Corsi di formazione per docenti delle scuole di ogni ordine e grado:
“Didattica orientativa e percorsi di orientamento con approccio
narrativo”
MICROPROGETTAZIONE DI UN PERCORSO DI DIDATTICA
ORIENTATIVA
Titolo: Sì viaggiare
Docenti autori: Luigi Sisi, Rita Pagni, Maria Grazia Lignoli, Lucia Rosati, Laura
Albini, Tiziana Gori, Sabrina Viciani
Obiettivo: (espresso in termini di competenza) Collaborare e partecipare
leggere (inoltre: comprendere ed interpretare testi di vario tipo; utilizzare gli
strumenti fondamentali per una fruizione consapevole del patrimonio artistico).
Ordine di scuola e classi di riferimento: fine primaria inizio secondaria di I
grado
Durata del progetto: tre settimane
Periodicità degli incontri: un incontro per ogni settimana
1° incontro: La scelta della vacanza
Titolo attività
Tempi di
realizzazione
Introduzione
25’
Attività e istruzioni per il condutto
Introduzione narrativa finalizzata a
focalizzare l'attenzione dei bambini sul
tema del progetto: lettura ad alta voce
della storia “Le mie vacanze in
dirigibile”
(vedi
allegato
Stimoli
narrativi 1).
L’insegnante interrompe la narrazione
e pone alla classe la domanda:
“Vogliamo organizzare anche noi una
vacanza?”
1
Vedi che vacanze!
Dove andare in
vacanza?
Diario di bordo
20’
L’insegnante propone la visione di 5
microvideo sui viaggi e le vacanze. I
seguenti video sono, per esempio,
selezionati da quelli disponibili su
youtube:
“Turisti per caso. Un viaggio in Sicilia”
http://www.youtube.com/watch?v=tP
h3t7pcPIg
“Le nuove guide verdi del Touring si
fanno in due per te!”
http://www.youtube.com/watch?v=K_
-EGT7i1JU
“Cosa vedere a Firenze
http://www.youtube.com/watch?v=cS
1OU1LZnV4
“Vacanze africane”
http://www.youtube.com/watch?v=wz
fcDieQKas
“Mangiare bene …”.
http://www.youtube.com/watch?v=Zp
2NaHjiJts
40’
L'insegnante organizza i bambini in
gruppi (max 5 bambini) e consegna a
ciascun gruppo la scheda 1 e una
penna. I bambini sono invitati a
individuare un capogruppo e poi a
collaborare alla compilazione
individuando per ciascuna area dei
luoghi da visitare e delle cose da
vedere. Una volta compilata la scheda,
i bambini sono invitati a condividere
con gli altri gruppi le loro proposte.
Alla fine dell'attività è importante che
l'insegnante chieda ai vari gruppi di
riflettere su come è stato gestito il
lavoro nel gruppo: come si è deciso
chi avrebbe scritto e poi chi avrebbe
letto la scheda? Chi ha parlato?
Qualcuno è rimasto in silenzio? Il
capogruppo è stato utile? Cosa
dovrebbe fare per migliorare il lavoro
di gruppo Ecc.
35’
L’insegnante invita ogni gruppo a
compilare il diario di bordo
rispondendo alle domande stimolo.
2° incontro: Il progetto della vacanza
2
Titolo attività
Tempi di
realizzazione
Attività e istruzioni per il conduttore
30’
Lettura ad alta voce “Il Milione” di
Marco Polo (scuola secondaria di I
grado) o da “I viaggi di Gulliver” di J.
Swift (scuola primaria) (vedi Stimoli
narrativi 2 e 3).
Dopo la lettura introduttiva
l’insegnante riprende il filo dell’attività
a partire dal diario di bordo compilato.
Una vacanza, un viaggio
su misura
2h
I gruppi che hanno lavorato il primo
giorno vengono ricostituiti.
L'insegnante ricorda quanto osservato
sul funzionamento dei gruppi alla fine
del primo incontro e sollecita i
capigruppo ad attivarsi affinché tutti i
membri di ciascun gruppo trovino il
loro spazio di partecipazione e
collaborazione.
Ad ogni gruppo viene consegnata la
scheda n° 2 ed il materiale necessario
(guide turistiche, opuscoli, cartine,
orari trasporti, eventuale pc collegato
a internet ecc.). I bambini hanno il
compito di descrivere a grandi linee i
luoghi, gli ambienti naturali ed
artistici, l’aspetto culinario della loro
vacanza.
Diario di bordo
30’
L’insegnante invita ogni gruppo a
compilare il diario di bordo
rispondendo alle domande stimolo.
Introduzione
3° incontro: La promozione del viaggio
Titolo attività
Tempi di
Attività e istruzioni per il conduttore
realizzazione
Introduzione
15’
Lettura introduttiva, da “Il giro del
mondo in ottanta giorni” (secondaria)
o da “il re dei viaggi Ulisse” R. Piumini
(primaria) (Stimoli narrativi 4 e 5).
Ripresa dell’attività mediante il diario
di bordo.
3
Una canzone, una
poesia, uno spot e
un'immagine per il
nostro viaggio
1h
Consegna della scheda 3. “Una
canzone, una poesia, uno spot e
un’immagine per il nostro viaggio”.
A titolo di esempio si possono far
sentire due canzoni e far individuare la
più adeguata al proprio viaggio.
“Il viaggio” di Silvia Mezzanotte
http://www.youtube.com/watch?v=6_
KzYanlUg4
“Sì viaggiare” di Lucio Battisti.
http://www.youtube.com/watch?v=fS
DNJzxuVaw
Una volta compilata la scheda ciascun
gruppo presenta agli altri il risultato
del lavoro.
30’
L’insegnante invita ogni gruppo a
compilare
il
diario
di
bordo
rispondendo alle domande stimolo.
Consegna
a ciascun alunno di un
questionario di autovalutazione finale.
Compilazione del diariogiornale di bordo.
4
ALLEGATI
Scheda 1: DOVE VI PIACEREBBE ANDARE IN VACANZA?
Ogni gruppo elabora una proposta
Luoghi
Cose da vedere
NELLA MIA REGIONE
IN ITALIA
IN EUROPA
IN ALTRO CONTINENTE
5
Scheda 2. UNA VACANZA, UN VIAGGIO SU MISURA
Descrivete a grandi linee i luoghi, gli ambienti naturali ed artistici, l’aspetto
culinario della vostra vacanza.
VIAGGIO A …
Durata della vacanza/viaggio
Tappe con indicazione delle “attrazioni” che pensate di poter vedere
Consigli sui mezzi di trasporto da
usare, sull’abbigliamento, sui possibili
costi della vacanza/viaggio.
Mappa, carta geografica da allegare:
come strutturarla?
6
Scheda 3. UNA CANZONE, UNA POESIA, UNO SPOT, UN’IMMAGINE PER
IL NOSTRO VIAGGIO
Scegli 2 tra le seguenti opzioni.
CANZONE
POESIA
SPOT
IMMAGINE
TITOLO
TITOLO
TESTO/O IMMAGINE
TESTO/O IMMAGINE
7
Diario di Bordo
DIARIO DI BORDO
COSA AVETE FATTO ?
QUALI PROBLEMI AVETE
INCONTRATO?
COME LI AVETE RISOLTI?
VI SIETE TROVATI D’ACCORDO?
AVETE PARTECIPATO TUTTI?
8
Stimoli narrativi 1
“Le mie vacanze in dirigibile”
Cap.1
Mi piace moltissimo viaggiare così!
Guardare il paesaggio da 200 metri d'altezza, comodamente seduto al tavolino
di un bar: che bello il mondo visto da una certa distanza!
Si può capire tutto delle città. Si può leggere il centro storico strada per strada
e cortile per cortile, osservare dall'alto i principali monumenti: questo è il
duomo con la sua possente torre campanaria, quello è il disegno delle aiuole di
un parco pubblico, quello invece è un giardino privato, visibile solo dall'alto.
Si possono riconoscere gli squarci provocati nella città antica dai
bombardamenti della seconda guerra mondiale, e la crescita disordinata del
primo dopoguerra, che ha provocato più danni di qualsiasi bombardamento.
Oltre il centro storico e il circuito delle antiche mura, la solita indeterminata
periferia, con la città che qui termina bruscamente con file di grandi condomini,
là invece si diluisce lentamente nella campagna, con le villette sempre più rade
o le case costruite lungo le strade.
Tutto questo lo si percepisce senza sforzo osservando il panorama dall'alto. È
bello viaggiare in dirigibile!
Anche la campagna sembra più bella vista dall'alto. Con i suoi campi
perfettamente squadrati, e le tonalità di colore che riflettono le diverse
coltivazioni. Una visione privilegiata, in cui si colgono con un unico colpo
d'occhio l'insieme e i piccoli dettagli: le case di campagna con l'orto e gli alberi
che le circondano, le strade, i canali, i ponti, i fiumi bordati di vegetazione,
qualche sontuosa villa isolata con il suo parco ben circoscritto.
Ma di campagna ce n'è sempre di meno.
Forse è un'impressione data da una visione panoramica così ampia, ma la
superficie coltivata sembra sempre di meno. Troppo numerosi e fitti sono i
paesi e i borghi, e tra i paesi, in mezzo alla campagna, le case. Troppo spesso
la campagna è interrotta da lunghissime strade.
Molto più bella la montagna.
Dopo avere fatto due soste a Bologna e a Modena per raccogliere altri
passeggeri, il dirigibile ha preso con decisione la direzione degli Appennini.
All'inizio un paesaggio collinare, in gran parte ancora coltivato; poi i versanti
delle montagne sempre più ripidi e la vegetazione spontanea sempre più
estesa. Alla fine solo una coltre continua di boschi.
Qui finalmente la natura predomina. Da questa altezza i boschi sembrano non
avere confini. I rari paesi, le poche stradine tortuose non disturbano la vista
più di tanto, perchè sembrano quasi ammettere la loro inferiorità rispetto al
prevalere della natura. E poi il paesaggio naturale è molto più vario, mai
uguale a se stesso, con la sorpresa continua di nuove vallate e di nuovi
panorami dietro l'ultima cresta montagnosa.
A volte il dirigibile, nel superare una montagna, rasenta quasi le cime degli
alberi (qui sono abeti, prima forse erano faggi e castagni).
Allora gli alberi, le radure, i prati sembra quasi di toccarli.
Se il dirigibile volesse si potrebbe anche fermare. A volte viene proprio voglia
di fermarsi, di fare una sosta. Il territorio selvaggio è così vicino, così a portata
di mano! È naturale desiderare di fare una sosta, di respirare l'aria resinosa,
9
frizzante e pulita della montagna, di stendersi sul prato, di incamminarsi nel
bosco.
Il dirigibile è silenzioso e leggero e, anche se non sembra, veloce. L'ultima
cresta che abbiamo superato è già lontana, già dimenticata, già sostituita da
altre, rinnovate visioni.
Ho cominciato a fare la conoscenza dei miei compagni di viaggio.
Mi trovo nel salone di prua vicino ad una coppia di ragazzi di Treviso. Ci siamo
scambiati le nostre impressioni sul viaggio e su quello che stiamo vedendo
sotto di noi. Anche loro viaggiano in dirigibile per la prima volta. Sono ragazzi
semplici e molto simpatici, poco sofisticati. Alla vacanza in dirigibile
aggiungeranno una settimana di mare in Grecia.
E poi ho conosciuto una ragazza di Reggio Emilia che ha preso posto nella mia
stessa cabina. Ci siamo trovati seduti uno accanto all'altra e abbiamo
cominciato a parlare. Capelli corti a caschetto, non molto alta, lineamenti
regolari, bella ma non una top model, un carattere padano fatto di concretezza
senza fronzoli che mi stupisco di trovare in una ragazza così giovane. Però
entriamo subito in sintonia. Dopo mezz'ora siamo già diventati amici.
È il solito viaggio organizzato che faccio ogni anno.
Come ogni anno sono andato in agenzia, e quest'anno per la prima volta ho
voluto provare a viaggiare in dirigibile. Avevo visto in un depliant "Settemila
leghe in dirigibile", e sono stato tentato.
A me piace viaggiare: ormai sono stato in quasi tutti questi paesi, ma non
avevo mai provato a viaggiare in dirigibile, e comunque non ho voglia di
andare lontano. Per andare al di là dell'Atlantico o in Estremo Oriente
occorrerebbero molto più tempo e molti più soldi.
Il nostro viaggio durerà dieci giorni e attraverseremo diversi paesi: Spagna,
Marocco, Tunisia, e poi Egitto, Turchia e Grecia, ma è prevista anche la
traversata del deserto del Sahara. È quasi come fare una crociera nel
Mediterraneo, ma con la differenza che dormiremo in albergo durante le soste.
Prevale il fatto di viaggiare in dirigibile.
Abbiamo un assistente che ci accompagnerà per tutto il viaggio, e in ogni
paese incontreremo delle guide locali.
1
0
Stimoli narrativi 2
Marco Polo, Milione
Cap. 1
Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse
generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo
libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle
genti d'Erminia, di Persia e di Tarteria, d'India e di molte altre province. E
questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e
nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma
ancora v'à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di
fede, e però le cose vedute dirà di veduta e l'altre per udita, acciò che 'l nostro
libro sia veritieri e sanza niuna menzogna.
Ma io voglio che voi sappiate che poi che Iddio fece Adam nostro primo padre
insino al dí d'oggi, né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno uomo di
niuna generazione non vide né cercò tante maravigliose cose del mondo come
fece messer Marco Polo. E però disse infra se medesimo che troppo sarebbe
grande male s'egli non mettesse in iscritto tutte le maraviglie ch'egli à vedute,
perché chi non le sa l'appari per questo libro.
E sí vi dico ched egli dimorò in que' paesi bene trentasei anni; lo quale poi,
stando nella prigione di Genova, fece mettere in iscritto tutte queste cose a
messere Rustico da Pisa, lo quale era preso in quelle medesime carcere ne gli
anni di Cristo 1298.
Cap. 2
Egli è vero che al tempo che Baldovino era imperadore di Gostantinopoli - ciò
fu ne gli anni di Cristo 1250 -, messere Niccolaio Polo, lo quale fu padre di
messere Marco, e messere Matteo Polo suo fratello, questi due fratelli erano
nella città di Gostantinopoli venuti da Vinegia con mercatantia, li quali erano
nobili e savi sanza fallo. Dissono fra loro e ordinorono di volere passare lo Gran
Mare per guadagnare, e andarono comperando molte gioie per portare, e
partironsi in su una nave di Gostantinopoli e andarono in Soldania.
Quand’e’ furono dimorati in Soldania alquanti dí, pensarono d’andare piú
oltre. E missonsi in camino e tanto cavalcarono che venne loro una ventura che
pervennero a Barca, re e signore d’una parte de’ Tarteri, lo quale era a quel
punto a Bolgara. E lo re fece grande onore a messere Niccolaio e a messere
Matteo ed ebbe grande allegrezza della loro venuta. Li due fratelli li donarono
delle gioe ch’egli avevano in gran quantità, e Barca re le prese volentieri e
pregiogli molto; e donò loro due cotanti che le gioie non valevano.
Cap. 3
Quando furono stati un anno in questa città, si levò una guerra tra lo re Barca
e Alau, re de’ Tarteri del Levante. E l’uno venne contro all’altro, e qui ebbe
gran battaglia e morí una moltitudine di gente, ma nella fine Alau vinse; sicché
per le guerre niuno potea andare per camino che non fosse preso. E questo
Alau era da quella parte donde i dui frategli erano venuti; ma innanzi potevano
eglino bene andare, e misorsi con loro mercatantia a andare verso levante per
ritornare da una parte. E partiti da Bolgara, andarono a un’altra città la quale à
1
1
nome Ontaca, ch’era alla fine delle signorie del Ponente. E da quella si
partirono e passarono il fiume del Tigri e andarono per uno diserto lungo
diciotto giornate; e non trovarono n(i)una abitazione, ma Tarteri che stavano
sotto loro tende e viveano di loro bestiame.
Cap. 4
Quando ebbono passato in ponente overo il diserto, vennero a una città ch’à
nome Baccara, la piú grande e la piú nobile del paese; e eravi per signore uno
ch’avea nome Barac. Quando i due fratelli vennero a questa città, non
poterono passare piú oltre e dimoró[n]vi tre anni.
Adivenne in que’ tempi che ’l signore del Levante mandò imbasciadori al Gran
Cane, e quando vidono in questa città i due frategli, fecionsi grande maraviglia
perché mai none aveano veduto niuno latino; e fecionne gran festa e dissono
loro, s’eglino voleano venire con loro al Grande Signore e Gran Cane, e egli gli
porrebbe in grande istato, perché il Gran Kane none avea mai veduto nessuno
latino. Li dui fratelli risposono: «Volentieri».
Cap. 5
Or si misero li due fratelli (a) la via con questi ambasciadori, e andarono uno
anno per tramontana e per uno vento ch’à nome greco. E prima che là
giugnessero, (trovarono) grande maraviglia, le quali si conteranno poscia.
Cap. 6
Come giunsono al Gran Cane.
Quando li due frategli vennero al Grande Kane, egli ne fece grande festa e
grande gioia, siccome persona che mai non avea veduto latino niuno. E
dimandògli dello imperadore, che signore era, e di sua vita e di sua iustizia e di
molte altre cose di qua; e dimandògli del papa e de la chiesa di Roma e di tutti
i fatti (e stati) de' cristiani. Li due frategli rispuosero bene (e saviamente),
siccome savi uomini ch'egli erano; e bene sapéno parlare tartaresco.
1
2
Stimoli narrativi 3
J. Swift, I viaggi di Gulliver
1 capitolo Naufragio a Lilliput
Mio padre era un piccolo possidente della contea di Nottingham, ed io ero il
terzo dei suoi cinque figli. Avevo quattordici anni quando fui mandato a
Cambridge, nel Collegio Emmanuele, ove studiai con molta diligenza. Ma dopo
qualche tempo la mia famiglia non poté sostenere la spesa, tuttoché modesta,
della mia pensione, sicché dovetti lasciare il collegio e sistemarmi a Londra
presso il celebre chirurgo Giacomo Bates, dal quale rimasi quattro anni come
apprendista.
Ma io sentivo che il mio destino m'avrebbe portato a viaggiare per mare, sì che
ogni piccola somma che mio padre buon'anima ogni tanto mi mandava, io
l'impiegavo nello studio delle matematiche e della navigazione. Infine riuscii a
cavar di sotto a mio padre, a mio zio e a qualche altro parente una quarantina
di sterline, oltre alla promessa d'una pensione di trenta sterline all'anno, e con
questi mezzi mi recai a Leida per laurearmi in medicina; ciò che feci dopo due
anni e mezzo, ripromettendomene gran profitto nei miei futuri viaggi di lungo
corso.
Tornato in Inghilterra, ottenni, grazie alle raccomandazioni dell'ottimo signor
Bates, il posto di chirurgo sulla Rondine comandata dal capitano Abramo
Pannell, e per tre anni e mezzo viaggiai in Levante e altrove. Al mio ritorno
decisi di stabilirmi a Londra; Bates m'incoraggiò in questa idea e mi presentò a
parecchi dei suoi malati. Presi in affitto un quartierino in una casetta dell'Old
Jewry e vi portai la mia giovane moglie, Maria Burton, seconda figlia di
Edmondo Burton berrettaio nella via di Newgate; essa mi portò quattrocento
sterline di dote.
Due anni dopo morì il buon Bates; la mia clientela cominciò a scemare; le mie
conoscenze si raffreddarono. La coscienza non mi permetteva di far uso dei
mezzi scorretti di cui si valevano quasi tutti i miei colleghi; perciò preferii, dopo
aver consultato mia moglie e alcuni amici, di rimbarcarmi. Fui successivamente
chirurgo su due vascelli, e a forza di viaggi nelle lndie Orientali e Occidentali
misi insieme, in sei anni, un gruzzoletto. Nelle ore d'ozio mi dedicavo alla
lettura dei migliori autori antichi e moderni, poiché avevo sempre meco molti
libri. Quando poi scendevo a terra, non trascuravo d'osservare i costumi dei
vari popoli e d'impararne la lingua; ciò che mi costava pochissima fatica, in
grazia della mia felice memoria.
L'ultimo di questi viaggi mi diede però poco frutto; sicché io, disgustato, pensai
di tornare a casa mia e restarvi in pace con mia moglie e coi miei figli.
Lasciai Old Jewry per Fetter Lane e più tardi per il Wapping sperando di farmi
una clientela di marinai. Inutile: gli affari non mi volevano andar bene. Dopo
altri tre anni passati nell'attesa di un miglioramento che non veniva mai,
accettai
l'offerta
lusinghiera
fattami
dal
capitano
Guglielmo
Prichard,dell'Antilope, che stava per partire per i mari del Sud. C'imbarcammo
a Bristol il 4 di maggio del 1699.
Da principio la traversata s'annunziò eccellente. Ma quando fummo nei paraggi
delle Indie Orientali (per non tediare il lettore salto a pié pari le circostanze
anteriori e insignificanti del viaggio) fummo colti da una terribile tempesta, che
ci respinse fino al nord-ovest della terra di Van Diemen(2).
1
3
Eravamo allora a 30° e 2' di latitudine sud. Dodici nostri marinai erano morti
per la fatica e il cattivo nutrimento; gli altri erano esausti di forze. Il 5
novembre, che in quei paesi appartiene al principio dell'estate, con un cielo
molto scuro, i marinai s'avvidero d'uno scoglio distante appena mezza
gomena(3) dal vascello; era troppo tardi per salvarci: il vento fortissimo ci
spinse contro la roccia, e facemmo naufragio. In sei uomini riuscimmo a
entrare in una scialuppa e a districarci dai rottami del vascello. Remammo
disperatamente per tre ore, ma alla fine, non potendone più, ci
abbandonammo in balìa dei flutti. Mezz'ora dopo, una raffica ci rovesciò in
mare.
Non so che cosa sia accaduto dei miei compagni della scialuppa, e neppure di
quelli che s'erano arrampicati sulla roccia o erano rimasti nel vascello; ma
suppongo che siano morti tutti. Io nuotai qua e là, a casaccio: per mia fortuna,
il vento e la risacca mi spingevano verso terra. Ogni tanto io lasciavo penzolare
le gambe, nella speranza di toccare il suolo. Stavo già per darmi per vinto,
quando il mio piede urtò contro il fondo; ma il declivio della costa era così
lieve, che dovetti camminare circa un miglio nell'acqua prima di trovarmi sulla
terra ferma. Calcolai che dovessero essere le otto e mezzo di sera, e la
tempesta si era molto calmata.
Feci un mezzo miglio intorno senza scoprire né case né traccia alcuna di
abitanti, o forse ero troppo stanco per accorgermene. La fatica, l'aria afosa e
una mezza pinta d'acquavite che avevo bevuto prima di lasciare il vascello mi
fecero venire un gran sonno. Trovai un prato pulito e molle; mi vi sdraiai, e feci
la più bella dormita che avessi mai fatto in vita mia, poiché mi svegliai dopo
ben nove ore, quando il sole era già alto.
Feci per alzarmi, ma non mi riuscì. Stavo sdraiato supino, con le braccia e le
gambe aperte; e mi accorsi ch'esse erano attaccate fortemente al suolo; e lo
stesso era dei miei capelli, che portavo lunghi, a zazzera. Vidi anche alcune
sottilissime funicelle che mi giravano parecchie volte intorno al corpo,
cominciando dal petto giù giù fino all'altezza delle cosce.
Il sole era cocente, e siccome non potevo guardare che il cielo, i miei occhi
n'erano offesi. Intorno a me udivo un rumore confuso, ma, stando così supino,
non potevo scorgerne la causa. A un tratto sentii qualche cosa che si moveva
sulla mia gamba sinistra, dalla quale, passando sul mio petto, mi saliva a poco
a poco verso il mento. Guardando alla meglio da quella parte, vidi una creatura
umana alta forse un sei pollici che aveva in mano un arco e una freccia e a
tracolla un turcasso. Non meno di quaranta altri esseri della stessa specie
tennero dietro al primo.
Stupefatto, cominciai a gridare, e così forte che quegli omuncoli, presi dalla
paura, scapparono; e seppi di poi che qualcuno d'essi si era ferito abbastanza
gravemente nella fretta di precipitarsi dall'alto del mio corpo in terra. Però
ritorna- rono subito, anzi uno d'essi ardì farsi avanti fino al punto di vedermi
bene in faccia, e alzando le mani e gli occhi in segno di stupore, gridò con una
vocina in falsetto, ma che io intesi benissimo:
«Hekinah Degul!»
Le stesse parole furono ripetute dagli altri, ma io allora non potevo
comprenderne il senso.
La mia posizione, invero, era piuttosto imbarazzante. Infine, con uno sforzo
violento per liberarmi, riuscii a rompere le funicelle e a strappare i piccoli pioli
1
4
che tenevano attaccato al suolo il mio braccio destro; al tempo stesso, con una
forte scossa che mi fece provare un dolore indiavolato, potei allentare un po' i
legami che mi tenevano imprigionati i capelli dalla parte destra; così fui libero
di voltarmi un po' sul fianco. Allora quegli insetti umani scapparono a più non
posso, prima che io potessi pigliarne uno, e si misero a strillare. Cessate le
grida, sentii uno di loro comandare:
«Tolgo Ponac!»
Immediatamente mi sentii bucare la mano destra da più di cento frecce che
punge- vano come aghi. Fecero anche un'altra scarica in aria come i nostri
bombardieri in Europa quando tirano le bombe: parecchie frecce mi dovettero
cadere sul corpo, ma io non me ne accorsi; altre vennero a punzecchiarmi il
viso che io difendevo alla meglio con la mano. Passata la grandinata, cercai da
capo di liberarmi ed ecco allora un'altra scarica più grande che mai. Qualche
omino cercò anche di ferirmi con la lancia; per fortuna indossavo una giacca di
pelle di bufalo che non potevano bucare. Infine presi il partito di star fermo
sino al tramonto del sole, sperando che di notte avrei potuto districare anche il
braccio sinistro e liberarmi addirittura. Quanto agli abitanti, se erano tutti della
statura di quelli che avevo visto, mi credevo capace di tener testa al più
potente dei loro eserciti. Ma la fortuna voleva altrimenti.
Quando gli ometti videro che stavo fermo, cessarono di bersagliarmi; ma il
chiasso sempre crescente mi diceva che il loro numero aumentava. A due tese
da me, in direzione del mio orecchio destro, sentii inoltre, per più di un'ora,
come un rumore di gente che lavorasse. Infine voltai un po' la testa da quella
parte, per quanto me lo permisero i pioli e le cordicelle, e vidi una specie di
palco alto un piede e mezzo, con due o tre scale per salirvi. Sul palco stavano
quattro di quegli ometti, uno dei quali, fornito d'una certa aria di persona
autorevole, mi fece un lungo discorso di cui non capii una parola. Prima di
cominciare a parlare aveva gridato tre volte:
«Langro Degul san!» (Seppi in seguito che cosa volevano dire codeste parole).
Subito si fecero avanti cinquanta uomini e tagliarono gli spaghi dalla parte
sinistra della mia testa, di modo che potei voltarmi a destra e osservare
l'aspetto e gli atti dell'oratore.
Era di mezza età e più alto degli altri tre che lo accompagnavano, due dei quali
gli stavano ritti ai fianchi quasi per sorreggerlo e l'ultimo, che pareva un
paggio, alto all'incirca come un mio dito, gli sorreggeva lo strascico del robone.
L'oratore sosteneva assai bene la sua parte, e mi parve d'indovinare nel suo
discorso prima le minacce, poi le promesse, non senza qualche accenno di
compassione e di umanità. Io risposi poche parole con voce sommessa,
alzando la mano e gli occhi verso il sole come per prenderlo a testimonio che
morivo di
fame, non avendo mangiato da un pezzo. Avevo infatti un tale appetito che
non mi potei trattenere dal dimostrarlo in un modo, forse, poco educato,
portandomi le dita alla bocca per far capire che avevo bisogno di cibo.
Quell'Hurgo (seppi di poi che laggiù si chiamavano così i pezzi grossi) capì
benissimo. Scese dal palco e mi fece appoggiare alle costole parecchie scale,
sulle quali salirono un centinaio di uomini che s'incamminarono verso la mia
bocca con altrettanti panieri pieni di vettovaglie,
spedite lì per ordine del loro sovrano dopo la notizia del mio arrivo. Osservai
che c'erano carni di vari animali, ma al gusto non mi riuscì di distinguerle.
1
5
V'erano cosce, spalle, lombate che parevano di montone, ma più piccine di
un'ala di lodola: sicché in un boccone ne mangiavo due o tre, insieme con tre
pani grossi come palle di fucile. Mentre mi portavano tutta quella roba, quegli
uomini manifestavano il più grande stupore e la maggiore ammirazione per il
mio portentoso appetito.
Feci un altro segno per indicare che avevo sete; ed essi, pensando che in
proporzione di quanto avevo mangiato non mi sarebbe bastata una piccola
quantità di bevanda, ricorsero a un ingegnoso ripiego: rotolarono bravamente
una delle più grosse botti di vino che possedessero fino alla mia mano, poi la
rizzarono e le tolsero la parte di sopra. Io la vuotai con un sorso perché
conteneva appena una mezza pinta. Quel vino aveva un po' il gusto del
borgogna, ma era anche migliore. Me ne portarono un'altra botte e la bevvi,
poi ne chiesi ancora, ma non ne avevano più.
Dopo aver assistito a tutte queste meraviglie, essi si misero a gridare per
l'allegrezza e a ballarmi sul petto, ripetendo continuamente le solite parole:
«Hekinah Degul!».
Mi fecero segno di gettare a terra le due botti dopo avere avvertito la folla di
allontanarsi gridando: «Borach Mivola!»
Quando videro le due botti volare in aria fu un grande scoppio d'applausi.
Confesso che mentre essi mi passeggiavano sul corpo ebbi più d'una volta la
tenta- zione di pigliarne quaranta o cinquanta e scaraventarli in terra. Ma il
ricordo delle bucature inflittemi e di quelle che potevan venire, senza contare
la tacita promessa che io avevo loro fatta di non abusare della mia forza contro
di loro, mi persuasero a star tranquillo, tanto più che mi ritenevo legato dalle
leggi dall'ospitalità con un popolo che mi aveva rifocillato sì generosamente.
Pure, faceva un bel vedere l'audacia di quei piccoli esseri che ardivano
montarmi sul corpo e camminarvi, nonostante che una delle mie mani fosse
libera.
Non appena fui sazio, ecco comparirmi dinanzi un personaggio di primaria
importanza, inviato dal re del paese. Sua eccellenza mi montò sopra un
polpaccio, s'avanzò fino al mio viso, seguito da una dozzina di dignitari, e mi
fece vedere le sue credenziali con tanto di sigillo reale, ficcandomele proprio
sotto gli occhi. Egli mi fece un discorso che durò circa dieci minuti, calmo e
risoluto, accennando ogni tanto verso la parte dell'orizzonte che ci stava di
faccia. In quella direzione, a circa mezza lega, era posta la loro capitale, dove il
re aveva deciso che io fossi trasportato.
Risposi poche parole, ma non mi capirono; allora ricorsi ai segni e con la mano
che avevo libera, passando sopra quei gentiluomini, mi toccai l'altra mano e la
testa. Sua Eccellenza comprese che domandavo d'essere slegato, ma egli mi
fece capire che sarei stato portato via così come mi trovavo, pure
assicurandomi, con altri segni, che non mi sarebbe negato tutto ciò di cui
abbisognassi. Feci di nuovo l'atto di rompere i miei legami, ma quando risentii
sulle mani e sul viso, già gonfi, la puntura delle loro frecce, alcune delle quali
m'erano rimaste confitte nella carne, mi mostrai rassegnato a sottomettermi in
tutto, tanto più che il numero di quegli omettini cresceva ad ogni istante.
Allora, l'Hurgo e il suo seguito si ritirarono con molti salamelecchi e con cera
soddisfatta.
Subito dopo, sentii un generale applauso intramezzato da frequenti grida di
«Peplom Selan!», e vidi alla mia sinistra un certo numero di persone occupate
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ad allentare le cordicelle in modo che io mi potessi voltare sul fianco destro per
orinare, funzione che compii abbondantemente con gran gioia del popolo – il
quale, indovinando i miei propositi, si ritirò in gran furia a destra e a sinistra
per evitare il diluvio. Mi furon poi sfregati dolcemente il viso e le mani con un
certo unguento odoroso, che in breve mi fece passare il dolore delle bucature;
il benessere che ne seguì, unito agli effetti del cibo e del vino – in cui, come
seppi più tardi, i medici avevano versato, per ordine dell'imperatore, un
soporifico – mi fecero venire un gran sonno, che si prolungò per otto ore circa.
Sembra che l'imperatore fosse stato avvertito, per mezzo di un corriere, del
mio ritrovamento sulla spiaggia e che avesse deciso, col suo consiglio, di farmi
legare nel modo che già sapete, il che era stato fatto durante la notte, mentre
dormivo della grossa. Contemporaneamente si provvide all'invio di viveri e di
bevande e si mandò a prendere una macchina capace di trasportarmi nella
capitale dello stato.
Quest'idea parrà temeraria e pericolosa, e forse nessun sovrano europeo
avrebbe agito così; tuttavia credo che un simile provvedimento fosse non
meno prudente che generoso, perché, se avessero cercato di uccidermi
durante il sonno, il dolore della prima ferita mi avrebbe svegliato, la collera mi
avrebbe raddoppiato le forze e, rompendo ogni legame, avrei fatto una strage
senza pietà dei miei assalitori.
Quel popolo era specialmente esperto nelle scienze matematiche e
meccaniche, a cui il sovrano accordava una benigna protezione. L'imperatore
possedeva delle macchine ingegnosissime, alcune delle quali potevano
trasportare i vascelli da guerra, lunghi perfino nove piedi, dalle foreste dove
sono costruiti alla riva del mare. Si diede l'incarico a cinquecento fra ingegneri
e falegnami di preparare una macchina di codesto genere, di grandezza
bastevole per il mio trasporto. La macchina arrivò, e il rumore che io avevo
sentito era dovuto al suo avvicinarsi. Era una carretta lunga sette piedi e larga
quattro, posata su ventidue ruote e alta mezzo piede da terra. La collocarono
parallelamente alla mia persona: ma il difficile fu di alzarmi per mettermivi
sopra. Per questo scopo piantarono in terra ottanta pali, muniti di carrucole; mi
passarono intorno alle braccia, alle gambe, al collo e al corpo delle forti strisce,
a cui furono legate corde grosse come un buono spago da imbal-laggio,
novecento uomini robusti tirarono le corde e così fui alzato, gettato sulla
carretta e ivi fortemente legato. Durante tutto questo tempo io seguitai a
dormire, sicché seppi soltanto più tardi ciò che mi avevano fatto.
Infine, mille e cinquecento vigorosi cavalli mi trascinarono fino alla capitale che
era distante un mezzo miglio dei nostri.
Dopo quattr'ore eravamo sempre in viaggio, quando fui svegliato da un casetto
abbastanza ridicolo. Mentre i conduttori si erano fermati per accomodare non
so che cosa alla carretta, quattro o cinque giovincelli s'arrampicarono adagio
adagio fin sulla mia faccia per la curiosità di vedere quali smorfie facessi
dormendo. Ma uno di essi, che era ufficiale delle guardie, ebbe l'idea
d'íntrodurmi la punta del suo spadone in fondo alla narice sinistra,
producendomi così un solletico che mi fece fare tre starnuti. Essi si affrettarono
a scendere quatti quatti, e soltanto tre settimane dopo seppi il motivo di quel
mio brusco risveglio. La marcia forzata durò tutto il giorno, e la notte, durante
il riposo del campo, cinquecento guardie vegliarono al mio fianco, metà con
fiaccole e metà con archi e frecce per colpirmi qualora tentassi la fuga. All'alba
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riprendemmo il viaggio e arrivammo verso mezzogiorno a cento tese dalla
capitale. Tutta la corte, compreso l'imperatore, era uscita dalle mura per venirmi a vedere; ma i grandi ufficiali impedirono a sua maestà di mettere a repentaglio la sua preziosa persona montandomi addosso.
La carretta s'era fermata dinanzi a un antico tempio, il più grande, forse, di
tutto l'impero; secondo la religione di quel popolo, esso era ritenuto
sconsacrato perché qualche anno prima vi era stato commesso un delitto; così
era spoglio d'ogni ornamento e serviva a ogni sorta di usi. Questo immenso
edifizio doveva diventare il mio alloggio. La grande porta a nord era alta circa
quattro piedi e larga due e da ciascun lato di essa v'era un finestrino largo sei
pollici. A quello di sinistra i fabbri del re attaccarono le estremità di novantun
catene, simili a quelle di cui in Europa si servono le signore per sostenere gli
orologi, grosse circa altrettanto: l'altra estremità di ciascuna d'esse fu
attaccata alla mia gamba sinistra con trentasei fermagli. Di fronte al tempio, a
venti piedi di distanza, e al di là della strada maestra, stava una torre alta
almeno cinque piedi. Lì doveva salire il re coi suoi principali cortigiani per
contemplarmi senza che io lo vedessi. Dalla città intanto erano usciti forse più
di centomila abitanti, attratti dalla curiosità di vedermi, e nonostante mi si
facesse buona guardia, credo che almeno diecimila mi sarebbero montati sul
corpo per mezzo di scale, se non fosse stato pubblicato un editto che lo vietava
sotto pena di morte. Quando fui assicurato in modo da sembrare impossibile
che io rompessi le mie catene, gli operai tagliarono tutti gli altri legami; e io
potei alzarmi, ma ero in preda a una tal tristezza quale non avevo mai provata.
Non so descrivere il chiasso e lo sbalordimento della folla quando mi videro in
piedi a passeggiare. Poiché le catene che trattenevano la mia sinistra erano
lunghe circa sei piedi, non solo potevo andare e venire, ma anche entrare
carponi nella porta del tempio e stendermi nel suo interno.
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Stimoli narrativi 4
Jules Verne, “Il giro del mondo in 80 giorni”
Mentre ferveva il gioco, i giocatori non parlavano; ma negli intervalli fra un
passaggio e l’altro di carte la conversazione interrotta si riaccendeva sempre
più animata.
Io ritengo - diceva Andrew Stuart, - che le probabilità sono in favore del ladro,
il quale dev’essere certamente un uomo abilissimo.
Evvia! - rispose Ralph. - Ormai non c’è più paese in cui possa nascondersi.
Questo poi...
Dove volete che vada?
Non ne so nulla - rispose Andrew Stuart. - Ma, alla fin fine, il mondo è grande!
Lo era una volta - disse a mezza voce Phileas Fogg; quindi porgendo le carte a
Thomas Flanagan: -Tocca a voi alzare. La discussione venne sospesa per tutta
la durata della partita. Ma, chiusa questa, Andrew Stuart riprese: - Come
sarebbe a dire: una volta? È forse rimpicciolita la terra?
Senza dubbio - rispose Walter Ralph. - Io sono del parere del signor Fogg: la
terra è rimpicciolita, giacché ora la si percorre dieci volte più rapidamente che
non la si percorresse cento anni fa. Ed ecco ciò che nel nostro caso renderà le
nostre ricerche più facili.
Ma renderà anche più facile la fuga del ladro!
Tocca a voi giocare, signor Stuart - avvertì Phileas Fogg.
La disputa si smorzò un’altra volta nel silenzioso ritmo del gioco. Ma l’incredulo
Stuart non era ancora
convinto, e a partita finita ripigliò:- Bisogna confessare, signor Ralph, che
avete fatto una scoperta curiosa dicendo che la terra è rimpicciolita! Così,
poiché adesso se ne compie il giro in tre mesi...
In ottanta giorni soltanto - rettificò Phileas Fogg.
- Esattamente, signori! - incalzò John Sullivan. - Ottanta giorni, dacché il
percorso fra Rothal e Allahabad è aperto con la Grande Ferrovia Peninsulare
Indiana. Ed ecco il calcolo stabilito dal “Morning Chronicle”:
Da Londra a Suez, passando per il Moncenisio e Brindisi - in ferrovia e in
piroscafo: 7 giorni a Suez a Bombay - in piroscafo: 13 giorni; da Bombay a
Calcutta - in ferrovia: 3 giorni; da Calcutta a Hong Kong (Cina) - in piroscafo:
13 giorni; da Hong Kong a Yokohama (Giappone) - in piroscafo: 6 giorni; da
Yokohama a San Francisco - in piroscafo: 22 giorni; da San Francisco a New
York - in ferrovia: 7 giorni; da New York a Londra - in piroscafo e in ferrovia: 9
giorni; Totale 80 giorni.
Già, ottanta giorni! - esclamò Andrew Stuart che nell’eccitazione tagliò per
sbaglio una carta reale. – Ma senza tener conto del cattivo tempo, dei venti
contrari, dei naufragi, dei deragliamenti, eccetera.
Tutto compreso - rispose Phileas Fogg continuando a giocare, dato che ormai
la discussione non rispettava più il “whist”!
Anche se gli Indii, o Indiani che dir si voglia, portano via le rotaie, fermano i
treni, saccheggiano i vagoni
e pelano il cranio ai viaggiatori?
- Tutto compreso - ribadì Phileas Fogg, il quale scoprì le carte, avendo vinto.
Andrew Stuart, a cui toccava il turno di fare il mazzo, raccolse le carte e disse:
- Teoricamente avrete ragione, signor Fogg: ma in pratica...
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- In pratica pure, signor Stuart …
- Vorrei proprio vederlo!
- Non dipende che da voi. Partiamo insieme …
- Il cielo me ne guardi! Ma scommetterei volentieri quattromila sterline, che un
simile viaggio, fatto in queste condizioni, è impossibile.
- Possibilissimo invece - riconfermò il signor Fogg.
- Ebbene: fatelo, allora!
- Il giro del mondo in ottanta giorni?
- Sì.
- Lo farò volentieri.
- Quando?
- Subito.
- Che pazzia! - esclamò Andrew Stuart il quale cominciava a seccarsi
dell’insistenza del suo collega.
- Via, è meglio giocare.
- Rimischiate, allora, - rispose Phileas Fogg, - giacché avete dato male.
Andrew Stuart ripigliò le carte con mano febbrile. Ma tutt’a un tratto posandole
sulla tavola gridò:
- Ebbene sì, signor Fogg; scommetto quattromila sterline!
Fallentin intervenne.
- Calmatevi, signor Stuart. Ciò non è serio.
- Quand’io dico «scommetto», è sempre sul serio! - replicò Andrew Stuart.
- E sia - disse il signor Fogg; quindi volgendosi verso i suoi colleghi: - Ho
ventimila sterline depositate presso i Fratelli Baring. Le rischierò volentieri.
- Ventimila sterline!!!... - esclamò John Sullivan. - Ventimila sterline che un
ritardo imprevisto può farvi
perdere!
- L’imprevisto non esiste - rispose con pacatezza l’originale “gentleman”.
- Ma, signor Fogg, questo spazio di tempo di ottanta giorni è calcolato come un
“minimum”!
- Un “minimum” ben impiegato basta a tutto.
- Per non oltrepassarlo, però, bisognerebbe saltare matematicamente dai treni
sui piroscafi, e dai piroscafi sui treni.
- Salterò matematicamente.
- Via, è uno scherzo!
- Un buon inglese non scherza mai quando si tratta di una cosa seria come una
scommessa – replicò Phileas Fogg- Io scommetto ventimila sterline, contro
chicchessia, che farò il giro del mondo in ottanta giorni, se non meno, ossia in
millenovecentoventi ore, vale a dire in centoquindicimila e duecento minuti.
Accettate?
- Accettiamo - risposero Stuart, Fallentin, Sullivan, Flanagan e Ralph dopo
essersi consultati.
-Bene - disse Phileas Fogg. - C’è un treno per Dover alle 8 e 45. Partirò con
quello.
- Stasera stessa? - domandò Stuart.
- Stasera stessa. Perciò, - soggiunse il signor Fogg consultando un calendario
tascabile, - dato che oggi è mercoledì 2 ottobre, dovrò essere di ritorno a
Londra, in questo stesso salotto del Club, il sabato 21 dicembre alle 8 e 45 di
sera. In mancanza di che, le ventimila sterline depositate attualmente a mio
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credito presso i Fratelli Baring vi apparterranno di diritto e di fatto. Signori,
eccovi un assegno per tale somma.
Fu steso l’atto scritto della scommessa, e venne firmato immediatamente dai
sei cointeressati.
Phileas Fogg era rimasto impassibile. Egli non aveva certo scommesso per
guadagnare; ed aveva impegnato soltanto quelle ventimila sterline, metà dei
suoi capitali, poiché prevedeva che forse gli sarebbe stato necessario spendere
l’altra metà a fine di condurre a buon termine quel difficile, per non dire
inattuabile progetto.
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Stimoli narrativi 5
R. Piumini, Il re dei viaggi Ulisse
Prefazione
Oggi è facile viaggiare. Si punta il dito su una carta geografica, si dice “Qui!”,
si compra un biglietto, si entra in una scatola (un aereo, un’automobile, un
vagone), e si è portati via. Le strade sono lisce, le direzioni chiare: se non c’è
troppo traffico, facilmente si arriva.
Però sono viaggi poveri, senza sapore. Gli occhi vedono montagne e mari di
sfuggita; il corpo non li tocca, la mente non li capisce: La gente fugge via come
una foresta di statue. Non c’è nemmeno tempo per la nostalgia.
Una volta, i viaggi erano fatti di annunci, preghiere,battaglie, smarrimenti,
riposi, esplorazioni, terrori, scoperte, pene, fame, sazietà, desideri propri e
altrui, ricordi, disperazioni, felicità, nostalgie, ritorni. Non si viaggiava per
vedere, ma per fare: e il viaggio era un gran lavoro. I viaggi erano fatti di
tempo, duravano una parte della vita, erano vivi.
A quei tempi in verità, non erano in molti a viaggiare: per molti il mondo
restava dalla nascita alla morte, chiuso nel cerchio della valle o di una fila di
alberi: Si accontentavano di seguire con gli occhi il viaggio quotidiano del sole
e della luna, il passaggio misterioso di uccelli e nuvole.
Ma quelli che viaggiavano, viaggiavano davvero. Partivano, e forse non
tornavano. Quelli che tornavano, erano diversi: lo si vedeva nei loro occhi e lo
si sentiva nelle loro parole, che avevano viaggiato.
Anche se ancora si pensava che il mondo fosse piatto, quelli che avevano
viaggiato sapevano che era rotondo: rotondo come un pugno chiuso, un frutto,
un sasso, una testa d’uomo. E per qualunque guerra fossero partiti, tornavano
per la pace.
Così sarà il viaggio di Ulisse, e di quelli che insieme a lui, leggendo questa
storia, vogliono partire.
Partenza
“Il re dei viaggi Ulisse, all’inizio non voleva partire. Regnava contento su Itaca,
che nel disegno del mondo è solo un sasso del mare, ma per lui era la terra, la
casa e la salute. Aveva vino e pane, e il buon Laerte, suo padre, sedeva con lui
all’ombra degli ulivi a guardare l’orlo del mare che baciava la spiaggia, e
sempre tornava via. Aveva vino e pane, e la quieta sposa Penelope dormiva e
si svegliava con lui a guardare le stelle nel grande letto, sul terrazzo della
reggia.
Aveva vino e pane, e il piccolo Telemaco, fresco e dolce come un bambolotto di
frutta, gli giocava fra i piedi, annusato dal cane Argo, cucciolo come lui, mentre
i servi andavano e tornavano dai campi, e le tortore, con il canto di zucchero in
gola, vestivano e svestivano di bianco il tetto della casa.
Ma ecco che, altrove, voleva scoppiare la guerra: gli Achei avevano deciso di
andare a combattere i Troiani perché Paride, figlio di Priamo re di Troia, si era
portato via Elena, bellissima sposa di Menelao re di Sparta.
“ Vendicheremo l’offesa”, dicevano Menelao e suo fratello Agamennone, re di
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Micene.
“Riprenderemo Elena e, già che ci siamo, distruggeremo Troia, così i nostri
traffici con l’Oriente saranno spediti.
Ulisse, finché le notizie della guerra furono incerte, fece il sordo.
“Forse passerà agli Achei la voglia di fare la guerra” diceva a Penelope. “ forse
si accorgeranno che il mare è grande e le navi degli Achei possono
commerciare con l’Oriente senza nemmeno vedere da lontano le navi dei
Troiani… La guerra, che gran sciagura è! Si parte, e chissà se si ritorna…
Ma queste cose non accaddero, e i principi Achei, comandati da
Agammennone, si scaldavano ogni giorno di più e preparavano armi, navi,
vettovaglie, cavalli: sempre più volevano partire per Troia e distruggerla una
volta per tutte.
Sicché Agamennone, un giorno, così parlò:
“Bisogna portare Ulisse con noi, perché è valoroso e astuto, e potrà essere di
grande utilità. Però ecco che fa il sordo là nella sua Itaca, e si fa piccolo
piccolo, sperando che ci dimentichiamo di lui! Invece no: Mnelao, Palamède,
andata presto ad Itaca e ricordate ad Ulisse che è un principe Acheo, che
l’onore degli Achei è il suo onore e le guerre degli Achei sono le sue guerre!
Così Menelao e Palamède presero cocchi e barca e arrivarono a Itaca: Ulisse li
vide da lontano ammainare la vela entrando in porto e indovinò che cosa
venivano a fare.
“Ahi ahi, padre mio!” disse Laerte “Ecco due galletti con la cresta da guerra
degli Achei… Se li sto ad ascoltare dovrò dire di sì alle loro favole: proverò a
cavarmela con un altro sistema.
Chiamò Penelope e i servi e le ancelle e tutti della casa e disse loro:
“Primo, non stupitevi, qualsiasi cosa mi vedrete fare. Secondo, se vi
chiederanno di me, non dite altro che: “Ah, povero Ulisse! Ah, poveri noi!.
Terzo, andate in giro con faccia triste, scuotendo la testa di qua e di là.
Quando Menelao e Palamède scesero dalla nave, non vedevano altro che gente
sconsolata, che scuoteva la testa di qua e di là.
“Una gra disgrazia sembra pesare su quest’isola” disse Menelao, che era
valoroso come un lupo, ma ingenuo come un cagnoletto. “Guarda che facce
tristi!
“Già, già… diceva Palamède, re d’Eubea, che era stato allevato dal centauro
Chirone ed aveva inventato lettere d’alfabeto, giochi di scacchi, fari, misure di
bilancia, e dunque non era uno sciocco “ già, già… Ma sento un leggero puzzo
di bruciato…
“Sarà l’arrosto di qualche cucina o qualche stoppia che brucia nei campi!” disse
menelao, salendo allegramente verso la casa di Ulisse.
Ed ecco che, giunti alla reggia, domandarono a questo e a quello dov’era Ulisse
e questo e quello rispondevano:
“Ah, povero Ulisse! Ah, poveri noi!” E se ne andavano scrollando la testa.
“Che sia morto!” diceva Menelao “Oh, sarebbe una disgrazia grandissima!
“Non vedo segni di lutto” disse Palamède. “Non usa, quando muore un re,
appendere nastri neri ai pali del porto e ad ogni sporgenza delle case? No,
Ulisse non è morto, e la puzza di bruciato si fa più forte…
Alla fine giunsero davanti a Penelope.
“Ah, povero Ulisse! Ah, poveri noi! Disse la donna, nascondendo la bella faccia
nel velo.
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“Saggia e bella Penelope” disse Palamède “già molti lamenti abbiamo sentito.
Dicci qualcosa di in più su questa gran disgrazia capitata ad Ulisse e a voi! Ci è
infatti impossibile addolorarci, senza saperne la ragione.
Allora Penelope li accompagnò a testa china fuori dal palazzo, giù verso la
spiaggia, a ponente. E laggiù, piccolo piccolo, un uomo arava la sabbia del
littorale dietro un aratro tirato da un asino vecchio e da un bue: uno dal passo
lento e l’altro dal passo corto; e l’uomo era mezzo nudo e aveva un cappello da
contadino che sembrava mezzo guscio d’uovo, e seminava qualcosa di bianco
nei solchi storti e incerti che l’aratro tirato dalle bestie mal assortite, lasciava
nella sabbia.
Stupiti dal quella visione, Menelao e Palamède arrivarono alla spiaggia e videro
che quell’uomo era Ulisse e che seminava sale, dicendo strane parole:
“Salo il suolo che il sole non sale, e so solo il silenzio”.
E ripeteva, ad ogni nuovo lancio di sale:
“Salo il suolo che il sole non sale, e so solo il silenzio…
“Ah, povero Ulisse! Ah, poveri noi!” scoppiò a dire Menelao, e piangendo
scuoteva la testa di qua e di là. “Il re di Itaca, il glorioso Ulisse, è diventato
folle! Una testa così fine! Una mente così saggia! Guardalo adesso, Palamède,
che sembra un buffone di quelli che girano Olimpia nelle notti dei Giochi: però
costui non fa ridere, e anzi fa piangere!
E Menelao si inginocchiò sulla spiaggia e si versava manciate di sabbia sui
capelli, mescolandola alle lacrime e alla saliva del lamento.
In quel momento arriva dal palazzo Euriclea, la balia di Ulisse, che aveva già
cinquanta anni passati, portando fra le braccia il piccolo Telemaco, l’unico che
rideva fra tutti e tirava i capelli alla donna. Dietro venivano ancelle con vassoi
e coppe di vino per i due ospiti.
“Ah, povero piccino!” disse Menelao accarezzando Telemaco, che tirò il naso a
lui.
“Non avrai la gioia di un padre che ti dica parole assennate e ti conduca con
l’arco a caccia di capretti e cinghiali!
E bevve tutta la sua coppa d’un fiato, brindando agli Dei. Palamède, invece,
guardando con gli occhi socchiusi il folle aratore, prese la sua coppa e la alzò,
dicendo ad alta voce:
“Brindo al più astuto degli uomini, capace di ingannare pesino gli Dei!
L’aveva detta grossa,, perché tentare di ingannare gli Dei, anche per Ulisse,
sarebbe stata una cosa sconveniente. E Palamède osservò se Ulisse, chino
sull’aratro, movesse un ciglio, o l’angolo della bocca a quelle forti parole che lo
riguardavano. Ma il re di Itaca, come se avesse ascoltato vento, continuava a
seminare il sale e a recitare la sua folle filastrocca.
Portiamo la triste notizia ad Agamennone e ai principi Achei, Palamède! Disse
Menelao.
“La notizia che andremo a Troia senza Ulisse, perché la sua mente a ceduto
all’assedio della follia…
“L’assedio della follia… diceva Palamède, seguendo lo storto viavai dell’aratro
“però il puzzo di bruciato è sempre più forte!
Menelao non lo ascoltava: già si era chinato a baciare il piccolo Telemaco,
seduto sulla spiaggia e la stoffa della manica di Penelope, in segno di saluto
rispettoso.
Palamède, dietro di lui,fece lo stesso: ma alla rovescia. Prima baciò la veste di
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Penelope, poi le guance paffute di Telemaco, che cominciò a tirargli i capelli
come prima il naso di Menelao e i capelli di Euriclea.
E Palamède stava per riconsegnare il bambino alla balia, quando si fermò,
come se non riuscisse a staccarselo dalle braccia. Poi, all’improvviso, mentre il
bambino spalancava stupefatto le braccia e le gambe, scattò in corsa e lo andò
a posare sulla spiaggia, dieci passi davanti la coppia di animali che tiravano
l’aratro.
Mentre Telemaco tentava di raddrizzare il piccolo corpo sulla sabbia, Palamède
fece tre passi di lato e aspettò.
Gelati di sorpresa e di spavento, più in là, Penelope, Menelao ed Euriclea
guardavano la scena, non sapevano muoversi né gridare.
Sempre tenendo la testa bassa, Ulisse tirò un poco le redini per far rallentare
le bestie: forse sperava che Palamède, all’ultimo momento, avrebbe tolto il
piccolo dal terreno, ma il re d’Eubea incrociò le braccia e fece un altro passo
indietro, verso il mare…
Sulla sabbia intanto, Telemaco era riuscito a mettersi a quattro zampe e
restava fermo, guardando incuriosito le onde che scivolavano luminose a poca
distanza.
Allora Ulisse, prima che le zampe del bue schiacciassero la carne tenera del
figlioletto, tirò rapido le redini, fermò l’aratro, gettò il sale nel mare, sulla
sabbia il cappello a mezzo guscio. Non camminando più stortamente, e snza
più dire frasi dissennate, andò a sollevare Telemaco, lo ripulì dalla sabbia e si
voltò verso Palamède che lo guardava sogghignando.
“Ben fatto, glorioso re d’Eubea! disse. “Un altro Acheo s’imbarcherà per una
guerra inutile e crudele. Ma bada alla mia astuzia: in questo istante la sposo al
mostro della vendetta, e il figlio che faranno sarà la tua rovina!
Gettata la minaccia, che qualche anno più tardi si sarebbe compiuta, tornò
verso il palazzo con il piccolo fra le braccia.
Così Ulisse, re dei viaggi e delle bugie, fu costretto a partire per Troia, dove lo
aspettavano dieci anni di guerra faticosa.
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Questionario 1 di autovalutazione finale
QUESTIONARIO AUTOVALUTAZIONE FINALE DELL’ATTIVITÀ SVOLTA
NOME COGNOME
CLASSE
L’attività è stata per te motivante?
Preferisci lavorare
DATA
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
Da solo
In coppia
In gruppo
Se preferisci lavorare da solo, perche’
Se preferisci lavorare in coppia, perché?
Se preferisci lavorare in gruppo, perché?
Quali difficoltà hai incontrato nell’attività
svolta?
Cosa pensi di aver imparato da questa attività?
Quali materie scolastiche avete approfondito
durante questa attività?
Pensi di essere riuscito durante il lavoro di
gruppo a dare un contributo all’attività?
Pensi che tutti siamo riusciti a dare il proprio
contributo durante l’attività?
Sei riuscito a trovare un accordo con i tuoi
compagni di lavoro?
Se sì, come.
Se no, perché.
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