in parte Parini
dormiat amissi caput. Intra moenia nullam
illi umbram urbs posuit, fautrix lasciva canentum
semivirûm, non saxum verbaque nulla locavit
et nunc ossa viri abscissa cervice cruentat
forte latro, qui supplicio delicta reliquit.
Perque ruder dumosque canem fodicare relictam
50
55
60
44. carmina: il poemetto satirico II Giorno.
45. lombardus: neologismo; più accettabile sarebbe stata la forma
Langobardus, migliore Insuber.
50. spirare ambrosia: come in Virgilio (Aeneis I, 403): ambrosiaeque
comae divinum vertice odorem / spiravere.
51. sub tegmine: riferimento virgiliano (Ecl. I,1): sub tegmine fagi.
53. propter: nel significato di vicino.
54. egrum: grafia insolita, invece di aegrum.
64. ruder: errore di stampa, leggi rudera.
fodicare: significa punzecchiare, non scavare (fodere).
audis, atque urgente fame ingeminare ululatus:
immundamque upupam ex calva prorompere inani,
qua lunam effugiens latuit: crucibusque volantem
sistere, lugubris quibus satus est undique campus:
atque hanc luctisonis radios singultibus almos
arguere, oblitos tumulos queis sidera lustrant.
Frustra, o Diva, rogas laetos ut pallida rores
nox super instillet dilecti membra poetae:
nulli consurgunt flores super aethere cassos,
laude nisi humana et fletu decorentur amanti.
Postquam connubia atque arae et civilia iura
humanis dederunt animantibus esse benignos
190
65
70
75
in sese atque alios, tactu insuevere maligni
aetheris, indomitisque feris subducere amici
relliquias miseras, vice quas natura perenni
destinat ad sensus alios: festisque sepulcra
tum testes et erant natis viventibus arae.
Ex illis Larium responsa emissa dabantur
80
69. luctisonis: aggettivo tratto da Ovidio (Metam. I, 732): luctisono mugitu.
queis: forma arcaica per quibus.
71. pallida... nox: riecheggia Orazio (Carni. I, 4, 13): Pallida mors aequo
pulsat pede.
Diva: il P. qui e altrove (13) preferisce questa forma alla comune dea, come
Orazio (Carm. I, 3, 1): Sic te Diva potens Cypri e I, 35, 1 : O Diva, gratum
quae regis Antium.
72. dilecti... poetae: cfr. Orazio (Epist. II, 1, 247): dilecti tibi Virgilius
Variusque poetae.
75. connubia: vocabolo dal P. preferito ai sinonimi matrimonium,
coniugium, nuptiae perché indica esclusivamente il matrimonio legittimo.
Giuseppe Pasquali, laureato in Giurisprudenza all' Università di Macerata
nel 1817 (a 24 anni) è molto attento alla terminologia giuridica.
77. maligni: con il significato etimologico qui mala gignit.
78. aetheris: sostantivo adoperato dal P. cinque volte (73, 78,138, 210, 254),
mentre il sinonimo aer ricorre solo due volte (95, 141).
82. Larium: forma rara, invece della normale Larum.
terrificumque fuit iurare in pulvere avorum:
relligio, quam dehinc pietas et patria virtus
per multas variis traduxit ritibus annos.
Tempore non omni, condunt quae saxa sepultos
templorum stravere solum: nec semper odoris
thuribus immixtus, quem foeda cadavera mittunt,
pedor adorantes laesit: non arsibus urbes
moerebant pictis. Trepidae per somnia matres
subsiliunt et in infantem pia brachia tendunt,
ne somnum excutiat gemitus productus in umbris
exanimi, ex sancta venalem sede precatum
poscentis; sed enim cedri odoriferique cupressus
effluviis late complentes aera puris
191
85
90
95
tendebant in busta comam aeternoque virore
aeternum meminisse dabant; pretiosaque fletum
votivum ex oculis capiebant vasa fluentem.
Sumere ab ardenti curabant sole favillam
foedere amicitiae iuncti, quae rumperet umbras
100
83. terrificum: aggettivo usato da Lucrezio (V, 1315): terrificas capitum
quatientes undique cristas; VI, 388: terrifico quatiunt sonitu caelestia
tempia.
84. relligio: invece di religio, per ottenere l'allungamento metrico della e.
85. multas: errore di stampa; leggi multos.
86. sepultos: il sostantivo, derivato dal participio passato di sepelio, è di
reminiscenza virgiliana (Aen.III,41): iam parce sepulto.
89. arsibus: errore di stampa; leggi artubus.
93. precatum: vocabolo post-classico.
94. cupressus: normalmente è femminile; è maschile soltanto in Ennio (Ann.
262).
95. effluviis: insolito nel significato di "esalazioni, profumi".
96. virore: termine post-classico.
97. meminisse: sostantivato, col senso di "la memoria", come in Lucrezio
(IV, 765): Praeterea meminisse iacet languetque sopore.
sub terram noctis: morientum lumina solem
quippe hominum quaerunt: fugienti pectora cuncta
dant gemitum luci. Lustrales fontibus undae
manantes vitreo nutribant flumine glebis
pallentes violas et purpureos amarantos:
Quique aderat, seu lac libans, seu tristia caris
cum functis sua damna quaerens, fragantia circum
his erat elisiis velut aura emissa beatis.
Desipientia nimirum pia, quae facit anglis
virginibus caros, ubi mortua corpora humantur,
esse suburbanos hortos, quo matris ademptae
fert amor et Genios quo exoravere regressus
pro duce, qui victa truncatum a nave cavavit
maiorem pinum ac feretrum sibi condidit illa.
Ast ubi nobilium gestorum fervidus ardor
dormiat atque regant tremor ac opulentia vitam
192
105
110
115
101. morientum: invece di morientium, sull'esempio di Orazio che usa
recentum invece di recentium (Carm. I, 10, 2): qui feros cultus hominum
recentum.
104. nutribant: forma contratta, in luogo di nutriebant, usata anche da
Virgilio (Aen. VII, 485): Tyrrhidae pueri... nutribant.
105. pallentes violas: viole gialle, cioè "violacciocche", come in Virgilio
(Buc. II, 47): pallentes violas et summa papavera carpens.
amarantos: vivace contrasto cromatico tra il giallo delle violacciocche e il
rosso degli amaranti.
107. fragrantia: termine della latinità post-aurea.
108. elisiis: grafia insolita, al posto di Elysiis.
111. ademptae: reminiscenza da Catullo (101,6): heu miser indigne frater
adempte mihi.
113. duce: Orazio Nelson, morto nella battaglia di Trafalgar il 21 ottobre
1805.
victa... nave: la nave francese "Oriente", dal cui albero maestro fu ricavata
la bara per Nelson.
infaustae inferni effigies ac mortis imago
exanimis positi lapides monumentaque surgunt.
Nunc in adulatis, aulis se nobile, doctum
ac locuples vulgus, meus olim et gloria pulcrae
120
Ausoniae sepelit iam vivum ac stemmata laudem
sola ferunt. Nobis placidum mors donet amica
hospitium, quo sors vindictas desinat atque
non sibi amicitia argenti ac divitis auri
adquirat pondus, cordis sed sensu calentis
125
liberae et exemplum musae.
Ad grandia fortem
mentem acuunt positae, Pindemon, fortibus urnae
atque alienigenae pulcram sanctamque videri
dant terram, quae illas servant. Cum nobile bustum
ipse olim aspexi, magnus quo decubat ille
117. mortis imago: espressione virgiliana (Aen. II, 369): ubique pavor et
plurima mortis imago.
124. divitis auri: con significato causativo "oro che rende ricchi".
125. sensu: errore di stampa; leggi sensus.
193
126. grandia: l'aggettivo (più del comune magnus) esprime elevatezza,
solennità, importanza.
129. servant: errore di stampa; leggi servat.
130. magnus... ille: Niccolò Machiavelli.
decubat: non appartiene alla latinità aurea.
qui sceptrum cohibens regnantibus, undique laurus
decerpit populisque ostendit sanguine quanto
quot scateat lacrymis: et qua vir clauditur urna
aedificare novum coelestibus ausus Olympum:
atque is qui aetheriam vidit per inane rotari
multiplices mundos atque his dare lumina solem
immotum, unde Anglo qui tam protenderit alas
primus iter superas reseravit in aetheris oras:
te fortunatam, dixi, propterque salubres
quas hauris auras, Appenninique lavacra
quae veniunt tibi missa iugis: puro aere gaudens
luna tuos colles ridenti lumine vestit,
quas festiva tenet vindemia: et undique valles
aedibus ornatae ac plantis felicis olivae
135
140
133. vir: Michelangelo.
urna: errore di stampa; leggi urnam.
134. novum... Olympum: la cupola della Basilica di S. Pietro in Roma, che
con i suoi 133 metri d'altezza appare ai cristiani come un nuovo monte
Olimpo.
ausus: il verbo esprime dell'impresa l'aspetto non temerario ma immane.
135. is: Galileo.
aetheriam: errore di stampa; leggi aetherium.
inane: termine caro a Lucrezio (cfr. I, 330-369 e passim)
rotari: con significato mediale.
136. multiplices: l'aggettivo sottolinea non solo il numero, ma anche la
varietà dei corpi celesti.
137. Anglo: Isacco Newton.
139. te fortunatam: espressione modellata su Virgilio: Fortunate senex,
ergo tua rura manebunt (Ecl. I, 46); O fortunatos nimium, sua si bona
norint agricolas (Georg. II,458).
194
140. hauris auras: allitterazione pesante e poco gradevole.
lavacra: nel latino classico non ha il significato di fiumane.
143. quas: errore di stampa; leggi quos.
144. felicis: col significato, proprio del latino, di "rigoglioso".
mille ad coelum mittunt, instar thuris, odores.
Et tu prima novum audisti, Florentia, carmen,
quo ghibellini sese iracundia vatis
effudit gaudens: et tu carosque parentes
illi Calliopes labro eloquiumque dedisti,
Hellade qui et Romae nudum, velamine casto
indutum, aetheriae veneri referebat Amorem.
145
150
146. prima... Florentia: una vecchia teoria, oggi non più accettata dai
critici, riteneva che Dante avesse cominciato a scrivere la Divina Commedia
prima dell'esilio, proprio a Firenze.
147. ghibellini... vatis: Dante fu guelfo bianco, per divisione di partito; ma è
ideologicamente ghibellino perché nel suo libro De Monarchia sostiene
l'origine divina dell'Impero e la sua autonomia dalla Chiesa.
149. illi... labro: Francesco Petrarca.
Calliopes: genitivo con forma greca.
151. aetheriae Veneri: Platone distingueva una Venere terrestre (e cioè
sensuale) da una Venere celeste (e quindi spirituale). Al Petrarca viene
assegnato il merito di aver ingentilito e quasi purificato l'amore, che nei
poeti greci e latini aveva aspetti di crudezza e di volgarità.
At fortunatam magis, uno gloria templo
quod tibi collecta est itala, eheu unica forsan,
ex quo non bene defensae a nostratibus Alpes
quaeque alterna hominis rerum omnipotentia versat,
152. uno... templo: la chiesa di Santa Croce a Firenze.
154. non bene: locuzione avverbiale usata da Ovidio (Metam. XII, 616):
parvam quod non bene compleat urnam.
nostrates: i compatrioti. Parola nuova nel lessico e nelle idee di Giuseppe
Pasquali, che finora non aveva mai accennato ad una patria italiana.
L'ostinato papalino, che esaltava lo Stato pontificio nel De pugna ad
195
Castrumficardum sembra accedere all'idea di un’Italia unita, difesa da tutti
gli Italiani. Per tale motivo la composizione di questa versione latina deve
essere datata a molti anni dopo il 1860.
155. omnipotentia: sostantivo astratto, ignorato dalla latinità aurea; sarebbe
stato preferibile un nome concreto.
versat: espressione ispirata a Virgilio (Ecl. IX, 5): quoniam fors omnia
versat.
invasere tibi arma et opes arasque Deorum
et patriam ac, praeter memorem mentem, omnia prorsus.
Quippe, ubi in italicis animis spes inclyta quondam
gloriae inardescat, tumulis sumemus ab istis
auspicia. Et Victorius haec ad marmora saepe
160
devenit, sibi ut afflatum deduceret illinc
iratus patriis dìs; qua est desertior Arnus
mutus oberrabat, campos convexaque coeli
ardua suspiciens cupide: et cum nullus edacem
humanus visus mulceret pectore curam,
165
hac tandem austerus sistebat sede quietus
ac vultu pallorem mortis spemque gerebat.
Tales eximios inter nunc ille moratur
aeternus patriaeque pium telluris amorem
ossa fremunt. Numen sacra illa ex pace profatur.
170
158. inclyta: grafia insolita al posto dell'abituale incluta o inclita.
160. Victorius: Vittorio Alfieri soggiornò a Firenze negli ultimi undici anni
di vita, dall'agosto 1792 all'ottobre 1803.
162. patriis dis: espressione colta da Tibullo (II, 1,17): Di patrii, purgamos
agros.
163. convexaque coeli: riecheggiamento di Virgilio (Aen. IV, 451): taedet
coeli convexa tueri.
164. edacem... curam: è un fraseggio oraziano (Carm. II, 11, 17) dissipat
Evhius / curas edaces.
168. moratur... aeternus: Vittorio Alfieri è sepolto nella chiesa di Santa
Croce, in un monumento ideato da Antonio Canova. Anche Ugo Foscolo,
morto a Londra nel 1827, fu nel 1871 sepolto a Santa Croce.
169. amorem ossa fremunt: modellato su Virgilio (Aen. XI, 453): fremit
arma inventus.
196
170. Numen... profatur: dalle tombe di Santa Croce una voce divina parla ai
forti: la voce della patria. Allo stesso modo un nume alimentò il coraggio
dei Greci a Maratona.
Hoc Marathonis campo, ubi Graecia Marte peremptis
grata suis memores tumulos sacravit, alebat
in Persas iram et virtutem pubis Achivae.
Navita sub Euboeam, cum illud transcurreret aequor,
per vastum obscurum scintillas nocte videbat
175
fulgere ex galeis, gladiisque cientibus ictum:
igniferas fumare piras, armisque coruscas
fervere belligeras larvas et quaerere pugnam.
173. pubis Achivae: locuzione similare all'Argivae pubis di Catullo (LXIV,
4): lecti iuvenes, Argivae robora pubis.
174. Pausania (II sec. d.C.) nella sua “Periegesi della Grecia” narra che,
tutte le notti, nel campo di Maratona si udivano rumori di armi e nitriti di
cavalli, e si vedevano fantasmi di combattenti e fuochi di roghi.
Navita: (invece del prosastico nauta) forma preferita dai poeti (forse perchè
trisillabica e dattilica); Virgilio (Aen. VI, 315): Navita sed tristis nunc hos
nunc accipit illos; Catullo (LXIV 174): perfidus in Creta religasset navita
funem; Orazio (Carm. II, 13, 14): Navita Bosporum Poenus perhorrescit.
175. obscurum: una scena di fantasmi notturni è quella accennata da Virgilio
(Georg. I, 477): simulacra modis pallentia miris / visa sub obscurum noctis.
177. igniferas: aggettivo ricorrente in Lucrezio (II, 25): lampadas igniferas
manibus retinentia dextris; (VI, 379): Hoc est igniferi naturam fulminis
ipsam / perspicere.
piras: grafia non corretta, al posto di pyras.
178. belligeras: reminiscenza da Ovidio (Tristia III, 11, 13): belligeris a
gentibus saeptus.
Longus et in vacuos, per tetra silentia, campos
ibat turmarum fremitus clangorque tubarum
180
ac moribunda ferox super ora incursus equorum
planctusque hymnique et vox Barcarum alta canentum.
Ah te felicem, qui iam florentibus annis
per ventorum ibas immensurabile regnum
197
Hippolyte: ac si rector proram intorserit ultra
quas pater Aegeus medio tenet aequore terras
audisti certe factis resonare vetustis
hellespontiacum littus fluctumque frementem
ferre ad retheas oras quae dirus Achilles
185
179. tetra: grafia insolita, al posto di taetra.
184. immensurabile: vocabolo post-classico.
185. Hippolyte: nel 1776 Ippolito Pindemonte navigò lungo le coste della
Sicilia, di Malta e dell'arcipelago egeo. Secondo il Carme, i luoghi storici
ripetono ancora i fatti del passato e li ricordano ai posteri, come il mito delle
armi di Achille. Alla morte del Titide, esse, per l'astuzia di Ulisse e per il
favore di Agamennone e di Menelao vennero assegnate all'Itacese e non ad
Aiace che ne appariva più degno. Ma le onde del mare, sospinte dagli dei,
ripararono l'ingiustizia degli uomini e sospinsero la nave di Ulisse proprio
contro il promontorio reteo, dove sorgeva il sepolcro di Aiace,
depositandovi le armi contese.
186. Aegeus: il mare Egeo è raffigurato come una divinità (pater) che
protegge le sue isole.
189. Retheas: grafia scorretta, al posto di Rhoeteas.
dirus: attribuito ad Achille, mentre Orazio lo riferisce ad Annibale:
ingentem cecidit/Antiochum Hannibalemque dirum (Carm. III, 6, 36); e
Virgilio (Aen. II, 261) ad Ulisse.
arma tulit Telamoniadis super ossa sepulti.
Unica mors iuste generosis praemia reddit.
Non et concilium sollers et gratia regum
dulichio potuere duci spolia alta tueri;
quippe haec unda tumens erranti a puppe revellit
dis acta infernis. Et me quem tempora et acer
laudis amor varias cogunt invisere gentes,
me celebrare vocent heroum ingentia facta
Pierides, venit unde humanis mentibus ardor.
Custodes tumulis adstant, cum labilis aetas,
relliquias etiam verrit frigentibus alis,
omnia corradens; cantu deserta sonoro
Pierides hilarant, et voce silentia centum
198
190
195
200
190. Telamoniadis: Aiace, figlio di Telamone, come lo chiama anche
Ovidio (Met. XIII, 231): Nec Telamoniades etiam nunc hiscere
quicquam/audet.
192. concilium: errore di stampa; leggi consilium.
193. Dulichio... duci: Ulisse era re non solo di Itaca, ma anche di Dulichio,
isoletta prossima a Itaca. L'appellativo è preso da Ovidio (Metam. XIV,
226): Dulichium sumpsisse ducem.
197. me... vocent: il poeta si proclama ispirato dalle Muse a cantare le
antiche glorie: quelle Muse che vegliano sulle tombe illustri e danno ai versi
il potere di sopravvivere alla corrosione del tempo.
198. Pierides: le Muse, denominate così da Pieria, una regione della
Tessaglia ad esse sacra. Con tale eponimo sono ricordate anche da Ovidio
(Tristia V, 3, 10): egi in studiis vitam Pieridumque choro.
199. labilis: aggettivo che non appartiene alla latinità aurea.
201. corradens: verbo adoperato da Lucrezio (VI, 304): atque alia ex ipso
conradens aere portat e VI, 444: conradens ex aere semina nubis.
202. hilarant: costruzione modellata su Virgilio (Ecl. V, 69): et multo in
primis hilarans convivia Baccho
saeclorum vincunt. Inaratae Troadis arvis
nunc locus insignis splendet totumque per aevum
insignis, Nympham propter, cui foedere lecti
Juppiter est iunctus, natusque hinc Dardanus, unde
et Troia Assaracusque et quinquaginta fuerunt
Laomedontiadae thalami et quod Julia regnum
denique gens habuit. Cum namque Electra vocantem
205
204. locus insignis: il sepolcro di Ilo, fondatore di Troia.
205. Nympham: Elettra, figlia di Atlante.
206. Dardanus: figlio di Giove e di Elettra.
207. Assaracus: fratello di Ilo. I tre eroi sono ricorati insieme da Virgilio
(Aen. VI, 650): Ilusque Assaracusque et Troiae Dardanus auctor.
quinquaginta... thalami: i cinquanta figli di Priamo con le spose,
reminiscenza di Virgilio (Aen. II, 503): quinquaginta illi thalami, spes
ampia nepotum. Quanto ai vari eroi, che vengono qualificati come fondatori
di Troia, bisogna così distinguere: a) Dardano che, nella Frigia sotto il
199
monte Ida, fondò una città, chiamata "Dardania", la quale poi si confuse con
Troia. b) Tros, nipote di Dardano, che diede il nome alla città di Troia.(Tros
parens et Troiae... auctor Virgilio, Georg. III, 36). c) Ilo, figlio di Tros, che
costituì il nucleo centrale della città (Ilio), d) Laomedonte, figlio di Ilo, che
con l'aiuto di Nettuno e di Apollo costruì le mura di Troia.
208. Laomedontiadae: Priamo, figlio di Laomedonte.
andivit Parcam ut vitali ex aetheris aura
iret ad Elisios manes, extrema Tonanti
vota tulit dixitque: Meus vultusque comaeque
si placuere tibi, vigilesque in noctibus horae,
nec meliora mihi permittit praemia fatum,
extinctam saltem de coelo respice amicam,
Hic tuae ut Electrae per saecula fama supersit.
Talibus orabat moriens alteque gemebat
Omnipotens: atque immortali vertice moto
ambrosiam in nympham concusso ex crine pluebat
et corpus dedit esse sacrum illiusque sepulcrum.
Hic et Erichthonius iacet et iustissimus Ili
obdormit cinis. Iliades hic crine soluto
orabant arcere viris instantia fata,
frustra haec quaerentes. Sese huc Cassandra ferebat
210
215
220
210. andivit: errore di stampa; leggi audivit.
Parcam: Atropo, che recide il filo della vita.
211. Elisios: grafia insolita, invece di Elysios.
Tonanti: epiteto di Giove, frequente in Ovidio (Met. I, 170; II, 466; XI, 198;
XI, 319).
217. Talibus orabat: reminiscenza virgiliana (Aen. X, 96): talibus orabat
Iuno.
218. Omnipotens: attributo di Giove, come in Ovidio (Metam. II, 505); ma
già anche Lucrezio (V, 399): At pater omnipotens, ira tum percitus acri.
221. Erichthonius: figlio di Dardano.
iustissimus: esornativo omerico.
222. Iliades... crine soluto: espressione presa da Virgilio (Aen. III, 65): et
circum Iliades crinem de more solutae.
cum Troiae extremum conceptum pectore numen
200
225
impulerat narrare diem: secumque nepotes
ducebat pueros cantumque edebat amantem:
cantum et amantem his scire dabat. Si forte reverti,
cum gemitu aiebat, vos Iuppiter annuat Argis
saevi ubi Tydidae ac vafri pascetis Ulixis
cornipedes, patriam quaeretis inaniter urbem.
Obruta relliquiis opus admirabile Phoebi
Pergama fumabunt: tumulus tamen iste Penates
servabit Troiae: donum est nam insigne Deorum
rebus in angustis nomen servare superbum.
At vobis palmaeque et coniferae cyparissi,
quas Priami severe nurus ac crescere fletus
mox faciet, viduarum imber, tutela meorum
sit patrum; quisquis devota a fronde securim
abstineat, minus ille domestica damna dolebit
atque aram sancte tanget. Tutela meorum
sit patrum. Antiquas vestras errare sub umbras
230
235
240
229. Argis: indica tutta la Grecia.
230. Tydidae: Diomede, figlio di Tideo.
232. Obruta... Pergama: riecheggia Ovidio (Met. XIII, 519): quis posse
putaret/felicem Priamum post diruta Pergama dici ?.
236. coniferae cyparissi: rimembranza virgiliana (Aen. III, 680) aeriae quercus
aut coniferae cyparissi.
239. devota: nel significato di "offerta in voto, consacrata".
mendicum quemdam coecumque videbitis olim
ac tumuli penetrare cavas, amplectier urnas
atque vagare; gement tunc antra recondita et omnis
narrabit tumulus bis rasum funditus Ilium
perque vias coecas bis ductum rursus in auras
splendidius, magis ut clarus foret inde triumphus
ultimus Aeacidis. Sacer illos carmine vates,
solatus manes, reges clarabit Achivos
quot pater Oceanus amplectitur aequore terris.
Et tu bellipotens lacrimis deflebere honoris,
Hector, dum sacer ac flendus sit sanguis in orbe
pro Laribus fusus patriis, atque aethere ab alto
dum super aerumnas hominum sol lumina mittat.
201
245
250
243. mendicum quemdam coecumque: Omero viene sulle rovine di Troia e ne
trae altissima ispirazione. I ruderi dell'antica Ilio affidano al mitico cantore le
storie del passato ed egli con l'alata poesia le consacra a vita perenne.
244. amplectier: forma arcaica dell'infinito presente deponente amplecti.
246. bis rasum funditus Ilium: secondo la leggenda, Troia fu distrutta una prima
volta da Ercole, poi dalle Amazzoni.
249. Aeacidis: i discendenti di Eaco, che era padre di Peleo, nonno di Achille e
bisnonno di Pirro.
250. clarabit: verbo adoperato da Orazio (Carm. IV, 3, 3): ilium non labor
Isthmius/clarabit pugilem.
252. bellipotens: signore della guerra. Virgilio destina l'appellattivo soltanto a
Marte (Aen. XI, 8).
202
Guido Arbizzoni
“Toti nos scribimus orbi”: l’utopia cosmopolitica del latino e la
traduzione della Divina Commedia
La versione dantesca corona la lunga dedizione del Pasquali ad un
complesso e vario lavoro di traduttore in latino (com’è noto egli non usò
altro che questa lingua per la sua attività letteraria). Essa occupa gli ultimi
anni della sua vita e vede la luce ad Ancona nel 1874 (1): stando alla
cronologia che fornisce l'avvocato Pietro Gianuizzi nel suo Elogio funebre
(2) l’opera fu compiuta con una lena ed una rapidità impensabili per un
uomo di oltre 78 anni: avviata il 25 ottobre 1871, il 7 gennaio dell’anno
successivo era compiuto l’Inferno, il 20 marzo il Purgatorio, a metà giugno
l’intero poema. Negli ultimi mesi di vita, oltre che alla traduzione della
Messiade di Klopstoch, lavorava ad una seconda edizione della versione
dantesca (3).
Questi i dati esterni e cronachistici. Ripensare oggi ad un’operazione
di questo tipo (1874: traduzione di Dante in latino) impone credo un
preliminare indugio su qualche più generale questione. Si è non poco
discusso in tempi recenti sui fondamenti teorici della ‘traduzione’,
ricollegandoli talora al tema (più vasto) della ‘riscrittura’ di cui la
traduzione è certamente il caso più scoperto (4). Se pensiamo al significato
che ha per noi, a livello di senso comune, un’operazione di traduzione
letteraria, credo che tenderemmo a sottolineare preliminarmente il valore di
‘servizio’ rispetto ad una potenzialità di lettura: la traduzione ‘serve’ a
mettere una comunità di lettori in condizione di entrare in rapporto con un
testo originariamente destinato ad una comunità alloglotta. Il caso più ovvio
è quello della traduzione (quasi) sincronica con l’originale. Il best seller
dello scrittore di grido or ora pubblicato e rapidamente allestito per i vari
mercati nazionali; ma anche le traduzioni che già nel passato scandirono il
rapido successo internazionale di opere letterarie: le precoci traduzioni nelle
principali lingue europee del Furioso o di un’opera forse più nota in Europa
che in Italia come il Cortegiano di Baldesar Castiglione, o la traduzione del
Vignau della Liberata già alle stampe nel 1595 o quella inglese del Fairfax
203
stampata nel 1600. L’altro caso, altrettanto comune, è quello della
traduzione separata dall’originale da una consistente distanza di tempo: è
naturalmente il caso di tutte le traduzioni moderne da opere dell’antichità
classica o anche delle opere scritte in lingue tuttora vive, ma composte in un
passato abbastanza remoto da creare, anche nel lettore moderno di
madrelingua, la percezione della distanza cronologica: Genette ricorda le
traduzioni di Dante in francese del Littré o del Pezard, in cui i due traduttori
si sforzano di restituire al lettore anche questa percezione usando un (falso)
francese antico (5). Il problema è quello della ri-creazione vs fedeltà, ma
non è ora il caso di addentrarsi in troppo complicati e alla fine fuorvianti
lambiccamenti teorici, giacché la premessa voleva soltanto segnalare come,
con tutte le possibili complicazioni teoriche, resta sostanzialmente il fatto
che la traduzione normalmente si intende (e per questo è stata realizzata
nella prassi) come ‘attualizzazione’ di un testo letterario per permettergli di
varcare barriere di spazio o/e tempo.
In questo senso l’idea di tradurre Dante in latino nel 1874 può
sembrare quantomeno bizzarra, giacché propone un percorso precisamente
inverso, da una lingua moderna, viva ed in uso, ad una lingua antica, morta.
La cultura romantica (ma certo ad essa il Pasquali non guardava di buon
occhio) aveva raccomandato le traduzioni, ma le traduzioni in italiano dalle
altre lingue moderne, per tentare di superare il gap avvertito tra la letteratura
italiana e quella delle più ‘progredite’ nazioni europee, nell’ambito anche di
un auspicato risveglio di sentimenti nazionali. Se Dante entrava in questa
visione era come poeta nazionale, il cui merito era stato anche quello di
portare l’italiano a dignità letteraria scegliendo l’opzione moderna, rispetto
alla possibilità di comporre l’opera di massimo impegno etico e civile in
latino. Giulio Perticari per esempio, nella sua apologia Dell’amor patrio di
Dante e del suo libro intorno il volgare eloquio annovera come prima
ragione della composizione della Commedia proprio lo “spregio in cui di
que’ tempi era ancor tenuta la nostra favella” (6), ricordando lo stupore dei
contemporanei (frate Ilario e Giovanni del Virgilio) di fronte alla scelta
dantesca e, di contro, il significato storico di quella scelta: Leopardi,
riflettendo, nello Zibaldone, sulla traccia, dichiarata, del Perticari,
(l’appunto è del 2 settembre del ’23) intorno alla
204
necessità che l’Europa e lo spirito umano avevano di nuove lingue illustri a potersi
avanzare e ne’ costumi e nelle scienze e nelle lettere e nella filosofia, dopo il risorgimento
degli studi; e sul grandissimo detrimento e ritardo che portò alla rinata civiltà la
rinnovazione dell’uso esclusivo del latino come lingua illustre,
ricordava la priorità di Dante che
fu il primo assolutamente in Europa, che (contro l’uso e il sentimento di tutti i suoi
contemporanei, e di molti posteri, che di ciò lo biasimarono), ardì concepire e scrisse
un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna, inalzando una lingua
moderna al grado di lingua illustre, in vece o almeno insieme colla latina che fino allora da
tutti, e ancor molto dopo da non pochi, era stata e fu stimata unica capace di tal grado […]
Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina, perché
così giudicò richiedere le circostanze de’ tempi e la natura delle cose; e volle espressamente
bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari ec. (7).
Un paio di anni prima il Leopardi aveva anche proposto un confronto
fra le due lingue classiche, la greca e la latina, nella prospettiva di una loro
‘moderna’ funzione, concludendo a tutto vantaggio della prima:
Io credo possibile il tradurre le opere moderne o filosofiche o di qualunque argomento in
buon greco, come son certo che non si potrebbero mai tradurre in buon latino. […] i nostri
eleganti scrittori latini del cinquecento ec. avrebbero potuto esser quasi moderni, se
avessero scritto in greco, laddove scrivendo in latino si assicurarono di non poter esser
lodati se non dagli antichi, e di servire ai passati in luogo de’ posteri (8).
Il passo è interessante perché implica una generale esclusione del
latino da qualsiasi possibilità di attiva circolazione e proposizione.
Il ricordo del Perticari e del Leopardi è naturalmente evocato soltanto
per suggerire un generico sfondo di riferimento, non capzioso, perché si
tratta comunque di due letterati e poeti certo tutt’altro che corrivi al gusto
delle romanticherie e, inoltre, geograficamente e quindi culturalmente
prossimi (se non altro come autorevole precedente) al Pasquali. Un recente
profilo della cultura letteraria dello Stato pontificio intitola peraltro La
“zona del silenzio” il paragrafo dedicato al Tramonto pontificio (18141870), da subito evidenziando la stagnazione della cultura (Leopardi e Belli
205
sono per l’appunto le eccezioni che confermano la povertà e l’arretratezza
dello sfondo) (9).
Sempre più perplessità, dunque, di fronte alla domanda di partenza:
che significato può avere proporre, da parte di un nostalgico, ma fedele,
sincero ed onesto, suddito dell’ex Stato pontificio una versione in latino di
Dante? Non si tratta soltanto, credo, dell’esercizio di un solitario, che si
cimenta nel privato del suo studio con una sorta di tour de force, di azzardo
letterario. I distici di dedica al lettore, che precedono la stampa, sono
assolutamente espliciti. Il Pasquali, riproposta la notizia secondo cui Dante
si sarebbe accinto dapprima a scrivere la sua opera in latino e poi vi avrebbe
rinunciato per passare al volgare, non rinnega il significato della scelta
dantesca, ma, storicizzandola, presume di poter mostrare come essa abbia
perduto, nell’età contemporanea, la sua originaria funzione:
Tunc id vis facere, a quo Dantes ipse recessit,
Qui prius est Latiis versibus orsus opus?
…
Italice scripsit Dantes, ut tempore iniquo
Flagitia ac mores carperet Italiae.
Se, oggi, è proprio l’Italia la nazione che ha maggiormente rinnegato
la sua tradizione (che per il Pasquali ha il proprio emblema nell’uso del
latino):
Advena es in terris? Mores ac tempora nescis?
Fastidit Latios Itala terra sonos (10).
dare a Dante veste latina significa renderlo universale e far ascoltare il suo
messaggio etico ai dotti che popolano il mondo piuttosto che all’Italia
degenere e sorda:
Vera mones. Nostrae si tanta insania genti,
ut, quod magna est sibi gloria, despiciat,
huic male sit. Non autem una est gens Itala terris,
quae Dantem novit: clarus ubique cluet;
206
quotquot et insignes doctrina in gentibus adsunt,
eloquii est latii maxima cura Viris.
Il nuovo tempus iniquum postula un appello di maggiore universalità:
Non tantum Italiae, toti nos scribimus orbi,
ut Vatis tanti tot decora alta sciat.
Può sembrare presunzione non da poco, maturata presumibilmente a
cose fatte, al momento di affidare il lavoro alle stampe (a stampe peraltro
molto periferiche, alla tipografia olim Baluffi di Ancona, alla quale credo
sarebbe stato abbastanza utopico chiedere quella auspicata diffusione
universale, alla quale il Pasquali avrà magari ritenuto di poter provvedere
personalmente pensando che i suoi corrispondenti rappresentassero
l’universo). A posteriori è anche l’accenno, che apre la dedicatoria, a
precedenti traduttori in latino della Commedia:
In numeros Dantis Comoedia versa latinos!
Oh lepidum, dices, lector amice, caput!…
Hoc tamen et Dalla-Piazza, et Pater ante Ab-Aquino
tentarunt: crambem tertius hanc recoquis? (11)
Oltre che con Dante stesso, di cui come s’è detto il Pasquali ricorda
l’abbandono del progetto latino, la sfida è anche con i moderni che hanno
portato a compimento la stessa iniziativa del Pasquali. Ma ancora il
Gianuizzi ci dice nel menzionato Elogio funebre, di aver fatto conoscere al
Pasquali solo a versione ormai compiuta la precedente traduzione del Dalla
Piazza (12): come a dire che la consapevolezza critica (che presuppone
anche il confronto con i precedenti), sembra maturare a posteriori, mentre
l’impulso al lavoro sembra venire piuttosto da una sorta di onnivoro
progetto di latinizzazioni che non ha bisogno di far conto dei precursori.
Il gesuita Carlo d’Aquino aveva fatto stampare la sua versione della
Commedia a Roma nel 1728: ma l’edizione reca il luogo di Napoli (13),
poiché allora non era permessa la stampa della Commedia a Roma: sono
comunque omessi, per autocensura, non pochi passi sgraditi alla curia, che
207
però si leggono nel testo italiano stampato a fronte (esemplato sull’edizione
della Crusca del 1595): per es. Inf. VII, 46-8 (“Questi fuor cherci, che non
han coperchio/piloso al capo, e papi e cardinali,/in cui usa avarizia il suo
soperchio”), un ampio tratto del XIX dell’ Inf. (sui papi simoniaci) ecc. Di
questa scelta si dà una giustificazione legata alla sovranazionalità del latino
ed all’inopportunità di divulgare fuori d’Italia passi sconvenienti (14). Nella
prefazione inoltre il D’Aquino dichiara la programmatica trasposizione del
poema dal genere comico-satirico all’epico, con conseguente diversa
selezione del materiale linguistico e quindi anche rovesciamento del teorico
rapporto quantitativo tra le due lingue:
Nel riscontro de’ canti avverrà forse che alcuno si scandalezzi essendomi io non così di
rado dilungato oltre i confini del testo tradotto, aspettandosi anzi il contrario, attesa la
sovrabbondanza de’ vocaboli nella lingua latina, non poco superiore all’italiana […]
Rispondo: il vocabolario di tutte le voci latine senza fallo sopravanza il vocabolario di tutte
l’italiane, ma il vocabolario delle voci latine scelte, nobili e adattate al carattere sublime del
verso eroico non supera, anzi di gran lunga vien superato dal vocabolario di tutte l’italiane,
delle quali parimenti tutte si valse, come più li torna in acconcio, il poeta Dante (15).
Cronologicamente più prossima la traduzione del Dalla Piazza,
pubblicata postuma a Lipsia nel 1848 preceduta da un’autorevole prefazione
di Carlo Witte, prestigioso dantista tedesco (un insieme dunque di notevole
internazionalismo) (16). E’ soprattutto con questa traduzione che val la pena
di confrontare quella del Pasquali, anche per saggiarne le qualità e definire
lo sfondo culturale di simili intraprese. Le premesse non paiono infatti
dissimili. Nella prefazione che il Della Piazza aveva preparato (non
pubblicata nell’edizione di Lipsia (17)), si ricordava, insieme all’odierna
difficoltà della lettura di Dante in conseguenza del suo ibridismo linguistico,
anche l’inadeguatezza dell’eventuale latino che Dante stesso avrebbe potuto
scrivere:
se […] avesse usate od imitate le auree frasi ed il verseggiare a maraviglia tornito del suo
maestro Virgilio […] avrebbe risparmiata ai suoi studiosi lettori la fatica e la noia di
squadernare la Crusca per intendere il significato di vocaboli non toscani, ma presi ora dal
contado, or dai Lombardi, or dai Provenzali, or dai Latini, ormai caduti in disuso e di
consultare gl’ interpreti intorno ai traslati […] cose tutte che distraggon la mente dall’idea
208
principale, dividono l’attenzione, sicché le bellezze in gran parte passano inosservate e
spesso fan venir meno la voglia d’andare avanti. Per verità pochi sono che abbiano la
pazienza di leggere un canto intero del Paradiso […] Ma il nostro poeta, pieno la mente ed
il petto del latin barbaro cui fin dall’infanzia bevette e di cui risuonavano e cattedre e
pergami e scuole […] s’accorse di non poterlo in quel modo farlo tale che fosse degno di
poter vivere (18).
Il barbaro latino di Dante sarebbe dunque stato impari al suo progetto
poetico, il suo volgare (e al poeta si riconoscono i meriti nei confronti della
lingua italiana) è oggi di difficile lettura, talora incomprensibile (19).
Se alla precedente traduzione del D’Aquino va imputato l’arbitrio
dell’infedeltà (ha voluto “farla da autore, correggendo, omettendo
mutilando, alterando concetti, maniere e figure” (20)), giusto è il proposito
di liberare Dante “dagli angusti confini di quell’umile terra dove il sì suona”
(21), proposito che può solo realizzarsi attraverso il latino, versatile per ogni
genere di scrittura (e qui il Dalla Torre è sensibile a quello che oggi
diremmo il ‘plurilinguismo’ di Dante), il pastorale e l’epico di Virgilio, la
lira e i sali d’Orazio, la poesia filosofica di Lucrezio, il socco di Plauto e di
Terenzio, le epistole familiari d’Ovidio:
Lingua la quale, quantunque sia morta co’ bei dì dell’impero romano, viene ancora
apprezzata e studiata da tutti coloro che amano le lettere e le scienze sublimi della morale e
della teologia (22).
Il Dalla Piazza, insomma, oltre che proporsi di dare più vasta
possibilità di circolazione ad un’opera alla quale riconosce profondità di
dottrina e pregnanza di messaggio etico, aspira a dimostrare la superiorità
dell’antica lingua sulla moderna, e proprio sul piano di un requisito che a
tutta prima apparirebbe di pertinenza proprio delle lingue moderne, cioè la
chiarezza. Così, in una lettera dell’aprile 1844, il Dalla Piazza risponde alla
richiesta degli alunni del seminario di Vicenza di pubblicare excerpta della
sua versione dantesca, ma per esigenze di costi, senza testo italiano a fronte
(come verrà invece realizzato nell’edizione tedesca del ’48):
questa condizione a me parve durissima, perché il miglior pregio di quest’opera si è di
mostrare agli occhi fedeli di chi considera a parte a parte sì l’italiano come il latino che vi
209
corrisponda, quanto io sia stato aderente al testo e con quanta arte mi sia ingegnato di dire
le stesse cose che dice il testo italiano, in guisa che la versione paragonata all’originale non
abbia altra diversità che quella della lingua, e se il latino è più chiaro, se i versi camminano
meglio, ciò avviene per la superiorità dell’antica madre della nostra (23).
Considerazioni che non vanno disgiunte dal monito a non lasciarsi sedurre
dai moderni scrittori stranieri […] le opere dei quali, a chi mal conosce l’arte e la critica e
segue il grido volgar della moda, la quale vuol dominare anche qui, piaceran tanto tempo
quanto dura il riscaldo delle fantasie, per poi cader nell’obblio, come avvenne di alcune
poesie, non però così difettose come quelle ai dì nostri, le quali sul fine del secol passato
erano sì care ed or se le mangiano le tignuole (24).
Mi sembra che il Pasquali condivida sostanzialmente (magari
inconsciamente e, certo, senza conoscerle) le idee del Dalla Piazza, che
germogliano dall’incomprensione e dall’indifferenza se non dal disprezzo
verso un presente che minaccia l’eversione di categorie di vita e di cultura
alle quali si vuol restare disperatamente aggrappati: e la stessa utopica,
letteraria ‘resistenza’ può attuarsi nel Veneto austriaco alla vigilia del
Quarantotto o nella periferia dell’ex Stato pontificio all’indomani della sua
caduta. Emblema di simile atteggiamento culturale potrebbe definirsi
proprio il latino, il suo uso e la convinzione della sua eccellenza; sullo
sfondo, in conseguenza, la fede nella sopravvivenza di una comunità di dotti
che nell’antica lingua si riconosca, e l’illusione che essa possa essere capace
di contare ancora nel mondo contemporaneo e di assumere magari ruolo di
leader. Credo insomma che il Pasquali si aspettasse dai suoi lettori un
giudizio analogo a quello di cui si vantava il Dalla Torre in una lettera del
17 agosto 1836:
gli intelligenti che col conforto del testo lessero parecchi canti, mi assicurarono che la
versione latina è più felice, più chiara dell’originale, ed ha maggior maestà e più bellezza
nel verso (25).
Detto questo, rimane da compiere almeno una minima ricognizione
diretta sul testo. Se il D’Aquino aveva optato per una sorta di
monolinguismo epico, il Dalla Torre aveva dichiarato l’intenzione di
inseguire la multiformità tonale di Dante attraverso multiformi modelli
210
classici; il Pasquali sembra proporre piuttosto un latino che innesti sui
modelli classici la tradizione del latino come lingua d’uso dei dotti, che, per
lui e per le sue precedenti esperienze di scrittura, è anche la lingua della
tradizione ecclesiale e dei testi dottrinali:
et, quod lingua nequit gentilis tradere, tradat
doctorum sermo quae sibi nomen habet (26).
Alla base di un’operazione traduttoria come questa c’è, dal punto di
vista del Pasquali (e dei suoi predecessori), un’assunzione di verità che è
esattamente opposta alla nostra: morta e oscura (sia pur con tutti i suoi
meriti storici) è la lingua volgare di Dante; vivo e chiaro il latino che ad essa
va a sostituirsi (e non importa se con questo si faccia terra bruciata di tutta la
tradizione volgare): la funzione che la traduzione si arroga vorrebbe essere
quella di rendere il messaggio dantesco accessibile ad una fruizione più
ampia, e non solo, credo, fuori d’Italia.
E’ chiaro che si tratta di una posizione storicamente perdente: se la
traduzione del Dalla Piazza, approdata alla stampa di Lipsia, poté avere
qualche diffusione e favorire la conoscenza di Dante fuori d’Italia, magari
come strumento per agevolare l’accesso al testo originale (apprezzamento
per essa manifestò, per esempio, il Carlyle (27)), pochissimi avranno letto
quella del Pasquali, rimasta, come del resto tutta la sua immane produzione,
prodotto assolutamente periferico. Eppure ciò non toglie che la sua opera
abbia qualità letterarie non solo sicuramente superiori a quelle della
traduzione del Dalla Piazza (potrebbe essere ben magra consolazione), ma
anche di per sé notabili, nei limiti naturalmente di una progettualità da
retroguardia assediata: che si tratti cioè di un’operazione storicamente sterile
non esclude che ne vadano riconosciuti meriti di onestà e di dignità e che
insomma anch’essa, insieme col resto dell’opera del Pasquali, valga a
connotare una personalità letteraria anche come emblematica di un
atteggiamento culturale che, se può trarre qualche suggestione proprio dal
fatto di essere nostalgicamente e generosamente senza futuro, non può
peraltro essere sottratto al giudizio imposto dalla scelta di campo e dalle
conseguenti opzioni letterarie.
211
Già il ‘montaggio’ (nuovo rispetto ai predecessori) che si dà a tutto il
testo per fargli assumere fin dall’esterno parvenza classica, virgiliana, è
segnale assai esplicito: l’intera Commedia nella veste latina è suddivisa in
12 libri (il che comporta la scomparsa della divisione in cantiche) all’interno
dei quali rimane soltanto, con scarsissimo rilievo tipografico, l’indicazione
con numero romano dell’inizio dei canti.
La traduzione mostra quindi una straordinaria versatilità nell’uso del
latino, che il Pasquali padroneggia con grande disinvoltura e naturalezza. La
traduzione si compone su una linea di scorrevole scioltezza, pur mantenendo
fede all’impegno di non tralasciare nulla del testo dantesco (non ci sono
interventi censori neppure nei passi più accesamente antipapali di Dante), e
non facendo neppur troppo avvertire il peso del riuso di frammenti classici,
così difficile da evitare in un testo metrico: il Pasquali produce i suoi
esametri con una disinvolta facilità di improvvisazione veramente non
comune. Certo per un moderno lettore l’impressione è spesso quella di una
sorta di diluizione, di annacquamento quasi dell'originale: l’impegno verso
la chiarezza spinge ad un’eleganza talora un po’ piatta, ad una sorta di
trascrizione esegetica, che interpreta e scioglie i nodi dell’originale. Della
complessa allusività di
Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende (28)
forse non rimane molto in
Amor, qui mollia flammis
pectora perfacile incendit (29).
Ma è anche vero che talora la fedeltà alla lettera sa produrre non
inefficaci corrispettivi latini, o che qualche minuscola innovazione riesce a
recuperare l’aderenza al modello. Solo per accennare ad un paio di
celeberrimi luoghi:
Sustulit ille fera rictum peccator ab esca (30)
può apparire non del tutto indegno di
212
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator (31);
o, nell’episodio di Manfredi, lo spostamento al vocativo dell’indicazione
geografica felicemente enfatizza la ‘cecità’ del vescovo di Cosenza:
Tuus, o Consentia, Pastor
in Domino si id legisset (cui expellere Clemens
me tunc mandavit), Beneventum propter, humata,
principium post pontis, adhuc mea membra jacerent
saxorum sub mole gravi, queis tecta fuere; (32)
Se ‘l pastor di Cosenza, che alla caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarìeno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora. (33)
Che qualche volta soccorrano poi frammenti memoriali, che si faccia
ricorso a tasselli di riporto anche a scapito della ‘variatio’ è cosa che non
stupisce: fa semmai notizia il fatto che ciò si avverta piuttosto raramente (il
che vuol dire che il Pasquali ha saputo ben introiettare ed assimilare i suoi
modelli). Cito dall’episodio di Francesca, quando, a breve distanza il
Pasquali non sa evitare il ricorso alla stessa memoria virgiliana per rendere
due luoghi semanticamente affini, ma in Dante realizzati in maniera diversa:
ch’amor di nostra vita dipartille.
Amor condusse noi ad una morte.(34)
resi con
quos Amor ante diem crudeli funere mersit
e
213
Nos funere mersit eodem unus Amor. (35)
La stessa memoria virgiliana occorre peraltro ancora nelle parole di
Pier della Vigna, rendendo certamente troppo esplicita la vaga, densa nella
sua allusività, perifrasi dantesca:
ingiusto fece me contra me giusto (36)
reso con
justum injusto me funere mersit. (37)
Ancora, dallo stesso episodio, un caso di traduzione di cui la
correttezza di sostanza tradisce la pregnanza del linguaggio dantesco:
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse gli occhi putti (38)
trasformato in:
At meretrix, quae numquam Caesaris aedem deseruit (39)
La fedeltà al testo dantesco si traduce infatti spesso per il Pasquali in
appianamento delle difficoltà, come se venisse mediata da una sorta di
chiosa mentale, o come se non si traducesse il testo dantesco, ma la chiosa
esplicativa a piè di pagina di un’edizione commentata. E’ il prezzo da
pagare per conseguire chiarezza, sottraendo Dante alla municipalità del suo
linguaggio per fermarlo in una compostezza, che a noi non può non apparire
asettica. Così è sacrificata la varietà tonale: l’impressione per un lettore
d’oggi è di una grande politezza che scioglie le difficoltà, ma insieme
inevitabilmente stempera le tensioni formali: se, tanto per far un esempio dei
più banali, al proposito di uno dei non rari casi in cui il linguaggio dantesco
si abbassa verso lo stile ‘comico’, il gesto osceno del ladro (Inf., 25, 2),
rappresentato da Dante con un’espressione di forte marca plebea, è reso con
digitis inserto pollice (III, 669), la traduzione è compiuta attraverso una
sorta di chiosa che la disloca su un diverso piano della connotazione. Voglio
214
dire insomma che il Pasquali si preoccupa di una fedeltà, come dire,
contenutistica, non tanto di quella formale: molte espressioni dantesche cioè
passano attraverso una versione esplicativa, piuttosto che attraverso la
ricerca di un corrispettivo tonalmente analogo, anche se da un punto di vista
‘contenutistico’ non identico (e, nel caso, il ricorso poteva essere al
mediumque ostenderet unguem di Giovenale. (40) Ma questo atteggiamento
corrisponde all’incomprensione, peraltro secolare, del linguaggio dantesco,
dacché non riguarda soltanto l’attenuazione delle sue punte plebee, ma
anche la riduzione della sfida all’ineffabile, della tensione verso il sublime
che si manifesta nei neologismi del Paradiso:
s’io m’intuassi, come tu t’immii (41)
Tua si mihi vota paterent
ut tibi nostra patent, (42)
come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova (43)
quomodo imago
congrueret circlo, atque aptari posset in illo; (44)
che sono spiegazioni corrette, ma, appunto, chiose.
Del latino del Pasquali molto si potrebbe dire e molto hanno scritto in
questi Atti altri più competenti di me, della sua scrittura latina di inusitata
eleganza, scorrevolezza e limpidità, tutte doti che sono confermate dalla
traduzione della Divina Commedia. Ma se il monolinguismo che sostituisce
il plurilinguismo dantesco è al servizio di un’idea di divulgazione della
Commedia, il latino è ormai una lingua morta (semmai poeticamente
rivitalizzabile attraverso ben diverse ideologie letterarie), la sua politezza
non ha destinatari o, se li ha, essi non sono partecipi della vita civile, ma
solitari nella ritiratezza dei propri studi: non sono questi gli interlocutori che
Dante prefigurava per la propria opera. Quando Leopardi rifletteva, già
mezzo secolo prima, sull'impopolarità della letteratura italiana, era per
stimolare il riavvicinamento tra lingua parlata e lingua scritta ed il
rinnovamento della seconda attraverso la prima:
215
In Italia oggidì (che nel Trecento era tutto l’opposto) la lingua scritta degli scrittori […]
differisce [dalla parlata], credo, più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo.
E questo […] cagiona la nessuna popolarità della nostra letteratura, e l’essere gli ottimi libri
nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorché pel soggetto non abbiano a far
niente con lei. (45)
Ma l’impopolarità che il Leopardi denunciava era a sua volta il segno
dell’assenza di una lingua insieme letteraria e d’uso, e di fronte a questa
assenza l’opzione del latino poteva anche apparire, da un diverso punto di
vista, non immotivata. E’ vero che tra la riflessione del Leopardi e la
versione dantesca del Pasquali altra acqua era passata sotto i ponti, ma era
acqua che aveva appena e per eccezione lambito le contrade pontificie. La
funzione ancora affidata al latino è testimonianza accorata di fedeltà a
modelli culturali ai quali peraltro non si possono riconoscere che ragioni di
tradizione, ormai non più di proposizione (neppure nell’area geografica
dell’ex Stato pontificio), dopo l’unità d’Italia e la fine del potere temporale
del Papa.
216
Note
1)
Dantis Aligherii Divina Comoedia latinis versibus auctore Josepho PascalioMarinellio, Anconae, ex officina typ. olim Baluffi, MDCCCLXXIV, pp. 372.
2)
Si può leggere in De pugna ad Castrumficardum, auctore Josepho Paschalio
Marinellio, trad. di Massimo Morroni, commento storico di Massimo Coltrinari, Provincia
di Ancona-Cassa rurale ed artigiana “S. Giuseppe”, Camerano, 1991, pp. 202-222.
3)
Sulla cronologia cfr. ora la documentatissima biographia literaria, che del
Pasquali ha fornito M. MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli. Le età di un poeta,
Ancona, 1993, pp. 56-61.
4)
Penso per esempio, e un po’ alla rinfusa, al saggio fondamentale di R.
JAKOBSON, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, Milano,
1966, pp. 56-64, al numero speciale di “Languages” del dicembre 1972, a G. GENETTE,
Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, 1982, in particolare pp. 238-43, a G.
FOLENA, Volgarizzare e tradurre, Torino, 1991 (alle pp. 87-89 una selettiva bibliografia
aggiornata e ragionata).
5)
Palimpsestes cit., pp. 241-42.
6)
G. PERTICARI, Opere, Bologna, 1838, vol. I, pag. 353.
7)
G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, Milano, 1961, vol. II, pp.
394-96.
8)
Ibid. vol. I, pp. 1237-38.
9)
Il saggio è dovuto a Riccardo MEROLLA e si legge in Letteratura italiana. Storia
e geografia, vol. II. L’età moderna, tomo II, Torino, 1988, pp. 1019-1109 (in particolare
1091 ss.).
10)
Sull’argomento cfr. anche i distici De Latinae linguae despectione, pubblicati da
M. MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli cit., p. 146, n. 712.
11)
Divina comoedia cit., pp. [iii-iv].
12)
Elogio funebre in De pugna ad Castrumficardum, cit., p. 211.
13)
Della commedia di Dante Alighieri trasportata in verso Latino Eroico da Carlo
D’Aquino, in Napoli, per Felice Mosca, MDCCXXVIII. Su questa e le altre traduzioni
latine della Commedia cfr. G. MAMBELLI, Le traduzioni della “Divina Commedia” e
delle Opere minori, in “Il giornale dantesco”, XXVIII (1925), pp. 202-07 (nn. 593-638).
14)
Ibid., vol. I, p. 11: “Non può negarsi che il poeta trascorre talvolta a diminuire la
fama altrui con invettive aspre e pungenti. Ciò che ho giudicato potersi recare a giusta
offesa, particolarmente d’illustri Comuni e sagri personaggi d’eccelso grado ho io qui
lasciato in bianco e punteggiatine i versi a misura del testo, non convenendo a ben
costumato non che religioso scrittore propagare coll’idioma latino la notizia di tali
rimproveri a nazioni straniere”.
15)
Ibid., pp. 6-7.
217
16)
Dantis Alligherii Divina comoedia hexametris Latinis reddita ab Abbate Dalla
Piazza vicentino. Praefatus est et vitam Piazzae adiecit Carolus Witte, Lipsiae, sumptibus
Ioan. Ambros. Barth, MDCCCXLVIII.
17)
Si legge in A. MANFRIN PROVEDI, Cenni storici sulla traduzione in versi
esametri latini della ‘Divina commedia’ di Dante Alighieri eseguita dall’abate don
Gaetano Dalla Piazza, Venezia, 1882, pp. 53-60.
18)
Ibid., pp. 54-55.
19)
Il Witte, nella sua Praefatio, addirittura sottolinea come la versione latina possa
sollecitare uno sforzo esegetico (evidentemente su interpretazioni di realia o questioni
storico-teologiche) ‘internazionale’ rivolto a schiarire le innumerevoli oscurità di Dante:
“Tantum vero abest, ut unius alteriusve, quantumlibet docti et ingeniosi, interpretis opera ad
expediendos omnes, quibus abundat carmen, nodos sufficiat, ut ardui huius propositi
assequendi causa doctorum, qui sunt apud omnes cultiores populos, labores in unum collati
requirantur. Sed haec diversarum gentium studia non ita facile poterunt consociari, nisi
operi communibus viribus illustrando eam prius dederimus linguam, quae omnibus doctis
est communis” (Dantis Alligherii Divina comoedia hexametris latinis reddita ab Abbate
Dalla Piazza cit., p. VIII).
20)
MANFRIN PROVEDI, Cenni storici cit., p. 56.
21)
Ibid., p. 55.
22)
Ibid., p. 56.
23)
Ibid., p. 48.
24)
Ibid., p. 59.
25)
Ibid., p. 37.
26)
Divina comoedia cit., p. [iv].
27)
Cfr. G. MAMBELLI, Le traduzioni… cit., p. 204.
28)
Inf., V, 100.
29)
Divina comoedia cit., I, 530-31.
30)
Divina comoedia cit., IV, 681.
31)
Inf., XXXIII, 1-2.
32)
Divina comoedia cit., V, 307-11.
33)
Purg., III, 124 ss.
34)
Inf., V, 69 e 106.
35)
Divina comoedia cit., I, 503 e 536-37.
36)
Inf., XIII, 72.
37)
Divina comoedia cit., II, 369.
38)
Inf., XIII, 64-65.
39)
Divina comoedia cit., II, 363-64.
40)
Satirae, 10, 53.
41)
Par., IX, 81.
42)
Divina comoedia cit., X, 66-67.
43)
Par., XXXIII, 137-38.
218
44)
45)
Divina comoedia cit., XII, 996-97.
Zibaldone cit., vol. I, p. 568.
219
Frontespizio di Dantis Aligherii Divina Comoedia (Ancona
1874).
Elogio funebre composto da Pietro Gianuizzi nel 1876.
220
Fabio Stok
G. Pasquali Marinelli (1793-1875) e le sue parafrasi bibliche in
esametri latini
Negli ultimi anni è andato crescendo l'interesse per la poesia neolatina
(1) al di là dell'ambito ristretto dei più noti poeti umanistici e di pochissimi
autori moderni (in Italia il Pascoli (2) quale riflesso della notorietà del poeta
italiano; in misura decisamente minore Diego Vitrioli (3) per la medaglia
d'oro vinta in occasione della prima edizione del Certamen di Amsterdam,
nel 1845). Riedizioni e studi critici stanno ora lentamente riproponendo
all'attenzione degli studiosi una produzione che, anche dopo il sec. XV, è
continuata ininterrotta in numerosi paesi, e che si configura oggi quale un
capitolo non trascurabile del patrimonio culturale europeo. Siamo ancora
lontani dal disporre di un quadro esauriente di questo capitolo di storia
letteraria e culturale, se non per ambiti ed aree ristrette (4) le ricerche in
corso stanno tuttavia arricchendo in misura insperata un settore di studi
rimasto a lungo inesplorato.
Fra gli autori attivi verso la metà del secolo scorso, una collocazione
di un certo rilievo spetta a Giuseppe Pasquali Marinelli, per la sua
straordinaria produzione, pressoché tutta in esametri latini, comprendente
traduzioni, riadattamenti e poemi originali. Nato nel 1793 a Camerano, nello
Stato Pontificio, Pasquali (5) studiò nel Seminario Vescovile della vicina
Ancona (1802-1808) e successivamente in quello di Osimo (1810-1816);
completò gli studi nell'Università di Macerata, dopo si laureò "utriusque
juris" nel 1818. Dal 1818 al 1830 visse a Roma, impiegato nella segreteria
del Camerlengato (l'amministrazione finanziaria dello Stato Pontificio); nel
1830 si ritirò a Camerano, dove, in qualità di Priore, si occupò della
amministrazione del Comune fino all'indomani dell'annessione al Regno
d'Italia. Ostile allo stato unitario, dopo il 1863 Pasquali si dedicò
esclusivamente alla composizione poetica, continuata ininterrottamente fino
alla morte, nel 1875.
221
Pur se limitata all'esametro, la produzione poetica di Pasquali appare
straordinaria: le traduzioni e le rielaborazioni da lui effettuate interessano,
limitandoci a citare le opere di maggiore rilievo, l'Iliade e l'Odissea, buona
parte del Vecchio Testamento, la Divina Commedia, i Sepolcri del Foscolo e
la Messiade di Klopstock; e ancora un'esposizione in versi delle
Institutiones Juris Civilis, una composizione sui sacramenti, numerosi
carmi e tre poemi epici, sulla battaglia di Castelfidardo (De pugna ad
Castrumficardum), su quella di Mentana (De pugna ad Nomentum) e sulla
presa di Roma (Romae expugnatio). Si tratta, nel complesso, di un corpus di
diverse decine di migliaia di esametri, solo in parte pubblicato, in parte
smarrito in seguito alla dispersione delle carte dell'autore (ma una parte
consistente degli inediti è custodita presso la Biblioteca Comunale di
Camerano, il cui nucleo originario è costituito proprio dalla biblioteca di
Pasquali Marinelli). Dopo le Institutiones Juris Civilis (Roma 1828 e
Ancona 1835), furono date alle stampe, a varie riprese, le versioni bibliche
(1841-1864), il De sacramentis (Recanati 1857), la Messias (Ancona 1866)
(6), le traduzioni dei due poemi omerici (Ancona 1869-1870) e quella della
Divina Commedia (Ancona 1874). Una certa notorietà fu assicurata a
Pasquali soprattutto da quest'ultima traduzione, che ebbe una certa
diffusione fra gli studiosi di Dante; gli altri lavori pubblicati (come pure un
volume postumo contenente la traduzione foscoliana, De sepulcris et J.
Victorellii cantiunculis versiones, Pesaro 1893) ebbero una circolazione assai
limitata, patrocinata per lo più dallo stesso autore. Un'ulteriore edizione
postuma, quella del De pugna ad Castrumficardum (7), appartiene alla
recente riscoperta di Pasquali Marinelli, culminata nelle celebrazioni svoltesi
a Camerano in occasione del Bicentenario della nascita (aprile-maggio
1993).
Le parafrasi bibliche offrono buon materiale per un sondaggio sulla
tecnica poetica di Pasquali, per l'importanza che egli dette a quest'opera,
nella quale profuse un impegno notevole, nell'arco di oltre un trentennio; e
per la peculiare collocazione che esse rivelano, a metà fra la traduzione e la
rielaborazione originale.
Il progetto di traduzione della Sacra Scrittura in versi latini fu elaborato da Pasquali forse già nel momento in cui rientrò a Camerano, nel
222
1830. Alle spalle egli aveva, a prescindere dalle esperienze degli anni
giovanili (8), la versione poetica delle Institutiones Juris civilis, di cui aveva
pubblicato a Roma il primo libro e che completò a Camerano, dandola
definitivamente alle stampe nel 1835. Subito dopo, con ogni probabilità,
Pasquali cominciò a lavorare alla traduzione del Giobbe. Nel successivo
ventennio, almeno fino al 1857, la traduzione della Sacra Scrittura sarebbe
stata il suo impegno principale. Del 1841 è l'edizione a stampa del Giobbe e
delle Cantiche di Mosè [= esod. 15; deut. 32, 1-43] (9); negli anni successivi
lavorò alla revisione di questo volume, che venne ripubblicato nel 1846 con
l'aggiunta della traduzione dell'Apocalisse e di tre Hymni (10). Nel decennio
successivo Pasquali lavorò alla traduzione dei Profeti, pubblicati in due
volumi nel 1856-1857 [I (11): Is.; Ier.; thren. e Bar.; II: Ezech.; Dan.; Os.;
Ioel; Am.; Abd.; Ion.; Mich.; Nah.; Hab.; Soph.; Agg.; Zach. e Mal.] (12),
ma anche di altri libri biblici (traduzioni che non pubblicò (13) e che sono
andate successivamente perdute (14): in una lettera del 1848 accenna alla
traduzione del Tobia (15); nel 1855 invia all'amico Cesare Gariboldi una copia della traduzione del Cantico dei cantici (16)). Dopo un breve intervallo,
dedicato alla composizione del De sacramentis (1857), Pasquali tornò a
lavorare ancora alle versioni bibliche ma, con l'eccezione dei Salmi,
pubblicati nel 1864 (17), tutte le traduzioni di questi anni sono andate
perdute: in una lettera del 1865 a Marino Marinelli egli accenna alla
revisione del Cantico dei Cantici, tradotto dieci anni prima, ed annuncia
l'imminente invio delle traduzioni di Ruth, Debbora [= Iud. 5] ed Anna [=
reg. I 2, 1-10] (18); a questi stessi anni, o forse piuttosto al decennio
precedente, risalgono le traduzioni citate da Pasquali in una delle sue ultime
lettere: Giuditta, Esther, Sapienza, Ecclesiaste ed Ecclesiastico [Sirach] (19).
Nell'elenco delle opere di Pasquali Marinelli compilato da Pietro Gianuizzi,
poco dopo la sua morte, sono indicate ancora le traduzioni dei libri di
Samuele [reg. I-II] e di quello dei Proverbi (20); di alcune di queste
traduzioni Gianuizzi indicò anche il numero dei versi: Tobia vv. 728;
Cantica vv. 324; Ruth vv. 254; Debora vv. 165; Anna vv. 113; Giuditta vv.
937; Esther vv. 839; Sapienza vv. 1037; Ecclesiaste vv. 516 (ed andranno
ricordati anche i vv. delle opere pubblicate: Job vv. 2070 [2053 nella I ed.];
Apocalisse vv. 1154; Cantica di Mosè vv. 157 [154 nella I ed.]); Profeti vv.
223
16992; Salmi vv. 4848: in totale sono oltre 30000 esametri). Non si trattò
più comunque, almeno a partire dal 1857, di un impegno esclusivo: nel 1864
Pasquali lavorava alla traduzione dei poemi omerici, progettata molti anni
prima (almeno nel 1848) e pubblicata nel 1869-1870. Negli ultimi anni
sembra prevalere l'impegno nell'opera di composizione (salvo il ritorno alla
traduzione negli ultimissimi anni, con la Divina Commedia di Dante e i
Sepolcri di Foscolo). La testimonianza più tarda relativa alle traduzione
bibliche è del 1868, anno in cui Pasquali lavorò alla revisione
dell'Apocalisse (pubblicata nel 1846) (21); ma nella stessa lettera rivela di
aver sottoposto al Marinelli, l'anno precedente, anche altre «bibliche
versioni» (22). La revisione della traduzione dell’Apocalisse venne intrapresa
probabilmente anche per suggestione degli avvenimenti politici di quegli
anni, sembrandogli quest'opera «il componimento del giorno, perché il
disordine morale e atmosferico, colla grande eclisse solare, annuncia la fine
del mondo» (23). Immagini dello stesso tipo, decisamente cupe,
caratterizzano del resto anche il De pugna ad Castrumficardum, composto
negli stessi anni, e il successivo De pugna ad Nomentum.
In apertura dei suoi Carmina Pasquali afferma di aver tradotto in
versi l'intera Bibbia, «Versa mihi est latiis Biblia tota modis» (24): la rivendicazione non è da prendersi alla lettera, anche se non si può escludere
che egli abbia tradotto ancora qualche altro testo, oltre a quelli di cui resta
testimonianza (pochi anni dopo la sua morte Giuseppe Morici affermava che
Pasquali «tradusse in versi latini gran parte della Bibbia» (25)). Quel che è
certo, comunque, è che volumi editi e perduti inediti documentano un lavoro
monumentale, soprattutto per quel che riguarda il Vecchio Testamento: a
conti fatti mancano all'appello solamente la Genesi, il Levitico, i Numeri, il
Giosuè, i libri dei Re [reg. III-IV). le Cronacbe [par.], Esdra, Neemia e i
Maccabei (parzialmente anche Esodo, Deuteronomio e Giudici). Del Nuovo
Testamento Pasquali tradusse solo l’Apocalisse (ma i Vangeli sono oggetto
del Messias; non risulta che affrontasse la traduzione delle Lettere e degli
Atti degli Apostoli) (26).
I giudizi che sono stati formulati, sulle traduzioni bibliche di Pasquali,
evidenziano la loro perfezione linguistica e stilistica ed insieme la solidità
religiosa e dottrinale (27). Quest'ultimo aspetto non è di secondaria
224
importanza, per i delicati problemi, dottrinali e dogmatici, che comportava il
tradurre la Sacra Scrittura. Questa attività era oggetto di una precisa
normativa ecclesiastica, a partire dal decreto De vulgata editione Bibliorum
et de modo interpretandi s. Scripturam con cui il Concilio di Trento aveva
ribadito l'autorità dell'edizione Vulgata (8 aprile 1546):
sacrosancta Synodus... statuit et declarat, ut haec ipsa vetus et vulgata editio, quae longo tot
saeculorum usu in ipsa Ecclesia probata est, in publicis lectionibus, disputationibus,
praedicationibus et expositionibus pro authentica habeatur, et quod nemo illam reicere
quovis praetextu audeat vel praesumat (28).
Le successive Regulae Tridentinae de libris prohibitis (24 marzo 1564)
stabilivano le condizioni prescritte per le traduzioni e le volgarizzazioni della
Sacra Scrittura:
librorum autem Veteris Testamenti versiones viris tantum doctis et piis iudicio episcopi
concedi poterunt, modo huiusmodi versionibus tamquam elucidationibus vulgatae editionis
ad intelligendam sacram Scripturam, non autem tamquam sano textu utantur.. (29).
l'orientamento Tridentino venne successivamente confermato dall'epistola
emanata da Pio VII il 3 settembre 1816 (in riferimento all'iniziativa
pluriconfessionale "Bibliis edendis" intrapresa nell'anno stesso a S. Pietroburgo) (30) e poi dall'enciclica Inter praecipuas machinationes emanata da
Gregorio XVI l'8 maggio 1844 (31). Ancora al decreto Tridentino faceva
riferimento il Concilio Vaticano I, negli anni in cui Pasquali andava
portando a termine le sue traduzioni bibliche (sessione del 24 aprile 1870):
quoniam vero, quae sancta Tridentina Synodus de interpretatione divinae Scripturae ad
coercenda petulantia ingenia salubriter decrevit, a quibusdam hominibus prave exponuntur,
Nos idem decretum renovantes hanc illius mentem esse declaramus, ut in rebus fidei et
morum ad aedificationem doctrinae christianae pertinentium is pro vero sensu sacrae
Scripturae habendus sit, quam tenuit et tenet sancta mater Ecclesia, cuius est iudicare de
vero sensu et interpretatione Scripturarum sanctarum; atque ideo nemini licere contra hunc
sensum aut etiam contra unanimem consensum Patrum ipsam Scripturam sacram
interpretari (32).
225
La normativa ecclesiastica prendeva di mira soprattutto le traduzioni
bibliche in lingue volgari, ma era senz'altro estendibile anche alle traduzioni
latine della Sacra Scrittura. Se ne contavano in realtà poche, in epoca
precedente a Pasquali, e significativamente per lo più in area riformata: la
più nota era quella data alle stampe nel 1696 da Jean Le Clerc (33), già
calvinista poi teologo arminiano, docente di ebraico ad Amsterdam dal 1684
ed eminente biblista; altre due sono di area anglicana, quella di John Burton
(34) e quella parziale di Francis Hodgson (35). Più numerose le traduzioni
latine di singoli libri, soprattutto dei libri poetici (in primis Giobbe e Salmi),
di cui si contano, anche in area italiana, numerose versioni; ma assai meno
numerose, comunque, delle traduzioni, anche poetiche, in lingue volgari: fra
il 1750 e il 1764 si contano in Italia cinque versioni poetiche del Giobbe;
nel sec. XIX i Salmi conoscono una cinquantina di traduzioni italiane.
La prima edizione di Cantici e Giobbe non contiene, sorprendentemente, né introduzione né note. Pasquali sembrerebbe aver inizialmente
affrontato la Sacra Scrittura senza preoccupazioni esegetiche di sorta, mosso
dal solo intento di rendere in versi la narrazione biblica. Più che dai pochi
ritocchi apportati, la seconda edizione (1846) sembra giustificata (a
prescindere dall'aggiunta dell'Apocalisse e dei tre Hymni) soprattutto dalle
note che Pasquali aggiunge al testo della traduzione (quasi tutte del
Giobbe), e dalla prefazione che introduce questa volta il testo. È probabile
che solo dopo la pubblicazione del 1841 Pasquali mettesse e fuoco i
problemi esegetici posti dalla traduzione del testo biblico (non si dimentichi
che, dopo gli anni seminariali, egli si era occupato prevalentemente di studi
giuridici, al di là degli interessi poetico-letterari e della sua attività di
versificatore). Questo ripensamento non fu comunque provocato da
difficoltà reali, di tipo censorio; le traduzioni pubblicate nel 1841 erano
peraltro regolarmente vistate con imprimatur dell'Inquisitore Generale e del
Censore Episcopale. È probabile, invece, che Pasquali sia stato sollecitato
da amici e corrispondenti ad approfondire i problemi esegetici posti dalla
traduzione. La revisione dell'opera, fra il 1843 e il 1845, è oggetto di una
fitta corrispondenza con il canonico anconitano Luigi Barili, a cui Pasquali
inviava il testo della traduzione e da cui riceveva osservazioni «specialmente
di quelle che riguardano l'intelligenza del testo» (36).
226
Nella prefazione all'edizione del 1846 (37) Pasquali sembra voler riparare al silenzio mantenuto nel 1841 affermando con forza la propria
incondizionata fedeltà alla Vulgata e all'interpretazione canonica della
Vulgata. Nei casi oscuri e controversi, in cui il testo della Vulgata risultava
oscuro o ambiguo, Pasquali avverte di aver mantenuto deliberatamente
oscurità e ambiguità:
mihi fixum imprimis fuit nullius interpretum opinioni inservire, unique textui, qui Vulgata
appellatur, quam arctissime inhaerere; ideoque quod ibi clarum ac liquidum esset, hoc
pariter dare ac liquide exprimere, quod ambiguum incertumque, id et incertum
ambiguumque relinquere (nisi in his locis, quibus adeo obscurus ac inextricabilis est sermo,
ut nullus sine interpretatione sit sensus).
Questa affermazione di aderenza all'interpretazione canonica era
rafforzata da alcune note polemiche nei confronti di coloro che traducendo
miravano insieme a dare un'interpretazione del testo della Sacra Scrittura:
nonne hoc enim quarumdam, etiam celeberrimarum, Versionum est vitium, quod passim
non sacrum textum, sed modo hunc modo illum interpretem vertant? Ac denique, non
Sacrae Scripturae, sed variorum ex variis interpretibus segminum, versiones sint? Poterit
sane poeta, cum aliquem Sacrae Scripturae locum suo poemati accomodat, hunc eo
insumere sensu, quem nonnullus interpretum huic attribuit; quod passim et sacri oratores
faciunt; at, cum versio agitur, tum archetypo penitus haerendum est, integra unicuique
interpretandi facultate relicta.
Da parte sua Pasquali avvertiva di essersi solo limitato ad una divisione del testo (in libri) diversa da quella dell'originale (in capitoli), per
risultare più aderente alla cifra stilistica latina adottata:
in id tantum hac a textu recedendi licentia usus sum, quod non in capita, velut in textu, sed
in libros utramque versionem divisi; nam haud dubium est latinos Poetas omnes poemata
sua in libros constantissime distribuere; ideoque, cum mea versio poetica sit, poetarum
moribus attemperari decuit: quod cum nullius detrimenti perturbationisque sit textui, illud
vere ab assidua ejus interruptione manans, praesertim in allocutionibus, fastidium eripit.
Contemporaneamente, però, Pasquali sottolineava anche che il suo
intento era soprattutto di tipo letterario, proponendosi egli di rendere il testo
biblico nella forma del latino classico, evitando la sciatteria tipica delle
traduzioni:
227
omni autem ope eam versionem elucubrare sum nisus, quae minime versio videretur: eam
etenim versionem omnibus numeris absolutam semper existimavi, quae archetypum vi ac
splendore sui quam simillimum repraesentans, ita tamen naturaliter ac prone fluat, ut nihil
versionem sapiat.
Quest'ultima affermazione definisce con precisione il programma
poetico e letterario di Pasquali, e trova riscontro in una lettera indirizzata
qualche anno dopo a Marino Marinelli, nella quale definisce come
«grossolano latino» quello geronimiano della Vulgata (38). Questo intento
letterario restò centrale in tutto l'arco del confronto di Pasquali con il testo
biblico. Quel che si può osservare, però, è che nel corso degli anni andò
crescendo la preoccupazione per i risvolti dottrinali ed esegetici del lavoro
di traduzione, e che questa evoluzione (o involuzione, se si preferisce), non
restò senza conseguenze anche sul piano della stessa traduzione.
L'interesse crescente per l'esegesi è ben evidenziato dal peso che
andarono assumendo, a partire dall'edizione del 1846, le note di commento.
Nella prefazione a questa edizione Pasquali avvertiva di aver aggiunto al
testo poche note, limitatamente ai luoghi in cui si era distaccato
dall'interpretazione corrente:
denique parce admodum notas addere mihi visum est, licet passim explicatione textus
indigeat; cum enim Sacra Scriptura ab Archiepiscopo Martinio italice reddita, ac notis
quam plurimis illustrata, in omnium pene manibus sit, tum solum notas versioni meae sum
arbitratus adjungere, cum haec aut a Martinii explicatione distaret, aut notione aliqua, ut
posset intelligi, opus esset.
L'edizione a cui Pasquali fa qui riferimento è quella dell'arcivescovo
Antonio Martini, con traduzione italiana e commento, più volte ristampata
dopo l'edizione fiorentina del 1769-1781 e d'uso corrente. Nelle note che
seguono il testo del Giobbe Pasquali cita effettivamente soprattutto il
Martini, allegando sovente anche il testo della Vulgata latina; in un paio di
occasioni cita anche il commento del gesuita olandese Tirinus (Jacobus Le
Thiry), pubblicato per la prima volta ad Anversa nel 1632 e anch'esso poi
ripetutamente ristampato. I commenti di Martini e del Tirinus erano
posseduti da Pasquali, il Martini nell'edizione fiorentina del 1782, il Tirinus
nell'edizione veneta del 1760; della Vulgata Pasquali possedeva l'edizione in
dieci tomi ad usum Collegii S. Congregationis De Propaganda Fide
228
pubblicata a Roma nel 1768 (39). Nelle poche note a piè di pagine sono
citati ancora (per il Giobbe) la cosiddetta "Bibbia di Vence", commento che
conobbe numerose edizioni e che raccoglieva note di E.V. Vence (16751749), ma anche di L. De Carrières (1662-1717), A. Calmet (1672-1757) ed
altri; e (per l'Apocalisse) il citato Calmet, autore di un commento pubblicato
a Parigi nel 1701-1716, e diffuso in Italia nella traduzione latina di J.D.
Mansi stampata a Lucca nel 1730-1738.
Nell'edizione del 1846 le note sono per lo più di tipo esegeticofilologico, e soprattutto sono note originali di Pasquali, pur prendendo egli
le mosse dai commenti canonici. Nei volumi successivi non sono più
rilevabili note di questo tipo; Pasquali propone senz'altro stralci dai
commenti canonici, senza inserire giudizi propri (pur appesantendosi
notevolmente l'apparato delle note, specie per l'edizione del 1856-1857). Nei
confronti dei problemi esegetici sembrerebbe decisamente prevalere, in
questi anni, un atteggiamento di cautela. Nell'edizione dei Profeti Pasquali
non ritiene necessaria neppure una prefazione: oltre alla dedica in versi (40),
egli propone quale proemio due lunghe citazioni, rispettivamente, di
Cornelio a Lapide e di Tirinus. Nel Fondo Pasquali non è rintracciabile il
commento di Cornelio (Cornelis Cornelissen van den Steen, 1567-1637,
gesuita, docente a Lovanio e poi a Roma): Pasquali utilizzava un esemplare
poi perduto, oppure (più probabilmente) si avvaleva di una delle due
edizioni possedute dalla Biblioteca del Seminario di Osimo (l'edizione
veneta del 1700 e quella stampata ad Anversa nel 1734). Le note al testo dei
Profeti sono quasi tutte trascritte da Cornelio, Tirinus e Martini.
Analoga situazione caratterizza la traduzione dei Salmi, introdotti da
una citazione di Tirinus, ed annotati con citazioni per lo più di Tirinus e di
Martini; qualche citazione isolata è dal commento ai Salmi di Roberto
Bellarmino (I ed. Roma 1611); qualche altra dalla traduzione italiana dei
Salmi pubblicata da Gian Bernardo De Rossi (Parma 1808), dall'edizione
delle Poesie Bibliche pubblicata a Milano nel 1823, citata dallo stesso
Pasquali, dalla parafrasi italiana dei libri poetici a cura di Saverio Mattei
(numerose edizioni, anche Macerata 1779), e da qualche altra. Il crescente
impegno esegetico è documentato anche dalle introduzioni che Pasquali
premise a ciascun salmo, nei quali discute (per lo più sulla scorta del
229
Calmet e del de Carrières) collocazione ed interpretazione dei vari
componimenti.
La traduzione, come accennavo sopra, risente del peso crescente
assegnato all'esegesi. Nella prima edizione di quella del Giobbe (e dei
Cantica e dell'Apocalisse) abbiamo a che fare con una parafrasi notevolmente libera del testo della Vulgata, in modo conseguente all'assunto
programmatico di fare una traduzione «quae minime versio videretur» (41).
In seguito, nel caso dei Profeti e dei Salmi, la traduzione appare nettamente
più aderente al testo di riferimento, pur nei margini costituiti dal passaggio
alla forma esametrica. Cercherò di documentare questo giudizio con qualche
esempio, che consentirà anche di verificare in modo più circostanziato le
caratteristiche della lingua e dello stile di Pasquali.
Fra i luoghi in cui è maggiore lo scarto fra la traduzione del 1841 e
quella del 1846, è di notevole interesse il caso di Job 3, 8. Giobbe, nella
serie delle maledizioni che rivolge al giorno in cui nacque, evoca coloro che
"risvegliano il Leviatano". Cfr. il testo della Vulgata:
Maledicant ei qui maledicunt diei,
qui parati sunc suscitare Leviathan,
e la traduzione di Martini:
La malediscano quelli che odiano il giorno, quei che ardiscono di svegliare il
Leviathan.
Questa la traduzione di Pasquali nella prima edizione, l. I, vv. 131-132
(42):
Te prece funerea et probris prosequantur iniquis,
qui solis radios lumenque odere diei.
Del tutto diversa la traduzione nella seconda edizione, 1. I, vv. 136137:
Injiciant maledicta tibi, qui probra diei
Injiciunt, manesque parant excire sepulchris.
230
Il Leviathan costituiva un problema esegetico, in quanto nella Bibbia
il nome (6 occorrenze) designa talora il coccodrillo, come a Job. 40, 20,
talora un animale acquatico immaginario, come in Is. 27, 1; in psalm. 74, 14
e 104, 26; e nel presente Job 3, 8. La Vulgata traduce Leviathan in Job e Is.,
draco altrove (la versione greca dei Settanta traduce δράκων in tutti i luoghi
tranne che nel presente Job 3, 8, dove rende μεγα κῆτος); Pasquali in
Giobbe 1. III, v. 474 (II ed.) mantiene Leviathan ma in corsivo e con rinvio
in nota a Martini, «la balena»; poi senz'altro Leviathan (significativamente)
in Is. p. II,vv. 689-690, draco in psalm. 73, 27, ceto in psalm. 103, 54. In
particolare nel luogo in esame l'esegesi è stata a lungo incerta: cfr. il
commento di Martini, «v'ha contrarietà grandissima tra gli interpreti. Il
Leviathan v'ha chi '1 crede la balena, chi un mostro marino, e chi finalmente
il coccodrillo». Da parte sua Martini riteneva trattarsi dei coccodrilli,
identificando negli Etiopi coloro che odiano il sole (notizia che egli trovava
in Plinio, nat. 5, 45 e altrove) e che cacciano i coccodrilli (per quest'ultimo
aspetto tiene conto di Erodoto, 2, 69, 3): «que' popoli feroci che non
temevano il coccodrillo, e ardivano di lanciare quotidiane maledizioni
contro del sole».
La traduzione di Pasquali pubblicata nel 1841 sembra ignorare il
problema esegetico, lo sorvola; traduce solamente, amplificandolo, il
maledicant con il probris... iniquis, che riproduce una clausula virgiliana
corrente (cfr. per es. fatis... iniquis ad Aen. 2, 257 ecc., silvis... iniquis a II,
531 ecc.). È una traduzione, questa del 1841, decisamente "libera", che non
rifugge da omissioni anche consistenti: poco prima il versetto 3,6, noctem
illam tenebrosus turbo possideat; non compute-tur in diebus anni, nec
numeretur in mensibus (Vulgata), non è affatto tradotto. Quest'ultima
omissione era segnalata a Pasquali dal Barili, in una lettera del 1844 che
interessa anche il passo in esame (43). Pasquali aveva inviato una prima
versione della revisione di 3, 8, che risulta in parte dalla risposta di Barili"
(44):
Prima di tutto quanto al "Leviathan" del v. 8, Ella segua pure l'interpretazione del
Deani, che ho trovata seguita pure da altri, e che si può benissimo difendere non solo con
quanto Ella dice, ma anche coll'osservare essere sentimento di alcuni interpreti, che questa
parola "Leviathan" (qualunque sia il suo originario e stretto significato) valeva spesso
presso gli Ebrei anche pel significato di mostro, spettro ecc. Ella dunque ponga pure il
231
verso "Exanimosque cavis audent excire sepulchris". Solo penserei che sarrebbe bene porre
a piè di pagina una nota, in cui in brevi parole si rendesse ragione di questa versione che
sembra a prima vista che non sia ad litteram. Abbracciata questa interpretazione, mi pare
convenga cambiare nel v. 135 quel "Prece funerea": questi canti lugubri, queste funeste
preci o imprecazioni i stregoni le riservano anche in quelle notti che per essi e per le loro
stregonerie sono propizie; ma non in quella notte, alla quale dovevan maledire, perché
nemmeno ad essi propizia. Ma forse questa è una mia sofisticheria, perché io prendo in
troppo stretto senso quel "prece funerea"; ma mi pare, che l'idea di cadaveri e di sepolcri
faccia subito correr la mente a questo stretto senso. Mi pare poi, che in questo seguito di
versi non siansi sufficientemente tradotte alcune parti del testo, come "Non requirat cum
Deus desuper", quanto al giorno, e quanto alla notte i due versetti 6 e 7.
Nella nuova redazione i vv. 131-1321 (= I ed.) erano diventati evidentemente vv. 135-136; il 135, prece funerea, sembra identico al 1311; il
136, invece, era: exanimosque cavis audent excire sepulchris. Il problema
che Pasquali si era posto, e che aveva posto al Barili, era la resa di
"Leviathan", semplicemente evitata nel 1430. Barili conferma l'orientamento espresso da Pasquali, per cui "risvegliare Leviathan" avrebbe il
senso di risvegliare gli spiriti dei defunti; è interpretazione corrente,
riportata per es. nella "Bibbia di Vence": «chi per Leviathan intende
simbolicamente il demonio, è d'avviso che suscitare Leviathan sia l'invocare
con arti magiche lo spirito maligno, e il proporsi di chiamare a sé a forza di
incantesimi le anime dei trapassati» (45). La nuova traduzione di Pasquali,
approvata dal Barili, presupponeva questa interpretazione ed era coniata
probabilmente a partire dal virgiliano ecl. 8, 98, saepe animas imis excire
sepulchris (a proposito del mago Meri). Nella versione definitiva, pubblicata
nel 1846, Pasquali tenne conto delle critiche di Barili, inserendo la
traduzione di 3, 7 (vv. 133-134: te ferus obtineat turbo; quotiensque
recurrent / te numquam menses, numquam te computet annus), scartò il
prece funerea rifacendo completamente il v. 1311 / 135 che diviene ora 1362
(= II ed.), ma modificò anche il v. 136 ora 1372 pur mantenendo la giuntura
excire sepulchris: la scelta manes in luogo di examinos è effettivamente più
adeguata all'interpretazione di "Leviathan" presupposta, in quanto examinus
/ examinis è proprio dei cadaveri più che delle ombre (cfr. esemplarmente
Verg. georg. 1, 243, Styx atra... manesque profundi); la sistemazione
definitiva, inoltre, consente a Pasquali di ottenere l'anafora injiciant /
232
injiciunt, assai aderente al testo della Vulgata maledicant / maledicunt,
evocata peraltro anche dal maledicta di v. 1362 (forse suggerito, per
l'accostamento con i probra, da Cic. Flacc. 48, veterem amicum... meum...
probris omnibus maledictisque vexat).
E’ da aggiungere che nell'edizione del 1846 Pasquali corredò il testo
con una lunga nota (46), nella quale contestava l'interpretazione di Martini,
adottando invece quella per cui «vocem Leviathan saepe apud Hebraeos
significare larvam ac monstrum», ed osservando: «quod cum ita sit, nullius
est certe tam proprium diei maledicere, quam strigonum atque sagarum,
quibus incantationes suas, nocturno fere tempore fieri suetas, jam
perficientibus dies illuxerit».
Quello esaminato è uno dei casi in cui l'edizione del 1846 è maggiormente rielaborata; e lo è, significativamente, in corrispondenza di un
problema esegetico. In linea generale la revisione del 1846 non sembra
esser stata sistematica, lasciando immutati ampi stralci di traduzione.
L'esame del brano immediatamente successivo a quello citato sopra
consente di evidenziare la libertà di parafrasi delle traduzioni pasqualiane di
quest'epoca, che costituiscono in realtà rifacimenti, più che vere e proprie
traduzioni. Cfr. Giobbe 1. I, vv. 138-1512 (= vv. 137-1501):
Numquam lunas tuas, aut sidera, luce tenebras
Irrumpant: alta penitus caligine septus
Nigrescat sine fine polus; frustraque morantem
Increpites ortum numquam venientis Eoi:
Quae mihi nitentis non ostia clauserit alvei,
Aut nece perculeris subita, de matre cadentem,
Tantaque luminibus deduxeris horrida nostris.
Cur pater exceptum genibus blanditus amore est?
Cur demulsa meis haeserunt ubera labris?
Sane, ut abortus, ut ante diem praereptus in alvo,
Mortalis numquam tetigissem limina vitae:
Aut cum principibus, magna qui mole superbos
Aedificant tumulos, opibusque implentur et auro,
Dormirem placido compostus lumina somno.
Corrisponde a Vulgata 3, 9-16:
233
140
145
150
[9] Obtenebrentur stellae caligine eius; expectet lucem, et non videat, nec ortum
surgentis aurorae. [10] Quia non conclusit ostia ventris qui portavit me, nec abstulit mala ab
oculis meis. [11] Quare non in vulva mortuus sum, egressus ex utero non statim perii? [12]
Quare exceptus genibus? Cur lactatus uberibus? [13] Nunc enim dormiens silerem, et
somno meo requiescerem [14] cum regibus et consulibus terrae, qui aedificant sibi
solitudines, [15] aut cum principibus, qui possident aurum, et replent domos suas argento.
[16] Aut sicut abortivum absconditum non subsisterem, vel qui concepti non viderunt
lucem.
3, 9 è decisamente amplificato, cfr. i vv. 138-141, probabilmente per
le risonanze che il tema astronomico aveva nell'epica e nella poesia
didascalica. Pasquali conserva l'ordine tricolico (A-B-C) del testo della
Vulgata, ma modifica l'ordine originario, A-B-C diventa B-A-C, pur
mantenendo i sidera al primo elemento (B), in corrispondenza delle stellae
della Vulgata (A). 'B' resta caratterizzato dalla lux negata al giorno natale di
Giobbe, lux che Pasquali specifica essere quella della luna e degli astri;
nella resa di 'A' Pasquali sostituisce le stellae con il poetico polus, cfr per
es. Verg. Aen. 2, 250-251, nox / involvens umbra magna terramque
polumque, e mantenendo caligo probabilmente in considerazione di Aen.
11, 187, conditur in tenebras altum caligine caelum; per il nigrescat cfr.
anche Aen. 11, 824, tenebris nigrescunt omnia circum; per 'C’ Pasquali
sostituisce venientis Eoi al prosaico surgentis aurorae, e tiene forse presente
il virgiliano georg. 4, 138, aestatem increpitans [scil. Coricius] seram
zephirosque morantis.
I vv. 142-144 sintetizzano 3, 10-11, con inserzione della parafrasi di
11 nel verso centrale. Al v. 142 in luogo di alvei (che rende il ventris della
Vulgata), ci si aspetterebbe ovviamente alvi: alveus è utilizzato nel
significato di alvus solo nella tarda antichità, cfr. per es. Tert. apol. 9; Gal.
alfab. 104 e qualche altro. Pasquali fu qui probabilmente suggestionato dal
commento virgiliano di Servio, che nello scolio a Aen. 6, 412-413, simul
accipit alveo / ingentem Aeneam (la cumba di Caronte), legge alvo pro alveo
spiega: per synaeresin "alvo" facit (ad Aen. 6, 412); del tutto analogo il caso
di georg. 2, 453, vitiosae... ilicis alvo (il tronco cavo in cui le api
nascondono gli sciami), dove la lezione avvalorata da Servio (cfr. lo scolio
relativo: pro "alveo" per synaeresin "alvo" dicimus) è prevalente nella
tradizione manoscritta e per lo più accolta dagli editori (47). Dall'uso
234
virgiliano confermatogli da Servio, Pasquali sembrerebbe aver dedotto la
liceità di alvei pro alvi, e lo avrebbe utilizzato qui per convenienza metrica
(poco oltre, al v. 147, egli usa, regolarmente, alvo). Non si può peraltro
escludere che nell'uso di alvei pro alvi Pasquali fosse influenzato anche da
tradizioni del tipo di quella di Varro rust. 3, 16, 8, extra ostium alvei (cfr.
Pasquali: ostia clauserit alvei), dove gli editori correggono però alvi pro
alvei.
Per il perculeris di v. 143 cfr. Ter. Eun. 379, perculeris iam tu me;
l'oculis meis è reso con l'usuale poetico luminibus nostris. Nella resa di 3,
12 ai vv. 145-146, dove è mantenuta la doppia interrogazione, Pasquali
tiene probabilmente conto del commento di Martini, che traduce «perché fui
accolto sulle ginocchia?» ed annota: «della levatrice, ovvero del padre, o
dell'avo». Segue un'intervento di una certa portata sulla struttura testuale: 3,
16, per omogeneità di tema con 3, 10-12 rispetto a 3, 13-15, è parafrasato da
Pasquali prima di 3, 13-15: mantiene il tecnico abortus, ma evita la
ripetizione del non viderunt lucem (immagini analoghe a 3, 9-10) con il
tetigissem limina vitae (per cui cfr. i virgiliani georg. 4, 358-359, fas illi
[scil. Aristaeo] limina divom / tangere, ed Aen. 6, 427-429, infantum...
animae flentes in limine primo, / quos dulcis vitae exsortis et ab ubere
raptos / abstulit atra dies).
I vv. 149-151 sintetizzano 3, 13-15 con riferimento ai principes di 3,
14 anche dell'azione dei reges e dei consules di 3, 13, ed interpretazione
delle solitudines di 3, 13 come tumuli. Diversamente Martini: «monumenti
o depositi eretti dai grandi principi nella campagna, e in luoghi disabitati,
non tanto per esservi sepolti, quanto per eternare la loro memoria». Pasquali
non concordava, però, con quanti interpretavano come riferimento ai
sepolcri il successivo 3, 15, replent domos suas argento (concordando
quindi con la traduzione di Martini: «empievan le case loro di argento»). Gli
replicò Barili: «a me piace più l'interpretazione di altri, che come nel
versetto precedente così anche in questo dicono parlarsi dei monumenti
sepolcrali, ne' quali riponevano tesori, o almeno ricchi ornamenti e arredi
d'oro e d'argento» (48). Nell'edizione Pasquali risolse salomonicamente:
preso atto dell'ambiguità del testo della Vulgata, afferma di aver tradotto
mantenendo l'ambiguità, «iis etenim, qui de rebus in sepulchro positis
235
sermonem hic esse arbitrantur, recte subaudiri potest particula ibi (idest in
tumulis)» (49).
Dei Profeti esamino un passo del liber Ieremiae. Nella profezia di 14,
2-6 è descritta la Giudea colpita dalla siccità e desolata. Cfr. il testo della
Vulgata:
[2] Luxit Iudaea, et portae ejus corruerunt, et obscuratae sunt in terra, et clamor
Jerusalem ascendit. [3] Majores miserunt minores suos ad aquam.: venerunt ad
hauriendum, et non invenerunt aquam, reportaverunt vasa sua vacua. Confusi sunt et
afflicti et operuerunt capita sua. [4] Propter terrae vastitatem, quia non venit pluvia
in terram, confusi sunt agricolae, operuerunt capita sua. [5] Nam et cerva in agro
peperit, et reliquit: quia non herba. [6] Et onagri steterunt in rupibus, traxerunt
ventum quasi dracones; defecerunt oculi eorum, quia non erat herba,
e la traduzione corrispondente di Pasquali in p. II, vv. 1-15:
Obsita Judaea est luctu: de cardine lapsae
1
Corruerunt portae, atque solo nigruere jacentes.
Tollit Jerusalem querulas ad sidera voces;
Undas quippe haustum proceres misere minores
Nequidquam: attoniti rediere, et inania vasa
5
Portantes; ideoque caput texere dolentes;
Nullibi nani latices licuit reperire petitos.
Moerent agricolae, squalentia rura videntes
Arvaque adusta siti; nullus nam suppetit humor:
Obnubunt caput. Peperit, foetusque reliquit
10
Cerva suos, nullam inveniens, quam pasceret, herbam,
Mutavit sedes. Onagri stant rupibus altis
Aera captantes, non secius atque dracones;
Caligantque oculis; nullis nam pascua terris
Apparent, nullumque viret late undique gramen.
15
Al v. 1 la variazione obsita luctu pro luxit (luget nella recente NeoVulgata (50)) risente forse dell'ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese,
maesto ac luctu obsitu Agamemnon (2, 9). Il successivo de cardine lapsae /
corruerunt portae atque solo nigruere jacentes (vv. 1-2) ricalca la
traduzione della Vulgata di 14, 2, a prescindere dalla variazione solo
nigruere, poetismo pro obscuratae sunt in terra. Si tratta di un luogo
problematico già della versione greca dei Settanta (αἱ πύλαι αυτῆς
236
ἐκενώθησαν καὶ ἐσκοτώθησαν ἐπὶ τῆς γῆς), modificato nelle versioni
successive della Vulgata: portae eius languescunt, et contristatae iacent in
terra. Pasquali, oltre a ricalcare la Vulgata della sua epoca (coincidente
peraltro con la traduzione di Girolamo), cita in nota i commenti di Cornelio
a Lapide e di Tirinus (51).
Il v. 3 rende il clamor Jerusalem ascendit di Vulg. 14, 2 in tono
bucolico, cfr. Virgilio ecl. 5, 62-63, ipsi laetitia voces ad sidera iactant /
intonsi montes, e lo pseudo-virgiliano Culex 151, querulas referunt voces.
Ai vv. 4-7 Pasquali risolve la paratassi di Vulg. 14, 3, miserunt... venerunt...
non invenerunt, fondendo i primi due cola (poetismo usuale unda pro
acqua; proceres pro maiores è scelta di variatio per evitare l'accostamento
maiores / minores), e risolvendo il terzo con il ne-quidquam (v. 5). Dell'uso
poetico è inanis pro vacuus; di uso volgare è confusus nel significato
presupposto da Vulg. 14, 3 e 14, 4 (nel latino classico il significato
principale è quello di "mescolato"): Pasquali evita la ripetizione, e rende nel
primo caso con attonitus (v. 5) e nel secondo con moerere (v. 8); di uso
volgare è anche reporto pro porto, restaurato da Pasquali (v. 6), e operire
capita, reso virgilianamente con tegere (v. 6); di seguito evita ancora la
ripetizione e rende: obnubunt caput (v. 10).
Rilevante l'uso di nullibi (v. 7), che Pasquali recuperò con ogni probabilità dal Lexicon di Forcellini (52) (di consultazione corrente nel suo
lavoro di traduzione (53)): si tratterrebbe di un hapax, dal significato di
"μηδαμοῦ", "in niun luogo", testimoniato da Vitruvio a 7, 1, si tesseris
structum erit, ut eae omnes angulos habeant aequales, nullibique a fricatura
exstantes, ma lo stesso Forcellini avverte che non riportano il luogo le prime
edizioni a stampa ed i codici migliori; e in effetti si tratta di una versione
interpolata di 7, 1, 4, che ha:... si tesseris structum erit, ut eae omnes
angulos habeant aequales; cum enim anguli non fuerint omnes aequaliter
pleni, non erit exacta, ut oportet, fricatura (54). La ripresa del termine è
indicativa dell'interesse lessicale di Pasquali, molto attento all'arricchimento
del suo vocabolario poetico. L'immagine di Vulg. 14, 4, quia non venit
pluvia in terram, è ampliata da Pasquali in una serie di notazioni che
rimarcano l'assenza di acqua nel terreno conseguente alla siccità: cfr. latex
(v. 7), sitis (v. 9), humor (v. 9), con probabili suggestioni virgiliane: squalenti
237
abductis arva colonis di georg. 1, 507 per gli squalentia rura di v. 8; hiulca
siti findit canis aestifer arva di georg. 2, 353 per gli arva... adusta siti di v.
9; inutilis umor di georg. 1, 88 per il nullus... suppedit humor di v. 9 (per il
suppedit cfr. la gnome oraziana di epist. 1, 12, 4, pauper... non est, cui rerum
suppetit usus). I vv. 10-13 sono più aderenti al testo della Vulgata: fitta la
rete delle riprese lessicali da 14, 5-6 (peperit, reliquit, cerva, herbam, onagri
stant rupibus (55), dracones (56); nei vv. precedenti ripresa di haustum
dall'hauriendum di Vulg. 14, 3 (57), minores, vasa). Il caligant... oculis di v.
14 (detto dei dracones, per il defecerunt oculi di Vulg. 14, 6) tiene conto
evidentemente del commento di Cornelio a Lapide, «oculi eorum prae
inedia debilitati deficiunt et caligant», citato in nota da Pasquali (58). Segue
un'altra amplificazione, per cui il quia non erat herba di Vulg. 14, 6 è
sviluppato nelle due immagini in asindeto dei vv. 14-15, nullis nam pascua
terris / apparent, nullumque viret late undique gramen, probabilmente
suggestionato da Virgilio georg. 1, 55-56, virescunt / gramina, e 2, 200, non
liquidi gregibus fontes, non gramina derunt. È sorprendente il fatto che la
versione di Pasquali risulti così più vicina alla versione greca dei Settanta, che
ha: ὅτι οὐκ ἦν χόρτος ἀπὸ λαοῦ ἀδικίας; Girolamo, ripreso dalla Vulgata, è
sommario e rende χόρτος con herba, termine con cui poco sopra era tradotto
il gr. βοτανή. Pascua e gramen di Pasquali sono più vicini alla versione
greca, ed anche il nullis terris potrebbe tener conto dell'ἀπὸ λαοῦ ἀδικίας non
tradotto da Girolamo. Pasquali potrebbe in realtà aver tenuto conto della
versione dei Settanta, consultata direttamente o (più probabilmente)
indirettamente, anche se di norma egli sembra utilizzare solamente il testo
della Vulgata (59) (oltre ovviamente ai commenti).
Del Liber Psalmorum circolavano svariate traduzioni poetiche, in
lingue diverse. Anche questa considerazione spiega la breve excusatio in
distici che introduce il volumetto (60), nella quale Pasquali ammette
l'inadeguatezza che presentava l'esametro per un'opera dalla forte valenza
lirica:
Carminibus latiis Iessaei carmina vatis
Verti; non autem, quies meruere, modis.
Non utique hexametris, lyricis sed versibus uti
Debueram, lyricum cum meditarer opus.
238
Ma Pasquali non se la sentiva evidentemente di abbandonare
l'esametro, e giustifica quindi in qualche modo la sua scelta: «At minus
hexameter constrictus compede, sensus / Reddere flexilior splendidiorque
venit». L'esito in realtà non risulta del tutto soddisfacente, per la
giustapposizione che è rilevabile fra il formulare epico di derivazione
virgiliana, a cui Pasquali ricorre come di consueto, e il lessico d'uso
cristiano che Pasquali deve in parte riprendere dalla stessa Vulgata.
L'impressione è ancora quella di una non completa risoluzione fra la
riscrittura poetica e l'esigenza di rendere il messaggio religioso del testo.
Può servire da esempio, in questo senso, l'invocazione di psalm. 75, 1-3.
Cfr. il testo della Vulgata (61):
[1] Confitebimur tibi, Deus; confitebimur, et invocabimus nomen tuum. [2]
Narrabimus mirabilia tua: cum accepero tempus, ego justitiam judicabo. [3]
Liquefacta est terra, et omnes qui habitant in ea: ego confirmavi columnas ejus,
corrispondente a Salmi 74, 1-7 di Pasquali:
Promeritas, Deus alme, tuas ad sidera laudes
Carmine tollemus: laudes tollemus ad astra;
Atque tuum nomen, mirandaque facta canemus.
Venerit ut tempus, tum rite merentibus aequum
Judicium reddam: tellus tum mota liquescet;
Quasque ego firmavi, stabilique in sede revinxi,
Dissilient, fractaque ruent compage columnae.
1
5
L'invocazione di Vulg. 75, 1 è resa nei termini dell'invocazione degli
dei nella tradizione epica: cfr. per es. in Virgilio alma Ceres a georg. 1, 7,
alma Venus a Aen.10, 332 ecc.; per i vv. 1-2 è rilevante il precedente
virgiliano di ecl. 5, 51-52, Daphnimque tuum tollemus ad astra./ Daphnim
ad astra feremus, in analoga ripetizione (anche se Pasquali varia sidera pro
astra e non feremus pro tollemus). Al v. 5 liquescet recupera l'uso
soprattutto ovidiano, cfr. Ibis 421 (della fortuna in metafora per l'orma sulla
sabbia bagnata), Pont. 1, 1, 67-68 (della mens, ancora in metafora per la
neve), met. 7, 550 (dei cadaveri in putrefazione), ma cfr. anche Prudenzio,
cath. 6, 146, hic Christus est, liquiesce [scil. diabule].
239
Non è tradotto, di Vulg. 75, 3, l'omnes qui habitant in ea, ma è
ampliata la successiva immagine delle columnae. E' da notare che per questa
immagine la traduzione è in parte aderente all'interpretazione del passo
fornita da Martini, cfr. la nota di quest'ultimo: «io fui che diedi stabile
sussistenza alla terra, e per conseguenza posso e scuoterla e cangiarla
secondo il mio volere. Ma riferendo sempre a Cristo questo versetto può
anche intendersi a tal guisa: La terra con tutti i suoi abitatori era all'ultima
distruzione, desolata, e guasta, e corrotta dall'empietà e dai perversi costumi.
Io venni a soccorrere la terra, e a riparare le sue rovine, e colla predicazione
del Vangelo, e colla interiore mia grazia la ristorai, e le diedi ferma
consistenza e così salde colonne da durare fino alla consumazione dei
secoli. Questa posizione ottimamente conviene anch'essa a tutto quello che
precede e che segue». La traduzione di Martini è conseguente a questa
interpretazione: traduce con la relativa, «io fui che ecc.», che è
puntualmente ripresa da Pasquali, quas... ego... (v. 6). Più specificamente:
per il fracta... compage (v. 7) cfr. Claudiano, rapt. Pros. 3, 184, fracta...
iugi compage Vesevi; possibili suggestioni di Virgilio, Aen. 3, 414. 416,
haec loca vi quondam et vasta convolsa ruina /... / dissiluisse ferunt, e
soprattutto di Ammiano Marcellino 23, 4, 4, compagem, ne dissiliat,
continentes [scil. funes].
Nel complesso le parafrasi bibliche di Pasquali si propongono come
un'impresa di notevole rilievo, non certo inferiore a precedenti versioni
latine della Sacra Scrittura e senza confronti nella sua epoca (e
successivamente). Ma è l'intera produzione di Pasquali ad esser rimasta
ingiustamente nell'ombra (62), sia perché le sue composizioni rimasero in
larga parte inedite, sia per l'aver egli lasciato soprattutto traduzioni, genere
poco studiato ma in realtà di estremo interesse nell'ambito della letteratura
neolatina (63). E’ vero, d'altra parte, che Pasquali fu semisconosciuto anche
alla sua epoca, per la stessa collocazione politico-culturale che lo
caratterizza, in un ambito seminarial-clericale fortemente eroso dalla caduta
dello Stato Pontificio. Nell'ambito stesso delle traduzioni bibliche Pasquali è
estraneo al gusto letterario di impronta romantica che pure è ancora vivo
negli anni '60 e che avrebbe potuto apprezzare un lavoro di questo tipo; in
questi anni circolano ancora, come ho accennato sopra, traduzioni poetiche
240
di testi quale il Giobbe o i Salmi (più innovativa ed impegnativa, rispetto a
questa tradizione, era certo la scelta di tradurre in versi i libri profetici). Ma
non è questo il pubblico a cui Pasquali si rivolgeva, come emerge
chiaramente in una lettera del 1852 in cui egli lamenta il disinteresse del
clero per le sue traduzioni: che le riterrebbe «affatto inutili perché latine,
essendo che in latino vi sono le interpretazioni di SS. Padri e
Commentatori» (64). Il pubblico a cui si rivolgeva Pasquali sono
evidentemente i parroci, i funzionari Pontifici, i seminari; il fatto che egli
lamenti che presso questo pubblico «le lettere latine hanno pochi amatori»
(65), è indicativo della crisi culturale in corso, anche prima del collasso dello
Stato. Pasquali, del resto, era destinato a restare, anche dopo il 1859-1860 e
il 1870, un nostalgico del vecchio regime.
Per un giudizio più preciso sui caratteri della sua opera di traduzione,
è utile ricordare alcune osservazioni sparse di Pasquali che rivelano una
consapevolezza sorprendentemente lucida sui problemi posti dalla
traduzione: «primo e sostanziale pregio d'una versione si è che produca
nell'animo del lettore quel medesimo effetto che vi produce l'originale, con
non minore forza, eleganza e fluidità di verso. Ciò si ottiene quando la
versione non sembra versione, quantunque renda l'originale» (66); «il
traduttore deve ritrarre i modi originali e non badare ad altro. Altrimenti la
lingua sarebbe imperfetta e non capace di esprimere tutti i sentimenti»'' (67).
E sarà da ricordare, a questo proposito, anche la "prolusio" in versi che
precede la traduzione dell'Iliade, dove Pasquali affronta ancora il problema
della traduzione:
qui callet utrasque
Linguas, ex qua vertit, et in quam vertit, oportet,
Ajunt, egregie vertat. Non hercule: multum
Nam distant, linguam callere et vertere recte.
Ut vertas, potius quam docta scientia linguae,
Indolis efficiet paritas, qua scriptor uterque
Conveniant; qua scriptoris velut insita mente
Iam fuerant primi, sic ne trasmittat imago
In mentem alterius; cujus dehinc prodita verbis,
Ipsa eadem maneat; nec roboris atque leporis
Amittat quidquam, sed utrumque simillima servet;
241
Pasquali prosegue paragonando il traduttore al pittore, che bada non
alla riproduzione dei particolari ma alla figura nel suo complesso, e
conclude riproponendo la sentenza già formulata nella prefazione del 1846:
«Haud tamen interpres, verum ipse videtur auctor: / Versa leges equidem,
sed quae non versa videntur» (68).
Le traduzioni pasqualiane della Vulgata sono coerenti con queste dichiarazioni programmatiche: Pasquali traduce riscrivendo completamente il
testo geronimiano, ed adotta in modo piuttosto rigido il modello linguistico e
stilistico offertogli dagli autori dell'età aurea, in primis di Virgilio. Questa
forte impronta virgiliana è immediatamente riconoscibile nel verso
pasqualiano (69); da questa constatazione partiva il teologo G. O.
Marzuttini, recensendo il volume del 1846, per accostare Pasquali ai
padovani Furlanetto e Trivellato, fautori di un latino classico in opposizione
al meno rigoroso orientamento dei postromantici (70).
Va però rilevata, anche a partire dai casi esaminati, la costante ricerca
di variatio rilevabile nel verso pasqualiano. Anche nei confronti del modello
virgiliano egli tende generalmente ad evitare la ripresa di giunture e moduli
espressivi: a partire da una selezione di tipo lessicale e sintattico Pasquali
persegue accostamenti inediti, mediante ricombinazione di lemmi e strutture
metriche ed espressive virgiliane (ma non solo virgiliane). La ricerca di
Pasquali è nella definizione di una cifra linguistica e poetica (e sarà
superfluo rilevare la sua totale estraneità ad una poesia di tipo allusivo);
l'intento quello di mettere operativamente a punto un linguaggio poetico
adeguato.
Nell'ambito di questa ricerca un ruolo rilevante assume la ricerca
lessicale, che tende a proporsi quale condizione della variazione e quindi
dell'espressività della lingua. L'esempio più clamoroso, nei luoghi esaminati,
è certamente quello di nullibi, accolto verosimilmente da Pasquali su
garanzia dell'"aureo" Vitruvio (anche se il termine, come abbiamo visto,
non è in realtà attestato nell'uso latino). Ma anche altri esempi rivelano
questa ricerca di Pasquali, volta ad arricchire un vocabolario (quello
seminariale d'uso corrente degli scrittori neolatini) che doveva apparirgli
limitato ed asfittico.
242
Rispetto a questo progetto linguistico e poetico di Pasquali, le parafrasi bibliche più riuscite sono probabilmente le prime, quelle pubblicate
nel 1841 e 1846. In seguito, come abbiamo visto, si fanno più forti le
preoccupazioni esegetiche e dottrinali; l'impressione è che l'interesse
esegetico e dogmatico entri in qualche modo in conflitto con il programma
poetico-letterario. Le parafrasi sembrano comunque risentirne: si fanno più
aderenti al testo della Vulgata; diventa frequente il ricorso ad espressioni
formulari; la trasposizione in esametri risulta spesso meccanica. Questo
giudizio vale soprattutto per la traduzione dei Salmi, che è da giudicare
probabilmente la meno riuscita fra le parafrasi bibliche di Pasquali; o
almeno quella in cui più forte appare lo iato con la tradizione poetica, che
peraltro si era maggiormente confrontata in passato, fra i testi biblici,
proprio con libro dei Salmi. È significativo il giudizio assai severo che
Pasquali ricevette per quest'opera (diversamente da quello sul di poco
successivo Messias) da Michelangelo Lanci (1779-1867), letterato e
orientalista di un certo rilievo. È il destinatario dei Carmi XXX e XXXI,
con cui Pasquali lo ringraziò per l'invio dei Davidica italice carmina versa
(un brano di Lanci è utilizzato da Pasquali come post-introduzione di psalm.
135 (71)); qualche volume del Lanci è tuttora nel Fondo Pasquali Marinelli
della Biblioteca Comunale di Camerano (72). Il giudizio di questo studioso
doveva peraltro apparire rilevante, agli occhi di Pasquali, anche per la
conoscenza che il Lanci aveva dell'ebraico.
Dopo aver letto il volume contenente i Salmi, alla fine del 1864 (73),
Lanci giudicò la traduzione pasqualiana «al di sotto d'assai di molte altre che
godono alta reputazione», e citava fra queste quella cinquecentesca dello
scozzese George Buchanan (versificatore latino di notevole pregio (74), oltre
che traduttore e saggista) più volte ristampata, e quella in francese di A.
Guerrier de Dumost, stampata a Nancy nel 1858-1859. Oltre a criticare la
scelta generalizzata dell'esametro, che «nullamente si presta alla lirica
bisogna», Lanci contesta soprattutto il conformismo di Pasquali: «voi
abbandonate le recenti scoperte filologiche per seguitare la claustral broda
che imbratta i bavagli. Che andate citando i Tirini, i Martini, i Calmet, i
Carrieres, interpreti scorretti della età vecchia, quando il vigente secolo e in
Germania e in Francia e in Inghilterra e sì nella nostra Italia ne ha prodotto
243
degli ottimi e degni d'essere conseguitati?... Se le vecchie traslazioni ciò
misero fuori, compresa quella del Volgata, ci corre d'obbligo di
rammendarle; né seguir si debbono con vergogna». La critica di Lanci non
era infondata, come abbiamo visto, ma prospettava un tipo di apertura che
era del tutto estraneo a Pasquali, culturalmente e politicamente. E non
dovette peraltro risultare molto gradito a Pasquali l'accostamento fra la sua
traduzione e quella di un eretico e riformato quale il Buchanan.
244
Note
1)
Come evidenzia la bibliografia pubblicata annualmente in Humanistica
Lovaniensia.
2)
Sul quale cfr. almeno A. TRAINA, Saggio sul latino del Pascoli, Firenze 19712.
3)
Del quale sono stati riproposti recentemente il poema più noto e due raccolte
di versi, cfr D.VITRIOLI, Xiphias. Epigrammata. Elegiae, a c. di A. Zumbo, Reggio
Calabria 1998.
4)
Fra i lavori più recenti cfr. M. SKAFTE JENSEN, A History of Nordic Neo-Latin
Literature, Odense 1995.
5)
La biografia di Pasquali Marinelli è stata ricostruita da M. MORRONI, Giuseppe
Pasquali Marinelli. Le età di un poeta. Biographia literaria, Ancona 1993, a cui rinvierò di
seguito anche per numerosi dati e documenti che interessano il presente lavoro (in
particolare per l'epistolario e per i carmi inediti, citt. secondo la numerazione indicata da
Morroni a pp. 149-58 e 164-68, da vedere anche per l'indicazione dei fondi archivistici e
bibliotecari che conservano lettere ed opere inedite).
6)
Poemetto in 6 libri, per complessivi 3957 versi corredati da note, da non confondersi con la citata traduzione del poema di Klopstock, che è andata smarrita.
7)
Cfr. G. PASQUALI MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum, a c. di M. MORRONI, M. COLTRINARI e L. EGIDI, Loreto 1991.
8)
Un poemetto su Santa Teodora e, quale «pubblico esperimento», la resa in «elegantissimi esametri» di un corso giuridico (cfr. MORRONI, 9).
9)
Job et Moysis Cantica a J. Paschalio Marinellio versibus exposita, Anconae
Typis Petri Aurelii; dati bibliografici analitici in MORRONI, 25-26. La traduzione del
Giobbe era stata inviata preventivamente in esame allo zio don Marino Marinelli, come si
evince dal carme inedito CXI dedicato allo stesso Marinelli, Ad Eundem. De Job versione:
cfr. MORRONI, 25.
10)
Job Apocalypsis Moysis Cantica a Josepho Paschalio Marinellio versibus expressa,
Anconae per Sartorium Cherubinium; dati bibliografici analitici in MORRONI, 26.
11)
Reca in apertura una dedica in distici a Gaetano Baluffi, arcivescovo di Imola,
contenente anche un'excusatio per l'uso del metro eroico: «Verba Dei magni, sanctorum
oracula Vatum, / Aggredior latiis pandere carminibus. / SPIRITUS OMNIPOTENS, cujus
divinitus aura / Afflati, haec quondam praecinuere viri; / Non mihi Pieridum flores
cultusque profanos, / Et, queis Musa viget, fas adhibere modos; / Linguaque, deficiens
multis quae prisca poesis / Verba tulit, raucum debilitata sonat. /...».
12)
Prophetae a ]. Paschalio Marinellio versibus expositi, Anconae per Aurelj Josephum et soc.; dati bibliografici analitici in MORRONI, 29-31.
13)
Per ragioni economiche: echi del problema nei Carmi CXLVII, CXLVIII e CXLIX (cfr. MORRONI, 136 n. 589). Nell'Epistola 107 del 16 febbraio 1874, a proposito
delle traduzioni bibliche inedite citate oltre, scrive: «queste le stamperà il mio erede,
al quale lascerò i fondi; perché ci vogliono quattrini e questi io non li ho» (cit. ivi
245
71). È ricorrente, nell'epistolario, anche la lamentela sullo scarso successo di vendite
ottenuto dalle traduzioni date alle stampe (cfr. le Epistole 25 del 1852; 61 del 1871;
73 e 80 del 1872, citt. in MORRONI, 28).
14)
Probabilmente già pochi anni dopo la morte del Pasquali (1875): cfr. le osservazioni di A. MASSARIA, Vita di Giuseppe Pasquali Marinelli da Camerano, Camerano 1893, 38 cit. in MORRONI, 72.
15)
Cfr. Epistola 21 del 4 ottobre 1848 cit. in MORRONI, 67.
16)
Cfr. Epistola 28 del 21 febbraio 1855 cit. in MORRONI, 67.
17)
Liber Psalmorum a Josepho Paschalio Marinellio versibus expositus cum
argumentis et notis, Anconae, Ex Officina Typ. Aurelj J. et Soc.; dati bibliografici analitici
in MORRONI, 41. In apertura Pasquali collocò un breve carme in distici: «Carminibus latiis
Iessaei carmina vatis / Verti; non autem, queis meruere, modis. / Non utique hexametris,
lyricis sed versibus uti / Debueram, lyricum cum meditarer opus. / At minus hexameter
constrictus compede, sensus / Reddere flexilior splendidiorque venit. / Nam, si verba decet
fide cujusque referri, / Quam magis afflavit quae Deus ipse, decet! / Perlege, qui certas
recitas haec rite per horas, / Et tibi clara magis grataque provenient».
18)
Cfr. Epistola 47 del 13 ottobre 1865 cit. in MORRONI, 70.
19)
Cfr. Epistola 107 del 16 febbraio 1874 cit. in MORRONI, 71.
20)
Cfr. MORRONI, 159-60.163.
21)
Cfr. Epistola 52 del 22 agosto 1868 cit. in MORRONI, 70.
22)
Ivi.
23)
Cfr. Epistola 52 del 22-8-1868 cit. in MORRONI, 70; il riferimento è all'eclisse
di sole verificatasi il 18 agosto di quell'anno (cfr. ivi, 137 n. 597).
24)
Cfr. MORRONI, 104 n. 232 (Carme I: Auctori Genealogia; Carme CVIII: Ad
Eumdem, cioè Ad D. Marinum Marinellium).
25)
Cfr. G. MORICI, rec. a A. UGOLETTI, Studii sui Sepolcri di Ugo Foscolo, Bologna
1888, in «La cultura» 7 (1888), 138 (contiene anche la parte finale della traduzione
pasqualiana dei Sepolcri di Foscolo, all'epoca inedita e pubblicata pochi anni
dopo a Pesaro, probabilmente a cura dello stesso Morici).
26)
Cfr. MORRONI, 31.
27)
Cfr. alcuni giudizi citati in MORRONI, 31-33: «dotte ed eleganti fatiche» (M. Marinelli); «tesoro di poesia latina e di stile virgilianissimo» (L. Barili); «non solo elegantissimo traduttore, ma commentatore profondo, chiaro e fedelissimo» (D. Ricci);
«elegantissimi versi» (A. Massaria); «prova di sacro fedele amore a Religione» (S. Patrignani).
28)
Cfr. n. *1506 Denzinger: cfr. (anche per le citazioni successive, sempre in riferimento alla numerazione e alle pagine di Denzinger) Enchiridion symbolorum defìnitionum
et declarationum de rebus fidei et morum, ed. H. DENZINGER, aux. A. SCHÖNMETZER,
Freiburg i.B. 196734, 365.
29)
Cfr. nn. *1853-1854 (423-24) Denzinger.
30)
Cfr. n. *2710 (545) Denzingcr.
246
31)
Cfr. n.*2771-2772 (555-56) Denzinger.
32)
Cfr. n. *3007 (588-89) Denzinger.
33)
Cfr. Vetus Testamentum ex translatione Johannis Clerici, Amsterdam 1696 (17312).
34)
Cfr. Sacrae Scripturae locorum quorundam versio metrica, Oxonii 1736.
35)
Cfr. Excerpta e Testamento veteri versibus Latinis reddita auctore Francis
Hodgson, Londini 1828.
36)
Cfr. MORRONI, 27. Anche negli anni successivi Pasquali continuerà a sottoporre
le sue traduzioni ad amici e corrispondenti (soprattutto Marino Marinelli, Cesare Gariboldi
e qualche altro) sollecitando critiche e correzioni: la documentazione è nell'epistolario, ed
echi nei carmi inediti, cfr. ivi, 27-28.
37)
La prefazione reca semplicemente il titolo: "Lectori", e precede il testo del Giobbe
(con cui inizia la numerazione delle pp.).
38)
Cfr. Epistola 27 del 3 aprile 1854 cit. in MORRONI, p. 28.
39)
Esemplari tuttora conservati nel Fondo Pasquali Marinelli della Biblioteca Comunale di Camerano.
40)
Cfr. n. 11.
41)
Cfr. la prefazione del 1846 cit. sopra.
42)
La suddivisione in libri, va ricordato, è di Pasquali (come avverte egli stesso nella
prefazione del 1846).
43)
Cfr. Epistola j26 del 19 gennaio 1844.
44)
Trascrivo il testo della lettera (e ringrazio vivamente il prof. Morroni per avermelo
messo a disposizione in fotocopia).
45)
Cito dall'ed. italiana pubblicata a Milano nel 1834, v. V, 154.
46)
Cfr. Job, 80-81.
47)
Cfr. S. TIMPANARO, S. V. sinizèsi, in Enciclopedia Virgiliana, vol. IV, Roma 1988,
880.
48)
Cfr. Epistola j26 cit.
49)
Cfr. Job, 82.
50)
Edizione promulgata da Giovanni Paolo II il 25 aprile 1979, cfr. Città del Vaticano
1979. Sui criteri della revisione, in particolare per il libro dei Salmi, cfr. J. MALLET, La
latinité de la néo-Vulgate, in La Bibbia «Vulgata» dalle origini ai nostri giorni. Atti del
simposio internazionale in onore di Sisto V. Grottammare, 29-31 agosto 1985, a c. di T.
Stramare, Città del Vaticano 1987, 176-91.
51)
Cfr. Prophetae, cit., t. I, 299.
52)
Cfr. il t. III, p. 414 dell'ed. FORCELLINI-FURLANETTO, Patavii 1864-1926 (rist.
Bologna 1940).
53)
Cfr. MORRONI, 80 e (per l'ed. esistente nel Fondo Pasquali Marinelli) 145 n. 694.
54)
Forcellini teneva probabilmente conto anche del Cornu copiae di Niccolò Perotti,
che in due occasioni glossa «nullibi, quod significat in nullo loco», cfr. 1, 409 e
2, 26 dell'ed. in corso di pubblicazione, Sassoferrato 1989 sgg.; il lemma di Perotti è
ripreso anche da Calepino (che introduce l'equivalenza con il gr. μηδαμοῦ), ma non
247
da Stephanus. Perotti non cita però il luogo di Vitruvio, anche se la parafrasi-interpolazione
citata da Forcellini è del tipo di quelle frequentemente testimoniate da Perotti (cfr., per le
citazioni di Vitruvio, M. FURNO, Utilisation du De architectura de Vitruve dans le Cornu
copiae de Niccolò Perotti, in «Studi Umanistici Piceni» 13 [1993], 79-86).
55)
La Neo-Vulgata ha in collibus pro in rupibus.
56)
Al v. 13 aera captantes rende Vulg. 15, 5 traxerunt ventum, dove la Neo-Vulgata
ha aerem pro ventum (e thoes pro dracones).
57)
Neo-Vulgata: cisternas.
58)
Cfr. Prophetae, 299.
59)
Cfr. MORRONI, 25. È comunque probabile, come testimoniato dal Morici, che
Pasquali non avesse eccessiva dimestichezza con la lingua greca; certamente tradusse
in poemi greci da una "versione letterale latina", cfr. ivi, 48.
60)
A p. 5.
61)
Cfr. la trad. di Martini: «Noi darem laude a te, o Dio; ti darem laude, e invocheremo il tuo nome. Racconterem le tue meraviglie: quand'io avrò preso il tempo, io
giudicherò con giustizia. Si è strutta la terra con tutti i suoi abitatori: io fui che alle colonne
di lei diedi saldezza».
62)
Per il De pugna ad Castrumficardum (e per l'inedito De pugna ad Nomentum; il
manoscritto della Romae expugnatio è andato perduto) Pasquali meriterebbe certo una
posizione di rilievo nella letteratura neolatina ottocentesca, dove non mancano esempi di
composizioni epiche dedicate ad avvenimenti storici o contemporanei; un esempio
significativo, di ambiente culturale affine a quello di Pasquali ed anch'esso poco conosciuto,
è il De pugna ad Naupactum del calabrese Luigi Tripepi (1836-1906), sul quale cfr. A.
MINICUCCI, De Aloisio Tripepi eiusque carminibus Latinis, in Acta conventus neo-latini
Turonensis, éd. par J.-C. MARGOLIN, Paris 1980, v. II, 1215-24. Più nota (sulla scia degli
studi pascoliani) è la poesia latina di tema risorgimentale e post-risorgimentale: alcuni
esempi nell'antologia curata da V. R. GIUSTINIANI, Neulateinische Dichtung in Italien
1850-1860, Ein unerforschtes Kapitel Italienischer Literatur- und Geistesgeschichte,
Tübingen 1979.
63)
Qualche cenno in Giustiniani, 32-33, che rileva il rilancio e la fortuna di queste
iniziative nel corso dell'Ottocento: segnala traduzioni latine di Gray, ma anche di Parini,
Monti, Leopardi, ovviamente di Dante, ecc.; fra i testi più tradotti i Sepolcri del Foscolo, di
cui A. Ottolini, Bibliografia foscoliana, Firenze 1921 segnala una dozzina di traduzioni
latine (compresa quella di Pasquali).
64)
Cfr. Epistola 25 del 9 giugno 1852 cit. in MORRONI, 83-84.
65)
Ivi.
66)
Cfr. Epistola 82 del 19 giugno 1872 cit. in MORRONI, 79.
67)
Cfr. Epistola 101 del 24 giugno 1873 cit. in MORRONI, 79.
68)
Cfr. Homeri Ilias latinis versibus auctore Josepho Paschalio-Marinellio, Anconae
ex officina tip. olim Baluffi 1869, p. VI (vv. 20-29 e 39-40).
69)
Cfr. da ultimo MORRONI, 106 n. 248.
248
70)
Cfr. «Giornale dei parrochi ed altri sacerdoti compilato dall'abate G. O. Marzuttini» 2 (1847), 179, cit. in MORRONI, 109 n. 288.
71)
Cfr. ed. cit. 241.
72)
Cfr. MORRONI, 115-16 n. 366.
73)
Cfr. Epistola J109 del 30 novembre 1864 cit. in MORRONI, 41.
74)
Cfr. il recente contributo di E. HAAN, Two Neo-Latin Elegists: Milton and Buchanan, «Hum. Lovan.», 46 (1997), 266-78.
249
Copertina del De pugna ad Castrumficardum (Loreto 1991).
Copertina di M. Morroni, Giuseppe Pasquali Marinelli. Le età di un poeta.
Biographia literaria (Ancona 1993).
250
Giovanna Pirani
Note sul pensiero politico di Giuseppe Pasquali Marinelli
Sulla storia dello Stato della Chiesa nell’Ottocento e per quanto
riguarda le ideologie sottese al movimento risorgimentale che operò nel suo
territorio, nonché per i suoi personaggi più significativi, esistono studi ed
approfondimenti, anche per la realtà marchigiana (1). Poco analizzate,
almeno in quest’ultimo caso, sono invece le posizioni di quanti si trovarono
a sostenere gli interessi della parte destinata ad essere sconfitta dal processo
che portò all’unità nazionale. Essi si collocano temporalmente prima del
periodo che è stato esaminato dagli storici del movimento cattolico e si
trovano ad operare posti, si potrebbe dire, su un limitare cronologico ed
ideologico (2).
Se è a tutti noto il contrasto sorto tra i sostenitori della necessità, per il
libero ed efficace svolgimento della missione petrina, della presenza di
un’autorità pontificia anche sul piano temporale e gli esponenti della cultura
liberale e risorgimentale in genere (3), che raggiunge livelli ad alta intensità
quando, fra il Sessanta ed il Settanta, si ha la graduale e definitiva
abdicazione dello Stato pontificio di fronte alla nuova realtà dello Stato
unitario, per poi sfociare nella polemica cattolica dei decenni a venire, meno
conosciute sono alcune figure che si fanno espressioni locali di un
intendimento generale che fornisce gli argomenti necessari a sostegno di
quel pensiero che lotta contro la cultura liberale.
La sedimentazione prodotta dal tempo permette oggi di accostarsi a
questi personaggi, vittime spesso degli irrigidimenti ideologici d’ambo le
parti e delle idealizzazioni operate da una storiografia legata, spesso per
ragioni cronologiche, a quei miti che vollero contribuire, sul piano della vita
quotidiana e anche culturale, alla realizzazione effettiva dello Stato unitario,
con uno spirito diverso, più equilibrato.
E’ possibile quindi trovare motivi di interesse in posizioni, figure e
situazioni che decenni or sono potevano essere liquidati brevemente con
l’etichetta di “reazionario” o di “conservatore”.
251
Un personaggio che rientra in questo ambito di ricerca è senz’altro
Giuseppe Pasquali Marinelli (4), che con il suo pensiero e le sue opere, nelle
quali quest’ultimo si esprime con naturalezza, si pone sempre come
difensore indefettibile dell’autorità papale in campo temporale.
Infatti, così scrive in una minuta di lettera di ringraziamento per la
concessione di una onorificenza da parte di Pio IX:
“[…] non sarò mai per mancare a quella fedelissima sudditanza verso la S. Sede in cui mi
hanno educato i miei piissimi genitori […] e che ha gettate in me sì profonde radici che io
benedico sempre l’Altissimo d’avermi fatto nascere suddito Pontificio […]” (5).
Ci si potrebbe domandare se e quanto sia utile sottolineare questo
particolare aspetto della personalità di Giuseppe Pasquali Marinelli. A
nostro parere, l’interesse risiede almeno in due motivi.
Innanzitutto, l’importanza di poter fornire un piccolo tassello che
permetta di evidenziare un aspetto del contesto sociale e culturale in cui si
inserisce l’azione legata al movimento risorgimentale e liberale a livello
locale, attraverso l’esame di un pensiero che, se non si discosta affatto dalle
tematiche ufficiali proprie dei difensori del ruolo del Papa in ambito
temporale, costituisce un elemento di una posizione di cui, pur non
dimenticando affatto le sue mutazioni che si verificheranno negli anni a
venire e le sfumature presenti al suo interno (6), la cultura liberale locale
dovrà tenere conto.
Un altro elemento da non sottovalutare e che ci preme sottolineare in
queste note, è la conferma a nostro avviso, anche per il Pasquali, del
persistere di quello spirito che si potrebbe chiamare municipalistico,
intendendo con questo termine quella concezione che, al di sopra dei
rivolgimenti politici ed istituzionali, vede emergere e prevalere il senso di
appartenenza al proprio municipio, con tutto ciò che questo comporta. Esso
può essere a buon diritto indicato come l’ideale trait-d’union che, superando
le distinzioni tra antico regime e stato ottocentesco, lega tra loro secoli di
vita cittadina, nel nome dell’appartenenza dei cittadini alla “patria” comune.
§ I. Come si è detto in precedenza, le riflessioni di Giuseppe Pasquali
Marinelli in campo politico non si discostano in nulla dalla saggistica che
252
esce dalla penna dei più conosciuti fautori del potere temporale dei papi sia
in campo nazionale che europeo.
Man mano che gli attacchi alla sovranità papale si fanno più pesanti,
un muro viene innalzato per rinsaldare e difendere ad oltranza lo Stato della
Chiesa e Roma, a cominciare dagli articoli de “La Civiltà Cattolica”, fino
alle posizioni di Henry Edward Manning, arcivescovo di Westminster o di
Montalembert, per non parlare del gran numero di opuscoli, articoli e fogli
volanti che vengono diffusi.
Di passaggio, si sottolinea qui l’importanza di una operazione che
sarebbe certamente di grande utilità per ricostruire, a livello locale, il tessuto
sociale e culturale di questo periodo: riuscire cioè a localizzare esemplari di
quella particolare categoria di questa letteratura politica e polemica,
rappresentata dagli opuscoli (7), che vengono prodotti e diffusi per sostenere
gli argomenti in favore del mantenimento dello Stato Pontificio. Essi
possono ad esempio intitolarsi Libera Chiesa in libero Stato ossia il papa
suddito. Riflessioni storiche di D. C. Bonifazj (Modena, Tipografia degli
Eredi Soliani, 1862), oppure Sulla distruzione della potenza temporale dei
papi. Discorso di Cesare Balbo (Torino, per Giacinto Marietti, 1860).
Il pensiero politico di Giuseppe Pasquali Marinelli risente quindi di
questa temperie politica ed ideologica. Particolarmente interessanti, sotto
questo punto di vista, sono alcune carte personali, conservate attualmente
presso la Cassa Rurale di Camerano “S. Giuseppe” (8), nelle quali egli
riportò testi o brani di articoli di suo particolare interesse.
Dato che accanto ad essi troviamo talvolta minute di suoi testi, è
legittimo pensare che abbiano fornito a Pasquali Marinelli materia di
ispirazione per la sua opera.
Troviamo presenti in questa specie di antologia, che possiamo far
risalire intorno agli anni Sessanta-Settanta circa, citazioni ad esempio di
Manning e del cardinal Wiseman, accanto a brani di articoli de “La Civiltà
Cattolica” o de “L’Armonia”, giornale quest’ultimo che assieme al
periodico dei gesuiti era uno dei maggiori rappresentanti del pensiero del
cattolicesimo conservatore e contrario al liberalismo (9). Troviamo riportati
anche testi come il discorso di Thiers contro la posizione assunta da
Napoleone III in merito al passaggio della capitale italiana da Torino a
253
Firenze, od interventi di Solaro della Margarita (10). Inoltre, un’importanza
abbastanza rilevante in queste carte hanno alcune testimonianze contro la
massoneria (11).
Queste carte ci mostrano Pasquali Marinelli come un intellettuale che,
pur restando legato ad una realtà periferica, si trova però
contemporaneamente a conoscenza del movimento ideologico, non solo
italiano, sorto intorno alla questione del potere temporale del papa. Se
queste carte ci testimoniano l’esistenza di un reale interesse di Pasquali, che
lo spinge a raccogliere documentazioni su questo problema così spinoso,
alcune sue poesie inedite ci permettono di osservare quanto siano presenti
queste motivazioni nella sua opera.
§ II. Per sostenere la figura ed il ruolo che la dottrina tradizionale della
chiesa cattolica assegnava allora al pontefice, era necessario, secondo la
posizione ufficiale, prevedere che egli esercitasse una autorità anche in
campo temporale.
“Il Papa […] è innalzato alla suprema sedia del ministero apostolico, acciocché eserciti
l’uffizio di pascere, di reggere e governare […] la Chiesa universale […] Ciò importa che la
persona del Pontefice sia del tutto indipendente dai singoli e diversi poteri politici della
terra […]” (12).
Così “La Civiltà Cattolica” nel 1860 esprime chiaramente le ragioni
dei sostenitori del Papa Re.
Dal canto suo, Pasquali Marinelli, in una delle sue poesie inedite, la n.
252, contenuta nei Carmina inedita (13), riecheggia, quasi con le stesse
parole, questi concetti che troviamo ribaditi in vari scritti, anonimi od opera
di illustri polemisti, che in questi anni escono a difesa di Pio IX attaccato dal
movimento unitario.
In questa poesia egli infatti, con pochi versi, esemplifica la situazione
dal suo punto di vista: Dio ha stabilito che il Pontefice sia sulla terra
l’autorità massima in materia di fede e di costume. Per adempiere a tale
ministero, come sostiene l’articolo di “La Civiltà Cattolica”, gli è necessaria
un’autorità temporale:
254
“Tali igitur terris est ille in sede locandus
Rite ministerio fungier unde queat.
Libertate et summo opus est ut honore fruatur” (14).
Così recitano questi versi, che si concludono con una interrogazione,
decisiva dal punto di vista di Pasquali Marinelli: se il papa non può essere
re, come potrà adempiere alla sua funzione?
Una prova della consonanza di Pasquali Marinelli con il movimento a
favore della permanenza di uno Stato della Chiesa in Italia e della
conoscenza che egli aveva di queste posizioni, possiamo trovarla nelle
parole del vescovo d’Orléans, monsignor Dupanloup, che nel 1859 difende
il diritto minacciato di Pio IX con parole che esprimono il medesimo sentire
dei versi del poeta cameranese:
“[…] importa […] che la sovranità temporale del Papa, intimamente connessa colla dignità,
coll’indipendenza e colla libera azione della Chiesa, non subisca alcun danneggiamento
[…]” (15).
Pasquali Marinelli dà veste poetica ad un punto fondamentale per
quanti sostengono la necessità dell’esistenza di una autorità temporale
papale: il fatto cioè che quest’ultima non è vissuta dal pontefice come un
qualcosa di connotante l’esercizio della sua funzione tale quale gli è stata
affidata come successore di Pietro, ma è bensì sentita come il mezzo,
necessario, ma che rimane pur sempre tale, per esercitare le sue funzioni.
Uno strumento che altrove Pasquali Marinelli chiama “sostegno”, “ciò
che la santissima religione puntella” (“quod Relligio sanctissima fulcit”),
come si esprime nella poesia n. 251 (16), usando un termine abbastanza
efficace.
E’ questo, come si può facilmente riscontrare, un motivo ricorrente
nell’opera del Pasquali. Così, ad esempio, si esprime nel testo del De pugna
ad Castrumficardum:
“Cristo […] pose il sommo Pontefice, affinché ammiNistrasse il santo potere su tutti i
popoli, dirigesse i sacri riti e i costumi degli uomini […] libero e padrone di sé, non
vincolato dai capricci dei potenti […] (17)
255
D’altro canto, il governo pontificio è per lui garanzia di giusta
autorevolezza, poiché esso è sottoposto al rispetto della legge divina, che
costituisce l’unica misura che possa regolare e garantire i rapporti tra
suddito e sovrano. Laddove dovesse mancare il riferimento a questa norma
primaria, egli non riesce a vedere alcuna speranza o possibilità di governo
equo realizzabile.
“Gemono i popoli sotto l’autorità senza misura” (“Immodica gentes
sub ditione gement”) (18). Con queste parole, Giuseppe Pasquali Marinelli
dipinge la realtà di un mondo governato a prescindere dai precetti divini.
E’ un motivo questo ampliato in un’altra delle poesie inedite, la n.
254, intitolata De regio placet (19). L’economia del testo si basa sulla
affermazione di principio secondo la quale la legge di Cristo, quando
sovrano e popolo ne sono entrambi seguaci, sarà garanzia di governo sicuro.
Da ciò consegue che lo stato prospero e forte sarà quello in cui la politica
del governo è conforme ai precetti della legge divina, situazione questa che
solo il pontefice può accertare come esistente, in vista del ministero da lui
esercitato.
Strana sarebbe la posizione contraria: che un governo dia o meno la
sua approvazione agli atti o ai detti del pontefice. E’ invece del tutto ovvio e
naturale, come afferma Pasquali Marinelli, che sia il papa, in qualità di
padre tanto del popolo come del re, a dettare le linee di condotta di
quest’ultimo.
Osserviamo quindi che in questi versi, non a caso intitolati De regio
placet, Pasquali sostenga la posizione che afferma il primato dell’autorità
religiosa su quella politica.
Un brano tratto da “La Civiltà Cattolica”, presente nelle sue carte
autografe, sembra riecheggiare gli argomenti dei versi finora citati:
“Agli occhi del fedele la Chiesa, o più semplicemente Colui che n’è il Capo visibile, non
pure è l’oracolo infallibile […] ma è dippiù maestro irrefragabile della vita cristiana, perché
costituito pastore universale di tutto il gregge de’ fedeli […] il quale può con infallibile
autorità definire i punti da credere e giudicare di costumi” (20).
Diversi altri versi di Giuseppe Pasquali Marinelli ribadiscono con
forza la convinzione che gli è propria della posizione di preminenza del
papa anche come sovrano temporale.
256
In essi il poeta cameranese utilizza la metafora del rapporto tra spirito
e corpo e della prevalenza del primo sul secondo: un esempio è la poesia n.
243, che liberamente si può intitolare Sulla separazione tra Stato e Chiesa
(21). In questi versi l’autore sottolinea la necessità per l’autorità di governo
e quella religiosa di procedere unite, dal momento che “tal quale è il corpo,
se lo spirito è assente, tale è il governo, lo stato che non si basi sulla
religione” (Quale est propterea Corpus, si Spiritus absit,/Tale est Imperium
Relligione carens) (22).
Nella poesia All’Italia (n. 257) (23), egli ribadisce che chi governa gli
spiriti, governa i corpi: orbene “[…] spiritibus toto degentis orbe/Pontificum
late maxime imperitat” (24). Pasquali Marinelli sottolinea ancora una volta
la vocazione del papa al governo temporale, oltre a quello spirituale.
Un altro esempio di questa argomentazione è la poesia seguente, n. 258, Il
Regno d’Italia (25), in cui l’autore afferma che, se è stata cosa utile
costruire un regno italico, si tratta di una utilità che resta pur sempre terrena,
che sottomette al corpo il bene dell’anima, il quale era ben altrimenti
garantito dal precedente Stato Pontificio.
A questo proposito, per evidenziare come per Pasquali Marinelli
questi temi propri della sua concezione della vita e dello stato si calassero
nel quotidiano, si può ricordare l’intervento che egli come Priore fece in
Consiglio nel gennaio 1859, in merito alla richiesta di compenso inoltrata
dal sacerdote che celebrava la messa per gli alunni delle scuole municipali.
Proponendo di accordare un emolumento al sacerdote, egli motivava la sua
richiesta affermando:
“[…] non senza farvi in ultimo considerare, o Signori, che il regolare andamento delle
Scuole richiede assolutamente che non manchi mai la Messa, e che si celebri dopo la
scuola; il che difficilmente potrà ottenersi […] ove la 2.a Scuola tornasse a condursi come
in addietro da un Secolare” (26).
Se il conformarsi in modo totale ed esclusivo alla legge divina è, come
si è visto, garanzia unica ed insostituibile di governo giusto e prospero,
Pasquali Marinelli afferma che solo il governo realizzato dall’autorità
pontificia è tale, perché è l’unico che rispecchia nel suo essere questo
principio basilare.
257
Significativa al riguardo è la poesia che, nel volume che raccoglie
questi inediti di Pasquali Marinelli, si intitola in modo decisamente anonimo
Sul regime costituzionale (n. 255) (27). Molto utilmente, una nota informa il
lettore che un altro esemplare della medesima poesia è stato intitolato assai
più significativamente Sull’assurdità del regime costituzionale (28).
In che cosa consiste l’assurdità (quindi, per l’autore non si tratta di
illegittimità, ma di qualcosa che va al di là di questa, quasi a riferirsi per lui
alla natura stessa delle cose) del regime costituzionale per Pasquali
Marinelli?
Quando i re erano tali per diritto divino, egli spiega nei suoi versi, si
trovavano nell’obbligo di sottomettersi a quell’autorità che così li aveva
creati, quella divina. Chi crea il potere in regime costituzionale è invece il
popolo, e l’autorità che ne deriva è detenuta dai ministri. Data l’assenza di
certezza e saldezza del potere popolare sono proprio i ministri, conclude
Pasquali Marinelli, che agendo in nome del popolo sovrano, operano ciò che
a loro sembra più opportuno, causando perciò la rovina di esso. Tutto questo
accade poiché con il regime costituzionale è venuto a cadere il baluardo, la
garanzia costituita della legge divina.
Sono argomenti questi che ritroviamo espressi nel De pugna ad
Castrumficardum, in versi che richiamano in buona sostanza quanto già
sopra ricordato: nel regime costituzionale
“[…] il potere fu diviso tra il re ed il popolo, cosicché una gente che rende conto solo a se
stessa, si impadronisce mediante il voto del popolo delle redini dello Stato, e tutto governa
a suo piacimento.” (29)
Ritroviamo nei versi pasqualiani la filosofia di fondo che impronta il
pensiero espresso dal conte Solaro della Margarita in queste parole trascritte
da Giuseppe Pasquali Marinelli:
“[…] Il popolo […] può detestar domani una signoria, un’unione sociale per cui par che
oggi spasimi d’amore […] Se gli si contende, si annulla la sua sovranità; e, questa
annullata, si fa ritorno al diritto divino, che solo presenta guarentigie di solidità e durata.”
(30)
258
La posizione sostenuta da Pasquali Marinelli è, come si può vedere,
decisamente conservatrice.
Non poteva mancare, in questo ambito, il sostegno portato dal poeta
cameranese all’argomento che fa della religione, oltre che unica e
insostituibile garanzia di governo retto e giusto, l’architrave di ogni stato.
Nella poesia n. 251, già ricordata, questo motivo è ben presente: infatti
egli collega al mantenimento dello Stato della Chiesa quello degli altri stati:
chi li sorreggerà, si chiede, quando quello sarà caduto? Chi potrà costituire il
baluardo contro cui i nemici degli stati andranno a spezzare le proprie forze?
(“Cumque ruat quod Relligio sanctissima fulcit,/Dic mihi, quod solium
deinde superstes erit?”) (31).
Analogo motivo troviamo nel De pugna ad Castrumficardum: la
Ribellione parla al generale Lamoricière in questi termini:
“Incalza il lieto giorno quando sarò portata in trionfo sulle più alte stelle, avendo scacciato i
re della terra[…] “(32).
Dietro questi sconvolgimenti, Pasquali Marinelli, come altri in
quell’epoca (33), vede senz’altro la mano delle cosiddette “sette”, ossia
della massoneria. Abbiamo già ricordato che tra le sue carte sono presenti
diversi testi che parlano della cospirazione contro la religione e lo stato (in
particolare, lo Stato Pontificio) operata da questo movimento (34).
Numerose sono infatti le pubblicazioni che in questi anni escono
contro la massoneria, che questa letteratura, sbigottita quasi di fronte ai
mutamenti sociali ed economici cui si trova a fare fronte, indica come
“[…] la vera e principalissima cagione dei mali che minacciano l’Europa, e di quelli ond’è
iniquamente straziata questa povera e infelicissima Italia […]” (35).
Pasquali Marinelli non si sottrae certo a questo clima ideologico, e in una
poesia da lui dedicata a Pio IX, la n. 302, motiva la sua sconfitta politica con
la moderazione da lui mostrata verso quella che lui definisce setta
massonica:
“Corde bonus, magnusque animi, […]
Qui sectae addictos, Structorum nomine, habenis,
259
Omnibus obnixi sunt cohibere modis
Italiae queis nixa quies, meditatus ab illa
Ejicere, est solio pulsus et ipse suo.
Laudibus ex summis ad summa opprobria lapsus,
Imprudens veniam quod dedit immeritis.” (36)
§ III. L’accenno a papa Mastai Ferretti ci permette di introdurre ora un altro
aspetto del pensiero politico di Giuseppe Pasquali Marinelli, ossia il
giudizio da lui espresso nei confronti di questo pontefice.
La più volte affermata fedeltà al papa ed allo Stato Pontificio
(ricordiamo ad esempio che il poema De pugna ad Castrumficardum è
dedicato a Pio IX (37)), non riesce a nascondere un giudizio se non severo,
certamente critico di Pasquali verso questo pontefice, che per il poeta
cameranese può essere definito come la persona sbagliata nel momento
meno adatto.
Nella poesia sopra ricordata, n. 302, in pochi versi egli si prova a
tracciare un bilancio del pontificato Mastai Ferretti sul versante politico.
Pio IX, afferma Pasquali Marinelli in questa poesia, è un uomo buono di
cuore e magnanimo – in altre due poesie ritorna a sottolineare il motivo
della clemenza di questo pontefice, incapace (n. 228 (38)) di non addolcirsi
di fronte alle colpe o di aprire la mano con gesto paterno -; il papa è però
carente, secondo il poeta, di una effettiva intelligenza politica: nella poesia
n. 302 lo definisce senza tanti giri di parole “mentis pusillus” (39).
L’errore politico di papa Mastai Ferretti, secondo Giuseppe Pasquali
Marinelli, è stato quello di non aver perseverato nella politica dei suoi
predecessori, che con ogni mezzo avevano perseguito il contenimento dei
movimenti contrari allo Stato Pontificio, collegati da Pasquali alle logge
massoniche.
Egli condivide questa politica dei predecessori di Pio IX, che, a partire
dal 1818 – come afferma in una sua lettera dell’11 aprile 1872 – si trovarono
a dover controbattere quelli che definisce “conati di rivoluzione”. E
aggiunge:
“[…] Ci volle tutta la fermezza, tante volte combattuta, di Gregorio XVI, per soffocarla [la
rivoluzione] nei quindici anni del suo pontificato. Finalmente le cose erano ridotte a tal
partito, che si credette necessaria l’amnistia di Pio IX” (40).
260
Giuseppe Pasquali Marinelli, a nostro avviso, guarda con più simpatia
alla figura di Gregorio XVI, che nella Maximorum Pontificum Series ricorda
come colui che senza paura seppe conservare il regno che gli era stato
affidato in mezzo ai tumulti rivoluzionari, e che esiliò gli irriducibili:
[…] Impavidaque tenet tradita sceptra manu,
[…] indomitosque relegat;
Res bene composuit. (41)
In questa opera di Pio IX si ricorda invece che la sua generosità gli si
rivoltò contro, causandogli la perdita del regno e di Roma:
Largirit veniam, Italiae qua versus et ordo,
Atque sibi regnum Romaque adempta fuit. (42)
Quest’ultimo pontefice per Pasquali Marinelli brillò quindi più per
bontà d’animo che per accortezza politica e si trovò allora, sempre secondo
questo giudizio, a dover fronteggiare l’onda che lo travolse, dopo averla lui
stesso provocata, incapace di compiere atti decisivi e definitivi contro la
marea montante che doveva giungere a distruggere lo Stato della Chiesa.
Un’altra figura storica che compare nelle poesie inedite di Giuseppe
Pasquali Marinelli è quella di Napoleone III, imperatore dei Francesi.
E’ questo un personaggio che sembra aver interessato il poeta, visto
che nei testi da lui raccolti compaiono diversi documenti che si riferiscono
all’imperatore, attaccato per la posizione da lui assunta nei confronti del
Regno di Sardegna (43).
Un testo raccolto da Pasquali lo descrive come il
“[…] gran Cocodrillo, che oggi prima uccide e poi piange le sue vittime; che prima fabbrica
clandestinamente, e poi pubblicamente deplora i nobili infortunii” (44).
Altri testi sono stati raccolti da Pasquali Marinelli, come quello del
discorso di Thiers, già ricordato, in cui viene criticata la posizione assunta
dalla Francia con la Convenzione di Settembre del 1864 (45) o come quello,
ricopiato da “L’Armonia” dell’8 marzo del 1861, in cui viene descritto
261
l’interessamento di un tal vescovo di Spoleto nei confronti di Luigi
Bonaparte, allora fuggiasco dopo i moti delle Romagne del '31/’32:
“[…] l’Arcivescovo di Spoleto […] l’accolse [Luigi Bonaparte], e con una carità tutta
evangelica gli diede asilo, finché, dopo moltissime istanze, poté ottenere dal Superiore
Governo, un passaporto col quale andarsene in Svizzera a raggiungere sua madre. Questo
Arcivescovo aveva nome Giovanni Maria Mastai Ferretti, ed oggi si chiama Pio Nono”
(46).
L’opinione che Giuseppe Pasquali Marinelli si era formato su
Napoleone III si può indirettamente intuire da questa scelta di testi, ma la
possiamo trarre da una composizione poetica, la n. 306, a lui dedicata (47).
In pochi versi egli delinea il ritratto dell’Italia che la sua politica ha
prodotto: “[…] ovunque furti, delitti e povertà. Il regno d’Italia, o
Napoleone, è figlio tuo” (“[…] Undique furta, neces, pauperiesque
furit./Italicum regnum […] Est tua, Napoleon, proles”). (48)
Se Napoleone III ha, secondo Pasquali Marinelli, tradito la causa
dell’autorità temporale del papa, sostenendo invece l’azione del Regno di
Sardegna, è perché egli è, in fondo, detentore di un potere ottenuto con una
rivolta, ed è un personaggio noto per i suoi trascorsi rivoluzionari, ben
diverso dagli altri legittimi sovrani di Europa, contro i quali, nel fondo del
suo cuore, ha sempre nutrito sentimenti di rancore: “Moribus hic notus
pravis, hic carcere longo/Vinctus, […] Cujus in Europae reges sub corde
latebat/Ira”. (49)
Ciò che per questa posizione è un atteggiamento ambiguo, un
voltafaccia da parte dell’imperatore dei Francesi, parrebbe spiegabile da
Pasquali Marinelli secondo un’ottica di un conservatorismo singolare:
Napoleone III non è il legittimo detentore del potere in Francia; la sua
autorità è frutto di una rivolta.
Si ha la sensazione, leggendo questi versi, che per il poeta egli non sia
rimasto altro che un rivoluzionario, il quale anche da imperatore non poteva
che comportarsi come tale, favorendo i nemici del papa.
Un altro personaggio che compare nei Carmina inedita è il conte di
Cavour. (50) . Una di queste poesie, la n. 259, può essere considerata la
summa del giudizio di Giuseppe Pasquali Marinelli sull’uomo politico, da
lui considerato come colui che ha provocato la rovina dell’Italia:
262
[…] Vendidit Italiae partem, ut foret integra, Gallo,
Libera ut ipsa foret, subdidit arbitrio:
Ut fieret locuples, alieno hanc obruit aere;
Ut felix fieret, bella necesque tulit”. (51)
Un giudizio totalmente negativo, quindi, che in un’altra poesia si
concretizza in versi nei quali all’azione distruttrice di Cavour, Giuseppe
Pasquali Marinelli fa risaltare quella che per lui è la manifestazione della
giustizia divina. In essi, infatti, viene menzionata la sua morte come la
punizione provocata dal suo proponimento di attaccare lo Stato della
Chiesa:
“[…] Cavour ait, coetum fatus ad Italiam;
Italiam his totam, atque ipsam sibi subdere Romam
Posse ratus. Sex his mensibus ipse obiit”. (52)
Ci piace sottolineare brevemente come la polemica politica di
Giuseppe Pasquali Marinelli contro la nuova situazione istituzionale in cui
egli si trovò a passare l’ultimo periodo della sua vita, si indirizzasse anche
contro quella cultura che a suo dire veniva formandosi nell’Italia
postunitaria.
In una lettera del 13 ottobre 1865 indirizzata a don Marino Marinelli,
si esprime in questi termini:
“[…] Convien leggere certi barbassori, che si affibbiano la giornea di maestri dell’Italica
rigenerazione, per formarsene perfetta idea […]”. (53)
Egli contesta soprattutto quanti secondo il suo parere lanciano attacchi
allo studio del latino, riportando un brano di un’opera di cui è autore
Francesco Ambrosoli (54), Consigli ai giovani studiosi del nostro tempo:
“Senza dubbio, chi dicesse ai nostri giovani: ‘Studiate di forza il latino, e date all’Italia la
gloria di nuovi poemi come quelli del Vida e del Fracastoro, costui potrebbe essere
meritamente deriso, o accusato di voler annebbiare la luce e respingendo addietro la
civiltà”. (55)
263
Pasquali Marinelli commenta ironicamente queste parole: “Viva
l’Italia! Viva l’Italia! Viva l’asinità, viva l’asinità!” (56), facendo
chiaramente intendere quale fosse il suo pensiero su questo argomento (57).
Del resto, tale posizione si riconnetteva ad una impostazione di fondo che
troviamo espressa in organi dei gruppi cattolici dell’epoca: in una
recensione alla sua traduzione dell’Iliade e dell’Odissea, pubblicata
sull’”Unità Cattolica” e riportata dal “Corriere delle Marche” del 4 dicembre
1871, leggiamo queste parole:
“[…] una fazione letteraria dimentica delle gloriose tradizioni italiane, si sforza di ridurre
tra noi lo studio delle lettere latine ad una gretta analisi grammaticale […] mentre i […]
versi latini di Pasquali Marinelli sono una prova manifesta che vivono tuttavia nella
Penisola i conservatori del buon gusto e gli eredi dell’antica gloria italiana […]”. (58)
§ IV. Ci sembra infine utile sottolineare un aspetto della figura di Giuseppe
Pasquali Marinelli che ci permette di interpretare i suoi atteggiamenti in
modo tale da non renderlo estraneo, nonostante le sue idee politiche, alla
realtà locale in cui vive ed opera.
Ci riferiamo alla sua attività di amministratore pubblico che esercitò
come Priore della Comunità di Camerano per alterni periodi a partire dal
1831, come riportano i registri delle Deliberazioni Consiliari.
Pasquali Marinelli da questo anno è spesso indicato, si è detto, come
Priore; nel settembre ‘49, conclusa la fallimentare esperienza della
Repubblica Romana, lo troviamo segnalato come Presidente della
Commissione provvisoria amministrativa di Camerano. La sua presenza in
Consiglio è costante fino al 28 giugno 1863, data in cui il verbale riporta
espressamente la sua condizione di dimissionario (59).
Questi dati sono in apparente contrasto con quanto riportato sia dal
canonico Serafino Patrignani, che da Michele Maroni, il primo in una breve
biografia del 1893, il secondo nella commemorazione voluta dalla
Congregazione di Carità del Comune, tenutasi nel 1904 (60).
Entrambi, nelle loro esposizioni, vogliono dare di Pasquali Marinelli
l’immagine del fedele cattolico, suddito obbediente solo al pontefice.
Scrive Maroni:
264
“Senz’ira e senz’odio […] egli con il conforto della coscienza dignitosa e netta, uscì di
palazzo, e si raccolse nella modesta sua casa” (61).
Patrignani, da parte sua, gli mette in bocca queste parole, rivolte alle
autorità nel nuovo Stato che gli chiedevano di entrare come Sindaco nella
nuova amministrazione:
“=Signori, io ho servito fin quà fedelmente il mio rispettivo Sovrano, il sommo Pontefice:
la mia bandiera come vero italiano e sincero cattolico è una sola, ed è quella dello stesso
Pontefice; sarei servo infedele se osassi solamente pensare di cambiarla […] = E da quel
giorno il Marinelli più non si vide in Comune[…]”(62).
Le deliberazioni consiliari ci permettono invece di notare come fino al
1863 egli abbia mantenuto un certo impegno amministrativo: il 16 maggio
1861 è assessore della Giunta comunale (63). In seguito, farà semplicemente
parte del Consiglio.
A fronte della importante presenza avuta in Comune durante il
trentennio precedente, ora subisce qualche sconfitta: il 20 ottobre 1861, ad
esempio, ottiene solo un voto favorevole contro gli otto contrari alla sua
elezione in Giunta (64). Sempre nello stesso periodo, viene eletto membro
della istituenda Congregazione di Carità comunale, ma ne viene escluso
perché a pari merito con un altro candidato a lui maggiore di età (65).
Nonostante la sua posizione sempre più defilata, come testimoniano le
sue più frequenti assenze alle riunioni consiliari (66), all’interno della vita
amministrativa del comune egli, prima del suo abbandono, ricopre due
incarichi, certo di peso assai differente da quelli esercitati nel corso della sua
precedente vita di amministratore locale: viene nominato il 7 novembre
1861 Sopraintendente alle scuole comunali e l’8 maggio 1862 è membro
della commissione istituita per esaminare le domande di aggiunto alla
Segreteria (67).
Se ci si è soffermati su questi particolari che apparterrebbero di più ad
uno studio su Pasquali Marinelli amministratore, è stato per sottolineare che,
nonostante il cambio di regime fosse stato traumatico per le convinzioni
politiche di Giuseppe Pasquali Marinelli, come è testimoniato dalle sue
265
poesie e dai suoi scritti, la sua appartenenza alla Comunità di Camerano
rimane sempre viva, e il distacco dalle responsabilità amministrative non
avviene di netto alla caduta del dominio pontificio, come alla polemica
cattolici-stato liberale faceva comodo mostrare, ma poco a poco, voluto
anche, sembra possibile intuire dai testi delle deliberazioni, da volontà
esterne, come testimoniano i voti contrari da lui accumulati nell’ottobre ’61.
La patria intesa come Camerano a nostro avviso continua ad avere un
posto determinante nell’animo di Giuseppe Pasquali Marinelli, come del
resto è testimoniato dalle sue volontà testamentarie (68), ed è lo spirito
municipalistico che anche in questa occasione sembra prevalere sul fedele
suddito del papa (69).
266
Note
1)
Cfr. ad es. Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di Alberto M.
Ghisalberti, a cura di P. TENTORI e S. VERDINI, Firenze 1971-1972, vol. 2; Lo stato
pontificio e le legazioni, a cura di F. BARTOCCINI e L. LOTTI.
2)
Per un quadro generale su questo argomento, cfr. G. SPADOLINI, Cattolicesimo e
Risorgimento, in Questioni di storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia, a cura di E.
ROTA, Milano 1951, pp. [821]-906, specialmente le pp. [822]-865; cfr. anche A.
CASTELLINI, I motivi dell’opposizione cattolica allo Stato liberale, in “Vita e pensiero”,
42 (1959), pp. 933-961; per un’accurata analisi a livello locale, cfr. B. MONTALE, Clero e
società civile a Parma dopo l’Unità (1861-1866), in “Rassegna storica del Risorgimento”,
69 (1982), fasc. 4, pp.[420]-441.
3)
Cfr. M. DE LEONARDIS, Motivazioni religiose e sociali nella difesa del potere
temporale dei papi (1850-1870), in “Rassegna storica del Risorgimento”, 69 (1982), fasc. 2,
pp. [182]-200. Sulla questione romana, cfr. M. DE LEONARDIS, Note di storia della
storiografia italiana sulla questione romana, in “Rassegna storica del Risorgimento”, 65
(1978), fasc. 4, pp. [387]-407.
4)
Sulla figura di Giuseppe Pasquali Marinelli si veda l’ampia biografia M.
MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli. Le età di un poeta. Biographia literaria, Ancona
1993.
5)
Archivio G. Pasquali Marinelli (d’ora in poi APM), conservato presso la Cassa
rurale e artigiana “S. Giuseppe” di Camerano, Carte sparse (autografi e non), n. 29, minuta
di lettera di Giuseppe Pasquali Marinelli, s.d.
6)
Per i rapporti tra Stato unitario e Chiesa cattolica, vd. S. TRAMONTIN, Profilo di
storia della chiesa italiana dall’Unità ad oggi, Torino 1980; Storia del movimento cattolico
in Italia, diretta da F. MALGERI, Roma 1980-1981, 6 voll., in particolare il vol. 1.
7)
Un esempio al riguardo è dato dagli opuscoli attualmente rintracciati presso la
Biblioteca Diocesana di Ancona, in numero di trentanove.
8)
APM, Carte sparse…, cit.
9)
Sul ruolo della stampa, cfr. G. RICUPERATI, I giornalisti italiani tra poteri e
cultura dalle origini all’Unità, in Storia d’Italia, Annali, vol. 4, Torino 1981, pp. [1085]1132, specialmente pp. [1085]-1099. Per “La Civiltà Cattolica”, fondata nel 1850 dai
Gesuiti, cfr. G. SPADOLINI, Cattolicesimo e Risorgimento, cit., p. 840. Sul ruolo avuto da
questa rivista nella lotta contro il liberalismo e per il sostegno del diritto alla sovranità
temporale dei papi, vd. M. DE LEONARDIS, Motivazioni religiose e sociali nella difesa
del potere temporale dei papi…, cit., passim. Per la stampa cattolica in generale ed in
particolare per “La Civiltà Cattolica” e “L’Armonia”, vd. S. TRAMONTIN,
L’intransigentismo cattolico e l’Opera dei Congressi, in particolare il par. La stampa
cattolica intransigente, in Storia del movimento cattolico in Italia, cit., vol. 1, pp. 173 ss.
10)
Per il discorso di Thiers, vd. APM, Carte sparse…, cit., n. 6, p. [23]; per Solaro
della Margarita, vd. ibidem, n. 2, pp.[10]-[11].
267
11)
Vd. APM, Carte sparse…, cit., n.2, pp.[17]-[19]; n. 6, p. [20].
12)
Del diritto dei Papi e dei cattolici intorno agli Stati della Chiesa. Due articoli
estratti dai quaderni 229 e 233 della Civiltà Cattolica. Con appendice di una rivista di
un’opera di G. Montanelli estratta dal quaderno 235 del medesimo periodico, Roma 1860,
pp. 4-5.
13)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, J. Marinelli Carmina inedita, n. 252.
14)
Ibidem. A questo proposito, cfr. S. MUGNAINI, Spiriti, profeti, fattucchiere:
l’abate Pierini annuncia la sua “vera buona novella”. La reazione cattolica in Toscana
(1859-1866), in “Rassegna storica toscana”, 31 (1985), n. 2, p. 248.
15)
Il patrimonio di S. Pietro o sia I diritti di Pio IX difesi contro i rivoluzionari da
monsig. Dupanloup vescovo d’Orléans e dal conte di Montalembert, [1859], p. 13.
16)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 251.
17)
G. PASQUALI MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum inter pontificis
summi et Sardis regis copias depugnata. Auctore Josepho Paschalio
Marinellio…Traduzione [di] M. MORRONI. Commento storico [di] M. COLTRINARI,
[Ancona]-Camerano 1991, p. 23.
18)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 251.
19)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 254. E’ possibile
anche ipotizzare, per questa poesia, un accenno polemico all’estensione allo Stato unitario
delle leggi piemontesi sul placet e l’exequatur: cfr. A. CASTELLINI, I motivi
dell’opposizione cattolica allo Stato liberale, cit., p. 940; S. TRAMONTIN, Profilo di
storia della chiesa italiana dall’Unità ad oggi, cit., pp. 11-12.
20)
APM, Carte sparse…, cit., n. 6, p.[4].
21)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 243.
22)
Ibidem.
23)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 257.
24)
Ibidem. Sulla assurdità della separazione tra Stato e Chiesa, cfr. la posizione
dell’abate toscano Giovanni Pierini in S. MUGNAINI, Spiriti, profeti, fattucchiere…, cit.,
p. 244.
25)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 258.
26)
Archivio storico comunale di Camerano (d’ora in poi: ASC), Deliberazioni
consiliari, 1857, 27 gennaio 1860, 22 agosto, seduta del 26 gennaio 1859, p. 46.
27)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 255.
28)
Vd. ibidem.
29)
G.PASQUALI MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum…, cit., p. 25.
30)
APM, Carte sparse…, cit., n. 2, p. [11].
31)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 251.
32)
G. PASQUALI MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum…, cit., p. 39.
33)
Un interessante ritratto di un esponente di questa corrente di pensiero, l’abate
toscano Giovanni Pierini, strenuo difensore del cattolicesimo più conservatore nell’ex
Granducato, è in S. MUGNAINI, Spiriti, profeti, fattucchiere…, cit., passim.
268
34)
Vd. n. 16.
35)
CONTE DESBASSAYNS DE RICHEMONT, Brevi parole intorno alla
frammassoneria, Italia 1862, p. [3]. Su questo argomento, cfr. G. SPADOLINI,
Cattolicesimo e Risorgimento, cit., pp. 858-859; S. MUGNAINI, Spiriti, profeti,
fattucchiere…, cit., pp. 245-246.
36)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 302.
37)
Vd. G. PASQUALI MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum…, cit., p. 21.
38)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 228.
39)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 302.
40)
APM, Epistolario, n. 11, minuta di lettera datata Camerano, 11.4.1872.
41)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, Maximorum Pontificum Series Latinis
versibus auctore Josepho Paschalio Marinellio. Ex manuscriptis Auctoris transcripsit
Petrus Advocatus Januizzius… MDCCCLXXVI, p. 67.
42)
Ibidem.
43)
Vd. ad es. APM, Carte sparse…, cit., n. 2, p.[3], pp.[5] ss., pp.[8]-[9]; n. 6, p.[23].
44)
APM, Carte sparse…, cit., n. 2, p.[5].
45)
APM, Carte sparse…, cit., n. 6, p.[23].
46)
APM, Carte sparse…, cit., n. 2, p.[3].
47)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 306.
48)
Ibidem.
49)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 298.
50)
Vd. ad es. APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 259262. Nella raccolta di scritti contenuta in APM, Carte sparse…, cit., probabilmente perché
pervenuta non per intero, resta un solo discorso di Cavour, pronunciato in parlamento il
25.3.1861: vd. n. 2, pp. [15]-[16].
51)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 259.
52)
APM, G. PASQUALI MARINELLI, ...Carmina inedita, cit., n. 261.
53)
APM, Epistolario, cit., lettera del 13.10.1865 a don Marino Marinelli.
54)
Su Francesco Ambrosoli, vd. A. ASOR ROSA, Ambrosoli, Francesco, in
Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960-, v. 2, pp. 734-735.
55)
APM, Epistolario, cit., lettera del 13.10.1865 a don Marino Marinelli.
56)
Ibidem.
57)
Per l’opinione di Giuseppe Pasquali Marinelli sullo stato degli studi del latino in
Italia nel suo tempo, vd. anche M. MORRONI, Giuseppe Pasquali Marinelli…, cit., pp. 8184.
58)
“Corriere della Marche”, n. 334, 4.12.1871.
59)
Vd. ASC, Deliberazioni consiliari, 1861, maggio 16-1864, dicembre 15, seduta
del 28.6.1863, p. 204.
60)
S. PATRIGNANI, Della vita e degli scritti di Giuseppe Pasquali Marinelli di
Camerano d’Ancona. Brevi memorie storiche raccolte per la prima volta dal canonico
269
Serafino Patrignani maestro del Seminario Vescovile di Ancona, Ancona 1863; M.
MARONI, In memoria di G. Pasquali-Marinelli e di Enrico Jacomini, Camerano 1905.
61)
M. MARONI, In memoria di G. Pasquali-Marinelli…, cit., p. 12.
62)
S. PATRIGNANI, Della vita e degli scritti di Giuseppe Pasquali Marinelli…, cit.,
p. 26.
63)
Vd. ASC, Deliberazioni consiliari, cit., seduta del 16.5.1861, p. 1.
64)
Vd. ASC, Deliberazioni consiliari, cit., seduta del 20.10.1861, p. 41.
65)
Vd. ASC, Deliberazioni consiliari, cit., p. 45.
66)
Vd. ASC, Deliberazioni consiliari, cit., passim.
67)
Vd. ASC, Deliberazioni consiliari, cit., risp. p. 48 e p. 71.
68)
“Dispose […] che, alla morte, l’intero suo patrimonio fosse destinato alla
fondazione di un ospedale-ospizio per i poveri-infermi del paese […]” (G. PASQUALI
MARINELLI, De pugna ad Castrumficardum…, cit., p. 197. Vd. anche S. PATRIGNANI,
Della vita e degli scritti di Giuseppe Pasquali Marinelli…, cit., pp. 33-36.
69)
Nel corso dell’Ottocento, almeno fino all’Unità, il termine “patria” tende ancora ad
indicare anche la propria città, per il cui vantaggio ciascuno dei suoi cittadini si sente
impegnato; vd. ad es., per Ancona, G. PIRANI, La classe dirigente ad Ancona negli anni di
Pio IX prima dell’Unità: dal ceto patrizio al nobilato. Relazione presentata al Convegno di
studi su Il territorio umano e fisico nelle Marche nei grandi anni di Pio IX, organizzato
dalla Deputazione di Storia Patria per le Marche e dal Comune di Senigallia, di prossima
pubblicazione.
270
Luciana Carile
De pugna ad Nomentum
La realtà storica.
Il fatto di Mentana è strettamente connesso alla Convenzione di
Settembre del 15 settembre 1864, stipulata dai due governi di Parigi e di
Torino all’insaputa del Governo Pontificio. Tale convenzione stabiliva che
le truppe Francesi, che dal 1849 montavano la guardia al potere temporale
dei Papi, avrebbero dovuto lasciare Roma entro due anni e che il Governo
italiano s’impegnava a non attaccare il territorio Pontificio, i cui confini
erano ormai estremamente ridotti dalle falcidie subite nel ’60, e avrebbe
altresì impedito, anche con l’uso della forza, che quel territorio venisse
attaccato dall’esterno.
Nello stesso tempo il Governo italiano si impegnava a trasportare la
capitale in altra città, poi si decise per Firenze, dando in tal modo garanzia
che non avrebbe cercato di penetrare in Roma dopo che questa fosse stata
sgomberata dalle truppe Francesi. Con tale accordo si otteneva che i
Francesi, principale sostegno del Papa, uscissero dall’Italia, e ciò
rappresentava già un gran risultato diplomatico dal momento che una
soluzione violenta della questione Romana sembrava poco opportuna data la
pericolosa presenza dell’Austria nel Veneto ed il fiorire del brigantaggio al
Sud, alimentato dagli aiuti e dalle speranze dei fuoriusciti borbonici.
E’ anche vero, comunque, che i Francesi avevano promesso di
intervenire immediatamente qualora il Regno Pontificio fosse stato messo in
pericolo da assalti o sommosse interne. A tal proposito Napoleone III aveva
concentrato circa 20.000 uomini tra Tolone e Marsiglia, pronti,
all’occorrenza, ad imbarcarsi per Civitavecchia.
Il Papa, nel frattempo, nei due anni successivi alla Convenzione di
Settembre, si era preoccupato di ordinare un nuovo esercito al comando del
generale tedesco Kranzler, che da un ventennio militava sotto la bandiera
pontificia.
271
Una intensa propaganda, che additava al cuore dei cattolici la gravità
della minaccia che incombeva sul Pontefice, aveva portato ad arruolarsi
soldati ed ufficiali provenienti dalla Francia principalmente, ma anche dal
Belgio, dalla Spagna, dall’Irlanda, dalla Polonia. Il risultato fu un esercito
ben armato ed equipaggiato di 10.000 uomini.
Anche ideologicamente Pio IX aveva ribadito la sua intransigenza con
la pubblicazione del Sillabo degli Errori Umani, avvenuta tre mesi dopo la
Convenzione di Settembre. In esso si condannavano tutte le dottrine
professate dal liberalismo, dal laicismo e dal cattolicesimo liberale (per non
parlare del socialismo e del comunismo) e cioè la libertà di coscienza, di
parola e di pensiero, la separazione tra Chiesa e Stato, nonché la scuola
laica, sottratta al controllo dei vescovi.
Intanto a Firenze, Garibaldi, ancora una volta strumento e vittima
prescelta della politica italiana, organizzava un centro dell’emigrazione
romana, per riunire le forze patriottiche miranti alla liberazione di Roma.
Pensavano che un’azione rapida avrebbe messo i Francesi di fronte al fatto
compiuto, senza dar loro il tempo di intervenire. Contavano sull’appoggio
della monarchia e su quello del primo ministro del Governo italiano
Rattazzi.
Costui non ostacolò l’arruolamento dei volontari, né i preparativi
condotti da Garibaldi, mentre quest’ultimo sperava di aggirare l’ostacolo
della Convenzione di Settembre, provocando un’insurrezione all’interno
dello Stato Pontificio a cui avrebbe prestato man forte intervenendo
legittimamente dall’esterno.
Quando però Garibaldi si risolse ad iniziare le operazioni, il Governo
italiano oscillò, fu incerto, perplesso, esitante: forse l’impresa era prematura.
Garibaldi fu arrestato a Siena e confinato a Caprera.
Contemporaneamente il Governo italiano non seppe, non poté o non volle
impedire ai volontari garibaldini di passare la frontiera e di portare la guerra
all’interno dello Stato Pontificio.
Alcuni di essi penetrarono sia dal Viterbese che da Frosinone ed ai
primi di ottobre del ’67 si ebbero alcun scontri a Vallecorsa, alla Morleta e a
Falvaterra. Eludendo la sorveglianza delle navi della marina regia, Garibaldi
salpò da Caprera e giunse a Firenze il 22 ottobre.
272
Frattanto il tentativo di insurrezione guidato a Roma da Monti e
Tognetti fallì. Il giorno dopo l’avanguardia garibaldina fu circondata a Villa
Glori e fallì l’eroico tentativo dei fratelli Cairoli di portare, via fiume, le
armi ai congiurati romani.
Costretto a sconfessare l’impresa per le proteste di Napoleone III,
Rattazzi si dimise. Non per questo Garibaldi desistette dai suoi propositi,
anzi sconfinò in forze nelle terre del Papa.
Dopo la sanguinosa conquista di Monte Rotondo, avanzarono fino a
Roma, ma dovettero constatare il fallimento dell’impresa quando non videro
segni d’insurrezione. La sera del 29 ottobre Garibaldi, informato che i
Francesi erano giunti a Roma, ordinò una ricognizione fino al ponte
Nomentano. Accolti a fucilate i volontari ripiegarono su Monte Rotondo.
Nonostante l’ingente numero di 22.000 soldati Francesi in marcia
verso la zona delle operazioni, Garibaldi ordinò di dirigersi alla volta di
Tivoli, per poi scendere su Roma da quella collina. Era il 3 novembre 1867.
I garibaldini presenti quella mattina erano 4.700, in quanto una parte si era
sciolta dopo lo scontro del ponte Nomentano e altri erano frazionati in vari
distaccamenti.
In quella giornata piovosa i bersaglieri dei Com.ti Missori e Burlano
marciavano in testa, un battaglione fiancheggiava la destra, i carabinieri la
sinistra. Seguiva il grosso dell’esercito con alcuni pezzi di artiglieria e la
retroguardia, comandata dal Cantori, chiudeva la colonna.
Dopo un’ora di strada sul colle di Mentana, l’avanguardia fu
bersagliata dal fuoco della fucileria. Erano gli zuavi Pontifici attestati a Villa
Santucci, i quali, rinforzati dai carabinieri esteri e dai legionari d’Antibo,
arrestarono l’avanguardia garibaldina.
Uno slancio fulmineo del battaglione Menotti riuscì sulle prime a far
sloggiare gli zuavi dalla loro posizione, ma il sopraggiungere della brigata
francese, armata dei nuovi fucili chassepot, obbligò i garibaldini stessi a
ripiegare su Monte Rotondo, senza neppure potervi giungere, poiché nuove
forze nemiche erano riuscite con movimento avvolgente a tagliar loro la
strada. Giunta la sera il fuoco cessò da ambo le parti; i volontari nella notte
si avviarono verso passo Corese e all’alba del 4 novembre consegnarono le
armi alle truppe italiane di sorveglianza al confine.
273
Garibaldi, arrestato alla stazione di Fìgline veniva tradotto al forte di
Varignano.
Le perdite di quella giornata furono:
Volontari Garibaldini - 220 feriti, 150 morti;
Pontifici - 103 feriti, 30 morti ;
Francesi - 38 feriti, 2 morti.
Il combattimento di Mentana, militarmente di modesta importanza,
ebbe grande ripercussione politica: valse ad annullare il beneficio che la
Convenzione di Settembre aveva promesso, cioè l’allontanamento dei
Francesi da Roma. Questi ultimi perdettero la riconoscenza, conquistata nel
’59 e allorché nel 1870 richiesero, nella guerra contro la Prussia, l’aiuto
dell’Italia, questa dichiarò la propria neutralità in tale conflitto.
Mentana, inoltre, segnò una grave sconfitta per la sinistra democratica,
rivelando l’impossibilità di una collaborazione, anche temporanea, tra forze
governative e il movimento popolare garibaldino. Tramontò la politica dei
generosi colpi di mano compiuti da volontari, degli assalti alla baionetta,
dell’eroismo individuale, di stampo romantico, alla maniera dei fratelli
Cairoli.
La trasfigurazione poetica.
Ciò che più mi ha colpito traducendo il “De pugna ad Nomentum” è
l’abile uso che il Pasquali fa delle tinte per conferire drammaticità alle
azioni delineate nel suo affresco e nel contempo per far capire a chi legge
dove risiede il male e dove il bene. In tal modo il poeta, papalino convinto,
fornisce un’inequivocabile idea del suo credo politico.
La figura di Pio IX, sempre irradiante un’aura luminosa ed eterea,
rappresenta la moralità, la buona fede, la generosità. Egli è l’unico convinto
difensore della Cristianità contro le forze del male. Diventa incomprensibile
perciò l’empia volontà dei rivoluzionari, figure brumose e demoniache, di
insidiare Roma e con essa le leggi più sacre dell’umanità. Essi costituiscono
la “seditio” come la definisce il Pasquali, sono strumento di Satana, per
questo, maestri d’inganni.
274
Fu per inganno, infatti, che al Papa furono sottratti i territori delle
Marche e dell’Umbria, una frode ai suoi danni fu la Convenzione di
Settembre, per la quale egli restò solo e privo d’appoggio.
Il tranquillo ovile pontificio è di continuo assediato da lupi famelici
che con la bava alla bocca e le fauci spalancate mettono malvagiamente a
repentaglio la vita delle inermi pecorelle del Papa.
Persino Garibaldi, secondo l’interpretazione pasqualiana, viene
indotto a portare guerra al Padre della Cristianità da una perversa
macchinazione ordita dal demonio. A lui, relegato a Caprera, il Maligno
mostra una fittizia immagine di donna che, lacera e scarmigliata, tende le
braccia verso di lui dicendo: “Illa ego sum / gentes olim dominata / per
omnes quot sol lustrat aquis” - è Roma, una volta dominatrice del mondo,
adesso in catene e in balia di un crudele mostro.
Lo supplica di ricongiungerla al corpo di cui ella costituisce l’unica
degna testa, l’unica in grado di restituire all’Italia l’antica dignità. “Mobilita
i giovani italiani - dice - essi avranno facile vittoria sulle truppe mercenarie
del Papa!”
Garibaldi si infiamma subito, lascia Caprera e, quale trottola di bosso,
percorre in lungo e in largo l’Italia, incitando il popolo a liberare Roma
dagli artigli del mostro dal triplice corpo e a gettarlo nelle acque del Tevere.
E’ come invasato, sconvolto dal demone Stigio. Le sue parole - una
pestilenza che attacca i corpi più deboli - i più giovani, infatti, gli credono
“seseque rubris tum vestibus ornant confertique arma capessunt” prontamente indossano la camicia rossa e imbracciano il fucile.
Garibaldi va quindi a Firenze e si presenta a Vittorio Emanuele II,
questi si dichiara consapevole del problema e desideroso di risolverlo, ma
confessa di avere le mani legate dall’accordo con i Francesi. Un altro
inganno viene suggerito e dallo stesso Re: “Quantum valemus fraudibus,
utendum”. Gli propone di agire rapidamente e di conquistare Roma prima
che i Francesi possano inviare aiuti: “Anch’io - dice - stanzierò un grande
esercito al confine pontificio affinché sembri che io voglia difenderlo, in
realtà con la funzione di aiutarti di nascosto”.
Intanto Pio IX, ci narra il Pasquali, sentendo approssimarsi la tempesta
e vedendo le minacciose nubi della rivoluzione addensarsi sul suo capo, si
275
chiede chi mai potrà portargli aiuto: “Quis mihi, nunc in discrimine tanto
deferet auxilium?” Passa così in rassegna tutti i possibili alleati: la Francia è
da escludere perché compromessa con la “turba ribelle” dei liberali italiani;
la Spagna è logisticamente troppo vicina alla Francia; la Germania ed il
Belgio non osservano le leggi divine; l’Austria è indebolita dalla guerra;
Russia e Prussia estranee all’ovile di Cristo. La troppo lontana America è
travagliata dalla guerra. Alla fine si risolve di confidare unicamente
nell’aiuto divino, che non è mai mancato alle cause giuste.
Ma il mondo cristiano è in subbuglio, la notizia che il Santo Padre è in
pericolo si diffonde e, quali cavalli scalpitanti e frementi, generosi volontari
arrivano a Roma da tutti gli angoli della terra, “a finibus Africae venere
atque Indis” ci narra il Pasquali esagerando un po’ “misitque Peruvia tellus,
Aethiopumque solum; Lapponia et aspera misit”.
Si scatena una vera e propria gara tra coloro che anelano a vestire le
armi pontificie; c’è persino qualche infedele che, prima di donare la vita al
Papa, ne abbraccia la fede. Ma il Papa, seppure rasserenato, non può non
inorridire di fronte a questa guerra che i figli ribelli gli avevano dichiarato.
Con l’ingresso del Sole nella costellazione della Bilancia, insieme
all’autunno, arrivano gli eserciti nemici, che, smaniosi di combattere,
prendono a riversarsi, da ogni parte, nelle terre pontificie. Ai loro assalti
respinti coraggiosamente dalla gioventù del Papa, seguono altri assalti,
incessanti, quali onde gigantesche che, senza posa, si infrangono sugli
scogli.
Alcuni dei rivoluzionari entrano, sotto mentite spoglie, nella capitale
“Roman ingressi, sub imagine falsa, occultis cumulare locis caedique parare
arma”. Con l’aiuto di piani ingannevoli ammucchiano armi in case oltre il
Tevere (che fortunatamente vengono scoperte) e nascondono polvere da
sparo, “sulphureus pulvis”, in punti strategici. Nella zona di S. Pietro, verso
mezzanotte, si ode una violenta esplosione che distrugge in parte la caserma
zuava e poi gemiti e grida di uomini. Corpi di morti e feriti, schiacciati dalle
macerie, ricoprono la zona circostante.
Il Papa inorridisce di fronte a tale malvagità ed empietà delle azioni
nemiche e si rivolge in preghiera a S. Pietro: “O qui pontificum primus qua
ecclesia sistit, es petra, con le perverse armi dell’inganno, il nemico attacca
276
la città che tu fissasti come sede. Non lasciare che la capitale della fede
venga profanata. Almeno questa ultima parte del Regno ci venga conservata,
libera e non soggetta a leggi laiche, affinché i tuoi successori possano
esercitarvi il proprio ufficio”.
“Sacrata ex arca petris ostendit imago”, la fulgida immagine di S.
Pietro gli appare dal tabernacolo: “Non disperate - gli dice - la tua
devozione ti ha legato a Dio. Questi ti ha già aiutato, rendendo manifeste
alcune sacrileghe trame ordite ai danni della tua città e, se tollerò che
qualcosa avvenisse, fu solo per mostrare a tutti la malvagità dei cospiratori,
che alfine se ne andranno coperti di vergogna”.
A questo punto l’autore sposta l’azione in Francia. Seguiamo quindi
l’angelo custode del Papa che, a un cenno di questi, parte, armato di tromba,
alla volta della Francia. Qui l’angelico suono giunge all’orecchio
dell’angelo a cui una volta fu affidata la nazione francese e che, a sua volta,
dà fiato ad suo strumento. “Commota est séquana canto, motus Arar, motus
Rodhanus, motus Garumna”.
Il popolo francese ode e ne è turbato, freme d’amore per il Pontefice,
arde dal desiderio di intervenire al suo fianco. Napoleone III da tempo era
indeciso sul da farsi, se cioè fosse legittimo intervenire contro gli alleati
italiani venendo meno ad un patto, ma conquistando le simpatie dei sudditi
cattolici. Alla notizia che il suo popolo desiderava con tutto il cuore aiutare
l’esercito pontificio, depone gli indugi e comanda alle navi già schierate sul
litorale di far rotta verso l’Italia. Il vapore spinge le prue veloci sulle onde,
la caligine offusca il cielo.
“Roseo cum sol se protulit ortu, diffugiunt tenebrae”, come al roseo
sorgere del sole svaniscono le tenebre, così l’arrivo dei Francesi,
generosamente pronti a combattere, mette in fuga tutti i timori del Papa.
Il comandante francese si incontra a Roma con quello pontificio e
quest’ultimo lo ragguaglia sull’andamento delle operazioni. Con brevi tratti
gli narra come le turbe rivoluzionarie provenienti dalla Toscana erano state
coraggiosamente respinte presso il monte Cimino e che, altre schiere ribelli,
disperse presso Bagnoregio e Acquapendente, si erano rifugiate nelle mura
di Bagnoregio. Dopo vari tentativi di espugnare la città un grosso cannone
era stato portato a braccia (date le asperità del terreno, non potevano
277
trascinarlo, precisa l’autore) e piazzato davanti alla porta della città, che ai
primi colpi si era schiantata completamente “Dat crepitum molemque vomit,
labat impete magno ianua, dissiliunt trabes et, cardine vulsi, praecipitant
postes”. Tra le ovazioni del popolo liberato era stata alzata una bandiera
bianca ed il nemico aveva lasciato la città.
Come un fiume in piena che, arginato, apre mille rivoli, il nemico era
straripato nelle campagne. Molti zuavi erano caduti in generoso
combattimento, la terra Sabina si era coperta di cadaveri. Gli scontri si erano
susseguiti agli scontri, l’insurrezione di Roma che doveva spianare la strada
ai ribelli era fallita perché, dice il Pasquali, la popolazione aveva temuto di
aggiungere stragi a stragi.
Il duce francese descrive l’empietà dei nemici: “essi rubano,
profanano gli altari e i paramenti sacri, offendono le sante immagini,
disperdono le ostie consacrate”. La malvagità del nemico è messa ancor più
in evidenza dai “pulcherrima facta” dei giovani pontifici, che donano la vita
e accettano in dono la morte. Non si contano i gesti di coraggio e
abnegazione: un trombettiere che aveva avuto due dita della mano destra
amputate da un proiettile, impugna la tromba con la sinistra e senza sosta
continua ad incitare alla battaglia. Un soldato del Papa è addosso ad un
nemico, ma ne ha pietà e lo risparmia e, quando costui di rimando gli spara
al petto, morendo, implora pietà per l’anima di quello.
Le ostilità vengono quindi riprese il giorno successivo. Il Pasquali ci
descrive come le schiere Francesi e Pontificie dopo essere state incitate dai
rispettivi comandanti si ordinano in un unico esercito che, passato l’Aniene,
si divide: una parte sotto la guida di Troussures, va lungo l’argine del
Tevere; un’altra si dirige verso la Salaria, disponendosi ad accerchiare il
nemico; il grosso dell’esercito va verso il colle dove è situata Mentana.
Una fornace di mattoni che caratterizza il colle cosiddetto della
Torretta, una splendida tenuta situata sul colle adiacente, una località
chiamata l’Apparizione ed un eremo poco distante fanno da sfondo alla
battaglia che si scatena furibonda.
“Ut aquilae de vertice saxi praecipitant avidae, rostroque atque
unguibus uncis correptos lacerant” i contendenti si gettano nella mischia in
un furioso corpo a corpo, dilaniando senza pietà i propri nemici.
278
E’ una strage, urla orrende feriscono il cielo, e la terra rosseggia di
sangue copioso. All’eroico sacrificio di tanti illustri ufficiali, sembra
assistere lassù tra le nubi uno stuolo di anime fulgide che dettero la vita a
Castelfidardo, in difesa della legge di Cristo. Pimodan e Lamoricière
spiccano tra di loro: serti dorati cingevano loro le tempie e avevano palme
tra le mani. Da loro si propaga un'aura luminosa che colpisce il petto dei
giovani Pontifici infondendo loro una forza sovrumana e se qualcuno
soccombe, viene tosto circondato dai suoi spiriti che lo abbracciano,
cingendolo di alloro.
Su tanta luce beata il Pasquali stende l’ombra minacciosa del figlio di
Satana, nelle sembianze di un orribile drago a sette teste, delle quali, però,
due soltanto sono al loro posto. Una, infatti, andò perduta mentre difendeva
false divinità, un’altra mentre favoriva gli eretici, la terza la perdette
sostenendo i turchi, la quarta allorché invocò la legge pontificia contro i
tiranni germanici, la quinta difendendo il vergognoso scisma di Lutero.
“Agite, agite, iuvenes, Italae spes unica gentis” dice “haec viam quae
Roman ducit”, affrettatevi Roma vi aspetta a braccia aperte. Distruggete per
una giusta causa questa ignobile stirpe di mercenari. Che l’unico motto per
voi sia: “Aut Roma aut letum” O Roma o morte! - Così incitando
ingannevolmente i propri proseliti la funesta immagine della sedizione
andava per il campo di battaglia cavalcando l’Idra infernale che, gonfia di
veleno, sibilava minacciosa.
Quali giovani cinghiali che si precipitano lungo i crinali svellendo con
le forti zanne le piante che ostacolano il loro impeto, così i giovani del Papa
conquistano i colli intorno a Mentana, spazzando via i nemici. Questi,
incalzati dai giovani Pontifici infiammati di divino coraggio, raggiungono la
rocciosa sommità di un colle vicinissimo a Mentana. All’apice della
battaglia alcuni ribelli fuggono colpiti alle spalle dal piombo degli
inseguitori, altri precipitano dalle rupi bagnando di sangue le vigne
sottostanti.
I Pontifici allora, racconta il Pasquali, prontamente collocano le armi
pesanti tra i colli della Torretta e quello della tenuta, incalzando a colpi di
cannone sia i fuggiaschi, sia quelli asserragliati nella fornace. Il cielo
risuona degli scoppi, il fumo si solleva in vortici.
279
I garibaldini sono ormai in una morsa e arretrano davanti alle schiere
Francesi. Una voce tuona dall’alto: “Percute, iam Pimodan, oscenum
percute monstrum”. E costui, afferrata la gloriosa spada di Castelfidardo,
taglia una delle due teste del drago infernale. Tra strida altissime e fendendo
l’aria con la coda, la creatura di Satana fugge e con lei anche la “seditio”
abbandona il campo.
La rivoluzione è sconfitta, la pace ritorna sulla terra. Le anime beate
allora intonano un canto: “Salvete heroes, dulces salvete sodales” godetevi il
trionfo che meritaste per aver rischiato la vita. Grazie a voi il Papa, che forte
l’invitto resisté ad ogni minaccia ed oltraggio, resta l’unico baluardo contro
l’arbitrio e la libertà eccessiva. Imparate popoli della terra: non può esserci
Stato al mondo che non poggi sullo Stato Pontificio!
280
Fabio Toccaceli
Da un centenario all'altro
Storia di una libreria e del suo poeta caduti nell'oblio
1. Per dono una Libreria
Da un Centenario all'altro, la storia della libreria di Giuseppe Pasquali
Marinelli altro non è che la storia di una libreria dimenticata, come
dimenticato è per i cameranesi il poeta e priore, il benefattore. In linea
generale, possiamo affermare fin d'ora che, mentre sulla libreria il silenzio
cala verso il 1887 e, da allora, nessuno saprà più nulla circa il suo utilizzo o
il non utilizzo fino a pochi anni fa, la memoria del Pasquali Marinelli,
circoscritta essenzialmente al benefattore, molto viva invero fino al 1893,
verrà definitivamente meno a partire dal 1913. Ma procediamo con ordine
cronologico, partendo dalle disposizioni testamentarie, redatte sotto la data
del 4 Novembre del 1873, con le quali Giuseppe Pasquali Marinelli
istituisce suo erede generale i poveri del Municipio di Camerano sua patria.
Scrive, adunque, il poeta:
In nome di Dio - Amen. Istituisco mio erede generale i poveri del Municipio di
Camerano mia patria nel modo che sono per dire. Istituisco mio erede usufruttuario, sua
vita naturale durante l'unico mio carissimo fratello Vincenzo. (...) Avvenuta la mia morte
mio fratello amministrerà per qualche tempo i beni ereditari finchè estinguansi colle rendite
di essi le passività o debiti che da me si fossero per avventura lasciati, e finchè si stampino
le mie opere letterarie che rimangono a stamparsi. Quali rendite di mano in mano che verrà
egli realizzando il mio fratello le passerà al carissimo amico Sig. D.Gervasio Petrelli il
quale mi ha gentilmente promesso d'assumersi volentieri l'incarico di tale stampa. Pagati i
miei debiti se vi saranno accumulata la somma occorrente alla sopradetta stampa,
comincerà mio fratello ad usufruire i miei beni fino alla sua morte. Morto mio fratello (...)
Estinti i debiti che gravitano l'eredità, dovrà farsi della mia casa un pubblico Ospedale che
sarà mantenuto secondo l'estensione di esso, colle rendite dei miei beni pei poveri del
Municipio, il che si effettuerà anche meglio, se mio fratello farà la stessa disposizione. (...)
Così dispongo -conclude Giuseppe Pasquali Marinelli- per ultima volontà, a gloria di Dio e
a beneficio della mia Patria.
281
La prima testimonianza documentata ove si fa cenno della libreria è
data da una delibera del Consiglio Comunale adottata nella seduta del 25
Settembre 1875, a due mesi appena dalla scomparsa del poeta, avvenuta,
com'é noto, l'11 Luglio. Il civico consesso è invitato, nella circostanza, a
trattare dei provvedimenti circa le anzidette disposizioni testamentarie.
Esordisce il Presidente:
Come è già noto alle S.S.V.V. il compianto fu Dottor Giuseppe Pasquali Marinelli
ha lasciato per testamento tutti i suoi beni a prò di uno Ospedale per gl'infermi poveri di
questo suo paese natio. Approssimandosi il tempo utile per denunciare la di lui successione
in concorso con il di lui fratello Vincenzo istituito erede usufruttuario, e quindi di pagare la
relativa tassa di successione, è mestieri provvedervi, come pure di provvedere un locale per
allocare la di lui libreria affidata e consegnata, egli vivente, al Municipio per mezzo del Sig.
Maestro Don Alessandro Masseria. Il locale più adatto, ed anche più aggradito allo stesso
Sig. Vincenzo Pasquali Marinelli sarebbe la Sala attigua alla Scuola Elementare Superiore,
locale che prestasi mirabilmente anche per la sorveglianza diretta che hanno i due Maestri
primari in qualità di bibliotecario l'uno e di sotto bibliotecario l'altro. Propone quindi che
sia incaricata persona per denunciare la successione ed esaurire gl'incombenti relativi, e che
sia destinato il locale suddetto per riporvi la libreria. Il Consigliere Sig. Giorgetti propone
che la Giunta si debba incaricare tanto per denunciare la successione quanto ancora per la
sala del locale per la biblioteca e custodia della medesima. La proposta del Sig. Giorgetti è
appoggiata dal Sig. Ragnini. Il Sig. Presidente formula quindi la seguente proposta: "Se
piace al Consiglio dare facoltà alla Giunta e per essa al Sindaco di incaricarsi per la
denuncia di successione come pure di provvedere al locale e custodia della biblioteca,
dicendo: A chi piace si alzi a chi non piace resti seduto. La proposta del Sig. Presidente
venne approvata ad unanimità per alzata concorde.
In segno di gratitudine, il Consiglio Comunale, nella successiva seduta
del 28 Ottobre provvede a decorare la Sala Consiliare dei semibusti del
Dottor Giuseppe Pasquali Marinelli e del Cav.Carlo Maratta. Il Presidente
rammenta
agli Onorevoli Consiglieri come all'apertura della presente sessione esternò il
desiderio di decorare questa Sala Consiliare dei due semibusti, uno del Dott. Giuseppe
Pasquali Marinelli, l'altro del Cav. Carlo Maratta, uomini che questo paese deve loro onore
ed eterna riconoscenza si per le loro opere scientifiche ed artistiche si ancora per i benefici
recati al paese stesso. Spera adunque che l'Onorevole Consiglio non vorrà negare il voto ad
un'opera che maggiormente terrà in memoria si eminenti uomini. I Consiglieri Sigg.
Marlesi Ferdinando e Ragnini Giuseppe appoggiano il desiderio del Sig. Presidente,
282
pregando anzi la Giunta a volersi incaricare di simile decoro. Niun'altro prendendo la
parola, il Sig. Presidente formola la seguente proposta: Se piace al Consiglio dare facoltà
alla Giunta di far decorare la Sala Consigliare dei semibusti dei sullodati benefattori,
togliendo dal fondo Casuali 1876 la spesa occorrente a tal lavoro, dicendo: A chi piace si
alzi a chi non piace resti seduto. La proposta del Sig. Presidente venne approvata
all'unanimità per alzata concorde.
Al di là del semibusto, questi frangenti di storia di sedute consiliari
servono per aprire il discorso sul periodo post-Pasquali Marinelli, su come il
paese di Camerano ha vissuto la "eredità" non solo culturale del poeta e
priore. Servono anche per capire la sorte di una delle donazioni più
importanti fatte dal poeta al paese natio, e cioè la sua libreria, eppure la più
dimenticata, come dimostreranno gli eventi dei decenni che seguiranno.
Focalizzano, infine, la figura di uno dei personaggi chiave della vicenda e
protagonista dell'ultimo periodo di vita del Pasquali Marinelli e del
ventennio successivo alla di lui morte, cioè il Massaria.
La libreria personale viene donata dal Pasquali Marinelli, come riporta
la delibera consiliare sopra citata del 25 Settembre 1875, al Comune, lui
vivente, per il tramite del Maestro Massaria. Perchè il Massaria? Massaria,
nato nel 1828, ordinato sacerdote, ricopre in paese l'incarico di maestro
elementare dall'anno 1862 (vi è nominato con delibera consiliare del 19
Novembre dello stesso anno, ma figura in servizio già dal precedente) fino
all'anno scolastico 1889/1889; diventerà anche presidente della locale
Congregazione di Carità; morirà nel 1898. Ma al di là di queste scarne note
biografiche, non bisogna dimenticare un fatto estremamente importante e
cioè che Don Massaria è strettamente legato al Pasquali Marinelli per essere
stato da questi avviato alla carriera ecclesiastica e mantenuto negli studi. Al
suo benefattore dedicherà anche un libricino "Vita di Giuseppe Pasquali
Marinelli da Camerano", edito nel 1893, anno del primo centenario della
nascita del poeta e priore, che non costituirà, tuttavia, la pubblicazione
ufficiale del comitato promotore dei festeggiamenti: forse lo pubblica
appositamente, in risposta a tale esclusione, anche se avverte che scrive
nè per odio d'altrui nè per disprezzo, ma per dire il vero qualunque egli sia al popolo
che tu (rivolgendosi idealmente al Pasquali Marinelli) amasti e compiangesti nelle sue
miserie più che padre.
283
Nella dedica, Massaria spiega il motivo di questo libricino:
A te anima grande e sublime ingegno di Giuseppe Pasquali Marinelli, a cui mi
legano immensi obblighi, consacro queste pagine, qualunque esse siano, nel primo
centenario di tua nascita. Esse non ti potranno fare onore come meriti, chè non son tali; ma
spero che basteranno a mostrarti la viva riconoscenza e gratitudine che per te nutro.
Al Massaria, quindi, il poeta e priore affida la sua libreria, donata al
Comune. Gliela affida perchè, essendo il Massaria maestro, essa deve
servire agli alunni cameranesi delle scuole elementari? oppure gliela affida
per gli stretti legami di amicizia che esistono tra i due? o, infine, perchè
nella considerazione del Pasquali Marinelli, il maestro è l'unica persona a
Camerano, per cultura e amore dei libri, a cui può essere affidato un così
importante patrimonio? Sotto questo punto di vista, si può parlare per il
poeta di una scelta quasi obbligata.
Lo
stesso Massaria, nella sua qualità di
Presidente della
Congregazione di Carità, l'8 Marzo del 1884, provvederà a redigere
l'inventario dei beni immobili lasciati dal defunto Giuseppe Pasquali
Marinelli ai poveri del Comune di Camerano per l'erezione di uno Spedale
per gl'infermi, desumendolo dal certificato di denunciata successione
rilasciato dall'Ufficio del Registro di Ancona in data 6 Gennaio 1876; sarà
lui, pertanto, a recarsi nella casa del poeta, in Via Fontenuova, civico
numero uno, per redigere l'inventario dei beni mobili goduti sì gli uni che gli
altri in usufrutto dal fratello del defunto Vincenzo Pasquali Marinelli, sua
vita natural durante, come al testamento olografo, in data 4 Novembre 1873,
pubblicato dal Regio Pretore del 1° Mandamento di Ancona il 18 Agosto
1875; è assistito dai periti, a lui cogniti, Nicola Barbadoro, bottaio e
legnaiuolo, nato, domiciliato e residente in Camerano e Luconi Alessandro,
fattore, anch'egli cameranese, e dai testimoni Cesare Simonetti e Vittorio
Rabini, entrambi di Camerano. L'inventario viene redatto col consenso del
predetto Vincenzo Pasquali Marinelli, il quale pel testamento ha l'usufrutto
dei predetti beni mobili ed immobili con espresso divieto di fargli alcun
inventario. Nell'inventario Massaria, distinguendo la metà spettante
all'eredità in parola e l'altra metà al di lui germano superstite ed erede
Pasquali Marinelli Vincenzo e quindi non riportata in denunzia, elenca: un
284
predio rustico in Mappa Camerano, in contrada Fontanella; altro simile in
Mappa San Germano, in contrada San Germano; un altro in Mappa
Boranico in contrada Fontenuova: tutti e tre della complessiva superficie di
ettari 11,64,40 (parte spettante all'eredità del defunto: £. 8250); un altro
predio rustico nel Comune di Loreto, Mappa Casette, contrada Banderuola,
di ettari 1,64,40 (£. 2100); una casa situata in Camerano, in contrada
Fontenuova al numero 5 (£. 1200); un'altra casetta in detto Comune, in
contrada Fontevecchia, ai numeri 9 e 10 (£. 400). Nel piano superiore della
casa di proprietà e di abitazione del fu Giuseppe Pasquali Marinelli,
Massaria ritrova i seguenti oggetti: in cucina: un caldaiuolo di rame, due
piccole casseruole ugualmente di rame (valore complessivo £. 6.75); nella
camera da pranzo: una piccola tavola di noce quadrata per quattro persone in
mediocre stato £. 8.50), due seggiole di noce in poco buono stato (£.1); nella
saletta da ricevere: un canapè di noce con cuscini di cotone, riempiti di
stoppa e tutto abbastanza consumato (£.7.25), un cassettone di noce con tre
cassetti vuoti a chiave in discreto stato (£.20), sei seggiole di noce nero
mezzo sconnesse e abbastanza logore (£.4.50); nella camera da letto del
defunto: un lettino di ferro con saccone e materasso di lana (£.50), un
cassettone di noce con tre cassetti a chiave in mediocre stato e vuoto (£.10),
un armadio vecchio di noce (£.2), due seggiole di noce in mediocre stato
(£.1); nella camera della serva: un lettino a cavalletti di legno e assi senza
materasso (£.2); nella cantina in comune ai due fratelli Massaria ritrova:
dieci botti della complessiva capacità di ettolitri 49, tutte in mediocre stato
(metà spettante all'eredità £.61.25), un torchio piccolo e tarlato (£.10), una
canale da pigiare le uve in discreto stato (£.14), un capitello per la canale e
due barchettine vecchie per sotto le botti (£.2.50), una caldaia di rame di un
ettolitro e mezzo, assai consumata (£.10). Nell'inventario, inoltre, Massaria
indica il seguente bestiame esistente nelle colonie: nella colonia in contrada
la Fonte, condotta da Vico Ciriaco: un vitello (metà parte padronale come
sopra £. 50); nella colonia in contrada San Germano, condotta da Lovero
Vincenzo: un paio di vacche di anni otto (£. 162.50); nella colonia in
contrada la Banderuola, condotta da Marinelli Luigi: un vitello (£.50).
Arrivato alla libreria del poeta e priore, Massaria annota che trattasi
di:
285
Una piccola biblioteca di circa novecento volumi, dei quali parte riguardano la
letteratura latina, parte la italiana antica, parte la storia, parte le scienze legali, e parte le
scienze ecclesiastiche; cioè la teologia dommatica e morale. E ora questa biblioteca l'erede
usufruttuario Sig. Vincenzo Pasquali Marinelli l'ha consegnata fin dall'Agosto dell'anno
milleottocentottantatre, ed è stata collocata in apposito locale, prossimo alle scuole, chè così
disse di volere il defunto poco prima di morire _ _ _ _ _ _ £. 300.
Il totale della metà parte dell'eredità spettante al defunto Giuseppe
Pasquali Marinelli, secondo la stima del Massaria, assomma, quindi, a
complessiove £. 12.723,25.
A proposito della libreria non si può non notare che, in pratica,
dall'epoca della individuazione del locale fatta dal Consiglio Comunale nel
1875, passano ben nove anni prima che il fratello del poeta ne faccia la
consegna! E la sorte stessa che seguirà la libreria non sarà pari alle attese
del suo donatore. Perchè?
2. Le dimenticanze degli agiografi
Per conoscere il prosieguo della storia della libreria e della fortuna del
suo donatore nei due decenni successivi alla sua scomparsa, bisogna
rileggere attentamente le fonti storiche agiografiche che parlano del Pasquali
Marinelli. A tale proposito, va subito liberato il campo dall'idea della
fedeltà storica degli agiografi (lo stesso Massaria, il Patrignani, il Maroni):
costoro non sono fedeli, perchè non possono esserlo. Non può il Massaria,
per quanto detto poc'anzi; men che meno può esserlo il Patrignani, che
scrive su commissione dei giovani cattolici del Circolo Marinelli-Maratti
che pel primo Centenario della nascita eleggono il Pasquali a gloria
cattolica; lo stesso dicasi per il Maroni, che parla su invito della
Congregazione di Carità in occasione della inaugurazione dei monumenti
sepolcrali ai benefattori Jacomini e Pasquali Marinelli. Quanto poi al
materiale documentario riportato e consultato dagli agiografi, sembra certa
l'esistenza di un nucleo originario comune, gelosamente raccolto, conservato
e tramandato, costituito però in massima parte da lettere pervenute al poeta e
priore da amici, da adulatori, da ammiratori e da quanti hanno avuto in
286
omaggio le sue pubblicazioni: lettere contenenti per lo più giudizi di
circostanza e obbligatoriamente benevoli.
Gli agiografi menzionati, che scrivono intorno alla vita ed alle opere
di Giuseppe Pasquali Marinelli, i primi due nel 1893 e l'altro nel 1905,
unanimemente omettono di citare il gesto munifico del poeta e priore di
donare la sua libreria personale e familiare al Comune di Camerano. A noi
resta oggi difficile comprendere i motivi di tanta dimenticanza, anche
valutando la consistenza e il valore della libreria. Tale dimenticanza stupisce
ancor più, considerando che gli agiografi, nei loro scritti, non difettano certo
nella raccolta e proposizione di aneddoti e di particolari, a volte anche
insignificanti, pur di dimostrare ed esaltare la filantropia del Pasquali
Marinelli.
Il silenzio degli agiografi pone quindi alcune considerazioni e merita
almeno delle spiegazioni plausibili. Esse vanno ricercate, a nostro avviso,
nel fatto che Camerano, intorno alla metà dell'Ottocento ha bisogno di cose
ben più importanti che di una libreria, per quanto fornita e apprezzata. Per
questo, gli agiografi considerano controproducente insistere su di essa: e
capiscono subito che è preferibile, invece, indirizzare l'attenzione dei lettori
e dei cameranesi su gesti deo poeta più toccanti e comprensibili.
Urge, infatti, in paese il problema della povertà e della miseria in
termini drammatici. Le avvisaglie della crisi sono presenti già nell'ultimo
periodo di priorato dello stesso Pasquali Marinelli.
Il grande "incarimento" dei viveri e la mancanza di lavoro hanno,
infatti, immerso il paese, composto per la maggior parte di indigenti e
giornalieri, in uno stato di estrema miseria, al punto che "moltissime persone
non hanno da togliersi giornalmente la fame".
La crisi investe anche due categorie sociali tra le più diffuse, come i
gessari e i muratori. Ad esempio, nella seduta del 13 Marzo 1860, il
Consiglio Comunale è costretto a prendere in esame l'opportunità di
eseguire la costruzione a fondo forte della strada che dalla territoriale del
Poggio mette alle Fornaci del gesso. Questa strada comporterebbe un grosso
vantaggio al paese col facilitarne il solo ramo di commercio attivo che ha
con i centri limitrofi ed anche lontani: cioè la somministrazione del gesso;
con ciò, inoltre, si darebbe alimento alla popolazione e migliorate le
287
condizioni dei gessari, anche se ciò significa un qualche svantaggio al paese
cui verrebbe a mancare in parte il guadagno che danno i transitanti, gente di
Massignano e campagnoli circonvicini che per andare in Ancona non
passerebbero più per Camerano. Il 25 Maggio 1868, i Capi Mastri Muratori
presentano una istanza alla Giunta Municipale, dove fanno osservare che "la
classe artista di Camerano soffre da parecchi mesi gravi patimenti e disagi,
attesta la tutora continuante carestia dei commestibili, non avendo denari per
mancanza di lavoro". Parecchi di questi muratori vanno a cercar lavoro ad
Ancona, ma vengono respinti con minaccie e con queste parole: "andate a
guadagnare il pane al vostro paese e non venite, non venite qui a cercarlo
mentre non basta nemmeno a noi".
In conseguenza poi della grande carestia del 1873, che produce un
aumento rilevante sui prezzi dei generi alimentari aumentando ancor più lo
squilibrio fra salari e costo della vita, la situazione si aggrava al punto che a
Camerano, come scrive il giornale anconetano Lucifero, si è costretti
"ricorrere a speculatori che certo vendono le merci e specialmente i cereali a
prezzi altissimi non solo, ma puranco avariati, essendosi più volte ciò
verificato".
L'indigenza e la miseria sono favorite anche dall'aggiunta di nuovi e
continui dazi, tanto che per il paese, ad un certo punto, diventa impossibile
aggiungerne altri oltre quelli governativi, così che il Consiglio Comunale è
costretto nel 1866 a stabilire di "attenersi alla tariffa esistente per la qualità
dei dazi".
Di fronte ad una situazione economica così drammatica, parlare di
cultura diventa un eufemismo, un lusso che il paese non può permettersi,
dovendo prima di tutto sfamarsi.
Lo stesso Giuseppe Pasquali Marinelli, in vita, avverte la priorità di
questo problema, se è vero che gli stessi agiografi non mancano di
sottolineare (ne hanno anche l'interesse) la sua carità e la sua generosità a
favore della classe operaia nella gestione della cosa pubblica.
Così ad esempio scrive il Patrignani:
Circa lo spazio di anni 20, che a riprese diverse il Marinelli governò i terrazzani di
Camerano, niun savio ebbe a querelarsi di balzello alcuno; che anzi la classe operaja
segnatamente il benediceva; mentre per renderle meno sensibile quella larva di tassa detta
288
testatico ei soleva in ogni anno procurarle un piccolo lavoro per iscontarla. Lavoro che poi
mancava mai nell'avvicinarsi delle solennità del S. Natale e della S. Pasqua, affinchè in
giorni si memorandi per un vero cattolico, anche l'operaio avesse all'uopo ciò che fa il
desco poveretto più ridente apparir.
Sulla stessa falsariga del Patrignani si esprime il Massaria, il quale
parlando delle opere intraprese dal priore, afferma:
Tali opere però non volle già che si eseguissero tutte ad un tratto; ma una dopo
l'altra, e a tempo, non volendo che s'imponessero gabelle e balzelli sullo scarso, duro e
amaro pane del popolo, che logora da mane a sera la vita, esposto a tutte le intemperie, ad
ogni periglio e disagio, in duri, pesanti, ingrati ed immani fatiche. Il Pasquali regolava
l'amministrazione con saggezza e giustizia. Ogni anno metteva in serbo qualche somma per
alcuna di tali opere, e non vi si levava un soldo per ispese capricciose e matte, che poi per
rimettervelo bisognava pelare il popolo. Tali lavori il Pasquali li fece far sempre nelle
stagioni invernali; e specialmente in quegli anni in cui i granai, a cagione della scarsezza
dei raccolti, si aprivano a più caro prezzo, affinchè il povero avesse lavoro e pane.
Un'altra causa del silenzio degli agiografi va individuata nella
primenza, all'epoca, per Camerano della soluzione del problema
dell'assistenza ai bisognosi rispetto a quello della cultura.
Il Pasquali Marinelli di questa esigenza si rende grandemente
interprete, disponendo per volontà testamentaria che la sua abitazione serva
per la costituzione di uno spedale.
Nel campo dell'assistenza,
dopo il Sessanta, in paese opera
alacremente la Congregazione di Carità, che ha per scopo di "amministrare i
beni destinati genericamente a favore dei poveri, e di erogarne le entrate e di
distribuirne soccorsi secondo le testamentarie disposizioni, e in mancanza di
queste, secondo i bisogni dei poveri stessi". Essa, ad esempio, ha
l'amministrazione del Legato Servi istituito per dotare le donzelle povere
oneste del Comune, in occasione di maritaggio. Oltre a ciò vi è in paese
l'Opera Pia Maratta che veste annualmente sei bambini poveri (tre maschi e
tre femmine) dai sette agli otto anni, nella ricorrenza della festa di S.Nicolò
di Bari, come da disposizione testamentaria dello stesso pittore Carlo
Maratti.
Ma soltanto nel 1866, con le deliberazioni del 16 Agosto e del 2
Novembre del Consiglio Comunale e poi con il testamento olografo del 4
289
Novembre 1873 di Giuseppe Pasquali Marinelli, si può erigere uno
"Spedale", destinato alla cura degli infermi poveri d'ambo i sessi, nativi e
non nativi nel Comune di Camerano, colpiti da malattie curabili, escluse le
croniche. Occorre poi attendere fino al 1883 per veder costituito, con
testamento olografo di Enrico Jacomini del 31 Agosto, anche un Ospizio
destinato al ricovero di vecchi inabili al lavoro e cronici poveri d'ambo i
sessi, nativi e residenti nel Comune di Camerano, ed anche non nativi
purchè ivi residenti da cinque anni almeno.
Per questo, la donazione di Giuseppe Pasquali Marinelli della sua
stessa abitazione acquista maggior valore e per i cittadini cameranesi
rappresenta una delle prove più tangibili della generosità del loro priore. Il
fatto non può sfuggire di certo agli agiografi, che lo amplificano, ma per
riflettere un'opinione universalmente diffusa nella popolazione cameranese
circa la validità dell'iniziativa pasqualiana, poichè la realizzazione di uno
spedale è assai più vantaggiosa della cultura e va a risolvere un problema
reale del paese.
Da ultimo, è possibile formulare una terza ipotesi, tanto amara quanto
purtroppo possibile. Essa riguarda più espressamente il livello culturale del
paese, ove una libreria così qualificata come quella di Pasquali Marinelli
può apparire quasi del tutto inutile o comunque, buona per i nobili e il clero
istruito, ma forse non adatta alle esigenze della popolazione per lo più
analfabeta.
A Camerano, l'istruzione elementare, prima dell'annessione al Regno,
nell'anno 1859-1860, conta due sole scuole, entrambe di grado inferiore, una
maschile con diciotto alunni e una femminile con ventuno alunne. Dieci
anni dopo, l'istruzione primaria conta, su una popolazione di 1.868 persone
sparse nella campagna e di 2.012 residenti in paese, due scuole maschili e
una femminile, per un totale di ottantotto maschi e trentotto femmine. Il
rapporto degli analfabeti colla popolazione per il periodo di età dai sei ai
quattordici anni da i seguenti dati: capoluogo, maschi 80%, femmine 84%;
campagna, maschi 94%, femmine 95%.
Ma il bassissimo tasso di istruzione della popolazione non è dovuto
soltanto a fattori oggettivi, comuni a tanti altri paesi di campagna, ma anche
ad elementi contingenti propri di Camerano. Ad esempio, i locali dell'ex
290
Convento dei Francescani non sono adatti ad uso di scuole pubbliche per la
loro insalubrità; la scuola femminile, poi, si tiene nell'abitazione della
maestra stessa, in un locale anch'esso insalubre. La Giunta Municipale, nel
1870, nell'esporre la situazione in cui versa la scuola a Camerano e
nell'individuare le soluzioni da apportare, propone al Consiglio Comunale di
ritrarre profitto dai locali di proprietà comunale, trasportando il teatro in
altro locale pure di proprietà comunale, riserbandosi su ciò di riferire a suo
tempo e concludendo la proposta con l'affermazione che prima deve
pensarsi all'istruzione e quindi al divertimento (sic).
Da più parti si sente l'esigenza di aprire una scuola di terza e quarta
elementare, per dar modo ai ragazzi di aumentare le loro cognizioni e
accedere così agli studi tecnici e ginnasiali.
Quanto sono lontani i tempi (1817) in cui Camerano reclama
l'istituzione della cattedra di filosofia e di teologia da aggiungere all'altra di
grammatica superiore, umanità e retorica di cui è già provveduto e ciò
nonostante il paese abbia soltanto una sola scuola elementare!
Non è difficile, quindi, considerato il grado di istruzione dell'epoca
che migliora scarsamente anche dopo l'introduzione della nuova legge
sull'obbligo dell'istruzione elementare del 15 Luglio 1877, immaginare a
quanto poco serva la ricca libreria messa a disposizione da Giuseppe
Pasquali Marinelli ai ragazzi di Camerano.
Alla elevata analfabetizzazione, si unisce anche la mediocrità
culturale dell'epoca. Sono, infatti, assenti i nobili e i possidenti che, pur
vantando in paese numerosi possedimenti, vi hanno però soltanto la
residenza estiva e le altre volte che si recano a Camerano sono per
partecipare alle sedute del Consiglio Comunale di cui fanno parte e neppure
sempre, perchè sovente amano farsi rappresentare dai loro fattori: ma i
possidenti, almeno, possono vantare una cultura di base che deriva loro
dallo stato sociale e dall'educazione familiare. Il clero, invece, da sempre
l'elemento culturale portante nella vita del paese, sta venendo meno a questa
prerogrativa, dopo i fatti dell'unità d'Italia e la conquista piemontese dello
stato pontificio che di fatto ne ha cancellato i privilegi, ridotto il numero e
ridefinito il ruolo sociale. Scomparso da tempo il canonico della Collegiata,
291
Giuseppe Scarafoni, lo storico del paese, rimane soltanto Don Alessandro
Massaria, maestro nelle scuole elementari.
Al di fuori di queste due categorie, restano pochi cameranesi isolati,
appassionati di cultura o quanto meno con un bagaglio culturale degno di tal
nome: il generale, poi Sindaco Andrea Fazioli; Luigi Volpi, commerciante,
di idee repubblicane, fondatore della primitiva società di mutuo soccorso;
Padre Alessandro Lucesole, religioso dei Francescani Conventuali, costretto
a menar la vita insegnando nelle pubbliche scuole dopo la chiusura
definitiva del Convento di San Francesco; il notaio Enea Costantini,
letterato e storico; Enrico Jacomini; Domenico Recantini, iniziato alla fede
repubblicana dal suocero Luigi Volpi, poi passato al collettivismo per
arrivare infine al socialismo; Celeste Breccia, agente di campagna, anch'egli
delle stesse idee politiche del Recanatini; il tipografo Pietro Giorgetto,
stesse idee repubblicane e socialiste poi del Recanatini e del Breccia; Luigi
Grossi, maestro elementare e pochi altri con essi.
Può dirsi tutta qui la cultura cameranese dell'epoca, a pochi anni dalla
scomparsa di Giuseppe Pasquali Marinelli. Forse sono persone anche
interessate alla libreria del poeta e priore; ma fino a che punto, quando già il
modo stesso di far cultura è profondamente cambiato e ci si sta avviando
velocemente verso nuovi modelli culturali ben lontani da quelli del Pasquali
Marinelli, respirandosi in paese un clima politico e sociale assai diverso da
questi? Non sta forse per diventare una biblioteca antiquata, intrisa com'è
di classici latini e di volumi a carattere religioso e, quindi, non più
rispondente alla nuova realtà scaturita dall'unità d'Italia di Vittorio
Emanuele II e Giuseppe Garibaldi?
Queste considerazioni possono forse aiutare a capire come una libreria
di immane valore per Camerano passi quasi inosservata, dimenticata da
tutti, riducendosi ad un ammasso di libri in un cantuccio, in barba alle
disposizioni testamentarie del donatore.
Quale stridente contrasto genera questa situazione di abbandono,
ripensando a Pasquali Marinelli, al suo impegno nel curare l' educazione e
l'istruzione dell'infanzia, come gli agiografi non mancano di sottolineare!
Riferisce il Maroni:
292
Allora la casa di Giuseppe Pasquali - Marinelli divenne un tempio; perchè, oggi, lui
morto, è sacra ai vecchi poveri ed infermi; e, lui vivo, fu sacra all'istruzione dei fanciulli e
dei giovanetti. Oh! a quanti, egli dottissimo, avvezzo nel silenzio della sua stanza a
ragionare con gli "spiriti magni" , in compagnia dei quali, come Dante disse, l'animo si
esalta, si fece umile maestro di lingua latina a giovanetti chierici, umile maestro di lettura e
scrittura ai figli degli operai e dei contadini. E quale paziente costanza poneva nel
volonteroso uffizio, quale intensità di affetto!
Gli fa eco il Patrignani:
(...) l'anima oltremodo candida e poetica del Marinelli nutrì sempre speciale riverente
affetto ai fanciulli e tra questi di preferenza ai più poveri. (...) Tutto il paese lo benedice e
si persuade sempre meglio di avere in lui un vero amico o piuttosto un padre pietoso de'
fanciulli, ispirato a quel detto dell'Evangelio = lasciate che i fanciulli vengano a me =. E
difatti egli spesso ricercato da essi, appena ne scorgeva alcuno, che più sembrasse atto agli
studi ed inclinato alla pietà, lo raccoglieva in sua casa, lo istruiva specialmente nella
grammatica latina, lo forniva, se povero, di tutto il necessario alla vita fino a quell'età del
discernimento, in cui il prudente giovanetto, esaminate anche le sue attuali condizioni,
suole apertamente dichiararsi per una professione o carriera, che più gli sta a cuore. E qui il
Marinelli era tutto consigli e aiuti per rendere più agevole all'inesperto garzoncello la via,
spesso ingombra di mille ostacoli. Se si poneva questi per lo stato secolare, ei gli porgeva
liberamente la mano (...). Se poi il giovanetto bramava iscriversi all'Ecclesiastica milizia, il
Marinelli non sapeva contenersi dalla gioja, e prima non si rimanea dalle premure più che
paterne, se non avesse adempiuto il pio desiderio del suo caro discepolo; chè così chiamava
quanti usavano alla sua scuola sempre gratuita.
Dal silenzio degli agiografi, dunque, alla piena dimenticanza della
libreria e del suo poeta il passo è breve, se è vero che da lì a poco calerà su
entrambi un velo di colpevole abbandono.
3. La rivisitazione della memoria storica di Pasquali Marinelli sul calar
del secolo.
Mentre il Pasquali Marinelli sta spegnendosi lentamente,
incominciano a manifestarsi a Camerano le prime avvisaglie di un radicale
mutamento del concetto di cultura, del tutto diversa rispetto a quella
comunemente vissuta fino a pochi anni prima, durante il governo pontificio.
293
Ciò avviene da parte di un manipolo di cittadini, capeggiati da Luigi
Volpi, uno della vecchia guardia rimasto fedele all'antica bandiera, che ha
fatto le campagne del 1848-1849 e del 1859-1860, consigliere comunale,
membro della locale Congregazione di Carità, presidente della Società
Unione e Concordia, fondatore, come detto, della Società di mutuo
soccorso, mercante. Costoro, animati dalla stessa ispirazione ideologica,
gettano le basi della Società Repubblicana, la quale trova, nella sua battaglia
politica, un valido supporto dalle colonne del giornale Lucifero.
Da qui prende il via il discorso di una nuova cultura a Camerano. Il
motivo è dato, inizialmente dalla costituzione in paese della Società della
Gioventù Cattolica.
Questi giovanetti naturalmente - scrive il giornale - sono stati spinti a tal passo dai
fondatori della medesima santa Associazione. E chi sono costoro? Due preti ai quali
purtroppo è affidato l'incarico di Maestri Elementari: i Signori Massaria A. e Ragnini D.
Mercè l'opera loro la chiesa guadagna dei buoni denari da questa Società dei San Luigini,
che naturalmente spendono mentre non tutti potrebbero farlo. - Mi sembra - conclude
l'articolista - che il Municipio locale potrebbe tener d'occhio un pò questi signori maestri e
che dovrebbe sopratutto persuadersi che l'affidare al prete l'educazione di giovani, sia un
voler rattrapirne le menti e guastarne i cuori.
Già quest'ultima enunciazione mira a ribaltare completamente i canoni
dell'istruzione e della cultura così come concepita fino ad ora.
Sull'argomento il giornale anconitano ritorna poco dopo col pubblicare una
lettera indirizzata al Sindaco Paolinelli:
Pubblicando la seguente siamo lieti di poter prometterne delle altre, scritte dalla
stessa accreditata persona nello interesse di quel povero paese, nel quale le industrie e il
benessere che pareva vi volessero fiorire, vanno decadendo per dar luogo alle Società
Cattoliche di S.Tommaso e del Sacro Cuore che son poste sotto il patrocinio di persone ben
note;
quindi riporta la lettera al Sindaco ove è scritto, tra l'altro:
Altri reclami ci vengono da persone degne di fede sulla necessità che sia provveduto
al migliore andamento del servizio sanitario, e sulla necessità che l'istruzione pubblica sia
affidata a maestri secolari, essendo immorale la condotta tenuta dai maestri in carica, ai
quali poi fu poco lodevolmente dal Consiglio Comunale dato a sopraintendente scolastico,
altro ecclesiastico.
294
La scomparsa di Luigi Volpi, avvenuta nel 1884, segna l'inizio
dell'attività politica di Domenico Recanatini. Recanatini, nato nel 1857,
coniugato con Italia Volpi, figlia di Luigi, studi ginnasiali alle spalle,
maestro per poco tempo nelle scuole elementari del paese, consigliere
comunale poi, assume ben presto le redini della Società Repubblicana,
infondendole un'impronta di grande dinamismo e aggressività. Questi,
costretto a dimettersi da maestro delle locali scuole elementari per i soprusi
ricevuti e vistosi negare l'ingresso nella Società di mutuo soccorso, peraltro
fondata dal suocero Luigi Volpi, in una lunga corrispondenza che abbraccia
i mesi di Agosto e Settembre del 1885, esce allo sbaraglio, per dire che
anche in questa piccola terra di Camerano avviene qualche cosa che può interessare quanti
combattono la prepotenza e l'ingiustizia.
Quindi aggiunge:
I padroni del paese sono un ex-generale sindaco e un ex-marinaio segretario, forse più
questi che quegli; e fanno quel che credono. Anche quando fanno bene e specialmente
quando errano, non tollerano controllo o discussione e perciò sono invasi dalla passione di
demolire o allontanare quanti potrebbero far loro ombra.
Fare e disfare senza che alcuno possa suscitare obbiezioni ed osservazioni, ecco il
programma e il metodo della ditta generale e marinaio. Infatti si circondano di uomini di
paglia che sono chiamati a pappa fatta a gettarci sopra il formaggio cioè il polverino.
Ma i tempi dei Don Rodrigo e dei cagnotti sono passati; ed io son quà, ben provveduto, a
respingere come si deve qualunque violenza. Per mantenere la mia promessa, dovrei tutte
enumerarle le gesta dei padroni di Camerano. Sarebbe una tiritera troppo lunga.
Le "piaghe" di Camerano vengono descritte sul Lucifero del Luglio
del 1887:
Le contravvenzioni si fanno e si applicano con modi spesso antiumanitari ed illegali.
L'Amministrazione Comunale è tutta ispirata alla burocrazia ed al militarismo; Le spese di
cancelleria sempre eccessive per l'amore al lusso; Le tasse crescit eundo in maniera che
questo più di Comune, tutti gli altri nella Provincia, ha sconfinato il limite che la legge
accorda; Mai la protezione e la cura delle arti ed al commercio del Paese; Ingratitudine
ostinata nel non volere ancora erigere una pietra che ricordi i nostri due grandi concittadini
295
Maratta e Marinelli due onori e due glorie non solo di Camerano, ma dell'Italia; La
Biblioteca Marinelli mai fu aperta al pubblico, perchè i topi non l'hanno ancora distrutta.
Per il tiro a segno nazionale si fecero tre adunanze generali sotto la presidenza Fazioli. Con
queste si costituì la Società, si elesse il Comitato Direttivo, si pagò lire 3 di quota annua
d'associazione, e poi ... sono inutilmente trascorsi tre anni, e poi ... più nulla. Le scuole
serali furono negate benchè un maestro si offrì gratuitamente. La stazione volante delle
guardie di Finanza e rispettiva luogotenenza fu lasciata partire da qui, fingendo di non
averne avuta cognizione se non dopo la perdita; La presidenza effettiva della Società locale
di M. Soccorso acquistata da Fazioli stesso colla violazione del vecchio e nuovo statuto
sociale; Per l'acquedotto si è speso più di 4000 lire per avere probabilmente invece una
bolla di sapone. I marciapiedi sempre nel loro deplorevolissimo stato, tanto da rompere le
gambe a chi vi cammina. La viabilità tra Camerano ed Osimo, tanto importante al
commercio di quì, sempre al pessimo stato quo; La Posta con un corriere solo al giorno e
con quell'orario che ha, è quasi più dannosa che utile; La presidenza della Congregazione di
Carità affidata al noto prete Masseria; al medesimo l'istruzione e l'educazione dei nostri
figli; e tante e tante altre cose che mi dispenso dal dire per non abusare troppo dell'ospitalità
di codesto periodico. Ma prima di chiudere questa mia, non posso fare a meno di dire, che
ciò, che più nausea ad ogni mio buon concittadino e lo sciupio di lusinghe e di sotterfugi
per non erigere ancora l'Ospedale e l'Ospizio dei cronici. C'è un forte capitale lasciato
maggiormente dal compianto concittadino Iacomini, ma tale capitale è sempre lassù, nelle
mani di loro signori, inerte e sdegnoso di tergere una lagrima o di raccogliere un grido di
dolore dei poveri sofferenti.
I temi toccati nelle corrispondenze da Camerano riflettono le accese
polemiche sostenute dallo stesso Recanatini in Consiglio Comunale di cui fa
parte. Qui, il nome di Giuseppe Pasquali Marinelli diventa motivo di tante
battaglie, alcune vinte, altre perse. Si deve proprio al Recanatini, infatti, la
proposta di porre tre lapidi per eternare la memoria di tre illustri cameranesi
Maratta, Marinelli, Iacomini. Nell'apposita mozione all'ordine del giorno
della seduta consiliare del Giugno del 1890, Recantini fa presente
che la locale Congregazione di Carità ha già da qualche tempo formata intenzione
di erigere due lapidi ai defonti Pasquali - Marinelli Dottor Giuseppe e Iacomini Enrico e si
augura che la medesima, dopo ultimata la vendita di alcuni fondi rustici per estinguere delle
passività, possa con il concorso anche del Municipio, condurre presto in opera il suo
deliberato: in quanto a Carlo Maratta però, esistendo al pubblico un semibusto, prendendo
nome da lui la Via da Porta Loreto alla Piazza Vittorio Emanuele, il Teatro Comunale
portando pure il suo nome, oltre poi ad una lapide ugualmente a lui dedicata con sopravi
altro semibusto in bassorilievo nell'interno della piccola chiesa del Sagramento, ritiene che
il paese abbia già sufficienti memorie dell' illustre pittore, concittadino; sembragli quindi
296
non essere il caso, anche per ragioni di economia, che il Consiglio si debba pronunciare in
merito alla erezione delle lapidi, in attesa di quello che sarà per fare la Congregazione di
Carità suddetta.
Terminata la lettura della mozione, prende ancora la parola lo stesso
Recanatini, il quale fa plauso alla Congregazione
per il pensiero che si da delle lapidi a Pasquali-Marinelli e Iacomini; ma siccome
l'intendimento della medesima più specialmente sarebbe quello di apporle sopra un piccolo
monumento nell'interno della cappella al Cimitero Comunale, o all'Ospizio-Spedale fondato
dai medesimi, insiste per l'erezione, da parte del Municipio delle suddette lapidi oltre a
quella pel pittore Maratta, in una pubblica via o piazza, accioche i cittadini possano avere
ognora sottocchio le memorie degli illustri defunti, ammirarne le doti, ed ispirarsi a sensi di
eterna gratitudine.
La proposta del Recanatini, messa ai voti, viene a maggioranza
respinta.
Due mesi prima, e cioè in Aprile, è ancora Recanatini a proporre al
Consiglio Comunale di denominare Via Mazzini l'attuale Via S.Francesco,
Via Enrico Jacomini la via Guasto e Via Pasquali Marinelli la Via Fonte
Nuova. A maggioranza di voti, il Consiglio respinge il cambio di
denominazione della Via S.Francesco in Via Mazzini. Nel dubbio che siano
respinte anche le altre due proposte, Recanatini fa presente che
l'idea di nominare Via Enrico Jacomini l'attuale Via Guasto, fu quella di rendere
omaggio al benefattore dei poveri chiamando appunto col di lui nome quella via ove
purtroppo abbondano i miseri che del lascito Jacomini maggiormente ne risentono i
benefici; che la Via Fonte nuova essendo appunto quel breve tratto che dalla fine Via
Garibaldi conduce alla casa ove nacque, visse e morì il compianto Giuseppe Pasquali
Marinelli che alla non comune scienza letteraria unì pure la beneficenza lasciando il suo
patrimonio per l'erezione dell'attuale Ospizio-Spedale, desidererebbe che il di lui nome
fosse perpetuato nel modo che così ha proposto.
Questa volta, invece, il Consiglio approva a maggioranza.
E' sempre il Recanatini a far presente al Consiglio Comunale che,
essendosi
297
provveduto solo all'istruzione dei fanciulli e fanciulle, non pochi sono ora gli adulti
che non avendo potuto usufruire dell'insegnamento che ora s'imparte si trovano ad essere
illetterati ciò che crea un danno per essi e un'umiliazione pel paese.
Nella polemica con il Direttore Didattico, prof. Guglielmo
Contegiacomo, Recanatini esprime il nuovo concetto di scuola.
Commentando il discorso del Direttore in occasione della premiazione degli
alunni delle Scuole Elementari e genetliaco della regina, egli così scrive sul
Lucifero:
Fu invece un discorso tutto condito in agro per i repubblicani sovvertitori dell'ordine
presente delle cose ed in dolce per il repubblicano Carducci perchè uno de' casca morti per
la regina. Dirò ancora però che egli ebbe un momento felice, quando disse che "la scuola
moderna deve essere razionale, nazionale e combattente tutti gli effetti della antica che
brancolava fra la sagrestia ed il convento". Volevo applaudirlo, ma mi arrestò subito il
puzzo appunto della sagrestia e del convento, che usciva da tutti i libri dati allora in premio
agli alunni.
Si può dire, in definitiva, che il recupero del Marinelli da parte del
Recanatini, rappresenta in egual misura il recupero della "cameranesità"
perduta, il riappropriarsi di quelle glorie (e Marinelli è tra queste) proprie
del paese; l'identificazione del paese stesso nei suoi personaggi simbolo,
quasi a ricreare il cerchio di una unità etnica e culturale specifica, perdutasi
nel tempo. Stupisce in questa continua riproposizione del Marinelli da parte
del Recanatini, riproposizione che comunque cronologicamente si conclude
nel 1890, finchè cioè opera dai banchi dell'opposizione contro
l'Amministrazione Coomunale, la scarsa importanza che egli da alla libreria
del poeta (solo un rigo, più che altro per criticare l'operato dell'incaricato
Massaria): forse perchè, a suo avviso, essa non costituisce fattore prioritario
nel quadro d'insieme dei problemi del paese; oppure perchè la ritiene poco
funzionale alle sue battaglie politiche che ingaggia contro il Sindaco Fazioli;
o, forse, perchè la libreria, della quale non disconosce esplicitamente il
valore, tuttavia implicitamente appare anche ai suoi occhi poco consona al
nuovo tipo di scuola che anch'egli vagheggia?
4. Un Centenario solo di polemiche
298
Esaurita la parentesi di Domenico Recanatini, repubblicano, poi
collettivista, poi socialista, è la volta dei cattolici proporre, agli inizi degli
anni Novanta, iniziative nel nome di Giuseppe Pasquali Marinelli.
L'occasione più propizia si presenta loro nel 1893, anno in cui cade il
primo Centenario della nascita del poeta e priore e non se la lasciano di
certo sfuggire, dando luogo ad una vivace polemica con Domenico
Recanatini e i socialisti che, nel frattempo, hanno conquistato un forte
successo elettorale, mandando alcuni loro rappresentanti (ad esempio, lo
stesso Recanatini, Giorgetti) addirittura in seno alla Giunta Municipale,
dopo anni di opposizione in Consiglio Comunale: tutto ciò i cattolici fanno,
lungi dal citare la donazione della libreria o i meriti culturali del poeta.
Dalle colonne del giornale anconetano La Patria, in una
corrispondenza del 22 Aprile, annunciano:
Si è quì costituito un Comitato promotore di pubbliche onoranze all'illustre
Giuseppe Pasquali Marinelli in occasione della ricorrenza del centesimo anniversario della
sua nascita, avvenuta il 20 Aprile 1893. I promotori si sono proposti di onorare nel
Marinelli l'uomo che illustrò colla sua fama, animò colle sue nobili virtù e beneficò colla
sua carità Camerano, senza entrare punto in politica, che suole al di d'oggi guastare anche le
cose migliori. Ma vi è già chi ha intravveduto questa politica nell'idea del comitato, e per
non cadere ha gittato le mani avanti con una lettera pubblicata nel n. 108 dell'Ordine. Ivi si
tratta da ostinato il Marinelli perchè non accettò le famose teorie dei fatti compiuti e non
inneggiò a quella libertà della quale le patrie galere raccolgono i frutti: ivi si dichiara
d'animo gretto il Marinelli perchè non fu possibile fargli mutar casacca e prestarsi servo
umilissimo di ogni nuovo padrone. Curiosi questi innamorati della libertà! chi non pensa
come loro, chi non si lascia persuadere dai loro paroloni è un ostinato ed un cretino e non
s'accorgono della cretineria di chi li crede! Questo per l'insulto lanciato alla memoria di
colui, che pur si dichiara meritevole di pubbliche onoranze. - Contuttociò sono in grado di
accertare che le feste non usciranno dal programma esposto di onorare nel Marinelli
soltanto l'uomo che fu modello eccellente di virtù religiose e civili, lasciando da banda la
politica, la quale forse si vorrebbe trarre in campo per isciupare una idea interamente
patriottica. Possiamo anche con certezza avvertire che le feste avranno luogo in autunno,
stagione più propizia nei nostri paesi, e che le schede delle offerte vanno dirette come si
apprende dalla circolare del Comitato promotore al Sig. Paci Luigi in Camerano.
Fin qui l'annuncio delle celebrazioni; il pomo della discordia matura,
invece, in Consiglio Comunale, nella seduta del 30 Maggio 1893, ove figura
all'ordine del giorno se "concorrere nella spesa per festeggiare il centenario
299
della nascita dell'illustre poeta cameranese Giuseppe Pasquali Marinelli". In
tale occasione viene data
lettura della circolare a stampa diramata dal Comitato promotore, rappresentato dal Sig.
Luigi Paci, al quale l'Assessore Recanatini si rivolge per conoscere quali sieno le intenzioni
del Comitato sul da farsi per festeggiare questo Centenario. Il Consigliere Paci dichiara che
il Comitato che si è formato come promotore della festa non è definitivo, poichè questo
deve esser formato dagli oblatori stessi, e che Egli con alcuni suoi amici hanno inteso
promuovere questa festa senza preventivamente stabilire un programma che potrà esser
fatto solo dopo si saranno raccolte le offerte e a seconda l'importare di esse. Il Consigliere
Giorgetti deplora che ad onorare la memoria del Cameranese Marinelli sia sorto un
comitato privato, mentre questo compito sarebbe spettato al Municipio e principalmente
alla Congregazione di Carità che dal Marinelli ha avuto il primo capitale. L'Assessore
Recanatini appoggia il Giorgetti e stigmatizza e deplora come il Sindaco si sia in
quest'opera fatta togliere l'iniziativa da privati. Il Sindaco risponde che Egli non conosceva
la data di nascita del Marinelli, che del resto se v'è colpa questa può e deve esser condivisa
dalla Giunta Municipale, della quale il Recanatini fa parte, che non ha pensato a festeggiare
questo Centenario e ha lasciato che in mancanza dell'Autorità si costituisse un Comitato
privato. L'Assessore Recanatini crede che nello stato delle cose non vi sia di meglio che
scrivere al Comitato che il Municipio si riserva di festeggiare il Marinelli, poi chè non è
possibile permettere che una festa come questa venga iniziata, diretta da un Comitato che
altri non è poi che la società Clericale "Circolo Gioventù Cattolica Maratta-Marinelli" come
si rileva dal timbro posto alla circolare. Afferma che scopo del Comitato è di fare una vera
e propria festa clericale, come clericale era il Marinelli Giuseppe e che per conseguenza il
Consiglio si deve opporre vigorosamente se non vuole in corpo andare il giorno della festa
anche alla messa. Il Presidente risponde che nel festeggiare il Pasquali Marinelli, l'illustre
poeta, l'uomo che alla sua morte beneficiò i poveri del paese non v'entra punto la questione
politica e pone a voti se il Consiglio creda o no di concorrere nella spesa per festeggiare il
centenario della nascita dell'illustre poeta cameranese Giuseppe Pasquali Marinelli.
L'Assessore Recanatini si dichiara contrario alla proposta del Sig.Presidente perchè non
intende farsi rimorchiare da un partito che è nemico d'Italia. Il Consigliere Paleani domanda
la parola e prega il Presidente concedergliela per non pregiudicare una proposta che deve
esser superiore a questioni politiche. Egli quando lesse la circolare che gli fu diretta non vi
rilevò quanto punto vi ha rilevato il Recanatini, e quando lesse l'articolo dell'Ordine fu lieto
che si fosse indicato una occasione perchè il paese di Camerano fosse d'accordo almeno un
giorno per una festa paesana. (...) Secondo il suo avviso ad evitare maggiori discordie si
dovrebbe festeggiare il Marinelli con un atto che Egli vivente avrebbe meglio gradito, cioè
provvedendo a sollevare la miseria degli operai coll'istituire anche in quest'anno le cucine
economiche e formula il seguente ordine del giorno, cui il Recanatini fa plauso. Il
Consiglio Ritenuto doversi onorare la memoria del Marinelli con un atto che lo ricordi a
coloro che Egli volle beneficare Delibera di stabilire in £. 100 il concorso del Comune per
300
le cucine economiche che verranno all'uopo istituite nel venturo inverno. Posto a voti viene
approvato con voti favorevoli N. 11 e contrari N. 1.
Il comportamento tenuto dal Consiglio Comunale sulla vicenda del
Centenario non piace ai cattolici, i quali, offesi perchè tacciati da nemici
della patria, sul giornale cattolico anconetano hanno parole di fuoco contro i
consiglieri e soprattutto contro Domenico Recanatini, cui affibbiano
ironicamente l'epiteto di "Cicerone":
Dove si vede come i settari sieno i più stupidi nemici della patria, e come i moderati
sieno i più poveri difensori della verità e della giustizia. Abbiamo riferito altra volta - essi
scrivono - che quì in Camerano era sorto il lodevole pensiero di festeggiare il 1°. centenario
della nascita di quell'insigne letterato che fu il nostro Pasquali Marinelli. Una commissione
di egregie e volonterose persone si è preso il compito di realizzare quella iniziativa che
deve tornare a vero lustro e decoro del nostro paese; e per riuscir meglio nell'intento dopo
aver chiesto il concorso di quanti amano il patrio decoro, si era rivolta al consiglio
comunale per ottenere un concorso pecuniario. Il prelodato consiglio che esiste unicamente
per provvedere al benessere ed al decoro del paese che amministra, avea il dovere di
accogliere con plauso quella domanda, ispirata appunto dalla memoria di una gloria
paesana. E a lode del vero buona parte dei consiglieri compresi del proprio dovere si
mostrarono propensi a quella domanda, degna della più viva lode, e stavano già per votarla,
quando intervenne un incidente degno della più buffa delle commedie. Si alza su adunque
il consigliere Cicerone (e che, vi fa meraviglia che Cicerone in persona sieda nel municipio
di Camerano?) e con voce stentorea si rivolge al sindaco su per giù in questi termini; E fia
mai vero che Camerano possa avere un personaggio da onorare e che voi non abbiate
pensato ad onorarlo? Il Sindaco pacatamente risponde ch'egli non avea pensato pel primo
a quelle onoranze, perchè nessuno a questo mondo può avere il monopolio delle buone
idee: e del resto che meraviglia che non ci avesse egli pensato, quando neppure ci aveva
pensato lo stesso Cicerone, che aspira ad essere ben più che un sindaco qualunque? dopo
tutto il merito è estrinseco all'idea, e chiunque ha avuto l'idea deve averne il merito e la
lode. Ah! urla di nuovo Cicerone, ah! che cosa devo io sentire! I nemici della patria
dunque devono provvedere all'onore di Camerano? Ed io e la mia Società che siamo i soli
amici di qualunque patria dovremo contentarci di stare a vedere? E voi, sig. sindaco, che
avete combattuto per la patria, voi lascierete che la patria di Maratta, la patria di Marinelli
venga onorata da persone che non hanno combattuto per la patria, da persone che non
mangiano sulle fatiche degli altri, da persone che non hanno mai fatto danno al prossimo,
che non hanno mai gabbato nessuno? Costoro sono nemici della patria, se non ci credete,
leggete il Lucifero, leggete il Collettivista, leggete la Giustizia: sissignori sono nemici della
patria, l'ha detto l'on. Trappolini quando venne qui a far cagnara coll'on. Gori, dunque essi
sono nemici della patria, perciò vada al diavolo la patria e chiunque le fa onore, come
301
Pasquali Marinelli e non si spenda più un centesimo per fare onore a chi ha onorato la
patria. Questo fu su per giù il discorso di Cicerone: che sbuffante e scalmanato si gettò
sulla sua sedia a riposarsi dell'orazione recitata, aspettando il risultato delle scempiaggini
dette. Ci doveva essere in consiglio anche un consigliere di buon senso il quale dovea
rispondere a un dipresso così: Signor Cicerone, chi insulta ad un qualunque partito è degno
d'essere insultato. Voi non solo insultate un partito, voi ingiuriate la gran maggioranza del
nostro paese e delle nostre popolazioni, e questo dimostra che voi non solo siete un
malcreato, voi siete anche un ignorante degno di compassione. Voi adunque siete un
ignorante: perchè se aveste mai aperto un libro di storia, avreste imparato che la nostra
patria fu onorata soltanto da quegli Italiani che vissero sempre da veri cristiani cattolici. (...)
Limitando lo studio anche al solo nostro paese, Carlo Maratta era un fervente Cattolico,
Pasquali Marinelli era un fervente cattolico: le glorie del paese, le glorie della patria
insomma sono glorie della religione e dei cattolici. E per logica conseguenza quanti sono
nemici della nostra religione sono pure nemici della patria, del suo benessere, delle sue
glorie. Questo deve sapere e deve dire chiunque non sia uno sfacciato od un ignorante. E
ciò posto il consiglio comunale deve applaudire alla proposta fatta dall'ottima commissione
promotrice e deve appoggiarla, perchè così appoggierà una gloria paesana e favorirà
chiunque concorre al decoro della patria. Il consiglio deve pure biasimare altamente chi
ardisce recare quì dentro insulti e banalità degne dell'osteria, e deve rimproverare
vivamente colui che incapace di trar fuori una proposta diretta al decoro paesano, vomita la
sua gelosa bile contro chi ha avuto il merito di quella iniziativa. Così doveva parlare ogni
consigliere di buon senso presente a quell'adunanza. Invece dei consiglieri presenti
nessuno ebbe il coraggio civile di rispondere per le rime alle sguaiataggini proferite, e come
nulla fosse, si cambiò discorso, calpestando così e gettando in dimenticanza una delle più
fulgide glorie del nostro paese. Ci contentiamo per ora di far conoscere la storia esatta dei
fatti: perchè il popolo sappia meglio provvedere in seguito al scegliersi chi sappia esporre e
difendere a dovere le sue convinzioni, i suoi interessi e le sue glorie.
Ma La Patria non smette lì la polemica, anzi la fomenta con un
secondo articolo:
Il nostro articoletto del 15 scorso - scrive - ha colpito nel segno, ed ha perfettamente
smascherato le male arti con cui qualche aruffapopoli pretende tirare gli ignoranti dalla
parte sua, gabbandoli con paroloni vuoti di senso. Si è veramente mostrato nemico della
propria patria colui che per cieca bile di setta ha lanciato un' ingiuria ai suoi compaesani ed
ha ostacolato una dimostrazione a decoro della sua patria. Si è mostrato povero difensore
della verità, colui che mandato in consiglio per difendere gli interessi e le opinioni di una
popolazione cattolica, non ha avuto il coraggio di sostenere una proposta presentata
appunto da una associazione cattolica: ma ha creduto dar prova di una meschina abilità
girando di bordo e convertendo la proposta in un'altra, che sarà sempre lodevole, ma nulla
ha a che fare col desiderio espresso dall'iniziativa paesana.
302
E infine con un terzo articolo:
Giovedì 6 c. è uscito di nuovo alla luce del sole il famoso Times di Camerano, col
solito titolo La rovina degli operai. Sorvolando su molte altre cose inutili ci fermeremo ad
un articolo della seconda pagina firmato con nome e cognome, in cui si pretende rispondere
al giornale La Patria. In esso quel medesimo Cicerone, che in pubblico consiglio osò
chiamare i cattolici nemici della patria, e lanciare la stupida calunnia che si fossero
promosse feste all'illustre Pasquali - Marinelli niente - meno per far ritornare il governo del
Papa, quel medesimo che senza provocazione di sorta insultò e calunniò, oggi si atteggia a
vittima di ingiurie clericali e presso la fine ti senti commosso al vederti dinanzi un martire
dei popolari diritti, un Daniele O' Connel Cameranese per lo meno. Quasi verrebbero le
lagrime agli occhi anche a noi per pietà! Ma che dicemmo noi infine? Dicemo che chi
gratuitamente muove accuse ad un partito è un malcreato od un ignorante, e non v'è barba
di socialista che lo possa negare. Dicemmo di restituire al legittimo autore i titoli e gli
epiteti indirizzateci nel 1. numero della sullodata; e ciò è giusto, ad ognuno va restituita la
roba sua.
Sopita la polemica, si può finalmente celebrare il Centenario. Il
Comitato Promotore in una circolare provvede ad ufficializzare il
programma delle celebrazioni. Dalla lettura del programma, purtroppo, si
evince subito l'assoluta mancanza di attenzione all'aspetto letterario del
Marinelli. Recita la circolare:
Illmo Signore
Camerano 8 Agosto 1893
A tenore di quanto Le venne notificato con altra del Comitato Promotore in data 15
Aprile 1893, circa i pubblici festeggiamenti in onore dell'illustre Cameranese Giuseppe
Pasquali-Marinelli, di cui nel 20 Aprile corr. anno compievasi il centesimo anno dalla
nascita, noi sottofirmati, a cui contro ogni merito è stato affidato l'esecuzione di tali
onoranze, ci pregiamo significare alla S.V.I. che il quindici ottobre prossimo venturo (15
ottobre) avranno luogo i detti festeggiamenti, dei quali le accludiamo il relativo
programma.
Pertanto affinchè la memoria di tanto egregio uomo, come si proponeva il comitato
Promotore sopralodato, sia viva tra quanti hanno in pregio il valore letterario e le civili virtù
e la beneficenza pubblica, e specialmente tra coloro che egli illustrò con la sua fama, animò
colle sue nobili virtù e beneficò colla sua carità, vi facciamo un dovere di invitare la S.V. a
prender parte alle dette onoranze, se è possibile anche colla sua presenza, od almeno
concorrendo a somministrare i mezzi, onde con lode si riesca allo scopo, se pur già non
l'abbia fatto. A tal fine favorirà con qualche sollecitudine respingere l'acclusa al Presidente
del Comitato in Camerano, qual segno di adesione e di concorso.
303
Certo di fare con ciò cosa gradita a V.S. ci (...) ad onore rassegnarci con ogni stima
Di V.S. Illma
Mancinforte Serafini March. Carlo - Presidente
Nicomede Arcip.te Donzelli
Alessandro Fiori
Salvatore Mengarelli
D.Luigi Recanatini Maria
Luigi Paci Tesoriere
Giovanni Marinelli Segretario
Giostra Giosafat Vice - Segretario
Programma
delle feste in onore dell'illustre Cameranese Giuseppe Pasquali - Marinelli
che
si celebrano in Camerano
adì 15 Ottobre 1893
Mattino
Alle ore 8. Scoprimento della lapide commemorativa dinanzi all'Ospizio Marinelli
Alle ore 9 1/2. Inaugurazione al Cimitero di un modesto monumento al Marinelli
medesimo, e al Iacomini, altro benefattore di Camerano
Alle ore 10 1/2. Messa solenne di ringraziamento con musica dell'egregia Cappella
Lauretana.
Pomeriggio
Alle ore 3. Accademia musicale - letteraria
Alle ore 5 1/2. Illuminazione alla Veneziana per le vie Maratta - Marinelli e innalzamento
di graziosi globi aerostatici.
Tutta la giornata si avranno grate melodie di vari concerti Bandistici
Camerano 8 Agosto 1893
Il Comitato
La notizia delle manifestazioni viene data anche attraverso le colonne
de La Patria di Ancona del 12 Ottobre:
A Camerano Domenica prossima si farà una commemorazione del 1. Centenario
della nascita del distinto letterato e latinista Pasquali Marinelli, vi saranno una solenne
304
accademia ed altri trattenimenti. Si è pubblicato per la circostanza un cenno biografico
dell'egregio letterato per cura del can. Serafino Patrignani, ed è vendibile presso la
Cartoleria Patrignani a vantaggio dei festeggiamenti sudetti.
La cronaca della giornata viene riportata dallo stesso giornale, sul
numero del 19 Ottobre:
Il giorno 15 corr. Camerano ebbe a godere una bella e cara festa commemorando il
primo centenario della nascita di un suo illustre Cittadino Giuseppe Pasquali-Marinelli. Le
feste promosse da alcuni giovani del Circolo Cattolico, furono preparate con solerte lavoro
da un apposito Comitato, di cui era presidente l'egregio March. Carlo Mancinforte Serafini.
Nella mattina alla presenza dei rappresentanti del Municipio, della Congregazione di Carità,
della società operaia locale, e del Circolo Cattolico e di un gran numero di persone accorse
ad onorare un uomo che tanto meritò di questo paese, ebbe luogo lo scuoprimento di una
lapide commemorativa all'Ospizio-Spedale che fu già dimora del Marinelli, e che egli volle
convertita al pietoso ufficio. Il Revmo Mons. Gualtiero Giamagli Arciprete della
Cattedrale di Ancona disse belle parole, che riscossero la più viva approvazione di tutti.
Furono poi deposte corone ed all'ospizio ed alla tomba del Marinelli al cimitero. Alle 10 e
1/2 fuvvi in chiesa Messa solenne, musicata dall'egregia Cappella Loretana diretta dal
Maestro Cav. Roberto Amadei. Alle 1 si tenne una modesta accademia in onore
dell'egregio poeta latino, nella quale, dopo una prolusione del Can. Serafino Patrignani,
furono cantati bellissimi pezzi di musica, intramezzati da alcune poesie in lode del
Marinelli, fra cui specialmente si fecero ammirare quelle del Cav. Augusto Prof. Persichetti
Mercatelli e di D.Antonio Giorgetti. Nella sera furonvi illuminazioni per le principali vie
del paese con palloncini alla veneziana. Il concerto musicale dell'Istituto Buon Pastore
venuto per la circostanza si fece ammirare al solito per bellissime suonate eseguite con vera
maestria, a cui si era accoppiata la banda locale diretta dal maestro Nicola Riccioni.
Insomma si ebbe una festa carissima che servì a ravvivare tra i cameranesi la memoria del
Marinelli, e gioverà certo a perpetuarla anche col suo grato ricordo. I numerosi forastieri
accorsivi dovettero confessare che non aspettavano tanto da Camerano.
Il programma delle manifestazioni per il primo Centenario è, in verità,
ben poca cosa; probabilmente è tutto quanto il Comitato riesce ad
organizzare con i proventi acquisiti; forse Camerano non è capace di
esprimere altro, visto il livello culturale dell'epoca e allora una lapide, un
concerto bandistico, un'accademia musicale sono davvero il massimo.
Resta, comunque, il dato di fatto, che i giovani cattolici cameranesi,
terminate le celebrazioni non ritorneranno più sul Pasquali Marinelli. Resta,
altresì, inconfutabile che nel programma del Centenario non si fa cenno
305
alcuno alla libreria del poeta e non vi sono previste iniziative alcune per
valorizzarne o diffonderne l'opera letteraria. Ciò che non può non stupire in
tutta la vicenda del Centenario è, invece, il comportamento di Domenico
Recanatini; non lo si riesce, infatti, a capire, considerando il ruolo di
paladino svolto nel passato, anche con pregiudizio della sua credibilità
politica, pur di mantenere vivo il ricordo di Pasquali Marinelli e non
disperderne l'eredità culturale e filantropica. Difficile pensare ad una
dimenticanza della data di nascita del poeta; più facile credere che
l'iniziativa dei giovani cattolici del Circolo Marinelli - Maratta l'ha preso in
netto contropiede e la cosa gli deve aver bruciato non poco. L'iniziativa del
Centenario, invece, non deve stupire se si considera il momento di grande
risveglio del movimento cattolico cameranese, dovuto all'arrivo in
Parrocchia dell'Arciprete Don Nicomede Donzelli nel Dicembre del 1891, il
quale, per prima cosa costituisce il Circolo della Gioventù Cattolica col
chiaro intento di fermare l'avanzata del socialismo che in paese è assai ben
radicato. La pochezza del Centenario, al pari della modestia delle proposte
del Recanatini, fanno quasi supporre una amara verità e cioè che il nome di
Giuseppe Pasquali Marinelli e nell'uno e nell'altro caso sia soltanto oggetto
di speculazioni politiche di parte, per nulla interessate alla cultura del paese
ed al poeta.
5. Un tardivo recupero
Dal 1893 in poi, se si eccettua l'inaugurazione nella Chiesa del
Cimitero Comunale, avvenuta il 18 Settembre del 1904, di due monumenti
sepolcrali erettivi a cura della Congregazione di Carità in onore dello
Jacomini, ricorrendo l'anniversario della sua morte, e dell'altro benefattore
Pasquali Marinelli, fondatori dell'Ospizio-Spedale di Camerano, sul poeta
scende l'oblio più totale.
I cameranesi non solo dimenticano la sua opera letteraria, peraltro mai
conosciuta e apprezzata, ma anche la sua generosa filantropia, da quando
l'Ospizio-Spedale, di lì ad un decennio, e precisamente nel 1913, viene
interamente rifatto dai Fratelli Ceci poco distante dalla sua sede originaria e
cioè l'abitazione del poeta.
306
Identica sorte subisce la libreria, che continua a giacere alle scuole
elementari sempre più abbandonata, finchè non viene sommariamente
inventariata il 12 Luglio 1951, contando 1247 volumi, contro i 900
dell'inventario del Massaria del 1884. Forse in questa dimenticanza gioca
un ruolo fondamentale il forte sviluppo economico accusato dal paese nel
periodo a cavallo tra le due guerre che ha creato indubbiamente benessere
alla popolazione a discapito però della crescita culturale e l'ozpione fatta
dalla maggior parte dei giovani per la scuola d'avviamento professionale al
fine di un sicuro e celere inserimento nel mondo produttivo con la
necessaria professionalità.
I tentativi più seri di recupero del Pasquali Marinelli e della sua
libreria sono storia recente. Sul finire degli Anni Settanta, la libreria del
poeta, giacente in uno stato di penoso abbandono negli scantinati della
Scuola Elementare "Sperandei", viene da Massimo Morroni interamente
recuperata e con l'ausilio di qualche volonteroso trasportata nell'allora
costituenda Biblioteca Comunale e collocata su una scaffalatura metallica
decente; qui, la libreria viene nuovamente inventariata (ma i volumi nel
frattempo sono scesi a 1143) e parzialmente schedata. Il suo trasferimento
nella Biblioteca Comunale, pur contraddicendo completamente la volontà
iniziale del donatore, la preserva almeno dall'incuria e dal possibile
deterioramento.
Con il recupero della libreria, inizia anche il recupero della figura e
dell'opera del poeta. La Cassa Rurale ed Artigiana "S.Giuseppe" - Camerano
provvede, ad esempio, all'acquisizione dei manoscritti inediti del poeta, fino
ad allora conosciuti e alla pubblicazione della sua opera sulla Battaglia di
Castelfidardo. L'Archivio Storico Comunale si arricchisce, per donazione di
un privato, di un voluminoso carteggio e altri documenti riguardanti il
Pasquali Marinelli.
Seppure collocata in una sede più consona, la libreria è visitata
soltanto da pochissimi curiosi per prenderne visione; rarissimi sono quelli
che se ne servono per motivi di studio.
Questa nuova trascuratezza per la libreria del poeta, se trova
giustificazione cent'anni fa nell'assoluta analfabetizzazione e nel basso
livello culturale del paese, che ha problemi più seri che non pensare ai libri e
307
alla cultura, oggi ne ha meno, considerando l'elevato grado di benessere
economico e il livello d'istruzione raggiunti dalla popolazione, dopo
l'introduzione della scuola media dell'obbligo e l'accesso da parte delle
nuove generazioni di studenti verso gli sitituti superiori e le università.
Il pieno recupero della libreria del Pasquali Marinelli giustamente non
può essere disgiunto dal completamento dell'opera di schedatura, oramai
indilazionabile e da un'opportuna azione di programmazione per una più
esatta conoscenza dell'entità del materiale esistente. Ma a ciò deve far
riscontro anche un reale recupero della poliedrica immagine del Pasquali
Marinelli, oggi inesorabilmente dimenticata, non solo procedendo a
valorizzarne l'aspetto letterario, giusto quanto si sta facendo in occasione del
presente Centenario, ma in senso globale, in modo da garantire una
conoscenza esaustiva del poeta e priore e del benefattore, del quale tanto
hanno declamato gli agiografi cent'anni fa quanto dimenticato i cameranesi
poi.
308
Appendice
Materiale riguardante Giuseppe Pasquali Marinelli posseduto dalla
Cassa Rurale di Camerano
Ricognizione e riordinamento effettuati da Massimo Morroni nel settembre
1990, controllati nel gennaio 2014.
A) Inediti
1) Miscellanea (carte confuse del De pugna ad Castrumficardum, De pugna
ad Nomentum et alia) (autografo)
2) Polemica col Paolinelli (1870)
3) Poesie latine (120)
4) De Pugna ad Castrumficardum (I abbozzo) (autografo)
5) De Pugna ad Castrumficardum (II abbozzo) (autografo)
6) De Pugna ad Castrumficardum (copia)
7) De Pugna ad Castrumficardum (carte varie) (autografo)
8) De Pugna ad Nomentum (autografo)
9) De Sepulcris (copia)
10) Maximorum Pontifìcum Series (autografo)
Epistolario
11) n.78 lettere italiane (dal 4/X/1848 al 14/X/1875) (autografo)
12) n.7 lettere italiane (senza data) (autografo)
13) n.14 lettere latine (autografo)
14) copie di lettere latine (n.6 pagg.)
15) n.12 lettere di Pietro Gianuizzi
16) n.12 lettere di autori vari
309
Altro materiale
17) Recensione in stampa
18) Elogio funebre (n. 3 stesure) composto dal Gianuizzi
19) Giudizi vari sulle opere
20) n. 2 biografie a stampa (Massaria e Patrignani)
21) Elenchi vari (autografo e non)
22) Certificati di studio
23) Esposizione provinciale (1872)
24) I Anniversario della morte
25) Raccolta di sonetti di diversi autori
26) Chiose di altri alle versioni bibliche
27) Chiose di altri ai Profeti
28) Chiose di altri alla Divina Commedia
29) Carte sparse (autografo e non)
Materiale rilegato
— Manoscritti non autografi
In costa: "J MARINELLI CARMINA INEDITA"
Contiene:
a) n. 307 composizioni in versi latini
b) Maximorum Pontificum Series latinis versibus auctore Josepho PaschalioMarinellio / Ex manuscriptis Auctoris transcripsit Petrus Advocatus
Ianuizzius / Laureti mense Junio Anni MDCCCLXXVI
c) De Pugna ad Castrumficardum Inter Pontificis Summi et Sardi Regis copias
Depugnata / Libri II / Auctore Josepho Paschalio-Marinellio Qui Tunc
Temporis Rebus Municipalibus Camerani Praeerat
d) De Pugna apud Nomentum vulgo Mentana seu Lamentana Libri II /
Auctore Josepho Paschalio-Marinellio
e) Ad SS. Deiparam Carmen
f) Ad Deum
g) De Sepulcris Carmen
h) Composizioni latine varie
i) In obitu Gesner
j) Altre composizioni in versi latini
310
B) Pubblicazioni
1) Institutiones Juris Civilis a Josepho Paschalio Marinellio versibus expositae
/ Anconae / MDCCCXXXV / ex officina Sartoriana
2) In costa: "J. MARINELLII PROPHETAE JOB APOCALYPSIS ET MOYSIS
CANTICA". Contiene:
a) Prophetae a Josepho Paschalio-Marinellio versibus expositi / Tomus I /
Anconae / per Aurelij Josephum et soc. / MDCCCLVI
(Prophetia Isaiae - Prophetia Jeremiae - Threni id est Lamentationes
Jeremiae prophetae - Prophetia Baruch)
b) Prophetae a Josepho Paschalio-Marinellio versibus expositi / Tomus II /
Anconae / per Aurelij Josephum et soc. / MDCCCLVII
(Prophetia Ezechielis - Prophetia Danielis - Prophetae minores:
Prooemium, Prophetia Osee, Prophetia Joel, Prophetia Amos, Prophetia
Abdiae, Prophetia Jonae, Prophetia Michaeae, Prophetia Nahum, Prophetia
Habacuc, Prophetia Sophoniae, Prophetia Aggaei, Prophetia Zachariae,
Prophetia Malachiae)
c) Job Apocalypsis et Moysis Cantica a Josepho Paschalio-Marinellio versibus
expressa / Anconae / per Sartorium Cherubinium / P.P. / MDCCCXLVI
(Job - Apocalypsis - Moysis Cantica - Hymni: In mirabilem nictationem S.
Imaginis B. M. V. in templo S.Ciriaci Anconae. In D. Sebastianum Valfrè; In
D. Iosephum a Cupertino)
3) De Sacramentis/libri/J.P.M./Recineti Typis Morici ac Badaloni/1857.
4) In costa: "J. MARINELLII LIBER PSALMORUM ET MESSIAS" Contiene:
a) Liber Psalmorum a Josepho Paschalio-Marinellio versibus expositus / cum
argomentis et notis / Anconae / Ex Officina Typ. Josephi Aurelij et Soc. /
MDCCCLXIV
b) Josephi Paschalii Marinellii / Messias / Anconae / ex Officina Typ. olim
Baluffi / MDCCCLXVI.
5) In costa: "J. MARINELLII HOMERI ILIAS ET ODYSSEA LATINIS
VERSIBUS EXPRESSAE"
Contiene:
a) Homeri Ilias / latinis versibus / auctore Josepho Paschalio-Marinellio /
Anconae / Ex Officina Typ. olim Baluffi / MDCCCLXIX
311
b) Homeri Odyssea / latinis versibus / auctore / Josepho Paschalio-Marinellio
/ Anconae / Ex officina Typ. olim Baluffi / MDCCCLXX
6) In costa: "MARINELLI DIVINAE COMOEDIAE VERSIO"
Contiene:
Dantis Aligherii / Divina Comoedia latinis versibus / auctore / Josepho
Paschalio-Marinellio / Anconae / Ex officina Typ. olim Baluffi /
MDCCCLXXIV
7) (postuma, pubblicata nel primo centenario della nascita) Josephi Paschalii
Marinellii / ex Hugonis Fosculi De Sepulcris Carmine / et Jacobi Victorellii
Cantiunculis / Versiones / Pisauri / Typis Fridericianis / MDCCCXCIII.
312
Indice
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7
9
19
45
79
93
129
155
163
183
203
221
251
271
281
309
Presentazione
Comitato organizzativo e Comitato scientifico
Calendario delle manifestazioni del Bicentenario
Verso il Bicentenario pasqualiano
Massimo Morroni - Giuseppe Pasquali Marinelli, insigne
poeta cameranese del XIX secolo
Sergio Sconocchia - Il latino dei Carmi di Giuseppe Pasquali
Marinelli
Carlo Santini - Il Pasquali traduttore latino dell'Iliade e i
suoi predecessori
Giuseppe Flammini - Giuseppe Pasquali Marinelli traduttore
dell'Odissea
Ubaldo Pizzani - Un poema sacro di grande suggestione:
la Messiade di Giuseppe Pasquali Marinelli
Giorgio Brugnoli - Il De sacramentis di G. Pasquali Marinelli
Orietta Basili - Considerazioni intorno alla Maximorum Pontificum
Series
Raffaello Nicolella - Giuseppe Pasquali Marinelli, Hugonis Fosculi
De Sepulcris. Introduzione e commento
Guido Arbizzoni - “Toti nos scribimus orbi”: l’utopia cosmopolitica
del latino e la traduzione della Divina Commedia
Fabio Stok - G. Pasquali Marinelli (1793-1875) e le sue parafrasi
bibliche in esametri latini
Giovanna Pirani - Note sul pensiero politico di G. Pasquali Marinelli
Luciana Carile - De pugna ad Nomentum
Fabio Toccaceli - Da un centenario all'altro. Storia di una libreria
e del suo poeta caduti nell'oblio
Appendice - Materiale riguardante Giuseppe Pasquali Marinelli
posseduto dalla Cassa Rurale di Camerano
313
314
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