Lowell Edmunds
Ed è subito Martini
Prefazione di Umberto Eco
Traduzione di Guido Lagomarsino
Archinto
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Prolegomeni al Martini
Lowell Edmunds dice in questo libro tali e tante cose sul Martini che proprio
non vedo cosa vi possa aggiungere una prefazione. Ma, siccome mi è stata sollecitata, non ho potuto sottrarmi a questo compito in nome del nepente che
affratella prefatore, autore, e spero molti altri devoti lettori.
Per mettere subito in tavola le mie credenziali dirò che, come tutti, io ho
un sogno. Per alcuni è diventare presidente del consiglio, magnate del petrolio, padrone di una barca lunga cento metri, accompagnatore ufficiale delle
più desiderate tra le top model, forse cardinale. Per me è avere in ogni città
del mondo un bar dove posso entrare e dire, in prima istanza, «il solito», e
possibilmente un altro dove non debba dire nulla, e mi venga automaticamente servito un Gin Martini on the rocks, ovviamente in proporzioni 16:1.
Non voglio discutere con nessuno le mie preferenze, perché io voglia il
ghiaccio nel bicchiere, e un bicchiere cilindrico ampio e basso. Questo libro
spiega a sufficienza come non ci sia un Martini assoluto (consultare comunque www.raffleshotel.com/res&bars per le varie ricette). Inoltre il ghiaccio
nel bicchiere certamente diluisce, ma proprio per questo permette di avere,
nel corso della seduta, non uno ma almeno tre Martini – il minimo di cui un
gentiluomo ha bisogno per superare lo spazio drammatico tra una giornata
densa di attività e una serata che si annuncia altrettanto faticosa. In ogni caso chiarirò meglio le ragioni delle mie scelte alla fine di questa introduzione.
E, a testimonianza della mia larghezza di vedute, affermo solennemente che
sono disposto a rinunciare all’on the rocks se il Martini è quello dello Harry’s
Bar di Venezia, gelato al punto giusto in bicchierini da vodka.
Il problema è piuttosto che il sogno si sta realizzando con lentezza, perché,
tranne i grandi hotel internazionali, dove sono abituati a una clientela ame5
ricana, bisogna sovente educare il barman, spiegandogli per filo e per segno
come deve procedere. E, dopo che hai speso settimane a costruirti il tuo barman, specie in una città dove non vai tutti i giorni, rischi al ritorno di trovare un barman diverso. Ho certamente a Bologna tre bar in cui non debbo dire nulla, e due a Milano, ma nessuno a Parigi, per la semplice ragione che in
Francia non sanno fare un Martini, neppure se tenti di spiegare il procedimento direttamente al banco. So di andare sul sicuro al Peninsula di Hong
Kong e all’Otani di Tokyo, e sarei pronto a scommettere sul Raffles di Singapore, ma in un pub londinese possono sorgere difficoltà. Né si creda che gli
Stati Uniti siano l’ideale, perché è vero che sanno sempre che cosa stai ordinando, anche nel più smandrappato ristorante cinese, ma tendono a eccedere
col ghiaccio e rischi di bere acqua fresca, tanto è vero che te ne portano subito un altro non appena vedono da lontano che nel tuo bicchiere restano solo
due misure di idrogeno e una di ossigeno. Così occorre rifugiarsi nello Harry’s
Bar midtown, che non ti tradisce.
Insomma, ho capito che riuscirei più facilmente a diventare presidente di
una grande corporation (e ottenere un barman personale nella penthouse del
mio grattacielo) che procedere a questo lento indottrinamento dei miscelatori del mondo intero – ma i sogni sono i sogni e persevero. Sono persino riuscito ad avere un Martini decente, dopo un corso accelerato, sulle rive del
Niger, non lontano da Timbuctu.
Detto questo è ovvio che il Martini migliore è quello che ti fai da te, a casa. Ma sorgono difficoltà se c’è vicino a te qualcuno che ritiene di essere il solo a fare un vero Martini. Marina Mizzau aveva pubblicato anni fa nel suo libro Come i delfini, un breve racconto intitolato «Come si fa un Martini», ricostruendo le fasi di una discussione praticamente tesa all’annullamento reciproco dei contendenti, un gioco d’interazione in cui ne va della propria faccia, e che si risolve sempre in una catastrofe psicologica. Il problema è che, se
devi scegliere un whisky o un cognac, basta che tu conosca le marche, e l’annata (ed è materia squisitamente teoretica) e poi non hai che abbandonarti alla degustazione. Il Martini invece è materia eminentemente artistico-mani6
polativa, e alla fine sei tu che verrai giudicato (anche da te stesso), non la marca del gin – tanto che, oserei dire, il momento magico del Martini è quello in
cui lo si fa, non quello in cui lo si consuma.
Ho citato il racconto di Marina Mizzau per ribadire quello che Edmunds
mette sufficientemente in chiaro, che dietro alla confezione di un Martini c’è
sempre una mistica. Ma l’ho fatto anche per arricchire la cavalcata di Edmunds attraverso il Martini nella letteratura con un contributo italiano.
Anzi, non per vanità, ma per dovere, non posso trattenermi dal citare me stesso, vale a dire un paragrafo dal capitolo 36 del mio Il pendolo di Foucault:
Il baretto è breve, furtivo. Ti permette un’attesa lunga dolce per tutto il giorno,
sino a che non vai a celarti nella penombra sulle poltrone di cuoio, alle sei del
pomeriggio non c’è nessuno, la sordida clientela verrà alla sera, con il pianista.
Scegliere un american bar equivoco vuoto al tardo pomeriggio, il cameriere viene solo se lo chiami tre volte, e ha già pronto l’altro martini.
Il martini è essenziale. Non il whisky, il martini. Il liquido è bianco, alzi il bicchiere e la vedi dietro all’oliva. Differenza tra guardare l’amata dietro il martini
cocktail dove il calice triangolare è troppo piccolo e guardarla attraverso il gin
martini on the rocks, bicchiere largo, il suo volto si scompone nel cubismo trasparente del ghiaccio, l’effetto si duplica se avvicinate i due bicchieri ciascuno
con la fronte contro il freddo dei bicchieri e tra fronte e fronte i due bicchieri,
col calice non puoi.
Il problema è come avere l’amata a disposizione (e quella del momento, perché il Martini è per amori brevissimi e tempestosi) proprio quando sbarcherai
al Raffles di Singapore. Ma questo è un altro discorso.
Umberto Eco
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A Sue
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Introduzione
Bernard DeVoto lo ha definito «il massimo contributo americano alla cultura universale» e H.L. Mencken ha detto che era «l’unica invenzione americana perfetta come un sonetto».1 Nel 1943, al vertice di Teheran,
Roosevelt ne offrì uno a Stalin e gli chiese se gli piaceva. «Sì, non è male»,
gli rispose il capo sovietico, «ma fa freddo allo stomaco.»2 Al successore di
Stalin ne fu offerto uno molto più forte di quello blando preparato da
Roosevelt. Krusciov lo definì «l’arma più micidiale degli Stati Uniti».3
Il Martini è il numero uno dei cocktail americani. È un elemento imprescindibile nel quotidiano e nell’immaginario degli americani, oltre che dell’immagine degli Stati Uniti nel resto del mondo. Eppure il suo consumo,
come avviene per tanti altri prodotti, ha un andamento ciclico. Quando fu
pubblicata la prima edizione di questo libro (1981) sembrava avviato al tramonto. Poi, nel corso delle ricerche per questa seconda edizione aggiornata, non c’era posto dove non lo trovassi citato: nelle pubblicità dei film, sulle confezioni più eleganti dei CD, nelle riviste. Quando facevo le mie passeggiate per Soho nelle sere d’estate, si potevano vedere Martini sui tavoli
di ogni bar. Come facevo a sapere che erano proprio Martini? Era il bicchiere a dirmelo.
Questo «revival del Martini», già tante volte segnalato, fa sorgere tre interrogativi. Da dove ritorna? In che forma si ripresenta? Da dove proveniva all’inizio?
Rispondiamo prima all’ultima domanda: è stato inventato negli Stati
Uniti tra il 1870 e il 1880 e si è affermato nel periodo della corsa all’oro.
Immaginiamoci una bevanda fatta di due ingredienti principali, il gin e il
vermut, servita fredda e con una guarnizione (un’oliva, per esempio) in un
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calice. Fino alla metà del Novecento, e anche più avanti, il Martini era questo. E lo è ancora, almeno per qualcuno. Nel pieno del suo fulgore, probabilmente intorno agli anni Venti, si cominciò a servirlo, più o meno esclusivamente, in un calice particolare, la cui coppa aveva i bordi dritti. Da allora quel bicchiere e il nome «Martini» non si sono più separati.
Come molte istituzioni americane, il Martini è sopravvissuto a stento alle tempeste degli anni Sessanta. Il decennio successivo ha introdotto una
tendenza salutista anche nella scelta delle bevande: ai cocktail si preferivano birre leggere, vini bianchi e acqua minerale. Il Martini era servito on the
rocks e la vodka si sostituiva al gin come ingrediente principale. Il passaggio alla vodka era già cominciato nei primi anni Cinquanta.4 Il bicchiere
non era più quello classico a stelo ma uno del tipo Old Fashioned. Questo
cambiamento di contenitore ha lasciato una traccia anche nella lingua. Per
ordinare un cocktail alla vecchia maniera, cioè ghiacciato nel calice con gin
o vodka, si usava la forma «Martini straight-up» o semplicemente «straightup» [dal significato di «giusto» si passa a quello di «liscio», «senza ghiaccio», N.d.T.], poi abbreviata in «Martini up».
Così erano cambiati tanto il drink quanto il contenitore: solo l’immagine restava intatta. Agli occhi del mondo il Martini continuava a essere il
primo cocktail americano, con lo stesso significato che aveva un tempo negli Stati Uniti. Gran parte di questo libro parla di tale significato, di quello
che il Martini ha rappresentato e rappresenta. Ma la metamorfosi del drink
e della sua immagine è ciò che ne ha reso possibile la ricomparsa.
Il ritorno del Martini, negli anni Novanta, è un ritorno d’immagine. Solo
pochi ostinati continuano a bere il vecchio Martini gin «straight-up», quello che Robert Donohoe chiama American Standard Dry Martini, secondo
la formula prescritta in un opuscolo del 1966 dell’American Standards
Association (vedi, più avanti, il capitolo intitolato «Antecedenti storici delle ambiguità»). Nell’inverno del 1990-91 Donohoe aveva fondato l’American Standard Dry Martini Club, che per sette anni ha pubblicato un bollettino intitolato «The Martini Hotline». Sul primissimo numero il testo
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sfiorava toni elegiaci: «Oggi non è facile trovare un intrepido bevitore di
ASDM: chi lo è prova un certo senso di solitudine. Io spero che noi pochi superstiti continueremo a gustarlo, almeno tra le quattro pareti domestiche,
ma man mano che noi non ci saremo più, chi prenderà il nostro posto?».
A quanto pare, però, una legge di natura che non ha ancora trovato una
sua formulazione ufficiale dice che quanto più una cosa perde forza, tanto
più guadagna in immagine. Il ritorno del Martini ha visto la sua immagine
riproporsi in più direzioni. Inutile dire che è diventata oggetto di riflessioni e di discussioni, come in questo libro, in altri scritti: nella storia culturale del cocktail di William Grimes (1993) c’è un intero capitolo dedicato al
Martini; c’è il libro di Barnaby Conrad The Martini (1995), il saggio di Max
Rudin, There Is Something about a Martini, su «American Heritage»
(1997).5 Per noi tutti non è solamente una bevanda, ma un fenomeno intrigante della storia e della cultura di questo paese.
Al revival del Martini negli anni Novanta ha contribuito non poco il suo
bicchiere. Quello tradizionale con la coppa a forma di «V» si ritrova dappertutto. Ne esiste perfino una versione in plastica. Sui tovagliolini da
cocktail messi in commercio dalla Pier I Imports c’è l’immagine del bicchiere con la parola «Martini» stampata su due lati. Si possono acquistare
la calamita da attaccare al frigorifero con la sua forma e anche l’insegna al
neon per il bar di casa.6 Esiste addirittura un carattere tipografico ispirato
al bicchiere da Martini.7 Nell’autunno del 1997 Lalique, sensibile alla nuova popolarità raggiunta, ha creato un suo bicchiere da Martini.8 La forza
della sua tradizione si estende anche all’imballaggio: la confezione è con
due calici, cosa che rimanda a quanto tratterò più avanti, parlando del
Martini relazionale e di quello coniugale.
Che cosa si verserà in questo bel calice? Non un Martini gin o un Martini
vodka straight-up: i bar di ogni angolo del paese presentano un assortimento di cosiddetti Martini, strani intrugli che non assomigliano nemmeno alla lontana al drink tradizionale. A Corpus Christi, una cittadina del
Texas, c’è un locale chiamato Dragon Lounge che ha un lungo elenco di
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«specialty Martinis», fra i quali un April’s Martini (liquore al cioccolato,
Frangelico e arancia spremuta), il Cosmopolitan (vodka Absolut,
Cointreau, succo d’arancia e uno spruzzo di succo di mirtilli), e il Blue Skyy
(vodka Skyy, curaçao blu e arancia spremuta). Ma perché limitarsi ai soli liquidi? Il calice tradizionale serve oramai anche per servire alimenti solidi.
Florence Fabricant, che cura una rubrica di ricette per il «New York
Times», suggerisce un «“Martini” in tartara di salmone» o un «“Martini”
Ecuadorean Ceviche» e nota: «Nei ristoranti il calice del Martini si utilizza
un po’ per ogni portata, come il piatto fondo».9
Il Martini (e parliamo sempre del bicchiere e del nome) è diventato
un’immagine iconica dei riti sociali dei giovani single. Si tratta di un vero e
proprio movimento, che qualcuno ha ironicamente battezzato la Cocktail
Nation, sulla falsariga della Woodstock Nation: questi giovani indossano
smoking e abiti inguainati, frequentano locali arredati come una hall d’albergo o un dancing degli anni Cinquanta, ballano al ritmo di uno swing o
stanno seduti ad ascoltare qualche vecchio disco di Dean Martin o di Tony
Bennett. La musica riproposta dalle orchestre che vogliono assecondare
questa tendenza è stata battezzata space age bachelor’s pad music10 o, più
semplicemente lounge. Il portavoce del movimento è Michael «the Millionaire» Cudahy, chitarrista dell’orchestra Combustible Edison, che è anche l’autore di due manifesti della Cocktail Nation. Il primo si apre con un
«Appello a tutti gli swinger» e si chiude con l’esortazione «SIATE FAVOLOSI». E il Martini? In un articolo della rivista «Allure» sulla cultura lounge,
Judy Bachrach ha intimato alle ragazze: «I MARTINI SONO UN MUST».11
Il Martini è presente da protagonista in un film che è una fondamentale
fonte d’ispirazione per il movimento, Swingers, diretto da Doug Liman,
che ritrae un gruppo di aspiranti attori e attrici a Los Angeles. La sceneggiatura è in effetti di uno di loro, Jon Favreau, che interpreta la parte di
Mike, un giovanotto che tenta di rimettersi in sesto dopo la rottura di una
lunga relazione. I suoi amici, e soprattutto Trent (Vince Vaughn), lo portano in locali trendy dove sperano che riesca a rimorchiare una nuova fiam14
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