La guerra come orizzonte e come rappresentazione1 Uno dei primi contributi della storiografia cinematografica contemporanea sul cinema muto italiano si intitolava Tra una film e l’altra.2 Com’è noto, il titolo gioca sul fatto che negli anni Dieci, nella nostra lingua, la parola “film” era di genere femminile. In quello stesso periodo, anche un altro sostantivo oggi maschile, “fronte”, era femminile: «Resta però inteso che gli ufficiali provenienti dalla fronte …», si legge ad esempio in una circolare del luglio 1916 del Segretariato generale del Ministero della Guerra.3 Quest’affinità tra il lessico bellico e quello cinematografico degli inizi del XX secolo, pur nella sua assoluta casualità, ci ricorda quanto abbiano in comune il cinema e il primo conflitto mondiale, entrambi al contempo agenti e prodotti della modernità novecentesca. Si tratta di una questione assai ampia che, per evidenti ragioni di spazio, in questa sede non può essere affrontata nella sua totalità. Perciò, ho scelto di concentrarmi esclusivamente su due questioni. Da un lato, lavorando sulle riviste di settore e su alcuni film esemplari, intendo analizzare le modalità con le quali l’industria del cinema italiano si confrontò con i principali nodi politici della stagione 1914-‘18: prima il dibattito tra neutralisti e interventisti, poi il contenuto ideologico che assunse la nostra partecipazione al conflitto europeo. Dall’altro, prenderò in esame la produzione di non-fiction, con particolare attenzione all’attività dalla Sezione Cinematografica dell’Esercito. L’industria del cinema italiano di fronte alla Grande Guerra: tra economia globale e nazionalismo L’Europa del giugno 1914 era un continente unificato da una fitta rete di trasporti e di scambi commerciali, che rendevano interdipendente una nazione dall’altra, e le 1 Ringrazio la Cineteca del Friuli, la Cineteca e il Dams di Bologna, il Museo Nazionale del Cinema di Torino, l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, che mi hanno generosamente permesso di accedere alle loro collezioni. Ringrazio anche Silvio Alovisio per l’attenzione con cui ha letto questo saggio e per i consigli che mi ha offerto in merito. 2 Cfr. Lino Micciché (a cura di), Tra una film e l’altra. Materiali sul cinema muto italiano 1907-1920, Venezia, Marsilio, 1980. 3 Circolare n. 7580G del 29 luglio 1916, conservata presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (d’ora in avanti AUSSME), E-2 fondo Comando corpo di Stato Maggiore – carteggio guerra mondiale, b. 24 (corsivo mio). 1 connettevano tutte al resto del pianeta. Molti studiosi usano esplicitamente il termine “globalizzazione” a proposito dell’assetto socio-economico internazionale di inizio Novecento. Tale assetto faceva apparire impraticabile l’ipotesi di un conflitto generale: la guerra sembrava destinata a estinguersi nel mondo “civile”, in cui avrebbe arrecato danni economici troppo gravi a tutti i contendenti, per venire relegata nella periferia barbarica dell’Europa (quei Balcani che, secondo Bismarck, non valevano le ossa di un solo granatiere della Pomerania), o nelle colonie (dove la ferocia degli eserciti occidentali era invisibile all’opinione pubblica metropolitana, e comunque giustificata in quanto parte del “fardello dell’uomo bianco”). Scrive in proposito lo storico David Fromkin, nella sua ricostruzione dello scoppio della Grande Guerra: Ancora più di oggi, era un’epoca di libero flusso di capitali e libero movimento di merci e persone. Uno straordinario studio del mondo aggiornato al 2000 ci dice che c’era più globalizzazione prima del 1914 di quanta ve ne sia oggi: «gran parte dell’ultimo quarto del XX secolo fu spesa semplicemente a recuperare il terreno perduto nei precedenti settantacinque anni». Scambio e interdipendenza economica e finanziaria erano tra le possenti forze che facevano apparire la guerra, agli occhi delle maggiori potenze europee, qualcosa di inopportuno e addirittura obsoleto.4 L’industria del cinema italiano era parte integrante di questo quadro economico, e non poteva essere altrimenti. Il nostro cinema, infatti, disponendo di un mercato interno relativamente ristretto (nel 1910 l’Italia aveva 34 milioni di abitanti, gli Stati Uniti 92, la Germania 64, la Gran Bretagna 45), era obbligato a fare affidamento sulla diffusione all’estero dei propri film.5 Sfogliando le riviste italiane di cinema della prima metà degli anni Dieci, dove compaiono regolarmente articoli in inglese e in francese, e le ditte dei paesi più diversi (dagli Stati Uniti alla Grecia) pubblicano le proprie inserzioni pubblicitarie, ci si rende immediatamente conto di quanto fosse densa la trama dei rapporti con i mercati stranieri. Sulla “Vita cinematografica” del 30 aprile 1912, ad esempio, la «L.A. Musso. Penshurts – SIDNEY – (Australia)» annuncia che «entrerebbe in relazione di affari con Case 4 David Fromkin, L’ultima estate dell’Europa. Il grande enigma del 1914: perché è scoppiata la prima guerra mondiale?, tr. it., Milano, Garzanti, 2005, pp. 22-23. 5 Sull’argomento cfr.: Riccardo Redi (a cura di), Cinema italiano muto 1905-1916, Roma, Cnc, 1991; Vittorio Martinelli (a cura di), Il cinema italiano in Europa. 19071929, Roma, Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema, 1992; Francesco Bono (a cura di), Cinema italiano in Europa 2. 1907-1929, Roma, Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema, 1995. 2 Cinematografiche Italiane per l’importazione dei loro prodotti», garantendo «corrispondenza in italiano, francese, inglese, tedesco».6 Sul numero del novembre 1914 della “Cinematografia italiana ed estera” – pubblicazione aperta al mondo sin dal suo titolo – la «Cooperativa Biografica di Buenos Aires» dichiara di voler «acquistare delle Rappresentanze di Fabbriche di Films per il Sud-America, come pure comprare Materiale Cinematografico».7 Sul numero del 30 gennaio 1915 della “Vita cinematografica”, invece, la Società Piemontese di Trasporti, che vanta succursali a Milano, Lione, Parigi e Londra, attesta di poter spedire pellicole cinematografiche in tutto il mondo, con consegna da Torino a Berlino in 72 ore, a New York in 12 giorni, a Rio de Janeiro in 22.8 Il collasso del sistema del commercio mondiale provocato dalla Grande Guerra avrà pesanti conseguenze sul nostro cinema. Se, tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915, le riviste italiane si collocano su posizioni neutraliste, non è soltanto perché queste testate sono fondamentalmente filo-governative (hanno salutato con entusiasmo l’impresa libica e, come vedremo tra breve, nel corso del “maggio radioso” si convertiranno rapidamente all’interventismo): la stampa cinematografica è pacifista anche perché teme, giustamente, la nefasta ricaduta economica delle ostilità sull’industria della celluloide. Nell’agosto del 1914, sulle colonne della “Vita cinematografica”, compare un ampio articolo del prof. Arnaldo Monti, il quale analizza dettagliatamente le cause della lotta tra Intesa e Imperi Centrali. Monti giustifica la spedizione in Libia del 1911, perché volta a «soggiogare un popolo di civiltà disuguale», ma condanna il conflitto europeo in quanto privo di «ogni motivo di carattere essenzialmente ideale, come, ad esempio, l’amore alla libertà, la viva aspirazione alla indipendenza, il nobile fine di scuotere un dominio di barbari».9 Secondo Monti, il risultato finale sarà un grave danno all’economia del Vecchio Continente («E molti commerci saranno irreparabilmente perduti, e molte industrie rovinate!»), compreso il settore cinematografico: Taluno forse crederà che il cinematografo si avvantaggi della guerra; potendo gli operatori audaci e coraggiosi, di cui non scarseggiano le grandi Case cinematografiche, ritrarre di sul vivo e dal vero spettacoli impressionanti, sensi ed 6 “La vita cinematografica”, n. 8, 30 aprile 1912, p. 17. “La cinematografia italiana ed estera”, n. 179-180, 1-30 novembre 1914, p. 22. 8 Cfr. “La vita cinematografica”, n. 4, 30 gennaio 1915, p. 42. 9 Arnaldo Monti, La guerra e il cinematografo, in “La vita cinematografica”, nn. 3031, 15-22 agosto 1914, p. 35. 7 3 emozioni di varia sorta; a seconda che le scene siano prese dal campo nemico o dall’esercito del proprio paese. Ma vi è una pregiudiziale… formidabile. Come non sono ammessi nel sèguito dell’esercito operante i giornalisti e i réporters, almeno nei primi tempi delle operazioni militari, durante le quali occorre tener gelosamente nascosti al nemico i movimenti dell’esercito combattente, così ne saranno esclusi a fortiori i cinematografisti; onde viene a mancare per questo rispetto il supplemento o fornimento di materiale al cinematografo che alcuni potevano presuppose o sperare. […] Venuta meno in causa della serrata delle barriere doganali, l’importazione delle materie prime delle films, molte Case delle più attive e più rinomate e di più largo giro d’affari, hanno dovuto chiudere i battenti o limitare il lavoro delle officine e licenziare una parte del personale. […] Dunque la guerra – bisogna confessarlo ed ammetterlo – anche per i cinematografi si risolve in un vero e proprio disastro.10 Nel momento in cui l’Italia entra in guerra, però, l’atteggiamento delle riviste muta in maniera rapidissima, e la contesa, da inutile strage, diviene una sacra missione. Su un numero della “Vita cinematografica” del luglio 1915 troviamo, a distanza di poche pagine, le pubblicità di due film interpretati dalla stessa attrice, Francesca Bertini: l’accostamento delle due immagini fornisce perfettamente il senso della subitaneità dello scatto patriottico dell’industria cinematografica italiana. A pagina 4 la Bertini, star di Ivonne, «la bella della “danse brutale”», è ancora la diva torbida e seducente dell’epoca prebellica, ma a pagina 6 ecco che compare in divisa da bersagliere, con in pugno il tricolore, in Viva l’Italia.11 Prima del conflitto, il cinema italiano si era rivolto a Gabriele D’Annunzio per realizzare la sua opera più ambiziosa, Cabiria (1914), e ora, nella frenesia delle giornate del “maggio radioso”, segue con entusiasmo il Vate, anche se l’interventismo dei redattori delle riviste cinematografiche sembra più di orientamento democratico che non nazionalista. Leggiamo sulla“Vita cinematografica”, nel numero del 22 maggio 1915: L’epoca delle tergiversazioni è finita; la parola spetta al cannone o alla penna sorretta dal cannone. […] Se mai guerra santa fu bandita dalle Crociate in poi, è questa che l’Italia condurrà in oggi. […] Questo è un conflitto di razze; il latino scuoterà il giogo teutone, non per asservirlo a sua volta, ma per mostrargli la via dell’espiazione e della redenzione negli ideali di pace perpetua con ingegni agguerriti ma con mani senz’armi.12 10 Ivi, pp. 38-39. Cfr. “La vita cinematografica”, nn. 26-27, 22-31 luglio 1915, pp. 4, 6. 12 Guido di Nardo, I cinematografisti italiani di fronte agli eventi della Patria, in “La vita cinematografica”, n. 19, 22 maggio 1915, pp. 43, 46. 11 4 Quello della “fratellanza latina” è un tema cardine dell’interventismo democratico, che considera naturale l’alleanza dell’Italia con la Repubblica francese, culla dell’illuminismo (qui evocato in maniera obliqua attraverso il richiamo alla “pace perpetua” di kantiana memoria) e della rivoluzione del 1789. Si riscontrano toni simili sulla “Cinematografia italiana ed estera”: «Che le patrie nostre [Italia e Francia] riescano presto vincitrici del comune nemico per l’umanità e per la civiltà».13 L’adesione del cinema italiano alle ragioni dell’intervento sarà ampia e duratura fino a Vittorio Veneto. C’è qualche eccezione, come ad esempio un articolo apertamente pacifista apparso sull’“Arte muta” a metà del 1916. Scrive Saverio Procida: «Chi sopravviverà allo sterminio, l’avrà dinanzi agli occhi, per molti e molti anni, quest’onta incancellabile verso il diritto di riproduzione della specie e verso il diritto di vita dell’umanità».14 Ma nell’insieme le riviste rimangono fedeli a Casa Savoia e all’esercito per tutto lo svolgimento del conflitto. E il sostegno alla causa non è fatto solo di film di propaganda, o di articoli che incitano alla lotta delle “razze latine” contro “l’unno”. Ci sono anche gesti più concreti. I dirigenti e gli impiegati delle diverse case di produzione, e delle stesse riviste, partono per il fronte. Sulla “Cinematografia italiana ed estera” del 31 maggio 1915, ad esempio, compare il seguente trafiletto: Mandiamo un fervido saluto, proprio con il cuore e l’anima tutta, al nostro validissimo ed incomparabile Cooperatore dell’opera nostra, nonché Amico senza pari, Tenente AURELIO DE MARCO, Vice Direttore e Procuratore del nostro periodico, il quale si trova al fronte [il sostantivo era sia maschile sia femminile] del valoroso nostro Esercito a difendere i conculcati diritti sacrosanti d’Italia.15 Oppure, non potendo vestire la divisa, c’è chi offre generosamente alla nazione il proprio sostegno economico. Era già accaduto durante la guerra di Libia. Si legge, ad esempio, su un numero del 1911 della “Vita cinematografica”: Plaudendo alla nobile iniziativa della stampa tutta, alla quale risponde con entusiasmo l’intera Nazione, anche noi apriamo una sottoscrizione, facendo non inutile appello al cuore degli amici, abbonati e lettori, affinché concorrano col loro – sia pur modesto – obolo, a questa opera di elevato patriottismo e di doveroso omaggio verso coloro che nel nome dell’Italia combattono sul suolo africano.16 13 “La cinematografia italiana ed estera”, n. 10, 31 maggio 1915, p. 24. Saverio Procida, Cinematografie di guerra, in “L’arte muta”, n. 2, 15 luglio 1916, p. 16. 15 “La cinematografia italiana ed estera”, n. 10, 31 maggio 1915, p. 25. 16 La nostra sottoscrizione a favore dei militari feriti in guerra e della Croce Rossa Italiana, in “La vita cinematografica”, n. 20, 15 novembre 1911, p. 15. 14 5 Segue un elenco di benefattori, tra cui il signor Ettore Colombo della Florentia-Film. Ovviamente, tanto nel 1911-’12 quanto nel 1915-’18, le donazioni da parte di produttori e divi cinematografici avevano una componente auto-promozionale: il cinema è un medium giovane, in cerca del sostegno dei ceti dirigenti, e mostrare il proprio patriottismo è un ottimo sistema per ingraziarsi la classe politica e l’intellighenzia. Ma, contrariamente alla spedizione coloniale del 1911, quella che l’Italia intraprende nel 1915 è una “guerra totale”, un tipo di conflitto dove l’intero corpo della società viene investito di compiti militari in senso lato. E, in tale contesto, il sostegno finanziario di un privato cittadino allo sforzo del paese in armi è pratica assai comune. Ovunque in Europa, tra il 1914 e il 1918, mentre i soldati combattono al fronte, i civili fanno la loro parte lavorando nelle officine dove si producono le armi o in altri settori vitali (trasporti, approvvigionamento, ecc.), risparmiando determinate materie prime, investendo nel prestito di guerra, una forma di “azionariato popolare” cui lo Stato deve ricorrere a causa dei costi esorbitanti dello scontro. E il mondo del cinema italiano collabora alla raccolta dei fondi, oltre che con donazioni dirette, anche realizzando film pubblicitari. Già nel 1915 viene distribuito Befana di guerra, un cortometraggio di 6’ di E. d’Angelo (la pellicola è conservata presso la Cineteca di Bologna), prodotto da L’Idea Films, un nome indicativo dello “spirito elevato” che muove l’azione della compagnia. Befana di guerra si apre con l’inquadratura di una bambina che, prima di andare a letto, prega accanto alla madre. Sopraggiunge la Befana, che reca dei doni per la piccola, la quale però risponde: «Buona Befana, portaci la Vittoria ed il papà». La Befana si reca in prima linea, dove si imbatte nella Vittoria, una donna in toga ed elmo romano, la quale, sotto una tenda, canta Fratelli d’Italia ad alcuni soldati. La Vittoria dice alla Befana che ancora non può venire, e consegna alla vecchia una calza “grigio-verde”. La Befana ritorna nelle retrovie, e, aggirandosi per città e campagne, riempie la calza con il contributo dei rappresentanti di tutti i ceti sociali: un gruppo di operai, due signori che abitano in un palazzo elegante, una famiglia di poveri contadini, nella cui casa spicca un ritratto del Re, come nell’appartamento borghese della bambina, a rimarcare la natura interclassista del sentimento patriottico. Sul muro di una strada campeggia il manifesto di propaganda del prestito di guerra, e la Befana arringa i passanti indicando il poster: «Affrettate la vittoria sottoscrivendo al “Nuovo prestito consolidato” ». Una folla di civili e militari, guidata dalla Befana, corre in banca a fare il proprio dovere finanziando lo sforzo bellico. La calza patriottica si 6 gonfia di soldi e si trasforma nello Stivale, cui per magia – con una mappa animata – si aggiungono le “terre irredente”: «E il gran sogno divenne realtà». A questo punto il papà torna a casa insieme alla Befana e alla Vittoria, per la gioia di moglie e figlia. L’inquadratura finale è tutta per la Vittoria, che benedice i soldati italiani che valicano la frontiera austriaca, i quali sono raffigurati come ombre di legionari romani. Sul piano stilistico Befana di guerra è assai simile ai cortometraggi di propaganda realizzati negli altri paesi dell’Intesa. Si tratta di un piccolo racconto morale, dove i personaggi interagiscono con figure allegoriche (la Vittoria in questo caso, Britannia nei film inglesi, Uncle Sam in quelli americani),17 e sequenze animate visualizzano le potenzialità dell’impegno dei cittadini (la calza che si riempie e diviene la mappa di una “più grande Italia”). E come nelle produzioni straniere, Befana di guerra presenta, inevitabilmente, un’impostazione ideologica di tipo interclassista: tutti devono offrire il loro contributo, ma in maniera proporzionale alle loro possibilità, tanto che gli operai e i contadini mettono delle monete nella calza, mentre i due borghesi vi infilano delle banconote. Per quanto riguarda la rappresentazione delle finalità della guerra, invece, il testo coniuga due prospettive differenti, dando conto della natura “strabica” della nostra partecipazione al conflitto europeo. Infatti, quella che Gian Enrico Rusconi chiama la ridefinizione degli interessi geopolitici italiani (abbandono della Triplice Alleanza per l’Intesa, con il fine di perseguire una politica espansionistica nei Balcani), avvenuta a cavallo tra il 1914 e il 1915, implica un progetto strettamente anti-austriaco (conquista di Trento e di Trieste, dominio sull’Adriatico) che, nel quadro dello scacchiere continentale, finisce col tradursi in una sorta di “guerra parallela” rispetto alle operazioni sul fronte occidentale.18 Non per niente, nel maggio del 1915, con grande sconcerto di Francia e Inghilterra, l’Italia dichiara guerra 17 Come osserva Miriam Hansen, la presenza di figure allegoriche in un film costituisce un tratto tipico del cinema primitivo (l’esempio preso in esame dalla studiosa riguarda la rappresentazione della Giustizia in un film di Porter del 1905; cfr. Miriam Hansen, Babel & Babylon. Spectatorship in American Silent Film, Harvard, Harvard University Press, 1991, p. 205). Tali personaggi, infatti, generano un “effetto tableau vivant” apertamente in controtendenza rispetto alla ricerca del verosimile tipica dallo stile classico. In questo senso, i cortometraggi di propaganda allegorizzanti della Grande Guerra rappresenterebbero una forma di sopravvivenza del Modo di Rappresentazione Primitivo all’interno della produzione della seconda metà degli anni Dieci. 18 Cfr. Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, Bologna, Il Mulino, 2005. 7 all’Austria-Ungheria, ma non all’Impero tedesco (compirà questo passo solo nell’agosto del 1916). Quindi, la propaganda italiana gioca su due tavoli: da un lato c’è la visione ristretta del conflitto quale compimento dell’opera risorgimentale, dall’altra c’è l’idea, comune a tutta l’Intesa (nonostante la presenza incongruente della Russia tra le proprie fila), della lotta in corso come di una crociata democratica contro il militarismo e l’autocrazia. Befana di guerra, in forme assai semplici, presenta questa dualità: c’è la mappa animata in cui all’Italia si aggiungono Trieste e il Trentino, concludendo così l’opera di unificazione nazionale avviata nel secolo precedente, però c’è anche la rappresentazione della guerra come lotta delle nazioni civili contro i barbari (la Vittoria in abiti classici che saluta il passaggio delle legioni romane). Ritroviamo questa dualità tra prospettiva localistica e respiro europeo in altri film italiani del 1915-’18, ad esempio La guerra e il sogno di Momi (1917), un mediometraggio di Segundo de Chomón. Il film (restaurato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino) racconta di un bambino che, colpito dai racconti bellici contenuti nella lettera del padre al fronte, dopo aver giocato alla guerra con due pupazzetti, si addormenta e sogna di un grande scontro tra soldatini. L’aspetto interessante della Guerra e il sogno di Momi consiste nel fatto che le due battaglie cui assistiamo nel film, la visualizzazione della lettera e lo scontro onirico tra soldatini (realizzato con la tecnica del passo uno: è il primo esempio di cinema d’animazione in Italia), sono tra loro diversissime, tanto sul piano militare quanto su quello ideologico. La guerra del padre di Momi, infatti, è una guerra assolutamente anacronistica: le trincee sono semplici terrapieni, i soldati avanzano liberamente nella terra di nessuno senza essere falciati dalle mitragliatrici o dall’artiglieria, il genitore del piccolo protagonista, un ufficiale, brandisce addirittura una sciabola, un’arma ormai puramente decorativa, che nel 1917 nessuno portava con sé in azione. Il “ritardo” di questo film rispetto alla novità della Grande Guerra non è affatto un caso isolato. Il cinema di finzione nel suo insieme, in Italia come negli altri paesi europei o negli Stati Uniti, è largamente incapace di rappresentare la modernità del conflitto in corso, e si affida a forme di rappresentazione di tipo ottocentesco, ispirate alle campagne napoleoniche o, per il nostro paese, a quelle risorgimentali. D’altra parte, è un ritardo culturale che va ben oltre i confini dell’industria cinematografica: ancora negli anni Venti e Trenta, gli 8 storici militari, compresi quelli che sono stati nelle trincee, come il francese Pierre Renouvin, si ostinano a osservare il 1914-1918 attraverso le lenti del XIX secolo.19 Ma non tutto il cinema degli anni Dieci è cieco di fronte alla novità rappresentata dalla guerra tecnologica e massifica che si sta combattendo. Nella Guerra e il sogno di Momi, a fronte dell’arcaicità delle scene dal vero, la parte di animazione invece è iper-moderna: i soldatini, infatti, combattono con enormi cannoni, dirigibili, mitragliatrici, e persino gas (arma tabù, di cui i film dell’epoca non parlano quasi mai). E a questa contrapposizione tra le sequenze live action di sapore ottocentesco e la parte in stop motion di gusto novecentesco corrisponde anche una dualità nella rappresentazione del senso della guerra, che ci rimanda allo “strabismo” di cui dicevamo poco sopra. Quella del padre di Momi è la guerra anti-austriaca: l’ufficiale italiano e i suoi soldati salvano una povera contadina dallo stupro del nemico, avvisati dall’eroico figlio di lei, reincarnazione novecentesca dei “piccoli patrioti” risorgimentali. In realtà, non si dice mai esplicitamente che il nemico sia austriaco, però, per il pubblico italiano del 1917, quei soldati che minacciano “le nostre donne” (topos di tutta la propaganda di guerra, in ogni tempo e in ogni paese) non possono che essere al servizio della Casa degli Asburgo. La guerra dei soldatini, invece, dove si irride la Kultur e si condannano i bombardamenti degli Zeppelin sui centri abitati (un fenomeno sconosciuto in Italia, che riguardò solo Francia e Inghilterra), è la guerra “europea” contro i nuovi unni provenienti dalla Prussia.20 Ma torniamo ancora per un attimo a Befana di guerra. L’economia del testo poggia su di un pattern onirico-favolistico, dove la bambina giudiziosa che “preferisce i cannoni al burro”, prima di addormentarsi prega la Befana di portarle in dono la Vittoria. Come ha mostrato Antonio Gibelli, la figura del bambino patriottico costituisce un elemento cardine nella retorica nazionalista italiana degli anni Dieci: Nell’ottica del discorso nazionalistico il «bambino» non è solo una parte ma un prototipo del popolo, nel senso che il popolo viene considerato e di conseguenza trattato come un minore da educare, conquistare, sedurre, se occorre ingannare, per trasformarlo da punto di debolezza a punto di forza delle nazioni in competizione e in conflitto. Le pratiche politiche e culturali di conquista dell’infanzia e dell’adolescenza possono essere considerate per molti aspetti come un modello di quelle di manipolazione delle masse. E la nazionalizzazione dell’infanzia come un fattore 19 Cfr. Antoine Prost e Jay Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Éditions du Seuil, 2004. 20 Per un’analisi più approfondita della Guerra e il sogno di Momi mi permetto di rimandare al mio Il disegno armato. Cinema di animazione e propaganda bellica in Nord America e Gran Bretagna (1914-1945), Bologna, Clueb, 2000, pp. 54-60. 9 decisivo della nazionalizzazione delle masse: sarà la Grande Guerra a saldare i due aspetti, assimilando i bambini al popolo delle trincee e viceversa, sino a farne una specie di equazione.21 L’organizzazione del racconto della Guerra e il sogno di Momi, che si conclude con l’immagine di Momi e sua madre che pregano per una «Pax vittoriosa», è piuttosto simile a quella di Befana di guerra: in entrambi i film la cornice esterna è dominata dalla presenza di un bambino, che diviene «metafora concentrata di tutto ciò per cui si combatte e si muore».22 Lo schema delle avventure oniriche di un bambino che alla fine si sveglia deriva chiaramente dalle strisce di Little Nemo di Winsor McCay, e trova una discreta diffusione nell’Italia della Grande Guerra: prima della Guerra e il sogno di Momi escono Il sogno del bimbo d’Italia (1915) di Riccardo Cassano e Il sogno patriottico di Cinessino (1915) di Gennaro Righelli. Questo pattern bipartito – cornice esterna/realtà vs. racconto interno/sogno – è declinato anche in chiave non infantile. Ad esempio, Mariute (1918) di Eduardo Bencivenga (conservato presso la Cineteca di Bologna) narra di Francesca Bertini, nei panni di se stessa, la quale, suggestionata dalle parole di un collega in licenza dal fronte, sogna di essere una contadina friulana che abita nella zona occupata, la quale viene violentata dagli austriaci (anche se, come nella Guerra e il sogno di Momi, non si nomina esplicitamente l’Austria, e le uniformi dei “barbari stupratori” sono di fantasia). Risvegliatasi dall’incubo, Francesca Bertini si sente pervasa da novello spirito patriottico e si presenta in orario sul set, dopo che, all’inizio del film, l’avevano vista perdere tempo in casa e arrivare al lavoro con ore di ritardo. Il messaggio è chiaro: nel contesto della guerra totale, tutti, persino le dive del cinematografo, devono fare il loro dovere con scrupolo. Inoltre, Mariute sottolinea che la nostra è una guerra difensiva. La propaganda italiana – contro la realtà dei fatti – si era mossa in questa direzione sin dal 1915, forse anche per rispondere allo scarso fervore bellicista di buona parte della popolazione. Nella più famosa canzone patriottica italiana della Grande Guerra, il Piave mormora «non passi lo straniero», anche se nel maggio 1915 sono i nostri soldati gli aggressori. Ma Mariute esce dopo Caporetto, e a questo punto la guerra dell’Italia è veramente difensiva. In tal senso, anche la morale interclassista del film, simboleggiata dal doppio ruolo (ricca attrice e 21 Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005, p. 4. 22 Ivi, p. 15. 10 umile paesana) della Bertini, ha una sfumatura diversa rispetto a quella di Befana di guerra, dove quel messaggio aveva tutta l’astrattezza della rappresentazione ideologica. Mariute viene realizzo quando la nazione, sull’orlo della catastrofe, ha finalmente trovato la propria unità contro un nemico che sembra poter vincere: l’esercito italiano è aggrappato con disperata determinazione alla linea del Piave, le voci di dissenso tacciono e persino i socialisti sostengono lo sforzo bellico. E allora Francesca Bertini, al contempo se stessa e altro da sé, borghese e contadina, incarna perfettamente l’intima contraddittorietà dell’union sacrée, della conciliazione temporanea tra destra e sinistra, tra capitale e lavoro, un ossimoro, certo, ma anche una realtà vissuta con convinzione dal paese. Constatando la sostanziale arretratezza della rappresentazione della guerra propria del cinema degli anni Dieci, rispetto alla novità della battaglia novecentesca, Gian Piero Brunetta individua giustamente in Maciste alpino (1916) uno dei film italiani più “moderni”, un’opera che costruisce un raffinato equilibrio tra favola (le scazzottate di Maciste, che trasformano la guerra in gioco) e propaganda.23 Nella pellicola (restaurata, come Momi, dal Museo Nazionale del Cinema di Torino) diretta da Luigi Maggi e Romano Luigi Borgnetto, lo schiavo dalla forza prodigiosa di Cabiria viene arruolato negli alpini, il corpo del nostro esercito più legato alla tradizione popolare, in quanto i suoi battaglioni venivano reclutati su base regionale. Il nesso tra Maciste e la cultura popolar-regionale è sottolineato apertamente. Non solo Maciste pronuncia qualche battuta in dialetto piemontese («Tira nen, bôrich!», ossia «Non sparare, asino!», grida a una sentinella italiana che lo ha scambiato per un nemico), ma la sua fame inestinguibile e la scena in cui si porta i bambini nella gerla (un motivo iconografico tipico della maschera di Arlecchino) rimandano allo Zanni della commedia dell’arte.24 Però, a ben guardare, questo Maciste con la penna nera non appartiene veramente alla cultura degli alpini, che, in virtù della sua matrice montanara, è fatta di obbedienza e di stoica sopportazione della fatica. Maciste non sa star fermo, è sempre in movimento e agisce di sua iniziativa, senza aspettare gli ordini dei superiori. In tal senso, come ha osservato acutamente Monica Dall’Asta, Maciste sembra piuttosto 23 Cfr. Gian Piero Brunetta, Cinema e prima guerra mondiale, in Id. (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. I: L’Europa. 1. Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, pp. 267-268. 24 Sull’iconografia di Arelecchino che porta i figli nella gerla vedi Ambrogio Artoni, Il teatro degli Zanni. Rapsodie dell’Arte e dintorni, Genova, Costa & Nolan, 19992. 11 un’anticipazione della figura dell’ardito, che tanta parte avrà nell’ultima fase della guerra (le prime unità di arditi vengono formate nel 1917) e, soprattutto, nella sua rappresentazione da parte della propaganda.25 L’atletismo e l’irruenza di Maciste sono più in sintonia con il dinamismo di queste truppe d’assalto che non con la compostezza valligiana degli alpini.26 Gli atteggiamenti “ginnici” di Maciste possono essere letti in chiave tutta italiana, come influenze futuriste, che così farebbero di Maciste una sorta di proto-fascista.27 Sport e futurismo sono strettamente legati, e l’inquadratura di Maciste a petto nudo che si lava con la neve sembra quasi anticipare l’iconografia mussoliniana.28 Ma le scene di Maciste che fa a pugni, corre, scala le montagne, possono essere interpretate anche in altro modo: non come annuncio del fascismo italiano, bensì come segno di un interesse per lo sport diffuso in tutta Europa negli anni Dieci, una passione che, nel 1914-‘18, si salda strettamente con la guerra. Si tratta di una sintesi simboleggiata perfettamente dal famoso episodio – autentico o meno, poco importa – dell’ufficiale inglese che, sulla Somme, esce dalla trincea calciando un pallone da football. Prima del conflitto, gli sport invernali godettero ovunque di grande popolarità, e questo spiega i tassi di reclutamento più alti nei reparti di fanteria di montagna (accanto, o contro, i nostri alpini, ci sono gli Chasseurs Alpins francesi e i Kaiserjäger austriaci).29 Maciste è alpino anche perché è un divo del cinema europeo, perché è un eroe dei “film dei forzuti”. Insomma, da un lato questo Maciste in grigio-verde è un personaggio tutto italiano, all’incrocio tra cultura contadina e fascismo in formazione, dall’altro è una star internazionale. Tutto il cinema italiano della Grande Guerra è in bilico tra 25 Cfr. Monica Dall’Asta, Un cinéma musclé, Crisnée, Éditions Yellow Now, 1992, pp. 63-74. 26 Sugli stereotipi dell’alpino e dell’ardito nella propaganda bellica italiana si veda Gianni Oliva, Spirito di corpo: media, associazionismo e autorappresentazioni della comunità militare, in Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano (a cura di), Guerra e Mass Media. Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, Napoli, Liguori Editore, 1994, pp. 61-74. 27 Sono di questa opinione sia Monica Dall’Asta (vedi il volume citato alla nota 25) sia Giovanni Nobili Vitelleschi: The Representation of the Great War in Italian Cinema, in Michael Paris (a cura di), The First World War and Popular Cinema. 1914 to the Present, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1999, p. 167. 28 Sul rapporto sport/nazionalismo/futurismo durante la Prima guerra mondiale si veda Sergio Giuntini, Lo sport e la Grande Guerra, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 2000. 29 Cfr. Hew Strachan, La prima guerra mondiale. Una storia illustrata, tr. it., Milano, Mondadori, 2005, p. 147. 12 localismo e mercato globale, tra contenuti nazionalistici della propaganda bellica e vocazione cosmopolita della nostra industria cinematografica. Se in Momi e Mariute il nemico non ha una precisa collocazione geografica (è genericamente il “barbaro stupratore”), è anche perché questi film devono poter essere esportanti negli altri paesi dell’Intesa e in quelli neutrali, e quindi non devono avere una connotazione eccessivamente italiana. Nel “maggio radioso” il nostro cinema aveva sposato con slancio le ragioni dell’interventismo, benché l’ingresso in guerra andasse contro i suoi interessi economici. Ma tra il 1915 e il 1918, nonostante tutto, i produttori italiani cercano di continuare a ragionare in termini internazionali, realizzando prodotti che possano andare incontro anche ai gusti del pubblico straniero. Il cinema di non-fiction e l’opera della Sezione Cinematografica dell’Esercito Tra il 1914 e il 1918, in tutta Europa, mentre negli studi cinematografici si è intenti a mettere in scena una guerra di fantasia, gli operatori di attualità cercano di raggiungere il fronte per riprendere le battaglie vere, e gli stati maggiori organizzano, più o meno velocemente (in Francia nel 1915, in Italia nel 1917), delle strutture per registrare su pellicola le imprese delle proprie forze armate. La storia del cinema di non-fiction italiano durante la Grande Guerra si divide sostanzialmente in due momenti nettamente distinti. Tra il maggio del 1915 e la fine del 1916 sono solo i dipendenti delle compagnie torinesi e romane a recarsi in trincea, mentre il Comando Supremo gioca un ruolo puramente negativo, esercitando uno stretto controllo censorio su quantità e qualità delle immagini riprese dai civili. Nella seconda fase, invece, che va dal gennaio del 1917, quando viene creata la Sezione Cinematografica dell’Esercito (SCE d’ora in avanti), sino alla cessazione delle ostilità nel novembre del 1918, l’istituzione militare assume un ruolo positivo, cercando anzi di ottenere il monopolio della rappresentazione cinematografica della guerra in corso. In realtà, tra le prime testimonianze cinematografiche della nostra partecipazione alla Grande Guerra non ci sono delle immagini riprese sull’Isonzo, bensì a Roma. Si tratta di un cortometraggio di 8’ della Comerio Film, La grande giornata storica italiana: 20 maggio 1915 (1915), conservato dalla Cineteca del Friuli. Il film gravita attorno alla solenne sessione parlamentare in cui si discute dell’ingresso dell’Italia nel conflitto. Il Presidente del consiglio Salandra tiene un discorso ispirato al centro di un’aula gremita: «…che la bandiera italiana sventoli vittoriosa sulle Alpi e sul mare», recita il cartello. Ministri e onorevoli entrano ed 13 escono dal palazzo di Montecitorio. Le didascalie ci indicano i personaggi di maggior spicco: il premier, il ministro degli Esteri Sonnino, quello della Guerra Zuppelli, ecc. Dirige il traffico delle personalità un imponente usciere con grande pizzo bianco, bicorno e mazza da tamburo maggiore, metà pazzariello napoletano e metà Emil Jannings “ultimo uomo”. Alla fine, il re al balcone saluta i cittadini plaudenti. Il film si attiene alla versione ufficiale: la nazione, sotto la guida sicura del governo e di Casa Savoia, è compatta, entusiasticamente favorevole all’intervento. I neutralisti – e sono molti nella primavera del 1915 – non ci sono. Non si vedono i dirigenti socialisti, né Giolitti. Inoltre, guardando La grande giornata storica italiana si ha l’impressione che il luogo della decisione sia il parlamento, là dove, di fatto, il processo politico che porta all’ingresso in guerra dell’Italia vede una sostanziale esautorazione delle camere, in quanto «come luoghi di elaborazione e diffusione delle scelte si affermano piuttosto sedi e strumenti extraistituzionali: entrano attivamente in gioco la stampa ed anche, in certo modo, la piazza».30 E Comerio ci mostra la piazza interventista: la folla che inneggia alla guerra al termine del cortometraggio. Si tratta di una massa fatta unicamente di borghesi in colletto rigido e paglietta: i contadini e gli operai che quella guerra dovranno combattere, e che sono molto meno entusiasti delle novità politiche, sono relegati fuori campo. Questa dialettica tra visibile e invisibile, tra detto e non detto, è al centro di tutta la produzione di non-fiction della Prima guerra mondiale, in Italia come negli altri paesi. Da un lato ci sono la censura e l’obbligo di fornire un’interpretazione degli eventi bellici in linea con quella delle autorità. Ad esempio, i morti non si vedono quasi mai; non solo i “nostri” morti, ma neppure i “loro”. Durante entrambi i conflitti mondiali, infatti, le autorità tendono a non mostrare immagini fotografiche di corpi senza vita, perché ritenute troppo scioccanti per il pubblico civile.31 Allo stesso modo, si occultano le armi considerate “inumane”, come i gas. Dall’altro lato, oltre che politici, gli ostacoli alla visione sono anche tecnici: la guerra moderna è troppo veloce e frammentata perché le macchine da presa degli anni Dieci, ingombranti e prive di zoom, possano darne conto compiutamente. E allora ciò che compare sullo schermo è l’immagine straniante della terra di nessuno deserta: un territorio lunare dove gli unici 30 Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, Storia d’Italia nel secolo 20°, vol. II: La Grande Guerra 1914-1918, Firenze, La Nuova Italia, 2000, p. 87. 31 Sul rapporto tra morte e fotografia vedi Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006. 14 segni di combattimento sono le nubi di fumo all’orizzonte, che indicano le esplosioni di un bombardamento in corso. Al posto dell’epicentro dello scontro, ci viene mostrata la sua periferia: le masse dei prigionieri avviate verso le retrovie, le posizioni dell’artiglieria lontane dalla prima linea. Oppure, vediamo le fasi di stallo: le autorità (re, generali, dignitari stranieri) in visita alle truppe, la vita quotidiana negli accantonamenti (il rancio, la distribuzione della posta, le attività ricreative). Quando si arriva alla battaglia vera e propria, in molti dei film della Grande Guerra c’è uno scarto incolmabile tra le affermazioni roboanti delle didascalie e il contenuto banale, ben poco elettrizzante, delle immagini. «Truppe d’assalto entrano in azione», annuncia un cartello di Ingresso degli italiani a Trento e Rovereto (1918), una produzione della SCE (la pellicola è conservata presso la Cineteca del Friuli), ma nell’inquadratura successiva non vediamo degli arditi che partono baldanzosi con il pugnale tra i denti, bensì un gruppetto di fanti in fila indiana che procedono con passo incerto sul terreno accidentato. Uno di essi si appoggia addirittura a un bastone. Ma anche se per il pubblico contemporaneo, che della battaglia è stato abituato a “vedere tutto” dalle istantanee scattate da Robert Capa in Spagna e in Normandia, o dai reportage televisivi del Vietnam (molto meno da quelli del Golfo), questi film spesso possono essere deludenti, in realtà essi fanno comunque emergere il senso profondo della guerra moderna, la novità bruciante di un conflitto tra nazioni industrializzate. La battaglia tra Brenta e Adige (1916) di Luca Comerio (conservato presso la Cineteca di Bologna), ad esempio, mostra i soldati italiani che mettono in posizione cannoni giganteschi e preparano enormi proiettili. Quando inizia il fuoco, i serventi sono relegati al margine dell’inquadratura, mentre al centro domina il mostruoso pezzo d’artiglieria. Si tratta di un tipo di immagine ricorrente nei documentari (italiani e non) della Grande Guerra, un’immagine che visualizza in maniera chiarissima la natura di questa nuova guerra, una guerra tecnologica dove l’uomo è schiacciato dalle macchine, messo a lato da terribili ingranaggi d’acciaio. La quantità degli oggetti (pile di proiettili, file di camion, teorie di bocche da fuoco) diventa il segno della natura titanica della cosiddetta “battaglia dei materiali”, un termine che inizia a essere utilizzato proprio sul fronte italiano.32 Nei filmati austriaci e tedeschi girati dopo Caporetto, la vastità della vittoria ottenuta è rappresentata in 32 Cfr. Hew Strachan, La prima guerra mondiale, cit., p. 240. 15 primo luogo dal volume di materiale che l’esercito in rotta si è lasciato alle spalle. E lo stesso faranno i nostri operatori a Vittorio Veneto. Ma a guardare con attenzione questi film, ci si rende conto che il cinema di non-fiction della Grande Guerra non si limita a mostrare la “periferia” della battaglia, e si scopre che la censura sugli aspetti più inquietanti del conflitto non è assoluta. In Da Capodistria a Fiume (1918), realizzato dalla SCE, ad esempio, si vedono i morti, austriaci e italiani. In un altro film della SCE (conservato, come il precedente, alla Cineteca del Friuli), In trincea (1917), ci sono le immagini, virate in rosso, di un attacco con granate incendiarie: spaventose esplosioni si abbattono su una terra di nessuno rossastra, dall’esplicito aspetto infernale. Subito dopo, i fanti italiani si lanciano all’attacco. Gli uomini escono dai camminamenti per affrontare il nemico, e nelle due inquadrature successive compaiono, rispettivamente, portaferiti che trasportano un uomo su una barella, e un cadavere. Il film, pur essendo stato realizzato da una struttura militare, è tutt’altro che reticente: non ci mostra una guerra asettica ed eroica, bensì una realtà brutale, dove la morte può cogliere i combattenti in ogni momento. In un film senza titolo della Cines, girato nel giugno-luglio del 1918 a giudicare dalle didascalie (e conservato anch’esso dalla Cineteca del Friuli), la battaglia appare altrettanto feroce: l’operatore ci mostra diversi cadaveri, uomini che corrono sotto il fuoco, un lanciafiamme in azione. E in Battaglia sul Piave (1918), sempre opera della SCE (e sempre conservato alla Cineteca del Friuli), c’è una scena in cui gli artiglieri italiani, con il volto coperto dalla maschera anti-gas, sparano proiettili contenenti gas asfissiante. Non è un caso che queste eccezioni rispetto alle regole censorie sull’esibizione dei cadaveri e sui riferimenti ai gas siano reperibili quasi solo in pellicole del 1918, ossia girate dopo Caporetto, quando la lotta è senza quartiere, e ci si fanno meno scrupoli a turbare gli spettatori. Ciò che invece il cinema italiano censura totalmente è proprio Caporetto. Nessun inviato osserva direttamente la rotta: «Le settimane di Caporetto furono giorni di paralisi professionale per i corrispondenti di guerra; allontanati dalle zone di operazioni, concentrati prima a Udine e poi trasferiti a Padova, essi restarono privi non solo di notizie ma anche impossibilitati a comunicare con i propri giornali».33 Meno che mai i cineoperatori hanno la possibilità di impressionare su pellicola il disastro dell’ottobre del 1917. Ma non solo non disponiamo di filmati italiani ripresi 33 Nicola della Volpe, Esercito e propaganda nella Grande Guerra, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1989, p. 25. 16 nelle settimane della disfatta: a Caporetto non si allude mai neppure nelle pellicole realizzate nel 1918. Caporetto viene letteralmente espunta dalla memoria cinematografica, quasi a simboleggiare la paura che quell’evento infondeva nelle autorità italiane, convinte – in buona parte a torto – che le masse popolari, al fronte o nelle officine, fossero inaffidabili, se non addirittura sul punto di “fare come in Russia”. E su Caporetto il silenzio rimane anche nei documentari post-bellici. In Gloria (1934), un film di montaggio prodotto ormai in epoca sonora, l’autore, Roberto Omegna, adeguandosi alla linea del regime fascista, non menziona neppure Caporetto: il racconto passa direttamente dal volo di D’Annunzio su Vienna alla battaglia del Piave.34 Persino i reduci orrendamente mutilati sono stati filmati. Nelle pellicole del fondo cinematografico dell’Istituto Ortopedico Rizzoli (disponibili presso la Cineteca di Bologna), uomini senza braccia, senza gambe, con il volto sfigurato, esibiscono le loro protesi di fronte all’obiettivo. Il film vuole convincerci che gli ex combattenti possono tornare a fare una vita normale. Ma nonostante, o contro, il tono rassicurante delle didascalie: quei corpi martoriati ci raccontano un’altra storia, ci dicono di una guerra terribile le cui ferite, letteralmente, non si possono rimarginare. Insomma, il cinema di non-fiction italiano riesce a misurarsi in maniera coraggiosa con la Grande Guerra in tutte le sue sfaccettature, anche le più spaventose, dai gas alle mutilazioni, ma non riesce a elaborare il lutto di Caporetto, perché – ha scritto Mario Isnenghi – quella battaglia perduta «continuerà a fare da inquietante contraltare al successo conclusivo di Vittorio Veneto, insidiandone la centralità: come una sorta di spina, di sospettosa delegittimazione interna».35 Sul piano formale, non ci sono differenze sostanziali tra i film della Comerio o della Cines, e quelli della SCE. Magari, nella Battaglia tra Brenta e Adige possiamo riscontrare qualche tocco “artistico” assente nelle pellicole della SCE. Ad esempio, ricorre diverse volte l’uso di un mascherino con due cerchi, a simulare il binocolo degli ufficiali che osservano lo scontro in atto: è un tipo di inquadratura che, dagli anni Trenta in avanti, diverrà un vero stilema del war movie, ma che negli anni Dieci 34 L’opera riutilizza i filmati della SCE, integrati con materiali provenienti da altri film, alcuni dei quali realizzati dal nemico (c’è, ad esempio, un frammento di Der magische Gürtel, un documentario tedesco del 1917 sulla crociera di un U-Boot nel Mediterraneo), ed è disponibile su un DVD prodotto dall’Istituto Luce. 35 Mario Isnenghi, La tragedia necessaria. Da Caporetto all’Otto settembre, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 56. 17 è assai rara, soprattutto nell’ambito del documentario. Oppure, possiamo ricordare l’immagine, piuttosto ricercata, dei soldati ripresi attraverso la culatta aperta di un pezzo d’artiglieria: gli uomini sono incorniciati da un anello di metallo, che sembra simboleggiare il predominio dell’acciaio sulla carne all’interno della battaglia tecnologica del XX secolo. Ma, nel complesso, i film realizzati dai militari e quelli prodotti dai civili presentano una sostanziale coincidenza sul piano dello stile di ripresa e di montaggio. Peraltro, questa affinità si spiega anche con il fatto che alcuni dei principali operatori di attualità italiani del periodo pre-bellico entrano a far parte della SCE.36 E per quanto riguarda il contenuto delle immagini vale più o meno lo stesso: le pellicole della SCE e quelle della Cines sono esplicite, oppure elusive, rispetto alla realtà della guerra, nello stesso modo. D’altra parte, l’attività delle case di produzione cinematografiche è controllata strettamente dalla censura militare, per cui non potrebbe essere diversamente. La grande differenza consiste nelle finalità dei due filoni del non-fiction. I film di Comerio, della Cines, e delle altre compagnie, sono di natura commerciale. Per quanto produttori e operatori possano essere animati da spirito patriottico, essi si muovono comunque nel quadro di un’impresa che deve produrre profitto; e benché i loro film siano, ovviamente, a contenuto nazionalista, queste pellicole non fanno parte di una campagna propagandistica orchestrata dallo Stato, come invece accade nel caso dei film realizzati dalla SCE, oppure dalla marina militare.37 Come abbiamo già accennato, nei primi due anni di guerra il Comando Supremo svolge unicamente un ruolo negativo, limitandosi a controllare il lavoro dei cineoperatori civili. Inizialmente nessun cineasta è ammesso al fronte (in altri paesi, ad esempio la Gran Bretagna, avviene lo stesso). Mentre i giornalisti, italiani e stranieri, visitano le nostre linee già nell’agosto del 1915, i primi, pochi, operatori ottengono i permessi solo l’anno 36 Cfr. Gian Piero Brunetta, La guerra vicina, in Renzo Renzi (a cura di), Il cinematografo al campo. L’arma nuova nel primo conflitto mondiale, Ancona, Transeuropa, 1993, p. 14. 37 Come spesso avviene nelle forze armate di tutti i paesi, in cui i diversi corpi sono in costante competizione reciproca, tra il 1915 e il 1918 esercito e marina italiani si ignorano l’un l’altra, conducendo di fatto due guerre separate (cfr. Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, Storia d’Italia nel secolo 20°, vol. II: La Grande Guerra 1914-1918, cit., p. 209). La marina mette in piedi una struttura di produzione cinematografica già nel 1916, come risulta da un articolo dell’“Arte muta” dell’autunno di quell’anno (cfr. Le «films» di guerra del ministero della marina, in “L’arte muta”, nn. 4-5, 15 ottobre15 novembre 1916, p. 39). Uno di questi film, La flotta e gli eserciti degli alleati a Salonicco (1916), è conservato presso la Cineteca del Friuli. 18 successivo. Sulla “Cinematografia italiana ed estera” del 15 marzo 1916 viene pubblicata un’inserzione pubblicitaria dell’Ambrosio che annuncia l’uscita di Alla fronte: la «prima grande film della guerra Italo-Austriaca autorizzata dal Comando Supremo ed eseguita col concorso dell’Autorità Militare. Essa non va confusa con altre pellicole, che non sono state eseguite sui campi dove gloriosamente combattono i nostri eroi».38 Alcune pagine dopo, un articolo menziona voci, smentite dalle autorità, circa supposte proteste delle altre case di produzione, che vorrebbero anch’esse avere la possibilità di filmare la guerra.39 Quei pochi che sono ammessi ad accedere alle prime linee vengono sottoposti a un controllo molto rigido. In una circolare del Servizio Informazioni del Comando Supremo del settembre 1917, ad esempio, si afferma che «propalare notizie diverse da quelle pubblicate nei bollettini ufficiali» porta direttamente di fronte al tribunale di guerra.40 Basta leggere le Norme del Comando Supremo Italiano per i corrispondenti di guerra, emanate nel luglio dello stesso anno, per verificare quanto la maglia censoria fosse stretta su film e fotografie. Ma dal nostro punto di vista, il passaggio più interessante di quel documento è la chiusura: «Le Ditte di cinematografia ammesse nella zona di guerra non potranno essere più di tre alla volta. Se il numero delle domande di pari data sarà maggiore, si procederà al sorteggio».41 L’esercito controlla la quantità, oltre che la qualità, dei film girati dai civili. La creazione, da parte dell’Ufficio Stampa del Comando Supremo, prima di un Reparto Fotografico (giugno 1916), e poi della Sezione Cinematografica (gennaio 1917; sarà chiusa al termine del conflitto, nel dicembre del 1918), sembra avere tra le sue finalità proprio la limitazione dell’azione dei civili: facendosi carico direttamente della produzione di immagini fotografiche, statiche e in movimento, di cui c’è una forte richiesta sociale nel paese, le forze armate possono escludere le ditte private (anche se non riescono a realizzare un monopolio completo, come dimostra, ad esempio, il film Cines del 1918 cui abbiamo fatto riferimento). 38 “La cinematografia italiana ed estera”, n. 5, 15 marzo 1916, p. 14. Cfr. Le “films” della nostra guerra. Il sollecito intervento del Comando supremo, in Ivi, p. 71. 40 Circolare del 14 settembre 1917, prot. 11884/S, AUSSME, E-2 fondo Comando corpo di Stato Maggiore – carteggio guerra mondiale, b. 66. 41 Norme del Comando Supremo Italiano per i corrispondenti di guerra, in Renzo Renzi (a cura di), Il cinematografo al campo, cit., p. 148. 39 19 A tale proposito è assai rivelatrice una nota dell’Ufficio Stampa dell’ottobre 1918, circa la richiesta dello Y.M.C.A. (che svolgeva compiti di edificazione morale e ricreazione tra le truppe americane) di realizzare delle riprese sul nostro fronte con operatori italiani. La risposta è negativa: «Nulla avrebbe naturalmente in contrario il Comando Supremo a che le films fossero prese da appartenenti alla Y.M.C.A. o, meglio ancora, se questa vorrà scegliere tra la numerosa produzione di questa Sezione Cinematografica quanto la interessi». Al fondo del documento dattiloscritto ci sono alcune osservazioni scritte a mano: «Colle cinematografie prese da Italiani privati bisogna andare molto cauti. […] Occorre essere assolutamente garantiti che nessuno vi speculi».42 Insomma, la diffidenza del Comando Supremo nei confronti delle case di produzione cinematografiche italiane non è dettata unicamente da ragioni di ordine censorio. Ci sono anche motivi politici: concedere a ditte private di filmare nelle trincee espone le forze armate all’accusa di agevolare una forma di “speculazione” sul sangue dei soldati. Come risulta da una dettagliata descrizione dell’assetto organizzativo dell’Ufficio Stampa redatta nel maggio del 1917, questa struttura, oltre a occuparsi della censura di giornali e cinegiornali, svolgeva attività di propaganda, in Italia e all’estero, attraverso una varietà di forme: opuscoli, conferenze, mostre, cartoline illustrate, fotografie, e film. Per quanto riguarda specificamente la SCE, si legge: La Sezione Cinematografica si compone di 4 squadre, ed è diretta dal Capitano Cav. Maurizio Rava, noto esploratore ed artista italiano. Le squadre sono comandate da un ufficiale tecnico-professionista (Tenenti BARRICELLI, PREVOST, MALERBA. Sottotenente BORGINI) e composte di militari di truppa, tecnici dell’arte cinematografica. Tre squadre operano alla fronte italo-austriaca, una squadra (S.T. Borgini) opera attualmente in Albania, (anche per quanto riguarda la produzione fotografica) e si trasferirà poi in Macedonia. Questa squadra ha già inviato una decina di films e numerose fotografie, già rese pubbliche, anche in dipendenza di speciale desiderio di S.E. il Ministro Scialoja di vedere intensificata la propaganda per mezzo della immagine, nei riguardi delle nostre operazioni nei Balcani. La Sezione Cinematografica provvede alla “presa” delle films, secondo le direttive del sottoscritto, in relazione agli intendimenti del Gabinetto di S.E. il Ministro Scialoja. Le films ottenute vengono inviate al Ministro Scialoja che provvede alla riproduzione (valendosi dell’opera della Società “Cines”) ed alla loro diffusione all’Interno ed all’Estero mediante speciali contratti, stipulati sotto la sua responsabilità. […] 42 Lettera del 6 ottobre 1918 dal Capo dell’Ufficio Stampa, colonnello Grossi, all’Ufficio Segreteria, prot. 13779, AUSSME, F-1 fondo Comando Supremo – vari uffici, b. 299. 20 Per quanto riguarda la produzione e la direzione tecnica del lavoro, tanto la Sezione Cinematografica quanto il Laboratorio Fotografico dipendono da questo comando. Per quanto riguarda la gestione amministrativa e somministrazione di fondi, la sezione Cinematografica dipende dal Gabinetto di S.E. il Ministro Scialoja. Il Laboratorio Fotografico provvede alla propria gestione con mezzi propri, ricavati dalla vendita delle fotografie.43 Dunque, a metà del 1917 la SCE ha quattro troupe, composte da ex cineasti reclutati ad hoc: tre squadre operano in Italia, una nei Balacani. Più avanti se ne aggiungerà una quinta, in Francia, al seguito del II Corpo d’Armata schierato sul fronte occidentale. La SCE, pur essendo un organismo militare, lavora in stretto rapporto con i civili. Il personale è dell’esercito, ma i fondi per la SCE provengono dal Sottosegretariato per la propaganda all’estero e per la stampa del Ministero dell’Interno. Per lo sviluppo delle pellicole ci si avvale dell’ausilio della Cines (ma i macchinari sono dislocati presso la SCE, come si evince dal carteggio relativo alla chiusura della stessa sezione),44 mentre alla distribuzione dei film sul territorio italiano provvede un ente civile, le Opere Federate di Assistenza Nazionale (una struttura mista pubblico/privato, in cui il volontariato patriottico si intreccia con l’azione di funzionari statali).45 La SCE dell’esercito produce sia documentari, di una lunghezza variabile tra i 350 e i 900 metri, sia un newsreel, il “Giornale di guerra”, di cui usciranno in tutto 32 numeri (come si ricava sempre dalle carte relative allo smantellamento della SCE), ognuno di pochi minuti. Diversi documenti conservati presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore attestano il vivo interesse che, nella fase finale del conflitto, il cinema desta presso i militari, come strumento di ricreazione, documentazione e propaganda. Nel settembre del 1918, ad esempio, il capo di stato maggiore della III Armata chiede all’Ufficio Stampa di organizzare una «rappresentazione di cinematografia, possibilmente a soggetti di carattere militare» per le truppe cecoslovacche (ex prigionieri dell’esercito austro-ungarico passati a combattere a fianco dell’Intesa) che 43 Relazione del capo dell’Ufficio Stampa del 15 maggio 1917, pp. 8-10, AUSSME, F-1 fondo Comando Supremo – vari uffici, b. 299. 44 Si veda la lettera del Sottosegretariato per la propaganda all’estero e per la stampa del 7 dicembre 1918, indirizzata al Capo dell’Ufficio Stampa del Comando Supremo, AUSSME, F-1 fondo Comando Supremo – vari uffici, b. 299. 45 Ringrazio Antonio Gibelli per le delucidazioni sulla natura delle Opere Federate. 21 celebrano la festa di San Venceslao.46 Ed è presumibile che tali festeggiamenti siano stati registrati su pellicola dalla SCE, visto che, negli stessi giorni, il colonnello Vitaliani della VI Divisione cecoslovacca chiede al Comando Supremo l’invio di un operatore per riprendere gli uomini del «corpo czeco-slovacco in Italia».47 Nei documenti relativi all’attività della troupe del II Corpo d’Armata in Francia, invece, si trova un memorandum di quattro pagine con l’elenco completo delle sale cinematografiche francesi che, tra il luglio e il settembre del 1918, hanno proiettato i film della SCE, con i relativi giorni di programmazione. Sempre nello stesso faldone (AUSSME, F-1 fondo Comando Supremo – vari uffici, b. 299) è presente un documento non datato (ma presumibilmente del 1918), intitolato Propaganda in America, dove si sostiene che, oltre ai conferenzieri, uno strumento particolarmente adatto a presentare il punto di vista italiano sulla guerra negli Stati Uniti è costituito dal film. Insomma, negli anni 1917-’18 il nostro esercito sviluppa una forte consapevolezza delle potenzialità del cinema come mezzo di intrattenimento e di propaganda, con una particolare attenzione ai paesi stranieri, dove le autorità italiane riescono a far circolare le proprie pellicole in maniera piuttosto capillare. Certamente, il passaggio, dopo Caporetto, dalla guida iper-conservatrice di Cadorna a quella più liberale di Diaz agevola la diffusione dell’uso del cinema, unitamente ad altre forme di propaganda e ricreazione per le truppe (il “teatro al fronte”, i giornali di trincea). Ma già prima della rimozione di Cadorna il Comando Supremo si interessa al cinema, tanto che, come si è visto, la SCE viene fondata nel gennaio 1917, quasi un anno prima di Caporetto. Contrariamente a un certa vulgata, che vuole le nostre forze armate cronicamente impreparate e inferiori a quelle delle altre potenze europee, per quanto riguarda l’uso del cinema l’esercito italiano dimostra di non essere in ritardo rispetto a quello francese o inglese. La SCE si presenta come un caso di fruttuosa sinergia tra struttura militare, apparato governativo (il Ministero dell’Interno), impresa privata (la Cines) e organizzazioni di volontariato (le Opere Federate). Tale sinergia simboleggia perfettamente la complessità della “guerra totale”, attestando la capacità del Comando Supremo italiano, almeno per quanto riguarda la propaganda, 46 Lettera del tenente generale capo di S.M. della III Armata, A. Fabbri, del 29 settembre 1918, prot. 1779 S.S., AUSSME, F-1 fondo Comando Supremo - vari uffici, b. 299. 47 Lettera del 25 settembre 1918, prot. 2387, AUSSME, F-1 fondo Comando Supremo – vari uffici, b. 299. 22 di adattarsi rapidamente e con successo alle condizioni, completamente nuove, e per molti versi inattese, di un conflitto prolungato tra paesi industrializzati. Giaime Alonge 23