Antonio Brancati
Giorgio Benelli
SIGNOR CONTE...
CARO MAMIANI
Volle il mio buon genio
che io sedessi a lato
del Conte di Cavour
il lavoro editoriale
COLLANA ALETHEIA
Testi Saggi Ricerche
Anna Cerboni Baiardi, a cura
Antaldo Antaldi, Notizie di alcuni architetti,
pittori, scultori di Urbino, Pesaro e de’ luoghi
circonvicini 1996
Loretta Vandi
Il manoscritto Oliveriano 1
Storia di un codice boemo del XV secolo
2004
Gian Galeazzo Scorza
Costanzo Sforza, Signore di Pesaro
(1473-1483), 2005
Antonio Brancati, Giorgio Benelli
Divina Italia
Terenzio Mamiani della Rovere cattolico liberale
e il risorgimento federalista, 2004
Antonio Brancati, a cura
La Cofranternita e la Chiesa dell’Annunziata
di Pesaro
Il fenomeno confraternale in Italia
2005
Quaderni
G. Cerboni Baiardi, A. Oldcorn, T. Mattioli,
a cura
Lettura Pascoliana Urbinate
1998
G. Arbizzoni, G. Cerboni Baiardi, T. Mattioli,
A.T. Ossani, a cura
Il merito e la cortesia
Torquato Tasso e la corte dei Della Rovere
1999
G. Tocci, a cura
Ripensare il 1948
Politica, economia, società, cultura
2000
G. Cerboni Baiardi, A. Oldcorn, T. Mattioli,
a cura
Seconda Lettura Pascoliana Urbinate
2003
Signor Conte... Caro Mamiani
Nicolò Barabino (1832-1891), Ritratto di Terenzio Mamiani Della Rovere (Torino, Collezione privata)
Antonio Brancati Giorgio Benelli
Signor Conte... Caro Mamiani
Volle il mio buon genio che io sedessi
a lato del Conte di Cavour
il lavoro editoriale
ALETHEIA
Testi saggi ricerche
Collana di studi a cura di
Antonio Brancati
Copyright 2006
by Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro
ISBN 88 7663 369 3
il lavoro editoriale
casella postale 297 Ancona Italia
www.illavoroeditoriale.com
PRESENTAZIONE
A due anni dalla pubblicazione del loro fortunato saggio Divina Italia.
Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista (2004), i due Autori Antonio Brancati e Giorgio Benelli hanno dato
vita – attraverso una complessa ricerca d’archivio e ad una rigorosa lettura interpretativa nei riguardi di una considerevole quantità di documenti
inediti, conservati in gran parte nel pesarese fondo oliveriano – ad una
seconda opera sul Mamiani, tesa a far luce su alcuni particolari aspetti dell’attività svolta dal patriota pesarese nei suoi anni di residenza piemontese
e nei riguardi dei suoi stretti rapporti sul piano non solo della politica, ma
anche dell’amicizia e della reciproca stima con il conte di Cavour: rapporti ancora in gran parte ignoti alla storiografia risorgimentale.
Continua così il non agevole impegno assunto dai due Autori di permettere alla città l’auspicata “riappropriazione” della personalità di un
suo cittadino, che riuscì ad assumere nel corso del secolo XIX e dei suoi
grandi eventi nazionali un ruolo e una posizione di sicura eccellenza nel
panorama politico e culturale del nostro paese.
In considerazione di ciò la Fondazione della Cassa di Risparmio di
Pesaro, sostenitrice convinta fin dall’inizio del progetto, è perciò lieta di
pubblicare oggi il presente volume, che non solo ci fornisce nuove fonti
per una conoscenza biografica e politica più ricca e approfondita nei
riguardi di Terenzio Mamiani, ma apre anche nuovi percorsi di ricerca
nell’ambito di una più vasta comprensione di quello che ormai viene
comunemente definito “il decennio cavouriano”.
Rinnoviamo la nostra gratitudine ad Antonio Brancati e Giorgio Benelli
che ci danno ancora una volta la prova della loro profonda competenza
e fruttuosa dedizione alla storia patria.
Un grazie particolare non può a questo punto non andare anche all’Ente
Olivieri e alla Biblioteca Oliveriana, custodi del prezioso fondo mamianiano, nonché alla editrice Il Lavoro Editoriale di Ancona, che ancora
una volta ha curato con competenza e con scrupolo professionale la realizzazione a stampa dell’opera.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro
5
“I tipi più perfetti del nobile italiano sono due. L’uno nato al dominio e all’impero, scabro nei modi, potentissimo d’intelletto e di studii politici, Camillo Cavour.
L’altro, designato a provare l’adamantina virtù dell’animo suo nelle carceri e negli
esigli come nei palazzi ministeriali e nella Reggia papale; modello inarrivabile della
dignità, del coraggio, del senno, della integrità che resero venerando all’Europa il
nome italiano: il conte Terenzio Mamiani”.
“Gazzetta di Venezia” a. CLIII, 1865, n. 264
PREFAZIONE
Quando nel 1999, in occasione del bicentenario della nascita di Terenzio
Mamiani (1799-1885), l’Ente Olivieri-Biblioteca Oliveriana, depositario del
ricco fondo comunale Mamiani, assunse il compito di avviare sulla vita e
sull’attività politica del patriota pesarese uno studio storico-critico destinato a restituirgli una fisionomia purificata dai toni spesso eccessivamente
enfatici e soprattutto dagli innumerevoli errori e imprecisioni che la storiografia ottocentesca aveva nei suoi riguardi divulgato e a far recuperare così
alla città nella sua giusta dimensione un personaggio ormai pressoché
dimenticato, nessuno pensava di trovarsi di fronte ad una mole tanto ricca
e coinvolgente di documenti pubblici e privati della più diversa natura e
importanza. La lettura infatti delle innumerevoli carte mamianiane, ordinate e catalogate con scrupolosa attenzione, ha insospettatamente rivelato nel
dimenticato conte una personalità presente sempre e in maniera sempre
importante, quando non addirittura decisiva, nel corso di tutte le principali tappe del Risorgimento nazionale, a partire già dai primi concreti albori
ottocenteschi vissuti da lui ancora giovane nella vicinanza ideale e fisica al
generale napoletano Guglielmo Pepe e alla sua sfortunata lotta per l’indipendenza italiana dalla restaurata dominazione austriaca scaturita del 1815.
La lunga esistenza da lui interamente dedicata alla “patria comune” – com’era solito dire nella vecchiaia – ha di fatto costretto chi scrive a ripercorrere man mano sulle sue tracce tutta la storia del Risorgimento italiano e a
filtrarne il lento crescere e il progressivo suo prendere forma attraverso l’ottica della particolare attività politica e culturale svolta dal conte pesarese.
Primo risultato di un lungo periodo di accurate ricerche di archivio è stato
il volume intitolato Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico
liberale e il risorgimento federalista, realizzato nel 2004 da “Il lavoro editoriale” di Ancona con il generoso finanziamento della Fondazione della
Cassa di Risparmio di Pesaro. Un’opera, che ha permesso non solo di dare
vita ad una aggiornata ricostruzione biografico-critica del Mamiani, ma
anche di comprendere le ragioni della generalizzata fama da lui goduta in
Italia durante tutto il corso dell’Ottocento, prima che – già sul finire del
secolo e non diversamente da quanto accaduto alla gran parte dei protago7
nisti dell’ormai remoto Risorgimento – se ne dimenticasse perfino la passata attività, che pur lo aveva imposto ai contemporanei come il cittadino più
illustre e più importante dello Stato Pontificio nell’ambito dell’intera epopea risorgimentale o – secondo quanto gli scriveva l’allora facente funzioni
di sindaco di Roma, Pietro Venturi in occasione della decisione presa dal
Comune cittadino di conferire a lui insieme ad Alessandro Manzoni e al fiorentino Gino Capponi la cittadinanza romana (28 giugno 1872) – come a
“uno di quegli splendidi nomi di cui va degnamente superba l’Italia nostra”.
Proprio in tale ottica si è proceduto non solo a ricostruire con la maggiore
cura possibile la personalità del patriota protagonista della “rivoluzione
romagnola” del 1831 e la sua partecipazione ai due governi di Pio IX nella
Roma costituzionale del 1848, ma anche e soprattutto a mettere in risalto il
fondamentale contributo alla creazione e alla formazione della coscienza
nazionale – di tipo moderato liberal-democratico – e alla ricostruzione della
cultura italiana come scrittore, come ministro della Pubblica Istruzione e
come Vice-presidente del Consiglio Superiore. In Divina Italia, tuttavia, per
la sua stessa originaria impostazione, ci si è dovuti limitare a solamente
accennare sia il rilevante ruolo svolto dal Mamiani in un periodo di tempo
fondamentale per le sorti del Risorgimento italiano quale fu quello vissuto
dal Piemonte fra la prima guerra di indipendenza e la proclamazione dell’unità nazionale (1849-1861), sia e soprattutto l’importanza della sua stretta collaborazione con il conte di Cavour durante i decisivi anni compresi fra
il 1856 e il 1861. Infatti proprio la ricca documentazione, reperita in parte
fin dalla stesura iniziale di Divina Italia, aveva reso preferibile il rinvio di
una organica elaborazione dei temi a tempi più maturi nell’ambito di uno
specifico studio, che oggi finalmente viene dato alle stampe. Uno studio, i
cui risultati ruotano intorno a due specifici “centri d’interesse”.
Il primo, abbandonando il taglio monografico tradizionalmente riservato
alle singole personalità di rilievo, risulta indirizzato piuttosto verso la ricostruzione di un Risorgimento di tipo corale – come preferiamo definirlo –
sembrandoci esso più adatto ad evidenziare l’apporto specifico del
Mamiani al Risorgimento italiano. Al tempo stesso però esso permette
anche sia di mettere meglio in rilievo la presenza di una partecipazione
popolare al processo unitario, che dopo tutto appare non essere così esiguo
ed elitario come spesso si dice; sia di esaltare le forti passioni etico-politiche
di cui il Risorgimento ci appare impregnato, a differenza forse dei nostri
tempi assai più postideologici e pragmatici. In tale ottica il saggio fa emergere un Mamiani indubbiamente “amico del Cavour”, calato però nell’ambito della più ampia cerchia di coloro che il conte piemontese definiva ripetutamente “i miei amici”, quali soprattutto – oltre allo stesso Mamiani – il
Farini, il Minghetti, il Castelli, il La Farina, il Massari e, per molto tempo,
8
il La Marmora: una cerchia, il cui ruolo in gran parte attende ancor oggi di
essere studiato mediante un’attenta indagine nell’ambito soprattutto di quegli archivi privati, la cui apparente perdita era giustamente lamentata da
Rosario Romeo nei suoi noti scritti sul Cavour e nei confronti dei quali il
recente recupero dell’archivio privato del Mamiani può costituire un concreto stimolo di ricerca, anche sulla scia delle sollecitazioni di recente manifestate dall’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in merito
ad una adeguata storiografica preparazione all’ormai prossimo centocinquantesimo anniversario della proclamazione dell’unità d’Italia.
In merito invece al secondo “centro d’interesse” scelto dagli Autori va precisato che nell’ambito dell’azione differenziata dei cosiddetti “amici” del
Primo Ministro, Mamiani appare nella sua specifica fisionomia come l’uomo del Parlamento, ossia come il personaggio impegnato dal Cavour principalmente e più degli altri a difendere e a promuovere nella Camera dei
Deputati – e attraverso essa in tutto il Parlamento subalpino – il più ampio
sostegno possibile alla causa della indipendenza e della unificazione nazionale della penisola, considerata ormai come l’unica strada possibile rimasta
al Piemonte per sottrarsi alla egemonia dell’Austria, sulla base di una politica – quella “italianissima” – che Egli vedeva ormai come irrinunciabile
dopo il Congresso parigino del 1856. In tale ottica, mentre altri “amici”
venivano dal Cavour inseriti nella rete amministrativa dello Stato o nella
preparazione di una “rivoluzione popolare ed extra legale” oppure utilizzati in attività di collegamento con l’ambiente dei fuorusciti italiani e della
rappresentanza internazionale presente a Torino, al Mamiani invece era
demandato lo specifico compito di coinvolgere emotivamente e idealmente
nella politica del Cavour il Parlamento – sentito come il centro primo e trainante dell’ormai intravisto Risorgimento “italiano” – e di costruire all’interno di esso quel vasto consenso, che solo avrebbe permesso di giungere a
tempo opportuno alla guerra contro l’Austria.
C’è di più. Se al conte pesarese anche nell’ambito della complessa costruzione di una coscienza nazionale italiana vanno riconosciuti grandi meriti,
che, d’altra parte, non possono essere sottaciuti senza limitare la messa a
punto del ruolo etico-politico da lui svolto, non v’è dubbio che la sua funzione di uomo leader della maggioranza nell’ambito del Parlamento subalpino ci risulta tuttavia senz’altro preminente e fondamentale fra il 1856 e il
1861: e ciò per l’appunto ci sembra essere quanto allora il Primo Ministro
da lui soprattutto si aspettava.
Pesaro, ottobre 2006
Gli autori
9
Avvertenze
Tutto il materiale del Fondo Mamiani da noi consultato e citato nel presente saggio con
le seguenti legende:
- Carte di T. Mamiani
- Lettere a T. Mamiani
- Pluteo Mam. (dove “Mam” indica la Sala Mamiani, nella quale il pluteo è conservato)
è reperibile presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro (B. O. P).
Il Fondo risulta oggi definitivamente riordinato e catalogato a seguito di una pluriennale opera di recupero, catalogazione e rilettura del cospicuo patrimonio documentario lasciato dalla vedova del conte pesarese al Comune cittadino.
Le tre sezioni del Fondo sopra citate possono essere consultate rispettivamente attraverso i seguenti cataloghi:
G. VANZOLINI, Le carte di T Mamiani nell’Oliveriana di Pesaro, Pesaro, Stab. Tipo-Lito
Federici, 1896.
I. ZICARI, Catalogo del fondo “Comunale” Mamiani della Biblioteca Oliveriana (Lettere
ricevute da T. Mamiani dal 1832 al 1885), in “Studia Oliveriana”, VIII-IX, (1960-1961),
Pesaro, 1962.
R. CASABIANCA, L’archivio di Casa Mamiani (di prossima pubblicazione e oggi presente
in copia computerizzata presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro).
Quanto alla bibliografia è da notare che a nostra conoscenza non esiste alcun lavoro
specifico sul rapporto fra Mamiani e Cavour negli anni 1850-1861, tranne l’articolo di
R. UGOLINI, Mamiani e Cavour nel decennio di preparazione, in “Studia Oliveriana”, N.
S., V, Pesaro, 1985, varie volte da noi citato e discusso nel corso del presente saggio.
Per la bibliografia generale, non ritenendosi necessario aggiornare quanto già riportato in A. BRANCATI - G. BENELLI, Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico
liberale e il risorgimento federalista, Pesaro - Ancona, Fondazione della Cassa di
Risparmio di Pesaro - Il Lavoro Editoriale, 2004, pp. 495-500, rimandiamo a quanto
riportato in tale opera.
INTRODUZIONE
1. Nell’ambito di un rinnovato interesse per gli studi risorgimentali il
presente saggio tende a riscoprire, sulla scorta di informazioni documentarie in vario modo reperibili, l’ancora poco conosciuta attività politica svolta dal conte Terenzio Mamiani Della Rovere, patriota pesarese,
nel Piemonte di Camillo Benso conte di Cavour e a far riemergere la
stretta collaborazione instauratasi fra i due statisti, che una reciproca
stima e una rispettosa amicizia unì nell’opera – come si diceva allora –
della rigenerazione patria. Un periodo cronologico certamente breve,
ma indubbiamente importante sia per la ricostruzione biografica del
pesarese che da qualche anno andiamo facendo, sia per una più puntuale conoscenza di un periodo cruciale del nostro Risorgimento, contrassegnato in maniera certamente preminente dalla personalità e dall’opera
del Cavour, ma corredato anche da una pluralità di voci e di apporti personali importanti, che, pur se a vario titolo e con diverso peso storico,
contribuirono a creare l’unità e l’indipendenza nazionale della penisola,
ma che anche la migliore storiografia ha invece trascurato, limitandosi ad
includerne il ricordo nell’azione – certo fondamentale e primaria, ma
mai esclusiva – di pochi personaggi meritatamente ormai da tutti conosciuti.
Nulla, lo si sa, nasce per caso né senza ragione: e la riduzione della più
nota storiografia ottocentesca a pochi ma grandi protagonisti – Vittorio
Emanuele, Cavour e Garibaldi, cui di volta in volta si aggiunse in posizione subordinata qualche altro personaggio di non uguale grandezza,
quali Massimo d’Azeglio o Alfonso La Marmora – non fa eccezione: essa
rappresentò infatti il giusto riconoscimento dell’Italia postunitaria verso
coloro che più vistosamente contribuirono con la loro opera alla realizzazione di un avvenimento, che a parere di tutti aveva dell’incredibile e
dell’irrepetibile, non foss’altro che per i modi e per la brevità dei tempi
nei quali esso si realizzò. Una semplificazione, questa, che ebbe origine
sin dall’inizio e che, a differenza di quanto a volte è stato detto e scritto
non derivò tanto dalla volontà dell’allora classe dirigente di ottenere con
11
una accorta propaganda di regime – ossia con l’esaltazione epico-mitica
della recente unificazione della penisola ad opera della Casa Savoia e di
un ristretto numero di eroi nazionali – quel consenso di massa allora
necessario ad una unità nazionale, che nei fatti ancora non c’era o che
era ancora evidentemente troppo fragile e precaria per dare garanzie di
continuità e di futuro, quanto piuttosto dal sincero convincimento dei
contemporanei che proprio così stessero le cose nella realtà degli eventi
appena conclusi.
D’altra parte, poteva risultare difficile dopo il 1870 non riconoscere
come preminente il ruolo esercitato da Vittorio Emanuele II, Cavour e
Garibaldi nel Risorgimento italiano e al tempo stesso altrettanto facile
operare, certamente enfatizzando, una collettiva esaltazione di alcuni
importanti personaggi, accomunati spesso in una atmosfera di unità
d’intenti e di interventi oggi insostenibile, ma che non di rado si costituì
spontaneamente e sinceramente fin dalle prime ore del regno.
Una semplificazione, questa, alla quale contribuì in gran parte la
memorialistica dell’epoca diffusa dagli stessi protagonisti degli avvenimenti, alla quale non si sottrasse neppure lo stesso Mamiani, che, pur
anch’egli uomo di spicco dell’intero Risorgimento italiano1, avvertì –
dominato com’era da un profondo senso morale – tutta la differenza che
passa fra comprimari e uomini grandi, lasciando solo a questi ultimi l’onore del ricordo. Tessendo, ad esempio, in Senato l’elogio del Cavour,
così egli si esprimeva rivolgendosi ai suoi colleghi:
Giriamo lo sguardo sull’intera penisola, giriamolo più volte ed attentamente
dall’Alpi al Lilibeo, paragoniamo le sue sorti presenti con quelle di vent’anni addietro quand’era serva, squarciata, invilita e certo vi si rinnoverà una specie di stupore
per la profonda universale trasformazione. Or bene, di tutte queste mirabili innovazioni, di questo civile miracolo, chi non lo sa, chi non lo ripete?, furono autori
principalissimi due sole persone, il Re e il suo gran Ministro2.
Poco dopo, in occasione del ventiquattresimo anniversario dell’unità,
e dunque pochi giorni prima della morte del sovrano, celebrato con
grande fastosità e concorso di popolo a Roma, Mamiani aggiungeva ai
due personaggi anche qualche altro nome – Carlo Alberto, Mazzini e
Garibaldi3 –, non discostandosi tuttavia dalla classica rievocazione strettamente elitaria dei grandi responsabili del recente passato.
Tutto ciò sortì il suo effetto: la semplificazione del quadro storicorisorgimentale poteva infatti dirsi già sostanzialmente compiuta pochi
anni dopo la unificazione del regno, anche se a costo di una sostanziale
12
rimozione della pluralità delle voci e delle azioni di non pochi altri personaggi, che il presente saggio tenderà invece a riportare in luce pur se
generalmente in forma del tutto implicita ed atematica. Per quanto poi
riguarda in particolare Terenzio Mamiani nel Piemonte cavouriano, una
rilettura più frazionata delle vicende permette di riaffermare quell’importante ruolo da lui allora svolto, che, universalmente riconosciuto
dalla storiografia ottocentesca, è apparso invece ad alcuni studiosi del
Novecento troppo esagerato ed enfatizzato e di conseguenza ben presto
da essi anche demitizzato4. Ed è per l’appunto proprio questo secondo
aspetto l’intento fondamentale del presente saggio: esso tende infatti a
recuperare la fisionomia politica del personaggio e la sua funzione nell’ambito delle vicende nazionali dell’epoca, finendo poi anche per confermare le ragioni della solida testimonianza ottocentesca in favore della
sua fama e per riportare dunque alla giusta memoria un protagonista
delle vicende risorgimentali oggi, a parere nostro, troppo trascurato
quando non addirittura indebitamente decostruito.
2. Gli anni presi in considerazione dal presente saggio sono per la
gran parte quelli del Piemonte liberale governato dal conte di Cavour,
ormai affermato Presidente del Consiglio del regno di Sardegna dopo il
triennio azegliano (1849-1852) e soprattutto quelli della diretta collaborazione parlamentare e politica fra Mamiani e Cavour (1856-1861). Una
collaborazione, che si attuò essenzialmente nell’ambito dell’attività parlamentare: infatti – contrariamente alle voci che comunemente circolavano – Cavour non ebbe mai fretta di affidare a Mamiani dirette responsabilità governative, anche quando nel 1860 si deciderà a crearlo ministro della Pubblica Istruzione5. La lettura dei documenti porta anzi a
pensare che Cavour vedesse in Mamiani, uomo di raffinata cultura, dai
modi gentili e cortesi e soprattutto sempre duttile nei confronti delle
opposizioni, più l’uomo politico che non l’uomo di Stato, bisognoso
quest’ultimo, come si sa, non solo di autorevolezza morale, ma anche di
chiara propensione decisionale: cosa, questa, non sempre amalgamabile
con il rispetto altrui. Sotto tale aspetto certamente più garanzie offrivano a Cavour altri suoi “amici”, come Luigi Carlo Farini e Marco
Minghetti, ai quali di fatto preferirà ricorrere per incarichi propriamente governativi6.
Mamiani, abile, colto e per di più anche ben introdotto nei migliori
circoli torinesi e genovesi, rappresentava tuttavia per Cavour un politico
autorevole e competente e come tale un elemento di sicura capacità di
mediazione nell’ambito della maggioranza ministeriale e nei suoi rap13
porti con il Parlamento: e proprio in tale ambito egli volle per molto
tempo tenerlo, ponendolo anche in una posizione di evidente prestigio,
senza trascurare tuttavia la possibilità di assegnargli, al momento opportuno, le funzioni di ministro della Pubblica Istruzione, per le quali molti
gli attribuivano le migliori qualità. E probabilmente fu proprio pensando a un tal fine che egli volle inserirlo fra i professori di ruolo della Regia
Università di Torino, la prima del regno, ed imporlo poi nella cattedra di
filosofia della storia di nuova istituzione alla commissione esaminatrice,
anche se evidentemente non senza suoi effettivi meriti7.
Politicamente Mamiani apparteneva alla sinistra moderata ed era
stato anzi fra i maggiori responsabili piemontesi della creazione di una
corrente politica detta “centro sinistro”, nata nel 1849 ad opera di
Urbano Rattazzi, di Lorenzo Valerio, di Domenico Buffa e di altri e
caratterizzata da una funzione critica nei confronti dell’eccessivo moderatismo del governo di Massimo d’Azeglio, ma anche ostile alle opposizioni dell’estrema sinistra. La sua assunzione, però, a uomo del Cavour,
ossia del maggior esponente del “centro destro” del Parlamento, non
dovette sembrare sconveniente ai suoi amici, date le strette relazioni di
collaborazione che allora esistevano fra i due poli della nuova maggioranza antiazegliana. Del resto, il sostegno politico offerto dal Mamiani
al conte di Cavour non si discostò mai dai sentimenti liberal-democratici, che egli aveva sempre professato insieme all’amico Gioberti: e ciò
gli permise di mantenere, pur agendo all’interno dello schieramento
ministeriale, una libertà di idee e di azione non sempre omogenea all’indirizzo del centro moderato del Cavour e per ciò stesso a volte anche
mal sopportata dai cavouriani di stretta osservanza. A questi infatti
poteva dispiacere la sua espressa vicinanza più all’anima popolare, da
loro considerata come scarsamente controllabile, che non a quella aristocratico-borghese del liberalismo moderato: un’anima, che a non
pochi sembrava – certamente a torto – confinare con l’estrema sinistra
e addirittura con l’area mazziniana8; così come poteva dispiacere la sua
preferenza per un risorgimento nazionale operato più attraverso le
masse popolari che non attraverso gli ufficiali canali diplomatici, in consonanza con la linea albertina dell’“Italia farà da sé”, pur se non
disgiunta da alleanze di ampio respiro internazionale. Era sua convinzione infatti che solo la diretta partecipazione del popolo avrebbe potuto offrire al risorgimento quel carattere di gloriosa epopea nazionale,
che solo nella lotta per la propria liberazione da un potente ed agguerrito nemico, quale allora era l’Austria, avrebbe potuto fondare una forte
e salda coscienza nazionale, scoprendo e quasi verificando sul campo di
14
battaglia la propria unità politica e la propria specificità morale e culturale di un paese risorto. Una partecipazione di popolo, che avrebbe
contribuito inoltre a dare lustro e dignità all’Italia davanti all’Europa,
poiché – diceva – a differenza degli individui le nazioni possono vivere
solo di gloria9.
Dal Cavour tuttavia Mamiani apprese, a sua volta, a meglio apprezzare la necessità dell’accentramento direzionale e delle forti leghe diplomatico-internazionali, capaci di far uscire il Piemonte e con esso il risorgimento italiano dall’isolamento europeo, che lo avrebbe destinato a
sicuro fallimento per ancora troppo tempo.
Mamiani, dunque, ugualmente distante nella Camera elettiva del
Parlamento dalla destra del conte Clemente Solaro Della Margarita e
dalla sinistra democratica di Angelo Brofferio, era schierato con la maggioranza parlamentare, ma in posizione media fra la sua ala di sinistra
più accesa, quella di Giorgio Pallavicino – posta ai limiti estremi del consenso e non di rado anche al di là di esso e dunque più a sinistra dello
stesso Rattazzi10 – e l’ala diplomatico-moderata del Cavour, assai più
prudente, pur se non aliena per principio nei confronti dell’agitazione
popolare.
Merito, comunque, del Cavour fu avere ben compreso tale medianità
spostata a sinistra del Mamiani e averla sempre rispettata11, come merito del Mamiani fu aver riconosciuto subito ed apertamente, da parte sua,
la maggiore caratura politica del Primo Ministro, di averlo perciò lealmente assecondato e di non avergli mai fatto mancare il proprio appoggio parlamentare, specialmente nei momenti difficili.
La sua era una fedeltà sincera ed aperta, ma tuttavia anche responsabile e di tipo più costruttivo e propositivo che ripetitivo: cosa, che, sottraendolo alla palude dei semplici epigoni cavouriani, quelli cioè che
“votavano come un sol uomo col Ministero” e che all’occasione si facevano notare come “gli agenti provocatori, gli abbaiatori del conte di
Cavour” – scriveva Ferdinando Petruccelli Della Gattina, uomo della sinistra estrema e pressoché unico “repubblicano” della Camera unitaria –
finì per conferirgli una fisionomia sua propria e un indubbio rilievo politico all’interno del suo stesso schieramento, che non passavano allora
inosservati neppure alle opposizioni, come ancora una volta è buon testimone lo stesso Petruccelli Della Gattina, il quale, parlando della posizione di Mamiani all’interno del Parlamento, lo poneva significativamente fra i “rivali più o meno mascherati del conte di Cavour”, fra quelli cioè che “sono là, spiando l’ora, l’occasione, il pretesto, sia per dare
addosso al Gabinetto che naufraga, sia per essere chiamati a farne
15
parte”12. Una sottile malevolenza, questa, che mal si addiceva però sia
alla devozione del Mamiani per il suo primo Ministro, sia a quella del
Farini e sostanzialmente anche alle aspettative degli altri “rivali mascherati”, come egli li definiva – Bettino Ricasoli, Carlo Boncompagni e
Giovanni Lanza – ma che è anche indicativa dell’ascendenza da essi raggiunta nel Parlamento Subalpino e della loro autorevolezza nello schieramento ministeriale.
Tali considerazioni rendono comprensibile un certo modo di agire del
Mamiani non di rado anche piuttosto dissonante, pur se mai ostile, nei
confronti della stessa politica cavouriana, che non poteva sfuggire alla
sua ala più osservante generando a volte sorpresa e disappunto13. A fortiori, pertanto, non meno responsabilmente libero egli si sentiva nei confronti dei vari progetti di legge presentati alla Camera dai responsabili
del ministero in carica. Egli, infatti, in occasione di dibattiti parlamentari su proposte governative, che poco collimavano con le proprie vedute
e che pertanto non facilmente potevano essere da lui accettate nella loro
interezza, non aveva remore a levarsi in aula per proporre emendamenti
suoi propri, che in alcuni casi si trovavano ad essere addirittura solidali
con quelli delle opposizioni di sinistra14.
Tale atteggiamento, del resto, faceva gioco al Cavour, che infatti mai
tentò di imbrigliare la spontaneità del Mamiani, ben comprendendo
l’opportunità che la cosa gli offriva per meglio ottenere il consenso dei
due poli dell’area governativa nelle questioni che più importavano15. E
che le cose stessero proprio così, lo dimostra il fatto che mai emerge
dagli atti ufficiali o privati una sollecitazione del Cavour nei confronti
del Mamiani per un più lineare adeguamento alle sue proposte di governo: una considerazione di non poco conto, se si tiene presente il comportamento mai troppo tenero del Cavour con quanti fra i suoi “amici”
non si allineavano con lui nei momenti politici di rilievo.
Nonostante tali differenze, Mamiani rimarrà sempre comunque un
leale uomo di Cavour, il quale d’altra parte gliene sarà infine grato, affidandogli il ministero della Pubblica Istruzione nel gennaio del 1860.
Con lui infatti Mamiani trovava comunanza di stima personale e piena
affinità di vedute politiche e di strategie operative, come non ebbe remora di confessargli all’atto dell’accettazione del proprio incarico governativo in una lettera nella quale così al riguardo si esprimeva:
Signor Conte, l’onore di essere anche per un dì solo collega nel Ministero col più
grand’uomo di Stato de’ nostri tempi, corona tutta la mia vita e illustra di invidiato
decoro la mia canizie… Io mi sono sempre compiaciuto di riconoscere che tutti i
16
principj del Conte di Cavour erano pure i miei. E, se non è un giudicio troppo
superbo, aggiungerò che è raro trovare in due teste tanta conformità di pensieri,
salvo la parte del genio che in Lei è somma e in me fa pieno difetto16.
Era la pura verità sul rapporto fra Mamiani e Cavour. Ed è proprio
nell’ambito di queste coordinate che si situa il tipo di funzione svolta dal
conte pesarese nella fase decisiva dell’unificazione italiana e dunque
anche il tipo di importanza che egli ebbe ad avere nella storia del risorgimento nazionale: la sua azione non si espresse a livello degli apparati
decisionali ed operativi dello Stato, dato che egli sostanzialmente non fu
uomo di governo, non diplomatico di carriera presso le corti europee e
non ufficiale dell’esercito; ma solo a livello della politica, che egli svolse
in maniera fine e perspicace con l’intento primario di creare una forte
coscienza nazionale italiana: coscienza, che nel 1855, all’atto cioè della
partecipazione piemontese alla guerra di Crimea, egli affermava non esistere ancora con chiarezza d’idee e con precisione d’intenti, nonostante
non mancassero ormai diffuse tensioni e concreti ideali risorgimentali17.
Di qui la necessità e il compito da lui prescelto di dover portare a maturità la formazione della coscienza nazionale unitaria ed operativa, facendole oltrepassare le vaghe e velleitarie aspirazioni patriottiche dei più,
incapaci – a suo avviso – di creare una strategia “italianissima” e vincente. Questo l’ambito nel quale egli operò nel decennio cavouriano e nel
quale, soprattutto dopo la sua elezione a deputato, seppe anche emergere fra gli uomini del Primo Ministro, diventando uno dei simboli più noti
della causa “italianissima” di stampo moderato sia in Parlamento sia nel
paese. Egli finì in tal modo per assumere, prima, un ruolo di grande
importanza nel tessuto stesso del nostro Risorgimento, quello popolare,
che – diceva Mamiani – era ancora mancante e senza il quale l’azione
militare e diplomatica, destinata alla fine degli anni Cinquanta a diventare vittoriosa, non sarebbe mai stata possibile; e, poi, per incidere anche
sul corso stesso degli avvenimenti grazie all’autorevolezza morale della
sua persona, del suo pensiero e della sua attività politica. Tutto ciò è ben
attestato dagli Atti parlamentari della Camera elettiva torinese e dal privato archivio personale del conte, dai quali appare in modo molto evidente il suo intento di avviare una politica fortemente antiaustriaca nel
Parlamento subalpino e di riversarla al tempo stesso sul tessuto popolare del paese. Una politica, che ben si rivela nell’incrocio oratorio alla
Camera soprattutto fra tre personaggi dal riferimento obbligato: il conte
Solaro Della Margarita per la destra conservatrice, il conte Terenzio
Mamiani per il centro governativo e l’avvocato Angelo Brofferio per la
17
sinistra estrema. Tre personaggi assai diversi per concezione politica,
stile retorico e forma stessa di vita, i quali, richiamandosi a vicenda e a
vicenda combattendo le opposte argomentazioni, seguiranno passo per
passo gli sviluppi della politica nazionale orchestrata dal Cavour negli
anni decisivi per il Risorgimento italiano, negli anni cioè 1856-1861:
anni, che furono in definitiva anche quelli più importanti per la vita pubblica dei due uomini politici.
3. Legato alle forme urbane della “vecchia” scuola diplomatica piemontese, come egli stesso dirà; conservatore convinto dei valori morali e
politici della tradizione savoiarda; sostenitore delle buone relazioni con
l’impero d’Austria; elegante ed equilibrato nella sua dialettica compostamente classica, era il conte Solaro Della Margarita. Terenzio Mamiani
era invece oratore rigoroso nell’uso della pura espressione linguistica italiana, a volte persino un po’ datata per i suoi tempi, e particolarmente
impegnato a tenere comunque desto il Parlamento sull’ormai prevedibile ed inevitabile scontro con l’Austria, sempre sperato dai liberali, ma
dopo il 1856 sentito finalmente vicino nei modi e nei tempi, pur se non
avventatamente affrettabile.
A sua volta “tribolato apostolo della democrazia” – come egli stesso
si era definito in un discorso tenuto in Parlamento il 16 marzo 1857 – ,
convinto sostenitore della rivoluzione nazionale sempre pronta, spontanea e popolare, oltre che intelligente nelle sue argomentazioni politiche
di estrema sinistra e irruente nella sua foga oratoria, era Angelo Brofferio
principe del foro genovese.
Vittima designata degli strali del centro e della sinistra in virtù dell’ormai intrapresa politica antiaustriaca e italianamente nazionale del
ministero Cavour dopo il Congresso di Parigi (1856), era naturalmente
il conte Solaro Della Margarita, mentre la contrapposizione più viva ed
immediata si polarizzava, altrettanto naturalmente, nello scontro
Mamiani-Brofferio, ai quali poi si affiancavano solitamente – anche con
interventi di alto rilievo – le voci di molti altri parlamentari, non di rado
brillanti e ben preparati. Tale polarizzazione fra i due uomini politici
nella Camera subalpina è paradigmaticamente messa bene in evidenza in
un discorso pronunciato da Angelo Brofferio il 14 aprile 1858 quando,
in occasione del dibattito sul progetto di legge teso a punire anche in
patria gli attentati operati da cittadini del regno contro sovrani stranieri,
egli, dopo l’ennesima contrapposizione col conte pesarese, così si esprimeva opponendosi alla tattica prudente attuata dal ministero e da
Mamiani difesa:
18
L’onorevole Mamiani ci soggiunge: noi dobbiamo aspettare; chi sa che un giorno o
l’altro da questo principe [NapoleoneIII] non ci possa venire la salute dell’Italia.
Aspettare! L’onorevole Mamiani ben altre volte ci ha detto di aspettare. Quando
all’invito di Bonaparte, andavamo in Crimea, l’onorevole Mamiani ci diceva: aspettiamo; ed abbiamo aspettato. Quando all’epoca del Congresso [di Parigi, 1856]
ricevevamo vuote promesse, l’onorevole Mamiani ci diceva ancora: aspettiamo; ed
abbiamo aspettato. Ora un’altra volta l’onorevole Mamiani ci dice: aspettiamo…
Ma, Dio buono, dovremo noi subire l’eterna condanna di aspettare sempre a prezzo dell’onore, della dignità del paese! L’onorevole Della Margarita diceva all’onorevole Mamiani che colle poesie non si cacciano via i Tedeschi; l’onorevole Mamiani
rispondeva all’onorevole Della Margarita che i Tedeschi non si cacciano con la sua
politica retrospettiva; ed io alla mia volta dichiaro all’onorevole Mamiani che colla
sua politica aspettativa i Tedeschi staranno in perpetuo tranquilli e sicuri a casa
nostra18.
Tutto ciò naturalmente non rispondeva a verità. Mamiani infatti non
solo sentiva ormai prossima la rivoluzione nazionale, ma anzi, come
vedremo meglio in seguito, sotterraneamente operava nel frattempo per
essa, anche se Cavour, con buone motivazioni, non voleva né precorrere
i tempi né ripercorrere le fallite avventure quarantottesche, che egli giudicava vissute a suo tempo con forte valenza emotiva, ma proprio per
questo dimostratesi alla fine avventate e sterili. La maggioranza parlamentare d’altra parte – ma non solo essa – conosceva bene il passato di
patriota ed il lungo esilio parigino del Mamiani e, nonostante le accuse
del Brofferio, non gli faceva mancare la propria stima non di rado mista
anche a reverenza. Ne è esempio, sempre nel corso del progetto di legge
sugli attentati alla vita dei principi stranieri, una espressione del Farini
pronunciata in piena assemblea. Di fronte alle reiterate accuse mosse in
quel giorno dalla destra e dalla sinistra estreme al ministero contro la
proposta ministeriale, giudicata umiliante per il Piemonte e per le sue
libertà politiche in quanto praticamente imposta – si diceva – da
Napoleone III dopo l’attentato di Felice Orsini (14 gennaio 1858),
Farini così concludeva il suo discorso, convinto di apportare credibilità
al disegno di legge del ministero:
Nel fare questo concetto della legge ho pure qualche conforto;… mi conforta eziandio l’autorità di alcuni insigni uomini che della libertà e dell’indipendenza nazionale furono sempre amatori e procuratori ardentissimi; mi conforta l’autorità del mio
vecchio e dilettissimo amico, il conte Mamiani, che ieri qui perorava. Sì, mi è anche
essa di conforto questa autorità, perché a chi per la libertà ha speso la vita intiera,
19
raccogliendo qualche gloria sul proprio nome, può ben stare a cuore la conservazione della libertà, quanto a coloro i quali ne hanno colto i frutti senza patire travagli!19.
E fu soprattutto in tale contesto parlamentare, dinamico e frastagliato, che Mamiani visse negli anni 1856-1861 la sua stagione politico-risorgimentale.
4. Come già in precedenza precisato, il presente saggio mira a confermare il comune giudizio della storiografia del secolo XIX sulla eminenza della personalità del Mamiani e sull’importanza dell’azione politica da
lui svolta20 anche nelle vicende centrali del nostro Risorgimento. Ora,
proprio per questo motivo si è tenuto sempre presente, come in filigrana, l’opinione di uno storico contemporaneo, Romano Ugolini, il quale,
al contrario, in un corposo saggio – edito nel 1985 in occasione del centenario della morte del conte pesarese e dunque ormai forse datato ma
da alcuno mai contestato – ha ritenuto di poter presentare l’operato di
Terenzio Mamiani nel decennio cavouriano in chiave così negativa, ma
così vistosamente negativa21, da far sorgere almeno il dubbio sulla sua
attendibilità e sul suo fondamento: possibile – viene infatti da chiedersi –
che Cavour, i cui decisi e repentini ostracismi, spesso violenti ed irrefrenabili, altre volte più diplomatici, ma non per questo meno efficaci e
risolutivi, sia stato invece con Mamiani così paziente e così comprensivo
da tenersi accanto, per tanto tempo, un uomo tanto screditato e da crearlo infine addirittura ministro della Pubblica Istruzione? E visto poi un
esito così negativo – come sostiene l’Ugolini – ottenuto dal Mamiani
anche nella gestione del ministero della Pubblica Istruzione al punto da
fargli sorgere il desiderio estremo di farlo dimenticare ad amici e nemici, è credibile che il Cavour abbia deciso di inviarlo, oltretutto senza
alcun bisogno (c’erano infatti i funzionari di carriera, a cui egli dava preferibilmente tali incarichi), quale ambasciatore plenipotenziario in
Grecia, pur avendo la certezza – dati i precedenti! – che Mamiani avrebbe finito per screditare anche la nuova Italia all’estero, in un settore
oltretutto come quello greco-mediterraneo, nei riguardi del quale egli
nutriva speranze di successo per Casa Savoia? E con quale intelligenza
politica, infine, il Cavour, che ben conosceva l’ambiente della diplomazia internazionale e che faceva di essa l’arma prima per la realizzazione
dei suoi disegni, avrebbe potuto porre Mamiani nella condizione non
solo di essere “deriso” dai suoi colleghi parlamentari, ma anche da tutte
le diplomazie europee presenti allora in Atene?
20
A noi sembra che qualcosa non torni. E comunque si tratta di una
tesi, quella dell’Ugolini, che contrasta troppo, per non aver bisogno di
più puntuali approfondimenti, con il giudizio diffuso e generalizzato
dei suoi contemporanei che ritenevano il Mamiani un uomo di vasta
cultura e un ragguardevole uomo politico, ma soprattutto un grande
patriota al quale molto il risorgimento nazionale doveva22. Ecco perché,
da parte nostra, abbiamo pensato che fosse opportuno riprendere in
esame l’intera vicenda politica del Mamiani piemontese e soprattutto
quella degli anni 1856-1861, quelli cioè nei quali fu direttamente e
costantemente a contatto col Cavour, e ripercorrerla con particolare
cura. E, per meglio riuscire nell’intento, abbiamo creduto opportuno
non isolare il personaggio e la sua vicenda dal loro più ampio contesto
politico, ma inquadrarli nella concreta dinamica dei fatti e delle discussioni dell’epoca, nonché nei modi e nelle forme che ebbero ad implicarli. Tale tipo di indagine storica dovrebbe far meglio risaltare i risvolti positivi o negativi della sua attività e contribuire con ciò a far anche
meglio comprendere il giudizio su di lui dato dai contemporanei. Siamo
convinti infatti che tale metodo possa permettere di superare due tentazioni tanto diffuse quanto contraddittorie nella storiografia locale:
quella di colorire a volte eccessivamente in positivo i propri personaggi, nonché quella di operare demitizzazioni a tutti i costi nella volontà
di non apparire municipali.
Nel fare ciò, abbiamo tenuto presente sempre e in primo luogo
– come per un necessario confronto – le tesi e le piste documentarie
offerteci dall’Ugolini, debitamente integrandole ed ampliandole con
tutte le fonti che siamo stati in grado di reperire, evitando tuttavia al contempo e con ogni cura di metterci con esse in contrapposizione e soprattutto in polemica – cosa del tutto aliena al nostro spirito, così come estranea essa fu sempre al Mamiani – e cercando invece e più semplicemente
di offrire una nuova lettura di documenti vecchi e nuovi sull’argomento.
Nella storiografia del resto, lo si sa – per dirla con lo Huizinga – nessuna cosa è detta per l’eternità e, qualunque possa essere il valore del
nostro saggio, crediamo che anche il discredito (a parere nostro, comunque assolutamente eccessivo) sotto cui l’Ugolini ha creduto di dover
ricoprire la figura del Mamiani, non si sottragga alla legge del tempo. O,
almeno, lo speriamo noi, ai quali un lungo studio dell’archivio privato
del conte pesarese suggerisce di parlarne con diversa simpatia.
21
Note
1
La diffusa fama nutrita dai contemporanei nei confronti del Mamiani quale una delle personalità più importanti del Risorgimento italiano è solidamente testimoniata da numerose lettere a lui
inviate dai più disparati estimatori italiani e non, raccolte nel particolare Fondo Mamiani esistente presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro. A solo titolo di esempio, valgano le seguenti
testimonianze. Un suo vecchio amico della “rivoluzione romagnola” del 1831, come lui riparato
in Francia e come lui contrario a richiedere l’amnistia di perdono a Pio IX, l’avvocato Filippo
Canuti, così gli scriveva da Parigi il 12 settembre 1856, congratulandosi con lui per la sua elezione al Parlamento subalpino: “Come detto altra volta, è stato un bene per l’Italia che voi siate
entrato nel Parlamento Piemontese: la vostra parola ha molto eco per tutta la penisola, ed è speranza e conforto di tutti i buoni italiani” (vedi A. BRANCATI-G. BENELLI, Divina Italia. Terenzio
Mamiani Della Rovere cattolico Liberale e il risorgimento federalista, Ancona, Il Lavoro
Editoriale, 2004, p. 200).
A conferma delle parole del Canuti, ci sembra opportuno riportare, a solo titolo di esempio,
anche qualche altra testimonianza fra le molte presenti nell’archivio Mamiani.
Il 14 marzo 1856 Pietro Fanfani scriveva da Firenze a Torino al conte pesarese per presentare
un suo giovane amico, il dott. Massei “bravo e buon giovane, il quale vien costà per la prima
volta, e tornerà ambiziosissimo di aver conosciuta personalmente V. S., e di poter dire: Io gli ho
parlato” (Lettere a T. Mamiani, n. 5975). Una richiesta di questo genere è assai frequente nell’epistolario. Un personaggio di assai maggiore importanza nell’allora Piemonte politico, lo storico e conte Luigi Cibrario, così gli scriveva da Torino il 2 ottobre 1861: “Raccomando alla
bontà di V. S. il mio cugino ed amico conte Alberto Ioannini Ceva di S. Michele...Egli desidera di ammirare nella persona di V. E. una delle glorie Italiane, uno degli apostoli della libertà”
(Lettere a T. Mamiani, n. 3358). Ciò era, del resto, quanto si pensava anche fuori dall’Italia. Il
10 dicembre 1848, infatti, Virginie Ancelot – donna di lettere e pittrice, che a Parigi teneva un
assai reputato salotto, frequentato di fatto da quasi tutta la generazione romantica e che aveva
preso particolarmente a cuore l’esiliato Mamiani – gli scriveva: “Vous êtes le Washington de
l’Italie et mon admiration naturelle pour tout ce qui est beau me donnerait de la sympathie pour
vous quand même je n’aurais pas dejà une grande amitié” (Lettere a T. Mamiani, n. 207).
L’espressione, considerata alla luce della stima della Ancelot per il conte pesarese, non aveva,
per lei nulla di iperbolico; ella manterrà di fatto inalterata tale stima nel tempo, cosa che le fece
conservare il ritratto del Mamiani nel suo salotto (V. ANCELOT, Un salon de Paris, 1824 à 1864,
Paris, Dentu, 1866, pp. 89-90). Intrisa della stessa stima umana e politica era anche una lettera
che il 28 dicembre 1859 gli inviava dalla Lombardia, allora occupata dalle truppe franco-piemontesi a seguito della seconda guerra di indipendenza, “il primo medico dell’armata francese
e capo del servizio medico di Bergamo”, M. Gramanini, felice di aver avuto “l’honneur et le
plaisir si long temps desiré de faire vôtre connaissance personnelle “. In essa egli scriveva: “J’y
ajoute des voeus, pour que la question de nôtre chère Italie reçoive...la solution que réclament
tant de siècles de larmes, d’exil, de torture, de supplice”; e terminava: “Demander le bonheur
de l’Italie, c’est le demander pour vous même, qui en êtes, tout à la fait, le martyr, et l’illustre
italien” (Lettere a T. Mamiani, n. 4936). Esattamente questa era anche l’opinione di Giuseppe
Massari, che a sua volta così gli scriveva qualche anno più tardi: “Io venero in voi l’illustre italiano, l’uomo fedele a quei grandi principi di giustizia, di moralità, di libertà che hanno fatto
l’Italia ed uno dei più nobili caratteri dell’epoca nostra” (Lettere a T. Mamiani, n. 8588). Una
stima così diffusa e così solida trovava la sua ragion d’essere da una parte nella partecipazione
diretta del Mamiani alle vicende risorgimentali in una posizione costantemente segnalata, dall’altra nella grande forza morale e religiosa con la quale egli dava forma e vita al proprio ideale
liberal-nazionale. Glielo scriveva il 21 settembre 1857 un’affezionata amica, Bianca De Simoni
Rebizzo (1800-1869), la fondatrice degli asili infantili di Genova, la quale, contrapponendo il
messaggio altamente etico-politico diffuso dal programma risorgimentale del Mamiani a quello
intriso di pessimismo e di dubbio gusto romantico del Guerrazzi nei suoi romanzi – e che ad
essa sembrava piuttosto “il raglio dell’illustre Guerrazzi” – gli scriveva: “Che ne dite del nobile intento di questo nostro scrittore, e vi par poco persuaderci che non siamo che bestie etc.
etc.? Bell’intento, e ne avremo un gran profitto nell’ora del dolore e della morte dei nostri cari”.
22
Tutto ciò non poteva certo piacere “a quel cuore che mi fece leggere i vostri scritti immortali,
amico mio, e dai quali ritraggo la forza per vivere bene, e per morir degnamente, con quell’amore che mi trasporta in un mondo migliore, in un ordine di esseri più grandi, dove gli asini
qualunque sia il numero delle gambe che possiedono sono condannati al disprezzo” (Lettere a
T. Mamiani, n. 11021). Di qui il pregio in cui erano solitamente tenute anche le sue raccomandazioni a favore di persone che a vario titolo a lui si rivolgevano. Gli scriveva, ad esempio, a tal
proposito l’8 ottobre 1861 il generale Enrico Cialdini da Napoli, del cui territorio era allora luogotenente generale del re: “Mi dò premura di assicurarla che le sue raccomandazioni saranno
sempre da me accolte con quella sollecitudine che mi è inspirata dall’alta stima che nutro per la
rispettabile di Lei persona” (Lettere a T. Mamiani, n. 3317). E che non fossero parole di rito sta
a mostrarlo anche una lettera di Giovanni Lanza, fino a qualche mese prima Presidente del
Consiglio dei Ministri, al comune amico Domenico Molinari a cui così scriveva per raccomandare l’assunzione presso il liceo Gioberti di un professore di storia, Vincenzo Papa, aggregato
dell’Università di Torino e, a quanto il Lanza diceva, “uomo di molta dottrina e di non minore
onestà di vita”: “ Voi che godete la stima e l’affetto del Mamiani, potreste prestare un prezioso
servizio a suo favore, scrivendo una commendatizia al Mamiani, il cui voto è giustamente avuto
per autorevolissimo. Il pr. Papa è di già raccomandato al Bonghi, al Prati, al Messedaglia, al
Bertoldi; tuttavia gli gioverebbe pur di molto il favore del Mamiani” (Sala Mam. A1, carteggio
2, Lettere alla contessa Mamiani, n. 1). Di attestazioni autorevolissime e di tal genere è pieno il
detto epistolario mamianiano.
2 T. MAMIANI, Minuta di discorso, Sala Mam. A 1, carteggio 4, B 4. Appunti disordinati d’argomento politico e sociale, fasc. 1, n. 2. Interessante a tal proposito sono alcuni fogli autografi del
Mamiani scritti per Giuseppe Massari, il quale, per la sua opera edita poi nel 1878 dai F.lli
Treves di Milano con il titolo La vita ed il regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re
d’Italia, si era rivolto, tra gli altri, anche al conte pesarese per pregarlo di scrivergli motti ed
aneddoti del re, da lui personalmente ascoltati all’epoca della sua attività di Ministro della
Pubblica Istruzione. Da essi appare chiara la sincerità della memoria, ma anche la idealizzazione in lui già avvenuta della figura del vecchio sovrano, allora appena deceduto (Carte di T.
Mamiani, busta 4, I a, n. 11 a,b,c; le lettere del Massari al Mamiani, si trovano in Lettere a T.
Mamiani, nn. 8586-8587). Esempio tipico della idealizzazione dei maggiori autori del
Risorgimento, e con essa anche della conseguente semplificazione degli avvenimenti storici dell’epoca, è proprio il Massari, non solo nella già citata opera su Vittorio Emanuele II, ma anche
nella sua nota biografia intitolata Il Conte di Cavour: ricordi biografici (Tip. Eredi Botta, Torino,
1873), nella quale si attenne, a sostanziale metodo dell’opera, al seguente principio: “Rivivendo
con la memoria in quei dieci anni che trascorsero dal 1849 al 1859...sorge spontanea sulle labbra l’esclamazione: per riuscire ci voleva un uomo come era Camillo Cavour, ci voleva proprio
lui! A tanta impresa tanto uomo” (ibidem, p. 7).
3 T. MAMIANI,
Minuta di discorso, Sala Mam. A 1, busta 5, fasc. II. Interessante nel documento il
ricordo di Mazzini, cosa assolutamente rimarchevole per un liberale moderato – quale era
Mamiani – organicamente inserito nello stato monarchico, per il quale, a livello ufficiale, la figura del patriota repubblicano genovese rappresentava ancora un forte elemento di imbarazzo
ideale e politico, a differenza di quanto invece avveniva a livello popolare. La iconografia risorgimentale ufficiale, infatti, annovererà Mazzini fra i grandi padri della patria solamente dopo la
celebrazione del 1°centenario della sua morte (1905) e più ancora dopo la sua commemorazione
fatta dall’allora sindaco di Roma, Ernesto Nathan, alla presenza del giovane sovrano Vittorio
Emanuele III, riconoscendone così ufficialmente l’apporto primario da lui offerto alla formazione della coscienza nazionale italiana.
4
Ciò che di Mamiani oggi in qualche modo ancora si ricorda sono gli avvenimenti della cosiddetta “rivoluzione romagnola” del 1831 e quelli della Roma pontificia del 1848-49, che videro
Mamiani protagonista, rispettivamente, del cosiddetto Governo delle Provincie Unite (1831) e
di due governi liberali di Pio IX (1848). La storiografia ottocentesca si è infatti maggiormente
soffermata su di essi, poco ricordando invece il ruolo da lui svolto nel Piemonte cavouriano e
23
specialmente negli anni 1856-1861, se si eccettua la sua partecipazione all’ultimo governo sabaudo, quello del 1860-61, quale Ministro della Pubblica Istruzione.
5
Vedi più avanti, al cap. XII del presente saggio, p. 434.
6
Particolarmente indicativo al riguardo l’episodio avvenuto nel 1860, all’epoca in cui il Mamiani
ricopriva l’incarico di ministro della Pubblica Istruzione, a proposito delle rimostranze degli studenti dell’Università di Torino, che protestavano con molto vigore contro un provvedimento di
aumento delle tasse universitarie da lui deciso sulla base di una precisa disposizione della legge
Casati del 13 novembre 1859. Il Cavour scriveva al Cassinis, ministro di Grazia e Giustizia: “Gli
studenti tumultuano per avere una riduzione delle tasse. Mamiani è debole e incerto. Il buon
uomo non potrà reggere a lungo. La cosa però non è grave”. (Lettera di C. Cavour a Giovanni
Cassinis, Torino, 3, dicembre, 1860, in La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno
d’Italia, IV, a cura della Commissione Editrice, Bologna, N. Zanichelli Ed., 1954, p.10). In realtà
ciò che faceva apparire il “buon Mamiani” debole ed incerto, non era una sua fragilità di carattere, ma la sua connaturata propensione ad evitare tutto ciò che nel proprio comportamento
risultasse autoritario o comunque gestito troppo personalmente dall’alto. Era, questo, il suo stile
liberale di far politica. Nel caso specifico egli ricercava allora attivamente una soluzione mediana e positiva della questione. Cavour, che evidentemente era assai più decisionista e meno scrupoloso, era portato invece a vedere nell’atteggiamento pensoso del suo ministro una espressione
di sicura bontà d’animo, ma anche di incertezza operativa. In realtà si dovette accorgere poco
dopo che proprio così non era e riconoscere che Mamiani era riuscito infine a risolvere la questione in modo “très énergique” e con successo (Lettera di C. Cavour al Re, Torino, 16 dicembre
1860, in La questione romana negli anni 1860-61. Carteggio del conte di Cavour con Diomede
Pantaleoni, Carlo Passaglia, Odoardo Vimercati, I, Bologna, Zanichelli Ed., 1929, p. 136).
Altro esempio. Quando nel 1860 fu decisa la spedizione del Re nelle Marche e nell’Umbria per
fermare Garibaldi a Napoli, Cavour fece accompagnare il sovrano dal Farini, avendo già esperimentato la sua fermezza operativa e la sua effettiva capacità amministrativa a Modena e a
Bologna nei mesi fra il 1859 e il 1860. Tutti sapevano, però, che Farini era assai inviso a Garibaldi
da quando nel novembre 1859 gli aveva impedito la sua progettata spedizione nelle Marche.
Inviare dunque il Farini a Garibaldi era certamente un affronto poco diplomatico per il generale. Il Pallavicino, allora prodittatore per volere di Garibaldi a Napoli, si decise a scrivere al
Cavour onde convincerlo a sostituire il Farini con “Mamiani o con Cassinis o qualsivoglia altro
che non fosse antipatico al dittatore”. (Lettera di Giorgio Pallavicino a Camillo Cavour, Napoli,
10 ottobre 1860, in Memorie di G. Pallavicino, pubblicate per cura della figlia, III (1852-1860),
Torino, Roux Frassati e C., 1895, pp.623-624). La richiesta non ebbe però seguito e Garibaldi in
effetti si offese e si irritò. La cosa è nota agli storici, i quali diversamente la valutano. In realtà la
ragione del comportamento del Cavour fu da questi manifestata allo stesso Pallavicino in un
incontro privato intervenuto qualche tempo dopo. A Pallavicino, che lo rimproverava della poca
sensibilità allora dimostrata, Cavour spiegò che con Garibaldi ci voleva forza e decisione, “come
lo stesso prodittatore – diceva – per esperienza diretta ben sapeva” (Lettera di Giorgio Pallavicino
a Biagio Caronti, San Fiorano, 25 novembre 1860, in Memorie di G. Pallavicino cit, pp.654-655).
Evidentemente Cavour non riteneva due gentiluomini come Mamiani e Cassinis adatti ad opporsi ai modi incisivi, ma certo anche autoritari e non raffinati, del generale. Peraltro la gentilezza
dei modi doveva avere un certo fascino sul pragmatico Cavour, se è vero che il suo governo aveva,
nei dicasteri meno legati alla guerra, un trio della medesima stirpe. Oltre al Mamiani, infatti,
all’Istruzione Pubblica, egli aveva elevato a ministro delle Finanze Saverio Vegezzi, uomo amante della campagna, dalla quale faceva volentieri giungere “all’amabilissimo conte Terenzio
Mamiani”… rustici canestrini di frole cresciute sui monti...per dirvi al mattino prima delle sette
la solita canzone, ch’egli ha per voi il più rispettoso affetto che colla grande vostra mente vi possiate immaginare”. (Lettera di Saverio Vegezzi a Terenzio Mamiani, Torino 24 (s.d.), in Lettere a
T. Mamiani, n. 13525). F. Petruccelli Della Gattina nel suo I moribondi di Palazzo Carignano,
Milano, Istit. Edit. Italiano, s. d., p.205, ricorda come il Vegezzi “deplora senza potersi consolare, come Calipso della partenza di Ulisse, la partenza per Atene [quale ministro plenipotenziario
d’Italia; cfr. più avanti, cap. XI] del suo amico vicino il conte Mamiani”. Quanto a Cassinis,
24
Petruccelli Della Gattina (ibidem, p.95) così lo descrive: “Il più grazioso fra i ministri è il signor
Cassinis. Quest’uomo amabile, avvocato distinto, parlatore fluente, ha sempre il sorriso sulle labbra. Egli è il solo ministro che non si impazienti mai delle interpellanze e delle interruzioni. Egli
sorride sempre, e non manca mai di risorse e di cortesia. Brofferio e Mellana gli fanno passare
dei tristi quarti d’ora: nondimeno egli non perde mai il buon umore, la facilità di rispondere ed
il sangue freddo”.
7
La istituzione della cattedra di filosofia della storia, presentata dal ministro Lanza al
Parlamento, fu approvata alla Camera il 3 aprile 1857. Vedi Atti del Parlamento Subalpino,
sess.1857, dal 7 gennaio al 16 luglio 1857, Discussioni, IV/2, Roma, Eredi Botta, 1873, pp.13561357. In realtà, però, dietro la volontà del ministro, peraltro fin da allora sincero estimatore del
Mamiani, vi era la volontà politica del Cavour.
8
Così la interpretò l’Azeglio nel 1849, negandogli di conseguenza la naturalità sarda.
9
Nel Mamiani, dunque, ben più che nel Cavour – che poteva anche sembrare scettico e pragmatico, come affermava il Pallavicino – era presente la convinzione, per dirla in termini oggi di
moda, che un autentico risorgimento nazionale non potesse fondarsi che su grandi miti fondatori, sentiti come suggestivi eventi popolari capaci di creare in maniera stabile nell’immaginario
collettivo una coscienza unitaria di valori, di ricordi e di sogni fondati sulla comunanza di ideali, di gesta e di eroi nazionali. Una idea, questa, che nulla aveva a che fare in Mamiani con politiche di stampo nazionalistico o di tipo egemonico e colonialistico – da lui sempre sentite come
contrarie agli ideali risorgimentali –, ma solo con la creazione nell’animo degli italiani di un legittimo orgoglio di appartenere ad una nazione a nessuno seconda per gloria e per dignità: una
dimensione, questa, che, mentre doveva togliere ogni forma di eccessiva esterofilia ed ogni complesso di inferiorità nei confronti delle altre nazioni, appariva a Mamiani necessaria anche al fine
di garantirne al paese il dovuto rispetto a livello internazionale. Fu questa una convinzione che
egli si sforzò di inculcare sempre nelle sue opere, da quelle più giovanili a quelle tarde. Scriveva
– ad esempio – già nel 1839 nel corso di quello che fu il primo vero e proprio manifesto politico
moderato liberal-democratico del nostro Risorgimento:
“Siamo in questa ferma credenza, l’Italia non poter risorgere mai davvero, se non fidando nel
proprio valore e cimentandosi animosamente con lo straniero. Le macchie antiche e recenti che
oscurano l’onor nostro, non potranno cancellarsi altramente mai, che tra le armi e col sangue: tra
le armi ritempreremo l’animo, alzeremo l’ingegno, purgheremo gli affetti e i costumi. Il genio di
Dante e l’ardire di Masaniello, i prodigj della lega lombarda e il disperato resistere delle Calabrie,
lo splendore di Roma, la libertà di Firenze, le armate Veneziane, i tesori Genovesi, ogni gloria
passata, ogni grandezza caduta lascerà trovare di sé fra le armi e le battaglie alcuna semenza vivace e feconda, e tutte largamente innaffiate dal nostro sangue rifioriranno. Base di ogni prosperità
civile è il sentimento del proprio valore e della propria dignità: vita delle nazioni è la gloria, e salda
difesa loro è la potenza che spiegano e la suggezione che incutono” (T. MAMIANI, Nostro parere intorno alle cose italiane, in ID., Scritti politici di T. Mamiani, Firenze, F. Le Monnier, 1853, p. 13. Ma
si vedano anche le pp. 40-46. Il corsivo è nostro).
Ormai vecchio, ripeteva gli stessi concetti – per riferire un esempio quasi paradigmatico – nel
1880, quando discutendo il Senato su una prima previsione di spesa del Ministero degli Affari
Esteri, credette opportuno criticare il comportamento dei plenipotenziari italiani al Congresso di
Berlino del 1878, prendendo le distanze da quella che Benedetto Cairoli, amico personale del
Mamiani ed allora Presidente del Consiglio, chiamò con orgoglio “ la politica delle mani nette”:
una politica, cioè, decisamente contraria a sporcarsi le mani con la logica della potenza militare
aggressiva e con le spartizioni territoriali e favorevole invece, e conseguentemente, al disimpegno
internazionale. Mamiani trovò tale scelta governativa concettualmente insoddisfacente, denunciando la cosa in Senato in termini molto cortesi ma molto chiari come poco onorevole per
l’Italia (T. MAMIANI, Discorso al Senato, 19 aprile 1880, in Atti Parlamentari della Camera dei
Senatori, sess. 1880, Discussioni, Roma, Tip. Forzani e Com. 1880, pp. 298-302). In una minuta
del discorso – in realtà, più un appunto per la memoria che una vera stesura – si possono però
leggere due varianti assai più incisive di quanto non sia stato l’effettivo discorso al Senato e dun-
25
que anche più indicative del suo concetto di dignità dei popoli. Scriveva, dunque:
“Il Governo si è molto vantato d’essere noi usciti dal Congresso con le mani nette e senza impegni speciali con veruna potenza. Ma l’essere netti di usurpazione è buono, netti di autorità e forza
morale è deplorevole per una nazione. Del pari l’essere slegato da ogni impegno può valere un
isolamento e sembrami d’avere che l’Italia non pure non abbia alleati, ma perda gli amici piuttosto che guadagnarli”.
E volendo essere ancor più incisivo, riscriveva subito il concetto in quest’altra forma:
“Quanto all’essere netti di usurpazione è ottima cosa. Ma v’ha una usurpazione sempre legittima
e grande per i popoli ed è quella dell’autorità e della forza. E noi potevamo esercitar l’una e l’altra al Congresso” (Carte di T. Mamiani, busta 62, II, n. 2).
Ma che cosa doveva fare in concreto l’Italia? Rispondeva:
“L’Italia doveva fare a Berlino come la sesta grande potenza d’Europa come rappresentante dei
grandi principj di libertà e di liberalità internazionale come esenti dallo spirito di conquista. Ma
ella se non poteva prevalere a Berlino col voto suo, sempre doveva protestare ne’ protocolli per
la integrità dei principj” (ibidem, n. 4), ossia per la chiara opposizione ad ogni spartizione dei
popoli come se fossero stati merce di scambio e difesa degli emigrati italiani all’estero, sul modello di quanto faceva allora l’Inghilterra, la quale “voleva che ogni suo suddito potesse in qualunque parte del mondo ripetere con lo stesso orgoglio e gli stessi effetti l’antico motto civis romanus sum” (ibidem).
10
Nei dibattiti alla Camera Giorgio Pallavicino era più spesso critico che solidale con l’area
cavouriana, seguace come era di un ideale risorgimentale imperniato sulla rivoluzione popolare,
diretta e aperta contro l’Austria e i principi italiani satelliti, pur se in nome di Vittorio Emanuele
e in collaborazione (autonoma) con l’esercito regio. Su tale argomento cfr. cap.V del presente
saggio.
11 Non abbiamo nelle carte di T. Mamiani alcun documento da cui traspaiano attriti o animosità
fra essi. Mamiani ricorderà sempre Cavour, in vita e in morte, come il più grande fra gli statisti
dell’intera Europa e come suo amico; e Cavour, da parte sua, lo nomina esplicitamente fra la cerchia dei suoi “amici” (vedi a tal proposito il cap. XI, p. 417 del presente saggio). Unico momento di contrasto, non voluto certamente dal Mamiani e peraltro più amplificato dalla difficoltà
ministeriale del momento che effettivamente reale, fu la diversa impostazione della linea di difesa dell’azione del governo a proposito della cessione di Nizza alla Francia, nella famosa tornata
del 12 aprile 1860 alla Camera (per tale vicenda, vedi cap. XII, p. 465 del presente saggio).
12 F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA,
op. cit., cit., pp.18-19.
13 Il caso più noto fu forse quello del comportamento dal conte pesarese tenuto nei confronti dell’alleanza franco-piemontese del 1858. Ricorda a tal proposito il Massari il 16 ottobre 1858:
“Dopo le 3 viene a trovarmi il conte Mamiani, il quale considera l’avviamento politico attuale del
governo piemontese come assai pericoloso. Il punto d’appoggio [del Piemonte] è la Francia, ed
il Mamiani non ha fiducia in Napoleone III”; anzi, a dirla più esplicita, “ha in uggia i francesi”
(G. MASSARI, Diario dalle cento voci (1858-1860), a cura di Emilia Morelli, Bologna, Cappelli ed.,
1959, pp.48 e 336: comunque per un maggior approfondimento del caso, vedi più avanti, capp.
IV e VII).
14
Vedi, ad esempio, gli emendamenti proposti in occasione dei dibattiti sul progetto di legge per
la riforma scolastica (1857) e in particolare su quello relativo alla definizione di scuola pubblica
del 22 gennaio 1857. In tale occasione egli si trovò d’accordo contro Giovanni Lanza, allora
ministro della Pubblica Istruzione nel governo Cavour, con Buffa e addirittura con Mellana e
Valerio (vedi Atti del Parlamento Subalpino, sess.1857, dal 7 gennaio al 16 luglio 1857,
Discussioni, III, Roma, Tip. Eredi Botta, 1873, pp.166-171). Vedi inoltre anche il discorso parlamentare dal Mamiani tenuto il 13 aprile 1858, in occasione del dibattito sul progetto di legge
relativo alle norme penali per i reati di cospirazione contro la vita dei sovrani stranieri. In esso,
nella volontà di cercare punti di incontro con le sinistre che avversavano fortemente il progetto,
26
egli, che pur era schierato a favore del ministero, dichiarò apertamente che era necessario studiare opportuni miglioramenti al progetto, nella convinzione – diceva – che “nessuno forse, o
assai pochi, in quest’Assemblea, mi perdoni il signor ministro guardasigilli, accettano la legge tal
quale ci viene da lui profferta” (Atti del Parlamento Subalpino, sess.1857-1858. dal 14 dicembre
al 14 luglio 1858, Discussioni, IV, Roma, Tip. Eredi Botta, 1874, p.1171).
15
Un noto esempio di tale autonomia ebbe a verificarsi il 9 febbraio 1859 in occasione della
discussione parlamentare su un progetto di legge governativo tendente ad ottenere l’autorizzazione del Parlamento per un prestito pubblico di 50 milioni di lire. Alle destre del conte Solaro
Della Margarita non sfuggiva che esso, nella sua sostanza volutamente sottaciuta, mirava in realtà
alla preparazione definitiva della guerra contro l’Austria, ormai nell’aria: una guerra, che le
destre non volevano e che comunque anche il governo doveva dare l’impressione di non cercare
né di volere. Mamiani invece fece allora chiaramente intendere nel suo intervento alla Camera
che il progetto faceva presentire finalmente vicino “le commincement de la fin” del processo
risorgimentale: il che non poteva non suonare imprevidente agli orecchi del Massari, fedele
seguace dei silenzi diplomatici del Cavour, al quale infatti non mancò di far notare la eccessiva
disinvoltura – almeno a suo parere – del linguaggio del conte pesarese: “Mamiani farebbe meglio
a tacere. Lo credo anch’io, replica il conte, ma come fare? Non posso impedirglielo: è una vera
prima donna” (G. MASSARI, op. cit., p. 135: una risposta che soddisfaceva il fedele Massari, ma
che lasciava al contempo piena libertà di azione al Mamiani. Per l’approfondimento del caso,
vedi capitolo IX, nota n. 21). Qui sarà sufficiente precisare che la risposta del Cavour non deve
meravigliare. Quella infatti non fu, come vedremo, né la prima né l’ultima volta che il Primo
Ministro si comportò così col Massari. In modo ancor più sintomatico, infatti, una cosa simile
avvenne a proposito dei suoi rapporti con il La Farina e con la Società Nazionale Italiana.
Massari, che vedeva di cattivo occhio tutto ciò che proveniva dalla sinistra, tendeva a screditare
l’operato del La Farina, convinto in ciò di seguire l’opinione autentica del Primo Ministro.
Questi, che invece aveva avuto – di nascosto e ormai da ben due anni – assai frequenti rapporti
con il La Farina, nulla fece per disilludere il Massari anche dietro sua esplicita richiesta (per tale
istruttiva vicenda, vedi cap. IV del presente saggio; vedi anche G. MASSARI, op. cit., 25 agosto
1858, p.16).
16
Minuta di Lettera di T. Mamiani a C. Cavour, s.d. (Torino, 20 gennaio, 1860), in Pluteo Mam.,
busta 8, cart. 5, n. 5. Il corsivo è nostro.
17 Scriveva infatti in una importante lettera a un per noi ignoto autore di “un opuscolo bellissimo… e gremito di concetti e sentenze gravissime e sostanziose” dopo le delusioni del 184849 : “La patria nostra comune non à ancora una viva e distinta coscienza di sé medesima; e ciò
moltiplica non solo gli errori ma la discrepanza delle opinioni; e lo sforzo di molti ingegni e di
molte virtù civili se ne va perduto, operando pressoché alla cieca e fuor del buono e vero indirizzo” (Lettera di T. Mamiani a Amico Carissimo, s.l, e s.d., in Carte di T. Mamiani, busta 4, Ia,
n. 33, scritta senza dubbio sul finire del 1855 da Genova, dove allora Mamiani abitava: in essa
infatti egli si sofferma diffusamente sulle speranze suscitate fra i liberali italiani dalla guerra di
Crimea e ricorda con particolare soddisfazione la vittoria conseguita il 16 agosto 1855 nella
battaglia della Cernaia (16 agosto 1855). Di qui la datazione approssimativa da noi attribuita
alla lettera).
18 A. BROFFERIO,
19 L. C. FARINI,
Discorso 14 aprile 1858, in Atti del Parlamento Subalpino cit., p.1203.
Discorso 14 aprile 1858, in ibidem, p.1188.
20
La espressione “uomo eminente” riferita al Mamiani e completata poi con un’altra espressione: “uomo fedele a’ suoi convincimenti, perseverante nell’operare il bene dell’Italia, nel dare
nuove e mirabili prove d’ingegno, d’eloquenza e di carità di patria”, è di Giuseppe Saredo e si
trova nel suo opuscolo intitolato Terenzio Mamiani, edito a Torino dalla Unione TipograficoEditrice, pp. 4 e 47, proprio nel 1860, all’epoca cioè dei fatti che tendiamo a ricostruire. Si trat-
27
ta di un opuscolo molto snello, pubblicato nella collana “I contemporanei d’Italia–Galleria
nazionale del secolo XIX” dedicata “agli uomini più egregii del nostro paese… che, fra le persecuzioni, le miserie e gli sconforti del carcere e dell’esiglio, hanno tenuta accesa con mano ferma
la fiaccola di quella fede che sola ha originato le stupende imprese alle quali assistiamo” (ibidem,
p. 4). L’opuscolo, pur se di taglio divulgativo, è per noi interessante in quanto documenta da
parte di un contemporaneo “l’universale giudizio”, che del conte pesarese si aveva allora in
Piemonte e in Italia. Un giudizio, tanto più attendibile quanto più l’autore era consapevole,
dovendo parlare di un vivente, del rischio di scivolare in due possibili errori storiografici: “o lodi
soverchiamente, e la lode stessa perde ogni valore, come quella che rasenta i confini dell’adulazione; o critichi con troppa acerbità, e invece di un ritratto politico, cadi nel libello. E più difficile è il compito quando l’uomo di cui si scrive è potente; elogi e critiche paiono egualmente
meritevoli di diffidenza” (ibidem, p. 84). Pericoli, che tuttavia l’autore era sicuro di evitare, nei
confronti del Mamiani, quanto meno per una solida ragione, ossia “che era cosa agevolissima
riverire, senza incorrere taccia di piaggiatore, l’ingegno eminente del Mamiani, bastando a ciò il
riportare semplicemente il giudizio universale” (ibidem).
21
L’articolo di Romano Ugolini, caratterizzato da un forte taglio critico e decostruttivo nei confronti del conte pesarese, si intitola Mamiani e Cavour nel decennio di preparazione ed è reperibile in “Studia Oliveriana”, N.S., V, Pesaro, 1985, pp.55-95. A suo avviso, infatti, se Mamiani
ebbe “una singolare lungimiranza e rara lucidità del pensiero politico generale in ambito nazionale e internazionale”, mostrò invece “una visione del contingente priva di grande flessibilità e
di una immediata intuizione del portato di avvenimenti in rapida evoluzione” (ibidem, p. 55).
L’uomo, del resto, risultava caratterizzato, sempre secondo l’Ugolini, da un “forte egocentrismo”, che gli procurò “una generale antipatia – le eccezioni sono rare –, (pur se) nessuno, né in
campo politico o intellettuale, negava una profonda intelligenza” (ibidem): una antipatia, alla
quale non fece eccezione neppure il Cavour, cui “l’iniziale e sincera ammirazione e stima si tramutarono in delusione e poi in fastidio” (ibidem, p. 56).
Più in particolare, sempre secondo l’Ugolini, Mamiani fu giustamente ritenuto inaffidabile, vanaglorioso e trasformista dall’Azeglio, che proprio per ciò lo volle punire (1849), negandogli la
nazionalità sarda già concessagli dal sovrano e confinandolo di fatto nell’isolamento politico e
nella disistima del demi-monde torinese fino all’intervento del Cavour a suo favore nel 1855 (tale
vicenda è già stata analizzata e storicamente riportata nei suoi giusti confini in A. BRANCATI-G.
BENELLI, op. cit., pp. 253-271, alla quale rimandiamo). Favorito, dunque, dal Cavour, che fu “l’unico suo estimatore subalpino” (R. UGOLINI, Mamiani e Cavour, cit., p. 77) e che lo destinò ad
essere portavoce della maggioranza in Parlamento per la politica estera e corrispondente del
giornale inglese Daily News a sostegno della politica governativa, Mamiani risultò poi una totale
delusione. Operò male nel Daily News “cercando vanamente una sua collocazione europea in
mezzo a tanta profusione di carta stampata” (ibidem, p. 78) e di prestigiose firme italiane, agendo per di più in nome di una “presunta strategia cavouriana” (ibidem, p. 79) che in realtà era ben
altra, mentre Castelli – l’uomo del Primo Ministro che teneva allora le relazioni con il gruppo –
“soffriva le pene dell’inferno per mantenerlo nelle reali coordinate della politica
governativa”(ibidem); politica, che egli, in realtà, poco capiva e poco seguiva. Mamiani infatti si
mise in urto con Giorgio Pallavicino e con la sua Società Nazionale, “proprio mentre Cavour ne
accettava le avances e incaricava Castelli di allacciare e stringere i rapporti” (ibidem, p. 82), avendo Mamiani “convincimenti del tutto ostili” al programma del Pallavicino (ibidem,p. 85); salvo
poi incaricare – inspiegabilmente, his fretus, direbbe ironicamente Manzoni – lo stesso Mamiani
“a tenere i rapporti con la Società Nazionale” dopo Plombières, impegnandosi addirittura ad
indottrinarlo personalmente sulla sua nuova politica (ibidem, p. 84).
Inoltre, in aperto contrasto con la politica cavouriana, Mamiani – sempre a parere dell’Ugolini –
fu un convinto fautore delle aspirazioni di Luciano Murat a Napoli, manifestando in tal modo
una così grande “confusione politica che cominciò per la prima volta a preoccupare Cavour”(ibidem, p. 85), il quale corse perciò ai ripari. “Gli tolse il ruolo centrale occupato nei rapporti con
lo Stato Pontificio”, affidandolo al più fedele e fidato Minghetti; ridimensionò anche il suo rapporto col Daily News, sostituendolo gradualmente per non suscitare offesa con Carlo Arrivabene
(ibidem, pp. 85-86) e “ripiegò su incarichi di prestigio che non coinvolgessero la linea, pubblica
28
e segreta, del governo” (ibidem, p. 86: Mamiani però continuava ad essere sempre il suo portavoce in Parlamento! Difficile coincidenza!). Ma con risultati ancora peggiori, come dimostra il
discorso tenuto il 9 febbraio 1859 dal Mamiani alla Camera (ibidem)
Insomma, “Mamiani risultava del tutto incontrollabile” (ibidem, p. 87) e pertanto Cavour in un
primo momento pensò di limitare il compito del pesarese nello Stato Pontificio alla sola Roma,
ma poi – dopo il famoso discorso del 9 febbraio – dovette ulteriormente rivedere la propria opinione. Egli infatti – argomenta l’Ugolini – aveva pensato di poter rendere attuabili i patti di
Plombières con una tattica precisa: tenere buono Pio IX offrendogli la garanzia di mantenere la
sua sovranità su Roma “attraverso la protezione di un suo ex ministro moderato [il Mamiani] che
non aveva giurato fedeltà alla repubblica romana e che era gradito alla Gran Bretagna”; ebbene,
tale idea dopo il 9 febbraio “era scomparsa in una mattinata… Bisognava mettere da parte l’inaffidabile Mamiani e sostituirlo nella delicata funzione di controllare Roma: forse per una concatenazione logica… pensò a Massimo d’Azeglio”(ibidem, p. 89).
Vennero infine la seconda guerra di indipendenza, l’armistizio di Villafranca e le dimissioni di
Cavour dalla presidenza del Consiglio e Mamiani, “privo del suo patrono, ricadde nell’isolamento politico. Ritornerà sulla scena ai primi del 1860 con Cavour” (ibidem, p. 90), che anzi lo
nominò – di nuovo, diciamo noi, his fretus, inspiegabilmente! – ministro della Pubblica Istruzione. Scrive l’Ugolini: “Si trattava in verità per Cavour quasi di un atto dovuto verso un uomo che,
a parte i difetti di personalità, gli era stato fedele sempre e in maniera particolare nelle drammatiche vicende politiche intercorse in Piemonte tra il dicembre 1859 e il gennaio 1860” (ibidem),
ma – si affretta a precisare l’Ugolini – Mamiani non tarderà a deludere nuovamente il Primo
ministro. Già fin dagli inizi, infatti, la sua vita al ministero fu molto dura: nessuno voleva collaborare con “quel ministro” (Mamiani), tanto che Cavour, irritato, pensò addirittura di sopprimere lo stesso dicastero della Pubblica Istruzione (ibidem, p. 91). E così “la questione Mamiani
si trasformò in modo preoccupante in un problema che investiva lo stesso prestigio del governo:
da impopolare il ministro divenne infatti addirittura oggetto degli scherni e delle boutades dei
deputati subalpini (ibidem). Ciò avvenne soprattutto quando in un altro discorso parlamentare
tenuto alla Camera il 12 aprile 1860, Mamiani paragonò la Francia “a una terribile amazzone che
quand’anche ti sorride… e t’invita soavemente alle nozze, ti mette non poca paura di ricusare il
suo talamo”. Cavour ne fu irritatissimo, tanto che gli voltò le spalle in piena assemblea, anche se,
alla fin fine, “preferiva certo avere un ministro ridicolizzato, che una questione politica su un
ministro dissenziente” (ibidem, p. 92). E così se lo tenne di nuovo al ministero!
Si sa poi come i progetti di legge sulla riforma della Casati allora elaborati dal Mamiani non
incontrarono il favore del Parlamento e su ciò l’Ugolini, dopo aver lasciato intendere che la
ragione del pratico fallimento fu l’atteggiamento di ostilità o di scarsa stima della Camera nei suoi
confronti (ibidem), spende una parola in favore del conte pesarese, affermando che il progetto
meritava probabilmente, ieri come oggi, maggiore considerazione. Subito dopo, tuttavia, si
affretta ad aggiungere: “Non potendo legiferare, Mamiani si scatenò in tutto ciò che era in grado
di fare senza passare attraverso il Parlamento, promulgando regolamenti per le scuole di ogni
ordine e grado, per i concorsi, i programmi delle scuole elementari e gli esami finali dei diversi
cicli scolastici” (ibidem, p. 93). Una vera nemesi storica, dunque, per il povero Piemonte allora
in procinto di trasformarsi nella nuova Italia, che “sollevò proteste di ogni tipo” e addirittura la
richiesta di Ruggero Bonghi al Cavour di destituire il Mamiani (ibidem). Ultimo rilievo
dell’Ugolini al proposito: “In ottobre (1860) Mamiani fu addirittura candidato ad essere luogotenente del re a Napoli, tanto era il desiderio di farlo uscire dal ministero. Ma Cavour non era il
tipo da sacrificare gli interessi nazionali agli odi di parte!” (ibidem) e in qualche modo salvò allora il suo ministro; ma evidentemente – conclude Ugolini –, dati i presupposti, ormai “il problema Mamiani esisteva e Cavour in tanti anni non era riuscito a venirne a capo. Anche nella seconda metà del 1860 dovette escogitare una soluzione provvisoria per far fronte ad ostilità e impopolarità che non aveva previsto di portata così generale” (ibidem). “La pazienza di Cavour era
giunta al limite estremo… La sorte del Mamiani era segnata”. Fu così che il 22 marzo 1861, dopo
le nuove elezioni generali e la conseguente opportunità politica di rinnovare i ministri del regno,
Cavour lo sostituì finalmente con il De Sanctis e si affrettò ad “ inviarlo ambasciatore in Grecia
per farlo dimenticare a ministri, deputati e uomini politici… Egli stesso [del resto] non si peritava di unirsi ai colleghi parlamentari per deriderlo” (ibidem, p. 95).
29
Questa – a parere dell’Ugolini – la carriera politica e il contributo alla causa nazionale del conte
Terenzio Mamiani Della Rovere da Pesaro negli anni del decennio cavouriano!
Tale negativo giudizio sul Mamiani (ma anche sul Minghetti) sarà peraltro ribadito in tempi più
recenti dall’Ugolini nel suo saggio intitolato Filippo Gualtiero da Gregorio XVI a Cavour, in N.
NADA-V. PACIFICI-R. UGOLINI, Filippo Antonio Gualtiero, Orvieto, Ente Cassa di Risparmio di
Orvieto, 1999, pp. 37-82. In tale saggio infatti l’Ugolini, rifacendosi proprio alla sua precedente
ricerca efffettuata sul conte pesarese e apparsa poi e pubblicata nel 1885 nell’articolo da noi citato in “Studia Oliveriana” di Pesaro, ne ripete sinteticaòente i risultati, definendo una “delusione” l’attività offerta al Cavour dal Mamiani, il quale infatti si dimostrò “impari al compito affidatogli” (R. UGOLINI, op. cit., p. 61 e successiva nota n. 90).
22 Era questa, ad esempio – per tornare alla vicenda del personaggio da inviare in Grecia per
oblio di amici e nemici – l’opinione certamente autorevole del La Farina, l’ultimo grande colonnello del Cavour e uomo di primo piano nelle vicende belliche del 1859-1860, il quale, scrivendo al Comitato Patriotico di Atene (Torino, s.d., 1861, in Epistolario di G. La Farina, a cura di A.
Franchi, II, Milano, Ed. Treves e C., p. 589) – centro allora del “risorgimento” greco contro la
dominazione turca nel Mediterraneo – così annunciava l’arrivo del conte pesarese in Grecia: “Un
uomo ragguardevolissimo, l’illustre Mamiani, verrà tra giorni ambasciatore del Regno d’Italia in
Atene: egli oltre d’essere uno de’ nostri più insigni filosofi, è un egregio patriota”. Ma – come
vedremo – non era questa che una sola fra le moltissime dichiarazioni di stima e di affetto che da
ogni parte gli si rivolgevano.
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CAPITOLO I
Genova “città insigne ed ospitale” (1849-1856)
Nell’agosto 1849 Terenzio Mamiani, espulso da Roma per la sua attività politica liberal-nazionale che lo aveva portato due volte nel corso del
1848 ad assumere responsabilità ministeriali nei governi costituzionali di
Pio IX, giungeva a Genova, dove Massimo d’Azeglio, allora Primo
Ministro del governo sardo, gli aveva concesso un permesso di residenza su preghiera di comuni amici. Nonostante l’accoglienza calorosa della
città, erano quelli tempi tristi per lui, reduce come era da quello che egli
definiva “secondo naufragio della mia fortuna”1 e che, come quello dell’ormai lontano 1831, lo riportava per la seconda volta sulla via dell’esilio, sommerso non solo dalle critiche dei nemici e degli amici2, ma anche
dalla consapevolezza di un altro personale fallimento politico. Pur se con
minor intensità, lo angustiava allora anche il “modo insolente” con il
quale il governo pontificio lo aveva espulso da Roma, accordandogli l’esiguo tempo di 48 ore per raccogliere in tutta fretta le proprie cose e
allontanarsi dai territori dello Stato della Chiesa, quasi fosse un malfattore. Come se non bastasse, in quell’occasione aveva dovuto subire ai
confini dello Stato Pontificio anche un doloroso furto di importanti
carte e di non pochi oggetti personali da parte della stessa polizia: un
furto subito denunciato, ma sul quale “per ordini superiori” nessuno
poté indagare e procedere3. La cosa gli dispiacque, naturalmente, ma –
almeno così egli la interpretò allora e negli anni successivi – tutto aveva
una logica, che superava il suo personale rammarico. Sullo sfondo dell’intera vicenda emergeva infatti il ritorno dell’autocratismo papale e dell’impolitica Roma, che egli aveva inutilmente cercato di riformare in
senso liberale fra il 1848 e il 1849, e con il ritorno all’antico veniva anche
segnata la fine di quel “sentire politico moderno”, la cui promozione egli
aveva pensato che fosse il maggior merito della sua attività ministeriale.
Tornato a Genova con tali pensieri, egli non poteva dunque liberarsi
dalla consapevolezza del sopravvenuto totale fallimento delle speranze
suscitate in lui dall’ormai lontano piononismo, come scriveva poco
tempo dopo all’amico Marco Minghetti:
31
La politica, che è quasi un’arte divinatoria, osa radamente o non mai di affermare
in modo assoluto. Eppure io stimo che non si periti a dire che coteste provincie
[pontificie] sono dannate a lunga ed irreparabile dissoluzione civile, e chi vi spera
un poco di bene e di libertà sogna ad occhi veggenti e spalancati4.
E aggiungeva, riecheggiando il Foscolo i cui versi tanto ammirava, nel
vedere accomunata nella rovina dello Stato anche la propria fine, quella
del cittadino pontificio:
Quanto a me io non spero più d’imprimere orma in cotesta infelicissima parte
d’Italia, dove è grande sventura il nascere, e dove non sarebbe quieta e onorata
nemmeno la tomba5.
Non era tuttavia letteratura, quanto piuttosto un doloroso consuntivo di un destino avverso, come aveva scritto qualche tempo prima al
Gioberti, allora Presidente del Consiglio del Piemonte:
Triste arrêt du sort! tandis que je pouvais faire avec vous quelque chose de vraiment avantageux à l’Italie, les circonstances m’en empêchent6.
In effetti il 1849 fu l’annus horribilis della vita del Mamiani, anche
perché sul finire di esso era destinato a subire una nuova insolenza politica. Per un banale quanto grave e doloroso fraintendimento, Massimo
d’Azeglio quale Primo Ministro del Regno Sardo gli negava la concessione della naturalità, già peraltro concessagli dal sovrano, impedendogli così anche di sedere quale deputato nel Parlamento Subalpino torinese, al quale gli elettori di Genova e di Pinerolo lo avevano invece regolarmente eletto7.
In quei primi difficili tempi del suo “secondo esilio” il conte pesarese non aveva dunque molti motivi per stare allegro, se non fosse stato per
la calda e premurosa accoglienza dei genovesi, che si mostrarono invece
sinceramente onorati della sua permanenza nella loro città e che si servirono volentieri di lui nelle loro occorrenze; e se non fosse stato per la
propria passione allo studio, che rappresentò sempre insieme alla politica l’altro aspetto fondamentale della sua esistenza8. Fu così che, riacquistata a poco a poco la serenità interiore e non essendogli permesso un
diretto coinvolgimento nell’attività politica, egli decise di tornare allo
studio, nella convinzione che fossero allora più importanti il pensiero e
la meditazione delle scienze civili che non la stessa azione: il fallimento
universale degli ideali del 1848 aveva infatti dimostrato, a suo parere,
32
che ancora troppo immatura era la coscienza nazionale e liberale delle
masse, colte ed incolte che fossero, per raggiungere un vero risorgimento
nazionale. Occorreva dunque tornare alla educazione civile delle coscienze su tutti i fronti e stimolare ulteriormente con ogni mezzo la formazione di un comune senso di appartenenza ad una stessa nazione, quella “italiana”, creando nei fatti quella stretta unione di sentimenti e di intenti,
che avrebbe portato poi quasi per necessità all’unione politica.
Proprio a tal fine, riprendendo una vecchia idea già abbozzata nel
1838 in Francia9, egli pensò allora di dar vita in Genova ad una particolare Accademia di Filosofia Italica destinata a mettere in contatto i
migliori studiosi italiani di tutta la penisola, a suscitare studi civili e
discussioni sui più svariati temi speculativi della cultura e a pubblicare
gli atti dei convegni e quegli stessi studi particolari, che, discussi
nell’Accademia, fossero apparsi meritevoli di speciale considerazione.
Aperta a tutte le regioni della penisola mediante la possibile creazione di
comitati locali, ampiamente autonomi pur se collegati a quello centrale
di Genova10, essa doveva rappresentare – nelle intenzioni del Mamiani –
il “risorgimento della cultura italiana”, che l’Accademia avrebbe dovuto
far emergere nella sua variegata pluralità di voci e di pensiero, ma anche
nella sua specificità nazionale, facendole superare l’isolamento e l’oscurità in cui, nella frammentazione politica della penisola, versavano allora
gli studiosi ben di rado capaci di superare i confini del loro piccolo
Stato. Era indubbiamente una impresa difficile: l’esperienza provava che
le Accademie come facilmente potevano sorgere così altrettanto facilmente potevano decadere, se non erano ben sorrette dall’interessamento continuativo degli studiosi: un pericolo, questo, particolarmente prevedibile per la nuova istituzione – scriveva Rosmini al Massari e riferiva
Massari al Mamiani11 – la quale, impostata come era su una prospettiva
scopertamente “italiana”, ben difficilmente avrebbe potuto diffondersi
nel resto della penisola austriaca, pontificia e borbonica. Rosmini, interessato più ad una rigorosità individuale degli studi che ad una loro
riforma in senso collettivo, declinava perciò gentilmente l’invito di fare
parte della nuova Accademia, anche perché poco avvertiva in realtà l’urgenza del problema avanzato dal conte pesarese. La necessità di una
rinascita degli studi speculativi nella penisola era invece concretamente
sentita da parte di molti esponenti della cultura italiana del tempo, che
ne lamentavano la debolezza 12 ed era per tanti versi ancor più viva nell’ambito del circolo degli esiliati politici, che formavano allora il nucleo
più attivo e più avanzato della cultura piemontese. Così la pensava, ad
esempio, Pasquale Stanislao Mancini, fuoriuscito napoletano a Torino,
33
che si mostrò infatti subito entusiasta sostenitore dell’idea della
Accademia Italica e che addirittura aveva già egli stesso pensato proprio
in quel tempo di dar vita insieme ad altri illustri studiosi della capitale ad
una associazione similare, a modo della Società dei Quaranta di Modena
e di altri istituti stranieri, fondati su motivazioni sostanzialmente coincidenti13. Lo scriveva in una lettera al Mamiani, che lo aveva contattato per
chiedere la sua collaborazione al proprio istituto:
Mi ingegnerò d’indurre gli amici miei a rimettersene interamente al senno vostro;
sol che l’associazione si costituisca, per meglio far sentire ed estimare l’Uffizio suo,
in Accademia (o meglio Società, che forse sarebbe denominazione più alla moda e
meno screditata) Italiana di filosofia e di Scienza Civile; e che si cerchi di farvi rappresentare ciascuna provincia italiana de’ suoi migliori, perché almeno la scienza
visibilmente mantenga e fortifichi quei legami e quegli affetti che son destinati a non
far perire un sentimento nazionale, con tanta difficoltà finalmente suscitato e fatto
signore delle anime… Ciò fatto io vi manderei (ciò almeno io penso) una dichiarazione sottoscritta da noi tutti, con la quale le faremmo manifesto, che “desiderasi di
convincere col nostro esempio gl’italiani del precipuo debito, che nelle presenti
condizioni della loro patria ad essi assiste, di unificare e ridurre a concordia le opinioni e le forze, anziché disperderle e dividere. Abbiamo rinunziato al disegno per
noi maturato di fondare in Torino un Istituto di Scienze Morali e Politiche per
l’Italia, facendo adesione, dietro vostro invito, all’Accademia Italica di Filosofia e di
Scienza Civile, un concetto quasi niente dissimile ideato in Genova14.
Il Mancini e i suoi amici sentivano del resto tanto più urgente la fondazione della nuova istituzione, in quanto nello stesso tempo molti professori della Università di Torino, specialmente della facoltà di diritto, si
erano apertamente dichiarati ostili agli studi speculativi della disciplina,
giudicati inutili al sapere se non addirittura corrosivi delle istituzioni
civili stesse15: motivi, questi, che trovavano nell’onorevole Matteo
Pescatore, giurista e filosofo, il più convinto consenso, tanto che “dall’alto della sua cattedra e nella commissione per le riforme universitarie
egli sosteneva pro aris et focis doversi la cattedra di filosofia del diritto
abolire nella Università!”16.
Criticata da alcuni quale espressione di una cultura superata – sotto
tale aspetto il suggerimento del Mancini e degli amici torinesi di sostituire la denominazione sostanzialmente datata ed anche screditata di
“Accademia” con quella meno pretenziosa di “Istituto” o “Società” non
era sbagliato17 –, la nuova istituzione, presa nel senso genuino attribuitole dal Mamiani, aveva un carattere certamente innovativo e non aveva
34
pertanto nulla a che fare con le classiche accademie del Sei-Settecento,
intese quali circoli elitari di cultura generalmente umanistica e tanto erudita quanto disinteressata agli studi civili, e per ciò stesso – sosteneva lo
stesso Mamiani – a carattere sostanzialmente evasivo; al contrario l’Accademia da lui ideata, aperta come era a tutti18 e a tutte le discipline19,
intendeva configurarsi come un istituto di scienze morali e civili fondate
su una solida rinascita della filosofia e coltivate nell’intera penisola. Essa
intendeva dunque muoversi con prospettive espressamente politiche ed
assumere apertamente un carattere nazionale “di amore di patria e di
sapienza civile”20: e come tale venne a suo tempo anche molto apprezzata da coloro che ben ne compresero lo scopo e l’intenzione21.
Come però poteva essere anche prevedibile, l’attività dell’Accademia,
dopo due anni di entusiastica partecipazione, cominciò ad avvertire il
contraccolpo dell’usura e già nel 1855 sopravviveva ormai piuttosto stancamente a sé stessa in mezzo a molteplici difficoltà di sussistenza, accresciute inevitabilmente dalla elezione del Mamiani a deputato del Regno,
che, avvenuta nel 1856, era destinata a segnare la pratica fine dell’istituto, non senza tuttavia aver prodotto anche valide opere scientifiche22.
Per quanto riguarda Mamiani, fra i suoi scritti dedicati all’Accademia
si segnalarono per importanza l’opuscolo Sul Papato. Lettera ortodossa al
professor Domenico Berti, pubblicato sulla “Rivista Italiana”, che lo stesso Berti aveva messo a servizio dell’Accademia per la pubblicazione dei
suoi Atti e dei suoi scritti più rimarchevoli23. Molto importanti per lo
studio della filosofia del diritto furono anche i Quattro discorsi di T.
Mamiani sulla sovranità, che Pietro Sbarbaro definì “il Manuale dell’uomo Libero in terra Libera”, sostenendo anche, con un significativo paradosso, che avrebbero dovuto “insegnarsi, spiegarsi, commentarsi alla
domenica in tutte le parrocchie del Regno”24: in effetti essi fondavano le
premesse teoriche di una libera, ma ordinata coesistenza politica nazionale. Infatti, quando nel 1850 li pronunciò all’Accademia di filosofia
Italica, il conte pesarese intendeva con essi condannare come contrarie
al fondamento divino della Legge e alla ingenita libertà dei cittadini –
capisaldi dell’intera sua dottrina sulla sovranità e sui limiti suoi invalicabili – sia la proclamata volontà popolare del Mazzini espressa nel motto
Dio e il popolo, sia l’assolutismo regio della antica invocazione francese
Dieu et mon Roi: espressioni, entrambe, a suo avviso, incapaci di recepire la tensione ideale alla giustizia in sé. Una giustizia, certamente non
raggiungibile da alcuna legislazione contingente, ma dalla quale tuttavia,
in linea di principio, ogni legislazione deve pur trarre il proprio orientamento per mostrarsi ai cittadini come legittima e come priva d’arbitrio.
35
In tal senso Mamiani sostituiva ad essi il motto: Dio e la legge, affermando una dottrina dello Stato, che
spianta per sempre quel vecchio errore di volere a forza e sotto diversi titoli e nomi
vestire la sovranità civile e politica di umane membra e di umana miseria; né permette all’anime generose di cadere in contraddizione con sé medesime in questo
che, mentre aborrono d’inchinarsi a qualunque loro simile il quale si spacci per
padrone e dominatore, si recano poi a gloria d’inchinare e servire a quella stessa
umana figura, moltiplicata in numero d’individui sufficiente a portare il nome di
popolo. Ma noi ci inchineremo solo all’idea e allo spirito, e qualsivoglia incarnazione del dritto e della sovranità riputeremo falsa e ingiuriosa25.
Era, come si vede, la teorizzazione della sacralità del diritto, che,
prendendo le debite distanze sia dal diritto divino dei re, sia da quello
popolare di Mazzini, veniva in concreto a fondare anche il liberalismo
costituzionale monarchico, inteso come forma istituzionale moderata,
retta – come egli diceva in uno stile politico trecentesco che non piacque
ad alcuni – dai “migliori”, da coloro cioè che per sorte, per fortuna o per
abilità propria potevano di fatto dedicarsi con assiduità e competenza
alla cosa pubblica. Un concetto, questo, che in lui nulla tuttavia sapeva
di aristocratico o di elitario, distinguendosi da ogni diritto di casta o di
ricchezza e sostenendo invece il dovere dei “migliori” di promuovere
programmaticamente la elevazione morale e politica delle plebi e di procurare perciò nei tempi più brevi il diretto coinvolgimento delle masse,
maschili e femminili che fossero, nella vita della nazione26.
Una convinzione, questa, che proprio contemporaneamente alla fondazione dell’Accademia portò Mamiani ad impegnarsi con la sua diretta
partecipazione educativa e con tutta l’autorevolezza politica della sua
persona nella fondazione di un particolare Istituto Italiano di Educazione
per le Fanciulle, che, aperto nel 1850 a Genova da Bianca Rebizzo nel
Palazzo di sua proprietà detto “delle Peschiere” per le belle fontane che
lo ornavano e destinato ad offrire una solida educazione culturale a
ragazze orfane di guerra, ebbe a tratti anche il sostegno finanziario del
Cavour e del ministro dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa. Un’opera,
questa, di indubbia valenza sociale, ma che al tempo stesso era sottesa
anch’essa da un’ambizione politica e patriottica: essa infatti non voleva
presentarsi tanto nelle vesti di un comune collegio caritativo, bensì in
quelle di un vero e proprio istituto educativo a sfondo politico chiaramente “italiano”: una intenzione, questa, non solo ricordata continuamente dalla fondatrice alle sue allieve, ma anche pubblicamente manife36
stata con la coniazione di particolari medaglie destinate alla premiazione
finale delle alunne e per le quali fu lo stesso Mamiani a scegliere il soggetto: l’Italia turrita, che accoglieva e ricompensava due giovanette.
Significativo anche il motto posto in bocca all’Italia, adottato poi come
sintesi spirituale di tutta la vita dell’Istituto ed utilizzato anche nella
carta intestata del collegio: motto, che non fu però opera del Mamiani,
ma del conte Opprandino Arrivabene: “Educando spero”27. Ed in effetti – scriveva la direttrice al Mamiani in un momento di difficoltà economica della sua opera – scopo dell’Istituto era
educare le giovinette nei principi di una sana onestà e nell’amore di una savia libertà
in armonia colle nostre istituzioni. Sarebbe pei retrogradi un bel giorno quello che
annunciasse la caduta dell’Istituto! Aggiungete a queste buone ragioni quella per
voi e per me sì importante, che nel nostro Collegio s’impara a scrivere italiano davvero; e se la lingua conservata pure à un pregio non solo, ma una forza, una necessità per conservare fiorente e grande una nazione, sarebbe un delitto, mi pare,
distruggere il nido antico cui sono nudrite a buoni studi fanciulle italiane28.
Era, questa, una delle idee fondamentali della filosofia scolastica del
Mamiani, che, pregato dalla Rebizzo di sostenere l’opera presso il
Cavour e il Paleocapa, non ebbe perciò remore a subito attivarsi, scrivendo a quest’ultimo, ministro dei Lavori Pubblici, quanto segue:
Come Ella ben sa, le Peschiere rimangono in tutto lo Stato il solo luogo di educazione femminile informata da sentimenti liberali e italiani. Tutto il resto è nelle mani di
monachelle o di gente deditissima ai gesuiti. Ed Ella e il Cavour lasceranno perire
quell’Istituto nobile veramente e in cui è lecito di fondare tante e sì care speranze?29
La fondazione dell’Istituto, che non si indirizzava a ragazze dell’alta
società, bensì alle figlie povere degli ufficiali caduti in guerra30, fu portato avanti con molta fatica e con molta dedizione dalla fondatrice, che
in essa impiegò le sue personali sostanze fra l’incomprensione della mentalità “bene” del tempo e, in fin dei conti, anche degli stessi ministri,
come risulta da un colloquio della Rebizzo con il Cavour e con Paleocapa. Colloquio, di cui ella riferiva al Mamiani scrivendogli: “Paleocapa
soggiungeva che le orfane dei poveri ufficiali non aveano d’uopo di un’educazione splendida come quella che si dà all’Istituto”31.
Non passò molto tempo dalla fondazione delle Peschiere che – per
opera della stessa Rebizzo e soprattutto di Luigi Carlo Farini, il quale
proprio allora si apprestava a diventare l’uomo principale della ristretta
37
cerchia degli “amici di Cavour” – Mamiani poté entrare in contatto, sia
pure in maniera ancora indiretta e non ufficiale, con l’emergente uomo
politico32 e poté cominciare di nuovo a sperare di poter finalmente ottenere la concessione della cittadinanza sarda e tornare così ad esercitare
anche un concreto ruolo politico almeno come uomo di cultura e di opinione. Proprio in quella circostanza, infatti, egli dovette ripensare con
favore ad un suggerimento qualche tempo prima datogli per l’appunto
dal Farini, che, volendo tentare di riavviare il problema della naturalità,
gli aveva scritto: “Estendetevi in qualche politica avvertenza onde risulti la Vostra fede allo Statuto”33: un consiglio, che era dettato dal desiderio di ammorbidire in qualche modo il ministero, dal quale giuridicamente dipendeva la possibilità della concessione, con una pubblica
dichiarazione di presa di distanza dall’estrema sinistra e in particolare
dal sovversivismo mazziniano. Fu probabilmente a tale scopo che
Mamiani si decideva a pubblicare nel 1853 in un Piemonte, che ancora
risentiva dell’immobilismo internazionale seguito alla disfatta di Novara
e alla rinnovata potenza dell’Austria, un’importante opera antologica
intitolata Scritti politici di Terenzio Mamiani: un volume, gli scriveva l’editore, “da assaissimi richiesto” e da lui finalmente edito dopo non
poche remore di carattere letterario34.
La cosa fu in ogni modo ben studiata: Mamiani infatti, evitando qualsiasi dichiarazione formale – che in quella situazione poteva anche sapere di opportunismo o di piaggeria verso il ministero in carica35 – e presentando invece con ampiezza la storia dei suoi atti e del suo passato
notoriamente fondato su una scelta radicale in favore della “santa causa
italiana” e della costante difesa della Costituzione, andava incontro ai
consigli degli amici e operava al tempo stesso anche una implicita difesa
di sé. Egli aprì perciò la sua opera con il Nostro parere intorno alle cose
italiane (1839), il suo manifesto risorgimentale allora introvabile in Italia,
dal quale risultava con chiarezza che la sua scelta nazionale liberalmoderata era già stata da lui formulata e divulgata fin dal tempo dell’esilio
parigino e dunque ancor prima del moderatismo di Cesare Balbo e di
Massimo d’Azeglio. Si soffermò inoltre in modo particolare sugli anni
romani del 1848-1849 da lui vissuti come protagonista: prima, come
ministro di Pio IX e come parlamentare e poi come giornalista e come
politico liberalmoderato apertamente schierato – precisava – contro “i
neo montagnardi che senza troppo avvedersene, menan le cose alla peggio”, ossia contro Mazzini, i triumviri e gli intransigenti circoli degli
“ultrademocratici” repubblicani36. Nell’ultima parte degli Scritti politici
egli infine ripropose alcuni contributi più recenti, atti ad evidenziare con
38
chiarezza il propri sentimenti di politico filogovernativo o, più precisamente, il suo stile “indipendente e conciliativo insieme”37 di intendere la
politica, quale poteva averla un uomo solidale con la maggioranza governativa legato allo schieramento del centro-sinistro: di quella forza politica, cioè, che allora era diventata una rassicurante forza di governo dopo
il cosiddetto “connubio storico”, ma che nel 1849 gli era costata l’ira e
l’ostilità dell’Azeglio. La svolta governativa del novembre 1852, che
aveva segnato la caduta del Primo Ministro e la conseguente ascesa del
Cavour rappresentava in fondo – come ricordava con discrezione in una
nota a piè pagina, ma con giusta soddisfazione – la sua rivincita personale nei confronti dell’Azeglio e della sua astiosa ostilità, che, se non
fosse stato per l’amore dei genovesi, lo avrebbe certamente gettato nell’isolamento e nel discredito politico. Una rivincita – ricordava Mamiani
– del resto non casuale: egli l’aveva infatti pubblicamente preannunciata
nei giorni stessi della sua sconfitta, quando il 27 dicembre 1849 scriveva
agli elettori di Genova e di Pinerolo, ricordando le considerazioni che lo
avevano ispirato nella sua condotta elettorale e che malamente erano
state invece interpretate dall’Azeglio:
Io mi do pace assai facilmente che se ne facciano ora poco benevoli interpretazioni, e ingiuriose alla fama mia. Più d’una volta i fatti ànnomi vendicato e assoluto
degli altrui torti giudicj; ed io so troppo bene, che pesa continuo sopra di me la
sventura ostinata, ma non però ingloriosa, di aver dispiaciuto a gente che mai non
si placa e che mai non perdona38.
Questa, dunque, la sua fisionomia politica che emergeva dagli Scritti
politici: lotta aperta per l’indipendenza dell’Italia e confederazione nella
lotta armata contro l’Austria, in politica estera; organizzazione federale
dello Stato, liberalismo costituzionale (contro ogni settarismo e contro
ogni cedimento mazziniano) e accettazione del centro-sinistro, in politica interna. Era il programma che i suoi amici amavano definire “italianissimo”.
Nel frattempo, mentre a livello pubblico così si presentava, Mamiani
frequentava assiduamente l’ambiente degli esiliati politici, che erano
allora assai numerosi in Liguria ed in Piemonte e nei riguardi dei quali
egli si trovava in naturale sintonia a causa delle comuni vicende storiche
vissute nel recente passato quarantottesco: con essi infatti poteva continuare a sviluppare un più scoperto dialogo ideale e nazionale, in una
atmosfera di naturale complicità e quasi di circolo patrio fuori della
patria. Si trattava in realtà di un mondo difficile, come gli aveva inse39
gnato l’esperienza parigina, inevitabilmente misto di bene e di torbido,
di elevato e di magmatico, di amicizia e di conflittualità, e comunque in
mille modi contraddittorio. Era un ambiente, nel quale non di rado tutti
erano contro tutti, seppur spesso in gran parte convergenti nei momenti più difficili, e nel quale le condizioni economiche di solito fortemente
disagiate lasciavano spazio anche alla estemporaneità dei comportamenti e delle alleanze inaspettate39. Un mondo insomma ben lontano dalle
oleografiche descrizioni della letteratura romantica e nel cui ambito era
invece necessario muoversi con molta discrezione40: un mondo, nel
quale tuttavia Mamiani seppe porsi come autorevole ed influente esponente del movimento nazionale italiano unitario. Ne è prova una lettera
di Giuseppe La Masa – il noto esule siciliano allora rifugiato a Torino e
organizzatore delle rivolte isolane del 1848, come poi lo sarà di quella
del 1860 – inviata al conte pesarese il 5 gennaio 1856. Allora il mondo
dell’emigrazione era infatti in grande subbuglio per fondate speranze –
così almeno sembrava – di una radicale rivoluzione a Napoli e nella
Sicilia, che avrebbe dovuto portare addirittura alla sostituzione della
dinastia borbonica nel Regno con la restaurazione di un discendente di
Gioachino Murat: una cosa, questa, resa allora possibile dall’esito della
guerra di Crimea giunta in quei giorni al suo epilogo. Il La Masa si
mostrava però decisamente contrario al progetto, così come del resto
pressoché tutti i fuoriusciti siciliani41, intuendo in esso il pericolo di una
grave rottura nel mondo delle aspirazioni nazionali unitarie e la possibilità del risorgere dell’autonomismo siciliano contro Napoli. Di qui la sua
azione a Torino e a Genova per sventare il pericolo murattiano e ottenere l’adesione al suo progetto da parte degli uomini più autorevoli e più
rappresentativi dell’intera emigrazione “italiana”42. Di qui l’invio della
lettera “All’illustre Italiano Sig. conte Terenzio Mamiani”, al quale con
evidente stima scriveva:
Se potessi contare la sua firma nel bel numero di quelle che io raccolgo per un’idea
santissima, mi reputerei fortunato – non per me soltanto, ma per la patria. Fra pochi
giorni verrò in Genova per ricevere la risposta di coloro che interrogo per il mio
progetto tendente all’unione politica43.
Con l’emigrazione Mamiani ebbe prima di tutto rapporti di solidarietà economica nei confronti di chi nella sfortuna politica aveva perso i
propri beni: un aspetto, questo, della sua personalità ben attestato a
Parigi, quando era esule e non ricco44, e più ancora a Genova, quando le
sue condizioni economiche andarono man mano migliorando45. La sua
40
influenza sull’emigrazione dovette però essere anche di tipo politico, se
ben presto lo vediamo al centro di un movimento risorgimentale a carattere nazional-popolare, collaterale certamente nei confronti della politica ufficiale del governo, e dunque necessariamente anche nascosta, seppur non segreta al modo delle vecchie sette carbonare, né cospiratoria al
modo delle affiliazioni mazziniane.
La cosa prese forma con il ritorno in Piemonte di Giuseppe La Farina
nel tardo 1854 e per sua diretta e personale iniziativa. Egli, infatti, appena rientrato a Torino dall’esilio francese, aveva dato subito inizio fra i
fuoriusciti ad una vivace società patriottica denominata Società
Nazionale Italiana, alla quale aveva aderito fin dai primi tempi anche il
conte pesarese. Si trattava di una organizzazione politica originale e
ancora dotata per necessità di programmi ed intenti piuttosto riservati e,
per quanto riguardava i territori non piemontesi, addirittura segreti: essa
costituì comunque il primo vero nucleo di una organizzazione societariamente strutturata e di fatto operativa sull’intero territorio nazionale,
destinata in quanto tale a creare i presupposti di una ampia rivoluzione
italiana popolare di tipo moderato e dunque non mazziniano. Come tale,
essa risultava indirizzata ad unire in solidarietà effettiva tutti i liberali italiani favorevoli ad una azione armata di massa contro l’Austria per l’unificazione nazionale, in programmatico accordo ideale con la dinastia
sabauda e in sostegno (ma con forme e azioni autonome!) dell’esercito
sardo. Il programma della Società Nazionale, che si fondava sulla convinzione di poter trovare l’appoggio dei liberali più sinceri, quelli cioè
capaci di anteporre nella fase preparatoria ed operativa della guerra contro l’Austria e contro i suoi Stati satelliti in Italia gli ideali della indipendenza e della unificazione alle differenti opinioni personali sulla struttura istituzionale del futuro Stato nazionale – laico o confessionale, monarchico o repubblicano, federale o unitario che fosse – aveva certamente
molti punti in comune col programma del Partito Nazionale Italiano, che
proprio in quel tempo andavano strutturando Daniele Manin e Giorgio
Pallavicino e al quale il gruppo del La Farina gradatamente si avvicinerà
a partire dal 24 agosto 1856, ma senza tuttavia confondersi con esso per
quasi un intero anno.
Risalgono comunque alla fine del 1854 o ai primi del 1855, ossia a
tempi antecedenti alla fusione dei due raggruppamenti politici, i primi
contatti del Mamiani con il La Farina, entrambi noti uomini di studio e
di cultura per quanto schierati su posizioni ideologiche assai differenti46:
contatti, che portarono subito ad una loro stretta solidarietà per l’attuazione di un programma molto avanzato di azione popolare, volta alla
41
unificazione e alla indipendenza nazionale italiana e in dichiarata armonia con la dinastia dei Savoia e con il governo piemontese. La presenza
di Mamiani nella società lafariniana, con funzioni anche segnalate, è
infatti attestata per lo meno dal 1855, come mostra una lettera del 6 giugno di quell’anno a firma del conte bolognese Luigi Tanari a Mamiani,
allora residente a Genova, nella quale i collegamenti fra il conte pesarese e la società lafariniana appaiono in tutta evidenza. A quel tempo
Mamiani era soltanto un semplice rifugiato politico nel Regno del
Piemonte, non avendo ancora neppure ricevuto la nazionalità sarda, che
peraltro proprio in quei giorni Cavour era in procinto di riconoscergli e
che di fatto gli fece avere dal sovrano il 19 luglio di quello stesso anno.
Nella lettera il Tanari, senza scoprire eccessivamente notizie ben note al
suo corrispondente, ma celate ancora agli estranei e soprattutto alla polizia dello Stato pontificio, di cui il bolognese poteva ben temere la sorveglianza – assicurava il conte pesarese di aver agito in Bologna secondo
quanto anche con lui stabilito, rammaricandosi tuttavia di aver trovato
impreviste difficoltà per la eccessiva disinvoltura con cui Gioachino
Pepoli47 aveva di sua iniziativa divulgato improvvidamente a Bologna il
programma della loro Associazione torinese. Superate però positivamente le non poche “combinazioni e difficoltà”, il Tanari pregava
Mamiani di riferire a Michelangelo Castelli – uomo fin da allora del
Cavour, ma anche assai legato al La Farina48 – che di lì a pochi giorni egli
gli avrebbe inviato una importante lettera contenente notizie di rilievo
per la Società e, in particolare, il nome “del corrispondente cui far capo
in Modena per noi”: nome, che il Castelli avrebbe dovuto a sua volta
comunicare al La Farina. A scanso di ogni possibile equivoco, infine, il
Tanari ricordava al Mamiani e, per suo tramite, al Castelli, che tutto ciò
sarebbe stato scritto in forma ancora pressoché cifrata, “usando la formula già convenuta col Minghetti” e indicando nel contesto il nome del
corrispondente in oggetto.
Data la importanza della lettera per la cosa in sé e per la documentazione della conoscenza personale e degli ottimi rapporti intercorrenti fra
Mamiani e La Farina, non sarà inopportuno riportare per intero l’inedito documento, che è così formulato:
Prendo di volo un’occasione sicura, per assicurarle che le cose intrapprese (sic) qui,
nel senso ch’ella conosce non furono da me neglette, ma che anzi prendono finalmente un andamento buono, dopo non poche combinazioni e difficoltà non poco
dispiacevoli, che le hanno contrastate, tra le quali non ultima, il modo tenuto al suo
ritorno fra noi, dal nostro Pepoli; che ha dato di suo moto al credo della Associa-
42
zione di Torino, un’inopportunissima pubblicità. Mi restringo ora a pregarla di prevenire il sig. cavalier Castelli, che nel torno della prossima metà del mese, gli scriverò, usando la formula già convenuta con Minghetti, perché si metta in rapporto
con La Farina, e che nel contesto troverà un nome, che si compiacerà di indicare al
La Farina stesso, quale il corrispondente cui fa capo in Modena per noi. Spero poi
fra non molto passare io stesso in Piemonte, vedendolo necessario per meglio concertare ogni cosa. Mi conservi intanto la sua benevolenza, e senza più con altissima
stima e considerazione mi ripeto di Lei Illustrissimo sig. Conte, dev.mo ob. servitore – Luigi Tanari49.
La lettera mette dunque in chiara evidenza che per lo meno fin da
allora – giugno 1855, ma, data la complessità dei rapporti, evidentemente anche già da prima – Mamiani dovette essere un importante punto di
riferimento della società lafariniana, ben addentro per di più nelle secrete cose del movimento e che molto probabilmente dovette anche essere
il naturale referente in Piemonte della società attiva nelle Romagne,
essendo egli allora certamente il più illustre cittadino dello Stato
Pontificio in esilio nel Regno di Sardegna. Del nascente movimento
doveva far parte infine anche Marco Minghetti, allora residente a
Bologna, che del Tanari era intimo amico, come lo era del Mamiani, con
il quale era in rapporto epistolare fin dal tempo dell’esilio parigino del
conte pesarese e con il quale aveva poi collaborato strettamente ai tempi
della militanza romana del 1848.
Quel che più conta notare, tuttavia, è la novità e il senso dell’attività
patriottica genovese del Mamiani, che tornava così in qualche modo al
suo passato giovanile, alla militanza “segreta”, cioè, e alla “rivoluzione
popolare” del 1831, poco allora credendo nelle prospettive nazionali
della politica governativa torinese del dopo Novara. Certo, non si trattava di un ritorno alle sette segrete sul tipo della vecchia carboneria e del
suo cospiratorismo settario, che egli aveva ormai da molto tempo rifiutato – come affermava già nel 1831 nel corso degli interrogatori da lui
sostenuti di fronte al giudice inquirente austriaco nelle carceri di S. Severo in Venezia, dopo la fallita rivoluzione “romagnola” di quell’anno –
in quanto improduttivo per la causa italiana e inutilmente pericoloso per
gli stessi affiliati; né si trattava di una adesione alla rivoluzione di tipo
mazziniano, che egli anzi considerava contraria alla più matura cultura
europea del tempo e alle tendenze dello scenario politico internazionale
e che aveva del resto già ufficialmente condannato nel 1839 con la pubblicazione dell’opuscolo Nostro parere sulle cose italiane, il suo manifesto di politica risorgimentale liberale di tipo democratico-moderato.
43
Si trattava piuttosto di un ritorno attivo all’educazione delle masse e
alla organizzazione dell’azione popolare, da lui sentite sempre come l’anima stessa di ogni buon processo risorgimentale e come la indispensabile premessa di qualsiasi efficace azione militare: un ritorno, il suo,
dovuto evidentemente all’incontro con il La Farina e con la sua Società
Nazionale, i cui intenti, che nulla avevano a che fare con l’attività propriamente settaria, coincidevano in questo con i suoi sentimenti patriottici. Si trattava, però, anche di un’adesione indubbiamente coraggiosa,
dato che egli in quel tempo aveva più che mai la necessità di non lasciarsi confondere con l’area del contemporaneo sovversivismo mazziniano,
che aveva in Genova non poche simpatie, ma che riscuoteva anche l’ostilità delle classi moderate del paese e dello stesso “connubio” governativo, oltre che della maggioranza parlamentare torinese. Egli sapeva bene
infatti che la questione della sua naturalizzazione sarda era ormai non
solo riavviata, ma che stava ormai addirittura per concludersi positivamente; e questo non gli permetteva di correre il rischio di vedersi nuovamente compromesso, come nel ’49, in una situazione tale che avrebbe
posto sicuramente la pietra tombale sulla sua popolarità e su tutta la sua
carriera politica. Prudenza e circospezione gli erano dunque d’obbligo.
Eppure, è necessario anche aggiungere, se la partecipazione di Mamiani
alla Società Nazionale poteva essere sentita da non pochi moderati come
incongrua e se la divulgazione della sua attività quasi segreta poteva tornare di pericolo all’esule politico, bisogna anche ritenere che esse non
dovessero invece dispiacere al Cavour, dal quale tutta la pratica del
Mamiani dipendeva e al quale il Castelli, funzionario del ministero
dell’Interno e amico devoto del Presidente del Consiglio, oltre che di
Rattazzi, e per di più ben addentro egli stesso nella cosa, non poteva non
averla rivelata. Si trattava certamente di un’area, che non era apertamente illegale, ma che tuttavia si muoveva su un terreno paralegale: quello cioè dell’organizzazione politica popolare, che nel concetto e nel linguaggio comuni rientrava nell’ambito della cosiddetta “rivoluzione”. E
dunque, se la cosa era nota al Cavour e se a lui anzi non dispiaceva, bisogna anche concludere che il Primo Ministro fosse fin d’allora meno rigidamente spostato sul centro destro del Parlamento – e sull’azione alla
chiara luce del sole ossia sulla linea diplomatico-internazionale – di
quanto comunemente non si dica. Ed in effetti, pur nella moderazione
che gli era propria, egli si sentiva certamente vicino anche al movimento
popolare, del quale poi strategicamente e ampiamente si servirà50.
Ad ogni modo, per quanto riguarda Mamiani, la vicenda dell’appartenenza alla associazione lafariniana fin dai primi tempi della sua fondazio44
ne e la documentata sua presenza negli alti quadri societari, con tutta la
forza di attrazione che la notorietà e l’ascendenza politica del personaggio
dovettero avere allora esercitato presso i patrioti – e, stando alla lettera del
Tanari, non solo presso quelli raccolti nel mondo dei fuoriusciti – inserisce
il conte pesarese fra i padri fondatori della Società Nazionale, ossia – scrive Rosario Romeo – “di quello che fino al 1860 doveva essere lo strumento più efficace della politica e della propaganda cavouriana nella penisola”51. Tutto ciò mostra quanto poco la delusione dell’insuccesso romano e
della imprevista ostilità azegliana abbiano frenato l’attività politico-nazionale del Mamiani negli anni della sua permanenza a Genova: una attività,
che se – a stare alle sue parole o a quanto egli allora prevedeva, per necessità e per scelta, che fosse – non doveva mirare ormai alle forme istituzionali della politica, quella parlamentare e ministeriale, risulta ugualmente
importante ed intensa, strutturandosi su un vasto terreno che andava dall’impegno culturale ed educativo, di tipo pubblico ed aperto, a quello più
nascosto e delicato della rivoluzione popolare moderata, sviluppata
soprattutto a contatto con l’ambiente degli esiliati politici.
Anni di esilio, dunque, quelli genovesi del Mamiani – anni, come egli
li definiva, del suo “secondo esilio” (1849-1855): secondo, dopo quello
ben più lungo e ben più difficile vissuto in Francia (1831-1847) – ma certamente operosi e soprattutto circondati dalla universale stima della città
e della emigrazione italiana. La sua persona, del resto, non riscuoteva successo soltanto a Genova: pur ancora emarginato dall’ambiente ministeriale, egli era infatti conosciuto ed apprezzato, come ci mostrano alcune
lettere di Bianca Rebizzo, nella Torino bene dei salotti della capitale, in
quegli importanti circoli sociali, dove cultura, politica e relazioni interpersonali si amalgamavano e si equilibravano nel tipico demi-monde elitario del tempo e dove fra galanteria e pettegolezzo veniva filtrata tutta la
vita politica e mondana del paese, contribuendo non poco a fare o a disfare la fortuna degli uomini emergenti52. In tali circoli la sua fama di uomo
di cultura e di autorevole protagonista di vicende politiche di prestigio
nazionale, ma indubbiamente – a stare ad alcune autorevoli testimonianze del tempo parigino – anche i suoi modi naturali di garbo e la sua forte
personalità morale e ideale53 lo dovettero aiutare a crescere in quella
autorevolezza politica, che l’incidente d’Azeglio aveva momentaneamente incrinato. E del resto, come uomo di solida ed avanzata cultura egli
poté fin da allora vantare tra i suoi più importanti estimatori addirittura
l’ambasciatore inglese a Torino, Lord James Hudson – universalmente
considerato uno dei più validi ministri plenipotenziari del Regno Unito –
il quale nelle sue relazioni ufficiali col governo londinese annoverò
45
Mamiani fin dal 1852, fin da quando cioè venne inviato dal suo governo
in Piemonte, fra i più importanti uomini della cultura piemontese accanto a Rosmini e Gioberti e fra gli uomini di sicuro riferimento politico per
la stessa Inghilterra nell’ottica di una positiva modificazione dell’allora
difficile rapporto del governo inglese con la cultura cattolica dell’isola54.
Nessuna meraviglia dunque che Cavour, grazie anche alle sollecitazioni di amici comuni, si fosse deciso ad un certo momento di riattivare
la vecchia pratica della naturalità sarda e fosse riuscito ad ottenere di
nuovo dal sovrano la concessione della cittadinanza piemontese per
Mamiani (19 luglio 1855).
Il riconoscimento costituì senza dubbio un momento psicologicamente importante per il conte pesarese, che poteva così porre fine al suo
“secondo esilio” e tornare a godere ormai il piacere di sentirsi finalmente a tutti gli effetti cittadino di una patria compartecipata e liberale, la
quale – scriveva nella lettera di ringraziamento al sovrano – anche se non
era quella nativa, era pur tuttavia terra italiana. Uno stato d’animo, il suo
in quel tempo, che lo portava a non desiderare più di tanto di tornare
all’agonismo e ai contrasti della vita parlamentare e a preferire ormai di
svolgere la sua pur intensa attività culturale e nazional-popolare fra gli
amici genovesi, ritagliandosi probabilmente anche per motivi di salute,
che in lui fu sempre un po’ precaria uno spazio di vita meno affaticata e
contrastata, nella quale poter forse ritrovare una personale autostima
politica, uscita incrinata dalle delusioni – non facili da dimenticare – del
1848-49 romano e piemontese. Lo scriveva ad un amico marchigiano, il
medico Diomede Pantaleoni, che gli aveva inviato le felicitazioni per la
conseguita naturalità e per le nuove possibilità di impegno politico che
in tal modo gli si riaprivano:
Io ne godo assai perché io era stanco di vivere ex lege e pesandomi già sulle spalle
il ventiquattresimo anno di esilio. Ma quanto alla carriera politica, io non desidero
punto di rientrarvi: il favore giungemi troppo tardi per ciò; sono logoro affatto di
salute e d’ingegno, e il tempo à consumato quel pochissimo d’autorità ch’io forse
avea per addietro su qualche porzione d’italiani55.
Così però non la pensavano gli amici genovesi, i quali insistettero invece perché egli si ripresentasse quale candidato della città alle nuove elezioni del 24 febbraio 1856 per la V Legislatura, nel corso delle quali egli
in effetti venne eletto deputato del Regno di Sardegna nel collegio di
Genova V: il che, essendo egli ormai in regolare possesso dei diritti politici, gli permise di sedere fra i rappresentanti dello Stato sardo nella
46
Camera elettiva di Palazzo Carignano a Torino. Fu, comunque quella,
una campagna elettorale dura e difficile, trovandosi egli a dover contrastare un candidato di area moderata, il genovese avvocato Leopoldo
Bixio, che godeva di grande notorietà nella città grazie anche ad un suo
recente ed impegnato passato parlamentare56. Nessuna meraviglia dunque che, contrariamente a quanto era avvenuto nel dicembre del 1849, la
sua non sia stata una vittoria apertamente eclatante. Il Collegio infatti
constava di 763 elettori, dei quali tuttavia se ne presentarono alle urne
solo 279 e nella prima tornata elettorale l’avvocato Bixio ottenne 139 voti
contro i 121 del Mamiani; gli altri andarono dispersi fra candidati minori o furono dichiarati nulli. Non avendo però nessun rappresentante di
lista ottenuto la maggioranza assoluta prevista dalla legge, fu necessario
ricorrere ad una seconda votazione di ballottaggio fra i due candidati più
votati e in quell’occasione Mamiani riportò una vittoria di strettissima
misura: 185 voti contro i 183 dell’avversario. La Camera approvò poi l’elezione il 3 marzo di quello stesso anno e il 12 marzo egli prestò il previsto giuramento, dando così pratico inizio alla sua carriera parlamentare57.
Genova era una città legata alla sinistra, come lo era anche Mamiani,
ma egli nella occasione non dimenticò l’aiuto offertogli dal Cavour e lealmente gli si affiancò a sostegno dell’area governativa. D’altra parte il
Cavour faceva grande affidamento in lui, come scriveva al Rattazzi il 2
marzo da Parigi – dove si trovava per il Congresso di pace indetto dopo
la guerra di Crimea – dichiarandosi “lietissimo” della elezione del
Mamiani come persona “utilissima sia all’interno, sia all’estero” 58. E che
a tutti Mamiani apparisse fin da allora uomo di Cavour e dunque legato
strettamente alla politica governativa – cosa stimata un pregio da alcuni,
un limite, se non un difetto, da altri – ce ne dà notizia Giorgio Pallavicino. Egli, infatti, scrivendo il 2 dicembre 1856 a Daniele Manin – il
quale da Parigi gli aveva chiesto notizie sul comportamento di alcuni
importanti uomini politici, fra i quali il conte pesarese da lui affettuosamente stimato per il sostegno offertogli nel corso del 1848 in occasione
delle note vicende della Repubblica di San Marco – rispondeva con il
suo solito stile franco (ed anche non poco manicheo):
Massimo d’Azeglio è un languido dottrinario, più atto a spegnere che ad infiammare l’entusiasmo degli uomini d’azione. Mi dicono che nel suo ultimo viaggio in
Toscana siasi mostrato prudente oltre il dovere. D’Azeglio vixit: seppelliamolo. È
voce che Mamiani non abbia in politica concetto proprio. Segue, mi dicono, le
pedate del Farini e del Castelli, due uomini che non hanno convinzioni di sorta.
Mellana è un politico zero”59.
47
Pallavicino mostrava dunque di non conoscere bene Mamiani, ancora nuovo deputato, e di avere su di lui solo notizie di tipo indiretto: di
qui, limitando la propria animosità spesa a larga mano per gli altri politici, lo additava più semplicemente come uomo – a quanto si diceva –
ligio alle opinioni del governo e dunque seguace fedele dei suggerimenti e delle orme (“pedate”) di Luigi Farini e di Michelangelo Castelli, le
persone allora notoriamente più vicine al Cavour, ma dal Pallavicino non
stimate. La conclusione, pur se non ancora da lui formalizzata, si lasciava dunque chiaramente intravedere: se Mamiani era seguace fedele di
personaggi privi di idee, a loro volta seguaci fedeli di Cavour, e dunque
certamente privi di originalità politica, c’era ben poco da sperare su di
lui: anche se per onestà intellettuale Pallavicino non se la sentiva di pronunciarsi ancora in maniera definitiva. Il fatto è che egli non amava
Cavour, considerato da lui più disposto alla diplomazia che non alla rivoluzione popolare – anche se fatta in nome del re di Sardegna –, ma più
in particolare aveva in disistima tutto il suo ambiente politico: di qui la
serie di giudizi aspri e, in questo caso, anche assai ingiusti su uomini di
primo livello e soprattutto sul Farini, che di Cavour era allora e rimarrà
poi sempre l’uomo di sicuro riferimento.
Tale solidarietà con l’area governativa e la fiducia che in Mamiani
Cavour doveva sin da allora riporre, risultano bene evidenziati anche da
un’altra notizia inviata da Pallavicino al Manin qualche giorno dopo:
sempre secondo voci, Mamiani, eletto deputato da appena qualche
mese, era già in serio odore di ministerialità60.
Le cose in realtà non dovevano stare proprio così: Cavour infatti voleva costruire intorno a sé uno staff dirigenziale preparato ed efficiente e
proprio per questo anche molto differenziato nei ruoli e nelle attribuzioni. “Il sistema del conte di Cavour – scriveva Giuseppe Massari
(1821-1884), che lo conosceva bene, essendo dal 1856 direttore della
Gazzetta Ufficiale piemontese e per questo con il Primo Ministro assai
spesso in contatto ed anche in reciproca confidenza – era la pratica del
vecchio adagio inglese the proper man in the proper place: l’uomo giusto
al posto giusto61: e in verità non mancavano allora al Primo Ministro
politici capaci di svolgere l’attività ministeriale con sua soddifazione, né
diplomatici di carriera capaci di ben rappresentare gli interessi piemontesi nelle corti europee. Egli invece sentiva il bisogno di avere intorno a
sé una cerchia di consiglieri politici abili e fidati – quelli che era solito
chiamare “i miei amici” – di grande reputazione e capaci perciò di creare consenso e di dar credito proprio per la loro autorevolezza personale
alla sua politica governativa in Parlamento, di mantenere unita la mag48
gioranza nella Camera elettiva e di stabilire buone relazioni con i giornali
e con l’opinione pubblica, nella piena consapevolezza della funzione primaria ormai da questa acquistata nella vita del tempo. E Mamiani sembrava per l’appunto a Cavour possedere tutte queste qualità: uomo dal
passato politico a tutti noto e certamente prestigioso, egli aveva vasta
fama in Italia come fine letterato e stimato uomo di cultura62; era inoltre
conosciuto ed apprezzato all’estero e soprattutto in Francia, dove aveva
trascorso sedici anni di esilio (1831-1847) e frequentato la migliore
società del tempo; e svolgeva infine incarichi di collegamento con l’università di Genova, benché ancora – amministrativamente – in modo
“non fermo” ossia non stabile e dunque, diremmo noi, precario e non di
ruolo. Una limitazione, questa, del suo prestigio sociale, alla quale però
un uomo potente come il conte di Cavour non aveva difficoltà a porre
rimedio e alla quale di fatto pensò subito di rimediare, non facendo
mistero di volerlo inserire fra i professori titolari dell’università di Torino
e creando appositamente per lui la cattedra di filosofia della storia in
quell’ateneo63.
Mamiani aveva del resto anche un’altra caratteristica ben nota al
Primo Ministro. Era un uomo del centro sinistro e dunque, strettamente parlando, più vicino al Rattazzi che non allo stesso Cavour, leader
indiscusso invece del centro destro del Parlamento: il che avrebbe permesso al pesarese di essere uomo di cerniera fra le due ali della maggioranza governativa, assicurando così continuità e solidità al suo governo.
A Cavour d’altra parte non sfuggiva che Mamiani gli sarebbe stato sempre devotamente fedele e che non gli avrebbe fatto mai mancare il suo
appoggio nei momenti difficili, essendo stato proprio lui, il Cavour, a
toglierlo dall’isolamento politico nel quale l’Azeglio lo aveva posto.
Tutto ciò lo portava ad un teorema, che si rivelò poi assolutamente corretto: Mamiani, uomo ideologicamente legato alla sinistra parlamentare
moderata, ma anche apertamente inserito nello schieramento cavouriano, avrebbe potuto essere di grande utilità nella mediazione tra i due poli
della maggioranza, e contribuire così a rafforzare il consenso operativo
del governo nell’area spesso agitata dello schieramento rattazziano64.
Ecco perché, contrariamente alle voci che comunemente circolavano,
Cavour non aveva fretta di affidare a Mamiani dirette responsabilità
governative che lo sottraessero ai rapporti con il Parlamento: egli infatti
mostrerà sempre di preferirlo nella funzione di suo consigliere politico
che non in quella di uomo di governo. E così, proprio entro queste coordinate, Mamiani fece il suo ingresso a Palazzo Carignano.
49
Note
1
Lettera di T. Mamiani a M. Minghetti, Genova, 6 settembre 1850, in M. MINGHETTI, Miei ricordi, III (1850-1859), Torino, Roux e C., 1890, p. 315.
2
Per tale situazione si veda A. BRANCATI-G. BENELLI, Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere
cattolico liberale e il risorgimento federalista, Pesaro-Ancona, Fondazione Cassa di Risparmio-Il
Lavoro Editoriale, 2004, pp. 247-256.
3
Il fatto è ufficialmente attestato. Il 3 agosto 1849 Mamiani si faceva sottoscrivere da Alfonso
Conversari, l’incaricato dell’ufficio della Diligenza, la seguente dichiarazione:
“Il signor Alessandro Sebasti incaricato dell’Ufficio della diligenza da Roma a Civitavecchia, attesta in una lettera responsiva al Signor Alfonso Conversari incaricato dell’Ufficio delle dette diligenze in Civitavecchia che il baulle consegnato il dì 31 luglio indirizzato a Terenzio Mamiani in
Civitavecchia giunse in ufficio aperto e non soggiacque a nessuna visita straordinaria per ordine
superiore. Il detto baulle era consegnato nella cavalcata ordinaria numero 12, conduttore
Staderini (artic. 500). Giunse in Civitavecchia aperto il mattino del primo agosto e da nessuno fu
visitato finché rimase in ufficio. Qualche ora dopo essere stato consegnato a Terenzio Mamiani,
questi venne ad annunziare che nel suo baulle mancavano moltissime carte di grande interesse.
L’incaricato dell’Officio delle diligenze
A. Conversari. ”
Si tratta di una dichiarazione materialmente compilata dallo stesso Mamiani in Civitavecchia, ma
firmata da A. Conversari. L’importante documento si trova in Carte di T. Mamiani, busta 64,
cart. II, n. 2. Da notare che la data del documento è chiaramente errata: essa infatti riporta la
data del 3 agosto 1839, mentre si trattava evidentemente del 3 agosto 1849. L’errore banale è
chiaro indice del turbamento vissuto in quella situazione dal Mamiani.
Impossibile dire a chi debba essere imputato il furto, se alla polizia pontifica, come è più probabile, o ad emissari delle forze francesi, che allora occupavano Roma: entrambi infatti erano
ugualmente interessati a far sparire le testimonianze del loro comportamento politico ambiguo e
compromissorio, nella fondata paura che esse sarebbero state fatte oggetto dal Mamiani di un’opera storica sugli avvenimenti accaduti in quei mesi fra il 1848 e il 1849. Quanto al Mamiani, egli
così scriveva in proposito al suo amico Diomede Pantaleoni, probabilmente in quello stesso giorno 3 agosto da Civitavecchia:
“La polizia ha aperto il baulle e portato via scritti e stampe, compresi molti studj miei letterari e
buona porzione del libro che stavo dettando. Delle carte politiche non ho nessuna apprensione,
ma spiacemi all’anima di perdere molte memorie e segni altresì d’onorificienze.
P.S. Ora sento non esser certo che la Commissione sia in Roma, allora il mio fatto è farina del
sacco di Oudinot!!” (Lettera di T. Mamiani a Diomede Pantaleoni, s. d., Biblioteca Comunale di
Macerata, ms. 986 Mamiani, n. 426. Il corsivo è nostro).
In realtà, Mamiani non era stato informato bene e dunque si sbagliava: la Commissione – a cui
egli faceva cenno – era già arrivata a Roma da qualche giorno. Si trattava del cosiddetto
“Triumvirato rosso”, ossia di un organo collegiale di governo costituito da Pio IX mentre si trovava ancora a Gaeta e formato da tre cardinali (Gabriele Della Genga Sermattei, Luigi Vannicelli
Casoni e Ludovico Artieri), deputati a reggere lo Stato in assenza del pontefice e a preparare il
ritorno del fuggiasco sovrano. Annunciata in termini ancora generali da Pio IX in un manifesto
del 17 luglio, essa giunse a Roma il 31 di quello stesso mese (C. SPELLANZON – E. DI NOLFO, Storia
del Risorgimento e dell’unità d’Italia, VII, Milano, Rizzoli Ed., 1960, p.584).
4
Lettera di T. Mamiani a M. Minghetti, cit., p. 315.
5
Ibidem. Evidente la reminiscenza foscoliana.
6 Lettera di T. Mamiani a V. Gioberti, Roma, in D. GASPARI, Vita di Terenzio Mamiani Della
Rovere, s.l e s.d., Ancona, G. Morelli Ed., 1888, p.113. La lettera non si trova nell’Archivio
Mamiani di Pesaro.
50
7
La vicenda è stata ricostruita in A. BRANCATI-G. BENELLI, op. cit., pp. 256-271.
8
La città di Genova coinvolse Mamiani, riconosciuto quale eminente uomo di lettere, soprattutto nel settore scolastico: lo richiese infatti come professore della propria università (Lettera di
T. Mamiani a Gian Carlo di Negro, Genova, 20 luglio 1847, in Archivio Di Negro m.r. Ant. I,3,67
presso la Biblioteca “Berio” di Genova), anche se Mamiani, sperando di poter tornare nello Stato
Pontificio, declinò allora l’invito; lo pregò “di voler tracciare il programma per l’insegnamento
della Filosofia Razionale nel civico Ginnasio e di far parte della Commissione esaminatrice pei
prossimi concorsi alle cattedre di Filosofia razionale, Rettorica e Lingua Francese” (Lettera del
Vice Sindaco Prospero Viani a T. Mamiani, Genova, 3 maggio 1850, in Pluteo Mam. II, busta 2,
5v). Lo incaricò inoltre nel 1851 di perorare presso il ministro della Pubblica Istruzione Luigi
Carlo Farini una riforma dell’Università di Genova volta a ripristinarne il prestigio passato
(Lettera del Vice Sindaco Prospero Viani a T. Mamiani, Genova, 3 maggio 1850, in Pluteo Mam.
II, busta 2, 5v). Fra i numerosi attestati di stima e di affetto che la città di Genova e suoi autorevoli cittadini tributarono apertamente al Mamiani, vedi a solo titolo di esempio la Lettera del
marchese F. Sauli a T. Mamiani, Torino, 7 aprile 1850, in Carte di T. Mamiani, busta 3, libro I,
Epistolario dell’Accademia di Filosofia Italica p. 45; la Lettera di Lorenzo Costa “Al Chiarissimo
conte T. Mamiani. Canzone”, Genova, 21 marzo 1855, in Lettere a T. Mamiani, n. 3876 (per notizie storico-biografiche nei riguardi del poeta Lorenzo Costa, si veda Dizionario biografico degli
italiani, 30, Roma, Istit. Enciclop. Treccani, 1984, s.v. Costa Lorenzo, pp. 222-225); nonché il
sonetto del marchese Gian Carlo Di Negro, Per l’elezione a deputato del Sig. conte Mamiani, in
Pluteo Mam. III, busta 12, cart. 9, n. 1. Significative a tal proposito anche la nomina di Mamiani
da parte della “Società Economica di Chiavari” quale suo socio corrispondente (Lettera di Luigi
Podestà, segretario generale della Soc. Econ. a T. Mamiani, Chiavari, 24 maggio 1852, in Lettere a
T. Mamiani, n. 10570 e la nomina inviatagli il 23 dicembre 1854 dalla “Società Letteraria
Dell’Areopago residente in Genova” quale suo membro onorario (Pluteo Mam. II, busta 2, n. 1f).
9
Nel capitolo IV di T. MAMIANI, Documenti pratici intorno la rigenerazione morale e intellettuale
degli italiani, ripubblicati poi l’anno seguente come parte del più maturo suo manifesto risorgimentale intitolato Nostro parere intorno alle cose italiane (Parigi, Dai torchj della Signora
Lacombe, 1839), il conte pesarese aveva attribuito molta importanza – ai fini della creazione di
una concreta coscienza nazionale civile e politica – alla divulgazione dei libri stampati nella penisola, alla organizzazione degli studi e alla collaborazione degli studiosi italiani, riuniti in congressi
scientifici annuali e collegati fra loro in uno speciale Istituto culturale deputato alla formazione
di un sapere tipicamente italiano. Scriveva infatti in particolare:
“n. 9°. Tentesi di aprire una fiera annuale di libri, imitando quella famosa di Lipsia, che è sede
e capo del commercio librario di tutta l’Allemagna. Luogo a ciò accomodato sembra essere Pisa.
n. 10°. Tentesi di istituire ragunanze generali di dotti Italiani, al modo di quelle incominciate in
Germania, che ogni anno mutano residenza.
n. 11°. Tentesi di rimettere in fiore l’Istituto Italiano dal Lorgna fondato, e di farlo centro e capo
de’ nostri studj scientifici”.
L’opuscolo, difficilmente reperibile nella edizione originale, è stato poi inserito dall’autore nei
suoi Scritti politici di T. Mamiani, a cura dell’Autore, Firenze, Le Monnier, 1853, da cui traiamo
la presente citazione, che si trova a p.2. Non sarà inutile ricordare anche – e lo sottolinea lo stesso Mamiani (ibidem, nota n. 1) – che l’idea espressa dal detto n. 9, sarà di fatto attuata, per via
autonoma, nel 1839 con il primo Congresso degli scienziati italiani tenutosi a Pisa: congressi, che
si protrassero poi annualmente e senza interruzione fino alla loro IX edizione (Venezia 1847).
Sospesi, poi, a seguito dei noti eventi politici e militari del 1848, l’idea dei congressi scientifici fu
ripresa nel nuovo Regno d’Italia e furono tenuti altri tre Congressi, l’ultimo dei quali a Palermo
nel 1875, presieduto dallo stesso Mamiani (vedasi al proposito G. GUARINI, Sul casuale reperimento nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro di un importante documento relativo all’attività
Congressuale scientifica italiana dell’800, in “Studia Oliveriana”, N.S., XIX, Pesaro, 1999, pp. 6571). Bisogna anche ricordare che quanto al sopraddetto n. 11, lo stesso Mamiani tenterà di attuare in vari modi e ripetute volte la sua intuizione del 1839, dando vita prima ad una particolare
Accademia di Filosofia Italica; poi, diventato ministro della Pubblica Istruzione, preparando e
51
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SIGNOR CONTE... CARO MAMIANI