La ripresa Il Cesena vinse due a zero Subito dopo il rastrellamento del 28 e 29 aprile, i fascisti, che si aspettavano una reazione a quanto era successo, rimasero in stato d’allarme. Tanto più che si era a ridosso del 1° maggio ed era prevedibile che i partigiani non si sarebbero lasciati scappare la data, senza dar luogo ad un’azione eclatante. In effetti il progetto c’era e si era cercato di metterlo a punto proprio nella riunione fatta a San Giorgio, la notte fra il 27 e il 28 aprile. L’idea era quella di violare nuovamente il carcere della rocca, per liberare due antifascisti che vi erano tenuti prigionieri. Il rastrellamento impedì l’attuazione del piano e costrinse la maggior parte dei comandanti della 29a Gap a mettersi in salvo, fuori dai confini del comune. I partigiani rimasti, impauriti da quanto era successo, privi di collegamenti e senza capi capaci di spronarli, non tentarono neppure di mettere in atto quelle piccole azioni simboliche, come l’affissione di volantini, scritte sui muri o l’esposizione di bandiere rosse, che, per quanto proibite, nel giorno della festa dei lavoratori erano ormai diventate usuali. Alla Boratella (...) ci portarono da mangiare. Noi eravamo in una casa disabitata. Donne venivano qua ci portavano da mangiare. Ma (...) tutto il ben di Dio! Loro lo sapevano che noi eravamo partigiani sbandati. Che la brigata si era sciolta e noi venivamo a casa. (...) Dopo, Luciano [Rasi], lui lo sapeva, mi ha portato qui, in una casa, qui su per l’Incona [via Ancona] (...) Sono stato lì otto giorni. La casa di un contadino. Di un compagno. Dopo, di lì, una sera mi viene a prendere. C’ero io solo. Mi porta lì in viale Mazzoni, nella casa del (...) conte Fabbri [Pio Teodorani Fabbri]. (...) vedevamo proprio la rocca lì davanti. Che noi, nientemeno, dovevamo andare il primo giorno di maggio... dovevamo andare su a mettere le bandierine alle piante. La bandiera rossa no? Dico “Ma scherziamo! Ma guarda che lì è tutto un lume!”. Avevano piazzato tutto il battaglione [“Venezia Giulia”] che erano [alloggiati] nella [caserma della] rocca. Tutti i fascisti che erano nella rocca li avevano messi tutto attorno al parco per vedere se andava qualcuno a mettere su delle bandierine. “No. No“. dico “Io ho portato a casa la ghirba e per mettere su la bandiera... Io vado in un altro posto...” (Guerrino Battistini - 1984) Si riuscì a fare qualcosa solo in qualche località di campagna poco controllata dai fascisti. 1. maggio - A Pontepietra la notte passata, festa del 1° maggio, hanno messo fuori bandiere comuniste e la falce e il martello impressi su porte e case. (Dal diario di don Pietro Burchi Gattolino) A Forlì le cose andarono un po’ meglio. Il clima generale era meno teso, tanto che alcune operaie si poterono permettere di andare al lavoro con nastri rossi tra i capelli e gli operai, si fermarono per una ventina di minuti. I partigiani riuscirono a portare a termine un’azione importante: penetrarono all’interno dell’aeroporto e distrussero 3 aerei S. 79. [Forlì] 1 [maggio] = All’alba sono apparse scritte antifasciste sui muri delle case di S. Pietro in Vincoli, Coccolia ed altre località, bandiere rosse sui pali e nei fili delle linee telegrafiche in S. Martino di Villafranca, contro le quali i militi della g.n.r. hanno sparato. Operaie della fabbrica Orsi Mangelli si sono recate al lavoro con nastri rossi nei capelli e giacchetto dello stesso colore. Grande vigilanza di militi e di polizia all’esterno delle officine e dei stabilimenti, sciopero bianco all’interno per una ventina di minuti o rastrellamento [rallentamento] dell’attività ordinaria. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) 1° maggio 44 - Forlì - Un G.A.P: Penetra nell’Aereoporto e mediante sabotaggio distrugge 3 velivoli S.79 (Dal Bollettino ufficiale n. 1 della 29a brigata Gap “Gastone Sozzi” - ANPI Forlì) I continui controlli, i posti di blocco e gli improvvisi rastrellamenti dei tedeschi per il lavoro obbligatorio, resero difficile, ai partigiani cesenati, anche riprendere i contatti fra di loro [Il] 10 Maggio il comando di Brigata stabilì un incontro a Cesena con il Commissario Politico della 29° G.A.P. Sergio Flamig[n]i, incontro che avenne alle ore 10 a Torre del Moro vicino al Ponte che attraversa la Via Emilia, partii dalla casa Base di Via Ex Tiro a segno con il Partigiano Casali Mario, quando si stava percorrendo la Via San Rocco in S. Mauro in Valle, ci imbattemmo in un gruppo di Tedeschi i quali stavano faccendo caricare del legname a dei cittadini, ci bloccarono costringendoci a lavorare, dopo cinque minuti, approfittando di un attimo di dissatenzione del mio guardiano, me ne scappai per i campi da solo, riuscendo a raggiungere il luogo dell’appuntamento senza ritardo sull’ora stabilita. L’incontro con Flami[g]ni, verteva sul problema di rafforzare il movimento gappista del centro, della diffusione del giornale “il fronte della Gioventù” e di intensificare l’azione gappista. La parola d’ordine per riconoscerci, era; per favore che ore sono, ed io risposi sono le 10. (Luciano Rasi – dattiloscritto 1984 ) In tutta la Romagna si era diffusa la paura causata dagli ultimi avvenimenti e la notizia della distruzione della brigata, che con il ritorno alle loro case dei sopravvissuti era diventata certezza, aveva depresso gli animi di tutti. ... arrivano [a casa] Livio [Venturi], Argeo [Venturi], imparo della morte di alcuni nostri compagni... Ritorna Gigi [Leopoldo Lucchi]... (Giorgio Ceredi - dattiloscritto 1984) I liberatori, erano ancora lontani, fermi sul fronte di Cassino, le sorti della guerra incerte e i fascisti dimostravano di essere ancora i più forti. A rendere più tragica la situazione giunse la notizia della la fucilazione, il primo maggio, di cinque partigiani a Bertinoro, come rappresaglia per l’uccisione di due fascisti caduti in uno scontro avvenuto la notte precedente. Poi, di lì a poco, quella della fucilazione di Carlo Sergio Fantini a Vecchiazzano, quella della morte di Werther Ricchi e ancora dell’uccisione di Guido Boschi, fucilato a Roversano da un gruppo di militi del battaglione “M. Venezia Giulia” e quella di un renitente a Bulgarnò. La vigilia del 1° maggio, a Bertinoro, un gruppo Gap è sorpreso da una pattuglia di Guardie del Duce, mentre affigge manifesti per commemorare il la festa dei lavoratori. Nello scontro restano uccise due guardie. Segue la rappresaglia dei fascisti. [Forlì] 30 [aprile] = Alcune cosiddette guardie del Duce di stanza a Meldola, salite in Bertinoro nella notte, unite al segretario del fascio locale, Renato Cortesi da Ravenna di anni 35, sono venuti in conflitto con elementi del fronte clandestino, intenti ad affiggere manifesti inneggianti al primo maggio; è morto a colpi di mitra la guardia Livio Giunchi, ferito in modo grave il Cortesi, di professione meccanico, che trasportato al nostro ospedale e sottoposto ad operazione è deceduto. Altre guardie salite da Meldola, pare al comando del tenente Giacinto Magnati (...) compivano subito una spietata rappresaglia, con il concorso e la guida di elementi locali, rilevando dalla loro abitazione prima tre poi altri due, le vittime designate, ch’erano fucilate al bivio della strada per Capocolle, fra le grida strazianti delle loro donne levatesi pure dal letto ed andate al seguito dei morituri. Ecco i loro nomi: Ezio Calboli di Adolfo, macellaio di anni 34; Giacomo Calboli di Pietro, detto “Mimo”, sottotenente dell’11^ Fanteria, agente di campagna del marchese Paolucci Ginnasi, di anni 28; Filippo Mangelli di Tommaso, bottegante di anni 61, con un figlio partigiano; Antonio Fusaroli [Casadei], di anni 61 ed il di lui fratello Gaetano Fusaroli [Casadei] di anni 53, con impiego in Milano ed ivi sfollato. Gli autori della strage sarebbero: Carlo Migliorati, csq., Ezio Mazza, Lucio Giunchi, fratello dell’ucciso, Gaspare Novaga, Antonio Imolesi detto “Bruno”. Violenze sono state compiute e ladrerie nelle case private, demolita con una bomba la porta di uno spaccio di generi alimentari all’ingresso della via principale del paese, vi erano asportati prosciutti, olio, cibarie, ed oggetti, incendiata l’osteria di un ricercato, la popolazione ha trascorso la notte nel terrore... Bertinoro aveva da poco superato un grave pericolo, causa l’uccisione di due tedeschi di ronda notturna nei pressi di villa Guarini, a mezzo di una bomba lanciata da uno sconosciuto. Il comando germanico aveva disposto subito una battuta per arrestare l’attentatore ed invece i mandati incontravano, poco lunge dalla Villa, quattro g.n.r. subito condotti alla villa Prati Savorelli in Bracciano. Ivi constatato che ad uno di questi mancava appunto una bomba nel tascapane, avendone due in luogo delle tre in dotazione erano addossati ad un muro per la fucilazione. Balenata all’improvviso al maresciallo tedesco l’idea che si trattasse di innocenti, otteneva di condurre gli arrestati in Forlì, ove erano rilasciati dopo l’interrogatorio, a questo contrattempo si dovette il mancato verificarsi di rappresaglie sanguinose e l’incendio di parte del paese. Giungeva poi lassù un capitano tedesco per un’inchiesta; accolto con grande riverenza, saporitamente servito di vivande e regalato di una damigiana di albana, l’ufficiale se ne tornava senza prendere alcuna misura di ritorsione. Anche la compagnia dei militi uccisi partiva: era stata questa una conclusione più unica che rara. [Forlì] 1 [maggio] = In Bertinoro, ove alle quattro di stamane sono avvenute le esecuzioni sommarie ricordate, le cinque vittime portate alle loro case, sono state poi dalla g.n.r. caricate su un autocarro e sepolte nel cimitero in fosse distinte come altrettanti cani. Volantini comunisti sono stati rinvenuti in una casa di colà; le diverse strade di accesso a Bertinoro sono bloccate. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) D’ora in poi, quando si pretende di scrivere di me, dovrà avvenire in modo da evitare equivoci a mio pregiudizio: io non affatto ”vidi mio padre ucciso e da allora imbracciai il fucile” (…) avendo io imbracciato il fucile (…) immediatamente dopo l’8 settembre 1943, come testimoniano tutte le azioni di guerra compiute prima del 1 maggio 1944, quando furono trucidati mio Padre e mio Zio dalla sbirraglia fascista bertinorese, come sta scolpito sul monumento eretto nel luogo della strage e fu sancito da sentenze transitate in giudicato dalle Corti d’Assise Straordinarie del tempo e dalle lettere che dalla prigione quei mostri scrissero alle famiglie delle loro vittime per invocare il perdono al fine di ottenere la liberazione condizionata. (…) [I fascisti di Bertinoro] quando si trattò di prelevare i cinque Martiri del 1 maggio 1944, mandarono avanti i mostri di Verona ed altri usciti dai riformatori, rimanendo essi acquattati, al buio, rasente i muri delle case dei morituri, come ebbe ad osservarli mia sorella, partecipando però allo svaligiamento del sale e tabacchi di Mercuriali Nino, sfuggito alla cattura dalla porta posteriore che dava sui campi, ed all’esecuzione dei cinque Martiri, facendo scempio del cadavere di mio Padre, fracassandogli il costato con una bomba a mano ed urinandogli dentro, accusandosi, poi, scambievolmente, quando caddero in mano alla giustizia partigiana. Dopo la mia partenza per gli Appennini, ogni visibile segno di resistenza cessò a Bertinoro e le cose andarono tanto di male in peggio che quell’unico compagno di Collinello che mi aveva accompagnato durante la scorribanda notturna nella casa del fascio, per requisire le armi dei mostri, si arruolò per fame nella decima Mas e finì in un campo di prigionieri di guerra in Algeria. (Da: Diario di un ex partigiano / Umberto Fusaroli Casadei. La Voce 3/7/2003) A Vecchiazzano Carlo Sergio Fantini, di 25 anni, autodenunciandosi, riesce a salvare la propria famiglia. [Forlì] 4 [maggio] = Tedeschi e militi hanno compiuto perquisizioni tra Ladino e Vecchiazzano; gli ultimi, qualificatisi per ribelli in cerca di armi e di aiuto, riusciti a scoprire armi in casa del colono Fantini in Vecchiazzano, volevano far strage della intera famiglia; uno dei tre fratelli, a nome Carlo Sergio, di anni 25, si dichiarava però unico responsabile ed era da essi fucilato nella carraia sotto gli occhi dei familiari. Gli altri due fratelli, uno dei quali percosso, ed alcuni accorsi agli spari venivano arrestati e tradotti alle carceri, un conoscente dei Fantini, ravennate, si gettava dall’autocarro e veniva condotto all’ospedale. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) 3 Maggio 44 - FORLI (Vecchiazzano) Azione nemica: in seguito alla denuncia di una spia i fascisti compiono perquisizioni in diverse case. Il giovane gapista Sergio FANTINI trovato in possesso di armi viene massacrato sul posto. Altri due Patrioti vengono arrestati. (Dal Bollettino ufficiale n. 1 della 29a brigata Gap “Gastone Sozzi” - ANPI Forlì) Il 4 maggio, muore Werther Ricchi, dopo un mese di agonia. A lui lo presero credo nel mese di aprile del ’44, se non mi sbaglio. Io so che quando lo hanno ammazzato eravamo nella cella n. 12 che eravamo in 5, a Forlì. (...) Quando han saputo [che fu ucciso] c’era Lunedei e io ero andato all’aria. E Arrivai dentro [che] piangeva. Lunedei Nazario, suo cugino. “J à mazè e’ mi cusen” e’ get. (Dino Amadori - 2000) 8 maggio 1944 - Nei giorni scorsi inoltre si è saputo che è deceduto nelle carceri un antifascista partigiano, Werther Ricchi. Pare che sia stato sottoposto a sevizie. Riferiscono che si sarebbe suicidato stoicamente in carcere per non parlare. Potrebbe anche essere stato ucciso. (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) ... perché se Werther Ricchi avesse potuto... che lui poverino si è quasi ammazzato di botte naturalmente, ma lui ha cercato di suicidarsi per paura che facessero... per paura di fare dei nomi. (Werther Ferrini) - 1983) Là dentro [all’Arrigoni] sapemmo che Werther era stato ammazzato in prigione, gli avevano schiacciato la testa fra due morse, lo sapemmo da [Quinto] Bucci. (Rina Caporali - dattiloscritto 1984) Il mattino del 5 maggio, a Roversano, è ucciso Guido Boschi, da una pattuglia di militi. Così viene descritta la sua morte in una segnalazione del comandante del presidio della G.N.R. di Cesena. Mattino 5 corr. mese, in Roversano di Cesena, militi del batt.ne “M. VENEZIA GIULIA”, in servizio perlustrativo, fermavano un certo BOSCHI GUIDO fu Domenico del 1923, renitente di Teodorano, il quale successivamente tentava di darsi alla fuga. Dopo intimato l’alt, predetti militi aprivano il fuoco, colpendo e uccidendo il BOSCHI. Cadavere, trasportato camera mortuaria cimitero di Roversano, in attesa di regolare seppellimento. (Segnalazione del tenente comandante il presidio GNR di Cesena. 6 maggio 1944 - ISRF 11/B1 0929) La morte di Guido Boschi, però, nasconde una vicenda più complessa, su cui il comandante del presidio preferì sorvolare. Il plotone a cui appartenevano i militi che lo uccisero, poco prima era stato preso a fucilate, mentre stava transitando per il vallone sottostante il paese di Roversano e due dei suoi uomini erano rimasti feriti. I militi, convinti di essere caduti in un’imboscata dei partigiani, si diressero immediatamente verso dove erano partiti i colpi e circondarono il paese di Roversano, con l’intenzione di appiccare il fuoco all’intero paese. Un gruppo di questi si imbatté casualmente in Guido Boschi. Fermato e identificato come renitente, fu ritenuto l’autore dell’attentato e immediatamente passato per le armi. In realtà, Guido era stato regolarmente esonerato dal servizio, perché aveva altri tre fratelli militari e si trovava a passare di lì solo per caso. Comunque, non fu certo lui a sparare sulla pattuglia, ma il milite della G.N.R. Romeo Colli, assieme ad un soldato tedesco. Non si sa perché lo fecero. Probabilmente scambiarono i militi per partigiani o, addirittura, pensarono a partigiani travestiti da militi, oppure, per semplice stupidità. Il mattino del 5 Maggio 1944 un plotone di militi M.M. di stanza a Cesena, composto di Slavi e triestini. Per ragioni sconosciute si portarono nel vallone del Rio Salato sotto la frazione di Roversano, sembra fossero per istruzione perlustrazione in cerca di patriotti. Furono visti dal milite Colli Romeo, in compagnia di un tedesco. Con gesto provocatorio il COLLI per fare [colpo] sul paesello, invitò il camerata tedesco di far fuoco sui militi dicendo sono ribelli; e da una finestra della sua abitazione, cominciarono tutti e due, fuoco accelerato. In un baleno, ne ferirono due. NON ci volle altro (…) Questi in breve arrivarono sul paese, e non valse il coraggio delle donne a denunciare, e indicare il carnefice COLLI, del suo atto criminale. Ma questi assetati di sangue umano come belve, vicino alle mura del cimitero incontrarono il povero GUIDO, il quale teneva in mano poche uova, andato in cerca della mamma ammalata. Due colpi di mitra lo freddarono, perciò signori del Comitato di L.[i]B.[erazione]N.[azionale] tenete conto di questo scellerato COLLI, il quale combatte contro la nostra martoriata Patria, lui e suo figlio maggiore ATTILIO. (Dalla Testimonianza di Mariani Secondo, Pieri Aurelio, Ceccarelli Sergio, Benini L. sull’assassinio di Guido Boschi. Roversano 6/9/1945 - Archivio di Stato di Cesena. Fondo CLN. Assistenza) Nel periodo di maggio si organizza nella nostra zona una grande rappresaglia, guidata da Colli Geremia e un tedesco. La notte del 3 maggio 1944. Colli e il tedesco, che aveva sto Colli invitato a casa sua, decidono di sparare per tutto il paese di Roversano. E colpirono persino una Madonna che era su un arco. Alla mattina del 4/5/44 si tentò la strage. Si spara da Roversano contro Montereale dove vi erano i fascisti della Decima Mas, ne ferirono tre, allora la reazione fascista cosa fece? Venne contro il paese di Roversano per bruciarlo e arrestarono Renzi Secondo e De Carli Antonio, poi lungo il percorso, vicino al cimitero, avevano preso un giovane, un certo Boschi Guido che fu trucidato subito lì nel portone del cimitero (...) Il Colli per questo fatto è stato condannato dal tribunale di Forlì a 22 anni di carcere che poi è stato rilasciato dopo poco tempo. (...) Noi come gruppo rimanemmo fermi, perché Paganelli [Leo, commissario politico del gruppo Gap di Roversano] disse “Stiamo fermi”. Anzi, nascondemmo quelle poche armi che in quei giorni lì riuscivamo ad avere. (Nando Mariani - 1984) U s’ è salvè propri par mirecul ‘Rvarsen! I l’eva da brusé in pin! (...) Me. Cioù! A s’era tra... E’ get la mi ma’ “Curì via! Curì via! Ch’j à mazè Guido!”. Me geva ch’l’era un ent (...) A saltet da cla finestra dla streda. Una bota int la streda e ‘d là u j era una siva, e pó ’d là u j era e’ gren e pó là só u j era un mi amigh. Andet a là só tra cla macia. (...) In qua in avnet gnent. Dop e’ vins só un de’ Treb. Parché la coipa la era la sua ‘d lou. A la nota i s’era imbariaghì. U j era un fasesta ch’e’ staseva a lè a Rvarsen e un tedesch ch’l’era cun lo. J eva fat una gran sbornia. J ev vest a vnì zò di suldè da là. Ch’i faseva istruzion. Lurit i taca a dì “I ribelli! I ribelli! I tachet a tirei in entar cun di fucil e, conclud, che in eva strupì tri quatar. Tena! “Siamo in mezzo ai ribelli...”. Me a santiva i rog da la finestra “Siamo in mezzo ai ribelli!”. “Mo ‘sai cumbiné?” E andesum a là só tra. Da lè, un pez, un silenzi. A vegn olta a ciamè la mama. “Andì via! Andì via chi à mazè... Duilio.” U j è ancora la lapide a lè (...) E lo i l’aveva lasè ca’ [dai militari] parché l’aveva djit trì fradel int i suldè e l’aveva la ma’... (Guido Pio Bartolini - 1998) Pio [Bartolini] l’é saltè via quant che nun avem santì... ves, a sparè là... lo u l’ saveva ch’l’era i fasesta. Parché i fasesta j era pasè int la nost’èra quand j è pasé [ch’j] andeva zó. La mi mama la j eva dè un bisin ‘d pida e ‘d salam, che a n’ l’avema gnenca par nun però... quist che que j era tot ragaztin ad diset zdot en, tot zuvan, zuvan, zuvan... I su chep j era grend zertament! E j eva ‘dmandè s’la aveva un po’ ‘d pida. E la j eva dè un po’ ‘d pida cun e’ salam (...) E lou j è ‘ndè d’in là. Quand j è turné indria. Che me a n’ e’ sò s’ j era zent [o] quant ch’i s’ fos. J era un moc (...) me an m’arcord... ò vest tot sti raghez, me a n’ sò andeda ad ciota mo a j ò vest. Quant j è arturnè d’indria. U j è la culena a lè da la nosta ca’, la j arvenza ad front, [loro] un bisin mench ad front j era, un bisin piò di front a e’ paes [di Roversano]. E lou j avniva zó tot a là... Quest che que [Romeo Colli], a la sera, st’oman l’aveva bbu, dis ch’l’era imbarigh, me a n’ e’ sò, l’era imbarigh e’ l’aveva sparè nench int la Madona, a Rvarsen. Che tot i geva “Sa suzidral ch’l’à sparé int la Madona?”. Una statuina dla Madona ch’la era sora a lè, e’ castèl ros. E lo u j aveva sparè in ent [e] la zenta j era tot spavanté. La matena, quest u s’ è svigé, u s’ ved ch’l’era ancora...u n’ avdeva lom, imbarigh. Al su doni a gli dis “E ven zó i partigen!”. “Sé, j avniva só csé a la verta j partigien! J era un po’ piò sveg!”. Me a panset, nench s’ a sema ragaz[t]in. (...) I cminzet a dì “I ven só i partigen...”. Acsé i geva, però me a n’ ò santì. A n’ e’ sò. Lou j à cminzì a sparè che avdema enca nun ch’i spareva. I cascheva a là che mai. A n’ e’ sò ad erma ch’l’aves me! I spareva int la mocia e i s’ avdeva ch’i s’ aruzleva. U n’avrà frì. A n’ e’ sò s’ u j è stè nenca di murt (...) E alora j è vnù só, des, e i circonda e’ paes. Nun, la nosta ca’ ch’la è un po’ in là, la è armasta ad fora. A j ema vest. J è vnu só tot int e’ nost fond e j à ciapè la streda par andè zó int e’ paes. Quand j arivet int e’ paes i... i vleva dè fugh via! I s’era decis che i bruseva e’ paes, cun tot al personi ch’u j era ad dentar. Parché sti fasesta i cardeva ch’u j aves sparè i partigen (...) Quest che que [Romeo Colli] l’era lè (...) che lo u s’ cardeva ch e’ fos i partigen. E’ geva ch’l’aveva fat un gran bel lavor no! E iveci i tachet a mnè (...) j incuntret un oman a lè [Secondo Renzi]. I mnet e’ prem oman ch’j incuntret, i mnet. Che l’era un oman megar, l’era a ca’ malé (...) E i vleva sparè e mazei tot. E ste Guido invece l’era andè a to da gli ovi da una fameja sota e’ camsent (...) Lo l’era a lé in pèta. Che l’avniva so par ste vialtin, che l’era andè a tó da gli ovi parché l’aveva la mama maleda. Maleda, propi maleda. Che quand i faset e’ funerel la era a là só a la veta distrota. Nun a sema ragaz[t]in mo a la ò sempra int la ment me, sta dunina, seca seca. La aveva agljet tri fiul in guera. S’ in era quatar. Me u m’ pè tri fradel, ch’la aves, e piò quest che que. “Te perché sei stato a casa?” i get. Lo e’ get “Perché ho la mamma così e così... sono andato a prendere le uova, che è ammalata ammalata” E lo u i get “Ce l’ho anch’io la mamma!” e u i sparet. A un mez metar. U i sparet int la testa a un mez metar. (...) Un u l’à fucilé. Un. Ad sti fasesta. A n’ e’ sò se l’era zovan, grand, znin, un ragaz[t]in (...) Quest l’era da longh da e’ paes. Clet j era qua só int e’ paes ch’i staseva par de’ fugh [a] tot e’ paes e i l’aveva circundé. Quii chi à circundé da ‘d ciota j à incuntré ste ragaz[t]in. Che ragaz ch’l’avrà ‘vu zdot-znov en. (...) E dop i è vnu sò int e’ paes. L’è arivat un ch e’ faseva e’ carabinir, Pieri Armando[(?)]. Ch’e’ staseva zó int la basa, a lè a Villa Trebbo. (...) Quest l’era carabinir e l’era a ca’, a n’ sò e’ parché. E fot una gran furtona. Che tramite lo e’ riuscet a fei capì a chiit ch’u n’ era i partigen ch’i spareva ma che l’era stè quest che que e... i riuset a ciud tot. (...) E fot una matena propri tremrenda. Pio, a n’ e’ sò gnenca du che [l’] andes a finì. Là sora e’ fiom. (...) [E’ stato in maggio?] Sé. Parché u j era e’ gren grand, che Pio u s’ invulet sobit tra e’ gren, u s’ nascundet (...) E vnet mort sté ragaz, e’ puren, che u ngn’ antreva propri... u ngn’ antreva gnint nisun! Mo lo ancora mench. [Non era un renitente alla leva?] No. Parché l’era bastenza zovan e i l’eva propri a lasè ca’ par via ad tot sti fradel. Ma dop, sti fasesta che que, in saveva piò ch’i l’aveva lasè ca’, ch’in l’aveva lasè ca’. Lou j incuntreva un, i spareva e via! I spareva... Lo i l’à vest a lè... u n’ aveva miga gnent, u n’ aveva miga dagli ermi, l’aveva dagli ovi! Ah! E’ fot una gran brota matena. [Con quello che sparava c’era anche un tedesco?] (...) A m’ pens propri ch’u j fos di tedesch ch’i spareva a la nota (...) Lo [il carabiniere] l’era capitè só a Rvarsen nenca lo. O chi l’aves ciamè só dop qualcadun, int e’ botasó... a n’ e’ sò. Comunque j à sempra det che l’era stè a cheusa sua ch’i l’aveva... (...) I fa di... l’è i Vanet lou. U m’ pè ch’i faga di Pieri (...) Me sò che sté carabinir u m’ pè che u s’ ciames Armando... (Maria Bartolini - 2001) In effetti, l’idea che i partigiani potessero tentare dei colpi di mano travestendosi da militi era nell’aria e probabilmente, l’errore del milite Colli, favorito dai postumi della sbornia della notte precedente, è comprensibile. Lo stesso giorno, nei locali della federazione repubblicana, venne affisso un manifesto che metteva in guardia proprio contro questo pericolo. [Forlì] 5 [maggio] = ... fucilato in Roversano il partigiano Guido Boschi di Domenico, d’anni 19. Appare sul tardi questo avviso: FEDERAZIONE REPUBBLICANA Si notifica che elementi sbandati e malintenzionati sfruttano l’abusivo possesso di vari tipi di divise delle Forze Armate. Qualunque persona si presenti a famiglie della città e provincia accampando ordini di perquisizione o requisizione senza esibire regolare autorizzazione debitamente firmata e timbrata, la popolazione è invitata a rifiutarsi di aderire a qualunque invito o ordine e a denunciare immediatamente le persone ed il fatto a questa federazione, che interverrà sempre in modo deciso. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) Non era facile distinguere fra partigiani vestiti, anche senza intenzione, con indumenti militari sottratti all’esercito e militi, male equipaggiati, magari in borghese e contraddistinti con una semplice fascia legata al braccio. Don Pietro Burchi e Antonio Mambelli riportano due casi diversi, successi più o meno in quegli stessi giorni, in cui i fascisti furono scambiati per partigiani. 13 [maggio] - I ribelli hanno depredato il parroco di Strigara di tutto quel che aveva in casa e sono stati sul punto di ucciderlo. 4 luglio - S’è scoperto che i ribelli che assalirono la canonica di Strigara (vedi sopra) erano i militi fascisti di Perticara. Porci! (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) [Forlì] 13 [maggio] = Ad un’ora e quindici minuti notturne e per oltre trenta minuti la zona di Ravaldino s’è d’improvviso trasformata in campo di battaglia, per lo sparo di fucili, pistole e bombe che ha svegliato di soprassalto gli abitanti; altrettanto è accaduto a S. Pietro (...) Il tutto è originato da un’equivoco fra due pattuglie di militi della g.n.r., una delle quali aveva il compito di controllare il funzionamento o meno dell’altra, perché accade sovente di vedere i militi entrare in case particolari e trascorrervi la notte nel gioco ed in altri passatempi. Ve ne sono tra costoro arruolatisi non già per fede politica, ma per oziosità congenita, non meno pericolosi tuttavia; se non che premeva ai neofascisti di ingrossare le loro file e perciò non potevano e non hanno guardato tanto per il sottile in fatto di moralità, però i controllori sono degni in tutto dei controllati. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) Il 10 maggio i fascisti fanno un’altra vittima. Un presunto renitente alla leva, Gino Bernabini, fugge mentre una squadra fascista cerca di fermarlo per un controllo e viene ucciso. 12 maggio 1944 - A Bulgheria è stato a sua volta ucciso un renitente alla leva, nell’atto di fuggire. (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) 13 [maggio] - I militi hanno ucciso un renitente alla leva a Bulgarnò, perché all’alt ha cominciato a fuggire. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) Il giovane, classe 1925, in un pomeriggio di maggio, era in compagnia di alcuni coetanei sul portone della casa colonica dei vicini di casa, nell’angolo via Chiesa, via Emilia (…) Fu così che la camionetta di squadristi, al comando del gerarca Tacchi [Paolo. Segretario del fascio di Rimini], transitando lungo la via Emilia, notò il gruppo di giovani che cominciarono ad agitarsi e qualcuno prese a fuggire. Pronta reazione degli squadristi che tornarono indietro e presero ad inseguire i ragazzi, ormai tutti in fuga, raggiunti i primi furono violentemente percossi, interrogati sul posto e poi rilasciati. Non potendo afferrare il giovane Bernabini, ormai lontano, fu raggiunto da una raffica di mitra, morente, fu finito con un colpo di pistola alla tempia e colpito duramente al cranio col calcio del fucile. Il giovane non aveva neppure ricevuto la lettera di chiamata alle armi, in quanto il fratello maggiore e primogenito Augusto, classe 1922, era ancora sotto le armi. (…) L’omicidio squadrista del Bernabini è stato un fatto che ha segnato profondamente la vita del piccolo borgo di case Missiroli e della parrocchia di Calisese. E’ stato annotato nel diario parrocchiale [di Calisese] il fatto con la dicitura: Il giorno 10 maggio un giovane della parrocchia Bernabini Gino, sospetto renitente è stato ucciso dai fascisti. Nessuno poteva avvicinarsi al cadavere, nessuno voleva esporsi, fu ordinato un funerale in tutto silenzio e con rito accelerato. (Da: Note informative sull’omicidio squadrista fascista accaduto a Case Missiroli (Parrocchia di Calisese) il 10 maggio 1944 / Gino Bernabini - dattiloscritto 2003) Nelle fila partigiane di pianura, soprattutto fra i più giovani, comincia a tirare aria di smobilitazione, chi non può fare altrimenti tiene duro, ma fra quelli che ancora non sono stati individuati dalla polizia fascista, c’è chi incomincia tirarsi indietro. ... tanto eravamo… eravamo alla balia ormai noi (...) Quelli di Bagnile.... Ce n’era un mucchio di partigiani a Bagnile! Ma... Non se ne parlava più... Ah! Una paura si erano messi attorno. Ma noi abbiam continuato a fare le nostre azioni. (Aldo (Lorenzo) Fusconi - 1983) In montagna la brigata è ormai distrutta e i ragazzi che sono riusciti a tornare a casa hanno il solo desiderio di continuare a scamparla. I più, poi, sono renitenti e devono necessariamente rimanere nascosti. Io sono tornato a casa un mese prima del passaggio del fronte, ero nascosto in un’altra casa, perché a casa mia mi cercavano. Ero a Casale nell’estate del ’44, per due mesi, poi in settembre in due case vicino a casa mia, disabitate, mia mamma mi portava da mangiare. (Augusto Capovin - dattiloscritto 1984) I coniugi Milani furono con me molto ospitali. (...) Trascorrevo le giornate come un uccello in gabbia (...) Il maggior tempo lo dedicavo alla lettura. (...) mai si parlò di politica e della allor presente situazione. Solo una sera, durante la cena, il discorso scivolò sulla vita partigiana e sui miei compiti. Lei, poi, parlando del marito, svelò che in una riunione di possidenti del paese lo avevano obbligato ad accettare la carica di capo del Fascio, senza che riuscisse, minchione com’era, ad esimersi. Lui si scusò dicendo che era stato preso alla sprovvista e non aveva potuto fare altrimenti. (...) Giungevano pure notizie del mondo esterno e di tutto m’informava mia cugina Nella: combattimenti, uccisioni, rappresaglie, minacce di morte contro chiunque ospitava partigiani! Proprio in quei giorni uscì un proclama particolarmente minaccioso. Me ne parlò la signora Milani: la rassicurai: la notte stessa avrei ripreso la via dei monti attraverso la strada che mi aveva condotto a S. Piero [in Bagno]. (...) Proprio quello stesso giorno era arrivata mia mamma. In seguito alle brutte notizie giunte fino a Firenze, si era precipita al paese per avere mie notizie. Appreso che ero sano e salvo, nascosto in paese, con sua sorella Nuta si dettero da fare per organizzare la mia partenza per casa, senza correre pericoli. (Da: Ricordi / di Salvatore Resi - dattiloscritto 1998) Dopo il rastrellamento d’aprile restai a Cesena. Nessuno mi contattò per tornare in brigata. (Antonio Bussi - 1999) Alcuni taglieranno completamente i ponti con l’organizzazione partigiana e non si faranno più vedere sino alla liberazione, altri, stanchi di nascondersi e pressati dalle insistenze dei parenti e degli amici, faranno domanda per essere arruolati, sfruttando il condono previsto dal cosiddetto “bando del perdono”. Dopo un po’ di giorni, a metà maggio circa, il fascismo mise un manifesto [con su scritto] di presentarsi militari [promettendo che] anche a quelli che avevano partecipato ad azioni partigiane non avrebbero fatto niente. Allora la gente nei nostri paraggi parlavano... Dicevano che ci dovevamo presentare. Infatti è avvenuto così, perché mi ricordo che non ci volevo andare, né Pagliarani e nessuno di noi, però per contentare anche la protesta delle famiglie, ecc. Perché alla sera dovevamo andare a dormire [a casa]... In poche parole, abbiamo fatto una riunione fra noi, non c’era nessun nostro comandante e decidemmo di presentarci a Viserba. Ci siamo presentati. Dopo l’abbiamo detto anche con Ricci [Fabio]. Volevamo mantenere i collegamenti perché da San Giorgio a Viserba non c’è tanta strada. A lui dispiacque molto. Ricordo che alla Pioppa, avevamo un carretto col cavallo, ci fermò dicendoci “Ragazzi, non andate da nessuna parte...” Siamo andati via ma malvolentieri. (Ferdinando (Delio) Della Strada - dattiloscritto 1984) Mo dopo cosa è avenuto, è avenuto che tutti quelli di Gattolino andavano nella Todt. Anch’io sono salito con loro e siamo andati a Bellaria. Era tanti qui di Calabrina. [Cosa facevate?] Delle trincee ci facevano [fare]... purché che non andassimo... Ah! Loro che ci tenevan lì per la paura che non andassimo coi partigiani. (Romeo Motta - 1983) I fascisti, dopo la delusione ricevuta dai ventenni richiamati con il bando di febbraio, fanno un nuovo tentativo in aprile con i giovani attorno ai trenta. Vengono richiamate le classi del 1916, 1917 e 1918, ma con il medesimo risultato. Anche quelli del 1914, precettati non come militari, ma per essere addetti al servizio di lavoro, rifiutano per la paura di essere inviati in Germania. La pena di morte, prevista dal “bando Graziani” continua ad essere in vigore ma i giovani preferiscono nascondersi, o quando è possibile, garantirsi l’esonero facendosi ingaggiare (spesso dietro compenso) dalle imprese che lavorano per i tedeschi. Di fronte a questa nuova sconfitta, la Repubblica sociale italiana cambiò strategia e pur continuando a mantenere in vigore la pena di morte per tenere a freno i soldati rinchiusi nelle caserme, con il bando del 18 aprile, provò ad organizzare una nuova operazione di recupero, concedendo il perdono non solo ai renitenti e ai disertori, ma anche a tutti coloro che avevano aderito alle formazioni partigiane, anche se civili e senza obbligo di leva. Un vero e proprio condono generale con cui si pensava di dare un duro colpo alle bande. Il termine ultimo per presentarsi ai distretti era il 25 maggio. Dal 26 aprile (giorno successivo alla pubblicazione del bando sulla Gazzetta Ufficiale) al 25 maggio, la macchina propagandistica di Salò ebbe come primo obiettivo la diffusione, con tutti i mezzi, del testo del decreto. Il 19 maggio, poi, il condono venne esteso anche a chi era già stato arrestato per renitenza o diserzione, per non dar luogo all’assurdo di perdonare a chi era stato ribelle per un tempo superiore a quelli che, proprio perché catturati, lo erano stati per un periodo inferiore. Al 31 maggio si arresero, presentandosi ai comandi, quasi 45.000 uomini. Di questi, solo pochi venivano dalle bande partigiane, che restarono intaccate dalle diserzioni solo in minima parte, i più sono renitenti che avevano vissuto isolati e nascosti e fra questi, diversi quelli che per una qualche minorazione fisica, cercano di regolarizzare la propria posizione chiedendo di essere riformati. Il numero comunque è consistente, ma acquista significato solo se paragonato ad altre cifre, come, ad esempio, al numero di ufficiali che già in precedenza avevano aderito all’esercito della RSI, stimati dai 62.000 ai 65.000, (mentre 5.000 erano stati valutati più che sufficienti); o al numero di uomini complessivo dell’esercito di Salò, che nei suoi momenti migliori raggiunse circa 600.000 unità (558.000 compresa la GNR per l’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, 780.000 esclusa la GNR ed inclusi 260.000 lavoratori militarizzati per il gen. Rodolfo Graziani, che ne era il comandante ed il gen. Emilio Canevari che ne fu uno dei principali organizzatori). 26 [maggio] - I renitenti e i ribelli si sono presentati in gran numero. Questa notte passata, alle 24, è scaduto il termine concesso loro dal Duce per presentarsi senza incorrere in pene. In questa campagne non c’è più quasi nessuno. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) [Forlì] 30 [maggio] = Un comunicato ufficiale informa che 44.145 sbandati si sarebbero presentati ai distretti. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) I tedesch j era... ch’j aveva cazè al baterii a qua zó a Igea Marina. E alora i s’ vleva mandè int i suldè. I s’ geva... J geva... “Ah! No! Quii ch’va là, no. Int i suldè i ngn’ i va!”. U j era la Todt... la Todt e in piò nun a sema suldè, nun a lè. U j era la bateria (...) Dop e’ ven ch’i s’ vleva mandè a Ancona parché e’ front l’era a là. [Lei era già là?] Sé. Sé. I s’ aveva ciamè ch’i s’ aveva purtè lè (...). Cun un manifest (...) [Dove vi siete presentati?] A [s’ sam] presentè... a sté cmand a là a Igea Marina. (...) Dop a sami tot a lè. Un brench d’amigh, un po’ dla Calabra, ad Gatulen... (Armando Faraoni - 2000) Fra i partigiani, alcuni, d’accordo con i loro compagni, finsero di arrendersi per continuare ad agire all’interno delle fila nemiche come informatori, altri, una volta arruolati, disertarono immediatamente impadronendosi delle armi in dotazione. I giovani del Lazio, della Marche e della Toscana, dato il movimento del fronte, non aderirono in massa, preferendo rimanere nascosti in attesa di essere liberati dalle truppe alleate e appena le notizie sull’andamento della guerra giunsero anche in Romagna, molti fecero lo stesso e anche fra coloro che si erano presentati, diversi se ne ritornarono tranquillamente a casa. Con la disfatta dell’aprile, qui [a Roversano] noi avevamo tre che erano su in montagna ed era Ceccarelli [Sergio], Farneti [Dino] e... Bartolini [Guido (Pio)], che ritornando a casa noi avemmo subito dei collegamenti. Però dopo erano più ricercati loro di noi (...) questi dovevano stare nascosti. E allora loro si misero in contatto con un certo Imolesi che funzionava a Monte Codruzzo, l’era Ubaldo Imolesi e poi lì, si presentarono di nuovo al comando militare di Bellaria, poi si sono armati e ritornati a casa armati. E allora, dopo, avevamo un po’ più di armi. Però non abbiamo [operato] assieme a loro. Loro funzionavano in un gruppo distaccato da noi. (Nando Mariani - 1984) Dop lè vnu e’ moment che qualcadun... [è scappato via]. Me e djit i s’ vleva mandè a e’ front. A gesum “Nun a s’andem a ca’”. E a scapesum parché i s’ vleva mandè a e’ front (...) [Vi sono venuti a cercare a casa?] Sé. Os-cia! J è vnu du, tre volti! Sè. Sè. [E ai familiari non è successo niente?] E’ mi ba’ l’era mort. La mi ma’ l’era morta de’... trentadò. Aveva di fradel. Aveva un fradel spusè que e’ Carpinel. L’aveva e’ stet ‘d fameja, e ‘lora j è vnu dó volti u i faset avdei e’ su stet ‘d fameja ch’an s’ era cun lo. A s’era cun un ent che e’ staseva a sota, in ca’. E j è sempra andè via. (...) Me a m’ maseva a la nota dal volti in di pajer, cun di amigh. In di rifugio. [C’erano altri?] Sé. Sé. [Tutti disertori o renitenti?] Sé. Sé. (Armando Faraoni - 2000) ... ci siamo presentati, ci hanno accolto, fra l’altro, quando andammo lì non avevano nemmeno le divise da darci. Pensa com’era ridotto l’esercito italiano! Io dissi “Io ho un mio cugino che è a casa in convalescenza” era Duilio [Della Strada] “e c’ha una divisa, se vuole la vado a prendere...” Questo tenente disse a me e a un mio amico di venire a casa in bicicletta, era un tandem, per prendere la divisa. Il giorno dopo un altro disse “Ho freddo! Perché loro non avevano coperte. E lui rispose che l’andava a prendere a casa. Un altro che ebbe il permesso di andare a casa per prendere la coperta! In poche parole noi siamo stati lì 15 giorni, io avevo il contatto con mio cugino Nello [Della Strada], era imminente lo sbarco in Normandia e la presa di Roma. Noi andammo via [da casa, come militari] verso il 12 maggio e Roma l’hanno presa il 2 giugno e a quella data tornammo a casa. Infatti mio cugino venne là dicendo che avevano preso Roma e di venire a casa. Quella sera siamo scappati in quindici. Alle 18 del pomeriggio ero di guardia, eravamo inquadrati come artiglieri, avevano tre batterie antiaeree, c’era un certo Baruzzi di Pievesestina che (...) se ne intendeva, noi facevamo la guardia a questi tre cannoni. Prima di andare via li ho messi fuori uso togliendo il percussore o non so cosa... [Che effetto vi ha fatto passare dalla parte del nemico?] Dalla parte dei nemici... Però non è che avessimo cambiato [le nostre idee]. Anzi, abbiamo fatto delle azioni anche sotto le armi perché siamo venuti a casa armati e in più abbiamo messo fuori [uso i cannoni] (...) Fra l’altro avevamo già preso contatti con delle famiglie del paese e alla sera andavamo a sentire Radio Londra. (Ferdinando (Delio) Della Strada - dattiloscritto 1984) [A Bellaria eravamo] in una colonia ci facevano far di guardia a tutti quelli che eravamo lì dentro. Ci facevano fare il turno. Mo io mi ero stancato a star lì perché vedevo che erano cose che non andavano. (…) E’ stato in primavera del ’44. No... in giugno perché c’era il grano che era secco. E ‘lora che succede? Questo succede, che io dissi “Io qui dentro mi metto in testa di non starci...” perché mi era una vita che me non m’andava. Un bel giorno.. era proprio un bel giorno che c’era il sole, c’era uno di guardia che lo conoscevo bene e ‘lora gli vado là vicino e lui mi conosceva a me, bene, lo sapeva un po’, che io sono sempre stato un po’ differente a quello lì. E alora gli dissi “Guarda, adesso a mezzogiorno monti di guardia, mi dai il cambio [a] me, guarda che io esco da qui, da questa rete...” c’era una rete e poi c’era tutto il grano e via... il granoturco (...) e io gli dissi “Guarda che io scappo di qui, ma te non sparare eh! Non dir niente prima di due ore... perché se io so che tu spari... se io sento che tu spari che [poi] mi prendono, quando ti prendo... “dico” dopo ti metto a posto io” dico. E ‘lora lui, questo ragazzo... Io scapò e mi porto verso Bordoncia, su, verso Sala di Cesenatico e sono riuscito venire a casa. Però a casa non sono potuto stare perché quando... Dopo hanno fatto la denuncia a la a Viserba che io ero uscito da questa caserma e… e m’hanno portato... e son sempre stato lì, in mezzo ai campi... sempre nascosto nei rifugi... non andavo più casa (Romeo Motta - 1983) Attraverso un nostro organizzato che era un renitente di leva di servizio a S. Arcangelo, Zandoli Mario del ’25, noi gli dicemmo di andare a fare il servizio militare, poi arrivavamo noi a prendere del materiale: armi, munizioni e bombe. Lui ci disse che aveva la possibilità di tirarle fuori e di consegnarcele. Questo successe ai primi di agosto [no, di giugno]: l’organizzazione, [veniva fatta] attraverso il maestro Pagliacci che era il responsabile del fronte della Gioventù e di Soccorso Rosso… e lui ci prestò le due biciclette, perché non avevamo niente. Attraverso un nostro organizzato che faceva il meccanico [Gildo Strada] ci fornì queste due biciclette quasi nuove. So che costavano cento lire allora e cento lire erano molte. Con queste biciclette io e Castagnoli Mario (…) ci avviammo verso la via Emilia, senza passare di traverso (…) Quando fummo fra Savignano e Sant’Arcangelo c’era un posto di blocco [tedesco] perché c’era stato lo sfaldamento dei tedeschi (…) venivano da Anzio, scappavano verso il Nord, quindi la strada era piena di tedeschi e di biciclette mezzo rotte, vecchie, [arrivavano] così, con tutti i mezzi e a piedi (…) Due tedeschi ci fermarono con il mitra e visto che avevamo le biciclette nuove ci vollero togliere le biciclette e noi resistemmo naturalmente, ma non potevamo sparare, perché era pieno [di tedeschi]. Eravamo armati. Avevamo pistole [nascoste sotto] la camicetta; appoggiate allo stomaco fra i pantaloni corti. Per fortuna non si accorsero di niente e ci diedero le loro che erano mal ridotte (…) Pagliacci Bruno ci vide passare il Ponte Nuovo con queste due biciclette e rimase allibito, pensando che ci avessero presi. Invece arrivammo a casa, ma non potemmo ovviamente andare da questo nostro compagno Zandoli Mario a prendere il materiale a sant’Arcangelo, perché avevamo due biciclette che facevano fatica ad andare. (Liciano Rasi – dattiloscritto 1984) … all’inizio credevano che io fossi un fascista (…) Dopo si vede che hanno capito qualcosa e un giorno sono venuti a casa a prendermi. Mi hanno portato al comando del fascio. Hanno preso solo me del mio gruppo. Poi è venuto mio fratello e il maresciallo della questura di Cesena e sotto la loro responsabilità, mi hanno rilasciato, facendomi promettere che avrei lavorato per loro: far servizio alla ferrovia… Dopo sono dovuto stare nascosto (…) Rossi Aldo era nascosto qui e sono andati a cercarlo a casa e hanno portato sua madre al fronte, al posto del figlio (…) hanno buttato delle bombe intorno a casa di Rossi Aldo e poi sono venuti anche qui, perché ormai eravamo quasi scoperti. Io, che non avevo mai dormito in casa, quella notte ero nel mio letto e lui nella capanna, dove c’era un tino. Prima di loro è arrivato il babbo di Rossi, che ha battuto alla finestra e ci ha avvisato. Io sono saltato dalla finestra, ero armato e sono andato, ma lui non ha fatto in tempo (…) non è stato trovato; hanno guardato sotto il letto, ma non lo hanno trovato, perché non hanno guardato dove era nascosto. Il maresciallo dice “Guarda che per tuo fratello c’è un mandato di cattura! Se lo prendono, o vivo o morto!”. Mio fratello venne a casa e lo disse con mia madre, che si mise a piangere. Di nascosto tornai a casa e fui avvisato dalla mamma. Mio fratello mi ricordò che lui e il maresciallo si erano presi la responsabilità per me, ma che non ero andato a lavorare per i fascisti, anzi, facevo il partigiano! Io allora andai da Panzavolta [Ermanno (?)], dove c’era Benini Adriano e raccontai la questione. Decidemmo che facessi la domanda per andare via volontario come fascista e poi sarei scappato. La prima notte che ho dormito con i fascisti ho portato via due fucili mitragliatori, bombe a mano e sono tornato a casa. Dopo mi cercavano. (Bruno Zanoli – 1984) Fra la metà di maggio ed i primi di giugno, le notizie che arrivano dal fronte sono tali da risollevare gli animi di tutti gli antifascisti e capaci di dare nuova fiducia nella ripresa della lotta. Dopo più di sei mesi di stallo crolla il fronte tedesco sul Garigliano. La battaglia ha inizio l’11 maggio, 27 divisioni alleate contro 16 tedesche, dopo 4 giorni gli americani cominciano ad avanzare sulla costa in direzione di Roma e raggiungono Formia il 16 maggio. Lo stesso giorno Kesserling ordina la ritirata da Cassino che viene occupata il 18. Da quel giorno gli alleati cominciano ad avanzare con rapidità e rinasce la speranza di una imminente liberazione. I fascisti si sentono perduti e cominciano, di nuovo, ad avere paura. Gli antifascisti si riorganizzano e passano all’offensiva. Dai bollettini dei Gap cesenati si coglie chiaramente come, dopo l’arresto iniziale, verso la fine di maggio l’attività partigiana sia in piena ripresa. Il bollettino di maggio della zona di Cesena è scarno di notizie e le date sono imprecise, segno del difficile momento che si sta attraversando e dell’impegno per la ripresa. Il Bollettino n. 1 del battaglione cesenate riporta solo due notizie relative al mese di maggio, una terza, riportata nel Bollettino n. 2, fa riferimento ad un’azione già segnalata nel n. 1. Maggio 1944 - Gap disarma un fascista [Maggio 1944] - Cinque pali elettrici danneggiati in un’azione combinata con 3 Gap. (Bollettino N. 1 29a. brigata Garibaldi G.A.P. “Gastone Sozzi” - Zona di Cesena - ANPI Forlì) 30 MAGGIO - Gap effettua importante atto di sabotaggio contro linea elettrica alta tensione, facendo saltare un palo di sostegno il palo cade sulla ferrovia: per 6 ore così interrotto anche il traffico ferroviario. Reazione nemica : nessuna. (Dal Bollettino N. 2 della 29a. brigata Garibaldi G.A.P. “Gastone Sozzi” - Zona di Cesena - ANPI Forlì) Più ricco il Bollettino ufficiale n. 1, che riporta le azioni di tutta la 29a brigata Gap, redatto con più calma e probabilmente in un periodo successivo, che attribuisce ai Gap di Cesena 10 azioni fatte quasi tutte alla fine del mese. 4 Maggio 44 - CESENA - Un GAP attacca ed uccide in pieno giorno un fanatico fascista appartenente ai Battaglioni “M”. 7 Maggio 44 - CESENA Diversi G.A.P. attaccano una colonna tedesca in marcia. Nello scontro tre soldati tedeschi rimangono gravemente feriti e una macchina incendiata. 24/5/44 - Un GAP colloca ordigni esplosivi sotto i binari della ferrovia provocando il deragliamento di un treno carico di materiale bellico tedesco. 25/5/44 - CESENA - Un GAP asporta buon quantitativo di munizioni da un deposito tedesco. 25/5/44 - CESENA - Un GAP attacca e uccide due militi fascisti del battaglione “Dalmata” che da diversi giorni terrorizzava la zona. 25/5/44 - CESENA - Un GAP volante asporta diverse mine sistemate dai tedeschi lungo la riva adriatica. 27/5/44 - CESENA - Un GAP uccide due militi del battaglione “Dalmata”. 30/5/44 - CESENA - In un’azione combinata da tre GAP vengono fatti saltare mediante ordigni esplosivi 5 Piloni sostenitori di una linea elettrica ad alta tensione. (Dal Bollettino ufficiale n. 1 della 29a brigata Gap “Gastone Sozzi” - ANPI Forlì) Le date continuano ad essere imprecise, l’azione del 4 maggio forse è da spostare all’11 e in tal caso dovrebbe riferirsi al legionario Fulvio Floridian di Trieste. 12 maggio 1944 - Ieri, uccisione di altro legionario del Battaglione “M”: Floridian Fulvio di 19 anni, da Trieste. (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) Fra tutte le notizie riportate, quella datata 7 maggio, riferita all’attacco ad una autocolonna tedesca, probabilmente è errata. Non è citata da nessun’altra fonte e non si ha riscontro di alcuna rappresaglia da parte del nemico in proposito. Per le altre azioni segnalate, tutte verisimili, esistono quasi sempre, anche se vaghi, altri riscontri. Le testimonianze riportate di seguito potrebbero, ad esempio, fare riferimento alle azioni contro i militi del battaglione “Dalmata”, datate 25 e 27 maggio: [Vi sono capitati dei disertori?] Due di una brigata Dalmata e andarono da una famiglia di S. Martino; volevano andare a casa e volevano andare al porto di Ravenna. Vennero lì, mangiarono e si misero in borghese. [Era una famiglia antifascista?] Sì, mi sembra fossero i Gurioli... Io non volevo sapere tante cose, se uno non sa è meglio, così non lo dice. Questi due invece di andare verso Ravenna venivano a Cesena e allora li dovemmo rincorrere e guidarli. Se andavano a fare la spia assassinavano tutta la famiglia. Gli tennero dietro e si accorsero che prendevano un’altra strada. [Aldo (Lorenzo) Fusconi - dattiloscritto 1983] Questo qui... questo fu a Ronta seconda. Lo portarono a casa di un contadino un compagno della zona. Lui questo ragazzo si era dichiarato che era stanco di quella vita che voleva andare a casa e via e via... “Se mi date un vestito per cambiarmi, un qualche cosa per non girare così...” e via e via. E lora lo portano in un campo di frumento, non in casa e poi ci portano una maglietta... era caldo... una maglietta e non so... una giacca, un paio di pantaloni, un paio di scarpette, così... e anche qualche soldo gli diedero. Lui disse che andava a casa. E si inviò verso Matellica. Verso San Martino [in Fiume] per andare dalle parti di Ravenna. (...) lì c’erano della donne che avevano visto questa cosa. Quest’azione che avevano fatto questi compagni. Poi, tra le quali, c’è una donna che va a fare dell’erba in bicicletta, si avvia verso una di queste stradette così... Come fa un po’ di strada per andare a fare questa erba vede questo ragazzo, che invece di andare verso Ravenna anda... veniva su a Cesena. E allora lei torna indietro e dice “Guardate quel ragazzo che avete vestito, così e così va a Cesena”. Loro avevano anche paura, perché l’avevano vestito vicino a casa sua, insomma la cosa l’avevano fatta lì. (...) So che fu fatto lì a Ronta seconda, non so chi era il contadino. Comunque, credo di sicuro che ci fosse Buccelli [Enrico] in quell’azione lì. E cosa fanno? Cosa decidono di fare? Perché era in pieno giorno e non si può dire facciamo... spariamo... e via e via no? Allora gli passò davanti uno in bicicletta... e gli passò davanti, gli tagliò la strada si tirò fuori la pistola e dice: “Torna indietro e vai davanti e non fare scherzi, che se dovessi fare una mossa di fuori ti faccio fuori secco!”. Questo ragazzo tornò indietro e andava davanti, quello della bicicletta ci veniva di dietro a una certa distanza, a piedi magari per non farsi vedere e via via... e quassù... Si era portato verso Ronta prima. Aveva camminato eh! Insomma lo accompagnò in un campo di un contadino, là, proprio nel... deserto, senza casa... senza casa del contadino, un terreno molto grande. Ci avevano fatto uno di quei capanni che ci tenevano gli attrezzi e via e via. Lo mandarono lì dentro e quando fu lì dentro, alla notte, ci fecero la festa. Perché non si poteva fare diversamente. (Giuseppe Alessandri – 1984) Alcune cose mai dette 1° Eravamo a febraio [no, aprile-maggio], due militi della dalmata minacciavano i passanti sulla ravennate da S. Martino a Martorano, ad un certo punto vennero presi e disarmati con l’avviso di non arrivare più da quelle parti, partirono come saette e si spostarono nella zona di S. egidio, nel frattempo si resero conto i GAP del errore fatto una volta in caserma avrebbero detto il posto e la casa dove erano stati portati per il sermone fattogli di non farsi più rivedere, a questo punto si rischiava la vita di famiglie intere, furono ripresi prima del pasaggio a livello feroviario e sparirono nel nulla. 2° episodio. Dopo la morte di Minon i fascisti venivano di continuo Questa volta atraverso i campi, giunti a ronta I sulla Via Mariana presero un renitente di leva intento a cacciare, fu preso disarmato, e sempre atraverso i campi Si incaminarono baldonzosi del colpo inferto ai GAP proprio nel loro terreno la campagna aperta, ed insidiosa, ed ad un certo punto furono disarmati legati ed imbavagliati portati indietro perche erano giunti in un posto pericoloso ad un certo punto si fermarono fu dato a loro una vanga e sotto il tiro delle armi fecero quello à loro richiesto, non ci furono spari ò raffiche di mitra, i due si ritrovarono nella fossa uno sopra al altro, erano stati temerari ad inoltrarsi nella campagna di li non uscirono più... (Vittorio (Quarto) Fusconi manoscritto 2001) Fra Marzo e aprile [no, aprile-maggio] pattuglie di brigatisti neri giravano per le strade pattugliandole, ma appena lasciavano la ravennate sparivano nel nulla. (Vittorio Fusconi (Quarto) manoscritto 2001) Le seguenti affermazioni potrebbero invece riferirsi all’azione del 30 maggio, i cui effetti si fecero sentire anche a Forlì e che viene citata più volte nei bollettini della 29a Gap. Decisero un giorno di far saltare quei paloni della luce lungo la ferrovia. Avevano le cariche troppo piccole e tornammo indietro... L’altra sera dovemmo tornare indietro ancora... e dissi “Ragazzi, se non funziona sta volta, non vengo più!” (...) Misero queste mine... e saltò tutto, c’era una tale illuminazione che si vedeva come fosse giorno. [Chi c’era in quell’azione?] Io, Sama [Lamberto (Bruno)]... Mellini [Aldo] e Maraldi [Augusto], che erano gli artificieri e c’erano sempre. (Aldo (Lorenzo) Fusconi - dattiloscritto 1983] [Forlì] 1 [giugno] = L’interruzione dell’energia elettrica avvenuta iersera verso le 22,30 è attribuita ad un attentato contro alcuni piloni di sostegno dei fili di trazione in quel di Cesena. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) Le buone notizie che giungevano dal fronte non solo risollevarono gli animi ma contribuirono a rafforzare il fronte antifascista. Il partito italiano del lavoro che non aveva aderito al CLN e che ancora il 1° maggio diffondeva un opuscolo in cui venivano ribadite le proprie posizioni contrarie alla lotta armata, con la presa di Roma, dopo un dibattito durato più di due mesi, chiese formalmente di entrare a farne parte e la sua domanda venne accolta favorevolmente. Forlì] 1 [maggio] = E’ diffuso alla macchia un numero unico del P.I.L. (Popolo e Libertà), intitolato FUORI DALL’EQUIVOCO: riproduce un articolo del bollettino clandestino POPOLO E LIBERTA’ e del bollettino LA VOCE DEL POPOLO. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) Non è solo il buon andamento della guerra a spingere il PIL a “fare marcia indietro”. Il piccolo partito, già dal mese d’aprile, è scosso da un forte dibattito interno, che prendeva spunto dalle dichiarazioni di Palmiro Togliatti fatte a Salerno (2 aprile 1944) sulla necessità di sospendere, sino alla fine della guerra, ogni giudizio sul comportamento della monarchia, per collaborare alla costituzione immediata di un governo di unità nazionale, il cui obiettivo primario doveva essere la cacciata dei tedeschi dall’Italia. La posizione dei comunisti, espressa da Palmiro Togliatti, sbloccò la situazione di stallo che si era creata anche a livello nazionale, ad essa aderirono progressivamente anche gli altri partiti e da questa base si poté giungere alla formazione del primo governo democratico, presieduto da Badoglio (22 aprile 1944). A un certo momento però avvenne questo. Che venne giù da Mosca [Palmiro] Togliatti [il 27 marzo 1944], capo del Partito comunista. A Napoli fece una dichiarazione immediata. “Ogni nostra forza contro... Guerra contro la Germania con qualunque mezzo, in qualunque maniera. Chi è contro la Germania? Noi siamo contro la Germania. Collaboriamo per abbattere il nazismo, la Germania...” eccetera . (...) Su questo qui, naturalmente, cominciarono a dire “Mo a que u n’ à miga tot i turt”. Perché, va be, la monarchia è quello che è (...) doveva essere... processata (...) L’ULI, [il PIL] immediatamente dopo la dichiarazione di Togliatti, eccetera, che rappresentava veramente l’antifascismo in massa, eccetera. Ci mettemmo a discutere e allora ci fu la... la... la marcia indietro. Un chiarimento, eccetera e... e si aderì. Ecco, In quel periodo lì era già sorto, con la venuta di Togliatti, (...) il Comitato di liberazione nazionale. (...) e noi naturalmente nella posizione che eravamo noi rimanemmo isolati e allora di fronte a questa realtà si dovette riprendere, e rifare un’autocritica e dire che noi avevamo torto (...) Rientrammo nella primavera (...) dopo la sconfitta (...) del rastrellamento tedesco. In quel periodo lì ci sentimmo in dovere... (Ferruccio (Rino) Biguzzi - 1999) Con le buone notizie dal fronte di Cassino, il 13 maggio, arrivano a Cesena anche i primi bombardamenti. Non c’è tempo di esultare che subito si ripresenta una nuova catastrofe. I primi bombardamenti, per quanto attesi e temuti, colgono i cesenati ancora impreparati 12 maggio 1944 - Appare altro manifesto, con norme rigorose, per i cittadini in tempo d’allarme. (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) Il primo bombardamento, quello che buttarono le bombe su a Celincordia (...) Il 13 maggio, io mi ricordo che stavo davanti a casa e... in zoccoli, calzoncini corti e canottiera, con una lente d’ingrandimento che bruciavo le formiche. Io e mio cugino ci divertivamo a bruciare le formiche e sentimmo... che non sapevamo cosa fosse questo rumore... questo bombardamento. Mio padre ci chiamò in casa perché disse che era il bombardamnento e mi ricordo che era il 13 di maggio. (Roberto Rocchi - 2004) Verso il… dopo il 13 maggio no… prima del 13 maggio, cominciarono gli allarmi aerei. Che cominciavano a esserci quasi tutti i giorni. (…) Arrivò il 13 maggio. Al dó de’ dopmezdé. L’ariva sta formazion. E sto mio amico mi venne a prendere perché volevamo andare sopra a Celincordia, che forse c’eran delle nostre compagne di scuola (…) e alora me (…) io volevo mettermi un po’… c’era delle ragazzine. A turnet indria a pulim al scherpi (…) Ciou! Quand ch’a fosum a lè a e’ teetar comunel e’ cminzet e’ bombardament! (…) Perché fu bombardata Celincordia (…) Lì ho visto…. sté fom, tot… che se partiamo un po’ prima u j è ches ch’u s’ariva int la testa qualquel, eh! E ci furono chi dice 60 chi dice 100 morti. Prese… il bombardamento prese Ponte Abbdesse, prese la zona lì di Celincordia, la zona sotto il Monte, la famiglia Spada, ch’i muret tot. E poi verso la Fiat. San Pietro. La stazione naturalmente. A la stazion i faset un bus grand cmé sta ca. Alzò, l’ho visto, era un gradino, proprio di marmo, che era nel ristorante Casali. Lo buttò proprio sui bagni dell’Arrigoni. (…) E poi (…) suonò l’allarme ,più tardi, verso le sei. (…) Il primo bombardamento è stato il 13 maggio (…) la dmenga dop, a l’ipodromo, c’era il campo di calcio, c’era il campionato di guerra. Quindi l’era pasè una smena. E’ vnet e’ Bulogna (…) quando fummo per la strada verso la piazza suonò l’allarme. (…) J era zà là zó ch’i zughiva. U j era zà la zenta e j aveva bumbardè la smena prema. (…) Il Cesena vinse due a zero. (Guido Mattei – 2003) 13 [maggio] - Oggi alle ore 14,30 hanno bombardata Cesena dall’aria. Dalla finestra della mia camera di Gattolino ho visto lo scoppiare delle bombe gettando in alto terra e detriti con immensi fragori. Tutte le donne, anche qui in campagna, piangevano. Colpita la chiesa di S. Pietro, Celincordia e il cavalcavia, una centrale elettrica secondaria, la Piazza della stazione e case presso Porta Trova. Morti pare una cinquantina. Bombe sono cadute a S. Giorgio, a S. Egidio, a Casefinali (non certo però), in Villa Assano... I Cesenati sfollano: sono terrorizzati. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) ... il bombardamento, che bombardarono la stazione... Il 13 maggio. Era un sabato che io ero a Cesena che andavo a imparare a cucire. Bombardarono la stazione, San Pietro (...) Celincordia e verso l’ospedale (...) Il primo bombardamento, proprio con le fortezze volanti (...) Io mi ricordo che stavo entrando nel corridoio, che andavo di sopra dove andavo a imparare a cucire (...) era in corso Cavour. Lì vicino alla Barriera, lavoravo io (...) sentii il segnale che fecero sssssssh le prime bombe che venivano giù. Mi ricordo che mi avviai in bicicletta su per il corso verso il duomo. Lì adesso dove c’è la banca popolare, lì c’erano i fascisti, il comando dei fascisti, allora. Che mi ricordo uno che mi gridò dietro, che dice “Dove vai? Fermati!”. Io andavo come il diavolo invece... in bicicletta. E venni su per (...) Celincordia. che poi vidi venir su... che era stata bombardata una casa... una persona che veniva su, tutta sotto le macerie... si aggrappava su per una riva, era tutta sporca di sangue e mi fermava... e io dicevo “Lasciami andare! Lasciami andare!”. Avevo la bicicletta sulle spalle, perché la strada era tutta rotta perché erano cadute le bombe... e c’era questo brutto odore di polvere da sparo. E mi ricordo che andai giù... andai a casa mia attraversando tutte le vigne... da sopra... dal Monte andando giù... perché abitavo a Rio Marano. E mi ricordo la mia mamma (...) che mi diceva “Non andare via, che non è ancora suonato il cessato allarme”. (...) perché suonavano l’allarme (...). “Mo no!”. Era il sabato, c’erano da finire dei vestiti. Non avevano mai bombardato Cesena. Quando arrivai a casa mi prese a botte mia mamma e aveva ragione. (...) avevo sedici anni. (Orioli Maria - Intervista di Isabella Rossi, 2004) 13 maggio 1944 - Oggi, sabato, abbiamo avuto la prima incursione terroristica, sulla città. Per quanto lo si cerchi tener nascosto, i morti sono verso il centinaio, ed altrettanti i feriti. E’ andata così: alle ore 14 del pomeriggio, ha suonato il segnale d’allarme. Pochi, i più paurosi, si sono dati per inteso ed hanno sfollato come al solito alla periferia della città. Alle 14,15 si ode il rombo di molti aerei Anglo-Sassoni, che si avvicina rapidamente; poi fulmineamente gli aerei si abbassano e si dividono sugli obiettivi periferici della città, sganciando bombe in tutte le parti. Impressione enorme, per quanto il bombardamento sia durato pochi istanti. Urli da tutte le parti; terrore! gli obiettivi colpiti sono: S. Pietro, dove è crollata parte della Chiesa, e adiacenze con case private addirittura scomparse; zona del mercato nuovo e Cavalcavia; Via dei Mulini; Ponte Abbadesse; Celincordia; S. Egidio e S. Giorgio. Io sono chiamato subito dal Vescovo perché l’accompagni all’Ospedale Bufalini. Morti e feriti da tutte le parti. Scene impressionantissime e macabre. Piena la camera mortuaria di esseri straziati; piene le corsie di feriti che gemono. I medici si prodigano. Fuori una folla che cerca di entrare per vedere i propri cari feriti. (...) Nei dintorni di Cesena, l’eco fragorosa dei bombardamenti, ha destato viva impressione e curiosità. Molti dal forese, si precipitano in città, a rendersi conto dei disastri e a trovare i parenti. (...) Bisognerebbe aver sentito l’urlo di spavento, quando circa, sulle ore 18, la sirena ha dato nuovamente l’allarme. Il cessato allarme era stato dato un’ora prima a mezzo del campanone. E’ stato un urlante fuggi generale, che all’aperto, chi nei rifugi. Non è successo nulla. A vuoto!… (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) Il giorno in cui per la prima volta Cesena venne bombardata non si era ancora riusciti a mettere in atto il progetto di spostare l’ospedale, della cui ubicazione, nei pressi della stazione, si era rilevata la pericolosità. Per fortuna, nonostante le bombe che gli caddero attorno, non fu colpito. I ricoverati però, impauriti, preferirono pernottare all’aperto. 11 maggio 1944 - L’Istituto Agrario Almerici-Montevecchio, a mezzo di Camions della Todt, è stato “sfollato” in questi giorni d’autorità da S. Anna all’Abbazia del Monte: Nella sua sede presso Martorano, dovrà essere ospitato l’Ospedale Civile “Bufalini”, poiché troppo vicino alla stazione ferroviaria, punto strategico preso di mira dagli aerei del nemico. Ancora però non è avvenuto il trasloco. 13 maggio 1944 - Gli ammalati dell’Ospedale, chissà perché, vogliono pernottare all’aperto, stesi nei loro materassi. Da stasera l’Ospedale inizia il suo trasloco a S. Anna. A notte la città è tornata calma. (Dal diario di don Leo Bagnoli - Cesena) Eravamo proprio là, con gli sfollati e i fuggiaschi del vecchio Ospedale, colpito da bombe d’aereo nel giugno del 43! Chi lo aveva costruito lungo la ferrovia, praticamente, si può dire, sui binari, aveva proprio scelto uno dei luoghi più pericolosi! (…) lascio a voi immaginare che cosa accadde ai primi scoppi, al rovinio dei rottami, ai sibili assordanti delle bombe! Chi scappava in pigiama! Chi si trascinava penosamente zoppicando e reggendosi a fatica, inciampando nei mobili rovesciati, chi chiamava lamentosamente aiuto, abbandonato sui letti sfatti! Ognuno faceva del suo meglio per assistere, riunire, portare letteralmente a braccia, sostenere a spalla chi non poteva muoversi per evitare pericolose cadute per le scale e impedire che si servissero dell’unico montacarichi bloccato e semidistrutto! Mi trovai là per caso: ero in licenza, dal fronte, in divisa da ufficiale medico: fui colto di sorpresa vicino alla stazione dal turbinio degli scoppi assordanti delle bombe! Nel cupo rombo degli aerei, giunti subito sopra la città, senza che fosse suonato l’allarme, non avevo, per fortuna, perduto la testa. Corsi al vicino Ospedale col presentimento di poter essere utile e vi giunsi destreggiandomi tra la folla degli sbandati che fuggivano atterriti, in tutte le direzioni, urtandosi e cadendo, gridando a perdifiato! (Da: Il giorno del cannone a cartuccia / Eugenio Dall’Osso. – Cesena : Silgraf, 1991) [Libero Evangelista] il ricoveret a e’ sbdel (…) me avniva a Cisena e... e’ bumbardament... e’ prem bumbardament ch’i faset a Cisena, che fo’... l’era incora ricoverè. L’era puzè sora... sora la mura de’ sbdel che u j era e’ carabinir ch’u l’badeva. A get “Di!” e’ carabinir l’era ciapè via da la paura... e ‘lora a get “Dai... a t’ toi só in bicicleta“ a degh “a t’ port via!” “Mo dì coiu!...” e fo’ indicis. Parché bsugneva l’es dicis. Se un l’era... A degh “Sa fet? Ven? S’et paura!” “No dì. U n’ va ben...ò paura ad lo...”. Te capì? “A perta” degh “che me a n’ e’ sò cum t’at vaga a finì..” “Mo coiu!...”. Insoma che... “A t’ port a Sanzili...”. Parché lo a Sanzili l’aveva la murosa. Sa vut da la stazion arivé a Sanzili... Insoma ch’u n’ vuls avnì. Un vusl avnì. Dop... dop l’è ‘rivat avnì ca’ a n’ sò cm a fot. (...) I l’aveva ciapè int e’ rastrelament di znov [no, 29] d’avril. (Ferdinando (Delio) Della Strada - 1998) Le vittime di quel primo bombardamento sono più di un centinaio e circa duecento le bombe lanciate sulla città. [Forlì] 14 [maggio] = Il cerchio si è così stretto intorno a noi che il solo pensarvi mette spavento; quando suona la sirena dell’allarme si forma un groppo nella gola e diventa spasimo allorché i velivoli rombano potenti sul nostro cielo con il loro carico di morte e vicine si odono le esplosioni, come quella di ieri che faceva tremare la terra. (...) A ben 113 sale il numero dei morti in Cesena per l’incursione di ieri. Viviamo giorni di tormento indescrivibile, poiché acquista sempre maggior credito la voce di un possibile sbarco sulla nostra spiaggia fra Rimini e Ravenna, il che trasformerebbe la zona in un infernale campo di battaglia: i bombardamenti aerei ne sarebbero la fase preliminare. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì) 16 maggio - I morti non sembrano lontano dal centinaio. Ogni giorno ne saltano fuori dei nuovi rimasti sotto le macerie. Lunedì ne furono portati 13 in una volta. Passando davanti al Duomo, il Vescovo [Beniamino Socche], stando sulla porta del tempio, li benedisse e fece un bel discorsino patriottico approvato dalle autorità presenti (tra cui il Prefetto). I più sono deceduti per imprudenza. Al segnale d’allarme invece di allontanarsi, si fermarono in città, anche nei punti pericolosi, o continuarono a starsene in casa loro. Vari morti erano notoriamente amici degli inglesi, e si lamentavano che non venivano mai... I Frati dell’Osservanza, del Monte e i gesuiti si sono prodigati per soccorrere i sinistrati nel corpo e nell’anima. Però s’è tardato troppo a rimuovere le macerie e molti sono soffocati, che potevano salvarsi. 19 maggio - Le bombe cadute su Cesena il 13 s’aggirano sulle 200. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) Da questo momento i bombardamenti sulle città romagnole saranno quasi quotidiani e la la gente cercherà rifugio in campagna. L’idea di una linea di difesa tedesca sugli Appennini a sud della pianura padana, intanto, si fa sempre più concreta. 19 maggio - Oggi, venerdì, hanno bombardato Forlì e Rimini con molti morti e feriti. (Dal diario di don Pietro Burchi - Gattolino) [Forlì] 19 [maggio] = Venerdì. Allarme dalle 8,10 alle 8,35 altro allarme dalle 9, 40 alle 12. Giornata tragica: dopo pochi minuti dal segnale è apparsa sul cielo della città una formazione di trentadue bombardieri, non meno di 150 bombe m.[edio]c.[alibro] sono sganciate a grappoli nella fascia ferroviaria compresa nell’abitato e le zone industriali. (...) Immense nuvole di fumo si sono levate dalle case e dalle fabbriche colpite, grida, urli, gemiti di spaventati, di feriti, di moribondi, travolti dalle macerie, fughe di scampati per miracolo verso la campagna e dentro la città, mentre crollano i muri, precipitano i tetti e gli incendi completano l’immane rovina nel sobborgo popoloso. (...) Notato il contegno coraggioso dei parroci di Ravaldino, S. Lucia, S. Mercuriale, don Leonida Maioli, don Gino Berardi e don Pippo Prati quest’ultimo ancorché esile e semicieco, accorsi tra i primi, ma notato altresì, ad eterna vergogna, quello di alcuni criminali in divisa e senza, sorpresi a frugare nei morti e nei suoi mobili a scopo di rapina (...) uno o due dei quali immediatamente passati per le armi. [Forlì] 20 [maggio] = Giornata di intenso lavoro che ha fruttato l’estrazione di vivi e di vittime alcuni dei primi feriti in modo grave, o estenuati dai lamenti di cui udivasi l’eco straziante. I morti si rinvengono a gruppi talora e fra essi pochi sopravvissuti; un fetore di cadavere esalava dalle rovine già nella sera, mentre si levavano ancora dal deposito di legname della ditta Fabbri colonne di fumo. Sono segnalati 125 morti civili - 16 morti militari - 430 feriti civili e 25 militari - 32 case distrutte 22 case danneggiate. (Da diario di Antonio Mambelli - Forlì)