Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—1 ^ pag.
CAPITOLO 6
RIFLESSIONI
Sesto avrebbe potuto ricorre alla magistratura, denunziare ad essa i suoi dubbi, ma
sapeva bene che da quando era stato modificato Il Consiglio Superiore ed erano stati sostituiti e
stravolti i precedenti organici presso tutte le Procure, era ben difficile trovare un magistrato che
osasse contraddire la volontà politica. Ed in quei due omicidi, non v’era dubbio che vi fosse una
ben precisa volontà politica.
V’erano dunque omicidi di Stato? No, il nuovo potere non era così sciocco da
commettere una tale imprudenza, bastava diffondere la notizia dei fastidi che un qualunque
cittadino arrecava allo svolgimento del “Programma Governativo”, perché uno dei tanti Uffici di
Corrispondenza, e non più gli arcaici e superati Servizi Segreti, intervenisse spontaneamente
a rimuovere il fastidio.
Agli anni della corruzione istituzionalizzata era succeduto un tal potere governativo che
non era pari neppure alla più ferrea dittatura, giacché veniva esercitato con la perfetta
apparenza di democrazia che s’imponeva da un canto con l’opera persuasiva dei mezzi di
comunicazione, e d’altro canto, ma soltanto per i casi più ostili e resistenti, attraverso la servitù
di comodo.
Essa consisteva nella soggezione continua di ogni cittadino alla persona, al servizio,
all’ufficio, all’azienda da cui si dipendeva al fine di trarre vantaggi di ogni tipo. Sicché l’adesione
alla volontà superiore era apparentemente libera, ma effettivamente coatta per la
consapevolezza che non esisteva possibilità alcuna di obiezione, né tanto meno di opposizione.
In realtà esistevano ancora gli oppositori a quella democrazia, ma erano talmente isolati
e raggruppati soprattutto in qualche redazione di giornale, da non costituire alcuna
preoccupazione per il Potere che, anzi, ne esaltava l’esistenza come dimostrazione della sua
liberalità.
Se, comunque, accadeva che taluno oppositore oltrepassasse i limiti, nel senso che
dovesse divenire credibile, chi del Potere avesse maggiore interesse diffondeva la notizia di
quell’esistenza come ostacolo alla libera attività di un servizio, di un ufficio, di un commercio, di
un’impresa, di modo che un qualunque Ufficio di corrispondenza si facesse carico della di lui
neutralizzazione.
Da quel momento detti Uffici avrebbero fatto a gara per giungere al risultato, tanto che,
di solito, almeno un paio di essi si accordavano per la collaborazione.
A ciò si era giunti con gradualità, ma con sollecitudine, di modo che nessuno potesse
esser chiamato a responsabilità diretta, come stoltamente avevano invece fatto i responsabili
politici del periodo della corruzione.
La prima occasione di tale rivoluzione liberale, come amavano chiamarla, l’aveva data la
necessità di provvedere alla diminuzione della disoccupazione.
Era accaduto, infatti, che alla disoccupazione derivante dal periodo della recessione
mondiale, nel periodo di vacanza di potere tra la Democrazia corrotta ed il successivo governo,
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si era aggiunta quella voluta dagli imprenditori al fine di distruggere il sindacalismo, di
soggiogare la classe lavorativa e di assumere potere contrattuale anche nei confronti del
subentrante governo.
Fu quindi sufficiente promettere benefici finanziari e fiscali agli imprenditori, perché questi
si trasformassero in perfetti collaboratori del governo.
A loro volta, coloro che da anni erano già stati licenziati ed i giovani di quasi o più di
trenta anni che avevano già formato famiglia o che non ne avevano avuta la possibilità proprio a
causa della disoccupazione, non appena furono assunti, si aggrapparono talmente al datore di
lavoro che questi ne disponeva a suo piacimento, consapevoli, le due parti, che non era più
possibile il ricorso al sindacato.
Inoltre, i lavoratori di ambi i sessi, ma soprattutto uomini, giacché le donne avevano la
cattiva abitudine di divenire mamme, e di conseguenza o pessime lavoratrici o pessime madri di
famiglia, portavano a casa, assieme ai vantaggi dell’adeguamento alla nuova politica del lavoro,
un maggiore rigore e nuove regole di conduzione domestica e sociale ispirate, ovviamente, alle
regole ferree di mercato.
Ciò vuol dire che su tutto erano prevalenti
dell’economia.
i principi apodittici dell’efficienza e
Così, se una moglie, un figlio, o qualunque altro familiare diveniva un peso sotto l’aspetto
di uno od ambedue i suddetti principi, li si poteva abbandonare, ma non fino al punto da
trasformarli in peso per la società.
Sesto non aveva alcuna prova che fosse accaduto ciò che pensava, ma qualche indizio
lo aveva certamente. Telefonando alla sua redazione ebbe poi la conferma che a quei due casi
erano interessati gli Uffici di Corrispondenza, giacché gli avevano più volte detto che tutto era
regolare, che era l’intesa per farglielo capire.
Ma a che cosa gli serviva quell’ulteriore conferma, dal momento che non sapeva proprio
da dove incominciare per ottenere qualche prova inconfutabile? Tuttavia insistette per assistere
al sigillo della bara del Professore.
Ecco lì, l’eroismo di partigiano, la vita priva di affetti di orfano, giorni e notti di studi per
emergere, ed ancora studi per migliorare la sua fede politica, persecuzioni per difenderla o per
diffonderla, qualche barlume di speranza intravisto in un altro filosofo della politica, qualche
illusione di creare sia pure un embrione di democrazia vera, o di socialismo effettivo ed umano,
rinchiusi e vanificati in una misera bara che avrebbe ridotto, corrotto fino alla irriconoscibilità il
tutto, compreso persino il decente e liso vestiario di pensionato statale e quelle scarpe...ma non
erano le sue! Ricordava bene quelle che gli aveva mostrato ed a cui erano state apposti, non
certo da Don Tano, i soprattacchi smontabili con qualche congegno elettronico. Queste erano
nuove, belle, di pelle morbida. Una mano pietosa gliele aveva cambiate. Ma perché mai soltanto
le scarpe, se pietosa era quella mano, e non già il vestiario? No, era piuttosto una mano
assassina o complice ?
Il giorno dopo, al funerale del Professore c’era soltanto lui, Peppe e l’intera famiglia di
Celeste. Non s’aspettava proprio che vi partecipasse anche il padre.
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Il signor Aldisio aveva l’aspetto tipico di coloro che non hanno alcun problema né
economico, né familiare, né salutare, né psichico, né esistenziale. Però, lo aveva immaginato
diverso, con l’espressione di uomo concreto, materialista quanto un buon commerciante, cui la
ragione non era più utile di una calcolatrice o di un computer, tanto che già da molto tempo
l’avevano sostituita quelli come lui. Invece aveva un’espressione pensante. Gli occhi non
sfavillavano di ricchezza, come quelli famosi di Zio Paperone, bensì di dovizia interiore, quasi
repressa. Lui, giornalista che aveva assistito a condanne di prigionieri politici di tutto il mondo, di
uomini che non avevano tradito i loro ideali neppure con le sevizie e le torture più atroci, aveva
visto quei bagliori negli occhi.
Ma Sesto si convinse che stava fantasticando. Se il signor Aldisio fosse stato uno di
quelli non avrebbe partecipato a quel funerale. Solo un sognatore come lui ed alcune ingenue
come Celeste e la madre potevano sfidare con la loro presenza il giudizio delle Autorità. E
qualcuna era anche presente dietro l’occhio male occultato di una telecamera, sull’unica
automobile che seguiva il feretro con le tre ghirlande di fiori, la sua, quella della famiglia Aldisio
e quella di Peppe. Sì, proprio di Peppe, che aveva fatto scrivere sul nastro a lettere d’oro: "
STATO. PARTICIPIO PASSATO DELL’ESSERE ". Iscrizione ermetica, come lui, cui si poteva
dare molti significati. In paese non era sfuggita quella dedica, né a Sesto erano sfuggiti i sorrisi
di coloro che l’avevano letta. Quanto è stupido l’uomo, spesso ride soltanto perché non capisce.
A Sesto sembrò un funerale un po' all’italiana ed un po' all’americana. Cessata la
funzione funebre, infatti, il signor Aldisio lo invitò a pranzo a casa sua e lì libarono
abbondantemente. Ma non ricordò che cosa, avendo tenuto sempre l’orecchio attento
all’anfitrione e l’occhio a Celeste. E non era neppure vero ciò, perché in verità aveva seguito i
begli occhi di Celeste e le bellissime forme della madre che, passando attraverso l’intensa luce
del sole, gli regalava la sua sagoma nuda. E si disprezzava mentre si asciugava il sudore come
Strica, ed ancor più scoprendo che avrebbe voluto fare come lui.
- Che cosa sapeva di lui? - Gli stava domandando il signore Aldisio.
- Ciò che mi ha riferito Peppe - rispose sentendosi avvampare mentre osservava per
l’ennesima volta l’avvincente “silhouette”, ringraziando il clima caldo che ne camuffava la
motivazione, - qualche ricordo della signorina Celeste e ciò che ho appreso da quella strana
biografia che lui stesso mi aveva dato da leggere.
- Ah, quella.
Non aggiunse altro il signor Aldisio, ma era come se avesse detto la conosco anch’io. Ma
chi poteva avergliela fatta conoscere? Forse Cesco mentre era fidanzato con Celeste? E
perché mai, dal momento che era mal fatta, incompleta e poco veritiera?
- L’ha letta anche lei?
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Non gli rispose. Chinò lo sguardo e disse tutt’altro di ciò che si aspettava il giornalista.
- Peppe, secondo me, ha scritto sul nastro una frase del fratello. Sa, spesso mi
rimprovero di essere vile. Quante volte si dice che in certe occasioni bisogna essere uomini,
ma quali sono queste occasioni, in che modo si deve essere uomini, dove comincia la
prudenza di chi si sente impotente ad agire e dove la viltà di chi non osa?
Sesto non ebbe più dubbi. Era un essere pensante ed aveva una dovizia interiore, più
bella ma meno comoda di quella che si conta.
- L’ha letta? - Domandò ancora una volta Sesto senza sapere perché insistesse.
- Venne qua per me, non per Cesco che conobbe proprio qui. Ci eravamo conosciuti
all’Università. Lui era davvero bravo, mentre io ero solamente il figlio di un ricco commerciante
che aveva l’ambizione di fare studiare il figlio in un’importante Università. Non mi laureai infatti,
anche se tutti mi chiamano Dottore, ma qui questo titolo ha tanti significati.
Mia moglie e mia figlia non l’hanno mai saputo. Venne a trovarmi, fortunatamente, pensai
allora, mentre erano a Palermo. Un’estate come questa. Caldissima. Le mie donne, le ho
sempre mandate a villeggiare in una villa di Mondello, che ho tenuto in affitto per quindici anni,
prima che costruissi la mia, ed erano là quando Libero venne a trovarmi. Aveva ottenuto il
trasferimento ed era venuto a cercare casa.
Avevo seguito i suoi successi politici da lontano, come lontano avevo tenuto la politica
dalla mia famiglia, perciò non avevo parlato di lui a nessuno. Poi avevo saputo delle sue
disavventure politiche, delle persecuzioni subite, e m’ero rallegrato di non avere mai rivelato di
conoscerlo.
Ma Cesco lo seppe quel giorno perché era con me, proprio dove ora sta lei, e mi dovette
disprezzare, ma non rivelò il mio segreto per proteggere Celeste.
Durante gli anni di Università gli avevo voluto bene. Aveva tutte le qualità umane, tanto
che, gli dicevo scherzando, se tutti gli atei fossero stati come lui, avrebbero dovuto scegliere un
ateo come Papa.
Perciò non seppi negargli il mio aiuto. Gli detti quella casa ed avrei voluto adattarla ad
abitazione, ma lui non volle. Capì subito che era giusto nascondere la nostra amicizia.
Con Cesco legarono subito. L’intelligenza è il fiuto dell’uomo e chissà che il fiuto dei cani
non sia che manifestazione della loro intelligenza. Di ciò ero contento. Avendo sempre accanto
Cesco, mi sembrava di essergli io stesso vicino e di ricambiare così le tante manifestazioni di
affetto che lui aveva avute per me da studente.
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Invece, la mia, era mera e recidiva viltà. Me ne accorsi quando capii che le autorità
continuavano a tenerlo d’occhio. Pregai Cesco di non farsi più seguire da lui, di non andarlo più
a trovare, ma si rifiutò categoricamente. Non restava che convincere mia figlia a lasciarlo.
Celeste ne era innamorata, ma sapevo che non avrebbe avuto il coraggio di contraddirmi. E fu
così.
Il signor Aldisio aveva raccontato tutto ciò come se l’avesse detto a se stesso. Sesto,
infatti, osservandolo, si accorse che guardava nel vuoto. Ne ebbe quasi commiserazione. Era
evidente che si vergognava della sua viltà. Ma di vili ne conosceva tanti lui. La viltà cresce nella
terra politica come l’edera che s’inerpica sul muro, finché esso si erge, e striscia poi sui massi
abbattuti alla ricerca d’altro appiglio che s’alzi.
Che cosa poteva dirgli o s’aspettava che gli dicesse? Forse che lo comprendeva, che era
stato bene essere prudente? No, proprio lui che aveva un padre licenziato a cinquanta anni
dalla Banca per "Esubero di personale" , che per la liberaldemocrazia significava soltanto
essere sindacalista o "comunista", come definivano tutti gli oppositori politici, ben sapendo che
gli ultimi, Occhetto, Cossutta e Bertinotti, ironia della sorte!, erano stati costretti a rifuggiarsi
negli Stati Uniti D’America, con gran soddisfazione di coloro che essendo ancora ricercati dalla
Polizia per i noti fatti di Tangentopoli, si consideravano anch’essi rifugiati. No, non glielo
avrebbe mai detto. Si sarebbe sentito un traditore anche di sua madre che, dopo avere
insegnato per venticinque anni nei licei, era stata anch’essa licenziata dallo Stato perché si era
rifiutata di far domanda presso le scuole private, dove venivano retribuite, per la solita legge del
mercato, in proporzione al numero degli iscritti, tenuto sempre basso per il proliferare di quelle
scuole e per migliorare la qualità dell’insegnamento. Altro che legge di mercato! Era la legge del
più forte, la legge dell’inganno e dell’ipocrisia. Nelle scuole pubbliche veniva elevato il numero
degli alunni per ogni classe, mentre nelle private si faceva in modo di diminuirlo. Inoltre, per
ciascun alunno privato, lo Stato dava un " Buono d’istruzione" di pari importo, si diceva, al costo
medio complessivo dell’istruzione, ma gl’istituti privati richiedevano alle famiglie un’integrazione
di almeno quattro volte il valore del buono a titolo d’istruzione aggiuntiva, che era poi
l’insegnamento di materie che s’erano sempre insegnate nelle scuole italiane, ma che una
legge aveva rese facoltative, dichiarando obbligatorie, con una definizione equivoca, soltanto
quelle " Atte alla formazione specifica del corso di studi".
Sesto seguiva i suoi pensieri ed altrettanto il signor Aldisio. Rimasero perciò in silenzio
finché non furono scossi dalla signora.
- Siete stanchi?
- Oh, no, signora, stavamo soltanto pensando.
- Vada a riposare sopra. V’è una grande stanza per gli ospiti che non usiamo mai. E v’è
anche l’aria condizionata. C’è soltanto lì e nella camera di Celeste. A noi fa male.
- No, grazie. Andate voi. Io ritorno in albergo.
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- La prego, non se ne vada. - Intervenne il signor Aldisio. - Io non ho l’abitudine di
dormire di pomeriggio, ma se vuole può servirsi della camera degli ospiti. Parleremo dopo,
quando ridiscenderà.
- Allora restiamo qui.
- Lei mi aveva domandato se avevo letto quella biografia di Libero. Sì, l’ho letta e ne ho
anche l’originale. Lei avrà letto sicuramente la copia che egli teneva nascosta.
- E’ vero. Non ci avevo fatto caso.
- Gliela mandai con Cesco per fargli capire quali rischi correva, ma egli mi mandò a
ringraziare dicendo che, alla sua morte, era preferibile che rimanesse una pessima biografia,
anziché niente. Me l’ero fatta dare in segreto da un uomo politico potente. Di questi amici ne ho,
sa. - Poi aggiunse con orgoglio: - Ne ho ancora. -
Il signor Aldisio non poteva sapere quanto Sesto si dispiacesse di ciò, ma per quella
dovizia nascosta ne avrà avuto sentore, perché subito precisò :
- Cu è sulu nun è mancu cu Diu, ché Diu stessu è trinu. Sappia, Dottore, che v’è chi
orienta, chi guida e chi è condotto. Orientano i pensatori, guidano i potenti, sono condotti gli
sciocchi, gl’infelici, i bisognosi ed i paghi, ed insomma tutti coloro che campicchiano, che cioè
s’illudono di vivere una vita autonoma, pur sapendo d’essere solo strumenti di chi orienta o più
spesso di chi guida. Io campicchio, perciò ho bisogno di amicizie di potenti che mi lascino
campicchiare.
Ma perché mai tacciava quell’uomo di viltà, pensava Sesto, soltanto perché faceva in
modo che la sua famiglia, i suoi beni ed una certa sfera delle loro libertà non venissero
intaccati? Qual era il diritto di un uomo, quali i doveri e verso chi soprattutto? Quanto labile è
l’ordine dell’azione umana! Esso muta con gli eventi e con il tempo, che a loro volta sono
mutevoli persino nella stessa influenza dell’ordine, sicché uno stesso evento produce effetti
diversi in tempo diverso e sulla stessa società, o ad eguale evento in unico periodo corrisponde
diverso ordine d’azione in popoli differenti. Perché si arrogava il diritto di giudicare un uomo di...
Sesto a quel punto rifletté sull’età del signor Aldisio. Era stato collega di università del
Professore, quindi doveva avere pressappoco la stessa età. Anche il tempo si scolpisce
differentemente sui volti se il Destino usò mano grave ed attrezzi acuminati ed affilati, come col
Professore, o Fortuna volle levigarne i tratti, come al signor Aldisio.
- Vi serve qualcosa? Domandò la signora, mentre Celeste continuava ad aiutare la
cameriera a ripulire.
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- No, cara, puoi andare. - Quindi, rivolto all’ospite chiarì . - Va ad aprire la villa. Qui non si
riesce a dormire, c’è troppo caldo. Avevamo deciso di non andarci quest’anno, per Celeste che
non si rassegna, ma è meglio che cambi ambiente. Vai cara.
- Va a Palermo?- Domandò Sesto.
- A Mondello, che è una sua frazione.
- Potrei venire con lei per andare a prendere la mia automobile? Lei permette?
- Sì, certo che permetto, così non farà la strada da sola. Anzi, Anna, dai al Dottore il
libriccino che c’è nel cassetto segreto del leggio. E’ l’originale di quello che ha lei, a me non
serve.
- Va bene, glielo darò. Lei deve prendere qualcosa dall’albergo?
- No, signora. Ho un’altra stanza in un albergo di Palermo, dove vi sono le mie valige.
Non so ancora se trattenermi qui o a Palermo. Ma forse mi converrà stabilirmi a Palermo e
venire qui durante il giorno.
Celeste, appresa la notizia della sua partenza ne fu visibilmente contrariata.
Evidentemente, avendo sperato di trascorrere la serata con il padre e con lui, si era rifiutata di
accompagnare la madre. Perciò Sesto pensò di darle una motivazione per venire con loro.
- Perché non viene anche lei, così continueremo le lezioni di giornalismo.
- Oh, no grazie, m’è bastata quella di ieri. Un morto non è una grande lezione. Eppoi, se
resterà a Palermo potremo continuare.
La signora Anna aveva una Mercedes coupé che guidava con sicurezza. Su
quell’automobile aveva assunto un’aria sbarazzina e giovanile. In verità non dimostrava più di
trenta anni, ma doveva averne almeno trentotto, a giudicare dall’età della figlia.
- E’ bellissima! - Disse Sesto.
- Molte grazie. Non me lo sento dire da vent’anni.- Equivocò lei e Sesto non ebbe il
coraggio di chiarire che si riferiva all’automobile, anche perché anche la proprietaria lo era
davvero.
- Si sarà certamente domandato perché ho sposato un uomo molto più grande di me.
L’ho sposato per volontà dei miei genitori. Non che a me dispiacesse, era un bell’uomo,
benestante e buono, ma come tutte le ragazzine sognavo il grande amore, ma nei paesi,
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CAPITALANDIA Cap. 6—8 ^ pag.
spesso, il grande amore si rivela una grande delusione. Non c’è scelta. Lui rappresentava il
meglio che una ragazza potesse sognare. E lei come mai non ha una fidanzata?
Sesto, pur essendo partiti da poco, era già stufo di quel tipo di discorsi. Ci mancava pure
che volesse il racconto della sua vita.
- Col mio mestiere...- Lo disse e si maledì. Era più banale della stessa signora.
- Perché? I giornalisti non fanno una vita diversa dagli altri.
Lo salvò dal dire altre banalità un’automobile che uscì all’improvviso dal posteggio del
suo albergo e che costrinse la signora Anna ad una brusca frenata.
- Che imbecille! E’ nel suo albergo, lo conosce?
- Sì, un commerciante, ho pranzato ieri con lui.
Durante il viaggio Sesto dovette sopportare altre insipidezze, ma la signora Anna
mostrava un tal desiderio di parlare di sé, che non ebbe il coraggio di scoraggiarla.
Seppe così che Celeste non era sua figlia, ma la figlia della sorella che era morta
dandola alla luce. Poi, aveva sposato il cognato e chissà perché aveva detto da buona
cristiana.
Ogni tanto raggiungevano l’automobile del signor Malenghini e lui, senza motivo,
pregava la signora di non sorpassarla. Quindi, giunti a Palermo, le disse il nome del suo albergo
per farsi indicare un vicino posteggio di tassì che ve lo portasse.
- Lo avrei comunque accompagnato io, ma il suo Albergo è a qualche diecina di metri
dalla mia villa. Non sapeva che si trovava a Mondello?
- No. Vi sono giunto di sera seguendo una cartina topografica pubblicitaria, ma mi
sovviene di avervi proprio letto quella località. E dire che mi è nota per tutti i fatti di cronaca
nera.
E così dette la stura ad un’infinità di domande sul suo mestiere. Se gli capitavano molte
avventure, precisando: in generale, se era stato in zone di guerra, se..., se..., ma si era convinto
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che le sarebbero interessate risposte su usi e costumi sessuali dei vari popoli, anche durante le
guerre o le carestie.
Tale interrogatorio dette comunque la sensazione di brevità del viaggio.
- Ecco, - gli disse passando da un grande edificio, - questo è il suo Albergo, vi si entra
dall’altro lato, e questa è la mia villa.
Sesto si girò per vedere la parte dell’albergo antistante al mare, che non aveva avuto
modo di vedere prima, e gli parve di vedere la macchina del signor Malenghini girare verso il
lato dell’ingresso.
Sceso dalla macchina, salutò in fretta la signora Anna, tanto che temette di averla offesa,
ma aveva premura di andare a vedere se il signor Malenghini si fosse fermato.
L’automobile che per tutto il tragitto li aveva preceduti era ferma davanti all’ingresso
dell’albergo. Era già strano per sé che dimorasse contemporaneamente in due alberghi, ma non
avrebbe mai creduto che per mera coincidenza uno sconosciuto si comportasse allo stesso
modo e per gli stessi luoghi. Bisognava soltanto accertare che in quell’automobile avesse
viaggiato davvero il signor Malenghini.
Dalla stessa vetrata d’ingresso, stando attento a non farsi notare, Sesto vide il signor
Malenghini davanti alla ricezione. Questa volta vestiva un elegante abito marrone, che sarà
stato di fresco di lana, con camicia sportiva color crema con piccoli disegni ed un altro paio di
scarpe da guida, tanto nuove da lasciare le impronte sulla cera del pavimento senza traccia di
polvere, proprio davanti a lui, prima del tappeto. Si chinò e lesse chiaramente la marca “Achille”
che la tomaia nuova di gomma aveva lasciato ben visibile. Sesto, sorridendo per l’evidente
riferimento al piè veloce, fotografò le orme, mentre il pensiero a tante coincidenze lo turbò
nuovamente.
Che cosa doveva fare? Era bene non fargli comprendere di aver capito...che cosa? No,
era meglio affrontarlo.
Entrò ed istintivamente il signor Malenghini si girò a guardare.
- Oh, chi si vede! Anche lei si è trasferito qui?
- No, io c’ero già.- Gli rispose guardandolo bene in volto, senza poter notare alcuna
espressione diversa dalla normale sorpresa per il fortuito incontro.
- Se avessi potuto avere anch’io una stanza con aria condizionata non mi sarei trasferito.
Allora, ceniamo insieme questa sera?
- Ancora non so se resterò, ma ci vedremo, ne sono sicuro.
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CAPITALANDIA Cap. 6—10 ^ pag.
Sesto aveva pronunziato le ultime parole con particolare tono, come se avesse voluto
dire ti ho scoperto, ma in verità non aveva scoperto nulla. Il loro incontro poteva ben essere una
coincidenza. Cincischiò tra la sala ed il bar finché vide che il Malenghini era andato sopra.
Alla ricezione era addetta una bella ragazza alta, che per la divisa sembrava più una
hostess d’aereo. Sesto ne fu incoraggiato. Sapeva che nelle indagini aveva sempre avuto
maggiore possibilità di riuscita con le donne, inoltre sperava che in una grande città non vi fosse
quell’atmosfera di complicità e di omertà che aveva notato nell’altro albergo.
- Buona sera.
- Buona serata a lei Dottore.
- Ha dato una stanza vicina alla mia al signor Malenghini?
La ragazza sembrò sorpresa dalla domanda. Abbassò lo sguardo, prese tra le mani un
modello di segnalazione d’ospite per la questura e se la rigirò fra le mani. Infine decise di
rispondere in modo equivoco.
- No, signore.
- Non gli ha assegnato una stanza?
- Mi scusi Dottore. - Intervenne un altro impiegato, forse il Direttore, spuntato
all’improvviso dal retro.- Tu vai di là a telefono. Dica a me, Dottore.
In quel momento rispuntò proprio il Malenghini.
- Ah, eccolo qui. Volevo sapere la sua stanza per chiamarla poi a cena.
- La centotrentuno. Ne ho chiesta una vicino alla sua.
Troppo buono, pensò Sesto, ma ripeté soltanto un arrivederci ed uscì senza sapere
perché.
Giunto fuori si ricordò che era venuto per riprendere la sua automobile. La ritrovò in
garage nello stesso posto dove l’aveva lasciata. L’aprì e notò che il bottone della camicia di sua
madre, che prima di partire aveva ritrovato e riposto nel porta libretto per non riperderlo, stava
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sotto il pedale del freno; nulla era stato asportato. Si domandò che cosa cercassero, ma rifletté
che quello era il tipico modo di agire dei poliziotti; non riuscivano a fare a meno di rovistare,
anche senza alcun motivo, come le donne nei negozi di abbigliamento sempre alla ricerca della
grande occasione o del capo eccezionalmente conveniente.
Non sapeva che cosa fare, se ritornare in quel paese o se rimanere dov’era per cercare
di scoprire qual era l’attività del signor Malenghini. Ma non sapeva neppure perché dovesse
scoprire di che quegli si occupasse. La verità era che la difficoltà dell’indagine su Cesco e sul
Professore gliene stava facendo scemare l’interesse. Però gli faceva rabbia che coloro che ne
erano interessati stavano riuscendo a dissuaderlo da ogni ricerca.
Risalì a piedi dal garage e si ritrovò sulla stessa strada che arrivando aveva percorso
senza riconoscerla. Ogni tanto gli accadeva di perdere l’orientamento e di non ricordarsi per
qualche istante dove si trovasse, a causa dei numerosi spostamenti a cui era soggetto, e per
quegli attimi gli accadeva di preoccuparsi della sua salute e della sua vecchiaia. Una moglie,
una compagna, un impegno al ritorno a casa, un affetto e, chissà, magari un figlio avrebbero
potuto ridargli il desiderio di una vita diversa. Ma subito dopo, vi rideva sopra, a volte
visibilmente, come accade ai vecchi che parlano da soli, perché non avrebbe saputo vivere
sottostando alla rivoluzione di pensiero, politica e sociale che il nuovo governo stava attuando.
No, era intollerabile quel tentativo di annullare le conquiste sociali, la libertà di dissenso
ed i valori umani, sostituendo tutto con le regole del mercato. Ed era questa la lotta che stavano
facendo sia Cesco che il Professore. In redazione era giunta quell’informazione, ma quasi come
una delle tante scintille di ribellione che sorgevano spontanee, come fuochi fatui, cui
difficilmente seguiva un bagliore più persistente.
Dove si trovava? Già, a Mondello, aveva detto la signora Aldisio.
In quel momento stava attraversando la strada che fiancheggiava l’albergo. Sentì
improvvisamente lo stridio dei copertoni di un’automobile che aveva accelerato al massimo,
come accade alla partenza negli autodromi. Gli veniva addosso. Corse per raggiungere il
marciapiedi di fronte e vi giunse molto rapidamente, volando, sospinto dall’urto con l’automobile.
Evidentemente non era arrivato il suo momento. Era stato sbattuto sulla rete di
recinzione di un terreno edificabile.
Era bellissima quella luce che non era luce, piacevole quel silenzio, incantevole e
riposante l’assenza del rimuginare del pensiero. Peccato che stava cessando. Si dissolveva la
luce, s’intrufolavano i rumori e ritornava il presente.
Che faceva tutta quella gente su di lui? E quei volti larghi ed oblunghi, anzi normali ma
sconosciuti?
Si alzò e sentì un coro imperioso che gli diceva di stare immobile. E perché mai? Sentiva
invece il bisogno di muoversi. Ah, ecco perché non doveva muoversi! Aveva fitte di dolore in
tutto il corpo. Resistette in piedi e gli parve di stare meglio. Stava davvero meglio.
- Aspetti, sta arrivando l’autoambulanza.
- Non c’è bisogno.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—11 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—12 ^ pag.
Forse il bisogno ci sarebbe stato, ma ora che era tornato in sé stava rivedendo la
determinazione d’investirlo ben stampata sul volto dell’autista dell’automobile investitrice. No,
bisognava invece andar via presto e non dare l’indirizzo di dove avrebbero potuto definire ciò
che non erano riusciti a fare.
- Vi ringrazio tutti. Potete lasciarmi. Non mi sono fatto nulla, e poi abito proprio in questo
albergo.
La piccola folla si dissolse in parte ritornando alla vicina fermata dell’autobus ed in parte
ripartendo con le automobili.
Sesto ritornò verso l’albergo. Si reggeva appena sulle gambe, ma si sforzava di non
mostrarlo per timore che qualcuno volesse accompagnarlo. Vide che ben cinque autobus
stavano passando. Evidentemente erano stati fermi proprio a causa dell’incidente ed ora
stavano riprendendo i loro normale tragitto. Uscì, quindi, nuovamente dal recinto dell’albergo e
stava cercando l’ingresso del garage per riprendere la sua automobile ma, risentendo i dolori in
vari punti del corpo, capì che non sarebbe stato in grado di guidare.
Ma dove stava andando quando era stato investito? La signora Aldisio. Oh, sì, la villa
della signora Aldisio era là vicino. Questa volta non si sarebbe fatto investire. Pian piano giunse
al cancello della villa. Venne proprio lei ad aprire e dalla sua espressione capì che doveva
esser ridotto proprio male.
- Oh, Signore, che le è successo?
Sesto non ebbe la forza di risponderle. Istintivamente le pose il braccio sulle spalle per
essere sorretto. Dal cancello fino all’interno v’erano una diecina di metri e nel percorrerli si stava
rituffando in quella strana luce ed in quel silenzio. Reagì scuotendo la testa e facendo ancor più
preoccupare la signora, ma riuscì a dissolverli.
- Che cosa le è successo? Chiamo subito un medico.
- No, la prego, non chiami nessuno. Sto bene. Mi hanno investito mentre venivo qui a
piedi.
- Ma è necessario...
- No, signora, sto bene.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—12 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—13 ^ pag.
- Ma perché?
- Mi hanno investito volontariamente...
- Ma chi? Quanto sono sciocca. Lasci stare per ora, vediamo che cosa si è fatto. Aspetti,
accendo la luce.
- Perché ride?
- Ha il volto a quadretti.
- Mi ha sbattuto contro una rete. Se vi fosse stato un muro vi sarei rimasto schiacciato.
- Ma chi, perché lo vuole uccidere?
- Chi ha ucciso Cesco ed il Professore.
- Ma il Professore non è morto d’infarto?
- Credo di no.
- Oh Signore! Ma le sanguina il volto, ma anche sul petto... aspetti, vado a prendere il
Citrosil.
- Chiami la cameriera. - Disse Sesto che temeva di perdere coscienza se fosse rimasto
solo.
- Non è venuta, quella disgraziata, ed il telefono è fuori uso. In inverno qui si allaga e
salta il telefono e persino la luce. Ho telefonato a mio marito da fuori per non farlo stare in
pensiero. Il disinfettante è qui, in questo bagno.
La signora infatti ritornò subito.
- E’ necessario che si spogli per non infezionare le ferite. Venga, la porto sopra nella
stanza degli ospiti.
- No, mi lasci qui, non so se riesco a salire le scale.
- E’ vero. Allora andiamo nella mia stanza da letto, è qui dietro. Mio marito l’ha fatta
costruire pensando alla vecchiaia. Prima ci coricavamo anche noi sopra. Ecco, si appoggi a me.
Si appoggiò volentieri. La signora era alta come donna del sud, ma molto più bassa di lui,
perciò gli si attagliava perfettamente sotto l’ascella; la mano destra gli era finita sul suo petto.
Era caldissimo o lui era freddo. Aveva la guancia destra appoggiata alla sua testa e ne sentiva il
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—13 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—14 ^ pag.
profumo dello sciampo misto alla raffinata colonia. I capelli erano sottilissimi e soffici. Ogni tanto
sentiva che la sua mano sfiorava il capezzolo e lo sentiva erigersi.
Anna cercò di adagiarlo sul letto pian piano perché non si facesse male, ma giacché lui
la teneva finì col cadergli addosso.
- Mi dispiace. - Gli disse sentendolo dolersi e raddrizzandosi immediatamente come se
fosse caduta sul fuoco. - Mi faccia chiamare un medico; qui stesso c’è un mio parente, sa, la
mia è una famiglia di medici.
- No, la prego.
- Allora si spogli, sono comparse macchie di sangue anche alle gambe.
Sesto non si oppose e cominciò a sbottonarsi, ma il movimento gli procurava dolore e
dovette continuare lei, usando le dita come pinzette, quasi ad evitare di toccarlo. Gli sfilò la
camicia e quindi i pantaloni. Aveva quasi tutto il corpo segnato a reticolato per l’impatto con la
recinzione che lo aveva salvato.
- Meno male, pensavo di peggio. Sono piccole ferite. Basterà, spero, il disinfettante e poi
vi metto questo unguento per favorire la cicatrizzazione. Mio padre è medico e l’ho aiutato in
ambulatorio fino a quando mi sono sposata. Sarà necessario farle anche un’antitetanica.
- No, l’ho fatta da pochi mesi, prima di andare in Ruanda.
- E’ finito sopra la rete proprio di piatto, ha persino la pancia a quadretti.
- Sarà perché, non sopportando la matematica, i quaderni a quadretti li ho sempre avuti
sullo stomaco.
- Bene, bene. Mio padre diceva che chi ha spirito ha voglia di vivere.
- Certo che ne ho.
Era necessario abbassare la cinta delle mutande e lei lo fece con fare professionale,
quindi glieli sfilò del tutto, facendo attenzione a non fare strofinare la stoffa sulle ferite.
- Nelle zone di guerra, - continuò Sesto a dire, mentre veniva disinfettato anche nelle
parti intime, - ho scoperto che si risveglia anche l’umorismo e, per tenere alto il morale dei
soldati, come dicono i militari, è persino più efficace del canto a cui prima li costringevano.
Anna proseguiva la disinfezione con meticolosità quasi professionale, ma il caldo, o la
posizione scomoda, o l’autocontrollo eccessivo le avevano leggermente imperlato la fronte di
sudore, ch’egli vedeva per la luce che vi si rifletteva.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—14 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—15 ^ pag.
- Una notte, mentre stavo dentro un fossato assieme a tre soldati che avevano meno di
venti anni, raccontai una serie di barzellette e loro mi dissero che probabilmente la locuzione
"ridere a crepapelle" aveva avuto origine in una simile occasione. - Poi, guardandola e vedendo
quanto fosse affaticata, le disse: - Ora basta, mi sento già meglio.
- Aspetti, ricomincia a sanguinarle il viso.
Si sedette sul letto e ricominciò a tamponargli le ferite accanto alla labbra. Lei aveva
addosso un vestitino leggerissimo a grandi fiori, molto scollato sul petto e sotto le braccia, il
tipico indumento preferito in estate dalle donne che debbono lavorare a casa quando non
attendono ospiti.
Sesto si accorse che da sotto le braccia le si vedeva il petto e volse lo sguardo altrove,
quindi si tirò addosso il lenzuolo ed il movimento gli fece emettere un leggero gemito di dolore.
- Perdonami. - Gli disse dandogli istintivamente del tu e, chinandosi, lo baciò
leggermente sulle labbra, che trovò dischiuse ancora per il gemito.
Non poteva non cogliere quelle tenere labbra che pareva non avessero mai baciato un
uomo. Né lei ebbe più la forza di sollevarsi. Pareva che ambedue traessero l’un l’altro vigore nel
prolungare il bacio, come assetato sugge dalla fonte avara e più sugge e più lo vorrebbe, quasi
che ne tema del liquore l’improvvisa fine.
La vita non è che un’attesa costante dell’atto che la genera, il resto è soltanto metodo e
mezzo perché esso si verifichi.
Sesto non osava né rinunziare a tanta, tanta tenerezza, né osava andar oltre, mentre
Anna trovava il sollievo dalla repressione prolungata, che la natura attraverso gl’istinti fa
esplodere, con la liberazione dei freni inibitori.
Sicché parve che l’abitino fosse volato via da solo, quasi dissolto, quasi come simbolo
del costume. Così ogni movimento fu lieve e spontaneo, avendo cura di non offendere le ferite,
e perciò con maggiore lentezza, come interminabile rito d’amore, con lunghissime pause di baci
e lievi carezze acuenti la piacevole sofferenza dell’attesa del culmine, che ambedue
espertamente tardavano, finché alla spossatezza sopravvenne la volontà di percezione
massima della voluttà, che annienta qualunque altra sensazione esterna.
Tuttavia Sesto, cui le ferite continuavano a bruciare, conservando una percezione
normale pur nella bramosia dell’estasi, sentì Anna inconsciamente invocare il nome di Cesco, e
capì.
Capì la vera causa della rottura del fidanzamento con Celeste e quanto il perbenismo di
una donna sapesse cangiare per la spinta naturale degli istinti.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—15 ^ pag.
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Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—16 ^ pag.
Riacquistata quindi la piena razionalità, egli si propose di fingere di non aver sentito e,
soprattutto di non aver capito. Anna doveva sapere di Cesco molto più di quanto aveva
dimostrato e lui doveva servirsene. Ora, soltanto ora, miseria dei sensi, aveva pietà per Celeste.
Miseria dei sensi. Anna stessa era diversa; aveva abbandonato l’aria della signora che
per spogliarlo aveva usato le dita come pinzette e la stessa espressione di donna di provincia,
integerrima e fedele, per quella più sincera di donna affamata ed ora sazia di sesso. Miseria dei
sensi ed ipocrisia sociale. Spesso, da giornalista, se ne era domandata la motivazione e l’aveva
trovata in India, ove aveva capito che ciò che inerisce al corpo ci vincola alla terra ed alla parte
meno nobile della vita, sicché quanto più se ne è incuranti, tanto più ci si accosta alla spiritualità
che, quasi per compenso, dona poteri che ci appaiono paranormali o miracolosi.
Anna, dopo un sonnellino ristoratore di mezz’ora, lo aveva lasciato nella camera da letto
per preparare la cena. La sentiva canticchiare allegramente con la felicità di chi ha ottenuto, la
sicurezza di chi non teme e la spensieratezza di chi nella violazione di un principio trova
soltanto il proprio diritto alla gioia.
Quando la cena fu pronta, Sesto, nonostante le insistenze di lei per farlo rimanere a letto,
volle andare nella camera da pranzo.
- Mi cerchi quell’opuscolo? - Le disse in attesa delle pietanze.
- Quello del Professore? - Domandò lei rivelando in tal modo che lo conosceva bene,
giacché il marito non le aveva riferito di chi fosse nel dirle che si trovava nascosto nel cassettino
segreto del leggio.
- Sì quello.
Glielo portò e Sesto lo scorse tutto, leggendo qualche brano da una pagina all’altra,
senza trovare differenza tra quell’originale e la fotocopia che aveva letto. Tuttavia volle rileggere
per intero l’ultima pagina. Ecco, ne era certo, mancava la chiosa finale che ricordava a memoria
: < Ma se si andrà in fondo troveranno i veri motivi.>
Finalmente aveva trovato qualcosa d’interessante. Lo riteneva talmente interessante
che, nonostante il dolore ed il bruciore delle ferite, era tentato di andare a riprendersi
l’automobile per iniziare le ricerche a casa del Professore.
Ma se si andrà in fondo ... . Ma dove? Certamente sul pavimento, o forse no. L’avrebbe
deciso sul posto. Ma come avrebbe fatto se vi avesse trovato i sigilli? E perché mai i sigilli, dal
momento che era stato escluso l’omicidio?
Era impaziente di andare lì, ma non poteva; sapeva che un’amante offesa si trasforma in
nemica, ed inoltre non era ancora in grado di guidare.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—16 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—17 ^ pag.
- Che cosa c’è di tanto importante in quel libretto da esserne tanto assorto nella lettura?
- No, non leggevo. Mi sento spossato...per l’impatto...però domani...
- Assolutamente no. Domani non ti muoverai da qui. Telefonerò a...casa e dirò ciò che è
accaduto... - Quindi aggiunse sorridendo: - ...dell’incidente che hai subito. Del resto verrà
sicuramente la cameriera... che non dorme qui e parla soltanto un po’ di inglese. E bene che
Celeste si occupi di suo padre, per ora.
Sesto si sentì in gabbia, ma non poteva sottrarsi a quelle cure senza correre altri pericoli.
D’altra parte era meglio che i suoi attentatori perdessero per qualche giorno le sue tracce.
Durante quella notte s’illuse di fare in modo che Anna lo lasciasse libero il giorno dopo.
Invano. Pareva invece che le rinnovasse il desiderio e la volontà di trattenerlo ancora e chissà
per quanto tempo.
L’arrivo della cameriera fu però utile non soltanto perché Anna si premurasse di occultare
alcune tracce inequivocabili, ma soprattutto perché divenne più libera e propensa a parlare.
- Avrei bisogno di ritirare qualche vestito dall'albergo, ma non vorrei che scoprissero dove
mi trovo. Dovrei anche pagare il conto...
- Per il vestito e la biancheria provvedo io per telefono e per il conto sarà sufficiente far
pervenire una certa somma alla ricezione a tuo nome.
- E per l'automobile?
- Penso io a tutto. Dimmi soltanto la targa, la faccio prelevare e la mettiamo qui in
garage.
- Ma io ho bisogno di ritornare a casa del Professore.
- Ci andrai quando sarai perfettamente guarito; ricordati che la casa è mia.
- Ma...
- Non vi sono ma. D'altra parte vuoi andare a mostrare a tutti la tua faccia a quadretti?
Dovette arrendersi un po' mal volentieri ed un po' con piacere.
In effetti, dopo alcune ore, venne un commesso a portare tutto ciò che potesse
occorrergli per vestirsi e poi, nel pomeriggio, giunse un autista a portare la sua automobile, che
fu tosto posta nel garage. Ambedue quei giovani avevano mostrato un gran rispetto per Anna,
una deferenza particolare assolutamente diversa da quella che due semplici dipendenti
possano avere per una cliente di riguardo. Sesto non sapeva neppure da che cosa derivasse
questa sua sensazione, me era così. Troppi inchini di saluto o di commiato ed i loro sguardi
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—17 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—18 ^ pag.
bassi per evitare di guardare in trasparenza le forme provocanti del corpo di Anna, od il suo
petto appena coperto poco sopra i capezzoli da una sottilissima maglietta, erano innaturali,
soprattutto per i siciliani, i cui occhi solitamente parlano più delle loro bocche.
La linea telefonica fu ripristinata, ma Anna dispose che Celeste badasse alla pulizia
generale della casa del paese, sicché a suo tempo potesse lasciarla ben pulita prima che anche
lei, quando glielo avrebbe espressamente detto, si trasferisse a Mondello. A suo marito
comandò, ne aveva proprio il tono, di occuparsi di riprendere la chiave della Carretteria, ovvero
della ex abitazione del Professore. Di Sesto non parlò affatto, anzi gli sembrò che, rispondendo
ad una domanda di Celeste, le avesse imposto di non parlarne con nessuno.
Tutto ciò sembrava che lo avesse disposto a tutela della sua incolumità e per mantenere
segreto il suo rifugio, ma Sesto, scoprendo in quella donna un “decisionismo”, come si dice
oggi, che non le aveva attribuito affatto ed una personalità insospettabile, si domandava se ciò
potesse essere soltanto per effetto della passione.
Il giorno dopo scoprì che nel portabagagli della sua automobile v'era non soltanto tutto il
suo bagaglio dell'albergo di Mondello, ma persino la borsa che era rimasta nell'altro albergo.
Tuttavia non fece alcuna domanda a lei, prevedendo che la sua risposta sarebbe stata di averlo
reso, in tal modo, irrintracciabile.
E lo era davvero tanto che la sua redazione, alla sua prima telefonata, gli riferì che se
avesse tardato qualche ora avrebbero fatto la denunzia di scomparsa.
Era prigioniero, o era più libero di agire come avesse voluto o, quanto meno, aveva
ridotto il rischio di ulteriori attentati?
A queste ed ad altre domande sulla sua situazione, Sesto non sapeva o non voleva
ancora rispondere, ma attribuiva tale sua insipienza al suo stato di malessere perdurante a
seguito dell'incidente.
Il giorno dopo scoprì che era cambiata la cameriera. Quella nuova era anch'essa di
colore, nera al punto che di giorno pareva che fosse rimasto un lembo della notte e, di sera, che
nelle tenebre vi fosse uno squarcio più tetro. Non parlava mai e comprendeva soltanto l'inglese.
Pesava certamente oltre cento chili, ma aveva le mani piccole che muoveva abilmente nelle
faccende domestiche. Alle diciotto scompariva, si rifugiava giù, nell'ultima stanza della villa,
all'interno del garage. Poi, alle sette ricompariva in cucina, da dove si muoveva soltanto su
ordine di Anna per accudire alle rimanenti faccende di casa. Dalle nove alle dieci, badava ai
fornitori e provvedeva persino a pagarli.
Tutto ciò rientrava nella normale conduzione domestica di una famiglia benestante, ma
Sesto si domandava come Anna avesse potuto agire e disporre senza muoversi neppure per un
minuto dalla villa.
Trascorse molte notti in quell'alternarsi di piaceri e di dubbi, finché lei non gli dette la
possibilità di aprire il dialogo a ciò che lo interessava.
- Fra qualche giorno dovrò andar via.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—18 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—19 ^ pag.
- Ancora non stai bene.
- Ma io faccio il giornalista, non posso mica tralasciare i mio lavoro e comportarmi come
se fossi in vacanza.
- Ancora non puoi muoverti liberamente. Eppoi, che cosa ti serve sapere? Dimmelo e te
lo farò sapere.
- Parli come se avessi un gran potere.
- E ce l'ho. Mi credi ancora la sottomessa moglie di un vecchio? Te l'ho già detto, mio
padre è un medico famoso.
- Come si chiama?
Dottor Abbatino Santi. - E tuo marito?
- Aldisio. Lo sapevi già, Aldisio Calogero, o Don Calò, come lo chiamano in paese.
Finalmente nella memoria di Sesto si aprì uno squarcio. Era sempre più convinto che
spesso la memoria umana si comporta come un computer a cui devi indicare con precisione il
nome del " file " per cercare nel suo archivio. Aveva notato, infatti, altre volte che il solo nome
Alighieri non gli richiamava immediatamente l'autore della Divina Commedia, come invece il
solo prenome Dante od anche Dante Alighieri; allo stesso modo gli accadeva per Pascoli
Giovanni che gli sembrava del tutto diverso dal Giovanni Pascoli. Così non si sarebbe ricordato
di chi fossero Abbatino ed Aldisio se Anna non li avesse nominati premettendo erroneamente il
cognome, come usavano molti siciliani e come venivano nominati nelle pratiche giudiziarie.
E dire che in redazione lo avevano preavvertito: Bada che in Sicilia è più facile essere
coinvolti dalla mafia che indagare su di essa. E lui s'era fatta una risata. Quanto, invece,
avrebbero avuto ragione di ridere i suoi colleghi se avessero saputo che in pochi giorni era
diventato l'amante della figlia del medico della mafia, nonché moglie di un sospetto capomafia.
Avrebbe potuto dire che tale rapporto lo aveva voluto proprio per essere bene introdotto
nell'ambiente, ma era più probabile che fosse esattamente il contrario, e cioè che si volesse
controllarlo da vicino. Ma a se stesso poteva soltanto dire di essere un imbecille, che aveva
scambiato la furbizia di Don Calò per intelligenza e sensibilità superiori alla norma.
Intanto era indispensabile dare ad intendere ad Anna che lui sconosceva chi fossero sia
il padre che il marito.
- So che alcuni medici, per la loro bravura professionale, sono talmente stimati dalla loro
vasta clientela da potere ottenere favori di ogni tipo.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—19 ^ pag.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—20 ^ pag.
- E' proprio così. - Ammise Anna che, senza quella nota, gli avrebbe forse confidato in
che consistesse il potere di suo padre; ma ora, invece, si lasciò andare in racconti ed esempi di
ciò che le era stato possibile ottenere grazie al fatto di essere la figlia del "Dottor Abbatino
Santi" . E pronunziava il nome di suo padre con lo stesso rispetto ed uguale soggezione, di
come certamente facevano tutti coloro che gli erano sottoposti.
Non s'erano mai trovate prove che fosse davvero Il medico della mafia, come veniva
definito nei rapporti giudiziari. Del resto, di tutti gli affari, dei rapporti e dei delitti di mafia non si
trovavano altre prove che quelle indiziarie, tanto che tali processi erano stati assunti quasi come
norma comune per ogni tipo di delitto, e soprattutto per quelli che riguardavano la corruzione
politica, con grave pregiudizio per la stessa Giustizia.
Di Don Calò Aldisio si sapeva ancora meno. Che fosse 'ntisu, come si diceva in Sicilia,
era certo, soprattutto nel ventennio passato, ma pur essendo stato processato almeno per una
trentina di reati, era stato sempre assolto con formula piena e solo qualche volta in modo
dubitativo, soprattutto per associazione a delinquere. Ciò era ovviamente una contraddizione,
ma significava soltanto che lo Stato era stato o incapace o connivente, o forse ambedue.
La posizione di Sesto si era fatta davvero complessa. Da un canto aveva la necessità di
rendersi irreperibile a coloro che avevano attentato alla sua vita, d'altro canto era impellente che
mandasse avanti la sua inchiesta sui delitti di Cesco e del Professore. Inoltre, da una parte non
sapeva come evitare che il suo operato di giornalista fosse controllato dalla mafia, d'altra parte
non sapeva come sfruttare il suo rapporto con Anna ai fini dell'indagine.
Anna gli lasciava sempre meno tempo per riflettere. Si sentiva uno stallone. Di giorno
veniva curato e rimpinzato di cibi nutrienti e leggeri, mentre di notte veniva spossato tanto, che il
giorno appresso sentiva la necessità di rilassarsi e l'incapacità di pensare.
Romanzo di
Francesco Capuzzello
CAPITALANDIA Cap. 6—20 ^ pag.
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