Antonio Brancati Giorgio Benelli SIGNOR CONTE... CARO MAMIANI Volle il mio buon genio che io sedessi a lato del Conte di Cavour il lavoro editoriale COLLANA ALETHEIA Testi Saggi Ricerche Anna Cerboni Baiardi, a cura Antaldo Antaldi, Notizie di alcuni architetti, pittori, scultori di Urbino, Pesaro e de’ luoghi circonvicini 1996 Loretta Vandi Il manoscritto Oliveriano 1 Storia di un codice boemo del XV secolo 2004 Gian Galeazzo Scorza Costanzo Sforza, Signore di Pesaro (1473-1483), 2005 Antonio Brancati, Giorgio Benelli Divina Italia Terenzio Mamiani della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista, 2004 Antonio Brancati, a cura La Cofranternita e la Chiesa dell’Annunziata di Pesaro Il fenomeno confraternale in Italia 2005 Quaderni G. Cerboni Baiardi, A. Oldcorn, T. Mattioli, a cura Lettura Pascoliana Urbinate 1998 G. Arbizzoni, G. Cerboni Baiardi, T. Mattioli, A.T. Ossani, a cura Il merito e la cortesia Torquato Tasso e la corte dei Della Rovere 1999 G. Tocci, a cura Ripensare il 1948 Politica, economia, società, cultura 2000 G. Cerboni Baiardi, A. Oldcorn, T. Mattioli, a cura Seconda Lettura Pascoliana Urbinate 2003 Signor Conte... Caro Mamiani Nicolò Barabino (1832-1891), Ritratto di Terenzio Mamiani Della Rovere (Torino, Collezione privata) Antonio Brancati Giorgio Benelli Signor Conte... Caro Mamiani Volle il mio buon genio che io sedessi a lato del Conte di Cavour il lavoro editoriale ALETHEIA Testi saggi ricerche Collana di studi a cura di Antonio Brancati Copyright 2006 by Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro ISBN 88 7663 369 3 il lavoro editoriale casella postale 297 Ancona Italia www.illavoroeditoriale.com PRESENTAZIONE A due anni dalla pubblicazione del loro fortunato saggio Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista (2004), i due Autori Antonio Brancati e Giorgio Benelli hanno dato vita – attraverso una complessa ricerca d’archivio e ad una rigorosa lettura interpretativa nei riguardi di una considerevole quantità di documenti inediti, conservati in gran parte nel pesarese fondo oliveriano – ad una seconda opera sul Mamiani, tesa a far luce su alcuni particolari aspetti dell’attività svolta dal patriota pesarese nei suoi anni di residenza piemontese e nei riguardi dei suoi stretti rapporti sul piano non solo della politica, ma anche dell’amicizia e della reciproca stima con il conte di Cavour: rapporti ancora in gran parte ignoti alla storiografia risorgimentale. Continua così il non agevole impegno assunto dai due Autori di permettere alla città l’auspicata “riappropriazione” della personalità di un suo cittadino, che riuscì ad assumere nel corso del secolo XIX e dei suoi grandi eventi nazionali un ruolo e una posizione di sicura eccellenza nel panorama politico e culturale del nostro paese. In considerazione di ciò la Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro, sostenitrice convinta fin dall’inizio del progetto, è perciò lieta di pubblicare oggi il presente volume, che non solo ci fornisce nuove fonti per una conoscenza biografica e politica più ricca e approfondita nei riguardi di Terenzio Mamiani, ma apre anche nuovi percorsi di ricerca nell’ambito di una più vasta comprensione di quello che ormai viene comunemente definito “il decennio cavouriano”. Rinnoviamo la nostra gratitudine ad Antonio Brancati e Giorgio Benelli che ci danno ancora una volta la prova della loro profonda competenza e fruttuosa dedizione alla storia patria. Un grazie particolare non può a questo punto non andare anche all’Ente Olivieri e alla Biblioteca Oliveriana, custodi del prezioso fondo mamianiano, nonché alla editrice Il Lavoro Editoriale di Ancona, che ancora una volta ha curato con competenza e con scrupolo professionale la realizzazione a stampa dell’opera. La Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro 5 “I tipi più perfetti del nobile italiano sono due. L’uno nato al dominio e all’impero, scabro nei modi, potentissimo d’intelletto e di studii politici, Camillo Cavour. L’altro, designato a provare l’adamantina virtù dell’animo suo nelle carceri e negli esigli come nei palazzi ministeriali e nella Reggia papale; modello inarrivabile della dignità, del coraggio, del senno, della integrità che resero venerando all’Europa il nome italiano: il conte Terenzio Mamiani”. “Gazzetta di Venezia” a. CLIII, 1865, n. 264 PREFAZIONE Quando nel 1999, in occasione del bicentenario della nascita di Terenzio Mamiani (1799-1885), l’Ente Olivieri-Biblioteca Oliveriana, depositario del ricco fondo comunale Mamiani, assunse il compito di avviare sulla vita e sull’attività politica del patriota pesarese uno studio storico-critico destinato a restituirgli una fisionomia purificata dai toni spesso eccessivamente enfatici e soprattutto dagli innumerevoli errori e imprecisioni che la storiografia ottocentesca aveva nei suoi riguardi divulgato e a far recuperare così alla città nella sua giusta dimensione un personaggio ormai pressoché dimenticato, nessuno pensava di trovarsi di fronte ad una mole tanto ricca e coinvolgente di documenti pubblici e privati della più diversa natura e importanza. La lettura infatti delle innumerevoli carte mamianiane, ordinate e catalogate con scrupolosa attenzione, ha insospettatamente rivelato nel dimenticato conte una personalità presente sempre e in maniera sempre importante, quando non addirittura decisiva, nel corso di tutte le principali tappe del Risorgimento nazionale, a partire già dai primi concreti albori ottocenteschi vissuti da lui ancora giovane nella vicinanza ideale e fisica al generale napoletano Guglielmo Pepe e alla sua sfortunata lotta per l’indipendenza italiana dalla restaurata dominazione austriaca scaturita del 1815. La lunga esistenza da lui interamente dedicata alla “patria comune” – com’era solito dire nella vecchiaia – ha di fatto costretto chi scrive a ripercorrere man mano sulle sue tracce tutta la storia del Risorgimento italiano e a filtrarne il lento crescere e il progressivo suo prendere forma attraverso l’ottica della particolare attività politica e culturale svolta dal conte pesarese. Primo risultato di un lungo periodo di accurate ricerche di archivio è stato il volume intitolato Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista, realizzato nel 2004 da “Il lavoro editoriale” di Ancona con il generoso finanziamento della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro. Un’opera, che ha permesso non solo di dare vita ad una aggiornata ricostruzione biografico-critica del Mamiani, ma anche di comprendere le ragioni della generalizzata fama da lui goduta in Italia durante tutto il corso dell’Ottocento, prima che – già sul finire del secolo e non diversamente da quanto accaduto alla gran parte dei protago7 nisti dell’ormai remoto Risorgimento – se ne dimenticasse perfino la passata attività, che pur lo aveva imposto ai contemporanei come il cittadino più illustre e più importante dello Stato Pontificio nell’ambito dell’intera epopea risorgimentale o – secondo quanto gli scriveva l’allora facente funzioni di sindaco di Roma, Pietro Venturi in occasione della decisione presa dal Comune cittadino di conferire a lui insieme ad Alessandro Manzoni e al fiorentino Gino Capponi la cittadinanza romana (28 giugno 1872) – come a “uno di quegli splendidi nomi di cui va degnamente superba l’Italia nostra”. Proprio in tale ottica si è proceduto non solo a ricostruire con la maggiore cura possibile la personalità del patriota protagonista della “rivoluzione romagnola” del 1831 e la sua partecipazione ai due governi di Pio IX nella Roma costituzionale del 1848, ma anche e soprattutto a mettere in risalto il fondamentale contributo alla creazione e alla formazione della coscienza nazionale – di tipo moderato liberal-democratico – e alla ricostruzione della cultura italiana come scrittore, come ministro della Pubblica Istruzione e come Vice-presidente del Consiglio Superiore. In Divina Italia, tuttavia, per la sua stessa originaria impostazione, ci si è dovuti limitare a solamente accennare sia il rilevante ruolo svolto dal Mamiani in un periodo di tempo fondamentale per le sorti del Risorgimento italiano quale fu quello vissuto dal Piemonte fra la prima guerra di indipendenza e la proclamazione dell’unità nazionale (1849-1861), sia e soprattutto l’importanza della sua stretta collaborazione con il conte di Cavour durante i decisivi anni compresi fra il 1856 e il 1861. Infatti proprio la ricca documentazione, reperita in parte fin dalla stesura iniziale di Divina Italia, aveva reso preferibile il rinvio di una organica elaborazione dei temi a tempi più maturi nell’ambito di uno specifico studio, che oggi finalmente viene dato alle stampe. Uno studio, i cui risultati ruotano intorno a due specifici “centri d’interesse”. Il primo, abbandonando il taglio monografico tradizionalmente riservato alle singole personalità di rilievo, risulta indirizzato piuttosto verso la ricostruzione di un Risorgimento di tipo corale – come preferiamo definirlo – sembrandoci esso più adatto ad evidenziare l’apporto specifico del Mamiani al Risorgimento italiano. Al tempo stesso però esso permette anche sia di mettere meglio in rilievo la presenza di una partecipazione popolare al processo unitario, che dopo tutto appare non essere così esiguo ed elitario come spesso si dice; sia di esaltare le forti passioni etico-politiche di cui il Risorgimento ci appare impregnato, a differenza forse dei nostri tempi assai più postideologici e pragmatici. In tale ottica il saggio fa emergere un Mamiani indubbiamente “amico del Cavour”, calato però nell’ambito della più ampia cerchia di coloro che il conte piemontese definiva ripetutamente “i miei amici”, quali soprattutto – oltre allo stesso Mamiani – il Farini, il Minghetti, il Castelli, il La Farina, il Massari e, per molto tempo, 8 il La Marmora: una cerchia, il cui ruolo in gran parte attende ancor oggi di essere studiato mediante un’attenta indagine nell’ambito soprattutto di quegli archivi privati, la cui apparente perdita era giustamente lamentata da Rosario Romeo nei suoi noti scritti sul Cavour e nei confronti dei quali il recente recupero dell’archivio privato del Mamiani può costituire un concreto stimolo di ricerca, anche sulla scia delle sollecitazioni di recente manifestate dall’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in merito ad una adeguata storiografica preparazione all’ormai prossimo centocinquantesimo anniversario della proclamazione dell’unità d’Italia. In merito invece al secondo “centro d’interesse” scelto dagli Autori va precisato che nell’ambito dell’azione differenziata dei cosiddetti “amici” del Primo Ministro, Mamiani appare nella sua specifica fisionomia come l’uomo del Parlamento, ossia come il personaggio impegnato dal Cavour principalmente e più degli altri a difendere e a promuovere nella Camera dei Deputati – e attraverso essa in tutto il Parlamento subalpino – il più ampio sostegno possibile alla causa della indipendenza e della unificazione nazionale della penisola, considerata ormai come l’unica strada possibile rimasta al Piemonte per sottrarsi alla egemonia dell’Austria, sulla base di una politica – quella “italianissima” – che Egli vedeva ormai come irrinunciabile dopo il Congresso parigino del 1856. In tale ottica, mentre altri “amici” venivano dal Cavour inseriti nella rete amministrativa dello Stato o nella preparazione di una “rivoluzione popolare ed extra legale” oppure utilizzati in attività di collegamento con l’ambiente dei fuorusciti italiani e della rappresentanza internazionale presente a Torino, al Mamiani invece era demandato lo specifico compito di coinvolgere emotivamente e idealmente nella politica del Cavour il Parlamento – sentito come il centro primo e trainante dell’ormai intravisto Risorgimento “italiano” – e di costruire all’interno di esso quel vasto consenso, che solo avrebbe permesso di giungere a tempo opportuno alla guerra contro l’Austria. C’è di più. Se al conte pesarese anche nell’ambito della complessa costruzione di una coscienza nazionale italiana vanno riconosciuti grandi meriti, che, d’altra parte, non possono essere sottaciuti senza limitare la messa a punto del ruolo etico-politico da lui svolto, non v’è dubbio che la sua funzione di uomo leader della maggioranza nell’ambito del Parlamento subalpino ci risulta tuttavia senz’altro preminente e fondamentale fra il 1856 e il 1861: e ciò per l’appunto ci sembra essere quanto allora il Primo Ministro da lui soprattutto si aspettava. Pesaro, ottobre 2006 Gli autori 9 Avvertenze Tutto il materiale del Fondo Mamiani da noi consultato e citato nel presente saggio con le seguenti legende: - Carte di T. Mamiani - Lettere a T. Mamiani - Pluteo Mam. (dove “Mam” indica la Sala Mamiani, nella quale il pluteo è conservato) è reperibile presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro (B. O. P). Il Fondo risulta oggi definitivamente riordinato e catalogato a seguito di una pluriennale opera di recupero, catalogazione e rilettura del cospicuo patrimonio documentario lasciato dalla vedova del conte pesarese al Comune cittadino. Le tre sezioni del Fondo sopra citate possono essere consultate rispettivamente attraverso i seguenti cataloghi: G. VANZOLINI, Le carte di T Mamiani nell’Oliveriana di Pesaro, Pesaro, Stab. Tipo-Lito Federici, 1896. I. ZICARI, Catalogo del fondo “Comunale” Mamiani della Biblioteca Oliveriana (Lettere ricevute da T. Mamiani dal 1832 al 1885), in “Studia Oliveriana”, VIII-IX, (1960-1961), Pesaro, 1962. R. CASABIANCA, L’archivio di Casa Mamiani (di prossima pubblicazione e oggi presente in copia computerizzata presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro). Quanto alla bibliografia è da notare che a nostra conoscenza non esiste alcun lavoro specifico sul rapporto fra Mamiani e Cavour negli anni 1850-1861, tranne l’articolo di R. UGOLINI, Mamiani e Cavour nel decennio di preparazione, in “Studia Oliveriana”, N. S., V, Pesaro, 1985, varie volte da noi citato e discusso nel corso del presente saggio. Per la bibliografia generale, non ritenendosi necessario aggiornare quanto già riportato in A. BRANCATI - G. BENELLI, Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista, Pesaro - Ancona, Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro - Il Lavoro Editoriale, 2004, pp. 495-500, rimandiamo a quanto riportato in tale opera. INTRODUZIONE 1. Nell’ambito di un rinnovato interesse per gli studi risorgimentali il presente saggio tende a riscoprire, sulla scorta di informazioni documentarie in vario modo reperibili, l’ancora poco conosciuta attività politica svolta dal conte Terenzio Mamiani Della Rovere, patriota pesarese, nel Piemonte di Camillo Benso conte di Cavour e a far riemergere la stretta collaborazione instauratasi fra i due statisti, che una reciproca stima e una rispettosa amicizia unì nell’opera – come si diceva allora – della rigenerazione patria. Un periodo cronologico certamente breve, ma indubbiamente importante sia per la ricostruzione biografica del pesarese che da qualche anno andiamo facendo, sia per una più puntuale conoscenza di un periodo cruciale del nostro Risorgimento, contrassegnato in maniera certamente preminente dalla personalità e dall’opera del Cavour, ma corredato anche da una pluralità di voci e di apporti personali importanti, che, pur se a vario titolo e con diverso peso storico, contribuirono a creare l’unità e l’indipendenza nazionale della penisola, ma che anche la migliore storiografia ha invece trascurato, limitandosi ad includerne il ricordo nell’azione – certo fondamentale e primaria, ma mai esclusiva – di pochi personaggi meritatamente ormai da tutti conosciuti. Nulla, lo si sa, nasce per caso né senza ragione: e la riduzione della più nota storiografia ottocentesca a pochi ma grandi protagonisti – Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, cui di volta in volta si aggiunse in posizione subordinata qualche altro personaggio di non uguale grandezza, quali Massimo d’Azeglio o Alfonso La Marmora – non fa eccezione: essa rappresentò infatti il giusto riconoscimento dell’Italia postunitaria verso coloro che più vistosamente contribuirono con la loro opera alla realizzazione di un avvenimento, che a parere di tutti aveva dell’incredibile e dell’irrepetibile, non foss’altro che per i modi e per la brevità dei tempi nei quali esso si realizzò. Una semplificazione, questa, che ebbe origine sin dall’inizio e che, a differenza di quanto a volte è stato detto e scritto non derivò tanto dalla volontà dell’allora classe dirigente di ottenere con 11 una accorta propaganda di regime – ossia con l’esaltazione epico-mitica della recente unificazione della penisola ad opera della Casa Savoia e di un ristretto numero di eroi nazionali – quel consenso di massa allora necessario ad una unità nazionale, che nei fatti ancora non c’era o che era ancora evidentemente troppo fragile e precaria per dare garanzie di continuità e di futuro, quanto piuttosto dal sincero convincimento dei contemporanei che proprio così stessero le cose nella realtà degli eventi appena conclusi. D’altra parte, poteva risultare difficile dopo il 1870 non riconoscere come preminente il ruolo esercitato da Vittorio Emanuele II, Cavour e Garibaldi nel Risorgimento italiano e al tempo stesso altrettanto facile operare, certamente enfatizzando, una collettiva esaltazione di alcuni importanti personaggi, accomunati spesso in una atmosfera di unità d’intenti e di interventi oggi insostenibile, ma che non di rado si costituì spontaneamente e sinceramente fin dalle prime ore del regno. Una semplificazione, questa, alla quale contribuì in gran parte la memorialistica dell’epoca diffusa dagli stessi protagonisti degli avvenimenti, alla quale non si sottrasse neppure lo stesso Mamiani, che, pur anch’egli uomo di spicco dell’intero Risorgimento italiano1, avvertì – dominato com’era da un profondo senso morale – tutta la differenza che passa fra comprimari e uomini grandi, lasciando solo a questi ultimi l’onore del ricordo. Tessendo, ad esempio, in Senato l’elogio del Cavour, così egli si esprimeva rivolgendosi ai suoi colleghi: Giriamo lo sguardo sull’intera penisola, giriamolo più volte ed attentamente dall’Alpi al Lilibeo, paragoniamo le sue sorti presenti con quelle di vent’anni addietro quand’era serva, squarciata, invilita e certo vi si rinnoverà una specie di stupore per la profonda universale trasformazione. Or bene, di tutte queste mirabili innovazioni, di questo civile miracolo, chi non lo sa, chi non lo ripete?, furono autori principalissimi due sole persone, il Re e il suo gran Ministro2. Poco dopo, in occasione del ventiquattresimo anniversario dell’unità, e dunque pochi giorni prima della morte del sovrano, celebrato con grande fastosità e concorso di popolo a Roma, Mamiani aggiungeva ai due personaggi anche qualche altro nome – Carlo Alberto, Mazzini e Garibaldi3 –, non discostandosi tuttavia dalla classica rievocazione strettamente elitaria dei grandi responsabili del recente passato. Tutto ciò sortì il suo effetto: la semplificazione del quadro storicorisorgimentale poteva infatti dirsi già sostanzialmente compiuta pochi anni dopo la unificazione del regno, anche se a costo di una sostanziale 12 rimozione della pluralità delle voci e delle azioni di non pochi altri personaggi, che il presente saggio tenderà invece a riportare in luce pur se generalmente in forma del tutto implicita ed atematica. Per quanto poi riguarda in particolare Terenzio Mamiani nel Piemonte cavouriano, una rilettura più frazionata delle vicende permette di riaffermare quell’importante ruolo da lui allora svolto, che, universalmente riconosciuto dalla storiografia ottocentesca, è apparso invece ad alcuni studiosi del Novecento troppo esagerato ed enfatizzato e di conseguenza ben presto da essi anche demitizzato4. Ed è per l’appunto proprio questo secondo aspetto l’intento fondamentale del presente saggio: esso tende infatti a recuperare la fisionomia politica del personaggio e la sua funzione nell’ambito delle vicende nazionali dell’epoca, finendo poi anche per confermare le ragioni della solida testimonianza ottocentesca in favore della sua fama e per riportare dunque alla giusta memoria un protagonista delle vicende risorgimentali oggi, a parere nostro, troppo trascurato quando non addirittura indebitamente decostruito. 2. Gli anni presi in considerazione dal presente saggio sono per la gran parte quelli del Piemonte liberale governato dal conte di Cavour, ormai affermato Presidente del Consiglio del regno di Sardegna dopo il triennio azegliano (1849-1852) e soprattutto quelli della diretta collaborazione parlamentare e politica fra Mamiani e Cavour (1856-1861). Una collaborazione, che si attuò essenzialmente nell’ambito dell’attività parlamentare: infatti – contrariamente alle voci che comunemente circolavano – Cavour non ebbe mai fretta di affidare a Mamiani dirette responsabilità governative, anche quando nel 1860 si deciderà a crearlo ministro della Pubblica Istruzione5. La lettura dei documenti porta anzi a pensare che Cavour vedesse in Mamiani, uomo di raffinata cultura, dai modi gentili e cortesi e soprattutto sempre duttile nei confronti delle opposizioni, più l’uomo politico che non l’uomo di Stato, bisognoso quest’ultimo, come si sa, non solo di autorevolezza morale, ma anche di chiara propensione decisionale: cosa, questa, non sempre amalgamabile con il rispetto altrui. Sotto tale aspetto certamente più garanzie offrivano a Cavour altri suoi “amici”, come Luigi Carlo Farini e Marco Minghetti, ai quali di fatto preferirà ricorrere per incarichi propriamente governativi6. Mamiani, abile, colto e per di più anche ben introdotto nei migliori circoli torinesi e genovesi, rappresentava tuttavia per Cavour un politico autorevole e competente e come tale un elemento di sicura capacità di mediazione nell’ambito della maggioranza ministeriale e nei suoi rap13 porti con il Parlamento: e proprio in tale ambito egli volle per molto tempo tenerlo, ponendolo anche in una posizione di evidente prestigio, senza trascurare tuttavia la possibilità di assegnargli, al momento opportuno, le funzioni di ministro della Pubblica Istruzione, per le quali molti gli attribuivano le migliori qualità. E probabilmente fu proprio pensando a un tal fine che egli volle inserirlo fra i professori di ruolo della Regia Università di Torino, la prima del regno, ed imporlo poi nella cattedra di filosofia della storia di nuova istituzione alla commissione esaminatrice, anche se evidentemente non senza suoi effettivi meriti7. Politicamente Mamiani apparteneva alla sinistra moderata ed era stato anzi fra i maggiori responsabili piemontesi della creazione di una corrente politica detta “centro sinistro”, nata nel 1849 ad opera di Urbano Rattazzi, di Lorenzo Valerio, di Domenico Buffa e di altri e caratterizzata da una funzione critica nei confronti dell’eccessivo moderatismo del governo di Massimo d’Azeglio, ma anche ostile alle opposizioni dell’estrema sinistra. La sua assunzione, però, a uomo del Cavour, ossia del maggior esponente del “centro destro” del Parlamento, non dovette sembrare sconveniente ai suoi amici, date le strette relazioni di collaborazione che allora esistevano fra i due poli della nuova maggioranza antiazegliana. Del resto, il sostegno politico offerto dal Mamiani al conte di Cavour non si discostò mai dai sentimenti liberal-democratici, che egli aveva sempre professato insieme all’amico Gioberti: e ciò gli permise di mantenere, pur agendo all’interno dello schieramento ministeriale, una libertà di idee e di azione non sempre omogenea all’indirizzo del centro moderato del Cavour e per ciò stesso a volte anche mal sopportata dai cavouriani di stretta osservanza. A questi infatti poteva dispiacere la sua espressa vicinanza più all’anima popolare, da loro considerata come scarsamente controllabile, che non a quella aristocratico-borghese del liberalismo moderato: un’anima, che a non pochi sembrava – certamente a torto – confinare con l’estrema sinistra e addirittura con l’area mazziniana8; così come poteva dispiacere la sua preferenza per un risorgimento nazionale operato più attraverso le masse popolari che non attraverso gli ufficiali canali diplomatici, in consonanza con la linea albertina dell’“Italia farà da sé”, pur se non disgiunta da alleanze di ampio respiro internazionale. Era sua convinzione infatti che solo la diretta partecipazione del popolo avrebbe potuto offrire al risorgimento quel carattere di gloriosa epopea nazionale, che solo nella lotta per la propria liberazione da un potente ed agguerrito nemico, quale allora era l’Austria, avrebbe potuto fondare una forte e salda coscienza nazionale, scoprendo e quasi verificando sul campo di 14 battaglia la propria unità politica e la propria specificità morale e culturale di un paese risorto. Una partecipazione di popolo, che avrebbe contribuito inoltre a dare lustro e dignità all’Italia davanti all’Europa, poiché – diceva – a differenza degli individui le nazioni possono vivere solo di gloria9. Dal Cavour tuttavia Mamiani apprese, a sua volta, a meglio apprezzare la necessità dell’accentramento direzionale e delle forti leghe diplomatico-internazionali, capaci di far uscire il Piemonte e con esso il risorgimento italiano dall’isolamento europeo, che lo avrebbe destinato a sicuro fallimento per ancora troppo tempo. Mamiani, dunque, ugualmente distante nella Camera elettiva del Parlamento dalla destra del conte Clemente Solaro Della Margarita e dalla sinistra democratica di Angelo Brofferio, era schierato con la maggioranza parlamentare, ma in posizione media fra la sua ala di sinistra più accesa, quella di Giorgio Pallavicino – posta ai limiti estremi del consenso e non di rado anche al di là di esso e dunque più a sinistra dello stesso Rattazzi10 – e l’ala diplomatico-moderata del Cavour, assai più prudente, pur se non aliena per principio nei confronti dell’agitazione popolare. Merito, comunque, del Cavour fu avere ben compreso tale medianità spostata a sinistra del Mamiani e averla sempre rispettata11, come merito del Mamiani fu aver riconosciuto subito ed apertamente, da parte sua, la maggiore caratura politica del Primo Ministro, di averlo perciò lealmente assecondato e di non avergli mai fatto mancare il proprio appoggio parlamentare, specialmente nei momenti difficili. La sua era una fedeltà sincera ed aperta, ma tuttavia anche responsabile e di tipo più costruttivo e propositivo che ripetitivo: cosa, che, sottraendolo alla palude dei semplici epigoni cavouriani, quelli cioè che “votavano come un sol uomo col Ministero” e che all’occasione si facevano notare come “gli agenti provocatori, gli abbaiatori del conte di Cavour” – scriveva Ferdinando Petruccelli Della Gattina, uomo della sinistra estrema e pressoché unico “repubblicano” della Camera unitaria – finì per conferirgli una fisionomia sua propria e un indubbio rilievo politico all’interno del suo stesso schieramento, che non passavano allora inosservati neppure alle opposizioni, come ancora una volta è buon testimone lo stesso Petruccelli Della Gattina, il quale, parlando della posizione di Mamiani all’interno del Parlamento, lo poneva significativamente fra i “rivali più o meno mascherati del conte di Cavour”, fra quelli cioè che “sono là, spiando l’ora, l’occasione, il pretesto, sia per dare addosso al Gabinetto che naufraga, sia per essere chiamati a farne 15 parte”12. Una sottile malevolenza, questa, che mal si addiceva però sia alla devozione del Mamiani per il suo primo Ministro, sia a quella del Farini e sostanzialmente anche alle aspettative degli altri “rivali mascherati”, come egli li definiva – Bettino Ricasoli, Carlo Boncompagni e Giovanni Lanza – ma che è anche indicativa dell’ascendenza da essi raggiunta nel Parlamento Subalpino e della loro autorevolezza nello schieramento ministeriale. Tali considerazioni rendono comprensibile un certo modo di agire del Mamiani non di rado anche piuttosto dissonante, pur se mai ostile, nei confronti della stessa politica cavouriana, che non poteva sfuggire alla sua ala più osservante generando a volte sorpresa e disappunto13. A fortiori, pertanto, non meno responsabilmente libero egli si sentiva nei confronti dei vari progetti di legge presentati alla Camera dai responsabili del ministero in carica. Egli, infatti, in occasione di dibattiti parlamentari su proposte governative, che poco collimavano con le proprie vedute e che pertanto non facilmente potevano essere da lui accettate nella loro interezza, non aveva remore a levarsi in aula per proporre emendamenti suoi propri, che in alcuni casi si trovavano ad essere addirittura solidali con quelli delle opposizioni di sinistra14. Tale atteggiamento, del resto, faceva gioco al Cavour, che infatti mai tentò di imbrigliare la spontaneità del Mamiani, ben comprendendo l’opportunità che la cosa gli offriva per meglio ottenere il consenso dei due poli dell’area governativa nelle questioni che più importavano15. E che le cose stessero proprio così, lo dimostra il fatto che mai emerge dagli atti ufficiali o privati una sollecitazione del Cavour nei confronti del Mamiani per un più lineare adeguamento alle sue proposte di governo: una considerazione di non poco conto, se si tiene presente il comportamento mai troppo tenero del Cavour con quanti fra i suoi “amici” non si allineavano con lui nei momenti politici di rilievo. Nonostante tali differenze, Mamiani rimarrà sempre comunque un leale uomo di Cavour, il quale d’altra parte gliene sarà infine grato, affidandogli il ministero della Pubblica Istruzione nel gennaio del 1860. Con lui infatti Mamiani trovava comunanza di stima personale e piena affinità di vedute politiche e di strategie operative, come non ebbe remora di confessargli all’atto dell’accettazione del proprio incarico governativo in una lettera nella quale così al riguardo si esprimeva: Signor Conte, l’onore di essere anche per un dì solo collega nel Ministero col più grand’uomo di Stato de’ nostri tempi, corona tutta la mia vita e illustra di invidiato decoro la mia canizie… Io mi sono sempre compiaciuto di riconoscere che tutti i 16 principj del Conte di Cavour erano pure i miei. E, se non è un giudicio troppo superbo, aggiungerò che è raro trovare in due teste tanta conformità di pensieri, salvo la parte del genio che in Lei è somma e in me fa pieno difetto16. Era la pura verità sul rapporto fra Mamiani e Cavour. Ed è proprio nell’ambito di queste coordinate che si situa il tipo di funzione svolta dal conte pesarese nella fase decisiva dell’unificazione italiana e dunque anche il tipo di importanza che egli ebbe ad avere nella storia del risorgimento nazionale: la sua azione non si espresse a livello degli apparati decisionali ed operativi dello Stato, dato che egli sostanzialmente non fu uomo di governo, non diplomatico di carriera presso le corti europee e non ufficiale dell’esercito; ma solo a livello della politica, che egli svolse in maniera fine e perspicace con l’intento primario di creare una forte coscienza nazionale italiana: coscienza, che nel 1855, all’atto cioè della partecipazione piemontese alla guerra di Crimea, egli affermava non esistere ancora con chiarezza d’idee e con precisione d’intenti, nonostante non mancassero ormai diffuse tensioni e concreti ideali risorgimentali17. Di qui la necessità e il compito da lui prescelto di dover portare a maturità la formazione della coscienza nazionale unitaria ed operativa, facendole oltrepassare le vaghe e velleitarie aspirazioni patriottiche dei più, incapaci – a suo avviso – di creare una strategia “italianissima” e vincente. Questo l’ambito nel quale egli operò nel decennio cavouriano e nel quale, soprattutto dopo la sua elezione a deputato, seppe anche emergere fra gli uomini del Primo Ministro, diventando uno dei simboli più noti della causa “italianissima” di stampo moderato sia in Parlamento sia nel paese. Egli finì in tal modo per assumere, prima, un ruolo di grande importanza nel tessuto stesso del nostro Risorgimento, quello popolare, che – diceva Mamiani – era ancora mancante e senza il quale l’azione militare e diplomatica, destinata alla fine degli anni Cinquanta a diventare vittoriosa, non sarebbe mai stata possibile; e, poi, per incidere anche sul corso stesso degli avvenimenti grazie all’autorevolezza morale della sua persona, del suo pensiero e della sua attività politica. Tutto ciò è ben attestato dagli Atti parlamentari della Camera elettiva torinese e dal privato archivio personale del conte, dai quali appare in modo molto evidente il suo intento di avviare una politica fortemente antiaustriaca nel Parlamento subalpino e di riversarla al tempo stesso sul tessuto popolare del paese. Una politica, che ben si rivela nell’incrocio oratorio alla Camera soprattutto fra tre personaggi dal riferimento obbligato: il conte Solaro Della Margarita per la destra conservatrice, il conte Terenzio Mamiani per il centro governativo e l’avvocato Angelo Brofferio per la 17 sinistra estrema. Tre personaggi assai diversi per concezione politica, stile retorico e forma stessa di vita, i quali, richiamandosi a vicenda e a vicenda combattendo le opposte argomentazioni, seguiranno passo per passo gli sviluppi della politica nazionale orchestrata dal Cavour negli anni decisivi per il Risorgimento italiano, negli anni cioè 1856-1861: anni, che furono in definitiva anche quelli più importanti per la vita pubblica dei due uomini politici. 3. Legato alle forme urbane della “vecchia” scuola diplomatica piemontese, come egli stesso dirà; conservatore convinto dei valori morali e politici della tradizione savoiarda; sostenitore delle buone relazioni con l’impero d’Austria; elegante ed equilibrato nella sua dialettica compostamente classica, era il conte Solaro Della Margarita. Terenzio Mamiani era invece oratore rigoroso nell’uso della pura espressione linguistica italiana, a volte persino un po’ datata per i suoi tempi, e particolarmente impegnato a tenere comunque desto il Parlamento sull’ormai prevedibile ed inevitabile scontro con l’Austria, sempre sperato dai liberali, ma dopo il 1856 sentito finalmente vicino nei modi e nei tempi, pur se non avventatamente affrettabile. A sua volta “tribolato apostolo della democrazia” – come egli stesso si era definito in un discorso tenuto in Parlamento il 16 marzo 1857 – , convinto sostenitore della rivoluzione nazionale sempre pronta, spontanea e popolare, oltre che intelligente nelle sue argomentazioni politiche di estrema sinistra e irruente nella sua foga oratoria, era Angelo Brofferio principe del foro genovese. Vittima designata degli strali del centro e della sinistra in virtù dell’ormai intrapresa politica antiaustriaca e italianamente nazionale del ministero Cavour dopo il Congresso di Parigi (1856), era naturalmente il conte Solaro Della Margarita, mentre la contrapposizione più viva ed immediata si polarizzava, altrettanto naturalmente, nello scontro Mamiani-Brofferio, ai quali poi si affiancavano solitamente – anche con interventi di alto rilievo – le voci di molti altri parlamentari, non di rado brillanti e ben preparati. Tale polarizzazione fra i due uomini politici nella Camera subalpina è paradigmaticamente messa bene in evidenza in un discorso pronunciato da Angelo Brofferio il 14 aprile 1858 quando, in occasione del dibattito sul progetto di legge teso a punire anche in patria gli attentati operati da cittadini del regno contro sovrani stranieri, egli, dopo l’ennesima contrapposizione col conte pesarese, così si esprimeva opponendosi alla tattica prudente attuata dal ministero e da Mamiani difesa: 18 L’onorevole Mamiani ci soggiunge: noi dobbiamo aspettare; chi sa che un giorno o l’altro da questo principe [NapoleoneIII] non ci possa venire la salute dell’Italia. Aspettare! L’onorevole Mamiani ben altre volte ci ha detto di aspettare. Quando all’invito di Bonaparte, andavamo in Crimea, l’onorevole Mamiani ci diceva: aspettiamo; ed abbiamo aspettato. Quando all’epoca del Congresso [di Parigi, 1856] ricevevamo vuote promesse, l’onorevole Mamiani ci diceva ancora: aspettiamo; ed abbiamo aspettato. Ora un’altra volta l’onorevole Mamiani ci dice: aspettiamo… Ma, Dio buono, dovremo noi subire l’eterna condanna di aspettare sempre a prezzo dell’onore, della dignità del paese! L’onorevole Della Margarita diceva all’onorevole Mamiani che colle poesie non si cacciano via i Tedeschi; l’onorevole Mamiani rispondeva all’onorevole Della Margarita che i Tedeschi non si cacciano con la sua politica retrospettiva; ed io alla mia volta dichiaro all’onorevole Mamiani che colla sua politica aspettativa i Tedeschi staranno in perpetuo tranquilli e sicuri a casa nostra18. Tutto ciò naturalmente non rispondeva a verità. Mamiani infatti non solo sentiva ormai prossima la rivoluzione nazionale, ma anzi, come vedremo meglio in seguito, sotterraneamente operava nel frattempo per essa, anche se Cavour, con buone motivazioni, non voleva né precorrere i tempi né ripercorrere le fallite avventure quarantottesche, che egli giudicava vissute a suo tempo con forte valenza emotiva, ma proprio per questo dimostratesi alla fine avventate e sterili. La maggioranza parlamentare d’altra parte – ma non solo essa – conosceva bene il passato di patriota ed il lungo esilio parigino del Mamiani e, nonostante le accuse del Brofferio, non gli faceva mancare la propria stima non di rado mista anche a reverenza. Ne è esempio, sempre nel corso del progetto di legge sugli attentati alla vita dei principi stranieri, una espressione del Farini pronunciata in piena assemblea. Di fronte alle reiterate accuse mosse in quel giorno dalla destra e dalla sinistra estreme al ministero contro la proposta ministeriale, giudicata umiliante per il Piemonte e per le sue libertà politiche in quanto praticamente imposta – si diceva – da Napoleone III dopo l’attentato di Felice Orsini (14 gennaio 1858), Farini così concludeva il suo discorso, convinto di apportare credibilità al disegno di legge del ministero: Nel fare questo concetto della legge ho pure qualche conforto;… mi conforta eziandio l’autorità di alcuni insigni uomini che della libertà e dell’indipendenza nazionale furono sempre amatori e procuratori ardentissimi; mi conforta l’autorità del mio vecchio e dilettissimo amico, il conte Mamiani, che ieri qui perorava. Sì, mi è anche essa di conforto questa autorità, perché a chi per la libertà ha speso la vita intiera, 19 raccogliendo qualche gloria sul proprio nome, può ben stare a cuore la conservazione della libertà, quanto a coloro i quali ne hanno colto i frutti senza patire travagli!19. E fu soprattutto in tale contesto parlamentare, dinamico e frastagliato, che Mamiani visse negli anni 1856-1861 la sua stagione politico-risorgimentale. 4. Come già in precedenza precisato, il presente saggio mira a confermare il comune giudizio della storiografia del secolo XIX sulla eminenza della personalità del Mamiani e sull’importanza dell’azione politica da lui svolta20 anche nelle vicende centrali del nostro Risorgimento. Ora, proprio per questo motivo si è tenuto sempre presente, come in filigrana, l’opinione di uno storico contemporaneo, Romano Ugolini, il quale, al contrario, in un corposo saggio – edito nel 1985 in occasione del centenario della morte del conte pesarese e dunque ormai forse datato ma da alcuno mai contestato – ha ritenuto di poter presentare l’operato di Terenzio Mamiani nel decennio cavouriano in chiave così negativa, ma così vistosamente negativa21, da far sorgere almeno il dubbio sulla sua attendibilità e sul suo fondamento: possibile – viene infatti da chiedersi – che Cavour, i cui decisi e repentini ostracismi, spesso violenti ed irrefrenabili, altre volte più diplomatici, ma non per questo meno efficaci e risolutivi, sia stato invece con Mamiani così paziente e così comprensivo da tenersi accanto, per tanto tempo, un uomo tanto screditato e da crearlo infine addirittura ministro della Pubblica Istruzione? E visto poi un esito così negativo – come sostiene l’Ugolini – ottenuto dal Mamiani anche nella gestione del ministero della Pubblica Istruzione al punto da fargli sorgere il desiderio estremo di farlo dimenticare ad amici e nemici, è credibile che il Cavour abbia deciso di inviarlo, oltretutto senza alcun bisogno (c’erano infatti i funzionari di carriera, a cui egli dava preferibilmente tali incarichi), quale ambasciatore plenipotenziario in Grecia, pur avendo la certezza – dati i precedenti! – che Mamiani avrebbe finito per screditare anche la nuova Italia all’estero, in un settore oltretutto come quello greco-mediterraneo, nei riguardi del quale egli nutriva speranze di successo per Casa Savoia? E con quale intelligenza politica, infine, il Cavour, che ben conosceva l’ambiente della diplomazia internazionale e che faceva di essa l’arma prima per la realizzazione dei suoi disegni, avrebbe potuto porre Mamiani nella condizione non solo di essere “deriso” dai suoi colleghi parlamentari, ma anche da tutte le diplomazie europee presenti allora in Atene? 20 A noi sembra che qualcosa non torni. E comunque si tratta di una tesi, quella dell’Ugolini, che contrasta troppo, per non aver bisogno di più puntuali approfondimenti, con il giudizio diffuso e generalizzato dei suoi contemporanei che ritenevano il Mamiani un uomo di vasta cultura e un ragguardevole uomo politico, ma soprattutto un grande patriota al quale molto il risorgimento nazionale doveva22. Ecco perché, da parte nostra, abbiamo pensato che fosse opportuno riprendere in esame l’intera vicenda politica del Mamiani piemontese e soprattutto quella degli anni 1856-1861, quelli cioè nei quali fu direttamente e costantemente a contatto col Cavour, e ripercorrerla con particolare cura. E, per meglio riuscire nell’intento, abbiamo creduto opportuno non isolare il personaggio e la sua vicenda dal loro più ampio contesto politico, ma inquadrarli nella concreta dinamica dei fatti e delle discussioni dell’epoca, nonché nei modi e nelle forme che ebbero ad implicarli. Tale tipo di indagine storica dovrebbe far meglio risaltare i risvolti positivi o negativi della sua attività e contribuire con ciò a far anche meglio comprendere il giudizio su di lui dato dai contemporanei. Siamo convinti infatti che tale metodo possa permettere di superare due tentazioni tanto diffuse quanto contraddittorie nella storiografia locale: quella di colorire a volte eccessivamente in positivo i propri personaggi, nonché quella di operare demitizzazioni a tutti i costi nella volontà di non apparire municipali. Nel fare ciò, abbiamo tenuto presente sempre e in primo luogo – come per un necessario confronto – le tesi e le piste documentarie offerteci dall’Ugolini, debitamente integrandole ed ampliandole con tutte le fonti che siamo stati in grado di reperire, evitando tuttavia al contempo e con ogni cura di metterci con esse in contrapposizione e soprattutto in polemica – cosa del tutto aliena al nostro spirito, così come estranea essa fu sempre al Mamiani – e cercando invece e più semplicemente di offrire una nuova lettura di documenti vecchi e nuovi sull’argomento. Nella storiografia del resto, lo si sa – per dirla con lo Huizinga – nessuna cosa è detta per l’eternità e, qualunque possa essere il valore del nostro saggio, crediamo che anche il discredito (a parere nostro, comunque assolutamente eccessivo) sotto cui l’Ugolini ha creduto di dover ricoprire la figura del Mamiani, non si sottragga alla legge del tempo. O, almeno, lo speriamo noi, ai quali un lungo studio dell’archivio privato del conte pesarese suggerisce di parlarne con diversa simpatia. 21 Note 1 La diffusa fama nutrita dai contemporanei nei confronti del Mamiani quale una delle personalità più importanti del Risorgimento italiano è solidamente testimoniata da numerose lettere a lui inviate dai più disparati estimatori italiani e non, raccolte nel particolare Fondo Mamiani esistente presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro. A solo titolo di esempio, valgano le seguenti testimonianze. Un suo vecchio amico della “rivoluzione romagnola” del 1831, come lui riparato in Francia e come lui contrario a richiedere l’amnistia di perdono a Pio IX, l’avvocato Filippo Canuti, così gli scriveva da Parigi il 12 settembre 1856, congratulandosi con lui per la sua elezione al Parlamento subalpino: “Come detto altra volta, è stato un bene per l’Italia che voi siate entrato nel Parlamento Piemontese: la vostra parola ha molto eco per tutta la penisola, ed è speranza e conforto di tutti i buoni italiani” (vedi A. BRANCATI-G. BENELLI, Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico Liberale e il risorgimento federalista, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 2004, p. 200). A conferma delle parole del Canuti, ci sembra opportuno riportare, a solo titolo di esempio, anche qualche altra testimonianza fra le molte presenti nell’archivio Mamiani. Il 14 marzo 1856 Pietro Fanfani scriveva da Firenze a Torino al conte pesarese per presentare un suo giovane amico, il dott. Massei “bravo e buon giovane, il quale vien costà per la prima volta, e tornerà ambiziosissimo di aver conosciuta personalmente V. S., e di poter dire: Io gli ho parlato” (Lettere a T. Mamiani, n. 5975). Una richiesta di questo genere è assai frequente nell’epistolario. Un personaggio di assai maggiore importanza nell’allora Piemonte politico, lo storico e conte Luigi Cibrario, così gli scriveva da Torino il 2 ottobre 1861: “Raccomando alla bontà di V. S. il mio cugino ed amico conte Alberto Ioannini Ceva di S. Michele...Egli desidera di ammirare nella persona di V. E. una delle glorie Italiane, uno degli apostoli della libertà” (Lettere a T. Mamiani, n. 3358). Ciò era, del resto, quanto si pensava anche fuori dall’Italia. Il 10 dicembre 1848, infatti, Virginie Ancelot – donna di lettere e pittrice, che a Parigi teneva un assai reputato salotto, frequentato di fatto da quasi tutta la generazione romantica e che aveva preso particolarmente a cuore l’esiliato Mamiani – gli scriveva: “Vous êtes le Washington de l’Italie et mon admiration naturelle pour tout ce qui est beau me donnerait de la sympathie pour vous quand même je n’aurais pas dejà une grande amitié” (Lettere a T. Mamiani, n. 207). L’espressione, considerata alla luce della stima della Ancelot per il conte pesarese, non aveva, per lei nulla di iperbolico; ella manterrà di fatto inalterata tale stima nel tempo, cosa che le fece conservare il ritratto del Mamiani nel suo salotto (V. ANCELOT, Un salon de Paris, 1824 à 1864, Paris, Dentu, 1866, pp. 89-90). Intrisa della stessa stima umana e politica era anche una lettera che il 28 dicembre 1859 gli inviava dalla Lombardia, allora occupata dalle truppe franco-piemontesi a seguito della seconda guerra di indipendenza, “il primo medico dell’armata francese e capo del servizio medico di Bergamo”, M. Gramanini, felice di aver avuto “l’honneur et le plaisir si long temps desiré de faire vôtre connaissance personnelle “. In essa egli scriveva: “J’y ajoute des voeus, pour que la question de nôtre chère Italie reçoive...la solution que réclament tant de siècles de larmes, d’exil, de torture, de supplice”; e terminava: “Demander le bonheur de l’Italie, c’est le demander pour vous même, qui en êtes, tout à la fait, le martyr, et l’illustre italien” (Lettere a T. Mamiani, n. 4936). Esattamente questa era anche l’opinione di Giuseppe Massari, che a sua volta così gli scriveva qualche anno più tardi: “Io venero in voi l’illustre italiano, l’uomo fedele a quei grandi principi di giustizia, di moralità, di libertà che hanno fatto l’Italia ed uno dei più nobili caratteri dell’epoca nostra” (Lettere a T. Mamiani, n. 8588). Una stima così diffusa e così solida trovava la sua ragion d’essere da una parte nella partecipazione diretta del Mamiani alle vicende risorgimentali in una posizione costantemente segnalata, dall’altra nella grande forza morale e religiosa con la quale egli dava forma e vita al proprio ideale liberal-nazionale. Glielo scriveva il 21 settembre 1857 un’affezionata amica, Bianca De Simoni Rebizzo (1800-1869), la fondatrice degli asili infantili di Genova, la quale, contrapponendo il messaggio altamente etico-politico diffuso dal programma risorgimentale del Mamiani a quello intriso di pessimismo e di dubbio gusto romantico del Guerrazzi nei suoi romanzi – e che ad essa sembrava piuttosto “il raglio dell’illustre Guerrazzi” – gli scriveva: “Che ne dite del nobile intento di questo nostro scrittore, e vi par poco persuaderci che non siamo che bestie etc. etc.? Bell’intento, e ne avremo un gran profitto nell’ora del dolore e della morte dei nostri cari”. 22 Tutto ciò non poteva certo piacere “a quel cuore che mi fece leggere i vostri scritti immortali, amico mio, e dai quali ritraggo la forza per vivere bene, e per morir degnamente, con quell’amore che mi trasporta in un mondo migliore, in un ordine di esseri più grandi, dove gli asini qualunque sia il numero delle gambe che possiedono sono condannati al disprezzo” (Lettere a T. Mamiani, n. 11021). Di qui il pregio in cui erano solitamente tenute anche le sue raccomandazioni a favore di persone che a vario titolo a lui si rivolgevano. Gli scriveva, ad esempio, a tal proposito l’8 ottobre 1861 il generale Enrico Cialdini da Napoli, del cui territorio era allora luogotenente generale del re: “Mi dò premura di assicurarla che le sue raccomandazioni saranno sempre da me accolte con quella sollecitudine che mi è inspirata dall’alta stima che nutro per la rispettabile di Lei persona” (Lettere a T. Mamiani, n. 3317). E che non fossero parole di rito sta a mostrarlo anche una lettera di Giovanni Lanza, fino a qualche mese prima Presidente del Consiglio dei Ministri, al comune amico Domenico Molinari a cui così scriveva per raccomandare l’assunzione presso il liceo Gioberti di un professore di storia, Vincenzo Papa, aggregato dell’Università di Torino e, a quanto il Lanza diceva, “uomo di molta dottrina e di non minore onestà di vita”: “ Voi che godete la stima e l’affetto del Mamiani, potreste prestare un prezioso servizio a suo favore, scrivendo una commendatizia al Mamiani, il cui voto è giustamente avuto per autorevolissimo. Il pr. Papa è di già raccomandato al Bonghi, al Prati, al Messedaglia, al Bertoldi; tuttavia gli gioverebbe pur di molto il favore del Mamiani” (Sala Mam. A1, carteggio 2, Lettere alla contessa Mamiani, n. 1). Di attestazioni autorevolissime e di tal genere è pieno il detto epistolario mamianiano. 2 T. MAMIANI, Minuta di discorso, Sala Mam. A 1, carteggio 4, B 4. Appunti disordinati d’argomento politico e sociale, fasc. 1, n. 2. Interessante a tal proposito sono alcuni fogli autografi del Mamiani scritti per Giuseppe Massari, il quale, per la sua opera edita poi nel 1878 dai F.lli Treves di Milano con il titolo La vita ed il regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re d’Italia, si era rivolto, tra gli altri, anche al conte pesarese per pregarlo di scrivergli motti ed aneddoti del re, da lui personalmente ascoltati all’epoca della sua attività di Ministro della Pubblica Istruzione. Da essi appare chiara la sincerità della memoria, ma anche la idealizzazione in lui già avvenuta della figura del vecchio sovrano, allora appena deceduto (Carte di T. Mamiani, busta 4, I a, n. 11 a,b,c; le lettere del Massari al Mamiani, si trovano in Lettere a T. Mamiani, nn. 8586-8587). Esempio tipico della idealizzazione dei maggiori autori del Risorgimento, e con essa anche della conseguente semplificazione degli avvenimenti storici dell’epoca, è proprio il Massari, non solo nella già citata opera su Vittorio Emanuele II, ma anche nella sua nota biografia intitolata Il Conte di Cavour: ricordi biografici (Tip. Eredi Botta, Torino, 1873), nella quale si attenne, a sostanziale metodo dell’opera, al seguente principio: “Rivivendo con la memoria in quei dieci anni che trascorsero dal 1849 al 1859...sorge spontanea sulle labbra l’esclamazione: per riuscire ci voleva un uomo come era Camillo Cavour, ci voleva proprio lui! A tanta impresa tanto uomo” (ibidem, p. 7). 3 T. MAMIANI, Minuta di discorso, Sala Mam. A 1, busta 5, fasc. II. Interessante nel documento il ricordo di Mazzini, cosa assolutamente rimarchevole per un liberale moderato – quale era Mamiani – organicamente inserito nello stato monarchico, per il quale, a livello ufficiale, la figura del patriota repubblicano genovese rappresentava ancora un forte elemento di imbarazzo ideale e politico, a differenza di quanto invece avveniva a livello popolare. La iconografia risorgimentale ufficiale, infatti, annovererà Mazzini fra i grandi padri della patria solamente dopo la celebrazione del 1°centenario della sua morte (1905) e più ancora dopo la sua commemorazione fatta dall’allora sindaco di Roma, Ernesto Nathan, alla presenza del giovane sovrano Vittorio Emanuele III, riconoscendone così ufficialmente l’apporto primario da lui offerto alla formazione della coscienza nazionale italiana. 4 Ciò che di Mamiani oggi in qualche modo ancora si ricorda sono gli avvenimenti della cosiddetta “rivoluzione romagnola” del 1831 e quelli della Roma pontificia del 1848-49, che videro Mamiani protagonista, rispettivamente, del cosiddetto Governo delle Provincie Unite (1831) e di due governi liberali di Pio IX (1848). La storiografia ottocentesca si è infatti maggiormente soffermata su di essi, poco ricordando invece il ruolo da lui svolto nel Piemonte cavouriano e 23 specialmente negli anni 1856-1861, se si eccettua la sua partecipazione all’ultimo governo sabaudo, quello del 1860-61, quale Ministro della Pubblica Istruzione. 5 Vedi più avanti, al cap. XII del presente saggio, p. 434. 6 Particolarmente indicativo al riguardo l’episodio avvenuto nel 1860, all’epoca in cui il Mamiani ricopriva l’incarico di ministro della Pubblica Istruzione, a proposito delle rimostranze degli studenti dell’Università di Torino, che protestavano con molto vigore contro un provvedimento di aumento delle tasse universitarie da lui deciso sulla base di una precisa disposizione della legge Casati del 13 novembre 1859. Il Cavour scriveva al Cassinis, ministro di Grazia e Giustizia: “Gli studenti tumultuano per avere una riduzione delle tasse. Mamiani è debole e incerto. Il buon uomo non potrà reggere a lungo. La cosa però non è grave”. (Lettera di C. Cavour a Giovanni Cassinis, Torino, 3, dicembre, 1860, in La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, IV, a cura della Commissione Editrice, Bologna, N. Zanichelli Ed., 1954, p.10). In realtà ciò che faceva apparire il “buon Mamiani” debole ed incerto, non era una sua fragilità di carattere, ma la sua connaturata propensione ad evitare tutto ciò che nel proprio comportamento risultasse autoritario o comunque gestito troppo personalmente dall’alto. Era, questo, il suo stile liberale di far politica. Nel caso specifico egli ricercava allora attivamente una soluzione mediana e positiva della questione. Cavour, che evidentemente era assai più decisionista e meno scrupoloso, era portato invece a vedere nell’atteggiamento pensoso del suo ministro una espressione di sicura bontà d’animo, ma anche di incertezza operativa. In realtà si dovette accorgere poco dopo che proprio così non era e riconoscere che Mamiani era riuscito infine a risolvere la questione in modo “très énergique” e con successo (Lettera di C. Cavour al Re, Torino, 16 dicembre 1860, in La questione romana negli anni 1860-61. Carteggio del conte di Cavour con Diomede Pantaleoni, Carlo Passaglia, Odoardo Vimercati, I, Bologna, Zanichelli Ed., 1929, p. 136). Altro esempio. Quando nel 1860 fu decisa la spedizione del Re nelle Marche e nell’Umbria per fermare Garibaldi a Napoli, Cavour fece accompagnare il sovrano dal Farini, avendo già esperimentato la sua fermezza operativa e la sua effettiva capacità amministrativa a Modena e a Bologna nei mesi fra il 1859 e il 1860. Tutti sapevano, però, che Farini era assai inviso a Garibaldi da quando nel novembre 1859 gli aveva impedito la sua progettata spedizione nelle Marche. Inviare dunque il Farini a Garibaldi era certamente un affronto poco diplomatico per il generale. Il Pallavicino, allora prodittatore per volere di Garibaldi a Napoli, si decise a scrivere al Cavour onde convincerlo a sostituire il Farini con “Mamiani o con Cassinis o qualsivoglia altro che non fosse antipatico al dittatore”. (Lettera di Giorgio Pallavicino a Camillo Cavour, Napoli, 10 ottobre 1860, in Memorie di G. Pallavicino, pubblicate per cura della figlia, III (1852-1860), Torino, Roux Frassati e C., 1895, pp.623-624). La richiesta non ebbe però seguito e Garibaldi in effetti si offese e si irritò. La cosa è nota agli storici, i quali diversamente la valutano. In realtà la ragione del comportamento del Cavour fu da questi manifestata allo stesso Pallavicino in un incontro privato intervenuto qualche tempo dopo. A Pallavicino, che lo rimproverava della poca sensibilità allora dimostrata, Cavour spiegò che con Garibaldi ci voleva forza e decisione, “come lo stesso prodittatore – diceva – per esperienza diretta ben sapeva” (Lettera di Giorgio Pallavicino a Biagio Caronti, San Fiorano, 25 novembre 1860, in Memorie di G. Pallavicino cit, pp.654-655). Evidentemente Cavour non riteneva due gentiluomini come Mamiani e Cassinis adatti ad opporsi ai modi incisivi, ma certo anche autoritari e non raffinati, del generale. Peraltro la gentilezza dei modi doveva avere un certo fascino sul pragmatico Cavour, se è vero che il suo governo aveva, nei dicasteri meno legati alla guerra, un trio della medesima stirpe. Oltre al Mamiani, infatti, all’Istruzione Pubblica, egli aveva elevato a ministro delle Finanze Saverio Vegezzi, uomo amante della campagna, dalla quale faceva volentieri giungere “all’amabilissimo conte Terenzio Mamiani”… rustici canestrini di frole cresciute sui monti...per dirvi al mattino prima delle sette la solita canzone, ch’egli ha per voi il più rispettoso affetto che colla grande vostra mente vi possiate immaginare”. (Lettera di Saverio Vegezzi a Terenzio Mamiani, Torino 24 (s.d.), in Lettere a T. Mamiani, n. 13525). F. Petruccelli Della Gattina nel suo I moribondi di Palazzo Carignano, Milano, Istit. Edit. Italiano, s. d., p.205, ricorda come il Vegezzi “deplora senza potersi consolare, come Calipso della partenza di Ulisse, la partenza per Atene [quale ministro plenipotenziario d’Italia; cfr. più avanti, cap. XI] del suo amico vicino il conte Mamiani”. Quanto a Cassinis, 24 Petruccelli Della Gattina (ibidem, p.95) così lo descrive: “Il più grazioso fra i ministri è il signor Cassinis. Quest’uomo amabile, avvocato distinto, parlatore fluente, ha sempre il sorriso sulle labbra. Egli è il solo ministro che non si impazienti mai delle interpellanze e delle interruzioni. Egli sorride sempre, e non manca mai di risorse e di cortesia. Brofferio e Mellana gli fanno passare dei tristi quarti d’ora: nondimeno egli non perde mai il buon umore, la facilità di rispondere ed il sangue freddo”. 7 La istituzione della cattedra di filosofia della storia, presentata dal ministro Lanza al Parlamento, fu approvata alla Camera il 3 aprile 1857. Vedi Atti del Parlamento Subalpino, sess.1857, dal 7 gennaio al 16 luglio 1857, Discussioni, IV/2, Roma, Eredi Botta, 1873, pp.13561357. In realtà, però, dietro la volontà del ministro, peraltro fin da allora sincero estimatore del Mamiani, vi era la volontà politica del Cavour. 8 Così la interpretò l’Azeglio nel 1849, negandogli di conseguenza la naturalità sarda. 9 Nel Mamiani, dunque, ben più che nel Cavour – che poteva anche sembrare scettico e pragmatico, come affermava il Pallavicino – era presente la convinzione, per dirla in termini oggi di moda, che un autentico risorgimento nazionale non potesse fondarsi che su grandi miti fondatori, sentiti come suggestivi eventi popolari capaci di creare in maniera stabile nell’immaginario collettivo una coscienza unitaria di valori, di ricordi e di sogni fondati sulla comunanza di ideali, di gesta e di eroi nazionali. Una idea, questa, che nulla aveva a che fare in Mamiani con politiche di stampo nazionalistico o di tipo egemonico e colonialistico – da lui sempre sentite come contrarie agli ideali risorgimentali –, ma solo con la creazione nell’animo degli italiani di un legittimo orgoglio di appartenere ad una nazione a nessuno seconda per gloria e per dignità: una dimensione, questa, che, mentre doveva togliere ogni forma di eccessiva esterofilia ed ogni complesso di inferiorità nei confronti delle altre nazioni, appariva a Mamiani necessaria anche al fine di garantirne al paese il dovuto rispetto a livello internazionale. Fu questa una convinzione che egli si sforzò di inculcare sempre nelle sue opere, da quelle più giovanili a quelle tarde. Scriveva – ad esempio – già nel 1839 nel corso di quello che fu il primo vero e proprio manifesto politico moderato liberal-democratico del nostro Risorgimento: “Siamo in questa ferma credenza, l’Italia non poter risorgere mai davvero, se non fidando nel proprio valore e cimentandosi animosamente con lo straniero. Le macchie antiche e recenti che oscurano l’onor nostro, non potranno cancellarsi altramente mai, che tra le armi e col sangue: tra le armi ritempreremo l’animo, alzeremo l’ingegno, purgheremo gli affetti e i costumi. Il genio di Dante e l’ardire di Masaniello, i prodigj della lega lombarda e il disperato resistere delle Calabrie, lo splendore di Roma, la libertà di Firenze, le armate Veneziane, i tesori Genovesi, ogni gloria passata, ogni grandezza caduta lascerà trovare di sé fra le armi e le battaglie alcuna semenza vivace e feconda, e tutte largamente innaffiate dal nostro sangue rifioriranno. Base di ogni prosperità civile è il sentimento del proprio valore e della propria dignità: vita delle nazioni è la gloria, e salda difesa loro è la potenza che spiegano e la suggezione che incutono” (T. MAMIANI, Nostro parere intorno alle cose italiane, in ID., Scritti politici di T. Mamiani, Firenze, F. Le Monnier, 1853, p. 13. Ma si vedano anche le pp. 40-46. Il corsivo è nostro). Ormai vecchio, ripeteva gli stessi concetti – per riferire un esempio quasi paradigmatico – nel 1880, quando discutendo il Senato su una prima previsione di spesa del Ministero degli Affari Esteri, credette opportuno criticare il comportamento dei plenipotenziari italiani al Congresso di Berlino del 1878, prendendo le distanze da quella che Benedetto Cairoli, amico personale del Mamiani ed allora Presidente del Consiglio, chiamò con orgoglio “ la politica delle mani nette”: una politica, cioè, decisamente contraria a sporcarsi le mani con la logica della potenza militare aggressiva e con le spartizioni territoriali e favorevole invece, e conseguentemente, al disimpegno internazionale. Mamiani trovò tale scelta governativa concettualmente insoddisfacente, denunciando la cosa in Senato in termini molto cortesi ma molto chiari come poco onorevole per l’Italia (T. MAMIANI, Discorso al Senato, 19 aprile 1880, in Atti Parlamentari della Camera dei Senatori, sess. 1880, Discussioni, Roma, Tip. Forzani e Com. 1880, pp. 298-302). In una minuta del discorso – in realtà, più un appunto per la memoria che una vera stesura – si possono però leggere due varianti assai più incisive di quanto non sia stato l’effettivo discorso al Senato e dun- 25 que anche più indicative del suo concetto di dignità dei popoli. Scriveva, dunque: “Il Governo si è molto vantato d’essere noi usciti dal Congresso con le mani nette e senza impegni speciali con veruna potenza. Ma l’essere netti di usurpazione è buono, netti di autorità e forza morale è deplorevole per una nazione. Del pari l’essere slegato da ogni impegno può valere un isolamento e sembrami d’avere che l’Italia non pure non abbia alleati, ma perda gli amici piuttosto che guadagnarli”. E volendo essere ancor più incisivo, riscriveva subito il concetto in quest’altra forma: “Quanto all’essere netti di usurpazione è ottima cosa. Ma v’ha una usurpazione sempre legittima e grande per i popoli ed è quella dell’autorità e della forza. E noi potevamo esercitar l’una e l’altra al Congresso” (Carte di T. Mamiani, busta 62, II, n. 2). Ma che cosa doveva fare in concreto l’Italia? Rispondeva: “L’Italia doveva fare a Berlino come la sesta grande potenza d’Europa come rappresentante dei grandi principj di libertà e di liberalità internazionale come esenti dallo spirito di conquista. Ma ella se non poteva prevalere a Berlino col voto suo, sempre doveva protestare ne’ protocolli per la integrità dei principj” (ibidem, n. 4), ossia per la chiara opposizione ad ogni spartizione dei popoli come se fossero stati merce di scambio e difesa degli emigrati italiani all’estero, sul modello di quanto faceva allora l’Inghilterra, la quale “voleva che ogni suo suddito potesse in qualunque parte del mondo ripetere con lo stesso orgoglio e gli stessi effetti l’antico motto civis romanus sum” (ibidem). 10 Nei dibattiti alla Camera Giorgio Pallavicino era più spesso critico che solidale con l’area cavouriana, seguace come era di un ideale risorgimentale imperniato sulla rivoluzione popolare, diretta e aperta contro l’Austria e i principi italiani satelliti, pur se in nome di Vittorio Emanuele e in collaborazione (autonoma) con l’esercito regio. Su tale argomento cfr. cap.V del presente saggio. 11 Non abbiamo nelle carte di T. Mamiani alcun documento da cui traspaiano attriti o animosità fra essi. Mamiani ricorderà sempre Cavour, in vita e in morte, come il più grande fra gli statisti dell’intera Europa e come suo amico; e Cavour, da parte sua, lo nomina esplicitamente fra la cerchia dei suoi “amici” (vedi a tal proposito il cap. XI, p. 417 del presente saggio). Unico momento di contrasto, non voluto certamente dal Mamiani e peraltro più amplificato dalla difficoltà ministeriale del momento che effettivamente reale, fu la diversa impostazione della linea di difesa dell’azione del governo a proposito della cessione di Nizza alla Francia, nella famosa tornata del 12 aprile 1860 alla Camera (per tale vicenda, vedi cap. XII, p. 465 del presente saggio). 12 F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA, op. cit., cit., pp.18-19. 13 Il caso più noto fu forse quello del comportamento dal conte pesarese tenuto nei confronti dell’alleanza franco-piemontese del 1858. Ricorda a tal proposito il Massari il 16 ottobre 1858: “Dopo le 3 viene a trovarmi il conte Mamiani, il quale considera l’avviamento politico attuale del governo piemontese come assai pericoloso. Il punto d’appoggio [del Piemonte] è la Francia, ed il Mamiani non ha fiducia in Napoleone III”; anzi, a dirla più esplicita, “ha in uggia i francesi” (G. MASSARI, Diario dalle cento voci (1858-1860), a cura di Emilia Morelli, Bologna, Cappelli ed., 1959, pp.48 e 336: comunque per un maggior approfondimento del caso, vedi più avanti, capp. IV e VII). 14 Vedi, ad esempio, gli emendamenti proposti in occasione dei dibattiti sul progetto di legge per la riforma scolastica (1857) e in particolare su quello relativo alla definizione di scuola pubblica del 22 gennaio 1857. In tale occasione egli si trovò d’accordo contro Giovanni Lanza, allora ministro della Pubblica Istruzione nel governo Cavour, con Buffa e addirittura con Mellana e Valerio (vedi Atti del Parlamento Subalpino, sess.1857, dal 7 gennaio al 16 luglio 1857, Discussioni, III, Roma, Tip. Eredi Botta, 1873, pp.166-171). Vedi inoltre anche il discorso parlamentare dal Mamiani tenuto il 13 aprile 1858, in occasione del dibattito sul progetto di legge relativo alle norme penali per i reati di cospirazione contro la vita dei sovrani stranieri. In esso, nella volontà di cercare punti di incontro con le sinistre che avversavano fortemente il progetto, 26 egli, che pur era schierato a favore del ministero, dichiarò apertamente che era necessario studiare opportuni miglioramenti al progetto, nella convinzione – diceva – che “nessuno forse, o assai pochi, in quest’Assemblea, mi perdoni il signor ministro guardasigilli, accettano la legge tal quale ci viene da lui profferta” (Atti del Parlamento Subalpino, sess.1857-1858. dal 14 dicembre al 14 luglio 1858, Discussioni, IV, Roma, Tip. Eredi Botta, 1874, p.1171). 15 Un noto esempio di tale autonomia ebbe a verificarsi il 9 febbraio 1859 in occasione della discussione parlamentare su un progetto di legge governativo tendente ad ottenere l’autorizzazione del Parlamento per un prestito pubblico di 50 milioni di lire. Alle destre del conte Solaro Della Margarita non sfuggiva che esso, nella sua sostanza volutamente sottaciuta, mirava in realtà alla preparazione definitiva della guerra contro l’Austria, ormai nell’aria: una guerra, che le destre non volevano e che comunque anche il governo doveva dare l’impressione di non cercare né di volere. Mamiani invece fece allora chiaramente intendere nel suo intervento alla Camera che il progetto faceva presentire finalmente vicino “le commincement de la fin” del processo risorgimentale: il che non poteva non suonare imprevidente agli orecchi del Massari, fedele seguace dei silenzi diplomatici del Cavour, al quale infatti non mancò di far notare la eccessiva disinvoltura – almeno a suo parere – del linguaggio del conte pesarese: “Mamiani farebbe meglio a tacere. Lo credo anch’io, replica il conte, ma come fare? Non posso impedirglielo: è una vera prima donna” (G. MASSARI, op. cit., p. 135: una risposta che soddisfaceva il fedele Massari, ma che lasciava al contempo piena libertà di azione al Mamiani. Per l’approfondimento del caso, vedi capitolo IX, nota n. 21). Qui sarà sufficiente precisare che la risposta del Cavour non deve meravigliare. Quella infatti non fu, come vedremo, né la prima né l’ultima volta che il Primo Ministro si comportò così col Massari. In modo ancor più sintomatico, infatti, una cosa simile avvenne a proposito dei suoi rapporti con il La Farina e con la Società Nazionale Italiana. Massari, che vedeva di cattivo occhio tutto ciò che proveniva dalla sinistra, tendeva a screditare l’operato del La Farina, convinto in ciò di seguire l’opinione autentica del Primo Ministro. Questi, che invece aveva avuto – di nascosto e ormai da ben due anni – assai frequenti rapporti con il La Farina, nulla fece per disilludere il Massari anche dietro sua esplicita richiesta (per tale istruttiva vicenda, vedi cap. IV del presente saggio; vedi anche G. MASSARI, op. cit., 25 agosto 1858, p.16). 16 Minuta di Lettera di T. Mamiani a C. Cavour, s.d. (Torino, 20 gennaio, 1860), in Pluteo Mam., busta 8, cart. 5, n. 5. Il corsivo è nostro. 17 Scriveva infatti in una importante lettera a un per noi ignoto autore di “un opuscolo bellissimo… e gremito di concetti e sentenze gravissime e sostanziose” dopo le delusioni del 184849 : “La patria nostra comune non à ancora una viva e distinta coscienza di sé medesima; e ciò moltiplica non solo gli errori ma la discrepanza delle opinioni; e lo sforzo di molti ingegni e di molte virtù civili se ne va perduto, operando pressoché alla cieca e fuor del buono e vero indirizzo” (Lettera di T. Mamiani a Amico Carissimo, s.l, e s.d., in Carte di T. Mamiani, busta 4, Ia, n. 33, scritta senza dubbio sul finire del 1855 da Genova, dove allora Mamiani abitava: in essa infatti egli si sofferma diffusamente sulle speranze suscitate fra i liberali italiani dalla guerra di Crimea e ricorda con particolare soddisfazione la vittoria conseguita il 16 agosto 1855 nella battaglia della Cernaia (16 agosto 1855). Di qui la datazione approssimativa da noi attribuita alla lettera). 18 A. BROFFERIO, 19 L. C. FARINI, Discorso 14 aprile 1858, in Atti del Parlamento Subalpino cit., p.1203. Discorso 14 aprile 1858, in ibidem, p.1188. 20 La espressione “uomo eminente” riferita al Mamiani e completata poi con un’altra espressione: “uomo fedele a’ suoi convincimenti, perseverante nell’operare il bene dell’Italia, nel dare nuove e mirabili prove d’ingegno, d’eloquenza e di carità di patria”, è di Giuseppe Saredo e si trova nel suo opuscolo intitolato Terenzio Mamiani, edito a Torino dalla Unione TipograficoEditrice, pp. 4 e 47, proprio nel 1860, all’epoca cioè dei fatti che tendiamo a ricostruire. Si trat- 27 ta di un opuscolo molto snello, pubblicato nella collana “I contemporanei d’Italia–Galleria nazionale del secolo XIX” dedicata “agli uomini più egregii del nostro paese… che, fra le persecuzioni, le miserie e gli sconforti del carcere e dell’esiglio, hanno tenuta accesa con mano ferma la fiaccola di quella fede che sola ha originato le stupende imprese alle quali assistiamo” (ibidem, p. 4). L’opuscolo, pur se di taglio divulgativo, è per noi interessante in quanto documenta da parte di un contemporaneo “l’universale giudizio”, che del conte pesarese si aveva allora in Piemonte e in Italia. Un giudizio, tanto più attendibile quanto più l’autore era consapevole, dovendo parlare di un vivente, del rischio di scivolare in due possibili errori storiografici: “o lodi soverchiamente, e la lode stessa perde ogni valore, come quella che rasenta i confini dell’adulazione; o critichi con troppa acerbità, e invece di un ritratto politico, cadi nel libello. E più difficile è il compito quando l’uomo di cui si scrive è potente; elogi e critiche paiono egualmente meritevoli di diffidenza” (ibidem, p. 84). Pericoli, che tuttavia l’autore era sicuro di evitare, nei confronti del Mamiani, quanto meno per una solida ragione, ossia “che era cosa agevolissima riverire, senza incorrere taccia di piaggiatore, l’ingegno eminente del Mamiani, bastando a ciò il riportare semplicemente il giudizio universale” (ibidem). 21 L’articolo di Romano Ugolini, caratterizzato da un forte taglio critico e decostruttivo nei confronti del conte pesarese, si intitola Mamiani e Cavour nel decennio di preparazione ed è reperibile in “Studia Oliveriana”, N.S., V, Pesaro, 1985, pp.55-95. A suo avviso, infatti, se Mamiani ebbe “una singolare lungimiranza e rara lucidità del pensiero politico generale in ambito nazionale e internazionale”, mostrò invece “una visione del contingente priva di grande flessibilità e di una immediata intuizione del portato di avvenimenti in rapida evoluzione” (ibidem, p. 55). L’uomo, del resto, risultava caratterizzato, sempre secondo l’Ugolini, da un “forte egocentrismo”, che gli procurò “una generale antipatia – le eccezioni sono rare –, (pur se) nessuno, né in campo politico o intellettuale, negava una profonda intelligenza” (ibidem): una antipatia, alla quale non fece eccezione neppure il Cavour, cui “l’iniziale e sincera ammirazione e stima si tramutarono in delusione e poi in fastidio” (ibidem, p. 56). Più in particolare, sempre secondo l’Ugolini, Mamiani fu giustamente ritenuto inaffidabile, vanaglorioso e trasformista dall’Azeglio, che proprio per ciò lo volle punire (1849), negandogli la nazionalità sarda già concessagli dal sovrano e confinandolo di fatto nell’isolamento politico e nella disistima del demi-monde torinese fino all’intervento del Cavour a suo favore nel 1855 (tale vicenda è già stata analizzata e storicamente riportata nei suoi giusti confini in A. BRANCATI-G. BENELLI, op. cit., pp. 253-271, alla quale rimandiamo). Favorito, dunque, dal Cavour, che fu “l’unico suo estimatore subalpino” (R. UGOLINI, Mamiani e Cavour, cit., p. 77) e che lo destinò ad essere portavoce della maggioranza in Parlamento per la politica estera e corrispondente del giornale inglese Daily News a sostegno della politica governativa, Mamiani risultò poi una totale delusione. Operò male nel Daily News “cercando vanamente una sua collocazione europea in mezzo a tanta profusione di carta stampata” (ibidem, p. 78) e di prestigiose firme italiane, agendo per di più in nome di una “presunta strategia cavouriana” (ibidem, p. 79) che in realtà era ben altra, mentre Castelli – l’uomo del Primo Ministro che teneva allora le relazioni con il gruppo – “soffriva le pene dell’inferno per mantenerlo nelle reali coordinate della politica governativa”(ibidem); politica, che egli, in realtà, poco capiva e poco seguiva. Mamiani infatti si mise in urto con Giorgio Pallavicino e con la sua Società Nazionale, “proprio mentre Cavour ne accettava le avances e incaricava Castelli di allacciare e stringere i rapporti” (ibidem, p. 82), avendo Mamiani “convincimenti del tutto ostili” al programma del Pallavicino (ibidem,p. 85); salvo poi incaricare – inspiegabilmente, his fretus, direbbe ironicamente Manzoni – lo stesso Mamiani “a tenere i rapporti con la Società Nazionale” dopo Plombières, impegnandosi addirittura ad indottrinarlo personalmente sulla sua nuova politica (ibidem, p. 84). Inoltre, in aperto contrasto con la politica cavouriana, Mamiani – sempre a parere dell’Ugolini – fu un convinto fautore delle aspirazioni di Luciano Murat a Napoli, manifestando in tal modo una così grande “confusione politica che cominciò per la prima volta a preoccupare Cavour”(ibidem, p. 85), il quale corse perciò ai ripari. “Gli tolse il ruolo centrale occupato nei rapporti con lo Stato Pontificio”, affidandolo al più fedele e fidato Minghetti; ridimensionò anche il suo rapporto col Daily News, sostituendolo gradualmente per non suscitare offesa con Carlo Arrivabene (ibidem, pp. 85-86) e “ripiegò su incarichi di prestigio che non coinvolgessero la linea, pubblica 28 e segreta, del governo” (ibidem, p. 86: Mamiani però continuava ad essere sempre il suo portavoce in Parlamento! Difficile coincidenza!). Ma con risultati ancora peggiori, come dimostra il discorso tenuto il 9 febbraio 1859 dal Mamiani alla Camera (ibidem) Insomma, “Mamiani risultava del tutto incontrollabile” (ibidem, p. 87) e pertanto Cavour in un primo momento pensò di limitare il compito del pesarese nello Stato Pontificio alla sola Roma, ma poi – dopo il famoso discorso del 9 febbraio – dovette ulteriormente rivedere la propria opinione. Egli infatti – argomenta l’Ugolini – aveva pensato di poter rendere attuabili i patti di Plombières con una tattica precisa: tenere buono Pio IX offrendogli la garanzia di mantenere la sua sovranità su Roma “attraverso la protezione di un suo ex ministro moderato [il Mamiani] che non aveva giurato fedeltà alla repubblica romana e che era gradito alla Gran Bretagna”; ebbene, tale idea dopo il 9 febbraio “era scomparsa in una mattinata… Bisognava mettere da parte l’inaffidabile Mamiani e sostituirlo nella delicata funzione di controllare Roma: forse per una concatenazione logica… pensò a Massimo d’Azeglio”(ibidem, p. 89). Vennero infine la seconda guerra di indipendenza, l’armistizio di Villafranca e le dimissioni di Cavour dalla presidenza del Consiglio e Mamiani, “privo del suo patrono, ricadde nell’isolamento politico. Ritornerà sulla scena ai primi del 1860 con Cavour” (ibidem, p. 90), che anzi lo nominò – di nuovo, diciamo noi, his fretus, inspiegabilmente! – ministro della Pubblica Istruzione. Scrive l’Ugolini: “Si trattava in verità per Cavour quasi di un atto dovuto verso un uomo che, a parte i difetti di personalità, gli era stato fedele sempre e in maniera particolare nelle drammatiche vicende politiche intercorse in Piemonte tra il dicembre 1859 e il gennaio 1860” (ibidem), ma – si affretta a precisare l’Ugolini – Mamiani non tarderà a deludere nuovamente il Primo ministro. Già fin dagli inizi, infatti, la sua vita al ministero fu molto dura: nessuno voleva collaborare con “quel ministro” (Mamiani), tanto che Cavour, irritato, pensò addirittura di sopprimere lo stesso dicastero della Pubblica Istruzione (ibidem, p. 91). E così “la questione Mamiani si trasformò in modo preoccupante in un problema che investiva lo stesso prestigio del governo: da impopolare il ministro divenne infatti addirittura oggetto degli scherni e delle boutades dei deputati subalpini (ibidem). Ciò avvenne soprattutto quando in un altro discorso parlamentare tenuto alla Camera il 12 aprile 1860, Mamiani paragonò la Francia “a una terribile amazzone che quand’anche ti sorride… e t’invita soavemente alle nozze, ti mette non poca paura di ricusare il suo talamo”. Cavour ne fu irritatissimo, tanto che gli voltò le spalle in piena assemblea, anche se, alla fin fine, “preferiva certo avere un ministro ridicolizzato, che una questione politica su un ministro dissenziente” (ibidem, p. 92). E così se lo tenne di nuovo al ministero! Si sa poi come i progetti di legge sulla riforma della Casati allora elaborati dal Mamiani non incontrarono il favore del Parlamento e su ciò l’Ugolini, dopo aver lasciato intendere che la ragione del pratico fallimento fu l’atteggiamento di ostilità o di scarsa stima della Camera nei suoi confronti (ibidem), spende una parola in favore del conte pesarese, affermando che il progetto meritava probabilmente, ieri come oggi, maggiore considerazione. Subito dopo, tuttavia, si affretta ad aggiungere: “Non potendo legiferare, Mamiani si scatenò in tutto ciò che era in grado di fare senza passare attraverso il Parlamento, promulgando regolamenti per le scuole di ogni ordine e grado, per i concorsi, i programmi delle scuole elementari e gli esami finali dei diversi cicli scolastici” (ibidem, p. 93). Una vera nemesi storica, dunque, per il povero Piemonte allora in procinto di trasformarsi nella nuova Italia, che “sollevò proteste di ogni tipo” e addirittura la richiesta di Ruggero Bonghi al Cavour di destituire il Mamiani (ibidem). Ultimo rilievo dell’Ugolini al proposito: “In ottobre (1860) Mamiani fu addirittura candidato ad essere luogotenente del re a Napoli, tanto era il desiderio di farlo uscire dal ministero. Ma Cavour non era il tipo da sacrificare gli interessi nazionali agli odi di parte!” (ibidem) e in qualche modo salvò allora il suo ministro; ma evidentemente – conclude Ugolini –, dati i presupposti, ormai “il problema Mamiani esisteva e Cavour in tanti anni non era riuscito a venirne a capo. Anche nella seconda metà del 1860 dovette escogitare una soluzione provvisoria per far fronte ad ostilità e impopolarità che non aveva previsto di portata così generale” (ibidem). “La pazienza di Cavour era giunta al limite estremo… La sorte del Mamiani era segnata”. Fu così che il 22 marzo 1861, dopo le nuove elezioni generali e la conseguente opportunità politica di rinnovare i ministri del regno, Cavour lo sostituì finalmente con il De Sanctis e si affrettò ad “ inviarlo ambasciatore in Grecia per farlo dimenticare a ministri, deputati e uomini politici… Egli stesso [del resto] non si peritava di unirsi ai colleghi parlamentari per deriderlo” (ibidem, p. 95). 29 Questa – a parere dell’Ugolini – la carriera politica e il contributo alla causa nazionale del conte Terenzio Mamiani Della Rovere da Pesaro negli anni del decennio cavouriano! Tale negativo giudizio sul Mamiani (ma anche sul Minghetti) sarà peraltro ribadito in tempi più recenti dall’Ugolini nel suo saggio intitolato Filippo Gualtiero da Gregorio XVI a Cavour, in N. NADA-V. PACIFICI-R. UGOLINI, Filippo Antonio Gualtiero, Orvieto, Ente Cassa di Risparmio di Orvieto, 1999, pp. 37-82. In tale saggio infatti l’Ugolini, rifacendosi proprio alla sua precedente ricerca efffettuata sul conte pesarese e apparsa poi e pubblicata nel 1885 nell’articolo da noi citato in “Studia Oliveriana” di Pesaro, ne ripete sinteticaòente i risultati, definendo una “delusione” l’attività offerta al Cavour dal Mamiani, il quale infatti si dimostrò “impari al compito affidatogli” (R. UGOLINI, op. cit., p. 61 e successiva nota n. 90). 22 Era questa, ad esempio – per tornare alla vicenda del personaggio da inviare in Grecia per oblio di amici e nemici – l’opinione certamente autorevole del La Farina, l’ultimo grande colonnello del Cavour e uomo di primo piano nelle vicende belliche del 1859-1860, il quale, scrivendo al Comitato Patriotico di Atene (Torino, s.d., 1861, in Epistolario di G. La Farina, a cura di A. Franchi, II, Milano, Ed. Treves e C., p. 589) – centro allora del “risorgimento” greco contro la dominazione turca nel Mediterraneo – così annunciava l’arrivo del conte pesarese in Grecia: “Un uomo ragguardevolissimo, l’illustre Mamiani, verrà tra giorni ambasciatore del Regno d’Italia in Atene: egli oltre d’essere uno de’ nostri più insigni filosofi, è un egregio patriota”. Ma – come vedremo – non era questa che una sola fra le moltissime dichiarazioni di stima e di affetto che da ogni parte gli si rivolgevano. 30 CAPITOLO I Genova “città insigne ed ospitale” (1849-1856) Nell’agosto 1849 Terenzio Mamiani, espulso da Roma per la sua attività politica liberal-nazionale che lo aveva portato due volte nel corso del 1848 ad assumere responsabilità ministeriali nei governi costituzionali di Pio IX, giungeva a Genova, dove Massimo d’Azeglio, allora Primo Ministro del governo sardo, gli aveva concesso un permesso di residenza su preghiera di comuni amici. Nonostante l’accoglienza calorosa della città, erano quelli tempi tristi per lui, reduce come era da quello che egli definiva “secondo naufragio della mia fortuna”1 e che, come quello dell’ormai lontano 1831, lo riportava per la seconda volta sulla via dell’esilio, sommerso non solo dalle critiche dei nemici e degli amici2, ma anche dalla consapevolezza di un altro personale fallimento politico. Pur se con minor intensità, lo angustiava allora anche il “modo insolente” con il quale il governo pontificio lo aveva espulso da Roma, accordandogli l’esiguo tempo di 48 ore per raccogliere in tutta fretta le proprie cose e allontanarsi dai territori dello Stato della Chiesa, quasi fosse un malfattore. Come se non bastasse, in quell’occasione aveva dovuto subire ai confini dello Stato Pontificio anche un doloroso furto di importanti carte e di non pochi oggetti personali da parte della stessa polizia: un furto subito denunciato, ma sul quale “per ordini superiori” nessuno poté indagare e procedere3. La cosa gli dispiacque, naturalmente, ma – almeno così egli la interpretò allora e negli anni successivi – tutto aveva una logica, che superava il suo personale rammarico. Sullo sfondo dell’intera vicenda emergeva infatti il ritorno dell’autocratismo papale e dell’impolitica Roma, che egli aveva inutilmente cercato di riformare in senso liberale fra il 1848 e il 1849, e con il ritorno all’antico veniva anche segnata la fine di quel “sentire politico moderno”, la cui promozione egli aveva pensato che fosse il maggior merito della sua attività ministeriale. Tornato a Genova con tali pensieri, egli non poteva dunque liberarsi dalla consapevolezza del sopravvenuto totale fallimento delle speranze suscitate in lui dall’ormai lontano piononismo, come scriveva poco tempo dopo all’amico Marco Minghetti: 31 La politica, che è quasi un’arte divinatoria, osa radamente o non mai di affermare in modo assoluto. Eppure io stimo che non si periti a dire che coteste provincie [pontificie] sono dannate a lunga ed irreparabile dissoluzione civile, e chi vi spera un poco di bene e di libertà sogna ad occhi veggenti e spalancati4. E aggiungeva, riecheggiando il Foscolo i cui versi tanto ammirava, nel vedere accomunata nella rovina dello Stato anche la propria fine, quella del cittadino pontificio: Quanto a me io non spero più d’imprimere orma in cotesta infelicissima parte d’Italia, dove è grande sventura il nascere, e dove non sarebbe quieta e onorata nemmeno la tomba5. Non era tuttavia letteratura, quanto piuttosto un doloroso consuntivo di un destino avverso, come aveva scritto qualche tempo prima al Gioberti, allora Presidente del Consiglio del Piemonte: Triste arrêt du sort! tandis que je pouvais faire avec vous quelque chose de vraiment avantageux à l’Italie, les circonstances m’en empêchent6. In effetti il 1849 fu l’annus horribilis della vita del Mamiani, anche perché sul finire di esso era destinato a subire una nuova insolenza politica. Per un banale quanto grave e doloroso fraintendimento, Massimo d’Azeglio quale Primo Ministro del Regno Sardo gli negava la concessione della naturalità, già peraltro concessagli dal sovrano, impedendogli così anche di sedere quale deputato nel Parlamento Subalpino torinese, al quale gli elettori di Genova e di Pinerolo lo avevano invece regolarmente eletto7. In quei primi difficili tempi del suo “secondo esilio” il conte pesarese non aveva dunque molti motivi per stare allegro, se non fosse stato per la calda e premurosa accoglienza dei genovesi, che si mostrarono invece sinceramente onorati della sua permanenza nella loro città e che si servirono volentieri di lui nelle loro occorrenze; e se non fosse stato per la propria passione allo studio, che rappresentò sempre insieme alla politica l’altro aspetto fondamentale della sua esistenza8. Fu così che, riacquistata a poco a poco la serenità interiore e non essendogli permesso un diretto coinvolgimento nell’attività politica, egli decise di tornare allo studio, nella convinzione che fossero allora più importanti il pensiero e la meditazione delle scienze civili che non la stessa azione: il fallimento universale degli ideali del 1848 aveva infatti dimostrato, a suo parere, 32 che ancora troppo immatura era la coscienza nazionale e liberale delle masse, colte ed incolte che fossero, per raggiungere un vero risorgimento nazionale. Occorreva dunque tornare alla educazione civile delle coscienze su tutti i fronti e stimolare ulteriormente con ogni mezzo la formazione di un comune senso di appartenenza ad una stessa nazione, quella “italiana”, creando nei fatti quella stretta unione di sentimenti e di intenti, che avrebbe portato poi quasi per necessità all’unione politica. Proprio a tal fine, riprendendo una vecchia idea già abbozzata nel 1838 in Francia9, egli pensò allora di dar vita in Genova ad una particolare Accademia di Filosofia Italica destinata a mettere in contatto i migliori studiosi italiani di tutta la penisola, a suscitare studi civili e discussioni sui più svariati temi speculativi della cultura e a pubblicare gli atti dei convegni e quegli stessi studi particolari, che, discussi nell’Accademia, fossero apparsi meritevoli di speciale considerazione. Aperta a tutte le regioni della penisola mediante la possibile creazione di comitati locali, ampiamente autonomi pur se collegati a quello centrale di Genova10, essa doveva rappresentare – nelle intenzioni del Mamiani – il “risorgimento della cultura italiana”, che l’Accademia avrebbe dovuto far emergere nella sua variegata pluralità di voci e di pensiero, ma anche nella sua specificità nazionale, facendole superare l’isolamento e l’oscurità in cui, nella frammentazione politica della penisola, versavano allora gli studiosi ben di rado capaci di superare i confini del loro piccolo Stato. Era indubbiamente una impresa difficile: l’esperienza provava che le Accademie come facilmente potevano sorgere così altrettanto facilmente potevano decadere, se non erano ben sorrette dall’interessamento continuativo degli studiosi: un pericolo, questo, particolarmente prevedibile per la nuova istituzione – scriveva Rosmini al Massari e riferiva Massari al Mamiani11 – la quale, impostata come era su una prospettiva scopertamente “italiana”, ben difficilmente avrebbe potuto diffondersi nel resto della penisola austriaca, pontificia e borbonica. Rosmini, interessato più ad una rigorosità individuale degli studi che ad una loro riforma in senso collettivo, declinava perciò gentilmente l’invito di fare parte della nuova Accademia, anche perché poco avvertiva in realtà l’urgenza del problema avanzato dal conte pesarese. La necessità di una rinascita degli studi speculativi nella penisola era invece concretamente sentita da parte di molti esponenti della cultura italiana del tempo, che ne lamentavano la debolezza 12 ed era per tanti versi ancor più viva nell’ambito del circolo degli esiliati politici, che formavano allora il nucleo più attivo e più avanzato della cultura piemontese. Così la pensava, ad esempio, Pasquale Stanislao Mancini, fuoriuscito napoletano a Torino, 33 che si mostrò infatti subito entusiasta sostenitore dell’idea della Accademia Italica e che addirittura aveva già egli stesso pensato proprio in quel tempo di dar vita insieme ad altri illustri studiosi della capitale ad una associazione similare, a modo della Società dei Quaranta di Modena e di altri istituti stranieri, fondati su motivazioni sostanzialmente coincidenti13. Lo scriveva in una lettera al Mamiani, che lo aveva contattato per chiedere la sua collaborazione al proprio istituto: Mi ingegnerò d’indurre gli amici miei a rimettersene interamente al senno vostro; sol che l’associazione si costituisca, per meglio far sentire ed estimare l’Uffizio suo, in Accademia (o meglio Società, che forse sarebbe denominazione più alla moda e meno screditata) Italiana di filosofia e di Scienza Civile; e che si cerchi di farvi rappresentare ciascuna provincia italiana de’ suoi migliori, perché almeno la scienza visibilmente mantenga e fortifichi quei legami e quegli affetti che son destinati a non far perire un sentimento nazionale, con tanta difficoltà finalmente suscitato e fatto signore delle anime… Ciò fatto io vi manderei (ciò almeno io penso) una dichiarazione sottoscritta da noi tutti, con la quale le faremmo manifesto, che “desiderasi di convincere col nostro esempio gl’italiani del precipuo debito, che nelle presenti condizioni della loro patria ad essi assiste, di unificare e ridurre a concordia le opinioni e le forze, anziché disperderle e dividere. Abbiamo rinunziato al disegno per noi maturato di fondare in Torino un Istituto di Scienze Morali e Politiche per l’Italia, facendo adesione, dietro vostro invito, all’Accademia Italica di Filosofia e di Scienza Civile, un concetto quasi niente dissimile ideato in Genova14. Il Mancini e i suoi amici sentivano del resto tanto più urgente la fondazione della nuova istituzione, in quanto nello stesso tempo molti professori della Università di Torino, specialmente della facoltà di diritto, si erano apertamente dichiarati ostili agli studi speculativi della disciplina, giudicati inutili al sapere se non addirittura corrosivi delle istituzioni civili stesse15: motivi, questi, che trovavano nell’onorevole Matteo Pescatore, giurista e filosofo, il più convinto consenso, tanto che “dall’alto della sua cattedra e nella commissione per le riforme universitarie egli sosteneva pro aris et focis doversi la cattedra di filosofia del diritto abolire nella Università!”16. Criticata da alcuni quale espressione di una cultura superata – sotto tale aspetto il suggerimento del Mancini e degli amici torinesi di sostituire la denominazione sostanzialmente datata ed anche screditata di “Accademia” con quella meno pretenziosa di “Istituto” o “Società” non era sbagliato17 –, la nuova istituzione, presa nel senso genuino attribuitole dal Mamiani, aveva un carattere certamente innovativo e non aveva 34 pertanto nulla a che fare con le classiche accademie del Sei-Settecento, intese quali circoli elitari di cultura generalmente umanistica e tanto erudita quanto disinteressata agli studi civili, e per ciò stesso – sosteneva lo stesso Mamiani – a carattere sostanzialmente evasivo; al contrario l’Accademia da lui ideata, aperta come era a tutti18 e a tutte le discipline19, intendeva configurarsi come un istituto di scienze morali e civili fondate su una solida rinascita della filosofia e coltivate nell’intera penisola. Essa intendeva dunque muoversi con prospettive espressamente politiche ed assumere apertamente un carattere nazionale “di amore di patria e di sapienza civile”20: e come tale venne a suo tempo anche molto apprezzata da coloro che ben ne compresero lo scopo e l’intenzione21. Come però poteva essere anche prevedibile, l’attività dell’Accademia, dopo due anni di entusiastica partecipazione, cominciò ad avvertire il contraccolpo dell’usura e già nel 1855 sopravviveva ormai piuttosto stancamente a sé stessa in mezzo a molteplici difficoltà di sussistenza, accresciute inevitabilmente dalla elezione del Mamiani a deputato del Regno, che, avvenuta nel 1856, era destinata a segnare la pratica fine dell’istituto, non senza tuttavia aver prodotto anche valide opere scientifiche22. Per quanto riguarda Mamiani, fra i suoi scritti dedicati all’Accademia si segnalarono per importanza l’opuscolo Sul Papato. Lettera ortodossa al professor Domenico Berti, pubblicato sulla “Rivista Italiana”, che lo stesso Berti aveva messo a servizio dell’Accademia per la pubblicazione dei suoi Atti e dei suoi scritti più rimarchevoli23. Molto importanti per lo studio della filosofia del diritto furono anche i Quattro discorsi di T. Mamiani sulla sovranità, che Pietro Sbarbaro definì “il Manuale dell’uomo Libero in terra Libera”, sostenendo anche, con un significativo paradosso, che avrebbero dovuto “insegnarsi, spiegarsi, commentarsi alla domenica in tutte le parrocchie del Regno”24: in effetti essi fondavano le premesse teoriche di una libera, ma ordinata coesistenza politica nazionale. Infatti, quando nel 1850 li pronunciò all’Accademia di filosofia Italica, il conte pesarese intendeva con essi condannare come contrarie al fondamento divino della Legge e alla ingenita libertà dei cittadini – capisaldi dell’intera sua dottrina sulla sovranità e sui limiti suoi invalicabili – sia la proclamata volontà popolare del Mazzini espressa nel motto Dio e il popolo, sia l’assolutismo regio della antica invocazione francese Dieu et mon Roi: espressioni, entrambe, a suo avviso, incapaci di recepire la tensione ideale alla giustizia in sé. Una giustizia, certamente non raggiungibile da alcuna legislazione contingente, ma dalla quale tuttavia, in linea di principio, ogni legislazione deve pur trarre il proprio orientamento per mostrarsi ai cittadini come legittima e come priva d’arbitrio. 35 In tal senso Mamiani sostituiva ad essi il motto: Dio e la legge, affermando una dottrina dello Stato, che spianta per sempre quel vecchio errore di volere a forza e sotto diversi titoli e nomi vestire la sovranità civile e politica di umane membra e di umana miseria; né permette all’anime generose di cadere in contraddizione con sé medesime in questo che, mentre aborrono d’inchinarsi a qualunque loro simile il quale si spacci per padrone e dominatore, si recano poi a gloria d’inchinare e servire a quella stessa umana figura, moltiplicata in numero d’individui sufficiente a portare il nome di popolo. Ma noi ci inchineremo solo all’idea e allo spirito, e qualsivoglia incarnazione del dritto e della sovranità riputeremo falsa e ingiuriosa25. Era, come si vede, la teorizzazione della sacralità del diritto, che, prendendo le debite distanze sia dal diritto divino dei re, sia da quello popolare di Mazzini, veniva in concreto a fondare anche il liberalismo costituzionale monarchico, inteso come forma istituzionale moderata, retta – come egli diceva in uno stile politico trecentesco che non piacque ad alcuni – dai “migliori”, da coloro cioè che per sorte, per fortuna o per abilità propria potevano di fatto dedicarsi con assiduità e competenza alla cosa pubblica. Un concetto, questo, che in lui nulla tuttavia sapeva di aristocratico o di elitario, distinguendosi da ogni diritto di casta o di ricchezza e sostenendo invece il dovere dei “migliori” di promuovere programmaticamente la elevazione morale e politica delle plebi e di procurare perciò nei tempi più brevi il diretto coinvolgimento delle masse, maschili e femminili che fossero, nella vita della nazione26. Una convinzione, questa, che proprio contemporaneamente alla fondazione dell’Accademia portò Mamiani ad impegnarsi con la sua diretta partecipazione educativa e con tutta l’autorevolezza politica della sua persona nella fondazione di un particolare Istituto Italiano di Educazione per le Fanciulle, che, aperto nel 1850 a Genova da Bianca Rebizzo nel Palazzo di sua proprietà detto “delle Peschiere” per le belle fontane che lo ornavano e destinato ad offrire una solida educazione culturale a ragazze orfane di guerra, ebbe a tratti anche il sostegno finanziario del Cavour e del ministro dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa. Un’opera, questa, di indubbia valenza sociale, ma che al tempo stesso era sottesa anch’essa da un’ambizione politica e patriottica: essa infatti non voleva presentarsi tanto nelle vesti di un comune collegio caritativo, bensì in quelle di un vero e proprio istituto educativo a sfondo politico chiaramente “italiano”: una intenzione, questa, non solo ricordata continuamente dalla fondatrice alle sue allieve, ma anche pubblicamente manife36 stata con la coniazione di particolari medaglie destinate alla premiazione finale delle alunne e per le quali fu lo stesso Mamiani a scegliere il soggetto: l’Italia turrita, che accoglieva e ricompensava due giovanette. Significativo anche il motto posto in bocca all’Italia, adottato poi come sintesi spirituale di tutta la vita dell’Istituto ed utilizzato anche nella carta intestata del collegio: motto, che non fu però opera del Mamiani, ma del conte Opprandino Arrivabene: “Educando spero”27. Ed in effetti – scriveva la direttrice al Mamiani in un momento di difficoltà economica della sua opera – scopo dell’Istituto era educare le giovinette nei principi di una sana onestà e nell’amore di una savia libertà in armonia colle nostre istituzioni. Sarebbe pei retrogradi un bel giorno quello che annunciasse la caduta dell’Istituto! Aggiungete a queste buone ragioni quella per voi e per me sì importante, che nel nostro Collegio s’impara a scrivere italiano davvero; e se la lingua conservata pure à un pregio non solo, ma una forza, una necessità per conservare fiorente e grande una nazione, sarebbe un delitto, mi pare, distruggere il nido antico cui sono nudrite a buoni studi fanciulle italiane28. Era, questa, una delle idee fondamentali della filosofia scolastica del Mamiani, che, pregato dalla Rebizzo di sostenere l’opera presso il Cavour e il Paleocapa, non ebbe perciò remore a subito attivarsi, scrivendo a quest’ultimo, ministro dei Lavori Pubblici, quanto segue: Come Ella ben sa, le Peschiere rimangono in tutto lo Stato il solo luogo di educazione femminile informata da sentimenti liberali e italiani. Tutto il resto è nelle mani di monachelle o di gente deditissima ai gesuiti. Ed Ella e il Cavour lasceranno perire quell’Istituto nobile veramente e in cui è lecito di fondare tante e sì care speranze?29 La fondazione dell’Istituto, che non si indirizzava a ragazze dell’alta società, bensì alle figlie povere degli ufficiali caduti in guerra30, fu portato avanti con molta fatica e con molta dedizione dalla fondatrice, che in essa impiegò le sue personali sostanze fra l’incomprensione della mentalità “bene” del tempo e, in fin dei conti, anche degli stessi ministri, come risulta da un colloquio della Rebizzo con il Cavour e con Paleocapa. Colloquio, di cui ella riferiva al Mamiani scrivendogli: “Paleocapa soggiungeva che le orfane dei poveri ufficiali non aveano d’uopo di un’educazione splendida come quella che si dà all’Istituto”31. Non passò molto tempo dalla fondazione delle Peschiere che – per opera della stessa Rebizzo e soprattutto di Luigi Carlo Farini, il quale proprio allora si apprestava a diventare l’uomo principale della ristretta 37 cerchia degli “amici di Cavour” – Mamiani poté entrare in contatto, sia pure in maniera ancora indiretta e non ufficiale, con l’emergente uomo politico32 e poté cominciare di nuovo a sperare di poter finalmente ottenere la concessione della cittadinanza sarda e tornare così ad esercitare anche un concreto ruolo politico almeno come uomo di cultura e di opinione. Proprio in quella circostanza, infatti, egli dovette ripensare con favore ad un suggerimento qualche tempo prima datogli per l’appunto dal Farini, che, volendo tentare di riavviare il problema della naturalità, gli aveva scritto: “Estendetevi in qualche politica avvertenza onde risulti la Vostra fede allo Statuto”33: un consiglio, che era dettato dal desiderio di ammorbidire in qualche modo il ministero, dal quale giuridicamente dipendeva la possibilità della concessione, con una pubblica dichiarazione di presa di distanza dall’estrema sinistra e in particolare dal sovversivismo mazziniano. Fu probabilmente a tale scopo che Mamiani si decideva a pubblicare nel 1853 in un Piemonte, che ancora risentiva dell’immobilismo internazionale seguito alla disfatta di Novara e alla rinnovata potenza dell’Austria, un’importante opera antologica intitolata Scritti politici di Terenzio Mamiani: un volume, gli scriveva l’editore, “da assaissimi richiesto” e da lui finalmente edito dopo non poche remore di carattere letterario34. La cosa fu in ogni modo ben studiata: Mamiani infatti, evitando qualsiasi dichiarazione formale – che in quella situazione poteva anche sapere di opportunismo o di piaggeria verso il ministero in carica35 – e presentando invece con ampiezza la storia dei suoi atti e del suo passato notoriamente fondato su una scelta radicale in favore della “santa causa italiana” e della costante difesa della Costituzione, andava incontro ai consigli degli amici e operava al tempo stesso anche una implicita difesa di sé. Egli aprì perciò la sua opera con il Nostro parere intorno alle cose italiane (1839), il suo manifesto risorgimentale allora introvabile in Italia, dal quale risultava con chiarezza che la sua scelta nazionale liberalmoderata era già stata da lui formulata e divulgata fin dal tempo dell’esilio parigino e dunque ancor prima del moderatismo di Cesare Balbo e di Massimo d’Azeglio. Si soffermò inoltre in modo particolare sugli anni romani del 1848-1849 da lui vissuti come protagonista: prima, come ministro di Pio IX e come parlamentare e poi come giornalista e come politico liberalmoderato apertamente schierato – precisava – contro “i neo montagnardi che senza troppo avvedersene, menan le cose alla peggio”, ossia contro Mazzini, i triumviri e gli intransigenti circoli degli “ultrademocratici” repubblicani36. Nell’ultima parte degli Scritti politici egli infine ripropose alcuni contributi più recenti, atti ad evidenziare con 38 chiarezza il propri sentimenti di politico filogovernativo o, più precisamente, il suo stile “indipendente e conciliativo insieme”37 di intendere la politica, quale poteva averla un uomo solidale con la maggioranza governativa legato allo schieramento del centro-sinistro: di quella forza politica, cioè, che allora era diventata una rassicurante forza di governo dopo il cosiddetto “connubio storico”, ma che nel 1849 gli era costata l’ira e l’ostilità dell’Azeglio. La svolta governativa del novembre 1852, che aveva segnato la caduta del Primo Ministro e la conseguente ascesa del Cavour rappresentava in fondo – come ricordava con discrezione in una nota a piè pagina, ma con giusta soddisfazione – la sua rivincita personale nei confronti dell’Azeglio e della sua astiosa ostilità, che, se non fosse stato per l’amore dei genovesi, lo avrebbe certamente gettato nell’isolamento e nel discredito politico. Una rivincita – ricordava Mamiani – del resto non casuale: egli l’aveva infatti pubblicamente preannunciata nei giorni stessi della sua sconfitta, quando il 27 dicembre 1849 scriveva agli elettori di Genova e di Pinerolo, ricordando le considerazioni che lo avevano ispirato nella sua condotta elettorale e che malamente erano state invece interpretate dall’Azeglio: Io mi do pace assai facilmente che se ne facciano ora poco benevoli interpretazioni, e ingiuriose alla fama mia. Più d’una volta i fatti ànnomi vendicato e assoluto degli altrui torti giudicj; ed io so troppo bene, che pesa continuo sopra di me la sventura ostinata, ma non però ingloriosa, di aver dispiaciuto a gente che mai non si placa e che mai non perdona38. Questa, dunque, la sua fisionomia politica che emergeva dagli Scritti politici: lotta aperta per l’indipendenza dell’Italia e confederazione nella lotta armata contro l’Austria, in politica estera; organizzazione federale dello Stato, liberalismo costituzionale (contro ogni settarismo e contro ogni cedimento mazziniano) e accettazione del centro-sinistro, in politica interna. Era il programma che i suoi amici amavano definire “italianissimo”. Nel frattempo, mentre a livello pubblico così si presentava, Mamiani frequentava assiduamente l’ambiente degli esiliati politici, che erano allora assai numerosi in Liguria ed in Piemonte e nei riguardi dei quali egli si trovava in naturale sintonia a causa delle comuni vicende storiche vissute nel recente passato quarantottesco: con essi infatti poteva continuare a sviluppare un più scoperto dialogo ideale e nazionale, in una atmosfera di naturale complicità e quasi di circolo patrio fuori della patria. Si trattava in realtà di un mondo difficile, come gli aveva inse39 gnato l’esperienza parigina, inevitabilmente misto di bene e di torbido, di elevato e di magmatico, di amicizia e di conflittualità, e comunque in mille modi contraddittorio. Era un ambiente, nel quale non di rado tutti erano contro tutti, seppur spesso in gran parte convergenti nei momenti più difficili, e nel quale le condizioni economiche di solito fortemente disagiate lasciavano spazio anche alla estemporaneità dei comportamenti e delle alleanze inaspettate39. Un mondo insomma ben lontano dalle oleografiche descrizioni della letteratura romantica e nel cui ambito era invece necessario muoversi con molta discrezione40: un mondo, nel quale tuttavia Mamiani seppe porsi come autorevole ed influente esponente del movimento nazionale italiano unitario. Ne è prova una lettera di Giuseppe La Masa – il noto esule siciliano allora rifugiato a Torino e organizzatore delle rivolte isolane del 1848, come poi lo sarà di quella del 1860 – inviata al conte pesarese il 5 gennaio 1856. Allora il mondo dell’emigrazione era infatti in grande subbuglio per fondate speranze – così almeno sembrava – di una radicale rivoluzione a Napoli e nella Sicilia, che avrebbe dovuto portare addirittura alla sostituzione della dinastia borbonica nel Regno con la restaurazione di un discendente di Gioachino Murat: una cosa, questa, resa allora possibile dall’esito della guerra di Crimea giunta in quei giorni al suo epilogo. Il La Masa si mostrava però decisamente contrario al progetto, così come del resto pressoché tutti i fuoriusciti siciliani41, intuendo in esso il pericolo di una grave rottura nel mondo delle aspirazioni nazionali unitarie e la possibilità del risorgere dell’autonomismo siciliano contro Napoli. Di qui la sua azione a Torino e a Genova per sventare il pericolo murattiano e ottenere l’adesione al suo progetto da parte degli uomini più autorevoli e più rappresentativi dell’intera emigrazione “italiana”42. Di qui l’invio della lettera “All’illustre Italiano Sig. conte Terenzio Mamiani”, al quale con evidente stima scriveva: Se potessi contare la sua firma nel bel numero di quelle che io raccolgo per un’idea santissima, mi reputerei fortunato – non per me soltanto, ma per la patria. Fra pochi giorni verrò in Genova per ricevere la risposta di coloro che interrogo per il mio progetto tendente all’unione politica43. Con l’emigrazione Mamiani ebbe prima di tutto rapporti di solidarietà economica nei confronti di chi nella sfortuna politica aveva perso i propri beni: un aspetto, questo, della sua personalità ben attestato a Parigi, quando era esule e non ricco44, e più ancora a Genova, quando le sue condizioni economiche andarono man mano migliorando45. La sua 40 influenza sull’emigrazione dovette però essere anche di tipo politico, se ben presto lo vediamo al centro di un movimento risorgimentale a carattere nazional-popolare, collaterale certamente nei confronti della politica ufficiale del governo, e dunque necessariamente anche nascosta, seppur non segreta al modo delle vecchie sette carbonare, né cospiratoria al modo delle affiliazioni mazziniane. La cosa prese forma con il ritorno in Piemonte di Giuseppe La Farina nel tardo 1854 e per sua diretta e personale iniziativa. Egli, infatti, appena rientrato a Torino dall’esilio francese, aveva dato subito inizio fra i fuoriusciti ad una vivace società patriottica denominata Società Nazionale Italiana, alla quale aveva aderito fin dai primi tempi anche il conte pesarese. Si trattava di una organizzazione politica originale e ancora dotata per necessità di programmi ed intenti piuttosto riservati e, per quanto riguardava i territori non piemontesi, addirittura segreti: essa costituì comunque il primo vero nucleo di una organizzazione societariamente strutturata e di fatto operativa sull’intero territorio nazionale, destinata in quanto tale a creare i presupposti di una ampia rivoluzione italiana popolare di tipo moderato e dunque non mazziniano. Come tale, essa risultava indirizzata ad unire in solidarietà effettiva tutti i liberali italiani favorevoli ad una azione armata di massa contro l’Austria per l’unificazione nazionale, in programmatico accordo ideale con la dinastia sabauda e in sostegno (ma con forme e azioni autonome!) dell’esercito sardo. Il programma della Società Nazionale, che si fondava sulla convinzione di poter trovare l’appoggio dei liberali più sinceri, quelli cioè capaci di anteporre nella fase preparatoria ed operativa della guerra contro l’Austria e contro i suoi Stati satelliti in Italia gli ideali della indipendenza e della unificazione alle differenti opinioni personali sulla struttura istituzionale del futuro Stato nazionale – laico o confessionale, monarchico o repubblicano, federale o unitario che fosse – aveva certamente molti punti in comune col programma del Partito Nazionale Italiano, che proprio in quel tempo andavano strutturando Daniele Manin e Giorgio Pallavicino e al quale il gruppo del La Farina gradatamente si avvicinerà a partire dal 24 agosto 1856, ma senza tuttavia confondersi con esso per quasi un intero anno. Risalgono comunque alla fine del 1854 o ai primi del 1855, ossia a tempi antecedenti alla fusione dei due raggruppamenti politici, i primi contatti del Mamiani con il La Farina, entrambi noti uomini di studio e di cultura per quanto schierati su posizioni ideologiche assai differenti46: contatti, che portarono subito ad una loro stretta solidarietà per l’attuazione di un programma molto avanzato di azione popolare, volta alla 41 unificazione e alla indipendenza nazionale italiana e in dichiarata armonia con la dinastia dei Savoia e con il governo piemontese. La presenza di Mamiani nella società lafariniana, con funzioni anche segnalate, è infatti attestata per lo meno dal 1855, come mostra una lettera del 6 giugno di quell’anno a firma del conte bolognese Luigi Tanari a Mamiani, allora residente a Genova, nella quale i collegamenti fra il conte pesarese e la società lafariniana appaiono in tutta evidenza. A quel tempo Mamiani era soltanto un semplice rifugiato politico nel Regno del Piemonte, non avendo ancora neppure ricevuto la nazionalità sarda, che peraltro proprio in quei giorni Cavour era in procinto di riconoscergli e che di fatto gli fece avere dal sovrano il 19 luglio di quello stesso anno. Nella lettera il Tanari, senza scoprire eccessivamente notizie ben note al suo corrispondente, ma celate ancora agli estranei e soprattutto alla polizia dello Stato pontificio, di cui il bolognese poteva ben temere la sorveglianza – assicurava il conte pesarese di aver agito in Bologna secondo quanto anche con lui stabilito, rammaricandosi tuttavia di aver trovato impreviste difficoltà per la eccessiva disinvoltura con cui Gioachino Pepoli47 aveva di sua iniziativa divulgato improvvidamente a Bologna il programma della loro Associazione torinese. Superate però positivamente le non poche “combinazioni e difficoltà”, il Tanari pregava Mamiani di riferire a Michelangelo Castelli – uomo fin da allora del Cavour, ma anche assai legato al La Farina48 – che di lì a pochi giorni egli gli avrebbe inviato una importante lettera contenente notizie di rilievo per la Società e, in particolare, il nome “del corrispondente cui far capo in Modena per noi”: nome, che il Castelli avrebbe dovuto a sua volta comunicare al La Farina. A scanso di ogni possibile equivoco, infine, il Tanari ricordava al Mamiani e, per suo tramite, al Castelli, che tutto ciò sarebbe stato scritto in forma ancora pressoché cifrata, “usando la formula già convenuta col Minghetti” e indicando nel contesto il nome del corrispondente in oggetto. Data la importanza della lettera per la cosa in sé e per la documentazione della conoscenza personale e degli ottimi rapporti intercorrenti fra Mamiani e La Farina, non sarà inopportuno riportare per intero l’inedito documento, che è così formulato: Prendo di volo un’occasione sicura, per assicurarle che le cose intrapprese (sic) qui, nel senso ch’ella conosce non furono da me neglette, ma che anzi prendono finalmente un andamento buono, dopo non poche combinazioni e difficoltà non poco dispiacevoli, che le hanno contrastate, tra le quali non ultima, il modo tenuto al suo ritorno fra noi, dal nostro Pepoli; che ha dato di suo moto al credo della Associa- 42 zione di Torino, un’inopportunissima pubblicità. Mi restringo ora a pregarla di prevenire il sig. cavalier Castelli, che nel torno della prossima metà del mese, gli scriverò, usando la formula già convenuta con Minghetti, perché si metta in rapporto con La Farina, e che nel contesto troverà un nome, che si compiacerà di indicare al La Farina stesso, quale il corrispondente cui fa capo in Modena per noi. Spero poi fra non molto passare io stesso in Piemonte, vedendolo necessario per meglio concertare ogni cosa. Mi conservi intanto la sua benevolenza, e senza più con altissima stima e considerazione mi ripeto di Lei Illustrissimo sig. Conte, dev.mo ob. servitore – Luigi Tanari49. La lettera mette dunque in chiara evidenza che per lo meno fin da allora – giugno 1855, ma, data la complessità dei rapporti, evidentemente anche già da prima – Mamiani dovette essere un importante punto di riferimento della società lafariniana, ben addentro per di più nelle secrete cose del movimento e che molto probabilmente dovette anche essere il naturale referente in Piemonte della società attiva nelle Romagne, essendo egli allora certamente il più illustre cittadino dello Stato Pontificio in esilio nel Regno di Sardegna. Del nascente movimento doveva far parte infine anche Marco Minghetti, allora residente a Bologna, che del Tanari era intimo amico, come lo era del Mamiani, con il quale era in rapporto epistolare fin dal tempo dell’esilio parigino del conte pesarese e con il quale aveva poi collaborato strettamente ai tempi della militanza romana del 1848. Quel che più conta notare, tuttavia, è la novità e il senso dell’attività patriottica genovese del Mamiani, che tornava così in qualche modo al suo passato giovanile, alla militanza “segreta”, cioè, e alla “rivoluzione popolare” del 1831, poco allora credendo nelle prospettive nazionali della politica governativa torinese del dopo Novara. Certo, non si trattava di un ritorno alle sette segrete sul tipo della vecchia carboneria e del suo cospiratorismo settario, che egli aveva ormai da molto tempo rifiutato – come affermava già nel 1831 nel corso degli interrogatori da lui sostenuti di fronte al giudice inquirente austriaco nelle carceri di S. Severo in Venezia, dopo la fallita rivoluzione “romagnola” di quell’anno – in quanto improduttivo per la causa italiana e inutilmente pericoloso per gli stessi affiliati; né si trattava di una adesione alla rivoluzione di tipo mazziniano, che egli anzi considerava contraria alla più matura cultura europea del tempo e alle tendenze dello scenario politico internazionale e che aveva del resto già ufficialmente condannato nel 1839 con la pubblicazione dell’opuscolo Nostro parere sulle cose italiane, il suo manifesto di politica risorgimentale liberale di tipo democratico-moderato. 43 Si trattava piuttosto di un ritorno attivo all’educazione delle masse e alla organizzazione dell’azione popolare, da lui sentite sempre come l’anima stessa di ogni buon processo risorgimentale e come la indispensabile premessa di qualsiasi efficace azione militare: un ritorno, il suo, dovuto evidentemente all’incontro con il La Farina e con la sua Società Nazionale, i cui intenti, che nulla avevano a che fare con l’attività propriamente settaria, coincidevano in questo con i suoi sentimenti patriottici. Si trattava, però, anche di un’adesione indubbiamente coraggiosa, dato che egli in quel tempo aveva più che mai la necessità di non lasciarsi confondere con l’area del contemporaneo sovversivismo mazziniano, che aveva in Genova non poche simpatie, ma che riscuoteva anche l’ostilità delle classi moderate del paese e dello stesso “connubio” governativo, oltre che della maggioranza parlamentare torinese. Egli sapeva bene infatti che la questione della sua naturalizzazione sarda era ormai non solo riavviata, ma che stava ormai addirittura per concludersi positivamente; e questo non gli permetteva di correre il rischio di vedersi nuovamente compromesso, come nel ’49, in una situazione tale che avrebbe posto sicuramente la pietra tombale sulla sua popolarità e su tutta la sua carriera politica. Prudenza e circospezione gli erano dunque d’obbligo. Eppure, è necessario anche aggiungere, se la partecipazione di Mamiani alla Società Nazionale poteva essere sentita da non pochi moderati come incongrua e se la divulgazione della sua attività quasi segreta poteva tornare di pericolo all’esule politico, bisogna anche ritenere che esse non dovessero invece dispiacere al Cavour, dal quale tutta la pratica del Mamiani dipendeva e al quale il Castelli, funzionario del ministero dell’Interno e amico devoto del Presidente del Consiglio, oltre che di Rattazzi, e per di più ben addentro egli stesso nella cosa, non poteva non averla rivelata. Si trattava certamente di un’area, che non era apertamente illegale, ma che tuttavia si muoveva su un terreno paralegale: quello cioè dell’organizzazione politica popolare, che nel concetto e nel linguaggio comuni rientrava nell’ambito della cosiddetta “rivoluzione”. E dunque, se la cosa era nota al Cavour e se a lui anzi non dispiaceva, bisogna anche concludere che il Primo Ministro fosse fin d’allora meno rigidamente spostato sul centro destro del Parlamento – e sull’azione alla chiara luce del sole ossia sulla linea diplomatico-internazionale – di quanto comunemente non si dica. Ed in effetti, pur nella moderazione che gli era propria, egli si sentiva certamente vicino anche al movimento popolare, del quale poi strategicamente e ampiamente si servirà50. Ad ogni modo, per quanto riguarda Mamiani, la vicenda dell’appartenenza alla associazione lafariniana fin dai primi tempi della sua fondazio44 ne e la documentata sua presenza negli alti quadri societari, con tutta la forza di attrazione che la notorietà e l’ascendenza politica del personaggio dovettero avere allora esercitato presso i patrioti – e, stando alla lettera del Tanari, non solo presso quelli raccolti nel mondo dei fuoriusciti – inserisce il conte pesarese fra i padri fondatori della Società Nazionale, ossia – scrive Rosario Romeo – “di quello che fino al 1860 doveva essere lo strumento più efficace della politica e della propaganda cavouriana nella penisola”51. Tutto ciò mostra quanto poco la delusione dell’insuccesso romano e della imprevista ostilità azegliana abbiano frenato l’attività politico-nazionale del Mamiani negli anni della sua permanenza a Genova: una attività, che se – a stare alle sue parole o a quanto egli allora prevedeva, per necessità e per scelta, che fosse – non doveva mirare ormai alle forme istituzionali della politica, quella parlamentare e ministeriale, risulta ugualmente importante ed intensa, strutturandosi su un vasto terreno che andava dall’impegno culturale ed educativo, di tipo pubblico ed aperto, a quello più nascosto e delicato della rivoluzione popolare moderata, sviluppata soprattutto a contatto con l’ambiente degli esiliati politici. Anni di esilio, dunque, quelli genovesi del Mamiani – anni, come egli li definiva, del suo “secondo esilio” (1849-1855): secondo, dopo quello ben più lungo e ben più difficile vissuto in Francia (1831-1847) – ma certamente operosi e soprattutto circondati dalla universale stima della città e della emigrazione italiana. La sua persona, del resto, non riscuoteva successo soltanto a Genova: pur ancora emarginato dall’ambiente ministeriale, egli era infatti conosciuto ed apprezzato, come ci mostrano alcune lettere di Bianca Rebizzo, nella Torino bene dei salotti della capitale, in quegli importanti circoli sociali, dove cultura, politica e relazioni interpersonali si amalgamavano e si equilibravano nel tipico demi-monde elitario del tempo e dove fra galanteria e pettegolezzo veniva filtrata tutta la vita politica e mondana del paese, contribuendo non poco a fare o a disfare la fortuna degli uomini emergenti52. In tali circoli la sua fama di uomo di cultura e di autorevole protagonista di vicende politiche di prestigio nazionale, ma indubbiamente – a stare ad alcune autorevoli testimonianze del tempo parigino – anche i suoi modi naturali di garbo e la sua forte personalità morale e ideale53 lo dovettero aiutare a crescere in quella autorevolezza politica, che l’incidente d’Azeglio aveva momentaneamente incrinato. E del resto, come uomo di solida ed avanzata cultura egli poté fin da allora vantare tra i suoi più importanti estimatori addirittura l’ambasciatore inglese a Torino, Lord James Hudson – universalmente considerato uno dei più validi ministri plenipotenziari del Regno Unito – il quale nelle sue relazioni ufficiali col governo londinese annoverò 45 Mamiani fin dal 1852, fin da quando cioè venne inviato dal suo governo in Piemonte, fra i più importanti uomini della cultura piemontese accanto a Rosmini e Gioberti e fra gli uomini di sicuro riferimento politico per la stessa Inghilterra nell’ottica di una positiva modificazione dell’allora difficile rapporto del governo inglese con la cultura cattolica dell’isola54. Nessuna meraviglia dunque che Cavour, grazie anche alle sollecitazioni di amici comuni, si fosse deciso ad un certo momento di riattivare la vecchia pratica della naturalità sarda e fosse riuscito ad ottenere di nuovo dal sovrano la concessione della cittadinanza piemontese per Mamiani (19 luglio 1855). Il riconoscimento costituì senza dubbio un momento psicologicamente importante per il conte pesarese, che poteva così porre fine al suo “secondo esilio” e tornare a godere ormai il piacere di sentirsi finalmente a tutti gli effetti cittadino di una patria compartecipata e liberale, la quale – scriveva nella lettera di ringraziamento al sovrano – anche se non era quella nativa, era pur tuttavia terra italiana. Uno stato d’animo, il suo in quel tempo, che lo portava a non desiderare più di tanto di tornare all’agonismo e ai contrasti della vita parlamentare e a preferire ormai di svolgere la sua pur intensa attività culturale e nazional-popolare fra gli amici genovesi, ritagliandosi probabilmente anche per motivi di salute, che in lui fu sempre un po’ precaria uno spazio di vita meno affaticata e contrastata, nella quale poter forse ritrovare una personale autostima politica, uscita incrinata dalle delusioni – non facili da dimenticare – del 1848-49 romano e piemontese. Lo scriveva ad un amico marchigiano, il medico Diomede Pantaleoni, che gli aveva inviato le felicitazioni per la conseguita naturalità e per le nuove possibilità di impegno politico che in tal modo gli si riaprivano: Io ne godo assai perché io era stanco di vivere ex lege e pesandomi già sulle spalle il ventiquattresimo anno di esilio. Ma quanto alla carriera politica, io non desidero punto di rientrarvi: il favore giungemi troppo tardi per ciò; sono logoro affatto di salute e d’ingegno, e il tempo à consumato quel pochissimo d’autorità ch’io forse avea per addietro su qualche porzione d’italiani55. Così però non la pensavano gli amici genovesi, i quali insistettero invece perché egli si ripresentasse quale candidato della città alle nuove elezioni del 24 febbraio 1856 per la V Legislatura, nel corso delle quali egli in effetti venne eletto deputato del Regno di Sardegna nel collegio di Genova V: il che, essendo egli ormai in regolare possesso dei diritti politici, gli permise di sedere fra i rappresentanti dello Stato sardo nella 46 Camera elettiva di Palazzo Carignano a Torino. Fu, comunque quella, una campagna elettorale dura e difficile, trovandosi egli a dover contrastare un candidato di area moderata, il genovese avvocato Leopoldo Bixio, che godeva di grande notorietà nella città grazie anche ad un suo recente ed impegnato passato parlamentare56. Nessuna meraviglia dunque che, contrariamente a quanto era avvenuto nel dicembre del 1849, la sua non sia stata una vittoria apertamente eclatante. Il Collegio infatti constava di 763 elettori, dei quali tuttavia se ne presentarono alle urne solo 279 e nella prima tornata elettorale l’avvocato Bixio ottenne 139 voti contro i 121 del Mamiani; gli altri andarono dispersi fra candidati minori o furono dichiarati nulli. Non avendo però nessun rappresentante di lista ottenuto la maggioranza assoluta prevista dalla legge, fu necessario ricorrere ad una seconda votazione di ballottaggio fra i due candidati più votati e in quell’occasione Mamiani riportò una vittoria di strettissima misura: 185 voti contro i 183 dell’avversario. La Camera approvò poi l’elezione il 3 marzo di quello stesso anno e il 12 marzo egli prestò il previsto giuramento, dando così pratico inizio alla sua carriera parlamentare57. Genova era una città legata alla sinistra, come lo era anche Mamiani, ma egli nella occasione non dimenticò l’aiuto offertogli dal Cavour e lealmente gli si affiancò a sostegno dell’area governativa. D’altra parte il Cavour faceva grande affidamento in lui, come scriveva al Rattazzi il 2 marzo da Parigi – dove si trovava per il Congresso di pace indetto dopo la guerra di Crimea – dichiarandosi “lietissimo” della elezione del Mamiani come persona “utilissima sia all’interno, sia all’estero” 58. E che a tutti Mamiani apparisse fin da allora uomo di Cavour e dunque legato strettamente alla politica governativa – cosa stimata un pregio da alcuni, un limite, se non un difetto, da altri – ce ne dà notizia Giorgio Pallavicino. Egli, infatti, scrivendo il 2 dicembre 1856 a Daniele Manin – il quale da Parigi gli aveva chiesto notizie sul comportamento di alcuni importanti uomini politici, fra i quali il conte pesarese da lui affettuosamente stimato per il sostegno offertogli nel corso del 1848 in occasione delle note vicende della Repubblica di San Marco – rispondeva con il suo solito stile franco (ed anche non poco manicheo): Massimo d’Azeglio è un languido dottrinario, più atto a spegnere che ad infiammare l’entusiasmo degli uomini d’azione. Mi dicono che nel suo ultimo viaggio in Toscana siasi mostrato prudente oltre il dovere. D’Azeglio vixit: seppelliamolo. È voce che Mamiani non abbia in politica concetto proprio. Segue, mi dicono, le pedate del Farini e del Castelli, due uomini che non hanno convinzioni di sorta. Mellana è un politico zero”59. 47 Pallavicino mostrava dunque di non conoscere bene Mamiani, ancora nuovo deputato, e di avere su di lui solo notizie di tipo indiretto: di qui, limitando la propria animosità spesa a larga mano per gli altri politici, lo additava più semplicemente come uomo – a quanto si diceva – ligio alle opinioni del governo e dunque seguace fedele dei suggerimenti e delle orme (“pedate”) di Luigi Farini e di Michelangelo Castelli, le persone allora notoriamente più vicine al Cavour, ma dal Pallavicino non stimate. La conclusione, pur se non ancora da lui formalizzata, si lasciava dunque chiaramente intravedere: se Mamiani era seguace fedele di personaggi privi di idee, a loro volta seguaci fedeli di Cavour, e dunque certamente privi di originalità politica, c’era ben poco da sperare su di lui: anche se per onestà intellettuale Pallavicino non se la sentiva di pronunciarsi ancora in maniera definitiva. Il fatto è che egli non amava Cavour, considerato da lui più disposto alla diplomazia che non alla rivoluzione popolare – anche se fatta in nome del re di Sardegna –, ma più in particolare aveva in disistima tutto il suo ambiente politico: di qui la serie di giudizi aspri e, in questo caso, anche assai ingiusti su uomini di primo livello e soprattutto sul Farini, che di Cavour era allora e rimarrà poi sempre l’uomo di sicuro riferimento. Tale solidarietà con l’area governativa e la fiducia che in Mamiani Cavour doveva sin da allora riporre, risultano bene evidenziati anche da un’altra notizia inviata da Pallavicino al Manin qualche giorno dopo: sempre secondo voci, Mamiani, eletto deputato da appena qualche mese, era già in serio odore di ministerialità60. Le cose in realtà non dovevano stare proprio così: Cavour infatti voleva costruire intorno a sé uno staff dirigenziale preparato ed efficiente e proprio per questo anche molto differenziato nei ruoli e nelle attribuzioni. “Il sistema del conte di Cavour – scriveva Giuseppe Massari (1821-1884), che lo conosceva bene, essendo dal 1856 direttore della Gazzetta Ufficiale piemontese e per questo con il Primo Ministro assai spesso in contatto ed anche in reciproca confidenza – era la pratica del vecchio adagio inglese the proper man in the proper place: l’uomo giusto al posto giusto61: e in verità non mancavano allora al Primo Ministro politici capaci di svolgere l’attività ministeriale con sua soddifazione, né diplomatici di carriera capaci di ben rappresentare gli interessi piemontesi nelle corti europee. Egli invece sentiva il bisogno di avere intorno a sé una cerchia di consiglieri politici abili e fidati – quelli che era solito chiamare “i miei amici” – di grande reputazione e capaci perciò di creare consenso e di dar credito proprio per la loro autorevolezza personale alla sua politica governativa in Parlamento, di mantenere unita la mag48 gioranza nella Camera elettiva e di stabilire buone relazioni con i giornali e con l’opinione pubblica, nella piena consapevolezza della funzione primaria ormai da questa acquistata nella vita del tempo. E Mamiani sembrava per l’appunto a Cavour possedere tutte queste qualità: uomo dal passato politico a tutti noto e certamente prestigioso, egli aveva vasta fama in Italia come fine letterato e stimato uomo di cultura62; era inoltre conosciuto ed apprezzato all’estero e soprattutto in Francia, dove aveva trascorso sedici anni di esilio (1831-1847) e frequentato la migliore società del tempo; e svolgeva infine incarichi di collegamento con l’università di Genova, benché ancora – amministrativamente – in modo “non fermo” ossia non stabile e dunque, diremmo noi, precario e non di ruolo. Una limitazione, questa, del suo prestigio sociale, alla quale però un uomo potente come il conte di Cavour non aveva difficoltà a porre rimedio e alla quale di fatto pensò subito di rimediare, non facendo mistero di volerlo inserire fra i professori titolari dell’università di Torino e creando appositamente per lui la cattedra di filosofia della storia in quell’ateneo63. Mamiani aveva del resto anche un’altra caratteristica ben nota al Primo Ministro. Era un uomo del centro sinistro e dunque, strettamente parlando, più vicino al Rattazzi che non allo stesso Cavour, leader indiscusso invece del centro destro del Parlamento: il che avrebbe permesso al pesarese di essere uomo di cerniera fra le due ali della maggioranza governativa, assicurando così continuità e solidità al suo governo. A Cavour d’altra parte non sfuggiva che Mamiani gli sarebbe stato sempre devotamente fedele e che non gli avrebbe fatto mai mancare il suo appoggio nei momenti difficili, essendo stato proprio lui, il Cavour, a toglierlo dall’isolamento politico nel quale l’Azeglio lo aveva posto. Tutto ciò lo portava ad un teorema, che si rivelò poi assolutamente corretto: Mamiani, uomo ideologicamente legato alla sinistra parlamentare moderata, ma anche apertamente inserito nello schieramento cavouriano, avrebbe potuto essere di grande utilità nella mediazione tra i due poli della maggioranza, e contribuire così a rafforzare il consenso operativo del governo nell’area spesso agitata dello schieramento rattazziano64. Ecco perché, contrariamente alle voci che comunemente circolavano, Cavour non aveva fretta di affidare a Mamiani dirette responsabilità governative che lo sottraessero ai rapporti con il Parlamento: egli infatti mostrerà sempre di preferirlo nella funzione di suo consigliere politico che non in quella di uomo di governo. E così, proprio entro queste coordinate, Mamiani fece il suo ingresso a Palazzo Carignano. 49 Note 1 Lettera di T. Mamiani a M. Minghetti, Genova, 6 settembre 1850, in M. MINGHETTI, Miei ricordi, III (1850-1859), Torino, Roux e C., 1890, p. 315. 2 Per tale situazione si veda A. BRANCATI-G. BENELLI, Divina Italia. Terenzio Mamiani Della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista, Pesaro-Ancona, Fondazione Cassa di Risparmio-Il Lavoro Editoriale, 2004, pp. 247-256. 3 Il fatto è ufficialmente attestato. Il 3 agosto 1849 Mamiani si faceva sottoscrivere da Alfonso Conversari, l’incaricato dell’ufficio della Diligenza, la seguente dichiarazione: “Il signor Alessandro Sebasti incaricato dell’Ufficio della diligenza da Roma a Civitavecchia, attesta in una lettera responsiva al Signor Alfonso Conversari incaricato dell’Ufficio delle dette diligenze in Civitavecchia che il baulle consegnato il dì 31 luglio indirizzato a Terenzio Mamiani in Civitavecchia giunse in ufficio aperto e non soggiacque a nessuna visita straordinaria per ordine superiore. Il detto baulle era consegnato nella cavalcata ordinaria numero 12, conduttore Staderini (artic. 500). Giunse in Civitavecchia aperto il mattino del primo agosto e da nessuno fu visitato finché rimase in ufficio. Qualche ora dopo essere stato consegnato a Terenzio Mamiani, questi venne ad annunziare che nel suo baulle mancavano moltissime carte di grande interesse. L’incaricato dell’Officio delle diligenze A. Conversari. ” Si tratta di una dichiarazione materialmente compilata dallo stesso Mamiani in Civitavecchia, ma firmata da A. Conversari. L’importante documento si trova in Carte di T. Mamiani, busta 64, cart. II, n. 2. Da notare che la data del documento è chiaramente errata: essa infatti riporta la data del 3 agosto 1839, mentre si trattava evidentemente del 3 agosto 1849. L’errore banale è chiaro indice del turbamento vissuto in quella situazione dal Mamiani. Impossibile dire a chi debba essere imputato il furto, se alla polizia pontifica, come è più probabile, o ad emissari delle forze francesi, che allora occupavano Roma: entrambi infatti erano ugualmente interessati a far sparire le testimonianze del loro comportamento politico ambiguo e compromissorio, nella fondata paura che esse sarebbero state fatte oggetto dal Mamiani di un’opera storica sugli avvenimenti accaduti in quei mesi fra il 1848 e il 1849. Quanto al Mamiani, egli così scriveva in proposito al suo amico Diomede Pantaleoni, probabilmente in quello stesso giorno 3 agosto da Civitavecchia: “La polizia ha aperto il baulle e portato via scritti e stampe, compresi molti studj miei letterari e buona porzione del libro che stavo dettando. Delle carte politiche non ho nessuna apprensione, ma spiacemi all’anima di perdere molte memorie e segni altresì d’onorificienze. P.S. Ora sento non esser certo che la Commissione sia in Roma, allora il mio fatto è farina del sacco di Oudinot!!” (Lettera di T. Mamiani a Diomede Pantaleoni, s. d., Biblioteca Comunale di Macerata, ms. 986 Mamiani, n. 426. Il corsivo è nostro). In realtà, Mamiani non era stato informato bene e dunque si sbagliava: la Commissione – a cui egli faceva cenno – era già arrivata a Roma da qualche giorno. Si trattava del cosiddetto “Triumvirato rosso”, ossia di un organo collegiale di governo costituito da Pio IX mentre si trovava ancora a Gaeta e formato da tre cardinali (Gabriele Della Genga Sermattei, Luigi Vannicelli Casoni e Ludovico Artieri), deputati a reggere lo Stato in assenza del pontefice e a preparare il ritorno del fuggiasco sovrano. Annunciata in termini ancora generali da Pio IX in un manifesto del 17 luglio, essa giunse a Roma il 31 di quello stesso mese (C. SPELLANZON – E. DI NOLFO, Storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia, VII, Milano, Rizzoli Ed., 1960, p.584). 4 Lettera di T. Mamiani a M. Minghetti, cit., p. 315. 5 Ibidem. Evidente la reminiscenza foscoliana. 6 Lettera di T. Mamiani a V. Gioberti, Roma, in D. GASPARI, Vita di Terenzio Mamiani Della Rovere, s.l e s.d., Ancona, G. Morelli Ed., 1888, p.113. La lettera non si trova nell’Archivio Mamiani di Pesaro. 50 7 La vicenda è stata ricostruita in A. BRANCATI-G. BENELLI, op. cit., pp. 256-271. 8 La città di Genova coinvolse Mamiani, riconosciuto quale eminente uomo di lettere, soprattutto nel settore scolastico: lo richiese infatti come professore della propria università (Lettera di T. Mamiani a Gian Carlo di Negro, Genova, 20 luglio 1847, in Archivio Di Negro m.r. Ant. I,3,67 presso la Biblioteca “Berio” di Genova), anche se Mamiani, sperando di poter tornare nello Stato Pontificio, declinò allora l’invito; lo pregò “di voler tracciare il programma per l’insegnamento della Filosofia Razionale nel civico Ginnasio e di far parte della Commissione esaminatrice pei prossimi concorsi alle cattedre di Filosofia razionale, Rettorica e Lingua Francese” (Lettera del Vice Sindaco Prospero Viani a T. Mamiani, Genova, 3 maggio 1850, in Pluteo Mam. II, busta 2, 5v). Lo incaricò inoltre nel 1851 di perorare presso il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Carlo Farini una riforma dell’Università di Genova volta a ripristinarne il prestigio passato (Lettera del Vice Sindaco Prospero Viani a T. Mamiani, Genova, 3 maggio 1850, in Pluteo Mam. II, busta 2, 5v). Fra i numerosi attestati di stima e di affetto che la città di Genova e suoi autorevoli cittadini tributarono apertamente al Mamiani, vedi a solo titolo di esempio la Lettera del marchese F. Sauli a T. Mamiani, Torino, 7 aprile 1850, in Carte di T. Mamiani, busta 3, libro I, Epistolario dell’Accademia di Filosofia Italica p. 45; la Lettera di Lorenzo Costa “Al Chiarissimo conte T. Mamiani. Canzone”, Genova, 21 marzo 1855, in Lettere a T. Mamiani, n. 3876 (per notizie storico-biografiche nei riguardi del poeta Lorenzo Costa, si veda Dizionario biografico degli italiani, 30, Roma, Istit. Enciclop. Treccani, 1984, s.v. Costa Lorenzo, pp. 222-225); nonché il sonetto del marchese Gian Carlo Di Negro, Per l’elezione a deputato del Sig. conte Mamiani, in Pluteo Mam. III, busta 12, cart. 9, n. 1. Significative a tal proposito anche la nomina di Mamiani da parte della “Società Economica di Chiavari” quale suo socio corrispondente (Lettera di Luigi Podestà, segretario generale della Soc. Econ. a T. Mamiani, Chiavari, 24 maggio 1852, in Lettere a T. Mamiani, n. 10570 e la nomina inviatagli il 23 dicembre 1854 dalla “Società Letteraria Dell’Areopago residente in Genova” quale suo membro onorario (Pluteo Mam. II, busta 2, n. 1f). 9 Nel capitolo IV di T. MAMIANI, Documenti pratici intorno la rigenerazione morale e intellettuale degli italiani, ripubblicati poi l’anno seguente come parte del più maturo suo manifesto risorgimentale intitolato Nostro parere intorno alle cose italiane (Parigi, Dai torchj della Signora Lacombe, 1839), il conte pesarese aveva attribuito molta importanza – ai fini della creazione di una concreta coscienza nazionale civile e politica – alla divulgazione dei libri stampati nella penisola, alla organizzazione degli studi e alla collaborazione degli studiosi italiani, riuniti in congressi scientifici annuali e collegati fra loro in uno speciale Istituto culturale deputato alla formazione di un sapere tipicamente italiano. Scriveva infatti in particolare: “n. 9°. Tentesi di aprire una fiera annuale di libri, imitando quella famosa di Lipsia, che è sede e capo del commercio librario di tutta l’Allemagna. Luogo a ciò accomodato sembra essere Pisa. n. 10°. Tentesi di istituire ragunanze generali di dotti Italiani, al modo di quelle incominciate in Germania, che ogni anno mutano residenza. n. 11°. Tentesi di rimettere in fiore l’Istituto Italiano dal Lorgna fondato, e di farlo centro e capo de’ nostri studj scientifici”. L’opuscolo, difficilmente reperibile nella edizione originale, è stato poi inserito dall’autore nei suoi Scritti politici di T. Mamiani, a cura dell’Autore, Firenze, Le Monnier, 1853, da cui traiamo la presente citazione, che si trova a p.2. Non sarà inutile ricordare anche – e lo sottolinea lo stesso Mamiani (ibidem, nota n. 1) – che l’idea espressa dal detto n. 9, sarà di fatto attuata, per via autonoma, nel 1839 con il primo Congresso degli scienziati italiani tenutosi a Pisa: congressi, che si protrassero poi annualmente e senza interruzione fino alla loro IX edizione (Venezia 1847). Sospesi, poi, a seguito dei noti eventi politici e militari del 1848, l’idea dei congressi scientifici fu ripresa nel nuovo Regno d’Italia e furono tenuti altri tre Congressi, l’ultimo dei quali a Palermo nel 1875, presieduto dallo stesso Mamiani (vedasi al proposito G. GUARINI, Sul casuale reperimento nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro di un importante documento relativo all’attività Congressuale scientifica italiana dell’800, in “Studia Oliveriana”, N.S., XIX, Pesaro, 1999, pp. 6571). Bisogna anche ricordare che quanto al sopraddetto n. 11, lo stesso Mamiani tenterà di attuare in vari modi e ripetute volte la sua intuizione del 1839, dando vita prima ad una particolare Accademia di Filosofia Italica; poi, diventato ministro della Pubblica Istruzione, preparando e 51