Metauro © 2012 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy) http://www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-???-? È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. incontri cinematografici e culturali tra due mondi a cura di antonio c. vitti Metauro 4 5 Prefazione Maestri e cinema del passato Perché una raccolta di saggi sul cinema, sulla letteratura e sulla cultura italiana in senso lato, scritti da critici che operano tra due mondi, e che per giunta apparentemente non hanno un tema specifico che possa mettere in luce l’insieme? Da questa domanda che poi è diventata una vera sfida, è nato il seguente volume. Sono ormai passati tanti anni dall’ultima raccolta di saggi che ho curato, e che era nata da una collaborazione tra studiosi di cultura italiana tra le due sponde dell’oceano Atlantico. A giudicare dalle reazioni dei lettori, dei recensori e dei colleghi che hanno utilizzato il volume precedente, ho ritenuto opportuno che una nuova raccolta di saggi rispecchiasse il desiderio e i bisogni di studenti e insegnanti e che colmasse una lacuna didattica e offrisse un aggiornamento sui nuovi film usciti in questi ultimi dodici anni, e che inoltre presentasse un aggiornamento sulle nuove ricerche su film, registi e scrittori che come Giose Rimanelli e Helen Barolini hanno trascorso la loro vita artistica tra due mondi. Il volume rispecchia anche il desiderio dei miei studenti di studiare i film del passato da prospettive diverse e di conoscere il nuovo cinema italiano, i suoi nuovi protagonisti, le nuove tendenze e tematiche. L’iniziativa ha anche lo scopo di avvicinare gli studenti e gli studiosi alla cultura italiana della crisi economica e istituzionale e della fine delle ideologie e del postmoderno. L’Italia vista da fuori sembra un paese che deve reinventarsi, andare oltre l’immagine da cartolina del passato, e lo scopo di questa raccolta era di cercare di capire come si autorappresentasse nel nuovo millennio, ma anche com’è vista da chi l’ama ma non la vive direttamente. Lo scopo era di confrontarsi per capire e per realizzare un possibile processo che Andrea Camilleri ha definito: 6 Nei momenti di crisi più nera, mentre tutto crolla, la vita comunque continua e i rapporti umani tendono a rafforzarsi: allora da questo schifoso momento potrebbe venirne anche un gran bene. L’Italia da fuori sembra un paese in ginocchio e in deriva, senza guida e senza fantasia che si barcamena tra tante difficoltà. A mio avviso il cinema dell’oggi non riflette i trionfalismi dei politici al potere ma sembra aver ripreso l’autobus di cui parlava Cesare Zavattini nel provocare i registi e gli sceneggiatori ad avvicinarci alla gente per non far morire gli ideali del neorealismo. La parte del volume dedicata al cinema contemporaneo voleva anche verificare se qualcosa fosse cambiato dalle constatazioni fatte nel duemila dallo storico Gian Piero Brunetta che sul cinema italiano alla fine del secolo aveva scritto: Registi e autori di soggetti e di sceneggiature sembrano aver scelto una sorta di navigazione a vista, continuando a privilegiare storie minimaliste, in ogni caso muovendosi senza strumenti o bussole comuni per quanto riguarda la rotta del presente. Alla mancanza di visione di cui si lamenta Brunetta si potrebbero aggiungere le difficoltà di distribuzione, la mancanza di dialogo tra produttori e autori, la mancanza del sopporto critico che gli autori lamentano nei confronti dei critici, che continuano a mandare anatemi sul nuovo cinema. In realtà c’è da chiedersi che resta del cinema e della cultura italiana oggi nel mondo della globalizzazione? Le interviste incluse nell’ultima parte del volume pongono queste e altre domande, ma offrono anche risposte che vanno ben oltre l’aspetto estetico. Il regista Giuseppe Piccioni, pur consapevole delle difficoltà del cinema italiano, parlando del Festival di Venezia e della giuria presieduta da Quentin Tarantino, ha biasimato il riprovevole atteggiamento dei gestori del festival che invece di valorizzare al meglio il cinema italiano assumono un comportamento così descritto: Per assurdo chi dovrebbe, per statuto, valorizzare al meglio il cinema italiano finisce con il fare delle scelte opinabili per quanto riguarda le opere selezionate e anche sulla scelta dei giurati stessi. Questo credo sia un problema perché non ci dovrebbero essere considerazioni personali nella scelta di un film. È sempre stata una mostra attenta ad assecondare certi 7 poteri; quelle due o tre produzioni che hanno già una forza sul mercato ne escono rafforzate quando invece la mostra dovrebbe avere un altro tipo di atteggiamento. E quindi generalmente è una mostra vecchia dove il cinema italiano esce fortemente sciupato, un’immagine che secondo me è molto distante dalla realtà perché quello italiano è anche oggi un cinema che ha un suo reale valore che in molti casi è quantomeno apprezzabile. Malgrado tutte le critiche, a mio avviso, il cinema italiano contemporaneo sembra che aver dato una risposta forte ai critici superando il cinema minimalista che criticava Brunetta. Benché si sia parlato e scritto molto del neo-neorealismo o addirittura del neo-neo-neorealismo e di rinascita del cinema italiano, e si sia tentato di spiegare i due fenomeni, per chi ha curato il volume mancava ancora una vera discussione sugli aspetti nuovi di questa rinascita oppure svolta del cinema italiano contemporaneo. Il volume per chi avrà la bontà di leggerlo presenta una vasta ricerca sul cinema italiano del presente e del passato ma va anche oltre. La prima parte è infatti dedicata ai Maestri e al cinema del passato, raccoglie un saggio sulle radici udaiste del neorealismo di Enrico Bernard che riapre il dibattito su quell’intramontabile fenomeno culturale e artistico. Lorenzo Borgotallo presenta una lettura nuova del capolavoro I bambini ci guardano, di V. De Sica nell’analizzare il processo sovversivo di orfanizzazione che la storia del film presenta. Ben Lawton offre una provocante rilettura della commedia di costume di Pietro Germi attraverso il contrasto tra omertà e società civile. Alan Perry ci presenta un tema poco discusso, trattando il Meridione nel contesto della Guerra Civile dalla prospettiva di Giovannino Guareschi. La commedia italiana è ben rappresentata dal saggio di Gaia Capecchi sulla “poetica dell’ovosodo” di P. Virzì e dal saggio di Claudio Mazzola che attraverso uno studio comparativista paragona la provincialità della rappresentazione della gioventù italiana del dopoguerra all’anticonformismo di James Dean e di Marlon Brando. Il passaggio tra il vecchio e il nuovo è presentato dallo storico Gian Piero Brunetta con un saggio su un progetto di un film mai realizzato di E. Olmi e la sua collaborazione con Rigoni Stern per l’adattazione del Sergente nella neve. Peter Brunette citando B. Bertolucci ripercorre l’importanza del cinema di Roberto Rossellini. Partendo dai classici della letteratura occidentale, Andrea Ciccarelli ci porta alla scoperta di come il cinema italiano contemporaneo 8 utilizza il viaggio e la stasi. Federico Pacchione riscopre l’influenza di Federico Fellini nel film Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore. Anthony Tamburri analizza Nuovomondo di Emanuele Crialese attraverso le opposizioni tra il Vecchio Mondo e quello Nuovo che sono al centro del racconto filmico. Maria Rosaria Vitti-Alexander tratta di come il cinema contemporaneo racconta il Meridione ne La terra di Sergio Rubini. Marguerite Waller offre una lettura postcoloniale di Luna e l’altra di Maurizio Nichetti e Vito Zagarrio nell’era del neoneorealismo trova il “neorealismo prima del neorealismo”. In un volume che si pone di presentare anche il contemporaneo, difatti la nuova generazione è presente con una riflessione sul documentario con La Paura di Pippo Delbono di Maura Borgonzoni. Flavia Brizio-Skov affronta il quesito se esiste un nuovo cinema politico italiano oggi, invece Tania Convertini analizzando Anche Libero va bene di Kim Rossi Stuart, ci presenta la difficile partita familiare dell’oggi di un padre e di un figlio. Il documentarista Salvo Cuccia raccontando anche le sue esperienze e l’apprendistato con il compianto maestro De Seta narra come attraverso la poesia del reale e il documentario d’autore De Seta ha mostrato la trasformazione della società e del Meridione. Cosetta Gaudenzi, con La giusta distanza di C. Mazzacurati discute di come il film promuove artisticamente il superamento dei pregiudizi e la convivenza culturale. Roberta Rosini offre una rilettura filosofica de Il ladro di bambini di Gianni Amelio attraverso il viaggio meridiano. Manuela Gieri con il suo saggio sull’urgenza della storia analizza come il cinema italiano contemporaneo rivive e la storia del Paese, mentre Alicia Vitti con Il resto di niente, Through the Lens of Antonietta De Lillo ci riporta alla Repubblica Napoletana e a Fonseca. Paola Lorenzi illustra Io sono l’amore del 2009 diretto da Luca Guadagnino come “Italian Antidote to the American Cinema of Aliens, Mutants & Vampires”, mentre Diana Parisi presenta il cinema di Mimmo Calopresti come cinema di ricerca, riflessione, rivoluzione e dell’esserci. La parte letteraria del volume è arricchita dal saggio di Sheryl Postman, su La terra dei padri tra le ultime opere di Giose Rimanelli, scrittore italiano tra i più importanti nel Nord America. Daniela Privitera con Dal silenzio imposto al riscatto della parola traccia percorsi di sicilianità da G. Verga ad A. Camilleri. Flavia Laviosa con ritmi e danze del Sud indica il percorso dalle periferie alla “world music” dei musicisti mediterranei. 9 Il volume offre anche due saggi critici di due noti scrittori italiani: Giacomo Pilati riflette sul ruolo delle Siciliane metaforicamente sintetizzato con “il silenzio e l’urlo” ed Ermanno Rea ci offre una riflessione sul centocinquantesimo anniversario dell’unificazione. Helen Barolini racconta la genesi del suo romanzo Umbertina che attraverso le vite di tre donne di una stessa famiglia ricostruisce al femminile la storia italo-americana dall’unificazione italiana agli anni settanta. L’ampiezza degli argomenti affrontati dai saggi scelti ha come scopo il tema specifico di mettere in luce nuovi aspetti del cinema e della letteratura italiana e di arricchire e di approfondire la conoscenza d’intellettuali, film e scrittori del nostro patrimonio culturale. Antonio C. Vitti Bloomington, Indiana 10 11 parte prima ??? 12 13 Enrico Bernard Le radici udaiste del neorealismo Il 9 giugno 1929 sul «Corriere d’America» a New York viene riprodotto il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione Distruttivisti Attivisti)1 firmato da tre giovanissimi intellettuali napoletani: Carlo Bernard (alias Carlo Bernari, l’autore dello storico romanzo Tre ope- 1 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A. Unione Distruttivisti Attivisti, Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare in appendice al saggio di Rocco Capozzi, Bernari tra fantasia e realtà, Napoli, SEI, 1984, pp. 151-157; qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si riferisce alla fondazione del “Circumvisionismo”. Qui di seguito i nove principi base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento: 1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è stata sempre rivoluzionaria. 2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento. 3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia. 4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato i primi futuristi. I primi futuristi non hanno lasciato niente d’incompleto, poiché le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò in assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte. 5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi perché sono lontani da noi gli anni 1909 ecc. – e niente affatto perché i nostri problemi artistici siano più complessi. 6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione. 7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai cubisti ai surrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte l’esperienza non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova. 8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte. 9. L’arte è novità, la novità è arte. 14 rai del 1932-1934), dal pittore Paolo Ricci2 e dal filosofo e artista Guglielmo Peirce, entrambi tra gli animatori del movimento dei circumvisionisti napoletani3. La critica – non solo letteraria, tranne alcune eccezioni che segnalerò subito, ma anche e soprattutto gli storici e studiosi di arti visive e cinema, – ha fino ad ora sottovalutato o ignorato l’importanza di questo documento. Non se ne è parlato fino alla fine degli anni ’70, quando Rocco Capozzi4 ha riproposto una più attenta analisi del Manifesto in relazione alla genesi del neorealismo. Ma ci sono voluti altri trent’anni prima che la questione tornasse attuale: Francesca Bernardini nella prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 2005 di Tre operai riprende l’argomento del Manifesto UDA: Nel ’29 il Manifesto di fondazione dell’UDA […] costituisce già nel taglio critico e polemico un punto d’arrivo e fornisce le basi su cui si preciseranno la poetica e l’ideologia dello scrittore: nonostante l’affermazione dell’arte come “non arte” […] afferma che l’arte è “espressione del tempo” storico, assume una posizione e responsabilità politiche ben precise, propugna una concezione materialistica della vita e dell’arte; è anti-idealistico e anti-crociano, rifiuta l’ideologia futurista, in particolare l’attivismo e la “religione della macchina”, guarda con interesse alla psicanalisi, al surrealismo, alla Neue Sachlichkeit tedesca, sottopone a critica il realismo sovietico e si ispira al costruttivismo, in particolare per il funzionalismo in 2 Cfr. Paolo Ricci, Catalogo della mostra retrospettiva con interventi e saggi vari, Napoli, Castel Nuovo 26 giugno-28 settembre 2008, a cura di Mario Franco e Daniela Ricci, Napoli, Electa, 2008. 3 Il gruppo circumvisionista Sodalizio fra pittori di belle speranze e di molte illusioni nacque tra il 1928 e il 1929. Tra i firmatari del primo Manifesto dei pittori circumvisionisti (stampato in opuscolo e dopo alcuni mesi riprodotto in «Forche Caudine», II, n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5) è proprio Guglielmo Peirce. Per una analisi esaustiva del movimento circumvisionista cfr. Matteo D’Ambrosio, I circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del fascismo, Napoli, Edizioni Cuen, 1996. 4 È da segnalare l’importanza che verrà data al documento dell’UDA soprattutto in seguito come ha scritto Filiberto Menna per il quale il manifesto «non ebbe il rilievo che meritava e che avrebbe certamente avuto non dico a Parigi, a Monaco, a Berlino, ma anche a Roma o a Milano». Cfr. Filiberto Menna, Un normanno a Napoli, in Paolo Ricci, Catalogo… cit., p.14 15 senso socialista e per il possibile sviluppo di un realismo critico in cui sono centrali i temi della città e dell’industria5. È allora di tutta evidenza che, se si intende fissare una data ed un episodio di partenza del “neorealismo”, non è possibile ignorare il Manifesto UDA del 1928-29. Esso viene, certo, a rompere le uova nel paniere di una critica ormai assuefatta allo schematismo accademico, che considera il neorealismo cinematografico del dopoguerra come una innovazione, peraltro con forti margini di autonomia, del protorealismo letterario dei primi anni ’30. Il quale, a sua volta, sarebbe una diretta conseguenza del filone realistico-veristico derivato da Manzoni e Verga. Questa impostazione, fuorviante, se non addirittura erronea, nasce da un gigantesco equivoco provocato in prima battuta da un critico, Emiliano Zazo, che, nel 1934, recensendo Tre operai con lo pseudonimo di “Aristarco”, coniò il termine “neo-verismo”6. Il fatto è che il “contenuto” sociale, in questo caso la fabbrica e la condizione operaia, ha finito per abbagliare i lettori poco attenti che, spesso e volentieri, hanno sottovalutato l’importanza, sotto il piano formale, del romanzo d’esordio di Bernari. Importanza che va fatta risalire alla fase preparatoria teorica della fine degli anni ’20 e all’impostazione e redazione del Manifesto UDA, il cui scopo principale è quello di creare un’arte nuova, rivoluzionaria, in virtù dell’apporto sinergico di tutte le arti. Del resto, gli stessi autori, considerati artefici e protagonisti del neorealismo italiano, hanno ripetuto, fin dai primi anni ’50, che non basta la descrizione di un ambiente sociale, non basta l’engagment politico-ideologico, non basta il documentarismo, cioè la rappresentazione della realtà vera, così com’è, a trasformare un’opera d’arte in opera neorealista. Lo dice chiaramente Zavattini in un convegno nel lontano 1953: Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che risponde ai bisogni, alle esigenze, alla storia degli italiani in questo momento […] Ci sono dei film più o meno felici nell’ordine sociale. C’è un film di straordinaria intelligenza come Le 5 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, in Carlo Bernari, Tre operai, Milano, Oscar Mondadori, 2005. 6 “Aristarco” (Emiliano Zazo), Un neo-verista: Carlo Bernard, in «L’Italia Letteraria», X, 14, 8 aprile 1934. 16 vacanze del signor Hulot ma non è neorealista, di neorealista ci sono i pensieri […] Le opere neorealiste non possono essere che nel corso […] che si deve percorrere per avvicinarsi alla realtà […] Voglio dire che c’è una posizione, un atteggiamento verso la vita che non si limita al fatto così detto artistico, ma fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo le attuali necessità storiche […]7. Il pensiero di Zavattini viene poi ripreso da Federico Fellini che, in un intervento sotto forma di lettera aperta a Massimo (Mida)8 del 1955, deve difendere La strada dagli attacchi della critica marxista italiana: Caro Massimo, ho letto con viva attenzione la tua lettera9, come ho letto gli articoli di alcuni critici di sinistra, ai quali ti accordi, e spero vorrai accettare la mia franchezza se ti dirò che le vostre critiche, o meglio i vostri rilievi, non mi sembrano persuasivi […]. E dopo aver difeso La strada dalle accuse di “monadismo” e di “individualismo”, Fellini chiarisce ulteriormente la sua posizione intorno al neorealismo: Secondo me il processo storico, che l’arte deve, certamente, scoprire, assecondare e chiarire, si svolge in dialettiche assai meno limitate e particolari, assai meno tecniche e politiche, di quanto voi credete: a volte, un film che, prescindendo da riferimenti più precisi a una realtà storico-politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di un altro dove ci si riferisca a una precisa realtà social-politica in cammino10. 7 Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3-4-5 dicembre 1953 (pubblicata in «Rivista del Cinema italiano», a. III, n. 3, marzo 1954, poi in Neorealismo ecc., a cura di Mino Argentieri, Milano, Bompiani, 1979. La citazione è ripresa dall’antologia: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 177. 8 Federico Fellini, Neorealismo, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 15, 9 aprile 1955. La citazione è tratta da: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, cit., p. 196. 9 Massimo Mida, Lettera aperta a Federico Fellini, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 12, 19 marzo 1955. 10 Federico Fellini, Neorealismo, cit. p. 200. 17 Da questi interventi risulta evidente che l’incomprensione tra autori e critici, da cui scaturì quella polemica degli anni ’50-’60 intorno al neorealismo (di cui – non riuscendo a giungere ad una definizione soddisfacente – poi si preferì teorizzare la morte prematura, tanto per far sparire col cadavere – del neorealismo – anche l’ipotesi di delitto perpetrato dalla critica)11, riguarda appunto l’errore di partenza: quello di considerare il genere neorealista sotto l’aspetto del “contenuto” e non della “forma” come altresì suggerito a gran voce dagli artisti stessi. A cominciare dallo stesso Bernari che in Questioni sul neorealismo12 scrive: Un contenuto artisticamente parlando può risultare prevedibile, quanto invece imprevedibile deve essere la forma in cui si manifesterà; poiché tutto alla fin fine è contenuto; quel che non è, per definizione, contenuto, può diventare tale appena rivelato sul piano estetico da rifluire sulla stessa realtà da cui proviene e modificarla. Naturalmente la critica ha dovuto fare poderose marce indietro, rimangiarsi giudizi ridicoli (la quasi stroncatura de La strada ne è un classico esempio, ma se ne potrebbero aggiungere altri come la diffidenza e l’ostracismo contro Giuseppe De Santis13). Ma questa marcia indietro, innestata senza tener conto dell’avvertenza di Pirandello che l’arte è forma e non contenuto14, ha cozzato nuovamente contro i paletti della letteratura: si è così cominciato a parlare, nell’immediato dopoguerra, di un “incunabolo” neorealista a proposito della letteratura dei primi anni ’30. In modo particolare si è usato il romanzo 11 Vogliamo ricordare i versi di Pier Paolo Pasolini In morte del neorealismo del 1960: «Tutti l’avete amato, quello stile, ai giorni / della speranza: e non senza motivo. / Che motivo v’impedisce ora di rimpiangerlo?/ Ah, Ragione! perduta di nuovo negli oscuri / meandri dell'irrazionalità! Elusione, / riduzione, elezione stilistica: atti, / tutti, della resa davanti alla reazione! / Scusate… il mio cuore è là, dentro la bara, / con quello stile… Vorrei tacere, e basta». Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, p. 140. 12 Carlo Bernari, Questioni sul realismo, saggio del 1953, in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, p. 109. 13 Cfr. Antonio C. Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso, Pesaro, Metauro, 2006. 14 «Chi concepisce la tecnica come alcunché d’esteriore, cade precisamente nello stesso errore di chi concepisce come alcunché di esteriore la forma. La tecnica è il movimento libero spontaneo e immediato della forma». Luigi Pirandello, Arte e scienza in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, Meridiani, 2006, p. 692. 18 Tre operai del 1934 di Carlo Bernari per quella subdola mistificazione del neorealismo in chiave contenutistica. Tutto ciò nonostante le ribellioni di Bernari e di altri autori che mai accettarono di essere considerati “neorealisti”, tantomeno “proto”, – se per neorealismo si doveva intendere il prevalere del “contenuto”, l’impegno sociale, sulla “forma” rivoluzionaria dell’opera d’arte. Certo, Tre operai fin dal titolo, pareva rappresentare la “prova-provata”, malgrado le rimostranze dell’autore, di una letteratura postverista che, rappresentando l’ambiente della fabbrica e della condizione operaia, gettava le basi “contenutistiche” di un neorealismo in nuce. Così la critica (e si sa che la critica cinematografica è piuttosto superficiale nei confronti della letteratura, così come la critica letteraria guarda al cinema con una certa altezzosa severità) ha trovato bell’e pronta la soluzione al problema del neorealismo: un travaso contenutistico dalla letteratura postverista e protoneorealista alla forma tipicamente neorealista del cinema. Le cose tuttavia, dicevo, non stanno propriamente così. Se si concepisce il neorealismo (lo dicono Zavattini e Fellini) come un “avvicinamento al reale” (Za), cioè come una forma e non come un contenuto sociale e politico (altrimenti il verismo bastava e avanzava), allora oltre all’individuazione della scintilla neorealista (il Manifesto UDA), bisogna poter anche evidenziare la catena di trasmissione con cui questa nuova “forma” neorealista riuscì ad innestare il suo processo artistico. Ora, è noto che i due “padri” fondatori del “neorealismo” in letteratura e nel cinema (Carlo Bernari e Cesare Zavattini) hanno incrociate, fin da giovanissimi come vedremo tra poco, le loro vite e i loro destini: Zavattini fu il primo lettore nel lontano 1932 del manoscritto di Tre operai che pubblicò, nel 1934, nella collana dei “Giovani” di Rizzoli da lui diretta. Basta dare un’occhiata al ricco carteggio Bernari-Zavattini degli anni 1932-1938, per rendersi conto che le influenze reciproche dei due artisti e scrittori sono molteplici. Alché è difficile pensare che il film cult del neorealismo Ladri di biciclette, scritto da Za per De Sica nel 1948, non abbia risentito di questi scambi tra due menti aperte, giovani e disponibili al confronto. Tralascio una disamina di questo aspetto per esigenze di spazio, dirò solo che nell’editing del romanzo d’esordio di Bernari, Zavattini maturò alcune osservazioni stilistiche e formali di cui poi farà uso nella stesura della sceneggiatura del capolavoro neorealista. Va da sé che l’evoluzione del 19 neorealismo di Zavattini, in direzione di un surrealismo a sfondo politico-sociale, prima favolistico poi sempre più fantastico (mi riferisco a Miracolo a Milano e a Il giudizio universale, scritti da Za per De Sica tra il 1950 e il 1960) vanno proprio in direzione degli spunti teorici del Manifesto udaista del ’29 – soprattutto per quanto riguarda l’aspetto formale dello stravolgimento del reale in senso, non solo surreale, ma addirittura metareale (l’arte intesa come potenzialità rivoluzionaria “soggettiva” nei confronti dell’oggetto rappresentato). Ecco allora che, in quest’ottica, anche un autore come il Fellini di 8 e 1/2, opera che sta da sempre stretta nello scarpone del neorealismo tradizionale, contenutistico, si spiega invece perfettamente. Lo stesso discorso vale per il cinema di Pier Paolo Pasolini, e non mi riferisco al “surreale” capolavoro neorealista che è Uccellacci e uccellini, ma anche alle più controverse e trasgressive opere, da cui affiora una sessualità apparentemente ossessiva che si è in parte spiegata con la biografia stessa del poeta friulano15. In realtà, anche su questo punto, il “sesso”, il Manifesto UDA era giunto ad una definizione teorica estremamente e audacemente moderna: Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo16. Quello che sorprende – tornando al rapporto tra Bernari e Zavattini, nella corrispondenza degli anni ’30, – è che tra i due si parla molto del ruolo dell’immagine, di cinema e di fotografia, – meno di letteratura. Soprattutto nella prima fase del carteggio, tra la fine del ’31 e la fine del ’32, la questione al centro dei discorsi non è letteraria, perché Zavattini conosce Bernari non tanto come “scrittore”, bensì come un giovane intellettuale appassionato di arte. Il fatto è che Za sente per la prima volta il nome di Bernard (che cambierà in Bernari 15 In realtà erotismo e sessualità sono elementi centrali della letteratura italiana dalle origini ad oggi. Non a caso una delle opere cinematografiche più trasgressive di Pasolini è tratta dal Decameron. Nella vasta bibliografia al proposito, cfr. D’amore si vive. Racconti erotici da Boccaccio a D’Annunzio, a cura di Guido Davico Bonino, Milano, Rizzoli BUR, 2009. E cfr. inoltre Parole di Eros. Erotismo e pornografia nella letteratura italiana dal Duecento al Novecento, a cura di Riccardo Reim, Bologna, Castelvecchi, 2010. 16 Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, Manifesto di Fondazione dell’Uda del 30 gennaio 1929, in Rocco Capozzi, Bernari tra Fantasia e Realtà, Napoli, SEI, 1984, p. 155 20 nel 1938 in seguito alle leggi razziali) collegato a due giovani artisti dell’area napoletana: il pittore Paolo Ricci e il teorico dell’arte Guglielmo Peirce. Tutti e tre si sono fatti notare da Zavattini, che alla fine degli anni ’20 è a sua volta un giovane intellettuale appassionato di arte e assetato di novità, oltretutto in procinto di trasferirsi a Milano come collaboratore delle maggiori case editrici italiane, in seguito alla pubblicazione del Manifesto UDA (ripeto la sigla per esteso: Unione Distruttivisti Attivisti) nel 1928-1929. Anche se la critica, come dicevo, con le eccezioni di Rocco Capozzi, Eugenio Ragni17 e Francesca Bernardini e pochi altri, ha ignorato l’importanza di questo documento, esso rappresenta il tassello fondamentale del passaggio dalle arti visive del primo ventennio del ’900 alla letteratura neorealista dei primissimi anni ’30. Si tratta di un atto “formale” che sancisce la nascita del “neorealismo” come processo di “avvicinamento” alla realtà, non più e non solo da un punto di vista letterario (verismo e conseguente contenutismo), ma con la teorizzazione della sinergia di tutte le arti sul piano della forma18. A monte del Manifesto c’è la vicinanza al gruppo dei circumvisionisti, che, superando il futurismo, ma conservando simpatie per il cubismo, già si erano rivolti all’espressionismo, all’astrattismo, al surrealismo, al costruttivismo russo […]19. Non aver preso in considerazione questo passaggio storico, che fonda un nuovo modo di concepire l’arte nel rapporto tra forma e contenuto, tra arti visive e letteratura, – quest’ultima viene trascinata nel Manifesto ad un confronto serrato sul piano dell’eikon, dell’immagine, – ha reso possibile l’equivoco letterario-contenutistico a proposito del neorealismo che citavo poc’anzi. Per questo Carlo Bernari redarguiva il critico cinematografico (Mario Verdone, tanto per non far nomi) che pensava di fargli un pia17 Eugenio Ragni, Invito alla lettura di Bernari, Milano, Mursia, 1978. 18 Nella cultura italiana permane una sorta di scetticismo nei confronti del “formalismo”, probabilmente per un retaggio critico la cui origine risale al giudizio sul marinismo. In realtà il formalismo italiano, basti pensare a Carlo Gozzi, ha influenzato autori e movimenti rivoluzionari del ’900, basti pensare ai formalisti russi, alla rivoluzione dada, ma anche a Brecht e a Pirandello, che hanno considerato la “forma” (e non il contenuto) come il vero contesto rivoluzionario dell’arte. 19 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, cit., p. XXX. 21 cere a ingabbiarlo in una definizione, quella di autore “neorealista”, che in realtà era, per lo scrittore, una riduzione “contenutistica” di un’opera letteraria “formalmente” aperta alle altre arti. Non che Bernari rifiutasse il neorealismo tout-cour, ci mancherebbe!, piuttosto lo scrittore si ribellava ad un’operazione critica che all’epoca mirava a svalutare la libertà formale dell’arte per prediligerne l’aspetto sociale e politico, il contenuto. Di qui, negli scrittori e registi neorealisti, nasce il dissidio con la critica allineata, prima dei fatti di Ungheria, col Partito Comunista (vedi Fellini e il caso De Santis cui ho precedentemente accennato). Nel saggio sul realismo del 1957, poi ripreso nel 1973, Bernari lancia un’accusa grave contro la “critica” sia cattolica che marxista: […] fin quando però la cultura italiana non si riconoscerà in un comune fronte laico, ma continuerà a manipolare le verità complici, (con la complicità della Chiesa innanzi tutto, e delle chiese in genere, ognuna delle quali sa trovare, per proprio conto o tornaconto, un'unità confessionale) non vedo vie d’uscita entusiasmanti; non vedo cioè come questa cultura possa sottrarsi all’azione corrosiva della controriforma che insidia, anzi è il presupposto permanente di ogni mistificazione conservatrice. Altro che realismo e neo-realismo!20. Comunque, a proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito dell’avanguardia artistica (forma), e non nella tradizione letteraria (contenuto), Bernari ne parla con chiarezza nell’intervista originaria del 195721 in cui definisce il realismo socialista come: […] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tradito le premesse da cui parti lo stesso neorealismo, che fu un movimento avanguardista, espressione di crisi di una società oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi tra il ’30 e il ’40, allorché il neorealismo significò resistenza 20 Carlo Bernari, Questioni sul neorealismo, cit. p. 111-112. 21 Carlo Bernari, Risposte a Questioni sul neorealismo in «Tempo presente», a. II, n. 7, luglio 1957 (poi, con numerose varianti, in Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973). L’intervista è stata riproposta in Neorealismo poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milani, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 220-224. 22 al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) […]. La definizione negativa di Bernari del realismo socialista, da lui bollato come “una corruzione del realismo in senso neorealistico”, risale al 1957, all’indomani dei fatti di Ungheria. Caspita, essa avrebbe dovuto smuovere nugoli di studiosi e di critici alla ricerca del “vero” fondamento del neorealismo! Si optò invece per la soluzione più schematica e semplice possibile, quella cui accennavo all’inizio della mia analisi, cioè il neorealismo fu preso per la sua coda “contenutistica”, e non per la sua “testa” pensante, rivoluzionaria e formalistica. Naturalmente Tre operai ha un preciso contenuto storico e politico, addirittura economico, ma tutto ciò è preceduto dalla “forma” nuova che assume il romanzo, che non è più – dopo il Manifesto UDA – quella del romanzo borghese: Tre operai ha pertanto la funzione […] di contribuire alla rinascita del romanzo, proponendo nuovi contenuti e una forma nuova, contrapponendosi alla tradizione del romanzo borghese, anche contemporaneo, nel quale attraverso la memoria la soggettività dell’autore, l’“umanità” dei personaggi e la letterarietà la realtà e la situazione storica venivano sublimati in una dimensione lirica e astratta. L’umanizzazione di cui Bernari e Zavattini discorrono delle loro lettere consiste nel radicare concretamente le vicende e i personaggi su un terreno economico e politico, dell’analisi delle trasformazioni che la tecnica dell’industria hanno comportato nella struttura e nei rapporti sociali22. Come si legge, la questione della forma è essenziale. Perché il romanzo di Bernari viene subito accusato di essere “scarno”, “ridotto all’osso”. Rimando al saggio di Francesca Bernardini per la storia della critica a Tre operai, ma colgo qui solo un aspetto della questione: la novità dell’opera di Bernari è che non si tratta più di letteratura, ma di qualcosa d’altro che va in direzione delle arti visive e del cinema, assumendo la caratteristica di una vera e propria sceneggiatura, di un trattamento o di una novellizzazione di opera cinematografica23. 22 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, cit., p. XXXVIII. 23 Sui rapporti di Tre operai con le arti visive, cinema e teatro, vedi: Enrico Bernard, Esiste un teatro neorealista?, in Ripensare il neorealismo, a cura di Antonio C. 23 Insomma di un’altra “forma” rispetto al romanzo borghese, una forma determinata dal rapporto con le arti visive, – e va da sé che non stiamo parlando di un astratto formalismo fine a se stesso, esagerazione o “male infantile” delle avanguardie, che Bernari in ripetuti interventi fa ricadere nell’estetica borghese. Di questa nuova “prospettiva”, che va in direzione delle arti visive e delle esperienze artistiche del ’900, parla Remo Cantoni a proposito di Tre operai, definendolo “visionario” al di là della matrice letteraria: un libro realista, per i temi sociali che affronta, per gli ambienti che descrive; […] ma realismo continuamente filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose24. Apro una breve parentesi. Il paradosso è che il primo stroncatore di Tre operai fu Elio Vittorini, che, nel 1934, lo liquidò come un romanzo “operaio” politicamente fallito. Il titolo della recensione di Vittorini merita l’inciso: “Tre operai” che non fanno popolo25. Lecito domandarsi: qual è dunque la differenza tra il neorealismo contenutistico26 di Vittorini e il neorealismo formale di Bernari? Ebbene, Vittorini, nella prefazione de Il garofano rosso, si lascia sfuggire una frase che è tutta un programma politico-contenutistico: «scrivo perché credo in una [corsivo mio, N.d.R.] verità da dire»27. Ebbene, Bernari non crede, non ha mai creduto e mai crederà nella “verità”, tantomeno in “una” 24 25 26 27 Vitti, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 17-28. Vedi anche: Enrico Bernard, Bernari e il cinema in «Esperienze Letterarie», Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, XXXI, 2006, n. 4, pp. 5. Remo Cantoni, Prefazione a Carlo Bernari, Tre operai, Milano, Mondadori, 1951, pp. 9-10. E.V. [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello», VI, 22 luglio 1934; poi in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 1997. Del resto, Vittorini, rifiutando nel 1947 ufficialmente le vesti di pifferaio della rivoluzione e del Partito Comunista, ha progressivamente modificato la sua opinione sul rapporto arte-ideologia. Il suo intervento L’arte è engagement naturale relazione tenuta nell’agosto del 1948 in occasione delle “Rencontres internationales di Ginevra”, sta in Elio Vittorini, Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957 (sta anche in Neorealismo poetiche e polemiche, cit. pp. 77-83), parrebbe assumere una posizione che richiama il concetto formalistico del Bernari del 1929. Infatti quella dell’engagement sarebbe dunque una predisposizione dell’artista nei confronti del reale. Torneremo su questo assunto nelle conclusioni. Elio Vittorini, Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948. 24 verità. Il suo marxismo è dialettico, la sua missione di intellettuale e scrittore non è la verità, ma la crisi della verità, la critica del vero, la ricerca come atto formale di indagine della realtà, contro ogni “massimo sistema”, che si chiami fascismo o partito comunista. Va ricordato il caso della richiesta di iscrizione al PCI del 1944 che Bernari stracciò in seguito ad un incontro a Napoli con Togliatti, organizzato dall’amico Paolo Ricci, in cui Bernari si vide “tagliato” dal Migliore parte del catalogo della Biblioteca del Marxismo da lui preparata28. Togliatti fece infatti “saltare” numerosi autori perché non allineati o in “odore” di troskismo. Il viaggio a Napoli per incontrare il capo del PCI fu organizzato anche per discutere l’edizione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Anche in questo caso il dissidio tra Bernari e Togliatti fu totale, poiché Bernari comprese che il dirigente comunista voleva in qualche modo adattare il pensiero gramsciano alle linee del partito. È, d’altronde, interessante notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica quando, siamo nel 1929, il mito stalinista è ancora in auge. In questo paragrafo del Manifesto, infatti si legge: I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte dall’esasperazione dell’idealismo individualista, oggi negano il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda sociale. I Sovieti sono perciò i più vicini all’annullamento completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti, che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo29. 28 Su questo argomento vedi: Dario Fertilio, Togliatti censore: correggete Gramsci, sul «Corriere della Sera» del 2 febbraio 1996, p. 3. L’articolo, che contiene alcune pagine del diario di Bernari, è stato ripreso da Luciano Canfora, sempre sul «Corriere della Sera» il 5 dicembre 1996. 29 Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, Manifesto di Fondazione dell’UDA del 30 gennaio 1929, cit., p. 155. 25 Questa citazione ci consente di tornare alle vicende legate al Manifesto UDA del 1929. Il sodalizio tra il pittore e storico dell’arte Paolo Ricci e Bernari risale alla seconda metà degli anni ’20 e coinvolge, come accennavo, anche un terzo giovane intellettuale, Guglielmo Peirce, a sua volta filosofo e pittore. I tre amici daranno vita, proprio negli anni in cui il regime fascista è al massimo della propaganda ideologica, ad un movimento marxista, quindi anticrociano e, soprattutto, antifuturista. Tra il 1927 e il 1929 i tre giovani intellettuali, non ancora ventenni, pensavano di dedicarsi a diverse ricerche e tentativi, tra cui una Storia del movimento operaio a Napoli30, opera che mai vide la luce, ma che fornì a Bernari, impegnatosi più degli altri due nelle ricerche storiche, il materiale e gli ambienti, oltre a quelli notoriamente autobiografici, per le prime stesure di Tre operai (Tempo passato del 1928-29 e poi Gli stracci del 1929-1931). Tramite Ricci, Bernari si avvicina agli artisti circumvisionisti napoletani e, grazie all’attivissimo Peirce, al gruppo romano della “seconda ondata”, legato al futurismo. Il 18 gennaio 1929, in una serata al Circolo Marchigiano di Roma, – presenti Marinetti e Balla e Luigi Pepe Diaz, antifascista e comunista, rifugiatosi in seguito a Parigi, – Gustavo Barela, leader del gruppo, legge due poesie di Bernari, Ghigliottina e Idillio7, andate perdute. Ma in questo clima Bernari, Peirce e Ricci fondano un movimento d’avanguardia e, tornati a Napoli circa a metà del ’29, lanciano il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione distruttivisti attivisti), che, stampato in cinquecento copie, “imbucato e distribuito di notte”31 viene recensito da Ungaretti. Il manifesto nacque tra la fine del ’27 e i primi del ’28; proprio in opposizione all’ottimismo futurista. Lo concepimmo innanzitutto come testimonianza critica antifascista, in opposizione all’arte ufficiale fascista. Essendo giovani non potevamo essere ingenerosi, per cui vedevamo fascismo dovunque. E 30 «Paolo (Ricci, N.d.R.) scriveva una storia dell’architettura, fondata su equazioni economico-sociali; Guglielmo (Peirce, N.d.R.) un’estetica tra Aristotele e Marx; io, da mattina a sera occupato nella bottega di tintoria, una storia della classe operaia già arresa alle cronache delle mie giornate». Carlo Bernari, Nota ’65, in Tre operai, cit., pp. 159-170. 31 L. Vergine, L’opposizione di alcuni artisti nella Napoli degli anni ’30 oppure I distruttivisti-attivisti, testo di una trasmissione radiofonica del terzo canale della Radio, 8 marzo del 1971, dattiloscritto in fotocopia, p. 1, ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 7/421. 26 bisognava abbatterlo; e come, se non prevaricando! […] Cosa proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo futurista, che era in sé per sé un’esaltazione della macchina, già allora tanto minacciosa; ma una coscienza tecnologica che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strutture ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla macchina. […] Ed ecco come da una simile riflessione doveva nascere il distruttivismo e l’attivismo dell’U.D.A., cioè Unione distruttivisti-attivisti, per un’attività dello spirito non in senso gentiliano, ma in dialettica con la natura, in dialettica con la storia, e coscienti dei mezzi tecnologici e scientifici da cui l’uomo d’oggi è condizionato32. Il Manifesto affermava alla luce del marxismo e di Freud l’inutilità dell’arte, anche di quella cosiddetta d’avanguardia, futurismo in testa, perché destinata a diventare comunque un aspetto della cultura borghese, annunciando la fine delle arti belle e mostrando intolleranza per ogni tipo di autorità sia in campo politico che artistico. I distruttivisti-attivisti affermavano il primato della scienza e della tecnologia, «uniche attività capaci di sottrarsi all’asservimento di classe e in grado di restituire un’immagine positiva del reale»33, in tal senso essi consideravano la macchina non l’oggetto mitico dei futuristi, ma uno strumento da osservare senza enfasi: Uno strumento in grado di trasformare i meccanismi produttivi e di eliminare lo sfruttamento presente nel mondo industriale. Colpisce, nel testo d’impronta dadaista, l’attenzione, sulla linea di Breton e dei surrealisti, alle ricerche della psicanalisi e al loro rapporto con l’arte moderna, mostrando un interesse che investiva tutti i campi dell’attività culturale: dai problemi sociali che si richiamavano al marxismo all’architettura, dall’urbanistica alla scienza, ai costumi della vita moderna34. Il movimento non passò inosservato: Croce, nonostante la sua celebre ostilità verso ogni novità, confidò a Francesco Flora, che glielo fece 32 Rocco Capozzi, Intervista a Carlo Bernari, «Italianistica», IV (1975), n.1, p.143144. 33 Carlo Bernari, Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASNA), Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/36. 34 Daniela Bernard, Carlo Bernari a Parigi, in «Studi novecenteschi», Pisa-Roma, Serra Editore, XXXVI, n.78, luglio-dicembre. 2009, pp.313-346. 27 recapitare, che il manifesto era «una cosa molto seria»35, aggiungendo la famosa frase: «Sti guaglioni non so’ fessi!»36. Una lettura non meno superficiale del testo udaista fu quella di Giuseppe Ungaretti che sulla rivista «Il Tevere»37 scrisse: Sono tre pagine non stupide, scritte da persone che hanno seguito le idee intorno all’arte di questi ultimi tempi. […]. È, riconosciuto, l’errore romantico. Per i romantici si trattava di liberare lo spirito dai ceppi della retorica. In realtà abbiamo avuto questo: una serie di rivoluzioni teoriche, la durata sempre più breve di queste successive retoriche, la persuasione sempre più insopportabile di avere tra i piedi una retorica da mandare al diavolo. E così l’arte si è fatta moda. Cioè si è messa a perseguire fini che sono l’opposto di questi dell’arte e i predetti Signori non hanno torto di lanciare il manifesto dell’antiarte. Ma ora viene il bello. I Distruttivisti-Attivisti parlando di arte che sarebbe mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia con il cambiare della simpatia stessa, vogliono dirci che questo oggetto è la macchina. Lo aveva detto anche Marinetti. Ma essi non considerano la macchina come una bellezza da esaltare ma come un prodotto della nostra civiltà da sfruttare. Il Manifesto dei tre giovani “distruttivisti-attivisti” – Bernari, Peirce e Ricci – rappresenta, insomma, la reazione negativa, probabilmente la prima da parte di giovanissimi intellettuali marxisti, al futurismo: si tratta sostanzialmente, al di là della polemica tipica del tempo sulla funzione e valore dell’arte, di una vera e propria “messa in guardia” ideologica contro il mito della “macchina” che, disumanizzando il lavoro e incrementando la dinamica del profitto, non può essere vista solo come uno strumento di progresso, ma deve esserne avvertita la minacciosa potenzialità alienante. La cultura italiana, solitamente provinciale e un po’ miope, ha sempre insistito, tranne qualche raro caso, sulla mancanza di sbocchi e di influenza del Manifesto dell’Uda. Senonché, il 9 giugno 1929, come accennavo all’inizio, il Manife35 Intervista a Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/80. 36 Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 3/125. 37 Giuseppe Ungaretti, L’arte è novità, «Il Tevere», 19 ottobre 1929. 28 sto fu ristampato sul «Corriere d’America» a New York: la sorpresa sta nel fatto che il Manifesto sia arrivato in America subito dopo la pubblicazione a Napoli. E se poi si collega questa data del 1929 col soggiorno parigino di Bernari del gennaio-aprile 1930 (Bernari raggiunge gli amici artisti Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, che già sono nella Ville Lumiére da qualche tempo), dobbiamo rivedere – e di molto – la tesi sulla scarsa diffusione delle idee del Manifesto UDA. Appena giunto a Parigi infatti Bernari, ventunenne, entra in contatto con André Breton e Ribemont-Dessaignes. Racconta Bernari: Avevo conosciuto Ribemont-Dessaignes e, insieme, Nino Frank, in una fredda e grigia stanzetta che affacciava su un interno di St. Germain-des-Près; era tutta lì la redazione della sontuosa rivista «Bifur»; dove il direttore mi riceveva con il cappotto indosso, un cappotto marrone dal taglio antiquato. Sulla sponda opposta Breton metteva la rivista del surrealismo al servizio della rivoluzione, per esserne ricompensato con l’espulsione dal Partito Comunista dopo il rifiuto di compilare un rapporto sulla situazione dei gasisti in Italia. «Pensate!» mi diceva furibondo «Io! Uno scrittore! Che ne so di quel che succede in Italia?». E io a rimproverarlo, che non avrebbe dovuto sottrarsi al compito. Chè sarei stato ben felice se qualcuno al mio paese avesse potuto chiedermi qualcosa di simile. Ero persuaso di dover invidiare quella libertà che consentiva a lui di respingere una richiesta, essa stessa affermazione di libertà38. Il giovane scrittore napoletano incontra Breton proprio nel momento in cui l’artista, che aveva aderito nel 1927 al partito comunista francese, si stava staccando dal gruppo e mutava l’insegna della sua rivista da «Révolution surréaliste» a «Le Surréalisme au service de la révolution». La lettura delle opere di Breton lo suggestionano e gli fanno sentire attuali le riflessioni fatte a Napoli e confluite nel Manifesto UDA: […] le opere [di Breton e Ribemont-Dessaignes N.d.R.] lette sul posto mi avevano impressionato in quanto le vedevo in linea con un surrealismo storico le cui radici affondavano nei Les Chants de Maldorol per un verso, nei racconti del Poe 38 Carlo Bernari, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, pp. 225-226. 29 nell’altro verso, ma più che altro ciò che mi impressionava era il filone dada che in un certo senso o forse in tutti i sensi era stato raccolto da quella parte distruttivistica che aveva ispirato l’Uda 1928-1929. Erano passati due anni dal manifesto Uda (forse tre) e mi toccava, lì sul vivo, sentirne ancora l’attualità39. Fatto sta che i due celebri esponenti del surrealismo accolgono Bernari (e le tesi dell’UDA) con grande interesse, rispondendo anche epistolarmente ad una “Inchiesta sul surrealismo” che Bernari porta avanti con tenacia: la corrispondenza di Bernari con Breton e Ribemont-Dessaignes è del gennaio-febbraio 193040. A testimonianza del particolare clima di amicizia e considerazione, nonché di collaborazione, instauratosi tra Breton e Bernari, resta un frontespizio del Manifeste du surréalisme che Breton stesso dedica cosí: A Carlo Bernard, per simpathique homage André Breton giavier 193041. Considerando che, contemporaneamente, a Parigi nei primi mesi degli anni ’30 si trovano anche Paolo Ricci e Guglielmo Peirce – quest’ultimo a matita realizza una sorta di autoritratto42 del terzetto di amici, confondendone e fondendone i lineamenti –, va da sé che i temi ancora caldi, “attuali” come riferisce Bernari, del Manifesto UDA diventino una sorta di biglietto da visita per il sodalizio. Comunque, le idee dei giovani distruttivisti-attivisti (che nel 1929 hanno trovato anche eco a New York) si diffondono negli ambienti intellettuali parigini43. 39 Carlo Bernari, Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su Tre operai e sul soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 9/482. 40 La lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, oggi presso l’Archivio del Novecento, Roma, è stata pubblicata nel catalogo della commemorazione Roma ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte, Roma, 2002. 41 Collezione privata Enrico Bernard, Roma. 42 Il ritratto a matita firmato da Guglielmo Peirce riporta la data del marzo 1930. Collezione privata di Enrico Bernard, Roma. 43 A Parigi il 25 maggio del 1929 intanto esce il primo numero della rivista «Bifur», che apparve con frequenza bimestrale fino al 31 dicembre del 1929 e poi ancora, in maniera più altalenante dal 30 aprile del 1930 al 10 giugno del 1931. Malgrado Breton la qualificasse “remarquable poubelle”, fu senz’altro una delle più belle e ricche riviste dell’epoca, aperta alle esperienze culturali internazionali. La tiratu- 30 E parlando dell’influenza più o meno diretta che l’udaismo esercitò, indipendentemente dalla sua fortuna letteraria, va pur detto che in questo contesto, fra Parigi e New York, nacque la sceneggiatura di Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, film la cui genesi ideologica e artistica risale al 1933-34. Naturalmente non si può stabilire una relazione diretta tra la critica della “macchina industriale”, di cui Bernari-Ricci-Peirce nel 1929 evidenziano, contro l’esaltazione del futurismo, la mostruosità estetica ed esistenziale, e la tragica farsa dell’omino chapliniano incastrato dalla e nella catena di montaggio. Certo è che, se l’aria del tempo si respira nel capolavoro di Chaplin, ad accendere il fuoco sotto la pentola a pressione della critica del “progresso” sono stati, last but not least, proprio i tre giovani distruttivisti-attivisti napoletani! Si può, dunque, affermare che la genesi dell’opera letteraria di Bernari – “l’incunabolo neorealista”44, come viene definita dalla critira della rivista fu per i primi 4 numeri di 3000 copie, per i numeri 5-6-7 di 2000, e per l’ultimo numero di 1.700 copie. La rivista era pubblicata dalla Edition du Carrefour con sede a Parigi in Boulevard Saint-Germain, 169; direttore della rivista era Pierre G. Lévy, redattore capo George Ribemont-Dessaignes e a partire dal secondo numero Nino Frank è segretario di redazione. Frank era anch’egli un napoletano, di padre svizzero tedesco, rimasto fortemente attratto da Parigi come del resto Bernari e gli altri giovani del tempo che volevano allargare i propri orizzonti letterari e sfuggire alle miopie politiche, sociali e culturali del fascismo. Nino Frank, in particolare trasferirà il suo incarico di segretario di redazione direttamente da «’900» a «Bifur» dove il suo ruolo sarà ufficializzato a partire dal secondo numero, mentre già a partire dalla prima uscita e fino all’ultimo numero il consiglio di redazione interamente straniero sarà formato da: Bruno Barilli, Gottfried Benn, Ramon Gomez de la Serna, James Joyce, Boris Pilniak e William C. Williams. Grazie a un comitato così composto la rivista renderà facili i suoi contatti con l’Italia, la Spagna, la Germania, la Russia, l’America, l’Inghilterra, con reportages, lettere e racconti che permetteranno di offrire al lettore un visione ampia del mondo. Con la redazione di «Bifur» Bernari viene a contatto quasi subito recandosi in Boulevard Saint-Germain, nella redazione della rivista francese, e, analizzando la rivista, i contributi dei suoi redattori risultano evidenti le influenze tematiche e stilistiche che esse operarono nella formazione di Bernari. Nino Frank diventerà l’amico parigino dei giovani scrittori italiani, intermediario culturale di rilievo tra Roma e Parigi, traduttore importante e diffusore, attraverso le sue influenze e conoscenze negli ambienti letterari, delle opere italiane di cui cercherà di ottenere la pubblicazione. 44 Il termine “incunabolo neorealista” viene riferito in particolare al romanzo Tre operai di Bernari. La paternità del termine è piuttosto incerta e comunque dimostra la difficoltà della critica del dopoguerra nel catalogare un’opera poliedrica e ricca di richiami come quella di Bernari. Con questo termine si è anche cercato di 31 ca letteraria l’evoluzione tra il 1928 e il 1934 del romanzo capostipite del genere, Tre operai – riceve l’humus ideale, non tanto dalla letteratura dell’epoca, quanto piuttosto dalle arti figurative. Ciò avviene perché Bernari trova sponda intellettuale nei due amici pittori, e soprattutto negli ambienti del circumvisionismo napoletano di cui Paolo Ricci, il più anziano (anche se di poco, ma sul filo dei vent’anni anche i mesi contano) e ideologicamente determinato del gruppo, è diventato uno degli esponenti di spicco, mentre Peirce ne rappresenta l’anima ispiratrice in sede teorica45. Il passaggio tra il manifesto circumvisionista del 1928 al manifesto dell’UDA del 1929, meglio l’osmosi dal circumvisionismo, ancora ipotecato dal futurismo e da Marinetti, all’udaismo, è una diretta conseguenza della ragion d’essere rivoluzionaria e marxista di questi giovani, che prendono le distanze dall’estetica futurista del regime fascista. E lanciano una nonestetica, una nuova ricerca di espressione della realtà, che si fonda sulle angosce più profonde dell’individuo di fronte ai mostri del ’900, capitalismo e fascismo, alleati nell'idolatria della “macchina” e del progresso. Progresso antiumanistico, se privato del “sentimento”, per privilegiarne l’aspetto totalitaristico-tecnologico, secondo la critica udaista che non ricade nell’errore romantico del rifiuto tout-cour della modernità, ma la “relativizza” al bisogno e all’aspetto “emotivo” del rapporto Uomo-Natura. Attraverso gli amici e coetanei della nuova avanguardia circumvisionista della Mostra a Capri del 1928, che coglie molti aspetti del collegare il cinema neorealista del 1943-1948 con la precedente esperienza letteraria degli Anni Trenta, dimenticando una semplice realtà, che Bernari e Zavattini, protagonisti della letteratura italiana di quel periodo, sono stati, anche se in diversi modi e misure, protagonisti del cinema neorealista. Il che stabilisce una correlazione diretta tra la prima esperienza letteraria neorealista e il successivo cinema neorealista. 45 Carlo Bernari, Carlo Cocchia, Antonio De Ambrosio, Gildo De Rosa, Mario Lepore, Guglielmo Peirce, Luigi Pepe Diaz, Paolo Ricci: questi i nomi die giovani artisti napoletani che tra il 1928 e il 1931, partendo da un rapporto non subalterno col movimento e l’estetica futurista, tentarono di interpretare criticamente la tradizione delle avanguardie e di collegarsi con le ricerche più innovative in corso in Europa. La prima mostra die pittori circumvisionisti all’hotel Quisisana di Capri, fu inaugurata da Marinetti il 19 agosto 1928 alle ore 18. Il Manifesto dei pittori Circumvisionisti fu pubblicato in «Forche Caudine», n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5, a firma Cocchia, Deambrosio, Peirce. Cfr. Matteo D’Ambrosio, I Circumvisionisti, Napoli, Edizioni Cuen, 1996, pp. 338-341. 32 futurismo ed in particolare della pittura di Sironi46, e con la immediatamente successiva, breve ma intensa, stagione udaista del 19291930, si delinea il percorso della formazione intorno ai vent’anni di Carlo Bernari. Una formazione in primo luogo antiaccademica, ed in seconda battuta pittorico-visiva, piuttosto che letteraria. E come poteva essere altrimenti, se i compagni di viaggio (Ricci-Peirce) del giovane Bernari erano artisti, pittori, anziché letterati? Riprendendo una risposta a Carlo Bo47, Bernari richiama alcune tappe della genesi di Tre operai, romanzo che la critica ha definito, ricordiamo ancora una volta, “l’incunabolo neorealista”: Vi è da aggiungere che mi si faceva torto nel rinfacciarmi solo parentele letterarie, e non anche politiche, sociologiche, filosofiche: di questa specie erano allora le mie letture più frequenti ed estese. Senza contare che pur nel mio isolamento, una scuola l’avevo anch’io dietro le spalle: una scuola antiaccademica, è vero, ma con tutti gli ordini di studi, dal più elementare avanguardismo di tipo surrealista e dadaista, alle medie e superiori che battezzammo Circumvisionismo e Costruttivismo, sino all’ultima soglia universitaria che fu per noi l’Udaismo (da UDA – Unione Distruttivisti Attivisti, il cui manifesto, firmato da Paolo Ricci e da Guglielmo Peirce, oltre che da me, apparve nel 1929). Si può dunque facilmente intuire che le radici del neorealismo affondano in un terreno ben più vasto del semplice back ground letterario: 46 Il primo accostamento della pittura di Sironi a Tre operai è di Guido Piovene su «Pan», aprile 1934. Bernari commenta nella Nota ’65: «[…] allora mi suonò come un affronto. Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo e le tavole con cui egli veniva illustrando, sulla rivista diretta da Mussolini, articoli e racconti. Era naturale che travolgessi in un giudizio senza appello anche la sua migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figurativa; lezione che integrava l’altra, proveniente dal cinema realista europeo o americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver subìto. I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo […] Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo, con tutti gli entusiasmi e gli sgomenti che quella pittura c’inspirava». Carlo Bernari, Nota ’65, postfazione a Tre Operai, Milano, Mondadori, 1965, pp. 244-255. 47 Carlo Bo, Inchiesta sul neorealismo, Torino, Edizioni Eri, 1951. 33 così l’idea di un travaso di linfa immediato (e un po’ scontato) dalla letteratura verista o dal realismo, coglie solo in minima misura il bersaglio. Bernari, infatti, allarga il campo in cui vanno ricercate queste radici, a tutta una serie di “letture” che lui stesso definisce “politiche, sociologiche, filosofiche”. Ma la questione va ben oltre questi confini “libreschi”: perché le origini stesse dell’incunabolo neorealista, da cui nacque Tre operai, fu una culla in cui le arti visive, e qui stiamo analizzando in particolare la funzione che ebbe l’arte figurativa, la pittura, assolsero un ruolo determinante. Al punto che possiamo affermare che la formazione giovanile del “capostipite” della letteratura neorealista, Carlo Bernari, venne pressoché ipotecata da una ricerca artistica e teorica in cui la letteratura stessa non aveva un ruolo primario, ma venne a costituirsi in seconda battuta, cioè dopo le prime esperienze del 1928-29 dedicate all’arte. In questo senso il neorealismo, come nuova visione e interpretazione del reale, non prenderebbe le mosse all’interno della letteratura, ma scaturirebbe direttamente dalle arti visive e, in questo caso, figurative. Non è, quindi, tanto o solo di Verga che bisogna parlare come referente culturale della nuova generazione di scrittori attivi verso la fine del primo ventennio del ’900, bensì dell’opera pittorica, questa sì fondamentale, di Sironi che, con le sue ciminiere, fabbriche, camion e paesaggi industriali cupi e privi di speranza, apre le porte a nuove visioni della condizione umana. E il punto di congiunzione tra il neorealismo “letterario” del Bernari di Tre operai e questo retroterra pittorico-visivo sironiano, è rappresentato dagli artisti circumvisionisti della mostra caprese del 1928, primo su tutti Crisconio, quale ideale erede di Sironi. Tant’è vero che proprio nei primi quadri, – mi riferisco in particolare all’olio su tavola Centrale termica dell’Ilva del 1926, – di Paolo Ricci, che di Sironi e Crisconio fu fin da giovanissimo amico ed estimatore, e nei dipinti del 1934 Cantata operaia di un altro artista circumvisionista, Antonio De Ambrosio, si può toccare con mano la vera anima del neorealismo – che si manifesta letterariamente con la pubblicazione della stesura definitiva di Tre operai del 1934. Che la genesi del romanzo segua le date e le tappe, fin dal 1928, del battesimo artistico del circumvisionismo e, nel 1929, dell’udaismo, non è assolutamente una coincidenza, poiché queste esperienze rappresentano momenti essenziali, e interconnessi, della formazione di Carlo Bernari scrittore, pittore, fotografo, sceneggiatore, critico d’arte e giornalista. 34 Allorquando, alla fine del 1929, Zavattini comincia la sua avventura milanese presso il gruppo editoriale Rizzoli, dapprima in veste di semplice correttore di bozze, poi come art director ed infine come Direttore Editoriale, è – come dicevo – bene a conoscenza dell'attività teorica-artistica del terzetto di giovani napoletani. Attività che Za, ripeto, ben conosceva, visto che il Manifesto UDA del 1929 viene recensito da Ungaretti, trova spazio sulla stampa di oltreoceano e suscita l’interesse dei surrealisti a Parigi, – e di Breton in particolare che risponde ad alcuni quesiti del giovane Bernari con una lunga lettera. Del resto, Zavattini è attentissimo alle novità: dall’epistolario con Bernari-Peirce, a partire dal 1932, si ha infatti la certezza che Za conosca bene il gruppetto di giovani artisti, e che stia tenendo d’occhio Bernari,in particolare, che proprio intorno al 1929 pubblica alcune pagine del suo capolavoro neorealista su alcune riviste letterarie del tempo. Vedremo infatti come l’interesse di Za si focalizzi sempre più proprio su Bernari: nelle prime lettere, indirizzate a Bernard-Peirce, Paolo Ricci non viene nominato. Poi anche il nome di Peirce andrà via via sparendo. In una lettera del 1932 indirizzata solo a Bernard48 (che da subito è il referente privilegiato anche nell’intestazione delle lettere), Za taglia corto circa alcune querelle letterarie, per stabilire un contatto artistico diretto e il più ampio possibile col giovane amico: […] La mia cartolina un rebus? Io mi accorsi che in altre cose si divergeva teoricamente. Poco male perché sia tu che io in teoria siamo impegnati, come quelli che hanno fatto la polemica pro e contro la Ronda. Ma possiamo stropicciarcene. Pensa che non ricordo neanche quali erano i punti del dissenso, ci vuole altro: e la nostra amicizia si sta facendo su un terreno umano e, diciamolo anche se è una ripetizione, artistico. Caso mai, io credevo di essere crociano sino ad un mese fa e non avevo mai letto Croce. Poi mi è sembrato di non esserlo, assolutamente. E oggi non mi ricordo più perché mi sembrò di non esserlo. L’importante è essere sicuro su due o tre cose fondamentali e in quelle siamo d’accordo. In questa lettera Za comunica a Bernari, più o meno direttamente, un’apertura di credito personale che va ben oltre i meriti teorico-artistici del gruppo udaista del ’29. 48 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte della stampa, Milano”. Inedita (Archivio Carlo Bernari, Centro di Ricerca “La Sapienza”, Archivio del ’900, Roma). 35 Non si può stabilire con esattezza la data e l’occasione del primo incontro tra Bernari e Zavattini, certamente tra il 1929 e il 1930. Da Milano a Napoli passando per Firenze e Roma, gli amici in comune e i motivi di incontri sono innumerevoli. Certo è che, ambientatosi definitivamente a Milano verso la metà del 1930, forte del successo di Parliamo tanto di me pubblicato Bompiani nel ’31 e ormai certo di una sicura sponda e sostegno professionale nel mondo editoriale (Bompiani, Rizzoli e Mondadori saranno i suoi principali sponsor), Zavattini non dimentica gli amici più giovani Ricci, Peirce e soprattutto Bernari. Intanto, è certo che sono Bernari e Peirce a rivolgersi a Zavattini ai primi del 1931 per ottenere una sostegno dall’amico che ormai, nel mondo editoriale milanese, comincia a muoversi con efficacia. È interessante notare che la proposta indirizzata a Za ha come oggetto i disegni di Peirce. In risposta ad una lettera di Bernari (che fa parte di un gruppo di lettere distrutte nel 1937 dallo stesso Zavattini, per paura di compromettersi, quando Pierce fu arrestato dai fascisti), Za risponde con una lettera manoscritta49: Cari amici, sono qui ancora tutto intontito dall’influenza. Per quei disegni non c’è proprio modo di piazzarli. Il solo che poteva pubblicarli, Piazzi, mi ha detto di no – io mi ero offerto di farci su un articolo. Che cosa devo dirvi? Di tutto il gruppo solo il Secolo XX50 poteva aiutarvi – ma anche là hanno paura di andare troppo in là – Come vedete, sono inerme e non riesco a farvi guadagnare un soldo. Ripeto, provate ancora con una novella. Ahimé, Milano è così – Vi abbraccio, scrivetemi e non abbiate paura di disturbarmi chiedendomi questo e quello per voi: per male che vada, continuerò a far cilecca come sino ad ora – Vostro affezionatissimo Zavattini. Pur non avendo a disposizione i riscontri di tutte le lettere inviate da Bernari a Zavattini, alcune come dicevamo distrutte da Za nel 1937, si intuisce dalle risposte da Milano che alle insistenze di Bernari (e 49 Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a “Bernard-Peirce / Via 4 Fontane / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). Si tratta della prima lettera in ordine cronologico pervenutaci dell’epistolario Bernari-Za. 50 «Il Secolo XX», settimanale edito da Rizzoli, “Grande rassegna d’arte, di lettere, di politica, di scienze. Documenti rari ed esclusivi”. Zavattini vi collabora a partire dal 1929. 36 Peirce, che però non sembra scrivere mai in prima persona), Zavattini continua a farsi in quattro per aiutare gli amici, come nella missiva da Milano del 6 agosto 193251: Carissimo Bernard… ti assicuro che mi ricorderò di Peirce per l’Almanacco. Quei suoi tre disegni sono ancora inutilizzati mio malgrado, bisogna aspettare. Che noia, caro Bernard, vorrei andare a villeggiare in un bicchier d’acqua… Zavattini incontra grandi difficoltà a “piazzare” i disegni di Peirce (curioso il gioco di parole col suo referente, il direttore Piazzi). Il perché è presto detto: questi disegnini sono avulsi dal contesto editoriale/commerciale dei rotocalchi e quotidiani in cui opera Za. Il quale però manda a Bernari un messaggio preciso con l’espressione “provate ancora con una novella” suggerendo agli amici una soluzione editoriale precisa per una “terza pagina” illustrata. L’idea sembra funzionare tanto che da Milano giunge una conferma: Caro Bernard 52 […] È uscita la novella, finalmente. Riceverete il modesto compenso (L. 100) in settimana. Vedrete com’è ridotta, povera novella, con l’aggiunta e con i tali! Fatene un’altra. I tentativi di Za di pubblicare i disegni di Peirce ottengono scarsi risultati, ma non per questo demorde. Da Milano parte una lettera53 in data 26 ottobre 1932: la missiva contiene una proposta grafica di come impaginare testo e disegno, idea che rivela l’attenzione di Za al ruolo dell’immagine e dell’illustrazione del testo. Caro B. Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umoristico, comico) e tu potresti scrivere le cinque righe di com51 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sign. Carlo Bernard / via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, pubblicata in Carlo Bernari, Tre operai, a cura di Francesca Bernardini, cit., p. X (Archivio Carlo Bernari). 52 Lettera manoscritta [1932], inedita, autografa (Archivio Carlo Bernari). 53 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Il Secolo Illustrato, Secolo XX, Commedia, Novella, La Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione, Ragno d’Oro, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 37 mento, potrebbe essere immaginato così: (segue esempio grafico di impaginazione disegno, a sinistra, testo a destra, N.d.R.) questa impaginazione non è obbligatoria faccio per chiarire la mia proposta. Potrebbe essere una trovata, una forma di collaborazione. Me lo mandate subito? L’almanacco sta per andare in macchina. Ci conto? Voglio che in qualche modo i vostri due nomi ci siano. Lasciate passare questa bufera. È una vera bufera e spero fortemente che potrò fare qualche cosa per voi. Vi giuro che ora non basta la buona volontà. Vi scriverò presto. Un abbraccio vostro Za. Dalla corrispondenza immediatamente successiva si evince che Bernari e Peirce non si stanno proponendo come, rispettivamente, autore di testi e illustratore: sembrerebbe infatti che entrambi scrivano e disegnino – una passione quella del disegno che Bernari, come dirò, coltiverà per tutta la vita. Da Milano in data 2 novembre 1932, Za insiste: Carissimi 54 grazie, ma quello dell’Italia vivente è uno stelloncino pubblicitario. Aspetto tre righe sul genere di quelle di ottobre. Come mai? Die vostri due pubblicherò quello coi soldi. Va bene? Per la novella aspettate ancora due giorni. Io l’ho già letta, ora la leggeranno gli altri. Ma so già il responso. Quasi… Sì, accidenti a tutto il mondo. Ma sbagliate giudicando come avete fatto. Chi non lo sa che le novelle di Novella sono quel che sono? Quando si dice: le vostre non sono adatte per l’amor di Dio, non si tocca il merito, anzi. Quest’ultima, per esempio, valeva un po’ più piena. Che cosa devo farvi? Io vi do le istruzioni secondo il modello che qui hanno in testa e da quello non si muovono. Se dipendesse da me, mandatemene pure, io farò l’impossibile ma non ricadete nell’errore di credere, ecc. ecc. Dirò a Bompiani se può pagarvi quel disegno. Ma B. non mollerà, lo so, perché ciascuno collabora gratuitamente, salvo le rubriche. Insomma io sono addolorato di non potervi far 54 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 38 guadagnare soldi, ma che cosa posso farci? Ditelo francamente. Io sono sempre a vostra disposizione. Vi abbraccio vostro Za. La tesi secondo cui Bernari e Peirce si stiano rapportando a Za, entrambi in qualità di artisti a tutto tondo, cioè entrambi come autori di testi e disegni, risulta evidente da un’altra breve comunicazione di Za datata Milano 27 dicembre 193255: Carissimi, grazie degli auguri, li trovo qui tornando a casa. Anche a voi. Avete visto l’almanacco? È come è (o meglio come può essere). I disegni vostri ci sono, entrambi. Scrivetemi e io vi scriverò più a lungo. Ora sono in mezzo, e peggio, guai finanziari. Vi abbraccio Za. E ancora da Milano il 27 gennaio 193356 Za scrive: Cari amici, aspetto, se fossi in voi tenterei ancora una volta, l’ultima, una novella per Novella, (vedeste che vi rubai un terzo di spunto in un mio raccontino? Ma così poco che potreste non esservene accorti, sul Fuorisacco57). Aspetto dunque i disegnini e farò l’impossibile per il secolo XX. Il solo che, lo capite da voi, possa ospitare il genere […]. L’abbinamento testo/disegno su cui Za insiste per una semplice ragione editoriale, dal momento che i rotocalchi cui egli fa riferimento necessitano di quello che suol chiamarsi “alleggerimento in pagina” della parte narrativa, spinge Bernari, che proprio tra il 1932 e il 1933 sta dedicando ogni sforzo alla riscrittura di Tre operai, ad “alleggerire” la parte “letteraria” del capolavoro del neorealismo. Nascono così le didascalie dei capitoli del romanzo, che sono dei veri e propri sche55 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 56 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). 57 Fuorisacco è una rubrica che Za teneva sul «Secolo XX». 39 mi da storybord58 cinematografico, didascalie che non sono presenti nella precedente stesura (Gli stracci). Non è difficile immaginare la possibilità di una versione illustrata del romanzo di Bernari utilizzando semplicemente queste didascalie che preannunciano il contenuto dei capitoli! I - Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro. II - Teodoro s’è fatto licenziare per scarso rendimento. Ma ora si accontenterebbe di un qualunque lavoro. III - Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si può essere che operai. IV - Teodoro non ne può più: ha bisogno di Maria; ma anche un po’ di Anna. V - Teodoro deve prendere una decisione. VI - Teodoro non sa far nulla di buono: e tantomeno apprezzare la povera Anna. VII - Teodoro ha deciso, parte con Marco De Martino che gli pare un uomo coraggioso e intelligente. VIII - Anna è libera: se ne va a Roma, e conosce i ladri dei poveri. IX - Teodoro fa colpo sulla prima donna che incontra; ma forse il lavoro non è fatto per lui. X - Di uno che cerca un pacifico lavoro la vita può farne anche un rivoluzionario. XI - Praticamente Teodoro impara che la mentalità e le idee sono il frutto di determinate condizioni d’ambiente. X - Anna trova un uomo che le vuole bene ed un impiego. XIII - Teodoro ha studiato, s’è messo al corrente, ma i riformisti sono più forti di lui e gli fanno commettere una grande sciocchezza. XIV - Pippetto muore a Napoli. XV - Teodoro fa carriera nell’industria delle conserve alimentari. XVI - Marco trova un impiego: ed Anna muore. XVII - Agosto-settembre 1921: occupazione delle fabbriche. XVIII - Sbandamento. Naturalmente c’è dietro la tecnica che risale al romanzo cinquecentesco, in particolare Rabelais, nonché il fouilletton romanzesco che Za 58 Nello storybord la sceneggiatura viene esemplificata con disegni e didascalie delle varie scene. 40 è impegnato a seguire e ad ottemperare nelle sue proposte, come si diceva, per evidenti ragioni editoriali. La polemica su «Novella», anzi sulle “novelle per «Novella»” è il tallone d’Achille di Za che deve far capire agli amici la situazione e, soprattutto, che non è in discussione il loro valore letterario. Anzi, aggiunge Za, è vero magari il contrario, che per scrivere novelle per questi giornali non c’è bisogno di alcun valore. Sta di fatto che, però, questa insistenza da parte del più anziano e navigato amico accasatosi nella grande editoria milanese, convince Bernari a rivedere molte cose della sua attività creativa. In primis ad utilizzare la scrittura come se fosse un disegno, una illustrazione, come cogliendo l’implicito suggerimento: disegna prima con la mente quello che stai per scrivere. Ma è comunque vero che Bernari giungerà a questa forma nuova di rappresentazione ed interpretazione dell’oggettività, il neorealismo, attraverso il complesso delle arti visive che intersecano la sua intera produzione letteraria. E la pittura in particolare, come si è detto, rappresenta, sia da un punto di vista teorico che sotto l’aspetto pratico, quel bacillo giovanile originario da cui scaturirà l’evoluzione rapida e drastica della sua scrittura. In conclusione: il Manifesto Uda rappresenta il tassello del passaggio dalle arti visive, pittura e cinema59, degli anni ’20 e ’30, alla letteratura con un corto circuito parola-immagine, logos-eikon, – da cui scaturisce la scintilla di una nuova letteratura, appunto il “neorealismo” che deve essere allora così ridefinito. Naturalmente, le questioni relative ai rapporti letteratura-cinema neorealista sono note e dibattute ampiamente dagli stessi protagonisti ed autori del tempo. La discussione che, alla fine degli anni ’50, assunse anche toni polemici circa la “morte” del neorealismo è conosciuta. Resta però – ripeto – ignorato l’antefatto che ha permesso la nascita di una cultura neorealista, antefatto che affonda le sue radici nelle arti visive e che ha nel Manifesto UDA del 1928-1929 un momento teorico essenziale. 59 L’influenza del cinema sulla letteratura del tempo è scontata, basti pensare al romanzo di Luigi Pirandello Si gira! del 1915 riscritto e ripubblicato dall’agrigentino del 1925 col titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma val la pena ricordare che mentre in Pirandello si tratta di far letteratura partendo dal cinema, per gli scrittori della generazione successiva, Bernari, Moravia, Alvaro ed altri, si tratta del processo inverso, cioè di scrivere “come” per il cinema. Trasformando altresì il “romanzo” tradizionale, anche da un punto di vista di tecnica narrativa, in un “trattamento” vero e proprio dove la parola deve per forza trasformarsi in immagine in movimento. 41 È in questo contesto infatti in cui i cosiddetti protoromanzi neorealisti di Moravia, Alvaro, Bernari, Pavese, Silone ed altri vengono alla luce come un nuovo modo di fare letteratura sfruttando, non solo e non tanto, le armi e le tecniche della “vecchia” letteratura, quanto piuttosto la forza espressiva delle immagini derivate dal rapporto logos-eikon dalle arti visive. E non è certo un caso che Bernari e Zavattini, come Moravia ed Alvaro, si dedicarono al cinema e al teatro, alla pittura e alla fotografia con la stessa passione e forza che alla narrativa. Realizzando così quella sintesi delle arti che Carlo Bernari rivendicò nel 1953 con un intervento dal titolo emblematico: Cinema, tra arte figurativa e letteratura60. In questo intervento Bernari parla della crisi della pittura neorealista che cede il passo al scomposizione del reale e all’astrattismo (di cui Bernari non dimentica affatto, si badi bene, i meriti e i risultati artistici): […] affiora sempre un risolino di scherno sulle labbra dell’intellettuale raffinato […] quando si parla di tentativi di recupero dei contatti con la realtà, rimasta troppo fuori e troppo distante dalla sfera delle arti figurative, per quel processo di decantazione dei contenuti cominciato circa un secolo fa e non ancora esaurito. Ma quale è la strada che riconduce le arti figurative nell’ambito di quel generale processo di rinnovamento della nostra cultura che grazie alla letteratura e al cinema sembra muoversi in direzione di un realismo critico? Mi limito qui a fare solo tre esempi su tali prese di contatto con la realtà […]; la serie degli Orrori della oppressione nazista di Renato Guttuso, la serie degli Orrori della guerra di Corrado Cagli, eseguite ambedue durante la guerra, fra il ’44 e il ’45; e la serie di paesaggi e le figure lucane dipinta da Carlo Levi durante il suo soggiorno coatto in Lucania. Si dice anche che la riuscita di un realismo pittorico sia problema unicamente di linguaggio: poiché mancando oggi i mezzi espressivi adatti si afferma che mancherebbe anche la possibilità non soltanto di affermarsi, ma anche di estrinsecarsi. Qualcosa del genere sosteneva Domenco Cantatore quando scriveva («Cinema nuovo», n. 9, aprile ’53) che: «a questa pittura (quella neorealistica) manca una macchina da presa efficiente o perlomeno 60 Carlo Bernari, Cinema, tra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del Cinema italiano», agosto 1953, pp. 7-29. 42 adeguata ai suoi propositi» […] Ma il problema del neorealismo non si limita al linguaggio: i mezzi espressivi mancano quando manca una convinzione della necessità di ciò che si vuole esprimere. I mezzi espressivi, allorché occorrono, allorché una verità non deformata da intenzioni propagandistiche e commerciali s’impone alla nostra coscienza, sono sempre pronti alla nostra coscienza. È proprio in questa direzione che bisogna accettare l’esempio del cinema61. Si tratta allora di cogliere l’essenza del nuovo modo di de-scrivere la realtà: una narrazione per immagini che diventa critica della realtà attraverso lo strumento della parola. Nel saggio del 1953 su cinema arte e letteratura, Bernari si richiama al filone neorealista della pittura, – che a suo giudizio rischia di esaurirsi per l’esplosione delle tendenze astrattiste, – un filone che da Sironi e Crisconio, attraverso Paolo Ricci e i Circumvisionisti, giunge a Carlo Levi, Renato Guttuso, Domenico Cantatore, Alberto Sughi, Villoresi, Ernesto Treccani, Emilio Greco e Domenico Purificato62. Presentando nel 1980 l’opera pittorica di Domenico Cantatore, ad esempio, Bernari insiste sulla dialettica logos-eikon, immagine e parola: Il confine che separa i colori della tavolozza del pittore, dalle parole dello scrittore è una linea sottilissima, talora invisibile. Spesso, fra l’una e l’altra attività, pittorica o letteraria, si determina uno scambio in cui è difficile stabilire quale delle due espressioni ha prevalso […] Vi sono comunque casi singolari in cui lo scrittore che si dedica alla pittura, anche trasferendo in questa attività collaterale o suppletiva gran parte del suo mondo interiore, raggiunge talvolta traguardi di sorprendente autonomia […] Ma accade anche l’inverso, quando è il pittore ad invadere il campo vicino delle lettere. Il pittore allora tra61 Ivi, p. 27. 62 Bernari fu buon profeta fin dal 1950 della crisi dell’astrattismo, un tema ricorrente nei suoi interventi critici e nei cataloghi delle mostre con la sua prefazione. Basti pensare alla recensione apparsa sul «Corriere della Sera» dell’autobiografia del critico Renato Barilli, notoriamente considerato il cuore e la mente della Neoavanguardia (Autoritratto a stampa, Fausto Lupetti editore, 2010). Recensendo il libro autobiografico di Barilli scrive Pierluigi Panza: «Pure la Neoavanguardia, dopo la stagione rovente, anche sul piano sociale, degli anni Settanta perde forza, nonostante alcuni tentativi di rilancio negli anni Novanta […] c’è chi come Eco diventa scrittore borghese postmoderno e chi si rifugia negli studi storici, come Barilli, che prende a rivolgersi persino a Giovanni Pascoli […]». 43 sferisce nella scrittura, insieme ad una quantità di sensazioni visive, gran parte di quell’humus che dà vita al suo mondo pittorico; ma in modo aneddotico, oserei dire: narrativo; ecco, come se il pittore attingesse ad un altro cielo di verità. Ecco dunque che il neorealismo si delinea come questa forma, questa capacità, questa potenza, sinergica tra le arti, di rappresentare la realtà attingendo, per dirla con le parole di Bernari, “ad altri cieli di verità”. Va da sé che allora il rapporto col cinema63, l’immagine in movimento che è una sintesi di arte figurativa64 e narrativa, come se le immagini venissero messe appunto in moto dalla narrazione, costituisce il fulcro, l’essenza del neorealismo. Un modo di rappresentare il reale che va ben oltre il documentarismo e mette in allerta l’astrattismo con quel monito con cui Zavattini conclude il suo discorso sul neorealismo: Non crediate che tutto questo laboratorio (neorealista, N.d.R.) non serva anche alle altre forme di cinema, anche a quelli non neorealisti, in quanto sono svegliati di notte come i frati per sentirsi dire: avvicinati alla realtà65. 63 Cfr. Domenico Purificato, Domenico Purificato e il cinema. Tra teoria e pratica, Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis, a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzolo, pubblicato in occasione dell’omonimo incontro tenutosi a Fondi presso il Palazzo Caetani il 23 maggio 2010. Molti scritti teorici sul rapporto pittura cinema del pittore Domenico Purificato sembrano in qualche modo ispirati alle argomentazioni di Bernari. Del resto, tra lo scrittore Bernari e il pittore Purificato i rapporti sono stati intensissimi a partire dai primi anni ’60. Entrambi avevano lo studio estivo in una villetta liberty a Gaeta, in contrada Catena al numero 1 e frequenti erano gli scambi e le visite tra i due artisti. 64 Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, cit. p. 184. 65 Non c’è bisogno di ricordare, se non a piè di pagina, che Zavattini stesso fu pittore notevole di ispirazione surrealista e che il suo cinema “neorealista” ed ideologicamente impegnato ha un’impronta surrealista inconfondibile. Questo comporta che il neorealismo sfugge ad ogni definizione e delimitazione in un ambito preciso, rappresenta un approccio soggettivo (del singolo artista) e critico alla realtà. Ha quindi ragione Antonio Vitti quando propone di usare il plurale “i neorealismi” al posto del singolare (Cfr. A. C. Vitti, Ripensare il neorealismo, Pesaro, Metauro, 2007). È del resto quanto sostiene Zavattini nel suo intervento su citato del 1953, quando sostiene: «Partiamo tutti insieme, per esempio accordandoci sulle esigenze fondamentali del neorealismo, mettiamo “Vita di un paesucolo”. Partiamo in venti, tutti insieme, ripeto, ma dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che può […] la partenza è comune e non si pongono limiti al neorealista, se non quelli che non deve appartarsi di fronte alla realtà; e deve trarre da essa e solo dall’esperienza di essa tutte le suggestioni che solo l’approfondimen- 44 Questo “avvicinamento alla realtà”, inteso da Za come una predisposizione, sul piano della forma, dell’artista all’impegno, è il leitmotiv della discussione a cavallo degli anni ’50. Abbiamo visto come Vittorini, nel passaggio storico del 1947, in seguito alla crisi della rivista «Il Politecnico», rivendica all’artista un ruolo indipendente, se non disimpegnato, nei confronti del contenuto – e dell’ideologia del partito. Questa “nuova” posizione di Vittorini, che dagli stretti legami con Togliatti passa ad una critica del cosiddetto realismo socialista, è però già all’ordine del giorno, perché ricalca sostanzialmente le tesi del 1929 del Manifesto udaista di Bernari & Co. Tesi che tornano di attualità venti anni dopo con Vittorini stesso, che pure originariamente le osteggiò, Zavattini e con Fellini che, nell’intervento del 1955 in difesa de La strada, scrive: Se sono partito – per questa ricerca di come l’essenza del desiderio e della possibilità sociale nasca in un rapporto – da una situazione così apparentemente inadatta, e astratta, e immediata, e squallidamente quotidiana, è perché credo che oggi il capovolgimento da un individualismo ad un giusto socialismo, per essere persuasivo, dev’essere tentato e analizzato come bisogno del cuore, come impulso dell’attimo, come linea in azione dentro il più dimesso corso della nostra esistenza66. Va da sé che il “bisogno del cuore”, di cui parla Fellini, parte dal concetto rivoluzionario post-romantico e anti-idealistico, feuerbachiano, di sensibilità: che nel manifesto udaista del 1929 viene concepito come una forma di simpatia (e relativa empatia) tra il soggetto e l’oggetto della rappresentazione. È da questo grumo sanguigno, da questo snodo del 1929, che si dipartono dunque i nervi di quello che nel dopoguerra sarà definito “neorealismo”. to di quest’esperienza può infinitamente dargli». Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, cit. p. 184. 66 Federico Fellini, Neorealismo, cit. p. 199. 45 Lorenzo Borgotallo De Sica’s The Children Are Watching Us: A Subversive Orphanization The traditional, bourgeois, concept of the family has been acutely defined by Italian mythologist Furio Jesi, in Germania segreta (1967), as a closed, fortified microcosm, whose safeness and “serenity” is only apparent, insofar as the major threats to its falsely inexpugnable walls are often coming not from the outside, but from within. Analogously, cultural studies scholar Paul Gilroy, in his seminal work Between Camps (2000), has amply demonstrated that camp-thinking inevitably affects even the supposed beneficiaries of the enclosed “camp” by forcing them to exclude, amputate, or subdue, whatever is deemed external and/or detrimental to the unity of the camp itself1. But the “excluded” will often come back to haunt the camp, like a Derridian ghost. According to Jesi, in fact, the fortified, bourgeois, microcosm of the family is destined to crumble and fall precisely because: «L’istituto matrimoniale borghese non regge all’affiorare di forze oscure nelle quali dovrebbe invece risiedere il fondamento saldo, profondo e misterioso dell’unione sessuale» (Germania, p. 125). By putting into question precisely the internal and external mechanisms, both social and psychological, that dominate a typical petitbourgeois family, De Sica was able to successfully portray in his 1943 movie, The Children Are Watching Us, a much larger situation of ethical breakup. Based on Pricò, a rather conventional and larmoyant novel published by Cesare Giulio Viola in 1922, and written with the fundamental contribution of scriptwriter Cesare Zavattini, 1 According to Gilroy, camp-thinking can be defined by «the veneration of homogeneity, purity, and unanimity that it fosters. Inside the nation’s fortifications, culture is required to assume an artificial texture and an impossibly even consistency. Culture as process is arrested. Petrified and sterile, it is impoverished by the national obligation not to change but to recycle the past continually in an essentially unmodified mythic form. Tradition is reduced to simple repetition» (p. 84). 46 the film actually opens up to capture and portray an entire zeitgeist, while focusing on the powerful emotions and reactions of its five-year old protagonist: Pricò. The little boy acts in the film as the desolate, but uncompromising, witness to the crumbling of his own world in a claustrophobic, petit-bourgeois context, characterized by false pretenses, subterfuges and lies, to which he can only oppose, in the end, his ethical and subversive refusal by consciously embracing, as we will see, the condition of the Orphan-child. The film begins with the mother’s hard-fought decision to abandon her family and flee to Genoa with her secret lover, Roberto. The father, incapable on his part of dealing with the scandalous situation, leaves Pricò first with the aunt, and then with the grandmother, both of who will turn out to be completely self-centered and pitiless. The unexpected return of the mother, apparently repentant, is a sign of good hope: the father is willing to forgive her for the child’s (and the family’s) own sake and the three of them seem to find a renewed harmony, at least by the bourgeois standards of the time. But the summer vacations spent in a rich seaside town, amongst shallow and pretentious people, will be disastrous: tracked down by her lover, the mother ends up abandoning a second time her child and husband. Grief-stricken, the latter is now forced by the internal mechanisms of a typically dignified bourgeois society to send Pricò to a boarding school. Here, the child will soon be reached by the terrible news of his father’s suicide, but, this time, instead of seeking comfort in his mother’s arms, he will prefer to hug the old nanny, before turning his back once and for all on his mother and, more metaphorically, on the entire world she represents. The first merit of this subtly subversive film is its overt willingness to engage with disquieting themes and issues, such as petit-bourgeois adultery and suicide, or the unhappiness of children, which were deemed taboos by the Fascist censorship of the time. As Massimo Garritano pointed out, The Children Are Watching Us can be interpreted above all as «una metafora del disfacimento del fascismo in quanto sistema di pensiero, attraverso due gesti che appaiono “rivoluzionari” per quegli anni: l’adulterio e il suicidio» (p. 57). This is undoubtedly true: compared to the so-called telefoni bianchi movies of those years, evasively set in exotically distant kingdoms or unattainable past epochs, De Sica’s film appeared as an unexpected and subversive wakeup call for the audiences of 1943. Moreover, the film 47 is particularly successful in problematizing the bourgeois triangle by changing its focus from the usual suspects – the husband, the wife, and the love – to the figure of the child-protagonist, who becomes here the true bearer of the looming tragedy’s weight2. But, besides adultery and suicide, there is also a third truly revolutionary gesture that, to my knowledge, critics have not yet underlined. It is the ending itself, which can be interpreted here as a subversive “orphanization” of the main character: a sorrowful five-year old who willfully turns his back once and for all on his family and on everything it represents. Pricò’s conscious acceptance of his orphan’s fate acquires the sense of an ethical choice, which transforms him into a powerful symbol of revolt against the encamped, fortified, and falsely serene microcosm of the agonizing Italian Bourgeoisie. According to Jesi, in fact, the figure of the Orphan-child as such is a cultural leitmotiv, a powerful double-sided symbol of crisis and renewal: Nelle grandi svolte della storia della cultura […], affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi (Letteratura, p. 13) Now, if we start analyzing the movie in depth, we can notice that the opening sequence functions almost as a classical meta-narrative prologue, a sort of abridged mise an abyme of the entire film’s plot, insofar as the puppet-show actually stages and anticipates the fatal love triangle that is about to be revealed in the movie: two men fight over the same woman until one of them dies. The subtle connection between this scene and the movie’s plot becomes even clearer in Pricò’s disquieting dream sequence, later on in the film, where the murderous 2 In this regard, Lino Micciché has effectively argued that The Children Are Watching Us: «è il film della coscienza borghese in crisi, che implica la denuncia della complicità morale col fascismo perché implica e vede criticamente la morale che la borghesia con il fascismo aveva difeso e per la quale gli aveva dato la propria complicità […] I bambini ci guardano è in questo senso il corrispettivo di Ossessione sia pure su una linea completamente diversa. Nel film di Visconti la critica alla società è fatta di sangue, di sensualità esasperata, di foia delittuosa intrisa di umori anarchici. In De Sica tutto è visto con apparente pacata delicatezza, ma non per questo con minore convinzione e meno perusuasiva efficacia» (pp. 157-159). 48 male and female puppets appear to haunt the child’s conscience as they slowly turn into his mother and her lover, thus demonstrating how relevant that initial scene is: an image of violence that has deeply affected Pricò, if only unconsciously. But the puppet-show sequence functions as a meta-narrative prologue also for a different reason, insofar as it allows De Sica to establish right away his ethical standpoint. During the scene of the killing, in fact, the camera suddenly cuts from the puppet-show to a little child in the audience who starts crying and tries to hug the mother. The woman, on her part, dismisses this reaction as a silly one and encourages the child to look on: «No! Guarda, guarda!». We may consider it, at first, an amusing little scene, but, at a closer look, it becomes evident that the child’s “innocent” gaze (as well as De Sica’s camera) reads and interprets the puppet-show for what it really is: a disquieting image of abuse, violence, and death, strengthened by the child’s inability to distinguish between reality and fiction. It is not simply a parodic reversal of the adulterous affair depicted in the film, it is actually the first act of child’s abuse portrayed in the movie. Moreover, De Sica’s ethical condemnation of the way the adult world relates to children continues, even more significantly, in the backstage of the puppet-theater, where we see the two puppeteers insulting and tugging ill-manneredly at a young girl, possibly their own daughter, because they deem her too slow in collecting the audience’s money: «Maria! Vai, stupida!». From a purely narrative point of view, both of the above mentioned shots may actually appear irrational cuts, insofar as they add nothing to the main plot and have no apparent cause-effect link with the main puppet-theater sequence, but in fact they are fundamental in portraying and assessing right from the beginning the ethical standpoint of the film. In other words, what De Sica is trying to establish here is precisely what Deleuze calls a time-image: a mental link – rather than an action-driven one – which makes new cerebral circuits possible, insofar as it forces the audience to find a different type of connection between the two shots3. 3 As stated by Deleuze in his two cinema books, the intrinsic limit of the movement-image (typical of pre WWII cinema, but still very common nowadays in Hollywood) is its “closed-ness”, the fact that it can give only an indirect image of time, insofar as it is governed by a strict sensory-motor schema, a link of causeeffect, that tends to close the image on itself and reinforce it as pure cliché. Nevertheless, if the sensory-motor schema jams or breaks, that is, if the single image 49 Overall, it is not by chance that the movie opens right away with a powerful, albeit indirect, critique on De Sica’s part of the ways in which the adult world relates to children. The title itself, The Children Are Watching Us, can in fact be read as a heartened appeal/warning to the sense of responsibility that each one of us must bear in his or her relationship with children, precisely because we, as adults, should always be held accountable for our behaviors and attitudes. One of the most striking and revealing aspects about the film is that (with the paradoxical exception of the painful and remorse-ridden adultery of the main plot) all the love bonds depicted by De Sica seem to be driven either by some sort of light-hearted personal gain or by shallow eroticism, thus appearing almost as reprehensible because of their superficiality: from the aunt’s relationship with a much older and richer commendatore; to the vacuous chit-chatter of the four dressmakers, commenting excitedly on the sexual revelry of one of them; to the not-too-innocent crush of Paolina for the local pharmacist; to the short but poignant scene of a random couple at the Alassio train station, in which the woman asks «Addio, caro. Pensami! Mi scriverai?» and the man on the platform doesn’t even bother to answer, but asks instead a casual question, while continuing to read his newspaper. Interestingly enough, the one thing that all of the above mentioned scenes have in common is the actual presence of Pricò, who functions (together with us) as the silent witness of the vacuous world depicted by De Sica. In the child’s presence, adults my often speak in half sentences – like the mother, the aunt, and the grandmother – or lower their tone of voice – like the dressmakers or Paolina – but their actions eventually betray their true intentions in the eyes of Pricò, as well as in our own. As stated by Deleuze in Negotiations, this type of “visionary cinema” has replaced the agent with the seer and the character has gained in an ability to see what he has lost in action or reaction (p. 51). In a way, what we are dealing with here, is a reinterpretation of the child’s “innocent gaze” trope, finally capable of shedding light from within and with honesty on the cracks that begin to appear in the fortified walls of the Italian Bourgeoisie, in total contrast with the models imposed up until then by the Fascist ideology. As Fellini once is cut off from its motor development (through the use, for instance, of irrational or less probable links), a different type of image can emerge: a pure optical-sound image, a direct time-image, finally capable of breaking though the clichés, while making new cerebral circuits possible. 50 said: «Neorealism is a way of seeing reality without prejudice, […] not just social reality but all that there is within a man» (p. 152). Once again, the ethical attempt of the film is to actively put into question what Paul Gilroy calls camp-thinking – an all-encompassing, closed elaboration of the real – by fostering a new way of experiencing and experimenting with reality, that is, an actual neo-realism: a new way of looking at the world. In this perspective, we, as spectators, first learn about the mother’s love affair precisely through Pricò’s eyes and the change in his facial expression when he first “sees”, thanks to the innocence of his gaze, the threat that the man talking to his mother in the park represents. Analogously, Roberto’s face will express a mixed sense of surprise and guilt when, later on in the movie, he realizes that his love effusions on the beach are being silently witnessed by Pricò, as De Sica’s masterful use of the shot-reverse-shot technique readily reveals to us. But it is not only the child’s gaze to be subtly subversive. His words too tend to give an estranged image of the real, thus accomplishing the Deleuzian ideal of «being foreign in one’s own language» (Negotiations, p. 41), while putting into question well-established and socially accepted interpretations of the real. At a closer analysis, we can identify several sites of subversion in which Pricò acts as a sort of bocca della verità “mouth of truthfulness,” which inevitably forces the adults that surround him – or the audience, at least – to think and look at the world differently. In one of the initial scenes of the movie, for instance, we see the mother putting to bed the little boy. Before kissing him goodnight, she makes him recite a prayer, that is, she briskly requires him to repeat after her every single verse of it. This closed mechanism, conceivable here as a Deleuzian “sensory-motor schema” (Cinema 2, p. 20) transposed into the realm of language, seems to proceed smoothly right until the end of the prayer, when, all of a sudden, the linguistic machine jams. Pricò, in fact, breaks loose of the sensory-motor schema first by transposing the actual words of the prayer into a purely rhythmical sound diversion: the Italian “che ti fu” turns into the playful and nonsensical expression “katafù”, repeated three times in crescendo. Then, most importantly, instead of simply repeating the conclusive expression “la pietà celeste”, the little boy adds a comment of his own: «la pietà celeste… e rosa», insofar as “celeste” in Italian is, first of all, a synonym for the color blue. In other words, from the child’s perspective, 51 there is no specific reason why heavenly mercy should be only blue. On the contrary, it might be both blue and pink. Of course, it is just an image, or just an idea – as opposed to a just idea, to paraphrase French director Jean-Luc Godard – but it is precisely this that makes it all the more powerful and revolutionary. As Deleuze puts it: And… and… and… is precisely a creative stammering, a foreign use of language […] AND is neither one thing, nor the other, it’s always in between, between two things; it’s the borderline, there’s always a border, a line of flight or flow, only we don’t see it, because it’s the least perceptible of things. And yet it’s along this line of flight that things come to pass, becomings evolve, revolutions take place. […] Children are supplied with syntax like workers being given tools, in order to produce utterances conforming to accepted meanings. We should take him quite literally when Godard says children are political prisoners. (Negotiations, p. 38-41) Now, going back to the opening of the movie, the first site of verbal subversion in Pricò’s attitude towards the adult world appears right at the end of the park sequence, when, after his significantly stubborn refusal to greet Signor Roberto, he looks up at his mother and asks her, as they are leaving: «Mamma, piangi?». Two simple but very powerful words, capable here of breaking through the wall of hypocrisy erected by the typically dignified Bourgeois demeanor of the mother and that inevitably force her to lie: «No, e perché dovrei?». This same, potentially subversive, attitude of Pricò reappears again later in the movie, when, having just recovered from his nightmarish illness, he asks his mother for three times: «Perché non ti levi il cappello?», another simple but revealing question, which the woman is once again incapable of answering, since it would force her to disclose the real cause of her absence. A third, even more relevant, site of verbal subversion can be identified in Pricò’s reaction to one of Paolina’s remarks, the girl supposedly in charge of keeping him out of trouble during the time spent at his grandmother’s place. The two of them are walking down the street, but as they pass the pharmacy, the girl insistently turns around to exchange a series of explicit looks with the pharmacist, who is standing outside the shop. Pricò witnesses on his part the exchanges but is incapable of interpreting them and looks up at the girl for an 52 explanation. Having been caught red-handed, the girl reacts with another typically dignified and bourgeois demeanor, «Non ci si rivolta per la strada», to which Pricò readily answers: «E tu perché ti volti?». Once again, it is just a remark, as opposed to a just remark, but precisely because of its simplicity, it is all the more powerful in exposing the hypocrisy and double standard that the bourgeois microcosm is more then willing to embrace and apply whenever it feels threatened, either from the inside or from the outside. As it appears clear from all these examples, while children do watch and speak to us, we as adults are often unable to accept the implications of their innocent gaze and/or deal with their inconvenient questions. Hence, Pricò’s narrative and ethical function in all of the above-mentioned scenes is precisely that of subverting the world that surrounds him by inadvertently denouncing its subterfuges and mechanisms of denial. Overall, the film offers an estranged image of the real by focusing precisely on what De Santi insightfully calls “angelismo eversivo” (p. 37) of children, a social and ethical attitude amply analyzed by Giorgio Agamben in his 1978 seminal work Infanzia e storia. It is not by chance that several languages tend to refer to the world of the child only in the negative form: “infant,” he who does not speak; “innocent”, he who does not harm; “immature”, he who is not ripe, thus emphasizing what a child lacks, rather than what he or she has to offer. In other words, instead of acknowledging and cherishing the potentialities of renewal embedded in the children’s gaze, language and frame-of-mind, we prefer to dismiss their take on the world as nonsense, flawed from the outset because of their supposed inexperience. It’s as if the “instability of the signifier” (p. 91), acutely identified by Agamben with every child as such, is actually too disquieting and/or challenging for us to accept4. Nevertheless, it cannot be denied that children are the ones who can most readily realize the Deleuzian ideal of “being foreign in one’s own language” (Negotiations, p. 41). As Cesare Zavattini himself never ceased to repeat in his interviews, letters, and writings: 4 According to Agamben, the “openness” of the child, conceived as an unstable signifier, makes him or her all the more threatening for the rest of the community. But, at the same time, «no society […] can do without its unstable signifiers and, although they represent an element of perturbation and menace, society has to keep watch in order for the signifying exchange not to be interrupted» (p. 91). 53 Noi li appartiamo, ma essi già vedono con i loro occhi, odono con le loro orecchie, giudicano, i bambini ci guardano insomma e ci giudicano e noi sembriamo affannati a impedire che esprimano questi loro giudizi, che sono spesso impressionanti, rivelatori, geniali, pieni di una esperienza misteriosa, con un suo tempo misterioso (qtd. in Siciliani de Cumis, p. 15) In inaugurating their exceptionally fruitful collaboration (after their initial, underground, contacts for Teresa Venerdì in 1941), Zavattini gave a fundamental contribution to De Sica’s epistemological break with the shallow, mindless, and escapist cinema of the time5. In this perspective, the social control and morbid curiosity that animates in the film close relatives, friends, neighbors, and hotel guests alike, is the perfect incarnation of that “società ipocrita, bugiarda”, that De Sica openly identified as the main target of his attack (qtd. in Savio, p. 489), and that is here willfully portrayed in direct contrast to the subtle subversiveness of Pricò. Accordingly, all of the adult characters in the movie – with the sole, albeit significant, exception of the old nanny – are portrayed somewhat negatively. None of them, in fact, seems capable of establishing a true, compassionate, loving connection with Pricò, and this is true not only of family members and friends, but also of all the minor or secondary characters that punctuate the plot: from the magician at the hotel, who is evidently annoyed by his presence («Bambino, vai via…»), to the old lady at the railway station, who dismisses him with an arrogant nod, to the railroader on the tracks who chases him away («Via da qua!»), all the way to the drunken sailor on the beach who scares him just for fun or the two alleged representatives of the Law who suddenly loom over the little boy as a menacing presence, rather than a reassuring one. Moreover, Pricò’s desperate search for affection throughout the movie is significantly underlined by his repeated requests for a simple goodnight kiss («Non mi dai un bacio?»), to which the mother, Paolina, and possibly even Agnese, all seem oblivious, insofar as they all forget to bestow it spontaneously. 5 The title itself, for instance, was suggested to De Sica by Zavattini, insofar as it was inspired by I nostri bambini ci guardano, a weekly column, signed by Zavattini in the late ’30s on the Italian women’s magazine «Grazia», whose official declaration of intent already anticipated the reversed perspective that we witness in the film: «Qui non si tratta di insegnare ai fanciulli come devono comportarsi, bensì come voi dovete comportarvi davanti ai fanciulli». 54 Ironically enough, even the family picture that the father decides to take on the beach to seal once and for all the renewed harmony between the three family members is actually ruined – without them knowing it – by a mischievous kid named Ulrico, who enters the picture behind their back and sticks his tongue out right before the click. It is almost a bad omen of the things to come, as if De Sica wanted to warn us that the happiness of this family reunion is only apparent and is not destined to last for long. Moreover, the fact that the mischievous kid actually belongs to the upper class and will later answer back to his own mother, quite aggressively «Lasciami stare! Non voglio venire con te!», while spitefully vexing a group of younger kids, simply adds another element of ethical condemnation to the falsely glamorous society portrayed in the seaside sequence. And yet, one of the greatest accomplishments of the Italian Neorealist experience of the 1940s has been precisely its unique ability and willingness to acknowledge and render, both cinematographically and literarily, the actual complexity of the real. According to De Santi, for instance: «Il realismo di De Sica non sceglie o strofineggia una cifra formale in cui lo stile scorra sempre uguale (sia pure sempre ad alto livello). C’è nel suo cinema una mobilità di innesti e investimenti espressivi, e anche di esiti fortuiti» (p. 40). The same could be said about other Neorealist works of the 1940s: a movie like Roberto Rosselini’s Rome, Open City (1945) defies all cinema genres, just like Italo Calvino’s first novel, The Path to the Spiders’ Nests (1947) or Pavese’s The Moon and the Bonfires (1950) do not really belong to any readily available literary category6. Following along these same lines, De Santi is one of the few critics to have highlighted how complex the world depicted in The Children Are Watching Us actually is. In describing the mother’s remorseridden adultery, for instance, he insightfully points out the ambiguity of a love bond that is actually blameless, if read outside of the cultural coordinates of the time (p. 32). Similarly, he notices how De Sica does not impose on the father the code of the betrayed husband, which, in the Italian custom, could be viciously violent (p. 40). On the 6 In this regard, both Lucia Re’s Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrangement (1990) and Gregory Lucente’s The Narrative of Realism and Myth: Verga, Lawrence, Faulkner, Pavese (1981) have amply demonstrated how the abovementioned works effectively challenge the poetics of objectivity and realism traditionally associated with Italian Neorealism. 55 contrary, the film attempts to proceed against many of the stereotypes traditionally associated with the bourgeois love-triangle, especially in comparison to the novel on which it is based, which is full of lateRomanticism simpering and excesses. What we are dealing with here, then, is an attempt to present the traditional petit-bourgeois triangle from a different perspective altogether, namely the child’s: a simple reversal which allows, though, for a radical condemnation of clichés, a condemnation that Deleuze justly identified as one of the main characteristics of Italian Neorealism as a whole7. Particularly revealing, in this sense, is the sequence in which the father is finally forced to face the truth as he reads the farewell telegram that his wife has sent him. Here, the shattering of the clichés traditionally associated with such scenes is achieved through what Deleuze would call a “disjunction of the sound and the visual” (Cinema 2, p. 267), insofar as the 1939 song playing in the background, Maramao perché sei morto, does not fit the pathos of the sequence, but it creates instead an uncanny, ironic, and incommensurable “gap”. It is, yet again, an irrational (audio-visual) cut, capable of expressing how complex reality actually is, while anticipating, at the same time, the tragic death that is about to unfold. To quote Deleuze’s words: […] when the sound image and the visual image become heautonomous, they still constitute no less of an audio-visual image, all the purer in that the new correspondence is born from the determinate forms of their non-correspondence […] The visual image and the sound image are in a special relationship, a free indirect relationship (Cinema 2, p. 260-1). 7 In the first chapter of «Cinema» 2, Deleuze clearly states that: «a cliché is a sensorymotor image of the thing. As Bergson says, we do not perceive the thing or the image in its entirety, we always perceive less of it, we perceive only what we are interested in perceiving, or rather what it is in our interest to perceive, by virtue of our economic interests, ideological beliefs and psychological demands. We therefore normally perceive only clichés» (p. 20). But one of the great merits of Italian Neorealism is precisely that of having put into question the movement-image’s sensory-motor schema, thus allowing the spectators to rethink their inherited and commonsensical conceptions of the world. As Deleuze puts it, in order to grasp the new situation brought about by WWII, it was necessary for cinema to create: «a new type of tale [récit] capable of including the elliptical and the unorganized, as if the cinema had to begin again from zero, questioning afresh all the accepted facts of the American tradition. The Italians were therefore able to have an intuitive consciousness of the new image in the course of being born» («Cinema» 1, p. 211-212). 56 If the intrinsic limit of every camp-thinking attitude is its inability to account for and/or acknowledge the complexity of the real, then The Children Are Watching Us is actually successful in breaking through the clichés of Fascist cinema, while offering an estranged image of the real, which enables us, in turn, to be foreign in our own language and to free ourselves from dangerous forms of automatism. In other words, De Sica’s art is, most importantly, an art capable of changing the way we look at the world. Thanks to its unswerving take on reality, considered as something intrinsically complex and problematic, the theme of the bourgeois triangle ceases to be banal and outworn. Once again, the ethical path chosen by the orphanized child-protagonist functions as a powerful eye-opening experience and a relentless wake up call for past and present audiences. To conclude, if we are to interpret Italian Neorealism first and foremost as an epistemological break from the Fascist frame-of-mind, a new way of experiencing and experimenting with the world after the closed-ness of totalitarianism, then Vittorio De Sica’s 1943 film, The Children Are Watching Us, should be considered not a simply proto-Neorealist endeavor, as many critics have stated in the past, but a fully Neorealist one, precisely because of its overt willingness – and effectiveness – in putting into question several established precepts of Fascist camp-thinking, through the powerful prism of a subtly subversive, and highly symbolical, “orphanization” of its main character. But if this is true, then, even the final shot of the film can be read as an open-ending full of puissance, which does not plunge us in a desperation unredeemed by any prospect of hope, as many critics seem to imply in their analysis, but is actually full of agency for the audience, insofar as it calls us into action. De Santi is right when he notices that all of reality’s contradictions are still there, and that the film doesn’t resolve the contrast between morality and family, adults and children. On the contrary, the film destroys a pattern, whose contradictions cannot be overcome (p. 40). But, in my view, to cry out loud «the Emperor has no clothes» is already a powerful and subversive act of revolt, especially if its direct consequence is the willful and ethically charged (self-)orphanization of the main character, who consciously refuses in the end to be associated with the encamped, fortified, and falsely serene, microcosm of the agonizing Italian Bourgeoisie. As Furio Jesi puts it: «Riconoscere la malattia e la deformazione come tali e denunciarne l’orrore nell’istante stesso in cui se ne accusa l’inevitabilità, è già un atto di superamento» (Germania, p. 95). 57 Cited Works Agamben, Giorgio, Infancy and History: On the Distruction of Experience. Trans. Liz Heron, London, Verso, 1993. Deleuze Gilles, Cinema 1. The Movement-Image, Trans. Hugh Tomlinson and Barbara Habberjam, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1986. —, Cinema 2. The Time-Image, Trans. Hugh Tomlison and Robert Galeta, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989. —, Negotiations, 1972-1990, Trans. Martin Joughin, New York, Columbia University Press, 1995. De Santi, Gualtiero, La cognizione del dolore, in I bambini ci guardano di Vittorio De Sica: testimonianze, interventi, sceneggiatura. Ed. Gualtiero De Santi, Roma, Editoriale Pantheon, 1999, pp. 31-41. Gilroy, Paul, Between Camps: Nations, Culture and the Allure of Race, London, Allen Lane, 2000. 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In 1266 to Pope Innocent IV Pope Innocent IV crowned Duke Charles I of Anjou as the king of both Sicily and Naples. Strong opposition to the French due to mistreatment and taxation saw the local peoples of Sicily rise up, leading in 1282 to an insurrection known as the War of the Sicilian Vespers, which eventually saw almost the entire French population on the island killed. With the passing of the French rule Sicily came under the house of Aragon until 1409. In 1713 Sicily was given to the House of Savoy, but this lasted for only 7 years when they traded it for Sardinia to the Austrian Hapsburg dynasty. The island then passed to the Spanish branch of the Bourbons who conquered Sicily and Naples. Further confusion ensued with the Napoleonic invasion of Italy. With the defeat of Napoleon, the island became part of the Kingdom of the Two Sicilies under the Bourbons. Sicily rebelled against Naples repeatedly and in 1948 became briefly independent. In 1860, aided more or less surreptitiously by the newborn Kingdom of Sardinia and Piedmont and by Great Britain, Giuseppe Garibaldi with some 1000 men came to the aid of the Sicilian uprising against the Bourbons of Naples. After the defeat of the Bourbons, Sicilians allegedly voted by plebiscite to join Italy. In 1866 the city of Palermo rose up against the Italians, but the rebellion was quickly suppressed. The Mafia was first identified as such in the 1860s and became a de facto alternative power structure in the Island. In the 1920s, the Italian Fascist government used extreme measures to repress it and succeeded to a considerable extent. In 1943 the Allies invaded Sicily as part of the Second World War. As they advanced through the island, U.S. forces replaced Fascist government officials with their sworn enemies, Mafia bosses. At the same time, Sicilians, who perceived the Italian state as just one more foreign invader, began to agitate for independence both through the political Movimento per l’indipendenza della Sicilia (MIS) [Movement for the Independence of Sicily] and its Esercito 60 to this day, every visitor, friendly and not, cannot resist the temptation to comment, analyze, and criticize. This is a process that is frequently presumptuous and often somewhat akin to taking a blindfolded stroll through an uncharted minefield. Filmmakers from around the world have participated in this process. For the most part the “foreigners,” in this context both non-Italians and “continental” Italians2, have simply used Sicily as an exotic setting populated by mysterious, romantic, and all too frequently dangerous “natives”3. Italian cinema has participated in this process with varying degrees of success determined in large measure by the acknowledgement that “continentals” cannot possibly understand the island and its mores. Pietro Germi’s Divorce Italian Style (Divorzio all’italiana, 1961) is one of the few “continental” films that appear to understand the island, precisely because it clearly expresses the limits of that understanding4. The awareness of this difficulty is best revealed by the Northern Italian representative of the Communist Party (PCI) when he addresses the communists of Agramonte regarding the appropriate response to the behavior of Mrs. Cefalù: volontario per l’indipendeza della Sicilia (EVIS) [Voluntary Army for the Independence of Sicily]. By 1950 its last military leader, Salvatore Giuliano, was tracked down and assassinated by exponents of the Italian government and, in exchange for special status as an autonomous region, Sicily acceded to the nominal control of the island by the Italian state. 2 To this day, Sicilians frequently refer to mainland Italians as “continentals.” 3 For the most useful and complete list of films set in Sicilia, see: Cinema in Sicilia, 12 Sep. 2009, <http://it.wikipedia.org/wiki/Cinema_in_Sicilia>. See also Cinematograpfia Siciliana: Sicilian Cinematography, 12 Sep. 2009, <http://www. grifasi-sicilia.com/cinematografia.html Aug 1 2009> and Cinema in Sicilia, 12 Sep. 2009, <http://www.sicilycinema.it/cinemainsicilia.htm>. A majority of the films listed deal in one way or another with the Mafia either as criminal organization or as culture. Ironically, none list one of the first films set, at least in part, in Sicily, Giovanni Pastrone’s colossal masterpiece, Cabiria (1914). 4 Among others that address this issue explicitly, see Francesco Rosi’s Salvatore Giuliano (1962) and Luchino Visconti’s The Leopard (Il Gattopardo, 1963). Where the former is concerned, see the conversation between the water-seller and the reporter discussed elsewhere in this essay. For the latter, see Chevalley, the representative of the kingdom of Sardinia and Piedmont when he visits Prince Salina at Donnafugata. He, like so many over the centuries, arrives as a conqueror of sorts intending to change the mores of Sicily, but he too is compelled to retreat in confusion when confronted with a forma mentis he simply can’t understand. The fact that Sicilians, in turn, all too frequently do not understand “Continentals” is lampooned, among others, in Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore (1972). 61 Perché oramai è storicamente accertato che anche qui da voi nel vostra bel sud, che io ho il piacere di visitare per la prima volta, è giunto alfine il momento di affrontare il secolare problema dell’emancipazione della donna, così come esso è stato affrontato e risolto per esempio dai nostri confratelli cinesi; pertanto io vi invito ad esprimere il vostro democratico parere sul fatto; cioè a dire, quale giudizio sereno ed obbiettivo merita la signora Cefalù. [It’s a point of fact that historically, even here in the south, which I’m pleased to visit for the first time, the moment’s come to face the age-old problem of women’s emancipation as it’s been confronted and solved, for example, by our Chinese brothers. Therefore, I invite you to express your democratic opinion on these facts. In other words, what is the calm, objective judgment that Mrs. Cefalù deserves?]5. The response of the assembled forces of what the film’s voiceover has described as the “progresso un po’ lento”, which grows in an overwhelming crescendo, is – to the amusement of movie audiences for now almost 60 years: BOTTANA! (Whore!) *** Divorce Italian Style won the 1962 Cannes Film Festival Best Comedy Award, the 1963 Oscar for Best Writing, Story and Screenplay, Written Directly for the Screen, and the 1964 British Academy of Film and Television Awards as Best Film from any Source, in addition to numerous other nominations6. Stuart Klawans, the long-time critic of The Nation, called it a “perfect movie” in his new essay The Facts (and Fancies) of Murder (p. 13). I tend to agree. The story, as described on the back cover of the Criterion Collection edition of the film, is rather simple, although obviously fraught with possible twists and turns. «Baron Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni) longs 5 Italian quotes from the film are taken from the script as found in Moscon and Germi. English language translations, unless otherwise indicated, come from the Criterion Collection edition of the film. 6 Divorzio all’italiana, Awards, 25 July 2009, <http://www.imdb.com/title/ tt0055913/awards>. 62 to marry his nubile young cousin Angela (Stefania Sandrelli), but one obstacle stands in his way: his fatuous and fawning wife, Rosalia (Daniela Rocca). His solution? Since divorce is illegal, he hatches a plan to lure his spouse into the arms of another and then murder her in a justifiable effort to save his honor». The plot is something else entirely. As the film opens, the Baron is coming out of a W.C. on a train7. The rest of the film, except for the last sequence, about which more later, is an extended flashback seen, narrated, commented, and invented, for the most part, by Don Ferdinando’s internal monolog. While it is generally recognized as one of the foremost examples of commedia all’italiana [comedy Italian style], its qualities as art film have rarely been acknowledged (Rhodes)8. Among other things, roughly at the same time as Fellini’s 8 ½, (1962) it pushes the selfreferentiality of the film and the foregrounding of the discrete constituent elements of the medium to a degree rarely if ever equaled in commercial cinema. Intertextual literary references abound, ranging from Marcel Proust’s A la recherche du temps perdu (Remembrance of Things Past, 1922), to Alessandro Manzoni’s I promessi sposi (The Betrothed, 1827), to Giacomo Leopardi’s Il sabato del villaggio (Saturday in the Village, 1829), Giovanni Verga’s Cavalleria Rusticana (Rustic Chivalry, 1880), as do references to opera, Pietro Mascagni’s Cavalleria Rusticana (Rustic Chivalry, 1890), William Shakespeare’s Othello, and cinema, from the subtle the completely explicit. Consider, for example, the scene in which the people of Agramonte, with the black clad women in the foreground, descend in perfect lockstep from the church during the funeral of Don Calogero. The scene is reminiscent of nothing so much as the Cossacks descending the Odessa steps in Battleship Potemkin (Sergei M. Eisenstein, 1925). Consider also the scene, which may be unique in the history of cinema, in which an actor (Marcello Mastroianni as Don Ferdinando) must leave the screening of La Dolce Vita (Federico Fellini, 1960) to avoid seeing himself on the screen as Marcello Rubini. In this essay I will discuss briefly only one aspect of the film’s reflexivity – the separation and interplay between the visual image track and the sound track – because it serves to foreground the cogni7 W.C. stands for “water closet,” or toilet. It is now found almost exclusively on the doors of toilets on Italian trains. 8 For a useful overview see Enrico Giacovelli, La commedia all’Italiana, Roma, Gremese, 1990. 63 tive dissonance that exists within Don Ferdinando’s mind. Throughout the film we see the almost invariably humorous juxtaposition of sound motivated by events on-screen (what different film scholars have called diegetic or actual or synchronous sound; henceforth, diegetic) and sound not causally motivated by events on screen (defined as extra-diegetic or commentative or asynchronous sound; henceforth, extra-diegetic) which usually serves to comment on what we see: for example, the violin music during a love scene. This is nothing new, nor is the presence of external diegetic sound (we assume the sound has a physical source off-screen: we hear an off-screen shot; the character reacts), and internal diegetic sound or internal monolog (we hear words which, presumably, constitute the thoughts of the character). What is revolutionary, at least in a commercial comedy is the use of meta-diegetic sound, that is, of sound that exists somewhere between the diegetic, the extra-diegetic, and the inner diegetic9. Consider, for example, the scene in the Agramonte church in which we are introduced to the Cefalù family through the internal monolog of Don Ferdinando (also known to his relatives and friends as Don Fefè). As he is confessing his love for his cousin Angela, although lust would better describe his urges, his wife, Rosalia, suddenly glances up at him. His internal monolog stops abruptly; then, as Rosalia looks away, Don Ferdinando resumes his thoughts sotto voce as if to keep her from hearing him. Or consider the sequence in which we observe Don Ferdinando watch and listen to the peroration by lawyer De Marzi (Pietro Tordi), in defense of Mariannina Terranova (uncredited). As Don Ferdinando drives home from the trial, we continue to hear De Marzi’s voice as he drones on in defense of Mariannina. The scene then cuts to Don Ferdinando’s home where, as we watch him puttering about, we hear his internal monolog as he imagines the lawyer’s defense at his (Don Ferdinando’s) eventual trial for the murder of his wife. Don Ferdinando rehearses various scripts in his mind, at first in his own voice, then he invents the dialog in the voice of his lawyer, and finally, in his own voice he rejects what he has just said. 9 Claudia Gorbman coined the expression in «Teaching the Soundtrack», Quarterly Review of Film Studies (November 1976), pp. 446-452. For a very useful essay that expands on her taxonomy see Mladen Milicevic, Film sound beyond reality: Subjective sound in narrative cinema, 25 July 2009, <http://filmsound. org/articles/beyond.htm#jedan>. 64 *** One might further argue that this film is a disquisition on the creative process, but that is a topic for some other occasion. The topic of this essay is Germi’s Divorce Italian Style: On the Firing Line between Omertà and Civil Society. Before I proceed I have to define my terms. When I speak of the Firing Line in this context, I am borrowing the expression from Pasolini’s “Cinema Impopolare” (1970)10. In that essay Pasolini writes that art is valid only when it is revolutionary, that is, when the artists are on the firing line, sadomasochistically breaking the laws of the system within which they operate. Thus, Pasolini rejected both traditional and avant-garde cinemas. Both, he argued, are consumer products since neither challenges its respective public. As for Omertà and Civil Society, without getting too bogged down in anthropology and sociology, the more widely accepted and continuingly evolving theories regarding the development of society are predicated on the level of technology, communication, and economy and the manner in which they affect and are affected by social inequality and the role of the state. (1) Hunter-gatherer bands, which are generally egalitarian; (2) horticultural/pastoral societies, which are typically tribal and in which there are generally two inherited social classes, chief and commoner, as instances of social rank and prestige; (3) highly stratified structures or chiefdoms, with several inherited social classes: king, noble, freemen, serf, and slave; (4) civilizations, with complex social hierarchies and organized institutional governments; (5) virtual societies, societies based on online identity which are evolving in the information age11. 10 «Nuovi Argomenti» 20 (Oct./Dec. 1970), pp. 166-176. Reprinted in Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 273-280. Translated as The Unpopular Cinema (Pasolini, pp. 267-275). In Heretical Empiricism. Trans. Ben Lawton and Louise Barnett. Ed. Louise Barnett. Washington, DC, New Academia Publishing, 2005. Rpt. in honor of 30th Anniversary of Pasolini’s murder. Expanded with Pasolini’s Repudiation of the Trilogy of Life. Trans. and introd. Ben Lawton. Original ed. Bloomington, Indiana UP, 1988. 11 Among many others see Franz Oppenheimer. 65 Parenthetically, I don’t particularly like the term “civilization” in this context because it can lead to confusion and misunderstandings predicated on a belief in the “progress” of civilizations and a rejection of cultural relativism (Boas). This caveat to the contrary notwithstanding, I think that the notion of cultural evolution, taken cum granu salis, is helpful for the purposes of my argument. Regarding Civil Society, while «there is no universally accepted definition of civil society», it is generally understood as voluntary participation by average citizens and thus does not include behavior imposed or even coerced by the state (Hauss). In other words, a civil society can exist only when citizens agree to submit voluntarily to democratically chosen laws, that is, when the parti voluntarily submit their particolare to the interests of the res pubblica (Bruni). When this voluntary compliance does not occur, regardless of the laws that are on the books and notwithstanding the power of the state, all you can have are conditions that range between totalitarian regimes, complete anarchy, and the kleptocracy that has brought about the recent near collapse of world financial markets. Given these premises we can return to Sicily. By and large, we all are acquainted with the history of Trinacria, the three cornered island. More than any other region of Italy, Sicily was, in the words of Machiavelli, “stiava et vituperata” [enslaved and humiliated], (Prince XII). As a result, it did not have its own laws – that is, again, according to Machiavelli, the premises for the creation of a res pubblica did not exist. In short, it remained blocked somewhere around the chiefdom level of society. Chiefdoms frequently retain some characteristics of tribal societies, characteristics that were already well established and described in biblical times. These societies were essentially extended families ruled by a patriarch. In these societies the honor of the family was and is of paramount importance. Why? In a civil society, that is, a society predicated on voluntary compliance with laws, the citizen must cede willingly the monopoly on violence to the state which must, in turn, protect its citizens. In a tribal society, where there is no state to protect the individual, transgressions against the family and its members cannot be tolerated. No slight, however trivial, can be forgiven. Hence, the obsession with “honor” (about which more shortly). In Divorce Italian Style this obsession with honor is presented as ludicrous and uncivilized. And, in a sense, this is correct because 66 Sicily had, at least in theory, been on the road to becoming a civil society at least since the notorious plebiscite of 1860. But, as we also all know, Sicily was not entirely a civil society for many reasons, one among which is that, at least in the view of many Sicilians, Italy was merely another in a long list of invaders. Thus, at least in part, Sicily continued to be a society with tribal characteristics in which, because of the abdication of its responsibilities by the Italian state, the people have all too frequently adopted the Mafia as a de facto alternative government12. After the murders of Falcone and Borsellino, the Italian government finally became more actively involved in the war against the Mafia. One result was the arrest of Toto Riina, the Cosa Nostra “boss of bosses” in January 1993. The Mafia reacted furiously and violently engaging in terrorist attacks against tourist attractions in Florence, Milan, and Rome that left 10 dead and 93 wounded. The retaliatory direct attack by the Italian state seemed to force the Mafia to retreat and, according to some, to be vanquished. What actually happened was that when Bernardo Provenzano inherited the leadership mantle of Cosa Nostra in 1995, he renounced Riina’s violent methods and like an octopus13, had the Mafia disappear into the cracks and crevices of Italian society and go back to its principal activity: making money, once again in collusion with representatives of the Italian government and industry at virtually all levels. The new policy is described by the Mafia boss Tano Cariddi in La Piovra 10: Non serve più fare la guerra allo Stato. Basta usare le leggi 12 This tendency has been discussed in a variety of films ranging from Francesco Rosi’s Salvatore Giuliano, to Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore (1972), to Roberto Faenza’s Alla luce del sole (2005). The losing struggle by Sicilians to free their island from the tentacles of the piovra (octopus) is narrated in any number of films and television shows, ranging from Un uomo da bruciare (Valentino Orsini, 1962), Cento giorni a Palermo (Giuseppe Ferrara, 1984), Giovanni Falcone (Giuseppe Ferrara, 1993), Il giudice ragazzino (Alessandro Di Robillant, 1994), Cadaveri eccellenti (1999), Placido Rizzotto (Pasquale Scimeca, 2000), to I cento passi (Marco Tullio Giordana, 2000), L’attentatuni (Claudio Bonivento, 2001), and Giovanni Falcone, l’uomo che sfidò Cosa Nostra (Andrea e Antonio Frazzi, 2006). 13 The Mafia in Italy is also called “la piovra” (the octopus), both because its tentacles seem to reach everywhere and because it has the ability to hide in virtually invisible crevices. One of the most popular and long lasting Italian television series, was called, La Piovra (Damiano Damiani,1984; Florestano Vancini, 1986; Luigi Perelli, 1987-95; Giacomo Battiato, 1997-98; Luigi Perelli, 2001). 67 che ci sono e costringere il potere centrale a farne delle nuove su misura per noi e per i nostri interessi. Non più meschine velleità di separatismi intrisi di bassa politica e di modesto affarismo, ma reale autonomia da ogni potere, che ci consenta di diventare il territorio più intoccabile del nuovo potere finanziario, la capitale della nuova economia. [It is no longer necessary to make war against the State. It is enough to use the existing laws and force the central power to pass new ones made to order for us and for our interests. No more pathetic ambitions of autonomy, drenched in low class politics and cheap and unscrupulous profiteering, but real autonomy from all powers, which consents that we become the most untouchable terriroty of the new financial power, the capital of the new economy]14. This is precisely the indictment issued by writer/director/producer Salvatore Fronio, in his Vota Provenzano (2007), the documentary of the fictional 2006 electoral campaign of Mafia boss, Bernardo Provenzano15. The filmmakers follow the fictional campaign as it proceeds from Palermo to Naples and Torino, observing the reactions of authorities and ordinary citizens. It also focuses on products (primarily clothing) that exploit the marketing value of what might be described as “Mafia chic”. In a bitter and ironic “j’accuse” on the film’s web page entitled “The Mafia has been defeated. The Mafia has won”, the director writes that association with the Mafia is no longer detrimental to politicians or industrialists; on the contrary, if anything, working with the Mafia now is a convenience which only foolish and impractical persons would reject. He concludes by writing, «The only way to fight it is to imitate it. Welcome to the twenty-first century. The Mafia has been defeated. Hurrah for the Mafia!» (Fronio)16. 14 12 Sep. 2009, <http://it.wikipedia.org/wiki/La_Piovra_10>. 15 Translation mine. 16 Interestingly, according to, among many others, Jeff Sharlet in The Family: The Secret Fundamentalism at the Heart of American Power (New York, Harper Collins, 2008), the members of the secretive fundamentalist Christian organization, also known as The Fellowship, describe themselves as the Christian Mafia. See also: 12 Sep. 2009, <http://www.youtube.com/watch?v=n3npWdChcGo>; <http://www.harpers.org/archive/2009/07/hbc-90005375>; 12 Sep. 2009. <http:// www.insider-magazine.com/ChristianMafia.htm>. 68 *** I have repeatedly used the term “honor”, without defining it. What do we mean by honor? Avvocato De Marzi, the lawyer of Mariannina Terranova, the “concubine” accused of murdering her philandering boyfriend, tells the court that Niccolò Tommaseo, in his monumental dictionary of the Italian language, defines honor as “The moral and civic attributes that render a man respectable and respected in the society in which he lives” (Moscon and Germi, p. 83). While this definition does serve to convey the common understanding of this concept in civil societies, it is not the meaning of honor in tribal societies. In tribal societies honor is, essentially, a synonym for respect. But how are we to understand their concept of respect? Don Ciccio Matara, he of the mysterious and dangerous [Mafia]17 friendships, tells Don Ferdinando at the funeral of Don Calogero (Ugo Torrente)18, «la vostra famiglia… “era” [emphasis in the original] una famiglia onorata… Tutto il paese aspetta…», [yours was a respected family … all the town is waiting…] (p. 145). Now that he has become cucolded, it is no longer such. In order to regain that respect and honor he must exact revenge. Respect, in other words, does not mean admiration predicated on attributes and actions sanctioned by law-abiding society, it means fear. It means not allowing transgressions against one’s person or property. Where there are no laws, no fines, and no jails, punishment for transgressions will inevitably take more violently drastic forms – hence the disproportionally high rate of homicide in Sicily. Gian Antonio Stella, L’Orda: 17 For the etymology of the word “mafia,” see Paola Ivaldi, Le origini della parola “mafia”, dalla sua prima attestazione fino all'ingresso definitivo nel vocabolario italiano, 12 Sep. 2009, <http://fc.retecivica.milano.it/Rete%20Civica%20di%20 Milano/le%20Associazioni/Libera/mafia%20oggi/%231328727?WasRead=1>, and Ben Lawton, Mafia Word Origins, 12 Sep. 2009, <http://sicilianculture.com/ mafia/mafiawords.htm>. 18 Calogero is a fairly common Sicilian name. Perhaps because it was the given name of a man who was considered by many to be the original “boss of all the bosses” of the Mafia, Don Calogero Vizzini, or perhaps because it sounds so “Sicilian” to “continentals,” any number of on screen mafiosi and Mafia bosses have been called Calogero. Among the more memorable are Don Calogero Sedara, in Luchino Visconti’s The Leopard and Don Calogero Tricarico in Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore. For many more see 12 Sep. 2009, <http://www.imdb.com/find?s=char&q=calogero&x=0&y=0>. 69 quando gli albanesi eravamo noi (The Horde: When We Were the Albanese, 2003) states that the murder rate was 46.9 per 100 thousand in Palermo versus 3.0 in Milan in 1881 (p. 304)19. According to Enrico Giacovelli, at the time of the making of the film in the South there were approximately 1600 crimes of honor a year, roughly 4 a day. By comparison, he writes, the crimes of the Mafia were a joke (p. 77). Commonly understood as the code of silence, omertà actually refers to a code of manliness (omu, hombredad) of which the code of silence is merely one manifestation20. It implies «the categorical prohibition of cooperation with state authorities or reliance on its services, even when one has been victim of a crime» (Paoli, p. 109). The following, more contemporary, expanded definition of the code of omertà is helpful: Whoever appeals to the law against his fellow man is either a fool or a coward. Whoever cannot take care of himself without police protection is both. It is as cowardly to betray an offender to justice, even though his offences be against yourself, as it is not to avenge an injury by violence. It is dastardly and contemptible in a wounded man to betray the name of his assailant, because if he recovers, he must naturally expect to take vengeance himself (Porello, p. 23). This code is in effect wherever civil society does not exist, from Afghanistan, to Appalachia, to inner city USA where it is manifested in the proscription against “dissing”, that is, of disrespecting. A second related meaning of honor in tribal societies exists in relation to women. Tommaseo, writes: «Parlandosi di donna, vale Pudicizia, Castità» [Speaking of women, it means modesty, chastity] (p. 611). He then goes on to give examples: 19 Unfortunately this important work has not been translate into English. The title, L’Orda: quando gli albanesi eravamo noi, compares Italian emigrants around the world to the recent Albanese immigrants into Italy who are perceived and stereotyped all too often by Italians as a sort of devastating, criminal Mongol horde. 20 The theory that omertà originates from umiltà was already discarded by the first Antimafia Commission of the Italian parliament in the 1970s, which traces the origin to omu. See: Relazione conclusiva, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Rome, 1976, p. 10. 70 Ma trattosi egli le mentite spoglie … l’onor suo le toglie» [But, having removed the deceitful mask … he took her honor]. (p. 611). [Ovid, Metamorphoses, 2-144]. Martire dell’onore, e della fede marital salisti, Casta Lucrezia, ad eternarti in cielo [Martyr for honor and for marital fidelity, you ascended, Chaste Lucretia, to become eternal in heavan]. (p. 612). [Francesco Redi, Opere. 1778, p. 173]. Filomena di Pregne era sorella. E fu che di Tereo data alla fede, Ei le tolse l’onor d’ogni donzella a viva forza [Filomena was Pregne’s sister. And so it happened that given into the custody of Tereo, he forcefully took the honor of any maiden]. (p. 612). [Gabriello Chiabrera, Rime.1808. No page.] How is a man’s honor, understood as respect in the tribal sense, connected with a woman’s honor understood as chastity? According to Maurice Godelier and Jack Goody, with different nuances, the major difference between our closest biological relatives (chimanzees and bonobo) is the parental role assumed by human males, (Godelier; Goody). With the evolution from more egalitarian hunter gatherer societies to the more hierarchical tribal and chiefdom societies women became a means of increasing the size, power, and wealth of the extended family/ tribe, chiefdom, or feud. With the awareness of the paternal connection with children, the chastity of women acquired importance for at least two reasons: One, it insured that the children one raises were one’s own. Two, chaste daughters had greater exchange value in what has been described as the formation of intergroup alliances through marital arrangements (Lévi-Strauss; Johnson and Earle). In short, the chastity of women had a concrete market value. If taken by someone else (rape), it was the equivalent of any other theft and or pillage and thus had to be punished like any other manifestation of disrespect. If it was given away willingly, it was essentially a destruction of paternal property, and thus also disrespect, and had to be punished accordingly. Why women came allegedly to identify chastity with honor is a question for another time. One can understand that they might well treasure something that is valued by the family. But why commit suicide (see Lucrezia) or prefer to be killed (Maria Goretti)21. 21 In 508 B.C.E., Lucretia, wife of consul Lucius Tarquinius Collatinus, was raped by Sextus Tarquinius, son of Lucius Tarquinius Superbus, king of Rome. After 71 In the first case, there are at least two possibilities: one, the identification with the values of the father/husband is complete; two, it might have seemed preferable to kill oneself in a manner of one’s choosing rather than be murdered more brutally and painfully by one’s kinfolk. Parenthetically, this is still very much a contemporary tragedy. Whether it is legally sanctioned by the Koran and Sharia is the object of considerable debate, but there is no question that an estimated 5000 women are murdered around the world by family members for behavior that is considered to shame the family, including rape – and not just in the Middle East22. The most bizarre instance I found concerned a «51 year old Iraqi woman Samira Jassim, who confessed to Iraqi police that she organized the rapes [of numerous women] so she could later persuade each of them that to become a suicide bomber was the only way to escape their shame»23. The notion that rape, while obviously traumatic, is somehow a fate worse than death seems inconceivable today. The idea that somehow it causes a dishonor to the family of the victim boggles the mind, and yet when I was in grade school no one suggested that there was anything irrational about the choices of Lucrezia and Maria Goretti. In fact, they were presented as admirable role models on a par with Patroclus, Hector, Muzio Scevola, Pietro Micca, Carlo Pisacane and the “300 giovani e forti”24. The importance of chastity and asking her relatives to avenge her, Lucretia killed herself in their presence with a dagger. The result was the overthrow of the monarchy, the expulsion of the Tarquinii family, and the foundation of the Roman republic. On July 6, 1902 eleven year old Maria Goretti was murdered by 20 year old Alessandro Serenelli because she refused to allow him to have sex with her because she believed it to be a mortal sin. On June 24, 1950 she was declared a “saint” by Pope Pius XII, thus becoming the youngest officially recognized saint ever. 22 “A Human Rights and Health Priority”. United Nations Population Fund, 8 Aug. 2009, <http://www.unfpa.org/swp/2000/english/ch03.html>. Retrieved on 2009-08-08. 23 Among the various sources for this see: 12 Sep. 2009, <http://www.news.com. au/story/0,27574,25006101-401,00.html> and <http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/7869570.stm>. 24 The willingness to lay down one’s life for one’s friends (John 15:13) or for one’s country (dulce et decorum est pro patria mori: Horace’s Odes (III, 2.13) has always been considered the acme of human nobility. In Italian grade and middle school these lessons were reiterated regularly with examples taken from the past: Patroclus, who by donning Achilles’ arms to reinvigorate the flagging Greek forces went off to certain death in battle. Hector, who left the safety of the Trojan walls and his loving wife and child to face Achilles, enraged because 72 its economic implications are addressed explicitly in Divorce Italian Style. Angela’s (Stefania Sandrelli) father, Don Calogero concerned because he has become convinced, incorrectly, that his daughter has a lover, has her examined by the midwife, and subsequently, concerned about her reliability as protector of her own honor, decides to marry her off to a wealthy unknown against her wishes. In case we had somehow misconstrued his concerns and his intent, Germi has Don Gaetano Cefalù (Odardo Spadaro) say, «Mascalzone! Per soldi la vuole sposare… Si vuole strafogare di denaro!… Speculatore!!!!» [You scoundrel! He wants to marry her for money… he wants to gorge himself on money!… Profiteer!!! (p. 111). In the script, he adds, «Ma che schifo che mi fai» [You disgust me] (p. 111). As Don Ferdinando tells us after Rosalia’s flight has been discovered, and as we watch Sisina’s (Margherita Girelli) father remove her from the household of the cornuto contento [happy cuckold]25, dishonor contaminates everyone in «casa Cefalù, diretti titolari e indiretti, discendenti e future… insomma proprio tutti quanti, inclusa la serva» [Cefalù houhold, direct and indirect members, descendants and future… in short, absolutely everyone, including the maid] (p. 139). In short, the town of Agramonte believes firmly in the values of omertà and everyone participates voluntarily in reinforcing them, from the priest to the members of the communist party, to the senders of anonymous letters, to, eventually, the local Mafia. But Agramonte is not completely buried in medieval mire. Both Mariannina Terranova, and Immacolata Patanè (uncredited) kill their respective men to avenge the insult to their honor. This is progress, slow progress perhaps, but progress nevertheless because it implies that there is a certain reciof the death of Patroclus. Pietro Micca, a Piedmontese soldier who, in 1706, to save the city of Turin from the invading French who had tunneled under the walls of the city, blew up the tunnel, the French, and himself; Carlo Pisacane, anarchist and revolutionary, attempted to liberate the peasants of the Kingdom of Naples In 1857; he and his 300 companions (the figure was inflated in emulation of the Spartans at Thermopylae) were butchered by local peasants convinced by Bourbon authorities and local priests that they were bandits. Their deeds are remembered in a poem by Luigi Mercatini [«They were 300, they were young and strong, and they are dead…», trans. mine] that we were required to memorize with little or no understanding of the real issues involved. 25 Agnese, Don Ferdinando’s sister, screams this, the ultimate insult in a male chauvinist society, at her brother, when he fails to avenge the honor of their family and thus destroys her planned marriage. 73 procity of rights and duties. Woman is no longer simply chattel. To get a sense of the extent of this progress, imagine a Taliban woman remonstrating against her husband for any reason, much less killing him. Another step in the long and slow progress towards becoming a civil society has taken place in Agramonte. There are laws, expressed in the penal code; there are policemen and a justice system in which, the film tells us, however ironically, «la legge è uguale per tutti» [the law is equal for everyone]. Don Ferdinando, who is a lawyer, albeit not a practicing one, knows enough about the law to find in the Codice Rocco the article 587 which concerns the “crime of honor”. It reads: chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni [whosever causes the death of the spouse, the daughter or the sister, at the moment of discovering the their illegitimate carnal relationship or because of the fury caused by the offense caused to his honor or that of the family, is punished by incarceration of from three to seven years]. (p. 84)26 Once again Germi takes liberties with reality to make his thesis even clearer. Unlike the preceding Zanardelli code, the Rocco code did not require that the illegitimate lovers be caught in flagranza [in the act]. It was enough that their relationship be discovered27. But, for the purposes of the film, Don Ferdinando feels that he must stress the “onore offeso” [offended honor] to make up for the flagranza lost by the elopement of the couple. Don Ferdinando believes neither in Omertà nor in Civil Society. Caught on the firing line between these cultures, he manipulates both with complete cynicism to achieve the object of his desires: Angela. My students, at least at first, tend to identify with the protagonists of films – whether they be heroes or anti-heroes. For the most part it does not occur to them to look critically at what is shown, to perceive that the protagonist is not necessarily a role model, no matter 26 The law went into effect in 1930 and was repealed with law n. 442 of 5 May, 1981. 27 12 Sep. 2009, < http:// www.liberliber.it/biblioteca/g/grande/l_onore/html/art_587. htm>. 74 how physically attractive or successful. Germi was worried that his Italian viewers had similar tendencies. To counter this state of affairs he himself admits to err on the side of clarity where the “sugo di tutta la storia” [the essence of all the story] is concerned (p. 45). In fact, he has said that he is «not modern, if that means leaving everything uncertain, the end of the film uncertain, undefined. Granted [he adds], life is ambiguous, but I want to give a conclusion to things, a moral» (p. 45). The moral of Divorce Italian Style, is revealed explicitly in one of the most brilliant pans in the history of the cinema. After the wedding, Don Fefe and Angela are on their honeymoon, on a yacht28. He is dressed casually; she is wearing a bikini; a sailor is steering. As she comes to lie at Don Ferdinando’s feet, he looks off into the distance, somewhat fatuously, and we hear his interior monolog: «It’s really true, life begins at 40». The camera pans down to reveal his prize: the largely naked body of Angela. It caresses her face, breasts, belly, legs, feet… and then we watch her begin to play footsie with the sailor. This last shot in the syntagmatic ordering of the film confirms the epigrammatic wisdom of Yogi Berra when he said: «it ain’t over till it’s over». *** Clearly Divorce Italian Style is on the firing line in many ways, from the quantum leap in the foregrounding of the medium to its content. The conflict in the latter is perhaps best expressed by avvocato De Marzi as he begins his peroration in defense of Mariannina Terranova: «Signori della corte… “bocca baciata non perde ventura!”… Ma io vi dico, parafrasando un testo ben più alto e ben piu sacro, “chi guarda una donna con desiderio, ha già commesso peccato nel cuor suo!”» [Gentlemen of the court… “mouth for kisses, was never the worse!”… But I tell you, paraphrasing a much higher and much more sacred text, “whoever looks at a woman with desire has already committed a sin in his heart”] (p. 82). The first quote, as we all know, is the summation and moral of Boccaccio’s Decameron, day 2, novel 7, which reads: 28 This is stated explicitly in the script of the film. 75 Ed essa che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella, e fecegli credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E perciò si disse: – “Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna”. [So she, who had lain with eight men, in all, perhaps, ten thousand times, was bedded with him as a virgin, and made him believe that a virgin she was, and lived long and happily with him as his queen: wherefore ’twas said: – “Mouth, for kisses, was never the worse: like as the moon reneweth her course”]29. It is difficult to find a more immanent, progressive vision of relations between women and men. The second quote, as we also all know, comes from Jesus’ sermon on the mount (Matthew 5, 27-30), and concerns not just behavior (“don’t commit adultery”), but the very surges of those desires which we hide from others and, quite frequently, from ourselves. Citing Pasolini, I added that Germi was engaging in a sadomasochistic process. How so? Sadistic, obviously, in that the film makes fun not just of the mores of Sicilians, but of Southern Italians in general and, to an extent, of all Italians. Germi was entirely aware of this. As an apology of sorts, in his introduction to the script he reiterates repeatedly his love of Sicily as well as his horror at the crimes committed in the name of “honor”. It is masochistic because, as Pasolini pointed out, there will be those who condemn the director for washing dirty laundry in public. Again, in his introduction to the script, Germi writes of meeting in Catania, the city he calls the Milan of Sicily, a woman, the proprietor of an household appliances store, a thoroughly modern enterprise. He tells us that she repeated the old story of the linen that should not be washed in public30 and accused the cinema of showing only the ugly aspects of Sicily. «Everything is beautiful 29 12 Sep. 2009, < http://oaks.nvg.org/decameron1.html#2-7>. 30 «I panni sporchi si lavano in famiglia». This sentence, which has become both famous and notorious in Italy, was allegedly uttered about Vittorio De Sica’s Bicycle Thieves (1948) by Giulio Andreotti, then Undersecretary of the Presidency of the Ministers in the De Gasperi government. Between 1951 and 1953 he was, among other things, responsible for the supervision of entertainment in Italy, and in particular, of the cinema. It was he who decided the level of government subsidy predicated on artistic merit for individual films. 12 Sep. 2009, <http:// www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new. html_851085929.html>. 76 here – she said – why do you defame us?” (p. 48). But, lest it be thought that Pasolini was a complete pessimist, also added “the specific liberty of the spectator consists in ENJOYING THE FREEDOM OF OTHERS [emphasis in the original] (Heretical Empiricism, p. 269). Almost as an ante-litteram echo of these thoughts Germi wrote: «Or che in Sicilia vedranno il film: spero che non si irritino e che Divorzio all’italiana risvegli un po’ il senso del comico anche in loro. Quando i siciliani saranno essi pure capaci di sorridere dei propri difetti, come i genovesi scherzano sulla taccagneria ed i veneziani sulle ciacole, credo che anche il delitto d’onore avrà i giorni contati» [Now that they will see the film in Sicily, I hope that they will not be irritated and that Divorce Italian Style will awken their sense of humor a bit. When Sicilians will also be able to smile about their own defects, as the Genoese joke about their stinginess and the Venetians about their gossiping, I believe that the days of the crime of honor will also be numbered] (p. 49). Has that moment arrived? Or, as the reaction to Salvatore Fronio’s documentary of the Vota Provenzano campaign suggests, is Sicily still mired in tribal loyalties and Omertà which keep it from finally fully becoming a Civil Society31? Sources Cited Aprà, Adriano, and Patrizia Pistagnesi. Comedy, Italian Style, 19501980, Torino, ERI, Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, 1986. 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Soon afterwards, both Leftist and Centrist newspapers, based mainly in the South, criticized the bishop’s action. «L’Unità» said the bishop had behaved like Don Camillo who tried to prevent Peppone and his men from being present at the benediction over the Po, and «Il Corriere Meridionale» accused the bishop of intolerance and incivility (Piantedosi 18)1. But the journalist behind Don Camillo, Giovannino Guareschi, applauded Nicodemo’s maneuver in «Candido». In his opinion, Nicodemo had simply defended the rightful respect due to the Church in making sure that a religious function did not acquire a political hue – the bishop had never aimed merely to disparage public officials. Guareschi then publicly thanked Nicodemo for having honored the Holy Office’s longstanding decree against Communism, since he thought that so many other prelates of late had ignored the excommunication injunction, thus unfortunately confusing the faithful with their silence (“La bolla” 1)2. 1 In the tale La processione, first included in a longer story entitled Passa il Giro, Don Camillo forbids Peppone and his men to march in the procession if they carry the Communist Party flag. In protest, Peppone’s men menace the entire town and keep people from joining the sacred rite. Don Camillo strikes out alone, therefore, followed only by a small dog. When he gets near the Po River, Peppone and his followers attempt to block Don Camillo from proceeding closer to the waters. But at the sight of the crucifix, they remove their hats, bow their heads, and make way out of respect so that Don Camillo may pass. French film director Julien Duvivier captures this moment nicely in Don Camillo (1952), the first cinematic adaptation of Mondo piccolo. 2 Specifically, Guareschi stated: “[...] ecco il gesto dell’arcivescovo di Bari rendere impossibile ogni equivoco. La Scomunica, uscita dalla clandestinità, agisce alla 80 Not surprisingly, Guareschi’s position in the Nicodemo affair mirrored his consistent opposition to Communism. The Left had attempted a political maneuver in Bari, and Guareschi commented accordingly. Scholars may be surprised to learn, however, that Guareschi’s opposition to Communism, in this case, also encapsulates quite nicely the essence of his particular political posture regarding the South: that of a geographical area integral to the Italian state whose people, like all Italians, were susceptible to Communism’s allure. Had the Nicodemo affair occurred in any other part of Italy, Guareschi likely would have responded in much the same way. In other words, Guareschi cast his gaze upon the South inclusively: he took stock of its economic and social concerns as equal to those in other regions. Guareschi’s Southern stance was disarmingly simple, and, as the subject of our present inquiry, this theme deserves our attention for several important reasons. First, such a study permits us to see just how Guareschi saw the South as vital to Italy’s identity and economy – Guareschi never sustained the radical notion that the South should be abandoned or somehow geographically lopped off from the more productive North. Indeed, the subjective idea itself of distinguishing the North from the South and Northerners from Southerners seemed frivolous and unproductive to Guareschi. Second, an analysis of Guareschi’s attitude toward the South allows us to grasp that he did not see Southerners as somehow intrinsically inferior to Northerners. He admired Southern culture, and, had he lived into the 1980s, he would have railed against the platforms of the Lega del Nord. Finally, and as we have already glimpsed, such an inquiry helps us to appreciate all the more just how an anti-Communism bent animated the core of his writing; he couched almost all discussion of the South’s economic wellbeing in the context of opposition to Communism. Because most readers know Guareschi as the creator of the Mondo piccolo, we would do well to begin our survey with a consideration of Don Camillo stories. luce del sole. Mentre, da un lato, il diavolo socialcomunisti si veste da frate e, con pie mossette, cerca il colloquio coi cattolici, dall’altro i cristiano-marxisti, presi da furore aperturista, assecondano il gioco del diavolo marxista: ci voleva proprio qualcuno che, da autorevole Sede, parlasse chiaro spiegandosi con un esempio pratico.” (“La bolla” 1). 81 The South in Mondo piccolo: Interestingly, of Guareschi’s 346 Mondo piccolo tales, only one story, “Il Terrone” written in 1961, offers a full depiction of a Southerner. The vast majority of these stories, of course, focus on the Cold War adventures undertaken by the feisty priest Don Camillo and Communist mayor Peppone as each tries to win the hearts of their local constituents in the Bassa region of the Emilia-Romagna3. In Il Terrone, Concetto Delisanti has immigrated to the Bassa and found clandestine work as a farm hand, helping the landowner Bozzoni till and supervise a large tract of land. Don Camillo likes Concetto: he is affable, seemingly devout, and a hard worker. After some time on the farm, it comes to light that Concetto (“Il Terrone”) has had a relationship with Bozzoni’s daughter Desolina – a woman of immense size and strength – and she has become pregnant. Desolina wants to marry him, but Concetto concedes that he already has a family to look after in the South. Eventually his wife and eleven children come for him, demanding with theatrical shrieking and wailing that Bozzoni do him no harm. With Peppone present to ensure good public order, Concetto manages to extricate himself from the Bozzoni family. Immediately, he departs by train with his wife and children for the South. Don Camillo, however, suspects a ruse. For him, some aspects of this entire affair are shady, and he has a parishioner tail the family to the Piacenza train station where Concetto gets off and says goodbye to his family that continues to the South. Don Camillo allows Concetto to settle into a new place and then decides to confront him. Concetto confesses that he really was not married after all – he had hired a makeshift family from an employment agency in Milano to make a huge scene at the Bozzoni farm as a way to rescue him from 3 The “Bassa,” refers to the low lying stretch of land in the Po river valley plain that, in general terms, runs West to East from Piacenza to the small town of Brescello, and North to South from the Po river to the Apennine Mountains. As Guareschi states in his introduction to Don Camillo (1948): “Il Po comincia a Piacenza, e a Piacenza comincia anche il Mondo piccolo delle mie storie, il quale Mondo piccolo è situato in quella fetta di pianura che sta fra il Po e l’Appenino. [...] il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra [... ] (Tutto don Camillo vi-vii). In Il compagno Don Camillo, a Communist delegate from Naples takes part in the tour of the Soviet Union, but this minor character does not shed any light on how Guareschi viewed the South. 82 his fate with Desolina. He also tells Don Camillo that he has gotten another woman pregnant but, unlike his experience with Desolina, he really loves her and wants to marry her. Don Camillo tells him: «Giovanotto, il tuo sporco gioco è finito: o sposi la poveretta che hai compromesso o ti vengo a prendere per il collo e ti faccio sposare la Desolina» (p. 2052). Concetto swears to marry his new flame, and two months later Don Camillo receives a letter from Naples. Concetto lets him know that he is on his honeymoon, but that he really did not have to marry his bride who was never pregnant. He had told this white lie simply because he did not want Don Camillo to force him to marry Desolina. In closing, Concetto asks him for a blessing: «Vostro devotissimo Concetto Delisanti, che implora, come regalo di nozze, la Vostra Benedizione» (p. 2053) Don Camillo fires off a quick letter consisting of a single line: «Va a farti benedire!» (p. 2053). Il Terrone provides light entertainment without moral overtones that point to any Communist threat, and the tenor of the story is lighthearted. Guareschi does indeed employ several Southern stereotypes to this story: Concetto is shifty, quick witted, an expert in the arte di arrangiarsi, and sexually prolific; he is supposedly duplicitous, promising to marry a woman he has gotten pregnant while he has a wife and eleven children back in the South. Peppone, struck by the size of Concetto’s family, alerts the reader to the stereotype that Southern families usually consist of many children. Furthermore, Concetto’s highly emotional wife also plays up a Southern stereotype; she is a good band-leader who, as a wonderful actress, orchestrates the pitched cries of her children to recover their father. The stereotypes, however, do not indict or pillory Southerners in a vengeful spirit, and neither does Guareschi come across as a bigot. The comic thrust of this tale does not develop at the expense of any stereotypically Southern fault or shortcoming, but rather in Don Camillo’s play on words in response to Concetto’s irresponsible behavior. Don Camillo matches Concetto’s fertile imagination that allows him to get out of a sticky situation by basically telling him to go to hell through a blessing that Concetto himself has requested. Guareschi prizes the comic power of the double entendre of this tale and not the stereotypes. Having considered this tale let us now turn our attention to Guareschi’s military training, an occasion that gave him his only direct experience of the South4. 4 As numerous sociologists and historians have indicated, the notion of “the South” 83 Guareschi’s Sojourn in Potenza Guareschi grew up in the heartland of the Po river valley in the EmiliaRomagna. Since his family was relatively poor, he did not venture away from home until he became a newspaper correspondent when he traveled to Marina di Massa in Tuscany to cover two University Fascist Group (GUF) camping expeditions in 1931 and 19325. Two years later, he journeyed much farther South, this time to Potenza where he attended Officer’s Candidate School (Scuola Allievi Ufficiali) from November 1934 to May 1935 when, toting his Voigtländer camera, he captured several images of the people and local surroundings of Potenza and Melfi. Later, he placed many of the photographs he had taken in an album, and he wrote short descriptions about the images either on the photos themselves or directly underneath them. Guareschi’s children published these pictures in 2000 with Rizzoli’s Un po’ per gioco. Fotoappuunti di Giovannino Guareschi. The images indicate that the dress and habits of the local villagers touched him: he took several shots of children at play in cobble-stoned piazzas, women washing clothes or drawing water in traditional costume, groups of young and old Southerners lining up against sunlit walls to stay warm, orphans dressed alike who gave the Fascist salute, and shepherds who wore full-length capes (tabarri). The poverty of Basilicata’s residents undoubtedly struck him and added to his nostalgia for home. For example, on the back of one photograph of Potenza’s Modern Hotel that shows its modest entrance blocked by a small, horse-drawn buggy he wrote: «Vedi? È supremamente molto bello / Il ‘Gran Modern Hotel’ di Pecoriello... /La limousine che c’è ferma dinnante /non ti par d’una grazia affascinante?/Ebbene, questa gran magnificenza/è la cosa più bella di Potenza!/Ti spieghi quindi ben perché io adesso/Pensi con nostalgia a bordo del Gesso!» is subjective. Readers may find a good essay on this point with John Dickie’s “Imagined Italies” in Italian Cultural Studies: An Introduction (1996). From all that I gather in evaluating his newspaper articles, Guareschi understood the South to include the islands of Sicily and Sardinia and those regions located primarily to the South of Lazio: Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, and Campania. 5 He reported on these events for the Corriere Emiliano with “24 ore coi gogliardi Parmensi a Marina di Massa” (1931) and “Quando piove sul bivacco dei gogliardi” (1932). Several photographs of festive dinners under large maritime pine trees accompanied his articles. 84 Unfortunately, neither his girlfriend and future wife Ennia nor his family members saved any of his written correspondence from this period of time. If these documents were available, we could possibly have an excellent window onto his personal reaction to Southerners; however, these letters simply are not included in the vast personal material of his archive. Thus, to comprehend Guareschi’s impressions of the South obtained via his military training, we have to examine carefully the captions that he used to describe his photographs and engage in good visual analysis6. Beyond these pictures, however, the earliest critical material that we have to surmise how Guareschi took stock of the South comes through two short fables, one written at the end of World War II while Guareschi was still in Sanbostel, Germany as a newly liberated Prisoner of War, and another published two years after his return to Italy. Impressions of the South in Light of Reconstruction The English Army liberated Guareschi and his compatriots in April 1945 but forced them to remain in their Prisoner of War camp until proper means could be established to repatriate them7. During the following weeks, life grew tense for the former inmates because it seemed that family, loved ones, and Italians in general had forgotten them. Homesickness became increasingly more difficult to overcome, and certain political agitators within the camp helped to whip up trouble and dissent for their officers. Even a criminal element had grown in size: a few soldiers turned into petty hoodlums and spent their time stealing. 6 Guareschi also traveled with Ennia to Assisi in 1955 upon completion of his prison sentence in order to recharge spiritually and physically. In 1963 he spent several weeks alone in Rome to splice and edit newsreel footage that he used for his film La rabbia. He did not leave behind any personal impressions of Umbrians or Romans that offer insight to how he took stock of cultural habits of Italians from different geographical areas than his own. 7 The Germans had captured Guareschi in Alessandria on 9 Sep. 1943 after he had been recalled to active duty several months earlier. He refused to swear allegiance to the Third Reich and later to the Republic of Salò and spent the next twenty-one months interned in Germany and Poland. For more on this experience he shared with more than five thousand former Italian soldiers, see Schreiber’s I militari italiani internati nei Campi di Concentramento del Terzo Reich 1943-1945. 85 Having to face these conditions, Guareschi decided to allay tensions through entertainment in the form of radio broadcasts.He and a few friends founded “Radio B90” in his barracks. They set up a transmitter and placed loudspeakers throughout the camp, and then Guareschi provided everyone an initial program of story telling, sharing humorous political commentary, letter reading, and performing skits. As Guareschi recalled: I programmi erano congegnati piuttosto bene perché comprendevano rapide chiacchierate orientative composte sulla base di notizie captate attraverso la radio, piccola posta, scenette e raccontini umoristici, le canzoni del Lager eccetera. [...] Naturalmente Radio B90, che parlava con la voce del buonsenso ed era da tutti ascoltata, dava un tremendo fastidio agli agitatori [...] i quali aspettavano avidamente l’occasione per crearci dei guai. (“La Radio B90” p. 241) That moment unfortunately came when one of the radio commentators, Lieutenant Ravaglioli, expressed an opinion concerning the need for greater economic commerce and communication between the North and South. Ravaglioli’s words seem harmless enough, but we have to keep in mind that the agitators were simply looking for an excuse to feign offense and thus have reason to cause trouble. Here is what he said: Il destino unitario dell’Italia esce riconfermato dalla crisi: il Nord e il Sud hanno sofferto troppo per la reciproca mancanza. La penisola e le isole oltre che sede di un popolo che parla la stessa lingua, sono un solo ambito economico produttivo, un solo mercato, un solo deposito di stimoli e di idee. Eppure il cordone allacciamento Nord-Sud non fluisce scorrevolmente. Noi stessi siamo stati testimoni di due modi di procedere, di due temperamenti, di due ritmi diversi fra i differenti gruppi di regioni. Memore di un’altra rivoluzione che era stata fermata a Teano, il Meridione avrebbe dovuto rispiegare la bandiera del Risorgimento approntando idée e uomini onde affrancare generosamente le città settentrionali, oppresse dal tedesco, ma due anni passarono e non sorsero i Carnet dell’organizzazione e i trascinatori. La rivoluzione, stava invece, ancora una volta, in attesa fra Alpi e Reno, riconfermandosi peculiare energia del settentrione. Non 86 dovremo però fare che questi due anni di inerzia siano titolo di condanna: per noi equivalgono piuttosto all’acuto sintomo di un male che va assolutamente risanato. Mettere a profitto terra e uomini, svegliare il traffico, iniettare la febbre alle intelligenze, portare cioè le forze del meridione dalla potenza all’atto. Se fosse possibile ordinare in gerarchia i problemi della ricostruzione italiana, diremmo che questo è il principale. (“Ravaglioli” n.pag.) Southern agitators in the camp pounced on this transmission, using it to create further discord. They affixed a large poster on the entrance door to Radio B90’s transmission station that read: Cara Radio B90, per vostra buona norma trascriviamo quanto i meridionali desiderano far conoscere al signor Ravaglioli. Meridionali! Un microcefalo oratore da strapazzo della Radio B90 ha usato verso di noi parole non benevole e considerazioni quanto mai offensive alla nostra dignità di italiani, alla nostra indiscussa sensibilità di meridionali. Fin quando detto signore non farà alla detta radio le dovete scuse riconoscendo pienamente la sua profonda ignoranza del Meridione e sui fatti che si sono susseguiti dal settembre 1943 in poi, noi pretendiamo che detta radio cessi la sua attività: in caso contrario provvederemo di conseguenza.” (“La Radio B90” p. 242) What specifically the agitators found offensive with Ravaglioli’s harmless transmission calling Southerns and Northerners to collaborate together remains unclear. But, the protestors showed up in large numbers at the radio barracks and clamored to burn it down. As Guareschi relates: «In prima fila i “civili” autoelettisi difensori del Sud armati di bastoni e di grosse latte vuote decisi a impedire la trasmissione e a distruggere la baracca. Dietro, gli altri ospiti del campo venuti parte per difenderci, parte per vedere come ce la saremmo cavata e parte per assistere all’incendio della baracca». (“La Radio B90” pp. 242-243). Guareschi seized the occasion to calm everyone’s nerves. Having frequently read stories and vignettes to his fellow inmates during the war as a form of entertainment, he naturally felt inclined to tell those assembled a fable about the need for true cooperation between 87 Northerners and Southerners because they were all Italians8. Here is the short fable I cavalli e il carro in full: C’erano una volta due cavalli che si riposavano in un praticello. A un tratto uno dei due sospirò: – Che vitaccia fare il cavallo! – L’altro cavallo che era molto suscettibile drizzò le orecchie: – Ci risiamo! – esclamò – Vuoi dire che fai tutto tue e che io non faccio niente – Il primo cavallo non voleva dire questo ma incominciò subito il litigio e i due turbolenti personaggi vennero presto alle mani, anzi: agli zoccoli. – Non è il caso che vi scaldiate così – osservò un gufo saggio che stanziava nei paraggi. – Possiamo fare quello che vogliamo, adesso – urlarono i due cavalli – Siamo liberi! – Il gufo sogghignò: – E tutte quelle cinghie che vi fasciano il corpo? E quel morso che avete in bocca e quelle stanghe che avete ai fianchi e quel carro che avete dietro? – I due cavalli rimasero un po’ male perché si erano dimenticati di essere aggiogati a un carro. Poi si ripresero e gridarono: – Va bene! Però sul carro non c’è più nessuno che ci prenda a legnate. Il padrone è ruzzolato giù nel burrone. Spezzeremo anche questi finimenti! – In quel momento arrivò sulla groppa dei due cavalli una robusta frustrata e allora essi si volsero e videro che, sul carro, al 8 To help him survive life in the German Lagers, Guareschi had kept a daily log of his emotions and experiences as well as a diary in which he jotted down his attempts to come to terms with various experiences of prison life. After he had elaborated his thoughts, he would share these reflections in public as a form of entertainment in attempts to raise morale. He spoke about everything from hunger and longing to see his children to his conception of humor. Often the shape of his creative resistance took the form of fanciful tales or fables. One of his fellow prisoners, Claudio Sommaruga reflected after the war: “Giovannino Guareschi, con le sue battute, teneva alto il nostro morale a pezzi e difendeva, serissimo, l’inseparabile bicicletta, da un teutone privo di senso dell’umorismo che tentava di convincerlo della inopportunità di questa esportazione (“Meglio morti che schiavi” 202). Because of Guareschi’s skill at storytelling, former internees who lived with Guareschi in the camps have called him the “cantore collettivo” of their travails (Nello 44). Guareschi published several of his tales and speeches in his Diario Clandestino (1947), and Guareschi’s children published others in Ritorno alla base (1989). 88 posto dell’antico padrone, c’era una bellissima donna vestita di rosso, di bianco e di verde e con una stella in fronte. – Avanti! – disse la bella signora – Muoviamoci che dobbiamo portare i mattoni per ricostruire la casa! – E allora i due cavalli si rimisero in cammino e conclusero sospirando che è un mestieraccio fare il cavallo. Proprio così: è faticoso fare gli italiani, amici miei, e il carro bisogna tirarlo tutt’e due in modo uguale e bisogna studiar di prendere la strada migliore, quella più breve e meno faticosa. Non occorre mettersi a litigare per mettersi d’accordo sulla strada da prendere. La favoletta è finita: speriamo adesso che il sindacato dei cavalli non insorga per dire che ho offeso i cavalli confrontandoli agli italiani. E questo mi preoccupa perché – se incominciamo a litigare così fra i reticolati – i cavalli avrebbero ragione. (“La Radio B90” pp. 243-244) Everyone readily understood the moral of the story: the North and the South, as parts, were both equals, and they had to collaborate quite well together in order for Italy as a whole to move forward. The fable and allegory struck its point, and the agitators quieted down and left peacefully. Since Guareschi had forced everyone to reflect and use reason, he effectively disarmed the dissenters. Twenty years later, he humorously wondered if nothing violent occurred after he had told his fable because both Southerners and Northerners believed that, in reality they were the horse, while their geographical cousins represented the donkey. As he said: «E avevano ragione tutti, in definitiva, perché aggiogati al carro dell’Italia, ci sono due cavalli che, troppo spesso, si comportano come due asini» (p. 244). Two years later Guareschi nicely provided an echo to I cavalli e il carro with I punti cardinali sono sei published in Italia provvisoria, an album that contains vignettes, stories, and newspaper clippings of many different facets of Italian cultural life in the dopoguerra – the black market, deep seated suspicions for former fascists, banditry, vendettas born out of the civil war, and the growing Communist menace. If I cavalli e il carro speaks to regional equality and the need for Northern and Southern unity, I punti cardinali sono sei addresses the subjectivity of regional identification. 89 Fijlaos, a foreigner who makes his home near the North Pole, decides to visit Italy. He arrives in Milan and, since it is a hot, beautiful day, tells a headwaiter in a restaurant that as meridionali, they are very fortunate because of the weather. The waiter quickly corrects Signor Fijlaos, informing him that he is in the North, and that Milan is the capital of the Settentrione. In Florence, Signor Fijlaos, takes a ride in a horse-drawn carriage, and, also impressed by the good weather there, informs the coachman: «Beati voi meridionali». The coachman quickly turns around and exclaims that they are in Florence and «se i punti cardinali non sono una buggeratura, Firenze è nel settentrione» (p. 93). Signor Fijlaos continues on to Rome, and here too he could not contain from voicing his wonder at all of the marvelous ruins. He tells his tour guide that he should thank God for being a Southerner and able to have all of these attractions. But the guide, shocked at what he hears, stops in his tracks, grievously offended, and he informs Signor Fijlaos that he needed to get a new guide «perché lui con certa gente non si voleva compromettere» (p. 92). Finally, Signor Fijlaos makes it to Messina, gets off the train and has a porter carry his baggage. Since here too natural wonders abound, he just has to interject, «Come vi invidio, voi meridionali!». But the porter quite emphatically explodes, «qui mica siamo a Catania! Qui siamo nel settentrione!» (p. 93). Traveling to Catania, he thinks that he finally has it right but is told that Catania too was in the North and that he should not be confused with Capo Passero. Continuing on then to Capo Passero, the Southern most point in Sicily, the lets a barber know how lucky he is to be from the North. The barber, of course, grows indignant at such a suggestion, and tells him: «Signore mio: noi siamo meridionali e ce ne vantiamo!» (p. 93). Working his way by boat back up the peninsula, Signor Fijlaos keeps quiet with other passengers until he arrives in Naples, and realizing the number of kilometers he has traveled from Catania, he happily exclaims to the captain, «Voi settentrionali siete della gente privilegiata!» (p. 93); however, he hears this heated response: «Napoli è la capitale del meridione! … E chi lo nega è un figlio di malafemmina!» (p. 93). At that point, Signor Fijlaos promises himself that he will not say another word about his presumed geographical location until he arri- 90 ves at Monte Bianco. But, upon climbing the slopes of the mountain, his guide begins to make small talk to him: «Vede, signore, a differenza di voi settentrionali, noi meridionali...» (p. 93). So, when Signor Fijlaos gets back to his North Pole home, his fellow townspeople ask him to relate what Italy was like, and he responds: «L’Italia è un paese complicato perché là i punti cardinali sono sei: un est, un ovest, due nord e due sud.» (p. 93). The moral of this tale is also easy enough to comprehend. Through humor, Guareschi tells us that the distinction between the North and South geographically is quite subjective and, ultimately, makes no sense, or, that it should make no sense and not really matter to Italians at all. Some Southerners are indignant that they could be meridionali while others are not, and a Northerner calls himself a Southerner since he recognizes that Signor Fijlaos comes from more northern climes. When it comes to reconstituting a strong nation, geographical considerations thus bear little weight. As all of these tales illustrate, Guareschi saw the South and Southerners as a vital part of the young, post-Fascist Italian nation, and he thought that regional distinctions between the North and the South were absurd. For Guareschi, Italian identity and collaboration for the good of the nation claimed primacy. Regional distinctions were relative and should mean little to Italians throughout the peninsula. As we will see, in «Candido», Guareschi held that a strong national collaboration could best thwart the spread of Communism. «Candido» and the Need for a Vital South A little more than six months after he had been liberated at the end of World War II, and at Angelo Rizzoli’s behest, Guareschi founded «Candido», a new weekly satirical newspaper with a political focus9. The 9 The satirical newspaper’s success is truly unparalleled and central to Italian Cold War culture. In La satira politica in Italia, Adolfo Chiesa documents: «Passano pochi mesi e «Candido» conquista decine, centinaia di migliaia di lettori, rivelandosi una delle iniziative editoriali più fortunate del dopoguerra. E nonostante il conservatorismo, l’innato spirito reazionario del suo animatore, «Candido» resta l’ultimo vero, grande satirico che l’Italia abbia avuto» (p. 154). Guareschi was editor-in-chief from 1946 until 1957 but continued to contribute articles until 1961. Three days after he decided to break definitively with «Candido», the newspaper folded. 91 right wing, conservative publication spared no venom when it came to attacking Communist rhetoric. Guareschi maintained that, just as Fascism had duped Italians before the war, Communism robbed individuals of their personal freedom to reason as individuals. Although not as apparent in the first years of the newspaper’s production, Guareschi also saw the same danger in the political power of the Christian Democrats and lampooned those who blindly followed them or sought to use ecclesiastical power to garner votes (Rossini p. 862; Chiesa p. 165). Separatist rhetoric also vexed Guareschi. He took issue with Prime Minister De Gasperi who espoused regional autonomy for Trentino Alto-Adige, Aosta, Sardinia, and Sicily (Lettera ai contemporanei, p. 3) because such a political position undermined attempts to create a strong central government. Indeed, he opposed “divismo” of any type, seeing separatism a force that could corrode the unity needed to fight Communism. He articulated the main thrust of this argument in early 1946: Per noi l’unico vero nemico del nostro popolo è la retorica. La retorica ubriaca le masse, di qualunque colore esse siano, e le spinge a ricadere in errori fatali. Retorica, divismo e mancanza di senso umoristico: ecco i nostri più grandi guai. «Candido» vuole semplicemente aiutarvi a trovare la via dell’umorismo per mettervi in grado di combattere la retorica. Quindi trascura gli uomini e le loro piccole miserie personali e si rivolge solo verso il costume. Si potrà dire che noi non riusciamo a mettere in pratica le nostre idee. Si potrà dire che la nostra voce suona gracile in mezzo a questo vociare. Ad ogni modo l’intenzione è buona. L’inferno è lastricato di buone intenzioni, metteteci anche le nostre. Se non altro staranno al caldo. (Sotto l’ometto p. 1)10. 10 Guareschi continued his line of thought almost two years later in December 1947 when he further delineated for his readers «Candido»’s overarching political slant: «Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta, l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana e siamo perciò con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono. Quando, a nostro modesto avviso, qualcuno si distacca da questo principio, chiunque sia (fosse anche il nostro parroco) noi diventiamo automaticamente suoi avversari. Siamo contro ogni forma di violenza, e perciò non possiamo ammettere nessuna guerra santa. Per noi la guerra è sempre un delitto da qualunque parte venga dichiarata. La nostra strada è diritta e su di essa comminiamo tranquilli. Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto” (“Sotto l’ometto” 1). 92 Guareschi parodied the rhetoric of regional separatism in a short column he created entitled Nord-Sud and poked fun at the positions, stereotypes and perceptions the North and South held about each other. He signed commentary for the North as Cisalpinus and for the South as Terronius. But only three editions of this column made it to print – La chiesa: Nord-Sud; Il cavallo: Nord-Sud; and Il telefono: Nord-Sud – and they precede his more famous editorials Vista da destra and Vista da sinistra that began in 1947. In the three articles of Nord-Sud, Guareschi lays out the way the North and South differ in their perceptions of the Church, horses, and telephones. Cisalpinus haughtily denigrates the use of the horse, the quality of the telephone, and the backwardness of the Church in the South. Terronius always begins by saying that the North has yet again gotten the better of the South – «Il Nord ci frega, fratelli!»; «Perfino le cose della religione il Nord ci frega.» – but the South’s saints, food, and traditions make up for any shortcomings. In ridiculing the way both the North and South see each other, Guareschi echoed the spirit of his two fables we analyzed above: he saw debates springing from geographical differences as simply silly. He knew that the North and the South had cultural and economic differences. Yet, he hoped that his readers would understand that throughout the peninsula, a horse was a horse, a telephone was a telephone, and the Church was the Church. The differences in each region had no distinction: they were irrelevant. Guareschi communicated the force of his position directly to one of his readers, a man from Bergamo, who had written «Candido» to complain that the government in Rome consistently discriminated against Bergamascans by subsidizing labor projects in the South with their taxes. The reader wished that Italy could be divided in two south of Florence in order to form a confederacy of northern regions based on a Swiss model. Guareschi thoroughly chided his misguided notion: A questo argomentare da povero diavolo si potrebbe rispondere che, quando c’è poi da farsi scannare in guerra, a rischiare la ghirba sono le pallottole non ci vanno soltanto i bergamaschi o i lombardi, ma anche gli abitanti di Matera e Potenza: ma non entriamo in discussione con quella categoria di squallida gente del Nord che afferma convinta che «se si potesse fare un canale che divida l’Italia da Firenze in giù, dopo si organizze- 93 rebbe nel Nord una repubblica tipo Svizzera che sarebbe una pacchia perché il Nord produce tutto». Una repubblica meravigliosa dove ognuno avrebbe 150 biciclette, 36 automobili, 200 paia di scarpe, 9.000 vestiti e una locomotiva a testa dato che si potrebbe evitare di vendere al Sud la roba che il Nord produce (Lettera a contemporanei, p. 3). As we can observe, Guareschi, with a good dose of sarcasm, reminded this reader that Southerners were every bit Italian as Northerners. In the immediate dopoguerra, «Candido» often covered Southern banditry in a straightforward, non-sensationalistic manner in the same vein as reporting about the violence that plagued the North. For example, Guareschi reported these crimes that took place in the South in the summer of 1946: A Palermo, in seguito a voci allarmistiche, il panico piomba in una processione di 100 mila persone e non fuggi fuggi 30 rimangono ferite. Nei dintorni di Palermo fatterelli vari: una testa recisa esposta nella piazza principale di Brizzi; un capraio mitragliato e un commerciate pugnalato a S. Giuseppe e a Salaparuta: la centrale elettrica di Salemi danneggiata da banditi; l’autocorriera di Alcamo nuovamente depredata; due corriere ripinate presso Balestrate, un cadavere mutilato non ancora identificato a Campofiorito; due contadini assassinati a Mazzera; carabiniere assassinato a Gela. Il sindaco di Curonia dottor Basilio Merlini rapinato e sequestrato (Cronachetta rosa p. 2). In the same article, he reported how Northern Italy also seemed to be coming apart at the seams: Sparatorie e lancio di bombe contro le caserme di Udine. Tre uomini pugnalati in 24 ore a Trieste dove i titisti chiamano ‘reazionari fascisti’ a tutti coloro che sono favorevoli alla soluzione italiana. [...] a San Marcello Pistoiese dove tale Trincheri lancia una bomba contro il giovane Siro Lotto [...] a Susa vola un’altra bomba a sfondo politico-passionale (p. 2). These reports verify that he held no particular bias against Southerners for banditry because any number of brutal partisan reprisals occurred in the North. Indeed, agrarian lawlessness, violent strikebreaking, and 94 political assassinations provide the historical backdrop to several Don Camillo tales. Guareschi advocated a strong governmental campaign against the mafia, but he doubted that a capable Minister of the Interior could enact severe penalties against it. In one editorial, he recognized how Mussolini had effectively damaged the mafia because Cesare Mori had hounded Casa Nostra so methodically. He called for the government in Rome to commission another strong anti-mafia Prefect in Sicily, one that «non si contentasse di curare i bubboni con le pezzuole calde, ma che avesse il coraggio di affondare i bisturi nelle carni, quando è dal bisturi, e solo dal bisturi, che dipende la vita del paziente». (Paura in Sicilia p. 11). But, he questioned where such a Prefect could be found, a person whom the mafia could not buy off and whom the government would unstintingly continue to support: è questo il vero problema ed è per questo che in Sicilia tutto rimarrà, come prima. Alcuni ‘mafiosi’ andranno al confine, altri torneranno dal confine, ma le fucilate “a lupara” seguiteranno ad uccidere ed a terrorizzare, e le nostre autorità di polizia continueranno a svolgere le solite indagini senza concludere nulla, per il semplice fatto che esse non sono materialmente in grado di poter concludere nulla (p. 11). Here Guareschi captures the real challenge in trying to defeat the Sicilian mafia: without true, deep, and lasting financial, administrative, and moral assistance sponsored faithfully by Rome, the fight against the mafia remains listless, vain and perpetually lost11. Often in «Candido» Guareschi would take issue with the Italian government’s strong tendency to minimize private initiative and entrepreneurship in helping to develop the South economically. He thought the South had tremendous potential to develop as a tourist haven because of its striking, raw beauty. But, he opposed legislation sponsored by Rome to develop the South’s tourism industry because he thought that so many bills were misguided and intended rather for personal political gain. In a 1961 published editorial, Guareschi shared his thoughts on how best to help Calabria develop economically: 11 One of the most accessible works on the Sicilian mafia that provides insight to the tragedy of compromised government officials who collaborate with the mafia remains Alexander Stille’s Excellent Cadavers (New York, Vintage Books,1995). 95 La Calabria come altre regioni del Sud, è la regione dell’avvenire. Sarebbe però opportuno che i nostri governanti ci pensassero ora e non domani. È ora che per il turismo si devono creare le premesse d’un formidabile sviluppo. Così come per l’agricoltura i cui problemi devono essere affrontati subito se si vuole evitare d’intervenire quando oramai sarà inutile qualunque intervento. Troppa gente fugge da quelle regioni per trovare lavoro nell’Italia settentrionale o addirittura all’estero. Dopo tanti errori commessi negli scorsi anni è ora possibile sapere ciò che deve essere fatto e ciò che non si deve fare. Ma i nostri illustri governanti pensano solo alle aperture, alle convergenze e ad altre alchimie del genere. La sua proposta per l’olivicoltura ci sembra degna di essere presa in considerazione, se non altro come base di partenza di una concreta discussione. Ma provi a prospettarla al nostro ineffabile ministro dell’Agricoltura. Sentirà che discorsi difficili. E tutto per non farne niente (Strettamente confidenziale p. 15). The errors to which Guareschi referred while addressing the economic potential of Calabria relate to the mismanagement he saw as inherent in the Cassa del Mezzogiorno, a massive governmental initiative that Guareschi thought was fundamentally flawed because, with central rather than local oversight, proper funds could never reach meaningful work projects. The central administration of the Cassa’s funds opened the door to corruption in the form of kickbacks and political maneuvering for votes: certain construction projects thus received funding over others that truly deserved higher priority (Il cassone per il Mezzogiorno p. 1). Financial support for the most necessary projects, especially water transport and highway construction, went awry, and the Cassa never truly made inroads in eliminating the misery of the South. Both the corruption and inefficiency left the door open for local Communist Party (PCI) representatives that could sponsor programs which resolved the problems more competently. As such, for Guareschi, the problem with allaying economic problems in the South had little to do with the South but everything to do with Rome: In quanto alla guerra contro Roma [...] La combattiamo tutti noi italiani che vediamo con orrore avanzare minaccioso il mostro dello statalismo, e sempre di più vediamo osteggiata e svilita l’iniziativa privata. Tutti gli italiani onesti, democrati- 96 ci, liberi e veramente liberali sono contro Roma pianificatrice, accentratrice, statizzatrice (Nord contro Sud p. 2). All Italians – Northerners and Southerners – had to fight the corruption and mismanagement in Rome or risk total political control of Italy by the Communists. For Guareschi, the lack of economic vitality in the South, caused by Rome’s managerial ineptitude and corruption, was most definitely tied to the Cold War. In addition to the topics of Southern criminality and the Cassa del Mezzogiorno, Guareschi also commented on the plight of Southern immigrants who migrated in droves to the North and faced the hardships of integration and discrimination12. The particular notion that Southerners had brought an inordinate influx of petty criminals and undesirables to Northern cities captured Guareschi’s interest, and in Nord e Sud, an article he wrote in 1961, he attempted to explain the reasons that account for Southern criminality in the North. In the process, he made a fascinating claim. Guareschi recognized that, at least according to newspaper reports and police blotters, recent Southern immigrants to the North had committed an inordinate amount of petty crimes, and he wondered what really lay behind this spike in malfeasance. He wrote: Quanti meridionali, dall’avvento dell’unità d’Italia a oggi, si sono trasferiti quassù al Nord? Centinaia di migliaia, milioni. In ogni tempo l’immigrazione dal Sud sovrappopolato e povero è sempre stata massiccia, ma non s’è mai verificata una situazione come quella d’oggi. Mai come oggi gli immigranti meridionali hanno alimentato con le loro tristi imprese la cronaca nera. Anzi, qua da noi, come dovunque li ha portati la loro fame, la loro intelligenza, il loro spirito d’iniziativa, gli italiani del Sud hanno dimostrato di essere soprattutto gente dotata di vivo ingegno, di grande spirito di sacrificio e di formidabile volontà. 12 Millions of Italians moved from one region to another, primarily from the South to the North, during roughly a ten-year period (1953-1963) known by historians and sociologists as “The Economic Miracle.” Huge social upheaval followed with different cultures, customs, and dialects clashing in the urban environments of the industrial North. Excellent studies on this phenomenon include Crainz’s Storia del miracolo italiano (1996) and chapter seven of Ginsborg’s Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (1989). 97 Com’è che, adesso, la qualità degli immigrati meridionali sembra violentemente peggiorata? Dobbiamo forse concludere che il livello morale del Mezzogiorno si è abbassato? No: si è semplicemente abbassato il livello morale dell’Italia industriale (p. 1). He went on to explain: «L’aria del Nord è cambiata. [...] oggi essa risulta respirabile ai buoni e ai cattivi, agli onesti e ai disonesti, ai laboriosi e agli sfaticati, a chi conosce un mestiere e a chi non ne conosce. [...] Il vero guaio è che l’aria del Nord è diventata respirabile anche per la feccia» (p. 1). Guareschi blamed the growth of a Southern criminal element in the North as a direct consequence of the Merlin Law that abolished regulated and legalized prostitution. This remarkable hypothesis implied that Southern pimps would have brought their prostitutes wholesale to the North in order to serve a greedy clientele in industrial cities: Il male vero è che, eliminando ogni controllo sanitario e di polizia, la legge Merlin ha “rivalutata” la prostituzione rendendola un mestiere facile, senza pericoli, altamente redditizio. Un vero “mestiere d’oro” che alletta sempre maggiore quantità di donne. Di conseguenza è diventata un “mestiere d’oro” anche quello del ‘prottetore’. Ed ecco richiamati a frotte nelle ricche città dell’Italia industriale dove ‘corre il soldo’ e la mancanza di case chiuse è maggiormente sentita, i talent scouts, gli art manager della prostituzione. Ecco tanto lavoro per i duri, i mafiosi e altra feccia. La legge Merlin, favorendo l’iniziativa privata e liberando la prostituzione da ogni controllo statale, ha fatto della prostituzione un mestiere ricco, un’industria rispettabile. E le mondane girano oggi al volante di scintillanti “Giuliette” e possono permettersi di regalare “Giuliette” e appartamenti ai loro “protettori”. Se la cronaca nera è piena di ignobili storie di prostituzione e di sfruttamento, ciò è dovuto principalmente alla nefasta vecchia e ai suoi compari demagoghi che, invece di curare il male alle radici, hanno cauterizzato una piaga infettando così l’intero corpo. È uno dei tanti delitti della demagogia. 98 Non è peggiorato il Mezzogiorno: è peggiorata moralmente l’Italia del “miracolo economico” e del “miracolismo politico” (p. 1). Note that Guareschi does not blame the rise in criminality on the economic disparity between Southerners and Northerners. For him, Southern immigrants, who are at the bottom of the economic food chain, do not themselves account for a greater number of crimes attributed to them since the vast majority of Southerners are dedicated to making an honest living. Rather, Southern crime in Northern cities finds root in the criminal element that emigrated North which now finds a ripe market for its various wares, especially as it relates to prostitution. For Guareschi, an explanation of both Southern and Northern ethical turpitude, based on market demand, better accounts for the crime. Guareschi then links moral degradation to Communist political opportunism: Il PCI, che nel disordine ci sguazza, collabora validamente a richiamare al Nord gli elementi più violenti del Sud. Gli servono maledettamente perché hanno il coltello e la pistola “facili”. I comunisti curano amorosamente i ragazzi del Sud: ospitano fraternamente i giovani meridionali di leva nei loro circoli rionali e vanno a visitare e a confortare i meridionali che lavorano all’estero. [...] I comunisti non dormono e, qualunque rogna tu gratti, trovi il ‘dritto’ comunista e il fesso democristiano. (p. 1). These thoughts reflect Guareschi’s vintage summations about the evils that destroy the Italian society – chief among them being rampant self-gratification13. Ironically, of course, in presenting his case, he abstains from considering how legalized prostitution itself may be morally questionable and tied to greed. Furthermore, he does not explain specifically how members of the PCI recruit pimps to the 13 The second half of La rabbia, a collaborative film undertaken with Pier Paolo Pasolini in 1963, provides us with one of the best sources to understand Guareschi’s moral positions. As he wrote in his notes for the screenplay, Guareschi prized three primary values: “La salvezza? [...] Dio, Patria, Famiglia: i luoghi comuni che fanno ridere gli intellettuali” (Notes, n.p). The destruction of these ideas, he believed, came at the hands of a materialistic society that was interested in self-pleasure and forgetful of the evils generated by both rampant Capitalism and oppressive Communism. 99 North, or how this party actually manages to inspire or sponsor criminal acts. But, he makes the case that the PCI – Italian society’s major threat – takes advantage of the sexual egotism found in the North. Here the Southern problem, for Guareschi, is the moral laxness created by Northern greed that has greatly benefited from the abolition of a law and a boom in illegal prostitution. For Guareschi, the Communists, as usual, stand at the ready to take advantage of a societal illness and to help them grow in power. Moral brokenness threatens to engender greater Communist control. Articles written by other journalists for «Candido» further bolster our understanding of Guareschi’s Southern stance. As editor-in-chief, Guareschi provided his reporters a clear indication of his particular views on political, economic, and social issues, and, although not all articles directly reflect his own conceptions, his journalists almost always seconded the spirit and verve of his vision. Throughout Guareschi’s editorship from 1945 to 1957, regular reporting on the South focused on culinary and spiritual customs, geographical wonders, and Neopolitan music14. Of course, several essays also examined the economic challenges the South constantly faced because of flood and earthquake recovery, political corruption, and organized crime. The greatest coverage «Candido» provided of the South’s economic struggles occurred over fourteen separate issues, was authored by Luigi Barone, and took place right as Guareschi faced a harsh libel suit brought by ex-Prime Minister Alcide DeGasperi in the late winter and early spring of 195415. Unfortunately, because his readers focused on the accusations, the trial, and Guareschi’s subsequent sentence that sent him to jail, the full force of Barone’s exposé, entitled La 14 Several of the journalists who worked for Guareschi were Southerners. Massimo Simili frequently covered events in Sicily and signed his articles Il Terrone dei Mari. He refined much of his material that appeared in «Candido» and published Briganti and Baroni in 1955. Marco Zanfagna, Mario Ferraguti, Andrea del Giudice, and Franco Pagliagno reported often in columns such as Vita segreta (ma non troppo) della provincia italiana, «Corriere di Napoli», and «Corriere di Sicilia». Vittorio Paliotti contributed frequently to «Candido» with Napoli è tutta ‘na canzone, a column that explored Neapolitan singers, songs, and songwriters in great detail. 15 Both Paolo Tritto in Il destino di Giovannino Guareschi and Alessandro Gnocchi in Giovannino Guareschi. Una storia italiana provide excellent studies of the DeGasperi case and its accusations, proceedings and sentencing. My own analysis of the case was published in The Italianist, n. 25, 2005, ii: pp. 239-59. 100 Questione Meridionale, probably went unappreciated. Barone’s study read today still provides masterful insight to the various problems that continue to plague the South16.We can clearly appreciate the importance Guareschi placed upon examining the South’s economic and social problems since he undoubtedly had to have paid Barone’s quite well for his research and because he gave so much printed space to Barone’s investigative reporting. Barone tackled issues such as the failure of the Italian government to develop industry in the South (L’automobile senza benzina); the problem of illiteracy and the terrible physical conditions of Southern schools (Linea Gotica anche per la Scuola); the South’s inability to develop its tourism industry because of lack of governmental sponsorship (I miliardi dello Stato; Delitto e Rapina); the misappropriation of funding by the Cassa del Mezzogiorno (L’operazione Giraffa); and, the failure to develop adequate resources of running water (Problema numero uno: Acqua). The thrust of this long study aimed not to place blame on any element of the Italian government or society. Rather, Barone, and indirectly Guareschi, sought to inform readers about possible solutions to help resolve the problems that caused Southern economic, social, and political strife: Finché esisterà un Nord e un Sud economico l’Italia non sarà mai una Nazione veramente civile perché è assurdo che in uno stesso Paese vi siano livelli di vita così disuguali e conseguentemente costumi, mentalità e aspirazioni tanto diversi. La colpa è di tutti: degli uomini del Nord e degli uomini del Sud, delle cose, dei tempi e della fatalità, del passato e del presente. Il contrasto tra il Nord e il Sud non è tra alacrità e pigrizia ma tra dinamica demografica e mezzi di lavoro. Nel Sud ci sono troppi uomini e troppi pochi mezzi. I modesti redditi del Sud non consentono che modesti consumi e modesti risparmi, cioè limitate possibilità di formazione di capitale e conseguentemente investimenti minimi. Bisogna trovare una soluzione. (Nord e Sud: Attenzione! p. 22). 16 Several essays in Lumley and Morris’s The New History of the Italian South: The Mezzogiorno Revisited (1997) provide excellent background to help readers understand the intricacies of Southern economic and social problems. John Davis’s essay Changing Perspectives on Italy’s “Southern Problem” in Levy’s Italian Regionalism (1996) also sheds light on these matters. 101 The moral imperative of finding a resolution to this age-old problem loomed large because of Communism. The autonomous statutes given to Sicily and Sardinia had not alleviated the travails and suffering; in fact, they had exacerbated them, and the Communist Party had grown larger in number in the South (Le smanie dell’autonomia p. 18). To stem this growth, the correct application of economic aid needed to take place, or the South would turn all the more to the PCI: I comunisti sanno che la strada della miseria è la strada maestra che li conduce a controllare le leve di comando di una nazione, sanno che dove più arretrata è la vita politica e sociale, là il terreno è più favorevole, sanno che il comunismo è un regime per popoli che vivano allo stato semibarbaro. Ed hanno iniziato la loro grande battaglia; la macchina del partito si è messa in moto, hanno inviato nel Sud i migliori funzionari, hanno organizzato corsi specializzati per attivisti meridionali, agiscono con prudenza, tramite le camere del lavoro, le leghe dei contadini, le commissioni interne. (Vandea p. 23) The problem, Barone posited, had to be solved together, «tutti quanti, costi quel che costi», or the Communists would begin their conquest of all of Italy from the South (p. 23). Barone thus saw the Southern Question in terms of a potential Communist takeover, the same position, as we have observed, that his editor espoused. Conclusion Guareschi, a writer born and bred in the North, left a solid record of his thoughts about Southerners and the plight of the South in photographs, published articles and editorials in «Candido», two short fables, and a Mondo piccolo tale. These documents allow us to ascertain his belief that Southerners were a vital and integral part of the Italian nation, and that they needed to serve Italy along with Northerners in order to ensure a strong state. For him, the idea of Italians discriminating against each other because of regional identity was folly because, in the end, geographical identity was fluid and subjective. The tales I cavalli e il carro and I punti cardinali sono sei especially speak to this end. 102 Furthermore, he was aware of the various stereotypes that characterized Southerners, and in Il Terrone he makes light fun of Southerners and their penchant for emotional outburst, big families, and artful deception. But he clearly does not communicate any spite for Southerners. Other writings we have examined also confirm this point. He did not think that Southerners had an innate and particular penchant for crime, and he held that Northerners were just as prone to violence because they had the same moral shortcomings and struggles. Guareschi understood that the South faced social and economic challenges that the North did not. The historical reasons for these challenges, however, did not cause him to look askance at the South. Rather, for him, finding solutions mattered: all Italians had to help the South recover economically so that Communism did not make inroads there and then eventually take over all of Italy. Guareschi thought that the government in Rome did very little in providing concrete solutions to help the South because of political intrigue and corruption, and, as editor of «Candido», he exposed the rife mismanagement of the Cassa del Mezzogiorno. The Questione del Meridione for him was, in actuality, a question of governmental ineptitude and did not reflect anything inherently flawed with the South or Southerners. Problems that Southern immigration caused in the North reflected shortcomings in the moral fabric of Northerners alike. Guareschi may have hailed from the North, and the root and branch of his greatest literary creation, the Mondo piccolo, may have sprung from the Po river valley in the Emilia-Romagna. But, as we have come to understand in this inquiry, Guareschi was truly inclusive in the way he viewed the South, and, in a Cold War context, he embraced Southerners as fully Italian as he was. Cited Works Primary Sources: Guareschi, Giovannino, Notes, La Rabbia, Roncole Verdi Archive (PR). —, Ravaglioli, Cordone Nord-Sud: Post d’Ascolto, Roncole Verdi Archive (PR), Foglio n. 58, 3 giugno 1945, n.pag. 103 Secondary Sources: Barone, Luigi, Delitto e Rapina, «Candido», n. 11, 14 Mar. 1954, pp. 22-23. —, I miliardi dello Stato, «Candido», n. 8, 21 Feb. 1954, pp. 18-19. —, L’automobile senza benzina, «Candido», n. 14, 4 Apr. 1954, pp. 18-19. —, Le smanie dell’autonomia, «Candido», n. 16, 18 Apr. 1954, pp. 18-19. —, Linea Gotica anche per la Scuola, «Candido», n. 15, 11 Apr. 1954, pp. 18-19. —, L’operazione Giraffa, «Candido», n. 10, 7 Mar. 1954, pp. 18-19. —, Nord e Sud: Attenzione!, «Candido», n. 1, 3 Jan. 1954, pp. 22-23. —, Problema numero uno: Acqua, «Candido», n. 2, 10 Jan. 1954, pp. 22-23. —, Vandea o Stalingrado?, «Candido», n. 18, 2 May 1954, pp. 22-23. Chiesa, Adolfo. La satira politica in Italia, Roma and Bari, Laterza, 1990. Crainz, Guido. 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Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone. (Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny) L’esaltazione della Resistenza come guerra patriottica (1943-45)1 ha consentito all’Italia e agli Italiani di superare e di dimenticare rapida1 I film maggiori sulla Resistenza italiana in cui i combattenti appaino come partigiani sono: Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1945 Giorni di gloria di Luchino Visconti, Marcello Pagliero,Giuseppe De Santis e Mario Serandrei, 1945 Paisà di R. Rossellini, 1947 Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, 1949 Il generale Della Rovere di R. Rossellini, 1960 Tutti a casa di Luigi Comencini, 1960 L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo, 1961 Una vita difficile di Dino Risi, 1961 L’oro di Roma di Carlo Lizzani, 1961 Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, 1964 108 mente la storia fascista. I sacrifici degli antifascisti hanno dato all’Italia il diritto di autogovernarsi e la possibilità di essere inclusi nel club delle democrazie del dopoguerra. Salò, l’altra faccia della medaglia, soltanto verso la fine degli anni settanta è stato affrontato dalla storiografia italiana. Nel 1979 Gian Piero Brunetta scriveva: “Il periodo di Salò costituisce una pagina di storia nazionale e di storia del cinema italiano che, solo da poco, si è cominciato a studiare … La storia di Salò costituisce quasi un linfonodo malato e cancerogeno nel vissuto collettivo che, per un tacito accordo tra soggetti che l’hanno vissuto, è stato rimosso dalla memoria2. La Resistenza come guerra di liberazione inoltre è la base della redenzione che ha risparmiato all’Italia umilianti conseguenze internazionali di stato sconfitto. Come ha affermato lo storico Renzo De Felice, la Resistenza è stato un grande evento storico che nessun revisionismo potrà mai negare. Nella seguente relazione saranno esaminate le rappresentazioni cinematografiche dei film più importanti che riflettono la politicizzazione e le diverse fasi storiche in cui il cinema italiano ha narrato la Resistenza e la lotta dei partigiani. Il primo periodo storico in cui il cinema si è interessato della Resistenza, va dagli ultimi anni della guerra all’immediato dopoguerra fino alle elezioni del 1948. Il secondo comprende l’epoca della Guerra Fredda e il terzo comprende il periodo dalla fine della Guerra Fredda, il cosiddetto Disgelo, al contemporaneo con dentro il post sessantotto e il terrorismo, il compromesso storico, la caduta del comunismo e il periodo che vede l’entrata nel governo del Primo Ministro Silvio Berlusconi degli ex-neofascisti di Alleanza Nazionale. C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, 1974 Novecento di Bernardo Bertolucci, 1976 La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittori Taviani, 1982 Nemici di infanzia di Mangi 1995 Porzûs, di Martelli 1997 Piccoli maestri, di Daniele Luchetti, 1998 Il partigiano Johnny di Guido Chiesa 2000 Sangue dei vinti di Michele Soavi, 2008 Miracolo di Sant’Anna di Spike Lee, 2008 L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, 2009 2 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945. (Roma: Editori Riuniti, Seconda edizione giugno 2001), P. 346 109 Il 10 settembre 1943 Roma fu occupata dai Tedeschi. Prima della sua liberazione, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Mario Socrate, Aldo Scagnetti, Franco Calamandrei e Antonello Trombadori scrissero una sceneggiatura sulle attività del Gruppo d’Azione Partigiana (GAP), partigiani urbani della capitale, lavorando segretamente nello studio del produttore Alfredo Guarini in Via del Traforo a Roma. Il progetto era stato promosso da Trombadori, il quale aveva esperienza diretta della guerriglia urbana. Il progetto deve essere registrato come uno dei primi tentativi di riprendere le attività dei partigiani a Roma, anticipando Roma città aperta di R. Rossellini. All’interno della sceneggiatura compariva una notizia del tempo, ovvero l’incidente di una donna colpita a morte da dei proiettili tedeschi in Viale Giulio Cesare. La ricostruzione dell’evento fu in seguito inserita in Roma città aperta e la scena fu interpretata da Anna Magnani. Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, non era più possibile impedire la produzione cinematografica e coloro che erano coinvolti nella cinematografia, appartenenti a qualsiasi movimento politico clandestino, si unirono nel nuovo Sindacato Lavoratori del Cinema, per dare vita ad una nuova industria cinematografica italiana. Tuttavia gli alleati la pensavano in maniera diversa. In una direttiva consegnata dall’ammiraglio di divisione americano Emery W. Stone, dichiararono che la nuova Italia non aveva bisogno di una nuova industria cinematografica. Affermarono inoltre che quella esistente, una creazione del fascismo, doveva essere smantellata. Giorni di gloria e La nostra guerra entrambi del 1945 sono i primi film documentaristici sulla Resistenza e sulla lotta antifascista. Il primo è il risultato della collaborazione fra Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero, Luchino Visconti e Mario Serandrei, che si occupò del montaggio e della supervisione generale. Questo film a episodi è la celebrazione della fine del fascismo, di una ritrovata libertà e un invito aperto ad unirsi nell’obiettivo comune di creare un futuro migliore. Il film combina spezzoni di cinegiornale, materiale documentaristico girato durante la guerra ed episodi ricostruiti della lotta partigiana. I commenti furono scritti da Umberto Barbaro, il quale è anche il narratore di uno degli episodi del film. Il materiale documentaristico e le sequenze ricostruite delle lotte partigiane utilizzano un linguaggio cinematografico molto simile a quello impiegato dai registi durante il fascismo. Le somiglianze sono evidenti nel ritmo, negli approcci iniziali, nei tagli e nelle soluzioni stilistiche. I parti- 110 giani in azione o mentre prendono posizione sono rappresentati in atteggiamenti eroici, mentre il loro valore e il loro impegno sono sottolineati dalle affermazioni retoriche del narratore. Le sequenze che celebrano la liberazione delle città settentrionali sono anch’esse girate nello stile dei documentari di LUCE. I partigiani che marciano sono ripresi da sotto, in inquadrature ad angolo basso, mentre la cinepresa stacca spesso sulla folla esultante, ripresa con un’angolazione leggermente rialzata per dare l’impressione di un maggior numero di persone e per enfatizzarne la solidarietà. Alfonso Canziani, riferendosi a Giorni di gloria,3 scrisse che probabilmente questo segnava l’inizio della celebrazione retorica della Resistenza. Canziani aggiunse che alcune sezioni degli episodi di Visconti, Pagliero e De Santis ostentavano una rottura con il linguaggio cinematografico dei precedenti film sulla guerra. Visconti ebbe la fortuna di registrare il processo di Pietro Caruso4, capo della polizia fascista di Roma durante l’occupazione tedesca, e la sua successiva esecuzione assieme al suo collaboratore Pietro Koch. Le riprese del procedimento penale dimostrano l’estrema abilità di Visconti nell’elaborare una notizia di cronaca in un episodio narrativo in grado di catturare l’attenzione del pubblico. La tensione del momento è comunicata attraverso un’alternanza di primi piani degli accusati e dei loro avvocati con campi lunghi che rivelano le reazioni della folla, dei testimoni e dei parenti delle vittime. Al fine di utilizzare al massimo le possibilità drammatiche del momento, Visconti utilizza due macchine da presa. Questo gli permette di immortalare anche il più piccolo dettaglio, come il gesto irato di una mano o le rughe sul volto di una donna disperata. De Santis, incaricato in un primo momento di filmare le sequenze sull’esumazione dei corpi, fu sopraffatto dalla nausea nell’entrare nelle catacombe. Il compito fu pertanto affidato a Marcello Serandrei e a De Santis toccò il terzo episodio, che racconta la ricostruzione della nazione. Il tono di que3 Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 270. 4 Luchino Visconti fu arrestato dai tedeschi durante il rastrellamento che seguì la fucilazione di 335 ostaggi italiani alle Fosse Ardeatine, nel marzo del 1944. Il massacro fu compiuto dai tedeschi come rappresaglia per gli attacchi dei partigiani contro le loro truppe appostate a Roma. Visconti, condannato a morte, evase di prigione con l’aiuto delle guardie e, nel 1945, tornò a lavorare a teatro fino a quando un gruppo americano di guerra psicologica gli chiese di riprendere i processi e le esecuzioni di Pietro Koch e Pietro Caruso. 111 sta sezione è molto ottimista e mostra ciò che le nuove forze stanno facendo per ricostruire l’Italia dalle rovine della guerra. L’influenza del cinema realista russo è molto evidente. L’approccio utilizzato nel descrivere la ricostruzione urbana e le tecniche con cui sono presentati i lavoratori coinvolti richiamano alla memoria Sergei Eisenstein e Dziga Vertov. Il treno che attraversa il ponte appena ricostruito nella scena conclusiva anticipa lo spezzone del treno in Caccia tragica (1946), primo film di De Santis, che attraverserà le pianure dell’Emilia Romagna trasportando i veterani di guerra, film che potrebbe essere anche letto come ultimo testimone delle lotte contro i fascisti e proprietari terrieri per il mantenimento delle cooperative contadine. Roma città aperta di R. Rossellini (1945) divenuto il manifesto per eccellenza del cinema italiano resistenziale nel mondo coincide con un determinato momento storico in cui il Sud è liberato, il Nord ancora occupato e Roma è sotto l’occupazione nazista e i fascisti hanno un ruolo subordinato di collaboratori benché reggano il governo della città. La storia del film racconta la lotta che contrappone da una parte i Tedeschi e Fascisti contro un gruppo che lotta per la liberazione. I partigiani offrono un quadro vario delle differenti anime della Resistenza. Il più importante antifascista è il comunista Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero) responsabile della giunta del Comitato di Liberazione Nazionale interamente dedico alla lotta. Lo vediamo in azione contro i Tedeschi per liberare il partigiano Francesco (Francesco Grandjacquet). Manfredi è torturato dal Maggiore Bergmann (Harry Feist) ma preferisce morire che tradire i suoi compagni. Pina (Anna Magnani) organizzatrice dell’assalto ai forni è una donna del popolo che vorrebbe una vita normale per potersi dedicare alla famiglia. Collabora alla sconfitta dell’invasore, al fianco del suo uomo che viene ucciso mentre lei rincorre il camion che lo deporta. Film archetipo ma non al di fuori di ogni ideologia com’è stato sempre ripetuto. Don Pietro (Aldo Fabrizi), il sacerdote che collabora con i partigiani è il personaggio intorno al quale è costruito il messaggio resistenziale del film. La scena della tortura è costruita intorno alle parole del sacerdote che maledice i Tedeschi che cercavano di far presa sulle diversità tra i gruppi dei partigiani. Anche i ragazzi guidati da Romoletto, il futuro della nazione, imitano l’insegnamento degli adulti partigiani nelle loro azioni di guerriglia, ma per gli ideali futuri alla base della ricostruzione della nazione dovrebbero rifarsi a quelli del mondo cattolico, riferimento esemplificato dalla Cupola di San 112 Pietro sullo sfondo mentre il gruppo dei ragazzi si allontana dal luogo dove è avvenuta la fucilazione di Don Pietro5. Nel 1946 esce Paisà diretto da Roberto Rossellini che rievoca l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Settentrione. Il film è costituito da sei episodi che seguono l’avanzata dell’esercito alleato dallo sbarco in Sicilia, a Napoli, alla liberazione di Roma, la lotta per la liberazione di Firenze, la pausa nel convento nell’Appennino Emiliano e l’ultimo episodio a Porto Tolle nel Polesine prima della fine del conflitto. La narrazione del film sacrifica la rappresentazione individuale mostrando la somma delle esperienze e il senso dell’itinerario geografico diventa la risalita morale e la testimonianza del riscatto collettivo degli italiani nella lotta contro l’invasore tedesco. Nel quarto episodio a Firenze la liberazione della città avviene anche per il contributo dato dai partigiani nella lotta casa per casa. La morte di Guido annunciata da un compagno partigiano morente diventano iconografie dei giovani italiani morti per la liberazione. Nel sesto episodio durante l’inverno del 1944, lungo la foce del Po, la lotta vede in primo piano i partigiani insieme a truppe di paracadutisti americani. Nella dura battaglia il film mostra le violente rappresaglie dei nazi-fascisti, anche sui civili inermi e sugli eroi partigiani. I cadaveri dei partigiani che galleggiano con i cartelli attestano una rappresentazione scenica della legittimazione del diritto nazista di giustiziare il nemico ma per i partigiani diventa la denuncia dell’oppositore al nemico che delegittima i loro diritti. Il partigiano in ginocchio sulla sabbia che usa l’ultimo colpo rimastogli sparandosi in bocca per non cadere nelle mani dei Nazisti, diventa l’icona dell’autodeterminazione e del riscatto di un popolo che lotta per la propria dignità e libertà. Il sole sorge ancora (1947)6 di Aldo Vergano e Giorni di gloria di L. Visconti, M. Pagliero, G. De Santis e M. Serandrei devono essere 5 Carlo Lizzani nel volume Cinema italiano, (Roma: Parenti, 1961), esaltò la forza del film nella molteplicità dei vari elementi, donne, bambini, il prete, il comunista e tutto il quartiere che lottavano insieme per la stessa causa e definì il film la prima testimonianza poetica della Resistenza. 6 La sceneggiatura è di Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Aldo Vergano, tutti presenti anche nel cast: Lizzani è Don Camillo, De Santis è Tonino (l’inserviente del conte), Vergano è un ferroviere e Aristarco figura nel gruppo dei partigiani insieme al critico Glauco Viazzi. Il giovanissimo Gillo Pontecorvo interpreta la parte di Pietro, l’operaio fucilato, mentre il poeta Alfonso Gatto appare brevemente nel ruolo di un macchinista. 113 considerati tra i pochi film dell’immediato dopoguerra che a differenza degli altri film che hanno trattato la Resistenza oltre a esaltare lo spirito di rivincita che il popolo italiano aveva dimostrato durante la Liberazione, affrontano il problema della responsabilità storica degli Italiani nell’avere prima appoggiato il fascismo e poi per il ruolo avuto da alleati dei nazisti. Nel primo film la Resistenza ha anche una forte componente di lotta sociale e la borghesia è chiamata in causa direttamente7. Per ritrovare l’impostazione storico-critica che distingue i film in questione bisogna arrivare agli anni settanta, decade in cui il cinema italiano affronta il problema della responsabilità e si inoltra nei controversi problemi politici di chi erano i collaboratori e chi i veri fascisti. Il sole sorge ancora fu finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) e prodotto dall’ex comandante dei partigiani, Giorgio Agliani, che fungeva da consulente e il regista Aldo Vergano. Vergano era stato preferito a Goffredo Alessandrini perché il primo era stato un antifascista mentre il secondo aveva avuto a che fare con l’industria cinematografica fascista8. Alla sua uscita, il film venne criticato per il suo eccesso stilistico, per l’uso di elementi eterodossi nel lessico del film e per la riduzione del mondo ad una lotta manichea tra classi sociali rigide. L’influenza dei western americani è evidente nelle scene finali del film. Qui, sulle pianure lombarde, i partigiani organizzano l’ultima carica contro i Tedeschi. Scendendo dalle colline in groppa a un cavallo o nascosti come indiani in mezzo a branchi galoppanti, gli antifascisti aiutano eroicamente i contadini nella rivolta. Anche lo stile delle riprese ricorda quello utilizzato in molti western, con una serie di stacchi veloci fra primi piani di contadini che sparano dalle finestre e soldati tedeschi nei cortili sottostanti. Il sole sorge ancora (1947) come attesta il titolo, continua il discorso sulla lotta antifa7 «Il difetto organico del film non consiste, come ha scritto tanta gente, nel fatto che la polemica sociale, che vi è sottintesa, è basata su accuse inconsistenti, su caratteri astratti, su circostanze che non hanno riscontro […] ma nel fatto che la fantasia, la forza motrice del regista Vergano, non sono riuscite a rendere corpulente, per dirla col Vico, efficaci e correnti quelle grottesche immagini borghesi. Il dialogo reticente e l’interpretazione, approssimativa e distratta, non han giovato a dar carne sangue e nervi alla volonterosa, e per certi versi ispirata, regia di Vergano» P. Bianchi, «Candido», 18 gennaio 1947. http://www.cineclub.it/cineclubnews/cn0303-i.htm 8 Giuseppe De Santis, “L’ANPI presenta,” p. 119. 114 scista e sulla ricostruzione nazionale intrapreso con Giorni di gloria dagli ex-collaboratori della redazione della rivista Cinema. Sia la trama che la sceneggiatura furono scritte da De Santis e Guido Aristarco, che fornì informazioni di prima mano sulla Resistenza milanese, e Carlo Lizzani, che recita anche il ruolo principale di Don Camillo, il prete. Prima dell’inizio delle riprese De Santis, assieme a Lizzani e a Massimo Mida Puccini, si era trasferito a Milano per rilevare la rivista Film da Mino Doletti, ribattezzata Film d’oggi. De Santis, il cui ruolo era prevalentemente consultivo, continuò a pubblicare occasionalmente degli articoli, uno dei quali, “La giusta via,” annunciò Il sole sorge ancora, che considerava un punto di riferimento per il cinema realista italiano9. Nel 1952 in piena Guerra Fredda esce Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani non a caso vincitore del premio per la miglior regia al festival di Karlovy Vary10. Ambientato sulle Alpi Liguri racconta le ultime fasi della seconda guerra mondiale, protagonisti una brigata di partigiani sotto il comando di Vento (Giuseppe Taffarel) e del commissario politico Lorenzo (Giuliano Montaldo) che dopo aver trovato la propria staffetta impiccata dai nazisti, si infiltrano in una fabbrica di macchinari che nasconde un deposito di armi necessarie per continuare le attività partigiane. Per trafugare le armi devono circonvallare i soldati tedeschi che vogliono smantellare la fabbrica per spedire i macchinari in Germania. I partigiani decidono che per liberare la fabbrica devo entrarci nottetempo e attaccare i tedeschi per poi fuggire con le armi. Eroicamente i partigiani mettono in atto il piano ma i soldati nazisti dopo aver ammazzato il capo fabbrica uccidono anche altri partigiani che cadono combattendo. Il colpo di scena che porterà alla vittoria dei partigiani arriva quando gli alpini che erano al fianco dei tedeschi si uniscono agli antinazisti e configgono il nuovo nemico e poi uniti creano con i sopravvissuti una nuova brigata e insieme si rifugiano in montagna. Il film deve essere annoverato come l’unico esempio di lotta partigiana in una fabbrica luogo poco visitato dal cinema italiano. La realizzazione del film di Lizzani è anche un’esperienza quasi irripetibile nel cinema italiano che deve essere inclusa per poter valutare l’importanza di questo film perché aiuta anche a capire il 9 Giuseppe De Santis, citato da Mira Liehm in Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, Los Angeles, University of California Press, 1984, p. 61. 10 Durante la Guerra Fredda il Festival subiva la politica culturale del regime sovietico che spesso invitava e premiava film di autori italiani vicini al PCI. 115 momento storico e la spinta ancora esistente nel cinema italiano di sinistra. Lizzani stesso ha raccontato11 che l’idea del film nacque dopo una proiezione de La terra trema di Luchino Visconti in cui il regista dichiarò che la trilogia di cui il film in merito apparteneva non si sarebbe realizzata a causa di mancanza di finanziamento. Visconti aveva rinunciato a portare a termine la trilogia per mancanza di produttori disposti a finanziare il proseguimento del progetto. Massimo Girotti e Luchino Visconti lanciarono un’iniziativa. Giuliani De Negri e Giuseppe Dagnino furono i fondatori della cooperativa voluta dagli operai per finanziare il film. Le quote costavano 500 lire. La cooperativa raccolse fondi dal basso confidando in eventuali proventi per recuperare le spese. Questa coraggiosa iniziativa, nata come risposta all’industria privata che si rifiutava di finanziare film politici, deve essere vista come una dimostrazione del contrario di quanto si dicesse all’epoca e si continua a scrivere riguardo al gusto del popolo di non amare i film impegnati. Il film di Lizzani è una produzione dal significato progressista, il frutto di una comunità e di finanziatori non tradizionali che riuscirono a produrre un film che dovrebbe essere considerato un prodotto collettivo voluto da tanti che vollero raccontare e testimoniare quello che avevano vissuto. L’entusiasmo degli ex partigiani che collaborarono insieme all’iniziativa della produzione contrasta con il pessimismo dell’industria cinematografica che all’epoca secondo la testimonianza di Lizzani stesso gli consigliava di non fare un film sulla Resistenza già considerata un argomento anacronistico e di poco interesse pubblico12. Nel film, le summenzionate peculiarità delle circostanze produttive e storiche influiscono sul discorso narrativo che insieme alla visione dell’autore compaiono in una rappresentazione celebrativa della Resistenza e dei suoi valori che prevale sulla coerenza storica. La brigata dei partigiani è unita, non ci sono dissidi interni. Essa affronta le difficoltà con spirito di sacrificio, dalla prima scena, sotto il mal tempo, i partigiani si sacrificano per aiutare i compagni feriti. I giovani vogliono entrare a far parte delle bande partigiane. I capi sono democratici e i più valorosi, intraprendono le azioni più pericolose rispettando anche chi ha meno coraggio, oppure è 11 Conversazione con Lizzani avvenuta nella primavera del 2011 presso la sua residenza a Roma. 12 Ibidem. 116 meno temerario. Nel film si tratta con un certo riguardo anche chi ha vissuto bene ed è forse anche stato fascista durante il Ventennio, come si vede nelle scene nella villa con la figura dell’ambasciatore e della giovane borghese. Gli anni in cui G. De Santis dalle pagine di Film d’oggi invocava un cinema realista in cui i conflitti apparissero anche in termini di lotta di classe, sei anni dopo gli eventi, sembra che la lacerazione politica dell’epoca imponga una visione onnicomprensiva ma non dialettica delle azioni e delle lotte che portarono alla nascita dell’Italia democratica e repubblicana. In Achtung! Banditi!, sembra quasi che gli autori vogliano annullare la nuova realtà storica degli anni Cinquanta, idealizzando un momento unico del passato nazionale, difatti la rappresentazione dei termini della realtà italiana coinvolta nella Resistenza, sono inclusi in termini di classe e di regioni, creando una micro rappresentazione di una società sociale e geografica utopica. Tra i combattenti partigiani ci sono contadini, militari meridionali, romani, liguri, piemontesi, che rappresentano laureati e le diverse componenti sociali e di classe italiane dall’alta borghesia, ai contadini che nascondono i partigiani, incluso un’adultera proprietaria, in tal modo il film crea utopicamente un collante ottimista tra le forze antifasciste. Tra questo gruppo eterogeneo ci sono anche gli industriali che vogliono ribellarsi all’oppressione dello straniero. I personaggi positivi sono italiani mentre quelli negativi sono i Tedeschi. Inoltre, quasi a riflettere il periodo storico della Guerra Fredda e la nuova politica governativa riguardo alla produzione cinematografica, nel film non viene menzionata l’appartenenza politica dei brigatisti e tanto meno si fa riferimento alla situazione politica e storica dell’epoca in cui il film è ambientato escludendo qualsiasi riferimento ai Repubblichini di Salò, oppure agli Alleati. Il racconto filmico mostra una visione positiva dell’Italia nel sottolineare non soltanto l’eroismo dei partecipanti, e delle classi popolari ma anche nell’esaltazione di una coesione di unità nazionale che nel 1952 era in fase di dissolvimento. Anche dal punto di vista stilistico la narrazione è un insieme di una serie di contrassegni neorealistici ma che ricostruisce una storia che racconta fatti accaduti sei anni prima e non l’attualità tanto amata da C. Zavattini e dal primo neorealismo. Il mito unificante della Resistenza come base dell’identità italiana era venuto meno con l’esclusione della Sinistra dal governo voluta dagli Stati Uniti come condizione per ottenere i fondi dell’in- 117 tervento economico del Piano Marshall e sigillata con le elezioni del 1948. Un film che coglie bene questa involuzione è C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola nel mostrare il sentimento postbellico della sinistra italiana vicina al PCI. I tre amici; Gianni Perego (Vittorio Gassman), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) e Antonio (Nino Manfredi) uniti durante la guerra partigiana, durante la ricostruzione e la guerra fredda si separano e si tradiscono. Il loro rapporto esprime la disillusione e il tradimento da parte degli intellettuali e della classe dirigente nei confronti del proletariato. Dopo il fermo macchina che lascia Gianni mentre si tuffa in piscina, il film in bianco e nero ripercorre brevemente gli anni della lotta armata mettendo in risalto l’importanza che la Sinistra dava agli intellettuali, nel film questa categoria è rappresentata da Gianni Perego, settentrionale di sinistra, il migliore dei partigiani e futura guida del cambiamento tanto aspettato e sperato. Con la conclusione delle ostilità belliche, invece come sentenzia sarcasticamente la voce fuori campo del narratore “scoppia la pace.” Come risultato i tre partigiani si separano per seguire strade diverse. Nicola, intellettuale meridionale lascia Nocera Inferiore per seguire il suo sogno di utilizzare il cinema per cambiare e migliorare la società. A Roma vive nella sua torre d’avorio da cui critica senza offrire vere e realistiche possibilità per risolvere i problemi. Antonio (Nino Manfredi) lavora alternativamente come portantino e infermiere in un ospedale, promozioni e retrocessioni che riflettono gli alti e bassi della sinistra italiana. Malgrado la sua velleità rivoluzionaria, resta fedele ai suoi amici e ai suoi ideali, dopo varie disavventure finisce con lo sposare la donna dei suoi sogni, Luciana (Stefania Sandrelli), e alla fine si coinvolge nel migliorare la società come si vede durante il suo appello ai genitori che fanno la veglia con la speranza di arrivare prima degli altri ad iscrivere i propri figli alla scuola pubblica. Gianni l’avvocato, invece, sacrifica l’amore per sposare Elide (Giovanna Ralli), la figlia di un corrotto magnate, costruttore di case, ex fascista, ora legato alla DC e alla Chiesa, che si serve della politica per ottenere appalti, senza rispettare le leggi, i diritti degli operai e le regole contrattuali e approfittando del boom economico, corrompendo politici si arricchisce costruendo alloggi scadenti. Attraverso la vita e le scelte dei tre personaggi maschili, Scola evidenzia gli ideali traditi della Resistenza, che politicamente non si sono realizzati anche a causa dell’esclusione della Sinistra a governare l’Italia. 118 Come risultato la Nazione è diventata un paese corrotto e senza ideali. Il tradimento di Gianni e il suo matrimonio per interessi con la figlia del Commendatore Catenacci è metaforicamente paragonabile al tradimento della DC che per ottenere i soldi del Piano Marshall si unisce alla politica Nord Americana tradendo gli ideali dell’Italia democratica e repubblicana nata dalla Resistenza, usufruendo dei voti dei Missini e dei Monarchici. Per un film di riflessione sugli ideali traditi e non realizzati della Resistenza come quello di Scola si è dovuto aspettare fino agli anni settanta, difatti dopo il film già discusso di Lizzani che presentava una coesione di unità nazionale già dissolta, la vita politica del Paese ha dovuto vedere l’insurrezione contro Fernando Tambroni13 per rivedere sullo schermo un recupero della Resistenza come fase costitutiva della storia della Repubblica. Durante la Guerra Fredda, equivalenti ai primi quindici anni della Repubblica, la Resistenza era stata rimossa non soltanto dal cinema, ma anche dai banchi di scuola, in una circolare del 1955, il Ministero dell’Istruzione invitava per il 25 aprile di commemorare la nascita di Guglielmo Marconi invece della Liberazione. Con l’avvento del Disgelo, dopo quasi un decennio di silenzio la Resistenza torna sul grande schermo con Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961) tratto dal romanzo omonimo di G. Rimanelli.14 La novità del romanzo che narrava la Resistenza vista da un giovane meridionale apolitico che scopre gli orrori della guerra, offriva al cinema sulla Resistenza un’opportunità per riaprire il discorso politico 13 Il 29 aprile 1960, con l’appoggio dei missini ottenne la fiducia del Senato. Nel maggio dello stesso anno il movimento sociale italiano decise di convocare il suo sesto congresso a Genova, città decorata medaglia d’oro della Resistenza in cui era partita l’insurrezione del 25 aprile. Tale decisione spinse l’opposizione a scendere in piazza, con la conseguenza di un indebolimento del Governo Tambroni, che aveva anche appoggiato la scelta di svolgere il precedente congresso missino a Milano, anch’essa decorata con la medaglia d’oro e dove i missini appoggiavano la giunta comunale democristiana fin dal ’56. La protesta si fece sentire sempre più forte. Tambroni scelse la linea dura, originando i noti fatti di Genova del 30 giugno 1960, che si estesero rapidamente al resto del paese. Alla fine non ci fu altra scelta che impedire il congresso del MSI. I missini votarono conseguentemente contro la legge di bilancio del governo, facendolo cadere il governo di Tambroni. 14 Nel 1961 Dino Risi con Un vita difficile aveva narrato la storia dell’Italia dalla Resistenza agli anni sessanta attraverso le vicissitudini di Silvio Magnozzi interpretato da Alberto Sordi, ex partigiano, comunista, che dopo aver combattuto per un mondo nuovo vede i suoi ideali travolti al boom economico. 119 e storico sul tema ma produsse un film che non accontentò nessuno e fu accusato di ambiguità. Il film tradisce anche il contenuto/semantico e il significante/significato del romanzo. Nel testo di Rimanelli il protagonista Marco Laudato sente gli orrori della guerra e percepisce la sua generazione come carne bruciata mandata a scannarsi. Il giovane ex salesiano non riesce a spiegarsi le ragioni di tanto odio e non è consapevole della realtà effettuale delle cose. L’incontro e il colloquio con Simone, il vecchio capraio che sta per raggiungere i partigiani è rivelatore del dramma umano del giovane. Il vecchio capisce Marco ma non può essere d’accordo con la sua incapacità di fare una scelta politica: Tu non capisci, perciò è tutto inutile che mi spieghi meglio … Tu provi disgusto della guerra, delle azioni che commettete contro la gente, ma non riesci a capire come stanno le cose. Non riesci a vedere chiaro. Perciò resti un ragazzo, figliolo, e ti costerà caro essere stato in una guerra come questa15. Nel film di Montaldo, invece, Marco Laudato diventa un pentito che alla fine va dai partigiani per passare dalla parte giusta. Il film evita di prendere in esame l’eredità fascista, il dissolversi delle certezze istituzionali, la fedeltà al passato ed evita persino di prendere in esame l’importanza della scelta ad unirsi alla lotta armata che era stata fondamentale nei film sulla Resistenza come guerra patriota. Nel 1976 l’uscita di L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo tratto dal romanzo omonimo di Renata Viganò la rappresentazione dei partigiani si arricchisce di una nuova interpretazione. La Resistenza è vista dalla prospettiva di una lavandaia, donna anziana, analfabeta che si unisce alla lotta armata dopo la morte del marito Palita da parte dei Tedeschi e lo fa con una decisione razionale, consapevole di essere dalla parte della ragione, spinta da un obbligo morale. Il film mostra che non esiste soltanto un modo di aderire alla lotta ma tanti modi diversi e per ragioni diverse, senza ideologismo. Ingrid Thulin interpreta benissimo il personaggio. Popolana solida, lavoratrice che vive una vita semplice dedita al marito e al lavoro dignitoso, Agnese si unisce alla lotta antifascista emozionalmente e soltanto con il tempo acquista una coscienza e una consapevolezza del suo ruolo di staffetta; una decisione razionale di una persona semplice ma consapevole di essere dalla parte della ragione. Agnese si assume le 15 Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Torino, Einaudi, 1991, p. 142. 120 responsabilità di staffetta ignorando la militanza politica del marito, spinta da un obbligo morale e acquisisce autostima e competenza che le permettono di affrontare l’avventura clandestina con successo e una coscienza elementare del suo ruolo nella lotta. Il film si divide in due parti, la prima segna la fine della vita familiare di Agnese, con la distruzione della sua casa che provocano l’ingresso nella vita di partigiana. La seconda parte racconta la vita di Agnese con i partigiani fino alla sua uccisione. La politica, per lei cose da uomini, non è alla base della decisione dell’ex lavandaia nell’entrare nella clandestinità ma anche senza la connotazione di eroina fa il suo dovere con dedizione. Il suo nuovo ruolo viene svolto come un nuovo compito. Le vicende di Agnese come staffetta sono mostrate attraverso quello che fa e come affronta i problemi e le difficoltà di tutti i giorni. La guerra è mostrata senza atti eroici ma tenuta a distanza, vissuta da una donna qualunque che per queste sue qualità, congiunte alla realtà storica e alle vicende personali, viene chiamata a collaborare anche perché poco notabile ma importante per la riuscita della lotta. Mamma Agnese muore come ha vissuto senza lamentarsi, senza fare niente di eroico, infatti mantiene il suo vero nome con l’aggiunta di Mamma. Il film segue il suo agire, la sua nuova vita, una storia dalla s minuscola di una persona che come il titolo attesta, sa che potrebbe morire, ma fa il suo dovere. Il film evita di mostrare gli scontri ma si sofferma sul quotidiano mostrando un lato poco conosciuto oppure poco mostrato della Resistenza; il ruolo avuto da tante donne. La grande novità della narrazione sta nel mostrare che non esiste soltanto un modo di aderire alla lotta ma tanti modi e per ragioni diverse. L’ambientazione del film nelle valli del Comacchio, contrappone la tranquillità alla guerra e alla morte, come se queste ultime fossero un’offesa al luogo. Altro grande merito del film è nella scelta di una luce opaca che caratterizza il film che contrasta con la luce abbagliante della morte di Agnese, che assume un alto grado di simbolismo. Nel 1982 La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittorio Taviani offre una visione della Resistenza che evidenzia le divisioni che esistevano anche in piccole comunità. La loro versione raffigura il movimento come una guerra civile brutale, benché la storia sia narrata attraverso la memoria di una bambina che ha assunto il ruolo dei fratelli Taviani all’epoca ragazzi nel rinarrare per mantenere viva la memoria e insegnare ai giovani di resistere a eventuali avversità: 121 Mentre fuggivamo all’alba, io e Paolo sentimmo lontano alle nostre spalle il boato infame della casa della nostra infanzia, della nostra adolescenza, dei sogni e dei progetti, che veniva distrutta come poi tante altre. Ad un tratto il nonno, vecchio ma forte come una quercia, ex ferroviere socialista di antica origine contadina, fermò i due giovani nipoti in cima al colle e disse loro: «guardate e ascoltate e promettetemi che un giorno – avete ingegno e siete avidi di futuro – voi scriverete tutto questo in un libro perché anche chi verrà dopo sappia, e se altre sventure dovessero colpirlo sappia anche che l’unica risposta è resistere». I due nipoti promisero e dopo molti anni realizzarono la promessa con La notte di San Lorenzo. Si sono fatti più piccoli di età e hanno cambiato sesso: si sono calati in quella bambina di sei anni, attraverso i cui occhi spalancati passa la grande storia di quei giorni16. 16 La notte di San Lorenzo Dichiarazione di Vittorio Taviani per gli studenti della scuola italiana di Middlebury Dopo quasi 40 anni, in un momento in cui il nostro paese, l’Italia, veniva minacciato da ombre neofasciste, sentimmo il bisogno di ricordare soprattutto ai giovani disorientati che cosa significa vivere sotto il nazi-fascismo e cosa significa lottare per la propria libertà ieri come oggi come sempre. Ci ricordammo che i grandi poemi omerici furono inventati quando Atene e Sparta – la grande Grecia - avevano perso forza e fulgore e ora dopo qualche secolo sotto il triste dominio dei Dori i giovani greci vivevano senza energia e senza speranze. Achille, Ettore, Agamennone vennero proprio a svegliarli e a ricordare loro chi erano stati i loro padri e a cercare di recuperare la loro grandezza. Resuscitammo così la nostra giovinezza. Raccontando i giorni terribili e magnifici di quell’estate del 44, quando sui colli della nostra Toscana conoscemmo l’orrore della morte nazista e la forza liberatrice dei partigiani. Giovani e non, contadini e cittadini, operai e borghesi uniti da una sola certezza: quando tutto sembra perduto, tutto si può salvare se siamo uniti l’uno accanto all’altro in una comunità che vuole essere libera e giusta. Io e Paolo avevamo 14 e 16 anni circa in quell’estate del 44. La prima casa che i nazisti segnarono con la croce verde, che significava distruzione, fu la nostra. Nostro padre, l’Avvocato Taviani, era uno dei pochissimi antifascisti della città e per questo fu il primo ad essere punito. La famiglia numerosissima, genitori figli parenti e amici che per giorni e giorni si era rifugiata in una cantina nascosta, una notte prese la via della fuga attraverso i colli toscani. Il padre aveva deciso: «i tedeschi e il vescovo ci ordinano di andare tutti nella cattedrale – disse –. Dei tedeschi io non mi fido e il vescovo è troppo ingenuo. Andiamo a cercare gli americani. Laggiù ogni tanto sentite questo cupo rumore? Sono i cannoni dei liberatori. Ognuno prenda la sua decisione, ma chi viene con me prima si vesta di nero: dobbiamo trasformarci negli angeli o nei diavoli della notte». Metà segui- 122 Il film segue un gruppo di abitanti del piccolo paese toscano di San Martino che appreso che le loro case erano state minate dai Nazisti, scettici della promessa dei Fascisti che tutti i cittadini sarebbero stati sicuri nella cattedrale, sceglie di andare incontro agli Americani liberatori. Durante il loro cammino della speranza incontrano una brigata partigiana ma la loro sicurezza è di breve durata dato che si trovano intrappolati nel mezzo di un sanguinoso scontro a fuco. I fratelli Taviani mostrano epicamente uno scontro tra fascisti e partigiani in un campo di grano. La battaglia evidenzia la natura del conflitto in cui amici di lunga durata e conoscenti di tutto l’arco della vita si uccidono in nome d’ideologie diverse. La scena più atroce coinvolge un confronto fra i partigiani e un padre fascista con il figlio quindicenne. Immediatamente dopo la battaglia i partigiani trovano i due fascisti nemici disarmati e che si nascon- rono la decisione del padre, l’altra andò nella cattedrale e molti vi morirono sotto le bombe o le mine, non si sa bene… Mentre fuggivamo all’alba, io e Paolo sentimmo lontano alle nostre spalle il boato infame della casa della nostra infanzia, della nostra adolescenza, dei sogni e dei progetti, che veniva distrutta come poi tante altre. Ad un tratto il nonno, vecchio ma forte come una quercia, ex ferroviere socialista di antica origine contadina, fermò i due giovani nipoti in cima al colle e disse loro: «guardate e ascoltate e promettetemi che un giorno – avete ingegno e siete avidi di futuro – voi scriverete tutto questo in un libro perché anche chi verrà dopo sappia, e se altre sventure dovessero colpirlo sappia anche che l’unica risposta è resistere». I due nipoti promisero e dopo molti anni realizzarono la promessa con La notte di San Lorenzo. Si sono fatti più piccoli di età e hanno cambiato sesso: si sono calati in quella bambina di sei anni, attraverso i cui occhi spalancati passa la grande storia di quei giorni. Ho finito ma c’è ancora una cosa che voglio dirvi. Di questa promessa mantenuta io e Paolo parlammo qui negli Stati Uniti, a New York a pochi giorni dalla distruzione delle Torri Gemelle. Nonostante la tragedia, il Moma volle dar corso al programma di presentazione di tutti i nostri film organizzato da più di un anno. Alla fine della proiezione di San Lorenzo ricordammo le parole di nostro nonno e tutti insieme, nella commozione generale, ripensammo la promessa: Resistere. Salina, Isole Eolie, Luglio 2011 Ringrazio Giovanna Taviani per avermi concesso di includere la lettera inviatale dal padre in occasione della presentazione del film in questione avvenuta nel luglio del 2011 presso la Scuola Italiana di Middlebury College. 123 dono su un albero, un partigiano spara al ragazzo che invoca l’aiuto del padre che alla vista del figlio morto, in un atto di disperazione si suicida. La rappresentazione della Resistenza in questo film presenta degli aspetti completamente diversi dai film precedenti discussi finora. Difatti attribuisce la liberazione dell’Italia principalmente alle forze americane piuttosto che alla Resistenza. Dimostra alcuni elementi della popolazione italiana come ideologicamente allineati con i Nazisti e in alcuni casi ancora più crudeli. A questo proposito, il film mostra chiaramente la lotta armata italiana come una guerra civile tra la popolazione del paese, e mostra anche il comportamento di un sacerdote, che agisce ben diversamente da Don Camillo de Il sole sorge ancora e da Don Pietro di Roma città aperta, e in tal modo il film riesamina anche la cooperazione della Chiesa con il regime fascista. Inoltre La notte di San Lorenzo sfida la nozione precedente della Resistenza come base di un’unità nazionale e mette in esame perfino la moralità dello scontro stesso. Notti e nebbia di Marco Tullio Giordana, miniserie prodotto dalla Rai con la tv francese TF 1, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Castellaneta del 1975, mandato in onda per la prima volta nel 1984, deve essere menzionato come primo film italiano che racconta la storia della guerra civile nel Nord Italia dal punto di vista dei Repubblichini. Bruno Spada (Umberto Orsini) è un commissario di polizia a capo di un ufficio politico, convinto fascista, sposato con moglie remissiva. Conduce il suo lavoro raccogliendo delazioni e denunciando i propri amici e non esita davanti alle torture, forte delle sue certezze che però iniziano a vacillare davanti alla nuova realtà presentata dai combattenti partigiani che porteranno la fine del commissario. Negli anni novanta la nuova rappresentazione cinematografica della Resistenza è influenzata dal libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, pubblicata per la prima volta nel 1991 che aveva distinto gli eventi in tre guerre spesso combattute dai partigiani: in guerra patriota, guerra civile e guerra di classe, mettendo così a nudo gli aspetti laceranti della Resistenza e suoi conflitti, rendendola indubbiamente difficile da ricostruire in una versione ufficiale che potesse mettere tutti gli italiani d’accordo. Tale divisione è confermata dalle polemiche che hanno accompagnato Porzûs di Renzo Martinelli del 1997. Il 124 film racconta il massacro di venti partigiani cattolici della Divisione Ossoppo avvenuta il 7 febbraio del 1945 a Porzûs nel Friuli ad opera di partigiani comunisti che pochi mesi dopo la fine della guerra avevano progettato di unirsi ai soldati di Tito per favorire l’instaurarsi del comunismo in Italia. La disillusione di tutte le parti è forse simbolicamente rappresentata dal partigiano Johnny nel film di G. Chiesa del 2000, che coglie benissimo la casualità della guerra partigiana. Ne Il partigiano Johnny, tratto dal romanzo omonimo di Beppe Fenoglio, il regista Chiesa identifica in una minoranza della popolazione italiana che prende consciamente in mano il proprio destino e decide di agire il recupero della vera umanità. Chiesa che aveva già fatto un documentario su Fenoglio, vede nella decisione dello scrittore di entrare a far parte della lotta armata la rappresentazione dell’essere umano autentico, che agisce razionalmente. Così Johnny il partigiano nella finzione autobiografica esprime la sua decisione non basata sulla base dell’ideologia, ma su una visione del mondo laica, illuminista e razionalista. Per Chiesa girare il film è ripercorrere il tentativo dell’autore nel trovare una lingua nuova per raccontare un evento senza la retorica della guerra di popolo, facendo diventare la storia quella di un partigiano qualunque che si scontra con gli altri partigiani politici e quasi percependo la lacerazione che accadrà nel prossimo futuro della storia italica. L’anno dopo esce Piccoli maestri di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo autobiografico di Luigi Meneghello pubblicato nel 1964 in cui l’autore rievoca la guerra partigiana come l’avevano vissuta, sull’altipiano di Asiago e nella città di Padova, lui stesso e alcuni suoi coetanei vicentini, perlopiù studenti ventenni. Il film racconta anche la storia di questi giovani universitari che nel 1943 decidono di lasciare l’università per darsi alla lotta di resistenza. Stefano Accorsi nel ruolo di Gigi, Meneghello, Giorgio Pasotti in quello dell’amico Enrico sono poco credibili come partigiani del 1943, appaiono troppo ben tenuti e moderni. Il film non rende la durezza della guerra e dei dubbi politici e le discussioni tra i partigiani che erano la parte vitale del romanzo. Il film più che aggiungere una nuova pagina alla lotta armata è una riflessione amara su quella tumultuosa, intensa, irripetibile stagione, piena di gioia e sofferenze. Sebbene diretto dal regista americano Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna del 2008, rientra tra i film italiani sulla Resistenza essendo 125 una co-produzione italo-americana, parzialmente prodotto e distribuito da RAI cinema, include attori, personale italiano ed è stato girato in Toscana e a Cinecittà. Se questo non bastasse un rapido sguardo alle polemiche che ha scatenato sull’onore dei partigiani e sulle colpe dei nazisti,17 lo farebbero rientrare pienamente tra i film che presentano una rilettura della rappresentazione della Resistenza. Il film è tratto dal romanzo omonimo di James McBride e racconta un episodio della guerra che si è combattuta sulle montagne della Garfagnana, intorno al fiume Serchio nell’inverno del 1944. La storia gira intorno a quattro GI afro-americani che fanno parte della 92esima divisione dell’esercito americano, denominata Buffalo Soldier perché interamente composta da afro-americani, che hanno combattuto in Toscana durante la II Guerra mondiale. Il gruppo dei quattro GI include l’idealista Sergente Aubrey Stamps (Derek Luke), Bishop Cummings (Michael Ealy), il Sergente con i denti d’oro, il Caporale Hector Negron (Laz Alonso); l’interprete, il gigantesco soldato semplice Sam Train (Omar Benson Miller), che hanno con loro Angelo Tornacelli (Matteo Sciabordi), un bambino che non parla, a causa di turbe nervose e che nasconde un segreto orribile; è sopravvissuto alla famigerata strage in cui i Nazisti uccisero 560 civili italiani nella città di Sant’Anna di Stazzema. Nella versione di Lee, quel massacro viene rappresentato come una risposta alle azioni delle forze della Resistenza italiana e mostra un partigiano che ha tradito la città in una riunione segreta con i Nazisti. L’ANPI ha accusato Lee di aver suggerito che il massacro degli SS di civili a Stazzema sia stato attivato da un tradimento di un partigiano. Giovanni Cipolini che dirige l’associazione per la Resistenza di Pietrasanta ha dichiarato di essere preoccupato perché quando un regista famoso fa un film su un capitolo importante della storia, la gente crederà che la versione sia la verità. 17 In proposito il regista americano ha dichiarato: «Come regista di questo film, sento di non dover chiedere scusa a nessuno. Ci sono diverse interpretazioni di cosa accadde quel giorno, ma un unico fatto sicuro: il 12 agosto 1944, la Sedicesima divisione delle SS massacrò 560 civili a Sant’Anna di Stazzema. Uomini, donne, anziani, bambini. Questa è la sola cosa certa. Per il resto, non mi preoccupa che la mia pellicola provochi polemiche: discutere del passato, della Seconda guerra mondiale, è sempre un fatto positivo», http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/ spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/stazzema-miracolo/stazzema-miracolo.html. 126 Lee ha alimentato le polemiche dichiarando durante la promozione del film: I partigiani? Spesso fuggivano, abbandonavano le popolazioni alle rappresaglie. Chi è stato partigiano sarà “suscettibile” ma capisce che il vento è cambiato, che il rispetto e la riconoscenza per chi ha messo a rischio la sua vita per la libertà di tutti, hanno lasciato il campo alla diffamazione e alla ostilità. Tale provocazione ha fatto scendere in campo Giorgio Bocca che ha risposto per dovere storico alle accuse di Lee dichiarando: … Un giorno della primavera del ’45 ero assieme a Livio Bianco sul monte Tamone in val Grana da cui si vede la pianura e la città di Cuneo. Indovinando il mio pensiero Livio disse: «Andrà già bene se non ci metteranno in galera». I prudenti, i vili, la maggioranza non perdonano alle minoranze di aver avuto coraggio o semplicemente il senso di un dovere civico. Ci sono anche da noi molti antipartigiani semplicemente per una questione anagrafica, di non aver potuto per ragioni di età partecipare alla Resistenza. Ci sono molti antipartigiani che vedono nei partigiani un reducismo privilegiato e fastidioso. Curioso reducismo. Curioso privilegio. Cinque anni dopo la liberazione i carabinieri della val Maira riferivano sul mio conto a un magistrato: «Si ricorda che circolava armato con atteggiamenti spavaldi». E anche io, come dice Spike Lee, sparavo e poi scappavo18. Lee è tornato a difendersi affermando: Signor Bocca, io non sono suo nemico. Io non sono nemico dei partigiani. Il mio discorso completo esprimeva il concetto che i partigiani non erano universalmente amati dalla popolazione italiana. Del resto, come poteva essere diversamente, visto che l’Italia si trovava nel pieno di una guerra civile, con famiglie lacerate, fascisti contro partigiani? Conosco la storia. Stavo facendo un esempio di guerra con tecniche di guer18 http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/ bocca-1ott/bocca-1ott.html. 127 riglia. Le tattiche usate dai partigiani contro i nazisti sono le stesse usate da Fidel e dal Che a Cuba, dall’Anc nel Sudafrica dell’apartheid, dai Vietcong in Vietnam, dai Mau Mau in Kenya e dai miei antenati contro gli schiavisti in America19. La posizione assunta dal regista americano e le polemiche confermano il cambiamento avvenuto nella rappresentazione della Resistenza. Come quasi tutti i film sulla Resistenza dell’epoca contemporanea questo film ha suscitato delle polemiche furiose di accuse e controaccuse. Anche se l’intenzione dichiarata di Lee fosse di raccontare una finzione ispirata a fatti storici, con lo scopo di richiamare l’attenzione a un fatto storicamente trascurato: il contributo dei neri durante la guerra, in Italia si è ritrovato a difendersi dall’accusa di aver offeso il valore storico della Resistenza. Nel 2009 esce diretto da Giorgio Diritti, presentato al Festival Internazionale di Roma dove vinse il Marco Aurelio d’Oro assegnato dal pubblico. Nella versione originale il film è in dialetto bolognese con sottotitoli in italiano e nei titoli di coda si dichiara che i personaggi e le vicende del film sono frutto di finzione, mentre lo sfondo storico (la strage di Marzabotto) è reale. Tuttavia alcuni personaggi del film sono realmente esistiti20. Difatti il film ambientato nel 1944 racconta gli eventi che precedono la strage di Marzabotto visti attraverso gli occhi di Martina, una bambina di otto anni che aveva smesso di parlare. La strage è preceduta dall’arrivo del freddo che sembra predire l’arrivo della guerra. L’invadenza dei soldati tedeschi e di partigiani scompigliano l’ordine dettato dalle stagioni e dal lavoro agricolo. Lo sguardo profondo di Martina accompagna lo spettatore 19 Ibidem. 20 Riporto la risposta di Diritti a Cineuropa riguardo alle ricerche fatte in merito alla strage: Research that, however, was conducted for The Man Who Will Come… Yes, it was long and laborious: preparation lasted many years, during which – along with the studies and documents – we also met with survivors and Resistance fighters, people who lived through those events. Normal people who dreamt of living, loving, raising their children, who suddenly found themselves overwhelmed by something external the sense of which they didn’t understand. It was a massacre of innocents, and I wanted to depict it “from below”, through the eyes of a child, Martina, in which all viewers can see themselves. http://www.cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=129024 128 attraverso la vita contadina di tutti i giorni e si sofferma sulla bellezza delle cose e su i semplici eventi che accompagnano il corso della vita. La quotidianità e il lieto evento della nascita del fratellino di Martina vengono interrotti dal rastrellamento dei soldati tedeschi che fanno una strage. Martina, illesa, torna a casa e sola accudisce il neonato fratellino cantandogli un ninna nanna. Martina che aveva smesso di parlare quando il precedente fratellino, le era morto in grembo, torna a parlare con il neonato in braccio. Diritti il regista, a differenza di Spike Lee non prende posizione, non ci mostra che cosa sia veramente accaduto a Marzabotto per far scattare la rappresaglia Nazista. Lo spettatore non capisce se i partigiani abbiano una responsabilità. Il film si limita a raccontare i fatti che il regista è andato a ritrovare negli archivi. Il film si allontana dal genere resistenziale presentando la tragedia della guerra senza assegnare colpe, oppure meriti. L’uomo che verrà è forse rappresentato dal neonato e da Martina, entrambi scampati al massacro, e la loro sopravvivenza rappresenta il dono della vita sopra la follia umana. Loro diventano icone che devono insegnare alle future generazioni gli orrori sofferti da una comunità per evitare che gli uomini continuino ad ammazzarsi. Per concludere, la rappresentazione cinematografica del partigiano combattente per la Liberazione in nome dell’antifascismo è scomparsa dal grande schermo con l’avvento della Guerra Fredda e quando è ritornata ha iniziato a mostrare le fratture che separavano le diverse anime della Resistenza affossando il mito di una Resistenza concorde e unanime. I film che hanno rappresentato la Resistenza mostrano non soltanto la storiografia del movimento antifascista e antinazista ma mostrano come il soggetto sia stato politicizzato nel corso degli anni. Dall’esaltazione dei partigiani si è passato a una maggiore comprensione della complessità del fenomeno fino a mettere in discussione la legittimità del mito come vera fonte dell’identità comune della nuova Italia repubblicana. Il patriottismo di tutti i partigiani offre ancora una serie di valori unitari nazionali e di esperienze unificanti che sono degni di una società democratica e antifascista anche se si continuerà a interpretarli politicamente e da ottiche diverse. Molti degli ultimi film sulla Resistenza spesso sembrano mettere in cattiva luce il ruolo avuto dalle brigate comuniste che invece all’inizio erano al centro dell’esaltazione patriottica, oppure denunciano gli orrori della guerra senza prendere posizione oppu- 129 re dare interpretazioni politiche, inoltre le stragi naziste diventano ammonimento universale contro la violenza21 senza ideologismi22. Bibliografia essenziale Battaglia Roberto, Storia della Resistenza italiana: 8 settembre 194325 aprile 1945. Torino: Einaudi, 1992. Forgacs, David. Fascim and anti-Fascism reviewed; Generations, History and Film in Italy after 1968 in H. Peitsch, C. Burdett and C. Gorrara (eds) European Memories of the Second WOrl War, Berghanhn, New Tork. 1999. Scoppola, Pietro, 25 aprile. Liberazione, Torino: Einaudi, 1995. 21 Le risposte di Diritti alle domande del cronista di Cineuropa mettono in rilievo l’attteggiamento dei nuovi registi verso la Resistenza. Importanti appaiono anche le sue osservazioni sul film di Spike Lee. Cineuropa: Why did you choose to make a film about the Monte Sole massacre? And why do you think Italian cinema was so silent for so long on the subject? Giorgio Diritti: Not just our cinema, but Italy itself has essentially repressed the most heinous chapters [of its history]. It has not come to terms with what was a civil war, albeit an undeclared one. It has preferred to make films on the stereotypes of the Resistance, or else give in to triumphalism, instead of reckoning with the many facets of history, whose memory it is important to keep alive. Especially when it comes to events such as the Monte Sole massacre. What happened 60 years ago in Italy is happening elsewhere today, and we must stay vigil so that civilians are always protected, and so that ideologies such as those that led to these massacres do not take hold. Before your film, Spike Lee also tackled these subjects. Have you seen Miracle at St. Anna [trailer]? Of course, but only after I finished shooting, I didn’t want to be influenced in any way. What I can say, and I’m sorry given my admiration for Spike Lee, is that his approach was not very historically attentive, and was instead “novel-esque”. Its limit is that it’s not credible, it belies the difficulty an American director has in understanding what happened in Italy, especially if lacking sufficient information. It’s as if I were to make a film about the Bronx without doing extensive research first. http://www.cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=129024 22 Questo non è il caso nel film di Michele Soavi, Il sangue dei vinti del 2009, ispirato all’omonimo libro del 2003 di Gianpaolo Pansa. In questo film la lettura ideologica evidente in tanti film del passato sulla Resistenza è sostituita da una falsa interpretazione della storia in cui i Partigiani e i Repubblichini sono due facce della stessa medaglia e per condannare quelli che erano dalla parte del giusto, si ricorre all’ipocrisia che bisogna rileggere la storia dalla parte dei vinti. 130 131 parte seconda La commedia 132 133 Gaia Capecchi Virzì e la “poetica dell’ovosodo” fra riso e malinconia 1. Paolo Virzì e la nuova commedia italiana Toscano, classe 1964, Paolo Virzì è ormai considerato uno dei legittimi eredi della «commedia all’italiana». Da essa ha mutuato la medietas popolare, la capacità di fondere riso e malinconia, nonché quell’affetto per i personaggi che non è mai disgiunto da uno sguardo impietoso sui loro vizi. «Scrivi quello che conosci!», gli suggerisce il suo maestro Furio Scarpelli, scomparso poche settimane fa e indimenticato autore, con Age, di molti dei capolavori della stagione d’oro del nostro cinema (da I soliti ignoti a La grande guerra, C’eravamo tanto amati o La terrazza). Virzì ascolta il suggerimento e resta tenacemente attaccato a ciò che sa, che ha vissuto, che ha potuto osservare con i propri occhi. Così lo vediamo muoversi ugualmente bene fra i vicoli stretti e spazzati dal vento della sua Livorno – il mare di là dal vicolo, dietro il prossimo angolo – o per le strade ampie e monumentali di una capitale estranea, che sembra sfarsi sotto al peso dei propri sogni, fasulli, di rivendicazione e di gloria. E i suoi film, mentre non dimenticano il passato di Monicelli, Risi, Scola, si aprono sempre al presente, rilasciando un ritratto amaro ma insieme anche buffo e appassionato della contemporaneità. Virzì si schermisce quando gli si ricorda questa eredità, eppure non la nega. Del resto, al di là delle citazioni e degli omaggi palesi presenti nei suoi film, il rapporto di filiazione è stretto, rintracciabile soprattutto in quella speciale mescolanza di tragico e comico, nell’attenzione allo sfondo sociale dietro ai personaggi e nella lontananza dal genere «alto». Certo, non si tratta di un pedissequo ricalcare le orme dei padri; anzi, Virzì stesso dichiara: 134 Le mie differenze dalla commedia all’italiana? A volte mi sento meno riappacificato con le cose della vita, credo che anche in Ovosodo ci sia un substrato di rabbia1. Il fido compagno di scrittura Francesco Bruni rincara la dose: L’accostamento con la commedia all’italiana di Monicelli, Age, Scarpelli, mi lusinga ma credo che nel frattempo si sia aggiunto un sentimento di pessimismo. Credo che abbia influito anche la commedia inglese alla Ken Loach2. Insomma, la rabbia e il pessimismo si aggiungono all’atmosfera tragicomica della classica commedia all’italiana e proiettano sulle storie del regista livornese ombre più tormentate, come si vede bene fin dal suo esordio e come si continuerà a notare in tutti i suoi film. Si assiste dunque a un aggiornamento moderno della commedia all’italiana, a un suo adattamento in chiave più angosciosa a questi tempi che appaiono al regista cupi, confusi, melmosi. Eppure, il guizzo del sorriso spunta sempre; e la lacrima non è mai separata dalla risata schietta, cristallina. Ne è passato di tempo dalla sua prima opera (La bella vita, 1994), ma la luce di certe scene, l’amarezza dolciastra che resta attaccata in gola, l’allegria triste dei sorrisi quando ci si dice addio o si prova a dire una bugia, ecco, quelle non sono cambiate. C’è sempre quello struggimento, quella melanconia che lucida gli occhi, a dire che sì, è un film di Virzì che stai guardando, e di chi altri? La sua ultima opera, La prima cosa bella (gennaio 2010) è il titolo di una canzone di Nicola di Bari e riprende con un chiasmo evidente quello di sedici anni fa: “bella – bella”, a incorniciare volti di uomini e donne che fanno tutto quello che possono, pur di non lasciarla scorrere invano, la vita. In effetti il tema della bellezza del vivere nonostante tutto, al di là dei dolori e degli inganni, anche in mezzo al sopruso, alle botte, alle illusioni infrante, non abbandona mai i personaggi di Virzì, accompagnati sempre dall’occhio del regista che ne osserva ogni ruga, ogni anfratto dell’animo, ogni errore e ogni attesa. Caratteristica precipua di Virzì, infatti, è la sensibilità per il piccolo, 1 Maurizio Porro, «Corriere della sera», 7 settembre 1997. 2 Francesco Bruni, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, Recco, Le Mani, 2010, p. 168. 135 l’attenzione al minuto, la capacità di cogliere le minime sfumature dell’animo, sia esso fatto di purezza e di slanci sinceri, sia di avidità, egoismo e bassezza. Non c’è indulgenza ma neanche giudizio, quando la macchina da presa indaga le scelte dei protagonisti, le loro vite imperfette, perché c’è sempre la consapevolezza profonda, sgomenta e divertita, che le stesse scelte, gli stessi errori potrebbero essere i nostri. Anche noi vinti da quel senso di inadeguatezza, da quell’essere fuori luogo sempre e ovunque, che è uno degli aspetti più forti di tutto il cinema di Virzì. Gli occhi innocenti spalancati sul mondo, impauriti eppure curiosi; la paura e l’eccitazione che prendono quando si fugge via; l’angoscia del sentirsi diversi e soli; la bellezza faticosa del vivere come si può. Tutto ciò anima i film di un regista livornese che è arrivato anche in America, avventurandosi in viaggi rocamboleschi e saltando di rincorsa da un treno all’altro, come un Huckleberry Finn dei giorni nostri. Gli aspetti sopra descritti sono facilmente rintracciabili lungo tutta la filmografia del regista ma i film in cui sembrano assumere un risalto più evidente sono quattro: La bella vita (1994), Ovosodo (1997), Baci e abbracci (1999) e La prima cosa bella (2010). 2. La bella vita: «malinconia, grigiore, struggimento» Il debutto di Virzì alla regia reca la data 1994 e il nome di una città di porto e di mare, di metallo e d’acciaio: Dimenticare Piombino. Il film, che esce poi nelle sale col titolo La bella vita, è interpretato dai giovani Sabrina Ferilli, Claudio Bigagli, Massimo Ghini e racconta la storia non nuova di un triangolo amoroso «di ambientazione popolare» (come lo definisce lo stesso Virzì), ricalcata su Romanzo popolare di Mario Monicelli e su Dramma della gelosia di Ettore Scola: una bella moglie annoiata che lavora come cassiera in un supermercato tradisce il marito distratto e cassaintegrato con un amante belloccio, fatuo come lo sbuffo di una sigaretta (non a caso, viene scelto per lui il metonimico nome di Gerry Fumo). Anche se la vicenda ha per sfondo la crisi dell’acciaio degli anni Novanta, le agitazioni sindacali, la vita sempre uguale e monotona della piccola provincia, tuttavia il film non ha specifiche velleità di denuncia: infatti non è tanto una ricerca sociologico-politica, quanto umana, antropologica. È più che 136 altro la storia di una «piccola famiglia che va in crisi sotto i colpi della seduzione e della recessione» (ancora Virzì); la storia di un malessere visto dal basso, che schiaccia i tre umili protagonisti Mirella, Bruno e Gerry, ma che potrebbe toccare benissimo a ciascuno di noi. Quello che vuole Virzì è guardare dentro a queste persone, siano cassiere di supermercato o conduttori televisivi da pochi spiccioli: Degli esseri umani mi interessa soprattutto la vicenda interiore e questo può suonare strano nell’ambito della commedia. In realtà, io ritengo che la grandezza di certi bei film italiani venga proprio da lì: in mezzo ai lazzi e ai ritrattini ironici c’era fondamentalmente uno sguardo triste, c’era il dolce racconto dell’infelicità delle persone3. Il film – che riceve a Venezia il Ciak d’oro come miglior lungometraggio del «Panorama italiano», il Nastro d’Argento e il David di Donatello per il miglior regista esordiente – risente comunque di una certa imperizia da opera prima, come ammette lo stesso regista: Credo che si veda, il film è rudimentale, coi primi piani e le scene ferme […] Forse quel film non ha proprio delle riprese spettacolari, da mozzare il fiato, ma non mi pare nemmeno che fossero necessarie. Servivano semmai malinconia, grigiore, struggimento4. Ed eccolo qua, lo struggimento. Guardiamo il suo primo film e già ci troviamo a fare i conti con uno dei sentimenti dominanti di tutta l’opera di Virzì: quella melanconia inspiegabile, quel consumarsi del cuore, quell’arrovellarsi dell’anima che tanta parte avranno nelle storie di tutti i personaggi futuri. La «malinconia e il grigiore» di quegli sfondi che starebbero benissimo in un romanzo di Carlo Cassola, un autore che Virzì ama tanto, perché legato alla sua stessa forma di «realismo esistenziale», di attenzione a ciò che sembra contare meno, rimanere al di sotto della coscienza pratica, come egli stesso spiega: 3 Goffredo Fofi (a cura di), La tribù di sinistra e la tribù di destra, in ferie, ad agosto – Paolo Virzì, in «La Terra vista dalla Luna », n. 15, maggio 1996, p. 63. 4 Gaia Marotta (a cura di), Per fare lo sceneggiatore bisogna avere qualcosa da raccontare, per fare il regista bisogna essere un grande affabulatore, in <http:// www.treccanilab.com/virzi.htm, 2007>. 137 La verità poetica non appartiene alla coscienza pratica, ma alla coscienza che sta sotto, alla coscienza subliminare. L’emozione poetica è proprio di quei momenti privilegiati in cui l’attenzione pratica viene meno, si squarcia il velo opaco che nasconde le cose e queste ci appaiono nella loro realtà. Una poetica che si sposa bene anche con Virzì, così attento a quegli infinitesimali «momenti privilegiati» in cui «si squarcia il velo» e si arriva alla poesia. L’emozione poetica e quel sorriso che non si sa se nasconde tristezza o gioia ma si apre quando, nel finale del film, Mirella e Bruno ormai separati si scrivono raccontandosi le loro piccole minutissime vite. 3. L’Ovosodo che non va né in su né in giù Con Francesco Bruni e Furio Scarpelli, Virzì nel 1997 scrive Nato da un cane, sottotitolo La vita eccezionale di un ragazzo come tanti, poi diventato La vita di rincorsa e infine Ovosodo, dal nome del quartiere livornese Benci Centro, rinominato così perché durante il Palio marinaro i vogatori indossano una maglia bianca con una striscia gialla al centro, che li rende simili a uova sode. Il terzo film è una delle opere più sentite e personali del regista, che lascia trasparire numerosi elementi biografici sia nella trama sia nell’ambientazione, una Livorno fatta tutta di ciminiere, facce bruciate dal sole, lingue svelte e cucine con le pareti gialle: una città di fiera tradizione comunista dove i quartieri popolari hanno nomi esotici come Corea e Shangai. La stessa Livorno da cui Paolo Virzì si è allontanato ragazzo per fuggire a Roma e con cui adesso, forse, tenta una prima riconciliazione. L’amico Bruni ricorda: È una città meravigliosa, però è anche chiusa. Un luogo certamente ingenuo e naïf ma anche un posto dove è difficile esprimersi al massimo. Nel nostro lavoro c’è un’eco di quella sensazione di soffocamento che ci prese a un certo punto della nostra vita5. La città di mare fa qui da sfondo a un bildungsroman tragicomico, 5 Francesco. Bruni, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 184. 138 tenero, sudato, dagli echi dickensiani: cresciuto in un quartiere coi panni stesi nei cortili e le vecchie alla finestra, Piero perde la madre da piccolo e vive con un fratello ritardato e un padre che non fa altro se non entrare e uscire di galera. Ha un’unica amica: la sua insegnante delle medie Giovanna (Nicoletta Braschi) che gli trasmette la passione per la lettura e sembra capirlo nel profondo. Quando arriva al Liceo classico «Giorgio Caproni», all’Ardenza – luogo che per uno del suo quartiere è «esotico come Beverly Hills» – Piero si sente del tutto estraneo, diverso, isolato. Per forza, lui è cresciuto in un palazzone scrostato, fin da bambino si è dovuto scontrare con personaggi poco raccomandabili e ha mangiato la terra del polveroso cortile comune, un posto che l’alternativo compagno di classe Tommaso (Marco Cocci) definisce: «Bellissimo. Sembra Napoli, Berlino, Bucarest». Proprio la conoscenza con il ribelle Tommaso, capelli rasta e perenne bisogno di soldi, farà entrare Piero in un mondo meraviglioso, eccitante e sconosciuto, fatto di corse in motorino, canne, occupazioni della scuola, ragazze; salvo poi scoprire che l’amico prediletto è il rampollo scapestrato di un ricco imprenditore, proprietario delle acciaierie che inquinano la parte povera della città. Fra liti, riconciliazioni, perdite, viaggi a Roma, ragazze inutilmente amate o dolcemente innamorate, Piero viene bocciato alla maturità e finisce a fare l’operaio. In mezzo a tutto questo, c’è spazio anche per il dolore sordo di un suicidio, quello dell’amata professoressa amica Giovanna, la cui fragilità non ha potuto far fronte all’urto della vita. Eppure, nonostante tutto, Piero, così apparentemente disadatto a tutto se non al sogno, non soccombe; ma anzi sposa la ragazza che lo ha sempre amato e si dichiara, alla fine, felice: Tutte le mattine [ ] Susy mi accompagna al lavoro in macchina. E tutte le mattine, che piova o ci sia il sole, lei mi dice la stessa identica cosa: – sei sempre più bello–. E io vado a lavorare contento. Chi lo sa, forse sono rincorbellito del tutto, o forse sono felice a parte quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico. «L’ovosodo che non va né in su né in giù». Quel groppo alla gola che piglia e non si sa perché. Quel senso di rabbia frustrata o d’infelicità ingollata, quella piccola rivincita personale, quella felicità tuttavia, 139 fatta di nulla ma importantissima e vera per il giovane Piero che si diverte a raccontare ai compagni operai della fabbrica Grandi speranze come fosse una soap-opera. Mentre l’ovosodo che gli balla nel cuore e nella gola, alla fine, si rivela l’unico modo per affrontare la vita, con qualunque faccia essa si presenti. Il titolo del film diventa allora manifesto, dichiarazione programmatica, cifra distintiva di un regista che cercherà sempre, nei suoi personaggi e anche nel pubblico, di tirar fuori quel magone lì, quell’inesprimibile groviglio di emozioni compresse ma fortissime che sta nascosto dentro ciascuno di noi. L’esordiente Edoardo Gabbriellini è perfetto per impersonare Piero, perché ha «un volto da tunisino, egiziano, greco, palestinese. Una vera faccia da livornese arcaico, figlio di figli del popolo mediterraneo»6 (Carlo Virzì) e nonostante non sia del tutto a suo agio con le regole del set, apporta al film una freschezza e una verità che colpiscono l’allora Presidente di giuria al Festival di Venezia, Jane Campion, che tributa a Ovosodo il Gran premio speciale della giuria. Il film di Livorno ha un travolgente successo anche fuori dalla città, racimolando nella stagione 1997-1998 oltre dodici miliardi di lire: segno che la storia, pur parlata e vissuta in terra toscana, travalica il regionalismo per diventare universale. Livorno diventa luogo dell’anima, entità metageografica, rifugio dell’innocenza e della ferocia giovanili. Non si parla più solo di Piero Mansani, quartiere Ovosodo, Livorno, ma di ogni giovane uomo che tenti, goffo e roccioso, di affermare la propria «vita di rincorsa». 4. Baci e abbracci: una comune strampalata dove «non si soffre più!» Il magone che Piero si tiene dentro si ritrova nei personaggi buffi, sgraziati e perdenti di Baci e abbracci, un film piccolo, diretto nel 1999 con attori quasi tutti dilettanti e ambientato nelle campagne della val di Cecina. La storia, in cui si alternano delusioni, speranze, attese trepide e amarezze, è quella di tre ex-operai che, pensando di trarne un grande profitto, aprono un allevamento di struzzi. Non ottenendo però i risultati sperati, Renato, uno dei tre, decide di invitare 6 Carlo Virzì, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 100. 140 a cena per la vigilia di Natale l’ultimo fidanzato di sua sorella, un assessore regionale da cui spera un finanziamento. Per un equivoco, arriva invece al casale un ristoratore sull’orlo del fallimento (Francesco Paolantoni), reduce da un tentato suicidio (uno dei tanti tentati o riusciti nei film di Virzì). L’uomo si ambienta bene in questo clima di festa, fra ragazzini, donne procaci, vecchi e musicisti scalcagnati (gli Amaranto Posse, ovvero gli Snaporaz, il gruppo del fratello di Paolo, Carlo Virzì, che fornisce una vera e propria colonna sonora in diretta sul set). Quando, la mattina di Natale, la sua vera identità viene smascherata, il ristoratore invece di andarsene prepara un bel pranzo: intorno al tavolo, tutti mangiano, cantano, ridono e si scaldano; mentre fuori, dalle uova, nascono dei piccoli struzzi. Sul set, sempre pieno di struzzi e di fango a causa dell’acqua artificiale, con gli attori imbacuccati sotto vestiti pesanti per simulare l’inverno in piena estate e un abbondante rifornimento di bottiglie di Lupicaia rosso del conte Rossi di Medalana, si crea un’atmosfera conviviale da gita scolastica o da festa paesana, ideale per rappresentare la storia di questi lavoratori disoccupati che alla fine, dopo bugie, segreti, agnizioni, trovano un momento di ritrovata, chissà se solo momentanea, armonia. Durante le riprese, le campagne di Cecina diventano una sorta di circo permanente, di delirio organizzato che non spaventa affatto il regista: anzi si ha l’impressione che egli – cosa per lui non insolita ma già manifestata durante la lavorazione di Ferie d’agosto (1995) – non voglia disciplinare il set ma immergersi nell’osservazione divertita degli attori, per sfruttarne al meglio le dinamiche, le tensioni, le energie sotterranee. La fotografia “sporca” e calda di Alessandro Pesci, che dà al film quel carattere invernale così intimo e familiare, è particolarmente suggestiva in una delle scene emblematiche del film: il momento in cui, alla sola luce di tremolanti candele, dopo canzoni di Natale e una I will survive suonata alla chitarra, s’abbracciano e saltano tutti insieme gridando in una specie di rito collettivo propiziatorio: «Non si soffre più! Non si soffre più! Non si soffre più!». In quel momento allo spettatore vengono i brividi per l’emozione, si sente anch’egli travolto da un’ondata di ottimismo stolto e vorrebbe abbracciare il suo vicino di poltrona, in preda allo stesso struggimento scomposto dei protagonisti del film. Ed ecco, ancora una volta ci sorprendono l’allegra mestizia o la malinconia gioiosa. Ancora un volta l’ovosodo che resta impigliato a metà gola non ci lascia scampo. 141 5. La prima cosa bella: un’autobiografia finta e struggente Nella primavera del 2008 a Virzì viene voglia di ricordi di giovinezza. Sfoglia allora i vecchi album di famiglia, in cui trova le fotografie di sua madre Franca alle prese col canto; e decide di tornare a Livorno. Forse è pronto per recuperare quelle radici che ha, molti anni prima, estirpato, allontanandosi da quello che lui stesso più volte ha definito un «sublime posto di merda». Diventa forte adesso il bisogno di ritrovare se stesso, la sua famiglia, le sue vie. Nasce così, da questa urgenza di riconciliazione definitiva, La prima cosa bella, girato a Livorno nel 2009 e uscito nelle sale il 15 gennaio 2010. Scrivono la sceneggiatura con lui il fedele Bruni e Francesco Piccolo, che ha già collaborato a My name is Tanino. La storia della famiglia Michelucci, raccontata nel film, mostra dunque una decisa ispirazione biografica: La famiglia Michelucci non è la mia famiglia, anche se credo di avere saccheggiato tante cose della mia vita. È un’autobiografia finta, come quella praticata dai romanzieri. Bruno è un mio alter-ego, è un eroe letterario che ha qualcosa del suo autore. Ma è un trucco7. Il film ci offre un racconto in apparenza tragico che si rivela però gioioso, struggente e pieno di sentimento: È il kolossal livornese, un film sullo struggimento della famiglia Michelucci, dove circola solo l’umanità. Allora vediamola, la storia di questa famiglia Michelucci. Bruno (Valerio Mastandrea) è un insegnante di lettere e vive a Milano, dove si è trasferito dopo aver lasciato Livorno, la sua città. È un uomo tormentato e scontroso, che ha difficoltà a esprimere i propri sentimenti, fa uso di droghe e cerca di sopravvivere ai ricordi di un’infanzia travagliata. Ciò da cui più di tutto vuole tenersi lontano è l’ingombrante madre Anna (Stefania Sandrelli), una donna esuberante e vitale, prima bellissima e adesso malata terminale, che la sorella Valeria (Claudia Pandolfi) vuole però fargli riabbracciare prima che sia tardi. Bruno intraprende dunque controvoglia un viaggio nei luoghi del passato che tanto ha detestato: ritorna a Livorno, rivede la bellezza 7 Paolo Virzì, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 163. 142 non voluta di quella giovane «Miss Mamma» (Micaela Ramazzotti) che lo metteva sempre in imbarazzo, ricorda il padre manesco che li cacciò di casa per troppa gelosia e rievoca con un dolore anche fisico l’incoscienza gioiosa di una donna che viveva sempre sorridendo. Nel film, costruito su un continuo alternarsi di presente e passato, «la luce casca su Anna» – come ha dichiarato in diverse interviste il regista –; è lei il centro vitale e luminoso di tutte le vicende. Ispirata in qualche modo alla madre di Virzì ma ricalcata soprattutto sulla figura della ragazza disponibile alla vita, lieve, svampita ma non sciocca che era l’Adriana di Io la conoscevo bene (1965), Anna Nigiotti in Michelucci si staglia con nettezza vivida sullo sfondo gretto di chi la circonda: fragile e forte della propria autenticità, è vittima della chiusura e della malizia della gente, che non comprende la sua disperata gioia di vivere. Quando alla fine, al suo capezzale, si ritrovano figli perduti o mai veramente partiti, si canta e ci si sposa, si soffre e si ride per l’ultima volta, allora prende vita di fronte a noi l’immagine del tutto sconclusionata di una felicità concreta, terrena, tangibile, che forse Bruno e Valeria credevano impossibile ma in cui Anna, invece, non ha mai smesso di credere: Il mio film è un inno alle persone fragili, più che alla famiglia. Questa giovane donna, anche bischera e svitata, ha dentro la poesia del vivere. Come diceva Tolstoj, le famiglie si somigliano, ma ogni famiglia è felice a modo suo. Così esci dal cinema e ti sembra che la vita sia tutta lì, in quei tinelli slavati dove accadono le cose, fra i vestiti stropicciati di due bambini e una donna, nelle vecchie strade scrostate di Livorno o nelle feste al mare con le lucine che dondolano. Il vento; il vento spazza tutto. Nell’aria il sale si sente e si sente la gioia, il dolore, la malinconia che ti spezza le vene da quanto è tanta, vigliacca, nascosta in uno zucchero filato, in un giro in motorino, in vecchie fotografie appese al muro o nascoste nei cassetti. In un figlio ormai uomo quando si lascia con malgarbo abbracciare dalla madre che balla. La vita è lì dove si respira forte la passione, la paura, la dolcezza, la gelosia, la disperazione di uomini e donne che si prendono e si perdono, così, a strattoni e rincorse sotto la pioggia. È la storia di esseri forti, rocce contro tempesta che però si spezzano; si sbriciolano fragili a terra, si decompongono sotto la bellezza – troppa –, sotto l’amore – troppo. Ma poi ritornano 143 sempre pietra e stanno in piedi o accucciati nella notte e non gliene importa più nulla del freddo, del male, della distanza: siamo tornati pietra, nessuno ci butta giù, noi si canta uguale, alla fine un posto si trova. E nello struggimento della musica, della carne, di Livorno che è tutta spigoli ma pare stondata sotto la luce aranciata della memoria, c’è questa donna che cammina inciampando; questa madre che intrampola ovunque, vestita di fiori e sigarette rubate, coi capelli spettinati, bagnati, a volte senza verso, che le cadono dappertutto, addosso. Ha occhi grandi, sorride ma chissà e tutti ne pigliano un po’– di lei –, se n’abbeverano perché lei è così: bella come son belli i cerbiatti, le puttane, le tovaglie bianche. Che se passano davanti non ci si può fare nulla ma vien la voglia di sventrarli, amarli, sporcarli e tenerli per sempre appiccicati al cuore, anche se un po’ vergognandosi, svicolando di nascosto lungo i muri. È tutta una catastrofe nel suo farsi, questa storia, un continuo spaccarsi di qualcosa, uno slabbrarsi di vite, di famiglie, di sentimenti. Eppure tutto si ricompone: madri, figli, fratelli, mariti, amanti. Tutto alla fine appare comprensibile, persino giusto: è l’inevitabilità del vivere grosso, quando dietro le porte non ci si piglia solo a sberle ma anche si fa l’amore, ci si ritrova, ci si sposa. Son dolci i bambini quando sembra che non capiscano e invece capiscono, sono dolci ma anche tenaglie che ti stringono lo stomaco: e lei che ride e si stupisce e ha paura ma ride sotto la frangetta piccola; e lui che invece non ride mai e ha labbra all’ingiù e occhi neri di cane da guardia, appostato dietro i muri, negli angoli, da dove la mamma appare persa, fragile, sempre più bella. E insomma alla fine esci e sei preso dalla spaventevole meraviglia del ridere quando si muore, del cantare quando si sbaglia, del ferirsi quanto più ci si ama. Vuoi bene a tutti, fuori nella notte, e avresti voglia di fare un bagno al mare, proprio come Bruno nella scena finale. Ma sì, certo, lo sai benissimo cos’è tutto questo. È il solito ovosodo. Quell’ovosodo che non va ne in su né in giù; che resta lì, a metà gola; che ti fa ridere e piangere e sentire, ancora una volta, vivo. 144 145 Claudio Mazzola Gioventù bruciata all’italiana: tra James Dean e la mamma La fine della Seconda Guerra Mondiale segnò, per la maggioranza delle nazioni europee, il ritorno alla normalità, politica se non economica, della fine degli anni trenta. Per l’Italia, invece, si trattò di voltare una pagina ben più pesante; si doveva ricominciare dagli anni venti, dagli irrisolti problemi che il paese si trascinava dall’unificazione e che il Fascismo aveva temporaneamente fatto dimenticare. Non sorprende, quindi, che qualsiasi mutamento di tipo economico o sociale che investì l’Europa post-bellica trovasse in Italia un terreno molto più complesso entro il quale manifestarsi. Ad esempio, la nuova generazione, che emerse a sostituire quella che aveva messo fine alla tragica esperienza nazi-fascista, si trovò di fronte a mutamenti economici così radicali che l’intero tessuto sociale ne avrebbe risentito. In Italia queste novità si scontrarono da un lato con una cultura prevalentemente di tipo contadino che da secoli era radicata su tutto il territorio italiano e dall’altra con il ruolo ostruzionista sia della Chiesa che della Democrazia Cristiana (soprattutto dopo la vittoria elettorale del 1948). Il cinema, la cui popolarità nel periodo post bellico era in costante ascesa, fu la forma artistica più sollecita a dare rilievo alle vicissitudini e alle traversie che caratterizzarono i primi passi dei giovani nella società degli anni ‘50. Fu il cinema americano a balzare alla ribalta di questo rinnovamento artistico; in parte perché una società come quella americana, contraddistinta da un mondo politico dinamico, dall’assenza di una rigida divisione in classi tipicamente europea e da una cultura popolare ampiamente diffusa, aveva meno problemi a dare spazio all’atteggiamemto ribelle di registi e attori. Il primo passo del cinema americano di allora fu quello di rifiutare i valori tradizionali del mondo borghese all’interno di una società capitalista già ben sta- 146 bilita, valori consolidati sul grande schermo dalle grandi commedie degli anni ‘40. Attori come Marlon Brando, Paul Newman e James Dean, i cui ruoli cinematografici spesso si confondevano con atteggiamenti anticonformisti espressi anche nella vita privata, divennero delle vere icone internazionali dell’inquietudine della loro generazione. Anche il cinema italiano sembrò abbracciare questi cambiamenti: verso la metà degli anni ’50 si registro’ una vera e propria invasione di film che avevano come protagonisti giovani teenegers italiani. Registi e produttori si accorsero che il prodotto cosidetto “giovanile” poteva rappresentare un buon investimento finanziario e cercarono in ogni modo di contrapporre ai nuovi eroi del cinema americano delle icone nostrane che segnassero uno stacco sia dal Neorealismo che dal cinema dei telefoni bianchi. I risultati, come vedremo, furono contrastanti ma comunque significativi di questa volontà di ricerca di una propria identità attraverso un ricambio rispetto al cinema precedente. Un classico esempio di questa ricerca è Riso Amaro di Giuseppe De Santis, film nel quale il regista sperimenta con vari generi cinematografici mescolando un ambiente tipicamente neorealista con un’iconografia tipica del cinema americano degli anni ’40. Indimenticabili sono le pose da vamp, stile Rita Hayward, di Silvana Mangano o le battute da duro con la pistola in mano, alla James Cagney, di Vittorio Gassman. Riso amaro rimase un esperimento abbastanza unico, ma evidenziò questa necessità di trovare nuovi volti, nuovi atteggiamenti e anche nuove modalità espressive e scatenò una vera caccia ad attori e attrici che fissassero in qualche modo delle nuove modalità di comportamento tipicamente italiane. Ragazzi dai muscoli d’acciaio in canottiere attillate (ma sempre un po’ galletti e soprattutto tanto mammoni) e ragazze libere di mettere in mostra i loro seni prorompenti (ma sempre fedeli a una concezione tradizionale del matrimonio e materne al massimo) divennero i paladini della rivoluzione culturale che avrebbe dovuto travolgere la società italiana da nord a sud. Nell’immaginario degli italiani, ormai alla soglia del capitalismo moderno, la guerra, i partigiani e il Fascismo dovevano diventare solo un lontano ricordo. Il cinema italiano apriva le porte a un’Italia diversa; niente più noiose storie di anziani pensionati senza soldi per pagare la pigione, o di padri di famiglia senza bicicletta e senza lavoro. La nuova generazione, aliena da sensi di colpa per vent’anni di dittatura Fascista, e con pochi ricordi delle ferite di guerra, stava prendendo in mano le redini del paese. Il problema più grosso rimaneva il fatto che 147 le condizioni socio-economiche dell’Italia non erano ancora mature per uno strappo così deciso e quindi, alla resa dei conti, la nuova generazione fece fatica a bruciare quello che aveva dietro di sè. Neppure la cultura, laica o cattolica che fosse, guardava con molta simpatia all’emergere della nuova generazione. Di fatto, poi, chi deteneva le leve del potere (e quindi anche la produzione cinematografica) comprese che il miglior modo di affrontare la situazione era quello di inglobare piuttosto che di combattere in modo aperto le nuove tendenze e i nuovi modelli comportamentali. Come fa notare Masolino d’ Amico1, la censura non aveva ancora impostato un proprio codice morale operativo soprattutto perché l’incertezza politica del periodo non permetteva ancora scelte precise (anche se vi fu una chiara virata a destra dopo le elezioni del 1948). Spesso la censura si limitava a salvaguardare certe istituzioni, quali la chiesa e le forze armate, ritenute, dallo Stato italiano, intoccabili. In un primo tempo vennero quindi colpiti soprattutto film d’autore, film intellettuali (cioè quelli neorealisti) mentre per il resto si cercava di trovare dei compromessi piuttosto che arrivare a un vero e proprio scontro frontale. Episodi di aperta interferenza censoria come quella che impose un prologo moralista all’inizio del film I Vinti (1952) di Michelangelo Antonioni erano piuttosto rari e si sarebbe dovuto aspettare un clima politico più aspro e opere ben più radicali (quali quelle di Bertolucci, Bellocchio e Pasolini) per vedere in azione una censura attiva di stampo chiaramente politico. D’altronde registi, ma soprattutto produttori, furono molto cauti nel non dare spazio ad argomenti che potessero incorrere nelle pur sempre imprevedibili maglie della censura. Gli ingredienti principali di quella che poi diventò una vera e propria formula magica furono il riprendere situazioni e aspetti del neorealismo (l’enfasi sulla gente comune, i loro problemi quotidiani, l’uso di un linguaggio medio-basso), mettere in ridicolo certi tabù e aspetti quasi atavici di malcostume della vita italiana (l’arte di arrangiarsi, il familismo, il gallismo, ecc.) e infine sottolineare l’inadeguatezza del costume degli italiani di fronte ai cambiamenti sociali post-bellici. Potrebbe quindi sembrare che la commedia di quel periodo prendesse l’iniziativa di mettere in un angolo e sbeffeggiare l’Italia corrotta e arraffona offrendo quello che Peter Bondanella definisce «…a dar- 1 Masolino D’Amico, La Commedia all’italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 26. 148 ker, more ironic and cynical vision of Italian life»2. In realtà, ciò che manca a questo cinema è proprio un vero atteggiamento cinico, una visione che evidenzi distacco e critica delle istituzioni corrotte. Gianni Canova sostiene che alla commedia all’italiana di quel periodo manca la grinta, il desiderio di far davvero male con le risate: […] la nostra commedia non (ha) mai saputo nè voluto frequentare una comicità feroce come quella di Groucho Marx. È un dato di fatto: da noi, nella maggior parte dei casi, la commedia non irride i potenti, li adula. […] celebra l’arte di arrangiarsi e la assolve ridendoci su3. Canova mette il dito sul problema fondamentale della commedia all’italiana, che non è tanto quello di far ridere parlando di problemi seri, ma di ridere e compiacersi della risata, di lasciare che lo spettatore anticipi la battuta senza mai avere il coraggio di sorprederlo e spiazzarlo con una svolta inaspettata nella trama o una battuta depistante del protagonista; di fatto la prevedibilità è l’aspetto più tipico della commedia. Un classico esempio di questo tipo di cinema è Pane, Amore e Fantasia (1955) il film che forse per primo (visto poi i successivi “pani, amori … e altro” che arrivarono sugli schermi negli anni seguenti) stabilì alcuni dei parametri strutturali fondamentali su cui la commedia all’italiana poi sarebbe maturata all’inizio degli anni ’60: stessi attori, stessi sceneggiatori, ma soprattutto stesse situazioni ripetute all’infinito. L’esuberante sessualità della Bersagliera (una scoppiettante Gina Lollobrigida), il comportamento impenitente da incallito Casanova del maresciallo e l’ambigua situazione familiare della levatrice – sola con figlio a carico – sono spunti tematici potenzialmente esplosivi nell’Italia degli anni ’50; ciò nonostante una sceneggiatura che privilegia l’effetto assicurato della ripetitività (si badi, non della risata) affidandosi a scenette comiche innoque, una uguale all’altra, finisce con il minimizzare ogni spunto polemico. La comicità cessa di essere una graffiante e anarchica presa in giro di un certo malcostume della vita italiana o di un argomento tabù come il sesso e, quasi impercettibilmente, propone lo status quo quale unica salvezza dal caos e dal pericolo implicito nei cambiamenti. L’ordine sociale esistente finisce sempre con il prevalere nel finale che, miracolosa2 Peter Bondanella, Italian Cinema. Continuum, New York, 1983, p. 144. 3 Gianni Canova, L’occhio che ride, Milano, Editoriale Modo, 1999, p. 5. 149 mente, riappacifica tutte le parti in causa. Sicuramente meno facile è proporre soluzioni così riassicuranti quando, oltre ai vizi e alle virtù degli italiani, si aggiungono i problemi dei giovani alla ricerca di un proprio ruolo nell’Italia della ricostruzione postbellica. Un caso esemplare è Poveri ma belli (1955) di Dino Risi, dove la contrapposizione tra gioventù in fermento e la società italiana (ancora legata a una concezione tradizionale del lavoro, della famiglia e della religione) è al centro della struttura del film. Al discorso narrativo (mise en scene, inquadrature, movimenti di macchina e montaggio), completamente costruito su brevi scenette ricche di stereotipi culturali facilmente riconoscibili, fanno riscontro dialoghi di facile consumo che contrappongono in modo alquanto superficiale il vecchio al nuovo. La sicura presa sul pubblico è anche assicurata dal rigido controllo della minima unità significante, cioè l’inquadratura, organizzata in modo da dare massima rilevanza all’aspetto comico, alla battuta finale di ogni scenetta. Al contrario di quanto succede nei film del periodo neorealista (in particolare Ladri di biciclette o Umberto D) in cui i personaggi sono spesso isolati nelle inquadrature, stimolando così una possibile identificazione tra spettatore e personaggi, nella commedia all’italiana lo spettatore resta invece escluso perché la passività è la qualità essenziale di questa comicità. Una passività incentivata anche dal fatto che i protagonisti non rivelano una specifica identità propria, una loro autonomia caratteriale, ma sono invece riconoscibili per tratti stereotipici (il marito donnaiolo, la fidanzata gelosa, la suocera guastafeste, ecc.); mascherine vuote usate e riusate senza alcuna variazione. A fare da controparte a questi protagonisti stereotipici ruota una variegata folla di personaggi chiamati solo a fare da supporto all’effetto comico senza che essi interagiscano realmente con il personaggio principale stesso che, di fatto, non deve mai nè crescere nè mutare, onde evitare di perdere la maschera comica. La folla, quindi, ha una funzione simile a quella di un coro da operetta che allo stesso tempo sostiene e, però, si fa anche bonariamente burla del personaggio principale. Esattamente l’opposto di quanto succede, per esempio, in Ladri di Biciclette e in Umberto D, in cui la folla ha la funzione di un vero e proprio personaggio che interagisce con il protagonista, innesca reazioni e presenta atteggiamenti che vanno dalla solidarietà alla minaccia, sempre comunque in qualità di attiva presenza nello sviluppo del personaggio. Nella scena finale di Ladri di biciclette, ad esempio, quando Antonio Ricci decide di rubare una 150 bicicletta nei pressi dello stadio, ai primi piani del protagonista sempre più in difficoltà nel cercare di tenere sotto controllo la situazione, vengono contrapposte inquadrature in campo medio-lungo della folla che Ricci percepisce come ostile e minacciosa. Un montaggio veloce, con alternanza di primi piani e di campi lunghi, evidenziano la tensione psicologica del momento. Ricci è combattuto tra la sua responsabilità privata di padre e quella sociale di padre-capofamiglia. Nel momento in cui Ricci ruba la bicicletta si espone – sia con il figlio che con la folla – e il suo personaggio muta, si trasforma; il furto della bicicletta segnala un cambiamento in cui pubblico e privato si aprono a una serie imprevedibile di reazioni. Nulla di imprevedibile succede invece in Poveri ma belli, dove la folla, spesso ripresa in campi medio-lunghi, che, come dicevamo, ha una funzione passiva. Le inquadrature sono affollate con una miriade di personaggi, spesso ragazzini, amici più giovani di Romolo e Salvatore, a cui questi ultimi vorrebbero fare da modello per la loro esperienza con il mondo in generale (e le donne in particolare). Il montaggio veloce dà maggior risalto al dialogo che è costruito tutto attorno alla battuta finale d’effetto, quasi sempre basata sulla riaffermazione della morale comune. La mise en scene ripropone un quadretto familiare di liti becere e fastidiose; lo spettatore si confronta con il già visto, si accoccola all’interno di pareti domestiche tra un vociare che non fa veramente paura. Nessun cambiamento è sufficientemente rischioso o inquietante da mettere lo spettatore nella posizione di riflettere sulle scelte e le opportunità di questi personaggi; la mise en scene smorza qualsiasi potenzialità innovativa lasciando che una comicità opaca e ripetitiva prenda il sopravvento. Un esempio classico è la prestanza fisica di questi giovani, simbolo, in teoria, di una forza che non può più accettare compromessi, che rifiutando l’abbigliamento tradizionale ne rifiuta anche ciò che rappresenta. La stessa potenza fisica che diventa una parte essenziale della raffigurazione del ribelle nel cinema americano, in Poveri ma belli questo aspetto viene quasi ridicolizzato. I prorompenti muscoli di Salvatore, che le attillatissime canottiere mettono in risalto in ogni inquadratura, non diventano simbolo di una nuova forza, di una visione diversa della vita borghese. Anzi, in un momento chiave del film, i muscoli di Salvatore si afflosciano allorchè il potenziale eroe diviene vittima … degli orecchioni. La cinepresa mostra impietosamente il povero Salvatore ridicolmente abbindato come un bambino con una fascia sopra le orecchie mentre a letto, 151 impotente, è attorniato da una ciurma di ragazzini petulanti che lo prende in giro. Salvatore pensa a quello che avrebbe potuto fare se fosse stato in salute; situazione tipica di questi mancati eroi che pensano sempre a quello che avrebbero potuto essere e fare ma non hanno il coraggio mettere in pratica. Sono vittime della loro stessa incapacità di opporsi in modo chiaro alle ipocrisie o le ingiustizie della società, e alla fine sperano addirittura di veder le loro doti riconosciute all’interno di quello stesso contesto socio-culturale che invece avrebbero dovuto mettere in discussione. Il loro presunto comportamento “ribelle” (se ribelle si può chiamare la non voglia di alzarsi al mattino, il rifiuto di aiutare in casa, o l’interesse per letture di tipo popolari) non rivela un atteggiamento di critica nei confronti della società; di fatto, questi giovani accettano i parametri dominanti di una società maschilista e classisista che promuove un gallismo ridicolo e un riverente rispetto per le classi più abbienti. Il tutto senza che questi giovani dimostrino una componente essenziale della ribellione: la solidarietà di gruppo. Anzi, spesso isolati e ignorati, questi giovani divengono facile preda dell’ ironia e delle burle del resto della società. Si riafferma quel concetto dello spettacolo popolare in cui “il diverso” (politicamente, sessualmente, economicamente) viene isolato e deriso, riaffermando così i valori della maggioranza. In fondo i poveri di Pane, amore e fantasia sorridevano contenti nella realtà un po’ utopistica del piccolo paese abbruzzese; felici di mangiare pane e fantasia mentre il maresciallo veniva rassicurato dalla rassegnazione delle classi più basse. Nella Roma di Risi non è cambiato molto. Non servono più i binocoli con i quali gli abitanti del paese spiavano le mosse del maresciallo perché la città si reduce a un grande palcoscenico da dove si può comunque vedere e sapere sempre tutto di tutti. Gli appartamenti dei due amici sono collocati uno di fronte all’altro e le loro camere da letto sono praticamente collegate da una ringhiera esterna da dove passano quasi tutti i personaggi principali del film. La disposizione degli appartamenti ha un che di teatrale che ricorda certe commedie goldoniane: il palcoscenico è il luogo della messa in pubblico di vizi e virtù dei due protagonisti. Qualsiasi evento di rilievo succeda sembra che si finisca per discuterlo o per commentarlo su questo palcoscenico pubblico. Per assurdo, anche gli esterni generano una certa claustrofobia in quanto Risi ha selezionato un numero limitatissimo di ambienti, facilmente riconoscibili dallo spettatore, che danno il senso 152 di un limitato spazio d’azione. Si tratta di posti rassicuranti, famigliari, che ricorrono con particolare regolarità: il Tevere nelle vicinanze di Castel Sant’Angelo e Piazza Navona. La piattaforma sul fiume (dove Salvatore lavora come bagnino) è frequentata da una torma di bagnanti e l’atmosfera che si respira, con cabine, ombrelloni e musica popolare, è quella un po’ pettegola e vacanziera, tipica delle spiagge intorno ad Ostia. Come nel caso dei loro appartamenti, da questo palcoscenico sul fiume passano un po’ tutti i protagonisti che partecipano a scenette tipiche delle avventure amorose da spiaggia dai risultati ben prevedibili. L’altro luogo che ricorre con frequenza è Piazza Navona, che però ha una funzione iconografica più complessa. La piazza rappresenta un punto di riferimento più per lo spettatore che per i personaggi stessi. È il luogo dove iniziano o si concludono molte delle scene chiave del film e serve a mettere a proprio agio lo spettatore che non viene mai a imbattersi in luoghi sconosciuti o minacciosi. Dal tipo di montaggio si ha l’impressione che i luoghi importanti del film (il negozio del padre di Giovanna, l’abitazione dei due giovani e di Giovanna stessa) si affaccino proprio su piazza Navona. In un modo o nell’altro, non appena i protagonisti sono ripresi in esterni la piazza ritorna quale motivi visivo dominante. Spesso viene ripresa in campi lunghi che permettono un facile riconoscimento delle fontane e dell’obelisco. Liti e abbracci, incontri casuali e appuntamenti vengono consumati tra la simmetria familiare di Piazza Navona dove Romolo e Salvatore restano pateticamente immersi in situazioni senza uscita, accontentandosi di recitare la loro parte senza fine. Questo uso di ambienti familiari è in netto contrasto con il cinema americano di questo periodo, che, come abbiamo già detto, mette in questione l’ambiente di casa, i valori borghesi, il perbenismo moralista al nascere della nuova realtà economica. È un cinema che lavora prima che sul costrutto narrativo, su un lavoro attento sull’inquadratura. Enrica Capusotti rileva che nei film americani degli anni cinquanta le primissime inquadrature spesso pongono lo spettatore nella condizione di affrontare una diversità spaziale con cui è difficile identificarsi. In questo caso, lo straniamento serve da vero e proprio stimolo liberatorio. È il caso di James Dean che in apertura di Gioventù Bruciata (1955), completamente ubriaco, espone tutto il suo rifiuto per la società e la sua disperata solitudine in una scena di imbarazzante violenza; stesso rifiuto, anche se non autolesionista come quello di Dean, è quello di Marlon Brando che appare fin dall’ inizio nella 153 sua iconografica prestanza fisica a bordo della sua motocicletta ne Il Selvaggio (1954). Enrica Caposutti fa notare che: … quando il gruppo di motociclisti compare sullo schermo è evidente che nulla potrà contrastare il fascino suscitato dai bikers che, cavalcando fiammanti motociclette e indossando blue jeans, giubbotti, guanti e cappelli di pelle, sono il simbolo del piacere della rivolta4. L’iconica immagine di Marlon Brando, pronto a percorrere lunghe strade senza una chiara destinazione, stimola l’immaginario degli spettatori, pronti a sognare di prendere rischi al di fuori dalla realtà conosciuta; il cinema italiano, invece, si insabbia, si arena tra immagini che negano l’apertura verso spazi diversi e la narrazione presenta scontri tra il nuovo e il vecchio che finiscono in burla perché non esiste neppure lontanamente un’ipotesi lontana di alternativa al tradizionale mondo del lavoro e della famiglia. In fondo, Romolo e Salvatore si accontentano di correre dietro a qualsiasi sottana gli passi vicino ed evitare qualsiasi fatica senza mai credere in qualcosa o qualcuno. Sor Alvaro, il tranviere di mezza età che affitta il letto di Salvatore durante il giorno, si scontra ogni mattina con Romolo che non vuole alzarsi perché non vuole andare al lavoro. Appena alzato, Salvatore pensa solo alle donne e a farsi bello. Di fronte all’esausto Alvaro, (simbolo dell’onesto lavoratore tradizionale che non ha grilli per la testa) Salvatore decanta le qualità della brillantina “Fiori d’Arabia”, che, come lui sostiene ripetendo uno slogan pubblicitario, «…vi assicura il successo nella vita»; poi prosegue nella sua “cavalcata rivoluzionaria” sostenendo, anche se in modo peraltro goffo e poco convincente, tutto il suo interesse per “Cittadini dello spazio” il romanzo di fantascienza che sta leggendo e commenta dicendo: «Aho, sò forti ‘sti libri di fantascenza». Battuta infelice perché suona completamente falsa in bocca di Salvatore il quale, dopotutto, ha come ambizione principale quella di fare una vita tranquilla e, come dice lui stesso: «… senza pensieri e con un sacco de soldi». Il film sembra non decidersi se fare di Romolo e Salvatore dei giovani con qualche ambizione per cercare di uscire dal loro ghetto culturale oppure se siano solo dei sempliciotti di borgata da prendere in giro. Certo è che i due eroi passano da una pessima figura all’altra; sembrano grandi playboy, 4 Enrica Caposutti, Gioventù Bruciata, Firenze, Giunti Editori, 2004, p.126. 154 uomini di mondo avvezzi alla vita mondana ma in realtà non sanno nulla del mondo che li circonda, di come vivere in società e diventano facili vittime di chiunque incontrino. Sono ridicolizzati da Giovanna durante il loro primo incontro quando entrano nel negozio del padre di lei e, in assenza del padre, credono di poter sedurre facilmente la ragazza. Quest’ultima sta al gioco e propone a entrambi di provarsi dei pantaloni, e mentre i due si ritirano nel camerino già fantasticando un possibile menage à trois e si autocongratulano per la facile conquista, Giovanna li ridicolizza davanti ai loro stessi amici aprendo il lato del camerino che dà sulla strada mettendo in mostra i due galletti in mutande pronti a un alquanto improbabile avventura galante. Durante questa sequenza Salvatore fa una battuta che descrive benissimo il bonario squallore in cui sguazzano i due aspiranti casanova. Di fronte a quella che loro credono un’imminente avventura sessuale, Salvatore dichiara di essere dispiaciuto di non essersi cambiato le mutande quella mattina. Dopo una battuta del genere è chiaro come i due giovani siano in balia dell’intelligenza di Giovanna, la quale per quasi tutto il film si dimostra una donna moderna, intraprendente e libera di fare le proprie scelte. Eppure il personaggio femminile mostra una incongruenza che risulta piuttosto sorprendente e anche rivelatrice della morale che sta dietro molte delle commedia all’italiana. Giovanna domina con scaltrezza il rapporto con Salvatore e Romolo, mette in mostra una capacità oratoria che intimidisce i due uomini e quando vuole sa anche prendersi gioco di loro; nel frattempo controlla senza troppi problemi il suo ex-fidanzato, dimostrando di sapere molto bene quello che vuole dagli altri. A questa determinazione, però, seguono un paio di momenti in cui Giovanna dichiara con sorprendente disperazione il proprio amore sia per Romolo che per Salvatore, sottomettendo così la sua intelligenza a quella non molto brillante dei due ragazzotti. Atteggiamento inspiegabile non tanto perché Giovanna sia pronta a seguire il proprio cuore quanto piuttosto perché narrativamente risulta una scelta poco credibile. Si ripresenta qui la situazione già vista in Pane, amore e fantasia per cui, ai problemi contingenti si può porre rimedio con un pò di fiducia nella dea dell’amore e nella buona volontà degli uomini. La sintesi di tutto è nelle parole di Salvatore che, descrivendo il suo particolare stato euforico dovuto all’infatuazione per Giovanna – mentre dal suo balcone guarda le stelle – rivela a Romolo che quando sei innamorato: «ti senti il cuore pizzicare come l’acqua minerale» e aggiunge lapidario: «…facciamo 155 i bulli, le donne le prendi di petto e poi il cuore si innamora pure a noi». E così finisce la ribellione dei poveri di Dino Risi a cui non resta che contare sulla propria bellezza per migliorare la loro condizione e quella dell’Italia, proprio come ai poveri affamati di Comencini non restava che mangiare il pane con la fantasia per poter sopravvivere. Questo buonismo mescolato a una certa dose di paternalismo nei confronti delle classi più basse, facendo inoltre ricorso a stereotipi che consolidavano ulteriormente pregiudizi e paure, sono ingredienti spesso presenti nella Commedia all’Italiana tra il 1955 e la fine degli anni ’60. Se fosse un atteggiamento reazionario o qualunquista oggi poco importa, rimane il fatto che si fondava su un bozzettismo superficiale che finiva con l’imporre una morale finale sconcertante in cui o si trova rifugio all’interno dell’establishment pre-esistente (la Chiesa, la famiglia, il lavoro sicuro) o si finisce male (si rischia di diventare prostitute o ladri). In questa contrapposizione di valori, la città, corrotta dalla modernità, è contrapposta al piccolo paese, dove i valori tradizionali sono gelosamente custoditi. Che la maggioranza di questi film fosse girata in ambienti urbani lo si deve soprattutto alla necessità di sfruttare l’aspetto comico derivato dallo scontro tra il vecchio e il nuovo (presente in modo ovvio nelle grandi città); la morale dominante tendeva a sottolineare come si finisce male se ci si lascia corrompere dalle nuove idee; di fatto si ridicolizza il futuro e si sorride bonariamente al passato, illudendosi e illudendo che il resto d’Italia vivesse ancora nell’idilliaco mondo del piccolo paese di Pane, amore e fantasia dove non ci sono problemi e il peggior nemico è il terremoto e non tanto la modernità. Bisogna aspettare Fellini per veder esposte le ipocrisie e le angosce della provincia di quegli anni vengono. Nonostante con I vitelloni (1954) lo stile di Fellini si stesse già evolvendo, allontanandosi sempre di più da trascrizioni realistiche, lo squallore della vita in provincia è colta con inusitata precisione. All’utopistica rappresentazione di Comencini, Fellini contrappone un’abulia esistenziale di stampo moderno che avvicina la provincia dei giovani alla grande città. Fatti i dovuti assestamenti socio-culturali, si scopre che il gruppo che passa le giornate a guardare il mare e a immaginare avventure in luoghi impossibili con donne altrettanto impossibili non è molto diverso da quello che sognano Romolo e Salvatore. Unica differenza tangibile è la presenza tra i giovani della provincia di un’illusione che la realtà urbana ha già tradito. I vitelloni sperano ancora che vi sia una realtà meno claustrofobica di quella che ognuno di loro vive nel loro pic- 156 colo paese: Alberto sogna una Roma luculliana con fiumi di alcool, Leopoldo sogna l’Africa di Hemingway e Moraldo, il più giovane, accarezza costantemente l’idea di partire, anche se non sa esattamente per dove. I cinque amici sono legati da una comune avversione verso l’ambiente provinciale che contestano attraverso l’irrisione e la burla contro tutto e tutti. Per alcuni di loro è chiaramente un atteggiamento passeggero, mentre per altri è una crisi profonda che si potrarrà nel tempo. Questa differenza all’interno del gruppo è messa in evidenza dalla voce fuori campo, che, pur presentandosi con un “noi” che ne indica l’appartenenza al gruppo, usa un tono ironico verso gli amici che mette in rilievo la discrepanza che esiste tra quello che i cinque amici sono e quello che vorrebbero essere. Nella prima sequenza del film, la voce fuori campo presenta a uno a uno i cinque giovani, e pare alquanto ironico che colui che viene indicato come il loro capo spirituale, cioè Fausto, venga sorpreso dalla cinepresa proprio mentre tenta di sedurre una ragazzina con la fidanzata lo aspetta poco lontano. Fausto affronta ogni situazione imbarazzante con assoluta sfacciataggine, come quando scopre che la sua fidanzata è incinta e non solo decide di scappare, ma propone addirittura a Moraldo, fratello della fidanzata, di scappare con lui. La stessa mancanza di pudore la mostra Alberto, capace di fare del moralismo verso la sorella che lavora e reclama la sua indipendenza, mentre lui non esita a chiederle continuamente soldi per scommettere ai cavalli. Alberto si erge a paladino dei valori della morale comune investendosi del poco probabile ruolo di capo famiglia, ricorrendo a un’autorità che la società gli attribuisce quasi per diritto, in quanto maschio, ma che non ha nessuna qualità per meritarsela. Alberto teme il giudizio della società e degli amici che, nonostante sembrino così aperti, sono ancora legati a una morale comune che riprende posizioni chiuse e bigotte. Fausto e Alberto sono un altro Romolo e un altro Salvatore; il loro andare controcorrente è più che altro un atteggiamento passeggero, non è difficile prevedere che abbandonati dalla gioventù, i due ripiegheranno su se stessi a ricalcare le orme di quanti li hanno preceduti, negli stessi luoghi e nelle stesse situazioni. Il tempo trascorre ciclicamente e nulla cambia; le ore, i giorni e le stagioni si susseguono senza scosse di alcun tipo: la fine di una tipica giornata in provincia viene annunciata con tono ironico e monocorde dalla voce fuori campo. Al momento del loro ritorno a casa dopo un’altra giornata sprecata nel nulla, i cinque amici si ritrovano a fronteggiare i soliti problemi di genitori che si 157 lamentano per orari non rispettati e per responsabilità evitate. Mentre tutti mestamente si coricano nei loro lettucci di casa accompagnati dalle voci di madri e zie, Moraldo, il più giovane, il più onestamente disinamorato della realtà provinciale, si aggira senza meta per le strade vuote della cittadina. Quasi guidato inconsciamente dal desiderio di viaggiare, si reca nei pressi della stazione dove sogna di partire per Roma. Sono le tre e mezza del mattino e Moraldo si sorprende di vedere un ragazzino ancora in piedi a quell’ora vicino alla stazione. Con sua grande sorpresa però, il ragazzino gli rivela che sta andando a lavorare alla stazione. L’equivoco non fa altro che rafforzare in Moraldo i dubbi sulle scelte possibili a disposizione dei giovani in una piccola cittadina come la loro. La domanda che rivolge al ragazzo, sul sentirsi o meno felice, rivela il tormentato stato di Moraldo che in realtà la domanda la fa più a sè stesso che non al ragazzino. Moraldo ha intuito che deve uscire dal circolo vizioso in cui tutto il gruppo è chiuso; d’altro canto, però, si sente ancora legato a quell’ambiente; per certi versi è intrappolato tra il machismo di Fausto e il mammismo di Alberto. Le vie d’uscita sono poche e difficili da perseguire; Moraldo finisce con l’accettare certe situazioni imbarazzanti per non dispiacere agli altri: si limita quindi ad osservare passivamente Fausto tradire sua sorella Sandra con qualsiasi donna gli passi davanti, accetta di partecipare a uno stupido furto organizzato da Fausto per ripicca nei confronti del padrone che l’ha licenziato e infine aiuta Alberto a tornare a casa dopo la colossale sbronza di Carnevale nonostante la sua fidanzata lo stia aspettando. Proprio il Carnevale è un evento particolare perché è un momento di festa caratterizzato dall’assenza di qualsiasi regola, la normalità viene messa da parte e tutto diventa possibile e i cinque vitelloni si ritrovano sul loro terreno favorito, quello della burla, del gioco senza regole. Questo stato euforico però non dura, è temporaneo, ma questo loro non lo vogliono sapere. Quando tutto finisce, non sono in grado di affrontare la realtà quotidiana che ha ripreso il sopravvento; a questo punto le due personalità più deboli del gruppo crollano. Alberto si trascina ubriaco nella grigia luce mattutina inveendo contro tutto e tutti, incapace di darsi pace all’idea che le regole siano tornate a dominare il loro comportamento e che la sorella abbia finalmente deciso di andarsene di casa; mentre Fausto da parte sua, non se ne accorge neppure della fine del Carnevale e confonde l’atteggiamento giocoso della moglie del principale durante la festa per un’improbabile disponibilità sessuale. Quando 158 il giorno successivo Fausto azzarda ad abbracciarla, viene respinto con forza, ed è la donna stessa a ricordargli che il carnevale è finito. Ritratti negli ambienti domestici, i vitelloni si scontrano costantemente con le regole imposte dall’autorità a rispetto dei valori tradizionali. Simbolicamente quando sono ripresi in esterno i cinque amici sono costantemente isolati dalla comunità. Campi lunghi ce li mostrano passeggiare per deserte spiagge invernali o per le vuote strade notturne della loro città. Il gruppo è estraniato dal proprio ambiente e i cinque si trovano a loro agio lontano dai luoghi consacrati alle attività quotidiane del paese. Vivono il loro paese in luoghi e in momenti in cui gli altri non ci sono. Ognuno di loro ha un sentore che si potrebbe definire epidermico, quasi animale, del proprio stato, ma non sa comprenderlo razionalmente, per questo nessuno trova il coraggio di tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla famiglia e al paese e alla fine tutti, tranne Moraldo, ripiegheranno su se stessi. Il quartiere popolare di Roma o la piccola città di provincia sono il teatro di una battaglia che i giovani combattono contro la mancanza di opportunità, contro una moralità chiusa e becera e una sessualità concepita ancora come imposizione di un’anacronistica predominanza maschile. Solo Moraldo, alla fine del film, ha il coraggio di prendere il treno ed andarsene lontano anche se poi il viaggio verso la città non porta a immediati cambiamenti sostanziali. Ne La dolce vita, Marcello (il Moraldo de I vitelloni) si dibatte nella grande città con gli stessi problemi di insoddisfazione esistenziale di prima. Marcello è insoddisfatto del suo lavoro (per aver successo deve fare del giornalismo di bassa lega), della sua fidanzata (che già lo tratta come se lei fosse sua mamma) e dei rapporti superficiali con gli amici. Quando il padre arriva improvvisamente a Roma dalla cittadina di provincia (la Rimini di Moraldo) porta con sè ancora la mistificazione sulla vita in città che avevano i vitelloni. Il padre si entusiasma davanti al caos, alla vitalità, alla mondanità di Roma e di Via Veneto. È sintomatico che Fellini ricrei una Via Veneto in studio quasi ad indicare che per trovare una Via Veneto che potesse tener testa alle illusioni del padre, fosse necessario inventarla: quella vera era molto meno interessante di quella che il padre si immaginava. La gioventù degli anni cinquanta, che spesso nel cinema americano andava incontro a una fine tragica, quasi a sottolineare la necessità di un sacrificio per raggiungere gli scopi prefissi, nel cinema italiano fa fatica a staccarsi da casa, a liberarsi dai tentacoli della famiglia 159 e il finale, per certi versi quasi incestuoso di Poveri ma belli, dove i due amici si scambiano le sorelle, lo sottolinea in modo piuttosto chiaro. Non è un caso che, mentre il cinema americano stabiliva con sicurezza delle immagini simbolo, dei personaggi di opposizione, una frontiera da superare, il cinema italiano eleggeva a simbolo della sua generazione il gestaccio ribelle che Alberto ne I Vitelloni fa a dei lavoratori lungo il ciglio di una strada mentre lui e i suoi amici sfaccendati passano in macchina. Come dice Maurizio De Benedictis: Nel gesto-suono della pernacchia…, che in un punto Sordi rivolge a degli operai, traspare un’ancestrale provocazione: un mandare al diavolo non solo quelli – “lavoratori della mazza” – ma tutti quanti, compreso il pubblico e anche chi lo compie5. Alla gioventù italiana di quegli anni non restava che dibattersi tra la vaga speranza che ci fosse un altrove non ben identificato e utopistico dove le cose potessero andare meglio e il rifiuto un pò anarchico e sterile come quello di Alberto. È significativo che quell’immagine di Alberto entrò nell’iconografia del cinema italiano, simbolo di una ribellione (mancata), del coraggio che svanisce di fronte alla prima difficoltà, della totale mancanza di coerenza ideologica. Alberto, abbindato con una sciarpa sulla testa che non lo rende certo guerriero della nuova gioventu’, non appena raggiunto dagli operai a cui aveva fatto il gesto, cerca mille scuse per evitare lo scontro: è l’immagine più rappresentativa della cultura italiana di quel periodo. Filmografia essenziale La dolce vita, Federico Fellini, 1959. Pane, Amore e fantasia, Luigi Comencini, 1955. Poveri ma belli, Dino Risi, 1955. Rebel without a cause (Gioventù bruciata), Nicholas Ray,1955. Riso Amaro, Giuseppe De Santis, 1947. I vitelloni, Federico Fellini, 1953. I vinti, Michelangelo Antonioni, 1952. The wild one (Il Selvaggio), Laslo Benedek, 1953. 5 Maurizio De Benedictis, Da Paisà a Salò e oltre: parabole del grande cinema italiano. Avagliano Editore, Roma, 2010, p. 175. 160 161 parte terza Tra il vecchio e il nuovo 162 163 Gian Piero Brunetta Cinema nel limbo: la storia del Sergente nella neve di Olmi e Rigoni Stern La storia del cinema è fatta anche di progetti non realizzati, di investimenti di tempo, denaro ed energie, che, in una misura ancora non quantificata e valutata, vengono dispersi senza lasciare tracce. Bisognerà, prima o poi, decidersi a dedicare l’attenzione che si meritano ai progetti che hanno avuto una gestazione importante per uno sceneggiatore, un regista, un produttore e che, per una serie di motivi, non sono mai giunti mai a vedere la luce. Vi sono film di cui è impedito lo sviluppo già allo stato embrionale, opere interrotte in fase avanzata di riprese (è il caso di Que Viva Mexico! di Ejzenstejn) e film che non hanno avuto mai il battesimo della sala, anche se sono stati completati in tutte le loro parti. Le storie di queste opere, che mi piace chiamare ombelicali, perché fortemente legate al mondo di chi le ha concepite, o limbiche perché si situano in una zona neutra, prenatale, sono storie in cui giocano molti fattori e molti vincoli e condizionamenti, economici, politici, produttivi, censori. Un ruolo importante lo hanno giocato anche spesso le leggi del caso o del caos. Nell’opera di tutti i registi, ma anche nella storia dei grandi produttori, la storia dei film non realizzati ha un peso tutt’altro che irrilevante per capire quella delle opere realizzate il percorso creativo e la poetica di un autore e le relazioni tra la storia del cinema e il contesto storico politico e culturale più generale. Pensiamo solo al blocco dei soggetti e sceneggiature di film d’argomento resistenziale o bellico da parte del governo agli inizi degli anni cinquanta e alle varie forme di censura preventiva messe in atto per impedire la realizzazione di argomenti scomodi o considerati pericolosi. Il regista Aldo Vergano non può realizzare un film sui fratelli Cervi, né uno sull’attentato Zaniboni a Mussolini. Fuga da Lipari, scritto da Salvatore Laurani e Luigi Marchi e che parla della fuga di Emilio Lussu, Fausto Nitti e dei fratelli Rosselli 164 dal confino dell’isola siciliana e della loro lotta antifascista, non trova produttori interessati. Tanto meno Il delitto sull’auto, ricostruzione del delitto Matteotti fatta da Umberto Barbaro, Antonio Pietrangeli e Lucio Battistrada. Il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire adattato per lo schermo da Massimo Mida e Gianni Corbi rimane nel cassetto. Al soggetto dedicato alla strage di Cefalonia si interessano in molti e poi, come racconta uno degli autori, Massimo Mida «la censura americana pose il suo veto». Le soldatesse, scritto nei primi anni cinquanta da Ugo Pirro, per ricordare le imprese più erotiche e sessuali che militari dei soldati italiani nella campagna di Grecia vedrà la luce solo quindici anni dopo grazie a Valerio Zurlini… La vicenda che intendo raccontare riguarda la sceneggiatura per un film tratto dal Sergente nella neve da parte di Ermanno Olmi, che prende vita già nel 1959, l’anno del suo esordio nel lungometraggio con Il tempo si è fermato. Benché non realizzato e a dispetto dell’ostinazione del regista nel cercar di trovare, lungo quasi un quindicennio, le condizioni per farlo decollare, Il sergente nella neve rimane come un passaggio importante, decisivo, nel romanzo di formazione artistico e umano di Olmi.Il sergente nella neveIl sergente nella neve, come l’abbiamo conosciuto e letto nell’edizione dei Gettoni vittoriniani è la quarta stesura di un racconto nato in forma di note di diario durante la prigionia in Germania nel 1943. Come vedremo dai documenti già all’indomani dell’uscita della prima edizione Rigoni riceve alcune proposte di portare il racconto sullo schermo. Ma si tratta per lo più di proposte che cadono dopo i primi scambi di corrispondenza. Con Olmi le cose vanno da subito in maniera diversa e la diffidenza iniziale dello scrittore lascia presto il posto alla fiducia e all’amicizia che si consoliderà in poco tempo. È stato lo sceneggiatore e regista Ernesto Guida a far leggere nel 1959 al giovane regista il libro di Rigoni Stern ed Olmi ha voluto conoscerne l’autore, ne ha acquistato i diritti con un’opzione anticipando la somma di 3.200.000 milioni di lire. Ecco come Rigoni ha ricostruito per il catalogo di una mostra rievocativa del circolo culturale di Padova “Il Pozzetto”, dove era andato con Olmi nel 1960 a presentare il progetto l’incontro con il regista: «Al principio del 1959 delle Case cinematografiche romane cointeressate nella produzione USA, o magari solamente prestanome di queste, avevano avanzato delle proposte per avere i diritti cinematografici del Sergente, ma contemporaneamente lo fece anche Olmi che allora 165 era un regista sconosciuto. Olmi, correndo sul tempo,venne a farmi vedere un suo documentario e pensando a quello che gli americani avrebbero realizzato (alpini/marines o alpini/cowboys) telegrafai al mio editore dicendogli che se dipendeva da me, optavo per Olmi. E l’Editore fu d’accordo». Olmi avanza la proposta per conto di una neonata casa di produzione genovese, la Società Golden Star of Italy, fatta nascere per iniziativa di padre Angelo Arpa, un gesuita appassionato di cinema, che in quegli anni si è fatto conoscere per la difesa appassionata della Dolce vita di Fellini. La Golden Star of Italy aveva prodotto, come primo film, Era notte a Roma di Roberto Rossellini. Con esiti catastrofici al botteghino, che la porteranno al fallimento nel 1961. Dopo aver lanciato vari ultimatum per poter iniziare le riprese entro una certa data sembrerà chiaro ad Olmi che per tener in vita il progetto bisogna esplorare altre strade. Il regista – forse anche grazie alla quasi decennale attività di documentarista per conto della Montedison, che lo aveva portato a collaborare con Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich – ha sempre creduto possibile riuscire a produrre i film lontano dagli studi di Cinecittà, anche se per la produzione di questo film le sirene romane hanno esercitato un richiamo forte per diverso tempo. E anche la nascita di questo progetto è coerente con la sua visione di una via italiana alla produzione alternativa a quella romanocentrica. Nonostante le ammirevoli capacità di riuscire a realizzare film con budget ad economia francescana Il sergente nella neve, soprattutto nella seconda parte, che richiedeva grande spiegamento di mezzi militari e imponenti scene di massa, avrebbe comunque avuto bisogno di un impegno economico piuttosto consistente (erano previste oltre diecimila comparse nel primo piano di produzione) e sicuramente al di là della portata reale dei mezzi messi a disposizione dalla Golden Star of Italy. Mezzi che, come si è detto, svaniscono presto spingendo Olmi a rivolgersi ad altri produttori: Dino De Laurentiis in prima battuta e poi grazie all’entusiastica mediazione di Valerio Zurlini, a Gustavo Lombardo della Titanus. La sceneggiatura per il film sulla guerra di Russia, che avrebbe dovuto costituire il secondo o il terzo lungometraggio della filmografia olmiana, rimarrà nel cassetto, oltre che per il fallimento della casa genovese, per una serie di problemi che Olmi si troverà ad affrontare negli anni successivi, anche se proprio quegli elementi di verità 166 assoluta e bilancio dei valori umani di fronte alla morte, dichiarati quasi in forma di manifesto poetico in una delle sue prime interviste sul progetto del film, resteranno come un punto di riferimento e ricchezza patrimoniale acquisita grazie a questo passaggio attraverso la memorialistica di guerra. Passaggio che tornerà utile nei successivi documentari sulla resistenza realizzati negli anni settanta con Corrado Stajano e raggiungerà una diversa e del tutto olmiana forma cinematografica quarant’anni dopo nel Mestiere delle armi. Anche se non realizzato il progetto – che verrà abbandonato per sempre da Olmi solo nel 1974, dopo una serie molto lunga di tentativi andati a vuoto di realizzarlo in un paese dell’Est, se non nella stessa Unione Sovietica – oltre che del tutto compatibile con la poetica del giovane autore del Tempo si è fermato e de Il posto e con la sua pressoché unica capacità di rappresentare la gente di montagna senza stereotipi o deformazioni e la loro metamorfosi antropologica alle soglie dell’industrializzazione, ci appare oggi come incontro “necessario” nel processo di formazione e di visione del mondo di Olmi. Olmi troverà modo di realizzare qualche anno dopo per la Rai, assieme a Rigoni Stern, che scriverà un soggetto per la televisione e il cinema e a Tullio Kezich, I recuperanti, ambientato nell’Altopiano di Asiago, con personaggi che vivono recuperando residui di materiali della prima guerra mondiale e sembrano i fratelli o i compaesani degli alpini del film sulla ritirata di Russia. Ho scelto di ricostruire questa storia in forma cronachistica, lasciando parlare i documenti e gli stessi protagonisti cercando di muovermi con rispetto e partecipazione lungo un percorso tormentato, fatto di entusiasmi e speranze, di lunghe anticamere e di brucianti delusioni, che però ha il merito di consolidare poco alla volta un’amicizia, un rapporto umano e un vero e proprio processo di avvicinamento creativo tra il giovane regista e Rigoni. Per la verità, come risulta anche dal ricordo di Rigoni, la prima proposta di riduzione cinematografica del Sergente risale già alla metà degli anni cinquanta, precedendo dunque di quasi cinque anni quella della Golden Star of Italy. Eccone la cronistoria come si ricostruisce grazie ai documenti e ai ricordi dei protagonisti: il 7 febbraio 1955 riceve una lettera da parte di Mario Pietrucci, a nome della Compagnia Generale Cinematografica di Bologna: «Ho parlato con i miei amici produttori di Roma ed 167 ho incontrato una favorevole occasione per produrre il film Il sergente della neve. Sono anche loro reduci dalla sacca e vedono la cosa fattibile e realizzabile. È necessario che lei s’impegni con me per la esclusività del soggetto. Mi faccia una proposta. Io ho già parlato per una partecipazione agli utili in modo che il SERGENTMAGJU’ non sia preso per il collo da nessuno». La casa Editrice Einaudi, a cui lo scrittore si rivolge subito, gli risponde a stretto giro di posta il 12 febbraio consigliandolo di rispondere «che le trattative per l’acquisto dei diritti cinematografici devono essere svolte con noi». Passano dieci giorni e Mario Pietrucci scrive in una seconda lettera: «Mi sono battuto e mi sto battendo per fare il film con un produttore serio che capisca l’importanza della cosa. Penso di essere prossimo al traguardo. È necessario però che lei si svincoli dalla Ditta Einaudi e mi mandi subito un’opzione per trattare con le carte in regola… ». Passano pochi mesi e in questa fase di incertezza Rigoni decide di chiedere aiuto al suo mentore Vittorini in cui ha piena fiducia e gli chiede di fissargli un appuntamento con una lettera del 24 luglio: «Caro Vittorini avrei bisogno di trovarmi con lei per avere un consiglio su certe proposte che mi sono state fatte. Si tratta di una probabile riduzione del Sergente e data la mia incompetenza al riguardo non saprei a chi rivolgermi. Molto probabilmente in questo periodo lei si troverà in vacanza e allora le sarei grato se volesse indicarmi il giorno e il periodo in cui potrò trovarla a Milano». Il progetto con Pietrucci sembra fermarsi qui, mentre quattro anni dopo, nel giro di pochi mesi, vengono avanzate non una, ma ben tre proposte di acquisto dei diritti per la riduzione cinematografica. «Sono un giovane regista avrei intenzione di realizzare un film dal suo libro, Il sergente nella neve. – Gli scrive ai primi di dicembre 1959 Santi Colonna – Le sarei quindi grato se mi volesse concedere un’opzione per un anno». Entro tale periodo, se il progetto andasse in porto, il giovane si impegna a versare allo scrittore 500.000 e ad assumerlo per la sceneggiatura. «Nel malaugurato caso – aggiunge – invece che non riuscissi a realizzare il film Ella resterebbe libero di poter cedere a chi vuole i diritti cinematografici del Suo libro». Rigoni gira anche questa lettera alla casa Editrice e anche questa proposta non procede oltre. La seconda proposta viene da Ernesto Guida, aspirante all’esordio registico, ma con un’ultraquindicennale esperienza di aiuto regista, 168 soggettista e sceneggiatore. che scrive nel luglio del 1959 all’Einaudi perché lo mettano in contatto con lo scrittore e poi così contatta lo scrittore: Caro signor Rigoni sono interessato al suo libro Il sergente nella neve in relazione a una possibile riduzione cinematografica. Desidererei quindi discuterne con lei qualora, come credo, ella sia ancora titolare dei diritti in questo campo. Non sono un produttore, bensì un giovane regista. Sarei veramente lieto ed onorato se la mia prima fatica potesse essere Il sergente nella neve. Rigoni si dichiara subito disposto ad incontrarlo, sempre ricordando che il vero interlocutore è la casa editrice. Olmi appare dunque in seconda battuta, ma subito diventa il vero interlocutore, lasciando a Guida un ruolo tuttora difficile da mettere a fuoco con esattezza, anche se il suo nome figura nella prima versione della sceneggiatura. Un anno dopo la richiesta viene dalla Romor Film di Milano per mano di un suo amministratore, l’avv. Alberto Mortara, che in data 3 agosto 1960, chiede a Rigoni se il suo libro sia «tuttora libero da impegni», o, nel caso, se è possibile rilevarne i diritti. La risposta immediata informa che al momento i diritti sono già venduti. In effetti già il 26 novembre con un telegramma della casa editrice «Ricevuto proposta riduzione cinematografica Sergente tre milioni meno commissione agenzia… preghioamovi telefonarci suo benestare stop condizioni sembraci buone et casa cinematografica idem cordialità Einaudi». Il 12 dicembre, grazie all’intervento dell’Agenzia Letteraria Internazionale di Erich Linder, che ha controllato tutte le clausole nell’interesse dello scrittore e della casa editrice, ha chiarito i dubbi sollevati dall’autore e provveduto a riscuotere l’anticipo, Rigoni è entrato con molta circospezione e non pochi sospetti nella nuova avventura, ma ha firmato un primo contratto con una controparte costituita da Ermanno Olmi e Giuseppe Tortorella per conto «di una ditta da nominarsi entro il 31 dicembre 1960». La clausola 2 del contratto stabilisce che «qualora il primo giro di manovella non fosse stato dato entro il 31 marzo 1960 il presente contratto si intenderà decaduto a tutti gli effetti e la somma acquisita resterà al cedente a titolo di risarcimento danni per la mancata rea- 169 lizzazione della pellicola entro il termine concordato… ». La stessa clausola prevede però la possibilità di prorogare il contratto con un accordo tra le parti. Il contratto verrà perfezionato con la Golden Star of Italy, amministrata da Giovanni Romanengo e rappresentata per delega da Gianni Amico nella medesima forma e con le stesse clausole. Il 23 marzo dello stesso anno è lo stesso Rigoni a informare il suo agente letterario che per il ritardo nell’elaborazione della sceneggiatura è necessario differire la data d’inizio delle riprese: «… la stesura della sceneggiatura non è del tutto soddisfacente alle esigenze artistiche dell’opera che s’intende fare. Pertanto dato che un affrettato inizio nuocerebbe indubbiamente sul valore della realizzazione credo sia necessario rimandare ad altra data l’inizio del primo giro di manovella». Il progetto ha ormai preso così corpo nella testa del regista e dell’autore che insieme a Manlio Dazzi, Federico Comandini, Giorgio Moscon e Giancarlo Fusco, vanno a presentarlo a Padova al Circolo del Pozzetto in data 12 marzo 1960 in una tavola rotonda intitolata Il sergente nella neve… e il cinema. Dibattito sul soggetto cinematografico tratto dal libro di Rigoni Stern. «Davanti ad una sala gremita da uno scelto uditorio – racconta la cronaca anonima del Gazzettino di Venezia del 13 marzo – l’uomo del cinema ha detto di aver scelto Il sergente nella neve quale sua prossima fatica cinematografica, perché è innamorato della storia che si narra nel romanzo e anche perché la natura dei personaggi è rimasta intatta. È seguita la parola di Mario Rigoni Stern, il quale ha appoggiato il giovane regista nelle sue idee dicendo che esse rispondono effettivamente alle esigenze del libro da lui steso». Quella sera, oltre ai relatori previsti «parlarono – ricorderà Rigoni nella testimonianza per il catalogo sulla storia del Pozzetto – Olmi, Comisso, Manlio Dazzi, Tono Zancanaro, Cesare Cases, Giancarlo Fusco e certamente Ettore Luccini che pacatamente dirigeva il dibattito… La sera fu particolarmente animata. Non so ma credo che una tale atmosfera sia oggi irripetibile». Nel corso dell’anno la Golden Star fallisce e lo scrittore invia una prima raccomandata al curatore fallimentare chiedendo di tornare in possesso dei diritti sulla base dell’art. 2 del contratto. La risposta di Attilio Rossi, revisore dei conti, rivela che alcuni documenti sono andati perduti presso la casa produttrice che 170 secondo alcune testimonianze dei dirigenti della società i contratti erano due e che il secondo, firmato da Gianni Amico per delega, non prevedeva l’impegno a realizzare un film, ma solo ad acquisire i diritti sull’opera per un’eventuale riduzione cinematografica. Rigoni risponde con una raccomandata molto circostanziata il 3 del mese successivo in cui riafferma la validità del primo contratto e la cessione dei diritti di riduzione cinematografica con la clausola limitatoria dell’art. 2. A dieci mesi di distanza dal contratto e di fronte a questa nuova situazione l’avvocato Alberto Soffientini, amico di Olmi, risponde a una lettera di Rigoni datata 30 gennaio 1961 consigliandogli di dar mandato all’avvocato Werner di Milano di iinviare un ultimatum alla Golden Star, scaduto il quale lo scrittore potrebbe rientrare in possesso dei diritti del libro e cederli ad altri produttore d’accordo col regista: «Ormai è passato quasi un anno dal termine stabilito nel contratto ed anche con la proroga concessa, se il film si vuol fare entro il 1961, il produttore dovrebbe muoversi immediatamente, se no ci troveremo nell’impasse dell’anno scorso…». Il I febbraio Rigoni scrive all’avvocato Werner; «La prego di voler intervenire, nel mio interesse e in armonia con gli interessi dell’amico Ermanno Olmi presso la società Golden Star, per ottenere che essa dia corso, senza ulteriore indugio, all’esecuzione del film Il sergente nella neve, o, in difetto, e fermi i suoi obblighi di rimborso assunti verso Olmi, si renda operativa la clausola di decadenza prevista dall’art. 2 del contratto. In quest’ultimo caso io sono pronto a trasferire i diritti di utilizzazione cinematografica dell’opera a una nuova società indicatami da Olmi al quale, come Le è noto, io ho in realtà e originariamente ceduto i diritti stessi». A poche settimane di distanza l’avvocato Meda di Milano scrive una lettera a Rigoni in cui lo informa di aver fatto un primo passo per conto di Olmi, ora impegnato nelle riprese di Due fermate a piedi (primo titolo de Il posto) presso la Golden Star e di aver deciso di porre, in accordo con l’avvocato Warner, come termine indilazionabile il 31 marzo 1961, scaduto il quale i diritti ceduti sono da considerarsi revocati. Gli chiede di rispondergli nel caso non sia d’accordo. Rigoni risponde firmando una diffida alla Golden Star e dicendo all’avvocato di dire a Olmi di «ricordarsi di Asiago, anche se sta facendo due fermate a piedi». 171 Verso la fine dell’anno i rapporti con la Titanus si infittiscono e portano alla decisione della casa di Lombardo di assumersi l’onere giudiziario di un’eventuale causa con la Golden Star e di giungere al più presto ad una nuova definizione del contratto con lo scrittore. La cosa viene confermata da Alberto Soffientini insieme ad un auspicabile ed imminente inizio delle riprese: «Ermanno la settimana ventura, al ritorno del dr. Clementelli dalla Russia (dove è andato a trattare del film) andrà a Roma per gli ulteriori contratti e successivamente verrai interpellato direttamente dall’Ufficio legale della Titanus per la definizione del tuo contratto di sceneggiatura» . Il contratto sarà firmato il 27 aprile 1962 e riguarderà il lavoro di sceneggiatura. Il pagamento sarà dilazionato in quattro tranches, che come si evince da alcune lettere estive a Clementelli non verrà onorato per intero, o almeno rispettato alle scadenze previste. Con questa storia, abbastanza significativa dell’aleatorietà in quegli anni dei rapporti degli autori con le case di produzione, che spesso vivevano lo spazio di un film, si intreccia e consolida, nonostante il fallimento del progetto, un rapporto umano che avvicina da subito scrittore e regista, mettendo in luce una straordinaria familiarità e progressiva intimità. Mi sembra utile considerare a parte l’insieme di lettere scritte da Olmi a Rigoni tra il 1959 e il 1963, lettere che non nascondono le difficoltà progressive in cui il progetto s’imbatte, dopo che all’inizio tutto sembra facile e a portata di mano, ma che ci restituiscono la fiducia del regista di portarlo prima o poi a termine, senza lasciarsi abbattere da ostacoli sempre maggiori e in apparenza insormontabili. La prima lettera è del 16 dicembre 1959: Caro Rigoni come ti ha telefonato l’altro ieri la signorina non sono potuto venire per via di queste nuove possibilità circa la realizzazione in co-produzione con la Russia. In verità non sono molte ma vale la pena di tentarle. Ho telefonato anche a Novello il quale aveva ricevuto la tua lettera: si è dimostrato molto entusiasta di poter collaborare, ma non vuole assumersi la responsabilità della scenografia perché lui non si sente preparato tecnicamente. Scrupoli da galantuomo! Ti mando anche un pezzo di scaletta che avrei preferito raccontarti a voce, ma comunque spero sia sufficientemente chiara, dato che è stata buttata giù velocemente. 172 Il 24 dicembre dopo aver ricevuto il plico con il materiale elaborato da Rigoni gli annuncia che nel frattempo sono successe cose interessantissime di cui parlerà nella sua venuta ad Asiago dopo Capodanno. Verso la fine dell’anno una seconda lettera in cui informa lo scrittore chiamandolo ancora «Caro Rigoni» di essere uscito «illeso dalle Feste e per Feste intendo capponi, panettoni, parenti carichi di dolci… Ora riprendo a lavorare al Sergente che ha avuto in questi giorni grande interessamento da parte di tutti (Bagutta è stata la culla di questi commenti )». Olmi conferma la sua intenzione di recarsi ad Asiago per lavorare alla sceneggiatura ai primi del nuovo anno. La lettera successiva del 10 febbraio è accompagnata da una prima idea di sceneggiatura. Passano alcuni mesi e a maggio la nuova lettera, scritta a mano, si rivolge in modo più familiare e affettuoso al «Caro Mario» e racconta di un colloquio fruttuoso con la Golden Star con cui è stata chiarita ogni cosa: «e quindi non si tratta che di concludere. Sono stato anche alla Lux – lo informa – ed ho avuto uno scambio di idee interessantissimo. Comunque sono indietro di 30 anni!… Abbi fede, vecchio, intanto io faccio dire rosari a mia zia! Ciao». Nell’agosto del 1960 arriva un’altra lettera in cui si annuncia un nuovo contratto da parte della Golden Star: «Quante battaglie, sapessi, e non sono ancora tutte vinte». Nell’annunciargli una sua visita ad Asiago aggiunge che «molto probabilmente farà una capatina anche Padre Arpa, che già conosci e che combatte la nostra battaglia (come vedi le guerre non finiscono mai… )». Nel frattempo una lettera di Soffientini, a nome di Olmi, informa che sono stati presi i contatti con la Titanus e con la Dino De Laurentiis: «Zurlini ha scritto ad Ermanno ed è veramente entusiasta per la storia e per la sceneggiatura che dichiara la più bella che abbia mai letto». La via De Laurentiis è al momento ferma in attesa che Ermanno si decida a scegliere un produttore rispetto all’altro. La lettera successiva di Olmi, del 22 novembre, è sorprendente in quanto all’improvviso apre un nuovo fronte di possibile collaborazione, con la richiesta di storie nuove, non di guerra, forse più vicine alle corde poetiche del regista: «Voglio raccogliere tutte le cose che hai già scritte sul tuo paese. Sempre di più mi convinco dell’interesse e della validità di un film come tu sai. Mi raccomando. Riunisci tutto anche tu. Mandami anche Esami di concorso. E scrivi se puoi una 173 storia d’amore – ma che sia vera come sai scriverla tu. Appena ci sarà materiale ne parlerò al noleggio. Ciao Vecio!». Di nuovo silenzio per qualche mese ( Olmi è occupato con la postproduzione del Posto ) e poi una lettera del 31 luglio 1961: «Lombardo ha letto la sceneggiatura e ne è rimasto entusiasta (e con lui tutti i suoi collaboratori). Mi pare molto impegnato e mi dice che farà il possibile per farcelo fare in Russia (Io per ora non faccio commenti date le precedenti esperienze, qui però pare tutto più serio).Conto di venire appena terminato il lavoro di edizione del Posto». Più amara, anche se ancora con una fiducia intatta nella possibilità di realizzare il progetto, la lettera successiva del 13 dicembre: «Caro Mario come pensavo per quest’anno non potremo fare Il sergente nella neve. Del resto tu sei pratico delle lunghe strade che però prima o poi portano a casa. Si dice in giro e con motivi precisi che la causa di questo rinvio sia dovuta proprio a un gruppo di “nostri amici” i quali quest’anno non potranno fare il film perché in Italia nessuno glielo vuole produrre. Questo film venne proposto anche a Lombardo il quale si è rifiutato dicendo chiaramente che gli interessava sì un film sulla ritirata di Russia, ma questo film era Il sergente nella neve e nessun altro. La risposta dei russi è che il loro programma di lavoro per questa stagione è già completo. La nostra risposta è questa: siccome desideriamo fare il film con il massimo impegno e serietà rimanderemo di un anno l’inizio della lavorazione, sperando di poterci inserire nei loro programmi ed a questo proposito in gennaio Lombardo andrà in Russia e molto probabilmente anch’io. Per ora la preparazione del film continua. Verranno definiti i primi personaggi, fatti i contratti e tutto il resto. Mi incontrerò con dei giornalisti come ho fatto a Roma». In effetti il regista in alternativa alla possibilità di girare il film in Russia è andato in Slovenia e in Cecoslovacchia per trovare i luoghi adatti a ricreare la steppa russa, ed ha anche tentato di immaginare di poter girare per intero o in buona parte il film d’inverno sull’altipiano di Asiago. Di questa ricerca esistono dei servizi fotografici realizzati dallo stesso regista, che ci danno l’idea della cura e della forza poetica con cui è entrato nel progetto. Il contratto con la Titanus è firmato e poi perfezionato per quanto riguarda il lavoro di sceneggiatura che nel frattempo ha raggiunto la sua forma pressoché definitiva. Ma tra una cosa l’altra passano altri due anni. 174 Nell’ottobre del ’63 è Rigoni a mandare ad Olmi una copia del contratto e i dati editoriali del libro, invitandolo ad andare ad Asiago «dove le giornate sono bellissime» e dove i lavori della sua nuova casa, in contrada Rigoni di Sopra, proseguono «come si deve» (anche grazie agli anticipi dati dalla Titanus). Di lì a poco anche Rigoni deciderà di costruirsi una casa accanto a Olmi sul limitare del bosco. Il viaggio cinematografico del Sergente almeno per quanto riguarda i documenti e il diretto coinvolgimento di Rigoni si fema qui. Olmi cercherà ancora per una decina d’anni di esplorare nuove possibilità di realizzarlo, trovando di volta in volta nuovi ostacoli che lo porteranno alla rinuncia definitiva verso la metà degli anni settanta. La visione laica di Rigoni Stern, ma così influenzata dallo spirito lucreziano, virgiliano e tolstojano, sembra trovare una naturale consonanza e congruenza con la ricerca di una religiosità immanente di Olmi. Il gruppo di alpini, che appartengono alla 55ª compagnia del battaglione Vestone, di cui fa parte il sergente Rigoni, ispira il giovane regista, per il fatto di essere una microcomunità (simile ad una comunità cristiana primitiva) coesa e solidale di uomini giovani, in terra straniera, che non conoscono le vere ragioni per cui sono mandati a combattere, ma che pur nello stato di abbrutimento progressivo a cui li conduce quella guerra, e nella consapevolezza che la morte li può sorprendere in qualsiasi momento, non perdono mai né la percezione di essere parte di un gruppo, né la loro dignità e quel carattere che si portano dietro dalla vita civile. La condizione in cui si trovano esalta il loro naturale senso di altruismo e solidarietà, insieme condividono eguali valori e qualsiasi bene, eguali speranze di tornare presto a casa dalla madre, moglie o morosa, o da chi altro hanno lasciato. E, pur in stato di privazione di tutto, riescono a ridere, a scherzare, a mangiare e bere insieme, a giocare alle carte e a ricreare, nei loro rifugi, non poche condizioni quotidiane di quella vita che hanno lasciato da civili. All’interno di ogni bunker/tana non esistono i gradi e le gerarchie, vige piuttosto, in ogni momento, il senso della sacralità dei riti di condivisione della mensa, per lo più ricavata da prodotti razziati dalla terra circostante, e tutti, dagli ufficiali ai semplici alpini, sono portati a condividere anche le stesse paure e lo stesso orizzonte d’attese (per tutti la patria è la casa, così ben identificata dal tormentone di Giuanin: «magiù, ghe rivarèm a baita?»), ad anteporre al desiderio di salvezza individuale, il senso del bene comune, la capacità di soccorrere 175 chi ne ha bisogno, di trasmettere e mantenere alto il senso di fiducia nelle possibilità di salvarsi tutti insieme, prima che individualmente. Il film – se ne consideriamo la sceneggiatura e le ipotesi produttive – ha dunque ormai una forma avanzata di ideazione e progettazione cinematografica, sembra quasi nato da un processo di filogenesi e d’evoluzione naturale dalla forma originale dell’Io narrante, che filtra nel vissuto personale e rielabora la memoria, riportandola al presente, alla forma di un’esperienza collettiva condivisa, narrata in terza persona, colta nella sua immediatezza e varietà di registri, ora comici, ora drammatici, ora tragici, ora epici. Rispetto al racconto la sceneggiatura è suddivisa in un numero di scene eguale (ottanta e ottanta) per ognuna delle due parti, Il caposaldo e La sacca. Nella sua forma compiuta di Opera-Mondo non realizzata e non trascodificata, la sceneggiatura del Sergente è esemplare nella sua doppia natura, che ho voluto chiamare limbica e ombelicale. Ombelicale per il forte legame col testo di partenza, da cui deriva i geni e i valori profondi, e anche con la lezione del neorealismo e di Rossellini, a cui il film sembra voler rendere implicito omaggio. E limbica perché va ad ingrossare, come ho detto, quell’enorme giacimento di soggetti non realizzati che si possono comunque considerare come un capitolo importante della storia del cinema italiano, un filone aureo mai finora studiato nel suo insieme, un termometro di energia implicita, che non riesce a manifestarsi, per una quantità di elementi del contesto politico, economico e storico, che incidono nel processo di realizzazione di un film, ma resta sottotraccia e agisce da struttura connettiva, in molti casi illuminante, nell’opera dei vari autori. A distanza di poco meno di cinquant’anni questo manoscritto si presenta ancora, così com’è, come esempio di sceneggiatura “perfetta”, capace di sfidare il tempo e di riuscire a parlare anche all’eventuale spettatore di oggi. Olmi non ha voluto in passato e forse non ha avuto vere occasioni di raccontare le ragioni della non realizzazione del Sergente che sentiva così suo, di cui riteneva di aver del tutto metabolizzato la materia umana e di cui aveva già ben immaginato i luoghi possibili delle riprese, i personaggi scelti tra montanari e alpini piemontesi, lombardi e veneti. Solo qualche anno fa ne ha parlato sul «Corriere della Sera» con Barbara Palombelli (Quando la sinistra mi impediva di lavorare, «Il Corriere della Sera», 9 luglio 2005, p.36), ipotizzando, forse per la prima volta, tra le ragioni del fallimento, anche un ostracismo 176 da parte sovietica e del partito comunista per il suo essere un autore cattolico e come atto di protezione territoriale e ideologica del film di De Santis, Italiani brava gente, realizzato prima dell’eventuale inizio delle riprese del Sergente a cui come si è visto aveva già accennato in una lettera a Rigoni. Un vulnus, dopo il quarantennio trascorso, che non si è cicatrizzato del tutto: («Con Goffredo Lombardo, gran signore napoletano che regnava sulla Titanus, prima casa di produzione nazionale, provammo a fare un film sulla ritirata di Russia, raccontata nei suoi libri da Mario Rigoni Stern. Andai a cercare i luoghi adatti, partii prima per Mosca e poi per la Cecoslovacchia e finalmente trovai il paesaggio giusto. Eppure, dopo tanti incontri, sempre con le stesse persone, non riuscivo a capire perché mancasse sempre l’autorizzazione finale. Dopo un anno di tentativi, il mio intermediario del PCI mi disse: ma non hai ancora capito? Tu non sei affidabile. Non ci garantisci. E l’anno dopo, Giuseppe De Santis, iscritto al partito, girò Italiani brava gente, lui era in linea. Io no. Rimasi addolorato allora. Adesso sorrido»). A mio parere si tratta di un caso di confluenza di elementi contrari tra cui non va comunque trascurata la debolezza e l’improvvisazione produttiva iniziale della Golden Star, che sta alla base del primo decisivo atto mancato, a cui si aggiunge con un peso determinante il flop di Italiani brava gente di De Santis e la sfortuna di giungere in un momento in cui l’unica memoria della guerra che sembra bene accolta dal grande pubblico cinematografico è quella contenuta nella commedia. La mancata mediazione da parte del PCI è assai probabile e tutto sommato prevedibile, ma non è l’elemento decisivo, se vi fosse stata comunque la volontà di girare il film in luoghi più vicini. Nel passaggio dal racconto di Rigoni alla sceneggiatura si procede a una trasformazione e ad una sorta di selezione e filtraggio dei materiali originari in parte analogo all’operazione di macinatura della segale che apre il progetto cinematografico. Considerandone la natura ibrida, il fatto che Rigoni Stern vi abbia certamente messo mano, ma che abbia piuttosto preferito veder rispettato lo spirito delle sue pagine e che il soggetto, pur con le molte riduzioni, sembri mantenere i caratteri e il completo riconoscimento del suo padre naturale, lo si potrebbe considerare opera a metà del guado tra la quinta stesura del Sergente e il terzo lungometraggio nella filmografia di Olmi. Senza nulla voler sottrarre alla paternità dello scrittore il racconto nella sceneggiatura, pur non avendo raggiunto una perfetta forma olmiana 177 sul piano dell’opera realizzata, è stato adottato per intero dal regista e sentito da subito come proprio, come ben si capisce dalle interviste che il regista ha rilasciato, dai suoi ricordi, dalla scelta del materiale, dal susseguirsi delle scene, dal tipo di sguardo che la sceneggiatura lascia immaginare. In ogni pagina, se si apprezza la presenza e il controllo della qualità della scrittura e dell’esattezza della ricostruzione da parte di Rigoni, si avverte come il regista abbia preso le misure di ogni elemento, quasi riesca a pre-vederne la sua trasformazione audiovisiva. Come ho detto dall’inizio, oltre che convinto dell’importanza dello studio delle opere non realizzate per capire certi momenti della storia del cinema sono sempre stato anche certo che nella filmografia di un regista si possano e debbano considerare i progetti non realizzati quando servono a illuminarne lo sviluppo del percorso poetico, quando, come in questo caso, funzionano comunque da modificatori non solo del lavoro, ma della vita di una persona. Olmi, in effetti, è stato così affascinato, oltre che dal libro dal modello di vita dello scrittore e dal suo habitat che decide di andare a vivere ad Asiago accanto a lui e, come si è detto, ha continuato a coltivare ancora ostinatamente e appassionatamente l’idea della realizzazione di questo film per almeno un quindicennio. Se, come diceva Pasolini, la sceneggiatura è una struttura che vuole essere un’altra struttura, a noi, in questo caso di una struttura che non si è mai realizzata, può interessare cogliere come avviene il passaggio di testimone tra un narratore che rinuncia alla sua presenza di cantore di un’epopea e accetta di diventare parte di un flusso di narrazione audiovisiva in cui la sua esperienza è osservata da uno sguardo che la vuole cogliere come parte di un’esperienza collettiva. Questo saggio vuole ricordare, oltre che gli autori e in particolare Rigoni, scomparso da un anno, anche il formarsi tra il regista e l’Altipiano: un amore a prima vista, che, quest’anno, festeggia le sue nozze d’oro. Questo articolo è una rielaborazione/riduzione, con l’aggiunta di nuovi documenti, del saggio Il sergente di Olmi e Rigoni Stern disperso negli anni del disgelo, postfazione di Ermanno Olmi e Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. La sceneggiatura, Einaudi, Torino, 2008. 178 179 Peter Brunette Bertolucci Was Right: We Can’t Live Without Rossellini It’s true that, as one of Bernardo Bertolucci’s characters says in Prima della rivoluzione, “non si può vivere senza Rossellini”, or, “we can’t live without Rossellini”. For me, Roberto Rossellini has always been a kind of ur-signifier for all that the Lumière Brothers’ branch of the cinematic family has ever tried to accomplish. In my mind at least – and I think this is what drew me to start writing about Rossellini in 1979 – he stands in for the many permutations a certain aesthetic stance toward the world and its cinematic representation, dubbed realism, has taken over the decades since he was born in 1906. (I should add parenthetically that when I use his name throughout this paper I mean, really, to invoke the entirety of that multi-faceted movement, Italian neo-realism, for which he stands as its synecdoche). Of course, Georges Méliès and his subsequent clan have delighted and astonished us, as recently as James Cameron’s Avatar, and they too are essential. In Italy, this side of the family thrives in brilliant recent films like Paolo Sorrentino’s Il Divo, made in 2008 (that annus mirabilis of contemporary Italian cinema), a film in which the cinematic imagination is allowed to run free and untrammeled. Yet I can’t help thinking that the German critic and theorist Siegfried Kracauer was right when he insisted, in the subtitle of his celebrated book Theory of Film, that the true vocation of cinema was, finally, the redemption of physical reality. After all, every other visual art form manifests a potential for non-representational stylization, but none, with the exception of analog photography, is so blessed and, possibly, cursed, by its unavoidable connection with a real-world referent, as Roland Barthes concluded in Camera Lucida. What’s so important about Rossellini, though, is that he went beyond mere physical reality, so supremely visible, so “superficial” 180 in the literal meaning of the word, to redeem other, felt realities as well: the inner, particular, often invisible reality of emotion, as well as the macro and equally invisible reality of history. Neither of these “realities” is always visible on the surface, of course, are as real as anything that readily gives itself to sight, even if they must be approached sideways. Above all, Rossellini was after what he called “truth”, a word, like Art with a capitai A, that sticks in our craw these days, or at least in mine. [Both of these words are stili being unproblematically tossed around by Michael Haneke, the subject of my most recent book]. I myself don’t believe such an entity as truth exists, and thus I don’t believe it can ever be found. Yet I do believe, as Jacques Derrida always did, despite what his antagonists claimed, in the search for truth as the supreme motivating force behind all human intellectual and aesthetic inquiry. It’s one ofthose “as if” situations: despite our qualms, we must proceed as if such a thing existed or else be condemned to remain in our lonely solipsistic basements sucking our thumbs. We know that cinema is uniquely prepared to aid us in this “as if” search for the truth about reality, and the inquiry continues in many forms, long after Rossellini’s death 35 years ago. The list of his legatees is long. Nevertheless, his legacy is also a decidedly mixed one, and it’s the contours ofthat complicated but vitallegacy that that I want to very briefly explore today. To begin in contemporary Italy, where the overwhelming influence of neo-realism has been as much curse as blessing, there’s the magnificent Gomorrah directed by Matteo Garrone, which came out in 2008, the same year as Il Divo. It’s a film of such unvarnished power and such apparent authenticity that it can suddenly make you wonder what you ever saw in The Sopranos and why you invested 80 plus hours of your life in that seductively entertaining and dangerously humanizing soap opera. If Gomorrah can never re-enact any “complete” truth about the Italian under world – in this particular instance, the Neapolitan Camorra – its sudden outbursts of inexplicable, ruthless violence convey the clear idea, readily verifiable in the daily Italian newspaper, that they are little more than unredeemable scum that have continued for decades to poison an entire nation. The ostensibly neutral recording of what is simply there as an indexical sign of the evil that lies just below the surface, clearly refers back to 181 the glories of neo-realism, as many commentators have pointed out, and to Rossellini specifically as a key progenitor of this movement. Rossellini thus lives on, and vitally, in his native land. Yet not everything that looks and sounds Rossellinian, of course, is so. Thus the contemporary Italian cinema is also capable of producing a pseudo neo-realist work like Respiro, directed by the overrated Emanuele Crialese in 2002, a film which has been lauded by many. The beautiful people who populate this film, especially Valeria Golino, seem like aliens who have been magically transported direct from Planet Hollywood to gritty, real locations. Here the most obvious, most easily replicated signifiers of neo-realism – like having southerners say “lo saccio” instead of “lo so” – have been co-opted purely for commerciai purposes and have little to do with any putative “search for truth”. But then again perhaps it’s precisely on Planet Hollywood, or at least on an independent, smaller planet nearby, that the legacy of Rossellini, broadly speaking, lives on most powerfully. Here l’m thinking of this year’s winner of the Oscar for Best Picture, Kathryn Bigelow’s The Hurt Locker. The film’s been praised, and properly so, for the intense realism with which the life of a member of a bomb removal squad, in Iraq, is conveyed. But realism toward what end? What purpose does it serve? It’s exciting, ves, and it keeps you breathless and on the edge of your seat throughout its entire running time, but I wonder if it does anything else with its realism. Is it ever anything more than gripping? Is this the most that we can hope for from Kracauer and Bazin’s dreams for a realist aesthetic? Of course it’s true that Rossellini’s Open City is often superficially and calculatedly exciting and suspenseful, but then again it uses these Hollywood elements to arrive at something grander and more crucial than Hollywood, a emotionally and psychologically devastating portrait of a certain people at a certain time in history. More obviously and more importantly, Open City, despite the fact that it’s Rossellini’s most famous film, is also his least typical. I think Bigelow’s intention in The Hurt Locker was to depict, if not exactly condemn, overtly, the adrenaline high that a gung-ho character like Captain James lives for, but in this very depiction, doesn’t it replicate the same high in its audience? Doesn’t Captain James emerge precisely as an exciting devil-may-care figure to be emulated? 182 This is of course the danger of ali committed representation, especially representation that purports to present things neutrally – that it can easily stimulate a desire for precisely that which it may, on other levels, seem to condemn. (Here l’m thinking of the Japanese director Kenji Mizoguchi, and Rossellini himself, depicting the travails of women while perhaps indirectly enjoying at some subconscious level this very administration of pain, or the supposed anti-violence of a very violent film like Clockwork Orange, or the anti-war film Platoon which, years ago, made the two sons of one of my students want to join the army). Another figure who comes to mind is the talented director Paul Greengrass, who is probably best known for his recent Green Zone and for his two Bourne films, ali of which star Matt Damon. More interesting, though, are his careful re-creations of historical events, United 93 (2006), which concerns the piane that was brought down in Pennsylvania during the terrorist attacks of September 11, and Bloody Sunday (2002), a dramatization of the massacre of Irish civil rights protestors by British troops thirty years earlier. The re-creations in both instances are meticulous and viewers experience the sensation of having been placed in the middle of the event as it is happening. Part of this effect arises from Greengrass’s wise, clearly neo-realistinspired choice to avoid stars or other well-known character actors in his re-creation – I was so happy that I didn’t have to hear Tom Cruise say “let’s roll!” – a decision that greatly heightens the sense that we are watching a kind of magic documentary, made during the fact, rather than after. But, again, one wonders about the ultimate purpose of films like these. They’re exciting, you feel like you’re really there, their surfaces positively gleam with authenticity, but is there anything else? In fact, I think there is, because both ofthese Greengrass films carry a moral charge that, if at times somewhat inchoate or vague, can nonetheless be felt. In fact, it is probably this very vagueness that enhances the reality effect, for any clearer thematic statement would tend to reveal and emphasize the film’s constructedness. This much seems clear: Greengrass has a point of view, however unspecific, and wants to convey a certain ambiguous IItruth” about these events. This is exactly what Rossellini, in the majority of his films, whether based on historical figures or completely fictional ones, was after as well. The historical re-creations of Paisà and, somewhat more bombasti- 183 cally, of Open City, specifically, do not seem ali that different fram what Greengrass is trying to accomplish more than sixty years later. (Incidentally, it’s interesting how this “real” but completely accessible filmmaking, where everything is visible, has made YouTube and other real-life videos – for example, the Iranian woman killed in the protests, or the recently revealed video of the helicopter gunships shooting and killing reporters in Iraq – seem disappointing and unreal, precisely because they are not available to a lacanian imaginary that that seems to grant us a full, mastering vision in the movie theater). One of the most fascinating things about realist films of the last thirty years or so, is that the ubiquitous hand-held camera, heavily in use in both Bigelow’s and Greengrass’s films, has become the chief formai signifier of cinematic realism and, by extension, of the real itself. Of course, the lightweight equipment that has made this technique possible was not available during Rossellini’s time and it is interesting to speculate on whether Rossellini would have used it had it been available when he was making films. The answer, I think, is a definite maybe. On the one hand, the director was more than welcoming to new cinematic technology and was one ofthe first to adopt the new zoom lens, however sparingly, in his film General della Rovere in 1959. By the time he began making his historical docu-dramas for television, his own manually-operated zoom, which he invented and which he manipulated during filming, would in fact become virtually the sole camera movement used in these films. (He also liked it because it saved on editing costs, since he could, in effect, edit “in the camera” while shooting). On the other hand, I think Rossellini would have rejected the aesthetic and epistemological meanings that have accrued to the use of the device – in other words, the handheld camera as signifier of a more direct access to the real. Rossellini’s realism, of course, was never a function of camera technique or any strictly speaking “cinematic” technique, but always one of embodiment (in his non-professional actors), location, and mise-en-scène. Moving from the sublime to the ridiculous, one of the more baleful offspring of the Rossellinian realist aesthetic is so-called reality television, which seems always on the point of expiration, only to rise from the dead once again, like the vampire craze which has begun to threaten the hegemony of “reality” over the airwaves. What television executives like about the genre, of course, stems not from any com- 184 mitment to the redemptive power of television as a revealer of reality, either physical or invisible, but from the fact that reality shows are much cheaper to produce than a dramatic show or news show. On the other hand, what average viewers seem to enjoy most about the genre is the unadulterated scopophilia or protected voyeurism that it seems to allow and even foster. Though most of the shows are in fact heavily scripted, at least in terms of the generai direction of the plots and situations, nevertheless audiences seem enthralled by the fast that the actual word-by-word dialogue is not. Potentially, this could be a good thing and bring with it a sense of Barthes’s writerly or what John Fiske would cali the “producerly,” (even if it the writerly or producerly here is attached to the show’s participants, a kind of intermediate group between senders and receivers, and not the spectators themselves). As such, it could potentially represent a momentary release from the banality and hegemony of the rigid rules of the televisual apparatus, in the largest sense ofthat word, produced by the dominant ideology. It seems like a case in which, according to an older terminology, parole may quite possibly deviate from, or exceed, the langue that structures television drama, and thus threaten it. But what a far cry from anything ever attempted by Rossellini! Attacking reality TV is like shooting fish in a barrel, of course, but still. The point of most reality shows seems to be to uncover the worst, grossest traits of human beings, not their courage, hope, and higher aspirations, ali important values to Rossellini. Here what seems to be chiefly sought is embarrassment and humiliation. But are these supposedly novel, endlessly mesmerizing, apparently unscripted situations any more “real’’ than anything else? Or are they just less frequently represented? As they have since the beginning of spectacle, viewers seek the thrill of the forbidden, a quick glimpse of some coloring outside the lines, a brief vision, perhaps, of Lacan’s Real that however fleetingly, appears to escape the manufactured “reality” oftelevision. But maybe we don’t always get what we think we like. I once tried to watch an episode of The Bachelor and I felt so bad, and more importantly, so embarrassed, for the pathetically needy young woman chasing an unexceptionable young man, that I was forced to change channels. [My discomfort watching reality shows, I hope, is one of the few areas where I really show my age!]. 185 Rossellini was a passionate defender of television, of course, and, as president of the jury at Cannes in 1977, argued, a few weeks before his death of a heart attack, for the Palme d’Or to be given to the Taviani Brothers’ film Padre Padrone, which was originally funded by, and made for, RAI television. For Rossellini, ali of it was film, and what did it matter whether it was shown on a big screen in an auditorium or a little screen at home? In the last part of his career, in fact, Rossellini himself turned almost exclusively to television, making documentaries on various historical figures such as Pascal, St. Augustine, Descartes, Socrates, Cosimo de’ Medici, and Jesus Christ, and on subjects as disparate as the history of the Iron Age and the contemporary art museum in the Centre Beaubourg in Paris. Many of these productions about the historical figures, especially, can, quite frankly, seem exceptionally longwinded and not a little amateurish in technical execution. But Rossellini was never much interested in a slick presentation, or in history’s surface reality in these projects – since the reproduction of the putative physical reality of such historical periods could in any case only be conjectural – emphasizing rather the “reality” of certain powerful ideas, elaborated in long, static discussions between characters, that have deeply affected the progress of civilization. Here, surface reality seems to be little more than the expendable “parergon” elaborated by Kant and dissected by Derrida, to the real essence, the “ergon” of ideas. Another, perhaps more diffuse Rossellinian legacy is the commitment to dead time and dedramatization, and its formai concomitant, the long-take, that was evident as early as the late forties in the films made with Ingrid Bergman, and of course in the sublime Europa 51 of 1952 and Viaggio in Italia of 1954. I think it is not too much to claim that Rossellini and his ilk are largely responsible for the longtake aesthetic that dominates the films of many auteurs in Europe and especially Asia, that unhurried glimpse of “real life” in which “nothing happens”, but which can in fact reveal so much. In Europe, the Belgian Dardenne brothers come to mind, with their brilliant, apparently superficial and unfocused films like La Promesse, The Child, The Son, and Rosetta. These films manage to reveal an enti re inner world of the individuai, and the equally invisible social world, through their relentless focus on an apparently unimportant exterior. In Asia, among countless examples that could be cited, l’ve recently 186 re-watched Maborosi, made in 1998, the brilliant first film of Japanese director Hirokazu Kore-eda in which powerful if barely spoken meanings are conveyed indirectly through the glimpses of banal, everyday life that slowly accrete. The technique of focusing on the banalities of reallife, without the addition of any overt “drama”, is of course a staple of Iranian cinema as well. I recently re-watched Jafar Panahi’s The Circle, made in 2000, and was impressed by its apparent aimlessness as its various “stories” play out on the real streets of Teheran. But a closer look shows how carefully structured the film is, in an almost literary fashion, with the use of various motifs like the circle, smoking cigarettes, and so on. The apparent aleatory quality that the film offers is a ruse to disguise what is actually tightly controlled, within an “uncontrolled” context. The greatest filmmaker in Iran, Abbas Kiarostami, of course, is the master of this purposeful indirection. I am thinking here especially of his 1997 masterpiece, Taste of Cherry. But this aleatory approach is also a dangerous technique in the hands of the untalented. I saw a film at the Berlin Film Festival in February, which shall go unnamed, mostly because I can’t remember the title, which largely contented itself with a lackadaisical observation of the banalities of everyday life, but which remained stubbornly at that level, in other words, unrelievedly banal. It was literally true in this film that “nothing ever happened”, neither on the level of plot or thematic revelation. It stands in strong contrast to a great if challenging film like the recent Romanian production “Police, Adjective”, whose frankly quite often annoying but finally purposeful indirection and lack of forward progress are powerfully redeemed in the last fifteen minutes when ali the philosophicalloose ends are brilliantly brought together. Finally, I want to speak of an informai new movement in American independent cinema that the New York Times’ critic A. O. Scott has recently dubbed “Neo-neo-realism”. It’s too soon to tell, of course, but this collection of films and filmmakers may very well turn out to be one of Rossellini’s most significant legacies. The movement, such as it is, is led by figures like Ramin Bahrani, the director of Man Push Cart (2006) and Chop Shop (2008), who told Scott that he was greatly influenced by Rossellini’s 1951 film The Flowers of St. Francis in the making of his excellent recent film Goodbye Solo. Other key directors in this fledgling movement are Kelly Reichardt, who is 187 best known for Wendy and Lucy, and Lance Hammer, who made the powerful film Ballast, what I call the real “Precious”. Again, astute and masterful indirection, coupled with apparent aimlessness and a fierce commitment to the reality of specific places, make these revelatory films very special. In an article published about a year ago in the New York Times Magazine, Scott took issue with those who believe that, given our current hard times, what we really need, as during the Great Depression, is the fantasy and the escapism embodied in the Fred Astaire movies so popular at the time: «What if, at least some ofthe time, we feel an urge to escape from escapism? For most of the past decade, magical thinking has been elevated from a diversion to an ideologica I principle … To counter the tyranny of fantasy entrenched on Wall Street and in Washington as well as in Hollywood, it seems possible that engagement with the world as it is might reassert itself as an aesthetic strategy. Perhaps it would be worth considering that what we need from movies, in the face of a dismaying and confusing real world, is realism». (March 17, 2009). As Scott summarizes his argument later in the piece, «American film is having its Neorealist moment, and not a moment too soon». In other words, Rossellini finally comes back again to a meretricious and Hollywoodized America, desperately in need of redemption on so many levels, maybe his true home after all. 188 189 Andrea Ciccarelli Fra viaggio e stasi: considerazioni sul cinema italiano contemporaneo Nel cominciare devo innanzi tutto spiegare il titolo di questo saggio. Non intendo puntare ad esaminare se le due tematiche del titolo siano più o meno sfruttate o presenti in momenti specifici del cinema italiano; né tantomeno proporre una verifica quantitativa che identifichi e censisca il rapporto fra i due temi e determinati registi; ma desidero, semmai, inquadrare in un discorso più generale il soggetto del titolo. È mia intenzione esporre, insomma, più l’idea critica alla base di questo progetto di ricerca che non esemplificare con dei risultati parziali. Fra i tanti approcci con cui ci si può accostare criticamente al cinema, ho scelto quello di sondare se il cinema italiano contemporaneo, almeno in alcuni dei suoi registi più rappresentativi, mostri interesse per i due temi o, meglio, per il contrasto che nasce fra il grande tema del viaggio e la stasi, cioè, il suo contrario, sebbene, in un certo senso, ne sia anche il suo complemento. Perché la stasi sia il contrario del viaggio è chiaro; perché ne sia anche complementare può esserlo meno, visto che, solitamente, si contrappongono nettamente le due correnti che attraversano e informano la cultura occidentale. Senza dimenticarci che qualsiasi teoria va poi confrontata e verificata nel concreto del linguaggio artistico a cui si fa riferimento, vorrei soffermarmi su un discorso tematico, per poter appurare se si possa far rientrare il cinema italiano – o parte di esso – all’interno di un discorso teorico e tematico più univoco. Il viaggio e la stasi sono due forme di conoscenza: la prima si basa sull’esplorazione, la seconda sullo scavo interiore. Chi esplora apprende perché confronta continuamente le proprie conoscenze con i nuovi dati acquisiti. Il paesaggio, la flora, la fauna, gli usi, i costumi, l’arte, la lingua, tutto è istintivamente riportato e paragonato a quanto già si sa, arricchendone il bagaglio, sia che si tratti di accettare o di 190 rifiutare la novità. L’atteggiamento sottinteso al viaggio è l’ammissione implicita che, al di fuori di sè, vi siano elementi nuovi, possibilità di risultati diversi e, forse, migliori di ciò che si conosce. Chi è stanziale, invece, può arrivare a sviluppare una eccezionale sensibilità del proprio territorio, di ciò che è (o dovrebbe essere) familiare; affonda radici in profondità perché rinuncia all’esplorazione ulteriore, si blocca ai confini del proprio terreno reale e ideale: ciò che ha già visto o quello che intravede sbirciando dal proprio rifugio (o, persino, quello che gli è stato raccontato da altri) del mondo è sufficiente a farlo rimanere saldo, fermo nel proprio spazio che viene esaminato dal di dentro, scrutato in verticale più che in orizzontale; come chi vive in paese arroccato in cima a una collina. Il presupposto di chi rinuncia al viaggio è la scarsa fiducia nella reale possibilità di trovare soluzioni diverse da quanto già si conosce1. Ma, come accennato, viaggio e stasi sono figure fisiche e metaforiche contrapposte, ma anche complementari, perché rispecchiano impulsi diversi ma che s’intrecciano a secondo delle circostanze. Si può viaggiare per tante ragioni diverse, naturalmente. Perché si è forzati da eventi esterni (calamità naturali o umane, politiche; necessità, desiderio di migliorare, etc.), con o senza la possibilità del ritorno. La nostalgia di quanto lasciato, nel primo caso, spinge al desiderio innato di ritornare (Ulisse); nel secondo sollecita a trovare un luogo che sostituisca quanto abbandonato (Enea). Nell’uno e nell’altro caso, però, la riuscita del viaggio (breve o lungo, avventuroso o lineare) dipende dalla volontà di interpretare i segni che marcano il cammino come fonte di arricchimento personale, assorbendoli nel proprio bagaglio d’esperienza che viene accresciuta e modificata a secondo delle situazioni incontrate. Il viaggio fine a se stesso, senza uno scopo (ritorno o rifondazione), o è un atto di conquista (si pensi all’Iliade), un’usurpazione, una rapina; oppure finisce 1 Sul contrasto fra il viaggiare come forma di conoscenza e il ritorno inteso come rientro nel proprio territorio conosciuto, da cui poter ripensare e apprezzare (anche nel senso di rifiutarle) le novità osservate vi è una bibliografia sterminata. Qui posso rinviare ad alcuni autori che, a mio avviso, hanno colto maggiormente la conflittuale poliedricità di questo contrasto conoscitivo. Oltre ai lavori di Magris (1982 e 1999), si veda la densa autobiografia culturale di Said (in particolare la prefazione e le pagine iniziali), The Redress of Poetry (1996) di Seamus Heaney e L’Ignorance (2000) di Milan Kundera. So bene che quest’ultimo è un romanzo e non un saggio, ma è un romanzo che s’interroga, forse più di altri scritti sull’argomento, sul nodo della conoscenza affidata al contrasto fra migrazione forzata, viaggio voluto e stanzialità cercata. 191 per collimare con un vagare improduttivo, che rischia di implodere per l’incapacità di individuare una meta o un’azione che lo giustifichi e lo concluda, magari per poi ricominciarlo2. Sappiamo che sin dagli esordi della cultura occidentale (Iliade e Odissea) il movimento, il viaggio, l’esplorazione dello spazio che si ha di fronte, che ci circonda o che possiamo solo immaginare, diventa necessaria allegoria per un lavoro che aspiri alla narrazione del mondo3. Fermo restando che le due figure di viaggio non sono affatto lineari, possiamo sostenere che l’Iliade proponga un viaggio centrifugo, che si spande verso la conquista di uno spazio nuovo, ambito e concupito da chi non è soddisfatto dal proprio essere e dal proprio avere (che sia rappresentato dall’ambizione di Agamennone o dall’avidità degli altri re greci o dal desiderio di gloria di Achille è, in un certo senso, irrilevante: sono tutte facce dello stesso impulso di conquista)4. L’Odissea invece è centripeta, come un predatore che gira concentricamente intorno alla vittima prescelta e la stringe sempre più nel cerchio delle sue peregrinazioni, fino a diventare tutt’uno con essa, nella morsa della lotta fra vita e morte. Paradossalmente, il viaggio di ritorno di Ulisse è molto più vario e molto più viaggio, insomma, che non quello sottinteso allo sbarco degli Achei sulle sponde di Ilio – dove poi sostano e diventano stanziali, si accasano per dieci anni in attesa di penetrare le mura invincibili della città. 2 Questa sensazione di movimento inerte, senza un preciso senso d’identità che si vuole rinforzare o recuperare è quello che Magris chiama “odissea rettilinea”, in cui il protagonista, non avendo punti di riferimento, non (ri)conosce e non sembra poter raggiungere un’identità diversa o più profonda di quella di partenza: la personalità non si arricchisce, ma si sgretola nella presa di coscienza del nulla continuo (1999, pp. 59-60). 3 Quando si parla degli albori della civiltà occidentale non si sottolinea forse a sufficienza la sua radice fortemente mediterranea, una radice in cui la conflittualità fra il viaggio (per mare, ma non solo) e la volontà stanziale o di ritorno è insita nella stessa conformazione geografica dei luoghi dove nasce il mito. Gli insediamenti aggrappati in cima a scogliere, dirupi o colline che si specchiano sul mare offrono un’immagine dissonante nei confronti dell’acqua che invita alla navigazione e all’esplorazione. 4 Sulla conflittuale circolarità dei due poemi omerici e sulla loro presenza e influenza nella cultura italiana si veda Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione. Milano, Mondadori, 1991. Riprendo da questo libro, già pubblicato in forma leggermente diversa nel 1974 (Milano, Bompiani) e poi nel vol. 5, Le questioni, della Letteratura Italiana Einaudi diretta da Asor Rosa (Torino, 1985), le due definizioni qui usate per descrivere il moto narrativo dei due poemi omerici. 192 Figura di questa stanzialità, necessaria alla stessa riuscita del viaggio (la conquista di Troia), sono le navi arenate dagli stessi prìncipi Achei che issano le loro tende intorno alle navi e ne fanno, così, la loro nuova dimora. La nave-tenda-casa diviene simbolo della temporaneità di tale insediamento (l’agognato viaggio di ritorno è insito perfino nella struttura stessa della costruzione), ma anche lo sgradito emblema di uno stanziamento imposto. Da questa prospettiva, l’incendio delle navi greche da parte dei troiani, ha una doppia e contrastante valenza, quindi: da un lato rappresenta il logico tentativo bellico di tagliare loro la via (il mezzo) di fuga; dall’altro, un’azione che mira a distruggere un indesiderato insediamento colonico. L’Odissea invece, anche quando narra del lungo periodo presso Calipso, lo fa come se fosse parte di un’avventura perenne; una fonte di apprendimento continua, insomma, che deve la sua riuscita, appunto, al necessario susseguirsi del viaggio. Conosciamo tutti le ragioni intrinseche alla narrazione che giustifica la saga e le avventure: Ulisse paga il fìo per aver sfidato prima Apollo, il dio sole, avendo profanato Troia; poi, per aver imbrogliato Ajace, protetto da Poseidone, signore del mare. Il sole e il mare: senza la luce (e la verità) del primo si vaga nel buio come un cieco; senza l’aiuto del secondo, si naufraga5. Quello che qui mi preme ricordare è che chi (come Ulisse) si muove spinto dal nostos, dal vento del ritorno, dalla nostalgia per la propria terra e per la propria famiglia, finisce per partecipare – a volte controvoglia, ma spesso volentieri – ad un peregrinare diviso in viaggi e viaggetti punitivi e formativi, che apportano nuova conoscenza, sia del dato oggettivo – del mondo esterno che si esplora volenti o nolenti – che del proprio spazio interiore. Più Ulisse riflette sulle proprie esperienze esterne e più medita sulle verità del proprio cuore. L’eroe che vuol assolutamente tornare a casa scopre e tocca lidi sconosciuti che lo aiutano a comprendere meglio i suoi stessi confini interiori; vuol tornare, certo, ma assapora cibi e bevande che diventano più forte dell’assenza, cioè del desiderio di restare, di stare, una volta riottenuta la sua posizione iniziale, all’interno di uno spazio che non 5 Potrà essere utile ricordare che, da un punto di vista dell’antropologia mitica, la luce di Apollo rappresenta quindi la ragione, la capacità di calcolare le proprie azioni, mentre Poseidone la fortuna, necessaria per la riuscita di ogni impresa. Le due doti, insomma, che non difettano ad Ulisse che, diventa così emblema sovraffino di sopravvivenza. 193 può offrire altro che il conosciuto. Uno spazio in cui gli oggetti che ritroviamo contrastano con la forza del nostos che li colorava con tinte ben diverse, perché lontani6. La stasi, quindi, non è solo il contrario del viaggio, ma ne è anche complemento, anzi lo completa: quello che appare come un conflitto insolubile di estremi opposti, si tocca e nutre entrambi gli aspetti conoscitivi, gnoseologici della realtà. Ulisse viaggia perché costretto; continua a viaggiare perché la nostalgia lo spinge a cercare il ritorno e, nel far così, acquista una conoscenza del mondo e di se stesso, invidiabile. Questa conoscenza – o, forse, questa voglia di conoscenza – diventa come una proteina indispensabile per il suo organismo, un nutriente che non c’è nei cibi di Itaca e di cui si sente la mancanza, una volta riguadagnata la stasi cui si ambiva fin dall’inizio. Il nostos si è rovesciato: ora, comincia a spinger via, come sappiamo da un breve, ma significativo, accenno alla fine del grande poema. Odisseo, una volta riaccasato e ricongiunto con Penelope sente una pulsione che prelude ad un’altra, non prevista, ma sentita partenza. La conversione da uomo di stasi a uomo di viaggio è avvenuta interamente: non si dimentichi, infatti, che all’inizio del poema Odisseo non ha alcuna voglia di partire da Itaca, anzi, si finge pazzo pur di restare nella sua rocciosa isola, ma, non riuscendo nell’inganno, è costretto a partire7. Ecco che un personaggio stanziale, trasformato suo malgrado in viaggiatore, una volta riacquistata la stasi di partenza non può più acquetarsi, proprio in nome di quella conoscenza data e dettata dall’avventura che lui bandiva. Quindi, da un lato, l’assedio di Troia (a cui partecipa, eccome, Ulisse) diviene figura (coloniale) di un viaggio di conquista che si può concretizzare solo grazie ad una stasi che strangola lentamente la vita di chi viene invaso; dall’altro, la sua conseguenza culturale più nota, le peripezie di Odisseo, diventa invece simbolo di una forma di conoscenza basata sul movimento, sullo scrollarsi 6 Sull’ineluttabile confusione che la miscela di nostalgia e ricordi crea nella mente dell’esule, oltre ai lavori citati di Kundera e Said, v. anche le pagine finali di Esilio di Enzo Bettiza, Milano, Mondadori, 1995 (specie p. 443 e sg.). 7 Mi riferisco, naturalmente, a uno dei preamboli dell’Iliade stessa, quando Ulisse, nel tentativo di eludere la partenza per Troia, vuol far credere a Palamede, inviato da Agamennone, di essere impazzito e si fa trovare, tutto trasandato, che ara la sabbia della spiaggia spargendo sale. Palamade, però, non cade nel tranello e mette il piccolissimo Telemaco davanti all’aratro; Ulisse smette immediatamente di arare, rivelando, così, di essere perfettamente sano di mente. 194 di dosso la stasi che ci insidia. Lo status quo (ereditato o imposto) non può cambiare se non ci si affida (e non ci si fida del) al viaggio come veicolo di conoscenza nuova. Il modello, sia nel suo contrasto fra viaggio e stasi, che nel suo conflitto, viaggio di sè, esplorazione interiore e viaggio di conoscenza oggettiva, si ripete nelle letterature occidentali moderne, naturalmente e, nella cultura italiana, è forse incarnato più di tutti dalla dicotomia rappresentata dal binomio Dante-Petrarca. Il primo non può neppure scrivere (la Commedia) se non parte, se non si affida ad una guida che lo aiuti ad attraversare mondi sconosciuti che aprano dimensioni nuove (si pensi all’ultimo verso del I canto dell’inferno: «allor si mosse e io li tenni dietro», ma si pensi anche alla spiegazione del perché si scrive la Commedia: «ma per cercar del ben ch’io vi trovai/ dirò de l’altre cose ch’io v’ho scorte»; la soluzione dell’esilio morale è nel cercare e trovare una dimensione nuova). La metamorfosi, in Dante, è vita, in altre parole. Petrarca, invece, scrive poesia proprio perché rifiuta il nuovo, rifugge il cambiamento in nome di ciò che non è più e che si rimpiange («la vita è breve sogno»), ma che, contrariamente al viaggiatore Ulisse (o Dante), non si può più raggiungere se non tramite una memoria elegiaca: l’esilio, in lui, non è transitorio, ma è perenne. Da questa contrapposizione fra Dante e Petrarca alle umoristiche peregrinazioni finto-forzate di primo Novecento di Mattia Pascal-Adriano Meis il tragitto è meno lungo di quel possa sembrare. Oppure, si pensi, per restare nella tradizione poetica, alla contrapposizione fra gli allegri naufragi di Ungaretti (il quale, nonostante le burrasche della vita prosegue il viaggio, come un vecchio lupo di mare che sa solo ripartire: «E subito riprende/ il viaggio») e i viaggi fortunosamente evitati negli Ossi di seppia (1925) di Montale (che, invece, indica la salvezza proprio nelle mancate (ri)partenze: «è l’ora che si salva solo la barca in panna./ Amarra la tua flotta fra le siepi»)8. 8 La poesia Allegria di naufragi dà il titolo provvisorio (dal 1931diventerà, L’allegria) alla raccolta di Ungaretti del 1919, che include anche le poesie pubblicate nel libro d’esordio, Il porto sepolto (1916). La lirica citata dagli Ossi, Arremba sulla strinata proda, appartiene proprio alla sezione che dà il titolo alla prima raccolta montaliana del 1925. La modernità affronta il dualismo fra Dante e Petrarca condendolo con il sorriso dell’ironia e dell’umorismo che rovescia qualsiasi punto fermo per svelare come il suo contrario sia altrettanto plausibile: l’ambiguità diventa il fulcro del discorso artistico, come si evince, ben prima che nel saggio stesso sull’Umorismo di Pirandello (1908), dallo stesso Fu Mattia Pascal (1904), naturalmente. Resta, comunque, una distinzione netta fra la prelavenza dell’una 195 Ma questo stesso tragitto scorre su un filo logico che, dalle riflessioni estetiche sorte durante e all’indomani del primo conflitto mondiale, attraversa il fascismo per (rag)giungere sino a certa filmografia del neorealismo, ove la tensione cinematografica nasce e cresce proprio per poter giustificare il viaggio infernale causato dalla distruzione morale e fisica della guerra e poterlo proiettare verso un futuro, se non proprio di speranza, comunque diverso dal tempo appena trascorso9. Per fare un esempio su tutti, si pensi al finale di Roma città aperta, dopo la fucilazione di don Pietro, il quale, non dimentichiamolo, è condannato per non aver tradito la fiducia di Giorgio, uno dei capi comunisti della Resistenza, ma, soprattutto, per aver sfidato dialetticamente le asserzioni pseudo-religiose del comandante della Gestapo («Quest’uomo è un sovversivo, un senza dio, un vostro nemico!»), al quale il sacerdote oppone la propria verità etica («Credo che chi combatta per la giustizia e la libertà cammini nelle vie del Signore»). Mentre i bambini dell’oratorio (a modo loro tutti partecipi alla Resistenza) si allontanano sconsolati dal luogo dell’esecuzione, abbracciandosi e camminando a testa china, sullo sfondo si vede la città con la cupola di san Pietro che si staglia al centro dell’immagine. È ovviamente il simbolo della vita spirituale votata al sacrificio per gli altri per cui don Pietro si è immolato; ma è anche simbolo di rinascita perpetua – e non necessariamente o dell’altra corrente tematica: in entrambi i casi, il lavoro artistico è veicolo di conoscenza che rivela la difficoltà del vivere. Ma, chi predilige prevalentemente la corrente introspettiva sembra rassegnato a ribadire la negatività della vita; chi, invece, vede la propria esperienza come qualcosa che possa pur sempre svelare una seppur minima via d’uscita, tenta di indicare una strada per superare o sminuire tale negatività. 9 La seconda guerra mondiale è stato uno spartiacque etico e morale, imprescindibile, fra il prima e il dopo, per l’intera generazione intellettuale che aveva operato fra le due guerre o aveva cominciato ad affacciarsi al lavoro intellettuale negli anni della guerra stessa. Su questo aspetto, rinvio alle ancora attualissime pagine scritte nel 1945 da Mario Luzi in un articolo, L’inferno e il limbo, che poi dà il titolo al libro omonimo (1949 e, in edizione accresciuta, 1964). Luzi identifica l’inferno con il male di vivere che ha prima causato la guerra e che è poi stato fomentato dalla guerra stessa, ma lo indica, dantescamente, come temporaneo, non importa quanto lungo l’esilio da una soluzione positiva possa essere. Il viaggio, il tentative di trovare strade nuove è dunque la soluzione estetica da seguire. Identifica invece il limbo con la nostalgia elegiaca (esemplata sulla poetica petrarchesca) che, avendo conosciuto il male, per rifuggerlo, si chiude nella memoria ed evita qualsiasi tentativo di imboccare strade nuove, scavando dentro di sè, ma schivando ogni opportunità di viaggio conoscitivo che, in tale concezione, non può che portare a fallimento. 196 (o non solo) in senso religioso, ma, forse, soprattutto, in senso sociale e umano10. Il viaggio spirituale di don Pietro corrisponde al suo cammino fisico («Non è difficile morir bene. Il difficile è vivere bene», risponde al cappellano poco prima di essere ucciso): è assassinato da dove si vede sia la sua città, Roma, che ha amato e servito fino al sacrificio, ma anche la piccola città al suo interno, con la cupola enorme evidenziata perfino dalla sua sovrapposizione con la parola “FINE” che chiude il film11. Roma, allora, è città aperta anche e soprattutto perché volta verso una nuova era, che non è certo profetizzata come facile o euforica, come si evince dalla sconsolata camminata dei bambini, ma che sarà certo migliore del male assoluto che l’aveva assediata e stretta durante la dittatura prima e la guerra dopo. I bambini, pur ciondolanti e tristi, si confortano l’un l’altro, e dimostrano, dunque, di essere consci del loro ruolo di testimoni. Nonostante il dolore, devono continuare a resistere, e devono ricordare e riportare la loro esperienza a chi non ha visto: ma per denunciare e raccontare, non per recriminare. Denunciare significa andare avanti, cambiare, sostituire, sperare; la mera recriminazione tiene invece fermi sul posto, è soggetta a livore impotente. Il regista sembra suggerire come il proseguimento del viaggio della vita, qualunque cosa ci aspetti, sia l’unico modo per onorare l’insegnamento di don Pietro e poter così offrire a se stessi, e alle generazioni seguenti, una vita diversa. I bambini, perciò, si avviano lentamente verso il cuore di una città eterna e antica, ma rinnovata dal sacrificio di tante persone. Sono essi stessi allegoria dolente di un domani incerto e difficile, ma pur sempre differente dalla stasi letale, asfissiante, imposta dalla dittatura nazifascista. La vita come viaggio, come moto che si distacca, senza dimenticare ma senza cadere nel rimpianto, è l’unica ipotesi che può portare a qualcosa di nuovo12. 10 In passato, la critica, ha forse insistito un po’ troppo sia sulle presunte simpatie marxiste (o, propriamente, per il PCI) da parte di Rossellini, che sul supposto cattolicesimo del regista, a causa, forse, di una lettura letterale, poco dialogica, di certe scene. Per sottolineare la complessità spirituale e tematica del film, basti ricordare che la nobile figura di don Pietro è assistita, nei suoi ultimi momenti, da un cappellano che, sin dai suoi primi gesti impacciati, mostra una ritualità superficiale nonchè una certa connivenza con i carnefici; le sue preghiere – contrariamente a quelle pronunciate dal martire – non hanno assolutamente nulla di spirituale. 11 Mi pare chiaro, anche, il riferimento al nome del sacerdote: come il primo degli apostoli diviene pietra d’angolo di nuova vita, sacrificando la propria. 12 Su questo punto che ruota intorno alla necessità di proseguire il viaggio, a dispetto della forte tensione verso la stasi, rinvio, ancora una volta a Mario Luzi, in 197 Passando ai nostri giorni, possiamo chiederci se e come il cinema degli ultimi anni si collochi in questo scenario fra viaggio e stasi. Le circostanze storiche, dal dopoguerra agli anni duemila, sono mutate drammaticamente e, paradossalmente, quanto anticipato nella prima parte del novecento si ripresenta più attuale in tempi più vicini a noi che non nel periodo del dopoguerra, quando, per cause di forza maggiore, prevale un dualismo più netto, come si è appena visto. Che la dicotomia fra le due tematiche, nel mondo moderno, non possa essere così lineare come nell’universo antico è ovvio. Ho già accennato a Pirandello e al suo personaggio perennemente rovesciato nell’umoristico tragitto da vita a morte a vita statica in attesa della terza e definitiva morte… La stasi e il viaggio sono appiccicate insieme come i libri incollati dall’umidità nella biblioteca che il protagonista morto-resuscitato-ritrovato cerca di mettere, svogliatamente e casualmente, in ordine. Il punto di sutura sfuma nell’umore, fisico e metafisico, e non si riesce più ad identificarlo in modo netto e, tutto sommato, forse non serve nemmeno farlo una volta capito l’andirivieni del gioco della vita13. Il migliore cinema italiano degli ultimi anni è, in buona parte, figlio del contrasto fra questi due temi. Ci sono registi che si prestano a questa dicotomia che, spero di aver dimostrato, è anche conseguenziale e unisce i due estremi. I nomi sono tanti, naturalmente; qui, vorrei soffermarmi, brevemente, su due dei principali registi contemporanei: Gabriele Salvatores e Matteo Garrone. Il primo ha girato film, spesso tratti da romanzi o racconti, che sono apertamente divisi fra pulsione di scoperta e l’istintuale chiusura che, all’inizio, rifiuta la diversità proprio per timore di doverla accettare come migliore in un inevitabile termine di paragone con la stasi di partenza (si pensi a Marrakesh Express, particolare alla poesia Il duro filamento (dalla raccolta del ’65 Dal fondo delle campagne): «Passa sotto casa nostra qualche volta,/ volgi un pensiero al tempo ch’eravamo ancora tutti./ Ma non ti soffermare troppo a lungo». 13 «Don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali». Non c’è forse bisogno di sottolineare che quel “notare” serve a rammentarci, e siamo nelle primissime righe del libro, che, riflettendo su ogni evento, si può rovesciare qualsiasi assunto. 198 1989; Puerto Escondido, 1992; Io non ho paura, 2003; ma anche al thriller Quo Vadis, Baby? 2005)14. Garrone, anche se si pensa solo a Gomorra (2008) e ai suoi impliciti giochi fra viaggi tentati, strozzati e soppressi, gioca con entrambi i temi, imbevendoli di sentimenti contrari e molteplici, che accennano all’impossibilità di uscire dall’inferno della camorra, se non per una scelta imposta o individuale, che, però, resta dissonante dal resto del tessuto societario. Il film, come il libro di Saviano da cui è tratto, è complesso e composito, visto che segue diverse storie che s’intrecciano fra di loro e che rappresentano i vari strati di penetrazione della malavita organizzata nel napoletano (e non solo). L’ impianto del film, che segue a fondo (ma non fino in fondo) diversi personaggi15, lo rende una delle opere recenti più simili al genere epico, con il suo grande affresco narrativo che snocciola il caotico molteplice della vita grazie allo sviluppo della storia del singolo. Qui, prendo ad esempio, schematicamente, tre di questi episodi. Gomorra si apre nello scuro più completo, con un rumore di sottofondo che, per qualche secondo, lascia pensare ad un motore, quasi si stesse per vedere un veicolo che esce da una galleria buia. In realtà si tratta del rumore del compressore di una sala abbrozzante dove alcuni killers della camorra, rei di voler passare ad un altro clan o di non aver rispettato i patti, stanno per essere trucidati dai loro compari. La pellicola si chiude coerentemente con un’altra mattanza, quella dei due giovani sconsiderati che vogliono competere con il crimine organizzato. Il trattore che porta via i loro cadaveri nel cavo della sua pala li depositerà, verosimilmente, in qualche buco non meno buio dell’immagine iniziale. Il film si apre e si chiude, dunque, con il brutale ma efficace modus operandi di chi non desidera cambiamenti di 14 Puerto Escondido è tratto dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci (1990); Io non ho paura dal romanzo di Niccolò Ammaniti (2001) e Quo Vadis Baby? dal romanzo di Grazia Verasani (2004). 15 Non diversamente da molte delle epopee antiche, ma con un occhio anche a quelle moderne (Pirandello, Joyce), il film, come il libro, narra per lo più di eventi in atto, non ancora conclusi al momento della stampa o della produzione filmica, e lascia perciò sospese e aperte le conclusioni. Se alcuni di questi personaggi potranno o sapranno applicare la lezione dell’esperienza esposta nel film, lo possiamo solo dedurre. Il plot del film è complesso, come si è detto, e non si può riassumere facilmente in poche righe. Basti sapere, per chi non ha avuto occasione di vederlo, che segue almeno cinque storie distinte che s’intersecano sullo sfondo del dilagare della camorra e della violenza quotidiana di certe zone del napoletano. 199 sorta; di chi sfavorisce qualsiasi moto che non riconduca al servizio di una divinità immobile nel nome del profitto e del sopruso. L’avventura scomposta e sguaiata dei due giovani guappi che pensano di potersi mettere in proprio finisce in una stasi perenne, uno status quo amorale, che conferma sia la loro evanescenza etica, infantile, che la mancanza assoluta di ogni sentimento umano da parte di chi li uccide16. Il loro è un finto viaggio; in realtà, sono fissi, congelati negli inferi regolati da una prepotenza fisica ed economica che viene emulata e scimmiottata per quello che è: falso movimento, avventura fittizia. Lo scopo, infatti, non è quello di cercare e trovare qualcosa di diverso, che tramuti o, almeno, modifichi in parte il punto di partenza negativo, ma, al contrario, si vogliono raggiungere solo conferme che aiutino ad entrare in un sistema corrotto, annodato su se stesso, che non si desidera sciogliere, ma del quale si vogliono semplicemente le chiavi. Contraltare di questa cecità dettata da avidità, ignoranza, imitazione di falsi modelli-feticci e, alla fin fine, soprattutto dalla povertà economica, strutturale e morale che circonda le vite violente e misere di questi manovali del grande crimine è l’avventura di chi si ribella, seppur in ritardo, alla stasi etica e civile prodotta dal crimine. È il caso di Roberto, il giovane laureato che abbandona il suo ruolo di tuttofare per il mediatore (Franco) senza scrupoli che organizza la rimozione illegale dei rifiuti tossici. È una rivolta individuale che porta ad un mutamento di rotta parziale (Roberto non denuncerà i soprusi di cui è stato partecipe e testimone) e che è rappresentato, fisicamente, dal suo scendere dal vistoso SUV di Franco per proseguire il cammino a piedi, da solo: in questo caso, l’apprendimento di fatti ed episodi nuovi porta, almeno, all’autocoscienza di ciò che non si vuole. L’episodio che scatena la rivolta e fa scendere Roberto da un veicolo che lo trasporta ogni giorno sempre di più a ritroso nella disumanizzazione provocata dalle loro azioni è significativo. La ribellione scatta quando Franco gli chiede di gettare delle pesche che una vecchia contadina gli aveva donato, perché contaminate dai rifiuti tossici che loro fanno scaricare nelle campagne. La vista delle pesche gettate a terra, sul ciglio di una desolata strada di campagna, più ancora che gli effetti terribili sulla pelle di un operaio che era entrato in contatto con il liquido di uno dei 16 Signifiativo della miseria etica dei due ragazzi è il loro imitare gangsters da film; un comportamento che contrasta, psicologicamente e fisicamente, con i veri gangsters che poi li uccidono. 200 bidoni di rifiuti, innesca la molla che fa scattare la presa di coscienza di Roberto. Il dover disonorare un dono, simbolo sincero e antico di ospitalità, ricevuto in una delle sue esplorazioni condite dalla falsità degli intenti che mirano a convincere delle proprie buone intenzioni chi viene costantemente e lentamente avvelenato dagli stratagemmi escogitati da Franco, diviene un punto antropologico di non ritorno. Il suo lavoro, il suo vagabondare, i suoi tanti contatti con la gente, invece di metterlo in sintonia con i luoghi che visita e le persone che incontra, lo isolano in un’alienazione sempre maggiore. Il suo non è un viaggio di scoperta: è un agitarsi interno di fronte alla ripetizione ossessiva del male che perpetua. Quando finalmente lo scopre e ha la forza di agire di conseguenza, lo fa, ripartendo grazie alle proprie gambe, come fosse necessario riportarsi al grado zero del movimento umano per poter scrollarsi di dosso il lerciume perpetrato anche grazie ad aerei, macchine e treni che facilitano il distacco dalla terra che si sta avvelenando. Infine, si pensi alla figura del sarto, Pasquale, il quale, per guadagnare qualcosa in più, ma spinto anche dall’amore per la sua professione, finisce per accettare di insegnare sartoria, di nascosto, in una fabbrica abusiva di cinesi. Un atto sconsigliato per chi lavora in un ambiente lavorativo che smercia grazie alla protezione (voluta o meno) della camorra; è un’azione che vorrebbe preludere alla trasmissione di esperienze, all’insegnamento di un’arte che può cambiare la vita di altri, migliorandola. Ma questa è una sfida all’establishment di chi, pensando solo al proprio miglioramento (economico), non gradisce alcun movimento orizzontale, che produca soluzioni alternative. Dopo la sua prima lezione notturna, Pasquale torna a casa all’alba e deve scansarsi per far passare, sulla statale senza marciapiedi dove vive modestamente con la sua famiglia, un camion che sfila veloce nelle luci del primo mattino estivo. È un’immagine che prelude al suo stesso destino. Sopravvissuto ad un attentato proprio per aver azzardato una via non autorizzata dal mondo semi-sommerso che regola la vita del posto, finisce per abbandonare il lavoro che ama per fare, lui stesso, il camionista: diventa, cioè, egli stesso veicolo di viaggio perenne, al di là di ogni metafora. Il culmine della sua storia esistenziale è raggiunto quando, ad una stazione di servizio, vede in televisione un abito che lui ha disegnato, indossato da una star di Hollywood (Scarlett Johansonn). La sorpresa, l’incredulità di Pasquale nel vedere il proprio vestito in televisione, in quel contesto brillante e 201 famoso che contrasta ferocemente con la desolante anonimità del luogo dove lui si trova, è seguita da gesti e smorfie che accennano appena ad un sorriso e trovano il loro culmine quando sale nella cabina del grosso camion che, scopriamo proprio in quel momento, ora guida per lavoro. Nell’accendere il motore sembra rimpiangere per un attimo le proprie scelte, per poi ripartire senza troppi indugi. Anche in questo caso, sembra delinearsi l’impossibilità di identificare una strada certa che trasporti fuori dalla selva oscura del male, se non rassegnandosi ad abbandonare per sempre la propria Itaca, rappresentata dall’amore per il proprio mestiere di sarto, strappato per sempre, quasi fosse un contrappasso dantesco, dalle sue abili mani ora costrette a manovrare un volante e viaggiare avanti e indietro su percorsi prestabiliti, nei quali, la novità, se giunge, arriva in un autogrill, da un televisore che trasmette immagini legate ad un passato che non si può integrare con il presente o il futuro del protagonista. Vorrei concludere questo excursus tematico, soffermandomi brevemente su Salvatores. Nel suo caso, possiamo forse intravedere la tentazione di accarezzare entrambi i modelli: quello più netto, di un mondo in cui i colori sono chiari, e quello più sfumato della modernità. Basti pensare a film come Puerto Escondido o Marakkesh Express, i cui finali, pur diversi, comprovano che la partenza, forzata (PE) o volontaria (ME), acquista senso solo nella chiusura, ironica, del cerchio delle avventure: da una stasi che i rispettivi protagonisti non (ri) conoscevano come tale, ad un viaggio verso un ignoto che, se non presenta un lieto fine, presenta almeno un fine utile, sia a livello psicologico che etico17. In ogni caso, l’uscita dalla stasi è vista come necessaria per provare ad ottenere qualcosa di altro, anche se l’ironia e l’umorismo cambiano continuamente il risultato di questo altro. Ma se prendiamo, per esempio, l’intera struttura del progetto di Io non ho paura, vedremo come qui il regista si distanzi dalla maggior realismo del libro, in cui anche i protagonisti infantili partecipano in buona misura ad una brutalità esistenziale da cui si può solo fuggire solo grazie al viaggio interiore, onirico, del bambino-protagonista, Michele. Il libro è in flashback: Michele, adulto, ricorda e racconta come e cosa abbia imparato dal suo viaggio che, prende forma, solo 17 In entrambi i film, dopo molte peripezie, i protagonisti, oltre a ritrovarsi o a trovare una nuova linfa vitale, riescono in qualche modo a far perfino del bene alla popolazione locale. 202 perché coscienza del ricordo. Nel film, vediamo tutto in contemporanea insieme agli occhi di Michele. L’azione si svolge in un villaggio del Sud, semi-abbandonato, dove la scarsa popolazione locale è tutta coinvolta nel rapimento di un ricco bambino milanese (Filippo). Michele, il figlio di uno di uno dei rapitori, mentre gironzola e gioca con gli amici, scopre casualmente il covo sottoterra dove tengono prigioniero Filippo e lo va a trovare ogni giorno, acquisendo pian piano coscienza che deve aiutarlo a fuggire. Quando i rapitori cambiano il covo di Filippo e Michele capisce che lo stanno per ammazzare, Michele cerca e trova il nuovo nascondiglio e l’aiuta a fuggire appena in tempo, rimanendo lui stesso ferito da un colpo di pistola sparato da suo padre. La stasi iniziale da cui i protagonisti adulti e infantili bramano di fuggire è certamente infernale, ma ricorda anche un po’ il limbo, perché la desolazione dei luoghi e delle persone sottolinea il loro ristagnante malessere, una staticità che sembra ravvivarsi nel momento in cui i protagonisti cominciano un delirante viaggio mentale che, nei loro sogni strozzati, dovrebbe portarli lontano, verso l’eldorado del Nord. Tutto questo è ben rappresentato dalla centralità feticistica della televisione, che diventa il vero idolo cui pagare omaggio ogni sera per vedere se il notiziario parla di loro, della loro impresa che deve restare segreta per ovvie ragioni (il rapimento del bambino) ma che loro vorrebbero gridare ai quattro venti per far vedere a tutti che anche loro sono importanti, sono in viaggio verso un qualcosa di nuovo e diverso che li porterà ad un nuovo status di riconoscimenti e onori. Ma, per tornare alla realtà della storia, sono gli occhi di Michele che ci guidano e ci raccontano in diretta i contorni e le contraddizioni dei vari eventi e protagonisti. Michele non sente su di sè la condanna della stasi letale che affligge gli adulti e anche alcuni degli altri bambini; lui, non diversamente dal suo coetaneo Filippo, il bimbo rapito, viaggia continuamente con la sua fantasia sia per evitare il male che lo circonda che per rassicurarsi un ritorno nel suo nido, nella sua Itaca rappresentata dalla sua diroccata casetta e camera da letto. La stasi, inconsciamente, nutre la voglia di partire ogni giorno per un’avventura diversa; avventura che, per un bambino, non avrebbe senso se non vi fosse il punto di riferimento del ritorno assicurato. Il dramma prende una svolta improvvisa proprio quando lui trova sia lo spazio esterno che quello interno, rappresentato dalla sua cameretta da letto, occupato da Sergio, il bandito venuto da Roma nel libro e dal Nord 203 (Milano) nel film. È proprio la presenza inquietante e attraente del cattivo, Sergio, che scioglie gli ultimi dubbi di Michele e lo spinge a prendere coscienza che quella che sembra un’avventura quotidiana, un passatempo, deve diventare una missione, liberare Filippo; consentire anche a lui il suo nostos, il suo ritorno a casa. Proprio perché tutto nasce da un gioco e da un vagabondaggio di bambini il film ottiene una sua coerenza nell’equilibrio fra male e bene, fra coscienza della colpevolezza e innocenza: il finale può non piacere nella sua quasi edulcorata innocenza dei bambini che si toccano le mani prima di essere separati per sempre, ma è necessario per sottolineare come il cerchio di questo viaggio di conoscenza si possa chiudere, in qual modo positivamente, solo al loro livello, soltanto e solamente per loro, per chi, avendo subìto il male, non lo ha ancora perpetrato, contemplato e può ancora sperare di restare, di stare, una volta ritrovata la strada di casa. Opere citate: Bettiza, Enzo, Esilio, Milano, Mondadori, 1995. Ferrucci, Franco, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione, Milano, Mondadori, 1991. Heaney, Seamus, The Redress of Poetry,1996. Kundera, Milan, L’ignorance, Paris, Gallimard, 2000. Luzi, Mario, L’inferno e il limbo, Milano, Il Sagggiatore, 1964. Magris, Claudio, Itaca e oltre, Milano, Garzanti, 1992. —, Utopia e disincanto, Storie speranze illusioni del moderno, Milano, Garzanti, 1999. Said, Edward W., Out of Place, New York, Alfred A. Knopf, 1999. 204 205 Federico Pacchione Giuseppe Tornatore in viaggio attraverso il padre Il valore di uno studio intertestuale non risiede nell’identificazione di un legame, ma piuttosto nella possibilità che tale legame ha di illuminare la natura di un’opera o di un’arte. Sarà quindi importante capire se un recupero di un certo linguaggio felliniano o il confronto con luoghi del suo cinema indichino la presenza di una koiné, o di un’esigenza di mercato in quanto aderenza a una formula accettata di film d’arte, oppure attestino a un omaggio o una smorfia verso una delle figure più rappresentative del cinema italiano come il tentativo di attraversare e esorcizzare un modello divenuto forse opprimente e scomodo, o ancora se gli echi felliniani sollevino una coincidenza di ricerche parallele. Quello di Tornatore è stato definito un cinema “filmofago” (Fittante, p. 44), e infatti dietro i suoi film si assiepano folte le memorie cinematografiche e spiccano modelli come Ettore Scola, Francesco Rosi e Luchino Visconti (p. 35; p. 41). Prima di questi si staglia tuttavia l’ombra lunga di Federico Fellini che per Tornatore è equivalso fin dall’infanzia al cinema stesso e al quale egli deve l’impulso di lasciare la Sicilia per inseguire la carriera di cineasta. Tutto ciò è rievocato da Tornatore in un’intervista della fine del 1993: … compravo le sceneggiature dei suoi film pubblicate dall’editore Cappelli, leggevo le sue biografie, collezionavo le musiche di Rota, organizzavo al liceo alcuni cineforum tentando impacciate quanto appassionate introduzioni a La strada e Otto e mezzo che avevo già rivisto più volte… Mi accorgo oggi di avere sempre nutrito un affetto particolare per i film di Federico Fellini. (Tornatore, p. 32) 206 Tornatore doveva esprimere questa equazione tra cinema e Fellini nel finale di Nuovo cinema paradiso, dove al termine della sequenza dei baci, avrebbe voluto mostrare di sfuggita Fellini nei panni del proiezionista. Fellini rifiutò giustificandosi che avrebbe distratto dal film e consigliando a Tornatore di filmare invece sé stesso, ma di qui nacque il loro incontro durante il quale Tornare gli mostrò il film. Anche se il finale poi venne realizzato diversamente, la presenza di Fellini rimane nella sequenza che mostra un pubblico intento a guardare I vitelloni, film che, come nota Bondanella, ha in comune con Nuovo cinema paradiso il tema della maturazione e la nostalgia per il piccolo borgo e la sua vita (p. 68). Nel ricordo del giovane regista si coglie chiaramente l’ansia con la quale attendeva il responso del maestro, proprio come il giudizio di un padre: È un episodio che non dimenticherò mai… Io tremante d’emozione me ne andai in cabina e per tutta la durata del film rimasi appiccicato alla finestrella della proiezione a spiare nel buio i suoi movimenti, per capire quali scene del film potessero annoiarlo o infastidirlo. In tutta la mia vita non ho mai fissato così a lungo una persona di spalle! Dopo la proiezione s’intrattenne a parlarmi, mi incoraggiò, diede qualche piccolo suggerimento, disse che potevo telefonargli. (Tornatore, p. 33) Sarebbe giustificato allora chiedersi se il tema della ricerca del padre che appartiene a Nuovo cinema Paradiso, e che è stato persino studiato secondo le categorie campbelliane del mito psicoanalitico (Thiel), abbia già qui delle radici meta-cinematografiche. O ancora, come ha fatto Giacomo Striuli, se dietro a Nuovo cinema Paradiso si nasconda, per le strategie metanarrative e l’enfasi posta sul ricordo e sullo scavo nell’identità, una discendenza pirandelliana come filo conduttore tra Fellini e a Tornatore. Il passaggio da Pirandello a Fellini può essere tuttavia saltato in questo caso in quanto Tornatore condivide con il drammaturgo prima di tutto la sicilianità. Rimane però ormai un dato di fatto che, per l’esplorazione meta-cinematografica sulla natura della creatività, e cioè per il cinema nel cinema, Fellini è ormai canone istituzionalizzato per tanti registi; in particolare penso, con le debite differenze e cautele, a Woody Allen (Stardust Memories, 1980), Nanni Moretti, Francois Truffaut (La nuit américaine, 1973), Bob Fosse (Sweet Charity, 1969; All That Jazz, 1979), Paul Mazursky 207 (Alex in Wonderland, 1970) e alla coppia Spike Jonze-Charlie Kaufman (Adaptation 2002). Ma ecco come direbbe Tornatore riguardo ipotesi di influenze felliniane nel suo lavoro: Spesso i giornalisti mi chiedono se l’opera di Fellini abbia avuto influenza sui miei film. Generalmente taglio corto con diffidenza, glisso per paura di essere frainteso, ma la vera risposta è che il cinema di Fellini non ha influito sui miei film, ha influito invece sulla mia volontà di fare film. (Tornatore, p. 32) È naturale e giusto che l’artista si preservi il diritto (che è poi anche un dovere) di testimoniare l’unicità del suo rapporto con la propria creazione. Allo stesso modo sta allo studioso il diritto e il dovere di constatare l’esistenza di rapporti storici e intertestuali tra le opere d’arte di vari autori e di descriverne la natura. È inevitabile però metterci un tocco di malizia e leggere dietro il bisogno di Tornatore di tenere i propri film lontani da quelli di Fellini l’ansia del figlio che vuole distinguersi dal (e di fronte al) padre. Ma gli studiosi hanno avuto poco ritegno nell’approfondire questo legame, e noi speriamo di averne ancor meno, sempre comunque nella speranza di non “fraintendere” il regista e di ascoltarlo invece nel suo linguaggio più intimo. Nel caso specifico e concreto di Tornatore e Fellini siamo di fronte a un rapporto artistico molto complesso che non si può risolvere nell’idea di una filialità accondiscendente, piuttosto il dialogo che Tornatore istaura con l’opera cinematografica felliniana si svolge per vie che sono sia apparenti che nascoste e rivela un rapporto non privo di conflitti, dubbi e contraddizioni. In Stanno tutti bene, Tornatore segue la storia dolceamara di Matteo Scuro, un padre siciliano che attraversa la penisola per andare in visita ai suoi figli dispersi in grandi città italiane quali Napoli, Roma, Firenze, Milano e Torino. Il film viene realizzato dopo Nuovo cinema paradiso, ma è concepito prima del 1988, ed è quindi da considerarsi un film situato nel pieno della nascita della carriera registica di Tornatore (Vitti pp. 64-65). Non sorprende quindi che in questo film egli faccia i conti con la figura del padre, sia quello biologico siciliano, che quello cinematografico, ovvero Fellini, chiedendosi se quest’ultimo sia ancora un valido modello da seguire oppure no. Nell’attraversare questo secondo livello di paternità, Tornatore si confronta con una serie di motivi e stili di stampo felliniano e così 208 facendo dà alla luce un film che è anche tassonomia e reinterpretazione personalissima del cinema di Fellini. È stato per via di simili elementi che alcuni critici e spettatori hanno accusato il cinema di Tornatore di pretenziosità e falso poetismo. Rimanendo aldilà del film, così si esprime Paolo Mereghetti nel suo dizionario: All’opera terza, Tornatore fa un passo falso… lo stile spesso fellineggia (la mongolfiera sulla spiaggia). Facili moralismi, trovatine che vorrebbero fare poesia (il cervo sull’autostrada), e tanti chiché… Mastroianni, ingrigito e imbambolato, è quasi insopportabile. (p. 2503) Era inevitabile quindi che Stanno tutti bene ricevesse una tale accusa, in quanto Tornatore per attraversare Fellini non poteva che mettere in scena il linguaggio felliniano, e quindi come koiné e insieme di formule. Come si intende dimostrare in questo saggio, con Stanno tutti bene non siamo di fronte a una grossolana imitazione di poetica, ma a un doloroso e complesso tentativo di comprendere e risolvere una paternità cinematografica, nei suoi limiti e nelle sue promesse. Seguiamo quindi insieme alcuni dei passaggi più salienti di questo confronto con il padre. Come preambolo, è interessante aprire una parentesi per notare come la relazione padre-figlio di Stanno tutti bene fosse già prefigurata da un episodio della Dolce vita, quello della visita del padre di Marcello che presenta in modo embrionale temi che saranno poi ripresi e sviluppati da Tornatore: il personaggio del padre commerciante1, il suo arrivo alla grande città dalla provincia, il suo entusiasmo per cose considerate ovvie dai giovani, l’incapacità di riavere una giovinezza attraverso il ballo e la sessualità, e la preoccupazione di fondo sul reciproco stato di salute e felicità (la ricorrente domanda: “come stai?”). Naturalmente Tornatore recupera anche, in Matteo Scuro, il protagonista considerato alter ego di Fellini, ovvero il provinciale inurbato Moraldo-Marcello frutto dell’epopea eroicomica di I vitelloni, Moraldo in città, La dolce vita, e 8 1/2, incarnato soprattutto dallo stesso 1 Matteo Scuro dice di essere un commerciante di vite, lavorando all’anagrafe. Inoltre all’origine del personaggio vi è una reale commesso viaggiatore che Tornatore osservò e di cui volle inventare la storia (Antonio C. Vitti, Dal “pedinamento” all’affabulazione cinematografica in Stanno tutti bene”, «Italica», vol.80, n.1, Spring, 2003, pp. 64-65). 209 Mastroianni. In La città delle donne, Fellini aveva lasciato Marcello già invecchiato, un po’ ottuso e miope alle prese con la fantasmagoria femminile della sua psiche. Nel finale di quel film, il protagonista si risvegliava dal sogno con gli occhiali mezzi rotti, una lente a posto e l’altra frantumata, con un occhio rivolto al buio interiore, l’inconscio, e l’altro al mondo esterno con una rinnovata consapevolezza di ciò che costituisce proiezione dei suoi sogni. Tornatore insiste che Mastroianni indossi anche nel suo film dei grossi occhiali da vista, che a detta dell’attore stesso erano “più spessi di fondi di bottiglia” (cit. in Dewey, p. 275). Anche in Stanno tuttti bene, gli occhiali sono collegati allo sguardo della mente, tuttavia entrambe le lenti sono troppo spesse e trattengono perennemente lo sguardo di Matteo rivolto all’interno, nei suoi ricordi, sogni e fantasie. Il nome stesso del personaggio bisbiglia qualificazioni di pazzia, di oscurità, e dominato dall’aggettivo “scuro” sottolinea una cecità o un’opacità. Sia in La città delle donne che in Stanno tutti bene, che iniziano entrambi con viaggi in treno nell’alternarsi tra la luce e l’ombra delle gallerie dei sogni, lo sguardo interno dietro il vetro deformante dell’occhiale è trasmesso dall’altra lente, quella della telecamera, che ci porta in entrambi i casi a sondare le profondità della psiche. Di particolare rilievo è la sequenza del sogno ricorrente di Matteo Scuro dove si recupera, attraverso i toni di un surrealismo di maniera, il sogno iniziale di 8 ½ fondendolo a un’altra famosa visione proveniente da Giulietta degli spiriti. La fine del sogno giunge a Matteo mentre passa la notte a casa della figlia Norma a Torino. L’ameba nera e tentacolare sopraggiunge sulla spiaggia con lo stesso senso di ineluttabile decadenza del barcone di fantasmi bitumosi che Giulietta tira fuori dal mare del suo inconscio. Dalla loro spiaggia daliliana fuori dal tempo, i figli di Matteo si aggrappano e sono rapiti dall’enorme mostro volante, contemporaneamente familiare e alieno all’isolano Matteo Scuro come infondo gli è la modernità stessa. La misteriosa medusa è il simbolo attraverso il quale Matteo spiega l’incognita forza che ha portato via i suoi figli (che prima si aggrappano e poi strillano aiuto). Ed è lo strattone di una corda, proprio come nel sogno di 8 ½, a culminare e terminare l’ansia del sogno, ma con un’interessante variazione. Il sogno di 8 ½ è ripreso ma è anche rovesciato, come è reso esplicito dalla sveglia che ridesta Matteo, che segna il titolo del film letto 210 al contrario. Inoltre, mentre l’elevazione e il volo erano per Guido, protagonista di 8 ½, elementi di serenità, per Matteo sono motivo di terrore. Il linguaggio onirico felliniano viene quindi riadattato da Tornatore ai propri fini per esprimere la paura del protagonista di fronte alla crescente distanza tra i suoi figli e la mitica e fantastica terra della sua identità. Inoltre, lo spazio del volo e dell’immaginazione, proprio come avevamo visto per gli occhiali, è esacerbato in toni negativi e perde la sua qualità e simbologia liberatoria e salvifica. Vediamo quindi come nel valutare lo stato di salute del suo padre cinematografico, nonché liberarsi una volta per tutte dalla sua influenza, Tornatore decostruisce la koiné felliniana dall’interno. Dopo aver attraversato il volo onirico, Tornatore attraversa anche quell’energia e senso di movimento, o meglio quella qualità danzante trasmessa dal cinema di Fellini a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, qualità che non a caso ha favorito fino ad oggi uno scambio con il musical di Broadway. La sequenza nella sala da ballo di Rimini è senz’altro un momento di riflessione sull’anzianità (Vitti, p. 62), ma è anche il marcato e fallimentare tentativo di Matteo di rivivere un’avventura amorosa e di recuperare una vitalità giovanile, e quindi un ulteriore accenno alla stanchezza del padre cinematografico nei ultimi anni ottanta. Come a Matteo mancano le energie per sostenere il ballo, così viene meno la possibilità di ritornare alla danza creativa che fin dagli anni ’60 era divenuta, per mezzo delle parole messe in bocca a Orson Wells da Pasolini nella Ricotta, bandiera del cinema poetico di Fellini. E la stessa passeggiata lungo la spiaggia esistenzial-surrealista, memore di alcune immagini ormai indelebili di I vitelloni, sembrerà aprirsi a uno spiraglio di miracolo, una voce dal cielo che però si appiattisce in effimera quotidianità. Il viaggio alla fonte della creatività, nella terra d’origine del padre, Rimini, si dimostra inefficace, un sogno grigio, ottuso e muto, come le facce dei passeggeri dietro i vetri del pulman che conferma soltanto una spenta vecchiaia (un altro frammento del sogno che apre 8 ½). E allora il passo incalzante della colonna sonora del film stesso, che infila le varie sequenze al ritmo di una marcia un po’ boriosa e ridicola, è il segnale dello svolgersi di un’epica eroicomica al centro della quale sta questa molteplice figura di padre. L’elaborazione e realizzazione di Stanno tutti bene, coincide con il più drammatico nonché ultimo momento della carriera di Fellini, 211 spesso visto dagli stessi protagonisti come un punto di esaurimento e di disfatta. Mi riferisco ovviamente a La voce della luna, anch’esso del 1990, il film che più di ogni altro manifesta una visione registica intrappolata in uno stato di imbarazzo e paralisi verso la realtà contemporanea, e sclerotizzata nell’iper-stilizzazione di un orientamento autoriale che non è più in grado di attingere il suo giusto nutrimento dall’apporto di collaboratori fedeli come Tullio Pinelli (Pinelli cit. in Barbanente, p. 114). Per l’appunto il valore dell’ultimo film di Fellini è proprio quello di mettere in scena l’emarginazione generazionale e l’impasse di un’arte che non ritrova più i suoi stimoli e le sue ragioni di essere nel mondo che una volta era il suo. In un recente saggio, Antonio Vitti ha parlato di come dietro a Stanno tutti bene si celi un discorso sulla perdita di presa sulla realtà del cinema nell’era della televisione, in contrasto alle prospettive del pedinamento neoreliastico al quale il film è ricco di riferimenti. L’impasse cinematografico di Stanno tutti bene può senz’altro essere spiegato come lo scontro tra il pedinamento zavattiniano della realtà, di cui il viaggio di Matteo Scuro potrebbe essere similitudine, e le trasformazioni antropologiche e storiche che lo stesso Matteo, dietro la lente deformata dell’occhiale/macchina da presa, fatica a guardare. Tuttavia è unendo tale prospettiva con una discussione dei forti richiami alla ricerca cinematografica nell’inconscio del cinema di Fellini, al suo fascino e al suo allora precario stato di salute, che si può comprendere a fondo il significato del film e la sua collocazione storico-culturare. Tornatore aveva una profonda familiarità con La voce della luna, in quanto ne aveva seguito la lavorazione sul set (Tornatore, p. 33). Non c’è dubbio che il rifiuto e l’emarginazione dalla modernità siano al centro di entrambi i film, e con essi la nostalgia per il passato. Non a caso, avvicinando il cinema di Tornatore a quello di Fellini, Peter Bondanella ha parlato di un consimile cinema della nostalgia assieme a una simile ricerca espressionistica dei visi. Se il secondo punto ci pare meno rilevante in quando tale aspetto estetico non è di certo un primato felliniano, l’elemento della nostalgia risulta invece opportuno e profondo al rapporto tra questi due artisti e, come vedremo, centrale anche alla presente discussione su Stanno tutti bene. Tornatore stesso ha sottolineato questa comunanza sulla nostalgia della provincia: 212 Li ho sempre sentiti [i film di Fellini] molto familiari, mi trovavo assolutamente a mio agio nel vederli e rivederli, c’era qualcosa in quel mondo di fantasmi di provincia, in quell’ironica malinconia, che mi ricordava paradossalmente Bagheria e i personaggi della mia adolescenza. E il fatto che i suoi fantasmi romagnoli, la sua malinconia, la sua provincia, lo avessero reso così grande nel mondo incoraggiava in qualche modo il mio desiderio di tradire la mia provincia, di allontanarmene per sempre, di andare altrove, dove si faceva il cinema. (Tornatore, p. 32) È interessante notare come questo sentimento di nostalgia nasca per Tornatore, così come poi anche per Fellini (che scelse Viterbo e Ostia per inscenare una cittadina adriatica), da un desiderio di mantenere le distanze. Potremmo dire allora che la nostalgia condivisa da i due registi non desideri un ritorno ma bensì un allontanarsi, per meglio immaginare e per meglio raccontare. Si veda poi come Patrick Rumble abbia chiamato in causa, indirettamente, l’elemento nostalgico del cinema di Tornatore nello spiegare come il suo successo con il pubblico nord americano sia dovuto al senso di un recupero di un’autenticità identitaria emanato da un film quale Nuovo cinema paradiso. Ed è certamente per esprimere la distanza dalla modernità e la nostalgia del passato che Tornatore sceglie per Stanno tutti bene uno sceneggiatore come Tonino Guerra che, con la stessa intensità di un Pasolini e un Volponi, ha espresso con la sua opera il massimo rifiuto delle trasformazioni antropologiche acceleratesi dalla metà del secolo in poi. Non solo, ma l’apporto di Guerra era anche alla radice dello svolgimento lirico di tale motivo di nostalgia e amarezza nei film di Fellini stesso quali Amarcord, Ginger e Fred e E la nave va. Più di ogni altro sceneggiatore, Guerra infatti rappresenta e incarna nell’opera felliniana l’attrito con la contemporaneità, portando nello schermo modi della sua poesia come la riscoperta di una corporalità grezza ma proprio per questo nobile e affrancata da un’artificiale igiene moderna (Gramigna, p. 5). La penna di Guerra si rintraccia facilmente nell’uso simbolico dell’animale come portatore più diretto di una tale corporalità; e il cui effetto era stato trasportato nello schermo felliniano nella forma di buoi, gabbiani e pavoni. Proprio al colorato uccello che interrompe i fermenti della banda di giovani sotto la neve di Amarcord rimanda infatti la silenziosa e regale apparizione del cervo che 213 blocca il traffico nell’autostrada su cui Matteo Scuro viaggia con la figlia Tosca. Questo motivo della presenza sacrale della bestia tornerà anche nel mediometraggio di Tornatore Il cane blu, uno degli episodi di La domenica specialmente (1991), scritto interamente da Guerra. È interessante allora notare a quale profondità Tornatore risalga per rapportarsi a Fellini e al suo linguaggio, ingaggiando in collaborazione uno dei fautori stessi del suo ultimo cinema quale Tonino Guerra. Altro che falso poetismo! Stanno tutti bene è quindi da considerarsi il momento principe di un attraversamento, un punto di non ritorno e il passo più significativo verso l’indipendenza dell’identità artistica di uno dei maggiori esponenti del nuovo cinema. In questo film Tornatore risolve a sé stesso il proprio legame artistico con il cinema di Fellini, nonché la propria posizione come regista del cinema nuovo. Si tratta della ricerca di un chiarimento, la testimonianza di un impellente bisogno di attraversare una figura chiave e il risultato è duplice: da una parte abbiamo un omaggio entusiasta per un cinema carico di emotività e capace di andare nel profondo, dall’altra un allarme per la crescente separazione di questo stesso cinema dal mondo attuale. Tutto ciò implica anche un superamento, che poi si manifesterà nel gesto spavaldo del film seguente, Una pura formalità (1994), dove Tornatore dimostrerà di saper affrontare il tema dell’aldilà come Fellini non ha saputo o voluto fare con il suo Mastorna. E proprio su questo set, Tornatore ricorda: Quando giravo Una pura formalità io e Polanski ci rimandavamo in continuo battute, quiz e piccole memorie felliniane. Una volta, dall’altro capo del set mi chiamò e mi domandò: “Asa Nisi Masa?”. Tutti gli altri ci vedevano scambiarci questi sorrisi e cenni di intesa. (Tornatore cit. in Sesti e Crozzoli, p. 12) È difficile giudicare se sia un bene o un male che Matteo Scuro fatichi a riconoscere la mediocrità delle vite dei suoi figli, tuttavia è indiscutibile che Matteo giunga alla fine del suo viaggio a delle conclusioni: ovvero che i figli, o per lo meno i nipoti, devono essere cresciuti liberi dal peso di gloriose quanto illusorie promesse, non a “essere qualcuno” ma a essere “uno qualsiasi”. Il risvolto cinematografico di questa nuova prospettiva è la proclamazione del bisogno di accettare il proprio presente, anche nei suoi aspetti meno poetici, piuttosto che fuggire in un fastoso sogno del passato, con la consapevolezza che infondo, come scopre 214 Matteo nel sogno finale il vino, e anche il cinema, si fa con l’uva. Si tratta di un’immagine polivalente, e senz’altro anche di un richiamo a un’arte più radicata e spontanea. Assistendo alla propria nascita in sogno, Matteo capirà anche che affinché i giovani crescano forti e fortunati si deve mettere in mano, la prima volta che gli si tagliano le unghie, un milione: i nuovi registi, nei primi passi della loro crescita, hanno bisogno solo di un po’ di incoraggiamento finanziario. Bibliografia Barbanente, Mariangela, Tullio Pinelli. Ritratto di uno scrittore cinematografico, Diss. Università Degli Studi di Roma La Sapienza, 1994-1995. Bondanella, Peter, La memoria di Federico Fellini sullo schermo del cinema mondiale. Atti del Convegno internazionale di studi Rimi, 7-9 novembre 2003, Rimini, Fondazione Federico Fellini, 2003, pp. 62-65. (Esiste anche una versione aggiornata di questo saggio: La presenza di Fellini nel cinema contemporaneo. Considerazioni Preliminari, Fellini Amarcord 1-2, agosto 2007, pp. 35-50.) Dewey, Donald, Marcello Mastroianni: His Life and Art, New Nork, A Birch Lane Press Book, 1993. Faustini, Giuseppe, Stanno tutti bene: l’Italia amara di Tornatore”, American Journal of Italian Studies, Web., Jul 28, 2005. Fellini, Federico, dir. Amarcord, 1973. —, dir. E la nave va, 1983. —, dir. La voce della luna, 1990. Fittante, Aldo. Giuseppe Tornatore: il cinema si fa con l’uva, in Sicilia e altre storie. Il cinema di Giuseppe Tornatore, ed. Valerio Caprara, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiana, 1996, pp. 35-46. Gramigna, Giuliano, Preface. Storie dell’anno Mille, Milano, Bompiani, 1977, pp. 5-9. Mereghetti, Paolo, and Alberto Pezzotta. Il Mereghetti: dizionario dei film 2006, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005. Rumble, Patrick. Tornatore e l’America: il cinema dell’anamnesi, in Sicilia e altre storie. Il cinema di Giuseppe Tornatore, ed. Valerio Caprara, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiana, 1996, pp. 11-20. Sesti, Mario and Andrea Crozzoli, eds. Il viaggio di Fellini. Fotografie di Gideon Bachmann, Pordenone, Cinemazero, 2003. 215 Striuli, Giacomo, Pirandellian Echoes in Giuseppe Tornatore’s Cinema Paradiso, «Italian Culture» n. 20, 2002, pp. 11-24. Thiel, Lydia Distefano, Cinema Paradiso: Search for the Father. «Romance Languages Annual», n. 3, 1991, pp. 321-325. Tornatore, Giuseppe, Amarcord Fellini. Giuseppe Tornatore, a cura di Sergio Toffetti, Torino, Lindau, 1995. pp. 31-33. (Originariamente pubblicato in: «Periodico bimestrale del Banco di Sicilia», v. 20, novembre-dicembre, 1993). —, dir. Stanno tutti bene, 1990. —, dir. Il cane blu, episodio di La domenica specialmente, 1991 —, dir. Una pura formalità, 1994. —, dir. L’uomo delle stelle, 1995. —, dir. Nuovo cinema Paradiso, 1988. Vitti, Antonio, Dal “pedinamento” all’affabulazione cinematografica in Stanno tutti bene”, «Italica», vol.80, n.1, Spring, 2003, pp. 53-66. 216 217 Anthony Tamburri Il Vecchio Mondo in opposizione a quello Nuovo: la coincidentia oppositorum nel Nuovomondo di Emanuele Crialese «Voi siete il futuro nostro!» Il prete di Petralia Sottana mentre saluta Rita e Rosa Le scene iniziali di Nuovomondo di Emanuele Crialese stabiliscono le premesse per una serie continua di contrasti che cresce ed evolve nel corso del film. Da una parte, questi contrasti si basano su differenze reali tra le condizioni di vita dei personaggi e quello che possono aspettarsi negli Stati Uniti. Dall’altra, sono basati su credenze irrealistiche come, ad esempio, le enormi monete e verdure che Salvatore e la sua famiglia vedono nelle cartoline inviate alla famiglia dagli Stati Uniti, dove il fratello americano era emigrato anni prima. Sullo stesso tono, troviamo anche i protagonisti a nuoto in un fiume di latte circondati da gigantesche carote galleggianti. Nella madrepatria Il nostro primo incontro con la Sicilia di Salvatore avviene nel territorio montuoso nel quale si apre il film. Un paesaggio che non potrebbe essere più lontano dalle aspettative che Salvatore e la sua famiglia nutrono verso gli Stati Uniti. Il mondo di Salvatore è presentato allo spettatore come una zona della Sicilia arida e rocciosa, che apparentemente non ha altro da offrire se non la speranza che le cose miglioreranno. È questa che porta Salvatore e il figlio Angelo a scalare la montagna per portare omaggio e chiedere soccorso alla Vergine Maria, cui è dedicato un piccolo e scarno santuario in cima al versante grigio e pericoloso. Salvatore è insomma alla ricerca di un qualche segno che gli confermi la validità del suo desiderio di seguire il fratello ed emigrare negli Stati Uniti. 218 Due delle caratteristiche più salienti della scena iniziale sono (1) cosa portano e (2) come sono vestiti. Per ovvi motivi pratici, indossano camicie e pantaloni stracciati; sono scalzi e portano delle pietre in bocca e, avendole portate così lontano, le loro labbra sanguinano leggermente. Altrettanto icastica è l’inquadratura iniziale; vediamo una roccia bianca che potrebbe essere una montagna vista da lontano; improvvisamente appare una mano, quella di Salvatore, il quale si sta arrampicando sulla roccia e contemporaneamente nel nostro spazio visivo appare con una voluminosa roccia nella bocca sanguinante. Tutti questi elementi stanno chiaramente a indicare lotta e sacrificio; in senso immediato e concreto per quanto riguarda la fatica compiuta da questi due uomini nello scalare la montagna e portare in sacrificio le pietre alla Madonna; in senso metaforico, invece, a rappresentare sia le lunghe lotte e le sofferenze della madrepatria sia quello che li aspetta. In altre parole, la scena assolve la doppia funzione significante di esprimere (1) nel presente, le difficoltà che i personaggi incontrano quotidianamente in questa terra apparentemente abbandonata da Dio, incapace di nutrire il suo popolo, e (2) a lungo termine, sacrifici simili a quelli che faranno durante il viaggio verso gli Stati Uniti e nelle loro vite future una volta arrivati. Non toccano mai le pietre che portano in bocca prima di consegnarle. È come se dovessero portarle alla Madonna incontaminate da mani umane, affinché conservino la purezza del sacrificio che stanno offrendo. Ricoperti di stracci, scalzi e lordi dalla scalata, vengono inghiottiti da una fitta foschia man mano che s’inerpicano più alto, come se stessero entrando nella sfera del divino, aperta solo a quei mortali che ne sono degni per mezzo del loro sacrificio. Questa distinzione, tra ciò che è apparentemente divino e ciò che è umano, è evidenziata anche da un’altra scena marcata dall’originale e brillante uso che Crialese fa della macchina da presa. Mentre Salvatore e Angelo sono impegnati nella scalata del pericoloso versante, la macchina da presa a un certo punto indietreggia allargandosi in un lungo campo dell’intera collina fatta principalmente di rocce marroni e grigie. Lo spettatore, qui, può a malapena distinguere le due figure che scalano la montagna. Nel frattempo, la macchina da presa indietreggia ulteriormente in un’inquadratura a volo d’uccello dell’intero versante, lasciando i due uomini completamente avvolti nei suoi toni marroni e grigi e in una foschia che lentamente copre tutto il paesaggio, momento in cui il film taglia su una nuova scena. 219 Segni per/della meraviglia Quando Salvatore e Angelo raggiungono finalmente la vetta, uno scarno santuario con una croce fatta da tre rami, depositano le pietre, lasciandole letteralmente cadere dalle loro bocche ai piedi del santuario, e implorano per un segno che indichi loro se restare o partire, promettendo che non lo faranno finché non riceveranno in risposta un qualche segno. Quel segno si materializzerà presto; prenderà la forma di cartoline inviate dall’America. L’altro figlio di Salvatore, Pietro, apparentemente un ragazzo muto, arriva all’improvviso con in mano alcune cartoline spedite dallo zio americano. Sono foto truccate di scene irrealistiche che Salvatore interpreta come un segno per partire per gli Stati Uniti: un’immagine mostra una cipolla gigante in un carretto, un’altra un albero dei soldi, e la terza un pollo gigante. L’ascesa dei due uomini alla vetta, alla ricerca di una giustificazione per partire alla volta del nuovo mondo, è subito giustapposta a un esorcismo da vecchio mondo che la madre di Salvatore Fortunata, una guaritrice locale, compie su una giovane donna che crede di essere maledetta, apparentemente posseduta da un serpente nello stomaco. Le due scene, una chiaramente diretta verso il nuovo mondo e l’altra fortemente radicata nel vecchio, si contrappongono e formano una nitida coppia di opposti. Una simile coincidentia oppositorum emerge qui anche in altra forma. Quando una delle due giovani donne destinate a partire per l’America, Rosa, porta alla madre di Salvatore una busta contenente le cartoline suddette, Fortunata risponde: «No, no, io non mi fido a leggere parole di carta», cui la giovane donna ribatte: «No, no, queste non sono parole di carta, queste sono cose vere». Vengono, aggiunge quindi, dalla “terra nuova”. Una volta esaminate le cartoline, Fortunata dice al nipote Pietro di bruciarle, cosa che naturalmente lui non fa. La breve conversazione tra Fortunata e la giovane donna pronta a partire per l’America è significativa per due ragioni. In primo luogo, siamo qui testimoni di uno scontro tra la mentalità del vecchio mondo e l’avventurismo del nuovo. Fortunata è una guaritrice “naturale” immersa nei modi del vecchio mondo legati alla natura e alla superstizione1. Il suo desiderio di rimanere tale si manifesta quando ordina 1 Più avanti nel film, quando l’intera famiglia è sul punto di abbandonare la Sicilia e deve passare per una città, che possiamo assumere sia Palermo con la burocra- 220 al nipote di bruciare le cartoline, un atto che, per quella che possiamo considerare la filosofia ben sistematizzata del vecchio mondo, eliminerebbe qualsiasi segno, per quanto esagerato, che possa persuadere Salvatore a partire per il nuovo mondo. La “terra nuova” semplicemente non può coesistere col vecchio mondo, neanche in forma di rappresentazione fotografica, perfino se truccata. In secondo luogo, troviamo anche un elemento extra-testuale e, in gran parte, retoricamente auto-riflessivo. Nella brevissima conversazione tra Fortunata e la giovane donna con le cartoline, capiamo che le parole non hanno alcun valore perché Fortunata non si fida di loro: «No, no, io non mi fido a leggere parole di carta». La giovane donna, invece, replica, che queste non sono «parole di carta, queste sono cose vere». In altri termini, quello che viene rappresentato con parole, il logos, non è attendibile; non possiede alcuna valenza semiotica per Fortunata. Invece, quello che ha valenza semiotica sia per Fortunata sia per la giovane donna è l’immagine, il visivo; «queste sono cose vere» perché appartengono alla sfera visiva. Ciò che è oculare è, di conseguenza, anche percettibile, discernibile, e quindi “reale”, mentre ciò che è verbale non lo è. Il visivo in questa scena dunque sopraffà il logos2. Proprio questo è l’elemento auto-riflessivo; Crialese racconta la sua storia tramite le immagini, non le parole. Così facendo, adultera anche il valore semiotico delle immagini che impiega. Sebbene siano tutte perlopiù realistiche, colpisce la maniera con cui il regista altera la loro combinazione. L’inizio del film suggerisce già, velatamente, questa manipolazione. È come se Crialese, attraverso questa giovane donna, voglia informare lo spettatore su cosa sta per vedere. Tuttavia, facendo rifiutare a Fortunata perfino quelle immagini che le viene zia che la caratterizza, un dottore vuole vendere a Salvatore una cura per il mutismo di Pietro. Fortunata, incredula, interviene dicendo che quello che l’uomo cerca di rifilare è robaccia, cosa che lei sa bene dato che è una “medica,” come si definisce lei, creando così un’ancora maggiore elasticità semiotica nei segni che incontriamo nel film. 2 Uno potrebbe anche pensare ad altri due motivi perché le “parole di carta” non avrebbero alcuna valenza semiotica per Fortunata. Innanzitutto, lei è analfabeta; e non essendo in grado di leggere e, di conseguneza, non capire qualunque messaggio per iscritto, non può che non fidarsi di qualcosa che non comprende in nessun modo. Secondo, la scrittura, specialmente ciò che potrebbe sembrare sia ufficiale sia forestiera in ogni senso del termine, risulta ugualmente inaffidabile a chi non vive all’interno del burocratico mondo socio-politico dell’epoca. 221 detto sono “cose vere”, Crialese sembra voler avvertire lo spettatore che il significato apparente, soprattutto a prima vista, di alcuni segni che incontrerà, deve essere accantonato. L’avvertimento che il visivo può a sua volta essere oggetto di scetticismo è messo in evidenza quando ci viene detto che la seconda giovane donna è maledetta; ha un “serpente in pancia” da quando ha saputo che Don Ercole l’aveva promessa, insieme all’amica, a due ricchi uomini negli Stati Uniti, che loro ovviamente non conoscono. Fortunata stessa rafforza allora la possibilità di scetticismo semiotico nel visivo compiendo un cosiddetto esorcismo per liberare la donna dalla maledizione. Dopo averla legata in quello che sembra uno schema a forma di x, Fortunata porta la mano sotto il vestito della donna, dove sembra lottare con qualcosa per un po’ di tempo, tirando poi fuori un serpente nero. Il tutto avviene all’interno, in una stanza scura, così non abbiamo mai una vista chiara dei dettagli della scena, incluso del serpente. Quello che evidenzia lo scetticismo è piuttosto la reazione stessa di Fortunata, la quale, sia prima di tirare fuori il serpente sia subito dopo, continua a sorridere. È il secondo sorriso a seminare scetticismo, credo, giacché la scena termina così. Allo spettatore non resta, quindi, che riflettere meravigliato innanzitutto su cosa è successo veramente nell’oscurità, e in secondo luogo, su cosa voglia mai dire il sorriso di Fortunata sia per la giovane donna sia per lo spettatore. La calma prima della tempesta Quando Salvatore, la sua famiglia e le due giovani future mogli destinate a sposarsi negli Stati Uniti lasciano il paese, pesa sulla scena una calma inquietante e un cielo minaccioso; in cielo si vedono nubi scure che portano tempesta e che, giustapposte al terreno desolato che è all’orizzonte, possono solo far presagire allo spettatore uno sviluppo negativo. Ma è soprattutto l’ignoto a pesare sulla scena. Sui visi dei viaggiatori possiamo leggere smarrimento, se non paura, proprio perché non sanno ancora cosa dovranno affrontare. Ritroviamo qui la convergenza degli opposti. Quando Salvatore, la famiglia e le due promesse spose lasciano il paese di Petralia Sottana, s’incamminano verso la città, dove per emigrare devono ora fare i conti con la burocrazia amministrativa. Della città colpisce subito 222 la vista di un mercato di piazza sovraffollato e la cacofonia che l’accompagna. Osserviamo che la famiglia è letteralmente sopraffatta da questo ambiente quasi urbano rispetto alla tranquilla vita di paese che conoscono bene. Salvatore è chiaramente preso in contropiede dalla frenesia e dalla folla che gli sono così poco familiari. Non desidera altro che sfuggire alla folla. Scaturisce da qui il conflitto tra i due stili di vita: la tranquillità del paese di montagna e l’agitazione del mercato urbano. Degna di nota in questo contesto è anche la messa in scena della partenza dal paese. La prospettiva della macchina da presa è, infatti, curiosa. Posizionata alle spalle della folla, mostra le schiene di quei paesani che rimangono mentre guardano partire Salvatore e i suoi compagni. A un certo punto la folla esce dal paese attraversando un piccolo passaggio ricavato in un muro di pietra; di là dal muro è visibile solo una carrozza, una netta separazione così presto nel film. In cima alla carrozza con lo sguardo rivolto indietro c’è Salvatore che sparisce insieme agli altri passeggeri dietro ad un muro ancora più alto. Il dado è tratto, o perlomeno così sembra; non si può più tornare indietro. Da questa scena, con gli alti muri in pietra e i tre asinelli, reminiscenze dello stile di vita contadino, passiamo direttamente a pietre molto diverse, più scure: i ciottoli della piazza del mercato che si anima subito freneticamente come le è tipico. Non va sottovalutato il significato di queste due superfici a questo punto del film. In un certo senso, esse rappresentano una specie di tabula rasa su cui i Mancuso devono ancora scrivere la loro storia. Mentre lasciano il paese, la tabula rasa è bianca, un simbolo tra gli altri di purezza, ma anche, dobbiamo riconoscere, un simbolo doppio, poiché può significare sia rettitudine sia credulità, due attributi che possono nuocere ai Mancuso3. La tabula rasa che introduce la scena del mercato è, invece, scura, quasi nera. Ci troviamo dunque in un regno di significanti molto diverso. In termini fisici, il nero rappresenta l’esperienza visiva di un occhio cui non arriva la luce; in termini metaforici, quindi, l’ignoto. Il nero, però, è anche il colore dell’autorità, della solennità; non a caso è nella città che i Mancuso vengono per la prima volta a contatto con la burocrazia e i suoi numerosi addetti. 3 Ricordiamoci che mentre nella maggior parte dei paesi occidentali il bianco è il colore della sposa, in Oriente è associato al lutto ed ai funerali. In questo contesto, va considerato che la Sicilia, sotto molti aspetti, è il crocevia, nel bacino meditterraneo, dove l’Oriente incontra l’Occidente. 223 Troviamo qui anche una delle scene non realistiche del film, che è intenzionalmente comica e letteralmente vignettistica. I Mancuso si mettono in posa dietro a una tipica sagoma di cartone; questa, però, rappresenta una famiglia dell’alta borghesia che Salvatore, Fortunata, Pietro e Angelo completano con i loro visi. Stranamente è proprio qui che Lucy viene a occupare il campo visivo con i Mancuso, i quali l’hanno incontrata prima solo indirettamente. La vediamo avvicinarsi con calma al personaggio di Salvatore dietro alla sagoma; lo guarda lentamente e quindi altrettanto lentamente si volge verso la macchina da presa nel momento in cui la foto è scattata. È qui stabilita un’altra serie di opposti. Da un lato, abbiamo una chiara distinzione tra finzione e realtà. I Mancuso, contadini, posano qui come una famiglia alto-borghese, cosa che non sono affatto. Il contrasto è ulteriormente messo in risalto dalla presenza di Lucy, una vera donna d’alta classe, o perlomeno così sembra, che viene qui a contatto diretto con i Mancuso. Il contadino analfabeta, Salvatore e famiglia, si trova letteralmente spalla a spalla con l’individualista d’alta classe, Lucy, istruita, inglese e perfino bilingue! Gli opposti non potrebbero essere più netti. Il processo di un viaggio Nuovomondo si occupa soprattutto dell’emigrazione italiana; l’immigrazione è invece largamente relegata in una zona extra-testuale del film. Proprio questo contraddistingue il film – il fatto che sia più sul viaggio verso gli Stati Uniti che sull’esperienza quotidiana degli emigranti negli Stati Uniti; li vediamo solo a Ellis Island e mai fuori da quel fatidico porto d’entrata. Il film ci fa testimoni del processo d’emigrazione a inizio secolo che include la decisione dell’emigrante di lasciare la madrepatria e le aspettative e ansie che ne risultano, così come lo smarrimento, la confusione e la meraviglia che accompagnano lui e la famiglia. Come mostrato in precedenza, questi sentimenti sono palesi fin dall’inizio del film: l’anticipazione prima della partenza, il senso di paura e smarrimento che sembrano pesare sui Mancuso e le due fidanzate mentre lasciano il paese, nonché la sensazione di sopraffazione sia al mercato sia all’ufficio amministrativo nell’innominata città portuale di partenza. Tutti questi elementi contribuiscono all’aura di mistero e d’ignoto che accompagna e contemporaneamente assilla i viaggiatori. 224 Oltre alle prime, eloquenti scene della scalata, della nebbia e dell’esorcismo – che contribuiscono all’aura di mistero, se non perfino sur-realtà, collocando la storia al limite tra il reale e il surreale – un’altra scena ricca di significati è la partenza. Inizia con una panoramica sulla massa di persone in fila, con i Mancuso accodati in fondo. Pietro, l’ultimo in fila della famiglia, cammina a testa alta mentre si gira, con occhi pieni di meraviglia, pur continuando ad andare avanti. La macchina da presa si fissa quindi sulla massa di persone sedute, tutte in ovvia attesa di imbarcarsi su questa nave o su un’altra che deve ancora arrivare. Intorno a loro vediamo gli intrallazzatori che fanno gli ultimi tentativi per vendere i loro imbrogli: falsi rimedi salutari o ciondoli vari in omaggio ai santi. A questo punto c’è un eloquente cambio di scena. Il film taglia bruscamente sull’imbarco e l’inquadratura dall’alto mostra brevemente la fine dell’imbarco della prima classe. Il campo quindi si allarga e sentiamo una voce chiamare la “terza classe”. Allargando ulteriormente l’inquadratura sulla grande folla della terza classe, vediamo la ressa spintonare nello sforzo di salire a bordo. In mezzo alla calca ci sono i Mancuso, centrali nell’inquadratura mentre arrivano sulla passerella d’imbarco. Due riflessioni sorgono qui per lo spettatore. Innanzitutto, vediamo Salvatore assediato ancora una volta da una massa soffocante; prima si trattava del versante inanimato nel paese natio, questa volta della massa animata di emigranti, tutti in partenza per lo stesso scopo: per trovare una vita migliore negli Stati Uniti. Nel primo caso, Salvatore letteralmente e metaforicamente scala la vetta della montagna. Anche nel secondo caso raggiunge letteralmente la cima, questa volta però della passerella4. Per riuscirci, deve entrare assieme agli altri viaggiatori della terza classe nella pancia della nave e noi osserviamo ogni individuo sparire al di là della porta della nave. Si sovrappone qui una scena dove Pietro, scrutando l’enorme e strana struttura della nave su cui dovrebbe salire, mostra chiaramente il timore dell’ignoto nascosto dietro la porta e si gira nel tentativo di tornare indietro, ma viene invece tirato in avanti dal padre. Entrambe queste azioni possono facilmente assumere significati secondari. L’atto di attraversare la soglia che porta nella pancia della nave, per esempio, può essere inteso come un riferimento alla sparizione dell’immigrato dalla propria patria. La prolungata assenza dal 4 Come vedremo più avanti, raggiunge la vetta anche in un altro senso, metaforico. 225 paese causerà una specie di perdita di memoria nella coscienza collettiva del paese natio e quindi l’immigrante in quanto italiano cessa di esistere. Questa potenzialità nello stato dell’immigrante lo colloca in uno spazio interstiziale, quel mondo di liminalità, dove l’ambiguità, l’indeterminazione e, in senso positivo, l’apertura regnano5. Oppure, com’è forse stato il caso per l’immigrazione, ogni chiaro senso d’identità viene relegato sullo sfondo portando a un potenziale stato di smarrimento socio-psicologico e forse anche culturale. Quest’assalto congiunto di rimozione (vedi, essere dimenticati) e incertezza (vedi, liminalità) induce Pietro a girare le spalle alla nave transatlantica, ormai un forte segno premonitore dell’annullamento d’identità. Troviamo qui una delle scene più convincenti del film, la partenza della nave dal porto. Si tratta di nuovo di una ripresa a volo d’uccello dove le persone occupano l’intera inquadratura; la maggior parte sono della stessa misura e solo alcune più piccole. Le persone di misura maggiore si muovono in massa verso sinistra accompagnate da un minaccioso suono metallico e da qualche altro rumore della nave; le persone, invece, sulla nave e sulla banchina rimangono silenziose. Quando la nave si allontana dal porto, il suono metallico continua con lo stesso ritmo mentre i pistoni del motore sembrano acquistare velocità. Ogni singola persona nella scena rimane silenziosa; l’acqua tra la nave e il porto aumenta segnalando la separazione tra un gruppo e l’altro, e quindi dalla patria; ciononostante i due gruppi continuano a fissarsi di là dal divario che cresce costante. La scena taglia bruscamente sulle persone a bordo e il fischio della nave sale assordante. Tutti i passeggeri improvvisamente guardano verso l’alto, verso la macchina da presa; alcuni si coprono le orecchie, sempre in silenzio. La macchina continua ancora per sedici secondi con una panoramica dei passeggeri in coperta, calmi e silenziosi rivolti verso l’alto per poi tagliare velocemente sulla terza classe e la loro esperienza frenetica e, letteralmente, buia all’interno della pancia della nave. Prima di questo cambiamento di scena, tuttavia, i nostri amici viaggiatori si ritrovano nuovamente al centro dello schermo. Questa volta, però, appaiono solo le tre giovani donne; le due promesse spose stanno al fianco di Lucy, “la rossa” come l’ha chiamata il burocrate 5 Faccio ovviamente riferimento alla nozione del liminale di Victor Turner (The Ritual Process: Structure and Anti-Structure, Chicago, Aldine Transaction, 1969/1995), il quale a sua volta attingeva da Arnold van Gennep (The Rites of Passage, Chicago, U of Chicago P, 1961). 226 a terra, la quale ora indossa dei guanti rossi sulle mani conserte che attirano subito l’attenzione dello spettatore grazie al contrasto con lo sfondo blu, grigio e nero. Il fatto che queste tre donne siano messe così in evidenza invita a riflettere sulle loro possibili funzioni semiotiche. In quanto donne rappresentano, di più rispetto agli uomini, una funzione creativa e quindi perpetuante per l’immigrato italiano negli Stati Uniti. Sono forse loro il futuro dell’emigrazione? Stanno forse a rappresentare coloro che troveranno successo a seguito del viaggio? Queste sono solo alcune possibili domande; in modo retrospettivo, risulterà poi chiara la funzione di Rita, Rosa, e Lucy nel grande disegno del piccolo mondo dei Mancuso. La loro “intentio operis” emergerà e avrà un forte impatto, inevitabilmente, sulla nostra “intentio lectoris” in quanto spettatori6. Quando i viaggiatori cominciano a scendere sotto coperta per sistemarsi nei posti loro assegnati sul transatlantico, li osserviamo mentre si assestano nella cabina di terza classe. Testimoniamo così le condizioni di vita, l’affollamento nella terza classe, o meglio nella stiva; facciamo conoscenza con le varie città da cui provengono gli emigranti. L’analfabetismo dei più viene messo in evidenza e prendiamo perfettamente coscienza di quanto fosse limitato l’universo di Salvatore, ristretto esclusivamente a Petralia Sottana, come ci fa capire quando si domanda come farà a sopravvivere durante il viaggio dormendo in mezzo a tanti “stranieri”. Siamo in altre parole testimoni della completa innocenza di Salvatore per quanto riguarda la conoscenza, o meglio la mancanza di conoscenza, del mondo al di fuori del suo piccolo paese. Quest’innocenza si manifesta in varie forme. Innanzitutto proprio quando si riferisce a tutti quegli “stranieri” portando un altro viaggiatore, Nicola Esposito, a rispondere: Stranieri? Ma dove sono tutti questi stranieri? Qua siamo tutti italiani. [Nicola] Italiani? [Salvatore] Italiani. [Nicola] 6 Dovrei forse più accuratamente affermare che la nostra “intentio lectoris” emergerà, in quanto non sarà mai possible conoscere veramente l’“intentio auctoris” di un testo, sebbene possiamo forse connotare una “intentio operis.” Per questi tre concetti, rimando a Umberto Eco, Intentio Lectoris: The State of the Art, «Differentia, review of italian thought», n. 2, 1988, pp. 147-68. 227 Ci sono poi anche i dubbi che nutre sulla lingua, di che cosa parli ciascuno: E se ci son quale lingua parlano? [Salvatore] Perché lei non lo sa che è italiano? [Nicola] Se lo dici tu. [Salvatore] Considerando il coraggio dimostrato da Salvatore col desiderio e infine la decisione di trasferire la famiglia negli Stati Uniti, la sua limitata esperienza e conoscenza del mondo esterno sono in un certo senso sorprendenti. Si manifesta qui anche linguisticamente con le varie definizioni dell’aggettivo straniero: “stranieri” è usato, infatti, per coloro che vengono da un altro paese locale, un paese che giace nei confini geopolitici dell’Italia, piuttosto che per coloro di un altro stato sovrano. Italiano può quindi essere inteso come l’etichetta usata per riferirsi alla lingua comune del gruppo sulla nave, indipendentemente dalle inflessioni e accenti regionali7. Un esempio d’inflessione particolare potrebbero essere i pronomi usati da Salvatore e Nicola. Alla domanda posta da Salvatore su quale lingua parli ciascuno, Nicola risponde con il formale “Lei”, mentre Salvatore ribatte con il colloquiale «se lo dici tu». Una simile distinzione in questo caso non può che dimostrare la differenza sociale e culturale dei due uomini in questione. Salvatore rappresenta l’immigrato genuinamente innocente e/o ingenuo, il quale, se le cose diventassero problematiche, potrebbe facilmente diventare vittima di truffe e disgrazie. Infine, sempre nell’ambito linguistico, assistiamo, in senso etimologico, alla confusione della lingua orale. Salvatore domanda a Nicola, il viaggiatore più informato, quando potranno vedere «’sto grande Luciano», al che una terza persona risponde, «no, certo vuol dire l’oceano, il grande oceano». Questo episodio, fugace ma commovente, costituisce uno degli atti comunicativi più ricchi di significato costruito da Crialese. Da una parte mette in risalto l’assoluta mancanza di conoscenza mondana di alcuni degli emigranti, tanto da non essere in grado di distinguere, a livello uditivo, il suono di “grande Luciano” da “grande oceano” (o, forse, “grande l’oceano”). Una spie7 “Italiano” può anche essere inteso come un nome/aggettivo per descrivere qualsiasi lingua – dialetto o standard – parlato dai viaggiatori tra loro. Una tale categorizzazione universalizzerebbe chiaramente la nozione di “dialetto” e, così facendo, aumenterebbe anche il suo “valore” sociolinguistico. 228 gazione si trova certamente nella loro stessa lingua e nella differente pronuncia tra dialetto e italiano standard, per cui la pronuncia dialettale di “l’oceano” può essere fraintesa col nome maschile “Luciano”. Dall’altra parte, l’episodio indica anche, a livello retorico, un elemento auto-riflessivo sulle proprietà polisemiche della lingua per cui un segno (“l’oceano”) viene scambiato per un altro (“Luciano”)8. La lingua, come capiamo da questo convincente scambio, ci áncora; rivedendo il proverbiale motto di Cartesio “Cogito, ergo sum”, potremmo proferire “Loquor, ergo sum”, una regola empirica ovvia per quanto riguarda quest’aspetto linguistico in Nuovomondo9. Tuttavia, la lingua, come abbiamo osservato quando Fortunata dice a Rosa che non ha fiducia nel “leggere parole di carta,” è palesemente in stretta competizione con il visivo, se non ne è addirittura secondaria. Lo scontro tra alfabetizzazione e analfabetismo continua; il primo esempio vede le donne sistemarsi nei loro alloggi, dove una donna contadina reclama come suo il letto di Lucy. Quando Lucy spiega che si tratta del suo letto e mostra alla donna contadina la ricevuta che lo prova, Rosa rimane momentaneamente interdetta ma acconsente, forse alquanto seccata, affermando che non sa leggere: Scusi, signora, questo è il mio letto. [Lucy] No, qui ci sto io. [Rosa] Vede, è scritto qui. [Lucy] Non lo sacci’ a leggere io. [Rosa] Quest’ammissione di analfabetismo sembra essere la sua giustificazione per la confusione di posto. Tuttavia è anche indicativa, ancora una volta, dello scetticismo verso la lingua e tutto quello che essa rappresenta: indeterminatezza, ambiguità e incertezza da un lato; burocrazia e quindi potere dall’altro; in entrambi i casi, comunque, manca un sincero legame con la realtà. Non è un caso, dobbiamo dunque ammettere, che questo malinteso con Lucy coinvolga Rosa; era stata infatti Rosa a portare le cartoline a Fortunata insistendo già all’inizio del film che quelle rappresentavano “cose vere” a differenza della inattendibile rappresentatività delle “parole di carta”. 8 Tale trasmutamento linguistico ricorderà il titolo del film di Gianni Amelio, Lamerica. 9 Questa manipolazione della lingua va riconosciuta come opera di Criale- se, con tutto il rispetto per Salvatore e i suoi compagni viaggiatori. 229 Il viaggio: una favola semiotica La traversata dell’oceano è impregnata di significati di genere e classe. Finalmente al largo, i passeggeri cominciano ad apparire in coperta e troviamo Lucy che si sporge dal parapetto. Mentre alza il capo volgendosi da una parte, appaiono il ben curato Don Luigi con due amici, tutti estremamente ben vestiti e solerti nel salutarla da veri gentiluomini. Lucy si gira allora nella direzione opposta, dove Salvatore e i due figli, sorpresi nell’atto di osservarla, distolgono subito lo sguardo. Segue quasi un gioco e rimpiattino: mentre i tre uomini si voltano di nuovo lentamente verso di lei, la scoprono già intenta a sorridere nella loro direzione, accennando perfino un gioviale «Buon giorno». La scena può facilmente avere un’altra funzione semiotica, perlomeno doppia. Lucy è letteralmente intrappolata tra due uomini, Don Luigi da un lato e Salvatore dall’altro. Si trova quindi nel mezzo tra due “corteggiatori”, almeno in apparenza. L’essere “tra” luoghi e stati è caratteristico del viaggio stesso e della condizione di genere. Lucy sembra rimanere l’oggetto amoroso di entrambi gli uomini, sebbene Don Luigi assuma anche il ruolo di “organizzatore di matrimoni”, volendo essere magnanimi, introducendo Lucy al gentiluomo ben curato, il Signor Belvedere, “il più grande rivenditore di ghiaccio a New York”. Tale condizione offre a Lucy anche un certo privilegio, poiché le dà la possibilità di scegliere, per quanto possa esserle difficile. Questo doppio viaggio, fisico e di genere, è ulteriormente accentuato da un terzo elemento che è la classe sociale; assistiamo, infatti, anche a un viaggio socioeconomico basato su chiare differenze sociali; queste non possono essere più evidenti che nella contrapposizione tra l’elegante gentiluomo e Salvatore con i due figli vestiti di stracci. Si forma qui una specie di triangolo, tre possibili punti di riferimento al cui centro c’è Lucy. La donna diventa un segno peirciano definito dalla capacità di avere significati molteplici su livelli molteplici. È però un segno peirciano che ricorda anche il nodo semiotico, dato che i molteplici significati possono potenzialmente cancellarsi a vicenda10. In un certo senso, Lucy è tutto e nulla nel processo semiotico, cambiando 10 Penso qui al concetto di Floyd Merrell “one, two, three and back again”; si veda Sensing Corporeally: Toward a Posthuman Understanding, U Toronto P, 2003, pp. 33-51. 230 costantemente nel corso del film funzionalità significanti per il lettore. È proprio il suo essere nulla che supporta l’essere tutto11. Lucy è genere, classe e viaggio; è il segno assoluto che ancora, in modo significativo (gioco di parole voluto), i diversi segni che costituiscono l’apparente rete semiotica del film, il suo comunicato potenziale. In questa posizione di centralità, analoga sicuramente alla sua liminalità, Lucy serve dunque da pilastro definitivo che lega i diversi aspetti dell’esperienza di emigrazione e/o immigrazione all’inizio del ventesimo secolo, dal generale allo specifico (ossia dal fisico all’ideologico). L’elemento concretamente fisico del viaggio si manifesta in diversi modi nel film. Abbiamo già analizzato la partenza dal paese natio e il conflitto tra culture esposto una volta che arrivano in città. Abbiamo inoltre visto il trattamento subito dai protagonisti quando lasciano la città (con lo spietato rivenditore di merci e intrugli miracolosi, per mancanza di un altro termine). Abbiamo anche assistito a come i passeggeri della terza classe in particolare si stringono in gruppi sul porto, come forzati in gabbia spinti da una forza dominante. Queste sono solo alcune delle sfide fisiche e mentali che gli emigranti devono affrontare. Tuttavia, uno degli episodi forse più significativi del viaggio è la tempesta. È con questa che gli aspetti più pericolosi, quelli che possono potenzialmente mettere a rischio o trasformare una vita, sono reificati in una serie di scene in cui i passeggeri della terza classe vengono sballottati di qui e di là fino a perdere coscienza. Quest’aspetto della tempesta è reso efficacemente dal continuo 11 Come ho notato altrove, (Centering on Nothing: Aldo Palazzeschi and Giorgio de Chirico Signing On, «Signifying Behavior. An International Journal of Semiotics», 1.1, 1994, pp. 255-73, e Narrare altrove: diverse segnalature letterarie, Firenze, Franco Cesati Editore, 2007), scrivendo di Perelà di Palazzeschi e dei centri vuoti della poesia di Palazzechi e dei primi dipinti di de Chirico, “questo nulla che occupa i centri dei loro testi si presenta come una specie di combinazione di segni che sono autonomi e, per di più, slegati da qualsiasi referenzialità concreta. Essi poi costituiscono in termini peirceiani una “libertà illimitata”, un nulla (dal latino ne + ullus [non alcuno]), che, ciononostante, continua a significare; esso significa nessuna (dal latino ne + ipse + unus) cosa. Nulla è la potenzialità illimitata per la generazione illimitata di alcuna cosa, ovvero non una cosa stessa (ne + ipsa + una) – cioè, il significato, il valore semantico, l’interpretazione, la quale è vera, per il lettore, solo in quanto essa sia ‘semioticamente reale’ (Merrell, 1991, p. 198)”. 231 cambiamento in ritmo e illuminazione: a momenti il movimento è regolare e domina l’oscurità, altre volte, invece, c’è un rallentamento e la luce scompare completamente, e viceversa. Gli effetti immediati della tempesta sui passeggeri della terza classe si rivelano anche sulla nave. Una serie d’individui comincia ad apparire lentamente in coperta tra le macerie sparse. Ciascuno è impegnato a trascinare o portare un malato, o forse, a nostra insaputa, un morto. Una delle tragedie di questo viaggio viene reificata attraverso la giovane donna che trasporta un neonato morto. Vagando smarrita, dà inizialmente il neonato a Lucy, la cui espressione indica il fato del bambino. La madre riprende allora il neonato nelle braccia e ricomincia a vagare senza meta, questa volta verso il parapetto, dove, pienamente cosciente di non poter conservare il figlio morto a bordo, lo seppellisce in mare, gettandolo fuori bordo mentre crolla a terra svenuta. Subito prima che lo getti, vediamo sullo sfondo un cielo nuvoloso in cui sorge il sole, bloccato dalla figura della madre, la quale ne risulta quindi oscurata con la luce solare quasi a farle da aureola. Una tale desolazione, la madre è costretta a seppellire il figlio in mare da sola, viene espressa in toni quasi religiosi con l’aureola, diminuendo leggermente, perlomeno si vuole sperare, gli aspetti tragici del viaggio12. Una tale supposizione sembra confermata dalla scena seguente. Le donne della terza classe siedono come a catena, ognuna intenta a spazzolare l’altra come se si stessero preparando per un qualche evento. La panoramica ci fa prima notare una giovane donna con il capo abbassato e subito dopo intravediamo in fila tutte e quattro le donne che conosciamo. Da davanti a dietro, vediamo prima la donna, impassibile, che ha dovuto seppellire in mare il figlio e che ora si fa pettinare da Fortunata, la quale a sua volta viene pettinata da Rita; più indietro troviamo Lucy che spazzola un’altra donna. Le quattro donne hanno tutte una forte rilevanza. La prima significa perdita di un figlio, una delle esperienze più struggenti del viaggio; la seconda rappresenta il coraggio e la tenacia del vecchio mondo; la terza, come aveva affermato il prete prima della partenza da Petralia, il futuro13; la 12 Si può considerare una diminuzione in considerazione del fatto che l’aureola evoca la religione che per i cattolici significa il ritorno a Dio dell’anima del neonato. 13 Non dimentichiamo quello che il prete ha affermato al momento della partenza. Per prima cosa ha chiesto a tutti, sia ai viaggiatori sia a coloro che sarebbero 232 quarta, il segno assoluto che qui, contestualizzandolo, sta per rischio, coraggio e buona fortuna14. Lucy e Salvatore: gli opposti si attraggono Ulteriormente complicata dall’apparente indipendenza di Lucy, la questione di genderè sempre centrale quando è presente durante il film, mentre Fortunata e gli altri hanno ruoli secondari. Come notato in precedenza, l’indipendenza di Lucy e il coraggio mostrato imbarcandosi da sola evidenziano un unico atteggiamento femminile caratteristico dell’epoca15. Una tale risoluzione è rafforzata dalla determinazione di Lucy di avvicinarsi ai Mancuso, i quali, almeno in apparenza, non hanno niente in comune con lei, come viene chiaramente mostrato visualmente quando Salvatore e la famiglia posano dietro le sagome di cartone. Come notato prima, una delle numerose coppie di opposti nella scena è naturalmente quella di Lucy – Salvatore: lei, urbana, alto-borghese, istruita, inglese e bilingue; lui, analfabeta, contadino che parla dialetto e crede nella magia della sua patria. Dall’inizio del film ad adesso, appena prima di sbarcare ad Ellis Island, Lucy e Salvatore sono al centro di tre scene ricche di signifirimasti indietro, di sorridere. Quindi, guardando i viaggiatori, in particolare Rita, ha esclamato: «Voi siete il nostro futuro!». Una tale dichiarazione è ricca di significato e mette in luce una serie di domande rilevanti che fino a poco tempo fa non erano mai state poste. Perché, ad esempio, sembra che l’Italia abbia abbandonato la propria emigrazione storica e la progenie di coloro che partirono? Deve forse qualcosa l’Italia a coloro i cui genitori, nonni e bisnonni lottarono sia durante sia dopo il viaggio? Non è questo il luogo per una discussione così impegnativa, molto deve ancora essere detto. Ciononostante, rimando il lettore a un mio precedente saggio in cui ho affrontato queste questioni: (Appunti e notarelle sulla cultura diasporica degli Italiani d’America: ovvero, suggerimenti per un discorso di studi culturali, «Campi immaginabili» 34/35, 2007, pp. 247-64; inoltre le ho anche discusse nel primo capitolo di questo studio. 14 Indipendentemente dal mistero che l’avvolge, (e.g. le supposizioni paesane su chi possa essere, se esiste, il marito), Lucy è una donna in un paese straniero (l’Italia) che decide di emigrare da sola. 15 Potremmo considerare analogo il personaggio fittizio di Umbertina nel romanzo di Helen Barolini, Umbertina, New York, Seaview, 1979). Ciascuna donna rappresenta un tipo femminile nettamente distinto, ma accomunato dall’inusuale indipendenza per questo periodo della storia, tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. 233 cati. La prima è proprio quella del ritratto di famiglia con le sagome di cartone. La seconda ha luogo invece in coperta mentre camminano in direzioni opposte, pur continuando a guardarsi e a farsi cenno fino a incontrarsi, com’era inevitabile dato il loro movimento. La terza scena avviene invece subito prima dello sbarco, dove possiamo forse notare un cambiamento del punto di vista nel momento in cui Salvatore e Lucy hanno la conversazione più intima e personale del film. Dopo aver visto Lucy prendere il controllo della situazione all’inizio del film, unendosi ai Mancuso sia per la foto sia come membro del gruppo di viaggio, vediamo adesso, invece, che Salvatore comincia ad acquisire notevole coraggio. In questa seconda scena, infatti, Salvatore nota Lucy sbirciando da dietro uno di quei grandi fumaioli sulle navi; la guarda mentre cammina lentamente, ovviamente dall’altro lato della nave; i movimenti rallentati dalla macchina da presa. A un certo punto, lei sparisce dietro un’altro di quei fumaioli per riapparire subito dopo guardando direttamente verso Salvatore. Ripetono gli stessi movimenti finché finiscono per incrociarsi, uno di fronte all’altro. Il tutto dura due minuti cui segue una scena irrealistica. Durante questo secondo gioco a rimpiattino, quando Salvatore guarda per l’ultima volta Lucy, lo vediamo scomparire dietro un fumaiolo ancora più grande, completamente bianco che offre così una transizione a uno spazio vuoto in cui viene poi a galla un cappello e pian piano comprendiamo che stiamo vedendo Salvatore emergere in un mare di latte. Mentre si guarda attorno con sgomento, viene raggiunto da Lucy. Si sorridono e un’enorme carota passa galleggiando e loro vi si aggrappano immediatamente; vi si appoggiano come fosse un salvagente. La camera si ritrae e la scena finisce16. A un secondo sguardo, notiamo che i due non si parlano mai durante la scena. In coperta, si guardano e sorridono solamente; non c’è nessuno scambio di parola. Naturalmente una scena simile ha dei riferimenti intertestuali, in particolare per lo spettatore familiare col cinema italiano. Viene subito alla mente la famosa scena in Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) quando Mimì (Giancarlo Giannini) e Fiore (Mariangela Melato) conversano solo con espressioni 16 Senza dubbio la scena possiede una certa referenzialità fallica. Possiamo perfino ripensare all’esorcismo durante il quale Fortunata toglie, o perlomeno sembra, un serpente dalla pancia di Rita, annullando così la maledizione. Il potenziale referente fallico per entrambe le scene merita certamente uno studio approfondito, ma in altra sede. 234 facciali e gesti17. Anche qui abbiamo una situazione molto simile; per tutta la camminata in coperta, Lucy e Salvatore si guardano, sorridono leggermente, ma non parlano mai; perfino quando finalmente s’incontrano, Salvatore fa solamente un cenno col cappello e sorride. Anche in questo caso, il visivo sopraffà la parola, il logos. È la terza scena a marcare un cambiamento decisivo nella relazione tra Lucy e Salvatore. Fino a questo momento, si sarebbe potuto facilmente sostenere che Lucy aveva il controllo. Durante la scena con le sagome, la vediamo invadere il loro spazio; osserviamo in seguito come si accoda alla famiglia Mancuso. Non presenta certamente un carattere titubante. Le cose sembrano però alterarsi, seppur leggermente e gradualmente. Sebbene sia sempre lei a prendere il coraggio per chiedere Salvatore in matrimonio, lui si sente ormai più sicuro e risponde immediatamente di sì, domandando solo quando e come: «Ma certo, magari ora!». Lucy, con l’onestà e il candore che le sappiamo propri, precisa che non lo sposa per amore, bensì che ha bisogno di un uomo per entrare negli Stati Uniti. Salvatore, a sua volta, sicuro come prima, ribatte sullo stesso tono: «Amore, e se manco ci conoscemo! Queste cose, ci vuol tempo. È giusto, è giusto?». Lucy risponde con un incerto «sì», seguito subito dal gesto superstizioso di Salvatore che le taglia un ricciolo di capelli affinché non si perdano: «Accusì non ci perdemo», le dice. Quando lei gli risponde che non crede alla “magia”, la risolutezza di Salvatore si rivela rafforzata dall’affermazione: «Col tempo ci insegno tutto cos’è». La scena termina con un primo piano silenzioso dei due, come se stessero per baciarsi, ma non lo fanno, e Salvatore, almeno per il momento, sembra aver vinto questa partita. Da qui in avanti, i loro ruoli si alternano; secondo le circostanze uno dei due assume la posizione più attiva. Quando il nome di Lucy non viene chiamato durante l’appello di chi deve sposarsi, è lei a farsi avanti per dire all’ufficiale dell’immigrazione che hanno dimenticato il suo nome. Salvatore mostra assoluta confidenza, ma il suo analfabetismo lo costringe ad appoggiarsi a Lucy, la quale spiega agli ufficiali perché non aveva compilato i moduli necessari. In questo nuovo mondo, Salvatore, ancora l’uomo di campagna pragmatico e di buon senso, impara presto che dovrà per forza di cose imparare ad 17 Mimì metallurgico ferito nell’onore, dir., Lina Wertmüller, Euro International Film, 1972. 235 affrontare la lingua e la burocrazia. La sua prima reazione di fronte ai moduli è di pensare che Lucy non voglia più sposarlo, cosa che le chiede con apparente malcontento e delusione. Lucy prende ora le redini della situazione e dice all’ufficiale dell’immigrazione che è in realtà il suo ruolo nella relazione di prendersi cura di queste cose, riempire moduli e simili. Qualcosa d’intrigante avviene quindi in seguito. Il cappello di Lucy cade mentre continua a riempire i moduli. Due caratteristiche fisiche sono qui degne di nota: i capelli e i guanti rossi; ciascuno dei quali è già stato messo in risalto, seppur brevemente. Proprio il colore rosso evidenzia quello che possiamo tranquillamente definire la differenza di Lucy; è una donna inglese, bilingue, e presumibilmente biculturale. Non sarebbe esagerato affermare che nel corso del film Lucy rappresenta, tra le varie possibilità, la differenza dal vecchio mondo, e dunque il “nuovo mondo”. Il colore in sé contrasta visivamente con l’oscurità che sembra circondare invece i Mancuso e tutto quello che rappresentano. È questo che rende Lucy veramente e letteralmente un pilastro, come menzionato in precedenza. La sua domesticità con i moduli permette sia a lei sia a Salvatore di entrare negli Stati Uniti, da sposati, superando la burocrazia che voleva tenerli fuori dal paese. Occupa quindi una posizione centrale; la sua liminalità costituisce un certo privilegio che favorisce lei e chi le sta vicino. Noterei altresì che questa liminalità è rivelata anche dal fatto che Lucy non accetti il fiore tradizionale, ma prenda invece il tubino di Salvatore, simbolo del vecchio mondo, cosicché il vecchio e il nuovo mondo possano unirsi come Lucy e Salvatore, ora pronti a imbarcarsi assieme per una nuova avventura nel nuovo mondo. La liminalità di Lucy funge semioticamente da ponte tra due culture come esemplifica perfettamente una scena breve, e apparentemente insignificante, che precede quella discussa sopra; si tratta della scena in cui le donne sistemano le loro cose in valigia nella sezione letto. A un certo punto, la scena rallenta e cominciamo a sentire della musica da chiesa. È interessante notare la posizione delle quattro donne: Lucy è al centro dello schermo, Fortunata alla sua destra (la sinistra dello spettatore), mentre Rosa e Rita, una di fronte all’altra ma con lo sguardo rivolto verso il basso, sono alla sinistra di Lucy (la destra dello spettatore). Con l’avanzare della scena, a rallentatore, Rita e Rosa rimangono nella stessa posizione. Fortunata, invece, si gira verso sinistra, mentre Lucy verso destra. A un certo punto le due donne 236 si ritrovano di fronte e sembrano farsi un cenno del capo, lentissimo, in accordo. Non sappiamo ancora su cosa possano essere d’accordo. La scena, tuttavia, insieme allo sguardo che si scambiano, mostra acquiescenza e non disaccordo; esaminandola ulteriormente, notiamo che metà del viso di entrambe le donne rimane fuori dalla vista dello spettatore. Se potessimo avvicinarle ancora, otterremmo un’immagine ancora più intrigante e significante; avremmo un viso composto dalle due metà di queste donne, una del vecchio e l’altra del nuovo; sullo sfondo, poi, pronte a beneficiare da questa nuova persona, da questa nuova donna, ci sono Rita e Rosa, sul punto di andare avanti nel modo più avvantaggioso. Le tre parti che costituiscono il segno di Lucy, una triade di genere, classe e viaggio, confluiscono qui assieme e lasciano presagire un esito positivo. Il [non]arrivo Precedentemente in questo capitolo ho dedicato una sezione al “processo” del viaggio. Come notato a quel proposito, non è tanto il viaggio di per sé a essere significativo, ma piuttosto l’esperienza di interagire col “nuovo” che si prospetta agli immigrati: in altre parole, le persone che incontrano, le conversazioni che tengono, e i cambiamenti che risultano da queste e altri nuovi eventi. Gli ultimi quaranta minuti circa del film sono dedicati a vari esami fisici e psicologici sugli immigrati, così come ad altre procedure che devono affrontare. La differenza tra il trattamento riservato alle donne e quello agli uomini è notevole. Mentre gli uomini vengono lasciati in un’atmosfera alquanto caotica; le donne incontrano un ambiente più sensibile. Anche qui però molte sono le differenze culturali che saltano all’occhio e che vanno oltre a Italia/America e città/campagna. Fortunata, ad esempio, non è abituata ad alcuni esami medici e protesta vivamente. C’è anche una questione di praticità, soprattutto per quanto concerne cosiddetti esami d’intelligenza, quando agli immigrati viene chiesto di rimettere nella cornice pezzi di legno di varie forme così da formare una superficie piatta. Salvatore costruisce invece una mini baracca e un’altra struttura, cose che tornerebbero utili a qualsiasi lavoratore di campagna com’era Salvatore a Petralia Sottana in Sicilia. In risposta, lui mostra, sorridendo compiaciuto, la propria soddisfa- 237 zione nel risultato prodotto. Tuttavia, è forse ancora più significativo osservare l’esperienza di Lucy con questo tipo di test d’intelligenza. Lei li considera più come giochi da tavolo, come afferma e mostra nel porre una domanda all’esaminatore avviando la seguente conversazione: May I ask, I thought you were looking for illnesses, and contagious diseases? [Lucy] [Mi permetto di chiederLe, ma non dovreste controllare per malattie e altri mali contagiosi?] [Lucy] Unfortunately, Ma’am, it has been scientifically proven that lack of intelligence is genetically inherited, and it’s contagious, in a way. We are trying to prevent below-average people from mixing with our citizens. [State Examiner] [Sfortunatamente, Signora, è stato provato scientificamente che la mancanza d’intelligenza è ereditata geneticamente ed in un certo senso è contagiosa. Stiamo cercando di evitare che persone al di sotto della media si mischino con i nostri cittadini. [Esaminatore dello Stato] What a modern vision? [Lucy] [Cos’è una visione moderna?] [Lucy] Quello che oggi sarebbe considerato scioccante, era più che accettabile per la comunità scientifica a cavallo del secolo. In Italia c’erano scienziati quali Cesare Lombroso e la sua nozione di determinismo biologico, non molto diversa da quello che l’esaminatore di stato implica nella risposta a Lucy18. Inoltre, la nozione di mescolanza razziale (miscegenation) o altro simile era anch’essa altamente scoraggiata. Difatti, durante l’esame medico delle donne, una delle infermiere americane dice a Lucy che «[i]t is highly unlikely for an English woman to be traveling with Italians, you’ll be questioned about that» [è molto improbabile che una donna inglese viaggi con degli italiani, Le verranno fatte domande in proposito]19. Questo è il “nuovo mondo” come spesso viene definito anche qui. Certamente, la questione del vecchio contro il nuovo e di cosa questi 18 Vorrei ricordare ai lettori che Lombroso affermava l’esistenza di un archetipo di italiano di “razza meridionale” opposto a uno “di razza settentrionale” (Si veda La Nuova Antologia,1902). 19 La differenza etnica e il fatto che tale differenza fosse già presente nel periodo coloniale è stata elegantemente analizzata da Stephen Steinberg nel classico: The Ethnic Myth: Race, Ethnicity, and Class in America, Boston, Beacon P, 1981-1989. 238 rappresentino è messa in rilievo quando Fortunata, chiamata al tavolo per l’esame d’intelligenza, dice all’esaminatore di Ellis Island che sta bene dove siede. L’aspetto più significativo di questa scena è quando lei interroga l’esaminatore chiedendo «Che volete da noialtri?», al che lui risponde «Them who?» [Loro chi?]. E lei allora insiste quasi con affetto: «Tutta questa gente che è venuta dal vecchio mondo», in quanto si vede chiaramente come parte di un mondo che è diverso proprio perché è il “vecchio mondo”. Questa coincidentia oppositorum è consolidata in seguito dall’esaminatore stesso quando afferma che vogliono essere sicuri che: «they are fit enough to enter the new world” [siano idonei per entrare nel nuovo mondo» (corsivo mio)]; e mentre la conversazione continua, l’espressione “nuovo mondo” viene ripetuta varie volte. Queste sono solo alcune delle spiacevoli concomitanze che gli immigrati dovevano affrontare. Umiliazione e denigrazione erano parte integrante del sistema. Lo stesso vale anche per il riconoscimento formale dei cosiddetti accordi matrimoniali. È a causa di questi che le donne, in particolare, sono costrette sopportare un processo di ansia, stress e, come dimostrato qui, delusione proprio perché (1) sono letteralmente esposte e (2) incontreranno finalmente per la prima volta gli uomini a cui sono state promesse in spose. Mentre gli uomini in attesa e le donne appena arrivate prendono i loro posti, esse sono praticamente messe in mostra; e l’inquadratura è molto significativa in quanto presa dal punto di vista degli uomini, posizionata dietro a loro, permettendoci di vedere soltanto la cima delle teste maschili, esponendo invece completamente le donne, molte delle quali guardano verso il basso. Questa prima presentazione delle donne en masse, in un atteggiamento così sottomesso per di più, può significare (1) l’opinione che gli uomini nutrono dei loro confronti, poiché condividiamo la loro prospettiva e/o (2) la loro posizione nei matrimoni futuri. Oltre all’ufficiale riconoscimento a Ellis Island di Lucy e Salvatore come fidanzati, diventiamo testimoni di molti altri fidanzamenti. Mentre la macchina fa una panoramica ravvicinata sulle facce delle donne, non possiamo non notare la loro trepidazione. Rita, ad esempio, non riesce neanche a guardare il futuro marito negli occhi; rimane con testa e occhi chinati verso il pavimento anche da seduta. L’opposto si verifica, perlomeno inizialmente, nella reazione di Rosa. Scoprendo il promesso sposo molto più corto e vecchio di quanto le 239 avesse fatto credere, lo attacca urlandogli che è un mentitore disgraziato e brutto. La scenata potrebbe aver già stabilito le basi per la loro relazione futura; non lo sapremo mai. Certamente, non avrebbe avuto bisogno di lasciare l’Italia per questo; come lei stessa afferma, un padre lo aveva già là. C’è poi il caso della donna spagnola promessa a qualcuno, il quale, per sfortuna di quest’ultima, non si presentava da qualche giorno e lei era così costretta ad aspettarlo a Ellis Island. Finalmente, quando la donna lo implora un’altra volta ad identificarsi, un uomo, notevolmente parecchio più giovane della spagnola, si alza lentamente, loro si guardano, e ciascuno si rimette a sedere in silenzio e con la testa in giù20. Come indicato dal titolo di questa sezione, non assistiamo mai all’arrivo degli immigrati sulla cosiddetta terra ferma; li lasciamo a Ellis Island anche alla fine del film. La maggior parte dei nostri immigrati, in altre parole, non vedono mai veramente l’America mentre siamo tutti insieme, protagonisti e spettatori. Quando sono ancora sulla nave e la terra si avvicina, la nebbia è troppo densa per vedere la costa. Perfino una volta aver apparentemente terminato il processo d’inchiesta e l’esame che li permetteranno di entrare negli States, gli uomini si ritrovano in una stanza con alte finestre di vetro smerigliato. Per vedere New York sono in pochi ad arrampicarsi fino in cima, dove il vetro è liscio. Come già osservato in precedenza, Crialese offre qui allo spettatore una scena iconica dei tre uomini, ormai solo ombre contro la finestra illuminata; la scena ricorda un qualche dipinto classico italiano, come un trittico di tre uomini, non prodotto all’inizio del ventesimo secolo ma piuttosto nel Rinascimento se non nel Medioevo. Anche questa, potremmo sostenere, è una forma di coincidentia oppositorum, dove il vecchio mondo è posto in netto contrasto con il nuovo, e gli uomini si ritrovano nel mezzo, in quello spazio liminale dei migranti in cerca di un prefisso che non è né “e” né “im”. A questo punto, come in un altro episodio del film, la dicotomia “vecchio mondo/nuovo mondo” risalta e si accosta a un altro binomio di opposti “vecchia generazione/giovane generazione”. Vediamo 20 Dalla prospettiva del gender, la scena è pregna di significati e sottolinea la posizione sottomessa della donna immigrante sia per motivi economico-sociali sia per ragioni di età, che l’uomo può pure essere di un’età maggiore a quella della futura moglie ma non viceversa. 240 Fortunata e Pietro seduti uno accanto all’altro, silenziosi e apparentemente incapaci di comunicare finché Pietro, guardando la nonna, le afferra il viso e scuote la testa in disapprovazione. Lei, invece, fa un cenno d’assenso e distoglie lo sguardo. Quindi, la macchina taglia bruscamente su un’altra scena in cui l’intera famiglia Mancuso occupa lo schermo: Fortunata, la matriarca del vecchio mondo, è al centro circondata dal figlio e dai nipoti. Proprio adesso l’amministrazione di Ellis Island, quindi gli Stati Uniti, “fa la parte di Dio”, come Fortunata aveva insinuato prima. Dicono a Salvatore che sua madre è troppo debole di mente e il figlio muto, due caratteristiche per cui, secondo le politiche degli Stati Uniti, gli immigrati vanno rimpatriati. La risposta che offre Salvatore va ricondotta alla praticità del vecchio mondo; è questa che lo porta a fare una serie di domande per poi offrire una soluzione elementare, logica. Con tutta questa terra e tutto questo lavoro, infatti, perché mai lascereste fuori della gente? E se suo figlio non sa parlare, meglio per tutti; non darà fastidio a nessuno e non potrà neanche lamentarsi di niente. Infine, per quanto riguarda la madre, se parla troppo come dicono21, la terrà chiusa in casa. Queste sono soluzioni semplici, pratiche, secondo Salvatore, a problemi che lui chiaramente non considera tali. Una tale praticità da vecchio mondo era già apparsa durante il test d’intelligenza con i pezzi di legno da risistemare nella cornice; invece di metterli a formare una superficie piatta, li aveva usati per costruire piccole baracche. Se Fortunata era effettivamente una persona che parlava troppo, e Pietro muto come tutti pensavamo fosse, la coppia di nonna e nipote trova ora il proprio significato e capiamo così come siano inestricabilmente connessi. Per buona parte della prima metà del viaggio, Fortunata è sicuramente molto loquace e ostinata. Tuttavia, col procedere del viaggio, sembra diventare più silenziosa; un gran numero d’immigrati è silenzioso. Il silenzio di Fortunata verso la fine del viaggio, stranamente, non le impedisce di comunicare col nipote Pietro; cosa che avviene alcuni minuti prima della scena finale con tutta la 21 È a dir poco curioso che Salvatore faccia l’equivalenza tra “debole di mente” e parlare troppo, mentre gli ufficiali di Ellis Island potrebbero averlo visto come un segno di disordine, come veniva a volte caratterizzato. Atti eccessivi, in particolare se atti sociali, erano considerati come potenziali sintomi di debolezza di mente. Rimando ad esempio a Henry Herbert Goddard, Feeble-mindedness: Its Causes and Consequences, New York, McMillan, 1914 e Edgar A. Doll, Clinical Studies in Feeble-mindedness, Boston, Richard G. Badger, 1917). 241 famiglia riunita. Qui l’opposizione tra “vecchia generazione/giovane generazione” si manifesta al meglio. Fortunata è ormai muta, capace di comunicare con il figlio e i nipoti solo tramite espressioni facciali. E dopo che Salvatore fa l’ultimo appello per far rimanere la madre e il figlio negli Stati Uniti, è il figlio Pietro, il muto, e non la madre, ad articolare verbalmente il desiderio di lei di tornare in Italia, mentre gli altri devono rimanere negli Stati Uniti: Papà, la nonna mi disse che vuole morire a casa. E mi disse pure che noialtri dobbiamo stare accà. Mentre Pietro pronuncia queste due convinzioni, Fortunata accarezza prima il viso di Salvatore con le mani, quindi passa ad Angelo, con lo stesso affetto, e solo alla fine arriva a Pietro, che accarezza con un lungo sorriso. La scena riprende tutti e quattro, con Fortunata ancora al centro; Salvatore e Angelo fissano la macchina mentre Fortunata e Pietro guardano verso il basso. Con una dissolvenza, la scena sfocia poi nell’ormai mitico fiume di latte in cui adesso troviamo non solo la famiglia Mancuso, ma, di fatto, molti degli immigrati che hanno viaggiato con loro. La combinazione delle due affermazioni di Pietro e le sue azioni si dimostrano due dei momenti più significativi del film dal punto di vista degli opposti: ossia vecchio mondo/nuovo mondo e vecchia generazione/giovane generazione. Fortunata rappresenta il vecchio mondo e la vecchia generazione; insieme al nipote costituisce la metà nel binomio che evidenzia la coincidentia oppositorum ormai chiaramente a due strati. È una dualità che è allo stesso tempo orizzontale (da un mondo all’altro) e verticale (ossia cronologica, dal vecchio al più giovane). Il nuovo mondo, in questo momento, ha un impatto notevole su entrambi i membri della coppia. Fortunata, vecchio mondo, non può rimanere nel nuovo; supplica di tornare per poter “morire a casa,” dove “casa” costituisce la parola chiave. Questo perché il processo del viaggio e il primo incontro col nuovo mondo, si dimostrano antitetici all’essere di Fortunata; lei non può immaginarsi in questo nuovo spazio. Pietro, d’altro canto, vive una specie di metamorfosi che è sia spirituale sia fisica; soprattutto in confronto alla scena dell’imbarco, quando voleva scappare giù dalla nave, Pietro sembra ormai tranquillo del suo fato nel nuovo mondo, capace di comunicare sobriamente al padre il desiderio di Fortunata. La nuova capacità di 242 parlare è adesso contrapposta al mutismo selettivo di Fortunata e i due personaggi si scambiano di posto; Fortunata, una chiacchierona, come lo stesso Salvatore l’ha descritta, è messa a tacere nel/dal nuovo mondo, mentre Pietro, tranquillamente silenzioso come muto selettivo nel vecchio mondo, diventa loquace nel nuovo22. L’esistenza di paese condotta da Pietro in voluto mutismo è ora annullata e, per prosperare nel nuovo mondo, deve adattarsi e il primo requisito è l’acquisizione della lingua. Pietro deve adesso fare affidamento alla lingua, l’onnipotente logos, per cui, come discusso in precedenza riguardo a Tusiani, il famoso “Cogito ergo sum” di Cartesio è nuovamente trasformato nel motto dell’immigrato italiano “Parlo, dunque sono”. Questo viene anche sottolineato ironicamente dall’uso di Pietro della parola “disse”. È ironico, in senso letterale, proprio perché da quanto possiamo giudicare, il modo di comunicazione a questo punto tra Fortunata e Pietro non è linguistico; non parlano tra di loro, comunicano solo con espressioni facciali e gesti. Eppure, Pietro dice, «la nonna mi disse». Inoltre, l’impiego della parola dire da parte di Pietro, «la nonna mi disse», accentua ancora di più il fatto che Pietro fino a questo punto non ha articolato alcuna parola. In quanto spettatori, siamo testimoni di un cambiamento ironicamente chiasmatico nel linguaggio verbale e nell’idioma dei gesti, qui nel mezzo visivo del cinema, come illustrato nello schema seguente: 22 Il mutismo selettivo è una malattia sia nei bambini sia negli adulti, i quali, nonostante il loro silenzio, sono in realtà capaci di parlare e di capire una lingua. Questo si capisce presto essere il caso di Pietro; benchè non parli, è chiaro che può sentire e capire cosa dicono le persone intorno a lui. Il mutismo selettivo è, tuttavia, una condizione estremamente complessa e sconcertante. Per maggiori informazioni su questa condizione, rimando a Sheila A. Spasaro and Charles E. Schaefer, eds., Refusal to Speak: Treatment of Selective Mutism in Children, Northvale, N.J., Jason Aronson, 1999; Norman H. Hadley, Elective Mutism, A Handbook for Educators, Counselors, and Health Care Professionals, Dordrecht & Boston, Kluwer Academic Publishers, 1994; Thomas R. Kratochwill, Selective Mutism: Implications for Research and Treatment, Hillsdale, N.J., L. Erlbaum Associates, 1981. 243 Attraverso il personaggio di Fortunata, capiamo che quei modi incrollabili del vecchio mondo non sono adattabili al nuovo. Non solo lo implicano gli esaminatori di Ellis Island quando la giudicano “debole di mente” e decidono di rispedirla indietro; la stessa Fortunata lo capisce e per questo ha deciso di tornare in Italia dove vuole “morire a casa”. Pietro subisce una trasformazione simile. La paura iniziale del viaggio e tutte le sue conseguenze sono ormai dissipate, conscio di appartenere ormai al nuovo mondo – una coscienza che, vorrei sottolineare, ha le sue origini nel vecchio mondo, ossia in Fortunata, come spiega egregiamente Pietro: “la nonna disse che vuole morire a casa,” ma, ancora più significativo, è “la nonna” che «disse … che noialtri dobbiamo stare accà». Ironicamente ancora una volta, quindi, non è tanto che il nuovo mondo sopraffaccia il vecchio; piuttosto, il vecchio mondo è riuscito a capire il nuovo e l’inevitabile necessità di adattarvisi se si desidera risiedervi per migliorare le proprie condizioni personali ed economiche. La fine dell’inizio: tutto è possibile Come menzionato prima, Nuovomondo si concentra sul viaggio e non sulla vita dell’emigrante negli Stati Uniti. Il processo è al centro del film. I Mancuso e Lucy subiscono una trasformazione durante l’esperienza migratoria che ha un impatto considerevole sul loro futuro proprio perché ha un impatto sul viaggio dall’Italia negli Stati Uniti. Attraversano e superano le prove e le tribolazioni del pericoloso viaggio, dove una qualunque disgrazia come tempeste, malattie infettive, e violenza causata dal sovraffollamento potrebbe abbattersi in ogni momento. Sopravvivono anche alla visione “moderna” della burocrazia di Ellis Island, con i suoi medici indottrinati nella teoria dell’eugenia che decideva del fato di coloro che rischiavano il viaggio nella stiva della nave; quelli che credono di essere «Gods who decide who is and is not fit to enter» [dei che decidono chi è idoneo e chi no], come sottolinea Fortunata alla fine, rifiutando di seguire le «rules of the new world» [regole del nuovo mondo], come afferma l’ufficiale di Ellis Island. L’ultima scena realistica alla fine del film, quella del ritratto di famiglia dei Mancuso che hanno lasciato l’Italia, dissolve in un fiume di latte. Il cambiamento porta a galla un certo numero di questioni. Innanzitutto, la prima inquadratura è completamente bianca, una spe- 244 cie di tabula rasa su cui, metaforicamente, i nostri immigrati possono scrivere la loro nuova storia nel nuovo mondo23. In secondo luogo, dalla destra appare Lucy che gradualmente si dirige verso il centro. Mentre si sistema in questa nuova posizione, tre teste finiscono per apparire da sotto la superficie: Salvatore, Angelo e Pietro. Mentre si assestano, si dispongono nella stessa posizione del ritratto finale dei tre uomini e della madre/nonna. Abbiamo ora di fronte a noi il ritratto della nuova famiglia Mancuso, quella che abiterà nel nuovo mondo. Nelle veci di Fortunata (ossia il segno del vecchio mondo), troviamo Lucy (il segno del nuovo mondo), quel segno triangolare come menzionato prima, la cui funzione significante è di genere, classe e viaggio. Lei è il pilastro che rafforza i vari aspetti dell’esperienza migratoria all’inizio del ventesimo secolo. Per più di trenta secondi la nuova famiglia Mancuso occupa l’intero schermo, mantenendo le posizioni del ritratto originale della vecchia famiglia, mentre sullo sfondo si sente musica del ventunesimo secolo. Una volta che quest’immagine viene impressa fermamente nella mente dello spettatore, la scena comincia ad allargarsi, e vediamo così gli altri immigrati nel fiume di latte, o piuttosto il mare di latte, alla fine ripreso a volo d’uccello per mostrare solo le teste/ cappelli di questi americani nuovi di zecca. Quest’angolazione serve da perfetto contrappunto a una delle due precedenti inquadrature a volo d’uccello. Quando la nave lascia il porto, abbiamo visto come una moltitudine di viaggiatori emigrati, chiaramente ansiosi alza lo sguardo verso la macchina, mentre la sirena della nave suona rumorosamente alla partenza. Non è più necessario vedere le loro facce, dato che, dopo questa loro rinascita terrena, riceveranno nutrimento dal fiume di latte e in seguito da latte e miele, come vuole la credenza, per la loro rinascita spirituale. Inoltre, ed egualmente significativo nel contesto migratorio, il fiume apocrifo di latte era anche il luogo dove le persone erano finalmente premiate, come si legge di seguito24: 24 L’angelo mi disse un’altra volta: «Seguimi, ti farò entrare nella città di Cristo». Stava ritto sopra il lago di Acherusa e mi fece 23 Ricordo al lettore della tabula rasa precedente, sicuramente simile a questa, quando i Mancuso arrivano per la prima volta nella città da cui poi partono. 24 Si veda Hilda M. Ransome, The Sacred Bee in Ancient Times and Folklore, New York: Houghton Mifflin Co., 1937, p. 280. Per maggiori dettagli, rimando al capitolo 21, “Ritual Uses of Milk and Honey” (pp. 276-84). 245 salire su una nave d’oro; davanti a me c’erano circa tre migliaia di angeli che cantavano un inno finché non arrivai alla città di Cristo. […] quattro fiume la circondavano: uno era un fiume di miele, un altro di latte, un altro di vino, un altro di olio. Dissi all’angelo: «Che cosa sono questi fiumi che girano attorno alla città?». Mi spiegò: «Sono quattro fiumi che scorrono così copiosi da saziare coloro che vivono in questa terra della promessa. Ecco i loro nomi: il fiume di miele si chiama Fison, il fiume di latte Eufrate, quello di olio Geon e quello di vino Tigri. Come coloro che, mentre vivevano nel mondo, non hanno usato questi beni, ma se ne sono privati per il Signore Dio, così, quando entrano in questa città, il Signore offre loro queste cose con un’abbondanza al di là di ogni misura»25. […] Poi mi condusse dove scorreva il fiume di latte, e lì vidi tutti i bambini che il re Erode aveva ucciso per il nome di Cristo. Mi salutarono, e l’angelo mi disse: «Tutti coloro che preservano la castità con la purezza, quando escono dal corpo, dopo aver adorato il Signore Dio, vengono affidati a Michele e vengono condotti presso questi bambini; li salutano dicendo: Ecco i nostri fratelli, amici e membra! Con loro erediteranno le promesse di Dio». Quelli premiati nel fiume di latte sono anche quelli che vengono ammazzati da re Erode – una metafora certamente appropriata per gli immigrati che, come bambini, erano vittime innocenti di circostanze al di là del loro controllo, quali disastri naturali e fattori socio-politici del vecchio mondo ed anche del viaggio rischioso e della filosofia basata sull’eugenia del nuovo mondo. Inoltre, al posto delle «tre migliaia di angeli che cantavano un inno finchè non arrivai alla città di Cristo», il film chiude con sette minuti della classica versione in 10 minuti di Sinnerman di Nina Simone, uno spiritual tradizionale della fine del secolo, spesso cantato durante riti religiosi. I Mancuso con tutti i fratelli e le sorelle con cui hanno fatto il viaggio si ritrovano ora nel “fiume di latte” che “sfocia” nel nuovo mondo dove, come lo spettatore può ora narrare semioticamente, «con loro erediteranno le promesse» del nuovo mondo, quella “terra nuova” cui Rosa, sempre presciente, ha fatto riferimento prima nel film26. 25 Si veda: Apocalisse di Paolo in Apocalissi Apocrife, a cura di Maria Luisa Lucca, Milano, Sugarco Edizioni, 2000, pp. 23-31. 26 Ringrazio Alessandra Senzani per la sua traduzione italiana del mio testo originale in inglese, e, a sua volta, Roberto Dolci per la sua acuta ri-lettura del mio saggio e le sue curiosità su alcuni punti della mia “lettura” del film. 246 247 Maria Rosaria Vitti-Alexander Raccontare il Sud ne La terra di Sergio Rubini Ricca la letteratura meridionalista italiana come altrettanto lo è la cinematografia che si impegna a raccontare il Sud1. Con la formula “registi meridionali” ci si vuole rifare naturalmente non ai dati anagrafici di questi artisti ma piuttosto essa ci permette di identificare ciò che caratterizza nell’insieme quei film che vogliono narrare il Sud: un particolare impiego di elementi psicologici, di costume, di ambiente, di problematiche di una certa tipologia, di particolari tecniche filmiche, e per finire l’uso didascalico e operativo programmaticamente culturali che ne vengono fatti. Se si dovesse trarre una singola conclusione di questi film che raccontano il Sud si dovrebbe dire che sono caratterizzati da una dialettica bifronte: da un lato si vedono intenti dichiaratamente di polemica e di denuncia, di un Sud ancora dimenticato, lontano dal modernismo odierno, di un Sud che resta tuttora un mondo in transizione con un passato ed un presente in difficile convivenza. Ma allo stesso tempo dall’altro lato questi film presentano polemicamente un Sud come un mondo da tutelare anche in tutte le sue incongruenze perché culla di atavici insegnamenti che potrebbero ridiventare guida all’uomo tra i meandri caotici della vita moderna. Il film in questione La terra2, di Sergio Rubini uscito nel 2006, manifesta un’esemplificazione storico-culturale di un particolare tempo e il suo narrare deve essere visto in due modi: il primo è da trovarsi nella descrizione analitica della realtà sociale ed economica del Sud; il secondo, stretto derivato del primo, studia un rapporto tra Sud-Nord, società meriodionale e società settentrionale attraverso la focalizzazione del singolo personaggio di Luigi De Santo. 1 Per una lista abbastanza completa di lavori che trattano del Sud rimando all’articolo di Raffaele Crovi in «Il Menabò», n. 3, 1960. 2 Il film La terra è stato girato nel paese di Mesagne provincia di Brindisi. 248 È il tema della società che apre subito il film, di un Sud in bilico tra tradizione e progresso, fra la stagnante quotidiana realtà della piazza e delle feste tradizionali di paese e le nuove realtà provocanti del Nord, due condizioni che stridono mentre il tutto è rigorosamente filtrato dalla scomoda e tormentosa presenza del camorrista Tonino, presenza ormai onniscente ed onnipotente del paese. Ed è nella contrapposizione di queste due condizioni Nord e Sud che si evolve il film, e che fa scattare in Luigi, immediatamente al suo arrivo, una lenta ma inesorabile riscoperta del passato e di se stesso, seguita dalla dissoluzionericostruzione di un tipico nucleo familiare di stampo meridionale. Molti dei film che raccontano il Sud ricorrono ad una tecnica specifica: raccontano di un padre, forte come un toro e dispotico, prepotente con i figli e la moglie; riferiscono di un figlio maggiore che si scaglia contro tale padre per poi allontanarsi o essere forzato a farlo; narrano di un figlio ormai grande che torna per ritrovarsi dolorosamente alle prese con un passato e con un mondo che credeva recisi da sé e che invece inesorabilmente lo risucchiano sia nel bene che nel male. La terra di Sergio Rubini si attiene a queste particolarità. Il film ha inizio con il ritorno in Puglia di Luigi, ormai un signore di mezza età e distinto professore di filosofia a Milano. La ripresa a lungo raggio che introduce il protagonista evidenzia subito la difficoltà del suo rientro: Luigi è solo, valigia in mano in una strada deserta che cammina lentamente verso il paese, punto invisibile all’orizzonte. Qualcuno si è dimenticato della sua venuta? Si tratta di un ritorno non voluto? Dai flashback che hanno accompagnato Luigi nel suo viaggio si scopre che i De Santo non sono affatto pochi, ce ne sono altri tre, due fratelli e un fratellastro bastardo. Ma soprattutto veniamo a sapere che il ritorno è particolarmente difficile perché crudele ed ingiusto è stato il suo allontanamento dal paese. Un allontanamento-punizione che si è abbattuto sul giovane liceale che aveva provato a ribellarsi ad un padre-padrone, prepotente e violento con la moglie ed i figli, e spudoratamente orgoglioso di avere “altre donne”. Dopo una lunga assenza dal paese nativo Luigi è tornato, ma solo per necessità, richiamato da uno dei fratelli per regolare la proprietà di famiglia, terra e cascina, possedimenti dei De Santo in questo paesino del Sud, un posto che ormai Luigi sente ostile, estraneo e nemico. Possente si rivela la cinepresa di Sergio Rubini nel mettere a fuoco tutta la forza di questi sentimenti: estraneità, spaesamento, solitudine, moti dell’animo che sono generati certamente dalla lunga lontananza e da 249 nuove abitudini acquisite nella diversità di Milano dove ormai Luigi vive. Allo scontro delle due realtà presenti nel subcosciente di Luigi –l’acquisita coscienza nordica e quella latente meridionale – risulta soprattutto solitudine e distacco come evidenzia la cinepresa con le sue lunghe riprese e inquadrature dall’alto che mettono in risalto un Luigi nel mezzo di una piazza strozzata da edifici, disperatamente solo e alienato da tutto ciò che lo circonda, a telefono con quella sua altra esistenza. Questo, il paesino meridionale è mondo del caos e dell’irrazionale, quello, Milano è regno del razionale e della compostezza, l’unico mondo con il quale Luigi pensa ormai di riuscire a comunicare. Solitudine ed alienazione continuano ad accompagnare Luigi al suo rientro nella casa paterna in mezzo al paese. Ad aspettarlo trova solo stanzoni deserti, mobili impolverati, foto sbiadite sulle pareti. Solitudine ed alienazione avviluppano Luigi al suo rientro nel cascinale di famiglia. La ripresa a lungo raggio del casale e della terra di famiglia porta avanti e denuncia la presente condizione di Luigi, psicologicamente piccolo e sperduto su quella che era l’aia della sua casa. La Terra è un film di memoria, soprattutto quella di Luigi. Ma la memoria non è un puro e semplice repertorio di cose meccanicamente registrate, essa non serve a nulla se manca la dimensione della coscienza. E la coscicenza con la sua intenzionalità è capace di cogliere il senso delle cose al di là della loro pura e semplice esistenza empirica mettendo in moto la dimensione evocativa. Evocare significa testimoniare in due modi: nel modo oggettivo, l’essere considerati testimone di qualcosa, e nel modo soggettivo, il sentirsi testimone di qualcosa. In La terra ambedue le testimonianze, soggettiva ed oggettiva hanno corso per Luigi.In questo film vediamo che sono le cose che iniziano a raccontare, a parlare e che fanno di Luigi il testimone di un passato che lui aveva creduto finito, relegato per sempre nei meandri di ricordi dolorosi di una volta. Ed è la terra, proprio la sua terra, che gli si era presentata al primo impatto estranea e nemica, ad iniziare il recupero della testimonianza; sono le maestose distese di ulivi e mandorli, tesori del Sud, a riaprire dolcemente il dialogo con il personaggio Luigi per riportarlo indietro nella memoria, a sussurargli ricordi brutti e belli, il dolce-amaro del passato, e che Rubini ci fa scivolare dolcemente sotto gli occhi. Sono i prodotti della terra del Sud che scandiscono lo sviluppo della trama. È il sacco di mandorle che offre il posto ideale dove nascondere l’arma per uccidere; è l’atavica processione degli incappucciati del Venerdi Santo, 250 identità nascosta dal cappuccio come vuole la tradizione e la solennità dell’occasione, a procurare il momento opportuno per l’eliminazione di Tonino, camaorrista, sfruttatore ed usuraio, anima marcia del paese. Il filo della memoria continua a srotolarsi, e Luigi si lascia trascinare alla riscoperta di se stesso: la difficile relazione con il padre, la dolcezza della morbida spiaggia dorata del paese, la piccola Angela innamorata del giovanetto Luigi, la scuola. L’ingresso nella vecchia scuola e nell’aula B prepotentemente investono Luigi con le grida di amici di un passato creduto per sempre dimenticato, ombre sbiadite che invece riacquistano vita e spessore. Sempre sul filo della memoria Luigi capisce che deve prolungare la sua venuta, la porta che si è riaperta sul suo passato non può essere richiusa ora che il processo di riappropiazione e di riconoscimento si sono messi in moto. Ed è a questo punto che la memoria dell’offesa – del padre e dell’imposto allontanamento dal paese -acquista dunque una duplice valenza, come dono personale di riscoperta, e come seme che poi germoglierà in un apprezzamento per quello che il Sud può dare ai suoi figli. L’ordine del mondo tradizionale, la sua capacità di fare storia al di fuori della storia, il suo istintivo amore per la vita che sembra tradursi in una regola di confidenza nei semplici rapporti sociali, è tutto quello che Luigi lentamente inizia a riafferrare e di cui si riappropria. Con lo sviluppo del film la concretizzazione dei due mondi diversi e in opposizione è evidente, l’altro mondo – Milano – pur senza mai apparire viene contrapposto al paesino del Sud. Milano è l’italiano impeccabile di Luigi, le telefonate a Laura alla quale descrive, in un linguaggio forte ed alienante il paesino, come luogo attanagliato da “follia totale”. Luigi mette in rilievo “l’irrazionalità”, la disarmonia di questa sua famiglia del Sud, che gli appare estranea e diversa come tutto il paese, come se ogni cosa fosse controllato da un frenetico susseguirsi di eventi fortuiti e non calcolabili. L’insofferenza, l’irrepremibile necessità di focalizzare solo “l’irrazionale”, “la follia” del paese non fanno altro che evidenziare la presente condizione di Luigi: il lento rigurgito del suo altro Ego, che lui credeva non esistesse più, la sua meridionalità che ormai inarrestabilmente si ripresenta. Se ne accorge subito Laura, la sua compagna di Milano che venuta a cercarlo nel paese sembra non riconoscerlo. Se ne accorge Tonino il mafioso che con l’intimidazione cerca di allontanarlo dal posto. Lo stridio del contrasto tra l’intellettuale del Nord, Luigi, e il mafioso del Sud, Tonino, è forte, raggiungendo il massimo 251 una volta che quest’ultimo, anima del paese corrotta e corruttrice, trova in Luigi suo degno contrapparte. Tonino, dopo averlo visto in situazioni che lui considera compromettenti cerca di intimorire Luigi. L’ultima minaccia avviene in un vicolo deserto. Tonino, circondato dai suoi uomini blocca Luigi, gli si accosta e con il gesto intimidatorio proprio del mafioso gli morde un orecchio sussurandogli di stare accorto perché Milano non è poi tanto lontana per una resa di conti tra loro. La reazione di Luigi è composta di due momenti, la coscienza dell’offesa è in un primo momento “razionalmente” dimenticata da Luigi uomo del Nord. In un secondo momento essa riaffiora e Luigi, tornato a capire le leggi che governano la terra del Sud, se ne riappropria, le gestisce e si vendica. Nella follia e nel caos della follia bisogna adattarne le regole, e Luigi lo fa, razionalmente. Il messaggio di Rubini è chiaro, non ci si può sottrarre alla propria terra. Uno ha un bell’andare via e trovarsi una terra diversa: ci si traveste, perché sotto sotto l’impronta è quella, e quando il segnale giusto arriva, non c’è niente da fare, si capitola. Ognuno capitola davanti a qualcosa. Luigi capitola davanti al ricostruirsi della vecchia autorità della famiglia d’origine. A lui, il più vecchio, e dunque capo famiglia, ognuno dei fratelli chiede qualcosa; come repentino era stato il suo rientro in paese, allo stesso modo Luigi, improvvisamente e senza veramente averlo voluto, si ritrova il centro. Uno alla volta tutti si fanno avanti risucchiando Luigi nel loro mondo del Sud e in quegli intricati legami di famiglia patriarcale: – Aldo, il fratellastro, è rimasto il passato. Vive governato dall’antica scienza contadina che ricava dalla terra l’esistenza. E gli si fa addosso con la difficoltà della sua situazione, il casale e la terra non si possono vendere, lui ed altri ci vivono su e ci campano. Per Aldo, come appunto era nel passato, ogni creatura deve restare nel proprio ambiente, vivere secondo le leggi della morale naturale non corrette dall’uomo – coltivare, raccogliere i frutti, allevare gli animali. Ed è difatti il frutto di questa loro terra, un sacco di mandorle da portare ai poveri ammalati, che regala al fratello Mario ed è proprio qui, in questo sacco che Mario trova il nascondiglio ideale per l’arma del delitto. – Michele, coinvolto in politica si è lasciato scivolare nel mondo dell’usura che ormai lo sta stritolando. Michele si è allontanato dalle leggi di un mondo tradizionale, si è lasciato corrompere dal canto di sirena della vita moderna cadendo nel baratro senza fondo dalla sua corsa frenetica ai guadagni. 252 – Mario si è perso nell’illusione che il lavoro di volontariato, la cura degli altri, dei diversi, dei malati mentali, possa ridargli quella famiglia che a lui è stata negata. Mario, nella sua solitudine si cerca nei bisognosi, diventa quel padre che lui avrebbe voluto avere, come farà sapere al fratello maggiore, Michele che aveva cercato di fargli da padre senza riuscirci (“Non volevo un padre come te”, gli dice Mario senza pudore). Un ritorno complesso abbiamo detto, che il regista scandisce con riprese lunghe e lente, la macchina da presa che scende e sale lasciando Luigi solo, in piazze vuote, vicoli bui, case deserte. Poche sono le scene solari, bella quella con Angela al mare, ma ciò era stato possibile prima che si venisse a conoscenza dei problemi di soldi di Michele; prima della conoscenza della desolata solitudine di Aldo infelicemente innamorato di una clandestina al servizio di Tonino; prima ancora che si venisse a conoscenza di Mario perso nel suo sogno di un mondo più umano. Mario, un ragazzo solo, che studia Pascal nel tentativo di sentirsi meno solo, meno stritolato da questo Sud così difficile, sordo e incapace di riconciliare il suo passato ancora vivo ed un presente che preme alle porte. Rubini focalizza questa situazione di bilico quando riprende Mario all’uscita dall’Associazione dove lavora. La scena in un vicolo deserto e buio e circoscritta da palazzi e alti muri quasi volessero schiacchiare il giovane Mario, che con occhi ammirati rivela al fratello maggiore Luigi venuto ad incontrarlo, il suo grande cruccio, “tu sei diverso,” gli dice, “hai avuto il coraggio di ribellarti.” Certamente parla della ribellione al padre ma sottintesa è la ribellione alla tirannia del Sud intero, all’assurdo dei fatti che ne governa l’esistenza. La terra, è un riuscito film che racconta il Sud e il suo grande dilemma, un impasto di ieri e di oggi, quell’impasto primordiale di cui esso è fatto: gente che pur restando in cuor suo attaccata a certe tradizioni vuole prendere un’altra via, imparare un’altra lingua, sentirsi parte di un nuovo mondo. Ma sulla via della trasformazione c’è oro e c’è fango. Talvolta il gioco delle apparenze fa si che una cosa sembri l’altra e la vita diventi un grande punto interrogativo, come è appunto successo a Michele Di Santo, il fratello più esposto alla sirena della trasformazione e che ha confuso il buono del suo mondo con il male dell’altro, sacrificando tutto. Il Sud va capito, studiato e reinserito nel mondo di oggi. Come è stato per Luigi, un ritorno al Sud sta a significare un viaggio di apprendimento, un rifare la strada a ritroso 253 per imparare dal Sud la sacralità della famiglia e la responsabilità verso di essa, l’appartenenza ad un posto e la necessità di mantenere viva la memoria di se stessi per poterne trarne forza e perseverenza. Luigi, che si era creduto fuori da una famiglia patriarcale, estraneo da questi fratelli che lui ha lasciato ragazzi e che ritrova uomini, è invece vicinissimo ad essa, riconosciuta la forza primigenia del paese, cose che si era illuso di aver dimenticato, si riavvicina e si riappropria di persone e di problemi. Ed è Luigi ad iniziare il processo di riavvicinamento con i fratelli prima per sé e poi per gli altri. Si riavvicina ad Aldo, il fratellastro che è quello che beve, gioca e va a donne eppure lavora, è divenuto il paladino del podere di famiglia, terra e cascinale, che invece il fratello Michele vorrebbe vendere per le esigenze consumistiche del mondo moderno. Poi il riavvicinamento tocca a Michele, quello che si è rivelato il più fragile nei confronti della vita moderna, della politica, del lusso e del facile guadagno. Alla fine con Mario, il più giovane e il più offeso perché lasciato solo negli anni difficili della crescita, Luigi si fa padre, pronto a sacrificare tutto pur di salvarlo. E dunque come l’atto supremo della rimozione di Tonino, cancro del paese, portatore di un modernismo distruttivo è toccato a Mario, il più puro dei fratelli, così è compito di Luigi, l’intellettuale, quello che è andato via, che ha imparato la razionalità e l’ordine a dover risolvere la difficile situazione di famiglia. Luigi, chiamato dalla severità dell’accaduto, rientra nel ruolo che gli è dovuto, della “auctoritas paterna” e senza incertezza bara. Lo scotto da pagare è alto, tocca a quella stessa ‘roba’, terra e cascinale di famglia che aveva fatto rientrare Luigi in paese a riscattarli. Seguendo il principio del contrappasso dantesco la colpa deve essere espiata in ugual misura. Mario ha ucciso Tonino per vendicare la morte di Ugo, uno dei suoi pazienti-amici handicappati, eppure la scomparsa di Tonino comprende tutti i fratelli De Santo, per ognuno di essi viene a significare una qualche liberazione. Per Michele, Tonino era l’incubo dell’usura e per Aldo la doppia vita di Tania. Se il gesto di Mario ha liberato gli altri, la colpa deve essere redenta da tutti e lo scotto può solamente venire da tutti e quattro, ed è la terra, quella che li aveva voluti separati e nemici nella morsa di una maledetta possidenza. Podere e casolare, “la roba” nel tipico lessico del Sud, tutto viene ceduto alla famiglia dell’ucciso in cambio di un fantasioso omicidio, e come fosse la fine di una maledizione, la perdita della “terra” riporta l’unione tra i fratelli. 254 La scena di chiusura del film è rivelatrice di questa necessità di conoscere ed imparare il Sud, con il suo passato da non dimenticare perché sorgente di guida per un presente spesso labirinto meandrico di troppe possibiltà. Alla domanda precisa di Laura di un coinvolgimento dei fratelli nell’omicidio di Tonino segue la risposta di Luigi che però resta inpercettibile. La cinepresa focalizza le labbra di Luigi che si muovono, che raccontano, che parlano, la zona luce si alterna alla zona d’ombra passando dolcemente da chi parla a quello di chi ascolta. Nel lungo disquisire di Luigi non si riesce a cogliere il contenuto delle parole. L’irrazionalità dell’accaduto non potrebbe essere recepita da una mente “razionale”, una mente diversa com’è appunto quella di Laura, meglio non sapere, un passato non si può semplicemente raccontare lo si deve conoscere e capire. Nel romanzo Il giorno della civetta3, Leonardo Sciascia fa dire al capitano dei carabinieri: “ Niente fantasia gli aveva raccomandato il maggiore. Va bene, nente fantasia. La Sicilia è tutta una fantastica dimenzione: e come si può star dentro senza fantasia?” Con La terra siamo in Puglia ma la dimensione fantastica del Sud rimane, e di fatti “al niente fantasia” richiesto dal capitano si riscontra solo “fantasia,” senza la quale non si potrebbe procedere. Ed è solo ora, alla chiusa del film che le parole pronunciate da Luigi a Laura al suo arrivo in paese “mi sono perso” assumono il giusto significato; indubbiamente Luigi si è perso, ma non come crede Laura con un ritorno in un paese che lui non conosce più, piuttosto il suo perdersi è successo a Milano, quando ha invece cercato di cancellare il suo passato, quello che lui è veramente, annullare le radici della sua irrazionalità invece di accettarle e farle convivere con la razionalità della sua altra realtà. Il viaggio al paese è stato uno di apprendimento e Luigi ha imparato, come ci suggeriscono le chiavi di casa che Luigi si ritrova in tasca sul treno di ritorno per Milano. La parternza questa volta non è per sempre. E il suo “non scappo più” detto come una promessa, è sottolineato da una ripresa lunga della cinepresa che ne documenta in modo arioso e liricamente efficace questa decisione: Luigi è di nuovo circoscritto da un muro, ma questa volta non è solo, sul terrazzo è con tutti gli altri fratelli e in lontananza la scena è accarezzata dal dolce suono di canti dialettali. La cinepresa si allontana per poi riavvicinarsi, si alza e vola in alto, dal terrazzo chiuso spazia sui campi, abbrac3 Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961, p. 34. 255 cia tutti i quattro fratelli nello stretto spazio del terrazzo, a sua volta circondato da case, terrrazzi, muri, in un cerchio concentrico sempre più vasto che comprende le dolci terre del Sud coperte da uliveti e mandorleti, il Sud tutto, in un abbraccio che si ripete all’infinito. 256 257 Marguerite Waller Il Circo Postcoloniale: Luna e l’altra di Maurizio Nichetti (Traduzione di Nicoletta Da Ros) What is happening to the world lies, at the moment, just outside the realm of common human understanding. It is the writers, the poets, the artists, the singers, the filmmakers who can make the connections, who can find ways of bringing it into the realm of common understanding. (Arundhati Roy, 2001, p. 32) [Quello che sta accadendo al mondo si trova, al momento, appena fuori dalla sfera della comune comprensione umana. Sono gli scrittori, i poeti, gli artisti, i cantanti, i registi che possono creare le connessioni, che possono trovare il modo di portare ciò che accade entro i confini della comprensione comune]. Teorizzare il postcoloniale Nel ‘call for papers’ pubblicato dalla Modern Language Association in occasione della conferenza del 2011, i teorici del postcolonialismo Shu-mei Shih e Panivong Norindr espongono chiaramente il problema epistemico che ogni teorico/studioso del postcolonialismo deve affrontare: “No two postcolonial conditions are alike”. [Non esistono due condizioni postcoloniali uguali]. Quindi chiedono ai partecipanti di impegnarsi a trovare risposta per una, o entrambe, delle seguenti domande: «Can there still be gronds for “postcolonial theory”?» [C’è ancora spazio per “la teoria del postcolonialismo”?] e «If not, what would comparative postcolonial theory look like?» [Se no, come si presenterebbe la teoria comparata del postcolonialismo?] Il regista/ clown Maurizio Nichetti ha proletticamente dato risposta a entrambe le questioni in una commedia esteticamente e metafisicamente postcoloniale, Luna e l’altra (1996), apparsa durante un impeto di attività politica neofascista e anti-immigrazione in seguito alla caduta 258 del muro di Berlino, al crollo del Partito Comunista Italiano, e alla diffusione di pratiche economiche neoliberali messe in atto da istituzioni finanziarie e commerciali internazionali. Studiosi del periodo coloniale italiano, e delle sue conseguenze, hanno sottolineato che uno degli aspetti più singolari di questo periodo storico è la relativa assenza di una riflessione collettiva sull’epoca coloniale. La sconfitta militare che ha decretato la fine del colonialismo italiano dopo la seconda guerra mondiale ha bloccato l’insorgere di movimenti anticolonialisti nelle colonie e nella penisola stessa, mentre le restrizioni post-belliche che limitavano l’accesso agli archivi coloniali, insieme alla riluttanza a discutere della sconfitta della nazione, hanno scoraggiato l’analisi intellettuale. Pasquale Verdicchio sostiene che una simile amnesia circonda le violenze perpetrate dall’Italia settentrionale nei confronti del Meridione durante “l’unificazione” (BenGhiat and Fuller, 2008, pp. 1-3; Verdicchio 1997b). Anche se i film di Nichetti non si presentano prevalentemente come cinema politico italiano, le strategie di drammatizzazione in Luna e l’altra sono calibrate precisamente per favorire l’apertura di uno spazio postcoloniale nel quale l’insieme delle conoscenze soggiogate dalla colonizzazione possano galvanizzare un nuovo immaginario culturale. Relazione barocca La situazione specifica e locale alla quale il milanese Nichetti sembra rispondere con Luna e l’altra è la comparsa di due nuovi partiti politici in Italia. La Lega Nord di Umberto Bossi, secessionista, xenofoba, anti-immigrazione e anti-meridionale, ha vinto le elezioni comunali a Milano nel 1993 e nel 1994 è diventata parte della coalizione di governo di centro-destra guidata dal magnate della comunicazione, e presunto predatore sessuale, Silvio Berlusconi (Andrews, 2005). Gianfranco Fini, che nei primi anni ’90 aveva apertamente raccolto l’eredità di Mussolini rilasciando numerose ed esplicite dichiarazioni in favore del fascismo, più tardi ha formato e presieduto il partito di Alleanza Nazionale, nato dall’unione di elementi del Movimento Sociale Italiano, di matrice fascista, e della Democrazia Cristiana, avvolta dagli scandali (Andrews, 2005, p. 18). Fini è diventato vice Primo Ministro di Berlusconi nel 2001, fomentando le violente azioni della polizia contro i manifestanti che si opponevano al G8 tenutosi 259 a Genova nello stesso anno1. Bossi e Fini, nonostante i loro dissidi, firmarono la tristemente nota legge Bossi-Fini (entrata in vigore nel 2002), la più punitiva legge anti-immigrazione in Europa (Andrews, 2005, pp. 62-4; Parati, 2005, pp. 149-52; pp. 154-6). Per dare una risposta significativa all’ascesa di nuove forme di fascismo e xenofobia, Nichetti ambienta la narrazione di Luna e l’altra nella grigia, squallida periferia di una città del nord Italia nel 1955, durante la depressione del dopoguerra. Indubbiamente Nichetti, il direttore della fotografia, e la costumista, hanno lavorato incessantemente per ricreare non solo gli abiti, le pettinature e gli arredi d’epoca per i personaggi, ma anche per dare al film lo stile e l’atmosfera tipica dei film anni ’50 (Nichetti 1996a). Questa autenticità serve tuttavia ad accentuare nel film il richiamo simultaneo agli anni ’90, che prende varie forme. Prima si intravede nella figura del direttore scolastico e del suo vice, chiara caricatura di Bossi e Fini. Poi si ritrova nella coppia formata dal giovane circense afro-italiano e dal suo cammello, che rievocano l’immigrazione dall’Africa del nord e sub-sahariana. Infine, si individua in un televisore, allusione all’impero mediatico di Berlusconi, il cui schermo, che presenta un logo statico, è fissato intensamente da un gruppo di circensi che si chiedono se sia il caso di utilizzare questo mezzo per risollevare le sorti dei loro mesti introiti al botteghino. Nel film riecheggiano diversi altri momenti politicamente importanti: l’apice dell’era coloniale italiana, rievocata con una breve ricostruzione di una sequenza dal film di scuola antifascista Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo; gli anni della seconda guerra mondiale, mostrati attraverso l’allegoria dell’inesplosa bomba tedesca sotterrata nell’area della scuola fascista; infine, il “miracolo economico” degli anni ’60, che trova un potente richiamo nella sequenza finale di Luna che, come la sequenza finale del felliniano 8 ½ (1963), si svolge nella pista di un circo. Queste sequenze, tuttavia, non sono presentate né in modo cronologico né evolutivo. Il termine “barocco,” nell’accezione usata dal poeta caraibico e teorico del postcolonialismo Édouard Glissant (1997) per descrivere la “poetica della relazione” postcoloniale, è adatto a caratterizzare la stratificazione temporale su cui opera il film. Più semplicemente, il 1 Un manifestante fu ucciso, e ci furono centinaia di arresti. I manifestanti incarcerati, secondo la testimonianza visiva dell’autore Geoff Andrews, furono obbligati a cantare inni fascisti (2005, p. 13). 260 film di Nichetti pianifica le sequenze temporali in modo che possano interagire figurativamente. Secondo quanto suggerito da Glissant, il barocco di Nichetti si potrebbe paragonare al modo in cui la disposizione delle sculture e dei dipinti in una cappella del Bernini, ad esempio, produce i propri schemi di prefigurazione e realizzazione, mentre la struttura verticalmente palinsestica della cappella crea al contempo un contesto spazio-temporale nel quale le diverse sequenze temporali interagiscono le une con le altre. Durante il processo di interazione verticale e orizzontale, le immagini e gli eventi si caricano di molteplici possibilità figurative, contestualizzandosi fluidamente l’una con l’altra nell’immaginazione dello spettatore. Una sorta di temporalità dello spazio – la temporalità della contemplazione dello spettatore – è indispensabile per la messa in atto di questo processo (Alei, 2008). Ogni momento o immagine può fornire elementi per interpretare questa dimensione figurativa, come sottolineano i fermo-immagine alla fine del film, di cui discuterò più avanti. Nel caso del Bernini, questa dimensione figurativa è pregna di significato teologico, mentre il barocco di Nichetti, rappresentato nel film dal circo itinerante, si avvicina più alla soggettività nomade di Gilles Deleuze e Félix Guattari (1987). In entrambi i casi, le relazioni non sono determinate dalle immagini; al contrario, le immagini emergono in modo contingente, prodotte dalle loro relazioni figurative2. Un passaggio angusto Lo stesso Nichetti, figlio del dopoguerra nato nel 1948, ha ricevuto l’educazione elementare negli anni ’50. In un altro film, Stefano quante storie (1993) ha esaminato la casualità degli eventi che lo hanno portato da una prima giovinezza convenzionalmente borghese, attraverso i fermenti politici dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70, ad approdare al teatro, all’animazione, all’interpretazione e alla regia mentre alcuni dei suoi contemporanei entravano nelle forze dell’ordine o diventavano insegnanti, e altri ancora, apparentemente indistinguibili dal primo gruppo e da lui stesso, languivano in prigione o 2 Deleuze e Guattari usano l’esempio dell’orchidea impollinata dalla vespa per spiegare la contingenza delle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni (la vespa diventa orchidea; l’orchidea diventa vespa) delle relazioni rizomatiche (1987, p. 10). 261 perdevano la vita a causa del loro attivismo contro il sistema dirigente. Iniziando con Ratataplan (1979), Nichetti ha diretto e interpretato una serie di brillanti commedie politico-filosofiche, portando in scena una figura clownesca che ricorda Keaton, Chaplin, Totò e Tati; questo gli permette di giocare con le “quivering ontologies” [ontologie frementi] (Marciniak, 2006) prodotte dallo scavalcare i confini di ogni genere, incluso quelli tra un decennio e l’altro (Ho fatto Splash, 1980) o tra la Terra e lo spazio (Domani si balla, 1982). La contrapposizione si trova in Ladri di saponette (1989) in cui Nichetti, in una parodia di se stesso, diventa la vittima di un permeabile sistema mediatico di stampo industriale dove la coesistenza di spazi, generi, e temporalità nel paesaggio virtuale dello schermo televisivo minaccia di ridurre tutto il significato al livello di una pubblicità di saponette (Waller, 1997). In altre parole, Nichetti arriva alla soglia dell’immaginario postcoloniale con l’esperienza delle sfide estetiche e concettuali che si spiegano davanti al soggetto borghese occidentale alla ricerca di un accesso ad un altro livello metafisico. Graziella Parati, studiosa e sostenitrice della cultura dell’immigrazione in Italia, scrive in modo convincente di un “narrow door” [angusto passaggio] offerto dagli immigrati del ventesimo secolo in Italia che potenzialmente «opens the European/Italian tradition to nonwestern traditions» [apre la tradizione Euro-italiana alle tradizioni non occidentali] (1997, p. 175). Parati e altri hanno rilevato nella presenza di lavoratori, famiglie, scrittori, artisti e intellettuali immigrati una forza trasformatrice della propria interpretazione della storia, della geografia e della cultura “italiani” (Clò, 2003; Lombardi-Diop, 2010; Matteo, 1999; 2001). Ciò che ne deriva, secondo Parati, è una dimensione non tanto “extra” nazionale, intesa come extracomunitaria, quanto piuttosto “internazionale” – «both within the margins of the nation space and in the boundaries in-between nations and peoples» [sia all’interno dei confini dello spazio nazionale che nei confini tra le nazioni e i popoli] (1997, p. 175, citando Homi Bhabha, 1990, p. 4). Se si legge la prima parte dell’esposizione di Parati attraverso la lente delle formulazioni del teorico giapponese del postcolonialismo Naoki Sakai (1997; 2006), che si è interrogato in modo esaustivo sull’uso di termini come “moderno” e “non occidentale” nella misura in cui questi rafforzano la divisione del mondo in “l’Occidente e il Resto,” si noterebbe un’enfasi posta sugli incontri che avvengono negli spazi intermedi, interazioni che si sviluppano (solo) quando i percorsi e le soggettività 262 sono stabiliti in modo non tassonomico all’interno delle cronologie, delle posizioni e delle identità, indipendentemente dalla loro provenienza. Come Parati, anche Nichetti invoca un non-Occidente e un non-Nord, ma, sempre come Parati, Nichetti presenta questi “altri” spazi in modo discorsivo piuttosto che geografico, come si verifica in ogni contesto nel quale anche il “Nord” e l’“Occidente” colonizzatore vengono riprodotti3. Una guida omofonica all'identità e alla diversità Ancora prima che inizi il film, il titolo Luna e l’altra si presenta allo spettatore come una mise-en-abyme di un gioco di parole che de-essenzializza il titolo. Luna può anche essere udito come l’una; quindi, “luna” (il corpo celeste) può essere allo stesso tempo sia l’una che l’altra. Ancora più in senso lato, se il lettore/spettatore ignora lo spazio tra le lettere e si apre uditivamente ad altre possibilità omofone, altra può trasformarsi in al tra, nel senso di “verso lo spazio intermedio,” trasformandosi in un’entità completamente differente – un passaggio, o forse una porta, “verso lo spazio intermedio”. Considerando la luna come vista dalla Terra (un’immagine ricorrente nel film), possiamo dedurre ulteriori suggerimenti riguardo a dove il film può condurre lo spettatore da un punto di vista filosofico, politico, ed estetico. Spesso consideriamo la luce proveniente dalla luna come un fatto secondario, mera riflessione della luce del sole. Tuttavia, l’apparizione di questo familiare corpo celeste può presentarsi in termini meno gerarchici. Le sue molteplici forme sono, dopotutto, il prodotto tanto dell’ombra quanto della luce. Inoltre, le forme lunari, tranne quando la luna è piena, sono il risultato del nostro sguardo al contempo localizzato e simultaneo diretto sia al lato illuminato che a quello in ombra. Da una prospettiva meno Terra-centrica, la luce della luna e l’apparire dei suoi cicli sono ancora più relativi, creati dall’intersezione della luce del sole con un oggetto materiale in movimento, la luna, che a sua volta gira intorno ad un altro oggetto materiale, la Terra, che al contempo si muove sia lungo il proprio 3 Credito va dato a Tanya Rawal per la sua analisi della produzione discorsiva del “Sud globale” attraverso vari elementi letterari e cinematografici, come esposto nella sua tesi di Master, What Arbitrary Assignments!: Revising the Global South & Engendering Community (2010). 263 asse che intorno al sole. Le immagini della luna funzionano in modo quasi analogo nel cinema, dove, in una stanza scura, i materiali che compongono la celluloide e lo schermo insieme trasformano la luce proveniente dal proiettore in modelli, o immagini, che acquisiscono significato. Il film di Nichetti avvalora tutte queste interpretazioni, non solo della luna, ma di modelli in generale – siano essi storici, politici, sociali o culturali4. Colonizzatori colonizzati Il film si apre con il rumore di passi a ritmo di marcia e una voce che intima “sinistra… sinistra”, seguito nella colonna sonora da una fanfara e un’esecuzione dell’inno nazionale italiano (come per Luna/ l’una, qui sinistra destabilizza in modo scherzoso l’univocità de “Il Canto degli Italiani”). Un’inquadratura totale dall’alto mostra una cerimonia scolastica nella quale due bambini scoprono un busto in bronzo raffigurante una giovane donna. L’elogio funebre che accompagna l’azione, durante il quale il busto viene dedicato a “ricordo perpetuo” della maestra Luna di Capua, rivela tristemente che la giovane donna in questione si è sacrificata per proteggere la vita dei suoi studenti e colleghi. Al primo piano del busto si sovrappone in dissolvenza un primo piano di Luna ancora viva, e il film intraprende quello che a prima vista sembra un flashback postumo degli eventi che hanno portato a questa solenne commemorazione. La narrazione, tuttavia, non ritorna al finale presentato all’inizio. Nella sua pagina web, Nichetti (1996b) scrisse in modo provocatorio, durante la distribuzione iniziale del film: «Prima di scoprire il segreto nascosto nell’eroica morte della maestra occorrerà far scorrere le immagini di tutto il film... Immagini che poi sono solo ombre che si rincorrono su uno schermo bianco». La storia e la memoria sono presentate in modo misterioso piuttosto che esplicativo. Due scene che hanno luogo nelle aule, una lezione di geografia sull’Africa e una lezione su vari tipi di artiglieria, inclusa la bomba inesplosa ancora interrata nel cortile della scuola, rievocano la com4 Cristina Lombardi-Diop fa notare che i poemi dedicati alla luna e al suo valore filosofico dal poeta romantico Giacomo Leopardi sono possibili significati sottintesi del film (2010). 264 plicata storia geopolitica dell’Italia sia nel ruolo di soggetto colonizzatore – in Africa, Albania, nel Dodecaneso e in Croazia – che (forse in modo più ambiguo) in quello di soggetto colonizzato – prima dall’alleato Nazista dopo la caduta di Mussolini, e più tardi, probabilmente, dall’occupazione postbellica da parte degli Americani (che continua tutt’oggi con la presenza di numerose basi militari). Entrambi gli aspetti della storia coloniale italiana si manifestano rapidamente nei personaggi del film e nelle loro interazioni. Mentre viene allestito il circo appena arrivato, due bambini, quello dalla pelle scura con il cammello e il suo compagno dalla pelle più chiara (il figlio della donna barbuta), vengono regolarmente iscritti a scuola, causando notevole fastidio agli amministratori razzisti. Assegnati alla classe di Luna, i bambini creano scompiglio, anche se comprensibilmente in quanto Luna immediatamente gli sequestra una lanterna magica che i due avevano rubato al mago russo del circo. Interpretando alla lettera l’ordine di Luna di scendere dal davanzale, il secondo bambino salta dalla finestra e sale sul tetto della scuola, stimolando Nichetti a ricreare una scena memorabile dal classico film anarchico Zéro de conduite/Zero in condotta (1993) di Jean Vigo, in cui gli studenti bombardano genitori e insegnanti dalla sommità del tetto della scuola il giorno della festa dei fondatori del collegio. Questa allusione a Vigo situa Luna nel doppio ruolo di soggetto colonizzato e colonizzatore, replicando gli schemi di colonizzazione perpetrati e subiti dallo stato-nazione Italia sul piano della vita professionale della donna. Nonostante venga sfruttata senza ritegno e sia considerata un oggetto sessuale sia da parte dal preside che dal suo vice, Luna continua ad applicare la disciplina militare della scuola nei confronti dei suoi studenti. Anche sul piano più intimo, in casa, in un buio appartamento seminterrato, circondata da vicini ostili e anti-meridionali, Luna e suo padre ricreano le dinamiche della colonizzazione. La rigida e inflessibile Luna e suo padre, un napoletano macho e avverso ai lavori di casa, ricreano un altalenante teatro granguignolesco di oppressioni e ribellioni reciproche. La pattumiera della storia Il bidello della scuola, Angelo Franchini, una figura clownesca di stampo Keatoniano, interpretato dallo stesso Nichetti, non è né un 265 colonizzatore né, come clown, un efficace soggetto colonizzato. Angelo è timidamente e profondamente innamorato di Luna, ostacolata nel contraccambiare, o addirittura notare, l’affetto di Angelo dai suoi strenui sforzi di interpretare il ruolo di maestra perfetta. Angelo suona il flauto in una banda composta da brizzolati partigiani comunisti reduci dalla seconda guerra mondiale che suonano i loro vecchi inni, Bandiera Rossa e Bella ciao ai funerali dei compagni. Questa è la stessa banda che suona l’inno nazionale alla cerimonia di commemorazione, cogliendo la casuale connotazione politica presentata dal comando “sinistra” nella sequenza di apertura del film. L’apparentemente ovvio riferimento creato tra l’età avanzata dei membri della banda e la caduta del comunismo italiano dopo il crollo del muro di Berlino viene complicato in modo interessante da un secondo riferimento intertestuale a uno dei classici film politici europei dell’anteguerra. Mentre suona il flauto nella sua uniforme da bidello, il personaggio di Angelo crea un riferimento comico alla figura del tragico aristocratico francese Capitaine de Boeldieu, ne La grande illusione (1937) di Jean Renoir. De Boeldieu, un anacronismo nel contesto dei massacri di massa e dei combattimenti in trincea della Grande guerra, perde la vita suonando un ottavino per distrarre i secondini tedeschi nell’intento di coprire la fuga di due compagni prigionieri di guerra meno blasonati (un proletario e un ebreo). Angelo, il bidello che suona il flauto, non arriverà al punto di sacrificare la propria vita, ma alla fine del film si troverà ad abbandonare sia il flauto che l’uniforme da bidello per esibirsi nel circo (indossando un turbante e pantaloni alla zuava). Se il comunismo e l’identità sociale del proletariato italiano sono destinati a finire nella pattumiera della storia, come suggerito dal riferimento a Renoir, allora forse il fulcro dell’azione si trova proprio nella pattumiera Una notte buia e tempestosa Dopo aver portato a casa la lanterna sequestrata, Luna dorme sonni agitati. Ad un tratto, durante uno dei numerosi violenti temporali del film, un fulmine aziona lo strano congegno. L’ombra di Luna si separa dal corpo, e la mattina dopo se ne va per la sua strada, mentre l’ignara Luna si reca al lavoro, inconsapevole di avere perso la sua 266 ombra. L’ombra di Luna è identica alla sua proprietaria, dopo essersi tolta di dosso i residui dell’oscurità, e gode dell’essersi liberata dal carattere oppresso e opprimente di Luna. Riesce a sorprendere il Signor di Capua parlando il dialetto napoletano e dimostrandosi molto affettuosa. Al calar della sera, dopo essersi sistemata nel bordello cittadino, l’ombra comunica a Luna la sua decisione di unirsi al circo e andarsene dalla città. Perché il suo piano funzioni, tuttavia, Ombretta (letteralmente “piccola ombra,” ma non senza una connotazione di carattere infido e cattiva reputazione) deve ridare vita al circo, specialmente in seguito ai falliti tentativi del mago russo di continuare la sua esibizione nello spettacolo delle ombre senza l’aiuto della sua lanterna magica, tentativi che coinvolgono Angelo in un inquietante esibizione con il volto dipinto di nero (blackface). All’arrivo di Ombretta, gli artisti circensi ammettono che il loro programma è sorpassato, e per un momento considerano la possibilità che la soluzione possa risiedere nell’uso della televisione – un riferimento chiaro alla figura del magnate della comunicazione divenuto Primo Ministro, Silvio Berlusconi. Una sequenza che mostra il logo statico della RAI mentre cattura lo sguardo fisso e immobile del pubblico su uno schermo claustrofobicamente piccolo rivela immediatamente le differenze tra lo sguardo nazionalista/neofascista e quello figurale/ palinsestico. Anche i manager del circo assetati di profitti rifiutano questa pietrificazione del corpo e dello spirito, creando la possibilità per Ombretta di proporre un nuovo spettacolo, che si rivela essere una radicale trasformazione del numero della lanterna magica del mago russo, e richiede la collaborazione del proletario di turno, Angelo. Tuttavia, prima che si possa realizzare quest’alleanza gramsciana tra Nord e Sud, è necessario risolvere la tossica intersezione fallocentrica tra nazismo e fascismo, nazionalismo e colonialismo, sessismo e razzismo, che permea ogni luogo nel film - la scuola, la casa, la macelleria, il bordello, e perfino il circo. Una catena di eventi, che culmina nell’esplosione della bomba tedesca, indirizza il film verso la rivelazione del segreto celato sotto la morte eroica della maestra. La morte del padre di Luna/Ombretta, di cui parlerò più avanti, dà inizio a queste trasformazioni. A conseguenza di questo evento, Ombretta si sostituisce a Luna in occasione della Festa dell’Albero a scuola, durante la quale il vice preside (la caricatura di Fini) accidentalmente dissotterra la bomba tedesca. Mentre tutti si ritraggono terrorizzati, Ombretta raccoglie l’oggetto fallico e lo trasporta fuori dal cortile 267 della scuola, verso un orinale al lato della strada. Un’esplosione tremenda, magistralmente diretta e fotografata in una lunga sequenza, fa saltare in aria l’orinale - il simbolo ordinario del privilegio maschile – e sembra colpire anche Ombretta. Al contrario, Ombretta rimane illesa, in quanto lei è “solo un’ombra”, e decide di riunirsi a Luna a condizione che Luna abbandoni la sua tediosa carriera di maestra e (con la scusa della “morte eroica”) si unisca al circo con Angelo. La sequenza di chiusura del film si svolge nella pista del circo dove Luna e Angelo inscenano una nuova e più radicale versione dell’alleanza tra il proletariato del Nord e del Sud immaginata da Gramsci in The Southern Question (1995). Da qui non ci si arriva Il processo di fare “accadere” qualcosa dal punto di vista epistemico, però, non può essere rappresentato (il caos provocato dai temporali e l’esplosione rappresentano questa impossibilità nel film). Lo spostamento di soggetti emarginati al centro della scena è più complicato rispetto, ad esempio, al posizionare i due ragazzi del circo sul palco durante la cerimonia della Festa dell’Albero, come ammesso rapidamente nel film. Quando la bomba viene portata alla luce direttamente di fronte a loro, la loro posizione sul palco li mette in grande pericolo. Acquisire visibilità all’interno dell’episteme che determina l’assenza e l’invisibilità dell’individuo può avere conseguenze letali. Come, allora, può il film (e il pubblico) passare dall’“repressed inquietude” [inquietudine repressa] dello “obsolete but arrogant, modernist, xenophobic, colonial, misogynist, patriarchal, nation-state” [stato-nazione obsoleto ma arrogante, modernista, xenofobo, coloniale, misogino, patriarcale] (Sakai, 1997, pp. 165-66) a un altro/altrove “postcoloniale” e non patriarcale? Il montaggio fulmineo, brillante e tentatore, il tratto surreale di animazione, la complessità iconografica di ogni sequenza, e la fisicità luminosa dell’interpretazione, in particolare quella di Iaia Forte nel ruolo di Luna e Ombretta, creano una rete seduttiva di piaceri cinematografici che permettono al film di muoversi sul piano metafisico senza che lo spettatore sia consapevole, a livello “cosciente”, di ciò che “accade”. Il processo di fare sì che qualcosa “accada” da un punto di vista epistemico si può verificare, infatti, solo se gli spettatori non esercitano quel tipo di “conoscenza” che sottende 268 un senso di dominio, ma solo se, come Walter Benjamin teorizzava, sono intrattenuti in uno stato di “distrazione” (1969, pp. 240-1). Un esempio di come gli spettatori di Nichetti siano invitati ad attivare le immagini nella sua cappella barocca ci porterà più vicini al “segreto” accennato sul suo sito. Un colpo di tuono interrompe l’intreccio a cui stavamo assistendo, che ha come protagonista un macellaio, Tito, che è anche il direttore della banda musicale di Partigiani con il quale Angelo suona. Tito è il proprietario del bordello locale, che lui stesso incoraggia i membri della banda a visitare dopo le prove nella macelleria. Dopo una delle sessioni di prova, Tito si reca a visitare la moglie di uno dei musicisti, mentre il musicista si trova in visita al bordello5. Improvvisamente la finestra dietro il letto dove Tito e la moglie stanno per avere un rapporto sessuale diventa cornice per la testa e le gobbe di un cammello, mentre la colonna sonora presenta rombi di tuono accompagnati da un tema musicale vagamente mediorientale e dal suono della pioggia. Primo di numerosi temporali nel film, questo scroscio preannuncia anche una svolta nel nostro modo di usare e interpretare le sue immagini. L’inquadratura del cammello dall’interno della camera da letto è seguita da una scena esterna, dove assistiamo all’arrivo in città di un corteo di camion del circo, il cui asse si interseca perpendicolarmente con l’asse dell’inquadratura della camera da letto. Utilizzando un’intersezione “accidentale” (piuttosto che narrativamente motivata) tra la finestra della camera e il cammello come punto di transizione, il film intraprende una nuova direzione narrativa che coinvolge il circo. Il divario tra le due narrazioni reindirizza la nostra attenzione allo spazio aperto tra di loro. Spostando lo sguardo dello spettatore dalla composizione di immagini all’interno di cornici (il nostro sguardo viene allontanato proprio prima della scena di sesso!) alla serie o flusso di immagini, raffigurata dalla processione circense felliniana, il film costruisce un diverso tipo di esperienza audio-visiva6. Quello che si inizia a intravvedere sono i bordi delle scene e gli spazi che si creano tra di loro. Qui, in particolare, la nostra attenzione è diretta sul contrasto tra Tito ed i due piccoli uomini e la donna barbuta che indirizzano il circo per le vie notturne 5 Il lavoro sessuale delle donne nel bordello “di sinistra” di Tito raffigura ironicamente un compendio del capitalismo. La forza lavoro delle donne non è solo sfruttata per creare un prodotto, ma sono esse stesse mercificate. 6 La connessione tra Nichetti e Fellini è importante per la mia discussione, ma questo affascinante argomento esula dallo scopo di questo saggio. 269 della città. I personaggi del circo non normativi, illuminati dai lampi all’esterno, delimitano il sistema di identità sessuale/di genere eteronormativo, paradossalmente esemplificato dalla coppia “normale” adultera. Il cammello finirà con l’esercitare un affascinante effetto visivo di disgiunzione durante tutto il film, in particolare quando viene legato al di fuori della scuola – il punto di partenza per inculcare le nozioni di geografia e storiografia nazionalista che sottacciono la violenza coloniale, epistemica ed empirica, e le sue conseguenze sia per i soggetti colonizzatori che quelli colonizzati. L’incongruità del cammello legato nel cortile della scuola richiama l’attenzione sui legami storici e culturali tra Italia e Africa, in particolare quando il vice preside nota una vecchia gavetta militare, da cui il cammello beve acqua fangosa, credendo si tratti della bomba tedesca. Il circo postcoloniale Il paradigma epistemologico ed estetico del circo, sineddoticamente presenti nel cortile della scuola, è un supplemento interessante e “pericoloso” per entrambi i paradigmi di organizzazione epistemologica e sociale inculcati dallo Stato attraverso i suoi sistemi educativi e di intrattenimento (Derrida, 1976, pp. 141-64). Il circo, inteso come una serie di esibizioni senza una struttura gerarchica o narrativa, ma ognuna con una genealogia propria, propone alternative interessanti all’esclusionismo perpetrato dalle politiche di partito, dalla geografia e dalla storiografia nazionalista, e dalle dicotomie di realizzazione del sé e dell’altro che continuano a perpetrare il fallocentrismo delle politiche del potere (Trinh, 1997, p. 417). Visivamente, il tendone del circo nel film assomiglia ad un morbido e luminoso disco volante appoggiato delicatamente a terra sotto la luna piena. All’interno di questo spazio itinerante, effimero, ed inclusivo, gli spettacoli sono interconnessi tra loro attraverso molti processi: tra questi, il modo in cui gli spettacoli stessi si susseguono, la collaborazione e la convivenza degli artisti transnazionali in una comunità la cui personalità collettiva emerge e si adatta ai tempi e ai luoghi in cui essi si esibiscono, senza dimenticare i diversi modi in cui ogni spettatore interseca la sequenza non-narrativa degli spettacoli con l’angolo di visuale personale, a seconda della propria posizione nel circo. In che modo questa comunità non è, in realtà, specchio delle comunità di spettatori per i quali si esibisce? In altre 270 parole, il circo viene relegato nella sfera del carnevalesco o dell’extraterrestre proprio perché rappresenta i meccanismi di differenza generativi, originari e privi di dicotomie, della creazione di una comunità, un’immagine che minaccia l’egemonia dei rapporti di potere dominanti? Sul tema delle identità e delle relazioni di potere, la regista e teorica del postcolonialismo Trinh Minh-ha ha scritto: To raise the question of identity is to reopen the discussion on the self/other relationship in its enactment of power relations… In such a concept the other is almost unavoidably either opposed to the self or submitted to the self’s dominance. It is always condemned to remain in its shadow while making attempts at being its equal. (1997, p. 415) [Sollevare la questione dell’identità significa riaprire la discussione sul rapporto tra l’io e l’altro nella sua messa in atto delle relazioni di potere… In questa concezione l’altro è quasi inevitabilmente in opposizione all’io o sottoposto al dominio dell’io. È sempre condannato a rimanere nella sua ombra, mentre cerca di essere suo pari.] Il bordello, situato tra la scuola e il circo, offre una versione “sicura” e mercificata del paradigma del circo, suggerendo che persiste il desiderio di intrattenere ulteriori rapporti sociali polimorfi, anche se la realizzazione di tale desiderio è possibile solo in modo molto circoscritto e solo per maschi adulti (quasi tutti i maschi adulti nella comunità frequentano il bordello di Tito, senza distinzione di credo politico), e alle spese sia delle lavoratrici del sesso che delle mogli. Il bordello è paragonabile quasi a una droga, o forse a un servizio pubblico, mantenendo (per gli uomini) un accesso sicuro a soggettività e interazioni non-egemoniche che sono, tuttavia, sempre già ristabilite all’interno dell’economia capitalista, patriarcale, e coloniale sia del denaro che del desiderio che garantirà loro questo accesso. Cosa è necessario fare per uscire da questo circuito chiuso e compiere il percorso dal bordello al circo? Con l’arrivo del circo in città, le figure autoritarie iniziano a incontrare difficoltà, così come le incontra la narrazione lineare. I personaggi, e le narrazioni di cui credono di fare parte, iniziano ad intersecarsi, a prescindere da quali siano, per il momento, in primo piano. Anche Tito, che sembra ricoprire tutti i ruoli in quanto musicista, macellaio, comunista, capitalista, compagno, e adultero, viene colto alla sprovvi- 271 sta quando tenta di palpeggiare Ombretta, apostrofandola in accordo con i suoi due ruoli (macellaio e proprietario del bordello) come un “bel pezzo di carne”. Con una potente ginocchiata all’inguine e uno schiaffo dato con una fetta di carne, l’ombra della femmina subalterna rimasta fino ad ora inosservata relega l’uomo nell’ombra extra-diegetica. Anche il padre di Luna/Ombretta scompare, e non senza pathos. Confortato dell’affetto di sua figlia (Ombretta), il Signor di Capua riacquista il suo brio napoletano, avventurandosi fuori dall’appartamento per celebrare il suo trionfo artistico nel circo con una visita al bordello. Ombretta, nel frattempo, è riuscita ad istruire Angelo nell’arte della seduzione reciproca. La riconciliazione tra padre e figlia è insostenibile, come suggerito da questa asimmetria nella loro vita sessuale. Il desiderio di Ombretta è incompatibile tanto con il machismo del Signor di Capua quanto lo è con il fascismo dei suoi datori di lavoro. Inoltre, se, come sostiene Pasquale Verdicchio, l’“unificazione” d’Italia è in realtà un alibi creato dal Nord per la conquista e la colonizzazione del Sud (1997a, pp. 1-2, 21-51), la posizione anelata dal Signor di Capua è di per sé una posizione da soggetto colonizzato. In realtà, il macho del Sud si trova a suo agio all’interno del fascismo del Nord, come dimostrato dal successo elettorale del partito di Fini nel meridione. Ma Ombretta, l’ombra, si è fatta strada da sola, perché ha abbandonato il sistema gerarchico di creazione dell’identità che la metteva in secondo piano rispetto a Luna, e che rendeva Luna subordinata agli uomini nella sua vita. Durante una delle esibizioni di Ombretta e Angelo, l’ombra di papà entra improvvisamente nel tendone da circo, si avvicina e abbraccia Ombretta, e sale verso l’alto, facendo un cenno d’addio con la mano. Nel frattempo al bordello scoppia il pandemonio, mentre la cinepresa mostra il corpo immobile del Signor di Capua, seduto in una vasca da bagno, ridotto al silenzio da un infarto, con un grande sorriso sul volto. Lo statico cliché del machismo napoletano non può resistere al flusso di desideri, il riconoscimento del piacere altrui e il piacere stesso di esserne parte del Signor di Capua, nonostante il carattere stereotipato delle sue performance. La sua trans-figurazione – la sua capacità di attraversare le diverse inquadrature – gli permette di unirsi ad altre figure che potrebbero entrare o uscire in qualsiasi momento, ma non gli permette più di dominare Luna. Sulla scia della sua dipartita, la frattura tra Luna e Ombretta inizia a sanarsi. 272 Eclissi di luna Dove, quando, e chi siamo noi, chiede Sakai, dopo aver messo in evidenza che termini deitticamente spazio-temporali come “occidentale” e “moderno” sono artefatti del colonialismo? (2006, p. 166). La doppia messa in scena della morte del Signor di Capua, avvenuta sia nel bordello che nel circo, mette in luce questa questione spinosa che ha ossessionato la teoria postcoloniale, decostruttiva, queer, e di frontiera, da un punto di vista sia concettuale che affettivo. Il momento culminante del film e il suo epilogo affrontano la questione di ciò che succede ai soggetti secondari – subordinati, soggiogati, occlusi, colonizzati – in assenza dei termini principali – il padre, il centro, il logos, il fallo, l’Occidente, il moderno, la metropoli, la nazione. In una sequenza speculare, il film ritorna all’enigma posto dal passaggio dallo stadio secondario a quello primario (Luna/l’una) e al modo di immaginare l’“altro” (l’altra/l’al tra) di questo “io”. In una scena coreograficamente complessa tra Luna e Ombretta che segue la morte/trans-figurazione del Signor di Capua, lo status ontologico relativo del mondo delle ombre e di ciò che consideriamo il mondo empirico, materiale e fenomenologico è prima ribaltato, e poi reso irrilevante – non è il nodo della questione, dopotutto. Un’inquadratura d’ambientazione delle due figure nel camerino di Ombretta al circo inquadra Luna (apparentemente) in piedi sulla destra, rispetto alla sua doppelganger, Ombretta, seduta sulla sinistra. Ombretta si riflette nel suo specchio da tavolo. Tuttavia, mentre Luna si avvicina a Ombretta, le loro posizioni apparenti sono ribaltate. Lo schermo intero, in effetti, si rivela essere uno specchio (o immagine speculare), quando la figura di Luna viene improvvisamente eclissata dal suo stesso procedere all’interno della stanza in direzione di Ombretta. Ciò che la doppia immagine di Ombretta rivela ora è che la cornice nella cornice (lo specchio nello specchio) ha creato l’illusione ottica di primo piano e sfondo, centro e margine, immagine speculare e corpo materiale. In altre parole, i bordi, o margini, creano l’immagine in modo così fondamentale quanto l’immagine stessa determina i bordi/margini. Gilles Deleuze, scrivendo a proposito di una nuova generazione di immagini cinematografiche e il desiderio che è all’origine della loro creazione, allude al loro evolversi su un piano immaginario piuttosto che fenomenologico: 273 [W]e no longer know what is imaginary or real, physical or mental… not because they are confused, but because we do not have to know and there is no longer even a place from which to ask. It is as if the real and the imaginary were running after each other, as if each was being reflected in the other, around a point of indiscernability. (1989, p. 7) [non sappiamo più cosa sia reale o immaginario, fisico o mentale… non perché siano confusi, ma perché non abbiamo necessità di sapere, e non c’è più nemmeno un punto da cui partire per interrogarsi. È come se il reale e l’immaginario si rincorressero, come se l’uno si riflettesse nell’altro, intorno a un fulcro di indistinguibilità]. Tuttavia, non tutti condividono l’entusiasmo di Deleuze per l’abolizione della distinzione tra il reale e l’immaginario, e tale realizzazione su carta o su film risolve le questioni create dai rapporti di forza in gioco. Panico epistemico Prendo a prestito il termine “panico” nel senso elaborato da Eve Sedgwick nella sua discussione del “panico omosessuale” in Epistemology of the Closet. Sedgwick descrive una reazione difensiva ad una “crisi di definizione del sesso maschile” attraversata da un individuo incerto sulla propria identità sessuale. È l’intero sistema, però, che permette l’esistenza di questo panico “individuale” negando la possibilità di trovare identità nell’incertezza, un’incertezza che può essere scatenata con la stessa facilità dall’interazione tanto con le donne quanto con gli uomini, come sottolinea Sedgwick (1990, p. 20; 177 e 198). Per analogia, è più probabile che siano quelle identità maggiormente basate su (e approvate da) un’epistemologia nazionalista/colonialista a reagire in difesa delle molteplici crisi d’identità sofferte quando gli “altri” (usati come parametri per definire se stessi) varcano la soglia, quando gli “stranieri” diventano residenti o addirittura cittadini. «Quando c’era “lui”» (Mussolini), farfuglia il preside della scuola di Luna, «i cammelli restavano in Africa». L’esibizione di Luna/Ombretta e Angelo al circo, alla fine del film, affronta questo panico per mezzo di una refigurazione di corpi e ombre. Nelle esibizioni precedenti, Ombretta cambiava forma dietro 274 un telo, mentre Angelo si esibiva davanti a esso. Ma Luna/Ombretta e Angelo appaiono insieme, prima come ombre dietro il telo, e poi, mentre avanzano per inchinarsi, come figure tridimensionali reali, a colori. Il loro “emergere dalle tenebre”, un tropo familiare utilizzato per il riconoscimento dei soggetti subalterni e clandestini, è, tuttavia, rapidamente reso ironico dalle azioni buffe di due altre figure, un nuovo paio di ombre, che si intrufolano sul palco che Luna/Ombretta e Angelo hanno appena lasciato, per mandare saluti e inchinarsi davanti ad un pubblico implicito in un altro spazio, tangente allo spazio dell’azione reale. Quando infine le due coppie analoghe si riconoscono l’un l’altra attraverso il confine ora poroso creato dal telo, trasformano la gerarchia tradizionale dei corpi e delle ombre. Figura 1 275 Terra di nessuno Trinh Minh-ha scrive che «Interdependency… consists of creating a round that belongs to no one, not even to the creator» [l’interdipendenza… consiste nella creazione di un terreno che non appartiene a nessuno, nemmeno al Creatore] (1997, p. 418). Lo spostamento da una a due coppie al termine di Luna e l’altra è sorprendente tanto quanto l’apparizione della testa del cammello nella finestra della camera da letto ha creato un terremoto cinematografico. Il film mette in scena, attraverso immagini miracolosamente efficaci e senza pretese, l’effetto creato dal desiderio di rimozione dei termini e dei principi di dominazione, o dalla rimozione del desiderio per questi ultimi. Non solo non scompaiono gli spazi che possono essere accessibili attraverso l’attenta decostruzione delle dicotomie, ma questi spazi addirittura proliferano. La descrizione “postcoloniale” fatta da Sakai e Solomon della stessa situazione che induce il panico epistemico dall’interno del sapere “occidentale” rivela che la conoscenza aumenta come conseguenza del voler «[to] replace the sovereignty of bodies of knowledge with the sociality of knowledgeable bodies» [sostituire la sovranità della conoscenza con la socialità della conoscenza] (2006, p. 18). Queste interazioni non riguardano solo le possibilità interpersonali polimorfe, ma anche imprevedibili possibilità interconcettuali (Waller, 2005). Fra i sistemi concettuali, se non sono immaginati come “culture” omogenee chiuse su se stesse, può crearsi uno spazio di eterogeneità che permette la creazione di una comunità, perché non appartiene a nessuno. Due fermo-immagine alla fine del film emergono come tropi narrativi per la precarietà degli spazi euclidei, le inquadrature del proscenio, e le temporalità lineari di politiche, storiografie, geografie nazionali di esclusione. In primo luogo la coppia tridimensionale viene congelata, oscurata, e le si sovrappongono i titoli di coda. Un momento dopo, la coppia ‘ombra’ segue la prima coppia attraverso il fermo immagine, verso l’oscurità – la stessa fertile oscurità, come ho spiegato altrove, verso cui Fellini indirizza i suoi circensi alla fine di 8 ½ (Waller, 2011). Creato grazie alla ripetizione di un singolo fotogramma - in termini temporali 1/24 di secondo – tante volte quante sono necessarie per raggiungere la durata desiderata della sequenza, il fermo-immagine dilata l’immagine di una frazione di secondo per diventare esso stesso la cornice del continuum temporale da cui è sta- 276 to ricavato. Mette in scena il potenziale che ogni frazione di secondo possiede, in ogni dimensione concettuale (letterale, figurale, fisica, mentale), di assumere questo potere di focalizzazione, e viceversa, ne sottolinea la precarietà. Nichetti generalizza il potenziale epistemico, estetico ed affettivo di questo “segreto,” giocando sulla teoria e la pratica dialettica del montaggio elaborate dai suoi rivoluzionari predecessori russi, Sergei Eisenstein, Lev Kuleshov, e altri (da cui la presenza del mago russo con la lanterna magica). Per i primi cineasti sovietici, la potenza del montaggio aveva a che fare con lo spostamento degli spettatori da un piano di lettura delle immagini letterale e referenziale a un piano concettuale in cui nuove forme di pensiero e percezione potessero prendere forma (Eisenstein, 1977, p. 238). Ma l’obiettivo di questo salto nella “montage understanding” [comprensione del montaggio] come Eisenstein scrive nel suo influente saggio Dickens, Griffith, and the Film Today, è quello di creare un nuovo realismo, che comporta la proiezione di una nuova unità globale. Il montaggio cinematografico, il cui scopo era estendersi sinesteticamente attraverso tutti «elements, parts, and details of film-work» [gli elementi, le parti e dettagli dell’opera cinematografica] dovrebbe adoperarsi per creare «an organic embodiment of a single idea or conception» [l’incarnazione organica di una sola idea o concetto] (p. 255). L’ immagine a schermo intero si trasforma in una nuova “unità”. Con il raddoppiamento e il sequenziamento dei fermo-immagine, Nichetti rifiuta l’unità, anche una versione dialettica di unità, come obiettivo. Nessun fermo-immagine inquadra l’altro; è lo spazio di interazione tra le inquadrature che emerge come originario, permettendo al telo traslucido di servire da punto di connessione piuttosto che linea di esclusione tra le figure e le loro ombre. Il passaggio da una coppia a due consente a entrambe le coppie non di unirsi, ma di separarsi, e dà modo a ciascuna di creare spazio per ulteriori “altri” (il cast e la troupe, in questo caso). Sovrapposti contingentemente in entrambi gli spazi e tempi, i fermo-immagine creano un ulteriore, e più efficace ancora, “lo spazio intermedio”. 277 Bibliography Alei, P., 2008. Class lecture on Bernini’s Chigi Chapel. U.C. Rome Study Center. Rome, Italy, April 22, 2008. Andrews, G., 2005. Not a normal country: Italy after Berlusconi. London: Pluto Press. Benjamin, W., 1936. 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Fu il Fascismo una “rivoluzione”, come proclamavano i quadrunviri, o una “rivelazione”, come sosteneva Giustino Fortunato, la rivelazione di conflitti che esistevano già nell’Italia pre-fascista? Mi sembra ovvio, dunque, porre il problema continuità/rottura anche in ambito politico-culturale, specie in un terreno delicato come l’analisi filmica. E vorrei capire in questo saggio quali siano le eredità che il cosiddetto “Neorealismo” si porta dietro dal cinema “fascista”, quali le radici che affondano nel cinema degli anni trenta e dei primi quaranta. Gli elementi di “rottura” e di “rivoluzione” nel fenomeno neorealista sono ovvi e ampiamente enfatizzati: la rappresentazione dei ceti meno abbienti, la fotografia del malessere sociale, la “presa diretta” (non in senso tecnico) sulla “realtà”, l’uscita fuori dai teatri di prosa, l’uso di attori non protagonisti, il “pedinamento” dell’uomo qualunque, del vicino di casa, il collante antifascista, l’esaltazione della Resistenza. Ma quali sono gli elementi di “continuità” e di “conservazione”? Quanto l’“interventismo della cultura” fascista applicato al cinema ha influito sulla nascita dei quadri del futuro “neorealismo”? Sul tema della continuità tra Fascismo e Neorealismo vale la pena, ormai nel nuovo secolo, di fare una seria riflessione: se historia non facit saltus, si deve ammettere che la – pur contraddittoria – politica statale e industriale del fascismo ha contribuito, inconsapevolmente, a produrre professionalità, personalità, strumenti tecnologici e lingui- 282 stici, motivazioni e retroterra teorici di fondo che saranno indispensabili alla generazione che balzerà agli onori delle cronache col Neorealismo. È anche grazie all’idea del cinema come “arma più forte” (secondo lo slogan di Mussolini mutuato da Lenin), agli investimenti sull’industria da parte dello Stato, ai confronti con industrie straniere cardine come quella statunitense, quella sovietica e quella tedesca, alla creazione di Enti e di apparati, alla fondazione di Cinecittà, del Centro Sperimentale di Cinematografia, della Mostra di Venezia, alla formazione di talents, vale a dire di quadri tecnici, di maestranze specializzate (non solo registi ma direttori di fotografia, montatori, scenografi, ecc.) che i vari Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis, Antonioni, Fellini, Lattuada troveranno un terreno fertile alle loro nuove elaborazioni ideologiche e stilistiche. I registi “neorealisti” imparano il mestiere e plasmato la propria personalità autoriale proprio “sotto”, o “durante”, o “nonostante”, il regime fascista. E con loro centinaia di elettricisti, macchinisti, operai specializzati in costruzioni per il cinema, maestranze che formano il loro talento proprio nella “cinecittà” italiana di questo periodo. La generazione dei redenti A volte la “continuità” viene scambiata per “opportunismo”. È il caso di un libro, con le cui tesi non concordo ma che ha avuto un certo successo in Italia: I redenti di Mirella Serri1. I “redenti” sono gli intellettuali degli anni trenta-quaranta che vissero una “doppia vita”: una prima volta sotto e con il fascismo, una seconda nel dopoguerra sotto e con l’egemonia della sinistra. Ebbene, il libro inserisce tra gli intellettuali “che vissero due volte”, tra gli artisti che si inserirono nel processo di continuità e di redenzione, Roberto Rossellini. Un regista, come la storia del cinema sa da sempre, la cui nascita artistica non deve essere datata al convenzionale 1945 di Roma città aperta, alla “trilogia della guerra” neorealista (Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero), ma deve essere retrodatata, oltre che ai primi esperimenti, alla “trilogia della guerra” fascista: La nave bianca, Un pilota ritorna, L’uomo dalla croce. La Serri sembra colpita 1 Cfr. Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005. 283 dall’ambiguità rosselliniana: i tre film trattano, strategicamente, di tre “armi” della guerra fascista - la marina, l’aviazione e la fanteria -, a Un pilota ritorna collabora nientemeno che Vittorio Mussolini, figlio del Duce, e L’uomo della croce si distingue per il suo anticomunismo. Come può Rossellini, nel giro di due anni, raccontare la storia di un prete anticomunista (il protagonista de L’uomo della croce, 1943) e poi la storia di un prete antifascista e filocomuista (il Don PietroAldo Fabrizi di Roma cità aperta, 1945?). Il capitolo della Serri su Rossellini si conclude con una battuta (che dà poi il titolo all’intero paragrafo): Dall’Odeon all’Odeon. Al cinema Odeon era stato proiettato L’uomo dalla croce, nella sala dell’Odeon viene proiettato, non molti mesi dopo, Roma città aperta. «Il grande artista – nota la Serri – seppe cogliere la realtà politica, come rilevò, un po’ maliziosamente, l’amico Amidei dopo la sua morte: “Era in fondo un realista che sapeva stare nella realtà politica”. Dall’Odeon all’Odeon, il passo era stato breve»2. Con Amidei, sorride e ammicca maliziosamente anche l’autrice. E il termine scherzoso di “realista” dell’amico sceneggiatore (aggettivo che aprirebbe peraltro infinite querelles) suona come “cinico” e “opportunista”. È una contraddizione, certo, ma che non sta in un ventilato opportunismo di Rossellini (che pure era uomo “tattico” e intelligente venditore di se stesso: si vedano l’abilità e il tempismo nel costruire Open City e l’operazione internazionale di Paisà), ma in una magmatica situazione storica e in una più sottile ambiguità dell’arte. È vero che Rossellini deve essere visto in direzione di una continuità: ma la continuità non è quella tra il regista “fascista” e il regista “antifascista”, che risulterebbe banale e sin troppo semplice; è invece quella “poetica” ed estetica, che permette di non porre soluzioni di continuità tra un “primo” Rossellini resistenziale, un secondo esistenziale (il periodo legato a Ingrid Bergman), un terzo televisivo, ecc. Quello che interessa a Rossellini è un percorso coerente di ricerca interiore, di indagine sull’anima, di coniugazione del reale col trascendentale. Una re-visione (in questo caso la parola è adattissima) del cinema rosselliniano permette di non appiattirlo sull’ideologia, vuoi quella antifascista, vuoi quella cristiana. Gli studi più recenti dimostrano che la trilogia della guerra resistenziale deve essere riletta, invece che come cinema di denuncia o peggio come “stile documentario” 2 Mirella Serri, op. cit., p. 233. 284 (questa è una vulgata del neorealismo), come dramma universale, complessa operazione simbolica, strategia estetica e spirituale complessa3. Come non c’è tanta differenza tra il Rossellini di Germania anno zero e quello di Europa 51, così non c’è tanta differenza tra L’uomo della croce e Roma città aperta. Nei film “fascisti” e bellici come in quelli antifascisti e antibellici c’è la stessa tensione ascetica, c’è l’attenzione alla Storia da un lato, e alle storie individuali dall’altro. La nave bianca è sì un film sulla marina italiana, ma guardata dal punto di vista di chi soffre (protagonista è una nave ospedale, la nave “bianca”, appunto); Un pilota ritorna è sì un film sull’aviazione, persino con l’uso di certi codici del film di guerra americano, ma il suo nucleo è la guerra dalla parte delle vittime, non certo da quello degli eroi: nonostante, infatti, l’impresa del protagonista che, prigioniero, ruba un aereo al nemico a ritorna in patria, il nucleo del film è un viaggio insieme alla popolazione avversaria in guerra ma vicina nell’umanità e nella sofferenza. Non appaiono, in questa prospettiva, tanto differenti i due preti del ’43 e del ’45, uniti dallo steso anelito spirituale – seppur ideologizzato. Certo che l’esperienza sul set del Rossellini “fascista” non può non aver formato il regista che si troverà già pronto all’indomani della liberazione per l’impresa di Roma città aperta. Stesse considerazioni si possono fare per quanto riguarda la collaborazione di Rossellini con De Robertis, che la Serri pare vedere nel senso di un coinvolgimento militaresco: da anni proprio Uomini sul fondo di De Robertis, pur voluto dal Ministero della marina, è considerato un precursore del neorealismo, ed anzi – in tempi più recenti – un esempio di possibile lettura non stereotipa del neorealismo stesso4. Quale sarebbe allora il giudizio della Serri su Blasetti, “regista con gli stivali” del fascismo (Vecchia guardia) e poi precursore del neorealismo (Quattro passi tra le nuvole), uomo di regime e pacifista (le due anime convivono ne La corona di ferro), prima fascista e poi 3 Si veda Stefania Parigi (a cura di), Paisà, Venezia, Marsilio, 2005. Mi permetto di rimandare in particolare al mio saggio, contenuto in quel volume, Uscire dal tunnel. Il quarto episodio, p. 85. 4 Cfr. Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano Venezia, Marsilio, 1976 e AA.VV. Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943, Ancona, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1977. Per una rilettura meno stereotipa, devo rimandare ancora a mio saggio: Bassifondi. Appunti su due film “fascisti” di De Robertis, in Aa.Vv., In fondo al mare…Il cinema di Francesco De Robertis, Bari, Edizioni del Sud, 1996. 285 antifascista socialisteggiante? È anche lui, a modo suo, un “redento”, o comunque un “assolto” dalla “fonte battesimale” comunista (si sa che Blasetti era stimato proprio dai De Santis, dagli Ingrao, dai Visconti)? Ho voluto chiarire la mia posizione, perché è facile essere fraintesi quando si parla di una continuità tra Fascismo e dopoguerra. Sono molto distante dal dilagante “revisionismo” che tende a rivalutare il regime mussoliniano nelle sue varie componenti (cultura, società, mass media) e porta inevitabilmente a rivedere anche la Resistenza. È il caso, ad esempio dei best sellers di Giampaolo Pansa, ex giornalista di «la Repubblica» e «L’Espresso», che negli ultimi anni si è dedicato a una – a mio avviso maniacale – rilettura della Resistenza, scoprendo i lati oscuri e meno gloriosi5: Il sangue dei vinti, in particolare, e Sconosciuto 1945 cavalcano l’ipotesi di una guerra civile dove tutti sono colpevoli e dove i partigiani non sono più gli “eroi” della tradizionale retorica postbellica; e si inseriscono comunque in un filone di revisionismo politico in cui si propone che i “partigiani” debbano essere equiparati, nella memoria e nel giudizio storico, ai “repubblichini”, morti anch’essi in nome di un “ideale”. Questo dibattito interessa da vicino anche il cinema: Il sangue dei vinti è diventato un film, per la regia di Michele Soavi (specialista in film di genere); dal filone-Pansa viene anche Miracle at Sant’Anna di Spike Lee, film hollywoodiano girato in Toscana e sponsorizzato dalla locale Film Commission, che ha destato enormi polemiche proprio per la sua provocatoria proposta di una Resistenza non tutta luminosa ed anzi, a volte, colpevole o complice delle stragi naziste. Quello che mi interessa, invece, è individuare gli elementi di continuità sul terreno della forma, del linguaggio, della grammatica filmica, della messa in scena, della rappresentazione della realtà. E in questo senso gli elementi di somiglianza, o le “tracce di Neorealismo” nel cinema anni trenta-quaranta sono sorprendenti. 5 Cfr. I figli dell’Aquila, Milano, Sperling & Kupfer, 2002; Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003; Prigionieri del silenzio, Milano, Sperling & Kupfer, 2004; Sconosciuto 1945, Milano, Sperling & Kupfer, 2005; La grande bugia, Milano, Sperling & Kupfer, 2006; I gendarmi della memoria, Milano, Sperling & Kupfer, 2007; I tre inverni della paura, Milano, Rizzoli, 2008; Il revisionista, Milano, Rizzoli, 2009. 286 La “scoperta” della continuità Questa rilettura del cinema “fascista”, o più correttamente prodotto durante il Fascismo, è cominciata alla metà degli anni settanta, nell’ambito di una più profonda riflessione storiografica. La riscoperta del fascismo come “regime reazionario di massa” consente in quel periodo di mettere a fuoco gli anni trenta come nodo centrale dello sviluppo della storia italiana - e spinge il taglio dell’analisi da una parte verso gli “strumenti” concepiti dal fascismo in funzione del consenso, e dell’altra verso i “contenuti” veicolati attraverso i vari mezzi di comunicazione di massa. Asor Rosa lancia uno slogan fortunato, quello del fascismo come “totalitarismo imperfetto”6, cioè di un regime compatto e ben direzionato in funzione del “consenso”, ma che per far questo paga nei confronti delle aree intellettuali, lasciando ampi spazi di autonomia e, quindi, di potenziale dissenso. Il totalitarismo italiano è «imperfetto» perché risulta, alla fine, un ampio calderone che ospita le tendenze più disperate e in apparenza opposte: basta vedere il dibattito sulla cultura e le polemiche tra Farinacci e Bottai sull’ “arte fascista”, ma è interessante anche la doppia strategia verso il cinema (costruire un cinema di Stato, come vorrebbe Freddi, o favorire gli industriali, come farà Afieri). Si accentua così l’interesse per la politica culturale del fascismo, come momento essenziale per la comprensione dell’impatto del regime non solo sugli intellettuali ma sulla popolazione nel suo complesso, si punta l’indice sull’organizzazione dell’adesione a livello di massa, sulla “fabbrica del consenso”7. Risulta subito chiaro, da tutta una serie di riflessioni che si fanno in quel periodo, che di certo è il cinema lo strumento di indagine più importante per investigare sulle strutture economico-politiche e sulle componenti socio-culturali dell’Italia fascista, perché rappresenta il mezzo di organizzazione e di diffusione della propaganda dal ruolo più nuovo e dalla portata più ampia. Il cinema diventa così, alla metà dei settanta, il baricentro di una ondata di studi che si trova inesorabilmente coinvolta nell’annosa polemica sulla continuazione tra pre e post-fascismo. 6 Cfr. Alberto Asor Rosa, Storia d’Italia Einaudi, vol. IV, Dall’Unità ad oggi, 2, La cultura, Torino, Einaudi, 1975, p. 1502. 7 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, con una prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, 1975. 287 La verifica è nel dibattito che avviene nell’ambito della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, momento cruciale di svolta nella riflessione sulla storia del cinema italiano: un convegno del 1974 (passato alla storia per il calibro dei personaggi intervenuti) affronta il nodo storico e ancora irrisolto del Neorealismo.8 Ne discute gli stereotipi, ne affronta, ormai finite le letture meramente ideologiche dell’immediato dopoguerra, le dinamiche autoriali e gli stili. E finisce, inevitabilmente, col fare i conti con il cinema precedente. Non solo quello definito, con una semplificazione, “pre-neorealista” ( i tre “casi” famosi sono i film del ’42/’43 Quattro passi tra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti, più gli antesignani Sole e 1860 – ancora Blasetti –); ma anche il cinema degli anni trenta in generale, verso cui il Neorealismo non può non guardare indietro. È così che, per un naturale procedere del dibattito, nel settembre 1975 il festival di Pesaro affronta il cinema fascista mettendo attorno a una tavola rotonda gli storici del cinema e gli storici puri, coniugando l’analisi testuale dei film con l’indagine storiografica attenta alla politica culturale fascista9. Naturalmente c’è anche un pubblico di movie buff che vanno in delirio per le proiezioni dei film degli anni trenta. I film “fascisti” vengono visti per la prima volta da più di una generazione, si scopre che molti di questi prodotti non sono poi così fascisti, e i più giovani applaudono a dive e storie sino ad allora etichettati sotto il “periodo dei telefoni bianchi”, a film rimossi o addirittura giudicati senza mai essere stati visti, per il solo fatto di essere stati fatti durante il regime. Vasto il ventaglio di posizioni, e accanite le dispute ideologiche che coinvolgono i partecipanti alle visioni pesaresi,10 anche perché si percepisce che la riscoperta del cinema “fascista” si inserisce nello sfondo di una più ampia reinterpretazione dei momenti fondanti del cinema nazionale, e che va inevitabilmente a modificare i giudizi assodati sul Neorealismo, il quale appare sempre più legato a filo doppio ai suoi antecedenti prebellici. 8 Cfr. Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1976. 9 Materiali sul cinema italiano 1929-43: Blasetti, Camerini, Poggioli, Pesaro, undicesima mostra internazionale del nuovo cinema, 1975. 10 Cfr. Steve Ricci, Cinema & Fascism, Los Angels, University of California Press, 2007. 288 Dal punto di vista dei “testi” filmici, la re-visione della kermesse filmica di Pesaro porta alla identificazione di tre “autori”, e conseguentemente di tre linee estetiche, all’interno dell’industria cinematografica del ventennio: Blasetti, Camerini, Poggioli. Blasetti è un inventore di Cinema, propugnatore della “Rinascita” del cinema italiano, assertore del realismo ma anche raffinato regista di commedie sofisticate o vigoroso confezionatore di avventure, persino precursore del “neorealismo”; Camerini è il regista di mestiere per antonomasia, abile confezionatore delle storie piccolo borghesi di cui è eroe un attor giovane che farà strada, Vittorio De Sica (il suo cinema sarà forse funzionale al consenso più del cinema di propaganda vero e proprio, come dice qualche critico, ma dimostra certo una grande padronanza della messa in scena); Poggioli è il regista raffinato che preannuncia le nuove stagioni autoriali del dopoguerra. Nell’ottobre del ’76 il gotha critico italiano si ritrova a Pesaro a dibattere sul cinema fascista, e continua la riscoperta di film mai visti, letteralmente rimossi per trent’anni, che nel frattempo vengono riscoperti e restaurati dalla Cineteca Nazionale. Si studiano strutture narrative, topoi, figure femminili, rapporti edipici; si alternano la rilettura ideologica a quella semiotica. Un volume, edito per l’occasione, pubblica materiali d’archivio, studia le riviste specializzate in cinema e non, la presenza del film nei quotidiani, o nei fogli dei Guf. Salta dunque una sorta di tappo storico e psicologico, e da ora in poi si può vedere il cinema “fascista” senza reticenze e con, in più, il gusto della scoperta. In questa prospettiva, si cominciano a ricercare le derivazioni mitiche, i “modelli” sottesi dal nuovo “immaginario” fascista. E i grandi modelli di riferimento non possono che essere Hollywood e il cinema sovietico. Su una analisi dell’influenza del cinema americano punta ad esempio uno studio di Sergio G. Germani11, la cui tesi è che dei due miti – l’americano e il sovietico – il secondo resti solo teorico e che il cinema italiano sia “cinema americano minore”: «si ha un’indiretta delega al cinema americano a coprire il settore del divertimento popolare. L’affermazione fatta nel dopoguerra da Solaroli sul “cinema americano come il vero cinema fascista”, se spogliata delle sue implicazioni moralistiche, può aiutarci ad avanzare […] un’ipotesi […] quella cioè del cinema italiano come “cinema 11 Sergio Grmek Germani, Cinema italiano sotto il fascismo: proposta di periodizzazione, in Materiali sul cinema italiano…, cit. 289 americano minore”, come forse il più vicino internazionalmente al cinema americano»12. Viene fuori l’idea di una “americanizzazione” del cinema italiano, confermata dall’evoluzione dei generi (melodramma, commedia, film di guerra, film noir), che si formano negli anni trenta e che costituiscono gran parte dei codici testuali del cinema postbellico: «Nel cinema italiano sotto il fascismo si fa difficoltà a trovare un modello di “cinema fascista”, nel senso in cui si può parlare di architettura fascista o di modello cinematografico nazista nei film di Riefenstahl […]. Il cinema italiano sotto il fascismo è stato innanzitutto un cinema capitalistico, su cui si sono innestati i caratteri del fascismo» 13. De Sica prima del Neorealismo Questa “americanizzazione” del cinema anni trenta è fondamentale se si vuole capire non solo la commedia di Mario Camerini, ma anche De Sica, non solo attor giovane in Camerini ma anche regista di un certo successo ben prima dell’esplosione neorealistica. Come si concilia l’autore “impegnato” di Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D. con con il metteur en scène leggero ed escapista di Rose scarlatte, Teresa Venerdì, Maddalena zero in condotta, Un garibaldino al convento? Sarebbe facile sposare la teoria dei “redenti” o degli “opportunisti”. È probabile che anche De Sica, come Rossellini, “fiuti l’aria” nuova, da buon imprenditore di stesso. Ma è certo che ci sia una faticosa maturazione, dovuta al procedere della guerra, della crisi del fascismo, e accelerata magari grazie ad incontri eccellenti, come quello con Cesare Zavattini, che il giovane De Sica ha incontrato sul set di Darò un milione (di Camerini). Quanto questi film di genere (di un regista e di un attore già specialista nel campo) sono debitori nei confronti del cinema hollywoodiano? Quanto essi sono “funzionali” al fascismo, o quanto sono invece impermeabili se non escapisti rispetto all’ideologia del regime? La questione coinvolge tutta la commedia italiana degli anni trenta, compresa quella cameriniana di cui è stato interprete proprio il giovane De Sica. Rimando, in questo senso, alle riflessioni fatte a 12 Ivi, p. 339. 13 Ivi, p. 359. 290 suo tempo attraverso i convegni e i volumi del Festival di Pesaro14, e in generale alla opposta interpretazione che ha visto la commedia vuoi “fascista”, in quanto funzionale al “consenso”, vuoi “afascista”, poichè indisponibile ad appiattirsi sulla retorica del regime e comunque lontana dai suoi provincialismi. La cosa che stupisce, semmai, è la totale impermeabilità di trame, personaggi, gesti e situazioni alla tragedia della guerra che incombe sull’Europa e sul mondo. Comunque, la commedia diretta, oltre che interpretata in prima persona (magari solo attraverso un cammeo) da De Sica sembra voler aprire le atmosfere italiane alle arie internazionali (generi e sottogeneri hollywoodiani), e pare sposare gli elementi tradizionali della commedia dello scambio (nella screwball comedy o nella commedia degli equivoci) con momenti di comicità più surreale e bizzarra. Ed è un genere che contiene inevitabilmente degli elementi di “realismo” quotidiano: l’edicola del Signor Max, il negozio, il bar, il taxi, l’auto, i cartelloni pubblicitari, la Fiera di Milano de Gli uomini che mascalzoni, ecc. non possono non fare i conti anche con una realtà, pur spesso ricostruita in Teatro di posa. Una commedia cosciente, comunque, e matura, che sta al passo con le tendenze internazionali più alte. Ma anche una commedia che cede il passo, presto, al dramma. È il caso de I bambini ci guardano, fosco melodramma familiare che è stato giustamente giudicato un caso di forte rottura rispetto al cinema di quegli anni. Era, ad esempio, un cavallo di battaglia di Lino Miccichè, che metteva il film di De Sica in un trittico di film del 1942-43, insieme a Quattro passi tra le nuvole di Blasetti e Ossessione di Visconti, che possono essere considerati sicuramente preneorealisti 15.Ora, il dibattito storico è andato molto avanti e non credo più all’interpretazione di questi tre capolavori come anticipatori del neorealismo alle porte, se non mettendo in discussione l’intera nozione di “Neorealismo”: Ossessione è un fosco melodramma, un noir di ispirazione letteraria, una crime story che ha solo alcuni elementi neorealisti (gli esterni, l’insistenza sul paesaggio, il Po); Quattro passi… è una favola capriana, negata solo dalla nota parentesi di inizio e fine 14 Cfr. Mino Argentieri (a cura di), Risate di regime, La commedia italiana 1930-1944, Venezia, Marsilio, 1991; Andrea Martini (a cura di), La bella forma, Venezia, Marsilio, 1992. 15 Vedi ancora Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, cit. 291 film, in cui il commesso viaggiatore tocca con mano la dura realtà della vita. Forse I bambini ci guardano prefigura più chiaramente le nuove atmosfere etiche ed estetiche; si possono cogliere già qui, nella storia disperata del bambino protagonista, gli angosciati sguardi infantili di Ladri di biciclette e di Sciuscià, ma anche le tragedie degli Edmund di Germania anno zero (Rossellini, 1948), dei vecchibambini alla Umberto D. La forte sequenza del treno che sta per travolgere Pricò, infatti, non può non ricordare il tentativo di suicidio nel finale del film del ’52; mentre la morbosa curiosità delle vicine, la descrizione del condominio e lo stesso sguardo angosciato del bambino rimandano in qualche modo a Bellissima (Visconti, 1951). Rispetto a Ossessione e Quattro passi, poi, I bambini… è meno legato a modelli letterari, a riferimenti musicali o a codici di genere, ed è più marcatamente “realista”; anche nella descrizione della contemporaneità, nella scelta di alcuni esterni, nella ruvidezza del trattamento del tema. Il tono, semmai (fotografico e drammaturgico), assomiglia più ai melodrammi – anche “popolari” – degli anni cinquanta: si veda la scena-madre finale al collegio religioso, in cui il figlio rifiuta di abbracciare la madre, in abito di lutto ma incapace di agire un vero sentimento di solidarietà materna. Ma lasciando da parte l’annosa questione di una appartenenza o meno de I bambini al clima neorealista, di certo il film di De Sica (insieme anche a quelli di Visconti e di Blasetti) descrive un Paese angosciato, dove pesano ormai le ombre della guerra, dove esplodono le contraddizioni familiari non più risolvibili nel contesto retorico della società. Alla donna e sposa ideale del fascismo, alle mogli che donano le vere alla patria, Visconti risponde con una donna che tradisce il marito e istiga l’amante ad ammazzarlo, Blasetti ci fa intuire il disamore del protagonista verso la compagna aspra e irascibile, verso i gesti intollerabili della quotidianità; De Sica rappresenta un padre non “virile”, una moglie altrettanto debole ma capace di causare una tragedia, un bambino che assiste all’adulterio e al suicidio. Una trama, come si vede, lontanissima dai toni sorridenti di poco tempo prima. Il tradimento della madre viene descritto in maniera moderna, quasi capito se non giustificato nella sua appassionata sincerità, ed anche l’amante non è il cattivo seduttore di turno, ma un uomo che soffre davvero per amore. I bambini ci guardano è un film duro, senza happy ending possibile, non riconciliante, che segnala una cesura forte rispetto al De Sica precedente; forse per la presenza tra gli sceneggiatori di Cesare 292 Zavattini, che da questo momento accompagnerà a lungo la filmografia di De Sica, diventandone in qualche modo co-autore16. È un film senza De Sica attore, quasi il regista avesse pudore a mettersi in scena in questo nuovo clima rappresentativo. Ed è un film, infine, che evidenzia una rottura anche dal punto di vista dello stile. Bella registicamente, ad esempio, è la scena del sogno, durante il viaggio in treno prima del provvisorio ritorno della madre. Bellissima la lunga sequenza della fuga di Pricò che, dopo aver sorpreso la madre ad abbracciarsi con l’amante, fugge e tenta di raggiungere il padre a Roma; prima rischia di essere travolto dal treno, poi fugge di notte sulla spiaggia, seguito da un lungo carrello di cui forse si ricorderà Truffaut ne I quattrocento colpi. Insomma, si tratta certamente di un film duro, forte, un punto di svolta nella storia del cinema italiano, anche al di là della possibile prefigurazione del cinema postbellico; un film che dichiara che non c’è più niente da ridere e che la commedia non risolve più, neanche in modo metaforico, le angosce dell’oggi. «Qui c’è gente che non ha nessuna voglia di ridere…», dice il controllore a un gruppo di attricette del teatro “Eldorado” all’inizio de La porta del cielo. C’è infatti, ne I bambini, un distillato di dolore puro che si riversa direttamente ne La porta del cielo, un prodotto a cavallo tra fascismo e dopoguerra17, che si deve inserire in questa fase della maturazione di De Sica prima della sua esplosione postbellica. Il film è un interessante, seppur non riuscitissimo, tentativo di mescolamento di elementi documentari con altri di pesante teatralità. È la storia di un doloroso convoglio di malati che si recano al santuario di Loreto per ottenere un “miracolo”. Una sorta di travel film, un film di viaggio fisico e metaforico, in un’Italia addolorata e funerea, pur nella prospettiva della speranza cristiana. A ogni stazione si aggiunge un vagone, e si aggiunge un personaggio col suo fardello di storia. La semplice struttura della sceneggiatura, infatti (firmata anche qui da Zavattini insieme a Diego Fabbri), permette un incrocio di 16 Il film è tratto dal romanzo di Cesare Giulio Viola Pricò, e gli altri sceneggiatori sono, oltre allo stesso Viola e a De Sica, Aldo Franci, Gherardo Gherardi, Margherita Maglione e Cesare Zavattini. 17 La premessa del cartello iniziale, infatti, ne dichiara l’appartenenza al periodo della “liberazione”: «Durante la prigionia di Roma, lottando contro difficoltà di ogni genere, uomini del cinematografo italiano realizzarono questo film sospinti dal desiderio di servire, con l’arte, la fede cristiana». 293 quattro storie principali: un ragazzo paralitico che viene “adottato” da una donna di buon cuore (Maria Mercader); una donna che va a pregare perché non succeda un dramma familiare (un vedovo vuole risposarsi, i figli lo accusano di “tradire” la memoria della madre, ma si scopre che è stata invece la madre a tradire – sessualmente – il padre; un tema ossessivo, come si vede, l’adulterio, di questa fase di De Sica); un pianista che ha perso l’uso di una mano e che medita il suicidio; un uomo che accompagna un ex amico di cui ha causato la cecità. Gli episodi sono tutti raccontati in flash back, così che il treno diventa una sorta di contenitore di memorie, e di sogni. Le quattro storie si concluderanno con un – relativo – lieto fine: il ragazzo paralitico fa amicizia con un anziano handicappato e ricostruisce una sorta di “nucleo familiare”; il cieco non riacquista la vista ma l’amicizia del suo compagno; il pianista non guarisce ma abbandona i suoi propositi suicidi (è questo il vero miracolo) e viene guardato con amore da una bella infermiera. E c’è anche un miracolo vero (una vecchia che riacquista l’uso delle gambe) attorno a cui si galvanizza l’eccitazione delirante della folla: una scena che ricorda quella del finale di Viaggio in Italia (Rossellini, 1954), con la coppia BergmanSanders che si abbraccia in mezzo alla massa di gente intervenuta alla processione napoletana. Anche nel film di De Sica un dolly iper-cinematografico nega l’assunto pseudo-documentaristico della sequenza. Oscillando tra prefigurazioni del futuro e citazioni del passato, segnalo un’altra sequenza, che sembra un voluto omaggio ad Acciaio di Ruttmann (1933): è quella – in uno dei flash back – in cui i due amici (Massimo Girotti e Carlo Ninchi) competono per una donna; lavorano in una fabbrica di ghiaccio e i lingotti ghiacciati vengono maneggiati minacciosamente come le lunghe barre di acciaio fuso del film di Ruttmann. Poi l’incidente provocato dal geloso Ninchi (il vapore che esce violentemente da una valvola), in cui Girotti (fresco protagonista di Ossessione) perde la vista. Con La porta del cielo si conferma che c’è stato un cambiamento di sguardo: pur in un impianto teatrale (si veda l’uso del trasparente per mostrare i paesaggi esterni dagli scompartimenti del treno), emergono momenti di crudo realismo anche in certi esterni ferroviari; la fotografia è tra dramma realista e film “nero”; e come ne I bambini…, la regia si esibisce in movimenti di macchina, in invenzioni di messa in scena da autore ormai maturo. Prendo come esempio la lunga sequenza notturna, in cui la mdp vaga per il treno, cercando di 294 cogliere i pensieri e i sogni nascosti dei vari protagonisti. E aggiungo, più per motivi ideologici che per la messa in scena, una sequenza in cui emerge il conflitto di classe: un treno di ricchi si accosta a questo treno di poveri malati, e un signore che sta mangiando nella vettura ristorante abbassa in modo cattivo la tendina del finestrino. È una sequenza molto simile a quella, più celebre, di Riso amaro (De Santis, 1949), in cui la mdp panoramica dal vagone letto al campo delle mondine in cui si accinge a ballare Silvana Mangano. A questo proposito, è incredibile come da questo gruppo di film di De Sica si possano cogliere indizi del cinema passato e futuro, dello stesso regista o di altri cineasti della sua generazione. A dimostrazione che c’è in questa sua fase un crocevia di ispirazioni, di intuizioni, di citazioni, di suggerimenti per opere future; un mèlange magmatico di fonti e modelli, di generi e codici, di arte e merce che fa capire come il maestro di Ladri di biciclette non nasca all’improvviso, ma porti con sé un ricco bagaglio di esperienze e di sperimentazioni del proprio indiscutibile talento. Altri indizi di continuità Le tracce di una riflessione sul mondo che poi sarà raccolta dal neorealismo vanno comunque al di là della – forse ovvia – scoperta di una continuità autoriale in Rossellini e in De Sica. C’è tutto un clima culturale in cui si possono trovare forti indizi di quella che sarà la poetica neorealista. Anche perché tutti gli anni trenta italiani ed europei fanno i conti con la nozione di “realismo”. Nozione ambigua, del resto, che in Europa viene applicata dal nazismo e dallo stalinismo, ma anche dai Fronti popolari francesi; in America dai film realisti della Warner Bros. o dal documentario sociale. In Italia è una nozione che nelle arti visive può essere cavalcata dal Guttuso della Crocifissione o dal realismo filonazista propugnato da Farinacci, in letteratura da Vittorini ma anche dalle riviste fasciste, nel cinema dai comunisti Alicata e De Santis ma anche dal cinema di propaganda (Passaporto rosso, Il grande appello o L’assedio dell’Alcazar). Una sorta di “neorealismo” è teorizzata da alcune riviste fasciste, nell’ambito di un variegato panorama di fogli e pubblicazioni che indicano comunque un ampio dibattito culturale, specialmente a 295 livello giovanile. Penso soprattutto alle riviste facenti capo al gruppo di “Strapaese” (che, contrapposto a “Stracittà” di Bontempelli, tende a valorizzare la provincia e la “terra” contro la città e la borghesia) e quelle ideologicamente organiche al regime (sono infatti per lo più organi di federazione o fogli sindacali), ma caratterizzate da un’intransigenza che diventa, alla fine, critica allo Stato, oppure inserite nell’area delle elaborazioni teoriche più avanzate del corporativismo cosiddetto “di sinistra”. Cito su tutte «Il Selvaggio» di Maccari, «L’Italiano» di Longanesi e, seppure non inscrivibile propriamente tra gli strapaesani, «Prospettive» di Malaparte. Tutte e tre dedicano un numero unico al cinema. Ma mentre Maccari, leader del movimento di “Strapaese”, snobba il cinema e lo attacca come fenomeno corruttore e perverso, la posizione di Longanesi, direttore de «L’Italiano» è molto più articolata. Partendo dallo stesso piano di Maccari, quello del realismo regionale, Longanesi vi innesta però positivamente il cinema. Non è, quindi, contrario al cinema in assoluto, ma semmai a “questo” cinema, quello che «si accontenta di ritrarre gli aspetti più sciocchi della vita italiana senza aggiungervi un grano di intelligenza, una protesta, una critica». «L’Italiano» dedica nel ’33 il suo numero unico al cinema18. Longanesi vi interviene in prima persona con una Breve storia del cinema italiano e con un altro tentativo di sistematizzazione, Il film italiano. Sostanzialmente, la “storia” di Longanesi rovescia il consueto giudizio positivo sul cinema italiano prebellico (nel senso di Prima Guerra Mondiale): si tratta, in realtà, di un cinema piccolo borghese che continua anche nel dopoguerra. Mentre i grandi scontri di classi e di ideologie segnano il mondo, il cinema italiano si attarda in estetismi che nascondono, sotto, le basse trame degli speculatori e dei pescecani: Il nazionalismo, l’industria pesante, i pescecani hanno trovato la loro espressione nell’arte muta (…) Al bolscevismo e al fascismo in lotta, si oppone un’estetica tramontata con la guerra di Libia (…) Il cinema è un ottimo investimento di capitali. Fare del cinema è una maniera come un’altra per entrare nel giro bancario. L’arte muta è un titolo di borsa come la Montecatini (…) Quel che si chiama il glorioso decennio della produzione italiana cinematografica non è che un decennio di immediata fortuna industriale19. 18 «L’Italiano», n. 17-18, 1933. 19 Ivi, p. 23, p. 24. 296 Longanesi distrugge Pittaluga, la Cines e persino Blasetti. Il suo Sole non è altro che «una banale pellicola d’imitazione sovietica, con butteri ragionieri e contadine di Via Veneto»; l’unica soluzione è fare piazza pulita: Un noto critico italiano scrisse […] che alla macchina da presa occorreva sostituire una mitragliatrice: d’allora nulla è mutato: si tratta solo di procurare il nastro delle cartucce e quel critico20. La soluzione alternativa, però, esiste. Per «L’Italiano» sta nel recupero della realtà quotidiana, degli squarci di “vero” che ci offrono gli angoli della nostra provincia; in questo senso vanno le dichiarazioni teoriche di Longanesi, la stessa struttura del numero unico (organizzato per far risultare questa tesi, attraverso brani di Chaplin, Grosz, Fulop-Muller, Kerr) e, molto indicative, le proposte di sceneggiature pubblicate, trame ricavate dalla cronaca quotidiana e dalla vita vissuta. Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere assieme pellicole quanto mai semplici e povere nella messinscena, pellicole senza artifizi, girate quanto più si può dal vero. È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine di presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezz’ora, con gli occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano naturale e logico21. Questa è l’ipotesi radicalmente innovatrice, contro il film italiano fatto di «una serie di cartoline patinate, messe in fila». Anche l’intervento dello Stato è inutile: Ora, in Italia, cosa può fare lo Stato? Alla testa di chi può mettersi? Della cadente, passiva e banale cinematografia italiana? Vuole difendere l’estetica e la morale di una cinematografia piccolo borghese, figlia delle pochades francesi? 20 Ivi, p. 28. 21 Ivi, p. 35. 297 Qualunque cosa egli faccia, non ne verrà fuori nulla: non si tratta di organizzare22. «Conclusione: la cinematografia italiana è un cadavere nella stiva di una nave in cammino». Si salvano invece altri esempi di cinema: quello comico, al quale, vistosi rifiutato dalla letteratura, «non rimase che buttarsi nelle braccia della vita»: il film americano che, come scrive Grosz, riproduce, nei suoi topoi e nei suoi personaggi standard, situazioni e tipi peculiari e caratteristiche della realtà del paese; il cinema russo che «non fa la realtà, ma la rispecchia: naturalmente l’ha rifatta in precedenza». Un cinema, questo, dal carattere collettivo, perché rispecchia il carattere del russo; un cinema che per questo va a trovare nella vita, per la strada, i propri personaggi. «Ben spesso si tratta di veri e propri uomini della strada»23. Si noti questa formula che sarà poi caratteristica del Neorealismo. Si può dire, infatti, che il Neorealismo abbia in questo numero speciale de «L’Italiano» il suo termine ante quem, la sua prima, inconscia, formulazione teorica: nelle proposte di Longanesi, nei film dal vero e nei motivi per un film italiano, troviamo elementi che saranno cari al neorealismo: la bicicletta, la ferrovia, la pensione; dalle stesse fotografie (di realtà documentaria, la fiera, il dopolavoro, la conferenza, la piazza del mercato e addirittura lo sciuscià napoletano) viene fuori energicamente questa esigenza di “nuovo realismo”. Voglio ancora sottolineare le sue frasi, che sembrano davvero precorrere Zavattini: È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine di presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezz’ora, con gli occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano naturale e logico. È quello che ci ha raccontato Fellini a proposito dei cineasti che non avevano bisogno di soggetti, nell’immediato dopoguerra, perché i soggetti erano dietro l’angolo della strada24. 22 Ivi, p. 60. 23 Ibidem 24 Cfr. Federico Fellini, Intervista sul cinema, Bari, Laterza, 1976. 298 Ci sono, naturalmente, anche tutti i limiti del Neorealismo futuro: il populismo, il paternalismo, la tendenza al bozzetto. Nel ’39 Comencini25, su «Corrente di vita giovanile» (una delle riviste “di tendenza” più importanti nella fase finale del Fascismo), riprenderà le tematiche di quel numero unico a proposito di Batticuore, di cui Longanesi era sceneggiatore. Ecco il suo giudizio: L’impressione prima era quella di uno sforzo per dimostrare la cosa ormai ben nota, che in Italia abbondano i tipi e gli ambienti per dare materia a un film, mentre nulla si fa di buono seguendo la falsa via dei drammi e delle commedie convenzionali (…) Cosa ricavammo da quel numero 17-18 dell’Italiano? La certezza che Longanesi era intelligente, che aveva anche un certo buon gusto (…) che “vedeva” certe scene con occhio del cinema, ma infine, che non sapeva comporre un film, e, quel che è peggio, che non s’avvedeva della insufficienza dei suoi “bozzetti”. La tendenza a un “nuovo” realismo è dunque diffusa all’interno del Fascismo, o almeno all’interno di alcune delle sue aree (visto che il regime non è così compatto come potrebbe sembrare, ma composto di tendenze variegate). Nel cinema, indizi – o “desideri” – di un “neo” realismo si possono rintracciare – come è ormai stato studiato – in Blasetti: negli esterni di 1860, nei dialoghi in presa diretta con l’uso dei dialetti di quel film (si veda la sequenza in cui vari volontari in partenza coi “mille” di ritrovano in treno); in Sole, con l’uso di uno “stile documentario” che Bazin individuerà nel Neorealismo; in Terra madre, che riflette l’ideologia “strapaesana” (la terra sana e la città corrotta). In questo film la campagna è quella difficoltosa ma virile, disagevole ma ricca di valori etici cui il proprietario alla fine ritorna; la città è quella più easy, vissuta a ritmo di swing, ma anche tentatrice e corruttrice, incarnata dalla femme fatale. Un tema che percorerrà molto cinema degli anni Trenta, e che si ritova anche in altre cinematografie, come quella americana dei primissimi anni del decennio. Anche Vecchia guardia, uno dei pochissimi film che parla della Marcia su Roma, è un film dichiaratamente e apertamente “fascista”, che però 25 Luigi Comencini, Il cinematografo a riposo, in «Corrente di vita giovanile», n.4, 1939. 299 pare più interessato alla ricostruzione della provincia, alle atmosfere del paese, ai personaggi quotidiani riuniti attorno al negozio del barbiere, o all’osteria26. Ma è soprattutto 1860 che diventa un enorme serbatoio di spezzoni del cinema futuro: Leda Gloria avvolta da uno scialle nero rimanda alla futura Terra trema, il rosario recitato dal prete e dai pastori arrestati dai soldati svizzeri-borbonici ricorda Il sole sorge ancora, la morte del garibaldino che invoca la mamma tra le braccia di Gesuzza riporta all’episodio fiorentino di Paisà. Questo spiega perché – anche senza ricorrere a Quattro passi tra le nuvole – Blasetti sia stato considerato “pre-neorealista”. Indizi forti di un nuovo realismo sono infatti – paradossalmente ma non troppo – proprio nel cinema di fiancheggiamento, apparentemente più vicino all’ideologia fascista. Nel già citato Acciaio, per esempio, con l’insistenza sugli elementi complementari della tradizione e della modernizzazione: l’osteria, la strada popolata di facce antiche, da un lato, e la fabbrica di acciaio dall’altra. Nei film apparentemente di propaganda (Il grande appello, Squadrone bianco), che contengono sorprendenti segmenti di realismo. E soprattutto nei film para-documentaristici di De Robertis, su tutti Uomini sul fondo che coniuga certi stereotipi del film hollywoodiano con lo stile del cinema sovietico e con questo nuovo desiderio di “verismo” che permea la società e i media. È ovvio come De Robertis faccia cinema con un occhio documentario e realistico, capace di cogliere con “oggettività” dettagli tecnici o psicologici. Basti pensare alla dovizia di particolari con cui il regista ci mostra con competenza la tecnologia usata per il salvataggio del sottomarino in Uomini sul fondo, oppure all’attenzione per gli interni familiari, per il contesto`antropologico del singolo marinaio sia in questo film che in Alfa tau. Il cinema di De Robertis è un “documento” di fondamentale importanza, una fonte storica eccellente per ricostruire non solo i mezzi tecnici della guerra di allora, ma anche gli interni borghesi o gli spaccati sociali del paese non belligerante. De Robertis mette al centro del suo cinema l’uomo, né più né meno 26 Persino nelle rare commedie blasettiane (insisto sugli elementi di “realismo” nella commedia) emerge una società contemporanea descritta in modo “realistico”, seppur vista dai ceti medio-alti (si veda Contessa di Parma, con l’atelier di moda, il calcio, le automobili, le corse dei cavalli, ecc.). 300 come suggeriva Visconti parlando di “cinema antropomorfico”27; anche se i suoi film, come la maggior parte delle opere pre-neorealiste, vanno oggi rivisti alla luce dei modelli di cinema di allora, a fronte dei modelli di immaginario filmico di cui era permeata la cultura di quel tempo. Ci sono sapori hollywoodiani, arie russe e francesi, in questo film che non è solo fonte di una realtà sociale degli anni quaranta, ma anche sintesi dei miti e dell’immaginario collettivo di quegli anni. In questo senso è lampante il caso di Alfa tau, che ripropone le ambiguità di Uomini sul fondo, con una operazione ancora più ibrida. Se lì c’era l’esercitazione prebellica, qui c’è l’azione guerresca, se là c’era la rassicurazione sull’efficienza dei nostri mezzi, qua c’è la rassicurazione sulla vita che continua normale nonostante la guerra. Il film inizia e si conclude come un war film, prima filtrato dalla base a terra e narrato dai racconti dei protagonisti, poi mostrato nella ricostruzione fiction più classica; in mezzo, invece, come racchiuso tra due parentesi, c’è un altro film, che narra vari episodi simultanei, col pretesto narrativo della breve licenza di alcuni ufficiali. Insomma, il cinema di De Robertis, così come emerge da questi due film, è un pastiche, spesso irrisolto ma certo molto interessante, che comunque non può più essere letto solo in funzione del Neorealismo che in qualche modo precorre. C’è invece, grazie a molteplici eredità filmiche, una poetica mista che permette di tratteggiare una galleria di personaggi drammatici e comici, retorici e antiretorici, realistici e antirealistici, e di fornire immagini diverse del Paese. Nel mettere in scena personaggi e situazioni, De Robertis bilancia due registri molto diversi: il realismo teorizzato in maniera sin troppo schematica, e la fiction dotata di tutti i suoi artifici più tradizionali. Da un lato notiamo dunque l’uso delle convenzioni generiche più stereotipate (film hollywoodiano sul “sommergibile”, film di guerra, commedia, melodramma), ma dall’altro prefigura Zavattini. Vediamo, in questo senso, i titoli di testa di Alfa Tau: «In questo racconto tutti gli elementi rispondono ad un verismo storico e ambientale. L’umile marinaio che ne è il protagonista, ha realmente vissuto l’episodio che nel racconto rivive. Così pure il ruolo che ogni altro personaggio ha nella vicenda, corrisponde al ruolo che ognuno di essi ha nella realtà della vita». Verismo storico e ambientale, realtà della vita, attori non professionisti che 27 Luchino Visconti, Il cinema antropomorfico, in «Cinema», nn.173-174, settembre-ottobre 1943. 301 interpretano nient’altro che se stessi: c’è, come si vede, la posizione più estrema del neorealismo, quella alla Umberto D. Titoli simili ritroviamo ne La nave bianca di Rossellini, che di De Robertis è stato collaboratore. L’incipit del film mostra quattro cartelli iniziali che fanno riflettere, e gettano nuova luce anche sul Rossellini di Paisà: Come già in Uomini sul fondo anche in questo racconto navale tutti i personaggi sono presi nel loro ambiente e nella loro realtà di vita e sono seguiti attraverso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno. Hanno partecipato: le infermiere del corpo volontario, gli ufficiali, i sottufficiali e gli equipaggi Il racconto è stato realizzato sulla nave ospedaliera “Arno” e su una nostra nave di battaglia. Insomma – sottolinea il giovane Rossellini –, i protagonisti interpretano se stessi, il film è stato girato on location, e «sono seguiti attraverso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno». È già Neorealismo. 302 303 parte quarta La nuova generazione 304 305 Maura Borgonzoni La Paura di Pippo Delbono1: breve riflessione sul documentario Una coltre di primule… Scheletri col vestito… Quando una troupe… Vedo la troupe in ozio… Un solo rudere… Ci vediamo in proiezione… Lavoro tutto il giorno… Supplica a mia madre La ricerca di una casa La realtà (Pasolini, Poesia in forma di rosa) Ogni anno vengono presentati nei vari festival italiani e internazionali film che non riescono a raggiungere il grande pubblico, in parte per il tipo di cinema che propongono, ma soprattutto perché in Italia la distribuzione risulta difficile. In particolare, il documentario italiano, nonostante abbia un proprio pubblico, un pubblico anzi in crescita, è 1 Pippo Delbono nasce a Varazze nel 1959. Forrmatosi sotto la guida di, fra gli altri, Iben Nagel Rasmussen e Pina Bausch, nel 1986 fonda con Pepe Robledo La compagnia Pippo Delbono con la quale realizza tutti i suoi spettacoli: Il tempo degli assassini (1987), Morire di musica (1988), Il muro (1990), Enrico V (1993), La rabbia (1995), La rabbia. Un omaggio a Pier Paolo Pasolini (1995), Barboni (1997), Itaca (1998), Guerra (1998), Her Bijit (1999), Esodo (2000), Il silenzio (2000), Gente di Plastica (2002), Urlo (2004), Racconti di giugno (2005), Questo buio feroce (2006), Obra maestra (2007), La menzogna (2008). Come regista cinematografico, dirige Guerra (Premio Donatello 2004), Grido (2006), Blue sofa (2009) diretto in collaborazione con Lara Fremder e Giuseppe Baresi e vincitore del premio Clermont-Ferrand International Short Film Festival 2010. Il sito di Pippo Delbono è www.pippodelbono.it. 306 relegato alla proiezione in sale circoscritte e spesso per periodi brevi di tempo2. Il documentario di creazione nello specifico, il documentario cioè che predilige una originalità stilistica e un punto di vista personale all’interno di una struttura narrativa, sta vivendo un periodo decisamente complesso e contraddittorio. La complessità è dovuta al fatto che alla qualità di questi documentari spesso non corrisponde un pari riconoscimento, specialmente in Italia. Questo non vuole essere un, seppur motivato, cahier de doléance, citando l’introduzione di Vittorio de Seta a L’idea documentaria curato da Marco Bertozzi, tuttavia la produzione da parte degli enti statali o privati (RAI o Mediaset) è carente e la visione è condizionata da ragioni di mercato che prediligono la distribuzione – o addirittura la sovvenzione – di film che fanno cassetta come i “cinepanettoni”. La polemica innescata dal giornalista del «Corriere della Sera» Paolo Mereghetti a proposito del film Natale a Beverly Hills (Parenti 2009) non è altro che una delle tante querelles che investono il cinema italiano, combattutto nel tentativo di coniugare o mediare tra l’aspetto economico e quello propriamente artistico e culturale. Natale a Beverly Hills avrebbe potuto essere dichiarato “film d’essai” e in quanto tale, secondo la legge Urbani3, avrebbe avuto diritto di ottenere quelle agevolazioni fiscali e 2 Interessante a questo proposito è l’esperienza della distribuzione di Un’ora sola ti vorrei (Marazzi 2002) che, avendo raggiunto una certa notorietà dopo aver vinto il Festival di Torino 2002, “[…] fece una serie di giri di proiezioni qua e là e ogni proiezione era sempre affollatissima. Ma non ne esistono copie in 35mm, quindi è sempre stata vista una copia in video. Per un paio di anni si andò avanti così, noi inizialmente avevamo anche parlato con Procacci, proponendogli di distribuire il film, ma non sene fece nulla. Poi parlammo con Mikado che decise di fare una piccolissima uscita al cinema a Milano e a Roma […]. Avevano deciso di programmare il mio film alle ore 13 al cinema Anteo di Milano; solo che è venuta così tanta gente che hanno ampliato la programmazione. Era ormai il 2004. Inoltre, la Marazzi continua “[…] eppure ancora ricevevo tante lettere in cui mi dicevano ‘Ho sentito parlare del tuo film, come posso recuperarlo?’. Così nel 2006 ci fu la proposta da parte della Rizzoli per l’edizione DVD: sono stampate novemila copie e sono state vendute tutte. […] Comunque ancora oggi mi scrivono persone che hanno sentito parlare di questo film e non l’hanno trovato. I canali di diffusione restano abbastanza misteriosi, non prevedibili più di tanto.”. (Marazzi pp. 144-145) 3 A proposito della legge Urbani del 19/5/2004, Mariuccia Ciotta del «Manifesto» afferma: «Il film che fa cassa, riempie i cinema, si assicura i passaggi in primetime, omologato agli standard tv, merita l’aiuto pubblico, gli altri sono prodotti “ideologici”, pellicole avvelenate dallo spirito post-sessantottino, film da cineclub destinato a pubblici residuali. Con questi parametri, la legge Urbani 2004 307 monetarie nella distribuzione nelle sale, aiuti che andrebbero invece indirizzati a sale diverse dai multiplex dove solitamente film di questo genere vengono proiettati. Invece “trasformando” in cinema d’essai anche i multiplex che proiettano opere come Natale a Beverly Hills (nella stessa riunione ha già ottenuto lo stesso riconoscimento Winx Club 2) si finisce solo per sottrarre ulteriori finanziamenti a quei piccoli esercenti che, con un pubblico più attento alla qualità dei film che del pop corn, sono l’ultimo baluardo per la difesa di un cinema degno di questo nome. Altrimenti rischiano di diventare pura demagogia tutte le richieste di maggior efficienza e moralizzazione che la Politica rivolge a questo settore: se non si cambia al più presto questa legge, le occasioni per essere orgogliosi della nostra cinematografia diventeranno ogni giorno più esigue. Con o senza il marchio d’essai. (Mereghetti) Dopo ben due mesi di polemiche le commissioni ministeriali deputate all’individuazione dei film d’essai hanno definitivamente sancito l’esclusione del film a quel titolo che avevano inizialmente riconosciuto. Il documentario ha sempre sofferto del complesso di Cenerentola. Saranno le facce sporche “non da fiction”, come le descrive Gianfranco Pannone, che lo tengono ai margini della cinematografia italiana (Pannone p. 39). Sarà l’assenza di un interesse della tv di stato, come tutti i produttori lamentano (la RAI o Mediaset sono raramente presenti ai festival internazionali o europei di documentari, dove invece la BBC e la tv francese sono di casa, investendo molto anche sui documentari italiani), sarà che ancora l’idea di fare cinema è legata al film di narrazione con attori e sceneggiatura. «Bene, bravo, ma ora devi fare un film», il commento che spesso Pannone si è sentito fare, anche dagli stessi Giuseppe DeSantis e Carlo Lizzani (Pannone p. 39). Il documentario ha quindi vita difficile in un alternarsi di momenti più favorevoli alla produzione a momenti di assoluto disinteresse. Dopo mise a punto la sua formula magica per sostenere il cinema italiano, e varò il reference system che elargiva punti a cast e produzioni “ricche”. Chi ha più punti vince e accede alla qualifica di “film d’interesse culturale nazionale”, chi fa soldi ne avrà ancora. A proposito di comicità sgangherata, l’ex ministro della cultura superò Neri Parenti», (Ciotta 25/12/09), http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2009/mese/12/articolo/2056/. 308 l’esperienza di Tele+ che programmaticamente produsse documentari girati da Andrea Segre, Carlo Mazzacurati, Paolo Virzì, Silvio Soldini e molti altri registi del panorama italiano, i quali hanno saputo imporsi anche al pubblico internazionale, rivitalizzando il documentario italiano in “stato agonizzante” (Grosoli p. 350), la produzione ora è di nuovo relegata alla iniziativa più sporadica e a budget più limitati. Oggi quegli spazi marginali, anche come orari di programmazione, ma con molte possibilità creative, sono sostanzialmente sostituiti dai canali satellitari4 sia della RAI che di altri network. Il problema di lavorare con i canali satellitari è quello del budget: troppo esiguo, ridotto all’osso, insufficiente per produrre un progetto di più vasto respiro. Registi e produttori sono costretti a sforzi di fantasia pazzeschi per trovare le coproduzioni […]. Qui apro una piccola parentesi a favore di quegli enti pubblici che in questi anni sono stati lungimiranti e hanno aiutato molti progetti a svilupparsi, a prendere forma. (Cannizzaro p. 359) Lo sforzo di enti pubblici soprattutto a livello locale e regionale è veramente encomiabile sia nel produrre e distribuire, che nella formazione di cineasti. Ne è un esempio la Cineteca di Bologna5 che in questi ultimi anni ha contribuito nella produzione e distribuzione di film di interesse culturale come L’uomo che verrà (Diritti 2009), vincitore del premio Donatello 2010. Il regista di nuova generazione Gianni Zanasi, che si è formato anche grazie alla sua frequentazione della Cineteca, afferma: «[…] ho scoperto che quello era un pezzo di Parigi incastrato a Bologna» (Zanasi p. 266). La Cineteca ha contribuito anche alla diffusione del documentario di Pippo Delbono, riversandolo in pellicola 35mm per una più facile distribuzione nelle sale italiane. D’altra parte, come afferma il regista Delbono, la distribuzione diventa anche un problema di iniziativa personale. «Ci 4 Uno di questi, Current Tv, fondata da Al Gore, sta ponendosi sempre più all’attenzione del pubblico. 5 Sviluppatasi dalla Commissione Cinema della città di Bologna nata nel 1963, la Cineteca si occupa di recuperare il patrimonio cinematografico, dialogando con altre cineteche a livello internazionale, e della produzione e distribuzione di film del presente, oltre che promuovere incontri a livello accademico. Ogni anno il Festival del Cinema Ritrovato vede la partecipazione folta di un pubblico di studiosi e di cinefili da tutto il mondo. 309 si deve inventare il metodo distributivo. Io ad esempio giro molto per presentare il mio film. Bisogna reinventarsi il lavoro altrimenti è molto difficile se si aspetta la casa distributrice. Anche l’uso del cellulare rientra in questa ottica» (Delbono, intervista 18/12/09). Pippo Delbono gira La Paura (2009) con il solo ausilio di un cellulare di ultima generazione. Il regista ha intrapreso questo percorso rispondendo ad un invito del Forum des images6 che ha fatto al regista una proposta singolare: un telefonino con videocamera e una raccomandazione: “Fai quello che vuoi”. Non avrei mai immaginato che si potesse fare un film con un oggetto così minuscolo. Mi sono insinuato nei miei sogni più oscuri e in quelli del mio paese. La paura è divenuto un viaggio attraverso un presente deformato da questo sentimento. Il telefono filmante abbatte i muri tra me e quanti si invitano nel film, aprendo così a momenti emotivi particolari che, senza questo strumento, andrebbero persi. (Pippo Delbono, Newsletter) Tramite il viaggio e un carrello inusuale dato dall’uso del cellulare, Delbono coglie una fotografia dell’Italia contemporanea in cui non solo domina la paura, come afferma il regista stesso, ma anche un senso di vuoto culturale preoccupante. Il cellulare fotografa scritte razziste sui muri, vetrine lussuose che contrastano con l’immagine dei senzatetto sdraiati sulla strada, lo schermo onnipresente della Tv che propone programmi svilenti la dignità umana. E di dignitosamente umano rimangono il dolore dei parenti e amici di Abdul Guiebre al funerale, i bambini del campo nomadi che insistemente richiedono di essere fotografati con i loro cani e gli sguardi di Bobò e Gianluca, gli attori della compagnia teatrale di Delbono. Il film offre un ritratto dell’Italia grazie all’immediatezza di un mezzo così facile da utilizzare e ad una chiave di lettura del reale basata su un linguaggio filmico che privilegia l’immagine con suono d’ambiente (evitando l’intervista), la presa del suono in diretta, non disdegnando tuttavia il commento musicale o parlato in alcuni momenti, e il montaggio per associazioni nella ricerca di uno stile innovativo e personale. La pau6 Il Forum des images di Parigi, come la Cineteca di Bologna, si occupa della conservazione del materiale cinematografico d’archivio e della produzione di film documentari tramite anche l’uso delle nuove tecnologie. 310 ra a pieno titolo entra nel panorama del documentario di creazione italiano per queste sue caratteristiche di ricerca stilistica e interesse a ritrarre il reale “coniug[ando] lo sguardo etico, capacità di esposizione e istanze espressive” (Pannone p. 37). Il documentario di creazione, l’erede del cinema di Roberto Rossellini, Elio Petri, Carlo Lizzani, Francesco Rosi e Pier Paolo Pasolini, ha forse avuto vita difficile anche per l’assenza di una tradizione documentaristica vera e propria, come afferma Adriano Aprà in un suo saggio del 1995. Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una “terra di nessuno”, senza esperienze e tradizioni alle spalle. Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa strana “assenza” del documentario: da una parte la riluttanza a usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italiano dai primi anni quaranta ai primi anni ottanta (oggi, almeno nel campo del lungometraggio, la situazione è un po’ diversa, grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e un po’ anche all’ostinazione di alcuni critici isolati); dall’altra l’assorbimento delle pratiche realistiche da parte del cinema di finzione, a cominciare dal neorealismo. (Aprà, Studi 281) Tuttavia dalla fine degli anni ’90 il documentario italiano ha saputo rinnovarsi, restituendo il suono in presa diretta7 ed eliminando spesso la voce fuori campo, the voice of god, limitando l’intervista, evitando un pretesa superiore oggettività e ricercando linguaggi e stili che rendono il documentario italiano un terreno vitale di sperimentazione. È il documentario che, secondo Gianfranco Pannone, ci porta conoscere altre realtà e apre un mondo che si focalizza sull’uomo (Pannone pp. 33-43). La complessità del documentario è dovuta anche dalla definizione stessa del genere. La linea di confine che divide il documentario dal film di narrazione si è assottigliata sempre di più: così come già Francesco Rosi aveva uno stile documentaristico nel suo Salvatore Giuliano, ora i documentari invece propogono un’ontologia e degli stili che si allontanano molto dalla classica idea del semplice “documentare la 7 Caratteristiche che i documentari di Vittorio DeSeta avevano già dalla fine degli anni ’50 e forse proprio per questa sua capacità innovativa è rimasto ai margini della cinematografia italiana per molti anni. 311 realtà”, e del “basarsi sul principio, opposto a quello della finzione, che ciò che la macchina da presa o la videocamera registra è ‘reale’. È una vecchia storia, che data almeno da Dziga Vertov: ‘la finestra sul mondo’ aperta dai Lumière, posto che fosse ‘oggettiva’ ha subito negli anni una graduale erosione che ha fatto emergere a livello internazionale […] il bisogno di soggettivizzare lo sguardo sulla realtà” (Aprà, L’idea p. 189). Pier Paolo Pasolini stesso in Comizi d’amore (1965) si chiedeva quanto le sue interviste potessero rappresentare la realtà italiana sulla questione sessuale, innanzitutto per uno spontaneo autoselezionarsi dei suoi intervistati che decidevano volontariamente di partecipare alla sua inchiesta e per una scelta di linguaggio che fosse veramente adatto ad esprimere chiaramente le domande e a riprodurre il pensiero dell’interlocutore. Anche nei documentari successivi Pasolini, continuando questa sua riflessione sulla realtà, dedusse che inevitabilmente essa viene interpretata anche dalla forma espressiva con cui viene resa. L’impossibilità di uno sguardo vergine dopo l’accumularsi di immagini e suoni riprodotti ha implicato una riflessione sull’atto stesso del guardare: i documentari diaristici, autobiografici di narrazione che interrompono l’illusione della realtà del cinema documentario sono sempre più presenti nel panorama italiano. L’attenzione viene spostata “dallo sguardo al montaggio degli sguardi (e dei suoni)” (Aprà, L’idea p. 189). La narrazione e la finzione hanno modificato il documentario italiano rifondandolo su basi nuove che non permettono più una sua distinzione così netta dalla finzione. Come anche Pannone afferma “Ma cos’è reale e cos’è fiction? Anche il documentarista esprime un pensiero, una verità, dunque porta a sintesi un punto di vista personale sulla realtà, un’interpretazione che non potrà mai restituirci la realtà oggettiva” (Pannone p. 39). Fin dall’inizio del documentario Pippo Delbono, già regista teatrale di molti spettacoli di influenza pasoliniana e non solo (La rabbia. Un omaggio a Pier Paolo Pasolini, 1995), presenta la propria dichiarazione di intenti nell’identificare il punto di vista soggettivo. Il regista riprende la vetrina con i manichini esposti e rivela la propria immagine riflessa. Nessun intenzione naturalista o presunzione di falsa oggettività dei mass-media. Egli stesso dichiara nell’intervista: “Io cerco di cogliere la verità ma non come naturalismo. Sono i frammenti di una storia, mai naturalista. Non mi piace l’intervista. Non è un’indagine sociologica. Sono sempre apparizioni, memoria, sogno, dimensione pittorica” (Delbono, intervista 18/12/09). Il regista inten- 312 de quindi presentarci la propria visione di quello che è diventata l’Italia, “La saturazione visiva della società contemporanea porta il documentarista verso una scelta di carattere qualitativo. […] A distanza di anni risulta più attuale il metodo interattivo di Jean Rouche che quello di auto(re)-annullamento di Leackock” (Perniola pp. 219-220). L’immagine che ne risulta è quella di una Italia nel suo cambiamento antropologico che ci ricorda molto la visione pasoliniana del corpo deturpato e reso simbolo dell’omologazione. Sia il Vaticano che il Pci hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile. [. . .] L’omologazione che ne è derivata riguarda tutti: popolo, borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. […] I giovani dei campi fascisti, i giovani delle Sam, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni si chiamano e vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente ?ripeto? non c’è niente che li distingua. (Pasolini, Saggi pp. 308–11) Il corpo come identificativo di una trasformazione avvenuta a causa del consumismo rimane sempre in primo piano. La scelta di un incipit che ci presenta, insieme alla prospettiva soggettiva, l’attrazione esercitata dalle vetrine e dai corpi da vetrina ne sottolinea ulteriormente l’oggettivazione. Il corpo, che viene visto come strumento di oppressione così quanto la macchina industriale alienante, si impone nella lettura della realtà che Delbono propone. L’immagine di automi impegnati agli attrezzi ginnici con ripresa dall’alto ci ricorda Tempi Moderni (Chaplin 1936): le pecore ammassate, allegoria degli operai all’entrata in fabbrica. L’ossessione dell’immagine di un corpo perfetto si contrappone all’ossessione per il cibo. Il cibo controllato, il cibo negato, il cibo eccessivo della trasmissione sui bambini obesi. Lo sguardo del regista si sofferma sullo schermo della Tv che trasmette il solito programma che offre consigli, da come curare la gotta al come potare le rose. Lo zoom della camera/cellulare è sulla bocca del medico che vomita consigli, sempre quelli, come da copione a ricordarci quanto l’omologazione investa anche il linguaggio televi- 313 sivo. Meccanicamente le frasi di rito sull’argomento obesità si susseguono. Il contrappunto del regista consiste nel mettere in primo piano la bocca che, se da una parte rigurgita consigli, dall’altra mima anche l’atto della masticazione. La masticazione diventa per associazione leit-motif. Il suono in presa diretta della continua masticazione del regista accompagna in suoi passi mentre, spostandosi per la città, riprende la realtà circostante. Il cibo, la masticazione sono simbolo di una società che ingurgita tutto, acriticamente: come marionette, per vincere l’obesità o il timore della obesità, ci sottoponiamo all’alienazione delle macchine ginniche, o acriticamente divoriamo ogni proposta televisiva, quella anche più svilente la dignità umana. Delbono riprende momenti de La Corrida, programma televisivo per dilettanti, commentando in voce over le immagini deliranti dei vari partecipanti, fra i quali un uomo che imita i molteplici versi del caprone, con la Divina Commedia. E sceglie il canto politico del Purgatorio, il IV, con l’incontro tra Dante e Sordello, il quale in un’amara apostrofe definisce l’Italia serva, luogo di dolore e bordello. Il consumismo della merce, il consumare il cibo e il consumare tv come pratica di indigestione sono ricorrenti nel film. L’ossessione per il mangiare non è più pratica primordiale legata alla sopravvivenza, (come anche tanta parte del cinema italiano, soprattutto la commedia, ha presentato), ma diventa invece spreco, esibizione e spettacolo. Il sacrificio legato alla ritualità dello spettacolo televisivo è atto metaforicamente cannibalico della divorazione dei corpi, quelli dei partecipanti agli show. Ma se in Pasolini l’atto cannibalico corrispondeva ad una forma di ribellione in Porcile (1969) o alla sacralità dell’ultima cena come nella La ricotta (episodio in Ro.Go.Pa, 1962), nella nostra quotidianità il mangiare ha perso quella forza ed è diventato passivo ingurgitare. Il regista stesso in questo suo percorrere la città nell’atto della masticazione si propone come metafora del nostro passivo ingurgitare. D’altra parte il corvo intellettuale di Uccellacci e Uccellini (1966), colui che come maestro guidava e accompagnava nel cammino fornendo una interpretazione critica del reale, è già stato divorato (Bazzocchi pp. 57-82). Il documentario denuncia l’agonia culturale italiana. Il corpo perfetto da palestra viene dissacrato dalle immagini del corpo del regista che si espone alla beffa. La ripresa dall’alto evidenzia le forme non propriamente scultoree di Delbono che si gonfia smisuratamente e gioca con la propria immagine mimando una danza 314 con il proprio addome. Anche in questo momento, la dissacrazione di memoria chapliniana8 della retorica del corpo come potere, viene proposta per sottolineare l’insensata adorazione di un corpo apparentemente perfetto. Le immagini successive di animali imbalsamati o di scena putrefatti o distrutti, legate alle prime immagini della palestra dallo stesso commento musicale, la colonna sonora di Sergei Prokofiev Alexander Nevsky, indirizzano la narrazione verso una riflessione sul tema della caducità ed effimerità, del vanitas vanitatis, omnia vanitas, ma non solo. Delbono va oltre la demistificazione per proporre l’anti-retorica del corpo: si annulla il corpo da copertina attraverso le immagini del corpo nudo di Bobò, vissuto per quarantasei anni rinchiuso in un manicomio. “È un corpo politico, un corpo dimenticato, un corpo pornografico. Il corpo che rappresenta la problematica dei nostri tempi, dei trans, della moralità, del corpo bandito” (Delbono, intervista 18/12/09). Il montaggio delle immagini gioca un ruolo decisivo nella costruzione del film che utilizza i piani sequenza nei momenti in cui si coglie la realtà della città o del campo nomadi di Moncalieri, ma si avvale di un montaggio basato su corrispondenze per commentare, criticare e offrire di nuovo una prospettiva soggettiva del regista. L’interpretazione della realtà viene giocata su diversi piani: dal montaggio per associazioni alla Eisenstein, dove chiaramente è il giustapporsi di immagini a formare una visuale critica della realtà (penso alla giustapposizione dei corpi-automi palestrati in fila e del corpo-individuo che afferma la propria autonomia nel deformarsi fisicamente), al montaggio giocato più sulle corrispondenze sonore e visive (penso alla musica di Prokofiev che collega i corpi perfetti ai corpi putrefatti) in una specie di danza, come Pippo Delbono ha dichiarato nell’intervista. A questo proposito, volevo accennare ad una riflessione sullo stato del documentario italiano che mi sembra cambiato dall’ultima pubblicazione sulla teoria del documentario italiano di Marco Bertozzi. Nell’articolo molto interessante di Ivelise Perniola che tratta da un punto di vista teoretico dell’ontologia del documentario italiano, si afferma, a proposito della voce del documentario, una certa arretratezza del documentario che ancora non si è affrancato dalla voce fuori campo, voce che tende al dogmatismo con un’impronta 8 Penso, fra le altre, alle immagini iniziali di Le luci della città (1931) in cui Chaplin si avvinghia alla statua appena donata ai cittadini. 315 marcatamente autoritaria. Mi sembra che ultimamente i documentari italiani, e fra questi anche i documentari di Pippo Delbono, ma penso anche a Un’ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo anche le rose (2007) di Alina Marazzi, non propongano più dogmaticamente un testo carico di “autoritarismo epistemico” (Perniola p. 223). Il punto di vista è ovviamente presente, ma il commento è lasciato più alle immagini, al montaggio (che tuttavia può comunque rischiare una certa ideologia e dogmatismo, se pensiamo ad un montaggio fortemente caratterizzato dalle concezioni di Eisenstein) o a testi di carattere personale e soggettivo, che non hanno la pretesa di autoritarismo. La scelta poi dei suoni acusmatici, nel caso del suono della masticazione del regista, o della lettura del testo dantesco offrono una interpretazione soggettiva che non impone tuttavia una unidirezionalità discorsiva. Il documentario è strutturato sulla componente montaggio senza tralasciare tuttavia anche la componente di osservazione tramite il carrello che, muovendosi per i luoghi, registra una realtà fortemente distopica. Ciò che vediamo cogliere dall’occhio del cellulare è la città dello schermo, della televisione, della pubblicità o della propaganda dogmatica della chiesa. La televisione e gli schermi sono oggetti onnipresenti. Lo schermo sembra essere diventato la nuova imago Dei da adorare e venerare. Ci ricorda dal punto di vista scenografico e tematico Blade Runner (Scott 1982) e il testo da cui il film è tratto, Do Androids Dream of Electric Sheep? (Dick 1968), dove l’omologazione è data dalla produzione massificata segnata dal sopravvento degli elettrodomestici, dalla scatola empatica di Mercer e dagli androidi, che controllano e governano la società del cacciatore di taglie Deckard, una volta caduta qualsiasi ideologia politica e idea di territorialità. La tv assume una dimensione religiosa. La scena in cui viene presentata la investizione degli educatori della diocesi di Milano mi sembra rafforzi ulteriormente non solo l’idea di un potere mediatico che governa e determina i nostri comportamenti grazie al fascino che esercita. Come il documentario Videocracy (Gandini 2009), La Paura ci pone di fronte alla consapevolezza di una dittatura televisiva accentratrice, in relazione esclusiva con un pubblico che non si accontenta più di essere tale ma ne vuole essere parte integrante, imitando, scimmiottando il modello dell’homo televisivus, fondando la propria identità nel videor ergo sum. L’investizione degli educatori avviene secondo i canoni di un programma televisivo alla Festivalbar. Il ritratto felliniano della chiesa romana nella sfilata di 316 moda di Roma (Fellini 1972) presenta la stessa accattivante capacità di madre ecclesia di trasformarsi in evento spettacolo. Ma vi è anche un chiaro rimando alla capacità della chiesa di sapersi trasformare all’uopo in relazione al contesto sociale in cui è immersa per mantenere un potere ideologico dogmatico inquietante. Potere ideologico dogmatico ben rappresentato da quello – di nuovo – schermo luminoso che sovrasta la piazza in cui, come mantra, si afferma al mondo questa visione assolutamente manichea e fondamentalista del motto “Maybe I’m right and the world is wrong” eliminando anche ogni traccia di dubbio con il “maybe” cancellato dalla croce. L’uso di questo specifico segno convenzionale della correzione, a mio avviso, si carica di simbolismo: un ulteriore riferimento, non casuale, che afferma la forza della dottrina cristiana. L’immagine della diocesi di Milano che investe i nuovi educatori della loro missione è un evento plateale, come una trasmissione televisiva con il vescovo che ha il ruolo di conduttore televisivo. La chiesa ha adottato le stesse modalità. Sono tutti uguali, soprattutto in questo paese dove la moda ha la meglio. Anche la chiesa si è adattata alla moda. (Debono, intervista 18/12/09) Inoltre, l’accostamento delle immagini dell’investizione e della trasmissione televisiva La Corrida sottolinea ulteriormente per associazione la spettacolarizzazione della Chiesa e rende comune ad entrambi i momenti, questa volta per il tema proposto, il commento della voce over: l’aspra condanna della Chiesa temporale da parte di Dante nel canto VI del Purgatorio. Il cogliere la realtà in modo casuale, così come si presenta all’osservatore, classifica lo sguardo del regista come “sguardo accidentale” (Nichols in Perniola pp. 217-218), pregno tuttavia di una valenza etica nel momento in cui Delbono si sofferma su determinate situazioni e accadimenti e soprattutto quando le sei ore di girato, tramite montaggio, si trasformano in narrazione critica dell’Italia attuale. Sono solo le immagini a parlare, scarne e nude con il suono in presa diretta quando vengono ripresi i senzatetto e la città con le scritte xenofobe sui muri, scritte che –indici forse di una insufficiente scolarizzazione e cultura– tra il comico e il tragico presentano errori ortografici. L’interesse nel cogliere la realtà come pura immagine evitando il com- 317 mento avvicina il cinema di Debono alla concezione di cinema che Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini avevano9. Antonioni esprime la sua predilezione per l’immagine sulla parola, «si vuole semplicemente indicare l’essenza del cinematografo […] nel quale l’immagine ha una posizione preminente rispetto alla parola. […] l’autenticità del cinematografo […] è e rimane prettamente visiva e ritmica» (Antonioni p. 330). Se inizialmente Pasolini interpretava il cinema come ulteriore possibilità linguistica ed espressiva, successivamente fu sempre più convinto della inadeguatezza della parola nel poter ritrarre la realtà perché fondata su un sistema arbitrario di simboli che in quanto tali non erano la realtà, ma rimandavano ad essa. Nel cinema invece la realtà è presenza. Esprimendomi attraverso la lingua del cinema – che altro non è, ripeto, che il momento scritto della lingua della realtà – io resto sempre nell’ambito della realtà: non interrompo la sua continuità attraverso l’adozione di quel sistema simbolico e arbitrario che è il sistema dei linsegni. Che per «riprodurre la realtà attraverso la sua evocazione», deve per forza interromperla. (Pasolini, Empirismo p. 229) Delbono, infatti, afferma: Con cinema c’è la possibilità vera di osservare le cose. Nel cinema c’è l’idea del viaggio: viaggio verso il fuori e verso il dentro, entrare come sonda nell’animo umano, il lasciarsi guardare dentro attraverso il primo piano, un gesto… Lo spazio del teatro è più verso l’esterno. Con il cinema si ritrae il grande paesaggio (ciò che ci circonda) e il piccolo paesaggio (noi stessi). (Delbono, intervista 18/12/2009) Il viaggio è un tema comune ai suoi precedenti film, in particolare a Grido (2006), film poetico sull’incontro fra Delbono e Bobò, sul viaggio di due persone che si trovano e, citando dal film, «salvano e vengono salvate» in un reciproco scambio di amore e condivisione. Interessante è l’uso del carrello in questa occasione. Il viaggio interiore viene rappresentato anche dal viaggio a Napoli, città che ha 9 Pippo Delbono nell’intervista dichiara la sua predilezione per Pasolini e Antonioni tra i registi che hanno contribuito alla sua formazione (Delbono, intervista 18/12/09). 318 significato molto per il regista dal punto di vista della propria crescita. Le immagini colte dall’autobus turistico in cui si ritrae la solita Napoli si differenziano enormemente dalla immagini girate in vespa, alla scoperta di luoghi altri, allegoria dei luoghi interiori. Non è la Napoli da cartolina, ma una Napoli del viaggio interiore. Così come l’Italia de La paura è il luogo della scoperta anche della propria paura soggettiva, di come l’Italia si è trasformata10. Dallo sguardo accidentale che porta il regista a cogliere scorci di realtà nel suo vagare per l’Italia, si passa ad uno “sguardo interventivo” (Nichols in Perniola pp. 217-218) e allo stesso tempo umano quando Delbono si reca al funerale di Abdul Guiebre, il ragazzo ucciso per aver rubato una scatola di biscotti. Parlo di sguardo interventivo perché questo è l’unico momento in cui la voce del regista si fa sentire chiaramente contro l’indifferenza delle istituzioni e anche dei partiti di sinistra, mostrando tutta la sua indignazione. In questo frangente il cellulare si rivela strumento privilegiato di un incontro con i volti dei presenti al funerale che probabilmente la macchina da presa, o anche la telecamera digitale, non avrebbe permesso. Come afferma Delbono nell’intervista, la scelta del cellulare risulta fondamentale nel riuscire ad incontrare lo sguardo dell’altro. Il potere della nuova tecnologia digitale sta proprio in questo essere in grado di cogliere la realtà nell’evento non programmato e nella possibilità di mettersi in relazione in modo più facilitato con gli altri, nel dialogo con l’altro o semplicemente nell’osservazione non interventiva. Certamente la tecnologia digitale non supplisce la mancanza di idée, come critica Silvano Agosti in una intervista a proposito delle nuove tecnologie (Agosti). Allo stesso modo, i film indipendenti possono essere girati 10 A questo proposito, il dibattito sul rapporto tra luogo e cinema è ancora attuale. Sono trascorsi più di sessantanni da Paisà (Rossellini 1946) e il girare in luoghi altri che non siano studi o le solite locations di Roma che rendono l’Italia immagine da cartolina è ancora atto anticonvenzionale di ribellione che vuole dimostrare una certa filosofia di fare cinema. «Basta vedere le locations che scelgono per girare i loro film (il regista fa riferimento a Ferzan Özpetek e Cristina Comencini n.d.r.). Non sanno che cosa è l’Italia. Sono girati in quattro angoli di Roma. Poi vedi un film girato a Scampia e allora dici, ma l’Italia non è solo quella dei quattro angoli. Anche Sorrentino ha girato a Roma Il Divo, ma la Roma di Sorrentino è completamente diversa da quella ‘da cartolina” che è la loro. […] è un discorso politico: l’idea che attraverso un certo tipo di film passa una certa visione della realtà e del mondo». Dall’intervista di Dario Zonta al regista indipendente Daniele Gaglianone (Gaglianone p. 79) 319 anche senza questo tipo di apparato tecnico che Carlo Lizzani vede invece come in parte risolutivo per sostenere la produzione di film a budget limitato (Assante). Tuttavia, rimane il fatto che il digitale rende l’accesso al mezzo filmico democratico, realizzando più facilmente la filosofia del “pedinamento” alla Cesare Zavattini. Il documentario si conclude con le immagini di Bobò che, nudo, fa la doccia e con le parole del regista: «vorrei essere analfabeta come Bobò, che come il lupo, anche se lo addomestichi, guarda sempre verso la foresta». Il commento in voce over del regista ci rende partecipi di nuovo della sua paura. Il contesto sociale italiano pare fondarsi su un sistema di valori che celebra una solidarietà di comodo, ad esempio quella nei confronti degli animali domestici, espressa dalla registrazione del programma televisivo Pongo e Peggy: gli animali del cuore, mentre dimentica le condizioni di vita dei campi nomadi e le leggi proposte dalla Lega per la raccolta delle impronte digitali dei popoli Rom e Sinti. Il desiderio di analfabetizzazione è chiara protesta nei confronti di quel sistema mediatico che ha svilito e deturpato il linguaggio, sproporzionato rispetto al contenuto che esprime e specchio di superficialità e arroganza. Nella chiosa finale inoltre si riassume la dichiarazione di intenti del regista: lo sguardo critico e l’impegno di un cinema politico. Bibliografia Agosti, Silvano, Intervista a Silvano Agosti sul cinema digitale, http:// www.youtube.com/watch?v=s9nNfelmzMU. Antonioni, Michelangelo, La vita impossibile del Signor Clark Costa, «Cinema», 19, 10/11/40, pp. 328-330. 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Premessa teorica Esiste un nuovo cinema politico italiano oggi? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto chiedersi che cosa s’intenda per cinema politico. Di solito per la definizione classica di cinema politico ci si rifà ad André Bazin che, nel suo famoso saggio, Che cosa è il cinema?, analizzando le caratteristiche del cinema neorealista italiano, è stato uno dei primi ad affermare che i film di Rossellini, De Sica, Visconti, ecc. manifestano il rifiuto di una società ingiusta ma, invece di immergere i fatti e i personaggi di cui si racconta in una narrativa a tesi, predisposta e quindi strumentalizzata al fine di trasmettere un certo messaggio politico-sociale, questi registi lasciano libero lo spettatore di ricostruire il messaggio politico a posteriori. Il film neorealista non fornisce messaggi, o risposte, secondo Bazin, bensì costringe il lettore a interrogarsi sul “reale”. Lo spettatore non viene pedagogicamente istruito dall’alto, ma diventa attivo artefice della produzione del significato politico1. L’altro esempio di cinema politico, spesso citato, è quello del dopo-sessantotto, un cinema impegnato che si considerava parte vitale del progetto di trasformazione socio-politica del Paese. Un cinema che si opponeva a uno Stato poco garantista che esercitava la censura, difendeva il grande capitale e manteneva la televisione sotto stretto controllo. Era un “fare cinema” (come si usava scrivere allora) che credeva in un possibile cambiamento della società, in un futuro in cui le cose sarebbero cambiate per il meglio, in altre parole era un “cinema militante”2. Purtroppo le cose da allora sono cambia1 André Bazin, What is Cinema?, Berkeley, CA, University of California Press, 1994, pp. 13-60. 2 Sylvia Harvey, May ’68 and Film Culture, London, BFI Publishing, 1980, pp. 3-33. 324 te: è innegabile che oggi sopravviva un territorio del dissenso, ma si presenta spezzettato, atomizzato. Inoltre, secondo il critico francese Jeanpierre Jeancolas, il cinema ha perso la sua funzione pedagogica, non ci si può più avvicinare alla realtà con preesistenti valori ideologico-politici la cui validità viene dimostrata dalla storia sullo schermo: il tempo dei programmi di partito è finito3. Quando si parla di cinema politico oggi bisogna, intanto, prendere le distanze non tanto dalla definizione di Bazin, che per molti versi, come vedremo in seguito, è tuttora valida, bensì dal concetto di cinema politico post-sessantotto. Oggi il cinema politico, collocandosi all’interno della massiccia sconfitta della Sinistra storica, opera in un contesto molto diverso da quello degli anni intorno al ’68, ragion per cui deve assumere forme diverse e deve essere giudicato secondo altri parametri. Il nuovo cinema politico, come suggerisce O’Shaughnessy, si colloca nella zona intermedia tra le politiche di ieri e quelle di domani, in uno spazio in cui la lotta e la solidarietà di classe è sparita, la classe lavoratrice è stata smantellata, la grande narrativa di emancipazione della Sinistra crollata, e il neo-capitalismo ha trionfato4. Si è assistito negli ultimi anni al collasso del Partito Comunista e al declino della forza carismatica e contrattuale dei sindacati, mentre il capitalismo si è re-inventato attraverso la tecnologia, le multinazionali e la globalizzazione. Solidarietà e lotta di classe sono espressioni dalla semantica obsoleta. De resto Badiou sostiene che la narrativa storica di emancipazione (quella della Sinistra marxista) non può più spiegare la situazione sociale contemporanea, le masse non si riconoscono più come soggetti politici capaci di emancipazione attraverso la lotta, ma come individui isolati che sono personalmente responsabili della loro emarginazione sociale. Il forte immaginario della Sinistra che in passato ha dato significato e direzione alle lotte operaie, e portato alla luce l’oppressione delle masse, oggi non è più concepibile5. L’opposizione al capitale attraverso un’unica coerente struttura – l’unica che secondo Gramsci potesse dare coerenza e forza 3 Si veda l’articolo di Jeanpierre Jeancolas sul cinema politico apparso su Positif (434: 56-8). 4 Martin O’Shaughnessy, The New Face of Political Cinema-Commitment in French Film since 1995, Oxford, Berghahn Books, 2007, pp. 1-34. 5 Si veda Badiou, Balibar, Rancière- Re-Thinking Emancipation by Nick Hewlett , London, Continuum, 2007, pp. 1-81. 325 alla lotta contro l’egemonia –, oggi non è più concepibile in quanto il paradigma marxista, che univa il locale al nazionale-internazionale, si è sfaldato. Oggi l’offuscamento delle classi sociali, l’uso della violenza senza il suo incorporamento in un programma di emancipazione, l’emergere di movimenti sociali vivi, ma staccati dalle istituzioni politiche, ci pone davanti a una società frammentata6. Recentemente però il successo di pubblico e di critica di molti documentari, negli Stati Uniti quelli di Michael Moore, nell’ambito italiano Videocracy (2009) di Erik Gandini, Draquila (2010) di Sabina Guzzanti e Fratelli d’Italia (2009) di Claudio Giovannesi sottolineano un rinato interesse per il “reale”7. Mentre il documentario impegnato cerca di scoprire le operazioni dei potenti, e di documentarne l’opposizione (globalizzazione e anti-globalizzazione, fast-food e slow-food ecc.), il cinema politico invece, secondo O’Shaughnessy, deve concentrarsi su coloro che sono vittime degli effetti dell’economia globale, ma sono staccati dai circuiti del potere. Nonostante le interessantissime tesi del critico inglese che costituiscano l’ossatura critica del presente saggio, ci pare che questa sua 6 Cfr. Jason Barker, Alain Badiou-A Critical Introduction, London, Pluto Press, 2002, pp. 83-149. 7 Esistono molti documentari politici di notevole interesse, si vedano, per esempio, Super Size Me di Morgan Spurlock (USA, 2004) sull’influenza venefica del fast food sulla salute; Food, Inc. (USA, 2008) di Robert Kenner sugli abusi dell’industria alimentare americana; An Inconvenient Truth (USA, 2006) sul global warming e Waiting For ‘Superman’ (USA, 2010) sui problemi dell’educazione, entrambi di David Guggenheim; Inside Job (USA, 2010) di Charles Ferguson sulle cause della crisi finanziaria americana; No End in Sight (USA, 2007) sulla condotta dell’amministrazione Bush e la guerra in Iraq; The End of the Line (UK, 2009) di Rupert Murray sul rischio dell’estinzione entro il 2048 di molti speci ittiche a causa di metodologie peschive scriteriate; The Cove (USA, 2009) sullo sterminio dei delfini da parte dei Giapponesi; Black Gold (USA, 2006) sull’industria globale del caffé; Bananas!* (Sweden, 2009) di Fredrik Gertten sulla causa dei lavoratori delle banane nicaraguensi contro il gigante multinazionale Dole Food; e naturalmente i documentari di Michael Moore: Capitalism: A Love Story (2009), Sicko (2007), Fahrenheit 9/11 (2004), Bowling for Columbine (2002), and Roger & Me (1989), rispettivamente su Wall Street e il suo impatto sul governo americano a scapito della democrazia, sui servizi mutualistici americani (HMO) e quelli, statalizzati e migliori di altri paesi, sulla strumentalizzazione dell’attentato del 9 Settembre da parte dell’amministrazione Bush a fini militari, sulle stragi di civili ad opera di civili e sulle armi da fuoco nella società americana, e sulla chiusura della fabbrica di Flint, Michigan, da parte della General Motors e della conseguente perdita di lavoro di 30.000 persone. 326 affermazione limiti un po’ troppo l’area del cinema politico. Se è senza dubbio vero quello che egli afferma, ciononostante a noi sembra che gli effetti nefasti della globalizzazione possano essere osservati non solo negli strati altamente disastrati della nostra società, ma in tutto lo spettro sociale. Prima di passare ad esaminare alcuni esempi di nuovo cinema politico italiano, tuttavia, è d’uopo citare un’ulteriore definizione di cinema politico che non possiamo tralasciare in quanto ci aiuta a consolidare ulteriormente la nostra tesi, aiutandoci a capire quello che questo cinema non è. Secondo i critici di Cahiers du Cinema bisogna fare una distinzione all’interno del cinema politico tra i film che sembrano politici o si proclamano tali, ma non lo sono, e quelli che lo sono veramente. I primi sono film che hanno un contenuto progressista, ad esempio parlano di uno sciopero o di una repressione di stato, ma diluiscono la dimensione politica concentrandosi sul dramma dei personaggi, e in pratica riproducono sullo schermo quello che il lettore già sa, lo status quo. Questi film non problematizzano il reale bensì raccontano al lettore quello che lui già conosce. Mentre i falsi film politici ci restituiscono il “familiare”, creando un “realismo immobile”, il vero cinema politico destabilizza quello che noi pensiamo di sapere8. O’Shaughnessy, citando il critico di Cahiers du Cinema, Jean-Pierre Garnier, scrive che i registi piccolo-borghesi portano lo sfruttamento, il razzismo, la violenza urbana e le classi sociali sullo schermo, ma solo al fine di de-politicizzare il tutto. La lotta di classe viene dissolta in una critica a formula della borghesia, ci si concentra sulle emozioni dei personaggi, le vere cause della disoccupazione, per esempio, si ignorano e le questioni sociali si trasformano in fatti personali. Una volta stabilito che il nuovo cinema politico è un cinema che si occupa del “reale”, secondo la definizione di Bazin e degli altri critici citati, ci troviamo di fronte ad un ulteriore problema. Il “realismo”, cioè la riproduzione della realtà in letteratura o cinema è ovviamente un’impossibilità, l’abisso ontologico tra la realtà fenomenica e l’arte che la ricrea è, come rileva Cassirer, incolmabile. Ne consegue che quando parliamo di realismo nell’ambito del cinema 8 Jean-Pierre Garnier, Le social sans le politique in «L’Homme et la Societè», 142 (2001), pp. 65-89. 327 ci riferiamo soprattutto a “strategie narrative” e, pur tenendo presente che il contenuto deve aver a che fare con la realtà sociale, qui si parla del modo in cui i mezzi tecnici del cinema possano “ricostruire la realtà”. Nel cinema politico le caratteristiche del realismo da noi menzionate sono basicamente quelle teorizzate dal neorealismo e ormai diventate parte del linguaggio del cinema mondiale. Il cinema neorealista/realista deve usare attori non-professionisti e nel caso ricorra ad attori professionisti, questi dovrebbero avere parti che contrastano con la loro persona cinematografica. Si veda come esempio classico Anna Magnani e Aldo Fabrizi che, pur essendo attori comici del varietà e della commedia (Avanti c’è posto, 1942; Campo de’ fiori, 1943), assumono ruoli drammatico-tragici in Roma Città Aperta (1945) di Roberto Rossellini. Inoltre, questo tipo di cinema predilige gli esterni e la luce naturale perché, come insegnava De Sica, bisogna mettere la cinepresa nel mezzo del flusso della vita, nelle strade, nelle caserme, nelle stazioni… e filmare quello che fa inorridire i nostri occhi. Insomma, le regole dettate dal neorealismo sono, come sottolinea Bazin, “una trionfale evoluzione del linguaggio cinematografico”9. Oggi si parla di cinema politico quando il film aspira a creare un’oggettività quasi documentaristica, mostra preferenza per i campi lunghi e medi con profondità di campo (alla Nanook, per intenderci), segue con la stadycam il personaggio standogli addosso e pedinandolo, quasi ‘asfisiandolo’ zavattiniamente, ed esegue le riprese negli ambienti in cui gli eventi della storia narrata sarebbero dovuti accadere (si vedano, per esempio, i primi film di Lars von Trier, quelli del gruppo DOGMA 95 e quelli dei fratelli Dardenne come Rosetta, L’enfant). Sovente questo cinema realista-politico evita anche l’happy end del cinema hollywoodiano, preferendo una finale aperto, concetto che Umberto Eco aveva già da tempo teorizzato nei riguardi dell’opera narrativa.10 Infine, questo tipo di cinema dovrebbe cercare di far coincide, almeno secondo gli esempi francesi, la durata della storia narrata sullo schermo con la durata degli eventi rappresentati, rifuggendo, per esempio, dall’uso del flash back. Nel cinema neorealista i personaggi delle storie erano come dei 9 André Bazin, op. cit., pp. 9-30. 10 Cfr. Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962. 328 topi da laboratorio intrappolati in un labirinto apparentemente governato dal caso. De Sica, per esempio, costruisce la storia di Ladri di Biciclette come se le avventure di padre e figlio fossero governate da un fato avverso, quindi il suo film, anche se tecnicamente frutto di un lavoro meticolosissimo come sappiamo dalle interviste, crea nello spettatore l’illusione che tutto succeda per caso. Come suggerisce acutamente Bazin, lo spettatore che esce dalla sala cinematografica dopo aver visto Ladri di biciclette non arriva alla conclusione che in questo mondo ci siano, purtroppo, dei ladri di biciclette, ma è convinto che in una società che si rispetti non ci dovrebbe essere un livello disoccupazione tale che la perdita di una bicicletta si trasformi in tragedia per una famiglia. Se Ladri di biciclette fosse stato un prodotto di Hollywood a metà della storia sarebbe arrivato un poliziotto buono e super dotato alla Schwarzenegger che avrebbe arrestato i cattivi e restituito la bicicletta al protagonista (Ricci), cosicché il film si sarebbe concluso con padre, madre e figlio che felici e sorridenti brindavano con panettone e spumante. Lo spettatore poteva quindi tornarsene a casa contento con la coscienza tranquilla perché tutto si era risolto per il meglio e con la certezza che in “questo mondo” le cose funzionavano come dovevano. Questo sarebbe, a nostro avviso, un esempio di falso film politico. In un film di propaganda politica come quelli del realismo sovietico, costruiti secondo la teoria del rispecchiamento di Lukács, le cose invece sarebbero andate diversamente11. In tale film il nostro eroe, Ricci, non avrebbe ritrovato la bicicletta, avrebbe cercato di rubarne una, ma mentre fuggiva, sarebbe stato ammazzato dalla polizia. Il film si sarebbe concluso con suo figlio che si avviava piangente e solo in mezzo a una strada, intrappolato senza speranza nel circolo vizioso della povertà e dell’abiezione causato da una società ingiusta. Questo sarebbe ovviamente un esempio di film a tesi. De Sica per fortuna nostra, non ha seguito nessuna delle suddette alternative, il suo protagonista perde la bicicletta e quasi sicuramente perderà il lavoro, ma la tesi sociale emerge a posteriori nella mente del lettore dopo aver assistito al dramma morale, psicologico ed emotivo dei due protagonisti. Alla fine del film, infatti, padre e figlio si allontanano mano nella mano senza bicicletta, ma con un rinnovato patto di solidarietà umana tra di loro più stabile di prima, cosa che naturalmente scatenerà una forte reazione emotiva nello spettatore 11 Cfr. György Lukàcs, Saggi sul Realismo, Torino, Einaudi, 1950, pp. 7-34. 329 che al colmo dell’indignazione si domanderà come sia possibile che esistano tali ingiustizie sociali12. Questa disquisizione su Ladri di Biciclette ci serve per sottolineare che oppressione, povertà, crimine, disoccupazione ecc. ovvero i temi del neorealismo, sono tuttora parte della tematica dell’attuale cinema politico. A questo punto però è doveroso fare una distinzione. O’Saughnessy nel suo illuminante libro The New Face of Political Cinema (2007) si occupa di cinema francese, e i film che cita come esempi del nuovo cinema politico sono tutti prodotti che trattano di temi molto simili a quelli del neorealismo: le banlieue – le zone industriali francesi dove un tempo prosperava una combattiva classe operaia ora diventate zone di rovina, droga, degrado – l’immigrazione clandestina, i problemi d’integrazione razziale, l’emarginazione, la disoccupazione, il lavoro in nero, i sans-papiers ecc. Indubbiamente esiste un gruppo di registi in Francia e Belgio che hanno costruito un nuovo cinema politico trattando queste tematiche, tuttavia, dovendo considerare l’attuale cinema politico italiano dobbiamo fare delle distinzioni.13 Per prima cosa l’Italia vive una situazione diversa dalla Francia sia socialmente che politicamente, inoltre pensiamo che il nuovo cinema politico non debba necessariamente parlare solo dei temi cari al neorealismo o al cinema politico francese. “Politico” è un aggettivo che incorpora il personale e il pubblico, perché il personale è condizionato profondamente dal pubblico come hanno insegnato le teorie femministe, e se vogliamo scegliere come comune denominatore del cinema politico di ieri e di oggi il binomio oppressione/ingiustizia, dobbiamo allargare le coordinate del “reale”14. Nel panorama del cinema italiano, esistono molti film politici che però si allontanano dai parametri di cinema impegnato alla vecchia maniera e sono politici in una maniera nuova, pur ricadendo perfet12 Si veda anche per un discorso più ampio sul neoarealismo, Italian Neorealism di Mark Shiel, London, Wallflower, 2006, pp. 17-95. 13 I film che O’shaughnessy tratta sono quelli di Jean-Pierre and Luc Dardenne (La Promesse ’97, Rosetta ‘99, Le Fils 2002, L’Enfant 2004), Reprise di Harvé Le Roux, Robert Guédiguian (Marius and Jeanette ’96); i film di Beauvois, Jolovet, Siri, Kassovitz (La Haine ’95), Richet, Zonca (La Vie rêvée des anges, ‘97), Laetitia Masson, Poirier, Vincent, Dumont, Cabrera ecc. 14 Cfr. Bernadette Luciano e Susanna Scarparo in The Personal is still Political: Films ’by and for Women’ by the New Documentariste in «Italica» Vol. 87, n. 3 (2010), pp. 488-503. 330 tamente nell’”estetica del frammento” teorizzata da O’Shaughnessy. Oggi si vive in una società dello spettacolo, dominata dal consumismo e dalla mercificazione, una società globale e frammentata. La vecchia classe lavoratrice fautrice della resistenza collettiva e delle trasformazioni sociali è relegata al passato. Oggi il cinema politico può solo registrare la sconfitta e vedere tra i relitti di questo affondamento se ci sia qualcosa da salvare. Ne consegue che questo nuovo cinema politico è condannato a registrare “frammenti di speranza, favole del possibile, piccole narrative di resistenza, atti isolati di lotta individuale, momenti di solidarietà circoscritta”15. Esempio 1: Mio fratello è figlio unico Prendiamo un film come Mio fratello è figlio unico (2007) di Daniele Luchetti16. Il film non parla di diseredati né di zone disastrate della società, ma narra la storia di una famiglia operaio-cattolica dal 1962 al 1975, ovvero dal boom economico agli anni del terrorismo, e riscrive la storia dell’Italia attraverso i due protagonisti del film, Manrico e Accio, due fratelli che partecipano in campi avversi, uno militando nella sinistra e l’altro nel partito missino, agli eventi politici del Paese, dalle lotte del ’68 al terrorismo degli anni Settanta. Il film non segue i dettami del neorealismo, vi sono attori professionisti, è girato in interni ricostruiti in studio, non usa nessuna tecnica documentaristica (come cinepresa mobile, colori naturalistici ecc.), ma è filmato come un dramma tradizionale. Tuttavia, ci pare sia esemplare, giacché esibisce molte delle caratteristiche del nuovo cinema politico. Innanzitutto, ricordiamo che la ribellione che viene rappresentata in molti film recenti italiani può essere apprezzata solo se la si considera all’interno della perdita di una cornice politica generale della Sinistra, una cornice che un tempo esisteva e all’interno della quale si poteva dare significato e direzione a tutte le lotte incanalandole in una prospettiva di giustizia futura. Tuttavia, dopo lo smantellamento della classe operaia, della lotta collettiva e la fine della visibilità socio-politica delle classi lavoratrici, nella frammen15 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 57. 16 Il film esce nel 2007, la sceneggiatura è di Sandro Petraglia, Stefano Rulli e Daniele Luchetti, tratto molto liberamente dal romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi del 2003 (Mondadori). 331 tazione sociale attuale, le lotte sociali e le ribellioni possono essere solo di natura locale17. A dimostrare questo sta il fatto che nel cinema politico italiano attuale abbondano i film in cui individui o piccoli gruppi fronteggiano l’impatto della disintegrazione sociale e l’oppressione economica con poche se non nulle risorse simboliche su cui contare. Se si guarda al cinema attuale in quest’ottica i film politici sono numerosi, si pensi, per citarne solo alcuni, a Il posto dell’anima (2003, Riccardo Milani), La febbre (2005, Alessandro D’Alatri), Tutta la vita davanti (2008, Paolo Virzì), La nostra vita (2010, Daniele Luchetti), ecc. La ribellione violenta o meno non fa più parte di un’ottica di emancipazione generale, la ribellione esiste solo all’interno di una prospettiva di emancipazione locale. La lotta di oggi nel cinema politico quindi può essere rappresentata solo frammentariamente, per questa ragione molti film politici italiani, se giudicati secondo il modello d’impegno tipico del passato non sembrano film militanti. Mio Fratello è un testo esemplare, in quanto registra il disfacimento della Sinistra dopo il ’68, mostrando come essa abbia perso forza e la frangia estremista si sia dispersa nella lotta armata underground, ottenendo come risultato quello di farsi sopprimere dagli apparati repressivi dello stato senza riuscire a ottenere nessun risultato sociale tangibile. Nel film, infatti, Manrico, divenuto terrorista viene freddato dalla polizia. Mio fratello non potrebbe essere collocato facilmente nella scuderia di film che O’Shaughnessy considera politici, perché qui non navighiamo nelle zone altamente disastrate della società, la famiglia protagonista del film non appartiene alla classe operaia militante, ma a quel proletariato operaio che per decenni ha mantenuto al potere la Democrazia Cristiana. Nella famiglia Benassi il padre, operaio in fabbrica, è un fervente e obbediente cattolico che passa tutto il suo poco tempo libero in parrocchia; la madre, casalinga, si arrangia col lavoro a maglia in casa per sfamare i tre figli; tutti quanti vivono in una dimora fatiscente che nel corso del film diventa pericolante, ma non possono permettersi di trasferirsi per mancanza di mezzi. Nonostante questo, sia padre che madre accettano la loro condizione di “poveri” con rassegnazione. I genitori sono rappresentativi di una larga parte della classe lavoratrice italiana, conservatrice, cattolica, sottomes17 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 46. 332 sa, che passa dal fascismo alla Democrazia Cristiana senza in realtà cambiare di molto la propria ideologia. Una classe lavoratrice che si sciocca quando scoppia nel ’68 la ribellione dei figli, disapprovando sia l’attivismo politico fascista di Accio sia quello sinistrorso di Manrico, e scandalizzandosi ancora di più per la ribellione femminista e sessuale della figlia. Nell’Italia dei primi anni Sessanta i Benassi rappresentano una famiglia operaia di lavoratori timorati di Dio che si sacrificano per mandare a scuola i figli. Non dimentichiamo che se è esistita una classe operaia attiva e combattiva nel passato, in Italia è sempre esistito uno zoccolo duro cattolico e conservatore anche all’interno del proletariato. Esaminando Mio fratello, inoltre, notiamo che il protagonista principale, Accio, dopo essere stato disilluso dall’ipocrisia della Destra e non essere riuscito neppure a entrare nell’ottica della Sinistra, decide di rifugiarsi nel latino. Accio diventa un latinista perché, amando la verità e cercandola in un mondo che non può dargliela, finisce col rifugiarsi nell’erudizione (appunto le traduzioni dal latino). Il giovane si diletta con una lingua “morta” dalle regole fisse, le sue traduzioni sono sintomo del bisogno di fuga dalla confusione del mondo ipocrita, falso e violento in cui vive. La purezza d’animo di Accio è sottolineata anche dall’incipit del film quando abbandona il seminario, riconoscendo nella sua incapacità di astenersi da “atti impuri” l’impossibilità di una vita religiosa sincera, causando non poco disappunto nei genitori cattolico-conservatori per i quali un figlio prete “fa sempre comodo”. Alla fine del film, Accio, tornato a casa dopo aver assistito alla morte del fratello ucciso dalla polizia, ormai consapevole del fatto che la rivoluzione non si farà, compie il vero atto rivoluzionario della storia. Stanco di vivere in una casa pericolante, si ribella e decide di risolvere il problema delle case popolari non assegnate dalle autorità competenti né alla sua famiglia né a tante altre famiglie di lavoratori come la sua; quelli che sul fascicolo dell’Ufficio Case Popolari sono bollati come “Ultimi”. Accio opera un atto di solidarietà collettivo, locale e circoscritto, un atto di resistenza isolato che richiama e ricorda una solidarietà altra, ovvero la solidarietà di massa del tempo passato. Di fronte alla sconfitta del progetto rivoluzionario del fratello – ricordiamo che Accio nel bar pochi minuti prima dell’arrivo della polizia, chiede a Manrico: «Ma allora, la fate ’sta rivoluzione o no?», domanda che rimane senza risposta per via 333 dell’arrivo della polizia e della conseguente sparatoria – Accio non si arrende, ma agisce. Mentre la lotta di Manrico appare come un atto elitista, minoritario, e fondamentalmente inutile, Accio col suo atto rivoluzionario, utile e comunitario sembra riesumare una lotta sociale di antico stampo. Accio testimone della sconfitta della drammaturgia di sinistra del dopo ’68, conscio della fine del progetto estremista avvenuta con l’eliminazione fisica degli elementi più radicali come il fratello, arriva alla conclusione che lottare è possibile e necessario e che l’isolamento degli “Ultimi” non è inevitabile. Il giovane entra di notte nell’ufficio delle case popolari, spacca la serratura, si impossessa delle chiavi delle case finite di costruire, ma non distribuite, telefona alle famiglie e poi fa in modo che tutti insieme si installino negli appartamenti, così da occuparli e ostacolare un possibile intervento della polizia. Accio dimostra allo spettatore con il suo agire che anche agli “ultimi” spetta il diritto di vivere in una casa decente, che le classi al fondo della piramide sociale non sono soggetti bisognosi di aiuto e da compatire (come invece succede nei film falsamente politici), ma sono soggetti oppressi dal sistema. Nel risolvere la situazione di “senza tetto” di molte famiglie come la sua, Accio salva gli “Ultimi” con un atto di ribellione che porta a risultati concreti e tangibili e riesce a dare un senso politico e militante alle cose. Il film non offre politiche esplicite, se mai narra della disfatta dei grandi paradigmi della Destra e della Sinistra attraverso la sofferenza di individui come Accio che non sono a loro agio né nella vita privata (si vedano i suoi difficili rapporti con la famiglia) né in quella pubblica (si veda la marginalizzazione di Accio in tutti i gruppi politici frequentati). Il giovane appropriandosi dei beni dello stato (le case popolari), compie un atto che implica l’equa distribuzione dei beni, cosicché alla fine è lui il vero rivoluzionario della storia (e non Manrico). L’atto rivoluzionario di Accio è un atto collettivo che lo avvicina a valori di emancipazione e quindi gli conferisce una voce politica che prima non aveva. Il nostro ‘eroe’ rifiuta il ruolo di emarginato, esce dal silenzio, rifiuta la posizione di “ultimo” e apre uno spazio che forse lo condurrà fuori dal suo isolamento verso la collaborazione sociale. La lotta contro l’ingiustizia, tema fondamentale del cinema politico odierno, è centrale in Mio Fratello perché, come dice O’Shaughnessy, nell’estetica del frammento la lotta è sempre immediata e locale. In questa estetica l’individuo, avendo perso il paradigma 334 sociale che poteva dare un senso alla sua vita, senza la fede nella lotta per un futuro migliore, è condannato a vivere nel presente in una condizione in cui ogni azione sembra senza senso. Accio per la maggior parte del film, è un essere recalcitrante perché non possiede un linguaggio che gli permette di esprimere il rifiuto di quello che gli succede, ma alla fine, attraverso il suo atto coraggioso, esce dall’isolamento. La ribellione di Accio è senz’altro minimalista, localizzata, ma esprime un impegno umanitario radicale. Accio come il fratello Manrico e la sorella Violetta, è simbolo di una generazione alla quale sono mancate le risorse simboliche sulle quali ordinare il mondo, visto che i paradigmi che adottano, quelli degli estremismi del ’68, si rivelano instabili, e il paradigma del padre, ancorato a modelli ideologici ottocenteschi e retrogradi, è inaccettabile. Il film non “finisce”, ma termina con una bellissima immagine di Accio, che finalmente padrone di un balcone, il primo della sua vita, di fronte alla vastità del mare, rivede se stesso bambino, e sorride. Accio non ha avuto un’infanzia felice, ma sembra essere arrivato a patti con il suo turbolento passato. Sorridendo al suo “io fanciullo”, accetta la vita passata e allo stesso tempo guardando la vastità del mare simbolo di infinito movimento e di libertà, sembra guardare verso uno “spazio” in cui forse saranno possibili altri atti di rivolta collettivi che lo spingeranno fuori dal suo isolamento verso la collaborazione sociale, verso altre rivolte grazie alle quali sarà possibile eliminare un po’ di ingiustizia dal mondo. Qualcuno potrebbe obiettare che il registro melodrammatico del film contrasta con il contenuto realista del film. Invece il melodramma è, secondo noi, maieutico, esso estrae quello che altrimenti rimarrebbe nascosto. Il melodramma grazie alle strategie usate, alle forti emozioni e ai conseguenti conflitti che si sviluppano tra i personaggi penetra sotto la superficie delle cose e produce un “potenziamento” del reale. Secondo Rancière con la caduta della Sinistra, l’oppressione delle masse rimane, lo sfruttamento perdura, ma il mondo è diventato “opaco”, quello che prima era evidente nelle dinamiche tra le classi sociali adesso è offuscato. Con la globalizzazione del capitale si è verificata una spaccatura nelle classi lavoratrici tra coloro che hanno un lavoro fisso e quelli che non ce l’hanno. I primi sono dei privilegiati e quindi condannati al silenzio per paura di perdere quello che hanno e i secondi sono pure condannati al silenzio perché si 335 ritrovano ad avere bisogno di assistenza e quindi sono degli “oggetti bisognosi” e non dei “soggetti con dei diritti”. Per di più con l’avvento della società dei consumi, con il nuovo sistema di produzione e con l’utopia pervasiva della democrazia si è verificata un’opacizzazione delle classi sociali, queste sembrano non esistere più, giacché pare che tutti appartengano a una felice “middle-class”. Stiamo assistendo a uno strano fenomeno per cui i problemi degli “ultimi” paiono essere di natura patologica, si opina che costoro si ritrovano a mal partito per colpa loro, cosicché meritano solo compassione o repressione18. In questo nuovo cinema politico, i personaggi rifiutano posizioni “ragionevoli”, propendendo invece per posizioni emotivamente estreme, drammatizzando le situazioni. Sempre secondo Rancière, la voce che rifiuta il silenzio collettivo e si ribella è necessariamente 18 Cfr. Todd May, The Political Thought of Jacques Rancière, University Park, PA, Pennsylvania Sate University Press, 2008, pp. 1-38. Secondo Rancière, la nostra è un’epoca di passività, e di eguaglianza passiva. Noi crediamo nella creazione, preservazione e protezione dell’eguaglianza che ci è data dalle istituzioni governative, invece dovremmo combattere per ottenere un’uguaglianza attiva. Lo sviluppo dell’economia capitalistica è la risposta a domande che una volta forse sembravano politiche e sociali come l’idea della distribuzione della ricchezza e dei poteri, in realtà oggi il ruolo dello stato è quello di aiutare a creare le condizioni per un’efficiente funzionamento del mercato capitalistico, di velare l’ineguaglianza esistente grazie al fatto che a tutti viene dato un posto nell’ordine politico, e di assicurarsi che le divisioni politiche non si vedano, infatti a tutti viene concesso un minimo di sostentamento per sopravvivere nell’ordine economico. Nel nome del consenso, i politici cercano di ridurre le lotte sull’uguaglianza a problemi di ordine tecnico legato al progresso economico e alla distribuzione dei beni. Ci fanno credere che siamo tutti d’accordo e che tutti viviamo in un mondo senza disaccordo circa quello che dovrebbe essere fatto. L’approccio tecnologico del governo è tale che esso si preoccupa della distribuzione delle merci piuttosto che della partecipazione del popolo nella creazione delle loro vite. Quelli che soffrono sono vittime, la soluzione è l’assistenza umanitaria, la carità invece della solidarietà, se non addirittura l’intervento dello stato. Il popolo nel governo tecnocratico deve riconoscere che chi governa sa più di loro (niente dissenso), infatti, se il popolo resiste si tratta di ignoranza e non di opposizione. I cittadini non creano le pratiche quotidiane, ma sono creati dalle pratiche quotidiane; quando i centri commerciali rimpiazzano il mercato pubblico come centro di riunione; quando università, musei e altri centri di cultura sono governati secondo i dettami dell’efficienza economica; quando incominciamo a pensare alle nostre vite in termini di shopping, noi entriamo nella prospettiva economica che rinforza la visione politica dalla quale siamo esclusi. 336 “teatrale”19. I personaggi come Accio devono uscire dal ruolo a loro assegnato e sfidare l’ordine sociale esistente, devono diventare soggetti denuncianti in quella che viene definita come la “nuova teatralità politica”. Il cinema politico quindi, deve rendere l’oppressione visibile, deve rendere trasparente l’opaco e assicurarsi che i problemi dei margini vengano ricollegati al centro. Che è appunto quello che Accio fa nel film. Accio esibisce una forte fisicità e una continua reazione sopra le righe (teatralità) verso le persone o gli ostacoli che gli si presentano e spesso ricorre al corpo nella sua rotta di collisione col mondo. La sua insoddisfazione personale e sociale si esprime in dialoghi feroci, gestacci e botte, che nell’infanzia rivolge alla famiglia e, nell’adolescenza, riversa sui suoi antagonisti. Il giovane esprime, attraverso la sua gestualità/fisicità, la sua emarginazione, il suo essere un pesce fuor d’acqua in famiglia come nel mondo. Accio entra in collisione con famiglia e società finché arriva a una scelta fondamentale, la distribuzione delle case, un atto ribelle e liberatorio che dà valore etico-politico al mondo privo di giustizia in cui vive. Alla fine del film, il nostro ‘eroe’ si schiera con gli oppressi, non a parole come il fratello, ma a fatti. Infatti, egli esce dal suo isolamento, confronta l’ingiustizia pubblicamente e vi pone “rimedio”, sfidando l’ordine esistente e riuscendo a creare un “teatro” in cui colloca al centro del palcoscenico quello che prima non c’era, l’ingiustizia sociale. Mio fratello non è solo la storia di Accio, ma la storia di una famiglia immersa nella Storia italiana, e come tale rende palesi diversi punti fondamentali del nuovo cinema politico. Se le storie di famiglia tendono a avere un risvolto conservatore, la storia di Accio invece mette in luce come il ragazzo superi i suoi legami di sangue e si apra verso il benessere non solo dei suoi, ma della collettività. La famiglia tradizionalmente è una forza conservatrice, lo spazio domestico è dove si preserva la specie, dove si fa argine al mondo circostante. Nel caso di Accio questo spazio domestico diventa il luogo in cui si possono osservare meglio gli influssi del pubblico sui figli, dove le ribellioni sessantottine acquistano risonanza emotiva, specialmente quando viste attraverso le reazioni abnormi della famiglia patriarcale. Concordiamo con O’Shaughnessy quando asserisce che il melodram19 Cfr. Nick Hewlett, Badiou, Balibar, Rancière – Rethinking Emancipation, London, Continuum, 2007, in special modo la parte intitolata Jacques Rancière: Politics is Equality is Democracy, pp. 84-108 337 ma è diventato il veicolo ideale per ridare eloquenza e trasparenza al reale20. Nonostante Mio Fratello non si concentri su sobborghi, periferie, ex-zone industriali, ci pare che si concentri ugualmente sui margini e non sul centro. Secondo O’Shaughnessy il realismo del nuovo cinema politico deve operare a diversi livelli: quello tematico, cioè occuparsi di temi socio-politici contemporanei (mondo del lavoro, disoccupazione, immigrazione, emarginazione ecc.); deve presentare immagini naturalistiche, quindi evitare pittoreschi panorami da cartolina illustrata, in pratica deve avere un look documentaristico e presentare dei personaggi in rotta di collisione con il mondo circostante, ovvero deve mostrare un conflitto. Inoltre, suddetto cinema dovrebbe preferire l’uso di cineprese mobili, attori non professionisti e avere una trama episodica con più personaggi o gruppi di individui o famiglie. Non siamo al cento per cento d’accordo con il critico inglese, certamente i temi sociali sono di primaria importanza, ma sulle caratteristiche documentaristiche o le cineprese mobili non concordiamo. Mio fratello è stato girato in una cittadina della Puglia che, secondo il regista, assomiglia a Latina agli inizi degli anni Sessanta. Luchetti ha evitato accuratamente i luoghi pittoreschi, le icone storiche tipiche del mondo della pubblicità, i luoghi celebrati da sempre dal cinema, i paesaggi da guida turistica. In Mio fratello le inquadrature dei monumenti sono presenti solo quando devono ricordare allo spettatore che la cittadina è stata costruita da Mussolini, l’impronta fascista però non si limita all’architettura, ma si estende anche all’ideologia di molti personaggi. Le incursioni di Accio a Roma, a Genova e a Torino, avvengono in zone anonime: bar, stazioni, vie ingolfate dal traffico, in luoghi che potrebbero appartenere a qualsiasi città italiana dell’epoca. In questi nuovi film politici, spesso una macro-storia e una microstoria coesistono. Nel nostro caso, infatti, come è stato rilevato precedentemente, abbiamo la storia della famiglia Benassi e la Storia italiana, storia personale e storia pubblica. Sia Accio che Manrico sono integrati in uno spazio nazionale e simbolico durante la giovinezza, il primo facendo parte del Movimento Sociale Italiano, il secondo del Partito Comunista. Questa integrazione però non funziona né per l’uno né per l’altro. Il primo uscirà dal partito missino e il secondo 20 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 157. 338 entrerà nei gruppi extra parlamentari. Manrico si marginalizza in una ribellione lontana dalla lotta di classe collettiva, il secondo, scoperto il vuoto che si cela sotto la retorica fascista, esce dal gruppo, ma rimane un outsider. Per sottolineare questa emarginazione, il regista fa muovere tutti i personaggi, ma soprattutto il protagonista, sempre lontano dal centro anche negli spazi fisici delle città che attraversa e percorre con disagio, incavolandosi col traffico, gridando insulti, come a sottolineare la sua infelicità, la sua immersione in un localismo frammentato. La mobilità, tipica qualità della nostra società a tecnologia avanzata, è un’altra caratteristica di questo nuovo cinema. La disponibilità finanziaria che permette alle persone di muoversi velocemente nel mondo, esibendo una mobilità sia fisica che di classe, avviene solo col denaro. I poveri sia letteralmente che figurativamente sono “immobili”, imprigionati in una staticità economica che non gli permette di cambiare la loro situazione fisica – non possono andare in vacanza, cambiare città, paese – né possono mutare la loro identità, il loro ambiente, il loro lavoro, così come non possono muoversi a loro agio con i propri mezzi di trasporto. I poveri devono stare a “loro posto”, così come non possono reinventare se stessi. Accio non ha la macchina, fa l’autostop o viaggia in autobus o in treno o va a piedi, e la sua mobilità è limitata anche dal punto di vista sociale. La famiglia per motivi economici costringe Accio a prendere il diploma da geometra, impedendogli di studiare nonostante sia bravissimo a scuola, e negandogli, per mancanza di soldi, l’accesso al liceo dove pure lui voleva andare; la famiglia gli impedisce automaticamente l’accesso all’università e di conseguenza gli nega ogni mobilità futura. La ribellione politica di Accio e del fratello sia a Destra che a Sinistra, è un modo per tentare di asserire il proprio diritto a cambiare il mondo, anche se poi non ci riescono. Accio però, riabilitando gli “Ultimi”, resiste alla sconfitta e nel suo piccolo la sovverte. Nonostante la mancanza di un paradigma politico nel quale poter inserire la sua ribellione, e la mancanza di un progetto elaborato per l’emancipazione delle masse, Accio riesce a mutare il suo “presente” con un coraggioso atto di solidarietà. 339 Esempio 2: Tutta la vita davanti Un altro film in cui un piccolo gruppo fronteggia l’impatto della disintegrazione sociale e l’oppressione economica con poche o nulle risorse simboliche su cui contare è Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Il film narra la storia di una ragazza, Marta, che laureatasi a pieni voti in Filosofia affronta il mondo del lavoro, ma non trovando un impiego adeguato si ritrova a fare la telefonista temporanea presso una multinazionale, la Multiple, che vende aggeggi inutili alle casalinghe. La vicenda tratta della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei giovani, rappresentando con acume il disfacimento della classe lavoratrice e la vittoria del neo-capitalismo. Il film rientra nella categoria del nuovo cinema politico per ragioni diverse da quelle esaminate nel caso di Mio fratello è figlio unico. Marta, la protagonista della storia, intelligente, istruita, vorrebbe conseguire un dottorato in filosofia e scrivere, ma a causa della sua precaria condizione economica deve trovarsi subito un’occupazione per mantenersi. Marta possiede il logos necessario per far sentire la sua voce, ed è appunto lei che registra l’alienazione delle sue colleghe, costrette come lei a declamare ogni mattina slogan che celebrano il successo individuale, alimentano la competitività, e che, in teoria, dovrebbero trasmettere felicità alle ragazze, nonostante a queste sul lavoro vengano controllati anche i tempi delle pause bagno. Marta e le altre venditrici telefoniche sono costrette a mostrare grande entusiasmo, inneggiando al successo, gridando slogan di finta felicità. La ragazza, come le altre compagne, deve rinnegare il suo “io” ogni giorno e soccombere alle esigenze del capitale, con la differenza che nel suo caso, grazie all’istruzione, il logos le permette di dominare e incapsulare l’oppressione e poi di agire contro di essa. Il film attraverso le vicissitudini di Marta ci conduce nella vita delle sue colleghe, delle sue amiche e della madre single senza istruzione con figlia piccola a carico con cui Marta condivide l’appartamento, la quale una volta perso il lavoro non possedendo altre risorse, decide di mercificare il suo corpo cadendo in un’alienazione peggiore di quella sofferta alla Multiple. Tutta la vita davanti descrive magistralmente come la multinazionale abbia creato un mondo parallelo, moderno, fuori Roma, in una zona periferica e isolata, con un’architettura aereoportuale di 340 capannoni e scale mobili che, a prima vista, crea un senso di modernità e di efficienza, mentre in realtà nasconde un mondo artificiale, isolato dal resto della società e corrotto. In questo mondo satellitare arrivano e partono continuamente autobus carichi di turniste (dello sfruttamento) che si alternano. Il call center della Multiple è quindi situato in un non-dove, nel quale i boss sono riusciti a promuovere con apparente successo, attraverso certi riti giornalieri imposti ai lavoratori, il mito della ricchezza, della super-produttività e del successo individuale. Il trionfo personale di chi sposa questi ideali avviene inevitabilmente a spese di chi soccombe a questa dura logica che promuove una continua catena di oppressione: infatti, per essere premiati bisogna buggerare le casalinghe raccontandogli storie, vendere a una classe economicamente modesta elettrodomestici inutili, insomma truffare, con il sorriso sulle labbra, il prossimo. Naturalmente la logica estrema del successo, il mito dello spettacolo, della ricchezza, l’ideologia che celebra le vette di successo del vincitore, e l’idea che si debba salire sempre più in alto per raggiungere sempre maggiori profitti, ha come contropartita gli abissi dei perdenti, la loro emarginazione, la loro alienazione e in alcuni casi anche la loro pazzia. Dopo aver assistito alle pericolose reazioni di coloro che incapaci di tenere un tale ritmo di produzione vengono licenziati e finiscono per tentare di uccidersi, Marta diventa un soggetto denunciante, raccontando al sindacalista quello che succede alla Multiple. Tutta la vita davanti scava dietro la facciata dorata del consumismo estremo, per rivelarne le ineguaglianze, le esclusioni e le oppressioni che vi si celano dietro. Anche Marta a un certo punto, come Accio, entra in rotta di collisione con questo universo lavorativo corrotto e oppressivo e con la scelta di denunciare quello che succede alla Multiple dà valore etico-politico a un mondo privo di giustizia. Accio in Mio fratello sceglie di agire in favore della collettività, anche Marta lo fa, usando le parole e denunciando al sindacato e alle autorità i fatti accaduti. Anche in questa storia abbiamo un micro-cosmo, quello di Marta e delle sue amiche, e un macro-cosmo quello della società dei consumi e del benessere in cui l’apparenza regna sovrana. Un mondo in cui i perdenti vestono male, sono dimessi, mentre i vincenti sono sempre perfettamente agghindati, sorridenti e apparentemente felici. Naturalmente la ricchezza non è la chiave della felicità indivi- 341 duale, la manager delle donne (Ferrilli), all’apparenza incarnazione perfetta della “donna arrivata”, elegante, vincente, in realtà dimostra di essere anche lei vittima dell’alienazione, della solitudine e dell’infelicità, nonostante il successo materiale conseguito. La donna, infatti, uccide il padrone della Multiple (Ghini) che l’ha messa incinta, ma non la ama, e con questo folle gesto dimostra che la pazzia è un sintomo che colpisce non solo le vittime del potere, ma anche chi lo amministra. Come Accio anche Marta ha difficoltà di inserimento, lo spazio fisico in cui si muove è troppo grande per lei, anonimo, impersonale, all’interno di esso la vediamo sempre correre. Marta manifesta la sua insoddisfazione camminando velocemente ovunque, come a cercare di sfogare la sua frustrazione nel movimento; anche il “linguaggio del capitale”, linguaggio della competitività e del successo, è in totale discordanza con il linguaggio filosofico con cui Marta si esprime e col quale, quando scrive, cerca di razionalizzare quello che vede e sente. Se il logos filosofico aprirà a Marta probabilmente la strada del mondo accademico, grazie alla pubblicazione del suo saggio su Martin Heidegger e le multinazionali, il rifiuto del codice egemonico non la porta solo a denunciare le ingiustizie, ma la conduce anche alla scoperta della solidarietà verso le altre donne che non possiedono alcuna “voce”, e facendosene portavoce, compie un gesto di solidarietà collettiva. La Roma in cui Marta e gli altri personaggi si muovono è anch’essa frammentata, la Multiple come abbiamo visto è in un non–dove periferico, staccato dalla città, ma le strade di Roma, gli uffici postali, i ristoranti potrebbero appartenere a qualsiasi zona metropolitana contemporanea. La perenne corsa di Marta trasmette al lettore il suo essere fuori dal “centro”, immersa in un localismo frammentato, correndo sembra cerchi di sfuggire a quella “immobilità” alla quale la società l’ha condannata. Marta riuscirà a mutare la sua situazione sociale e probabilmente a reinventare se stessa perché la sua cultura le permette di farlo; la ragazza agisce, svela la natura ingiusta della società contemporanea, rifiuta il consenso, resiste e sceglie la solidarietà umana e collettiva. Come Mio fratello è figlio unico, Tutta la vita davanti non utilizza né l’estetica documentaristica né attori non professionisti, non è neppure un melodramma centrato su una famiglia, ma la storia di un gruppo di individui. È un dramma tradizionale, ma è anche un film 342 politico che spinge il lettore verso un linguaggio di opposizione, a confrontarsi con l’alienazione e la precarietà lavorativa dei giovani oggi, un film che svela lo sfruttamento che si cela sotto il velo di una società apparentemente felice ed economicamente florida. Accio assegnando le case popolari e Marta denunciando la Multiple pubblicamente, scoprono l’implosione della società, rifiutano il silenzio e si oppongono alla violenza socio-economica. Conclusioni Per concludere, dopo l’analisi comparata dei due film sopra citati e il riferimento all’ermeneutica proposta da O’Shaughnessy e dagli altri teorici, ci pare che questo nuovo cinema politico più che uno stile cinematografico secondo i dettami del “realismo”, si avvicini agli insegnamenti neorealisti in quanto pone al suo centro problemi eticosocio-politici. Questo nuovo cinema si allontana dalle forme estetiche e ideologiche della cinematografica tradizionale di tipo Hollywoodiano, nonostante conservi quelle caratteristiche drammatiche indispensabili per catturare l’attenzione dello spettatore e per trasmettergli quella dose di indignazione morale necessaria a spingerlo ad agire nel suo sociale. Questa nuova forma di cinema engagé propone una lettura di quello che una certa realtà significa, di come funziona, e di come essa possa essere cambiata. Di solito la complessità di questa “realtà” ricostruita sullo schermo è sottolineata da un’ambigua immagine finale. Infatti, questi film raccontano “storie aperte”, che non presentano una fine nel senso tradizionale del termine; le vicende non si risolvono, ma lasciano allo spettatore il compito di porsi quesiti, è lui che deve formulare delle ipotesi. Del resto, la risoluzione dei problemi sociali presentati, se e quando avvenisse, sarebbe un processo che dura nel tempo e quindi in linea di massima eluderebbe lo spazio e il tempo filmico all’interno di un’ottica che mira al neoneorealismo21. In un certo senso questo nuovo cinema ricade nella definizione di Fernando Solanas e Octavio Getino che nel 1965 promuovevano un cinema della sovversione, ovvero un cinema che documenta tutto quello che è “indigesto” al potere. In quest’ottica la 21 Si veda nota 22 per la definizione di neo-neorealismo. 343 produzione di Hollywood è il “primo cinema”, il cinema alternativo che oggi si chiamerebbe cinema indipendente sarebbe il “secondo cinema”, e il cinema sovversivo sarebbe il “terzo cinema”, quello che ha un impegno etico-politico con la vita di tutti i giorni. Diremmo quindi che molti dei nuovi film politici italiani rientrano in questa categoria di “terzo cinema”, un cinema che “svela” tutto ciò che dalla realtà non trapela palesemente con il risultato di turbare lo spettatore22. 22 Nel suo illuminante saggio “Strade, muri, terra, città, mare. Sud Italia e mediterraneità postmoderna nel cinema del terzo millennio”, Eusebio Ciccotti parla di “neo-neorealismo” per il cinema italiano a partire dagli anni Ottanta, affermando che i film in oggetto manifestano “un innegabile ‘modo oggettivo’, influenzato dal documentario, nel filmare la realtà, simile a quello del neorealismo storico: un atteggiamento estetico che presenta alla base un comune denominatore che potremmo chiamare modo neorealista”(California Italian Studies Journal, escholarship.org/uc/item/7zf7j73q, 2010, pp. 13-14). Il film apripista di questo modo sarebbe stato Amore tossico (1983) di Claudio Caligari, seguito da una quindicina di film realizzati tra Mery per sempre (1989) e Cuore cattivo (1995). Questi film esibiscono: con-fusione dei generi, orizzontalità degli spazi fisici, viaggio attraverso il corpo Italia, pedinamento (Zavattini), attori non professionisti, atteggiamenti documentaristici nell’ordito finzionale, uso dell’illuminazione naturale in interni ecc. Ciccotti nel suo saggio si occupa di film che narrano del Sud come Mio cognato (2002, Alessandro Piva), Certi bambini (2004, Andrea e Antonio Frazzi), La guerra di Mario (2005, Antonio Capuano), Miracolo a Palermo (2005, Beppe Cino), La terra (2006, Sergio Rubini), Galantuomini (2008, Edoardo Winspeare), Gomorra (2008, Matteo Garrone), La siciliana ribelle (2009, Marco Amenta). Questi film come Amore tossico e i precedenti sopra citati rientrano in quel folto gruppo di film italiani che si occupano delle “zone” degradate della nostra società, di periferie, mafia, camorra, corruzione, degrado, droga, povertà ecc. A nostro avviso questo filone di film, non solo esibisce un modo neorealista, ma si trova in sintonia perfetta con i nuovi film politici francesi di cui parla O’Shaughnessy nel suo saggio, sia per stile filmico che per contenuti. Flm come Certi bambini o La guerra di Mario, per esempio, sono molto vicini a Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne. Tuttavia, rimaniamo dell’opinione che anche altri film italiani recenti di impianto più tradizionale come Mio Fratello è figlio unico e Tutta la vita davanti rientrino nel nuovo cinema politico e nell’”estetica del frammento”, nonostante non seguano in tutto e per tutto il modo neorealista e non trattino di “zone” particolarmente degradate della nostra società. 344 345 Tania Convertini La difficile partita familiare di un padre e di un figlio: Anche Libero va bene di Kim Rossi Stuart Il calcio è una metafora della vita. Jean Paul Sartre Libero: sul campo di calcio e in famiglia “Il calcio è una metafora della vita” sostiene Jean Paul Sartre1. Anche Libero va bene, opera prima di Kim Rossi Stuart porta nel titolo, in particolare in quel libero dal valore polisemico, il riferimento alla lingua calcistica, che si svela solo alla fine del film quando il piccolo Tommi, protagonista insieme al padre dell’intera vicenda, ottiene finalmente dal genitore, inizialmente contrario all’idea, di poter giocare a calcio. Tommi vorrebbe giocare come centrocampo e al padre che gli suggerisce il ruolo di libero, risponde per l’appunto: «Anche libero va bene». È proprio grazie a questa affermazione che lo spet1 Giorgio Casadio, nell’articolo Quando i libri facevano Goal apparso su «Il sole 24 ore» del 14 Giugno 2010 propone un interessante excursus del calcio nella letteratura. Sono molti gli artisti che hanno trovato ispirazione nel gioco calcistico, nelle sue dinamiche e nella lingua che lo distingue. Da Leopardi con la sua canzone A un vincitore nel pallone dedicata a Carlo Didimi di Treia, a Saba con le sue cinque poesie sul calcio, a Montale che utilizzandolo come metafora surrealista dichiara: «Sogno che un giorno nessuno farà più goal in tutto il mondo» e infine a Pasolini, per il quale il calcio era una vera e propria religione. L’autore ne era affascinato al punto da scrivervi un intero saggio, analizzandone il valore semiotico: «Il calcio» scriveva Pasolini «è un sistema di segni, un vero linguaggio, con una sua sintassi, che si esprime nella partita che, è un vero e proprio discorso drammatico». Nel suo testo Voce e Silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini Giacomo Manzoli cita un articolo del 1971 nel quale Pasolini affronta il tema della semiologia del calcio, definendolo un sistema di segni. L’articolo, intitolato Una semiologia per il Goal si trova anche in Una vita futura. 346 tatore attribuisce significato al titolo, inizialmente inteso esclusivamente come richiamo a più astratte e indefinite forme di libertà, che lasciano poi spazio ad una nuova chiave di lettura dell’interazione e delle dinamiche tra padre e figlio, del loro sguardo alla realtà e del loro modo di rapportarsi alla vita ed interpretarla. Il libero non ha una posizione fissa, e deve all’occorrenza sostenere l’attacco o la difesa dimostrandosi capace di agire e muoversi fluidamente. Con questa metafora il regista apre il campo (e non mi sottraggo io stessa al linguaggio calcistico) a quella metafora che andrà ad inserirsi efficacemente come sotto-testo del film. Padre e figlio sono, infatti, entrambi giocatori di una partita familiare e sociale difficile e complessa. Ciascuno a proprio modo, e dal proprio punto di vista, devono essere in grado, come il libero del titolo, di difendere o attaccare, in funzione di ciò che le circostanze richiedono. La vita di questa famiglia, in cui il ruolo del padre e il suo rapporto con i figli, in particolare con il figlio maschio, costituiscono l’elemento centrale della storia è, infatti, una gara quotidiana contro i problemi del lavoro precario, degli affetti mancanti, e della solitudine. La famiglia e la società in un gioco di spazi Kim Rossi Stuart nel narrare un intreccio di affetti difficili e travagliati si fa efficacemente portavoce dei problemi sociali che affliggono le nuove famiglie italiane. Se il termine “sociale’, nella sua accezione più ampia e tradizionale, indica quel sistema di organizzazioni e attività non strettamente legate alla vita personale dell’individuo e della famiglia, il regista dimostra, per contro, come la distinzione tra individuale e sociale non sia affatto netta, e come la vita della famiglia e i suoi spazi emotivi vengano influenzati dalla società che la circonda, i suoi problemi, i suoi valori, nonché la sua stabilità economica. Il tema famiglia-società e individuo-socialità, viene enfatizzato dal regista attraverso l’elaborazione del contrasto spaziale tra interno e esterno, proposto sin dalla prima scena del film. I bambini al risveglio, colti nel loro ambiente familiare, sono, infatti, i primi ad essere inquadrati dalla telecamera, che indugia sulla reticenza del piccolo 347 Tommi ad uscire dalle coperte, sui dispetti della sorella più grande che lo sveglia bruscamente rovesciandogli l’acqua di un bicchiere nel letto e sui cuscini tirati scherzosamente. Tommi inquadrato sullo sfondo della finestra Il padre di Tommi inquadrato sullo sfondo di una finestra Dal buio della stanza, ancora non illuminata dalla luce del giorno, viene offerto, attraverso la finestra dalle tende semiaperte uno scorcio dell’esterno. È questa una delle prime immagini di contrasto interno/esterno che il regista ci offre. La casa, l’intimità e il calore dell’ambiente domestico in contrapposizione al mondo sociale, la scuola, il lavoro e le istituzioni, entrambi luoghi della difficile partita familiare giocata da padre e figlio, vengono ripetutamente visualizzati dal regista che inquadra spesso i due nella cornice di una finestra o di una porta 348 o di un androne buio che si apre all’esterno, verso un mondo da scoprire e da capire. Gli sguardi di padre e figlio, filtrano e osservano le due realtà: la famiglia, rappresentata dalle mura e dagli ambienti domestici, con le sue abitudini, centro di gravità degli affetti, presenti e assenti, e il sociale, costituito dall’universo esterno fatto di luoghi istituzionali, come la scuola, o la piscina, dove Tommi è forzato dal padre a sostenere una competizione non voluta, cercando di superare se stesso e gli altri. L’esterno è soprattutto rappresentato da spazi aperti: il campetto, dove i bambini giocano a calcio, un ristorante in campagna, un deserto fittizio, set improvvisato di una scena pubblicitaria nel quale il padre lavora come operatore freelance (sinonimo di precario senza sicurezze), e una spiaggia dove, miracolosamente, la famiglia si riunisce e ricostituisce come tale, sebbene per una sola giornata, isolata dai problemi assillanti della quotidianità. Tommi sul tetto del suo palazzo In particolar modo, l’esterno è rappresentato dal tetto del palazzo, dove il piccolo Tommi si arrampica indisturbato per osservare il mondo dall’alto. Dal punto di vista della semiotica degli spazi il tetto assolve alla funzione di protezione, copertura e riparo, rivestendo, allo stesso tempo, il ruolo di linea di demarcazione ideale tra cielo e 349 terra. È in questo spazio, ancora facente parte della casa, eppure al di sopra di essa, che Tommi, nelle sue fughe pressoché quotidiane trova un suo personale rifugio e matura uno sguardo nuovo alla realtà, attraverso l’esplorazione del senso di libertà e della prospettiva di superiorità sui problemi del quotidiano e sul mondo che lo circonda. In equilibrio sulle tegole, muovendosi disinvolto e sicuro davanti allo spettatore ansioso e preoccupato per la sua sicurezza, Tommi osserva dall’alto la strada, le case, le macchine e le persone che si fanno piccole sotto di lui in una condizione di solitudine e allo stesso tempo di padronanza e possesso dello spazio esterno. Uno spazio che pare appartenergli e che egli pare dominare più di quello interno, capace, per contro, di generare in lui confusione e ansia. Il tetto, luogo eletto di rifugio, in cui il mondo circostante, confuso e distante, assume nitidezza attraverso le lenti di un binocolo, ha anche un chiaro significato topologico-culturale, trovando un riferimento nei rapporti e nelle opposizioni spaziali in cui viene rappresentata la realtà. Secondo il modello spaziale di Lotman le contrapposizioni spazio interno vs spazio esterno, basso vs alto, vicino vs lontano e chiuso vs aperto, sono in relazione con altre categorie oppositive come caldofreddo, sicuro-nemico, suono-silenzio, nonché alla contrapposizione eroe dinamico-antieroe statico (pp. 261-273). Nella loro partita familiare, padre e figlio sono entrambi eroi dinamici, se pure l’uno (il figlio) in uno stadio più evoluto dell’altro. Il padre, eroe imperfetto nelle sue manifestazioni di debolezza e di rabbia, pronto ad un gioco all’insegna dei cambiamenti; il figlio, eroe catalizzatore delle trasformazioni e dei cambiamenti, capace di adattarsi alle nuove situazioni e di giocare più ruoli allo stesso tempo, come il libero anticipato nel titolo. I rapporti di genere La dicotomia interno-esterno, così frequentemente proposta dal regista, se considerata come sinonimo di pubblico e privato, apre lo spazio a un’altra considerazione in merito ai rapporti di genere e ai loro effetti sui ruoli della maternità e della paternità. Se nella famiglia tradizionale, infatti, l’uomo svolge le attività nella sfera prevalentemente pubblica e la donna in quella privata, nel nuovo modello di famiglia italiana, che Kim Rossi Stuart propone, la polarità pubblico privato è superata. Nel suo studio sulle interazioni tra giovani e il nucleo 350 familiare il sociologo della famiglia Carmelo Carabetta fa opportunamente notare che2: Alla stregua di un veliero in mezzo al mare sempre inquieto, oggi la famiglia, spesso, è costretta a navigare senza equipaggio. Metaforicamente, su quel veliero, non di rado, si registra la presenza di un solo genitore, paragonabile al comandante e quasi sempre manca tutto l’altro equipaggio, ovvero il marito o la moglie e i figli, in un contesto slegato dal gruppo parentale e dalle altre storiche appartenenze, che nel passato rappresentavano una provvidenziale rete per la mediazione dei conflitti e la risoluzione di tanti problemi. In assenza di quei rilevanti appoggi e di altri punti di riferimento certi, o quantomeno conosciuti, il percorso di vita familiare si caratterizza come indeterminato, confuso e sperimentale e le scelte più semplici diventano difficili e problematiche in quanto non risolvibili con le metodologie segnate dagli schemi culturali tradizionali (39). È proprio questo il clima in cui si muove la famiglia che il giovane regista propone, sofferente e alla ricerca di un equilibrio spesso irraggiungibile in cui Il padre e il bambino devono giocare “liberamente” i loro ruoli, muovendosi tra una dimensione e l’altra e vivendone benefici e difficoltà. Una nuova famiglia Il privato delle mura domestiche, proposto nella prima scena del film, può apparire, ad una prima analisi, un quadro familiare mattutino del tutto comune: bambini al risveglio e un padre impegnato nell’incombenza, non facile, di avviare la giornata. Ma quando Tommi, undicenne poco incline a svegliarsi, si nasconde sotto le coperte e si riaddormenta, la voce fuori campo del padre, urlante e autoritaria, prende possesso della scena. 2 Per un approfondimento delle tematiche relazionali tra giovani e famiglia si veda lo studio sociologico Giovani cultura e famiglia, in cui Carmelo Carabetta analizza i molteplici mutamenti culturali che hanno investito l’universo familiare e le sue componenti, prestando particolare attenzione al ruolo dei figli e ai loro rapporti dinamici con i genitori. 351 Il padre di Tommi in una scena domestica La prevedibilità domestica, inizia a vacillare non appena l’uomo viene inquadrato, coperto da una maglietta che gli copre solo parzialmente le natiche nude. Il suo tono imperativo e autoritario, la voce forte e altisonante con la quale impartisce ordini e somministra rimproveri, appaiono in netto contrasto con il suo aspetto dimesso, trascurato e, al tempo stesso, poco credibile. La sua posizione dietro a un asse da stiro, nell’atto di stirarsi una camicia, il ferro in mano, brandito quasi come un’arma, anticipano l’assenza di un perno familiare importante: la madre. Il regista, sottilmente ma con efficacia, pone l’accento sulla condizione della nuova famiglia italiana in cui, tra i suoi nuovi molteplici volti, quello monoparentale è sempre più diffuso3. Tuttavia, se fino a qualche decennio fa, come rilevano Barbagli e Saraceno4, la responsabilità dell’andamento domestico nella famiglia monoparentale era prevalentemente femminile, oggi, all’insegna di una rivoluzione dei rapporti di genere, sempre più padri vengono investiti del ruolo di genitore unico. Il lavoro di cura, che per millenni è stato considerato compito femminile privilegiato, a partire dalla fisiologicità della maternità al conseguente accudimento, alla responsabilità delle relazioni affettive e di crescita in seno alla famiglia, fino alla creazione 3 Per un approfondimento delle problematiche relative alla famiglia monoparentale si veda Corsi. 4 Per un approfondimento si veda lo studio di Marzio Barbagli e Chiara Saraceno sullo stato delle famiglie in Italia. 352 del ben noto mito di “angelo del focolare”, è ora non più appalto esclusivo delle donne ma coinvolge, a pieno titolo gli uomini. La madre? “Lei va e viene” Ad enfatizzare la forte presenza paterna, e l’assenza della madre dal quadro familiare, la telecamera di Kim Rossi Stuart si sofferma sull’uomo, impegnato nelle sue incombenze quotidiane, dalla preparazione della colazione, al rimprovero dei bambini per il disordine della loro camera, allo spiacevole ruolo di regolatore del tempo d’uso del computer. Indugia poi, a sera, nel buio della camera da letto, sui volti di padre e figli, addormentati insieme, nel letto, in un atteggiamento di intimità affettiva che insinua nello spettatore un senso di mancanza, di vuoto e di sottile tristezza. La madre è assente e, per usare le parole di Tommi, “lei va e viene”. La donna non è, infatti, in grado di rimanere legata al suo ruolo di madre e moglie con le responsabilità affettive che ne derivano. È attratta da uomini più ricchi o più interessanti e, per seguirli, si allontana ogni volta dalla famiglia, per poi tornarvi e allontanarsene nuovamente. Infatti, quando ci siamo abituati all’ idea della sua assenza, quando l’abbiamo accettata e razionalizzata, eccola che ricompare, prodiga di attenzioni e desiderio di essere perdonata e reintegrata nel ruolo di madre dai propri figli. Non importa che tipo di madre un bambino abbia perduto, o quanto difficile sia vivere con lei. Non importa se le sue mani lo abbracciano o gli fanno del male. Separarsi dalla madre è peggio che essere nelle sue braccia mentre intorno esplodono le bombe. Separarsi da lei è peggio che non stare con lei anche se la bomba è lei. Perché la presenza della madre – di nostra madre – significa sicurezza. La paura di perderla è il primo terrore che conosciamo. […]. L’angoscia di separazione scaturisce dalla pura verità che, senza una figura che si occupi di lui, il neonato morirebbe (Viorst p. 22)5. È così che la psicoanalista Judith Viorst descrive l’abbandono subito da parte della madre. 5 Judith Viorst, psicoanalista e scrittrice di libri per l’infanzia, ha studiato approfonditamente la relazione madre-figlio/a. Il suo testo più significativo, dal quale citiamo è: Necessary Losses. 353 Il trauma, a parere della studiosa, può provocare danni permanenti, ferite da cui è difficile guarire. I bambini, aggiunge Judith Viorst, possono reagire diversamente all’abbandono materno e non è infrequente assistere a reazioni di distacco e sospetto ad un eventuale ritorno della madre. Ciò avviene quando il bambino mette in atto una chiusura dei sentimenti affettivi allo scopo di auto proteggersi da ulteriori sofferenze (p. 23)6. La triade madre e figli ricongiunta al ritorno della madre È questo il caso di Tommi, che possiede l’intuito e l’esperienza di chi è già stato abbandonato troppe volte e non può fidarsi e affidarsi, concedendosi nuovamente all’affetto della madre. Al suo ritorno teatrale di madre pentita in cerca di perdono, Tommi reagisce con moderata cautela, pensoso e riflessivo sul da farsi, desideroso dell’abbraccio materno ma incapace di abbandonarvisi. Viola, la sorella, alla disperata ricerca di una figura d’identificazione femminile, accetta invece con gioia il ritorno della madre e si schiera complice al suo fianco, anche correndo il rischio di un ennesimo abbandono. La bambina, che nel suo tentativo di compensare la mancanza della figura materna, si era lanciata in un’esplorazione quasi ossessiva del proprio corpo e della sessualità, è in cerca di un modello con il quale identificarsi e la madre, con il suo ritorno, potrebbe offrirsi come tale, colmando il vuoto esistente. 6 Citazione non testuale, parafrasata e tradotta dal testo inglese. 354 Particolarmente espressiva un’inquadratura dei tre, nell’anticamera di casa, seduti su una panca, in attesa del padre e del suo giudizio. La madre e la figlia, vicine, i volti accostati in un atteggiamento di intimità, riprendono senza difficoltà la comunicazione interrotta dall’abbandono. A sottolineare la vicinanza tra le due, una corrispondenza di identità, sottolineata dal colore uguale dei loro maglioni che ripropone l’eterno gioco di madre e figlia, l’una specchio dell’altra. Tommi le osserva, silenzioso e pensoso, a dovuta distanza, timoroso di colmare quello spazio fisico e affettivo che lo separa dalla madre. Il volto della donna è illuminato in un gioco di luce/ombra ad evidenziare il contrasto insito nella sua natura sfuggente, il suo desiderio di essere riaccolta e il suo costante bisogno di fuga. Il personaggio della madre, anche nelle intenzioni del regista è complesso e pieno di contraddizioni e, certamente, non concepito come negativo tout court. Così Kim Rossi Stuart la descrive in un’intervista: «La madre è il motore drammaturgico della storia. Non è una persona superficiale, una casalinga annoiata. L’ho sempre pensata complicata, ha delle nevrosi profonde che la spingono nel baratro della voragine emotiva; a quel punto, può solo scappare»7. In questa partita familiare, difficile e spesso dolorosa, Kim Rossi Stuart ha il pregio di non schierare i buoni contro i cattivi. La sua è una storia fatta di compromessi, accettazioni, accomodamenti e scoperte graduali in cui padre e figlio, uniti da un amore profondo, giocano i loro ruoli da molteplici posizioni e punti di vista. Le violenze verbali e fisiche, prima e istintiva reazione del padre al ritorno della moglie, alla quale non può perdonare l’abbandono, lasciano presto il posto al desiderio di riannodare i fili spezzati di un affetto familiare e di un amore di coppia per la cui mancanza tutti in famiglia hanno sofferto a lungo. Se il padre è desideroso di credere al ritorno e al cambiamento che possono significare la ricostruzione di un quadro familiare di normalità, Tommi, al contrario già anticipa il suo nuovo abbandono: «tanto se ne rivà», sono le sue parole al padre quasi a metterlo in guardia da una nuova sofferenza. L’intermittenza del rapporto con la madre, che non è stata testimone costante della sua crescita, ha segnato Tommi in modo definitivo. Ad una visita dal dottore la donna non è in grado di rispondere ad 7 Intervista pubblicata sul sito culturale della RAI «Italica». Riferimento completo in bibliografia. 355 una semplice domanda di routine sulle malattie infettive contratte dal bambino. «L’ha avuta la varicella?» le chiede il medico, ma i suoi vuoti di presenze, il suo andare e venire di madre, che è uscita ed entrata dalla vita della famiglia e dei suoi figli, non le permettono di ricordare. È il bambino che deve sopperire alla mancanza, testimoniando per se stesso, e le proprie malattie, e assumendosi così la responsabilità del proprio presente e del proprio passato. I segni di insofferenza che la giovane donna ha per la vita familiare e per le sue responsabilità non tardano a mostrarsi e, dopo una breve apparizione, foriera di una passeggera illusione di normalità, scompare nuovamente. È proprio Tommi, tornando a casa, una sera, a notare la finestra dalle luci spente e a mettere immediatamente in relazione, forte delle precedenti esperienze, l’oscurità con l’assenza e l’ennesimo abbandono. La famiglia perfetta del terzo piano Alla famiglia sofferente, dagli affetti instabili e carenti, il regista contrappone un altro tipo di famiglia, dai rapporti stabili e sereni: la famiglia del terzo piano, significativamente posizionata, anche dal punto di vista spaziale, in un piano di perfetta medianità ed equilibrio. Benestante, felice, ed equilibrata, la famiglia del terzo piano rappresenta il prototipo di gruppo familiare radicato nell’immaginario collettivo. A conferma ulteriore del suo equilibrio, tre sono i suoi componenti: la triade mamma papà bambino, uniti in un rapporto di amore e reciproca comprensione. Tre è il numero perfetto dell’equilibrio, nonché la tipologia di composizione più frequente della famiglia italiana formata da due genitori e un figlio unico8. Anche la famiglia di Tommi è una triade ma, contrariamente alla famiglia del terzo piano, i membri sono tre, a seguito di una sottrazione, e non in virtù dell’equilibrio e della perfezione. I genitori della famiglia perfetta vanno d’accor8 Lo statistico Roberto Volpi, ha attentamente analizzato la costituzione delle famiglie italiane e afferma che: «la percentuale di coppie con un solo figlio supera decisamente, già oggi, il 45 % di tutte le coppie con almeno un figlio. Quasi una coppia su due tra quelle che hanno figli ha un solo figlio. Non sappiamo – sia chiaro – se questo figlio resterà l’unico, sappiamo che se fotografassimo oggi l’Italia delle coppie troveremmo che il figlio unico lungi dal rappresentare una rarità è già, a questo momento, una tipologia molto frequente e che si appresta a diventarlo ancor di più» (C’erano una volta i bambini p. 12). 356 do, parlano con il figlio e tra di loro, si comprendono a vicenda e sono felici, avendo costruito un sistema di relazioni e comunicazioni sia affettive che fisiche, gratificanti per tutti i componenti del gruppo familiare, contrariamente alla famiglia di Tommi, dove i rapporti quotidiani sono difficili e carichi di ansie, difficoltà, sofferenze e conflitti. Quando Tommi entra per la prima volta nell’appartamento dell’amico, dalle stanze ordinate, luminose e spaziose, in netto contrasto con lo spazio abitativo occupato dalla sua famiglia, sempre nell’ombra e sommerso dal disordine, trova l’amico Antonio in un momento di intimità fisico-affettiva con la mamma. Il bambino le sta facendo un gentile massaggio alla schiena e tra i due corre una vibrazione di reciproca confidenza che Tommi, per conto suo, ignora e che rimane ad osservare stupito e cosciente della mancanza. L’amico del terzo piano e sua madre: un rapporto di intima confidenza Quali modelli familiari per Tommi? Se la famiglia, tra le sue molte funzioni, ha quella di offrire dei modelli a cui fare riferimento per la crescita, è evidente, dal contrasto tra i due nuclei familiari, come per Tommi, tali modelli siano pieni di contraddizioni e problemi non risolti. La madre è immatura e incapace di offrire garanzie. I suoi comportamenti, quando è presente in famiglia, sono all’insegna della violazione di ogni regola sociale. Il primo effetto del suo ritorno a casa è un giorno di vacanza dalla scuola per i bambini. Allo stesso modo, senza alcun preavviso la donna decide di 357 concedere a sé e a Tommi un giorno speciale e lo sottrae, senza preavviso, nel bel mezzo della lezione, ai suoi normali impegni scolastici e sportivi. Quando il bambino le fa notare che ha preso una multa per divieto di sosta, la sua immediata e istintiva reazione è gettarla nel più vicino cestino per la spazzatura, ignorandone il valore di sanzione e il conseguente prezzo da pagare. Il padre, se pure mosso da un grande amore verso i figli e da un costante desiderio di creare una famiglia per loro, è incline a frequenti scatti di rabbia e amarezza nei confronti della società che lo ha relegato in un ruolo senza sicurezze familiari o lavorative. I bambini, tanto Tommi che Viola, sono testimoni dei suoi scoppi d’ira, delle violente discussioni e del suo temperamento irruento. Nell’ufficio di un cliente da cui deve riscuotere da tempo del denaro per una parcella mai saldata, impone al figlio la vista di una scena sgradevole e violenta. Gli insulti e la violenza fisica e verbale producono tuttavia il risultato voluto (il cliente gli firma l’assegno richiesto) offrendo così a Tommi l’esempio che l’attacco è il mezzo più consono per ottenere ciò che ci spetta e difendere i nostri diritti. Tommi e suo padre: se si gioca da liberi si vince Lo scoppio d’ira più brusco e violento è diretto proprio a Tommi. Il quale, nel desiderio di allontanarsi dalla realtà familiare cupa e difficile, chiede al padre di passare una settimana bianca con Antonio, il fortunato amico del terzo piano. Il desiderio è quello, per una volta, di sottrarsi alle preoccupazioni, alle urla, alle lotte che le giornate portano con sé per immergersi, anche se per pochi giorni, nella normalità di un’esistenza sicura e senza scosse. Alla sua richiesta, la rabbia del padre esplode: «Siamo sommersi dai debiti, ci stanno per togliere la casa, sto nella merda fino a qua, e tu vuoi andare in settimana bianca?» urla l’uomo in un’esplosione di violenza fisica e verbale che tra pugni agli oggetti che lo circondano e bestemmie, si conclude nella cacciata di casa di Tommi, letteralmente buttato fuori dalla porta di casa. Rabbia e disperazione hanno lo stesso volto, in questa scena, in cui l’uomo, è incapace di controllare la sua frustrazione familiare e sociale. Due mondi si scontrano davanti ai suoi occhi: la sua famiglia in preda alla lotta quotidiana contro i debiti, che rischia di perdere anche la casa, ipotecata nell’estremo tentativo di inseguire un sogno di stabilità lavorativa, e gli altri, quelli diversi da loro, la famiglia 358 borghese con i condizionatori d’aria alle finestre e la domestica che serve a tavola, quelli che nella società hanno ottenuto il loro posto e possono permettersi la settimana bianca, da sempre status symbol sociale di successo. «Ma pagano loro…» dice Tommi, pensando di mitigare la rabbia del padre e colpendolo, invece, ancora più a fondo, nel suo amor proprio. La violenta e incontrollata reazione che investe il piccolo Tommi, lo lascia, ancora una volta solo ad affrontare la realtà e a dover decidere da che parte stare. Partire per la settimana bianca e lasciarsi alle spalle, anche se per breve tempo, la difficile realtà familiare o tornare invece tra le mura che sono la sua casa e i suoi affetti? A Tommi non interessa vincere, né stare dalla parte di quelli che vincono. Una madre assente e inaffidabile, un padre arrabbiato e in lotta con il mondo eppure sempre impegnato, nel bene o nel male nel difficile e faticoso ruolo di genitore, hanno offerto a Tommi gli strumenti e la maturità emotiva che gli permettono di muoversi nelle situazioni della vita da libero, fluidamente, cercando nella realtà quel che c’è di buono e adattandovisi. Per questo Tommi torna da suo padre, anche dopo essere stato malamente cacciato di casa. Torna per riconciliarsi, per offrirgli quel supporto che è poi la base dei rapporti familiari, all’insegna della comprensione ma anche della mediazione, uniche condizioni per rimanere in gioco nella partita familiare. È in un gesto di estremo avvicinamento verso il figlio, che il padre rinuncia ad imporgli lo sport del nuoto permettendogli di giocare a calcio. Tommi vorrebbe giocare da centrocampo ma il padre suggerisce: «A me mi piace libero». «Anche libero va bene» è la risposta di Tommi al padre, laddove, libero è il ruolo a cui il padre aspira e quello che Tommi ha giocato, con naturalezza e abilità per l’intera storia. Works Cited Anche Libero Va Bene, Kim Rossi Stuart, 2005, 01 Distribution, DVD. Barbagli, Marzio, Chiara Saraceno, Lo Stato delle Famiglie in Italia, Bologna, Il Mulino, 1997 Carabetta, Carmelo, Giovani, cultura e famiglia, Milano, Franco Angeli, 2010. 359 Casadio, Giorgio, Quando i libri facevano Goal, «Il sole 24 ore» 14 Giugno 2010. Corsi, Michele, La famiglia: una realtà educativa in divenire : storia, teoria e prassi alle soglie,degli anni 2000, Milano, Marietti, 1990. Intervista al regista Kim Rossi Stuart sul film Anche libero va bene, RAI, http://www.italica.rai.it/index.php?categoria=cinema&sche da=ancheliberovabene_intervista. Leopardi, Giacomo, I canti di Giacomo Leopardi, Firenze, Sansoni, 1902. Lotman, Jurij M., La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1976. Manzoli, Giacomo, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, Bologna, Pendragon, 2001. Pier Paolo Pasolini, Una semiologia per il goal in Betti, Laura, Giovanni Raboni, e Francesca Sanvitale, PierPaolo Pasolini: Una vita Futura, Milano, Garzanti-Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1985. Saba, Umberto, Il canzoniere, Milano, A. Mondadori, 1963. Viorst, Judith, Necessary Losses: The Loves, Illusions, Dependencies, and Impossible Expectations That All of Us Have to Give Up in Order to Grow, New York, The Free press, 1986. Volpi, Roberto, C’erano una volta i bambini, Venezia, La Nuova Italia, 1998. 360 361 Salvo Cuccia Il cinema di De Seta e la trasformazione della società. Dal Meridione visto da De Seta ad oggi, attraverso la poesia del reale e il documentario d’autore Sono passati quasi 60 anni ormai dal primo documentario di De Seta sulla pesca del pesce spada, più di mezzo secolo lungo il quale la forma del documentario ha attraversato alterne fortune. Vinni lu tempu di li pisci spata? è pura poesia del reale, eppure il suono e l’immagine non venivano girati da De Seta nello stesso momento: dedicava alcuni giorni alle riprese delle immagini e altri a quelle del suono. Anni fa il mio grande maestro “involontario” Raùl Ruiz sottolineava con ironia il fatto che il cinema neorealista fosse tutto doppiato e non si spiegava allora dove stava la realtà. Per un grande maestro del cinema immaginifico come lui, è pressoché impossibile parlare di realtà in senso oggettivo e di cinema del reale tout court. Anche De Seta fu costretto a doppiare in italiano dal sardo il suo Banditi ad Orgosolo, opera prima vincitrice a Venezia nel 1961. Ad ogni modo De Seta con i suoi documentari degli anni ’50 introduce nel cinema italiano una modalità di suono dal vero – che spesso veniva escluso per dare corpo alla voce fuori campo – che restituiva la voce ai poveri pescatori, ai contadini, agli zolfatari siciliani, ai pastori e alle donne sarde, ai derelitti di quel sud lontano da tutto e abbandonato a se stesso. Ed è dunque portatore di una grande volontà di sguardo sul mondo dalla parte dei poveri, dei dimenticati (come titola il suo ultimo documentario dei 10 degli anni ’50). Il corpus dei 10 documentari è un tesoro inestimabile non solo dal punto di vista cinematografico, ma soprattutto dal punto di vista poetico e antropologico: De Seta si accorge che quel mondo sarà definitivamente cancellato e lo fissa per immagini e suoni in un racconto che si snoda attraverso vari luoghi del sud, dalla Sicilia alla Sardegna e alla Calabria, con una sensibilità nuova, inedita. Le stesse immagini della mattanza si vedono in altri film documentari 362 precedenti, come ad esempio anche quelli della Panaria film, altro capitolo importantissimo per il cinema siciliano che si propaga per importanza in Italia e all’estero, ma gli obiettivi sono diversi: per De Seta i corpi, i volti, gli sguardi, il paesaggio, le azioni degli uomini si fondono in una sinfonia naturale. Il contrappunto tra il racconto della società arcaica, i suoni naturali, l’utilizzo delle tecnologie più antiche e l’irruzione della modernità – attraverso i motori dei pescherecci o il rumore della trebbiatrice che arriva al tramonto in “parabola d’oro” diviene il nucleo centrale del racconto desetiano. De seta racconta una vita che si è svolta fino a quel momento con quelle modalità fin da 5000 anni prima e che adesso viene messa in discussione dal nuovo che incede. Utilizza il colore e il formato largo, cinemascope, in quasi tutti i documentari, cosa che lo distingue da tutti gli altri autori del tempo che nei documentari utilizzavano il formato più stretto e il bianco e nero. Anche l’utilizzo di questi elementi diversi creano una nuova sensibilità e una volontà di sperimentare, di mettersi in gioco. Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di incontrare un grande autore argentino, tra i fondatori del nuovo cinema latino americano: Fernando Birri, che ha fondato la scuola di cinema di Santa Fe e nell’85 la scuola di cinema dei tre mondi di Cuba, voluta da Gabriel Garcia Marquez e da Fidel Castro. Birri inizia negli anni ’50 in Italia diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia, attratto, come tanti in Sud America, dalla nuova onda italiana di quegli anni: il neorealismo. Il cinema italiano era altissimo e tutti ne erano affascinati, da tutte le parti del mondo. Il neorealismo, partendo dal suo autentico seme? come mi racconta Birri? e cioè Gramsci, prorompe per espandere le sue modalità ad altre cinematografie anche lontane. Non per niente Birri è considerato il fondatore del nuovo cinema argentino alla fine degli anni ’50, prendendo energia e ispirazione dallo slancio dato da film come La terra trema e da Zavattini. E gira prima in Sicilia, proprio in questa Sicilia, tre cortometraggi di cui uno irrimediabilmente perduto, Alfabeto notturno del 1952, sull’alfabetizzazione. Gli altri due sono Selinunte (1951) e Immagini popolari siciliane (Sacre e Profane) (1952), questo ultimo con la co-regia di Mario Verdone, che era suo insegnante alla scuola di cinema. È stato assistente di Cario Lizzani nel film Ai margini della metropoli (1953), di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini nel film Il tetto (1954) e ha sceneggiato nel 1955, col regista messicano Emilio Fernández -El Indio-, un «remake» de Las abandonadas, 363 mai realizzato, che avrebbe voluto girare sempre in Sicilia, a Torretta, dove vedeva le stesse donne del Messico. E in queste imprese si lega a Vittorugo Contino, allora operatore di macchina e in seguito fotografo di scena di De Sica e altri autori e a Enzo Sellerio, che inizia proprio dal 1952 a fotografare. Dunque parliamo di una generazione 25/26enni, oggi ultraottantenni, che in un incontro privato da me registrato tra Birri e Sellerio, parlano di utilizzo di tecnologie digitali come se fossero dei giovanissimi: allora mi chiedo dove sta la vitalità se non da quelle parti. Sellerio dice che non tornerebbe mai più alla camera oscura avendo ottimi laboratori che gli stampano il digitale nel suo bianco e nero! E Birri che replica dicendo che anche lui gira in digitale! E De Seta che ha girato il suo ultimo film Lettere da Sahara tutto in digitale, mettendosi di nuovo in gioco con le nuove tecnologie. E il centro di interesse per me sta proprio in questa curiosità, in questa voglia di sperimentare di una generazione che possedeva e possiede tuttora uno strumento oggi paradossalmente perduto per la maggior parte dei giovani documentaristi e cineasti: la profondità dello sguardo e la volontà di sperimentare. E non solo: la profondità dell’indagine sulla realtà che aveva il carattere dell’esattezza (per citare uno dei parametri dettati da Calvino nelle sue Lezioni americane, perché il loro lavoro era profondamente politico, sociologico, umano (con l’uomo al centro delle immagini, come dice De Seta) e allo stesso tempo viscerale e istintivo. Ma di cosa è testimone De Seta, insieme a quellidella sua generazione? È testimone dell’inizio di quella Grande Trasformazione, come la chiama il geografo Eugenio Turri (autore di un imperdibile saggio? Semiotica del paesaggio italiano?), Grande Trasformazione che traghetterà il nostro paese dalla società arcaica a quella caotica e mediatica dei nostri giorni. De Seta aveva conosciuto il gruppo della Panaria Film e ne prende le distanze, per indole e per intenti, pur riconoscendo loro la capacità di sperimentazione pionieristica senza precedenti. Lui però punta al racconto poetico e realistico allo stesso tempo di un mondo che sarebbe scomparso di lì a poco, preferendo la forma del documentario anche quando intraprenderà la strada del cinema di finzione: Banditi a Orgosolo è girato con i pastori e le donne di Orgosolo e non con attori professionisti. E anche a distanza di anni ripeterà l’esperienza nei primi anni Settanta con Diario di un maestro film in 4 puntate per la RAI con i ragazzini della periferia romana, che in qualche modo contribuì 364 non poco a creare un dibattito pubblico sulla scuola moderna, ricco di polemiche provenienti da più parti. Le polemiche erano scoppiate anche anni prima col suo secondo film Un uomo a metà, primo film psicanalitico girato in Italia: da sinistra gli rimproveravano di aver “tradito” il suo esordio con Banditi a Orgosolo perché si trattava di una storia borghese in un momento in cui bisognava sostenere invece quella lotta di classe che non poteva lasciare niente al privato. Pasolini e Moravia, voci solitarie e potenti, furono tra i pochi a difendere il lavoro di De Seta. Al Tribeca Festival del 2005, Scorsese invitò De seta e il sottoscritto per il suo Tribute to De Seta. De seta raccontava al pubblico dei suoi incontri con Fellini a Roma e di come Fellini avendo conosciuto lo psicanalista che gli presentò De Seta fosse approdato al progetto del suo magnifico 8 e 1/2. Mentre lo ascoltava, Scorsese guardava il pubblico come volesse dire: «Guardate chi vi sto facendo conoscere!», anche lui con lo stesso atteggiamento e la curiosità di un giovane all’inizio della sua carriera! Scorsese mi raccontò che il giorno prima aveva incontrato Jack Nicholson (stavano per iniziare le riprese di The departed) che gli aveva raccontato di aver fatto un film western che era il remake di Banditi a Orgosolo. E dunque il cinema italiano continuava ad essere un modello per altre cinematografie e per Hollywood. E lo sarà fino alla fine degli anni ’70. Anche in questo caso, pur trattandosi di un film fortemente autoriale, politico. Dunque tutto cambia dagli anni ’50, quando Andreotti aveva fortemente limitato il neorealismo liquidandolo come cinema “pessimista” che l’Italia non si poteva permettere, alla fine degli anni Sttanta che si chiudono con l’omicidio Moro da parte delle Brigate rosse che segna la vera fine del compromesso storico DC-PCI e l’avvento del Craxismo e del nuovo corso degli anni ’80, in cui cambiano molte cose, fino alla caduta del muro e oltre. Sono gli anni dell’ascesa mediatica di Berlusconi e delle sue televisioni e dunque della trasformazione del modo di vedere la realtà. Gli sguardi iniziano ad essere sempre più viziati dalla cattiva influenza della televisione commerciale. Ma facendo un passo indietro, il nostro desiderio di cambiamento si esprime nell’utilizzo del cemento e poi dell’alluminio anodizzato materiale quest’ultimo che Woody Allen definisce diabolico addirittura – che diventano i simboli di una trasformazione che va avanti velocissima e che allo stesso tempo fa in qualche modo un passo indietro rispetto al passato perché non ha fondamenta culturali tali da 365 poter durare, come i palazzi costruiti dal sacco di Palermo in poi o ai nuovi quartieri di Napoli di cui ci parla Rosi nel suo Le mani sulla città. È a questa nuova realtà “imprenditoriale” a cui il sud rimane attaccato fio ai nostri giorni e con cui fa i conti continuamente. Personalmente sono stato catturato dall’opera di De Seta per il fatto che appartengo ad una generazione che ha vissuto sulla propria pelle il proseguo di questa Grande Trasformazione di cui quella generazione racconta la genesi. E ho trovato nel suo cinema e nel cinema di tanti altri di quel periodo, alcuni elementi di risposta a quello che erano stati il mio malessere e il mio disagio adolescenziali, che non erano un fatto solo mio intimo e personale, ma che appartenevano alla mia generazione, che si trovava negli anni ’70 al centro di quel trasbordo, almeno in Sicilia. Nel ’68 avevo assistito allo sbarco sulla luna e dalle mie parti c’era stato quel terremoto che lascerà strascichi per decenni: lì c’era Danilo Dolci che fa politica, quella vera, che lotta per l’acqua, per i diritti fondamentali delle classi povere, per l’alfabetizzazione, per il diritto al lavoro. E che fonda la prima radio libera in Italia. Libera e clandestina: viene chiusa dopo meno di 48 ore ma rimane nella storia. La Radio dei poveri cristi che intende dare voce ai poveri e ai terremotati. Il Sessantotto è anche il momento di un altro terremoto, quello generazionale. E io mi trovavo ancora ragazzino in un piccolo paese della profonda provincia siciliana dove c’erano i contadini che si chiedevano come mai la Democrazia Cristiana incentrava di continuo le campagne elettorali sulla costruzione del famigerato ponte sullo Stretto, di cui non a caso si continua a parlare oggi. E mi è rimasta impressa come immagine di sintesi quella di un contadino che passa con il suo mulo davanti ad un muro su cui è affisso uno di quei manifesti con questo ponte lontano mille miglia dal suo mondo che era circoscritto e si estendeva solo per pochi chilometri: da casa sua, stalla compresa, alla campagna dove ogni giorno si recava per lavorare sotto il sole o sotto le intemperie. E un?altra immagine di sintesi per me rimane quella dell’accostamento di due mondi: le immagini di Jimi Hendrix da un lato e quella di un don di mafia dall’altro. Mi piace condensare così quel periodo, i miei anni ’70 che per certi versi erano simili a quegli altri anni che li avevano preceduti, perché quasi niente era cambiato. Ho registrato tempo fa una testimonianza di un altro grande fotografo siciliano: Ferdinando Scianna, durante un suo ritorno in Sicilia per una sua mostra che ripercorreva i suoi anni sessanta e settanta 366 a Bagheria, stessa città di Guttuso e Tornatore. Città in cui muore anni dopo Giacomo Giardina, poeta pecoraio e futurista, che quando ero ragazzo conobbi a Godrano, paese ai limiti del bosco di Ficuzza, ad un passo da Corleone. Luoghi del poeta che Marinetti incoronerà futurista. E alla mostra di Scianna ho osservato a lungo il viso scavato di Giardina nell’atto declamatorio. Era strano vederlo declamare a Godrano negli anni Settanta tra gli allevatori e i vaccari del luogo: con quel viso imperscrutabile andava avanti tra l’interesse di qualcuno e l’indifferenza di altri, di cui aveva l’accortezza di non curarsi completamente. Credo che quel volto sia una testimonianza forte di un emissario di cultura, di poesia, di creatività e creazione in un microcosmo che per assurdo ospitava tutti. Oggi invece non c’è più spazio per la poesia e l’immaginazione e il paradosso è che viviamo in un epoca di immagini e il grado culturale della popolazione dovrebbe quantomeno essere più elevato: ma ciò è solo un’apparenza, una formalità. Ciò che mi è rimasto impresso è il racconto di Scianna sulla partenza e sul ritorno, di ciò che cambia e di ciò che si ritiene nella propria memoria, immutabile e che invece si trasforma con lentezza e allo stesso tempo con velocità. Scianna mi parla di quell’Itaca che si lascia e che non c’è più perché vive solo nel ricordo, perché al ritorno tutto è cambiato e niente è come te lo se immaginato negli anni e nel tragitto di ritorno. E Scianna nasce artisticamente con il sostegno di Leonardo Sciascia, il grande scrittore e intellettuale siciliano. E la vita letteraria di Sciascia nasce molti anni prima proprio in quelle stanze in cui ho incontrato Fernando Birri e Enzo Sellerio. I suoi inizi sono all’insegna del grande rapporto intellettuale e professionale con Elvira Sellerio, rapporto che si propaga nel tempo. Scianna è tenuto a battesimo dal suo “nume tutelare” come lo definisce egli stesso, Leonardo Sciascia, il grande scrittore e intellettuale siciliano, ma anche da Cartier Bresson e da altri intellettuali e artisti, tutti di calibro internazionale. Mi racconta anche di aver “ritrovato” la sua Bagheria nella prima notte passata in una Bagdad post prima guerra del golfo, tra strilli incomprensibili per i suoi compagni di viaggio (gente del nord), che sembrano inneggiare alla guerra e all?insurrezione. Niente di tutto questo: gli strilli a lui diventano improvvisamente familiari perché riconosce in quelle voci in arabo, le voci siciliane di quelli che “abbanniavano” i tragitti delle corriere che collegavano negli anni ’60 Bagheria a Palermo, Porticello e altri paesi vicini. E in quel luogo 367 lontano ritrova improvvisamente la sua Itaca, in un altro luogo e in un altro tempo. E Sciascia lo ritrovo invece in una collaborazione con Folco Quilici nel suo splendido Italia dal cielo, Sicilia degli anni Settanta, in cui viene rappresentata una Sicilia ancora arcaica e piena di difetti e tic che, vista dall’alto ritrova la sua magnificenza e che si può osservare con distacco. La stessa cosa diceva Sciascia da Parigi: «da qui le cose mi appaiono più chiare». È il paradosso del vivere dentro i luoghi e le situazioni e di rivederli poi nella loro interezza da lontano, in un gioco tra macro e microcosmi. E Sciascia lo troviamo giovanissimo al suo debutto con gli editori Elvira ed Enzo Sellerio, che sono i primi a pubblicare i suoi libri. Nelle stesse stanze della casa editrice in cui si animavano dibattiti intellettuali e che generavano tanta cultura, ritrovo pochi giorni fa Sellerio con Birri a parlare degli anni ’50 come se il tempo non fosse trascorso. Scianna viaggia, tutti viaggiamo, anch’io viaggio. Forse qualcosa si può concretizzare alla fine del viaggio, come una summa, ma è sempre molto poco. Si può fare una sintesi, estrarre un pensiero possibile, più spesso frammenti e riflessioni sparse, da mettere insieme a seconda della propria sensibilità. Se si cerca un senso nelle cose, esso sfugge immediatamente, perché bisogna afferrare ciò che si vive durante il viaggio per metterlo a confronto con ciò che si ricorda del viaggio. Scianna mi dice che non è nella rappresentazione del tutto, ma anche in un solo frammento di quel tutto. Per tale motivo non ritengo mai chiusa un’opera, ma aperta a qualcos’altro che non conosciamo e che continua anche dopo l’opera stessa. C’è qualche prolungamento a cui ci porta un film o un documentario, una zona nuova, un punto da cui ricomincia il viaggio, l’esplorazione, la sperimentazione. Per questo un film non finisce mai. Io la mia Itaca ideale e visionaria l’ho ritrovata in un film fondamentale di De Sica-Zavattini: Il giudizio universale. Film corale, ambientato in una Napoli in cui tutti sono intenti nei loro piccoli e grandi traffici, tra mille contraddizioni. Film in cui si sublima ciò che da lì in poi ho sempre pensato come momento di espressione alta: la fusione del reale e dell’immaginifico. Una voce da quel cielo plumbeo di una Napoli piovosa annuncia che alle 5 ci sarà il giudizio universale! Questi elementi che si innestano e divengono uno parte dell’altro rappresentano il sud nella sua totalità e interezza. Un mondo fatto di crudeltà, di magia e di imbroglio. Un mondo 368 fatto di credenze e di intrighi, di malandrini, fattucchiere, mafiosi, trafficanti e povera gente, di gente normale che vuole malgrado tutto vivere una vita “normale”, europea si dice oggi quando si parla delle città del sud che sono diventate europee: ma non lo sono sempre state a modo loro? Da “il pensiero meridiano” di Cassano in poi, abbiamo sognato un sud che si tiene a parte e che ci tiene a parte della sua ricchezza culturale e intellettuale e che contiene tutto e niente allo stesso tempo. A me interessa più il nulla come dato culturale. Anni fa Miriam Palma, una mia cara amica, artista della voce ineguagliabile mise in scena uno spettacolo dal titolo I paesi del nulla, lei di Santo Stefano Quisquina, dove c’è una grotta in cui si dice abbia albergato Santa Rosalia, la Santuzza di Palermo: una città che ha come Santa protettrice una Santa bionda, normanna che è anche un mito (non si sa se sia veramente esistita, eppure fa miracoli), non può che essere pur nella sua durezza, una città immaginifica, in cui il potere della visione dei suoi abitanti è più forte persino di quello della parola. Voglio reinterpretare a modo mio il detto palermitano “La migliore parola è quella che non si dice”: non rappresenta per me l’omertà solo per come la conosciamo, ma perché il valore delle nostre visioni è così forte che le parole a volte o sono superflue o insufficienti. Ma per tornare ai “Paesi del nulla” proporrei oggi Villafrati, il mio paese di origine, piccolo centro di 3000 abitanti, all’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità. E lo proporrei insieme a tutti gli altri paesi siciliani e del sud. Il nulla è questo deserto con cui, svoltato l’angolo della via principale, ti ritrovi a tu per tu. Un deserto mentale e psicologico che per paradosso ti invita al superamento di ogni cosa, di ogni difficoltà. E diviene luogo di percezione assoluta, sotto un sole che è come una coltre beyussiana, un enorme feltro che ricopre tutto e tutto diviene oscuro, inestricabile. E da questo celare nasce l’espressione, l’immaginazione, il racconto. Perché sotto questa coltre è nascosto un tesoro incommensurabile. E quel nulla di cui parla, Miriam Palma lo sintetizza in un gesto metronomico che scandisce il tempo come il direttore d’orchestra che dirige un brano di John Cage: usa le braccia come due lancette d’orologio. O come le anziane riunite attorno ad un braciere d’inverno in un paese qualsiasi della Sicilia, che, arrivate al silenzio scandiscono le parole «ma ccà semu» (che sta all’incirca per «beh, siamo qua», siamo ancora vive). Tra quel “ma” e quel “ccà semu” risiede la natura della Sicilia, 369 in quella memorabile pausa ripetuta tante volte, che è un sentimento di sospensione in cui tutto non avviene o forse sta per avvenire, ineluttabilmente. Il senso dei racconti dei miei incontri – De Seta, Turri, Scorsese, Birri, Sellerio, Scianna, Sciascia (quest’ultimo non l’ho conosciuto ma ho fatto un documentario diversi anni fa, che mi ha dato il senso di un incontro a posteriori, avvenuto dopo la sua morte) e molti altri –, intende sublimarsi in una visione del sud che per me è come un arcipelago che il cinema, la fotografia, la letteratura e le arti hanno fissato, o hanno tentato continuamente di fissare: e le immagini si sciolgono forse per il caldo o forse per una singolare indole autodistruttiva, o forse per un sentimento di orgoglio che un attimo dopo diventa viltà, o anche per una assenza. Ci assentiamo dalla nostra storia e dalla nostra cultura e dimentichiamo. Forse è per questo che mentre la televisione continua ad annunciare incessantemente, minuto per minuto, le sue “verità assolute” di un mondo parallelo, come in internet si diramano le “voci di amicizia virtuale e non reale” di Facebook – in molti oggi dedichiamo il nostro tempo e i nostri sforzi a ridare alla luce gli elementi sparsi e reconditi del nostro modo di sentire la realtà. È il tempo, che ci trasforma. 370 371 Cosetta Gaudenzi Locals, Italians and Foreigners in Mazzacurati's La giusta distanza In La giusta distanza (2007), the director Carlo Mazzacurati demonstrates once more his fondness for the Po Valley and continues to pursue his interest in encounters between Italians and foreigners, two features already seen in his Notte italiana (1987), Vesna va veloce (1996), and L’estate di Davide (1998)1. The film La giusta distanza, which is set in Concadalbero, a little village in the Po Delta, features three protagonists: a local eighteen-year-old named Giovanni (played by Giovanni Capovilla), who aspires to become a journalist and narrates the whole movie with occasional comments in voiceover2; a young substitute elementary teacher by the name of Mara (Valentina Lodovini), who has just moved to the small community from Tuscany; and a Tunisian man, Hassan (Ahmed Hefiane), who has been a mechanic in the area for some time. Throughout the film, Mazzacurati pays special attention to the issues of acceptance and integration of foreigners3. In fact, one of the major purposes of La giusta distanza, I suggest in this essay, is to educate the audience about living together peacefully and respectfully4. In line with such a goal, the director employs a system 1 Mazzacurati’s most recent film, La passione (2010), is also set in a small village, this time in Tuscany, and features among its prominent characters a woman from Eastern Europe. 2 Over the course of the movie, Giovanni tells us of his transformation from a budding correspondent providing local insights for a senior journalist from Vicenza (Fabrizio Bentivoglio), to a young columnist for a paper in the large city of Milan. 3 In an interview published on the internet site of Italica, Mazzacurati affirmed the following about La giusta distanza: «Volevo … dare un segno di speranza, di comprensione per l’“altro”» («I wanted … to give a sign of hope, of understanding for the “other”») 4 Tullio Masoni and Paolo Vecchi, authors of a monograph on Mazzacurati, have also noticed the director’s ethical agenda (p. 17). 372 of cinematic devices which, reminiscent of Luigi Pirandello’s concept of social mask5, and Stuart Hall’s idea of negotiation of meaning6, progressively lead spectators to abandon pre-determined negative judgments of the “other”. Mazzacurati begins the didactic process by bringing to his audience’s attention the notion of reception (briefly defined as the act of receiving and processing information), through specific uses of the camera, such as subjective takes and shot reverse shots. Then, by employing subjective camera takes from different perspectives, the director suggests that the significance of individuals is not simply inherent within them, but is created within the relationship between them and their observers. Any knowledge which derives from such a process is necessarily in constant flux and consequently has the potential to be misleading. Finally, Mazzacurati’s movie plays with the typical narrative structure of the Italian giallo7 – crime fiction or mystery, which deliberately presents different interpretations of particular events and characters – so that he can offer and discard at the same time the opinions of those characters who, relying on prejudices and stereotypes, look at an immigrant as the more likely offender. In outline, then, the first two sections of this essay illustrate Mazzacurati’s discourse on immigration through a detailed formalistic discussion of early scenes in La giusta distanza, and through an examination of the interactions of Mara and Hassan with Italian locals and foreigners living in the village. In the third section, turning to broader issues of interpretation, I consider the movie within the framework of past Italian cinema and culture. Comparing La giusta 5 Pirandello has exerted a notable influence on Italian cinema thorough his theatrical and prose works as well as through his scholarly articles on the motion pictures. (See Manuela Gieri, Gian Piero Brunetta, and Francesco Callari.) The concept of the social mask is treated at length in Pirandello’s novel Uno, nessuno e centomila (1926), where the main character, Vitangelo Moscarda, slowly realizes that, far from being a unique and a unified whole, he is essentially non-existent, a product of the different social masks applied to him by other people in society. And when Moscarda tries to take off such masks, he is consequently considered crazy. 6 Stuart Hall is one of the main proponents of reception theory in media studies. According to his theory of encoding/decoding, the audience negotiates the meaning of the text, which therefore depends also on the cultural background of the public. 7 The Italian giallo is a twentieth-century genre in literature and film, the name of which derives from the yellow cover that the publisher Mondadori employed to introduce an influential series of mystery novels in 1929. For a detailed discussion, see Peter Bondanella’s A History of Italian Cinema (pp. 372-75). 373 distanza to earlier films set in the Po Delta, I highlight the meticulous intellectual achievement of Mazzacurati vis à vis his cinematic past. I La giusta distanza opens with an aerial view of the thick birch forest of the Po Delta. The camera is then progressively lowered in the direction of the horizon, slowly following the course of the river, and gradually zooming in on a blue country bus as it leaves a little village. In the following scene, as the focus is further limited to people, we meet young Giovanni driving in a small vehicle, an Ape, with Bolla (Roberto Abbiati), an eccentric man from Concadalbero. The adolescent activates the film’s plot by recounting a particular event which changed his life, the coming of Mara to his home village. The lively young female teacher arrived one day by bus (the same country bus we see at the beginning of the film), and immediately became the center of the villagers’ attention. Giovanni’s narration of Mara’s arrival is accompanied by the director with a cross-cutting cinematic technique, moving from her walking the main street of the community in a red coat while gazing at her new neighbors, to the curious staring directed at the young teacher by old men sitting at the local bar, by several old ladies near their houses, by two storekeepers from behind their windows, and by the male and female tobacconists standing next to their shop. In this complex sequence – by recording Giovanni’s voiceover commentary, which provides the film narrator’s own perception of reality, and by presenting in cross-cutting the reactions of Mara to her new environment and those of the local inhabitants to her, which encourages viewers to notice the acts of observing and being observed – Mazzacurati cinematically suggests from the opening of La giusta distanza that his film will also be a reflection on reception. A similar cinematic emphasis on reception is achieved by the use of subjective camera, not only in the sequence of Mara’s arrival, which presents the Concadalbero inhabitants through the eyes of the teacher, but also in other notable parts of the movie that will be investigated below. After her arrival, Mara attracts the attention of several males in Concadalbero: Guido, the bus driver, who helps when Mara is having a car problem, and seems later in the film to regret being engaged to another girl; Amos, the rich tobacconist and deep-sea fisherman, who 374 takes her on a trip around the Po Delta on his powerboat, but whom she later dismisses as sexually aggressive, calling him “the octopus” of Concadalbero; Bolla, who oddly or lustfully stares at the young teacher on more than one occasion, causing her to feel somewhat uneasy; Giovanni, who while assisting the young teacher in installing her internet connection steals her e-mail password so that he can learn more about her; and, finally, Hassan, the foreign mechanic who falls immediately in love with Mara and spends more than one evening standing outside her home watching her. Mazzacurati often shoots Mara through the eyes of the aforementioned locals, thus making her a construction of desire. A noteworthy instance of this phenomenon occurs in a sequence presenting Hassan secretly watching Mara at night. While the Tunisian is hidden behind a tree next to her house, looking at the teacher blowing her hair and smearing cream on her legs, he is in turn seen by Giovanni, who is also furtively observing the scene, apparently trying to discover the clandestine night visitor outside the teacher’s home previously mentioned by her in an email to her friend Eva8. The episode highlights, among other things, a major issue of reception theory, that characters are active interpretations of their observers. While Hassan provides a perspective of Mara as a sexual object, the protagonist Giovanni adds to our view of her the aspect of apparent victim of sexual harassment, as becomes evident from his disappointed reaction when he discovers Hassan spying on Mara. By supplying different viewpoints on Mara, the director shows how knowledge is somehow partial and imperfect. In addition, by inserting the layers 8 The following shots compose the peeping sequence outside Mara’s house: lowangle shot of Mara (M) from Hassan’s (H’s) point of view; zoomed low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle close up of black boots; close up of Giovanni (G) coming out from behind a tree; close up of G’s back as he presumably watches H in the distance looking at M; close up of G looking ahead; close up from G’s point of view of H’s back as he looks at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H advancing towards the house; close up of G looking ahead; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; close up of G looking ahead and leaving the scene; close up from G’s perspective of H’s back looking at M; edit to the morning and beginning of a new sequence with close up of G looking ahead in the direction of H’s workshop. 375 of Giovanni the character who observes Hassan watching Mara, and Giovanni the narrator who is telling us the entire story of the film, Mazzacurati also makes his audience aware that truth relies not only on the partial perspective of who observes (what Giovanni the character sees might lead one to think, wrongly, that Hassan is a stalker), but also on the time when the observation occurs (Giovanni the narrator knows much more than Giovanni the character about the intimate relation between Mara and Hassan). A storyteller who depicts himself in a condition of past ignorance, commenting at times in voiceover as Giovanni does in La giusta distanza, calls to mind a notable figure of Italian culture, the narrator of the Divina Commedia. Like Dante the pilgrim, Giovanni the storyteller in La giusta distanza serves to underscore the importance of reception in the signifying process, and to add layers of interpretation to the work, thereby rendering its reception more complex9. If we analyze the peeping sequence through the help of a psychoanalytic approach, we can begin to identify what is behind Mazzacurati’s emphasis on and manipulation of reception in La giusta distanza. In this sequence, Hassan is living a condition of film spectator and voyeur, as discussed in Laura Mulvey’s notable essay “Visual Pleasure and Narrative Cinema”10. The darkness of the auditorium in which the film is shown is reproduced within the movie by the lack of sunlight, and the illuminated windows of Mara’s house become the screen. The director shoots and cross-cuts the sequence from three different points of view: Hassan’s, Giovanni’s, and his own. By representing Mara through the eyes of Hassan, the director portrays his female protagonist as a passive, sexual object that plays to and signifies male desire, a condition we see symbolically supported here by the red color of objects inside Mara’s house11. According to Mulvey, such depiction in film of a female character is not only “scopophilic”, in that Mara here works for spectators as an object of sexual stimulation through sight, but it is also “empowering”, in the sense that it reaches the spectators through a subjective shot (Hassan’s eyes) which 9 On Dante and reception, see Richard Lansing’s Dante Encyclopedia under the topic “Theory and Criticism”. 10 The influential essay was first published in 1975 in Screen and is now part of a book collection by Mulvey (Visual and Other Pleasures, pp. 14-26). 11 The color red appears also in other scenes. For instance, Mara often wears red clothes. 376 contributes to their identification with the male protagonist who is the actual controller of the look. On the one hand, then, Mazzacurati has created a partial condition of acceptance of the foreign male in his audience. (Mara seen through Hassan’s eyes might make spectators associate with the Tunisian and favorably regard him as a timid lover unable to express his own feelings.) On the other hand, by adding the point of view of the character Giovanni to the sequence, in such a way as to make the budding journalist the major controlling figure of the event (through whose eyes we see Hassan observing Mara), the director undermines the spectators’ recently constructed identification with Hassan so that the Tunisian might also be seen negatively as a stalker. In the peeping sequence described above, the director’s complex use of subjective camera (which is a recurrent shooting technique in film noir)12, together with other cinematic hints, such as the mysterious discovery of a murdered dog on several occasions13, slowly turn Mazzacurati’s work into a giallo movie. (In the past, Mazzacurati has worker for RAI as a scriptwriter for gialli.)14. In fact, La giusta distanza is also, and very importantly, a murder story. Towards the end of the film, Mara is found dead near the river bank by her house. Suspicions of the villagers fall immediately on the Tunisian, with whom the young teacher had spent time the evening before the murder, to say goodbye before leaving for a new job in Brazil. Shocked and saddened by the death of his beloved Mara, Hassan attempts to defend himself with calm and dignity in court, but ends up being convicted of her murder and commits suicide soon thereafter. Giovanni, who refuses to follow the advice of a senior journalist to maintain “the right distance”, will take a personal interest in the case, eventually clearing the mechanic’s name. The young journalist discovers that Mara’s real killer is actually an unsuspected local of Concadalbero, Guido, who, drunk and mistakenly thinking Mara is flirting with him, attempts to rape her and ends up fatally pushing her and knocking her head against a heater. Viewing La giusta distanza through the critical filter of the Italian 12 For instance, one of the earliest uses of subjective camera was made in Rouben Mamoulian’s Dr Jekyll and Mr Hyde (1931). 13 The case of dead dogs around the Concadalbero area arouses the investigative instincts in the film’s characters, and audience and it insinuates the presence of evil within the village. 14 See Filippi (p. 38). 377 giallo enriches our appreciation of the film. With its multi-layered structure which plays with different interpretations of a particular subject or fact, the Italian giallo becomes a cinematic device which Mazzacurati skillfully employs to make his spectators progressively more aware of the potentially misleading nature of the prejudicial and stereotypical “knowledge” which guides our everyday actions. Quite brilliantly, the director has drawn from a film genre that is selfreflexive, suggesting a similarity between the investigation undertaken by the character Giovanni and the viewing process itself. And the final success of the budding journalist – who solves the case despite his own initial, limited view of Hassan as a stalker and regardless of the prejudicial opinions of the Tunisian held by the inhabitants of Concadalbero, who conveniently prefer to place the blame of the murder on an outsider – becomes also the success of the director, who manages to illustrate in a convincing way how deceptive and fateful pre-determined judgments can be15. II Having explored Mazzacurati’s discourse on immigration through a detailed examination of the visual and narrative techniques of La giusta distanza, I now investigate the same topic by means of an indepth analysis of the movie’s main characters. The various interactions among Mara, Hassan, and the villagers become pedagogical tools with which the director achieves three major results in the film. Through his use of these characters, Mazzacurati guides his spectators in recognizing how easily we can be misled by prejudicial views of foreigners (accomplished also by some of the film’s cinematic devices, as discussed above), he problematizes the basic concept of Italian identity, and he finally provides positive and negative models of integration. 15 Mazzacurati prepares his viewers for the exculpation of Hassan in the film’s finale already in the second sequence, where the mechanic’s virtue is contrasted with local corruption. After Amos visits Hassan’s workshop for a presumed problem to his car engine, the Tunisian’s local helper, who is represented as lacking professional ethics, scolds Hassan for not taking advantage of the tobacconist by making him pay a lot of money. Instead, the problem is solved by the foreign mechanic in a minute at no cost. 378 Mara and Hassan represent first of all different kinds of immigrants to the village of Concadalbero, respectively, one domestic (form Tuscany), and the other one foreign (from Tunisia). Mazzacurati’s La giusta distanza retells an old story, that of the immigrant mistreated in an unfavorable new environment, in a clever, postmodern way, effectively pointing out the limitations of the conceptual framework categorizing people as locals and foreigners16. Who is the real Italian and who the real immigrant in the film? Mara is an Italian and Hassan a foreigner. But Mara is also a Tuscan and therefore herself an outsider to the village of Concadalbero. On the other hand, Hassan, who speaks very good Italian, has been living in Concadalbero longer than Mara and is therefore more of a “local” than she is. The two main characters of La giusta distanza, by virtue of their complex geographical ties, call into question the very concept of Italian identity17. More precisely, Mazzacurati’s treatment of Mara and Hassan illustrates that the epithets “local”, “Italian”, and “foreign” are too inflexible to describe adequately the complexities of reality. Such words exemplify people’s need to fossilize the continuous flux of life in images of certainty and stability. And La giusta distanza clearly shows that a staunchly conservative culture – like that of Concadalbero18, which refuses to accept its own diversity and openly rejects any new, vital foreign influences in favor of steadiness and security – runs the risk of becoming stagnant or decaying, an image which is evoked towards the end of the film when the lifeless corpse of Mara is found at the bank of the river Po, which keeps on rolling and moving. 16 A similar strategy is evident in Amara Lakhous’ Scontro di civiltà (2004), a polyphonic work in which the Algerian writer gradually demonstrates the inaccuracy of categorizations like “Italian” and “foreign” by placing side by side narrations of the same events under the different perspectives of immigrants and “Italians”. 17 Other Italian movies about immigrants question the concept of Italian identity. For instance, Aine O’Healy has pointed out that Amelio’s Lamerica, through the character of Gino, «shows a particular postmodern understanding of culture and identity, deliberately problematizing the terms “Italian” and “Albanian” as slippery, mutable categories» (p. 253). 18 The lack of progress and evolution in Concadalbero is well illustrated by a dialogue between Giovanni and Franco, the telephone repairman. When Franco says, «Certo che una volta qua era tutta campagna» («It’s true that this was once all open countryside»), Giovanni amusingly replies, «Franco, qua è ancora tutta campagna». («Franco, here it’s still all open countryside».) Franco then agrees: «Te ne sei accorto anche tu, eh? Non è cambiato niente» («You’ve realized that too, huh? Nothing has changed at all»). 379 Mara and Hassan share not only a similar “immigrant status” – which, as he recognizes, arises from rather different circumstances, since he was motivated by necessity and a basic will to survive, while she pursues a somewhat fickle desire to enrich her experiences and learn about the world – but they also follow a similar final path of their lives, since after a few problematic initial encounters, they end up having a love affair and both eventually die during the film. The fact that Mazzacurati depicts Hassan and Mara, a man and a woman, as partaking in a similar destiny contributes additional overtones to the movie. Mazzacurati appears to be drawing a comparison between the contemporary condition of foreigners in Italy with that of other “subalterns” in this country, namely women19. Much as Gianni Amelio’s Lamerica (1994) reminded Italian moviegoers of their own past as immigrants20, to lead them empathize with non-natives at a time when Italians were faced with increasing waves of foreigners moving to their country, so does Mazzacurati’s pairing of an immigrant man with an Italian woman in La giusta distanza remind viewers of Italy’s past and present battles for women’s rights, so as to invite us to reflect on both categories of the “other” and treat them with respect21. The relationship between the leading characters is then not the only aspect of the film that points to a connection between the status of foreigners and women. The sequence in which immigrant prostitutes are treated poorly by local men, suggests that the fates of both categories of the “other” are interrelated. This point is also evident, on more than one occasion, in the wealthy tobacconist’s patronizing treatment of his internet bride from Eastern Europe. Indeed, intolerance is a deeply-rooted problem, very difficult to extinguish, as the villagers of Concadalbero well exemplify in their positive and negative interactions with Mara and Hassan. On the one side, from the earliest scenes of La giusta distanza, we are presented various cases of presumed integration. Hassan is the owner of a small 19 I am borrowing the term “subaltern” from the notable essay Can the Subaltern Speak? by Gayatri Chakravorty Spivak, where the scholar posits a similarity between the condition of women and that of immigrants. 20 See Caminati (p. 604) and Vitti (p. 252). 21 Compared to American women, Italian women obtained legal rights much later: the vote only after the Second World War; and abortion and divorce only in the mid seventies, when finally a new family law provided them with some economical clout within the family. See Gino Moliterno’s Encyclopedia of Contemporary Italian Culture under the topics “woman” and “family”. 380 auto-repair shop where he works in smooth accord with a local helper22. Mohammed, his brother-in-law, is gainfully employed at a successful small restaurant. And Galja, the Rumanian wife of a wealthy man, Amos, works in the family’s tobacco shop. Finally, at the party celebrating Amos’ big tuna catch, Hassan’s local helper cheerfully dances with an Asian girl who works in the village as a bartender, and we see the male tobacconist thank the Tunisian for his prompt repair of the stereo with a toast and an Arab song. On the other side, the film also presents various hints that any apparent integration remains only partial and superficial. For instance, we learn that a local inhabitant had threatened Mohammed one night when denied a drink because it was closing time. Many foreign prostitutes work at a local gas station, and through Hassan’s eyes we see them treated arrogantly by Giovanni’s father. And, most importantly, after Mara’s death every inhabitant of the village points to Hassan as the murderer. While suggesting the lack of full integration between locals and newcomers, Mazzacurati’s La giusta distanza also offers characters like Mara, Hassan, and Mohammed as tentative models of genuine friendship and harmonious coexistence. The initial point is made through food. The substitute teacher is pleasantly surprised when she learns that Mohammed, a Moroccan who works as a cook, makes a very good piadina, an Italian specialty of the neighboring region Romagna. Conversely, Mara is later astounded to learn that Hassan, a Tunisian, claims not to remember the ingredients of couscous, a well-known North-African dish, so she offers to prepare it herself for one of their dates. Just as Hassan and Mohammed’s food choices represent their respect for Italian culture and their wish to integrate in their new country, so does Mara’s interest in a dish from Hassan’s native land symbolize her open-mindedness and eagerness to learn about other customs. The willingness to assimilate to Italy embodied by Hassan and Mohammed is evident also in matters of language and religion. Hassan for instance speaks very good Italian and, yielding to some heavy pleading, he even drinks a glass of red wine during the celebration of Amos’ fishing accomplishment (something discouraged by his native 22 For instance, Hassan’s local helper is respectful of the Tunisian’s privacy and leaves his boss alone when he needs to speak with Mara at the workshop. Also, Hassan’s helper includes the Tunisian in the life of the village by inviting him to go out together on the weekend. 381 religion). Most importantly, Hassan justifies his readiness to integrate to his new country after Mohammed mockingly refers to his having forgotten how to make couscous, «Ma lui vuole fare l’italiano e dimentica di tutto» («He wants to act Italian and has forgotten about everything»). Hassan defends himself by saying, «No, non è vero. Ma non mi piace questa nostalgia degli stranieri. Se stai qui, stai qui e basta» («No, it is not true. But I don’t like this nostalgia of foreigners. If you are here, you are here, and that’s it»). The Tunisian’s affirmation of his decision to place his past culture in a minor position, it should be noted, does not imply that he considers Italian culture superior. He is simply acting in a practical way, «If you are here, you are here, and that’s it». Mazzacurati’s decision to portray the Tunisian as one who dismisses the sentimental nostalgia of some of his fellow foreigners, brings to mind contemporary literary works created by immigrants to Italy, like the novel Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, written in 2004 by Amara Lakhous, an Algerian immigrant to Rome. In Lakhous’ book, the main character Ahmed speaks, like Hassan, very good Italian and tries to distance himself from his past and from any strong belief in general that would restrain his individuality23. Mirroring contemporary trends in immigrant literature, Mazzacurati shows himself to be in tune with foreigners in Italy and to let them speak in their own words. Moreover, there is an extent to which the very title of his movie, La giusta distanza (The Right Distance), might be interpreted as an allusion to the cultural dilemma that immigrants everywhere are continuously facing: what is “the right distance”, la giusta distanza, that one should keep from one’s own past and from the new present? The dilemma is faced on one level by the male protagonist Hassan, who left North Africa for Italy; on another level by the female protagonist Mara, who traveled from Tuscany to Concadalbero, and then intends to move to Brasil; and even by the narrator Giovanni, who leaves Concadalbero for Milan. 23 Lakhous’ Ahmed in Scontro di civiltà is such an integrated immigrant that everybody thinks he is Italian. 382 III In the two previous sections of this essay, I discussed how Mazzacurati employs certain characters, shooting techniques, and a specific film genre to present his particular ethical response to the contemporary social crisis of immigration in Italy. In the following analysis, I offer a wider interpretation of La giusta distanza, placing it within its cinematic and cultural background. By affirming in a past interview that the “language” of cinema evolves continuously and enriches itself because it nourishes itself from what preceded it, Mazzacurati has revealed the possibility that his work might consciously adapt and manipulate earlier Italian movies24. Indeed, from Marco Pettenello, one of the film’s screenplay editors, we know that La giusta distanza was initially inspired by Antonio Pietrangeli’s La visita (1963) – a movie set in the provincial Po Valley, dealing with the problem of women’s solitude – but was adjusted to discuss the broader and more contemporary issues raised by immigration in Italy25. Of course, Pietrangeli’s work was only a partial source for La giusta distanza, a simple point of departure for Mazzacurati’s more complex interaction with past Italian cinema. In fact, the most influential currents upon the film under scrutiny appear to come from neorealist films or similar works which attempt to escape the rigidly descriptive agenda of neorealism. Accordingly, in this section, I identify the most significant aspects of the movie which tend toward a documentary or realistic style, and then I attempt to trace their possible origins in the work of directors like Rossellini, Antonioni, and Fellini. The purpose of this discussion is, among other things, to assess to what extent interactions with past Italian films, as exemplified in Mazzacurati’s work, might contribute to the merits and limits of contemporary cinema in Italy. A partial interest in authenticity is evident on the part of the Italian cineaste from the second sequence of La giusta distanza, when Giovanni’s voice-over introduces the film’s story as his own autobiographical recollection, thereby presenting it as a “true event.” Furthermore, several characters in the film are portrayed quite realistically. Hassan, for instance, is a sort of hybrid documentary reproduction of 24 See his published interview from 1995 with Andrea Filippi (p. 56). 25 Interview published in June 2008 in «Oggi» p. 7. 383 an actual migrant to Italy26, who, after overcoming the first obstacles of reaching his new country, and after surviving there the possible vicious circle of crime, drugs, and violence, has managed somehow to achieve a measure of economic security27. Of course, Hassan is also more than a factual character, since, as illustrated above, he is portrayed as an almost impeccably good immigrant, symbolically useful for conveying the director’s sympathetic perspective on non-natives to a general audience, and for providing a positive model of integration to foreigners in Italy. Such a supportive depiction of immigrants is typical of many Italian films on immigration (but differs from the stereotypical treatment of foreigners that is still at times detectable in the Italian mass media). This positive trend, in my opinion, is yet another manifestation of the general tendency in some contemporary Italian films toward civic commitment, a phenomenon observed and partly connected to neorealism in Italian films on immigration (Amelio’s Lamerica, Vincenzo Marra’s Tornando a casa, 2001; Francesco Munzi’s Saimir, 2004)28, in movies with a testimonial function (Francesco Rosi’s The Truce, 1997; Roberto Benigni’s Life is Beautiful, 1998)29, and also in anti-Mafia films with a memorialist function (Marco Tullio Giordana’s I cento passi, 2000; Pasquale Scimeca’s Placido Rizzotto, 2000)30. In this respect, at least regarding its socially-bound subject matter, which treats a realistic event in a morally engaged manner, La giusta distanza appears to display some similarities with past neorealist cinematic works. An objective echoing of Italian reality is also perceivable in Mazzacurati’s movie at the level of casting and language. The actors playing the protagonists, for example, are either not well known 26 Luca Caminati has observed that many Italian films on migration exhibit a condition of generic hybridity, standing somewhere between fiction and documentary (p. 597). 27 The difficult conditions faced by immigrants are extensively portrayed, for instance, in Marco Tullio Giordana’s Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005). 28 See Caminati and O’Healy. For an updated list and basic report on the most significant Italian films on immigration, see Sonia Cincinelli’s I migranti nel cinema italiano (2009). 29 Marcus has defined this trend as the “return to the social referent and to the moral accountability of neorealism” (After Fellini p. 11). 30 See Marcus’ article In Memoriam: The Neorealist Legacy in the Contemporary Sicilian Anti-Mafia Film (p. 290). 384 (Ahmed Hefiane), or acting for the first time in a leading role (Valentina Lodovini), or local non-professionals (Giovanni Capovilla was chosen from among a group of adolescents attending a high school in Veneto). The employment of some actors from the local area, and the definite exclusion from the film’s protagonists of well-known professional performers, potentially fulfills several purposes. It allows the director to work with actors who do not possess strong professional connotations, so as to more easily impose his own agenda on them; it helps direct the audience’s attention to the particularly secluded setting of the movie; and finally it seems to satisfy the neorealist desideratum of representing reality objectively. Similar purposes are also attained in La giusta distanza through language. Adopting a mimetic linguistic technique, Mazzacurati produces a film which is verbally hybrid, with an almost spotless Italian uttered by Giovanni and other educated movie characters, a standard Italian spoken with a slight foreign accent by Hassan and Mohammed, an Arabic used among the Tunisian and his in-laws, and a local dialect and inflection employed by some of the minor characters. The scenes with linguistic regionalisms particularly contribute to depicting the setting as isolated and provincial, further emphasizing the difference between natives and immigrants. The verbal encounter between the two groups is well exemplified in an amusing sequence where Amos, a local inhabitant, uses a dialect phrase with Hassan, a non-native resident, as a prelude to thanking him. After driving to Hassan’s workshop, at first upset because of a burnt smell coming from his new car, and then relieved after learning that the particularly bad odor was only a melted plastic sack on the exhaust pipe, Amos utters, in a mixture of Italian and local dialect, «Che spavento fijo mi» (“what a fright, my son”). The vernacular expression, “fijo mi”, which is a sort of interjection, apparently adding no relevant literal meaning to the speech, acquires in this specific dialogue with Hassan the significant value of erasing social differences between the two, treating the Tunisian not only as one of the Concadalbero inhabitants who can understand dialect, but also, literally, as an in-law. Ironically, Amos shows gratitude to the foreigner through a linguistic expression which symbolically patronizes him and obliterates his culture. The realistic and documentary-like choices at the level of the film’s subject, casting, and language, which I have been discussing above, are visually complemented by the director’s on-location shootings of 385 the Po Delta. By providing yet another view of a region close to his place of birth (Padua) – one which he has already filmed (for the first time in Notte italiana in 1987), and which had also been shot by earlier cineastes (to name the most distinguished and relevant ones for La giusta distanza, Roberto Rossellini and Michelangelo Antonioni) – Mazzacurati creates a work that is both partially autobiographical and constructed on foundations established by previous films. One of the first films that comes to mind after watching Mazzacurati’s La giusta distanza is the Neorealist Paisà (1946), a collection of six short stories from World War II that range in their setting from Sicily to the Po Valley. Not only does Mazzacurati’s work share the general location of the last episode of Paisà, the Po Delta, but, it also treats the river as an important presence and features a dead person in it31. In Rossellini’s movie, according to Marcus, the river Po may be symbolically associated with, among other things, historical progress towards the Liberation of Italy (After Fellini p. 38). A similar impression is generated by Mazzacurati’s film, where movement, represented by the rolling river from the movie’s opening scenes and emphasized throughout by a steady depiction of moving buses, cars and boats32, has a positive value and is contrasted with the stagnation of an excessively conservative community. The point is forcefully illustrated by the image of Mara’s inert corpse stranded lifeless on the river’s bank, a tableau which recalls the cruelty of the nazis’ killings of partisans in Rossellini’s Paisà and seems to cast blame on the conservative community of Colcadalbero. The voyages of Mara’s life have come to an abrupt end, but the river flows on. 31 In Paisà, Dale and Cigolani free the dead body of the partisan floating in the relentless current of the river and give it proper burial. In La giusta distanza, the body of Mara eventually frees itself of the weight with which it had been thrown into the river and emerges near a bank. 32 It is significant, for instance, that the film’s initial and penultimate sequences both display an aerial view of the Po Delta, zooming in and out on a country bus first arriving and then leaving Concadalbero. On the one hand, the aerial shots framing the beginning and closing of La giusta distanza make the area appear not only fascinating, because of its still uncontaminated natural beauty, but also immutable, because nothing has visibly changed from the opening takes. On the other hand, the coming and going of the bus serves as a cinematic narrative vehicle for introducing and then leaving behind the story of a remote region of Italy as well as symbolically suggesting the transience of the lives of men and women on earth like Hassan and Mara, who arrive and then soon depart. 386 Another factor which seems to draw Paisà and La giusta distanza together is civic commitment. Rossellini’s film first represents the difficulties of constructing Italian national identity through cinematic fragmentation and mimetic portrayal of regional differences, but then also employs its montage to suggest the concept of unity in diversity (After Fellini p. 16). Through Paisà, Rossellini imposes on his viewers the task of interpreting the disjointed parts of the movie and constructing in their own minds a national unity, an act which exemplifies the democratic consent needed in a nation (After Fellini pp. 16-17). In today’s Italy – where the country’s unity is constantly called into question by various demands for increased federalism, and where its social equilibrium is under continuous pressure from waves of new immigrants – Mazzacurati reconsiders and redraws Rossellini’s idea of unity in diversity by asking his audience to expand and render more flexible their concept of national identity to include the foreign. There is an interesting scene in La giusta distanza which may further exemplify Mazzacurati’s desire to redraw the cinematic idea of Italy and its territory. After a family lunch, Giovanni’s aunt Giacinta yells at his little brother who is refusing to come down from a tree: «vien zo delinquente che te copo! Se te caschi mi non te porto all’ospedale!» («Come down, you criminal, so I can finish you off! If you fall, I will not take you to the hospital!»). This humorous episode, which recalls the memorable moment in Federico Fellini’s Amarcord (1973) when the short nun curtly demands that Titta’s uncle descend from a tree, might invite us to reconsider that film’s depiction of the community of Rimini. In Amarcord the Riminesi are generally connoted positively and outsiders negatively, because the latter are represented as importers of a conservative fascist ideology33. But, more than thirty years later, in La giusta distanza, where Mazzacurati addresses global influences on a contemporary Italian community, those who leave the limits imposed by the circle are portrayed positively: not only immigrants like Hassan and Mara who have left their own homeland, but also the narrator Giovanni, who, in the film’s finale, moves to Milan, starting the career he wanted as a journalist and becoming himself an immigrant of sorts. The symbolic references in La giusta distanza to Paisà and, to 33 See Cosetta Gaudenzi’s Memory, Dialect, Politics: Linguistic Strategies in Fellini’s Amarcord. 387 a lesser extent, to the world of Amarcord, show that Mazzacurati has attempted to maintain “the right distance” from his cinematic past. While the cineaste seems to recognize in neorealism a powerful model of civic commitment, as typified by Rossellini’s Paisà, he also moves beyond the seemingly outdated model of national identity presented by that film. Likewise, La giusta distanza distances itself from the cinematic and critical tradition of associating regionalism with neorealism. In an interview with Francesco Gatti, the director discusses the film’s setting at length, providing a sort of interpretative key. Mazzacurati affirms that the Po Delta was first represented by him in Notte italiana because of the nature of its landscape, which offered him a kind of blank sheet or studio where he could film without too many external influences. But after twenty years, the area has acquired for him a more familiar meaning, and in La giusta distanza in particular, it has become «Un luogo un po’ immaginario e un po’ reale, l’ultimo lembo della pianura padana quasi intatto dove si svolge lo scontro tra arcaicità e modernità». («A place which is a little imaginary and a little real, the last nearly intact strip of the Po Valley where the clash between archaism and modernism is occurring»)34. Mazzacurati’s comments in this interview suggest that the village of Concadalbero functions in La giusta distanza as a realistic but also symbolic land which might exist almost anywhere35. Consequently, the documentary touches in the film’s setting, far from being simply realistic descriptors recording reality objectively and recalling neorealist paradigms, might also be interpreted as cinematic devices employed to connote somewhat negatively the village as isolated and conservative. Mazzacurati’s treatment of the film’s setting testifies therefore to a complex use of the regional in Italian cinema, focusing not so much on the local as an object to be described, but rather 34 Interview with Francesco Gatti published on You Tube in 2007. 35 To complement the film’s opening sequence, the director employs as soundtrack a hybrid music from the group Tin Hat which mostly uses jazz mixed with blues, a folk genre that evokes the delta of another great river, the Mississippi. On one side, this music recalls the many comparisons that twentieth-century literati like Pier Vittorio Tondelli and Gianni Celati have drawn between the American plains and the Po Valley. On another side, it provides the film with a connotation which detaches it from a particular Italian region and thus makes it more universal. From this perspective, the Po Delta becomes a non luogo, an interpretation which is supported by an interview with the actress Valentina Lodovini (Mara) released in the dvd extras. 388 employing it to dramatize the effects of contemporary immigration on conservative communities36. As suggested above, Mazzacurati redraws a link with Italy’s cinematic past while rethinking its value for a contemporary audience. Another master of Italian cinema who has undoubtedly influenced the director of La giusta distanza in his attempt to escape from the static and descriptive cinematic agenda of neorealism, and who has provided a significant visual input to the director’s film, is Michelangelo Antonioni. Indeed, the aerial shootings which start and close La giusta distanza recall Antonioni’s documentary work on the Po. On April 25 of 1939, the Ferrarese cineaste published in the journal Cinema an article, “For a Film on the River Po,” illustrated by photographs of the area, some of which were aerial. In 1942-43, Antonioni then shot the documentary Gente del Po (finally edited and released in 1947), which offered an unusual take on the region. In different ways, both Antonioni’s article and his documentary are in line with his later cinematic modernism, as Noa Steimatsky has recently pointed out (pp. 1-39). Through particular uses of the camera, Antonioni offered a new perspective on the regional which entailed not only the realistic description of a particular locality, but also the fragmented modernist questioning of the conditions of perception and of narration. Though admittedly to a lesser degree, we have a similar impression while watching La giusta distanza. Aerial views where man is no longer the measure of all things, such as those employed by Antonioni and Mazzacurati, symbolically problematize our usual perspective on things. From the beginning of La giusta distanza, aerial shots entice the audience to know more about the area and persons hidden below, while they also suggest a broader perspective for looking at immigrants and people in general. Antonioni’s work seems therefore to have provided Mazzacurati a visual model which accommodates his purpose of bringing to the audience’s attention the notion of reception, as discussed above. In conclusion, Rossellini, Antonioni, Fellini, and even Pietrangeli serve as cinematic points of departure for Mazzacurati’s La giusta distanza. In an earlier interview (1995), the director had expressed the necessity of starting out from some cinematic place that counted37. 36 See for instance Giorgio Diritti’s Il vento fa il suo giro (2005). 37 In a 1995 interview with Andrea Filippi, Mazzacurati observed: «Noi abbiamo dovuto ricollegarci al cinema degli anni ’50 e ’60 per ritrovare un filo, come se ci fosse stato un precipizio in cui tutto è rovinato, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio 389 Much as the Medieval author Dante felt a need to cite and then to rewrite the literary models of Virgil, Ovid, Statius, and Lucan in creating his Commedia, Mazzacurati, like other contemporary Italian cineastes, stands in comparable need of a reliable authority, something familiar to catch the audience’s attention, which can then be remade and re-imagined in modern terms so as to create a continuity with the cinematic past. As illustrated by my preceding analysis of Mazzacurati’s work, it is possible to make a film which keeps its “right distance” from the past and is neither totally subservient to it nor in total contrast with it. The creation of a new and diverse Italian cinema does not necessarily require the drastic measure of parricide, “uccidere i propri padri” (“to kill one’s fathers”), as suggested so provocatively at the 2010 Venice Cinema Festival by Gabriele Salvatores. Such a radical approach would imply the suppression of an entire apparatus of Italian cinema as well as a valuable part of Italian culture and history. Instead, as suggested by the preceding interpretation of Mazzacurati’s La giusta distanza, not only immigrants, but also Italy’s cinematic past, should be viewed from “the right distance”, which is of course difficult to define, but which excludes outright rejection and includes a measure of sympathetic consideration. 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Da anni, rifletto sui tanti film italiani che affrontano con puntualità i nodi storici della nostra modernità, e, dunque, il Risorgimento, il Fascismo, la guerra, la Resistenza, gli anni di piombo, ed anche, negli ultimi due decenni, il problematico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, le migrazioni, le tante grandi questioni della nostra contemporaneità. Di recente, e fors’anche in parte stimolata dall’incontro sul cinema italiano contemporaneo organizzato dall’Indiana University a Bloomington nella primavera del 2011, mi sono interrogata su quella che mi è parsa una nuova ed originale attenzione rivolta a questioni di carattere storico 1 Il testo apparve prima in inglese col titolo The Film in History: Restaging the Past (Oxford, Basil Blackwell, 1980). Nel saggio faccio riferimento allo scritto di Sorlin nella sua versione italiana. 392 presente nel cinema italiano dell’ultimo ventennio, ma anche a quello che mi è sembrato un modo nuovo e diverso di affrontare la questione della testimonianza, così come quella del ricordo e della memoria. Testimonianza, ricordo e memoria per decenni, nel contesto della storia italiana del secondo dopoguerra, sono state questioni intimamente legate alla più ampia problematica dell’identità nazionale. Quando poi da essa si sono slegate, per i motivi più diversi, ecco che il nostro cinema non riusciva più né a testimoniare né a ricordare, né ovviamente a fare del ricordo un bagaglio collettivo che potesse divenire memoria. Nel suo ultimo volume sul cinema italiano, Gian Piero Brunetta si è spinto ad affermare, infatti, che la generazione degli anni ’90 «[…] sempre più deambula meccanicamente senza bussola o punti di riferimento entro paesaggi vuoti di senso, privi di valori, come se i personaggi fossero i superstiti di un’esplosione atomica»2. A proposito di questo, come sostenne a suo tempo Gianni Amelio, sembrerebbe allora davvero profetica la visione apocalittica con cui Federico Fellini ci ha lasciato, e cioè La voce della luna (1990), un film che oggi più che mai appare come il testamento ideale di un’intera generazione, e cioè quella che aveva traghettato la nazione e i suoi spettatori fuori dalla Seconda Guerra Mondiale e nel Neorealismo, nonché poi nel boom economico e nel grande cinema degli anni ‘60, ma che non era forse riuscita a dare un senso a quel passaggio generazionale ed epocale che sono stati gli anni ’70, e cioè gli anni di piombo. Come profetico appare oggi anche lo sguardo di Michelangelo Antonioni nei suoi lavori della tetralogia3 che riecheggiano la convinzione da lui espressa al Festival di Cannes nel 1960, e cioè che «[…] modern man lives in a world without the moral tools necessary to match his technological skills; he is incapable of authentic relationships with his environment, his fellows, or even the objects which surround him because he carries with him a fossilized value system out of step with the times»4; così come sempre più profetici ci appaiono i capolavori 2 Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo da La dolce vita a Centochiodi, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 628. 3 Nello specifico, L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), e Deserto rosso (1964). 4 Michelangelo Antonioni, Festival di Cannes 1960, in George Amberg, L’Avventura: a Film by Michelangelo Antonioni, New York, Grove Press, 1969, p. 213 («L’uomo moderno vive in un mondo privo di strumenti morali adeguati alle sue 393 che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato, sullo schermo e sulla pagina, partendo già dal romanzo Ragazzi di vita (1955) e dai saggi contenuti in Passione e ideologia (1948-1958), volume pubblicato nel 1960, e dal suo film di esordio Accattone realizzato nel 1961, per finire con l’apocalittico Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Tutte queste opere indubbiamente straordinarie, che hanno consunstanziato di se anni ugualmente straordinari, terminavano ponendo domande urgenti, ma che poi, troppo spesso, non hanno trovato risposte, e conseguentemente sembrano, oggi più che mai, prefigurare quel mondo che verrà, o meglio quel mondo che è già venuto, senza offrirci però una chiara e inequivocabile via d’uscita, nonché un’altrettanto chiara e inequivocabile chiave di lettura del reale. È così, poi, che andarono a trascorrere gli anni ’80, proponendo spesso sul grande schermo le storie asfittiche e “afasiche” di una generazione di “orfani”, come le definiva Lino Micciché, cioè un panorama sconfortante nel quale i padri continuavano a costituire per i figli obiettivi ineguagliabili, e per i “nipoti”, orizzonti irraggiungibili, che non riuscivano più nemmeno a rappresentare exempla plausibili e perseguibili5. Si consumava così una fondamentale incapacità a risorse tecnologiche; è incapace di rapporti autentici con il suo ambiente, con le persone con cui si trova o addirittura con gli oggetti che lo circondano, poiché porta in sé un sistema di valori fossilizzato, fuori passo con i tempi»). 5 Lino Micciché, Gli eredi del nulla. Per una critica del giovane cinema italiano, in Franco Montini (a cura di), Una generazione in cinema. Esordi ed esordienti italiani 1975-1988, Venezia, Marsilio, 1988, p. 252. Per una discussione sul nuovo cinema italiano, si vedano anche Mario Sesti, Nuovo cinema italiano. Gli autori i film le idee, Roma-Napoli, Theoria, 1994; Vincenzo Camerino (a cura di), Il cinema italiano degli anni ottanta...ed emozioni registiche, Lecce, Piero Manni, 1992. Si vedano altresì, il numero speciale di «Segnocinema» xiii.64, novembredicembre 1993, e particolarmente il saggio di Flavio De Bernardinis, Caro cinema italiano… (pp. 11-13) e quello di Giorgio Simonelli, Proposta decente (pp. 14-16), e pure «Segnocinema» 10.41, gennaio 1990, e specialmente l’articolo di Marcello Walter Bruno, Introduzione al nemico. Televisione, pubblicità e nuove tecnologie nel cinema italiano degli anni ’80 (pp.11-15), e quello di Marcello Cella, La natura indifferente. Il paesaggio nel cinema italiano degli anni Ottanta (pp. 16-20). Di Marcello Walter Bruno, si veda anche Meta in Italy. La via nazionale al cinema-sul-cinema, in «Segnocinema» xi.51, settembre-ottobre 1991 (pp. 10-13); e di Morando Morandini, Il regista è finito? Breve viaggio intorno agli autori del cinema italiano degli anni ’80, in «Segnocinema» vi.22, marzo 1986 (pp. 4-6). Si veda anche «Cineforum» 29.10, ottobre 1989 e 30.7/8, luglio-agosto 1990, poiché entrambi i numeri sono dedicati al giovane cinema italiano, ed hanno signicativamente lo stesso titolo, Sperduti nel buio. Per una discussione sul- 394 ricostruire la mappa coerente di un mondo che, di conseguenza, fosse convincente e credibile, vicino e pur anche omologo a quell’universo ‘reale’ in cui ci si muoveva con crescente difficoltà, incapaci di proiettarsi in una prospettiva che riuscisse a farsi Storia, di una generazione e della sua nazione. Quel decennio, però, si chiudeva con una sorta di impennata del cinema italiano, con film quali Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, che nel 1989 portava alla storia di questa cinematografia un riconoscimento internazionale che mancava da moltissimi anni, ma anche con lavori quali Palombella rossa di Nanni Moretti che, nello stesso anno, ricevette il plauso della critica, in primis di quella francese, sempre attenta e sensibile alle storie del nostro cinema nazionale: in quell’anno 1989, dunque, alcuni dei registi che avevano vissuto il loro esordio negli anni ’70 parvero indicare la strada per una possibile ripresa della nostra pulsione al racconto di una storia che, come sempre era stato ed è per noi, fosse sia individuale sia collettiva. Indubbiamente, quell’anno 1989, e cioè, tra le altre cose, significativamente, la data della caduta del muro di Berlino e della fine del “secolo breve”, come lo definì Eric Hobsbawn, pare essere anche una delle date fondative nella storia gloriosa del nostro cinema: come lo fu il 1908, e cioè, secondo alcuni, l’anno d’inizio di quella che fu l’età d’oro del cinema italiano degli esordi; come lo fu il 1942, data di apertura della straordinaria temperie neorealista con lavori quali I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti; come lo fu il 1959, quell’anno in cui, in condivisione con i nostri vicini d’oltralpe, sancivamo l’esplosione del modernismo cinematografico europeo, con lavori quali La dolce vita di Federico Fellini e L’avventura di Michelangelo Antonioni; come il 1969, l’anno in cui Fellini ci regala il suo Satyricon, personalissimo adattamento di un prosimetro della letteratura latina, testo lacunoso e frammentario, e Pasolini la sua Medea, trasfigurazione idiosincratica della tragedia euripidea, e cioè due lavori che mettono in scena l’insanabile conflitto tra l’antico e il moderno, tentando di dare una risposta all’inesausto bisogno di orgine che segna il percorso dell’umanità, nonché, più concretamente, alla conflittualità che stava imperversando nel contesto sociale itala rinascita del cinema italiano contemporaneo, di enorme interesse è un’intera sezione nel numero speciale di «Cinema nuovo» 41.1, gennaio-febbraio 1992, pp. 13-31, la sezione è intitolata Il “che fare” per il cinema italiano ed è dedicata ad alcune interviste rilasciate da registi italiani. 395 liano contemporaneo; ed alfine, il 1989 arriva dopo quasi due decenni (gli anni ’70 e ’80) di un precario arrancare dei nostri cineasti, sostanzialmente incapaci di ricucirsi addosso un’identità, e dunque una storia personale e collettiva, che fosse, come dicevo, credibile e condivisibile. D’altronde, come ci ricorda proprio Eric Hobsbawn nel suo volume Il secolo breve: La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa si che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione6. Cercando di percorrere la strada qui indicata da Hobsbawn, e scorrendo, ad esempio, gli annali del nostro cinema nazionale a partire da quell’anno 1989, si fanno alcune scoperte interessanti: da un lato si può agevolmente notare come un numero consistente dei film realizzati in Italia negli ultimi vent’anni e poco più, scelgono a proprio soggetto uno dei momenti cruciali della nostra storia moderna – sia esso il Risorgimento, come accade nel tormentato Noi credevamo (2010) di Mario Martone, o il Fascismo, come in Vincere (2009), racconto sapientemente diretto da Marco Bellocchio sulla controversa figura di Ida Dalser, l’amante segreta di Benito Mussolini, sia esso la Resistenza, come in I piccoli maestri di Daniele Luchetti nel 1998 o ne Il Partigiano Johnny di Guido Chiesa del 2000, o la caduta della Prima Repubblica, come accade ad esempio sia nel Caimano diretto da Nanni Moretti nel 2006 sia nel Divo realizzato da Paolo Sorrentino nel 2008, oppure privilegiano una delle tante questioni che più hanno 6 Eric Hobsbawn, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1999, p. 13. 396 segnato il nostro percorso verso quella stessa modernità – e dunque, gli anni di piombo in lavori quali La meglio gioventù diretto da Marco Tullio Giordana nel 2003 o La prima linea di Renato De Maria del 2009, le migrazioni e la questione dell’integrazione (e qui l’elenco sarebbe davvero lungo e articolato, ma vorrei ricordare almeno due film, e cioè Un’altra vita di Carlo Mazzacurati, che nel 1992 inaugura una nuova stagione filmica per la questione dell’immigrazione e dell’integrazione culturale, a cui seguiranno nel 1994 Lamerica di Gianni Amelio, i tanti film di Ferzan Ozpetek, e poi, sull’annosa e dolorosa questione dell’emigrazione degli italiani in America appunto, un film davvero particolare come Nuovomondo diretto da Emanuele Crialese nel 2006), ma anche il rapporto difficile tra pubblico e privato, la questione meridionale nelle sue varie articolazioni, e così via. Una visione attenta di questi lavori, obbliga lo spetttore ad altre osservazioni, e, prima di tutto, certamente a notare come anche in questi ultimi due decenni, così come nei quattro che li hanno preceduti, il cinema italiano si stia ancora confrontando con quella che Gianni Canova, in un suo recente lavoro, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo millennio, definisce con indubbia provocazione “la maledizione del neorealismo”, affermando poi anche quanto segue, il cinema italiano è ossessionato dal confronto – che a volte assume anche i toni del rimpianto – con la stagione più alta e più nobile della propria storia. È periodicamente indotto… a fare i conti con le ricorrenti apparizioni di quel fantasma. Oltre che con l’idea… che un buon film sia quello capace di “mostrare la realtà”. Come se il cinema fosse un dispositivo inerte che sta fuori dal mondo e può tutt’al più ambire a rispecchiarne la forma già data7. Eppure, pur confrontandosi con la tradizione, poiché sarebbe nei fatti impossibile fare altrimenti, mi pare che questo nuovo cinema italiano abbia superato l’ansia dell’imitazione, ed abbia invece ben chiaro il fatto di poter fare molto di più che semplicemente ‘rispecchiare il reale’, e fare i conti con quel ‘fantasma’, come ci insegna molto banalmente già la visione di un film con il quale Ettore Scola chiude 7 Gianni Canova, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo millennio, Venezia, Marsilio, 2010, p.13. 397 la prima metà degli anni ’70, e cioè C’eravamo tanto amati (1974) per poi specificarne l’argomentazione nei successivi Brutti, sporchi e cattivi (1976), Signore e signori, buonanotte (1976), Una giornata particolare (1977), I nuovi mostri (1977), nonché il film rivelazione con cui apre i suoi anni ’80, e cioè La terrazza (1980)8. Riprendendo una distinzione categoriale proposta da Paolo Bertetto, si potrebbe certo affermare allora, come fa Canova, che l’ostinato tentativo di rispecchiamento del reale nasce dal fatto che il nostro cinema pare abbia, coscientemente o meno, scelto di operare in un regime dello specchio e non in quello del simulacro. A sostegno di tale valutazione, si possono ricordare, come è stato fatto, i titoli dei giornali che nel 2008 salutarono la duplice vittoria del cinema italiano a Cannes con Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone. «Torna il cinema della realtà», si disse. Giustamente, però, Canova osserva poi che […] quel che non si capiva (o si voleva far finta di non capire…) è che quei due film vincevano e vincono non perché mostrano un presunto “reale” dissimulato o nascosto dagli altri media e dimenticato dai film coevi, quanto piuttosto perché trovano entrambi una forma capace di rivelare qualcosa del mondo a chi con quella forma entra in relazione9. È indubbio infatti che per anni, tanta parte della critica pare attraversata dall’incapacità, o forse meglio, dalla non volontà di cogliere la reale e sostanziale novità dei lavori di registi quali Sorrentino e Garrone – e cioè, appunto, la ricerca formale, così come era accaduto prima di loro, a Calopresti, e così come accadrà dopo di loro, fra gli altri, a Giorgio Diritti (per menzionare solo due nomi di coloro di cui si potrebbe certamente discorrere in questa prospettiva). Dunque, pare contraddittorio affermare che «Quel feticismo della “realtà” e quel dogma del verosimile che hanno irretito il cinema italiano per tutta la seconda metà del Novecento» abbiano «continuato ad agire e a operare anche nel primo decennio del nuovo millennio»10, di 8 Per una discussione esaustiva di tale questione, rimando al mio Italian Contemporary Filmmaking: Strategies of Subversion. Pirandello, Fellini, Scola, and the Directors of the New Generation, Toronto, University of Toronto Press, 1995. 9 Ibidem. 10 Ivi, p.14. 398 fatto inibendo la capacità del nostro cinema a intraprendere strade nuove e privilegiare registri diversi – dal visionario all’onirico, dal sublime al grottesco, e così via. Pare contraddittorio poiché invece sembra indubbiamente vero quanto afferma sempre Canova, e cioè che, a fronte di un decennio, quello dal 2000 al 2009, che ha visto «il trionfo del reality show come forma compiuta di desertificazione del reale […] il cinema italiano – per quanto possa ancora valere una simile denominazione geografica e identitaria – si presenta come un organismo tutt’altro che sguarnito o sprovveduto»11. E non è sguarnito e sprovveduto principalmente poiché, come si affermava qui in precedenza, questo nostro cinema non sente più il peso di quel fantasma, ed invece questa nuova generazione, diversamente da quella che l’ha preceduta, non subisce più l’obbligo e la responsabilità dell’imitazione. Per questo, ad esempio, se è vero che La seconda volta (1995) di Mimmo Calopresti è segnato dall’ossessione della cinepresa/specchio, tale desiderio ossessivo non è poi accompagnato dalla sua realizzazione, i personaggi non guardano mai veramente “in macchina”, e il loro sguardo è sempre “decentrato”, così come decentrate sono le loro motivazioni: ad un’azione non succede mai una reazione definita, definitiva e imprescindibile, la loro storia personale non obbedisce a quelle ragioni superiori e generali che motivavano le narrazioni del Neorealismo, ma rispondono, se e quando rispondono, soltanto a motivazioni private, personalissime, singolari. Per questo, interrogata da un’amica sulle ragioni delle sue passate azioni, Lisa12 risponde laconicamente ma con decisione «Io non mi ricordo di niente. Non c’ho più pensato...Non ci voglio più pensare». In La seconda volta, i movimenti di macchina di Calopresti accompagnano le pulsioni dell’anima, seguono il respiro stesso, a volte rallentato e a volte accelerato, dei suoi protagonisti, poiché la storia che qui è messa in scena è quella del percorso personale, intimo, di chi vuole con determinazione riprendersi il proprio primo piano, la propria centralità, dopo essere stato per anni obliteratoto, nella Storia collettiva di una nazione in cui, per altro, si faceva fatica a riconoscersi, sia i sicari sia le vittime, tanto che anche quei ruoli, fissati dalla Storia ufficiale, 11 Ibidem. 12 La protagonista femminile, in un passato che qui, per lei, nonostante tutto, appare lontanissimo, aveva sparato al professore interpretato da Nanni Moretti. 399 devono, di necessità, essere rivisti, reinterpretati, alla luce di quelle pulsioni, sotto la spinta di quei respiri. Tesi a ridare centralità ma anche storicità allo sguardo paiono essere tanti altri tentativi che hanno trovato spazio e forma nel nostro cinema degli ultimi due decenni, non ultimo quello di Giorgio Diritti in un film straordinario come L’uomo che verrà. Emozionante e appassionato, onesto e rigoroso, il film è ambientato sull’Appennino Tosco-Emiliano, a pochi chilometri da Bologna e vicino a Marzabotto, e racconta la difficile quotidianità di una famiglia di contandini, i Palmieri, dall’inverno del 1943 all’autunno del 1944: i nazisti presidiano ostinatamente la Linea Gotica, i partigiani tentano costantemente di sabotare le loro azioni, e a volte ci riescono, e i civili cercano di sopravvivere, subendo le intimidazioni arroganti e violente degli uni e le richieste pressanti di partecipazione degli altri. La vita, ovviamente, continua il suo corso: circondati dai loro famigliari, troviamo Lena che porta in grembo l’«uomo che verrà» a cui si riferisce il titolo, e suo marito, Armando, che lotta con determinazione tra i vincoli della mezzadria e le imposizioni dei nazisti; tutti i componenti della famiglia Palmieri, insieme agli altri contadini che abitano nella stessa cascina, condividono la dura vita quotidiana ma anche quello che rimane dell’anelito alla condivisione, del desiderio tutto umano di guardare con leggerezza al giorno, e al mondo, che verrà. In questo affresco di vita contadina, di olmiana memoria se non fosse per la minaccia costante della tragedia incombente, lo spettatore è guidato dallo sguardo penetrante di Martina, la piccola figlia di Lena e Armando, diventata muta dopo la morte di un fratellino, ed ora premurosa custode di quello in arrivo: grazie a lei veniamo a conoscenza dei movimenti e dei comportamenti delle truppe naziste, ma anche delle fughe precipitose dei contadini nei rifugi ritagliati nei boschi, delle azioni dei partigiani, delle sconfitte e delle morti, ma soprattutto dell’inevitabile intrusione della guerra, e della sua violenza, nella vita di tutti i giorni, riuscendo così, alla fine, a dare un nome a quel senso di tragedia incombente che segna tutta la narrazione, già allo scorrere dei titoli di testa, sino alla sua necessaria ed inevitabile esplosione. In un incipit che non può non riportare alla memoria l’atmosfera magica e notturna de La notte di San Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani, tutto è uguale perché tutto cambi: infatti, ove là era la parola (quella di una madre al suo bambino) che traghettava il racconto da un tempo all’altro, da un luogo all’altro, qui si vuole riaffermare 400 la supremazia dello sguardo nella piena consapevolezza che «l’occhio (come la scrittura) [ha] una storia e, di conseguenza, [esistono] differenti modi di ‘valorizzare’ le immagini nella varie direzioni del sacro, del mito, della magia o dell’arte» (Franzini pp. 60-61). È questo il tempo dello sguardo, e in una luce magicamente blu l’occhio della cinepresa, inequivocabilmente assunto alla posizione dello sguardo che poi scopriremo essere quello della piccola Martina, ci conduce nell’interno silenzioso della casa, su per le scale che portano alle povere stanze da letto. Da quel momento in poi, la cinepresa non abbandonerà mai, o quasi mai, lo sguardo di Martina, che alla fine di un racconto tragico e straziante, e che riassume gli eventi di Monte Sole in cui persero la vita circa 700 persone inermi, dopo averci nuovamente riportato all’interno della casa, in un percorso speculare a quello iniziale, con la dolorosa consapevolezza della mancanza che è frutto di un vissuto personale, ma di una vicenda improvvisamente riconoscibile come Storia collettiva, Martina esce all’esterno, si siede su un tronco, spalle alla cinepresa, con in braccio il piccolo uomo che è venuto, ritroverà la voce, e reciterà una ninna nanna dolce e antica, rompendo per la prima volta il suo lungo silenzio di parola. È stato da più parti definito un capolavoro questo film di Giorgio Diritti, che si concentra sulla sofferenza e sulla disperazione di tutti coloro che il cinismo della Storia ufficiale vuole essere «danni collaterali», e che normalmente rimangono, loro sì, soltanto fantasmi in un racconto in cui la luce troppo spesso si fissa solamente su quei pochi che decidono le umane sorti dei tanti. Per mostrare il dolore e la tragedia di quella moltitudine di fantasmi della Storia, Diritti rifugge da soluzioni facili e prosaiche, non amplifica gli elementi spettacolari ed, al contrario, privilegia uno stile asciutto, come asciutta è la sua gente, e sceglie, dunque, il silenzio sulla parola. A quegli uomini, a quelle donne e a quei bambini che vanno incontro alla morte, con paura e lacrime vere, lo spettatore si affeziona, sostiene un critico, poiché ne riconosce la semplicità, la condizione umanissima, la vita difficile, e giunge a sentire quasi l’odore di terra e di stalla che li circonda, soffrendo della loro stessa povertà, ascoltando la durezza di una lingua, necessariamente il dialetto (con i sottotitoli che per questo non disturbano), che ha le stesse asperrità dei loro volti13. 13 Mereghetti afferma poi che lo stile di Diritti «sarebbe piaciuto a Bazin e a chi come lui rivendicava al cinema la capacità di restituire sullo schermo la forza del- 401 In chiusa di questa brevissima incursione nell’evoluzione del cinema italiano degli ultimi vent’anni, vorrei ricordare le parole di Alessandro Manzoni che, ancora una volta, forse, ci può aiutare a meglio comprendere quello che a mio avviso sta avvenendo in una cinematografia che oggi davvero non pare né afasica né asfittica né deambulante in spazi privi di senso. Sono le parole che si leggono nella Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la Tragédie, un saggio di poetica scritto in francese da Manzoni nel 1820 e diretto al critico Victor Chauvet in risposta alle sue critiche mosse nei confornti della tragedia Il conte di Carmagnola (1816): «Expliquer ce que les hommes ont senti, voulu et souffert, par ce qu’ils ont fait, voilà la poésie dramatique: créer des faits pour y adapter des sentimens, c’est la grande táche des romans, depuis mademoiselle Scudéri jusqu’à nos jours»14. Forse allora l’esigenza del nostro cinema contemporaneo è proprio quella di ritrovare la poesia del reale—sintomo della vicinanza— e ritrovarla in tutta la sua drammaticità, registrarne la forma e la voce, portare sullo schermo quella moltitudine di storie multiformi e colorate che fanno davvero la storia di questa nostra bistrattata umanità, e tentare una volta e per sempre di superare le necessarie limitazioni che l’impulso prosastico—sintomo della distanza— impone al racconto, non riconoscendone più né l’urgenza né la veridicità. In occasione dell’uscita nelle sale di Nuovomondo, Emanuele Crialese incontrò la stampa romana e in quell’occasione affermò, infatti, quanto segue: Penso che la poesia non sia mai voluta, e guai se lo fosse. La poesia deve nascere da sola: non si scrive mai nulla per essere la realtà: gira dal vero, mescola volti di professionisti (Sansa, Rohrwacher, Casadio: tutti eccellenti) a altri presi sul posto (la piccola Greta Zuccheri Montanari ma anche i tanti vecchi dei luoghi, alcuni, da giovani, testimoni del vero eccidio nazista), evita luoghi comuni e cadute retoriche. E riesce a regalarci una delle più belle prove di un cinema finalmente necessario, di altissimo rigore morale e insieme di appassionante e coinvolgente forza civile. Un capolavoro». («Corriere della sera», 20 gennaio 2010). 14 Alessandro Manzoni, Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la Tragédie, in http://www.classicitaliani.it/manzoni/chauvet3.htm: «Spiegare quel che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto attraverso quel che hanno fatto, in questo consiste la poesia drammatica; inventare dei fatti per adattare ad essi dei sentimenti è, da Mademoiselle Scudéri ai giorni nostri, il grande difetto dei romanzi». Testo di riferimento Opere varie di Alessandro Manzoni, edizione riveduta e corretta dall’autore (Milano, Stabilimento Redaelli dei Fratelli Rechiedei, 1870), pp. 395-451. 402 apprezzati a priori, sono dei segni che esprimono un’urgenza. C’è del mistero in questo, non c’è vera consapevolezza. Tutte le arti sono legate all’azione inconscia e inconsapevole, bisogna fidarsi di più dei propri istinti e delle proprie paure, tutto parte dalle viscere15. Nell’invocare la possibilità, o meglio, quasi, il proprio diritto a rappresentare ciò che si è “sentito, voluto e sofferto”, come scriveva Manzoni, attraverso ciò che si è fatto “veramente”; nell’invocare la sostanziale supremazia dello sguardo, e del suo potere nel tracciare la mappa della propria rinnovata capacità di testimoniare, e dunque di ricordare e costruire, così facendo, una propria memoria personale, che può, ma non deve necessariamente, farsi collettiva; in questa vera e propria ‘invocazione’ al silenzio come luogo e tempo dell’unica verità possibile, articolata nei modi più diversi, pare risieda la forza nuova di questo nostro cinema italiano contemporaneo. In conclusione, mi piace ricordare le parole con cui Federico Fellini volle chiudere La voce della luna, la sua ultima fantasia registica e quasi il suo testamento ideale, dando la parola a Roberto Benigni/ Ivo Salvini, quand’egli sussurra: «Eppure io credo che, se ci fosse un po’ più di silenzio...forse qualcosa potremmo capire!», mentre si dirige verso il pozzo per ascoltarne le “voci”, con lo sguardo rivolto alla Luna. 15 Nuovomondo: incontro con Emanuele Crialese, a cura di Gabriele Marcello, 20 settembre 2006, http://www.cinefile.biz/?p=1714. 403 Paola Lorenzi I Am Love: Italian Antidote to the Hollywood Cinema of Aliens, Mutants & Vampires Abstract This essay examines how Luca Guadagnino’s I Am Love (2009), masterfully reflects a distinctive stylistic heritage common to a new generation of Italian filmmakers. Furthermore, the article explores how the death of the American Dream and the consequent Hollywood studios’ choices were instrumental to the successful expression of uniquely human sentiments as portrayed in I Am Love. What is the dominant trend emerging in American cinema in the midst of a devastating economic recession? What we are witnessing is a massive production of films moving towards the reassuring port of the supernatural, epic and fantastic heroes. Society is abandoned as alternate realities are seen as the only viable retreat. In the mix of these very peculiar worlds of avatars, flying vampires of the twilight, X-men and monsters of all assortments, sizes and disguises, I Am Love, represents a dramatic and vivid portrait of the landscape of human love. It reaches the American audience’s desensitized perceptions and reawakens their senses at last. As in one of its pivotal sequences, love impetuously breaks out like an epidemic and contagiously envelops its victims in a natural and almost primordial embrace. Seemingly it is the unraveling of the finely weaved nuances of love, which capture and mesmerize the viewers. I will explore how Luca Guadagnino’s film, almost completely ignored in Italy, received great recognition of critics and audiences and gained international acclaim. As periodically happens, savvy critics attempt to resurrect the idea of a new Italian cinema and its prominent presence in the international markets, envisioning a new, prolific generation of Italian “auteurs” as in the case of Life Is Beautiful (1997). Such expectations are almost 404 always followed by seasons of invisibility, longing for a much-anticipated new wave of Italian filmmakers. In a recent interview director Quentin Tarantino stated: The Italian films I have seen in the last three years are all the same. They talk about boys growing up, or girls growing up, couple having a crisis, parents or vacations of the mentally impaired. What has happened? I so much loved the Italian cinema of the 60s and 70s and a few films of the 80s, and now I feel it is all over. It’s a true tragedy1. Tarantino’s point of view, limiting the Italian cinema to its mere content, constitutes a narrow view of the most recent Italian productions. I will establish, rather, how the contemporary Italian cinema is in fact, the result of precise and deeply entrenched stylistic cinematic traditions and how I Am Love is a masterful interpretation of such a heritage. Paradoxically, it is Hollywood’s studio productions that lack a human discourse, disguise a true crisis of themes and values, drown in the shallow waters of the super hero stories and bury the American dream beneath unreal and phantasmagoric worlds. The Cinematic Heritage I will proceed by isolating the most prominent models that have marked the path of the evolution of the Italian cinematic language, a fountain from which today’s directors such as Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino and others draw from. These very same models have shaped both Italian production companies and viewers’ choices. The first model is the realistic movement of Roberto Rossellini, which responded to a necessity of combining the lack of means and the need of postwar directors to convey their ideological and artistic vision. Rossellini, in expressing his marked documentary stylistic preference by capturing the deepest pathos of postwar reality, transcends the mere recording of facts typical of the documentarian tradition and the restraint of the Verismo’s literary heritage. He created a 1 Baldocci, Rosa, I nuovi film Italiani? Una tragedia, «TV Sorrisi e Canzoni» 1st June 2007: 23 Print. 405 new cinema capable of redeeming and elevating his visual narrative beyond these limitations, thus opening a new, unparalleled horizon in the future of Italian filmmaking with Rome, Open City (1945). He focused on the predicaments of ordinary people and turned the camera lens on landscapes of the Italian peninsula, until then unimaginable, as in Paisà (1946). Attention pointed towards reality, the discovery of unusual faces and often times unappealing places, storylines built around marginal characters and abrupt language are also found in a few other seminal works of the same period, as in the works of De Sica, Sciuscià (1946), Bicycle Thief (1948), Unberto D (1952), and Luchino Visconti’s The Earth Trembles (1948). The earlier pioneering works of Alessandro Blasetti Four Steps in the Clouds (1942), Luchino Visconti Obsession (1943) and De Sica The Children Are Watching Us (1943) must also be mentioned here as they paved the way for Rossellini’s Rome, Open City. The next model is the whimsical world brought forth by Federico Fellini in his magical, dreaming, almost surreal narratives, derived from the deepest dimensions of daily living. This marks the polar opposite cinematic discourse. It is not a cinema of special effects; it is instead the result of a creative imagination free to mix memories and present, dreams and reality, archetypes and burlesque characters. From this inexhaustible material he derives the recurrent presence of symbolic places like the circus, the sea, the fog, the dream and many unforgettable characters that characterize his cinema. It is Fellini’s legacy and lasting tradition that has influenced, for example, Roberto Benigni’s recent works. The third model is a cinema targeting a larger audience, striving to produce widely appealing and vivid entertainment, however still refined and thought provoking. The film heritage of Mario Camerini and Alessandro Blasetti is found in the works, crafted by true artisans, for a broad audience enticing with a fine populist charm and laughterinducing gags. It is the high-grossing box office cinema legacy forged by the “comedy Italian style” filmmakers such as Mario Monicelli, Luigi Comencini, Pietro Germi, Dino Risi, Lina Wertmüller just to mention a few. The final model, the one more specifically reflective of Luca Guadagnino‘s I Am Love, is the one of beauty. The research of aesthetic and artistic elements was finely celebrated in the works of Luchino Visconti, and from a polar opposite perspective, by Michelangelo 406 Antonioni. To Visconti, beauty is filling the image with opulent sets, costumes and a lavish cast ensemble. In Antonioni’s films, beauty is absence and space is emptiness as the narrative unfolds through slow camera movements and their juxtaposition, characters enter and exit the screen. Both directors are seeking to create in the audience the perception and the direct experience of beauty. This grouping should not be interpreted as constituting an attempt to label into static boxes the production, the cinematic discourse of certain filmmakers, or a rigid matrix characterizing the evolution of Italian cinema. On the contrary, it aims to outline the prominent different sources from which our young directors have inherited their stylistic preferences. These predilections have become an integral part of their artistic DNA and in a sort of cross-contamination we find transported the legacy of many of our world-renowned directors. However, it is necessary to mention that the majority of recent Italian cinematic productions depend upon regional commissions or government financing. Furthermore their quality has been influenced by the uncertainty of their distribution and/or still heavily controlled by two television giants, Mediaset and Rai. This reality has also been confirmed by the president of Cinecittà Luce, Roberto Cicutto when he stated, “Let’s not forget that in the eighties we had a new development in commercial television that came when media tycoon Mr. Silvio Berluconi set up his private television network. Instead of generating great competition he just put a lot of money into the market, which transformed that money into images without a good story, without a good cast thus ruining the market. For years we could only do the movies that Mediaset and Medusa decided to produce and distribute. Their monopoly was something that gave the Italian cinema more visibility as they spent more money in P&A but they destroyed us independents because we couldn’t compete we those giants. Now we have decided to take back our identity by telling the politicians that we need the instruments, like tax credits, to develop the industry. So we know why we have been trapped in this situation yet we have a brighter future knowing that we have the variety of directors, cast and writers. I feel in the next five years you will be pleasantly surprised.”2 2 Cicutto, Roberto, “Cinema Italian Style: symposium on Italian Cinema”, Royce Hall, University of California Los Angeles, Los Angeles, 9 Nov. 2010. Address. 407 Today’s Italian film productions inspired by the more commercially appealing comedy Italian style tradition are the franchise works of Giovanni Veronesi in The Manual of Love (2005), Federico Moccia’s Sorry if I Love You (2008), Fausto Brizzi’s The Night Before the Exams (2006) or Paolo Virzi’s Hardboiled Egg (2000), A Whole Life Ahead (2008) and The First Beautiful Thing (2010) Italian entry for Best Foreign Language Film at the Academy Awards in 2010. In a similar commercialized vein can be found Gabriele Muccino’s Italian productions, The Last Kiss (2001), Remember Me My Love (2003) and Kiss Me Again (2010), to mention a few. More artistically complex and thematically ambitious are Giuseppe Tornatore’s Malena (2000), The Unknown Woman (2006) and the most recent Baharia (2009), official Italian entry for Best Foreign Language Film at the Academy Awards in 2010. The latter is a striking ensemble work that traces back to the detailed sets, sophisticated reconstructions, impressive camera work, editing and sound mixing, found in the majestic productions of Bertolucci’s 1900 and The Last Emperor. It is, however, lacking the same compelling narrative and cohesiveness. The cinema of socio-political realism is evident in the recent production of Michele Placido’s Crime Novel (2005) where long chapters of Italian history are told through the eyes of a band of criminals; or also in The Big Dream (2009), through the perception of a young police officer during the Italian civil tumult of 1968. With a soft and endearing voice, reminiscent of Ettore Scola’s We All Loved Each Other so Much (1970), Marco Tullio Giordana speaks to the audience in 2003 with The Best of Youth. Through a multiple storyline narrative, he engages in detailed character analysis and story development that spans a thirty-year period. Gianni Amelio’s Stolen Children (1992) and Lamerica (1994) adopted both the socio-political legacy of directors such as Pier Paolo Pasolini and Francesco Rosi and the neo-realism of Rossellini, thus capturing in a unique style the moralsense of reality while remaining free from its aesthetic rendering. Flourishing in the light of the cinema of social criticism is the even stronger minimalist biting “heart-noir” of Matteo Garrone. His carefully composed monochromatic images, depicting emotionless and never-predictable characters in their daily pathological deformity, offer a great example of the renewed Italian cinema in The Embalmer (2002), First Love (2004), Gomorrah (2009). This rebirth is accentuated in Paolo Sorrentino’s The Consequences of Love (2008), The 408 Family Friend (2006), and Il Divo (2009), Jury Prize Cannes film festival winner. Sorrentino explores the psychological aspects of interpersonal relations with marginal characters seemingly deprived of their pathos and portrayed in their continuous progression through life. Although Sorrentino and Garrone adopt a completely opposite cinematic style, both Il Divo and Gomorrah make a bold claim to the realist heritage of “denuncia”. Their films are directly related to their venerable predecessors’ cinema of strong ethics and social commitment, yet superseding it in form and style. While Garrone celebrates exasperation and deformities, Sorrentino depicts political engagement with a unique semiotic playfulness and esthetic exuberance. The Fellini legacy, which could be referred to as the parable model, is instead well preserved in Roberto Benigni’s Life Is Beautiful (1997), Pinocchio (2002) The Tiger and the Snow (2005), and in Ermanno Olmi’s Singing behind Screens (2003) and Hundred Nails (2007). Younger director Emanuele Crialese finds his vivid voice swimming through the waters of myth in Respiro (2002) and surreal places in Golden Door (2006). It is the classic look of Visconti’s expert eye for fine details, elaborate and sumptuous sets and the almost ostentatious beauty of his films, which we find transmuted, magically recreated in the life of the aristocratic Recchi family in Luca Guadagnino’s I Am Love. A thick mantel of snow covering the family villa brings back to memory the white, dusted faces of the Prince of Donnafugata in Visconti’s The Leopard. Seemingly, the images of Milan’s Pirelli building in Antonioni’s La Notte, or the cold, bare wall against which Lidia is dwarfed, and her strolling away through suburbs, is renewed in the Milano of Emma Recchi as she walks to the top of the cathedral to find a space. The camera movement exudes meaning beyond the realism of the image itself. This self-recreating quality of Italian cinema, capable of finding its new identity and gaining international visibility by deeply sinking its roots in its symbolic heritage, is clearly not a casual matter of good fortune or to the contrary a lack of captivating content as director Tarantino stated. Rather, it lies in its carefully preserved traditions, which remain the source from which new directors continue to derive their strength, courage and inspiration. 409 The American Dream and the super-hero’s storytelling On the other hand, American cinema, with sixty-four productions in 2010, and an even larger number of super-heroes in 2011, excessively celebrates the death of the American dream. As the Hollywood industry is in keeping with the studio tradition of entertaining the audience, it drifts further away from movies reflective of the present day socio-economic status where the ideals of fairness, justice and meritocracy are abandoned. Such productions are oriented toward the non-threatening worlds of Pandora, werewolves, Transformers, X-men, Wolverine, the Avengers, and Captain America, all promising an adrenaline rush and easy entertainment. Monsters, mutants and vampires are the new heroic symbols for all, where vast audiences can comfortably bury their dismay, concerns and their lack of spiritual security. Hollywood has also disguised the death of the dream by responding to a new wave of technological innovation. It has brought forth a new industry of computer-generated images, fast syncopated editing of apocalyptic disasters and a vast array of transmedia3 (Jenkins 21) creatures securing high-gross box office returns for studio executives. The American Dream can be defined as a general belief in freedom that allows all citizens and residents of the United States to achieve their goals through hard work - a person can prosper regardless of his or her social or class upbringing. It implies a general opportunity of betterment and prosperity offered to everyone without constraints of class, caste, race, religion or ethnicity. It rests upon the liberal tradition that property leads to liberty and thus happiness. It is stated in the Declaration of Independence: « …all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable rights, that among these are life, liberty and the pursuit of happiness». The American Dream is based upon the belief that citizens must have equal rights, and opportunities as well as the freedom of trade and competition, which allows them to maximize their skills. Hard work is the only variable which one must choose or not to achieve the dream. The 3 Jenkins, Purushotma, et al. Confronting the Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st at the most basic level transmedia stories or TS «are stories told across multiple media. At the present time, the most significant stories tend to flow across multiple media platforms» (p. 46). 410 success of one’s dream is measured by accumulated material gain and perhaps less clearly through philanthropic endeavors - rarely through spiritual values and service to mankind. It is necessary to briefly outline the progression of the American Dream in filmmaking to comprehend how the present Hollywood productions constitute a fine attempt to turn imaginary situations into reality and to make characters look “true” – thus concealing a powerful escape from “social attention”4. “The Classic American Dream” is depicted in westerns and the settlement of the frontier. This is masterfully celebrated by George Stevens’s Shane (1953), in John Ford’s My Darling Clementine (1946) and in Howard Hawks’s Red River (1948). The second stage could be defined as the “Corruption of the Classic Dream”. Movies such as Fred Zinnemann’s High Noon (1952), or Sam Peckinpah’s The Wild Bunch (1969) and Martin Ritt’s Hud (1963) are just a few examples of this stage. The frontier is settled or nearly so, as the roots of bribery are evidenced in characters, moved by greed and power, who battle the community and typically lose their personal integrity. The third stage may be called “The Defined American Dream”. The frontier is now settled. The Dream is reborn and redefined, alive and vibrant seems to be the future of all. Victor Fleming’s The Wizard of Oz (1939), Vincent Minnelli’s Meet Me in Saint Louis (1944), and the movies of the fifties in general, celebrate this ideal phase. The fourth stage can be referred to as “The Crisis of the Dream”. The frontier remains settled, while the institutions are shaken, sometimes working and at other times failing. Movies such as Arthur Penn’s Bonnie and Clyde (1967), Mike Nichols’s The Graduate (1967) Francis Ford Coppola’s The Godfather (1972), Martin Scorsese’s Taxi Driver (1976) are indicative of this stage. The fifth stage reflects “The Dream in Terminal Crisis”. People live in a society but find their values outside of it or within themselves. Movies such as Sam Mendes’ American Beauty (1999), Steven Soderbergh’s Traffic (2000) and Ocean’s Eleven (2001) celebrate this theme. The last phase, “The Burial of the Dream” brings us to today. 4 Carpenter, Frederic, American Literature and the Dream, Philosophical Library, New York, 1955. Print 411 Society is abandoned, new heroes and worlds are sought as the only possible escape from failing institutions. Chris Columbus’ Harry Potter (2001), Andrew Stanton’s Wall-E (2008), and all super-hero movies fit this model. The lack of a new dream reflects the general belief that the American Dream has not fulfilled its promise – coincidentally twentypercent of Americans control eighty-four percent of the American wealth5. It generates a false sense of entitlement, and a get-rich-quick “mind no one” mindset. The flourishing of a large number of superhero stories and fantasies of becoming an overnight millionaire reinforce this assumption while moving further away from offering any alternative spiritual or emotional security in lieu of the material one that the Dream has failed to fulfill. Hollywood genre storytelling of “escapism” and the absence of a profound human discourse, has been inadvertently a catalyst to the success and recognition of Guadagnino’s third feature film by the American public and critics. Because I Am Love echoes of its heroine being torn between today’s dream of material wealth, status, security, and her freedom to love, it has captivated viewers. I Am Love: uniquely human sentiments As I Am Love’s opening titles begin to roll over a series of tableaux of the northern city of Milan covered in snow, we immediately have the perception of being introduced to one of the characters. Milan, very seldom the ideal set for a romantic drama, is a city that almost conceals its authentic beauty behind the grey facade of its austere architecture, which offers a bold contrast to the beauty of the interior of its buildings. Milan represents the most developed city in Italy, home to an almost extinct ruling class of capitalistic industrialists, here well portrayed by the Recchi family. As the camera comes to rest on the stark, marble steps symbolically covered by powdered dunes of dusted snow of the impressive Villa Necchi Campiglio, built in the 1930’s by Milanese architect Piero Portaluppi, we know we are about 5 Alen, William, “American Vastly Underestimate Wealth Inequality, Support “More Equal Distribution of Wealth”: Study, in «Huffpost Business», 23 Sept. 2010, n. pag. Web 29 March 2011. 412 to enter a very well guarded world of an Italian dynasty. The Recchi, distinguished textile barons, are gathering to celebrate Edoardo Sr., the old patriarch’s birthday. Three generations are seated at the lavish dining table, while perfectly trained, white-gloved servants carefully ladle Ukha, a clear Russian soup as a starter to the sumptuous dinner. The Recchi’s are old family money, as suggested by the poised manners, soft-spoken conversation, impeccable etiquette and by the abundant display of Giorgio Morandi paintings on the walls. The setting is crowned by the patriarch’s proud speech when he rises and declares, «We carved our name into the country’s history». This is not done without dutiful compromise with the regime, as one brother argues in a later scene, «While he exploited Jewish workers… that’s what we Recchi are». Perhaps sensing that he will soon pass away, he states, «My dear friends, I don’t want to die», and announces the division of his empire between his son, Tancredi, and his grandson, Edoardo Jr., Tancredi and Emma’s son. He pompously continues while his impeccable wife Allegra, known as Rori, nods her apparent approval. With a mixture of shrewdness and arrogance he proclaims with King Lear intensity, «It will take two men to replace me!» Henceforth, as in the Shakespearean drama, disruption sets in. This is the first of a few impetuous changes the family is about to experience. Emma and Tancredi’s daughter, Betta, decides to pursue art studies in London, while Edoardo Jr., “Edo”, proposes marriage to his girlfriend Eva and embarks on a business venture with a new friend, a talented chef. The camera indulges over the deep, delicate, expressions in Emma’s eyes, looking secretly for her son’s loving smile across the table so as to establish their deep connection. She is the icon of the Recchis’ status; beautiful, sophisticated, distant, and respected, she directs the house with a soft touch as if it were an innate quality. We learn she is a Russian native, clearly having married into the family wealth, as evidenced in her friendly relationship with their housekeeper Ida, atypical of a high-society household. «Why don’t you dine with me this evening?» she later tells her housekeeper friend and confidant. Who will survive the rivalry of generations? Who will continue the dynasty? And who is the fellow knocking at the door during the snowy, dark night? It is the young chef Antonio, who won a car race against Edo earlier that day. He brings a consolation present to the 413 defeated one and to the Recchi family. It is a box that could contain anything from a peace offering to an unexpected explosive. It is, indeed, a very special cake, as is the person carrying it. So exceptional that it compels Edo to call his mother to meet the chef. To emphasize her emptiness, suddenly we see Emma, in a shot from above, dwarfed and alone against the glowing carpet of the entryway. She rushes upstairs to spy from the safety of her bedroom window, as the unexpected visitor slips away in the fresh, falling snow. Emma’s loneliness is again expressed through the subtleties, grace and bracing honesty of her facial expressions. The springtime sees Emma walking the streets of Milan, wearing the same color of her surroundings, melting into and almost hidden in the grayness of the city. The camera assumes her point of view reflective of Tilda Swinton’s (Emma) predilection for bold, female main characters as she portrayed in Orlando. Emma makes a quick stop at a drycleaner where she picks up a CD containing a note Edo forgot in his laundered jacket. The stark geometry of Milan’s architecture evokes Antonioni’s imagery as she makes her way to the top of Milan’s Cathedral, climbing through a forest of pinnacles and gothic spires. The camera lingers on her slender body, her somber elegance, the effortless flow of her clothes, reaffirming symbols of her affluence. She sits down and reads Betta’s revealing note found inside the CD. It is a liberating confession addressed to her brother Edo in which she shares the joy of her new found lady-love she met in London. Upon returning home, Betta openly discusses with Emma her newly discovered preference. Betta, bearing an incredible resemblance to her mother’s pale complexion and coloring, confesses to her, “It is not a passing thing, I am sure”. Something sparks in Emma; it is indeed a contagious fire, which not even the providential spring showers closing the scene can extinguish. Emma later joins Rori and prospective daughter-in-law Eva, for a Recchi women’s luncheon at Antonio’s restaurant. As Eva proves herself to be worthy of the Recchi by sharing her concern over Edo’s haste to open a restaurant with his new friend chef Antonio, the meal, ironically signals Emma’s emotional break from the Recchi clan. In this pivotal scene, Antonio prepares a specific dish for each woman. The camera takes her point of view as she is beamed alone in a halo of light in front of a perfectly composed cluster of luscious, translucent prawns, as bright red as her renewed wardrobe. The room’s surrounding conversations are muffled as she 414 takes her first bite and finds herself enthralled in a blissful ecstasy of sensorial pleasure. Guadagnino echoes pervasive Renaissance paintings of religious illumination, as Emma’s face fills the screen, suggesting the reawakening of all her senses with every morsel. In literature, a most memorable association between the sense of taste and love remains Marcel Proust’s enchanting description of the elation provoked by the taste of a madeleine soaked in a cup of tea6. An exquisite pleasure had invaded my senses, something isolated, detached, with no suggestion of its origin. And at once the vicissitudes of life had become indifferent to me, its disasters innocuous, its brevity illusory – this new sensation having had on me the effect which love has of filling me with a precious essence; or rather this essence was not in me it was me. (1:45) The quotation is necessary to appreciate the parallelism of Proust’s and Emma’s experiences. They both are taken in a sudden ecstasy without logical explanation. It is possible that Emma, in her earlier life, was familiar with the special dish Antonio has prepared for her and its taste viscerally brought her back to a previous life she wanted to erase. At this point Proust begins his “recherche” to find the connection between a madeleine, a tea, and the memory of past things; Emma instead begins the “recherche” of herself, Kitesh, the independent woman she was before marrying Tancredi. It is also peculiar that Proust compares his elation with the effects of love and concludes by affirming that this precious essence “was not in me, it was me.” Hence, I am love. Italo Calvino offers another interesting literary connection between the sense of taste and erotic drive in Under the Jaguar Sun. In this short story Calvino explores the food, exotic atmosphere and ancient rites a couple experiences during a vacation in Mexico. The hot sauces, the spices, added to the sacred meaning of Mexican temples and human sacrifices excite in both of them the desire to devour each other (Calvino pp. 3-29)7. As in the magical realism of Alfonso Arau’s feature Like Water for 6 Lorenzi, Paola, trans., À la recherche du temps perdu, Du Cote de chez Swann, Vol. 1, By Proust, Marcel, Paris, Gallimard, 1954. Print. 7 Calvino, Italo, Under the Jaguar Sun, trans. William Weaver, San Diego, Harcourt Brace, 1988. Print. 415 Chocolate (1992), the surreal power of a well-prepared dish seems to be able to elicit from the fortunate recipient a vast array of cathartic sensations upon its consumption. Over the years this has become almost a cinematic cliché. Emma’s awakening, as she begins to slowly recognize herself, opens the doors to Antonio’s subliminal element of erotic suggestion so profoundly presented on her plate. The dramatic necessity given to foreseeable events is masterfully overshadowed by the special way in which Guadagnino brings the situation to life on screen, revealing a filmmaker with a vast emotional sensitivity, able to evoke all senses. The narrative is, at times, elliptical and allusive as the camera indulges on an empty screen waiting for characters to appear. In alternating long shots and extreme close ups, it retains and conveys a human quality that instantly draws the audience into Emma’s world. Summertime arrives with Betta’s invitation for Emma to join her in Nice to look for a space for her exhibit. During the drive there, Emma’s subconscious is at work bombarded by a continuum of fragmented voices inciting her to break free from her past. She stops in Sanremo where she knows Antonio has his organic vegetables heaven and where he and Edo are planning to open their restaurant. John Adams’ intricate yet non-judgmental score masterfully complements Emma’s game of “hide and seek” with Antonio. It is carefully played through the streets of Sanremo, where she sees him from a distance and follows him in a crescendo of musical intensity and camera angles reminiscent of Hitchcockian suspenseful elegance. Emma doesn’t project her anxious feelings, rather she personifies the emotional tension preceding their sudden encounter outside of a bookstore, when she finally bumps into her prey. Her personal transformation begins to take place when they drive together to his farm in the surrounding hills of Sanremo, as she abandons herself to the Amor Fati (Nietzsche p. 223)8. Beautifully photographed by Yorick Le Saux, enveloped in a bacchanal of light, skin, flowers, smells, sounds, insects, with the taste of a summer in full bloom, she is finally free to accept their fated love. Adams’ vibrating score accentuates the call to the primary senses. The lovemaking scene is fragmented, glimpsed. The beautiful imper8 Nietzsche, Friedrich, The Gay Science, trans. Walter, Kaufmann, New York, Vintage, 1974. Print. 416 fection of her body becomes central to the frame, almost impossible to be contained on the screen. The subtlety and suppleness of movements are captured in a montage of intertwined bodies, nature, and pollinating insects, and it is within this naturalness she embraces the unpredictable imperfections of life – in direct contrast to the orderly Recchi’s world she is about to abandon. The scene is a supreme bravura of the Italian cinema and the brightness marks a definite contrast from the dark palette defining the more somber moments at the Recchi residence. For Guadagnino the antidote to the rigid verticality of the capitalistic and aristocratic world lies in the horizontal flow of nature and in the couple’s blissful immersion in the natural landscape. After their encounter Emma returns to Tancredi’s home. Swinton’s faithful, direct, distinctive acting style embodies Emma’s happiness rather than passion. Her actions reflect her new desires and the confinement she feels in her cushioned, insular world of wealth. She no longer wants to be another ornament in the Recchi’s collection. Emma is now strong enough to reclaim her identity, starting with her first name, Kitesh, that Tancredi had carefully changed to Emma to Italianize her persona. This is followed by different tones of orange and reds in her wardrobe and a very short haircut, all of which underline her inner transformation. Emma had surrendered to the enchantment of the western world as she confessed earlier to Antonio, «When I arrived in Milan I stopped being Russian» and her fascination for material security she had chosen when she married into Tancredi’s wealth, «There was too much of everything in the street, in the shops». With Antonio, she expresses her passion for cooking and how she used to prepare her grandmother’s soup, Edo’s favorite dish, Ukha, whenever she felt homesick. She then prepared for him the family recipe sharing her expertise in rendering the broth perfectly clear so as to reflect oneself in it. Meanwhile in London on a business trip, against Edo’s advice and wishes, Tancredi sells the Recchi’s company to an Indian globalist, Mr. Kubelkian who promises to take the Recchi name and make it global. Edo is distraught as their dynasty’s name is now reduced to a role of a brand, moved into the realm of pure capital. However Betta does not share Edo’s concerns, «We will be richer» she tells him. Edo feels the rudderless change on the path of quick profit as disruptive, and a premonitory sign of bigger disorder as he tearfully hides his face in the housekeeper’s comforting embrace. 417 It will take the imploring invocation of Umberto Giordano’s opera lyrics, “I am love”, that Emma watches at the opening of the third act, to disclose the doors to the post modern melodrama. The powerful aria suggests her inevitable destiny and carries the narrative to its presumable conclusion9. A dinner celebration seals the business deal, and pulls the curtains over the personalities of these finely woven characters. Antonio, wanting to surprise Edo, prepares his favorite dish. When the perfectly clear broth is served at the dinner table each one can see their reflected image in it. This leads Edo to the bitter realization of his mother’s betrayal of his love. The two leave the table to confront each other in her native language Russian, outdoor by the pool. He says, «You are lying, you even gave him our Ukha» then switching back to Italian he continues, «You are nothing to me». Stretching her arm to touch him, she replies, «Trust me Edo». He, trying to abruptly avoid her, loses his balance and hits his head against a corner of the pool. Futile are the efforts to save his life at the hospital. In a torrential rain after Edo’s burial, Tancredi follows Emma into an empty church where they engage in a final, dramatic confrontation. Emma, resembling a scarecrow, stands barefoot in the middle of the church, motionless. She stares into space, her hair, now short, is dripping wet. He drapes his jacket over her shoulders as a large bird suddenly flies across the ceiling dome, while he states, «We have to carry on together». Then a second bird flies across the dome and lands to rest on a windowsill as she utters, «I love Antonio». At this decisive moment the drama takes expressionistic wings. Tancredi, promptly takes back his jacket and declares her disowned with his final words, «You don’t exist». His comment seems to echo Edo’s last sentence «You are nothing to me». This scene represents the underlying dehumanizing effects of all forms of extreme dominations, whether economic, political or interpersonal. No further words are spoken. Emma rushes to gather her belongings and leaves the Recchi home followed by Betta’s approving, tearful eyes. Guadagnino clearly condemns the disruptive capitalistic power that the Recchi’s world represents. The very same concentration of wealth and power is the cause of the death of the American Dream. Without the middle class the dream can not survive. The crisis of the 9 Giordano, Umberto, La Mamma Morta, Walford Town Hall, 1954, CD. 418 Dream is the crisis of unequal wealth, which adds to the growing lack of trust in institutions, in progress and in mankind’s future. Similarly, the Recchi by exploiting their workers and selling their company they grow “even richer” thus contributing to economic disparity. As the final credits roll, a dark, blurry image of Emma and Antonio in a cave appears beneath the titles. This image is perhaps symbolic of the mythic tale of Ariadne and Dionysus, where, after Theseus abandons Ariadne on Naxos, Dionysus offers her shelter in his cave (Cotterell p. 83)10. With this final scene Guadagnino confirms that his criticism is not addressed to the characters’ choices but rather to the physical space they inhabit and which they have built for themselves. In their bourgeois villa they are trapped in a statuary mis en scene. In returning to nature, to the primordial order symbolized by the cave and the two lovers clinging to one another, Guadagnino suggests his sympathetic yet not completely benevolent outlook. The cave is also enveloped in darkness so as to infer the momentary nature of the harmony and peace of the lover’s newfound Eden. In their embrace they are finally at ease in the environment. Luca Guadagnino’s sensitive and keen perfectionism exemplarily validates the model of beauty established by Visconti and Antonioni’s indelible heritage, merging it in an ultramodern cinematic style with a poised, at times, an even austere classicism – recreating a remarkable piece of Italian cinema in the new millennium. I Am Love, with its star cast, pulsating score, meticulously creative production designer’s representation of a social class, Oscar-nominated costumes, is a powerful ensemble piece. It is genuinely entertaining with its sumptuous viewing, dynamic listening and gourmet tasting. Furthermore, by offering to the American audience an intensely human tale of love proves itself to be a formidable antidote to the mainstream Hollywood cinema of monsters, mutants and vampires. 10 Cotterell, Arthur, The Encyclopedia of Mythology, New York, Smithmark Publishers, 1996, Print, p. 83. 419 Making people feel. It is all about the transforming power of love 11 During his visit to Los Angeles for the screening of I Am Love, nominated for a 2011 Golden Globe award in the best foreign language film category, director Luca Guadagnino graciously agreed to an extemporaneous short interview. PL: Did you have in mind a specific mythological meaning to the final image of Emma and Antonio in the cave beneath the ending titles? LG: The closing image, almost lost under the ending titles is intentionally left open to the public’s interpretation. It was not my intention to give the image any predetermined meaning or a specific key of interpretation, mythological or else. I wanted to force the audience to think and to come up with their own conclusions. PL: What do you think has been your main literary inspiration for this movie? LG: I love Thomas Mann’s Buddenbrook. It’s the book of my life. It is my inspiration behind the story and the decadence of a family that wants to stay the same. Every repressed feeling once it comes to surface really has a lot of power. PL: How long have you been working on this film? How did this project come to life? LG: It goes back at least seven years, when I first worked with Tilda Swinton on a short documentary: Tilda Swinton: The Love Factory, which is a documentary about love. The idea was entirely built around Tilda’s character. I have been working with Tilda since our first project together in 1999, The Protagonists. I never found that Tilda was simply an actress. I think when I talk to her about movies it is like talking to another filmmaker. The process of making I Am Love was very long and very difficult, financially in particular. What I love about this movie is that many people gathered together and brought 11 Guadagnino, Luca, Personal Interview, 15 Jan. 2011. 420 to life the idea behind the movie, which is how, the mysterious force of love, can change everything even when you don’t think you want to feel anymore. I wanted very much to show a woman dealing with love and its transforming power and how then she deals with material security, ideals, being part of a large aristocratic family, a kind of an exile within the exile. As always, ideas transformed in the course of their genesis and evolution. PL: Why a Russian? Why this outsider? LG: I always had a fascination with Russia. I once met with Giulietto Chiesa, a journalist, who explained to me how Russian women can be very strong, very open but also very soft, very mysterious. The idea of this woman that thinks herself to be very integrated but still has her individuality, an essence that you didn’t expect to be there, and that’s what I wanted to represent. I also liked very much the idea of contamination of places and identity, especially hers which is still there and vibrant. PL: What do you think of the critics comparing your work of Visconti and even Antonioni? LG: I am very humbled by the comparison to Visconti’s film and even to Antonioni, I would be lying if I wouldn’t admit that I really studied their movies, yet I think it is really important to be very meticulous and precise about the world you want to portray. Antonioni’s Milano has been consciously and unconsciously a great inspiration for all of us. PL: Which painters have inspired you? Is there any painter in particular that you feel had influenced your work in I Am love? LG: I have studied a lot of painters and their work. Paintings have been the guide that influenced in particular, influenced the choices in photography. Among the painters we viewed I immediately can mention the work of Giovanni Boldini and his contemporary Giuseppe Denittis especially for his paintings of aristocracy and bourgeoisie in general. Louise Coupe guided our choices for the images of nature and for the factory and how to render the abstract images of lines. I further explored and especially I studied a lot the works of Kazi- 421 mir Malevich and his view of rendering a familiar landscape into an abstraction. PL: What do you think about the success of your film in the US? LG: I am always surprised by the success of my film and of film in general, because the audience is an abstract entity and their approval and validation always remains something abstract and far remote from the mind of the director, in particular, mine. PL: What is your next project you are working on? A new feature film? LG: No, I just completed a documentary named Italian Unconscious about the Italian war in Ethiopia. PL: Thank you Luca and good luck at the Golden Globes. Works Cited Bazin, André, What is Cinema? 2 Vols., trans. Hugh Gray, Berkley, University of California Press, 2005. Print. Brunetta, Gian Piero, Il cinema italiano contemporano. Da La Dolce Vita a Centochiodi, Bari, Laterza, 2007. Print ―, ed Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo economico 1945-1959, 4 Vols., Roma, Editori Riuniti, 2001. Print. Calvino, Italo, Under the Jaguar Sun, trans. William Weaver, San Diego, Harcourt Brace, 1988. Print. Carpenter, Frederic, American Literature and the Dream, Philosophical Library, New York, 1955. Print Cotterell, Arthur, The Encyclopedia of Mythology, New York, Smithmark Publishers, 1996. Print. Giordano, Umberto, La Mamma Morta, Walford Town Hall, 1954, CD. Metz, Christian, Semiologia del Cinema, Milano, Garzanti, 1989. Print Nietzsche, Friedrich, The Gay Science, trans. Walter, Kaufmann, New York, Vintage, 1974. Henry, Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New Media 422 Collide, New York, New York UP, 2006. Print. Henry, Jenkins, Transmedia Storytelling 101, 22 March 2007, http:// www.henryjenkins.org/2007/03/transmedia_storytelling_101. html. Jenkins, Purushotma, Clinton, et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st Ventury, Chicago, The John D. and CatherineMcArthur Foundation, 2007, <http://www.digitallearning.macfound.org>. Proust, Marcel, À la Recherche du Temps Perdu, Du Cote de chez Swann, 7 Vols., Gallimard, Paris, 1954. Print. Sarris, Andrew, The American Cinema: Directors and Directions, 1929-1968, 1st ed. New York, Dutton 1968. Print. Thompson, Kristin and David, Bordwell, Film History. 3rd ed., New York, McGraw-Hill, 2009. Print. 423 Diana Parisi Mimmo Calopresti e il cinema dell’esser-ci. Ricerca, riflessione, rivoluzione. Uno dei pochi che sopravvive ancora al concetto di autore, Mimmo Calopresti può essere definito tale grazie alla sua lotta incessante contro la diffusa incapacità di riflettere e ritrarre. La risata grassa e poco intelligente sembra l’unica cosa che chiede il nuovo spettatore, ineducato all’immagine. Nonostante questa condizione endemica dalla quale attualmente sembra difficile uscire – perseguire una poetica autonoma e libera, nel cinema di Calopresti, più che un obiettivo è il diritto-dovere di chi non si limita a fare il mestiere di regia ma il “mestiere del cinema” tout court. Allora il compito di chi “fa cinema” continua ad essere la scoperta e la messa in scena di un pezzo di realtà. Che sia interna o esterna, che si tratti di un paesaggio, di un volto, di uno stato d’animo, di un sentimento o un’esistenza, ciò che bisogna mostrare è la realtà. Cesare Zavattini sosteneva che chiunque allarga l’area della conoscenza con la macchina da presa è un autore. Tale è Calopresti, che attraverso il suo cinema esplora e non esclude nulla aprioristicamente, confrontandosi in modo sempre nuovo col mezzo cinematografico e con le sue forme, aprendo i suoi film a una ricchezza di senso e di interpretazione che li rende sempre vivi e attuali. Un cinema che si alimenta di una dimensione autoriflessiva e in divenire senza additare, quali soluzioni definitive, verità legate a un punto di vista che in quanto tale è soggettivo, dunque mai assoluto. Con straordinaria abilità, Calopresti modella l’humus vivente attraverso quell’azione di antropizzazione insita in tutto il suo cinema; ci fa viaggiare nelle emozioni e nelle circostanze più eterogenee: immagine e concetto si fondono in un mix di contenuti emozionali, tematici e stilistici che seguono una direzione ben precisa: si parte da una sorta di incapacità/difficoltà dell’uomo di relazionarsi a se stesso e agli altri, e si arriva ad un’irrinunciabile e contagiosa spinta propulsiva verso il centro del mondo. Si pensi a un film 424 come La seconda volta (1995), suo lungometraggio d’esordio, dove i personaggi sono intrappolati in un passato che nega loro la possibilità di un incontro nuovo. Ne La parola amore esiste (1998), tutto sembra procedere troppo lentamente. In Preferisco il rumore del mare (2000), i personaggi compiono un ulteriore passo in avanti prendendo delle decisioni, facendo delle scelte, ma il loro background resta un fardello troppo pesante per essere lasciato alle spalle e – come i protagonisti degli altri film – rifiutano qualsiasi tipo di aiuto rinchiudendosi nella gabbia della reticenza. Sono tutti troppo ancorati a se stessi per sentirsi disponibili a un incontro con l’Altro. Una solitudine asfissiante e logorante quella che oscura l’ironia latente di antieroi moderni spaventati perfino di se stessi. La lentezza segna l’inizio di un match faticoso in cui i personaggi caloprestiani giocano in silenzio, schivandosi di volta in volta. Questa condizione di “congelamento” si scioglie nei film successivi: La felicità non costa niente (2003) e L’abbuffata (2007). Ci si affronta. La paura scompare. La riflessione lascia il posto all’azione rendendo immediatamente riconoscibile l’evoluzione linguistica dell’autore. In campo, rapidi movimenti di macchina seguono uomini che corrono incalzando sogni, verità, passioni. Una peculiare architettura tematica e formale configura, dunque, la filmografia di Mimmo Calopresti. Amore, paura, solitudine, felicità, amicizia, matrimoni, tradimenti. Tutto ciò che fa parte dell’essere umano viene messo in scena con l’abilità di chi riesce a individualizzare l’universale e viceversa, rendendo caratteristici i tratti culturali del nord e quelli insiti nella gente del sud, camminando tra l’anonimato della città e la sua riconoscibilità, muovendosi tra il caos ed il silenzio. Con straordinaria naturalezza, Calopresti passa dalla difficoltà di comunicare alla difficoltà di amarsi e di incontrarsi, attraverso un cinema inquieto e introspettivo che vanta personaggi confusi, ambigui, falliti: uomini che faticano a capire e ad esternare sentimenti e passioni, donne fragili e insicure che cercano rifugio nella psicanalisi, nell’amicizia, in un amore che può nascere istintivamente o può essere costruito secondo indizi. Per me i film sono il tentativo di mettere in scena un pezzo di vita, sono la radiografia della difficoltà che tutti proviamo nell’affrontare l’esistenza1. 1 Mimmo Calopresti in Incontri. Mimmo Calopresti: Preferisco il rumore del mare, Gianni Canova, «Duel» n.78, marzo 2000, p. 30. 425 Diverse sono le tipologie di solitudine affrontate dall’autore: quella di una ragazza figlia di una mamma soffocante ma soprattutto prigioniera di ansie e ossessioni (La parola amore esiste); quella di un uomo e una donna che si imbattono insieme e contemporaneamente soli nel loro passato, senza trovare via d’uscita da esso (La seconda volta); quella di un uomo in preda alla crisi dei quaranta anni che improvvisamente destruttura un apparato sociale solido solo in superficie, sconquassando così tutto il suo environnement (La felicità non costa niente). E ancora, l’acido solipsismo di chi ha chiuso le proprie aspirazioni in un ruolo bloccando ogni possibilità di varcare altre soglie (L’abbuffata). L’elemento che distingue Calopresti da altri autori – i quali si avvicinano al proprio oggetto d’analisi senza arrivare a toccarlo – è la sua perizia nel filmare ciò che non è immediatamente visibile, ciò che è impalpabile: il pensiero, il sentimento. Il regista riesce a catturare anche la materia onirica e la non-materia ma – parallelamente ai suoi personaggi – cammina sempre su un terreno reale. Allora il terrorismo è lo scenario che permette di leggere La seconda volta in chiave politica; i gap tra regioni e generazioni presenti in Preferisco il rumore del mare, sono tratti di un paesaggio sociale che non è affatto lontano da noi. Anche quando si mette in scena la sfera emotivopercettiva, il punto d’arrivo di un’analisi che si è poggiata su basi nebulose e imprecise, prende la sua consistenza. Così, un pranzo in terrazza condiviso diventa la porta per accedere alla felicità e il paradiso si fa terreno e terrestre. Tormenti e difficoltà, così come sogni e felicità, emergono lavorando per sottrazione, spogliando qualsiasi tipo di realtà con cui entra in contatto. I concetti e le immagini che inondano i suoi film sono paradigmatici di un cinema che solca un percorso sempre più aperto alla moltitudine di situazioni, tangibili e impalpabili, concrete e astratte, che ogni uomo, a suo modo, è chiamato a vivere. Calopresti sente l’esigenza di guidare il suo cinema anche dall’interno, di dare forma col proprio corpo a ciò che aveva concepito mentalmente, di dare importanza alla fisicità alla maniera pasoliniana. Dopo aver interpretato personaggi minori, ne La felicità non costa niente l’autore si riserva il ruolo del protagonista, marcando con la sua impronta un film in cui anche il livello attoriale è soggetto all’evoluzione-rivoluzione che costella tutto il cinema di Calopresti. Con questa immissione della vita nel cinema e viceversa, l’autore- 426 attore dà espressione concreta al desiderio di raccontare non tanto una vita quanto il pensiero di questa vita, incarnando qualcosa di immateriale come la felicità. Facendosi concetto, attraverso il suo personaggio, Mimmo Calopresti svela la sua Weltanschuung – fatta di quella ribellione e di quella libertà che ritornano qualche anno dopo ne L’abbuffata, una sorta di film-verità in cui molti degli avvenimenti a cui assistiamo sono reali. La riflessione, dunque, avviene attraverso l’autoanalisi ma anche attraverso la memoria. Ed ecco che questo diventa il “metodo” con cui si intrecciano la grande Storia e le storie individuali. La seconda volta ci riporta agli anni di piombo senza parlare del terrorismo in maniera esplicita ma attraverso il “pedinamento” circolare di Lisa e Alberto, protagonisti dell’episodio cardine che ha legato le loro vite ad un’organizzazione clandestina: le Brigate Rosse. Il film mette in scena un ritorno della e nella memoria. Una riflessione sul rimosso di una generazione che ancora elude il cuore della questione: perché i terroristi hanno ucciso persone senza alcuna responsabilità politica (giornalisti, studiosi, docenti universitari, ecc.)2? Un discorso a posteriori – su un’epoca che si considera passata – elaborato secondo due punti di vista opposti ma complementari, incarnati nei protagonisti. Calopresti non ricerca le motivazioni che hanno spinto Lisa Venturi ad entrare a far parte delle Brigate Rosse né, in una prospettiva più ampia e generale, intende delineare le cause che hanno dato vita ai movimenti terroristici; come un esploratore, egli indaga le modalità percettive che hanno caratterizzato il vissuto di Lisa e Alberto, senza dispensare giudizi, imputare colpe o propinare soluzioni. Con tocco discreto e sguardo attento, passa attraverso i sentimenti senza alcuna pretesa di tipo storico-politco, al fine di far emergere la dignità della persona e il rispetto per essa. Lo stesso regista ha dichiarato che la sua intenzione era dare alla vittima e alla terrorista lo stesso spazio, senza privilegiare nessuno. Partendo da questo presupposto, ha costruito un personaggio che ha solo tentato di uccidere, che non ha portato a compimento la sua azione e che è rimasta coinvolta nella lotta armata in modo del tutto casuale. Diversi critici hanno definito La seconda volta un “racconto morale”. 2 Francesco Bolzoni, La seconda volta, «Rivista del cinematografo» n.1, gennaio 1996, p. 17. 427 Si tratta di un racconto morale, assai raro in Italia, a parte i film di Nanni Moretti. Si tratta di un tema ancora più raro, la cognizione del dolore, il senso di colpa, la terribile inutilità e vanità di eventi pubblici che hanno devastato tante vite private. Un film rarissimo che trascura la cronaca per riflettere sulla storia italiana recente; che per la prima volta descrive l’esistenza attuale degli ex terroristi3. Il film non vuole parlare del terrorismo, quanto dell’impossibilità di capire fino in fondo un “buco nero” della nostra storia: non è un film sulle ideologie, ma sulla tristezza, la solitudine, l’implacabile rimozione da esercitare nel presente. Muovendosi tra fiction e documentario, Calopresti compie un perenne moto di andata e ritorno. Da una parte, le vicende narrate e i riferimenti alla cronaca sono del tutto credibili e rappresentativi di un pezzo di contemporaneità che ci appartiene mentre lo guardiamo; dall’altra, alla rappresentazione oggettiva della realtà affianca la soggettività umana, con i suoi eterni istinti e le sue incontrollabili pulsioni. Su questo doppio binario viaggiano tutti i suoi film: La seconda volta poggia su un substrato fatto di terrorismo, prigionia e situazione industriale italiana; la trama di Preferisco il rumore del mare si sviluppa partendo dalla corruzione dei dirigenti industriali del nord e dall’organizzazione mafiosa piaga del meridione; Volevo solo vivere (2006), con le sue testimonianze, ci rende partecipi di un dolore mai tramontato. La fabbrica dei tedeschi (2008), composto da una duplice struttura, quella di finzione unita a quella propriamente documentaristica, ha permesso all’autore di raccontare nella sua interezza il mondo delle persone coinvolte, direttamente e non, nell’incendio avvenuto la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 all’interno della ThyssenKrupp – fabbrica nata dalla società francese Vandel (1890) e divenuta tale dopo un secolo di incorporazioni con altre società, compresa la Fiat. Il documentario è anche un atto d’accusa contro i sindacati, che si occupano della politica nazionale e dell’eventuale ripresa economica mentre la gente muore. La politica è indifferente e l’informazione troppo veloce perché ci si possa fermare e capire veramente cosa sta succedendo. Calopresti non crede nel cinema politico come categoria perché non esiste l’immediatezza della rappresentazione ma crede che 3 Bruno De Marchi, Primi materiali per l’intelligenza del cinema di Mimmo Calopresti, EuresisEdizioni, Milano 1999, p. 55. 428 nel cinema il tempo non esista ed elimini sempre tutto. Al cinema una storia è sempre attuale perché racconta la vita degli individui e questo rende di per sé ogni film sempre politico4. Ma cosa intende Mimmo Calopresti quando parla di politica? La politica è la capacità di mettere insieme tante persone diverse fra loro. Tutto è politica, lo diceva persino Aristotele. Il problema non è la politica o chi la esercita, il problema è la politica di chi vive: uno è un mestiere, l’altra è una parte di tutti gli esseri umani, di relazione. Per noi comunque è fondamentale, è la capacità di relazione fra le persone, di costruire le regole dei rapporti; la politica perfetta è quella che mette insieme interessi diversi senza sopraffazione di uno sull’altro. Lotte che non esistono più e spazi per raccontarsi ormai scomparsi hanno portato Mimmo Calopresti a girare nelle fabbriche, a stare in mezzo a quegli uomini che non vengono più ascoltati e considerati e che alla fine sono i veri produttori. Bisogna ricominciare a ribellarsi, a dire no a ore di lavoro eccessive, mal pagate e svolte in condizioni molto pesanti e poco sicure. La fabbrica dei tedeschi è un film realizzato per ascoltare persone rimaste sole. Con lo stesso intento concettuale su cui ha costruito Volevo solo vivere, racconta la loro vita, di ieri e di oggi, concentrandosi sui loro sguardi e le loro voci ancora segnati dall’orrore, alternandoli a oggetti e fotografie che sono squarci di vita quotidiana e attraverso i quali ci restituisce la memoria di chi non può più esprimersi e insieme di chi è sopravvissuto. Ciò non porta a un cinema che estetizza e quindi anestetizza, come alcuni critici hanno sostenuto, ma a narrare emozioni con una partecipazione discreta e con quel rispetto che l’autore nutre nei confronti dell’altro. Occhi che sfuggono all’obiettivo della macchina da presa e mani che si muovono nervose ci impongono l’indiscutibile presenza di eventi che non possiamo negare né tacere, e che spogliano dolore e tragedia di qualsiasi dimensione spazio-temporale che voglia circoscriverli. Accanto al tentativo di ricostruire un pensiero che sembra scomparso, di non farci dimenticare che oggi il lavoro è il centro della vita dell’uomo, si percepisce la necessità di cominciare a raccontare di 4 Mimmo Calopresti in «Corriere del Mezzogiorno» – Redazione napoletana de «Il Corriere della Sera», 29 Marzo 2006, www.cinemaepsicoanalisi.com. 429 nuovo il lavoro, come succedeva negli anni ’60 e ’70, anni che sono stati protagonisti di grandi trasformazioni sociali e di quella che l’autore definisce la “politica intelligente” ormai scomparsa. Decenni che negli ultimi documentari di Calopresti non sono un semplice sfondo su cui si muovono i “personaggi” ma veri trait d’union di quella passione estetica e quella passione politica di cui parla un grande politico italiano appassionato di cinema come Pietro Ingrao in Anch’io ero comunista (2011). Le lotte contro l’eredità fascista (1960-I ribelli, 2010), le provocazioni verso il regime dittatoriale di Pinochet (La maglietta rossa, 2009), i ricordi di un tempo passato in cui la politica era speranza, possibilità di cambiamento, vocazione dell’anima (Anch’io ero comunista), sono i primi attori di film nati dalla voglia di ricordare momenti storici importanti e dall’esigenza di mostrare due grandi limiti del presente: il predominio della logica economica su quella ideologica (con la conseguente inesistenza odierna di valori non quantificabili) e la mancanza del “fare rivoluzionario collettivo” – quello della seconda metà del XX secolo, quello scritto nel DNA della classe operaia principale oggetto di rappresentazione in tanti documentari di Calopresti, quello che colorava la realtà torinese nella fabbrica di Tutto era Fiat (1998) – documentario sulla storia della più grande azienda italiana ripercorsa attraverso i racconti degli intervistati. Dall’orgoglio dei più anziani di essere stati operai Fiat, si passa alla rabbia e alla stanchezza causate dalle condizioni di lavoro inaccettabili createsi negli anni ’60; agli scioperi del decennio successivo fatti per rivendicare un’umanizzazione del lavoro: aumento del salario, riduzione dell’orario di lavoro, ritmi meno pesanti, più diritti sindacali. Poi arriva il 1980, con i 14.000 licenziamenti effettivi (la Fiat avrebbe voluto farne 15.000) trasformati in 23.000 provvedimenti di cassa integrazione dopo l’occupazione degli stabilimenti da parte di quarantamila impiegati e capireparto. I quadri intermedi marciano contro gli operai per rivendicare il loro diritto di lavorare; un gesto che segna la rottura dell’unità dei lavoratori e una svolta politica importante che vede la sconfitta dei sindacati. L’ultima tappa è il ridimensionamento apportato negli anni ’90, quando in fabbrica non c’è nulla di eccessivo o anormale e si ha anche il tempo per riposare. Si è dissolto il rapporto viscerale che legava l’operaio alla fabbrica: le testimonianze degli operai più giovani dimostrano come la fabbrica sia solo una parte della loro vita; un lavoro come tanti altri, non più una scelta totalizzante. «Chi lavorava alla Fiat era un uomo finito, non 430 aveva alternativa»5. Tutte le strade portavano a Mirafiori, oggi non più così e qualcuno si chiede dove porteranno. La classe operaia ha perso la sua identità e la fabbrica non è più il centro di costruzione del presente e di progettualità del futuro ma un momento di transizione in attesa di una situazione migliore: aprire un bar o diventare attore, questi alcuni sogni dei ragazzi morti nell’incendio della ThyssenKrupp, La grande fabbrica appare come un luogo perfetto e sicuro, che quasi si autoalimenta senza avere bisogno di risorse umane: l’operaio diviene un semplice controllore e non è più un operatore. Ma è veramente così? I 7 morti della Thyssen ci hanno risvegliato dal sogno e ci hanno messi davanti alla realtà: un incubo fatto di pericoli, fuoco, fiamme e lavoratori, operai che ancora oggi mettono a repentaglio la propria vita sul luogo di lavoro. Gli invisibili dell’azienda modello diventano, in una sola notte, tragicamente visibili, non solo mostrandosi come vittime, ma facendo riapparire, in modo determinato e concreto, la “popolazione” della fabbrica. Nessuna teoria: possiamo entrare in contatto con quegli operai, ascoltarne i racconti, vederne i volti. La loro storia arriva da lontano6. La fabbrica dei tedeschi è un altro film che, con la presenza in campo del corpo dell’autore, si erge a simbolo della sua intelligenza e della sua sensibilità, nonché della sua manifesta volontà di essere lì, in quel luogo e in quel momento, non solo fisicamente ma prima di tutto moralmente. Ogni cosa mostra il bisogno di condivisione di un certo stato d’animo e di (re)azione contro una contingenza ingiustificabile, dunque il senso di una partecipazione attiva a una tragedia insieme pubblica e privata. Un film che è un’ulteriore prova del grado di responsabilità etico-politica che Calopresti è in grado di assumersi. Allo stesso modo, Dov’è Auschwitz (2004), documentario realizzato durante la visita nel campo di concentramento fatta dall’autore – accompagnato da Walter Veltroni (allora sindaco di Roma), da un gruppo di studenti romani e da sei testimoni italiani sopravvissuti al genocidio ebraico – è il risultato di una volontà forte di parlare di un passato caratterizzato dall’assenza di speranza e dalla morte vista come qualcosa di naturale a cui un anche un bambino si abitua; a 5 Dal film Tutto era Fiat. 6 Cristina Cosentino, La fabbrica dei tedeschi, Roma, Rizzoli, 2008, p. 8. 431 tutto ciò, si accompagna l’intenzione di riflettere con i giovani sulla situazione attuale, sull’esistenza di forme di discriminazione che non cessano di colpire chi ha un diverso credo o una condizione economica disagiata. Un presente, dunque, che ci dimostra quanto il rischio di cedere alla superficialità, deprivando azioni e sentimenti quotidiani della loro importanza, sia lenito forse soltanto dalla minaccia della sofferenza. E allora l’immagine, testimone della storia, deve aiutarci a ricordare. Calopresti sfrutta fino in fondo le qualità del cinema, il potere che ha questo mezzo di mettere insieme realtà e sentimento, di elaborare un avvenimento che attraverso l’informazione quotidiana si consuma in un attimo; il film invece rimane, e questo offre il tempo necessario per non lasciarsi travolgere dal bombardamento e dall’assuefazione cui ci ha abituato la televisione. Le sue parole continuano la critica, già intrapresa ne L’abbuffata, alla tv, o meglio a chi si lascia imprigionare da essa, a chi la guarda senza giudizio e coscienza critica così da asservire la propria mente al potere mediatico. Attraverso i suoi documentari, Calopresti parla, agisce, insegna; aiuta se stesso e noi spettatori a capire e a non dimenticare ma soprattutto a combattere due dei mali peggiori della società: l’immobilismo e l’indifferenza. L’unico strumento in grado di combattere l’ignoranza e la rimozione è la conoscenza, la memoria. Per rendere più efficace lo sguardo rivolto al passato, Calopresti usa spesso immagini di repertorio, portando a galla quello che definisce “il carattere eterno dell’immagine”: tutto si consuma troppo rapidamente mentre l’immagine prima o poi ritorna e alla fine bisogna confrontarsi con la sua inconfutabilità. L’immagine, conservando il suo carattere eterno, diventa il mezzo attraverso cui il cinema di Calopresti mostra la potenza straordinaria del suo essere sempre narrazione di storie di persone, che si tratti di fiction o di non-fiction. Rispetto alla prima, il passo in avanti che l’autore compie attraverso il documentario è l’aggiunta di un elemento: la concretezza del suo essere lì di fronte agli altri. I suoi documentari guardano al passato per cercare di comprenderlo in modo tale da dirigere meglio il presente, in una ricerca che ha il sapore del rischio e della contaminazione, in una propensione a una rivoluzione che viene costruita gradualmente sul confronto esistenziale, dunque sull’incontro-scontro con se stesso e con l’Altro. Calopresti cerca la forma più adatta per non tradire quella realtà che intende comunicare allo spettatore senza distorcere qualcosa che esiste di per sé – si tratti di uomini, luoghi o avvenimenti. «Pasolini riusciva a raccontare quasi con misticismo la 432 vita di chi sta ai margini. Oggi ci manca questo modo di guardare gli altri»7. Calopresti questo modo lo possiede e lo fa emergere in modo del tutto naturale fin dai suoi primi documentari. Remzija (1992), ad esempio, è un video-documentario in cui una nomade slava che vive nella periferia di Torino racconta se stessa e la sua storia. Il lavoro presenta alcune costanti metodologiche che saranno presenti nelle sue produzioni successive e che si configurano come virtù costanti del suo cinema: la scelta di soffermarsi sul volto e sui gesti dell’intervistato piuttosto che narrare la sua vita attraverso le immagini del campo, dei bambini, della sporcizia; la scarsa presenza (che negli anni è cresciuta) della figura e della voce fuori campo del regista. L’aver privilegiato questi elementi, ha fatto sì che la donna fosse guidata nel racconto ma non costretta a seguire esclusivamente il punto di vista di chi si trovava di fronte a lei, in ascolto alla sua storia. Le considerazioni che vengono catturate dalla macchina da presa, sono esemplificative della condizione a cui l’uomo non può sottrarsi: «La sofferenza è uguale per tutti e appartiene a tutti, non fa distinzione alcuna». Il popolo zingaro è un popolo di grande cultura, che che se ne dica. Oggi è vero alcuni di loro si sono dati al furto. Siamo stati noi a fare scomparire i loro mestieri. Il creare recipienti di rame era il lavoro degli zingari. Li abbiamo sempre perseguitati. In questi giorni è stato data la cattedra a Trieste a Santino Spinelli di lingua e cultura zingara. Se gli diamo la possibilità di emergere non c’è nessuna razza, non c’è razza inferiore o razza superiore. Diamogli il tempo e la possibilità. Ho visitato un campo zingari a Roma e ho avuto l’impressione di essere tornato ad Auschwitz. Non cerchiamo di emarginarli ancora. Ad Auschwitz ho visto morire 9000 zingari in una notte. Famiglie che vivevano insieme nel campo affianco al mio separati da fili spinati elettrificati [per loro non era stata decisa la soluzione finale], loro avevano tutti i capelli, cantavano, c’era gioia nel loro campo, eppure è bastata una notte… e dopo il silenzio. Tutto il loro blocco era stato evacuato. Quella notte in 9000 erano stati mandati nelle camere a gas. Per fare spazio ad altri prigionieri. Ogni giorno non sapevi se saresti stato tu il prossimo. Funzionava così ad Auschwitz8. 7 Mimmo Calopresti in YouDem, in onda Pasolini, 18 ottobre 2008, www.partitodemocratico.it. 8 Testimonianza di Piero Terracina, Io, deportato ad Auschwitz, Claudio Verniari (a cura di), www.triangoloviola.it. 433 Remzija, così come Adriano Panatta ne La maglietta rossa, sono uomini e donne che raccontano se stessi. L’operazione compiuta non è dissimile a quella attuata nei film di finzione. I personaggi caloprestiani, infatti, sono “tipi” umani, “persone vere” che cercano di affrontare il proprio disagio e l’esistenza in generale senza accontentarsi di una conoscenza limitata di se stessi e di una condizione esperenziale superficiale. L’autore stesso afferma che i suoi lungometraggi condividono con i documentari la necessità di porre al centro varie individualità umane: borghesi, nomadi, operai, dirigenti politici, terroristi, uomini sopravvissuti a tragedie umane come Auschwitz, sono i volti e le voci che Calopresti mette in campo senza inficiare il loro punto di vista, senza contaminare la loro verità, oltrepassando sempre ogni giudizio o pregiudizio, ogni stratificazione sociale preesistente. Accanto alla ricerca c’è quindi un pensiero, una verità, un’emozione con cui ci si deve confrontare e che attiva meccanismi emotivi e cognitivi che costringono a mettere in discussione il proprio vissuto. Attraverso il documentario, l’autore si avvicina al passato per sottoporlo a nuove domande e farlo partecipe di perplessità, confusioni e dimenticanze odierne. Ci troviamo allora di fronte a un cineasta che si assume la responsabilità di ciò che mostra e che si rivolge a uno spettatore che non può più esimersi dal vedersi, dal riconoscersi; uno spettatore che sembra non avere più scampo. Lo strumento di indagine prediletto è l’apertura, ovvero la possibilità di porsi domande sempre nuove. Più si appropria del mezzo cinematografico in maniera del tutto personale, più l’autore raggiunge una maturità stilistico-contenutistica che innalza il livello di libertà di un cinema volto alla ricerca permanente, aperto all’esperienza e alla conoscenza e capace di scardinare i meccanismi della finzione; un cinema in cui si fa evidente la capacità dell’autore di adattare lo stile alla materia filmica senza fossilizzarsi in stilemi preconfezionati. Tutto, nel cinema di Calopresti, ci fa muovere dalla semplice descrizione al più complesso coinvolgimento. Le persone che si buttano a capofitto nelle situazioni più diverse, i personaggi che prendono in considerazione le scelte più difficili, i sentimenti che trapelano dall’osservazione del comportamento umano, sono tratti di penna che disegnano la linea di congiunzione tra la vita e il cinema. I due termini hanno un denominatore comune che ci “costringe” a non assopirci di fronte alle trasformazioni cui siamo irrimediabilmente soggetti: il movimento. Un cinema in movimento, dunque, che impressiona luci 434 e ombre della realtà per fissarle sullo schermo dell’irrealtà, l’unico luogo in cui è possibile trattenere una verità, un racconto, una vita. In movimento sono anche i personaggi, sempre in rotta verso il cambiamento. Dinamismo e velocità aprono La felicità non costa niente: Velocità astratta di Giacomo Balla, unito a Marcia su Roma, ci introduce nella dimensione di azione, trasformazione e rivoluzione, che percorrerà tutto il film, il più affascinante dal punto di vista estetico. I movimenti sinuosi della macchina da presa seguono con leggiadria i personaggi immersi in una Roma più che mai surreale. L’alternanza tra soundtrack e brano di repertorio infonde all’immagine un ritmo costante ma non monotono, restituendoci una sensazione estetica immediata dovuta anche ai continui riferimenti all’arte: la raffigurazione della donna in volo che scorre sotto i titoli di testa, l’opera di Giosetta Fioroni presente nella casa del protagonista, i dipinti di Calopresti. C’è un movimento fisico che fa avanzare i personaggi caloprestiani, sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, di migliore rispetto a quanto già si possiede. E poi c’è un movimento intellettuale dato da uno sguardo a metà fra l’empirico e il teoretico che s’insinua tra le varie identità di un’Italia che conosce differenze geografiche e conflitti generazionali: il nord della fabbrica e della corruzione, il sud dallo sfondo mafioso e dalle bellezze naturali; il rapporto tra i ragazzi, vero e diretto, in netta opposizione a quello tra gli adulti – vincolato dalla presenza di sovrastrutture che non consentono un contatto così profondo e immediato da riuscire ad arrivare in fondo alle cose, alle situazioni, ai sentimenti. Così, la messa in scena prende la forma del suo contenuto eliminando la separazione tra i due termini: dai movimenti di macchina che nei primi film seguono lenti i personaggi, un’accelerazione improvvisa caratterizza i successivi, conferendo a tutta la messa in scena un dinamismo armonico. La fotografia rispecchia i colori delle regioni italiane: dalla Torino grigia de La seconda volta e di Preferisco il rumore del mare, si passa alle sfumature romane de La felicità non costa niente e all’azzurro che colora la Calabria de L’abbuffata. La purezza auspicata attraverso l’esclusione degli eccessi e della retorica, conduce a un cinema sobrio, denso di stimoli intellettuali ed emotivi; un cinema che approfondisce la realtà psicologica dei suoi personaggi senza cadere in facili psicologismi e che denuncia la situazione sociale esistente evitando sociologismi convenzionali. Calopresti non si limita a registrare ciò che vede in un mero atto riproduttivo ma, attraverso il vedere, filma, in un perfetto 435 equilibrio tra ratio ed emozione, organizzazione e istinto, oggettività e soggettività che gli permette di superare la soglia del visibile. Instaurando un rapporto dialettico con la realtà che scruta, e fondendo l’uomo con l’ambiente e con la storia, Calopresti si addossa la responsabilità di comunicare e denunciare. Lo fa adottando uno sguardo libero, discreto e rispettoso nei confronti di chi si trova di fronte, assumendo una posizione mai ingombrante che lascia alla realtà il diritto e il dovere di emergere in tutta la sua evidenza e la sua verità. Ciò non gli preclude la possibilità di guidare il racconto e l’immagine attraverso uno occhio etico ed estetico in grado di catturare l’esistente nella sua totalità, cercando non il bello in sé ma la forza primordiale che deriva dallo stare in mezzo alle cose. Lascia che le persone si raccontino senza cercare di stravolgere la realtà e la verità ma non per questo ci priva di un forte impatto emotivo che continua a costruire in montaggio, non una semplice fase di “messa in fila” di inquadrature ma creazione di un senso che l’autore imprime al suo film secondo una giustapposizione concettuale delle inquadrature, mettendosi nella condizione essenziale di ascoltare e di domandarsi fino alla fine cosa si sta raccontando e in che modo. Per non perdere di vista questo aspetto, Calopresti si appropria della quarta dimensione anche mentre gira. Cerca di obbedire alle leggi del set senza farsi sopraffare dai suoi ritmi ferrei e frenetici e curando al massimo il rapporto sia con gli attori dei film di finzione, sia con gli attori sociali con cui interloquisce nei documentari. Una quotidianità interiore informe e caotica si materializza, facendosi figura antropomorfica, nella scelta di un cinema dell’essenza più che dell’apparenza; in un cinema che offre solo interrogativi che ci denudano di fronte a noi stessi. Calopresti scava negli strati più profondi perché c’è sempre un livello altro da scoprire e da vivere. Il suo cinema è il cinema delle possibilità. Così, trasparenza e immediatezza, assenza di filtri e di confini, si rivelano assiomi fondamentali della vita reale e filmica dell’autore. Dietro il suo stile più volte definito semplice, dietro l’apparente leggerezza della scrittura, si nasconde una macchina complessa ed elegante, fatta di film mai chiarificatori e mai completamente chiusi; film che continuano ad esistere nello spettatore oltre il tempo di proiezione; mondi reali e immaginari in cui l’importante è essere ed esserci. Questi gli elementi primari che conferiscono al cinema di Mimmo Calopresti quel senso di “al là delle cose” per i quali è possibile definire il suo cinema profondamente e orgogliosamente “autentico”. 436 437 Roberta Rosini Gianni Amelio e il Sud. Erranza e costituzione identitaria: il viaggio meridiano come autoscoperta e trasformazione del Sé in Il ladro di bambini (1992) 1. Il viaggio come ricerca identitaria Il presente saggio muove dall’individuazione di un parallelismo tra paesaggio geografico ed esteriore e paesaggio mentale ed interiore, della stretta interconnessione che lega esteriorità ed interiorità. Così nelle parole della studiosa contemporanea Giuliana Bruno, che ha dedicato il suo Atlante delle emozioni1 a questa tematica: «Il paesaggio non è solo una questione di esteriorità: l’impatto del paesaggio si prolunga all’interno, nel nostro paesaggio interiore. […] Esterno e interno sono figurativamente connessi: l’immaginazione geografica include e attraversa entrambi»2. In particolare, la spazialità rimanda ad una dimensione passionale ed emotiva, che pertiene in maniera peculiare al mondo femminile: «La cosa è particolarmente manifesta nella cultura femminile del viaggio. Qui, si è attirati verso la topografia: la terra provoca una risposta emozionale; la geografia è un modo di esprimere i propri sentimenti»3. Il paesaggio delinea allora una geografia emozionale come mappa di sentimenti, di pulsioni, di desideri. Lo spazio diventa il campo in cui l’identità dell’individuo si costituisce come soggetto e la geografia dei luoghi si traduce in una mappatura emozionale. Dalla definizione di questa geografia emozionale a partire dalla corrispondenza tra esteriorità ed interiorità, discende l’idea del viaggio come ricerca identitaria ed esistenziale all’interno di un processo d’identificazione personale. Il viaggio geografico si fa allora metafora di un viaggio psichico ed interiore, l’itinerario nello spazio esterno 1 Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni. Il viaggio tra arte, architettura e cinema, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2006. 2 Ivi, p. 335. 3 Ivi, pp. 335-336. 438 diventa segno di un percorso spirituale e soggettivo di autoscoperta e trasformazione del Sé: «Il viaggio […] si rivela un viaggio di autoscoperta. In questo tipo di esplorazione il paesaggio italiano era un sito privilegiato: […] il paesaggio italico si prestava come pochi altri a fare da veicolo ai viaggi psichici e soggettivi»4. La trattazione della tematica dell’erranza si rivela centrale nella riflessione filosofica del secondo Heidegger, quando cioè, a partire dal 1930, l’indagine del filosofo subisce una «svolta»5 (Kehre) decisiva, in quanto da analisi esistenziale per la determinazione del senso dell’essere diviene una ricerca che riconosce all’essere stesso l’iniziativa dello svelamento dell’essere. Nella riflessione heideggeriana sull’esistenza e la finitudine dell’uomo la condizione esistenziale dell’uomo o esserci (Dasein) è quella di essere gettato nel mondo, “abbandonato” da qualunque fondamento o essere metafisico. L’uomo dunque si viene a configurare non come una realtà sostanziale e determinata, piuttosto come un ente individuato, singolo, concreto e finito, posto di fronte a scelte, progetti e possibilità di realizzazione ed autenticità. La caratteristica precipua dell’esistenza infatti risiede nel fatto che essa si definisce essenzialmente come possibilità di essere: «L’Esserci – scrive Heidegger – è sempre la sua possibilità»6. L’esistenza dunque non si caratterizza come una realtà fissa e predeterminata, ma come un insieme di possibilità fra cui l’uomo deve scegliere: l’uomo, in quanto possibilità, è ciò che egli stesso sceglie o progetta di essere. L’uomo o esserci così caratterizzato come progetto-gettato, risulta non avere fondamento. Da qui discende la nullità (Nichtigkeit) di base che lo costituisce: la «nullità esistenziale»7 dell’uomo, la negatività strutturale dell’esistenza. Al concetto dell’uomo in quanto esserci caratterizzato come nullità esistenziale si connette la tematica dell’erranza, intesa nel duplice senso di errare e di errore. L’erranza, quale condizione dell’esistenza, 4 Ivi, pp. 336-337. 5 Il termine è usato dallo stesso Heidegger per indicare un riorientamento del suo pensiero. Tra la molteplicità degli scritti della cosiddetta svolta ricordiamo come particolarmente rappresentativi testi quali Dell’essenza della verità (1930), L’essenza della poesia di Hölderlin (1936), Contributi per la filosofia (1936-1938), Domande fondamentali della filosofia (1937-1938), Lettera sull’umanismo (1947), Sentieri interrotti (1950), Introduzione alla metafisica (1953), Saggi e discorsi (1954). 6 Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, par. 9. 7 Ivi, par. 58. Ivi, p. 4. 439 è insita nella ricerca della verità. Infatti se la verità si identifica con l’essere, allora l’uomo o esserci, ontologicamente distinto dall’essere, in quanto gettato nel mondo e nell’esistenza, non può che configurarsi come un errore, fuorviamento o sviamento dall’essere e la sua condizione propria e connaturata appunto come un erramento, un errare, un vagare nell’esistenza. Così nelle parole di Heidegger, nel saggio Dell’essenza della verità in un paragrafo intitolato per l’appunto La non-verità come erranza: L’irrequietezza dell’uomo, che lo spinge ad allontanarsi dal mistero (dell’Essere) per volgersi alla realtà praticabile, e che lo fa passare via via da un oggetto all’altro della realtà corrente, senza accorgersi del mistero, è l’errare (Irren). L’uomo erra. Non è che l’uomo cada nell’erranza (Irre), ma si muove già sempre nell’erranza, perché e-sistendo in-siste, e quindi sta già nell’erranza. L’erranza, per la quale l’uomo va, non è qualcosa che, per così dire, passi vicino all’uomo e in cui egli a volte cada, come in una buca; al contrario, l’erranza fa parte della costituzione intrinseca dell’esser-ci in cui l’uomo storico è coinvolto. L’erranza è l’ambito di quella svolta nella quale agevolmente l’e-sistenza in-sistente si perde e si sbaglia sempre di nuovo. […] L’erranza è l’opposizione essenziale (Gegenwesen) all’essenza iniziale della verità. L’erranza si apre come quell’ambito aperto a ogni opposizione alla verità essenziale. L’erranza è la dimora aperta e il fondamento dell’errore (Irrtum). L’errore non è un errore particolare, bensì il regno (il dominio) della storia delle intricate trame di tutti i modi dell’errare. […] L’erranza domina l’uomo e lo fuorvia8. 2. Il cinema di Gianni Amelio e la filosofia Il primo studioso che ha riconosciuto la valenza e la portata filosofica del cinema di Gianni Amelio è individuabile in Nicola Siciliani de Cumis. Questi mutua dal filosofo contemporaneo Eugenio Garin una concezione “allargata” della filosofia, secondo cui bisogna ampliare il quadro storico e teorico delle potenzialità filosofiche riconoscibili in un’opera, estendendo in tal modo il campo di pertinenza che la 8 Martin Heidegger, Dell’essenza della verità, in Martin Heidegger, Segnavia, Milano, Adelphi, 1994, pp. 151-152. Ivi, p. 6. 440 tradizione ha assegnato alla filosofia concepita come disciplina pura9. Da questa definizione lata del concetto di filosofia discende il riconoscimento di una dimensione filosofica e morale propria anche del cinema, come emerge dalla ripresa della questione posta da Carlo Giulio Argan: «Il grande problema è, anche per il cinema, quello del valore. Produce valore? Destituisce e sostituisce altri valori, come quello dell’arte, o istituisce nuovi valori»10. Il cinema stesso, in particolare quello di Amelio, va considerato secondo Siciliani un valore e ne va riconosciuta la portata e la valenza filosofica: il cinema dunque «come valore etico-estetico»11, come pretesto filosofico-espressivo, come categoria eticomentale, come fatto ideologico utile a mettere in gioco e a smascherare l’ideologia, e quindi come dimensione morale “altra”, come dover essere del vivere quotidiano, ben oltre la storia, la realtà, le cose, come “sono”. […] Un’idea di cinema come fatto di responsabilità […]. Il cinema, quindi, come scepsi e come maieutica individuale/collettiva […] che dà la scossa alla testa e al cuore, e di più alle viscere degli spettatori. Un cinema, questo di Amelio, […] come laboratorio di prospettive morali e di valori etici12. Con particolare riferimento al cinema di Amelio, Siciliani rileva la presenza di valori filosofici e morali veicolati dall’opera di questo autore, riconoscendo il valore filosofico ed etico del cinema ameliano. Parla infatti di una filosofia dei valori insita nel cinema dell’autore e che in esso si esprime: «la filosofia dei valori che nel cinema di Amelio si esprime, ha una sua logica, intima coerenza. E va 9 Cfr. Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, in «Cinema Nuovo», a. 45°, n. 2 (360), maggio-agosto 1996, p. 2. A sostegno di questa tesi Siciliani cita Leopardi e il filosofo Antonio Labriola, i quali rispettivamente hanno asserito: «Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofico, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo» (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori Editore, Milano 1999, p. 466) e «alla filosofia ci si deve poter arrivare didatticamente per qualunque via, come per qualunque via ci arrivarono sempre i veri pensatori» (Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 6). 10 Nicola Siciliani De Cumis, Un capitolo fondamentale nella storia del criticismo (G. C. Argan), in «Cinema Nuovo», a. 45°, n. 1 (359), gennaio-aprile 1996, p. 4. 11 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 12 Ivi, p. 4. 441 riconosciuto»13. Lo stesso regista assegna una valenza filosofica al proprio cinema, nel momento in cui lo definisce luogo privilegiato di riflessione ed analisi che indaga oltre l’apparenza del reale: Il problema del linguaggio cinematografico è per me essenziale […] non mi serve il cinema per costruire pezzo dopo pezzo un prodotto-film ma mi sta a cuore una dimensione stilistica che trasformi la scrittura cinematografica in uno strumento di analisi […] per togliere qualsiasi illusione riproduttiva e indicare quel che si nasconde sotto l’apparenza delle cose14. In particolare Siciliani riconosce che tali valori sono presenti nel cinema di Amelio precipuamente sottoforma di sentimenti ed emozioni: i valori nel cinema di Amelio non si caratterizzano in termini platonici ed idealistici, «camminano invece sulle gambe degli uomini, traducendosi quindi in precisi atteggiamenti, comportamenti, sentimenti, emozioni»15. Il cinema etico di Amelio, fondato su sentimenti e passioni, appare dunque quanto mai distante dalla concezione tradizionale della moralità basata sulla ragione: «l’infiammabilità morale brucia sotto le ceneri della ragione»16. Questa priorità assegnata nel cinema ameliano al sentimento e all’emozione viene collocata nel quadro di una «poetica del disoccultamento»17, secondo cui il cinema ha la capacità di sollevare dalla realtà una sorta di velo di maya che impedisce di vivere «senza ricatti e mistificazioni», «alla maniera degli uomini semplici»18. Da questa poetica discende una «morale della sottrazione, della differenza»19, che sottrae i personaggi dei film ameliani dalla realtà e dalla storia e propone le loro vicende in una chiave poetica: È come se egli (Amelio) ci dicesse: tutto ciò che ricostruiamo filologicamente, storicamente, di questo nostro mondo presen13 Ivi, p. 6. 14 Gianni Amelio, Per La Città del Sole ingresso libero, in «Il Dramma», marzoaprile 1973, pp. 157-158. 15 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 16 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, Comune di Ancona, Ancona 1993, p. 12. 17 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 18 Gianni Amelio, Per La Città del Sole ingresso libero, in «Il Dramma», marzoaprile 1973, pp. 157-158. 19 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2. 442 te-passato in corsa verso il futuro, ha una sua intrinseca illusorietà, e a me, Amelio, non interessa impegnarmi nella “documentazione”. L’unica cosa che esiste davvero, assolutamente, è il cinema, in quanto esiste per me; benché irreale anch’esso, come tutte le cose di questo mondo. Il cinema è tuttavia il mio mondo: è e non è. Tertium datur […]. È la realtà dell’emozione, del sentimento, che nessuno può negare, e che produce in ogni caso una reazione: e, con la fondatezza dell’espressione poetica, una sorta di recensione estetica del mondo etico20. Il cineasta dunque non è interessato alla veridicità del racconto e a rappresentare documentaristicamente la realtà storica, ma quella dei sentimenti, delle passioni e delle emozioni, sempre al centro delle sue opere: la sottrazione si rivela allora «un’acquisizione di valore»21. Siciliani evidenzia poi come tali valori siano assegnati da Amelio all’infanzia e all’adolescenza, intese non in senso strettamente anagrafico ma come condizione esistenziale. Queste età sono caratterizzate, secondo l’analisi del filosofo, da non consumabilità, in quanto anche se gli adulti usano i bambini e ne abusano, questi tuttavia non sono passivi, piuttosto la loro reazione e la loro crescita emancipa moralmente e “salva” in un certo qual modo gli adulti; e da intransitività, nel senso che l’esperienza infantile e giovanile è irripetibile e non trasmissibile22. Tuttavia l’opera ameliana è lontana da qualsiasi didatticismo e didascalismo morale. Ciò che vale per Amelio è individuabile in elementi essenziali e fondamentali, quali la vita come «supremo valore»23, da cui scaturisce una ricca simbologia che ritorna ripetutamente nella produzione ameliana – l’acqua, il cibo, il pane, le mani, la lingua e le parole; il valore dell’utopia, presente più o meno esplicitamente in tutti i film; e quello dell’altrove come valore incommensurabile e ineffabile: «L’essenziale per lui (Amelio) è l’immedesimazione nell’oggetto individuale della visione cinematografica, ed al tempo stesso il trarsene fuori»24, come avviene per la Calabria rappresentata esplicitamente o evocata quando viene descritta attraverso un paese straniero. Centrale nell’opera ameliana è inoltre la denuncia dei 20 21 22 23 24 Ivi, p. 3. Ibidem. Cfr. ivi, p. 4. Ibidem. Ivi, p. 6. 443 disvalori25, quali la corruzione e la volgarità celate dietro l’apparente perbenismo: si pensi ad esempio in Il ladro di bambini alla filosofia familistica e mafiosa del geometra Papaleo che emerge, durante la festa al ristorante, nella discussione col carabiniere a tavola sugli abusi edilizi, o alla malignità della giovane donna che scopre e si affretta a svelare l’identità della bambina, additandola a mostro da copertina di rotocalco. Il discorso narrativo dunque, nel cinema ameliano, risulta inessenziale rispetto al discorso metafisico-esistenziale: la storia serve a veicolare un significato filosofico sotteso nel racconto. Così non sempre gli accadimenti all’interno dei film di questo autore hanno una spiegazione causale, non sempre gli eventi sono connessi da un rapporto di causa ed effetto, piuttosto l’elemento dominante si rivela quello della casualità. La narrazione appare dunque subordinata all’aspetto filosofico implicito che percorre sotterraneamente l’opera, di cui quello narrativo rappresenta un’estrinsecazione. Il pensiero filosofico insito nel cinema ameliano assume, come si è detto, una valenza etica, si caratterizza come un vero e proprio discorso morale. Assume in particolare una rilevanza significativa nel cinema di Amelio lo sguardo dei personaggi, che riveste una valenza morale, in particolare quello delle figure dei bambini-adolescenti come metafora dell’innocenza: I protagonisti dei suoi film sono personalità introverse, silenziose, pensierose, riflessive fino ai limiti estremi del mutismo, dell’autismo. Comunicano gli sguardi. Sguardi incrociati che alludono o sognano, che smarriscono o rintracciano. Gli occhi danno l’impressione d’essere intenti a cose che vale più la pena di guardare, rispetto a quelle che al momento stanno loro dinnanzi26. Le lunghe inquadrature che persistono e si soffermano sui volti muti, sugli sguardi intensi dei personaggi rappresentano il tentativo del regista di comprendere e cogliere la loro interiorità, nei suoi risvolti 25 Per i valori filosofici presenti nell’opera di Amelio, quali il valore della vita, l’utopia e l’altrove, e per la denuncia dei disvalori, cfr. ivi, pp. 4-6. 26 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., p. 12. 444 più intimi, sostanziali e autentici. In particolare lo sguardo dei personaggi lascia intravedere, rivela la loro dimensione affettiva ed emozionale: «la “descrizione” dell’emozione affiora proprio grazie alla “scandalosa” discrezione dello sguardo»27. Si può parlare allora di moralità dello sguardo: lo sguardo dei personaggi dei film di Amelio è sempre uno sguardo morale. Così nell’affermare la responsabilità del cinema nei confronti di un ordine sociale corrotto e logoro e di un mondo di adulti inadempienti, Amelio ha reintrodotto una forza etica nel cinema e assegnato ad esso un compito morale. La moralità del cinema di Amelio è connessa ad un altro aspetto fondamentale quale il realismo caratteristico dell’opera di questo autore. Il realismo ameliano, che deriva dall’influenza del cinema degli anni Sessanta, ha come presupposto basilare la ricerca della verità e come intento fondamentale quello di rappresentare la realtà così come essa appare e si manifesta, di restituire allo spettatore la verità della realtà. Questa si viene a delineare come una scelta morale: «lo stile diventa […] indistinguibile dalla ricerca di significato, cioè una vera e propria esperienza morale»28; e Amelio come un autore che fa della forma una questione morale, definita dallo sguardo sulle cose […]. In tal modo, lo stile viene restituito alla sua sostanza, a una morale della necessità nella quale non si può più distinguere il “fatto” e la “forma”. Non si tratta di adottare una “espressione” in accordo con i fatti o con le esigenze di un certo pubblico […]. Si tratta d’altro: fare dello stile la forma di una morale29. L’unione tra linguaggio e morale, stile ed etica discende dal neorealismo, riferimento essenziale del cinema di Amelio30: nel neorealismo infatti «la forma cinematografica era la sintesi di una esigenza etica 27 Ivi, p. 10. 28 Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Poetica del ritardo. Gianni Amelio nel cinema italiano, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, Torini, Lindau, 1999, p. 20. 29 Maurizio Grande, L’innocenza dello sguardo non-innocente, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 27. 30 Amelio, per questo stretto legame con il neorealismo, è stato definito come «il regista attualmente forse più importante in Europa per la rivitalizzazione del neorealismo», Godfrey Cheshire, L’immagine persistente, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 62. 445 e di una pressione stilistica indissociabili»31. Il cinema neorealista si fonda infatti su una morale dello sguardo, ripresa dal nostro autore, che impressiona la vista con il dramma della realtà; questa morale della forma rappresenta un modo diverso di guardare e mostrare la realtà. Il cinema neorealista, e con esso quello di Amelio, si imposta allora su un’indistinzione tra linguaggio, realtà e morale dello sguardo. Il cinema ameliano dunque, caratterizzato dal bisogno di «rimanere sulle cose»32, si caratterizza come un cinema «concreto»: i suoi personaggi esistono, sono di carne, anche nel disastro della loro identità, anche nella loro afasia affettiva, anche nelle percezioni confuse e irrisolte della loro giovinezza e nei preconcetti rigidi della loro maturità, parlano la lingua della gente comune, si muovono in ambienti a tre dimensioni, “stanze” riconoscibili di una geografia umana e sociale33. Lo stesso Amelio ha rivendicato una propria collocazione realista: «sono arrivato a considerare il realismo l’unica mia chiave di appartenenza alle cose proprio perché tutte le altre mi sono sembrate un tradimento delle mie radici. E d’altra parte ritengo che è anche il mezzo più onesto e più pulito per rispettare queste radici: ossessivamente riporto tutto a quelle radici»34. Rivela ancora l’autore: il concetto che deve governare la messa in scena è il concetto di necessità. In rapporto a che cosa? In rapporto all’emozione, in rapporto al giusto, in rapporto al vero […]: il rispetto per il vero, […] per il vero che sta dentro le cose che racconti […]. È il rispetto per quella verità che ti detta il modo per rappresentarla; il fine deve essere l’emozione35. 31 Maurizio Grande, L’innocenza dello sguardo non-innocente, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 29. 32 Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Poetica del ritardo. Gianni Amelio nel cinema italiano, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 20. 33 Emanuela Martini, Gianni Amelio, Milano, Il Castoro, 2006, p. 29. 34 Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, Roma, Donzelli, 1994, pp. 60-61. 35 Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio, intervista a Gianni Amelio a cura di Emanuela Martini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 124. Amelio per esplicitare il concetto di verità che deve governare la messa in scena, fa riferimento al “comandamento di Renoir”: «Per arrivare a questo, devi avvicinarti a quello che filmi con il minimo tasso di 446 Infine, alla domanda se l’impressione di realtà è la base del cinema il regista ha risposto: «Assolutamente. Il patto è con la realtà»36. L’influsso neorealista si ripropone in Amelio anche nella scelta degli interpreti, che sono spesso ragazzi, adolescenti o vecchi presi “dalla strada”. Così i suoi debuttanti sono sempre «veri»37. Anche quando si tratta di attori illustri (quali Volonté, Trintignant, Laura Betti, etc.), questi mettono al bando ogni artificio; quando poi fa da sfondo un personaggio celebre o storico (come Bertolucci, Herrmann, Majorana o Fermi), Amelio lo pone al livello dello spettatore, mettendone in luce la dimensione umana e personale piuttosto che quella pubblica e storica. Risulta poi imprescindibile, nell’analisi del cinema ameliano, l’intimo legame tra il dato biografico e l’opera dell’autore, la stretta interconnessione tra formazione dell’autore e formazione dei risultati cinematografici. La dimensione autobiografica è sempre presente, sottesa ed implicita nei diversi film, percorre sotterraneamente ed influenza tutta la produzione del cineasta. L’esperienza di vita costituisce dunque la base principale del suo percorso di autore. L’opera cinematografica del regista si configura infatti «inumidita di realismo premeditazione; oppure, se ti avvicini all’oggetto da filmare con la premeditazione naturale che il regista deve avere, devi fare in modo che le cose, in qualche maniera, ti si rivoltino contro. Penso che il credo di Renoir dovrebbe diventare legge. Renoir sosteneva che la realtà che tu metti davanti alla macchina da presa deve essere per forza una realtà pensata fino in fondo proprio per la macchina da presa; quindi, tu devi chiudere la porta al resto delle cose, perché la vita non si deve mischiare con il cinema. Però, aggiungeva Renoir, devi lasciare aperta una finestra, in modo tale che la realtà della vita, le cose vere che giustamente hai lasciato da parte, ti entrino di soppiatto e ti sconvolgano questa costruzione. Questo è probabilmente uno dei comandamenti, forse “il” comandamento da seguire, da portare alle conseguenze estreme. […] Perciò, fermo restando che la prima parte è fondamentale, dovrebbe diventare ancora più forte la seconda, che probabilmente non lo è più. Il cinema, mentre prende sul serio a tutti i livelli la prima parte del comandamento di Renoir, anche senza conoscerlo, trascura la seconda parte. Perché spesso, facendo cinema, si fa confusione con il teatro. Quanto è distante, invece, il teatro dal cinema… Quando sono a teatro c’è il patto tacito, sottinteso, tra me e gli attori, il patto della finzione. […] Mentre invece al cinema questo patto non è possibile. Nessuno al cinema riesce a farti entrare in questo patto, nel senso che, quando la luce si spegne e lo schermo si accende, tu devi credere che quello che c’è davanti a te stia avvenendo realmente», ivi, pp. 150-151. 36 Ivi, p. 152. 37 Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, Venezia, Marsilio, 2000, p. 28. 447 ma soprattutto intrisa di memoria, d’una moltitudine di istanti passati, di evocazioni (auto)biografiche, d’energie emozionali rimosse e riaffiorate»38. Per penetrare autenticamente l’opera di Amelio assume dunque un rilievo particolare la sua biografia, da cui discende un’interpretazione delle sue opere cinematografiche come elaborazione della sua esperienza e ricerca esistenziale. Infatti non c’è film di Amelio che non abbia per oggetto il suo mondo, che non disegni figure che attengano alla sua formazione giovanile, sofferta come a tutti gli adolescenti può toccare in sorte, ma nel suo caso segnata da inquietudini che solo un ragazzo del Sud, figlio dell’emarginazione, può conoscere39. Proprio il suo essere un uomo del Sud, spiega il forte senso di solidarietà e vicinanza che lo lega agli emarginati, agli oppressi, ai deboli e agli ultimi, protagonisti indiscussi dei suoi film, che assurgono a detentori della moralità. Lo stesso autore ha rivelato: Io sono nato in una comunità di poveri. Ero affratellato a tutti quelli che avevano dei bisogni elementari, e non riuscivano se non con grande fatica a soddisfarli. Mi sento ancora parte di una gente che ha bisogni forti, duri, primari: il pane, le scarpe, il vestire40. Amelio racconta infatti un’infanzia tragica: solitudine, padre lontano – emigrato in Sudamerica – povertà estrema e il «bisogno di sopravvivenza imposta come dovere… sei chilometri a piedi per arrivare a scuola e eccellere, autocostrizione»41. Nella sua infanzia dunque, come il regista ha dichiarato, «non c’erano né spensieratezza, né serenità, solo autocostrizione»42. A proposito della sua esperienza scolastica, su cui incombeva il peso della sua povertà, l’autore ha rivelato: 38 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., p. 9. 39 Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, op. cit., p. 11. 40 Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit., p. 43. 41 Mario Sesti, Autoritratto di Gianni Amelio, intervista a G. Amelio a cura di Mario Sesti, in Mario Sesti (a cura di), Regia di Gianni Amelio, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1992, p. 8 42 Ibidem. 448 mi comportavo strabene, pur detestando la scuola. E lo facevo per evitare che mia madre o mia nonna andassero a domandare come mi comportavo. Perché mia madre e mia nonna non parlavano la lingua italiana, e questo per me era un elemento di tale vergogna di cui oggi mi vergogno. Poi, all’epoca erano molto fiscali nelle scuole, ti facevano visite mediche, avevano il terrore della tubercolosi. Gli inquisitori ogni sei mesi ti chiedevano quante volte alla settimana mangiavi la carne; e io dicevo sempre tutti i giorni43. Dunque il Sud, inteso come naturalità opposta a cultura, si configura come un “rimosso” autobiografico e personale della vita e della storia di Amelio, che riemerge e riaffiora nei film del regista, caratterizzando tutta l’opera di questo autore. I personaggi bambini e adolescenti di Amelio dunque replicano la sua autobiografia tragica, sono testimonianza della sua infanzia e adolescenza perdute: appaiono nei suoi film come in una prigione, e mettono in atto sempre un estremo e disperato tentativo di fuga. Un altro elemento autobiografico che si rivela centrale nell’opera di Amelio è il difficile e sofferto rapporto con il padre, da cui deriva il desiderio struggente di paternità trasfigurato nei suoi film. A proposito dell’assenza del padre l’autore ha raccontato: ero nella classe più importante dell’unico liceo classico di Catanzaro, con tutti i figli più importanti, il giudice, il sindaco, il primario chirurgo. E sul registro erano indicate le rispettive professioni paterne e materne […]. Io avevo: Amelio Giovanni, di Giuseppe, impiegato. L’avevo detto io, perché mio padre non c’era, mio padre stava in Argentina e io potevo spacciarlo come impiegato. Ero l’unico figlio di impiegato; guai se avessi detto che non avevo idea di quello che faceva, che magari stava a chiedere l’elemosina in qualche angiporto di Buenos Aires. Nemmeno io lo sapevo, quello che faceva. Ogni tanto da ragazzino chiedevo a mia madre: che fa papà? E lei era vaga quando rispondeva: fa l’elettricista, fa il meccanico, guida la macchina. […] Accade che un giorno, in quarta ginnasio, si faccia un tema: «Parla di tuo padre». Passano un paio di giorni, il professore torna con i temi corretti e dice che c’è un 43 Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio, intervista a Gianni Amelio a cura di Emanuela Martini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 110. 449 tema straordinario, senza dire di chi è. Dice «Io vorrei leggerlo, però vorrei chiedere il permesso», e si volta verso di me: «Posso leggere il tuo tema?». E io dico «No». E lui dice «Dobbiamo rispettarlo». A quel punto, cade il silenzio su tutta la classe, e tutti si voltano a guardarmi. E, dopo un anno e mezzo o due, una delle mie compagne mi ha svelato che da quel giorno tutti quanti si sono confermati nel sospetto che avevano: che non avessi il padre, che fossi figlio di cosiddetto NN44. Emerge dunque quello che Amelio ha definito come il suo «dramma, del ragazzo senza padre, […] che è deriso dai compagni perché è sospettato di essere figlio di NN»45. Così il «dramma» personale di Amelio legato al rapporto sofferto con il padre si ripercuote sull’opera dell’autore e si ritrova, più o meno esplicitamente, in tutti i suoi film. Il mondo poetico di Amelio infatti ruota intorno alla figura del padre. Nei suoi film la figura paterna viene connotata negativamente e caricata di ogni responsabilità negativa: l’autore incolpa il “padre”, o chi ne riveste il ruolo, delle disillusioni che un “figlio” subisce. L’inadempienza paterna si concentra sul tema della cultura. Nella polarità tra cultura e naturalità, l’autore opta per la natura e critica la cultura in quanto ritiene, proprio per averlo sofferto in prima persona, che al vertice della scala dei valori si trova la necessità di sopravvivere e la vita, piuttosto che la cultura. L’inquietudine dell’adolescente-Amelio discende dall’assenza di una figura di adulto/padre/maestro in grado di svolgere il ruolo di guida: «Perché dove il maestro esiste, rivela il dono maligno di ingannare e d’ingannarsi; e si deforma in una caricatura ipocrita capace di distruggere l’equilibrio fragile dell’allievo»46. Così la figura del padre, o chi ne fa le veci, risulta inadempiente per l’incapacità a porsi come guida: infatti l’impossibilità di avere una guida che alla dimensione intellettiva e culturale associ anche quella umana ed affettiva diventa la causa della profonda solitudine e del malessere esistenziale dei piccoli protagonisti dei film di Amelio. Questa accusa al mondo dei padri di «tarpare le ali ai figli»47 si estende fino a significare la consapevolezza dell’autore della difficoltà di stabilire un autentico rapporto umano, che superi gli scarti generazio44 45 46 47 Ivi, pp. 110-111. Ivi, p. 111. Alberto Cattini, op. cit., p. 13. Ibidem. 450 nali e le barriere di classe. Così Amelio risolve la condizione umana nella solitudine, intesa come impossibilità e impotenza a costruire rapporti umani autentici, solidi, pieni e definitivi. Inoltre, continuando ad attingere all’autobiografia, sostiene che tale solitudine si insedi nel nucleo familiare, quale radice prima del dolore umano. Così la forza di questo autore «sta non solo nel riconoscersi nelle vittime, ma nel saper individuare e smascherare i carnefici»48. Il tema basilare su cui sono incentrati i film di Amelio è dunque il rapporto dialettico tra la figura dell’adulto-padre-maestro e quella del bambino-figlio-allievo. Tale rapporto si configura come un conflitto ovvero come distacco, freddezza, alterità, estraneità ed incomunicabilità tra queste due figure. Infatti i film dell’autore trattano i fragili equilibri tra due figure in continuo scambio e opposizione, sono costruiti per opposizioni tra due personaggi: l’uno rappresentante l’infanzia o l’adolescenza e l’innocenza, l’altro la maturità e la responsabilità. Queste due figure fondamentali nei film di Amelio possono essere considerate invero non solo e non semplicemente come due entità anagrafiche (un bambino-adolescente, nel quale sicuramente l’autore si riconosce maggiormente, e un uomo), ma anche e soprattutto come le rappresentazioni divaricanti e antitetiche di un modo di sentire e di essere dell’autore stesso. Il conflitto tra l’adulto-padre-maestro – rappresentante la dimensione intellettiva e razionale dell’uomo – e l’adolescente-figlio-allievo – simbolo e metafora delle passioni, delle emozioni e dei desideri – elemento basilare e portante dei film di Amelio, non si configura cioè unicamente come un conflitto tra i due personaggi deuteragonisti. Esso può, secondo un ulteriore e più profondo livello di lettura, essere introiettato all’interno dell’interiorità del regista ed essere letto come una scissione tra ragione e passioni interna all’autore stesso. La razionalità e le passioni incarnate nei vari film dai protagonisti in rapporto dialettico devono allora essere considerate non soltanto e non semplicemente come due caratteristiche antitetiche appartenenti a due personaggi distinti, ma vanno anche e soprattutto concepite come due lati e aspetti interiori compresenti e coesistenti all’interno dell’uomo, e in primo luogo dell’autore stesso che nei suoi personaggi si identifica. Così in ognuno dei suoi protagonisti – adulto o bambino che sia – Amelio sembra ritrovare un tratto del proprio cammino, il suo percorso di figlio e di padre. All’interno dei film di Amelio è possibile individuare una scala 48 Ibidem 451 gerarchico-piramidale49 che costituisce la struttura filosofico-concettuale soggiacente alle opere filmiche a cui si possono ascrivere i diversi personaggi. Il vertice di tale scala gerarchica filosofica è occupato dall’elemento metafisico-eteronomo: si tratta di un’entità e un’autorità esterna e superiore rispetto all’uomo, al soggetto individuale. Tale elemento eteronomo, in quanto trascendente e sovrannaturale, si configura come eterogeneo, ontologicamente distinto e contrapposto rispetto a quello terreno, umano, naturale e finito. Questo ente esterno all’uomo – autoproclamandosi superiore e portatore di valore – rifiuta, reprime, domina, sottomette ed annichilisce l’elemento naturale e umano (che viene a rappresentare l’alterità, l’altro da sé, il diverso), considerato inferiore e negativo. L’elemento eteronomo si presenta nel film sia nell’accezione metafisico-religiosa come un’autorità teologica, che in quella positiva e statuale come un’autorità mondana. Si tratta delle istituzioni religiose da una parte e dello Stato, della società odierna e della famiglia istituzionale dall’altra, enti verso cui il regista muove una radicale critica in quanto si rivelano inadeguati e fallaci. Sulla loro trattazione è incentrata solitamente la prima parte delle pellicole ameliane: l’autorità religiosa e quella statuale-societaria costituiscono infatti il primo “incontro” e dunque la prima tappa dei protagonisti lungo il viaggio alla scoperta, o meglio ri-scoperta, di sé. La parte centrale della storia è occupata poi dall’esposizione e dalla trattazione del secondo stadio della scala gerarchica filosofica, corrispondente alla seconda tappa del viaggio compiuto dai protagonisti. Si tratta dell’elemento terreno, umano e finito, che – rovesciando la dicotomia tradizionale tra autorità e uomo – si riconosce autonomo. Così la positività, la priorità di valore viene assegnata non più all’elemento trascendente, esterno e superiore rispetto alla natura e all’uomo, ma al contrario proprio all’elemento terreno, umano, naturale e finito; si teorizza allora il ruolo centrale e prioritario della natura, finita e immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo. Si giunge così all’affermazione dell’individualità e dell’autonomia personale, ovvero al riconoscimento dell’indipendenza del soggetto individuale da qualsivoglia autorità esterna e superiore. In particolare l’essere umano viene qui connotato in termini razionalistici: questo atto di 49 Cfr. Eugenio Lecaldano, Etica, Torino, UTET Libreria, 1995. La scala gerarchica presentata dal filosofo morale contemporaneo viene qui mutuata dal campo dell’etica ed utilizzata in ambito estetologico. 452 supremazia è cioè assegnato all’uomo, che in quanto tale si configura come essere razionale. Il soggetto dunque, connotato in termini razionalistici, riconosciutosi indipendente ed autonomo, rifiuta qualunque entità e autorità esterna, superiore e trascendente rispetto alla realtà e all’orizzonte naturale e umano, in base ad un’interpretazione secondo cui la realtà va fondata in termini naturali, terreni e finiti. Si istituisce inoltre un altro dualismo filosofico (analogo a questo tra l’autorità esterna e superiore all’uomo e l’uomo inteso come essere razionale) che si caratterizza anch’esso come una contrapposizione antitetica tra due elementi differenti ed eterogenei quali appunto la razionalità umana da una parte e il lato naturale dell’uomo, costituito dall’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti dall’altra. Si afferma così la sostanzialità dell’anima, dell’identità personale, ovvero la consistenza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza, dell’Io – che resta chiuso e confinato in se stesso – e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teorizza dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza dalla sfera passionale ed istintiva, che viene a rappresentare allora l’alterità, l’altro da sé, il diverso. Tale aspetto razionale dell’uomo – di cui, come abbiamo visto, si afferma la posizione di supremazia e privilegio – rifiuta, nega, reprime, domina, sottomette e annichilisce la dimensione corporea e la sfera pulsionale ed istintuale – propria precipuamente dell’animalità e definita come il lato oscuro dell’uomo, luogo dell’immoralità – ritenuta inferiore e negativa. Il concetto di razionalità umana, che si configura solitamente come tratto peculiare di uno dei due protagonisti, è oggetto anch’esso – come il concetto di autorità – di una radicale critica da parte del regista. Il protagonista che incarna questa facoltà, è la figura dell’adulto che svolge una funzione di padre e insegnante. Si entra così nel nucleo costitutivo e nel cuore poetico del cinema di Amelio, quale la trattazione del rapporto dialettico tra la figura dell’adulto/ padre/insegnante e quella del bambino/figlio/allievo. Questo rapporto tra adulti e giovani, tra padri e figli si configura come un vero conflitto che si risolve nella negazione, rifiuto, repressione e annichilimento del bambino/figlio/allievo – che impersonifica la dimensione sentimentale e istintuale – da parte dell’adulto/padre/insegnante – che esemplifica l’aspetto razionale dell’uomo. Il protagonista che incarna la facoltà della razionalità, ovvero la figura dell’adulto/padre/insegnante, risulta anch’essa – proprio come lo Stato e la famiglia tradizionale – una figura inadempiente e incapace a porsi come guida. Anche il modello 453 della famiglia putativa allora, come quello della famiglia tradizionale e biologica, si rivela inadeguato e fallace. Al centro dell’opera di Amelio, in linea con la contrapposizione dialettica tra le figure dell’adulto/ padre/insegnante e del bambino/figlio/allievo, si iscrive inoltre quella tra cultura e natura, Nord e Sud, opulenza e miseria, classe borghese e società contadina, presente o futuro e passato. L’epilogo, approdo del viaggio geografico e spirituale dei protagonisti, è caratterizzato da un rovesciamento della situazione e dei ruoli. Si assiste infatti ad un capovolgimento della tradizionale dicotomia tra ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. La priorità di valore viene assegnata non più alla dimensione razionale, piuttosto proprio alla sfera passionale ed istintiva, di cui si riconosce il ruolo centrale e prioritario all’interno dell’esistenza dell’uomo. Si ha infatti la negazione della sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale: l’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’alterità, l’altro da Sé, il diverso – si rivelano un’illusione, una costruzione. La consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé viene a dissolversi, e dunque il fondamento stabile dell’Io, oscurato e minato, viene meno. Infatti l’alterità50 non resta confinata, al contrario tende ad invaderci: il Sé è intessuto di altro, è permeato dall’alterità: si assiste all’introiezione dell’altro, secondo una concezione dividuale della soggettività. Tale alterità e diversità consiste appunto nella sfera passionale, emotiva ed istintuale, incarnata dalla figura del bambino o dell’adolescente, che, assumendo il ruolo di figlio ed allievo, si pone in rapporto dialettico con quella dell’adulto/padre/insegnante. Nel finale si assiste al rovesciamento della dialettica tradizionale tra adulto/padre/insegnante e bambino/figlio/allievo, cioè al capovolgimento dei ruoli tradizionali in base ai quali l’adultopadre è la figura che insegna ed educa e il bambino-figlio quella che impara e apprende. La figura del bambino/figlio/allievo dunque come simbolo della diversità e come metafora dei sentimenti, delle passioni e delle emozioni. Infatti l’alterità si configura come l’insieme di quei sentimenti e valori propri precipuamente appunto dei più deboli, degli 50 L’alterità è costituita non solo da ciò che risulta esterno rispetto al soggetto, ma si rivela anche interna allo stesso Sé, quale appunto l’insieme delle passioni, emozioni, pulsioni, istinti e desideri dell’individuo. Infatti il tema del rapporto con l’alterità si ritrova all’interno dello stesso Sé, le problematiche dell’intersoggettività si rivelano una problematica intrapsichica caratteristica della stessa interiorità. 454 ultimi esemplificati per antonomasia dai bambini. Con la riscoperta di tali valori e sentimenti – di cui si rivelano custodi per eccellenza i bambini – e con la rivendicazione della loro centralità nell’esistenza umana, emerge l’umanesimo del cinema ameliano: il regista si fa portavoce della rivolta degli innocenti, dei derelitti, degli emarginati e dei diseredati e propone la riabilitazione e una vera epopea dei vinti, dei deboli, dei semplici e degli ultimi. I vinti, i deboli e gli ultimi sono appunto i bambini di Amelio – detentori di valori e sentimenti – che con la loro innocenza e purezza denunciano il mondo inadempiente degli adulti e un ordine sociale corrotto. Questi sono dunque i piccoli eroi quotidiani celebrati da Amelio: gli emarginati, i deboli e gli innocenti che, nonostante l’indifferenza degli adulti e la corruzione delle istituzioni, conservano l’animo di bambino. Se i diversi personaggi possono essere collocati all’interno di questa scala gerarchica filosofica sottesa ed implicita nel cinema di Amelio, nelle opere appartenenti all’ultima fase dell’autore – a partire da Il ladro di bambini in poi – il personaggio del protagonista-eroe si rivela più complesso. Infatti nei lavori più recenti del regista il protagonista non è ascrivibile univocamente ad uno stadio definito, in quanto nel dispiegamento della storia si disvela un processo di evoluzione e crescita psicologica ed intellettiva interno all’eroe. Così nella prima parte delle pellicole il protagonista impersonifica l’elemento eteronomo nella sua accezione positiva e statuale, in quanto, rivestendo un ruolo istituzionale, rappresenta un’autorità mondana. Nella parte centrale della storia poi il protagonista, contestata l’autorità superiore ed esterna, va ad incarnare l’eroe emblema di razionalità. Infine nell’epilogo si assiste al crollo e al dissolvimento dell’identità personale e dell’unità dell’Io e all’identificazione del protagonista con l’alterità, attraverso il riconoscimento e l’accettazione della propria dimensione passionale ed istintuale. Emerge allora il ruolo di primo piano e la funzione centrale che il viaggio riveste all’interno del cinema di Amelio, quale forma di racconto privilegiata delle opere di questo autore. Il viaggio – elemento sempre presente e centrale nel cinema ameliano – che i personaggi intraprendono nel corso della storia non si caratterizza unicamente come un viaggio che i personaggi compiono nell’ambiente esterno, ma si configura inoltre come un percorso interiore e spirituale che i personaggi, in modo particolare il protagonista, compiono all’interno della propria soggettività ed interiorità. Il viaggio geografico si con- 455 figura dunque in Amelio come metafora di un percorso psicologico e intellettivo di crescita ed evoluzione interno agli stessi personaggi, di un processo d’identificazione personale e ricerca esistenziale, di autoscoperta e trasformazione del Sé. 3. Il ladro di bambini (1992) Si intende analizzare la tematica del Sud nel film Il ladro di bambini (1992) di Amelio, in cui tale questione viene trattata in stretta connessione con quella della ricerca identitaria. Nella pellicola di Amelio infatti la discesa nel cuore del Meridione compiuta dai protagonisti viene a caratterizzarsi proprio come una ricerca identitaria, dove il viaggio geografico verso il Sud – immagine metaforica di una naturalità e di valori archetipici ormai perduti – si configura come metafora di un processo d’identificazione personale e ricerca esistenziale, di un percorso interiore e spirituale soggettivo di autoscoperta e trasformazione del Sé. L’elemento eteronomo si presenta nel film sia nell’accezione metafisico-religiosa come un’autorità teologica, che in quella positiva e statuale come un’autorità mondana. Sulla loro trattazione è incentrata la prima parte della pellicola: l’autorità religiosa e quella statuale-societaria costituiscono infatti il primo “incontro” e dunque la prima tappa dei protagonisti lungo il viaggio alla scoperta, o meglio ri-scoperta, di sé. Si tratta delle istituzioni religiose da una parte e dello Stato, della società odierna e della famiglia istituzionale dall’altra, enti verso cui il regista muove una radicale critica in quanto si rivelano inadeguati e fallaci: Come ha detto lo stesso regista, Il ladro di bambini «è un film sulla vergogna che non sappiamo ancora provare», ed è tante altre cose che riguardano la nostra società, dispersa nei mille egoismi del benessere, incerta, diffidente, incapace di guardare se stessa con spirito critico e costruttivo e di ricercare le potenzialità di un sentimento che esprima un’autentica sensibilità verso chi è diverso51. La Diversità, rappresentata dalla naturalità e dalla finitezza della sfera passionale ed emozionale, è incarnata nel film dalle figure dei bambini. 51 M. Garritano, La trasfigurazione poetica del quotidiano, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 149. 456 L’innocenza dei bambini costituisce in Amelio una Diversità negata, repressa e annichilita da istituzioni religiose corrotte e inadempienti e da un ordine sociale logoro. Infatti per quanto riguarda l’autorità teologica, gli istituti religiosi rifiutano di accogliere la bambina, visti i suoi trascorsi52. Per quanto riguarda poi l’autorità statuale e positiva, essa è rappresentata dalla famiglia tradizionale ed istituzionale – quale nucleo primordiale della società – aspramente criticata e contestata dall’autore: La figura del genitore si disintegra qui con il gesto più osceno, quello di vendere il corpo della propria figlia. Ma non a caso il padre non si vede, dà il seme, genera i bambini e poi sparisce. […] C’è questa disintegrazione dei valori che costituivano la base della società contadina, da cui padre e madre sono usciti. L’emigrazione ha condotto all’abbandono di quei pilastri che sono forse antichi, ma che sostenevano un modo di vivere meno disumano53. L’alterità della sofferenza infantile è dunque incarnata dai personaggi dei due bambini Rosetta e Luciano, la cui fanciullezza ed innocenza sono state rubate, violate e negate. Infatti Rosetta è una bambina di appena undici anni prostituita dalla madre. Per quanto riguarda Luciano poi, esemplificativo di questa negazione è lo sguardo54 del bambino che apre il film: è lo sguardo di un bambino che ha già perso l’innocenza, lo sguardo di un bambino – come rivela lo stesso autore – «che sa tutto, che capisce tutto, e che non può dire niente […], lo sguardo addolorato e impotente del mio piccolo protagonista, che vorrebbe difendere le sue donne, ma non sa come fare. E allora tace. E si ammala»55. Infatti il mutismo e la malattia (l’asma) del piccolo protagonista – come anche il suo rapporto duro con la sorella – sono segni sintomatici della negazione della sua infanzia. 52 «Ma non sono loro (i preti e le suore) comunque che fanno le “giornate per la vita”, non sono loro che dicono: procreateli comunque, noi li accoglieremo tutti?», Antonio Faeti, Bambini estranei, bambini rubati. Bambini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., pp. 52-53. 53 Jean A. Gili, Utopia di una famiglia nuova, intervista a Gianni Amelio a cura di Jean A. Gili, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 146. 54 Riguardo alla rilevanza significativa e alla valenza morale dello sguardo nel cinema di Amelio cfr. § 2 Il cinema di Gianni Amelio e la filosofia. 55 Lidia Ravera, Il maschio deve stare fuori, intervista a G. Amelio a cura di Lidia Ravera, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., pp. 136-137. 457 La sopraffazione, la violazione e l’annichilimento di questa alterità che è incarnata sempre dai più deboli, interna alle dinamiche tra i personaggi del racconto, si riflette anche all’esterno nel paesaggio, nello spazio filmico. L’Italia infatti, attraversata da nord a sud dai tre protagonisti durante il loro viaggio, si configura come un’Italia devastata dal degrado culturale e dallo scempio ambientale. L’Italia appare come «un’Italia spogliata»56, come «un’Italia adagiata nello squallore morale, nella corruzione diffusa, nella devastazione ambientale»57, come «l’Italia del degrado culturale e dello scempio ambientale […] ferita nei paesaggi naturali più belli dalla cementificazione selvaggia, dall’abusivismo edilizio, dai perenni lavori in sospeso»58, come l’Italia distrutta e incompiuta, vacillante sulle macerie d’un cambiamento irrimediabile, esemplificata da una casa meridionale “moderna” perennemente in costruzione e aperta ai venti, rappresentata da ragazzi delinquenti e istituzioni indifferenti, ostili o non funzionanti, da bambini venduti e comprati che alla fine del film girano le spalle al mondo, ma non alla speranza. […] L’Italia brutta, in cui una modernità provvisoria e barbara si sovrappone alla bellezza classica59. Il paesaggio appare distrutto: «la costiera, il mare sono sconciati da una strada che puzza di camion e di macchine roboanti, di case che nascono a caso e costruite, come il ristorante, a metà, di euforia del denaro»60. Così «la metafora di un’Italia espropriata della propria cultura e memoria si scioglie in quanto metafora e deve essere presa alla lettera. All’Italia è stata sottratta, per davvero, l’anima e quello che rimane è rovina, sgretolio, cocci e frantumi»61. Il regista, quale uomo del Sud, appare particolarmente sensibile 56 F. De Bernardinis, Una poetica della sottrazione, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 151. 57 U. Casiraghi, Una storia lineare e complessa, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 168. 58 E. Ghini, Un bambino sempre più violato, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 166. 59 Lietta Tornabuoni, Dove la storia si sta svolgendo…, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 37. 60 Goffredo Fofi, Mettiamoci a fare i bambini, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 159. 61 F. De Bernardinis, Una poetica della sottrazione, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 154. 458 alla tematica della devastazione e del disastro culturale e ambientale che la filosofia del progresso, del consumo e del successo propria del Nord ha prodotto nel Sud Italia, distruggendo e annientando i suoi valori primigeni. Esemplificano la società capitalista odierna – oggetto appunto dell’aspra e radicale critica di Amelio – anche personaggi minori (che compaiono più avanti nel film), che hanno sposato questa politica consumistica ed arrivistica importata dal Settentrione rinnegando i propri valori meridionali originari: la sorella di Antonio che sta costruendo una casa abusiva in Calabria, «tutta spinta all’avere e con ciò stesso al distruggere»62, e i benestanti appena arricchiti volgari e corrotti che compaiono nel film durante la festa al ristorante, come il geometra Papaleo, la cui filosofia familistica e mafiosa emerge durante la discussione col carabiniere a tavola sugli abusi edilizi, e la giovane donna che scopre e si affretta subito malignamente a svelare, con una perfidia perbenistica protetta dal senso comune e socialmente trionfante, l’identità della bambina additandola a mostro da copertina di rotocalco. A questi personaggi – emblema appunto della classe piccolo-borghese (che vive avidamente il presente e si proietta, con i suoi interessi egoistici capitalistici, verso il futuro) – si contrappone quello della vecchia nonna, che, col suo orticello assediato dalla strada, simboleggia i valori tradizionali e ancestrali del passato contadino del Sud dell’Italia: il piccolo orto si fa allora poetica metafora della residualità del passato della tradizione contadina che, nel Meridione, ancora sopravvive e resiste alla sterminante fagocitazione capitalista (l’autostrada che incombe minacciosa). Inoltre l’autorità statuale e istituzionale, quale ente esterno e superiore al soggetto individuale, è incarnata anche dall’arma dei carabinieri. Nel film compaiono infatti il collega corrotto di Antonio che lo abbandona tradendo il servizio e il carabiniere napoletano che tenta di “prendersi delle libertà” con Rosetta. Ma anche l’autorità punitiva della burocrazia statale impersonificata dai superiori di Antonio, i quali nell’epilogo – che esamineremo in seguito – accusano il protagonista (che nel corso del film va ad incarnare – come vedremo – anch’egli l’alterità rispetto all’autorità) di essere un “ladro di bambini”, passibile del reato di sequestro di persona. È interessante notare come il discorso dell’autorità punitiva sia pronunciato in italiano quale lin62 Goffredo Fofi, Mettiamoci a fare i bambini, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 159. 459 gua ufficiale utilizzata dalla burocrazia statale, in contrapposizione al dialetto – a cui è affidata gran parte del film – dei protagonisti. La contrapposizione linguistica tra l’italiano ufficiale dell’autorità e il dialetto esemplifica l’inconciliabilità dei protagonisti con la società: «Il valore di Il ladro di bambini risiede in primis […] nel raffigurare la diversità dei tre protagonisti come inconciliabile con la realtà»63. In questa prima parte della pellicola il protagonista stesso (Antonio) è un esponente dell’autorità statuale, rivestendo il ruolo istituzionale di carabiniere. All’inizio il carabiniere è infastidito per una missione cui, dovendola compiere da solo, si sente impreparato. Anche i bambini gli sono ostili: Luciano, chiuso nel suo mutismo, è ostile a tutti, specialmente alla sorella, e Rosetta, ferita e violata, riversa e palesa la sua frustrazione nella duplicità dell’essere donna e bambina nello stesso tempo, secondo un atteggiamento altalenante tra quello da donna, quale è stata costretta a diventare prima del tempo suo malgrado, e quello di bambina capricciosa e aggressiva. La parte centrale della storia è occupata poi dall’esposizione e dalla trattazione del secondo stadio della scala gerarchica filosofica, corrispondente alla seconda tappa del viaggio compiuto dai protagonisti. Si tratta del soggetto individuale, connotato in termini razionalistici, che si riconosce autonomo da qualsivoglia autorità esterna e superiore. Tale facoltà si configura – all’interno della parte centrale del film ameliano – come tratto peculiare del protagonista. La figura di Antonio, definita come «una delle più complesse e più belle espresse dal cinema italiano dell’ultimo decennio»64, incarna infatti l’ideale dell’eroe razionale che si riconosce autonomo ed indipendente dalla propria dimensione naturale originaria come anche dall’autorità: allontanatosi dalla naturalità delle proprie origini per integrarsi in un sistema istituzionale strutturato ed artefatto, si pone poi anche al di fuori del sistema stesso e si scaglia contro di esso, contro la società e l’autorità che lo sovrasta e lo governa. Antonio infatti dismessi i panni del carabiniere, con la sua fierezza, la sua lealtà, la sua onestà e la sua schiettezza, con il suo semplice e puro senso del dovere si sostituisce ad uno Stato assente. Viene così accusato dai suoi superiori di essere un “ladro di bambini” perché ha “rubato” alla società e al sistema 63 M. GARRITANO, La trasfigurazione poetica del quotidiano, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 150. Ivi, p. 149. 64 Ivi, p. 149. 460 l’umanità e la dignità per i più deboli: infatti – spiega lo stesso Amelio – «per vivere i sentimenti siamo spesso costretti a rubarli. In questo senso Il ladro di bambini ruba qualcosa al proprio tempo, al proprio sistema, per concedere a se stesso un’altra dignità»65. Dunque Antonio viene accusato di essere un “ladro di bambini” appunto perché – rivela il regista – ha fatto l’ultima cosa che può fare uno come lui, ha interpretato in modo del tutto personale la sua missione, che era di trasferire due bambini in un istituto. Lui invece li ha fatti dormire in un albergo perché erano stanchi, li ha portati da sua sorella perché si riposassero, li ha fatti mangiare perché avevano fame, si è fermato con loro al mare perché facessero il bagno… E lo ha fatto anche per se stesso, non solo per i bambini66. L’idea centrale del film consiste appunto nella trattazione del rapporto e confronto tra adulto e bambino, rapporto che si configura – spiega lo stesso autore – come una «violenza dialettica», un’«attrazioneopposizione»67. Infatti se all’inizio il carabiniere Antonio è infastidito dalla missione che gli è stata assegnata e i bambini gli sono ostili, a poco a poco, nel corso del viaggio68 che i tre protagonisti sono costretti ad affrontare insieme, si assiste ad un cambiamento e ad una trasformazione del rapporto tra i personaggi. Nel carabiniere nasce un affetto paterno per i bambini violati e questi cominciano teneramente ad aprirsi verso di lui: Rosetta si apre al sorriso, il mutismo e l’asma sintomatico di Luciano vanno pian piano dissolvendosi quando il bambino inizia a considerare Antonio come il padre che gli è sempre mancato e anche il rapporto tra i due fratelli diventa più sereno. Così l’innocenza e la fanciullezza perdute dai due bambini vengono man mano, nel corso del viaggio, ritrovate. Emerge dunque in Il ladro di 65 Jean A. GILI, Utopia di una famiglia nuova, intervista a G. Amelio a cura di J. A. Gili, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 146. 66 Ibidem. 67 E. Soci, Il ladro di bambini, intervista a G. Amelio a cura di E. Soci, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 134. 68 Emerge dunque come il viaggio, elemento sempre presente e centrale nel cinema di Amelio, si configura come una metafora del processo psicologico di crescita ed evoluzione del protagonista e dei rapporti e delle dinamiche interpersonali e intersoggettive tra i personaggi (cfr. § 1 Il viaggio come ricerca identitaria). 461 bambini l’ideale utopico di una famiglia nuova, putativa, che si forma e nasce sulle ceneri della famiglia biologica e tradizionale – criticata e contestata, come abbiamo visto, dall’autore. Amelio infatti dichiara: Io ho raccontato di figli che non erano figli ma era come se lo fossero, o di figli che erano figli, ma qualcuno non li riconosceva. […] Quindi, nello stesso racconto qualcuno che non era padre naturale dava delle cose e qualcun altro che invece l’aveva messo al mondo le toglieva. […] La famiglia “giusta” è quella inventata, trovata strada facendo, i cui componenti si sono scelti69. La scena chiave del film è infatti quella del mare – elemento fondamentale e presenza costante nel cinema ameliano – metafora dell’utopia. In questa scena tra il giovane carabiniere e i bambini, che deve tradurre in un istituto per l’infanzia, nascono una sintonia e un’armonia che superano ogni barriera prestabilita costituita dai ruoli, dai ceti sociali e dalle età, e rimandano ad un’età dell’oro, a un paradiso terrestre, al tempo di un’origine mitica sfiorata ma non raggiunta, come rivela l’autore: «C’è un senso di utopia che sembra sul punto di realizzarsi, che non si realizza, ma lascia una forte traccia di sé»70. Dunque è presente nel film, come accade spesso nelle opere di Amelio, un momento centrale in cui il protagonista ha portato a termine il compito che si era proposto, ha realizzato la sua missione, è convinto di aver raggiunto il suo scopo: in Il ladro di bambini la missione del protagonista Antonio è quella di tradurre i bambini da uno stato di infelicità e disperazione ad uno stato di realizzazione dell’essere, di benessere e serenità. Questo momento è individuabile nella scena in cui i protagonisti si ritrovano intorno al tavolo di un ristorante in riva al mare a cibarsi. Si tratta di un’attività semplice, primordiale, basilare e fondamentale – sempre centrale nei film dell’autore – che evoca una dimensione originaria e ancestrale e crea la famiglia, è il momento fondante della famiglia, appunto di quella famiglia che si sceglie: padre e figlio, al di là del discorso biologico, si scelgono, 69 Emanuela Martini, Gianni Amelio, cit., p. 12 (si tratta di una dichiarazione di G. Amelio raccolta da Emanuela Martini nel giugno 2006). Nella scelta della nazionalità delle due ragazze il regista richiama e omaggia il cinema francese. 70 Ivi, p. 112 (si tratta di una dichiarazione di G. Amelio tratta da un’intervista a cura di Emanuela Martini). 462 per cui il padre è la figura che insegna ed educa e il figlio quella che impara e apprende. Questo film infatti, come altre opere del regista, si fonda sulla dialettica tra la figura dell’adulto/padre/insegnante e quella del bambino/figlio/allievo. In questa scena emerge inoltre il realismo peculiare del cinema ameliano: i due attori (Enrico Lo Verso che interpreta Antonio e Giuseppe Ieracitano che impersona il piccolo Luciano) sono realmente “in presenza” e interagiscono tra di loro. Infatti la verità, ricercata dal realismo, nasce dalla co-presenza: essa restituisce allo spettatore la verità della realtà, in questo caso la realtà del rapporto tra due persone – in particolare qui emerge il medesimo spirito metafisico-esistenziale che accomuna i due personaggi che dialogano insieme. In questa scena si ritrova anche un’altra tematica centrale in Amelio quale quella del linguaggio, attraverso il racconto da parte del carabiniere di una barzelletta. La barzelletta richiama infatti la questione linguistica in quanto si configura come un gioco che si compie sul linguaggio: per comprendere una barzelletta essa non va intesa in senso letterale, ma si deve intendere e scoprire un doppio senso nascosto, l’errore71. Lo stesso titolo Il ladro di bambini costituisce un paradosso (è paradossale infatti designare un carabiniere “ladro di bambini”), appunto un “errore” linguistico, un capovolgimento di senso. Il discorso linguistico viene ripreso più avanti nel film quando la bambina compie un errore linguistico dicendo «marocco» anziché «barocco»; anche nel gioco delle carte (cronologicamente antecedente nel film) si ritrova l’errore, in quanto tale gioco sottende la truffa basata sull’“errore” che compie la percezione. Nell’epilogo del film – come di consueto nel cinema ameliano – si assiste ad un rovesciamento della situazione e dello stato di cose che si era raggiunto. Il bambino chiede al carabiniere se gli piacciono le due turiste francesi72, sedute ad un tavolo vicino nel ristorante: si intravede già un capovolgimento di ruoli per cui il bambino diventa adulto e l’adulto diventa bambino. Infatti al momento in cui il protagonista pensa di aver raggiunto il suo scopo e compiuto la sua mission