Egler Ghinato
Sul treno per
Vienna
Romanzo breve
Vincitore del Premio Penna d’Autore d’Oro 1997,
sezione narrativa inedita
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Venezia Mestre: ore 12,47
Quest'anno la mezzanotte verrà, con il brindisi, travolta da
musiche di walzer viennesi.
Fabrizio mi allungherà il calice, ammiccando con un
sorriso bonario. Ci guarderemo e scoppieremo a ridere
insieme.
(Capodanno a Vienna: hai visto, questa volta ci siamo
riusciti – Ammetti che non ci credevi – Buon anno, mia
donna fatale – Buon anno, grand'uomo – Dimmi, come lo
vuoi quest'anno? – Né meglio né peggio di quello che è
appena finito, direi – Lo vedi? Niente da domandare al
nuovo anno. Vuol dire che sei già la donna più fortunata
del mondo – Non hai bisogno di dirmelo, lo so – Davvero?
– Non prendermi in giro – Sono più serio che mai! – O già
un po' ubriaco, sospetto – L'uno e l'altro, può darsi – La
miscela migliore, dunque – Per merito tuo –Mio?! Credevo
di Vienna...)
Vienna. Sembra davvero che ci siamo riusciti.
Sono tre anni che Gustav continua ad invitarci, ma
all'ultimo momento io e Fabrizio abbiamo sempre dovuto
cambiare programma. Adesso però è troppo tardi anche per
i contrattempi dell'ultimo momento.
Eccoci qui, finalmente, seduti su questo treno che ci
porta a Vienna.
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Solo tre persone nello scompartimento: io, Fabrizio, e lo
sconosciuto che mi siede di fronte. Tutti e tre siamo assorti
in lettura o in silenzi. E ciascuno fa probabilmente il conto
di quanto tempo ci vorrà ad arrivare.
Perché non abbiamo scelto l'aereo? Oh, no! Ci
spostiamo sempre in aereo per lavoro...
Paradosso delle comodità acquisite: poi si rimpiangono
le vacanze di gioventù, coi treni e lo zaino in spalla. E
poiché anche questa è una vacanza, abbiamo voluto il
treno. Non importa se ci metteremo più tempo. Abbiamo
voluto fare i nostalgici.
Non ho mai capito se sono stata io a scegliere Fabrizio o
lui a scegliere me.
Forse, semplicemente, non ci siamo mai scelti. E quando
un giorno mi ritrovai nel suo letto, fu soltanto per caso. O
perché quella bottiglia di champagne, che Fabrizio volle a
tutti i costi stappare al termine di una serata in cui avevamo
già bevuto abbastanza, tirò un brutto scherzo ad entrambi.
E al mattino, quando l'ebbrezza dell'alcool era ormai
passata, svegliarci e trovarci insieme sotto le lenzuola fu
per tutti e due – credo – un inconfessato imbarazzo.
Siamo stati tentati, in quel momento, di relegare
l'episodio ad incidente da dimenticare. Poi non andò così, e
siamo tornati a cercarci. Perché, in fondo, era vero che ci
trovavamo bene insieme, e non c'era nemmeno bisogno di
scomodare la parola “amore”.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Ci incontravamo al giornale, parlavamo, discutevamo.
Quando possibile, ci frequentavamo.
Ci piaceva molto parlare di politica, cronaca, o di
letteratura, cinema, arte, spettacolo. Un po' meno di noi.
Per questo, forse, ci è capitato tante volte di metterci a
discutere di lavoro anche quando facciamo l'amore. In un
certo senso è stato il lavoro a tenerci insieme, oltre che a
dar vita al nostro rapporto. Sono ormai cinque anni.
Ciascuno continua a vivere a casa propria. Anche se mi
capita spesso di notare, con un po' di autoironia, quante
tracce di lui siano ormai stabilmente disseminate per il mio
appartamento (lo spazzolino da denti, il rasoio, la schiuma
da barba, l'accappatoio, la sua bottiglia preferita di whisky,
l'odore della sua pipa... o la cravatta che ha dimenticato da
me l'altra sera).
Ma altrettanto resta di me nel suo.
Sorrido. Si finisce per avere due case, mi dico. Anche se
è stato un nostro implicito ma inderogabile accordo quello
di non dare e non pretendere alcuna copia delle rispettive
chiavi di casa.
Meglio restare fuori dal portone ad aspettare,
tamburellando nervosamente le dita, quando l'altro non è
riuscito ad arrivare a casa in tempo per l'ora fissata. Meglio
rincasare trafelati, maledicendo il traffico e i semafori
rossi, quando l'inconveniente ci ha trattenuto fuori più del
previsto e sappiamo che qualcuno ci sta aspettando sotto il
portone. Meglio. Oggi capita a me e domani capita a lui.
Ma l'importante è sapere che casa mia resta casa mia, e
casa sua resta casa sua.
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Non ci saranno valigie e scatoloni da preparare, né
chiavi da riconsegnare al legittimo proprietario, il giorno
che ci lasceremo.
Noi possiamo restare senza vederci anche per lungo tempo:
quando siamo all'estero, ma anche quando siamo troppo
assorbiti dal lavoro per concederci evasioni e distrazioni.
Allora ci incontriamo semplicemente al giornale, ci
salutiamo affettuosamente, ci scusiamo per non avere
tempo da dedicarci, e ci proponiamo di vederci appena sarà
possibile.
Nessuno dei due ha bisogno di assiduità. Ci guardiamo
bene dall'avanzare pretese l'uno sulla vita dell'altra.
Nemmeno la gelosia è ammessa. Ciascuno continua a
frequentare, per conto proprio e per quanto gli riesce, le
proprie amicizie. Nessuno dei due chiede mai conto
all’altro delle persone con cui esce.
Non so se mi tradisce. Penso che abbia qualche
avventura occasionale, ma non potrei affermarlo con
certezza. Forse è una domanda che non mi sono mai posta.
O – se mai me lo sono chiesta – mi sono anche risposta che
non è una cosa rilevante. Non sono mai stata gelosa di lui.
Come lui non si è mai dimostrato geloso di me. Ciascuno è
ben consapevole di essere libero. Siamo in questo,
probabilmente, una coppia inconsueta. Ma i cinque anni
trascorsi insieme in questo modo ci hanno consolidato.
Penso che nessuno dei due, all'inizio, credesse che
potesse durare. Invece siamo ancora qui, insieme, oggi. E
siamo qui, insieme, su questo treno per Vienna.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Una settimana a Vienna per il fine d'anno. Sono tre anni
che la programmavamo. Adesso, finalmente, ci siamo
decisi: vogliamo concedercela (in via eccezionale,
s'intende).
Gustav ci attende. Credo che fino a quando non ci vedrà
scendere insieme dal treno, non sarà convinto che
arriviamo proprio tutti e due.
Per metterci in viaggio abbiamo scelto il giorno di Santo
Stefano, proprio per evitare i sovraffollamenti dei giorni di
vigilia.
Infatti. Il viaggio si ripromette tranquillo.
Solo un altro viaggiatore nel nostro scompartimento:
siede vicino al finestrino, di fronte a me, e legge il
giornale. Fabrizio mi è seduto accanto ed è tutto intento a
sfogliare guide e opuscoli di Vienna e dintorni. Sta facendo
e disfacendo piani organizzativi per la settimana, e
predispone tutti i posti che deve portarmi a vedere. Infatti,
strano a dirsi, a Vienna io non ci sono mai stata.
Inutile ricordargli che, conoscendo Gustav, ci si può
ragionevolmente aspettare che abbia già predisposto lui
tutto quanto. Sarà lì ad aspettarci alla stazione – non ha
voluto sentire ragioni al riguardo.
Ma Fabrizio non sembra pensarci minimamente. Sfoglia
con compiacimento le sue guide turistiche e di tanto in
tanto me le allunga per mostrarmi qualche illustrazione o
per avanzare qualche commento. Continua a ripetermi i
suoi programmi di itinerari possibili, chiedendo la mia
approvazione – salvo modificarli comunque ogni cinque
minuti, a prescindere da quello che io gli rispondo.
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Sembra animato da un entusiasmo quasi da fanciullo.
Ad osservarlo, mi fa tenerezza. Ma è la vacanza che
abbiamo programmato e sognato da gran tempo: forse lo
posso capire.
Abbiamo perfino deciso, per questi giorni, di bandire
dalla conversazione ogni argomento che abbia a che fare
con il nostro lavoro.
Con un po' di malizia mi viene però da domandarmi se
per caso non sia proprio per questo che lui ha subito tirato
fuori dalle valigie le sue guide di Vienna – appena salito
sul treno – e non fa che predisporre le variazioni infinite
degli itinerari del nostro soggiorno turistico. O se non sia
per questo motivo che anch'io, appena seduta, ho subito
tolto dalla borsa il libro che mi sono portata appresso e ho
cominciato ad aprirlo.
Fa paura, in fondo, non poter parlare di quello di cui si è
soliti parlare. Sorge il sospetto che non ci sia poi molto
altro da dirsi.
Ma è un pensiero inquietante. E allora, ecco, ciascuno
dei due si aggrappa a qualcosa: il mio libro di poesie, le
sue guide turistiche: Allora lui potrà mostrarmi una
fotografia, e da lì cominciare a parlarmi di Vienna. E
vinceremo il silenzio. Poi faremo il nome di Gustav – io o
lui, non importa – e cominceremo a parlare di lui, del
nostro vecchio amico Gustav, di quella testamatta,
dell'ultima volta che ci siamo incontrati e di chissà-checosa-avra-combinato-negli-ultimi-tempi. E poi, quando
anche questo argomento si sarà esaurito, io potrò tornare ad
aprire il mio libro e lui tornerà a sfogliare, con studiato
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Sul treno per Vienna
interesse, le sue guide. Finché sarò io ad allungargli da
leggere una delle poesie che avrò sottomano. Così potremo
cominciare a parlare dei nostri poeti.
E di nuovo vinceremo il silenzio.
E di vittoria in vittoria, sul silenzio che da sempre ci
minaccia, continueremo a parlare. Finché arriveremo a
Vienna, dove troveremo Gustav alla stazione, ad aspettarci.
Gustav ci correrà incontro. Gustav, nostro salvatore.
Perché sarà lì, con noi, e ci racconterà e ci chiederà un
milione di cose. E allora non saremo più soli – io e
Fabrizio – l'uno di fronte all'altra, ad avere paura di non
avere niente da dirci.
Poi, quando a notte inoltrata ci saluteremo con Gustav,
probabilmente proprio di fronte all'albergo in cui saremo
alloggiati, al buio il nostro silenzio ci farà meno paura.
Saliremo nella nostra stanza, sapendo che – se avremo
sonno – potremo semplicemente dormire. La stanchezza e
il viaggio risulteranno ottimi alibi. E se non avremo ancora
sonno, spegneremo comunque la luce e al buio ci
avvicineremo l'uno all'altra.
Perché anche lì ci sarà silenzio, e il silenzio tra due
persone è sopportabile solo quando si è molto lontani o
molto vicini.
La vera lontananza viene dalla reciproca indifferenza:
questa, l'abbiamo perduta tra noi ormai da parecchi anni.
Non riusciamo più ad essere abbastanza lontani da non
sentirci turbati dal nostro silenzio.
E allora, avremmo piuttosto bisogno di sentirci un po'
più vicini – intimamente vicini – perché il nostro silenzio
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non avesse a farci paura. Ma non riusciamo mai ad essere
vicini abbastanza. Non intimamente, cioè.
Per questo, quando spegniamo la luce, ci cerchiamo
come smarriti, abbracciandoci stretti. E non diciamo più
niente, cercando semplicemente la rassicurazione dei nostri
corpi avvinghiati, che aderiscono l'uno all'altro ansimanti.
Per sentirci almeno in quel momento vicini. Fisicamente
vicini, cioè. Uniti anche? Oh, no. Questo mai.
Udine: ore 14,04
E intanto corre questo treno per Vienna. Guardo paesaggi
di neve sfilare rapidi attraverso il finestrino. Fabrizio
continua a leggere le sue guide e il viaggiatore che mi
siede di fronte continua a leggere il suo giornale.
Per noia, forse, provo a sbirciare le pagine che Fabrizio
sta leggendo e, indicandogli una fotografia, provo a
chiedergli: questo cos'è?
Mi risponde senza alzare lo sguardo dalle pagine che sta
sfogliando.
Torno a guardare fuori dal finestrino. Cerco di
immaginarmi la settimana che ci attende a Vienna. Ho
tanta voglia di rivedere Gustav, so che in sua compagnia ci
divertiremo sicuramente.
Gustav è un artista, una persona squisita, capace di metterti
sempre a tuo agio. Ed è un vulcano di iniziative e di idee.
Con lui non c'è mai tempo per annoiarsi. Sicuramente è tra
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
le persone più interessanti che ho avuto modo di conoscere
attraverso Fabrizio.
Lui e Fabrizio sono amici di vecchia data. Si conobbero
quand'erano entrambi ancora studenti, e Gustav venne in
Italia per coltivare i suoi studi d'arte.
Io lo incontrai qualche anno fa, quando rimase ospite da
Fabrizio per alcune settimane. Da allora abbiamo sempre
mantenuto i contatti.
Sono appunto tre anni che insiste perché trascorriamo
tutti e tre insieme, a Vienna, il Capodanno. È diventato
ormai un amico comune. Uno dei pochissimi amici comuni
– a parte i colleghi – che io e Fabrizio riusciamo ad avere.
Mi ha accettata molto bene, fin dall'inizio, forse perché
ero anch'io appassionata d'arte (la scultura fu l'hobby e
l'amore della mia gioventù), o forse perché non sono
troppo possessiva nei riguardi di Fabrizio. Insomma, so di
essergli piaciuta. Non altrettanto – mi si dice – la moglie di
Fabrizio, a suo tempo. Ma forse perché, a quel tempo –
benché si rifiutasse di ammetterlo – Gustav era ancora
innamorato di Fabrizio.
Devo dire che questa storia, quando Fabrizio me la
raccontò, mi sorprese. Positivamente, credo.
Prima di allora non avevo mai creduto che Fabrizio
fosse una persona capace di tenersi per amico un
omosessuale. Tantomeno un omosessuale perdutamente
innamorato di lui.
Del resto – da quanto mi raccontò – la situazione aveva
creato a suo tempo non pochi imbarazzi e difficoltà per
entrambi, almeno finché Gustav non riuscì a farsi una
ragione dell'impossibilità da parte di Fabrizio di
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corrispondere ai suoi sentimenti come lui avrebbe
desiderato. Credo sia stato proprio il matrimonio di
Fabrizio a disilluderlo definitivamente. Ma l'amicizia
rimase, e resta tuttora.
Io penso di essergli piaciuta proprio come il tipo di
donna che riteneva adatta ad uno come Fabrizio – almeno,
una volta preso atto che era decisamente una donna ciò che
Fabrizio cercava. Poi, appena conobbi Gustav, io mi
appassionai moltissimo ai suoi dipinti, e lui, a più riprese,
cercò anche di incoraggiarmi a riprendere in mano la creta
che usavo modellare quando ero ragazza.
È difficile spiegargli che non c'è più tempo per queste
cose.
Tarvisio Centrale: (a.) ore 15,04
L'uomo seduto di fronte a me ha riposto il giornale e
adesso guarda anche lui fuori dal finestrino.
Lo osservo distrattamente. Avrà una quarantina d'anni,
forse meno. Non mi sembra molto alto. L'aspetto è asciutto
– magro, direi. Porta un paio di occhiali con montatura
metallica, dorata, per la precisione.
Mentre volta il capo, spostandosi verso il finestrino,
noto sulla sua nuca una leggera calvizie.
Veste bene, uno stile casual piuttosto giovanile, ma non
sfacciato, e curato nei particolari. Sembra un tipo a modo.
Mi domando se andrà anche lui fino a Vienna. Potrei
provare a rivolgergli la parola, ma francamente non ne ho
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
voglia. Mi stupisco, anzi, che non ci abbia ancora pensato
Fabrizio.
Mi volto verso Fabrizio, ma vedo che è ancora troppo
occupato a sfogliare i suoi opuscoli per pensare di iniziare
una conversazione, con me o con lui. In questo momento,
sicuramente, non si ricorda nemmeno che io sono qui.
Tantomeno è in grado di vedere il nostro compagno di
scompartimento.
Tra un po' rifletterà sulla sua presenza e allora non potrà
fare a meno di rivolgergli la parola. A meno che l'altro non
scenda prima.
Potrei leggere, intanto. Ma non ne ho voglia.
La concentrazione di Fabrizio in questo inutile impegno di
autoerudizione sulle amenità viennesi mi intenerisce e mi
infastidisce allo stesso tempo. Conosce benissimo Vienna,
lo so. Con chi mai deve fare sfoggio di cultura sull'arte e
sull'ambiente viennese? Con me? Con Gustav?
Mi sembra assurdo. Quali altre notizie va mai cercando?
Vorrei che allungasse la mano verso di me: un gesto
affettuoso, una carezza. In fondo, questo è proprio il
“nostro” viaggio – tanto rimandato, tanto vagheggiato,
tanto atteso. Perché non ne parliamo? Perché non ci
parliamo? Perché non proviamo a parlare un po' di noi?
Ma forse anche questo non è che l'ennesimo sortilegio
che abbiamo inventato per poterci sentire un po' più vicini,
per poterci dire: vedi, quest'anno il Capodanno lo passiamo
insieme, lo passiamo a Vienna, proprio come avevamo
deciso.
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Basta questo?
Che cosa vuol dire “insieme”? Siamo davvero
“insieme”, adesso, solo perché siamo seduti qui, l'uno
accanto all'altra sullo stesso treno, con Vienna per
destinazione?
Ci sono distanze che non riusciremo mai a misurare con
il metro, né con i chilometri. Sono distanze che parlano
dentro di noi.
Ma no, non ho niente da rimproverargli.
Forse che io sono capace di avvicinarmi affettuosamente
a lui e di passare delicatamente una mano tra i suoi capelli?
(Come, adesso, a guardarlo, vorrei fare – e come non so
fare).
No, lo so bene. E allora, dunque, cosa posso pretendere
da lui?
Niente. Questo è il punto. Non pretendo niente. Non mi
aspetto più niente, né da Fabrizio né da nessun altro.
Mi basta sapere che a Vienna trascorreremo delle belle
giornate. E so che trascorreremo delle belle giornate. Lo
so, perché so che tutti e due lo vogliamo, e che ci
adopreremo in tutti i modi perché siano belle davvero.
Poi, quando in albergo di notte faremo l'amore, ci
diremo quanto siamo fortunati – mai un litigio tra noi – e
quanto stiamo bene insieme. E dopo, quando saremo di
ritorno a casa, rituffati ciascuno nel turbine del lavoro che
attende, per i primi tempi ci vedremo di fretta. Farà
comodo a tutti e due, dopo sette giorni trascorsi insieme
dalla mattina alla sera, perché non siamo abituati a stare
insieme da mattina a sera per un tempo così lungo.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Una settimana insieme, fuori dal nostro ambiente
consueto, a Vienna, per noi è già una dura prova.
Non ce lo diciamo, ma lo sappiamo entrambi. Così – poi –
ci scuseremo a vicenda, ma per qualche settimana
preferiremo prendere a pretesto altre cose da fare, ed
evitare di vederci.
Farà in tempo a dissolversi, nel mio appartamento,
l'odore della sua pipa. Nel suo, l'effluvio intenso dei miei
bagnoschiuma alla vaniglia («Ma non sai inventare niente
di più sensuale che avere sempre il profumo di un dolce
appena sfornato dalla pasticceria?»).
Ma poi, a poco a poco, ricomincerà a mancarmi l'odore
del suo tabacco e a lui l'ostinazione delle mie essenze alla
vaniglia sparse per tutta la casa. E torneremo a cercarci,
progettando e sognando il prossimo viaggio che faremo
insieme. Mentre i giorni continueranno a passare veloci, e
noi, infreddoliti d'inverno, ad aspettarci a turno sotto il
portone (perché – lo sappiamo benissimo – tutte le nostre
migliori intenzioni non basteranno mai ad evitarci di fare
tardi agli appuntamenti che ci diamo). E ridendo e
scherzando, continuando a raccontarci dell'ultima intervista
o dei pettegolezzi su colleghi e colleghe anche sotto le
coperte, riusciremo ancora a sentirci felici quando ci sarà
possibile passare insieme la sera e prendere sonno nello
stesso letto, abbracciati.
Siamo fermi alla stazione di Tarvisio per il controllo
passaporti. Finora nel nostro scompartimento non è entrato
nessuno.
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Sto osservando la sciarpa di seta al collo dell'uomo che
mi siede di fronte. Ne avevo regalata una di simile a
Fabrizio, ma non la porta mai. Dice che gli ricorda troppo
lo stile di Gustav nel vestirsi – gilet, cappelli, sciarpe e
foulard – e che non ci tiene a passare per gay pure lui.
Io invece trovo che al viaggiatore qui di fronte, ad
esempio, quella sciarpa di seta stia bene. E starebbe bene
anche a Fabrizio. Ma si sa che ciascuno ha i propri gusti e
le proprie fissazioni. Io per prima. E Fabrizio ne sa
qualcosa al riguardo.
Adesso lo sconosciuto di fronte a me si è accorto che lo sto
osservando. Per un attimo i nostri sguardi si sono
incrociati.
Ho subito distolto lo sguardo. Non ho ancora voglia di
mettermi a parlare.
Del resto, neppure lui, finora, ha palesato alcuna
intenzione in tal senso. Però adesso ha cominciato ad
osservarmi.
Evito di lasciare che i nostri sguardi si incrocino ancora.
Tuttavia ha una faccia simpatica, mi è sembrato. Un non so
che di attraente – o di enigmatico, non saprei.
Tarvisio Centrale: (p.) ore 15,35
Il treno è ripartito e Fabrizio sonnecchia. Ha messo da
parte i suoi opuscoli e le sue guide; ha detto: mi è venuto
sonno. Quindi si è messo comodo sul sedile,
accoccolandosi addosso alla mia spalla e chiudendo gli
occhi.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Io lo guardo per un attimo, poi riapro il mio libro:
Ingeborg Bachmann, poesie. Lo apro a una pagina a caso e
leggo, nella traduzione italiana (non ho mai imparato il
tedesco):
Ferma! È te che scongiuro,
volto dell'unico amore,
resta limpido e calando le ciglia
chiudi gli occhi sul mondo, resta bello,
volto dell'unico amore,
e solleva la fronte
oltre il balenare dei dubbi.
Si spartiranno i tuoi baci,
ti sfigureranno nel sonno,
se andrai in cerca di specchi
in cui ad ognuno appartieni.
Leggo. Rimango pensierosa e assorta. Riprendo da capo
questi versi, ripetendomeli mentalmente e cadenzandoli,
come se volessi saggiare l'accostamento delle parole, il
ritmo che le raccorda. Nel farlo, muovo impercettibilmente
le labbra: ferma – è te – che scongiuro – volto – dell'unico
amore...
Meccanicamente getto uno sguardo a Fabrizio: sta
dormendo, o almeno così sembra.
Torno a guardare fuori dal finestrino.
Piove. Una pioggia delicata, sottile.
Adesso mi sorride. Si tende verso di me e allunga la
mano al mio libro. Lo osserva con aria interessata.
«Bello?» domanda. E intanto me lo sfila dalle mani.
Annuisco, mentre lui lo ha già aperto e lo sta sfogliando.
Vedo che smette di sfogliarne distrattamente le pagine e si
sofferma a leggere qualche poesia.
«Belle!» commenta.
Mi allungo verso di lui, per vedere quali sta leggendo,
quali sono a fargli dire: belle.
Io le conosco, le ho già lette. Provo ad immaginarmi
cosa dicono a lui questi versi, quali sono le emozioni, le
risonanze che gli suscitano, e perché anche per lui sono
“belle”.
Vorrei riuscire ad estraniarmi da me stessa, riuscire per
un momento a leggerle come se fossi lui: essere nella sua
mente, nei suoi pensieri. Provare quello che lui prova.
Allora forse riuscirei, per un momento, a sentirmi
veramente vicina a lui.
E penso alla Dickinson, alle sere d'inverno in cui ci
siamo ritrovati insieme rannicchiati sotto le coperte con le
poesie della Dickinson in mano (guarda questa – prova a
leggere quest'altra – e questa, la conosci? - E il libro
passava continuamente dalle mie alle sue mani).
Ma non capitava mai che scegliessimo di mostrarci la
poesia che anche l'altro prediligeva. E non so perché quelle
che a lui sono più care non sono mai le stesse che
emozionano me.
Fabrizio si è svegliato. Si stiracchia, dà un'occhiata verso il
finestrino, domanda dove siamo, guarda l'orologio.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Villach: (a.) ore 16,00
Fabrizio si è ormai assorto nella lettura. Le poesie della
Bachmann adesso hanno preso il posto delle descrizioni di
Vienna e dintorni.
Anche un libro di poesie può prestarsi a fungere da
schermo tra due persone. Schermo, dietro il quale
nascondersi. Dietro al quale allontanarsi, cercare rifugio,
quando l'altro in qualche modo fa paura.
Lo stesso libro che in un'altra occasione potrà essere il
nostro raccordo, fragile filo d'unione, passando e
ripassando dalle mie alle sue mani (leggi questa - ascolta
quest'altra - conosci quella che dice...?) oggi è soltanto il
pretesto che aiuta a risolvere la difficoltà di avere così poco
da dirsi.
Ma la cosa mi è nota.
Amo, ho sempre amato leggere. Amo le parole, le parole
scritte, le parole su carta, le parole che restano quando il
pensiero rischierebbe altrimenti di smarrirle. Amo i
pensieri. Amo le idee. Mi piace giocarci. Prenderle, girarle,
rigirarle, smontarle, ricostruirle.
È un passatempo delizioso e appagante. Dà sicurezza.
Le idee con cui giochiamo sono nostre, nessuno può
portarcele via. Sono docili o ribelli. Ma non fuggono, non
tradiscono, non deludono. Le persone sì.
Anche per questo mi piace leggere alla sera per prendere
sonno. E per questo non potrei accettare la convivenza
stabile con un uomo. Dovrei probabilmente sacrificargli
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questa abitudine segretamente deliziosa. E quante altre
cose.
Quando c'è un altro nel mio appartamento, alla sera –
Fabrizio, o chi altro prima di lui – non posso rifugiarmi tra
i miei libri e le mie scartoffie. Mi sembrerebbe di fargli
torto. Ma questo è possibile solo fintantoché la presenza
dell'altro non diventa abitudine.
Fabrizio si è sempre mostrato d'accordo. È così che
restiamo spesso anche parecchio tempo senza vederci. Un
modo per non soffocarci. O un modo per non accorgerci di
tutto quello che, volenti o nolenti, dovremmo vedere, se
vivessimo insieme. Come lo vediamo adesso, in qualche
modo. Anche se fingiamo di non rendercene conto.
Ma non è la passione ciò che è in grado di tenere
insieme due persone. La passione brucia in fretta e poi ne
restano soltanto manciate di cenere.
A tenere insieme, giorno dopo giorno, sono piuttosto la
reciproca cooperazione e il pacato buon senso. È la
complicità degli inganni che ci si dispensa l'un l'altro per
aiutarsi ad accettarsi. Le piccole menzogne con cui
travestiamo a vicenda le nostre impronunciabili verità. O i
piccoli trucchi che impariamo ad inventare, per dimostrarci
a vicenda che ci vogliamo bene e dare così all'altro una
ragione per restare quando non sa più dove trovarla.
Villach: (p.) ore 16,13
Fabrizio ha ripreso in mano la cartina topografica di
Vienna. Improvvisamente mi chiede se ricordo qual è il
nuovo indirizzo di Gustav (ha cambiato casa sei mesi fa).
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Gli rispondo che non lo ricordo a memoria, ma devo
avercelo scritto in un foglietto dentro alla borsa.
Guarda nel mio portafoglio – gli dico – deve esserci un
bigliettino, con sopra scritto l'indirizzo.
Fabrizio si alza, prende la mia borsa dal portabagagli e
tira fuori il mio portafoglio.
Lo osservo mentre, in piedi, lo apre e – girandolo e
rigirandolo – fruga nei vari scomparti in cerca del prezioso
foglietto.
«Ah, eccolo!» esclama.
E intanto, dal mio portafoglio – che tiene in mano
maldestro – scivola a terra qualcosa che tintinna ai nostri
piedi.
Ce ne accorgiamo tutti e tre: anche il viaggiatore che mi
siede di fronte e che è rimasto ad osservare Fabrizio in
questa operazione di ricerca dell'indirizzo di Gustav.
Anche lui, come me, scosta immediatamente le gambe per
guardare a terra che cosa è caduto.
Si china Fabrizio per raccogliere le presunte monete, ma
lo precede il nostro compagno di scompartimento, che
prontamente si allunga a raccogliere la catenina d'argento
che è scivolata vicino ai suoi piedi. E mentre quest'uomo la
prende in mano, restando un attimo assorto a osservarla,
Fabrizio esclama, prontamente sarcastico: «Ah, ecco
dunque che fine aveva fatto!».
L'uomo continua a studiare attentamente la catenella sul
palmo della sua mano.
Intanto ride grossolanamente Fabrizio: «Nel portafoglio!
La tieni nel portafoglio!»
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Lo dice con il tono di chi ha sorpreso un bambino a
rubare la marmellata, e non si rende conto di quanto è
ridicolo.
Io sorrido con aria indifferente, evitando di raccogliere
la provocazione.
L'uomo che ha raccolto il mio girocollo d'argento sembra
non avere prestato attenzione ai commenti di Fabrizio,
come se fosse intento soltanto a studiare l'oggetto. Tarda a
riconsegnarlo a Fabrizio e solleva lo sguardo, incuriosito,
verso di me.
Così i nostri sguardi si incrociano, mentre Fabrizio
ridacchia. E l'espressione di questo sconosciuto – stupore?
– mi incute uno strano imbarazzo.
Intanto, però, Fabrizio si è ormai innescato, e adesso
sembra cogliere l'occasione per rivolgersi, con l'aria
spavalda di un'antica maschile complicità, allo sconosciuto
che finora ha ignorato.
«Ah, le donne! – dice rivolto all'uomo, ma guardandomi
di sottecchi – parlano tanto di libertà e d’indipendenza, ma
poi cos'è che vogliono veramente? Una catena al collo!
Ecco il loro più segreto desiderio.»
È la solita provocazione nei miei riguardi. Lo ascolto un
po' divertita e un po' seccata: il ritornello lo conosco a
memoria e so già come proseguirà.
«La vede, questa? Le sembra una collana, una collana
qualunque?» incalza infatti Fabrizio, rivolto al nostro
casuale compagno di viaggio, che intanto gli ha restituito la
collana caduta.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Ora Fabrizio la tiene per un’estremità, facendogliela
dondolare di fronte con posa compiaciuta.
Quanto vorrei che la smettesse.
Ma lui prosegue nel suo soliloquio.
«No, non si lasci ingannare. Sembra una collana, ma è ben
altro... Lo chieda a lei – dice, accennando a me – se è una
collana come tutte le altre, o se per caso non è una catena
da portare al collo. Sa, una di quelle belle catene che un
tempo si mettevano alle caviglie degli schiavi...
«Oh, certo, è una catena sottile – precisa subito –
d'argento, anche. Ma era fatta per stare al suo collo, e guai
se lei se la toglieva! La catena messa dal padrone. Oh, non
mi chieda chi è il padrone... Provi a insinuare che una
donna ha qualcuno che le fa da padrone, e vede cosa si
scatena.»
E tornando a far dondolare la catenina, prosegue ancora:
«Però, la guardi bene, questa collana... Mica è un filo di
perle o di pietre preziose! Sono solo degli anellini
d'argento incastrati in serie uno nell'altro. Vale a dire, una
catena. Una catena da mettere al collo. Ai cani non si mette
il collare, no? Per le donne è la stessa cosa, solo che loro le
chiamano collane...»
Tento invano di interromperlo, notando lo sguardo
stupito e divertito dell'uomo che si è visto inaspettatamente
indirizzare questa cascata di opinioni non richieste.
Questa storia non riguarda lui – vorrei dire a Fabrizio –
e dunque che bisogno c'è di coinvolgerlo nelle nostre
faccende?
23
Ma Fabrizio ha voglia di raccontare qualcosa di noi a
questo sconosciuto. Per noia o per svago. O per avere
qualcosa da dire da qui fino a Vienna.
So già che non serve protestare, ribattere, o tentare di
zittirlo. Siamo io e lui ad avere bisogno proprio di questo:
spiegare al primo malcapitato che viene sotto tiro i ridicoli
impacci che sono sottesi all'apparente meravigliosa intesa
del nostro rapporto.
Parole, che tra di noi non sappiamo dirci, trapelano con
prepotenza appena ci viene data la presenza di un
interlocutore estraneo. Parliamo a questo – sia il collega di
turno, o lo sconosciuto che troviamo sul treno – ma è solo
per fare sapere l'uno all'altra quello che altrimenti non
saremmo capaci di dirci.
Comunicazione per interposta persona: parlare a un
terzo perché ci ascolti chi silenziosamente ci è accanto.
Strano a dirsi, ma serve. Vale ad esprimere almeno in
questo modo, ben travestiti dall'abito del grottesco, quei
segreti disappunti che a vicenda non sappiamo palesarci.
Così tanti sono i piccoli fremiti – coartati, censurati,
repressi – che passano tra di noi proprio attraverso il
motteggio e lo scherzo, o l'ironia. L'autoironia, anche. O
soprattutto.
Perché, quante volte ci pigliamo in giro da soli, per
nascondere un'aspettativa delusa o una richiesta che non
sappiamo avanzare...
Mi sono persuasa che spesso l'autoironia è la migliore
risorsa che resta a quelli come noi, che possono
comunicare soltanto ridendoci sopra il tacito desiderio che
24
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
è stato misconosciuto e che in altro modo non avrebbero
mai il coraggio di confessare.
È come un senso di pudore che si acquista con gli anni,
quello che induce a nascondere dietro il velo del sorriso
l'intima sofferenza, l'intima delusione – quali che siano.
Perché desiderare è proibito, quando non ci si ritiene più in
diritto di pretendere. Solo il bambino può piangere, pestare
i piedi, gridare per ottenere quello che desidera – oppure, a
seconda dell'indole, ritirarsi imbronciato in disparte,
ostentando così il proprio disappunto.
Per pretendere, bisogna pur credere che ci sia qualcuno
disposto a dare.
Io, da parecchio tempo, non so più se questo qualcuno
esiste.
«E poi, lo vede questo... questo coso qui? Cosa le sembra
che sia?» ha intanto proseguito Fabrizio, secondo il
copione che entrambi conosciamo ormai bene.
«Penserebbe mai pensare di chiamare “ciondolo” questa
cosa dalle punte aguzze? Ciondolo! Altro che ciondolo!
Questa è un'arma contundente dalle punte affilate...»
E finalmente si assesta comodo e trionfante sul sedile,
per arrivare a pronunciare la sua sentenza conclusiva, che
iconosco a memoria.
«Io gliel'ho sempre detto che deve averglielo regalato
sua madre, perché le servisse a tenere a distanza gli
uomini, come una specie di amuleto scaccia-amanti... Le
avrà detto: tu tienilo sempre al collo. Così poteva essere
sicura che chiunque avesse osato insidiare la figlia,
avrebbe avuto a che fare con questo – esclama esultante,
25
guardandomi di sottecchi – È un'arma-sfregia-amanti, ecco
cos'è... Uno prova ad avvicinarsi a lei, a cercare un po' di
intimità, e subito… zac! Viene trafitto dalle punte di
questo... questo graziosissimo ciondolo!».
E ride Fabrizio, guardandomi.
Non intervengo. Osservo come abbia ritrovato il meglio
della sua ironia e se ne compiaccia. Vedo con quanta
soddisfazione si esibisce di fronte a questo spettatore
occasionale. Lo lascio fare – se ha così voglia di
proseguire. Muore dalla voglia di proseguire, me ne
accorgo.
Così lui incalza, rivolto al nostro compagno di
scompartimento: «Mi dica – proviamo a sentire anche il
signore qui – mi dica... Cosa le sembra mai che possa
essere questo coso... questo ciondolo? Suvvia, sentiamo
anche il suo parere...»
E so che non si attende risposta.
Ma l'uomo gli risponde pacatamente, con un sorriso: «È
un gabbiano.»
Io trasalisco. Anche Fabrizio, a cui manca adesso la
prontezza della replica.
È colto di sorpresa e deve modificare la battuta che
aveva già pronta da pronunciare.
Lo fa con un certo disagio: «Ah! Un gabbiano... un
gabbiano, mi dice...»
E si volta verso di me, d'improvviso quasi smarrito,
mentre io non riesco a trattenere un aperto sorriso di
trionfo.
26
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Finché riesce a riprendersi dalla sorpresa e ad
aggiungere pensieroso: «Dunque anche lei riesce a vederci
un gabbiano… Mah.! Francamente pensavo ci volesse un
bel po' di fantasia per vedere un gabbiano in questa
forma... Un gabbiano, dunque... Mah!»
«Sì, un gabbiano. In forma stilizzata, naturalmente»
precisa l'uomo, con tono sicuro.
«Eh, forse... Sarà pur vero dunque» si arrende Fabrizio.
«In effetti, lei – additando me – ha sempre sostenuto
esattamente questo... che era un gabbiano.»
Intanto io, pensierosa, mi fisso a guardare il nostro
compagno di viaggio.
Anche lui adesso si è messo a fissarmi. E a sorridermi.
So che dovrei essere lieta, che dovrei essergli
riconoscente della risposta data a Fabrizio (un punto a mio
favore). Francamente nemmeno io me l'aspettavo.
Però mi ha provocato soltanto un indistinto disagio.
Come continuo ad essere turbata, adesso, da questi occhi
neri che scrutano nel mio silenzio. E forse sono grata a
Fabrizio per la disinvoltura con cui di nuovo ricomincia a
parlare.
«Comunque, gabbiano o non gabbiano, adesso si è
scoperto che fine aveva fatto questa catenella!» riprende
infatti Fabrizio, ridendo. «Caso mai avessi potuto pensare
che fosse davvero sparita dalla circolazione...»
E con tono da istrione prosegue: «No, non sia mai detto!
Tolta dal collo, ma solo per finire nel portafoglio. Com'è
che non ci avevo pensato prima?»
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Comunque non la porto più al collo – replico infine io,
sperando di porre fine alla disputa.
«E meno male!» ribatte prontamente Fabrizio. «Ti ho
regalato un girocollo d'oro perché ti decidessi a togliere
questo.»
Non sono stata io a chiederti di regalarmi nessun
gioiello, e lo sai – protesto infastidita.
«Non intendevo dire questo» mi risponde. «È stata una
mia iniziativa, d'accordo. Almeno, però, è servita a farti
compiere il sacro e terribile gesto di toglierti quella
catenina dal collo»
E dunque? – domando. Non era appunto questo che
volevi?
«Beh, non pensavo però che fosse finita nel portafoglio.
Si direbbe che da questo amuleto tu non possa proprio
staccarti».
Sto già per replicare di nuovo, ma mi precede il nostro
compagno di scompartimento che improvvisamente
interviene a difendermi.
«Spesso il valore soggettivo degli oggetti non coincide
né con la loro bellezza, né con il loro valore materiale»
afferma l'uomo, con tono pacato.
«Certo, certo» ribadisce Fabrizio, rivolgendosi all'uomo.
«Diciamo pure che nelle mie osservazioni c'è un po' di
acredine, un po' di disappunto… Quello che viene dal
vedere tanto amata una collanina in cui proprio non trovo
tutta quell'originalità e quella bellezza che lei – indicando
me – sembra vederci. E comunque, per quanto grande
possa essere il suo valore affettivo, mi sembra un po'
28
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
eccessivo tenersela al collo sempre, giorno e notte,
irremovibilmente...»
«Ma ormai non la porta più al collo, mi sembra di avere
inteso» insiste il nostro interlocutore, rivolgendosi a
Fabrizio e guardando me.
Mi guarda e io lo scruto con sospetto.
Perché mi difende?
È gentile da parte sua, ma non cerco avvocati.
Fabrizio ha ragione a suo modo. E intimamente lo so.
Ma conclude intanto Fabrizio: «Sì, è vero. Però ce n’è
voluto del tempo, per farla decidere a togliersela…»
Sì, ce n'è voluto del tempo.
Improvvisamente, su questa affermazione, il nostro
battibecco sembra inciampare e spegnersi.
In una pausa di silenzio io e Fabrizio ci guardiamo con
tutta la complicità di una consapevolezza che è nostra, e
nostra soltanto: ciò che non potremo mai condividere, né
raccontare o spiegare a questo nostro interlocutore
occasionale. Forse ciò che quest'uomo in qualche modo
intuisce, chissà, dai nostri sguardi fattisi adesso pensierosi.
Disagio. Quel breve e delicatissimo disagio che a volte
si insinua imprevedibile nel flusso spumeggiante della
parlata allegra, scherzo o risata. Disagio, nel momento in
cui si sente simultaneamente attore sul palco e spettatore in
platea. E lì ci si vede, e ci si scopre d'un tratto mediocri e
ridicoli.
Per questo le parole che dovrebbero seguire,
d'improvviso non vengono più. Si impregnano di un così
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nauseante sapore di banalità che un pudico ritegno si
premura di censurarle. Si avverte sconsolatamente quanto
ogni parola risulti inadeguata al vissuto che vorrebbe
esprimere e che quel pezzo di storia, proposta come un
racconto ad effetto, per intrattenere l'ignara persona che ci
sta a sentire, è passata sulla nostra vita con ben altri
significati.
Perché non basta ammantare di ridicolo i piccoli
aneddoti del nostro percorso, per mutare in farsa o
commedia la vita. Poiché niente è veramente ridicolo,
nemmeno ostinarsi per anni a tenere al collo una vecchia
catenella d'argento.
È esattamente questo che sta tentando di spiegare a
Fabrizio l'uomo dalla sciarpa di seta. E Fabrizio è troppo
avveduto per non capire che l'uomo a cui si è rivolto ha
perfettamente ragione. Che io stessa ho ragione. Che
abbiamo tutti ragione. Perfino lui, che insiste a ritenere
molto fantasioso attribuire la forma di un gabbiamo ad un
pezzetto d'argento sagomato press'a poco a forma di «w»
capovolta.
Klagenfurt: ore 16,39
Intanto l'uomo che mi siede di fronte ha scostato la sciarpa
di seta. Ha portato distrattamente la mano al colletto
sbottonato della camicia.
Ho seguito dapprima casualmente la sequenza dei suoi
movimenti con lo sguardo. Meccanicamente l'ho osservato
scostare quella sciarpa di seta che di lui avevo notato fin
dall'inizio. Poi, mentre la sua mano frugava con
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
noncuranza tra il collo della camicia e quello del maglione,
ho sentito l'inquietudine invadermi, quasi spaccarmi. Nella
frazione di un attimo il pensiero ha percorso sentieri
infiniti.
Il riscaldamento sul treno sembra fissato sul massimo: fa
troppo caldo qui dentro. Non ho da stupirmi se il nostro
compagno di viaggio si allarga con la mano il colletto della
camicia felpata. È un gesto comune. Fa caldo, continuo a
ripetermi.
Ma il pensiero ha cominciato a sfuggirmi. Mi accorgo di
avere iniziato ad osservare con un'attenzione crescente i
lineamenti del suo viso. Ne cerco il colore degli occhi
dietro le lenti degli occhiali, indovino come dovevano
essere i suoi capelli prima che incominciassero a
incanutirsi e a farsi radi intorno alla nuca. Ricadenzo
mentalmente il tono e l'accento della sua voce, dalle poche
frasi che gli ho udito pronunciare finora con noi.
Non so come è possibile compiere con la mente tante
operazioni nell'arco brevissimo di pochi secondi. Ma il
tempo in cui la sua mano è andata a scostare la sciarpa di
seta, frugandosi attorno al collo, a me è parso dilatarsi
all'infinito. E infinite e rapidissime sono le pulsazioni che
ho sentito accelerarsi nel mio cuore.
Contro il pensiero che corre, mio malgrado, veloce,
quanto più veloce di questo treno per Vienna, ho tentato
invano di ribellarmi. Ma non è possibile.
31
No, non è possibile, ho continuato a ripetermi
intensamente, nello sforzo di arginare quell'interrogativo –
presentimento o sospetto – che in me cominciava a farsi
largo. No, non è possibile.
E ho maledetto me stessa e i capricci della mia fantasia.
Mi sono persuasa con tutta la mia ragionevolezza che non
vi è niente di noto nel viso enigmatico che qui, di fronte a
me, mi sta guardando silenzioso. Ogni tratto di questo
volto mi è nuovo, estraneo, sconosciuto. Come deve essere.
Si tratta soltanto di un viaggiatore qualunque, che è
capitato come noi su questo treno e proprio in questo
scompartimento, in un giorno qualsiasi, diretto non so dove
né perché.
Ma nella mia mente è una voce via via sempre più nota
quella che continua a ripetere, come in una litania
interminabile, la risposta che poco fa ha dato a Fabrizio: è
un gabbiano – è un gabbiano – è un gabbiano...
No, non è possibile. Altrimenti l'avrei riconosciuto subito.
Non è possibile. Non c'è niente di strano nell'avere
indovinato che il pendente raffigurava un gabbiano. È solo
colpa di Fabrizio, che a forza di insistere e di prendermi in
giro, ha finito per convincermi di non potere pretendere
che quel ciondolo assomigliasse ad un gabbiano per altri
che per me.
Non c'è niente di particolare nei suoi occhi. E poi non
erano così scuri.
E poi non credo che porterebbe sciarpe di seta.
E poi... Quanti anni avrà quest'uomo?
E i capelli sono troppo corti.
32
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Non portava gli occhiali.
E perché dovrebbe andare a Vienna? E proprio il giorno
di Santo Stefano! In treno!
E quella calvizie sulla nuca... E poi... e poi...
Ma tutto questo non significa niente, lo so. Si può cambiare
molto in diciassette anni. E non significano niente gli
occhiali, la sciarpa di seta, o i pochi capelli, già grigi.
Nemmeno che si trovi su questo treno, diretto a Vienna, o
chissà dove. E forse anche gli occhi non sono poi troppo
scuri. E non capisco perché mi ha sempre guardata in quel
modo, e perché non ha restituito subito la catenina a
Fabrizio, quando l'ha raccolta.
E cosa vi ho trovato io - in lui - di attraente?
Non lo so. Ma anche questo... che cosa può voler dire?
No, sicuramente no. Fantasie. Scherzi di un pensiero che
a volte corre per meandri oscuri. Brandelli di ricordi
superflui, che nel momento imprevisto mi ricascano
addosso. E riescono ancora a fare solo del male, a fare solo
paura.
No, sicuramente no. È solo un uomo qualunque. Un
uomo che ha ascoltato divertito il battibecco tra me e
Fabrizio, intervenendo semmai con parole assennate.
Ho ancora lo sguardo fisso su di lui. E mentre osservo la
sua mano allargare il colletto della camicia, sento la mia
serrarsi al bracciolo del sedile e l'altra stringere il libro con
forza. Il cuore batte con tonfi sempre più rapidi e tutte le
mie forze sono impegnate a controllare il tremito delle
labbra e delle palpebre.
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Controllati, mi dico con rabbia: è un'ipotesi
estremamente improbabile.
Non so più cosa provo, se speranza o paura. Possibile e
impossibile in questo istante sono venuti a mischiarsi, nelle
imprevedibili coincidenze della vita o del caso.
D'improvviso tutto mi sembra impossibile e possibile allo
stesso tempo. Ma non so cosa voglio. Non so se quello che
i miei occhi stanno ansiosamente cercando di vedere, è ciò
che vogliono o ciò che non vogliono vedere.
Vienna. Vienna! Arriva in fretta, ti prego. Fatemi scendere
da questo treno.
Ma non è vero: sono inchiodata. E inchiodato è il mio
sguardo.
Basterebbe forse chiudere gli occhi, fingere di voler
dormire.
Non cerco verità, non voglio più verità, non so che
farmene. In altri tempi le ho cercate. Ora no. Ora è tardi.
Ora so che non servono a niente. Solo opinioni. Come le
nostre. Quelle degli articoli che scriviamo. Punti di vista,
non più che questo. Non voglio svelare più niente. Ci sono
limiti che la nostra curiosità, la nostra voglia di conoscere
non può e non deve superare.
Ma adesso, qui, non sono capace di voltare la testa e di
chiudere gli occhi.
Suvvia, che ti succede? – mi dico. Non avere paura. Parole
note. Parole che ho ripetuto a me stessa con voce suadente
tutte le volte che mi sono trovata sola, con qualcosa di
terrificante che incombeva, e dovevo procedere.
34
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Andrà tutto bene, vedrai – mi dicevo. E poi riderai, sì,
dopo riderai a ripensarci.
Non può accadere niente di veramente importante su un
treno. Non su questo treno. Non su un comunissimo treno
diretto a Vienna.
Ora, con uno sforzo immenso, sposto per un attimo lo
sguardo al finestrino. Ricorro perfino a quel gioco
superstizioso di cui un tempo mi servivo, senza crederci,
semplicemente per attenuare l'ansia. Provo allora ad
immaginare intensamente quello che fra pochi istanti
“inevitabilmente” vedrò: il mio vecchio girocollo di
corallo, al collo di quest'uomo.
Intensamente, devo pensarlo intensamente, come se
l'avessi già visto – come se fosse vero. E poiché l'ho
pensato, ecco, non accadrà.
Antico espediente per ingannare la sorte, la vita.
Ciò che si è meticolosamente pensato non accadrà mai.
La realtà rifugge dal riprodurre ciò che il pensiero ha
saputo anticipare: ama troppo cogliere di sorpresa.
Rinuncia ai suoi piani, quando noi riusciamo a precederla,
a prevedere... (Mioddio, quanto sono stupida a volte!)
E adesso torno a guardare l'uomo con la sciarpa di seta
seduto di fronte a me. Lo guardo negli occhi e lo vedo
fissarmi e sorridermi.
Il mio sguardo ormai non può più evitare di scivolare al
collo di lui.
35
E vedo adesso la sua mano giocherellare e attorcigliare
una sottile collanina di corallo. La vedo come l'avevo vista
un attimo fa nel mio pensiero.
È il girocollo di corallo che apparteneva a mia nonna e
che mia nonna mi regalò quand'ero ragazza. Il girocollo
che non ho più rivisto da diciassette anni e che, dal
fermaglio a forma di serpente, immediatamente riconosco.
Come in questo momento potrei riconoscerlo tra un
milione di altri. Lo vedo e lo riconosco al collo di un uomo
che invece non ho riconosciuto.
Ciò che ad occhi chiusi, un momento fa, ho immaginato
come se lo stessi vedendo, è ciò che adesso vedo
realmente.
L'espediente, questa volta, non ha raggiunto il suo
scopo.
In silenzio distolgo lo sguardo verso il finestrino. Per un
attimo non vedo più niente.
Leoben: ore 18,35
Hanno continuato a parlare, lui e Fabrizio, di questo e di
quello.
Le loro voci giungevano fino a me come musica di
sottofondo ad altri pensieri – ricordi. Il tempo del presente
si intreccia e si confonde con quello del passato. Non so
più a quale appartengo. Non so più chi sono: se la
giornalista, la donna indipendente, cinica, arrabbiata di
oggi, o la tenera e ingenua ragazza sognante di ieri.
L'una e l'altra, tento di dirmi. La giornalista di oggi è
nata dalla ragazza di ieri.
36
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Eppure, adesso, a guardare il girocollo d'argento posato
sul ripiano di fronte a me, non riesco a non provare
vergogna.
Vergogna. Per la ragazza di ieri. Per tutti gli anni che ho
pure tenuto ostinatamente al collo quella collana. Vergogna
per conservarla ancora, dentro al portafoglio. Vergogna di
fronte a quest'uomo che ha appena saputo da Fabrizio
l'ostinazione con cui ho portato per anni il suo girocollo
d'argento. Solo un'immensa, dissacrante vergogna…
Fabrizio, abbracciami. Fabrizio, fammi scendere da questo
treno. Fabrizio, smetti di parlare a quest'uomo. Guardami
negli occhi e lascia che in te mi rispecchi e mi veda, come
tu mi vedi, come so che tu mi hai sempre vista: questa.
Questa donna inquieta, spigolosa, che è stata sempre pronta
a tenerti testa. Che sa vivere con quella dose di cinismo che
serve a non lasciarsi irretire. Che sa giocare, prendere e
prendersi in giro. E lottare. E stringere i pugni, farsi largo,
mordersi la lingua, inghiottire. E non le hai mai visto sul
viso una lacrima.
Lacrime. Ma un giorno anch'io le ho versate. Per questo
sconosciuto che mi siede di fronte.
Saremo, avremo, faremo, andremo – disse, insieme a
me, molto tempo fa.
E io attesi, sì, quella volta attesi.
Lui mancò.
Soltanto parole. Parole. Fiato di voce. Parole che
illudono.
Mi ingannai. Ma per ingannarsi, bisogna credere. E
quella volta avevo creduto.
37
Sì. Io scettica, io disillusa, diffidente, guardinga, una
volta ho creduto. Quella volta. Ma ero giovane, tanto
giovane, sai. Declamavo Prévert e mi dilettavo a plasmare
sculture di creta. Avevo sogni romantici da adolescente e
pensavo solo in termini di assoluti. Non c'era niente a metà
tra il bianco ed il nero. Non c'era niente di intermedio tra la
dedizione totale e l'indifferenza. Ciò che non era giusto era
irrevocabilmente sbagliato, e ciò che non era sbagliato era
altrettanto inequivocabilmente giusto.
Quel giusto, l'avrei perseguito a costo di morirci. Ero
severa: con gli altri, e con me stessa di conseguenza. Non
ammettevo compromessi e non concedevo indulgenza.
C'erano verità che nitidamente sapevo distinguere, e per
questo conoscevo con sicurezza la via da percorrere.
Credere era sempre sapere. Fiducia significava certezza.
Plasmavo con la creta le forme dei miei mondi sognati.
Non dubitavo che fosse in mio potere farli divenire realtà.
Volere significava potere. Intanto mi accontentavo di
costruire i miei sogni nella mente, lungo i ritorti itinerari
del possibile, e di modellarne le figure in quel mio
passatempo da artista – così mi piaceva sentirmi – con il
quale davo forma all'ideale, anticipando il suo avverarsi.
Sapevo fin troppo bene cosa stavo cercando. Per questo,
quando poi lo incontrai, non esitai a riconoscerlo. Lui.
Bastò scambiare poche frasi. Bastò guardarsi negli occhi.
M'accorsi che aveva sognato i miei sogni. Nient'altro
contò. Nemmeno quale fosse il suo nome.
E quando poi mi ammonirono, cercando di spiegarmi
chi lui fosse realmente, non volli ascoltare. Non ci fu più
realtà. Anche droga restò un'insignificante parola, che
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
niente poteva spiegare di lui. Aveva sognato i miei sogni:
questo solo contava. Perché chi aveva sognato i miei sogni,
non poteva deludermi.
L'avere trascorso insieme soltanto una dozzina di ore, e
in un frangente inconsueto, ai miei occhi non sminuì
niente. Perché ero giovane allora, tanto giovane, sai.
La malleabilità è una virtù. Ma l'ho imparato più tardi.
Chi non sa piegarsi, alla fine si spezza.
Ma ho dovuto spezzarmi per capirlo. L'ostinazione era
stata troppo a lungo la mia regola aurea. C'è un limite alla
resistenza umana. C'è un limite anche al male che
possiamo infliggere a noi stessi. Oltre quel limite c'è un
epilogo, che è morte o è rinascita. E se è rinascita, oltre
quella rinascita c'è l'oblio di tutto ciò che eravamo.
Ho vissuto per quattro anni ibernata, mentre il tempo mi
passava sopra senza toccarmi. C'è un orologio interiore che
segue un andamento diverso da quello degli anni e delle
stagioni. Succede a qualcuno che le sue lancette un giorno
si fermino, e allora tutto ciò che in noi è vita rimane fisso a
quella data, a quell'ora. E il resto dell'esistenza procede
come senza di noi. L'indifferenza pervade tutto, senza
distinzioni.
Gli psicologi la chiamano depressione. Io l'ho sempre
chiamata: essere altrove. Altrove, sempre, quale che sia il
luogo in cui fisicamente ti trovi. Essere sempre lì, a quella
data, a quell'ora. Essere sempre con lui. Con lui. Con lui,
attraverso il pensiero, a figurarsi ogni attimo della sua
giornata – con chi è, cosa fa, cosa sta pensando, cosa
prova.
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Col pensiero? No. Con il cuore, con il corpo, con
l'anima: con tutto ciò che di vivo e pulsante vibra dentro di
noi.
Essere sempre con lui. Per quattro anni. Senza mai
rivederlo. Senza saperne più niente. E quella parola –
droga – che martella la testa, trascinando con sé le visioni
più macabre. Droga, droga, droga. E i neri presagi. Le
crude immagini che si sovrappongono a tutta
l'indescrivibile dolcezza che comunicava il suo viso.
Dov'è? Cosa sta facendo?
Intanto, in questo modo, vedere il tempo passare.
Sentirlo passare anche?
No. Vederlo passare e basta. Come si vede scorrere un
fiume. Noi, dentro e fuori, simultaneamente. Dentro alla
corrente che trascina. E fuori, a vedersi trascinati. Per
quattro anni. Quella che per gli altri si chiamava
giovinezza. Gli anni che si pensano felici. Strana ironia.
Anni vissuti in un'estenuante attesa: un giorno tornerà a
cercarmi, un giorno. Un giorno (quando?).
Come un'altra Penelope, in abiti moderni: che tristezza a
pensarci. Io, proprio io. E al collo quella catenina
d'argento. Per dirmi: tornerà. Quando? («Quando crescerai,
ragazza? Sono solo sogni, non vedi? Pensi forse che lui
possa ricordarsi ancora di te? Non essere ridicola. Credi
che si ricordi ancora il colore dei tuoi occhi? Credi proprio
che lo conservi ancora il tuo girocollo di corallo? Non
essere sciocca. Hai letto troppi romanzi» – sì, lo so).
40
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Sì, lo sapevo. Ma ero ostinata. Quattro anni durò
quell'ostinazione, sorda ad ogni ammonimento, ad ogni
consiglio.
Tutti sapevano e mi dicevano con assoluta certezza la
verità. Tutti si rendevano conto di quanto fossi ridicola, e
sapevano benissimo cosa dovevo fare («Dimenticarlo,
ovvio»). Sapevano benissimo perché dovevo farlo
(«Perché non ti ha mai amata, ovvio»).
Tutti lo sapevano. Tutti me lo dicevano. Ma non serviva
a niente.
Poi un giorno, a Parigi, durante un soggiorno estivo di
studio della lingua francese, qualcuno domandò proprio a
me ciò che tutti già pretendevano di sapere.
«Ma lui ti ama?» mi sentii chiedere.
Fu lì che le lancette del mio orologio ripresero a muoversi,
e tornai finalmente presente a me stessa.
Devo dunque ringraziare di questo un ragazzo algerino,
che conobbi a Parigi e poi non rividi mai più, perché
preferii lasciarlo confinato al ricordo di un'avventura
parigina di gioventù.
Così non ha mai saputo di essere stato lui – uno
straniero incontrato a Parigi per caso – la persona che
inconsapevolmente mi costrinse al risveglio. Dal lungo
sonno, dal mito, dal sogno.
Mi risvegliai. Mi risvegliai nel momento in cui la mia
voce, mio malgrado, rispose a quella domanda, con parole
sommesse: «No, non credo.»
No, non credo – strane parole, se pronunciate da me.
41
Ma in quel momento capii ciò che sapevo. Perché ero io,
adesso, a rispondere così. Io. Non gli altri – come sempre –
così pronti a negare quell'amore al mio posto. Questa volta
ero io.
E mi accorsi di avere più alibi.
Improvvisamente mi resi conto di essere stata altrove
troppo a lungo e che era giunto il momento di fare ritorno
agli altri e a me stessa. Alla realtà. Una realtà che lì mi
riprese attraverso il corpo. O una realtà alla quale,
attraverso il corpo, mi restituii (quel corpo che era stato
fantasma, quel corpo che per quattro anni aveva vissuto
traversando la vita mentre tutto di me restava immobile,
estraneo, lontano).
Lì, d'improvviso scoprii che potevo chiedere al mio
corpo ciò che dai miei sentimenti non ero in grado di
pretendere. E mentre la mia vergine recalcitranza a poco a
poco e senza passione cedeva all'ardore di lui, ritrovavo il
presente nella violenza del contrasto tra sogno e realtà. E in
quel contrasto riscoprivo un significato alle cose.
Dissacrante contrasto, come quello tra l'eccitazione di
lui e il mio intimo gelo, tra le sue labbra che mi baciavano
avide e le mie tiepide carezze. O contrasto ancora più
violento, più assurdo, più inesprimibile, quando quella
mano d'uomo così estranea e indifferente a me – ma così
fatta di carne, così reale, così viva – accarezzò il mio collo
e la collanina d'argento in cui era racchiuso – eterno,
idealizzato, impalpabile – tutto l'indissolubile legame di un
altro amore.
Come l'accostamento di colori di un dipinto di Kirchner,
così spiccò allora ai miei occhi la materialità della sua
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
mano sul mio ciondolo d'argento. Così vidi me e lui,
avvinghiati insieme sul letto disfatto. E la fisicità della vita
ritornò – chiamata, implorata da me stessa per prima – col
calore del suo corpo sopra di me, dentro di me, di nuovo
viva.
E con la vita, il risveglio. Un quadro di Kirchner ormai
impresso dentro di me, con le pennellate aspre, i contorni
marcati delle figure, il contrasto dei colori puri
violentemente accostati. Unica vera bellezza – perché non
edulcorata, trasfigurata, poetizzata dal sogno. Invece rude,
aggressiva, cruda espressione di ciò che dentro ci lacera, ci
spacca,
ci disorienta. Contraddizioni,
contrasti,
accostamenti sbagliati. Ciò che disturba tanto la vista
quanto il pensiero. Questo pensiero che vuole – vorrebbe –
dare ordine, senso, prevedibilità a tutte le cose. Trovare il
fine e il perché. Incastrare bene tutte le tessere del grande
puzzle, per poi poterlo rimirare compiaciuti.
E invece no. No, no, no. Non è così. Solo contraddizioni
e contrasti. La mente che non va d'accordo col cuore.
L'egoismo celato di altruisti e filantropi. Gli atti d'amore
dei criminali. L'acutissima assennatezza dei pazzi. Il conto
che non torna, anche quando tutte le cifre ci sembrano
esatte. O i paradossi visivi dei dipinti di Escher, che
imbrigliano lo sguardo e affascinano il cuore, quando vi
osservi l'acqua percorrere in salita, sospinta dalle pale della
ruota, la via dalla quale ridiscende a cascata, muovendo la
stessa ruota che l'aveva sospinta in alto.
Metamorfosi. Di una realtà che trascorre attraverso
forme molteplici, mentre invano ti sforzi di isolarne il
frammento che le ha generate. Finché è proprio questo che
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cominci ad amare. L'imprevisto che sfata l'attesa. La ciocca
di capelli ribelle al tuo pettine. La mediocrità celata nel
sublime. La vita – questa vita – che non vuole farsi,
divenire, adeguarsi a quello che potrebbe o che dovrebbe
essere. L'assurdo che irrompe dove tutto altrimenti sarebbe
prevedibile e ovvio. O la creta che si ribella alla mano,
quando la mano vorrebbe imprigionarne la forma che più
di tutte è chiara nel cuore.
Bruck: ore 18,49
Ora lui è qui, di fronte a me, come diciassette anni fa. Il
solo uomo per cui abbia pianto.
Senza riconoscerlo l'avevo osservato fino ad ora,
incuriosita e distratta, come si osserva un viaggiatore
qualunque. Senza capire cos'era in quel suo sorriso a
confondermi e a turbarmi.
Eravamo due estranei quando ci incontrammo, e due
estranei siamo dunque rimasti, per tutto questo tempo. Due
estranei che oggi, di nuovo per caso, si sono ritrovati
insieme su questo treno. E come due estranei si guardano
negli occhi senza potersi riconoscere, così noi ci siamo
guardati, ma non ci siamo riconosciuti.
Cambiati, sì, tanto cambiati da allora.
Cambiata io – sì – al punto che oggi può sedermi di
fronte per ore, inosservata, la persona che ieri avrei
riconosciuto tra mille, e alla quale sarei corsa incontro,
trafelata e ansimante, per gettargli le braccia al collo. E
adesso, invece, non ho né la voglia né il coraggio di dirgli
nemmeno che l'ho riconosciuto.
44
Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Non è più tempo, ormai, per riconoscersi e per ricordare.
Più volte nella vita mi è capitato di implorare
segretamente: ora, ora, prima che sia troppo tardi –
presentendo che c'è un tempo limite ad ogni desiderio, ogni
attesa.
Non servirà che domani, quando il mio tempo è scaduto,
mi si renda al multiplo ciò che oggi chiedo e mi è negato. È
al bambino – al bambino col naso schiacciato contro la
vetrina dei giocattoli – che devi regalare il trenino elettrico,
se vuoi farlo felice. Finché è bambino. Poco vale che tu
glielo compri quando ormai è cresciuto e ha abbandonato i
giocattoli.
Perché tutti i trenini elettrici che poi potrà comprarsi, o
ricevere come dono tardivo, non varranno quel vecchio
trenino elettrico della vetrina di giocattoli all'angolo della
via, che era tutto quello che un giorno aveva voluto e che
non ha avuto mai.
La promessa che rimanda a domani il suo adempimento
è sempre un inganno, se viene adempiuta quando il
desiderio è passato. La ricompensa sostitutiva non
restituisce il maltolto, come a chiedere scusa non si annulla
il torto arrecato. L'occasione lasciata cadere è sempre
un'occasione perduta.
Perché è la mano che a te un giorno si tese, aperta e
fiduciosa, quella che dovevi prendere – prima che si
ritraesse. Ora non puoi più: non so ritendertela.
E non ti porto rancore. Ciò che adesso sento è solo
l'irrilevanza di quando ci si accorge che è tardi – tardi per
impedire la delusione o il misfatto, tardi per consentire a
una felicità possibile di farsi realtà. Tardi, quando ormai è
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già accaduto tutto – o comunque troppo, per poterne
prescindere.
E guardo le rughe che già hanno cominciato a solcare il tuo
viso, i capelli tagliati corti e ingrigiti, gli occhiali che allora
non portavi, l'abbigliamento e la postura mutati.
Penso ai due ragazzi di allora, su quella spiaggia, e cerco di
immaginare come tu adesso mi veda. Cerco di ricordarmi
com'ero.
La freschezza dei miei trentacinque anni, rispetto ai tuoi
quarantuno, adesso in qualche modo mi rassicura, come
pure la consapevolezza di conservare ancora un aspetto
giovanile e piacente.
Nel mio caso, le lenti a contatto hanno sostituito gli
occhialetti rotondi che portavo a quel tempo, e ho imparato
a curare il mio aspetto come da ragazza preferivo non fare.
Sono quel genere di donna che è migliorata invecchiando.
Fabrizio, a guardare le mie foto di adolescente, ha
spesso commentato che avrei avuto difficilmente successo
con lui, se mi avesse conosciuta allora. E penso che creda
di farmi un complimento nel dirmelo – almeno, un
complimento alla donna che ha saputo trasformarsi in
modo secondo lui così apprezzabile.
Non sa come la prima volta che me lo disse, mi trattenni
a stento dall'intimargli di andarsene e di scordarsi di me
per sempre.
Rabbia provai, di fronte al suo commento allegro,
divertito. E vergogna, anche. Vergogna e rimorso per il
mio cedere, ciò nonostante, alle sue carezze e ai suoi baci.
Per il mio lasciare impunita l'offesa che con quelle parole
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
aveva arrecato alla ragazza di ieri. Furibonda rabbia,
appunto, per la disinvolta spavalderia con cui mi
proponeva quel commento, che per lui era solo un
complimento alla donna che sono e che per me era invece
un insulto alla ragazza che ero.
Raramente mi è capitato di odiare Fabrizio quanto in
quel momento. Perché mi diceva che il rospo della vecchia
favola lui non l'avrebbe mai baciato. E io ho sempre odiato
che nelle favole siano solo le donne a baciare dei Principirospi o dei Principi-bestia, mentre la Cenerentola vestita di
stracci non l'ha mai notata nessuno, e c'è voluta una fata,
che la vestisse dell'abito più bello e le fornisse paggi e
carrozza, perché allora il Principe se ne invaghisse alla
festa: lei la più seducente, la più affascinante di tutte.
Vorrei ci fossero favole in cui la strega repellente si
trasforma in una bellissima fanciulla al bacio del cavaliere
sconosciuto, ma nessuno ha mia pensato di inventarle. I
Principi delle favole smontano da cavallo solo per baciare
delle belle addormentate nel bosco.
La parità che ci siamo conquistate non è ancora riuscita
a farci acquisire un valore che prescinda dal nostro aspetto:
l'uomo è sedotto dalla bellezza in un modo che, a mio
avviso, non ha pari presso le donne. E questo non ha mai
cessato di amareggiarmi, o di indispormi.
Eppure, in questo momento, forse per la prima volta
nella mia vita, il ricordo della valutazione che Fabrizio ha
ripetutamente avanzato su di me, confrontando il mio
aspetto di oggi con quello delle vecchie foto di gioventù,
anziché infastidirmi, mi rassicura. E mi accorgo che
segretamente vorrei che anche tu – tu che mi stai
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guardando oggi, dopo tanto tempo – potessi avere di me la
sua stessa impressione.
Ma lo vorrei soltanto perché un giorno tu sei smontato
da cavallo e hai baciato il rospo che Fabrizio non avrebbe
baciato.
È a te – a te che hai baciato quel rospo – che vorrei
sembrare bella oggi. Bella, per l'uomo che mi mise al collo
una collanina d'argento, quando vestivo jeans scoloriti,
camicioni larghi e avevo l'acne, gli occhiali spessi e il viso
acqua e sapone.
Vienna Neustadt: ore 20,10
Fu nell'agosto di diciassette anni fa. Ora il ricordo è così
nitido da inghiottirmi.
Non ho mai dimenticato, comprendo.
Arrivammo che la festa era cominciata da poco.
File di macchine parcheggiate lungo la via e musica che
si udiva fin dalla strada. Illuminata la villa, con quasi tutte
le finestre spalancate nell'afa dell'estate inoltrata e rumori
di voci e risate che provenivano dall'interno. Striscioni di
buon compleanno appesi qua e là – dagli amici, suppongo.
Tanti auguri al padrone di casa – non l'abbiamo mai
visto prima, ma non importa. A invitarci e a portarci lì
sono stati gli amici del festeggiato: più siamo e più ci
divertiamo, hanno detto.
Così siamo venute. Con loro. Turiste in vacanza.
Aggregate alla festa di qualcuno che non conosciamo e che
probabilmente non rivedremo mai più.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Loro – gli amici del padrone di casa – li avevamo
conosciuti alla spiaggia, nei giorni precedenti. Insieme
abbiamo già trascorso diverse sere: pub, pizzerie,
discoteche, cinema all'aperto. Stasera, una festa di
compleanno.
Tanti auguri al padrone di casa. Poi dolci, bibite, tartine,
spumante. Il consueto buffet.
Io però non ho fame, non mangio.
Qualche presentazione. Anzi, troppe, Sciami di volti
indistinguibili mi avvicinano con un radioso sorriso e
qualche parola affrettata, poi scivolano via senza lasciarmi
nemmeno il tempo di afferrarne il nome, nel frastuono
assordante della musica a tutto volume. Finché insieme
agli altri ci si mischia alle danze nel salone svuotato dai
mobili. E ci si accinge così a tirare mattina.
Indugio in qualche ballo svogliato. Scambio distratte
parole con i nostri accompagnatori e con chi capita attorno.
Vedo che mostrano di divertirsi le amiche e compagne di
questa vacanza, con le quali divido la stanza all'albergo. E
intanto sorseggio il mio cocktail, mentre mi accosto alla
finestra a guardare il cielo, la luna, le stelle.
È una limpida serata d'estate; un grosso pastore tedesco
corre abbaiando per il grande giardino.
Io non ho voglia di ballare. Non ho voglia di mangiare le
appetitose tartine del buffet. Non ho voglia nemmeno di
ridere, civettare, scherzare. Stasera no, non ne ho voglia.
Non ho voglia di niente. Non ho voglia di essere lì.
Vorrei rientrare all'albergo. Ma le amiche sembrano
divertirsi. Anche i nostri accompagnatori.
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Tutti ballano, chiacchierano, ridono. Non c'è speranza di
poter venire via prima dell'alba, suppongo. Così mi
rassegno. E guardo il cielo. Cielo stellato di una calda notte
d'agosto. E Magda l'altra sera si è uccisa.
Magda l'altra sera si è uccisa. Non riesco a non pensarci.
Non la vedevo da anni, ma da bambine giocavamo
insieme. Aveva solo vent'anni. Due più di me.
Magda e i nostri giochi d'infanzia. Magda e i suoi biondi
capelli. Magda e la sua storia, evidentemente incompresa.
Magda e le nostre corse sui prati. Magda e tutto il mondo
innocente di quando eravamo bambine. Magda e la nostra
promessa tradita («Resteremo amiche per sempre»).
Magda, dimenticata da me in tutti questi anni. E così
viva adesso dentro di me.
L'altra sera si è uccisa.
Me l'ha detto al telefono mia madre, stamani. Non se
l'aspettava nessuno.
Non la vedevo da anni. Le avevo promesso: ti verrò a
trovare. Non ci sono mai andata. Ho sempre avuto
qualcosa di meglio da fare.
Eravamo cresciute insieme, fino alla soglia
dell'adolescenza. Poi la sua famiglia si trasferì.
Zelante corrispondenza tra noi, agli inizi: meticolose lettere
di ragazzine diligenti, che andarono diradandosi via via
con gli anni. I contatti – telefonici perlopiù – si
mantenevano invece tra le rispettive madri. Da questi loro
periodici scambi di informazioni continuavo ad avere
ancora notizie di lei. Ma sua madre raccontava sempre che
stava bene.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Una volta o l'altra, con i miei, saremmo andati a trovarli,
giù nel Sud. Ma si è sempre rimandato a domani.
Ieri, quando i suoi hanno fatto ritorno da un week-end al
mare al quale lei non aveva voluto partecipare, l'hanno
trovata nella vasca da bagno, riversa in una pozza di
sangue.
Non ha lasciato nessuna lettera, non ha spiegato di quel
gesto il perché.
Ed è così che l'altra sera si è uccisa. A vent'anni.
E io guardo il cielo e penso a Magda. A Magda che non
c'è più.
Penso a lei, e penso a questa festa che è così assurda,
così ridicola, stasera. Non avrei voluto venirci, ma non
volevo raccontare di Magda. Hanno insistito e sono venuta.
Così resto alla finestra a finire il mio cocktail e poi
scendo in giardino.
Sembra immenso il giardino di questa villa: cespugli e
sentieri sinuosi tra le finte collinette e gli alberi alti.
Mi ha accompagnata la piccola gatta siamese del
padrone di casa. La tengo in braccio, l'accarezzo piano.
Passeggio lentamente, solitaria. Sconfinato e blu, sopra di
me, solo il cielo. Il rock a tutto volume della festa arriva fin
qui, ma attenuato, già lontano da me.
O forse sono io che mi sono fatta lontana.
Lontana, sono con Magda. La vedo nella vasca da
bagno, accasciata nella pozza di sangue. Non vedo che
quello. E silenziosamente le grido: perdonami.
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Così, assorta in questi pensieri, non ho udito i passi alle
mie spalle che si sono nel frattempo avvicinati, sull'erba.
Mi ha invece fatto voltare di scatto la voce che
d’improvviso ha interrotto il mio dialogo muto col
fantasma di chi non c'è più.
«Loro sono più soli di noi» ha detto alle mie spalle la
voce.
Sorpresa, mi volto a scrutare nel buio il volto di chi mi
ha parlato. Lo illumina appena un fascio obliquo di luce
che viene da uno dei faretti luminosi sparsi qui e là nel
giardino. E vedo nell'ombra un viso che mi sorride
malinconico.
Non trovo in quel sorriso niente dell'invadente
spavalderia che mi ero aspettata di trovarvi. E così,
perplessa, resto ad osservare in silenzio lo sconosciuto che
ha tentato in quel modo di attaccare discorso con me, che
ho disertato la festa e la musica per ritirarmi appartata nella
brezza leggera di questo giardino.
Mi ha colpita quel “noi”, che a lui mi assimila e che
l'assimila a me.
Potrei ripristinare le giuste distanze, osservando – come
si usa – che non mi sento sola, ma soltanto un poco
annoiata, o che sono uscita a prendere una boccata d'aria
perché fa troppo caldo lì dentro.
Potrei, ma non lo faccio. Mi limito a guardarlo nel buio,
incuriosita e in silenzio. E non replico niente.
Ma come se non si aspettasse una replica, lui prosegue:
«Giorgio ha insistito perché portassi il sassofono, ma io
non ho voglia di suonare stasera.»
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Non so chi sia Giorgio. Anzi, ora ricordo: Giorgio è il
nome del padrone di casa – il ragazzo che oggi compie gli
anni e ha organizzato la festa.
Dunque costui è un amico del padrone di casa. Non so
se è tra quelli che mi sono stati presentati poco fa, non lo
ricordo. Capisco soltanto che ha deciso di farmi sapere che
lui suona il sassofono.
Non me ne importa niente e non ho niente da dirgli.
«Io dico che la musica dello stereo potrà bastare»,
incalza. «Non ho voglia di suonare questa sera. E
comunque non importerà a nessuno che io suoni o no.»
Non gli rispondo. Non ho voglia di parlare con nessuno.
Non adesso, non qui, questa sera.
Ma lui continua, incurante del mio silenzio: «I tuoi
amici sembrano divertirsi là dentro... Ma non preoccuparti,
verrà mattina anche per loro e si decideranno a riportarti a
casa.»
Sta dicendo tutto lui, come se non gli importasse della
mia riluttanza a rispondergli, a dire qualcosa, ad accettare
la conversazione.
«Scusa se ho disturbato i tuoi pensieri», aggiunge dopo
una breve pausa. «Dimmi pure che vuoi essere lasciata sola
e me ne vado. Ma non dirmi che adesso hai voglia di
tornare dentro a ballare, perché non è vero e non hai
bisogno di dirlo per mandarmi via.»
Io non ho detto niente – gli rispondo.
E la gatta siamese si divincola tra le mie braccia e balza
a terra, sperdendosi nel giardino.
«Mentiremo probabilmente fino alla morte, false parole,
false carezze, falsi sorrisi... E musica a tutto volume per
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anestetizzare il cervello, o il cuore, non so» dice piano,
senza guardarmi. «Occorreva forse il coraggio di dire di
no. Non venirci a questa festa. Ma né tu né io l'abbiamo
avuto.»
È vero – adesso gli dico.
«Sapessi quanto vorrei far tacere queste domande che mi
esplodono dentro fino a disintegrarmi, e riuscire finalmente
ad essere come loro» dice, accennando agli altri dentro alla
villa. «E divertirmi e basta. Smettere di pensare.»
Incuriosita lo ascolto e adesso lo osservo. Poi abbasso lo
sguardo e dico semplicemente, in un soffio: Magda l'altra
sera si è uccisa.
Lo dico e subito mi pento di averlo detto. Vorrei che non
mi avesse sentita.
Che ne sa questo sconosciuto di Magda? Che cosa può
importargliene?
Ma è la frase che mi martella la testa, lo stomaco, il
cuore. L'ho trattenuta dentro di me fino a questo momento,
ora mi è scivolata di bocca come un fiume che rompe la
diga. E che vi sia qui questo ragazzo ad udirla – lui
piuttosto che un altro – è solo una decisione del caso.
Mi pento di aver parlato, ma è già troppo tardi.
È troppo tardi, perché lui prontamente riprende le mie
parole prima che io possa lasciarle cadere: «E se Magda
l'altra sera si è uccisa, deve essere terribile trovarsi qui, a
questa festa, stasera.»
Sì. Sì. Oh, sì! – vorrei dirgli.
Non so se lo dico. Ma non mi ha domandato chi sia
Magda, e questo mi sconcerta. Perché era questo che mi
aspettavo chiedesse.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Lui però non chiede, lui parla: «Magda. Magda...
Qualcuno si uccide e noi invece restiamo...»
Sì. Oh, sì! Giocavamo insieme quando eravamo
bambine e fantasticavamo del nostro futuro. Aveva solo
vent'anni e si è uccisa. E nessuno ha capito perché.
«Nessuno. Nemmeno tu» aggiunge, guardandomi
intensamente negli occhi.
Non la vedevo da anni. Si era trasferita nel Sud, con i suoi
– mi affanno improvvisamente a spiegargli. Erano ritornati
al paese d'origine. Poco prima che partissi per questa
vacanza mi aveva telefonato. Era qualche anno che non ci
sentivamo più. Non ci ho dato importanza, a quella
telefonata. Non avrei mai pensato...
«Nessuno ci avrebbe pensato, l'hai detto tu» mi dice,
mentre intanto riprendiamo a passeggiare, insieme adesso,
nel buio del giardino. «Non sei tu responsabile.»
Sì, lo so.
«Lo sai, ma non ti basta.»
Può forse bastare? – gli chiedo.
«Senti, voglio dirti una cosa... Stavo per andarmene da
questa festa, quando ti ho vista alla finestra e poi scendere
in giardino. Ti ho seguita, senza sapere nemmeno bene
perché. Volevo andarmene, perché non avevo voglia di
ridere o di scherzare questa sera. E meno che mai di
suonare il sassofono, come Giorgio mi aveva chiesto. Ma
se il sax ti piace e se riuscisse a farti abbozzare un sorriso
in questo momento, vorrei suonarlo per te, solo per te, qui,
dove gli altri non sentono.»
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Lo guardo sorpresa, senza sapere ancora cosa
rispondergli.
«Forse Magda ha avuto ragione ad andarsene, ma
qualcuno di noi deve restare», continua. «E non è detto che
sia più facile che uccidersi. Altrimenti, se seguissimo il suo
esempio, lasceremo il mondo a loro – indicando di nuovo
gli altri, dentro alla villa – alle loro risate, al loro
stordimento, al loro allegro vivere. È questo che
vogliamo?» E guardandomi intensamente negli occhi,
aggiunge: «Se mi può far piacere suonare per te stanotte,
non è per farti dimenticare Magda. È davvero terribile che
qualcuno muoia per niente, senza scalfire nessuna certezza
nel cuore di tutti quelli che l'hanno lasciato morire. Ma per
noi che restiamo, la vita deve continuare. Bisogna cercare
di darle un senso, e non accontentarci di buttarla via.»
Suonami qualcosa allora – gli dico d'improvviso,
interrompendolo.
Lui mi guarda, mi scruta.
«Sì. Il sassofono, l'ho lasciato in macchina. Devo andare
a prenderlo», dice. E dopo un attimo di esitazione
aggiunge: «Vuoi accompagnarmi?».
Sì, lo accompagno. Lo accompagno mentre continuiamo a
parlare.
Così, a poco a poco, cominciamo a raccontarci di noi.
Lo facciamo con la disinvoltura che potrebbero avere due
vecchi amici. E Magda si è già fatta lontana mentre me ne
sto accovacciata sull'erba ad ascoltarlo suonare.
Intanto prosegue la notte. Prosegue nell'angolo più
appartato del giardino, dove la villa già sembra lontana.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Lontani da noi tutti gli altri: il festeggiato, le amiche e gli
amici che mi hanno portata alla festa.
Seduti sull'erba, io e lui, parliamo di noi – e del cielo,
del mare, del sogno della vita che vogliamo vivere, di tutto
quello che ci sgomenta e che ci disorienta. E parliamo del
nostro esserci immediatamente riconosciuti, tra tutti, come
simili – come uguali. Perché identiche sono le nostre
inquietudini, le nostre domande, l'interiore fatica di vivere.
E parliamo del nostro parlare, anche. Così diverso –
mioddio! – nella forma, nei contenuti, nei modi, da quello
che comunemente si usa tra due sconosciuti.
Ma noi non siamo più due sconosciuti, diciamo. Forse
non lo siamo mai stati. Ad incontrarci ci siamo
semplicemente ri-conosciuti. Lui nel seguirmi a parlarmi.
Io nell'esitante rispondergli. Nel rispondergli a quel modo,
cioè. Nel dirgli così, a mezza voce, ciò che a tutti gli altri
avevo taciuto: che Magda l'altra sera si è uccisa. Come se
anche lui l'avesse potuta conoscere.
Perché forse c'è nella vita di tutti una Magda che un
giorno si uccide. E ci domanda perché invece noi no,
perché noi restiamo. E lui lo sapeva, che ciascuno ha avuto
o avrà la sua Magda. Così, in pochi attimi, si ri-conosce
l'interlocutore sempre cercato, sempre atteso. Allora non
c'è più bisogno di altro per riporvi la nostra fiducia totale.
E quando all'appressarsi dell'alba mi propone di andare
con lui sulla spiaggia, a vedere sorgere il sole, tutta la
fiducia c'è già.
Non esito ad acconsentire con grande entusiasmo,
ricordandomi appena di correre ad avvisare le amiche,
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ancora dentro alla villa con il gruppo ristretto degli invitati
rimasti.
Vado via con lui – dico – e provvederà lui a
riaccompagnarmi all'albergo. E al loro domandarmi,
tirandomi un attimo a parte, dove fossi finita e chi fosse
costui, rispondo già pazza, rapita, invaghita, sognante: lo
amo.
Non c'è tempo per spiegazioni ulteriori. Non servono
spiegazioni ulteriori. Di lui so già quello che conta – quello
che conta davvero. Altrettanto sa ormai lui di me.
L'essenziale. Cioè, tutto.
Il resto è superfluo. Avrà poi tempo più avanti, quando
questa vacanza per me sarà giunta al termine, di venire a
trovarmi lì dove io vivo, e vedere i miei quadri e le sculture
di creta di cui già gli ho parlato.
Col sax suonerà una serenata sotto la mia finestra, ha
detto scherzando. Ne abbiamo riso, abbracciandoci. Ma per
ora conta di più organizzare i giorni che ci restano da
passare insieme quaggiù. A cominciare dall'alba che
adesso ci attende sulla riva del mare.
Presto, facciamo presto, o arriveremo a sole già sorto!
Mi trascina alla macchina per mano, correndo. Ridiamo.
Ridiamo degli altri rimasti alla villa, con il loro occhi
assonnati nello strascico di una festa che non vuole finire.
Ridiamo del loro ignorare quanto è stata diversa questa
festa per noi, questa sera. Ridiamo, mentre inciampo,
correndo verso la sua auto parcheggiata in fondo alla via.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Saliti in macchina, prima che lui avvii il motore, restiamo
un attimo a fissarci negli occhi in silenzio. E così, senza
dire parola, lui si china su di me per baciarmi.
Lo bacio con l'abbandono e il tumulto con cui non ho
mai baciato nessuno. Poi, ancora in silenzio, mette in moto
l'auto mentre io gli accarezzo i capelli. E nella notte ormai
declinante, ci dirigiamo verso il mare.
Sulla spiaggia, accoccolati l'uno accanto all'altra,
guardiamo levarsi il sole.
Misura la mia mano con la sua – palmo contro palmo. E
camminiamo scalzi sulla battigia. Recitiamo a voci
alternate una poesia di Prévert che conosciamo entrambi a
memoria. “Barbara - Rappelle-toi, Barbara - Il pleuvait
sans cesse sur Brest celle jour-là...”.
Quando poi lui si slaccia il suo girocollo d'argento e lo
mette al mio collo, io faccio altrettanto col mio. E si
incrociano nel gesto le nostre braccia, senza che abbiamo
bisogno di aggiungere parola. Lo guardo. Mi guarda. Lo
accarezzo. Non trovo parole. Non occorrono parole. Mi
stringe a sé. Ci baciamo. Mi indica i gabbiani sul mare. Mi
parla delle gite in barca a vela che faremo nei prossimi
giorni.
Ci siamo solo noi due sulla spiaggia, sospesi su un
lembo di sabbia tra l'azzurro del mare e del cielo. Creature
di un sogno. Del sogno che ciascuno in segreto un giorno
ha sognato. In quel mattino, in quell'alba – per noi – la
realtà.
Poi è tarda mattinata quando mi riaccompagna all'albergo.
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Fermando la macchina davanti all'entrata, ci diamo
appuntamento lì per la sera.
Prima che io scenda, ci baciamo ancora per salutarci. E
sono già quasi all'ingresso della hall quando lo sento
gridare ad alta voce il mio nome.
Mi volto. Lo vedo che corre verso di me. La portiera
dell'auto è rimasta spalancata. Ansimante mi raggiunge e
mi solleva in braccio. Poi prende fiato, e sorridendo mi
sussurra: «Volevo dirti... “Rappelle-toi, Barbara!” Cioè,
volevo dirti….non dimenticare! Non dimenticare mai
questa notte, quest'alba... Promettimelo.».
Te lo prometto, rispondo confusa e sorpresa. E glielo
dico con una tenerezza infinita.
Complici, ci guardiamo ancora, ridendo.
Poi lui aggiunge: «Sarò qui alle nove stasera, cerca di
non farmi aspettare troppo.»
Sarò puntualissima, replico con uno sguardo di intesa.
Ci salutiamo ancora con un cenno di mano, mentre lui si
allontana. Resto a guardarlo finché non risale in macchina.
Non lo rividi mai più.
Vienna Meidling: ore 20,40
Ora siamo in piedi nel corridoio io e Fabrizio, con le nostre
valigie.
Il nostro compagno si è avviato all'uscita sulla destra del
corridoio. Io ho preceduto Fabrizio, e mi sono subito
avviata con la valigia verso l'uscita di sinistra.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Nell'uscire dallo scompartimento mi sono voltata
un'ultima volta a guardare la catenella col gabbiano, che ho
lasciato sopra il ripiano di fronte al sedile.
Vienna Südbanhof: ore 20,46
Fabrizio si è accorto di avere dimenticato sul sedile la
piantina di Vienna e torna indietro a riprendersela.
Io guardo fuori dal finestrino per vedere se intravedo
Gustav. E intanto il treno si ferma.
Fabrizio mi raggiunge, mi abbraccia, mi dice contento:
«Arrivati!»
Non volto più la testa a spiare ancora, al capo opposto
del corridoio, la sagoma dell’uomo che si allontana e
scenderà dal treno tenendosi discosto da noi, per
scomparire tra la folla della stazione.
Tenevo da quattro anni nel portafoglio una catenella
d'argento con un pendente a forma di gabbiano. Non so se
assomigliava davvero ad un gabbiano, ma so che è stato
sempre un gabbiano per me, perché così lui mi aveva detto.
Ora non l'ho più. Ora non ho più niente che asserisca e
ricordi che quel mattino lontano è davvero esistito. Potrei
averlo soltanto sognato. Non mi resta più niente che possa
provarmelo.
Nel giardino di casa accendevo falò, quando ero ragazza,
per dare fuoco alle cose – lettere, cianfrusaglie, oggetti
ricordo – che appartenevano a momenti felici, amicizie,
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vacanze, affetti, che vicende successive avevano poi
deteriorato nel significato e nel valore che avevano avuto.
Bruciavo tutte le cose che ricordavano un passato lieto e
irrecuperabile, quasi che solo stringendo nel pugno quelle
manciate di cenere potessi darmi la forza di dirmi:
Coraggio, si ricomincia da capo, senza più voltarmi
indietro, pietrificata dalla nostalgia dei ricordi.
E correvo dal parrucchiere a tagliarmi i capelli in
un'acconciatura nuova, perché lo specchio mi negasse
l'immagine di quella che fino al giorno prima ero stata.
Così feci a pezzi le tele e le statuette di creta, quando
decisi che avrei rinunciato a tentare di diventare un'artista.
Ho sempre avuto bisogno di far saltare i ponti che mi
lasciavo alle spalle. Era l'unico modo di costringermi ad
andare avanti, quando la voglia di proseguire era così poca
e così forte la tentazione del richiamo alla più sicura quiete
delle cose già note, che ancora lasciavano udire il loro
canto suadente, dietro di me – dentro di me.
Solo da quel ciondolo non mi sono mai separata. Non ho
saputo gettarlo insieme alle cose vecchie. E non c'è un
perché.
Da troppi anni non faccio più sculture, non dipingo più
tele. Che un giorno – da ragazza – l'abbia fatto, forse non
significa più niente.
Sono una giornalista. Fabrizio è il mio uomo. Fabrizio
non sa – non ha mai saputo – di quella ragazza di diciotto
anni che un giorno si innamorò perdutamente di uno
sconosciuto. Non credo nemmeno che gli importerebbe di
saperlo.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Un giorno, davanti a un altare (a un altare? Fabrizio? Non
so immaginarmelo), Fabrizio scelse per moglie una donna
della cui vita ormai non sa praticamente più nulla. Sa
soltanto che lei è poi andata a vivere a Roma, che si è
risposata, che dal secondo matrimonio ha avuto due figli. E
basta.
Di lei e dei due anni che è durato il loro matrimonio non
parla quasi mai. La solita incompatibilità di carattere, dice
laconicamente per spiegarne l'epilogo.
Non gli ho mai sentito pronunciare nei riguardi di lei
una sola parola che potesse suonare come di rancore, di
biasimo o di rimpianto. Il silenzio copre ogni tratto di lei e
della loro storia. Il silenzio copre quel passato e lo
salvaguarda – credo – da tutte le infinite e possibili
ridefinizioni del poi.
Eppure sono sicura che quel giorno, in chiesa, nel
pronunciare il definitivo “sì”, lui era certo di amarla ed era
certo che l'avrebbe amata per sempre. E forse adesso la sua
intenzionale rinuncia a parlare di lei e di quel tempo è
proprio l'unico modo che resta per tenere fede, nonostante
tutto, alla promessa d'origine. Forse, in una parte occultata
e segreta di sé, non ha mai smesso di amarla. O forse, non
potendo più amarla ancora, cerca comunque in questo
modo di custodire attraverso il silenzio l'antica convinzione
che aveva generato la promessa poi andata tradita.
Ho sempre rispettato e apprezzato questo suo riserbo.
Detesto chi è abituato a coprire di fango tutte le cose che
hanno perso il valore che un tempo avevano avuto.
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Perché, se un valore per noi l'hanno avuto – sia pure
brevissimo – probabilmente meritano un po' del nostro
riguardo. Fabrizio, questo, lo sa. Io con lui.
Conosco soltanto il Fabrizio di oggi, ignoro tutto del
ragazzo che è stato. Ci siamo incontrati già adulti. Da
adulti ci siamo amati, amando l'uno nell'altra quella
conturbante fierezza, quell'austera disillusione in cui
probabilmente intravediamo l'allusione silenziosa ad un
tempo remoto di altri sogni poi andati delusi.
Nella distanza, nella cortina di impenetrabilità che tanto
spesso ci separano, io risento la pienezza degli eventi che
hanno tessuto la trama delle nostre vite, la loro ricchezza e
la loro incondivisibilità, la forza ancora prepotente di un
mai sopito desiderio di fusione e insieme l'acquisita
consapevolezza dell'impossibilità di realizzarlo.
Averlo rinnegato come pretesa eccessiva, idealistica,
attualmente improponibile, non significa averlo
dimenticato. Quel desiderio – quel bisogno – che un tempo
vi è stato, resta come ansia, come inquietudine, come
tensione ancora capace di scuoterci in malcelati sussulti –
ciò che cripticamente smuove l'altrimenti imperturbabile
rassegnazione delle nostre parole.
Forse in tutti questi anni non abbiamo mai trovato la
forza di riesumare ricordi per i quali non potremmo mai
trovare parole adeguate a esprimerli.
Così penso a quel Fabrizio che oggi con tanta disinvoltura
scherza e sorride sugli altrui matrimoni più o meno riusciti.
Penso al brillante sarcasmo con cui sempre gli riesce di
demistificare ogni altrui sentimentalismo. Penso all'ironia
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
che riserva a chi pronuncia la parola “amore”. E penso
allora a quel giovane in abito scuro che, accanto ad una
figurina esile e sorridente nel vestito bianco e nella nube di
veli, si riparava dalla pioggia di chicchi di riso in una
vecchia foto spersa tra le scartoffie di un cassetto.
È quella che ci capitò fra le mani alcuni anni fa, mentre
frugavamo insieme tra le sue carte, cercando non so più
quale dattiloscritto.
A trovarla, ci siamo guardati.
Ricordo ancora come fossi sul punto di commentarla
con una battuta qualsiasi, ma notando la serietà del suo
sguardo me ne mancò d'improvviso il coraggio e la voglia.
Così non dissi niente.
Nemmeno lui disse nulla. Prese solo in mano la foto per
un istante e poi la rimise sul fondo del cassetto. Eppure mai
come in quell'attimo ci siamo capiti.
Dopo un po' mi disse scherzando che ero una donna
estremamente discreta.
Ho rispetto per il tuo passato, risposi.
E lui mi attirò a sé, facendomi sedere sulle sue
ginocchia. Poi mi prese il capo, appoggiandoselo sulla
spalla, e con dolcezza mi accarezzò i capelli, mentre
baciava il pendente che portavo al collo.
Ho cercato la libertà, ho voluto la libertà. Non ho chiesto
agli altri né sostegno, né elogi, né comprensione, né
soccorsi. Ho preteso soltanto che mi si lasciasse fare come
credevo.
Ho sbrigato da sola il mio bene e il mio male. Ho
accettato aiuto e consigli quando sono venuti; non li ho
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domandati né aspettati quando non mi sono stati offerti. Ho
accolto nella mia casa amici e parenti e amanti, quando
hanno voluto venire. Non ho bussato a nessuna porta,
quando ero sola. Ho bevuto i miei whisky solitari in
lussuose camere d'albergo, più o meno silenziose. Mi sono
ubriacata in compagnia, con buoni vini nostrani alle
tavolate chiassose di qualche trattoria, tra musica, risate e
gente che mi ha voluto bene.
E quando mi imbattevo per la strada, o in metropolitana
o sulle panchine delle stazioni, con qualche
tossicodipendente dai vestiti trasandati, i jeans stinti e lo
sguardo perso nel vuoto, pensavo ad un ragazzo conosciuto
molti anni addietro e a dove fosse lui adesso.
Lui aveva dato alla mia giovinezza il miraggio, la sete,
la speranza. Io così poco fui in grado di dargli.
Chiedermi per tanto tempo cosa ne fosse stato di lui era
tutto il senso di una sperequazione, di un debito mai estinto
e che non avrei mai più potuto estinguere. Era lui. Era
Magda. Erano quelli che non c'erano più, o dei quali non
sapevo più niente: quelli che erano stati con me nel tempo
della semina, ma che non erano più insieme a me a godere
il tempo del raccolto. Fantasmi di morti o di vivi che
divorano l'anima. Ombre che affollano la nostra vita, più
vive e reali di tutti i presenti. Ricordi che comprimiamo
dentro il baule, ma che traboccano da tutte le parti. E
Magda bambina ha sempre continuato a fissarmi con i suoi
grandi occhi innocenti.
Ma tutto questo appartiene a tanto tempo fa.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Sul treno dei ricordi ho rivisto e rivedo quelli che
eravamo e che non siamo più. Anche di Magda non resta
più niente. Sono probabilmente una delle poche che la
ricordano ancora.
I treni che portano a Vienna, non portano indietro.
Chiunque si abbia ad incontrare nel proprio
scompartimento.
Ma io non voglio tornare indietro, lo sai.
«Rimettilo nel portafoglio» mi ha detto Fabrizio,
porgendomi il mio girocollo, appena siamo scesi dal treno.
Sono rimasta sorpresa, confusa, senza parole.
Lui se n’è reso conto, e ha proseguito scherzando: «Non
sono io lo sbadato, vedi, che si dimentica tutto sul sedile...»
Ma io avevo intenzione di...– ho tentato di dirgli.
«Di lasciarlo sul treno?» mi ha interrotta. E senza darmi
il tempo di rispondergli, ha continuato: «E perché mai
dovevi lasciarlo lì?».
Era meglio così – ho cercato di dirgli.
«E lascerai su un treno anche me in questo modo, un
giorno, quando ti accorgerai che in fondo non sono più così
importante?» mi ha domandato serio, scrutandomi dentro
agli occhi.
Perché mi dici questo, Fabrizio? Perché non ti rallegri
piuttosto del fatto che non lo voglia più conservare? – gli
ho domandato stupita.
«Perché non so quali siano i ricordi che sono legati a
questa catenina d'argento, e non voglio saperlo, ma so che
il tuo amuleto magico ti ricorda cose che contano. E se hai
dei ricordi che valgono così tanto da farti custodire
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quest'oggetto con l'amore e l'ostinazione con cui ti ho vista
conservarlo e tenerlo sempre con te in questi anni... allora,
adesso, non buttarlo via così! Non se lo merita. Anche se
ora pensi di essere abbastanza forte da poterci rinunciare»
mi ha spiegato.
E sei proprio tu a dirmi questo...– ho commentato
pensierosa.
«Già!» ha esclamato. «E ti chiedo scusa per tutte le volte
che ti ho presa in giro per questo gabbiano. Era solo una
stupida provocazione. Invece non sono mai stato capace di
dirti che in realtà rimasi deluso, quando non te lo vidi più
al collo. Perché... sai una cosa? Sei proprio una donna dalle
mille contraddizioni. Ma è anche questo che mi è sempre
piaciuto di te.»
E dunque ti ringrazio, Fabrizio, per essere tornato indietro
a riprendere questo girocollo d'argento che volevo
abbandonare lì, sul ripiano.
Lo rimetterò dentro al portafoglio, come d'abitudine.
M'accompagnerà ancora negli anni che verranno, anche se
forse – adesso – sarò meno ostinata, se mi troverò ancora
ad affermare che il pendente raffigura un gabbiano. Forse
semplicemente dirò che assomiglia ad un gabbiano ai miei
occhi, o che mi piace vederlo così. Ma non insisterò, se
altri saranno di parere contrario.
Penso ai quadri del Picasso cubista, quelli in cui le
armoniche forme e il delicato profilo della donna che sulla
tela è dipinta diventano scomposto sovrapporsi di occhi, di
bocca, di corpo, di mani.
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Egler Ghinato
Sul treno per Vienna
Probabilmente non si riconoscerà – penso – quella
donna in quel quadro. Ma la riconoscerà chi l'ha dipinta. E
forse questo può bastare a chi guarda.
Perché non conosco verità che sia altro che questo
confondersi di punti di vista e di piani – e tutto è vero, tutto
è falso, a seconda di come lo guardo.
E in questo momento ti amo, Fabrizio, per quello che sei
e per quello che non sarai mai. Sono questi i momenti che
contano. Non cancellano gli altri – diversi – che ci sono
stati egualmente. Con chi, non importa. Perché tutto quello
che è stato, duraturo o fugare che fosse, si è impresso sotto
la pelle. E la traccia che resta è ricchezza, se è stato vissuto
– purché fino in fondo.
Allora, grazie, adesso, per il braccio che mi passi attorno
alla spalla, serrandomi a te.
Vienna. Siamo a Vienna, Fabrizio! Siamo arrivati.
Vedi Gustav? – ti domando, felice.
Ma non fai nemmeno in tempo a rispondermi e già lo
vediamo, tutti e due: un biondo austriaco che viene verso
di noi sbracciandosi e quasi correndo.
Tu ed io ci guardiamo, con un cenno di intesa. È sempre
lui, non cambierà mai, pensiamo tutti e due sorridendo.
E riprendiamo in mano le nostre valigie, andandogli
incontro.
Fabrizio la guarderà, ammiccando con un sorriso
bonario. Tutti e due scoppieranno a ridere: Capodanno a
Vienna.
Fabrizio le bisbiglierà all'orecchio: hai visto, ci siamo
riusciti.
Buon anno grand'uomo, lei gli dirà.
Buon anno donna fatale, le risponderà lui.
Poi faranno mattina con Gustav, tra musica, danze e
risate.
E se questo treno avesse potuto correre indietro, fino alla
spiaggia dove un giorno un ragazzo e una ragazza
camminarono insieme innamorati, felici, ubriachi di
promesse e di sogni, quei due ragazzi avrebbero forse
potuto indicarsi con la stessa tenerezza di allora i gabbiani
che volavano bassi sul mare, ma a guardarsi negli occhi
non sarebbero più stati capaci di dirsi: ti amo.
Aveva solo diciotto anni a quel tempo.
Siamo tutti cresciuti.
- FINE -
Così quest'anno la mezzanotte verrà, con il brindisi,
travolta da musiche di walzer viennesi.
Gustav li abbraccerà.
Insieme solleveranno i calici.
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