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Bernadette Majorana
Feste a Milano per la canonizzazione di santi spagnoli (secolo XVII)*
1. Nel corso del XVII secolo vengono proclamati trentadue nuovi santi, un numero
elevatissimo rispetto al passato anche recente e che suggella le trasformazioni
operate tra ’500 e ’600 nell’istituto della canonizzazione. Con la emissione della
sentenza di santità, che conclude positivamente il processo di verifica della fama
sanctitatis condotto dalla Congregazione dei riti, il pontefice indica il santo come
modello e intercessore per tutti i fedeli e ne prescrive il culto universalmente[1].
L’atto solenne, compiuto a San Pietro nel corso di una grandiosa cerimonia pubblica,
genera un insieme di feste, che si rendono possibili – e necessarie – proprio in
rapporto con l’esigenza di espansione capillare e illimitata del culto del santo: con
ciascuna delle feste indette localmente, i devoti del nuovo santo si avviano a
promuoverne ovunque e presso chiunque l’esemplarità e l’efficacia.
Tali iniziative si dispongono secondo la trama secentesca della festa cittadina[2], in un
tempo (l’ottavario) e in uno spazio (la città) caricati di segni extra-quotidiani, forti e
largamente condivisibili, finalizzati a mobilitare attorno alla figura del nuovo santo le
facoltà percettive, affettive, intellettive dei partecipanti. E sempre secondo la
consuetudine del secolo, ogni festa locale può essere seguita da una relazione fatta
circolare a stampa, contenente informazioni relative all’ideazione e ai preparativi, la
descrizione degli accadimenti e delle azioni, dall’annuncio della canonizzazione alla
processione dello stendardo del santo per le vie della città, ai «teatri» (gli apparati
effimeri disposti nei luoghi di competenza dei promotori dell’iniziativa), alle
celebrazioni solenni, ai panegirici in lode del santo, non di rado pubblicati
separatamente. Al pari di ogni relazione di festa nel ’600, le relazioni delle feste di
canonizzazione sono inoltre concepite come documento dell’insieme transitorio degli
eventi che esse illustrano, allo scopo di tramandarne una rappresentazione
durevole[3].
Già nel 1588 era stato canonizzato lo spagnolo Diego di Alcalá, francescano
osservante, esempio significativo e precoce dell’importanza assunta dalla Spagna nella
nuova vicenda della santità. Quasi la metà dei santi proclamati nel corso del Seicento
saranno spagnoli[4].
Dei festeggiamenti svoltisi a Milano in onore di quattro di essi ho reperito le relazioni
corrispondenti: i gesuiti Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, proclamati santi nel
1622, durante la prima grande stagione secentesca delle beatificazioni e
canonizzazioni; l’agostiniano Tommaso da Villanova, arcivescovo di Valenza, santo nel
1658, dopo un lungo periodo di stasi; i francescani Giovanni da Capestrano e Pasquale
Baylon – di cui solo quest’ultimo è spagnolo – fatti santi nel 1690, durante un nuovo
incremento delle canonizzazioni. Tre feste, dunque, indette tutte in una stessa città, la
Milano spagnola, e collocate diacronicamente nell’arco di un secolo[5].
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2. La relazione della festa gesuitica, anonima, corredata da otto immagini, è
introdotta da una lettera dedicatoria firmata dagli stampatori e indirizzata alla
duchessa di Feria, moglie del governatore spagnolo – il più munifico sostenitore della
festa – e impegnata insieme con lui nelle attività spirituali dei gesuiti, oltre che devota
esemplare dei due santi[6]. Già spettatrice delle solennità, potrà «rinovare il diletto
del passato gusto» ogni volta che aprirà l’opuscolo, cercandovi il «racconto» di quelle
«sante attioni»[7]. Genere letterario misto, tra pubblicazione d’occasione, cronaca
edificante e libro devoto, la relazione della festa si configura come un ausilio
mnemonico, che fonda un itinerario personale per il lettore, come qui è detto
esplicitamente.
La canonizzazione era stata celebrata a San Pietro il 12 marzo; la notizia arriva a
Milano il 20, domenica delle Palme, e viene subito festeggiata; ma l’ottavario si svolge
tra il 17 e il 26 aprile, per evitare di sovrapporlo alla settimana santa e alla domenica
di Resurrezione e per darsi il tempo di approntarlo. La relazione esce con data 11
maggio. Il ciclo complessivo delle iniziative tra Roma e Milano dura, in questo caso,
due mesi esatti[8].
L’annuncio della notizia, e con essa dell’indulgenza plenaria, si organizza secondo un
dispositivo notturno messo a punto già dodici anni prima per la canonizzazione di
Carlo Borromeo[9]. I gesuiti e i devoti di Loyola e Saverio «si sforzarono, come è il
dovere, con segni esterni» di mostrare «l’interna gioia, d’honorare Dio ne’ santi suoi».
I segni esterni sono i fuochi d’artificio, accesi in due luoghi distinti – sul tetto di San
Fedele, la chiesa della Casa professa[10], e nel campanile di Santa Maria di Brera, la
chiesa del collegio – e gli squilli di tromba provenienti dagli stessi due luoghi e che «a
vicenda sonando, e provocandosi, tanto dilettavano gli orecchi, quanto i fuochi
trattenevano gli occhi de’ riguardanti». Di lì a poco risuonano per un’ora le campane
del Duomo, chiamando tutte quelle della città[11]. I fuochi e gli effetti sonori, nella
relazione della festa gesuitica come nelle altre, esaltano nella notte i luoghi
appartenenti ai religiosi e ne consentono anche da lontano la percezione rispetto
all’insieme indistinto della città: per evidente visibilità e rilevanza urbanistica di quella
parte dell’edificio, il campanile della chiesa dell’ordine del santo canonizzato è, per
solito, il luogo da cui i segnali festivi provengono, a richiamare tutto il popolo (mentre
nel caso di Borromeo, arcivescovo della città, la celebrazione si avvia con le campane
del duomo).
Le feste per l’annuncio, seguite dalla messa solenne e dall’inno di ringraziamento del
Te Deum, sono pressoché identiche per Tommaso da Villanova (fuochi artificiali, razzi,
spari; trombe e tamburi). Per quella di Giovanni da Capestrano e Pasquale Baylon,
invece, l’autore della relazone le evoca per sottolineare l’impossibilità di realizzarle in
tale maniera[12]. Le tre descrizioni mettono in luce uno dei paradigmi progettuali
della festa: i segni esterni non solo esprimono il sentimento di coloro che già sanno e
sono in attesa della notizia, pronti; ma determinano le condizioni perché tale
sentimento possa essere condiviso dall’intera collettività cittadina, da «ogni sorte di
persone»[13]. Ciascuna città con i suoi abitanti deve essere attratta nel moto di
irradiazione universale del nuovo culto, che dal centro della cattolicità e sotto
l’impulso dell’autorità del pontefice si propaga in tutta la Chiesa.
L’ottavario è scandito dalle celebrazioni sacre giornaliere: la messa cantata, con
musica e cori di grande impegno, il panegirico, sempre recitato da un religioso
diverso, i vespri. La rappresentanza ecclesiastica, politica e civile è consistente,
dall’arcivescovo fino al governatore coi loro séguiti[14]. Nel caso gesuitico ci troviamo
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però di fronte a una specificità significativa. Mentre per solito il luogo principale della
festa è uno (la chiesa di appartenenza dell’ordine del santo), qui i luoghi deputati sono
due – già resi visibili al momento dell’annuncio – e sono ampiamente articolati: la
chiesa annessa alla casa professa, con il cortile di quest’ultima e la piazza antistante,
e il collegio, esso pure con cortili, chiesa e piazza.
Il teatro della chiesa di San Fedele è raffigurato in due immagini della relazione, che lo
descrive accuratamente e fornisce anche un sommario dei materiali che lo
compongono: gli elementi architettonici effimeri antistanti la facciata – affiancata
dall’ingresso della casa professa e da importanti palazzi sugli altri tre lati della piazza
– sono quattro archi trionfali e diciassette archi a portico, tutti «dipinti a marmo» e
sormontati da venti statue e da ventiquattro «vasi dipinti con fiamme». Mentre
complessivamete, all’esterno e all’interno della chiesa, l’apparato dispone di centootto
quadri con storie dei due santi (ventidue grandi e ottantotto piccoli), dieci quadri
grandi sulle virtù, quarantadue di martirii di cui quattro grandi, un ritratto di Ignazio
di sette braccia, dodici ritratti di altri gesuiti, cinquantasei quadri col nome di Gesù,
sette armi della città. Nel teatro dell’altare maggiore sono poste due statue dei santi e
al di sopra, dipinta, la loro gloria in cielo. Le parti scritte si suddividono in trentasette
elogi e dodici iscrizioni in latino, trentotto «imprese della grandezza de’ quadri»,
ottanta fra «cartelloni, e cartelle» in italiano «per ispiegar le historie de’ quadri».
Accanto a settantaquattro candelieri di legno dipinto ardono, dentro la chiesa,
centoquaranta grandi candelieri d’argento e duecentoventi lumi di cera bianca[15].
Nel teatro della chiesa, dentro e fuori di essa – luoghi di ampia partecipazione – sono
collocati i dipinti su vita, virtù e miracoli dei due santi, quelli che illustrano quanto è
stato messo al vaglio nel corso del processo di canonizzazione e che, nella festa,
costituisce il contenuto della devozione da promuovere e radicare. Le scene di
martirio, invece, con tutta probabilità perché non riguardano vicende personali di
Ignazio e Francesco, sono esposte nel cortile della casa professa, anch’esso apparato
(ma verranno trasferite brevemente in chiesa per consentirne la visione anche alle
donne, alle quali l’accesso alla casa dei gesuiti professi è precluso). I quadri e le
relative scritte sono disposti nelle fasce mediana e alta dei teatri, non a portata
d’occhio, secondo quanto parrebbe anche dalle due immagini. E stando alle altre
relazioni, questa è la posizione della maggior parte dei dipinti in tutti gli apparati.
A colpire immmediatamente i partecipanti e a produrre meraviglia non è allora il
palesarsi della storia dei santi nella pur cruciale evidenza descrittiva degli elementi
figurativi e verbali (da conquistare alla percezione via via), ma la trasformazione fisica
subita dal luogo in virtù dell’apparato temporaneo. La cui caratteristica prima è la
sovrapposizione a parti dell’edificio, l’accentuazione di tali parti o la parziale sparizione
di esse. Ed è ancora la moltiplicazione dei segni e dei significati: statue, quadri di
storie uniti a iscrizioni didascaliche, riprese sotto forma di figure e motti allusivi,
accompagnate da componimenti in versi (testi scritti che dall’apparato si associano
alle parole recitate dai predicatori e cantate dal coro, risonanti nello spazio della
chiesa[16]). E poi il pregio dei materiali e dell’esecuzione, l’artificio illuministico, la
potenza sonora: dentro San Fedele, per tutti i giorni della festa otto cori su altrettanti
palchi, con «sessanta musici tra voci, e stromenti»[17] fondono l’esperienza
sensoriale, e della vista in specie, in una ulteriore emozione del sentimento[18]. La
ridondanza, l’eccesso rispetto all’ordinario, la trasformazione effimera sono il segno
esplicito della festa e della eccezionalità della circostanza[19]. E come tali risultano
evidenti sia a chi conosce quel luogo nella sua apparenza abituale, sia a chi non lo
conosce.
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Fra le molte iniziative spicca, il pomeriggio del sesto giorno, un corteo degli scolari di
Brera, che segnano l’altro polo della festa gesuitica con un’azione allegorica
ambiziosa. La relazione rievoca sei carri trionfali e li riproduce in altrettante immagini:
ingegnosamente addobbati, trainati da cavalli, sormontati da figure in ricchi costumi,
interpretate da scolari, che personificano i diversi gradi dell’ordinamento degli studi,
secondo il cursus dei collegi gesuitici. I primi cinque carri trasportano Grammatica,
Poesia, Eloquenza, Filosofia, Teologia. Il sesto mostra la Pietà e al centro vi siede in
trono la «Charità zelante», circondata da Fede, Speranza, Castità, Oratione,
strenuamente praticate dai due santi: gli scolari si applicano alle scienze guidati dalla
pietà, ispirata loro dalle virtù esemplari dei santi festeggiati.
Tra la gente accalcata per strada e affacciata alle finestre, il «trionfo de’ carri» muove
dal collegio e compie un lungo percorso nella città prima di fare ritorno, ormai a notte,
verso la chiesa, dove, con la recita di versi italiani convenienti a ciascun personaggio,
si conclude[20].
Anche l’apparato di chiesa e cortili del collegio ha il tratto retorico e autocelebrativo
del corteo trionfale[21]. La descrizione di San Fedele sottolinea la magnificenza e la
perizia, il mirabile artificio del teatro, una visione tale da produrre effetti di stupore e
di struggimento atti a predisporre a una comossa devozione. Qui, invece, è esibita la
componenente intellettuale e culturale del progetto: nella relazione è detto
espressamente che pur impiegando addobbi «ordinarij, & usati nelle ecclesiastiche
solennità» l’apparato della chiesa braidense trae la propria singolarità dall’essere
innalzato sul fondamento «poetico, e letterario» al quale quei «giovani allievi delle
Muse» attendono e che caraterizza la scuola gesuitica[22]. Gli scolari-interpreti,
dunque, rendono grazie ai due santi con una celebrazione della Ratio studiorum e
delle virtù gesuitiche, per il «lume dell’intelletto, e buona regola de gli affetti della
volontà» che ricevono in collegio[23]; e nel contempo esibiscono alla città la
competenza oratoria e teatrale maturata nella classe di retorica[24].
3. L’ottavario per Tommaso da Villanova viene indetto dagli agostiniani sul finire di
gennaio del 1659: quasi a tre mesi dai festeggiamenti milanesi per l’annuncio della
canonizzazione, giacché, si legge, non si poterono fare «in un subito quegli
apparecchi, che richiedeva una solennità così grande». Intanto fra Ottavio Secchi,
padre priore, ideatore dell’apparato ed estensore della relazione, fa stampare una
breve vita del santo a sostegno della devozione che comincia «a divulgarsi per la
città»[25]: l’intervallo viene opportunamente sfruttato per rendere note, al di là della
cerchia dei devoti, le notizie sul santo canonizzato; le cui azioni, nell’ottavario che si
sta preparando, verranno riproposte come sempre attraverso i quadri e le scritte a
essi collegate, ma all’interno di un apparato concepito esplicitamente per catturare
l’attenzione anche di coloro che non hanno accesso alla lettura o che possono essere
attratti più facilmente nella devozione attraverso una forte esperienza di allettamento
dei sensi e della fantasia.
Il teatro della chiesa di San Marco rappresenta una «villa», vale a dire – in italiano, su
calco latino – un giardino, un luogo ameno, gioioso; accostata in questa accezione alla
seconda parte del nome, l’allusione a un luogo di rigenerazione si fa chiara: villa
nova. Pretestuosa rispetto alla identità storica del santo, la retorica dell’apparato è
incentrata sul nome. Un nome che tuttavia, già nei tre cartelli latini posti sulle porte
della chiesa, diventa allegoria del paradiso, cioè della vita eterna a cui i fedeli sono
chiamati[26].
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Soffitto, pareti, pavimento, la chiesa è interamente ricoperta di tessuti di vari colori,
tendaggi pendenti, nodi, mascheroni; e di quadri dipinti e iscrizioni. Nemmeno un
angolo rimane scoperto. Gli elementi illustrativi, storico-narrativi e dilettevoli
prendono le forme e i ritmi del luogo della festa e vi si organizzano secondando un
accordo tra spazi, forme, funzioni preesistenti e progetto celebrativo, le cui cadenze
devote – quelle stesse che in seguito dovranno tornare a echeggiare nel cuore e nelle
condotte di antichi e nuovi fedeli del santo – sono effetto di questa contaminazione
d’occasione e, tuttavia, tracciano le linee portanti del nuovo culto.
L’altare maggiore, oltre che di ceri e argenti, è abbellito di fiori «da tutti i lati»; e
«tutto l’ovato del choro» è «ripieno di cipressi dentro a’ suoi vasi ». Mentre sulla
tappezzeria che copre ogni colonna sta «cucito un albero grande, dipinto, piantato
dentro un grande vaso» e posto su un alto piedistallo, «sì che entrando in chiesa, non
vedevasi altro, che alberi» e «non sapeva l’occhio distinguere, se fussero dipinti, o
nella stessa tapezzaria intessuti, con l’ago, tanto ben adattati vi comparivano». Sopra
«venti colonne» stanno dunque «venti alberi di diversa specie»: sono «allori, cedri,
cipressi, ulivi, & altri simili»[27].
Forse per la coincidenza dell’estensore della relazione con l’autore dell’apparato e per i
travasi fra queste due competenze, qui, meglio che in altri testi, si riesce a cogliere
come l’ideazione dell’apparato si organizzi intorno a vincoli oggettivi (quali le
caratteristiche architettoniche) e come il programma e i materiali siano sottoposti alla
necessità di prevedere l’orientamento percettivo del pubblico. La coerenza
illusionistica tra vero e finto, tra naturale e artificiale, tra bidimensionale e
tridimensionale è progettata in ogni dettaglio così che il trascorrere dall’uno all’altro
termine genera sorpresa e meraviglia. Lo spettatore potrà distinguere, allora, il
tessuto dalla pittura avvicinandosi all’oggetto del proprio sguardo e raggiungendo una
visione più precisa; ma anche al tatto. E potrà distinguere il naturale di alberi e fiori
dall’artificiale, grazie all’olfatto, giacché – di certo – i cipressi veri, nel coro, sono
odorosi. Nella disposizione dell’apparato, la percezione è guidata lungo un possibile
itinerario: l’ideatore mostra di aver immaginato prima e constato poi ciò che accade al
visitatore quando entra, quando esce, mentre cammina; ciò che gli accade per prima
cosa o per ultima.
Ogni parte di ciascun albero (tronco, rami, fronde, vaso) porta appesi o inseriti cartelli
con scritte ed elementi allusivi: anagrammi, emblemi, imprese, motti, labirinti, versi
latini. La poesia «Era di varie sorti», in modo che «la continua lettura degl’istessi versi
non tediasse». Alcuni cartelli contenevano epigrammi «espressi con imagini», «versi
dipinti», fatti «per pascere la vista» e che «più degl’altri dilettavano, e rapivano la
turba, principalmente gl’idioti»[28].
Gli idioti accanto ai letterati, dunque: l’autore del progetto esplicita sempre la duplicità
del gruppo destinatario, dotti e indotti, identificabili nella capacità/incapacità di
leggere[29]. Pertanto anche il progetto si organizza su materiali espressivi duplici,
secondo l’opzione scrittura/non scrittura. Dove la prima si dispone almeno su due
livelli di ideazione e di accesso: il latino e la lingua volgare. Mentre la seconda ingloba
principalmente la figurazione e punta sulla molteplicità sensoriale della percezione. Va
sottolineato che non ci troviamo di fronte a un sistema binario, bensì di fronte a un
sistema combinatorio, che nell’unità progettuale presente in ogni parte dell’apparato
rispecchia la varietà dei partecipanti. Coltivati e ignoranti, gli uni e gli altri in vario
grado e variamente interessati, partecipano insieme a tutti i momenti della festa e
ciascun segmento festivo è concepito per essere disponibile alla comprensione parziale
o totale di tutti gli intervenuti[30].
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Nel ricorrere a materiali figurativi e retorici consueti nelle feste per le canonizzazioni e
generalmente nelle feste secentesche, il risultato pare, qui, raggiunto più pienamente
che altrove[31]. Con un’inversione strabiliante, lo spettatore entra in uno spazio
chiuso, in un edificio religioso cittadino, per scoprirvi l’illusione di trovarsi all’aperto e
lontano dalla città, in un orto, in un giardino: in paradiso. Giacché quel giardino
dentro la chiesa non è solo l’esterno che si riversa imprevedibilmente nell’interno,
l’aperto e naturale nel chiuso e progettato; ma è appunto, e più propriamente, il
paradiso, il ritrovamento del perduto bene, che nel giorno della festa – come intende
l’autore nei cartelli che pone sulle porte – torna a essere possibile con l’esempio e la
mediazione del santo.
L’invenzione fondata sulle parole mira a creare un significato ulteriore: sin dalla scelta
di profittare della stratificazione di senso del nome, risulta evidente che l’autore
persegue la coerenza delle parole con la vita e le gesta del santo. Infatti le
composizioni scritte «erano proportionate» a ciascuna sua azione rappresentata «nel
quadro contiguo a quella colonna»[32]. L’esercizio di fantasia e d’intelletto degli
spettatori nell’itinerario percettivo del teatro della chiesa può diventare, in questo
modo, un diletto virtuoso, un primo grado d’introiezione del modello di perfezione
cristiana.
4. La festa per Pasquale Baylon e Giovanni da Capestrano indetta dai francesani
riformati a Milano segue quella degli osservanti. E si distanzia di parecchi mesi dalla
canonizzazione, avvenuta il 16 ottobre 1690, svolgendosi invece l’ottavario dal 13 al
20 maggio dell’anno seguente.
La scelta del soggetto del teatro è anche in questo caso un «apparato di fiori, e di
frutti, con proportionata vaghezza di spirituali ornamenti» che facciano pensare al
paradiso[33]. Non si può escludere che i riformati abbiano attinto dalla relazione
dell’ormai lontana festa degli agostiniani in onore di Villanova, forse dimenticata; e
benché l’apparato sia ora completamente diverso, e con esso anche le intenzioni degli
autori riguardo al comportamento del pubblico, alcune affinità non mancano.
In questo caso lo spunto retorico è il nome del luogo in cui i francescani riformati
risiedono: il convento del Giardino. E se nella metamorfosi sorprendente della chiesa
di San Marco lo spazio ordinario scompariva, e di esso non restava che la percezione
dell’involucro entro il quale lo spettatore si muoveva, nella chiesa del Giardino
l’interno dell’edificio è ben evidente e il singolare naturalismo del probabile modello è
assente del tutto. Mentre il trattamento dei materiali e delle forme torna a essere più
astratto e generico: arazzi, tessuti e veli di vari colori, disposti in molteplici modi,
annodati, dispiegati, drappeggiati, cascanti a formare varie figure e a circondare i
dipinti delle storie dei santi, i cartelli esplicativi, in italiano e in latino, le imprese
disposte a soddisfazione dell’intelletto e dell’occhio, secondo il programma erudito
consueto[34].
La macchina prospettica costruita sull’altare maggiore, con il quadro della gloria dei
due santi, nelle intenzioni dell’apparatore deve costituire l’asse su cui
immediatamente lo sguardo del fedele che entra in chiesa si ordina. E mentre nella
festa agostininana era previsto che il visitatore compisse un attraversamento dello
spazio, in un percorso di ricerca curioso, qui lo spettatore è immaginato fermo al
centro dell’edificio, da dove «li sarà facile il vedere tutto a minuto» e «col solo girare
delle pupille» potrà guardare i miracoli dei due santi, ripartiti, con le rispettive
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iscrizioni, sui lati della chiesa[35].
È un esercizio retorico sul medesimo tema del giardino fiorito anche il legame istituito
nella relazione con il dedicatario e con il suo nome, don Girolamo Talenti Fiorenza
marchese della Fuente, che «stende dall’Italia alla Spagna li splendori di sua
grandezza fiorita» e, per l’occasione, offre ai francescani i «fiori della sua assitenza» e
l’aiuto del «fiore della nobiltà milanese»[36]. Dietro il gioco di parole generato dal
nome (Fiorenza) c’è il contributo economico e organizzativo del marchese, senza il
quale la festa non avrebbe avuto esito ugualmente felice a causa delle difficoltà dei
frati del convento. Legato alla Corona, «gentil’huomo della Camera di S.M. Cesarea»,
rappresentante del governo della città, dove è «mastro di campo d’un terzo di militia»
e «del Conseglio generale»[37], egli viene lodato anche per l’equanime promozione
delle solennità di entrambi i santi, spagnolo l’uno italiano l’altro.
Il dato più rilevante è però un altro. Dalla relazione emerge l’apprensione dei religiosi
per una parte sempre importante di questo genere di feste: la processione dello
stendardo con l’effigie del santo (in quella circostanza la rappresentazione congiunta
di Giovanni e Pasquale), che si potrà realizzare solo grazie alla generosità di alcuni
benefattori, che si fanno carico del pagamento del pittore, e grazie all’assistenza del
marchese, che della processione regolerà l’andamento, evitando confusione e
disordine[38].
I padri del Giardino ritengono che «portare per la città in solenne processione il
bellissimo stendardo» sia infatti «l’opera per la maggior gloria de’ santi»: il momento
nel quale, cioè, si può spingere «la pietà de’ cittadini milanesi ad adorare, & invocare
questi felicissimi eroi per aggiuto opportuno ne’ presenti bisogni»[39]. L’indagine
processuale ha verificato che il servo di Dio abbia esercitato le virtù teologali e morali
fino al grado eroico e che per sua intercessione Dio abbia operato miracoli; accerta,
dunque, che possa essere un modello per tutti i cristiani e che possa intercedere per
loro[40]: l’immagine dipinta sullo stendardo allude allo statuto celeste del santo
canonizzato, lo configura come oggetto di devozione mediante una rappresentazione
slegata dalla contingenza della sua umanità e persino dalla illustrazione delle
circostanze in cui egli si fa strumento di Dio, come sono invece gli episodi di vita e
miracoli nei quadri della chiesa. Si legge infatti, nella relazione francescana, che
«portato attorno per la città» lo stendardo deve «dare a conoscere qual fosse per
essere il rimanente dell’altre pitture» – quelle dell’apparato dunque – «che a quello
dicevano una tale quale subordinatione, come fosse statto un compendio di tutti li
misteri, che si dovevano esprimere»[41].
Il meccanismo processionale, inoltre, fa sì che sia il simulacro del nuovo santo ad
andare in mezzo al popolo senza aspettare che la gente si muova per andare in
chiesa, nel centro dei festeggiamenti. Che i cittadini si accostino alla processione o che
se ne ritraggano, sono comunque raggiunti dalla sollecitazione alla pietà: la comparsa
del santo, con tutto il portato affettivo che la tradizione cristiana riconosce alle
processioni, tocca i cuori. Il «vaghissimo apparato» richiede invece che i cittadini
decidano di recarsi volontariamente a vederlo; ed è concepito per tanto come
un’attrazione. Fatta per eccitare «la veneratione», di solito la processione viene
indetta il primo giorno dell’ottavario così da disporre i fedeli a una più edificata
«ammiratione per la singolarità» della «insolita pompa»[42], il teatro allestito in
chiesa appunto, che nella festa non è il polo della devozione e della invocazione, ma
quello del diletto.
Con la processione dello stendardo la promotio ad cultum conosce un momento
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capitale.
5. Pur nella permanenza di strutture antropologiche e schemi rituali soggiacenti, come
le processioni, di segmenti liturgici e cerimoniali indispensabili alla esperienza religiosa
solenne, nell’impiego costante di materiali sempre disponibili agli usi spettacolari
barocchi, con le feste per la canonizzazione dei santi il XVII secolo registra la
formazione di un genere festivo nuovo.
Questa festa è festa straordinaria: non è una ricorrenza, non si identifica né con un
tempo ciclico né con un unico spazio costante e neanche con quella certezza del
‘ritorno a essere’ che è così tipica della festa calendariale e così fortemente
incardinata nella ripetizione conservativa che la sostanzia e le dà forma. Nel caso di
Milano, le solennità per la canonizzazione di Carlo Borromeo creano un precedente
importante, rispetto al quale si producono via via, in ciascuna festa, varianti anche
significative, che sorreggono la specificità dei contenuti, legati a ciascun santo in
quanto individuo, e le invenzioni, che esprimono la eccezionalità e la singolarità
dell’evento.
La reiterazione, tuttavia, non genera attesa nei cittadini. Guardiamo le date delle feste
milanesi di cui ho reperito le relazioni. Borromeo viene canonizzato nel 1610; Ignazio
e Xavier, con altri tre santi, dopo dodici anni, nel 1622[43]; l’italiano Andrea Corsini,
carmelitano, nel 1629, dopo sette anni; poi più niente a Roma ed evidentemente
neanche altrove. Quindi Tommaso da Villanova, festeggiato a Milano nel 1659,
trent’anni dopo il santo precedente; dopo dieci anni Maria Maddalena de’ Pazzi,
carmelitana, canonizzata nel 1669; e dopo due anni, nel 1671, Gaetano Thiene,
teatino[44]; quindi passano altri vent’anni prima di festeggiare Pasquale Baylon e
Giovanni da Capestrano[45]. Tra una festa e l’altra, i partecipanti possono essere gli
stessi, e in questo caso la percezione presente si può radicare nella loro memoria
dell’evento o degli eventi passati. Ma per lo più i partecipanti non saranno più gli
stessi: la canonizzazione crea un genere, ma non una tradizione propriamente
condivisa[46].
Ciò rafforza l’esigenza di mantenere affini queste iniziative con quelle consuete e
costanti della festa religiosa; ma d’altronde spiega anche l’accentuazione
dell’avventura progettuale da parte degli ideatori e la volontà di conquistare i sensi, la
fantasia, le menti, nel qui e ora della festa, senza alcuna dilazione. E certo, ad attrarre
i fedeli, non è secondaria l’indulgenza plenaria legata all’ottavario.
D’altra parte, invece, ciascuna festa può produrre una serie di tracce durevoli e
personali nello spettatore-fedele; tracce prodotte, prima durante e dopo la festa,
grazie a una serie di elementi che predispongono alla pratica interiore ed esteriore del
culto del santo e che vanno dai libri da meditare – come le edizioni della vita, i
panegirci a stampa e la relazione della festa (in quella di Capestrano e Baylon, per
esempio, la descrizione dei soggetti dei quadri è così meticolosa che il testo acquista
un contenuto agiografico pressoché assente nelle altre due relazioni[47]) – alla pur
non frequente conservazione dello stendardo e dei quadri della festa a scopo
devozionale[48]; e alla densa circolazione delle immagini di devozione a stampa, la
cui iconografia si forma proprio a partire dalla produzione pittorica che si accompagna
alla festa[49]; fino alla dedicazione e alla fondazione di chiese e cappelle; alla festa
liturgica annuale del santo, ai patronati, alla imposizione del nome del santo ai
bambini e così via.
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Ciò significa che nel corso del secolo, rispetto alla eccezionalità delle feste, quel che
predispone il popolo all’attesa dell’evento e alla partecipazione, ogni volta che esso si
verifica, non è tanto la festa in se stessa, pur reiterata con varianti secondo un
modello, quanto invece gli esiti liturgici e comportamentali, spirituali, istituzionali della
promotio ad cultum che delle diverse feste per la canonizzazione dei santi sono in
effetti lo scopo[50].
Nelle feste milanesi di santi spagnoli la Spagna è sempre presente attraverso i suoi
rappresentanti e, simbolicamente, negli apparati, sotto forma delle insegne della
corona: nelle descrizioni si può identificare con individui precisi, espressione dei
legami politici e istituzionali della Spagna con Milano, come nel caso dei dedicatari di
gesuiti e francescani, o della persona del governatore, la cui partecipazione, nella
relazione di Villanova per esempio, è richiamata di frequente e con evidente
attenzione. Ma per lo più, nonostante lo statuto politico di Milano nel ’600, non si
determina nelle relazioni un’accentuazione importante dell’appartenenza dei santi
canonizzati alla nazione spagnola. In queste, come in altre relazioni milanesi di santi
non spagnoli, il posto preponderante è assegnato al progetto della festa e alla sua
realizzazione, cioè a coloro che della festa sono gli autori: nel nostro caso i tre ordini
religiosi.
La descrizione fa emergere un altro primato, costante nella festa barocca, quello dei
luoghi: gli spazi, in quanto spazi trasformati, sono i veri protagonisti dell’offerta
festiva. La metamorfosi dei luoghi è segno strutturale di ogni festa, indizio visibile
della sospensione del tempo ordinario e della disposizione, ugualmente strutturale,
allo spreco, identificato con l’apparato effimero, indice dell’extra-ordinario; anzi qui –
in una festa unica, non ricorrente – indice dell’eccezione festiva, che esige di essere
distrutto, o disperso in un riuso che ne cancella l’eccezionalità, appunto, affinché
spazi, tempi e individui possano rientrare nell’ordine comune.
Ed essendo, spazi e luoghi, appartenenti alla famiglia religiosa del santo, ecco che ci
troviamo di fronte alla esaltazione concreta di tale appartenenza. Naturalmente ciò
riguarda anche le dinamiche e gli equilibri locali in cui opera l’ordine: il che risulta
evidente sia nella partecipazione dei diversi rappresentanti delle istituzioni civili ed
ecclesiastiche alla festa, che rivelano rapporti isitituzionali e preferenziali; sia nella
concorrenza eventuale tra gli ordini, adombrata per esempio nella vicenda della festa
francescana; sia nel peso che la presenza cittadina dell’ordine assume quando – come
risulta nel caso gesuitico del 1622 – i luoghi di pertinenza sono molteplici, e molteplici
sono anche i soggetti attivi, i membri dell’ordine e gli appartenenti alla società civile,
come gli scolari del collegio in questo, caso. C’è qui una doppia rappresentanza, che
corrisponde a una diversificazione dei luoghi festivi e delle qualità delle manifestazioni
spettacolari, che non ha confronti con le altre due feste.
Ciascuna città è luogo di esaltazione del santo e ciascuna città, anche Milano, la
Milano spagnola, non è che una tappa della propagazione di un culto che per essere
universale non si può identificare con nessuna città, se non in quanto essa è lo spazio
concreto della propaganda, che nella sospensione del tempo ordinario si presta –
proprio in quanto spazio noto alla collettività – a quella dinamica trasformazione fisica
dei luoghi e, in essi, dell’esperienza sensoriale e affettiva degli individui, che è il segno
condiviso della festa.
* Destinato agli Atti del convegno internazionale di studi Usos y espacios de la
imagen religiosa en la Monarquía hispánica del sglo XVII, Madrid, 7-9 febbraio 2005,
a cura di Pierre Civil, M. Cruz de Carlos, Felipe Pereda, Cécile Vincent-Cassy, Madrid-
10
Paris, Ed. de la Casa de Velázquez, di prossima pubblicazione.
[1] Cfr. Giuseppe Dalla Torre, Processo di beatificazione e canonizzazione, in AA.VV.,
Processo canonico, ad vocem in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano, Giuffré,
1987, pp. 931-943, e Id., Santità ed economia processuale. L’esperienza giuridica
da Urbano VIII a Benedetto XIV, in Gabriella Zarri (a cura di), Finzione e santità tra
medioevo ed età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 231-263, per la
disciplina giuridica di età moderna che regola beatificazione e canonizzazione a
cominciare da Sisto V, particolarmente con la costituzione della S. Congregazione dei
riti, preposta all’esame delle cause dei santi, e, poi nel XVII secolo, con gli interventi
di Urbano VIII seguiti da quelli di Alessandro VIII, Clemente IX e Innocenzo XI.
Christian Renoux, Canonizzazione e santità femminile in età moderna, in Luigi
Fiorani e Adriano Prosperi (a cura di), Storia d’Italia, Annali 16: Roma, la città del
papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtila,
Torino, Einaudi, 2000, pp. 731-738, dà conto efficacemente dei complessi esiti della
centralizzazione apostolica delle cause dei santi nel mutato contesto geo-politico della
Chiesa.
[2] Per i caratteri della festa secentesca cfr. Gino Stefani, Musica barocca. Poetica e
ideologia, Milano, Bompiani, 1974. Documenti delle cerimonie di canonizzazione e
delle feste romane a esse collegate in Maurizio Fagiolo dell’Arco e Silvia Carandini,
L’effimero barocco, I, contestualizzati nel vol. II. In prospettiva storico-artistica cfr. i
lavori di Vittorio Casale e in particolare Gloria ai beati e ai santi. Le feste di
beatificazione e canonizzazione, in Marcello Fagiolo (a cura di), La festa a Roma. Dal
Rinascimento al 1870, I, Torino, Allemandi, 1997, pp. 124-141, e Addobbi per
beatificazioni e canonizzazioni. La rappresentazione della santità, in Marcello Fagiolo
(a cura di), La festa a Roma. Dal Rinascimento al 1870, II: Atlante, Torino,
Allemandi, 1997, pp. 56-65, con proposte di classificazione degli elementi festivi e
attenzione anche alla diversità delle occasioni (beatificazione e canonizzazione, con le
rispettive celebrazioni a San Pietro e le successive solennizzazioni nella città di Roma).
In prospettiva teatrale il tema è solitamente accennato, ma senza approfondimenti
significativi, in molte ricapitolazioni sul ’600: per esempio in Franca Angelini, Teatri
moderni, in Alberto Asor Rosa (dir.), Letteratura italiana, VI: Teatro, musica,
tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 69-225; Ead., Barocco italiano, in
Roberto Alonge e Guido Davico Bonino (dir.), Storia del teatro moderno e
contemporaneo, I: La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino,
Einaudi, 2000, pp. 193-275; Silvia Carandini, Teatro e spettacolo nel Seicento,
Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 53-54, 184-185; Ead., L’effimero spirituale. Feste e
manifestazioni religiose nella Roma dei papi in età moderna, in Fiorani e Prosperi (a
cura di), Storia d’Italia, Annali 16, pp. 519-553. Brevi osservazioni rilevanti in
Renoux, Canonizzazione. Solo dopo aver ultimato la redazione del testo ho letto il
saggio di Martine Boiteux, Le rituel romain de la canonisation et ses représentations
à l’époque moderne, in Gábor Klaniczay (dir.), Procès de canonisation au Moyen
Age. Aspects juridiques et religieux, Rome, Ecole Française de Rome, 2004, pp. 327355, nella cui impostazione ho trovato vari elementi di convergenza con la prospettiva
della mia ricerca.
[3] Cfr. Fagiolo dell’Arco e Carandini, L’effimero barocco, II, passim; Renato Diez, Il
trionfo della parola. Studio sulle relazioni di feste nella Roma barocca. 1623-1667,
Roma, Bulzoni, 1986, particolarmente sul carattere retorico delle relazioni di feste.
[4] Cfr. Renoux, Canonizzazione, pp. 736-738. La canonizzazione di Diego di Alcalá
suggella l’alleanza tra santa sede e corona di Spagna e, al confronto con altre feste
11
solenni a essa collegate, è l’esempio più significativo del potere che la nazione
spagnola aveva assunto nella Roma papale; su questa canonizzazione, con la strategia
politica connessa al processo e alle feste romane, e su quella dei cinque santi spagnoli
canonizzati nel 1601 e nel 1622 cfr. Thomas J. Dandelet, Spanish Rome. 1500-1700,
New Haven-London, Yale University Press, 2001, pp. 170- 187.
[5] L’attività spettacolare, festiva e teatrale della Milano spagnola è ampiamente
trattata in Aannamaria Cascetta e Roberta Carpani (a cura di) La scena della gloria.
Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, Milano, Vita e pensiero, 1995.
[6] Cfr. An., Breve relatione delle solennissime feste, apparati, et allegrezze fatte
nella città di Milano, per la canonizatione de’ santi Ignazio Loyola fondatore della
Compagnia di Giesù, e Francesco Saverio suo compagno [...], Milano, Malatesta e
Piccaglia, 1622, pp. 3-4, 10 (d’ora in avanti Loyola e Saverio); qualche nota su festa
e relazione in Giuseppe Schio, Feste milanesi per la canonizzazione di s. Ignazio e di
s. Francesco Saverio (1622), in AA.VV., Milano nel III centenario della
canonizzazione di s. Ignazio di Loyola e di s. Francesco Saverio, Milano,
Stabilimento Tipografico L’Italia, 1923, pp. 16-19, 51-55, 81-86.
[7] Loyola e Saverio, pp. 3-4.
[8] Sulla proclamazione a San Pietro e le feste romane indette dalla Compagnia di
Gesù cfr. AA.VV., La canonizzazione dei santi Ignazio di Loiola fondatore della
Compagnia di Gesù e Francesco Saverio apostolo dell’Oriente. Ricordo del terzo
centenario. XII marzo MDCXXII, Roma, Grafìa, 1922, con documenti.
[9] Cfr. Angelo De Grossi, Relatione della festa fatta in Milano per la canonizatione di
s.to Carlo card. di S. Prassede, & arcivescovo di detta città, nell’anno 1610 [...],
Milano, Erede di Pontio e Piccaglia, [1610], pp. 23-24 (d’ora in avanti Borromeo):
l’autore di questa relazione è un gesuita (cfr. Angelo Turchini, La fabbrica di un santo.
Il processo di canonizzazione di Carlo Borromeo e la controriforma, Casale
Monferrato, Marietti, 1984, p. 12).
[10] Cfr. Stefano Della Torre e Richard Schofield, Pellegrino Tibaldi architetto e il S.
Fedele di Milano. Invenzione e costruzione di una chiesa esemplare, Como, Nodo
Libri, 1994. La chiesa di San Fedele, non dotata di campanile, a quel tempo è ancora
incompleta.
[11] Loyola e Saverio, pp. 5-6. Gli strumenti musicali citati sono quelli tipici delle
occasioni festive liete: cfr. Stefani, Musica barocca, pp. 15, 30-34.
[12] Cfr. Ottavio Secchi, Relatione delle feste fatte in Milano dalli pp. Agostiniani di
S. Marco per la canonizatione di s. Tomaso da Villanova, Pavia, G.A. Magri, [1659],
pp. 3-4 e Angelico Canevese, Il giardino di Milano, overo Descrittione dell’insigne
apparato fatto nella chiesa de’ Padri Riformati del Giardino di Milano per la festa
della canonizatione di santo Giovanni di Capistrano, e di s. Pasquale Baylon [...],
Milano, Federico Francesco Maietta, [1691], pp. 4-5 (d’ora in avanti Villanova e
Capistrano e Baylon).
[13] Loyola e Saverio, p. 5.
[14] La festa per i due santi sancisce il legame istituzionale tra la Compagnia di Gesù
e la città di Milano attraverso i suoi rappresentanti: cfr. Gianfranco Damiano, Il
12
collegio gesuitico di Brera: festa, teatro e drammaturgia fra XVI e XVII secolo, in
Cascetta e Carpani (a cura di) La scena della gloria, pp. 490-491.
[15] Loyola e Saverio, pp. 7-12, 23-24.
[16] Cfr. Fagiolo dell’Arco e Carandini, L’effimero barocco, II, p. 381.
[17] Loyola e Saverio, p. 23.
[18] Il legame fra musica e festa, con importanti osservazioni sul rapporto tra
percezione e affetti, è trattato ampiamente da Stefani, Musica barocca, in particolare
pp. 14-15, 21-22, e Id., Musica barocca 2. Angeli e sirene, Milano, Bompiani, 1987.
[19] Cfr. Fagiolo dell’Arco e Carandini, L’effimero barocco, II, pp. 7-10; Casale,
Addobbi, pp. 64-65.
[20] Loyola e Saverio, pp. 16-22. Qui impiegato in un’occasione religiosa, il trionfo è
formula tipica della festa del principe: cfr. Alessandro Pontremoli, Il teatro
dell’arcano: ritualità civile e cerimonia, in Alonge e Davico Bonino (dir.), Storia del
teatro, I, pp. 999-1004, con particolare riferimento alla Milano del ’600; e Claudio
Bernardi, La festa e le sue metamorfosi, in Alonge e Davico Bonino (dir.), Storia del
teatro, I, pp. 1108-1111.
[21] Cfr. Loyola e Saverio, pp. 24-29.
[22] Loyola e Saverio, p. 26.
[23] Loyola e Saverio, p. 16.
[24] Cfr. Damiano, Il collegio, e Giovanna Zanlonghi, Teatri di formazione. Actio,
parola e immagine nella scena gesuitica del Sei-Settecento a Milano, Milano, Vita e
pensiero, 2002, per l’attività spettacolare degli scolari gesuiti nella Milano spagnola e
il passaggio delle loro competenze retoriche nella cultura festiva.
[25] Villanova, p. 4.
[26] Cfr. Villanova, pp. 9-10.
[27] Villanova, p. 13.
[28] Villanova, p. 14. Cfr. Giovanni Pozzi, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, e
in particolare le pp. 205-275 per la «fioritura secentesca» della poesia figurata.
[29] Cfr. Andrea Battisstini, Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza,
Milano, Vita e pensiero, 2000, pp. 230 e 231, 234-237, dove la coerenza tra
concezione retorica e destinatari è osservata con riferimento alle strategie gesuitiche,
ma le osservazioni sono del tutto pertinenti anche al caso agostiniano in esame.
[30] Cfr. Stefani, Musica barocca, p. 10 e passim, che sottolinea come la molteplicità
unitaria dei segni in ogni frammento o segmento della festa, secondo il principio della
metamorfosi, e la molteplicità culturale e sociale dei partecipanti siano una
caratteristica fondamentale della festa barocca.
[31] L’uso di elementi naturali negli apparati effimeri è frequentissimo nella festa
13
barocca ed esplicitando il rapporto tra vero e artificiale ne è uno dei temi centrali: cfr.
Fagiolo dell’Arco e Carandini, L’effimero barocco, II, pp. 60-61, 163-166.
[32] Villanova, p. 14.
[33] Capistrano e Baylon, pp. [V], 6, 11.
[34] Cfr. Capistrano e Baylon, pp. 15-17.
[35] Capistrano e Baylon, pp. 15 e 17.
[36] Capistrano e Baylon, pp. [VI-VII].
[37] Capistrano e Baylon, p. [III], secondo frontespizio.
[38] Cfr. Capistrano e Baylon, pp. 9-11, 48-49.
[39] Capistrano e Baylon, p. 48.
[40] Cfr. Dalla Torre, Processo, pp. 932-933.
[41] Capistrano e Baylon, p. 10. Caratterizzato da una «atemporale iconicità» nella
cerimonia a San Pietro e nel trasporto processionale per le strade e nelle chiese di
Roma, lo stendardo è, fra tutte, l’immagine del santo che «tocca il livello massimo di
valenza simbolica» e ha un ruolo centrale, «quasi si trattasse di una reale presenza»:
Casale, Addobbi, p. 64. A Roma lo stendardo presente nel corso del rito di
canonizzazione è lo stesso della processione; non così nelle feste locali, dove
solitamente viene realizzato un nuovo stendardo, che pur senza il crisma di quello che
ha partecipato dell’atto compiuto dal pontefice in San Pietro, conserva del prototipo
(come nel caso dei francescani milanesi) il peso e l’importanza.
[42] Capistrano e Baylon, p. 48.
[43] Insieme con Filippo Neri, Isidoro di Madrid, Teresa d’Avila.
[44] Insieme con Filippo Benizi, Francesco Borgia, Luigi Bertrán, Rosa di Santa Maria.
[45] Insieme con Lorenzo Giustiniani, Giovanni di Dio e Giovanni da San Facondo.
Oltre a quelle dei santi canonizzati collettivamente e citati supra, nn. 43-45, fra i santi
canonizzati individualmente non ho rintracciato le relazioni eventuali delle probabili
feste milanesi per Elisabetta del Portogallo (1626) e François de Sales (1665).
[46] Il rapporto fra legislazione e feste di beatificazione e canonizzazione è da
valutare; tuttavia ritengo che neanche le eventuali feste per le beatificazioni possano
colmare la distanza talvolta notevole tra una festa per la canonizzazione di un santo e
l’altra: pur con elementi non dissimili, diversi sono la dimensione della solennità (un
triduo) e la portata dell’evento, alla base del quale, per i beati, c’è la sola concessione
del culto pubblico (vietato, secondo i decreti di Urbano VIII del 1625 e del 1634, in
assenza del provvedimento di beatificazione), limitatatamente ad alcuni gruppi di
fedeli e a determinati luoghi, in attesa della eventuale canonizzazione; mentre per i
santi, come si è visto, il culto è prescritto universalmente e indefinitamente a tutta la
cattolicità (cfr. Dalla Torre Processo; Id., Santità; Dominique Le tourneau, Dominique,
Cause di beatificazione e di canonizzazione, in Philippe Levillain (dir.), Dizionario
14
storico del papato, Milano, Bompiani, 1994, vol. I, pp. 282-287).
[47] Cfr. Capistrano e Baylon, pp. 17-46.
[48] Cfr. Casale, Gloria ai beati, p. 124. È il caso dello stendardo fatto eseguire dai
riformati milanesi: cfr. Capistrano e Baylon, p. 72
[49] Cfr. Casale, Gloria ai beati, p. 126.
[50] Non concordo con Casale, Gloria ai beati, p. 127, quando motiva «la peculiarità»
di questo genere di feste affermando che, a confronto con le altre, religiose o profane,
esse «non hanno un referente concreto, visibile, o storicamente accertato», giacché
«sanciscono un fatto (la proclamazione di un nuovo santo o beato)» che «non è poi
visibile» e «non può essere storicamente provato dal momento che si svolge nella
gloria del Paradiso, può soltanto essere proposto come una verità di fede»; e
aggiunge ivi, p. 140, a proposito di un dipinto raffigurante l’apparizione di Cristo a
Caterina Fieschi Adorno (proclamata santa nel 1737): «Sembra quasi impossibile che
si potesse riuscire a cavare effetti di verità e di naturalezza anche da soggetti tanto
“soprannaturali” quanto quelli di canonizzazione, ma è accaduto proprio così». Oltre al
fatto che questo punto di vista, se sostenibile, aprirebbe un interrogativo storico e
storiografico sull’intera produzione artistica cristiana, tutta la questione mi pare posta
in una prospettiva essa stessa anti-storica: non soltanto l’atto della beatificazione e
della canonizzazione compiuto dal pontefice è un atto giuridico, performativo, e perciò
stesso storico, ma storici sono tutti i passaggi che lo preparano (dalla fama
sanctitatis, generata dal popolo, al procedimento che di essa accerta la consistenza e
la coerenza con i criteri stabiliti), e storici sono gli esiti che ne dipendono, e che
costituiscono anche l’oggetto dell’indagine storiografica (dalle feste con gli apparati
effimeri, appunto, ai prodotti artistici fino agli esiti liturgici, devozionali,
comportamentali, anche nella lunga durata). Risulta molto opportuno, qui, quanto
precisato da Dalla Torre, Santità, pp. 231-232: i processi di beatificazione e
canonizzazione «non producono atti giurisdizionali sull’aldilà», vale a dire che «non
sono una promotio ad gloriam», bensì, «come ogni altra espressione del diritto
canonico», non possono che riguardare «la comunità ecclesiastica nella sua corposa
dimensione storica e sociologica», poiché «danno luogo ad atti giurisdizionali sulla
chiesa militante, in particolare a provvedimenti giuridici dichiarativi della santità e,
quindi, ad una promotio ad cultum».
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