Carlo Vanin MIRKO E IL MOSTRO Fuori Collana Vol. 24 LA CASE Books Copyright 2012 © LA CASE Books All Rights Reserved Indice Intro............................................................................................................................3 Il Mostro.....................................................................................................................5 Il sogno.....................................................................................................................19 La casa.....................................................................................................................35 La città.....................................................................................................................48 Mirko........................................................................................................................71 Carlo Vanin..............................................................................................................86 Intro Allora, immaginate un liceo scientifico di quelli tipici: un grande edificio a tre piani simile ad una caserma che racchiude una piazza d’armi in cui gli studenti, alle dieci e mezza precise, si godono il loro quarto d’ora d’aria attorniando la station wagon bianca del tizio che vende merendine, pizzette, giambonetti e Mars. Immaginate i professori, proprio uguali a quelli che vi ricordate voi: cariatidi ancestrali figlie di un’era che forse non è mai esistita o pallidi supplentelli malati con occhi spauriti come quelli dei cani bastonati e voci tremanti, insufficienti, ignoranti. Immaginate le classi e i tipi che vi abitano per sei giorni la settimana: le secchione, i ciccioni, le racchie, le fighe e i fighetti. Immaginate uno di questi ultimi, Mirko (ma il nome potrebbe variare), alunno della Quinta B, con abiti talmente firmati da essere un unico patchwork pubblicitario e con la testa andata a male, insufflata di un perenne vuoto pneumatico in cui si agitano microconcrezioni di odio xenofobo rivolto a tutto ciò che non appartiene alla sua area sociale, qualunque essa sia. Immaginatelo magretto, carino, forse biondo sì. Con un ciuffo ribelle che fa sospirare le fighette, forse con gli occhi azzurri (ma magari verdi) e un mento volitivo. Immaginate ora, se volete, il suo mezzo di trasporto: forse uno scuterone gigante farcito di ammennicoli e adesivi (forza Inter?). Immaginate il suo cellulare: se Dio avesse un cellulare avrebbe il cellulare di Mirko: seicento euro di pura forza lavoro vietnamita, cromato, iridescente, pluritonale, capace (se opportunamente craccato) di far partire uno shuttle verso lo spazio infinito con una semplice combinazione di tasti. Immaginate Mirko ora, mentre attende l’inizio della prima ora (mate: che merda!). È seduto in quarta fila accanto al Marra e al Teo, due file dietro al pigolante gruppetto delle secchie. Eccolo Mirko, perso in un momento di vuoto pneumatico, con i bellissimi occhi spenti, la testa che gira un poco (non è ancora abituato a bersi tre spritz al campari prima della lezione… ma sarà questione di tempo), la mascella pesante appoggiata ad una mano e la testa vuota, vuota, vuota. Lo vedete bene? Ok, allora possiamo cominciare, se vi va... Il Mostro Entrò il prof di mate, detto Puzza perché puzzava, vestito non male ma peggio anzi: proprio di merda. Teo constatò che gli albanesi erano vestiti meglio e Marra rise, anche Mirko sorrise, pur non avendo sentito il commento del compagno. Il prof, Tozzello si chiamava (e penso che si chiami ancora), si sedette, squadrò gli studenti, tossì, aprì il registro, chiuse il registro, inforcò gli occhiali, aprì il libro di mate e, con voce perentoria ma priva di passione ordinò: «Facciamo esercizi». Riaprì il registro per scegliere chi sarebbe stato torturato ed umiliato alla lavagna e la classe ammutolì. Mirko si riprese un poco e sputò una bestemmia che avrebbe offeso anche un ateo all’orecchio di Marra. Marra grugnì e, con un temperino da scout, sfogò la tensione sfregiando il banco. Una volta, in prima superiore, Marra aveva persino segato in due un banco in quel modo e la storia era già entrata nelle leggende del liceo. Ci aveva lavorato tutti i giorni con quel cazzo di temperino rosso, cinque ore al giorno, partendo dal sotto, in modo che il lavoro fosse invisibile ai più. Poi, a fine maggio, CRACK! il banco si era spaccato in due proprio durante l’ora della Valluzzi, la lesbica di filosofia, e questa se l’era talmente presa (ma che, il banco era suo?) che aveva spedito il Marra dal preside. E così quell’anno il Marra aveva preso otto in condotta ed era stato promosso solo perché suo padre faceva i parabrezza delle Ferrari. Teo tentò di superare la bestemmia di Mirko con un porcone ragionato ma non ottenne lo stesso effetto: la bestemmia dell’amico era di gran lunga superiore ed associare a Dio la parola “sclero” evidentemente non era risultato così offensivo. «Se mi incula sono inculato». Sussurrò Mirko tautologicamente, tentando di farsi piccolo piccolo, cosa che le sue spalle larghe non gli consentivano. «Tranqui che si offre Zennaro». Bisbigliò Marra. «Me l’ha detto prima che si offre». «Io non vado». Asserì Teo, sfoderando un’inedita (e falsa) determinazione. «Posso venire io alla lavagna, prof ?» Chiese Zennaro, prima fila, faccia da topo malato e occhiali telescopici. La classe tirò un percepibile sospiro di sollievo quando Tozzello annuì e Zennaro si precipitò al gessetto. «Che cazzo hai fatto, l’hai pagato?» chiese Teo al Marra. «Gli ho prestato un pornaccio». «Malato» replicò Teo. Per la cronaca: “malato” era in prima posizione fra le espressioni idiomatiche più usate nel contesto linguistico giovanile contemporaneo al nostro eroe, era una parola onnicomprensiva che poteva significare tutto e il contrario di tutto. Al secondo posto c’era “coma”, che stava ad indicare uno stato d’animo negativo e ansiogeno e al terzo “friga”, detto di ragazza piacente ma restia a concedersi. E.g. «Sto in coma perché sono preso malato per la Cate ma è una friga». «Che bene». Sussurrò Mirko prima di ricadere nel vuoto… e già la sua mente cominciava a dilatarsi nel nulla cosmico quando la porta a vetri smerigliati dell’aula sbatté all’improvviso, scardinandosi per chissà quale bizzarria fisica e cadendo a terra. Subito dopo entrò il mostro. Entrò in classe con passo veloce e poi si fermò, prestando la sua figura orribile a venticinque paia d’occhi incluso il prof. Il mostro era, come si può facilmente evincere, brutto. Ma c’è bruttezza e bruttezza. Zennaro era brutto per esempio, ma in lui si scorgevano dei tratti umani, e poi suo padre aveva un X5 e un Porche Carrera che non sono di certo macchine per gente brutta. Un cane spalmato sulla strada è brutto, ma quella è la bruttezza della morte e dello schifo splatter che, comunque, è una bruttezza malata, ma malata nel senso buono perché se la vedi e ridi sei un uomo. C’è la bruttezza dei deformi, come quella del tizio con il labbro leporino che puliva le classi, ma quella è una bruttezza accettabile e logica, visto che chi spazza per terra deve essere certamente brutto. La bruttezza del mostro era diversa: antica, ancestrale, universale. Anche un uomo di Neanderthal avrebbe detto che il mostro era brutto. Anche gli animali avrebbero pensato che il mostro fosse brutto, pur non avendo idea dei canoni estetici umani. Il mostro era la bruttezza per eccellenza. Nel secondo buono in cui la sua visione del mostro si fece spazio nelle teste dei ventiquattro studenti della Quinta B e in quella del professore, tentate di immaginarvelo. Innanzitutto, cambiamo subito genere: seppure pochi dati visuali potrebbero confermarlo, credetemi quando vi dico che il mostro era di genere femminile. Alta forse un metro e settanta, un po’ più della media, informe sotto gli abiti puzzolenti che la avvolgevano come un sudario. Era stato un cappotto quella specie di coperta verde dai bottoni sfilacciati che le ricadeva addosso, tesa internamente da masse scomposte di lardo? Erano state scarpe quelle ghette infangate e luride, piene di squarci che lasciavano intravedere stucchevoli calze a cuoricini gialli? Mirko, la cui visuale gli consentiva di vedere bene l’obbrobrio appena entrato, ancora in stato di shock come i suoi compagni per l’irruzione di quel male, pensò solamente ma perché mai i cuoricini sono gialli? Forse perché sono cuoricini malati… Quello che avete immaginato finora, però, è solo una cornice al vero capolavoro dell’aberrazione: il viso del mostro. Immaginate la cappella Sistina, il magnifico giudizio universale affrescato sulla volta: nessuno, neppure un bruto incolto potrebbe negare di scorgervi una bellezza superiore. Prendete tutti insieme i canoni estetici che il capolavoro di Michelangelo esprime e ficcateci un bel segno meno davanti: ecco che avrete l’equazione del viso del mostro. Un incubo scontornato e sfatto come i peggiori incubi di un pazzo malato. Ecco i capelli, stecchi bisunti di colore nero, tenuti lunghi forse per decenza, in modo da creare ombre sul viso del mostro e celare orecchie che, possiamo solo immaginare, sarebbero state il ricettacolo di fontane colanti di cerume verdastro. Da sotto la zazzera attaccaticcia della simil-frangia partiva una fronte spiovente da minorata che si arcuava attorno ad orbite infossate in cui bruciavano neri occhi minuti come puntini di spillo, circondati da palpebre slabbrate che si propagavano in due mezzalune macchiate che chiamare borse sarebbe come dire che la fossa delle Marianne è piuttosto fonda. Fra gli occhi, leggermente a mandorla, ma più che a mandorla a noce, immaginate escrescere un bubbone bianco con due narici perennemente aperte. Ecco il naso del mostro, tumore benigno solo per modo di dire. Sotto di esso, come lo scivolo olimpionico di salto con gli sci, scendeva incurvandosi l’attaccatura delle labbra, protese in avanti e umidicce, di colore marrone (marrone?). Se riuscite a immaginare tutto questo, e avete il mio plauso, allora provate a fare il passo successivo: prendete fronte, occhi, naso e bocca e schiaffateli come farebbe Pollock su una tela giallastra. Ecco: forse ora potete avere la vaga idea di cosa aveva combinato Dio o chi per lui col volto del mostro. Forse Dio o chi per lui, quando aveva creato il mostro era in coma, o si era preso malato per qualcuno o qualcosa. Di certo non stava bene. Forse, dopo poco, era morto. Il primo commento, un bisbiglio sommesso ma solenne, fu di Marra. Ora, se pensate che la vita seguente del Marra sarebbe stata un ignorante ondeggiamento irrazionale molto simile alla vita dei suoi contemporanei, potete capire come ciò che disse fu la cosa più intelligente della sua vita. Questo conferma pure la teoria secondo cui nei momenti di crisi anche il cervello più ottenebrato esprime il meglio di sé. «È come se avesse mangiato una bomba a mano che gli è esplosa in bocca» dichiarò. Mirko si trovò ad annuire, ipnotizzato dalle fattezze del nuovo arrivo. Dopo un tempo indefinibile, il professor Tozzello parlò. Seppure anch’egli turbato dall’apparizione del male puro nella sua forma più terribile, la responsabilità del suo ruolo gli afferrò la lingua e gli fece chiedere al mostro: «Sei Azra Ma? Si pronuncia così, Azra Ma?». L’obbrobrio, fermo in attesa al centro della classe, ebbe uno spasmo facciale che poteva essere un sì e che così fu interpretato dal prof. «Cosa… cosa ti è successo con la porta?» chiese Tozzello. Sul volto, o su ciò che vi prego di immaginare tale, di Azra Ma si dipinse una tinta di vergogna. «Io… rotta...» sussurrò il mostro monotonamente. «Io problema porte male aperte rotte rompere spacco aperte finestre trenta morti soffocati», aggiunse e un brivido corse lungo la schiena di Mirko. Che razza di sproloquio prevedeva che per giustificare la rottura di una porta si dicesse trenta morti soffocati? Forse Azra Ma era straniera: i suoi lineamenti non erano certo occidentali, ma non erano neppure orientali. Forse sua mamma era stata messa in cinta da un alieno come si vede in certi film. Questo pensiero riempì il vuoto nella mente di Mirko di strane immagini malate. Immaginò una specie di ape gigante dal volto umano che ficcava un pungiglione colante di sperma verde fra le gambe di una donna urlante. Il suo respiro si fece più veloce e il cuore accelerò i battiti. «Va bene, non parli ancora bene l’italiano» disse Tozzello, togliendosi gli occhiali e abbassando gli occhi sul libro di matematica. «Ragazzi questa è la vostra compagna di classe… è qui grazie ad un programma di scambi con…da dove vieni Azra?». Il mostro piegò il capo con espressione probabilmente interrogativa. «Da-do-ve-vie-ni?» ripeté il prof, sillabando ogni parola. Il mostro ebbe un moto di intima Io buio!» forse rispondendo alla domanda del prof o forse inseguendo chissà quale delirante pensiero. «Ehm… già» disse Tozzello, capendo che ogni tentativo di comunicazione col mostro era interdetto. Le indicò un banco libero accanto a Luca Cagli, in terza fila. Azra capì e vi si diresse lentamente. Il povero Cagli, un secchione leccaculo senza infamia né lode, medio fino all’osso, ingoiò amaro. Non sarà poi tanto male, si disse. Non posso contraddire il prof dicendo che non la voglio qui… e poi questo è l’unico banco libero e… che coma… Quando l’obbrobrio fu a pochi centimetri dal suo spazio vitale, però, fu come se qualcuno lo stesse impalando con uno spiedo ardente. Non voleva, ziocane. Non voleva quella roba vicino neppure per un secondo. I suoi neuroni fecero cortocircuito e dalla sua bocca cominciò a fuoriuscire un urlo terrorizzato, anzi: un grido di dolore. Si ricordò di quando, da piccolo, il suo cuginetto Marchino, violento e disturbato l’aveva torturato per un’ora cospargendogli il corpo di vermi pelosi. Era come se l’episodio gli fosse tornato alla mente in tutto il suo orrore: il sorriso folle di Marchino, gli occhi vuoti di un essere che comprende l’esistenza soltanto della propria vita, il suo corpo nudo nel fango e le mani e i piedi legati da fili elettrici, e quei vermi maledetti che gli strisciavano addosso. «I VERMI CHE PUNGONO! I VERMI CHE PUNGONO! I VERMI CHE PUNGONO!» gridava Marchino mentre attuava la sua tortura. «Cagli, cosa ti prende?» chiese Tozzello, ma non riuscì ad esprimere autorità anzi, fu istantaneamente vittima di un senso di colpa atroce. Nella sua mente si formò un pensiero che non poteva di certo essere suo: io l’ho messo nel secchio dei vermi. Cagli scattò in piedi e Azra lo guardò con occhi morti. Disse qualcosa ma nessuno la sentì, dato che il grido di Cagli si era fatto più acuto e terrorizzato. Dalla porta scardinata si affacciò il bidello con il labbro da coniglio. Mirko osservava il tutto senza muoversi, quasi senza respirare. Stringeva con la mano una gamba del suo banco. Per un attimo la scena si bloccò di fronte ai suoi occhi e i colori scivolarono via. Lo spritz nel suo stomaco si agitò pericolosamente, tentando di uscirgli da dentro. Mirko vide le lacrime lungo le guance di Cagli, il prof che allungava una mano per toccarlo, per consolarlo, i volti bianchi dei compagni, persino la bavetta che scivolava dal labbro di Zennaro, ancora fermo davanti alla lavagna col gesso in mano. E vide Azra Ma. Il mostro che qualche malato gli aveva sguinzagliato in classe. Mirko aspettò la seconda ora, quando l’eco dell’urlo di Cagli già si stava spegnendo nelle menti poco adatte a ricordare degli studenti della Quinta B. Chiese alla prof. (storia: una palla inutile) di andare in bagno e raggiunse con calma i cessi. Entrò nella latrina senza prestare attenzione ai nuovi graffiti erotici che l’abbellivano. Sollevò la tavoletta, si ficcò due dita in gola e rigettò lo spritz mai assimilato dal suo corpo. Poi stette lì, fermo, a specchiarsi nella pozzanghera rossa dentro al cesso. Non pensava a nulla e questo era normale, tuttavia, per la prima volta, provava un folle terrore per ciò a cui non stava pensando. Arrivò la ricreazione e gli studenti della Quinta B si unirono ai loro compagni nella piazza d’armi della scuola più volentieri che mai. Di più: al suono della campanella liberatrice che come i cani di Pavlov tutti i liceali avevano imparato ad amare, si erano letteralmente fiondati fuori, scavalcando banchi e compagni. La prof di storia non aveva mosso nessun rimprovero e anzi: aveva seguito i suoi alunni con la stessa foga. Si era di certo accorta di che obbrobrio si era seduto là in seconda fila, accanto al banco vuoto di Cagli. A proposito di lui: vi chiedo di immaginare quello che vi fa più piacere del suo destino. Non so se ora sia vivo e stia bene ma so per certo che da quel giorno non entrò più in Quinta B né in quel liceo. I soliti bene informati dissero che i suoi avevano traslocato per gli evidenti problemi di salute del figlio e che la sua uscita di matto era dovuta alla sua già scarsa sanità mentale. Nessuno disse, a difesa del povero Cagli, che mai, prima del momento fatidico in cui l’orrore gli si era seduto accanto, aveva manifestato segni di squilibrio o tantomeno reazioni nervose così evidenti. Mirko e i suoi compagni potevano saperlo dato che avevano convissuto per lui per cinque anni in sei metri per sette di classe. Tuttavia, nessuno di loro difese la sclerata di Cagli né la stigmatizzò. Cagli era uscito di testa ed erano cazzi suoi. Just do it, voglio dire: Amen. Durante la ricreazione, Mirko si trovò coi soliti sulla solita panchina: c’erano Marra e Teo che già conoscete, la Marzia Giufolo che in quel periodo la dava a Marra, il pluririmandato Siero della !uinta A, che riforniva la compagnia di droghe dai nomi talmente criptati da risultare evidentemente segreti anche me, la Renza, una ciccia comunistoide che gli altri accettavano solo perché sua madre era un’attrice di roba tipo beautiful e Como, un tizio che veniva ovviamente da Como e che non parlava mai ma fumava e beveva un casino senza sballarsi e una volta aveva portato la coca. Marra, che dopo il fatto del banco tagliato in due era diventato una specie di leader d’opinione, parlava di Cagli e di come fosse schizzato in coma da sclero. Teo faceva scherzi col bluetooth del suo cell, la Giufolo era abbarbicata a Marra come una serpe attorno alle mani di Shiva e lo osservava inanellare una serie di luoghi comuni ed orrori ortografici intervallati da ziocani come se guardasse Cesare in persona dare istruzioni per la pugna. Siero e la ciccia si tiravano su uno di quelli sani e Como guardava il cielo sopra di lui con occhi morti. Mirko ascoltava senza molta attenzione il discorso sopra Cagli che Marra esponeva con dovizia di particolari, aggiungendone persino ove mancassero. A lui non importava di Cagli, come il giorno dopo non sarebbe importato a nessun altro. A lui importava di… del… mostro. Nel vuoto compresso che separava le sue tempie il processo di formazione dei pensieri più semplici era piuttosto lento e molto simile al processo di formazione delle galassie. C’era un nucleo caldo, un accumulo spontaneo di materia dovuto a ragioni del tutto casuali e, intorno ad esso, cominciavano a formarsi concrezioni particellari spiraliformi a causa della gravità. Erano protogalassie, certo… ma era già qualcosa di più rispetto al deserto di neutrini dei suoi compagni. Con tutta la buona volontà comunque, ed io ne ho molta, sarebbe difficile chiamare le protogalassie di Mirko “Idee”. Quindi attribuiamogli il nome generale di “pensieri” e basta. Completiamo poi la metafora aggiungendo che i pensieri protogalattici del nostro eroe causavano un aumento di temperatura dell’universo, ovvero della testa di Mirko, provocando un bel mal di testa. Eccolo quindi ora, coi suoi amici, massaggiarsi le tempie fissando un punto davanti a sé. Il pensiero che stava cercando di articolare (vi risparmio l’immane processo di formazione di tale pensiero) era, per una mente come la mia e, spero, la vostra, piuttosto semplice: perché il Marra non parla del mostro? Che si trasformava, non senza difficoltà, in perché nessuno parla del mostro? Ora, persino i sassi sanno che quando qualcuno subisce un trauma violento o meno il suo cervello, per un istinto molto simile alla pietà, attua un processo di rimozione del momento del trauma. Dunque, persino i sassi conoscono il processo di rimozione o almeno ne hanno sentito parlare. Mirko no. La causa? Fate voi. Genitori assenti? La televisione? L’alcool e le droghe? Scuola troppo permissiva? Società? Non lo so né m’importa, a questo punto. Mi importa solo farvi capire che ora, alle dieci e quaranta di un pomeriggio di un aprile già caldo, dopo aver incontrato il male peggiore, Mirko aveva abbozzato una teoria psicologica e aveva guadagnato un’ossessione. Perché ciò che Mirko ignorava è che se non rimuovi del tutto resta e se resta marcisce e se marcisce… bè: coma. Un coma malato. Per farla meno lunga di quanto non sia, Mirko si accorse che Marra e gli altri, che intervenivano sporadicamente a sottolineare le parole del leader, non avevano mai nominato l’obbrobrio. Era come parlare di una casa crollata senza parlare del terremoto che ne aveva spaccato le fondamenta. Di certo Mirko non ne avrebbe fatto menzione. Fu quasi sul punto di farlo ma un senso di vergogna cocente glielo impedì. Forse non era cosa da uomini, come non era cosa da uomini chiedere come si mette un preservativo o dov’è esattamente il buco giusto della figa (cosa che tra l’altro aveva scoperto due anni prima al campeggio con una certa Luciana). Così Mirko fece spallucce, tacque e smise di ascoltare lo sproloquio solenne di Marra, sintonizzando la sua radiolina segreta sul rumore di fondo del suo universo cerebrale: una consolatoria e monotona colonna sonora di rumore bianco. Quando il nostro tornò in classe il mostro era ancora lì, seduta al suo banco, poggiata sulla sedia come un sacco di patate americane. Non si era tolta il sudario verde, né aveva messo qualcosa sopra il banco. Ovvio, visto che non aveva uno zaino o almeno una cazzo di borsa. Mirko spiò la sua espressione e non vide altro che ombre che languivano in solchi inumani. Si voltò istantaneamente: non poteva rischiare che gli occhi accesi dalla febbre del male del mostro lo guardassero. Perché, e anche su questo i sassi potrebbero fare una bella lezione a Mirko, se guardi nell’abisso eccetera eccetera… Quel giorno Mirko ne aveva avuto abbastanza di abissi. Tentò di rimuovere il più possibile ma non ci riuscì. Si chiese che cazzo avesse di diverso dagli altri da fissarsi così tanto su una merda che gli altri non vedevano neppure. Come quel bambino del Sesto Senso che vedeva i morti. Ma il mostro c’era, ziocane, era lì, Tozzello l’aveva chiamata Azra Ma e Azra Ma aveva mandato in coma Luca Cagli. Strinse i denti e sperò che quella mattina finisse al più presto con più energia di tutte le altre mattine. All’una in punto l’ultima campanella suonò la fine dell’incubo, Mirko si precipitò fuori dall’edificio della scuola distribuendo saluti frettolosi, raggiunse il suo scuterone, mise in moto e schizzò via a sessanta senza neppure cercare la pula con gli occhi. Arrivò a casa prima del solito. Abitava in una bella villetta di un quartiere nuovo con vie che portavano nomi di divinità dell’Olimpo. Immaginatela pure voi, la casa di Mirko, so che siete esperti di case. Badate di metterci un giardinetto con una siepe alta per non far entrare i negri, un sistema d’allarme per non far entrare i rumeni e inferriate alle finestre per non far entrare gli zingari. Se non vi è di troppo disturbo toglieteci quella piscina che ci avete messo e sostituitela con un capanno degli attrezzi, metteteci un garage a due piazze con scaffali zeppi di strumenti di bricolage mai usati. Che macchine potrebbero parcheggiarci qui dentro? Io sto pensando a marche che cominciano con B e M, o anche P. Inutile che descriva l’ovvio. Due piani: questi dovete metterceli per forza. Tre cessi, quattro camere da letto, soggiorno dominato da un impianto Home Theathre che di certo non trasmetteva molto teatro, cucina ipertecnologica a cui mancava solo l’autocoscienza. Colf filippina anzi, meglio tedesca. Se dobbiamo fare una cosa facciamola bene. Una ragazza alla pari teteshka ti Cermania di nome Kristen Mirko parcheggiò lo scuterone accanto ai posti vuoti delle macchine dei suoi. Si sarebbe stupito molto se quei due ci fossero stati: sua madre probabilmente ora lo stava succhiando al tenore a cui faceva la segretaria, suo padre distruggeva il mondo con strette di mano, soldi e sorrisi… ma ora sto esagerando: toglieteci pure i sorrisi. Appena entrato in casa dalla scala che dal garage portava al soggiorno, suo fratellino Giovanni (detto Jo o Joino) gli piombò addosso con due occhi spiritati, sbavando dalla bocca perennemente sporca di nutella. «...saichehovistochesesparialnegrodopovaisottocèunabotolachedevientrareeprendiilf uciledacacciapoitipossonodarealtremissionicheprimanonceranoeframihadettochetipuoi prenderelelicotterocosisparintestaallagente?giochiadedoralaiv?giochiadedoralaiv? giochiadedoralaiv?» Mirko fu colto di sorpresa dal flusso di coscienza videoludico del fratello e fece un passo indietro. Mente il piccoletto continuava a chiedergli se voleva giocare a dedoralaiv, Mirko lo fissava, dapprima impotente. Poi, qualcosa di brutto cominciò a salirgli al cervello. Un brutto sclero comatoso e malato, simile a quello di Luca Cagli. Mirko fu assalito dalle cose brutte e le vide tutte riflesse negli occhi videoipnotizzati del sovraeccitato Joino. Vide il mostro, sì. Ma vide anche le cose che il mostro portava con sé sotto quella sua casacca verde merda. Vide i suoi che litigavano scagliandosi suppellettili tanto inutili quanto costosi, sentì suo padre affermare che i figli lui non li aveva mai voluti e che servivano solo a mangiare i soldi che con il sudore della fronte (degli altri) lui procurava, vide la figa di Luciana sporca di sangue mentre lui la perforava e il suo cazzo ammosciato anch’esso sozzo di sangue, sentì la puzza di mille magrebini e cingalesi e arabi del cazzo, vide Bud, il suo cagnolino, ridotto a una macilenta poltiglia dalla ruota di un SUV. Vide tutto il male che era la vita e qualcosa cortocircuitò dentro di lui. Non sclerò come Cagli, ma solamente perché il suo tsunami emozionale aveva trovato ben poche emozioni da sommergere e annegare nel mare dell’ira. Strinse invece i pugni, distorse i lineamenti del volto in un'unica malefica bestemmia e, senza preavviso, calciò lo stomaco del fratellino con tanta violenza da spedirlo a terra all’istante. Poi ci fu silenzio per un secondo. L’ira o qualsiasi coma l’avesse preso l’aveva abbandonato nell’istante del calcione e sembrò che oltre a quella, anche la sua spina dorsale con ossa annesse gli fosse stata sfilata via da un mago malato. Si sentì debolissimo e si abbatté sul divano di pelle con la cartella semivuota ancora sulla schiena. Chiuse gli occhi e sentì affiorare delle grosse lacrime di fuoco. Ma non pianse: non era da uomo. Accorse la teteshka Kristen, che stava preparando il pranzo, e si precipitò a soccorrere il povero Joino, talmente sorpreso dall’accaduto da non riuscire neppure a strillare. «»Cosa hai fatto?» chiese Kristen al nostro, sollevando Joino con maestria teutonica. «Trenta morti soffocati» fu solo in grado di dire Mirko prima di rialzarsi e dirigersi a grandi passi verso camera sua, al secondo piano. Di nuovo, nella sua testa, il vagito universale del suo universo, quel piatto rumore bianco che copriva tutti gli altri suoni, prese a crepitare come mai prima. Ecco: prendete uno stereo, mettete in AM e cercate una frequenza priva di ricezione, collegate lo stereo a quattro casse belle potenti e alzate a manetta. Ora, se lo avete fatto (e ne dubito) avrete l’idea di ciò che sentiva ora Mirko nella sua testa. Quindi non sentì Kristen che lo rimproverava (non aveva mai alzato la voce con lui finora) o suo fratello che finalmente, resosi conto di tutto, si dava in un frenetico pianto da tragedia più che greca, babilonese. Non sentì più nulla e sparì in un vuoto accogliente. Prima che continui è giusto che io e voi facciamo due paroline, no? Voglio dire, sono arcisicuro che siete stanchi marci di tutto quell’immagina questo e immagina quello. In realtà il lavoro è mio e lo devo fare io, pensate. Oh, sì. Bé, ecco… si dà il caso che qui il lavoro non lo sto facendo solo io. Mi spiego: ricordate l’ultimo libro che avete letto o, almeno, ricordate un libro che avete letto? Se non ne avete letto nessuno e questa è la prima cosa che leggete allora o puzzate troppo da latte e nutella o siete stupidi e vi conviene proprio chiudere tutto e andarvi a leggere l’Alchimista. Se invece avete risposto a questa domanda ricordando, con quanta precisione non m’importa, un romanzo o libro o racconto, ok, siete dei miei e la cosa mi gusta. Bene, riprendiamo. Andate con la memoria all’ultima cosa letta: vi ricordate com’era vestito il protagonista? No, vero? (A meno che non fosse uno di quei prolissi cyberpunk di Gibson dove anche i comprimari hanno tutti i loro abiti descritti come se ne andasse della vita della letteratura mondiale e dove l’odore di macchina nuova viene chiamato odore di “catene lunghe di polimeri”.) Se mi seguite non occorre vi faccia capire il resto. In questa storia dovrete indovinare molto, moltissimo, perché non ho intenzione di descrivere di più e, come forse i più svegli tra di voi hanno indovinato, non ne so molto neppure io. Tutto questo pistolotto per arrivare alla camera di Mirko. Ecco, fatemi un favore: immaginatela voi. Io vi do quello che sicuramente c’è, voi dovete solo sistemarlo dove vi piace in cinque metri per sei facendo attenzione a non fare troppo casino. Ok, allora giochiamo: prendete un poster di Valentino (il motociclista, non lo stilista), un computer di una certa potenza munito di stampante, scanner (mai usato) e collegamento internet wi-fi, impianto stereo da chilo (come dicono dalle mie parti) e mobili tipici da camera da letto: un letto (bravi che ci siete arrivati), un armadio, magari un tappeto di quelli tutti morbidi e che altro? Ah, giusto: una PSX, un televisore al plasma da circa duemilacinquecentocinquantadue euro (circa, eh) e una cassettiera per l’intimo, le tute, i patchwork di firme e vattelapesca. Prendete tutto questo, mixate bene e pronti? Via! Sparacchiate tutto nei cinque per sei sopraddetti. Ecco la camera di Mirko. Facile no? Mettete ora Mirko sul letto, (ah, dimenticavo: un letto a una piazza e mezzo), prono, con le mani fortemente calcate sulle orecchie e un broncio stupido. Ora, se già immaginate (ci risiamo…) che il volto di Mirko, abituato a essere contratto perennemente in una smorfia da duro o in un accigliamento da beota, fosse già strizzato come un pugno per i fatti suoi, immaginarlo ancora più imbronciato significa visualizzare né più né meno che una prugna californiana rossa rossa con occhi e bocca e naso. Nella testa di Mirko, ermeticamente chiusa come un universo parallelo, zeppa di rumore bianco sparacchiato a tutto volume, il processo di formazione di galassie si stava bruscamente accelerando. Era vittima di attacco malato di malditesta con le immagini, come Homer Simpson definisce le idee. Questo non gli piaceva per molte ragioni. Gli unici pensieri che un uomo come lui doveva avere in mente erano semplici: tutti i maschi ne conoscono l’elenco a memoria fin dalla tenera età ma, se non avete la sfortuna di essere maschi, eccolo qui (o nell’altra pagina): - Macchine, moto e tecnologia in genere; - Sesso eterosessuale; - Calcio o sport in genere. Ora, un maschio poteva averne in testa due soli: ad esempio a Mirko poco importava del gioco del pallone o di altri giochi ma di certo era un asso a elencare con dovizia di particolari modelli e marche di automobili, moto e persino camion. Figuratevi che se li ripeteva di notte visualizzandoseli in testa prima di addormentarsi. In quanto al punto due aveva già una piccola esperienza in fatto di scopate e pompini (ricevuti, non fatti ovviamente) e tutto quel che segue e precede. Potete quindi immaginare che razza di sconcerto, che scombussolamento universale, che apocalisse stesse succedendo nell’universo cerebrale di Mirko quando, per la prima volta, le galassie che vi nascevano non si chiamavano “Kawasaki Ninja 636” o “mi piacerebbe sbatterglielo nel culo a quella di fisica” ma “perché ho fatto male ha Joino”’ e “non voglio che Joino stia male” e “perché cazzo non smetto a pensare a…” (dillo) “…no, non voglio per niente dirlo…” (dillo, Mirko) “…non ci voglio pensare, aveva le unghie nere, e la faccia gialla, gli occhi come fighe, e sotto il suo vestito si muovevano masse di lardo…” (DILLO, ziocane!) “…Azra Ma, Azra Ma, sei contento adesso? AZRA MA!” Non aveva smesso un secondo di pensare al mostro e a come tutti l’avessero dimenticato e spazzato via. Ma il mostro c’era e sarebbe stato in classe il giorno seguente, non importa quanto avesse alzato il suo consolante rumore bianco. Poi il mal di testa divenne strano e Mirko si addormentò. Al risveglio, molte ore dopo, si accorse di aver perso un po’ di sangue dal naso, giusto un pochettino ma ne rimase molto sorpreso dato che non aveva mai sofferto di epistassi. Già, e che coincidenza che mi sia venuto proprio il giorno in cui ho visto… Riuscì ad alzare il volume del rumore bianco e questa volta la sua voce da malditesta con le immagini tacque: il sonno gli aveva giovato. Tornò giù e fece pace con Joino e giocò con lui a dedorelaiv e si assicurò che Kristen non avesse detto a suo padre del fatto del calcione. Naturalmente non l’aveva fatto, altrimenti ne sarebbe andata di mezzo lei: suo padre era un asso ad eliminare tutto ciò che stava attorno ai problemi senza toccare i problemi stessi. Mangiò pastasciutta e pringles, bevve coca, guardò un film di quelli tutti spari e botti che tanto gli piacevano poi, la sera, a letto, si shakerò per bene il pistolino pensando alla prof di fisica e dormì senza neppure più pensare a quella cosa che si era seduta accanto al Cagli facendolo andare in coma. Dopo la crisi del primo giorno le cose andarono meglio. Mirko scoprì che quella cosa seduta una fila avanti a lui, per quanto grottesca e mostruosa, non costituiva un vero pericolo. In più, i suoi compagni e i suoi professori si erano dedicati a costruirle attorno un’efficace bolla di vetro. Il mostro c’era, c’era sicuramente perché tutti lo potevano vedere, ma non c’era perché nessuno badava a lei. Se gli altri riuscivano a far finta che non ci fosse, perché non doveva riuscirci Mirko? Era forse meno uomo delle secchie o di Marra o del prof Tozzello? Ziocane! No di certo. Così Mirko fece quello che da sempre uomini di tutti i tempi facevano più o meno nel corso della propria vita: si adeguò. E le cose andarono meglio: le galassie strane e malate nella sua testa regredirono ad agglomerati scomposti, gravitazionalmente insufficienti a far massa. Tuttavia qualcosa rimaneva. Un sentimento, un’emozione, la sfumatura di un malditesta e di un’idea, una suggestione. Una cosa nera e strana che si era aperta nel suo universo imbevuto di rumore bianco. Uno di quei buchi che mangiano tutto, come Mirko aveva imparato da qualche film di astronavi: un buco nero. Ma ci sono certe volte in cui il buco non mangia, ci sono certe volte in cui… E vai giù di rotellina del volume Mirko, girala, porta al massimo il tuo impianto da adolescente coglione come ce ne sono tanti. Smetti di ascoltare i malditesta, stringi la faccia pugno e fottiti il cervello come puoi: è un tuo diritto, ricco figlio deficiente del nostro operoso nordest. Tanto se non muori oggi perché il tuo scuterone è un po’ troppo potente e lo spritz un po’ troppo troppo, morirai domani con una donna che vuole bene ai tuoi soldi sudati da altri, con un figlio che ti ricorda come eri tu, ma tanto tu non ti ricordi nulla, con un volto talmente strizzato da sembrare una spugna sotto un macigno e la tua Rossa Pompetta stanca di buttare sangue nel vuoto formato famiglia che hai in testa. Morirai senza aver visto se dietro quella porta su cui gli uomini della tua specie hanno scritto “qui entrano solo i froci” e le donne della tua specie hanno scritto “se guardi non te la do”, c’è qualcosa di più da vedere. Morirai senza sapere che ci sono certe volte in cui il buco nero non mangia ma butta fuori, erutta, vomita. E, come ho letto una volta su un bel libro, se ti ritrovi un pasticcio cosmologico del cazzo l’unica è buttare via il libretto delle istruzioni. Peccato che per il Mirko di allora il libretto delle istruzioni fosse l’unica via sicura da seguire. Il sogno Il giorno del sogno (erano passati sei mesi da quando il mostro era apparso), Mirko era molto più simile al Mirko che è sempre stato rispetto al Mirko dei malditesta con le immagini. È un quasi sbarbato spavaldo, incazzato, spesso fumato e molto spesso bevuto. Si è tatuato qualcosa sul braccio e si è messo un piercing al sopracciglio che gli dona proprio. Si è trovato una tizia carina: la Daria Giusti, una di Quinta C, composta da un 70% d’acqua e un 30% di vuoto. Mirko ci va d’accordo e se Antonioni vedesse uno dei loro appuntamenti ci farebbe un film all’istante, ma non divaghiamo. Il giorno in cui le cose ricominciarono e, anzi, peggiorarono fino al loro inevitabile finale, Mirko sedeva sulla panchina dei fighi coi soliti. Marra si lamentava che quel Puzza di Tozzello ce l’aveva con lui perché gli dava sempre tre ad ogni compito, evidentemente Marra dimenticava che i voti non sono direttamente proporzionali alla pulizia del foglio. Teo, che sicuramente quell’anno sarebbe stato inculato, componeva sms al ritmo di una stenografa di tribunale. Como guardava ancora il cielo e quella mattina, dicevano, si era tirato una riga. La ciccia comunistoide e Siero stavano rollando qualcosa. L’unica nuova entrata era la Simo che aveva preso il posto di Manda attorno al braccione di Marra. «Stasera festone» annunciò Siero. Gli altri tesero le orecchie. Quando Siero sfoderava quel particolare binomio tutti, anche le secchie e le frighe, capivano cosa intendeva. I festoni di Siero erano il corrispondente moderno degli antichi baccanali, solo che nella casa di Siero Bacco era solo uno dei tanti ospiti, anzi: un lacchè in marsina che reggeva le palandrane a coda di rondine di Miss Marja, della Señora Coca, di Lord Crack e, qualche volta dell’ammiraglio LSD, anziano e ormai prossimo alla pensione ma mai privo della solita verve. «Chi c’è?» chiese Teo smitragliando caratteri. «Voi» rispose Siero con un ghigno. «Viene anche Pugno». Pugno era un tipo di trent’anni che aveva fatto un anno dentro per spaccio di chicche e che non aveva mai perso il vizio. Qualcuno diceva che avesse qualche legame di parentela con Siero e che in galera lo avesse preso nel culo. Mirko si limitò a cancellare “studiare fisica” nel suo post-it mentale (sul cui retro c’era ben poco adesivo comunque) e a scrivere al suo posto “festone Siero”. Mentre gli altri discutevano sul chi, quanti e cosa portare, lui si distrasse a guardare la piazza d’armi del liceo. Notò subito Zennaro, il Zenna, che come al solito mangiava da solo la sua merendina da sfigato. La cosa insolita era la sua espressione. Si era tolto i suoi occhiali telescopici e li strofinava sulla camicetta a righe fissando qualcosa alla sua destra. Mirko notò subito l’oggetto di tanta attenzione da parte del secchione: il mostro. Seduto su una panchina sotto il sole. Ancora con quel suo tappeto pulcioso verde addosso nonostante cominciasse a fare parecchio caldo. Era la prima volta che il mostro usciva a far merenda. Ma poi faceva merenda il mostro? Nessuno l’aveva mai vista mangiare nulla. Zenna si voltò verso la panchina dei fighi e, seppure i suoi occhi senza occhiali paressero due fari spenti calcati a forza in orbite gonfie, sembrò guardare proprio Mirko. Sembrò chiamarlo. Questi non capì perché guardasse proprio lui tra tutti i liceali schiamazzanti della ricreazione ma qualcosa, nel suo universo personale, si mosse come non succedeva da molto tempo. Prima che qualcosa di brutto, tipo un malditesta con le immagini, si producesse in una zona del suo vuoto dove già una piccola massa informe turbinava pericolosamente, Mirko si alzò e raggiunse il secchione che, nel frattempo, si era rimesso gli occhiali e aspirava con una cannuccia del succo di frutta in cartoncino, di quelli che poi gonfi e fai esplodere con una pestata. Il mostro era lì, seduto su quella panchina. Non si muoveva, fissava davanti a sé un punto distante. Quando Mirko fu vicino al Zenna, questi non si mosse ma di certo non si stupì del fatto che uno dei fighi volesse conferire con lui a ricreazione. «Che schifo, vero?» esordì. La sua voce era sempre timida e nasale ma aveva una certa forza che non mostrava neppure durante le interrogazioni, suo cavallo di battaglia. Era la stessa voce che, fra molti anni, dopo il liceo e l’università, avrebbe usato per annunciare il peggio ai parenti dei suoi pazienti. Mirko mugugnò un assenso. Non voleva essere lì. Voleva stare con Marra e soci a parlare del festone di quella sera, non con uno sfigato a guardare un cesso cosmico. Però era lì. Giusto il tempo di pensare che nessuno, per quanto straniero fosse, potesse spiegare la rottura di una porta dicendo “trenta morti soffocati”, che nessuno, alla domanda “da dove vieni” rispondeva con “io buio”, giusto il tempo di rievocare quei vecchi ricordi che credeva ormai rimossi, soffiati via come sabbia dal lungomare Ricciarelli, che tutto tornò. E si accorse che le galassie di dolore che il mostro aveva generato nella sua testa c’erano ancora e giravano, giravano, si evolvevano in un posto buio della sua testa. Già: non erano mai andate via, mai sparite, come non sparisce un cadavere se lo si mette in un armadio. Il peggio di quella faccenda era che Zenna sapeva. Era sfigato e sgobbone, un cesso d’uomo magro, bianco e quattrocchi, con mani molli e sudate e un repertorio di stronzate da dire al momento sbagliato ma sapeva. Perché Zenna aveva studiato e aveva letto i libri ed era logico che sapesse. E tutto il casino che aveva in testa Mirko gli fece pensare di alzare il volume del suo rumore bianco ma non lo fece. «Cosa pensi?» si abbassò a dire. Nel suo cuore una strana sensazione calda gli si formò dentro. Sollievo. Come quando da piccolo si perdeva nei grandi magazzini e i suoi lo trovavano in lacrime e lo abbracciavano e gli compravano qualcosa per farlo tacere. «Mai letto Lovecraft?». Naturalmente no. «Hovercraft? È una specie di barca». Zenna non ribatté e citò: «Non è morto ciò che riposa in eterno, e in epoche strane anche la morte può morire». Mirko non ci capì nulla ma sentì il sangue defluirgli via come se qualcuno glielo stesse aspirando dal culo. Si appellò comunque alla reazione di routine del tipo figo nel sentire una cosa del genere: «Stronzate da sfigato». Zennaro alzò le spalle e continuò a succhiare il suo succo fino alla fine. Le sue labbra erano così compresse attorno alla cannuccia da essere diventate esangui. «Non mi frega» concluse il secchione. «Non voglio che quella roba giri qui intorno, usi le nostre panchine, venga alle nostre lezioni. È uno schifo». Chi non conosceva Zenna avrebbe pensato si potesse trattare di un’affermazione razzista pura e semplice. Ma Mirko aveva ascoltato, seppur annoiato e di sfuggita, i temi del Zenna che la prof di italiano leggeva in classe. La maggior parte era roba tipo: “vogliamoci bene”, “tolleriamo gli extracomunitari e accogliamoli nel nostro futuro”. Mirko si riconobbe sinceramente sbalordito. Da xenofobo in erba qual era sapeva riconoscere un discorso razzista e naturalmente quello di Zenna non lo era. Il secchione aveva semplicemente centrato il concetto che la mente di Mirko stava faticosamente componendo. Il mostro era un problema perché… era una di quelle cose che riposavano in eterno e non morivano. E tutti sapevano che fine dovessero fare quelle cose, o pensavano di saperlo dato che non c’era nessun capitolo sul libretto di istruzioni che parlasse del mostro. «Devi fotterla, Mirko» dichiarò Zenna, con tono finale. «Ti vedo come la guardi. Forse tu non lo sai neppure ma anche tu senti che è uno schifo. Anche tu la vuoi vedere… fottuta». Mirko si scosse dal suo torpore, menò uno spintone a Zenna molto meno energico di quanto avesse intenzione e si riavviò verso la panchina dicendo: «Sei malato, frocio». Ma neanche quell’offesa sembrava molto convinta. «Devi fotterla o chissà che cazzo succederà» disse Zenna con tono distante, come parlottando fra sé. «Potrebbero venirne altri». Mirko raggiunse la panchina alzando il volume del rumore bianco talmente da stordirsi. Con orrore notò che quando cercava di diminuire un poco il volume, subito partiva un grido immane dalla galassia di Azra Ma, nel luogo in cui si era formato un minuscolo e odioso pianetino dal nome terribile di “fottere il mostro”. In ogni caso Mirko sapeva che c’erano metodi alternativi per far tacere le grida nel suo cervello, per spazzare via pianeti e galassie, metodi che non prescindevano solamente dalla sua capacità di alzare il livello di rumore bianco. Per sua immensa fortuna, o almeno così riteneva, alcuni di quei metodi sarebbero stati alla portata della sua mano proprio quella stessa sera. Dopo un’oretta dall’inizio del festone la stanza si era già riempita del fumo acre della marja e dell’hascisc. Ora suppongo che vi starete chiedendo perché non vi chiedo di immaginare la stanza del festone: a quanto pare mi considerate proprio un narratore pigro e completamente disinteressato all’architettura. Bé in parte è così, io vado più d’accordo coi mostri. In parte, però, la stanza del festone di Siero è strafacile da descrivere, quindi non farò neppure tanta fatica. Stanza quadrata, cinque metri per cinque, tavolone rotondo di legno plasticato nel mezzo, coperto di graffi e bruciature, lampadario stile lampadario-povero al centro del soffitto, bagnetto etto a destra, porta d’entrata a vetrate a sinistra, altra porticina per accedere ai piani superiori della casa (in cui abitano gli invisibili, o forse improbabili, genitori di Siero) e… basta. No, non basta. La stanza di Siero è piena di tutto. Tutto cosa? L’elenco sarebbe lungo e veramente perderei il senso del racconto se lo facessi (ammesso che lo abbia trovato finora). Mi troverei a scrivere un elenco di pagine e pagine come quel pazzo fottuto di Joyce. Solo una metafora può salvarci, a questo punto. La stanza di Siero era come uno di quei negozietti cinesi “tutto a un euro” in cui fosse entrato un tornado. Oggetti, caterve di oggetti di ogni genere: dalle sorprese degli ovetti Kinder a vecchie radio a valvole, da pupazzi spelushati a giocattoli plasticosi dell’era pre-internet. Dei muri non si scorgeva un singolo centimetro libero tutti tappezzati di poster di cantanti anni ’80, cartelli stradali strappati alla loro sede naturale, giocose targhette in veneziano, pagine ingiallite vergate da scritture ondivaghe in cui alcuni ospiti di Siero avevano lasciato le loro riflessioni ai posteri. Proprio uno di quei fogli aveva davanti ora Mirko, cavaliere fumato della tavola fumonda in cui nessuno è re e tutti sono eguali, uniti dall’estremo vincolo della canna che passa di mano in mano e di bocca in bocca. Proprio come i nativi americani, sì: ma senza la terra e il cielo dalla loro parte. «Miro, scrivi qualcosa» disse una voce al nostro eroe, appellandolo con un soprannome mai udito prima. Miro, cioè Mirko, era in quella fase in cui ti rendi conto di essere fuori a momenti alterni. Se prendeva il cannone che gli passava il cavaliere alla sua destra o se ne rollava uno, le sue mani non tremavano e la sua mente era chiara. Se distoglieva l’attenzione dalla meccanica della tavola rotonda le cose diventavano sfumate ai margini e qualcosa, nel suo cervello, mandava un impulso dritto dritto allo stomaco che si contorceva un poco, forse per fame, forse per irritazione, forse per niente in particolare. D’altronde un cervello fuori fa quello che gli pare. Mirko distolse gli occhi dal foglio giusto in tempo per vedere Pugno, il tizio che era stato dentro, che caricava un bongo con perizia. In faccia aveva una smorfia strana, un misto di rabbia e disgusto che magari era solo l’espressione risultante da una concentrazione estrema. Como, alla destra di Pugno, tendeva la mano verso un ragno di plastica che pendeva dal soffitto. Aveva la bocca aperta e sembrava stesse sussurrando qualcosa. Renza, la ciccia comunistoide, stava attaccando un bottone del cazzo a Siero sul fatto che il governo ci volesse fottere con le scie degli aerei, Siero non sembrava cagarla ma ogni tanto esprimeva il suo dissenso con un “Mammuori!” poco convinto. Teo girava per la stanza con una bottiglia di gin in mano. Cantava una filastrocca stupida in cui ogni verso finiva con la parola “merda”. Marra era seduto accanto a Mirko e si torceva all’indietro per guardare un cartone animato trasmesso da una piccola televisione rossa. In mano aveva il suo inseparabile coltellino svizzero che teneva come se avesse voluto ammazzare qualcuno. Questo spaventò Mirko che tornò a guardare il foglio bianco davanti a lui. E c’erano anche delle penne, tante penne di tutti i colori sparse sopra alla tavola. No, non erano di tutti i colori: erano solo blu, rosse e nere ma se Mirko non le guardava sembravano di tanti colori differenti. «Dai Miro, scrivi qualcosa» tornò a dire la voce. «Adesso scrivo subito, aspetta» rispose Mirko a Marra. Perché sembrava che la voce venisse dalla sua direzione ma non era proprio così. Marra era perso nel suo cartone animato commentandolo con prolungati fischi irritanti e vaniloqui. Mirko allungò la mano verso una penna blu ma si accorse di avere già in mano una penna rossa. Un tizio alla sua destra lo salvò dall’ardua impresa della scrittura passandogli il cannone che ormai da troppo tempo (qualche minuto, in effetti) non arrivava dalle sue parti. Mirko abbandonò la penna e afferrò la sua ancora di salvezza, prendendo ad aspirarne con avidità maniacale. Siero lo notò e disse: «Mirko fa il tiro del leone!». Questo suscitò l’ilarità dei cavalieri della tavola fumonda, un’ilarità psicotica e incontrollata che fece distrarre persino il Marra dal suo cartone. L’unico che non si scompose fu Pugno, intento ora a preparare la mista per il suo bongo: il piatto forte di quella serata, probabilmente. Mirko non rise ma il suo cuore si riempì d’orgoglio nel vedersi oggetto dell’ammirazione di Siero, portò a termine il tiro del Leone con due piccoli colpi di tosse e allungò a malincuore la canna a Marra che la ricevette come un re riceve la corona da un papa. «Eh, seratone questo» commentò il novello re, senza abbandonare la sua spada, pardon coltellino. Como, il prossimo nella linea di successione della canna si alzò per prendere il ragno di plastica e lo prese, cominciando a fissarlo come fosse chissà quale reliquia. Dietro a Como, notò Mirko, c’era la morosa di Marra, la Simo, distesa su un divano. I suoi occhi erano sbarrati e il suo volto bianco come il tasto bianco di un pianoforte. Forse era morta. Morta per quella sera ovviamente. Il Marra notò l’attenzione di Mirko e passando la canna a Como mimò con le anche e le braccia il gesto di una sana ingroppata. Poi fece un’espressione grottesca tra il sorpreso e lo spaventato e si mise a ridere come un pazzo. Mirko tornò a guardare il suo foglio bianco ma tutto vibrava leggermente. Forse non sarebbe riuscito a scrivere. E poi perché doveva farlo? «Dai Miro, scrivi qualcosa» disse la voce. E a quella voce non si poteva dire di no, né si poteva ignorare. Quella voce, pensò irrazionalmente Mirko, era come quella di un fiume in cui viene gettato un macigno dentro e l’acqua tracima da tutte le parti. Mirko cercò di obbedire, se non altro per farla tacere e dedicarsi al festone. Afferrò una penna nera (che si rivelò essere rossa subito dopo) e scrisse in stampatello: DEVO FOTTERE IL MOSTRO Poi alzò il foglio e lo guardò. La sua visione periferica già compromessa dal fumo cedette e il suo mondo divenne solo quel foglio bianco e quelle tre parole (oddìo, quattro se siete dei precisini) rosse. Io stasera non ci volevo proprio pensare al mostro, pensò Mirko. Ma c’era quella voce. Quella voce che voleva che lui scrivesse. E poi… poi il Marra rise, con quella sua risata spaventosa da psicopatico strafatto. Dare droga a Marra, si potrebbe dire, era come regalare bombe atomiche alla Korea del Nord. «Vuoi fottere il mostro!?» chiese o affermò. «Vuole fottere il mostro!» gridò ai cavalieri della tavola fumonda, strappando di mano il foglio a Mirko e sventolandolo come una bandiera. «Mirko vuole fottere il mostro!» ripeté. Gli astanti per quasi un minuto non gli diedero retta, poi però non poterono più farne a meno. Gli strepiti del Marra erano veramente uno sclero malato. «Stai buono!» disse Siero. «Guarda che su c’è mio papà!». Marra lo guardò e, riconoscendogli un po’ di autorità, abbassò il tono ma ripeté: «Guarda: Mirko vuole fottere il mostro». Ci fu un secondo di presa di coscienza da parte degli astanti poi la risata comune partì irrefrenabile. Ora, non mi è dato sapere cosa facesse così ridere i cavalieri: se il proponimento di Mirko, l’espressione malata e il tono di Marra o semplicemente niente di tutto questo. Forse avrebbero riso anche se su quel foglio ci fosse stata la lista della spesa. Fatto sta che Marra dal ridere rovinò a terra: era lui il creatore di quella ilarità, in qualche modo doveva rinforzarla e aumentarla come poteva. Siero si portò una mano alla bocca e soffocò il suo sghignazzo con poco successo: un fiotto di muco gli uscì dalla narice destra e colò sulla mano. Questo, neppure a dirlo, diede nuovo vigore allo scompiscio dei cavalieri. Teo, seguendo l’esempio di Marra, s’inginocchiò a terra tenendosi lo stomaco dal ridere, Pugno sghignazzò lentamente mentre continuava la sua operazione rituale, la ciccia sorrideva per inerzia, mostrando evidentemente di non aver capito il motivo di quella sclerata generale. Persino la morosa di Marra riprese vita miracolosamente e, nell’indifferenza generale, chiese un bicchiere d’acqua. Mirko guardò i presenti uno a uno, senza unirsi all’ilarità. Si chiese cosa ci fosse di tanto divertente ma non trovò risposta. Il suo campo visivo si era limitato a un cono di qualche centimetro di diametro in cui le facce dei suoi compagni di viaggio apparivano uno dopo l’altro nelle loro espressioni distorte. Alla fine gli apparve Como che, per una volta, non stava guardando in alto ma stava fissando proprio lui. Era la prima volta che Mirko si soffermava effettivamente sul volto di Como, pur conoscendolo da più di tre anni: c’era qualcosa di sbagliato in quella faccia, pensò subito, nel modo in cui erano posizionati i suoi lineamenti. Non un qualcosa di definito, ma una sensazione generale di disordine che lo faceva sembrare solo la bizzarra imitazione di un volto umano. Era tutto troppo lungo, troppo largo. Como era l’unico che non rideva, anzi: aveva assunto un’espressione oltremodo perplessa, quasi che stesse risolvendo a mente una complessa equazione. «Ma…» chiese, strascicando la “a” per un secondo buono «…vuoi fottere il mostro con il cazzo o con la pistola?». Poi tornò a guardare il soffitto. Mirko, a quella domanda, seppe che l’allegro pulmino del trip aveva svoltato decisamente per la triste città di vomitolandia. Il suo stomaco si strizzò come una spugna e provò la sensazione che gli stesse scorrendo cenere nelle vene. Trattenne il fiato, quasi terrorizzato dal malessere che provava così istantaneamente. Si alzò, prima che le cose diventassero pericolose. «Devo andare a casa, domani ho un casino» annunciò ai cavalieri. Questi lo guardarono e l’ilarità prese a placarsi. «Ma che casino hai adesso?» chiese Siero. Pugno, accanto a lui, aveva già preso a pomiciare col suo bongo. Ben poco era visibile di lui nella densa coltre grigia emessa dallo strumento. «Un casino con mio fratello che lo devo accompagnare presto dal dottore». «Ma cos’ha, sta male?» chiese la Renza. Mirko non la guardò. Per certi versi quella tizia gli faceva ricordare qualcuno a cui aveva fatto di tutto per non pensare. «No, non sta male. Ieri ha pisciato rosso» rispose Mirko, inventandosi un sintomo lì per lì. «Mia mamma e mio papà sono via. Devo fare io». Seguirono altri commenti ma Mirko già aveva preso le chiavi dello scuterone. «Ci vediamo lunedì» disse e si trattenne dall’aggiungere: «Mi dispiace». Già, non gli dispiaceva affatto. E poi stava per vomitare tutto. Però non vomitò. L’aria della notte sul volto, mentre procedeva in scooter ai venti all’ora, lo ripigliò quel tanto che bastava da non farlo finire in un fosso. Cercò di fare attenzione alla strada, alla linea di mezzeria che lo accompagnava nella notte e questo sembrò placare la malattia che l’aveva preso al festone di Siero. L’effetto rigenerante dell’aria fresca svanì appena Mirko fermò lo scuterone per aprire il garage di casa sua. A mondo fermo l’effetto delle canne lo ghermì alle spalle. Nuovamente il calore fluì via dal corpo e la sua fronte divenne gelida. Prese a tremare mentre il basculante del garage apriva la bocca di casa sua. Il suo stomaco fremeva per rigettare le pringles mal digerite e la coca con cui aveva cenato ma lui lo trattenne, da vero duro. Mosse un passo portando lo scooter ma si rese conto che quella era un’operazione un po’ troppo complicata. Lasciò lo scooter in giardino e si diresse verso casa barcollando. Nella sua testa il vuoto non c’era più. Sì, perché se ci fosse stato ora non avrebbe avuto problemi a fare alcunché: cazzo, altro che storie. Sarebbe rimasto alla festa a farsi applaudire per altri tiri del Leone. Non sarebbe apparso… strano. Perché essere strano era il male. Zennaro era il male. Il tipo col labbro leporino era il male. Tutti gli strani figli di puttana che circolavano nel suo paese erano il male. Azra Ma era il male. Ma cos’avrebbe fatto se, d’un tratto, si fosse trovato dalla loro parte? Si rese conto che anche solo pensare di essere strano lo rendeva strano. Di più, si rese conto che stava pensando. Ci impiegò più di un mezz’ora per raggiungere il garage, premere il pulsante della chiusura della saracinesca, spegnere la luce del garage, accendere la luce delle scale, salire le scale, spegnere la luce delle scale, accendere la luce del salotto, salire le scale, spegnere la luce del salotto, percorrere al buio il disimpegno della zona notte ed entrare in camera sua (notando una sottile lama di luce che filtrava da sotto la porta della stanza di Kristen). In quella mezz’ora Mirko assistette con orrore e impotenza allo spettacolo della sua autocoscienza che si risvegliava. Anzi: senza ri. Che si svegliava. Vide se stesso e vide i suoi pensieri corposi e profondi. C’era un cazzo di abisso lì dentro. Uno di quegli abissi che tira dentro le cose che hanno la sfortuna di avvicinarsi troppo, ma anche uno di quegli abissi che certe cosa le butta fuori. Si gettò sul letto senza spogliarsi neppure della leggera giacca di vera pelle e chiuse gli occhi. Le cose, che pur non vedeva, presero a girargli intorno. A vibrargli intorno. E lui stava male. Stava male perché il suo corpo glielo diceva, in particolare il suo stomaco, e stava male perché la sua mente glielo diceva. Era da solo, nel buio nulla vibrante e nell’agonia. Nessuno gli avrebbe dato una mano dove si trovava ora perché nessuno poteva raggiungerlo lì. Non in camera sua, ovvio ma lì, dove si trovavano i suoi pensieri. Dove un mostro aveva gettato il seme di un intero universo. Poi, in una veloce transizione, il corpo di Mirko svanì e di lui restò solo lo stomaco e l’abisso. Sentì che c’era una forza che lo spingeva, delicatamente ma costantemente. Non c’era il più il letto sotto di lui, né la sua stanza, né il mondo, Mirko stava… scivolando lungo una pianura infinita. Una pianura che uno scrittore migliore di me (quello del pasticcio cosmico e del libretto d’istruzioni) avrebbe definito la pista da ballo dell’eternità: un’immensa superficie semi-opaca che rifletteva la luce delle stelle. Ma non potevano essere stelle quelle cose lassù, erano troppo grandi, troppo luminose, troppo colorate ed erano semplicemente troppe. Mirko scivolava nell’abisso, spinto da chissà quale forza ed un terrore mai provato prima lo afferrò. Del suo corpo non era rimasto nulla da afferrare, neppure lo stomaco ma il terrore trovò lo stesso un appiglio nell’unica sua parte rimasta: l’idea che aveva di vivere, di vedere e sentire. Se stesso, forse. Cercò di parlare, di gridare ma non ci riuscì. Cercò di opporsi alla forza ma era come tentare di opporsi alla stessa gravità. L’universo dei suoi pensieri, così simile a quell’universo folle e luminoso sopra di lui era tutto un accecante groviglio di galassie e supernove in perenne mutazione. Poi laggiù, ad una distanza che non avrebbe senso cercare di commensurare, una cosa nera apparve, facendo sparire un tratto di cielo. Una montagna nera come è nero il primo istante dopo la morte. Ma non era solo una montagna, osservò Mirko mentre la forza che lo spingeva (o lo trascinava) aumentava. Era un’intera catena montuosa, un atlante buio, più grande di qualsiasi cosa esistesse in questo o in quell’altro universo. Mirko cercò di chiudere gli occhi ma non aveva occhi, desiderò di svenire, ignorando di essere già svenuto. Sperò che tutto finisse al più presto, che la sua mente lo lasciasse in pace. Pregò di morire ma gli Dei che abitavano quel posto non erano certo dalla sua parte. Ecco che le montagne si avvicinavano, ingrandendosi, mostrandosi imponenti oltre la logica delle dimensioni. E c’erano dei fuochi. Dei fuochi come di torce, in un punto laggiù. Mirko vide chiaramente il tremolio del fuoco spiccare chiaramente nel deserto nero. Non gli ci volle molto a capire che chiunque lo stesse trascinando, era nel posto dei fuochi che lo voleva portare. Passò ancora un tempo lungo quanto un’era, poi tutto successe in fretta. Dapprima le luci dei fuochi sembravano lontane come le aveva scorte la prima volta poi erano lì, a qualche passo da lui. Ma non c’erano solo le torce ad attenderlo. C’erano i mostri. Mirko tentò di distogliere lo sguardo e ci riuscì: sembrava che la forza prodigiosa che l’aveva intrappolato in un viaggio indesiderato stesse venendo meno, ma non del tutto. Passò fra due file di esseri orrendi, ognuno con in mano un bastone nodoso sulla cui cima bruciava una fiamma. Gli esseri non sembravano far caso all’ospite, ammesso che potessero vederlo. Mirko, dal canto suo, cercava di fissare il pavimento della pista da ballo infinita sotto di lui. Intervenne però ancora la forza segreta. Lo costrinse a guardare, a guardarli. Nella luce mobile delle torce le creature mostrarono la loro somiglianza con il primo mostro di questa storia. Erano la gente di Azra Ma: avevano carni molli e lucide, lineamenti distorti, vesti stracciate. Alcuni possedevano corna sulla testa o su parti del corpo, alcuni agitavano pigri tentacoli. Altri avevano tutte queste cose, disposte senza una simmetria anatomica. Fissavano tutti davanti a loro con occhi spenti, muovendosi lentamente, in silenzio. Ed erano tanti, una folla, una popolazione intera, un mondo. Mirko fu spinto in mezzo a loro per lungo tempo e poi, in un istante, la forza segreta lo abbandonò e il suo viaggio finì. Certo, chiunque avrebbe voluto viaggiare in eterno nella landa del nulla pur di non stare in quel posto ora, pur di non vedere lo spettacolo a cui stava assistendo l’innumerevole famiglia di Azra Ma. Eppure stavolta non servì neppure la forza misteriosa per costringerlo a fissare ciò che non desiderava: lui stesso non poté distogliere lo sguardo. O forse non volle, ma questa è una sfumatura inutile. I mostri circondavano un grande spiazzo nero, in cui troneggiava un loro simile molto più massiccio, alto quasi il doppio degli altri. Era un capo forse e, al contrario degli altri, sul volto distorto aveva un’espressione di sadico trionfo. Il suo capo era cosparso di corna irregolari che sembravano quasi una corona lignea creata da un falegname molto più che ubriaco. Portava una tunica lacera fatta di un tessuto simile alla tela di sacco, cosparsa di strani simboli disegnati maldestramente con una tinta rosso sangue. O magari proprio col sangue. L’esserone trascinava un cappio da cui tentava di divincolarsi un essere dalle fattezze umane. Mirko fissò l’unico suo simile presente, paralizzato dall’orrore. Sì, era proprio umano, o forse non proprio. Perché gli umani non hanno ali e quel povero tizio ce le aveva. Due ali d’angelo spezzate in più punti, spiumate, contuse e coperte di sangue, come d’altronde era il suo corpo. Quel tizio, il suo simile, era un angelo. E se lui era un angelo allora gli altri erano… E Azra Ma, anche Azra Ma era… Ma quelle erano cose più grandi di lui e di noi, e Mirko non procedette ulteriormente col pensiero, anzi: riuscì ad arrestarlo una buona volta. Riuscì a tornare il Mirko di prima della nascita dell’universo. Tonto, ubriaco di nulla, spento come la gente di Azra. Era solo un successo momentaneo, tuttavia. Una volta creato, un universo non si può arginare con la buona volontà. Qualcuno direbbe che neppure un bel colpo di pistola alla testa lo può fare ma, ancora, queste sono cose che non so o non capisco. Il mostrone, il presunto capo della gente di Azra, trascinò l’angelo ad una specie di forca costruita sempre dall’artigiano malato che forniva le attrezzature a quell’intero mondo, lo alzò senza fatica mostrandolo alla folla. L’angelo tentò di divincolarsi con più forza, portando le mani alla corda che gli stringeva il collo ma ogni suo tentativo fu inutile. Scalciò e scalciò ma il suo volto prese a diventare rosso, poi bianco, poi blu. Disse una parola strozzata in una lingua sconosciuta e morì. Il capo dei mostri, o magari il loro sacerdote, legò l’altra estremità della corda alla forca. Il suo volto non aveva mai cambiato espressione e forse non poteva proprio farlo. Forse era nato così, con quel sorriso dai denti cariati, con quegli occhi infossati e tremendamente luccicanti. La folla, alla morte dell’angelo rimase in silenzio. L’intero spettacolo sembrava non li sorprendesse. Forse era un rito, qualcosa che dovevano fare ogni tanto, qualcosa che avevano visto mille volte. O forse erano completamente decerebrati e subivano quello che vedevano senza capire. Il mostrone, dopo l’esecuzione, si fece largo fra la folla, si abbassò, sparendo fra i volti deformi, poi tornò nello spiazzo con un’altra vittima. Un altro angelo, del tutto simile al primo, coperto di lesioni e ferite legato ad un cappio. Il suo destino fu del tutto uguale a quello del suo compagno. Fu trascinato davanti alla forca, alzato, impiccato fino al sopraggiungere della morte e poi legato vicino al compagno. E questo successe altre ventotto volte. Altri ventotto angeli vennero impiccati dalla manona del mostrone e i loro cappi legati alla forca. Quando venne il momento dell’ultimo, Mirko già temeva che quello spettacolo sarebbe durato come il suo interminabile viaggio ma lo spazio sulla forca stava finendo e, in più, la folla aveva cominciato a rumoreggiare e ad agitarsi. Udì grugniti e ansimi. Vide mani e tentacoli che si protendevano verso la forca. Vide i volti del popolo di Azra distorcersi nella stessa espressione malefica del loro capo. Quando anche il trentesimo angelo seguì i suoi compagni nel luogo dove andavano quelle creature dopo morte, ammesso che ci fosse, il mostrone mandò un ululato terribile al cielo e la folla dei mostri, liberando istantaneamente una furia immensa, si avventò sulla forca. Mirko temette che sarebbe stato sommerso dalle creature smaniose ma notò che sembrava trovarsi all’interno di un’invisibile campana di vetro: per quanto la ressa di quelle migliaia di esseri fosse come un fiume di carne in piena, nessuno lo sfiorò. Gli angeli impiccati non ebbero la sua fortuna. Dopo qualche secondo dall’ululato del mostrone sacerdote, già si udivano i primi, inequivocabili muncichii di un orrido pasto. E allora Mirko, il nostro povero eroe, guardò su, guardò il cielo ma il cielo non c’era: c’era solo quella montagna enorme oltre i limiti delle dimensioni, nera come la fine della coscienza. E la montagna aveva una forma perché no, non era affatto una montagna. Era un volto. E voi tutti sapete a chi apparteneva quel volto, ma mi va di dirvelo lo stesso. Sopra la folla in delirio nell’ordalia di quel rito di morte, vegliava la faccia deforme di Azra Ma, il primo mostro della nostra storia. E Azra Ma non era affatto una parente degli spregevoli mostri attorno a Mirko. Era la loro Dea. E se mi chiedete perché non ho lasciato immaginare a voi questa scena è per un motivo semplice: voi qui, in questa pianura infinita in cui si svolgono riti demoniaci, non ci siete mai stati. Io sì, proprio come Mirko. Ed è proprio lui ora che preme il pulsante della dissolvenza in nero altresì detta dai tempi di Dante perdita di coscienza. Ci sono bei sogni di donne, d’abbracci, in cui la maestosità dell’inconscio fiorisce in paesaggi sereni e città infinite, bei sogni che ci riportano ai posti in cui siamo stati felici, magari da piccoli, quando eravamo ancora vicini al mistero dell’origine della memoria. Ci sono sogni brutti, di uomini neri che ti vogliono afferrare e farti qualcosa di brutto, di catene invisibili che ti imprigionano e stanze buie e polverose abitate da tutte le creature che la Paura riesce a creare, brutti sogni che ti fanno svegliare di soprassalto, ringraziando il cielo di aver solo sognato. Poi ci sono sogni come quello del mostro. Visioni che ti lasciano la sensazione insopportabile che la realtà sia un imene fragile e magari già lacerato in qualche punto, esperienze strane in cui gli oggetti, le persone, le opere e i giorni non sono che la punta dell’iceberg di qualcosa d’insondabile ma presente, sotterraneo e vasto. Ci sono sogni, proprio come quello del mostro, che ti portano nell’impero interno che sta sotto ad ogni cosa e che ogni cosa sostiene, che ti spingono nella realtà vera, per così dire, che il lobo sinistro del nostro cervello cerca in tutti i modi di non farci vedere. Mirko lo comprese subito, appena sveglio, e comprese subito un’altra cosa: molto più triviale e mondana. Già, perché provava una sensazione intollerabile di freddo umidiccio laggiù, nelle parti basse. Senza tirarla troppo lunga: Mirko si era cagato addosso. Era ancora in Jeans, scarpe e giacca di pelle, disteso sul copriletto a righe e si era cagato addosso un getto di cacca molle da dopo-festone. Del resto della giornata di Mirko, dopo il risveglio dal sogno del mostro, c’è poco altro da dire. Appena alzato, gocciolante e sudicio, andò in bagno, si tolse i vestiti e li ammucchiò nella vasca poi, comprendendo che quello era un problema che di certo non poteva risolvere da solo, fece l’unica cosa che un vero uomo fa in quel momento: chiamò una donna. In casa, come al solito, c’era solo Kristen, i genitori di Mirko non c’erano (come odio constatare l’ovvio) e Joino doveva essere dai nonni. La teutonica tuttofare si rese conto della situazione in meno di mezzo minuto. Non disse nulla, né dal suo volto bello ma un poco rovinato dall’acne giovanile lasciò trasparire un rimprovero per Mirko. Silenziosamente prese copriletto, lenzuola e coprimaterasso, e le ammucchiò in bagno vicino ai vestiti. Facendosi aiutare da Mirko alzò il materasso (in cui si spandeva una macchia nerastra) e lo portò sul vialetto del giardino, ove una larga siepe impediva a vicini naturalmente propensi ai cazzi degli altri di dedicarsi alla loro attività preferita. Kristen ordinò a Mirko (ma sembrava più un consiglio) di farsi una doccia. Poi, munita di guanti, secchio e spazzola prese a grattare via la macchia di merda. Più tardi, quando le operazioni di pulizia erano finite da un po’ (una piccola macchia era rimasta sul materasso, ma di certo la mamma e il papà di Mirko non se ne sarebbero accorti, ammesso avessero la percezione dell’esistenza di materassi in casa propria), Mirko e Kristen si trovavano in cucina. La ragazza aveva preparato un tè coi biscotti e il nostro eroe, nel suo pigiama molto poco eroico, finalmente ingeriva qualcosa che (col beneficio del dubbio) non proveniva da una sintesi chimica artificiale. Era il tardo pomeriggio di una domenica di primavera e la casa era silenziosa, addormentata. Kristen leggeva un qualche suo libro (quasi di certo ‘Die Geburt der Tragödie’) e Mirko inzuppava i suoi biscotti. Era il primo giorno di vita di Mirko. La casa Il giorno dopo il mostro non era in classe e nessuno se ne preoccupò. Quasi tutti i discorsi che udì Mirko riguardavano il festone a casa di Siero: chi c’era stato raccontava, chi non c’era stato chiedeva e chi non ci sarebbe mai andato cercava di rimanere dignitosamente indifferente alle chiacchiere. Mirko restava fermo al suo banco e rispondeva alle frequenti domande con alzate di spalle e bestemmie di circostanza. Marra arrivò a dieci minuti dall’inizio della prima ora, un anticipo inaspettato per lui e, sedendosi con l’eleganza di un sacco di bulloni al suo posto accanto a Mirko, chiese al compagno: «Ehi malatone, che li hai visti i mostri dopo quel tirone che ti sei fatto sabato?» sghignazzò lynchanamente e sbatté sul banco il suo “diario”, una sorta di faldone scomposto vergato da terribili e criptiche imprecazioni. «Li ho visti» rispose Mirko, scuotendosi un poco dai suoi pensieri. «E ce n’erano anche parecchi». Marra continuò a sghignazzare. Ripreso dalla prof (la Zanatta, la cariatide di storia) si diede in una grottesca espressione di contrizione. «Sai che non ti vedo mica tanto sano oggi», osservò Marra con tono casuale dopo qualche minuto. Nel suo consiglio d’amministrazione cerebrale di certo ascoltare la lezione non era all’ordine del giorno, come ben indicava il pornaccio che teneva ben aperto sul banco. «Guarda che razza di sbertolona che ha questa». Mirko osservò la non meglio definita sbertolona a cui alludeva Marra, senza riuscire ad indovinare a quale parte anatomica si riferisse. Di più, le foto del giornalaccio del compagno lo mettevano in una strana agitazione. C’era qualcosa di strano in quelle membra che si abbarbicavano in amplessi poco possibili, i colori delle foto sembravano troppo carichi, come quando premeva al massimo il pulsante del colore sulla tv per fare un dispetto a Joino. Alcune forme sembravano addirittura distorte. Sembravano sì, perché Mirko sapeva che era tutto nella sua testa. Marra si diede in un’orazione non richiesta sulla figa e sulla sua elasticità e venne ripreso nuovamente ma questa volta alla Zanatta venne la brutta idea di investigare. «Che cos’hai lì, Marrazzi?», chiese con un tono talmente gelido da far rattrappire le palle agli sfighi delle prime file. «Qui dove?» rispose Marra, neppure tentando di nascondere il pornaccio. La cariatide si alzò dalla cattedra, cosa se non unica almeno rara e cercò di osservare il motivo della distrazione di Marra ergendosi in tutti i suoi centocinquanta centimetri di altezza cotonatura esclusa. Qualcuno delle prime file, nel raccontare in seguito l’episodio, giurò di averla sentita sussurrare: «Adesso t’inculo». Mirko osservò il volto del compagno, un poco scosso dalla sua indifferenza. Seppe con qualche secondo d’anticipo che il Marra non voleva certo cavarsela con una ragionevole scusa, anzi: era certo che volesse premere l’acceleratore della follia fino alle estreme conseguenze, complici anche le ventitre paia d’occhi dei compagni che si erano voltati a guardarlo. Quando la prof si mosse per osservare il banco dell’indisciplinato, Mirko notò distintamente un cambiamento sul volto di Marra. Un minuto prima era borioso ma un poco tentennante, un secondo dopo era Marra il matto, e aveva la stessa espressione con cui aveva urlato «Mirko vuole fottere il mostro» al festone di Siero. Non lasciò che la prof raggiungesse la visuale ottimale e si alzò di scatto, svettando coi suo centonovantacinque centimetri sulla classe paralizzata. Mostrò chiaramente alla Zanatta il pornaccio, ostendendolo sacralmente e tuonò: «Ho il cazzo duro. Ecco cos’ho qui. Il caz….». Neppure il suo vocione riuscì a prevalere di fronte al grido isterico della cariatide che il suo gesto aveva destato dal torpore della pietra millenaria. «VAIFUOOOORIIIIII!!!!!!» urlò la Zanatta a pieni polmoni, facendosi sentire persino in presidenza, due piani più su. «VAIACAGAREFUORIDIQUI!» riprese, strizzando gli occhi e pestando un piede per terra. Marra sembrò quasi sorpreso e arrotolò il motivo del contendere. Si mosse facendosi largo fra i banchi come un pachiderma ubriaco. «Vado fuori» sussurrò meditabondo, non sicuro di volersi farsi sentire ancora dalla vecchia incarognita. Tuttavia, non poteva lasciare che avesse lei l’ultima parola. «Vado fuori a farmi una sega!» esclamò, fulminato da un colpo di genio, e corse verso la porta sghignazzando come di consueto. La prof non si curò di controbattere, fiaccata dall’impeto di rabbia si appoggiò ad una parete socchiudendo gli occhi. Subito Zennaro si alzò dal banco e la sostenne, da bravo leccaculo. Mirko osservò la classe, i suoi compagni. Alcuni ridevano, alcuni parlottavano, altri mitragliavano sms. Il banco di Azra Ma era vuoto e nessuno, nessuno in quella classe o in qualsiasi posto di quella città sapeva che la realtà non era proprio una lastra di marmo infrangibile ma piuttosto una tela rabberciata. Per questo toccava a Mirko fottere il mostro. E doveva farlo possibilmente senza impazzire. Non avvennero altri fatti eclatanti durante quello strano lunedì. Marra non si fece più vivo, probabilmente era andato a giocare ai videopoker al bar mulino. Di sicuro, se qualcuno gli avesse chiesto perché non fosse rientrato avrebbe risposto semplicemente «La Zanatta mi ha detto di andare fuori e io ci sono andato». La sua assenza d’altronde era gradita ai prof quasi come quella del mostro. Durante le cinque ore, Mirko ebbe il tempo di tracciare una parte di cartografia stellare dell’universo che, suo malgrado, gli era nato in testa. C’erano tante cose nuove da vedere e rivedere, percezioni da riallineare, sensazioni da decifrare. Solo una volta si scosse: la lesbica di filosofia aveva chiesto alla classe chi sapesse cosa significava ontologia e Zennaro, da brava secchia, aveva risposto che si trattava dello studio delle cose in quanto tali. Mirko aveva riso in un primo momento, che cosa assurda aveva pensato, ma la definizione gli si era stampata ben bene in testa, incasellandosi in una sua allocazione di memoria vuota. Poco dopo già non la trovava più così assurda. Le cose in quanto tali, si era detto Mirko, e voi che diavolo ne sapete? Anche per quella mattina suonò la campanella di fine lezioni e duecentoventi studenti si fiondarono nei corridoi prima e nel cortile poi, fuggendo dal consueto incubo di noia ed interrogazioni. Mirko si attardò e diede un’occhiata al registro mentre Puzza, il prof Tozzello, puliva la lavagna dalle sue formule. Nella prima pagina del registro c’erano, in ordine alfabetico, i nomi e i cognomi di tutti i compagni di classe di Mirko. Accanto ad ognuno era annotato l’indirizzo di residenza. «Cosa fai, non vai a casa?» chiese il Tozzello. «Devo portare i compiti alla Ma» rispose Mirko. Si rese conto che era la prima volta che diceva ad alta voce una parte del nome del mostro. Questo gli fece correre un brivido lungo la schiena. Come urlare il cognome di propria madre in un cimitero, pensò, e si odiò subito dopo per quel pensiero. «Ah ma lascia stare sai», commentò casualmente Tozzello, «tanto il prossimo anno torna al suo paese». Mirko dubitò che il prof di mate sapesse veramente da che paese venisse il mostro. «Ah, guarda che ho corretto il compito. Non hai sbagliato tutto stavolta», gli annunciò poi il prof. Mirko guardò Puzza. Il compito? Non ricordava l’ultimo compito di matematica che aveva fatto. E gli sembrava pure strano di non aver sbagliato tutto. C’erano state volte in cui aveva effettivamente ascoltato la lezione di mate? Improvvisamente gli vennero in mente curve ed equazioni, intorni di punti, campi di esistenza. Da dove veniva fuori quella roba? Sì, magari qualche volta aveva ascoltato. Forse due o tre volte aveva anche fatto un esercizio. Ma quando? Si rese conto che la sua vita prima del sogno del mostro era una nebbia incoerente, come il mondo di Azra Ma. «Non te lo meriti ma ti do sei, così magari la prossima volta mi studi di più e fai meglio. Magari ti salvi quest’anno». «Magari» rispose Mirko. Magari ti salvo a te quest’anno, pensò poi. Lo scuterone di Mirko era l’ultimo rimasto nel parcheggio della scuola. Accanto ad esso, all’ombra di una bacheca stracolma di offerte per vendite libri, c’era la Daria Giusti, che in teoria era la morosa del nostro eroe e in pratica una semplice comparsa priva d’importanza. Era incupita e, al vedere il suo moroso che arrivava, s’incamminò con passo deciso verso di lui. «Senti ma guarda che non mi puoi mica trattare così, sai», la Daria agitò il suo ditino dall’unghia blu nell’aria, mentre con un braccio a cui era appesa una miniborsa brillantinata si stringeva il pancino nudo. Mirko la squadrò, quasi non riconoscendola. Prima del nome della ragazza gli sovvenne la memoria di un gusto plasticoso in bocca, probabilmente il sapore del rossetto della Daria. La guardò senza dire una parola. Se mai un uomo dovesse aver mai avuto ragione nel dire alla sua metà incazzata di “aver altri pensieri” quello sarebbe stato Mirko. Naturalmente quella scusa non sarebbe servita a nulla, come sempre nella storia dei rapporti etero, omo e xenosessuali. «Mi avevi detto che mi chiamavi domenica e ti ho mandato una marea di messaggini e che tu poi non mi hai mica risposto e hai sempre il cell spento e non so mica il tuo numero di casa anche stamattina ti ho chiamato e ce l’hai spento ma dove caaazzzzooo eri finito?!?!?!». La Daria aveva espresso nella parolaccia tutto il suo malessere, aumentando di una buona ottava il tono. Mirko pensò che non vedeva il suo cellulare da sabato. Di conseguenza pensò che era ben strano che non avesse mai sentito il bisogno di controllare se ce l’avesse o no. «Non so dove ho messo il cellulare», si scusò, cercando gli occhi verdi della Daria in mezzo al trucco. «Senti, se mi vuoi dire cazzate guarda che non sono stupida, non le mangio mica io le tue cazzate come quella stronza della Mariaelena io. Te hai preso un altro cell perché senti un’altra, io non me le mangio le tue cazzate!». Mirko sgranò gli occhi. Stranamente gli si attivò un’allocazione di memoria in cui c’era ben scritto: “Paranoia”. Si chiese poi chi fosse Marieelena ed ebbe la bella idea di chiedere lumi. «No, guarda che non è mica così sai. Ma chi è ‘sta mariaelena?». La Daria emise un gridolino inviperito, e prese a cercare vanamente qualcosa nella borsa. «Ma senti quante cazzate dici spero che ti senti quante cazzate dici te non ti ricordi neanche di come si chiama la tua ex, siamo tutte merde per te, vero Mirko? Siamo tutte merde per te tu non ti frega niente di come stiamo!». Mirko fissò il suo scooter, si stava facendo tardi. La Daria intanto aveva estratto un pacchetto di Fortuna blu e in meno che a dirlo si era portata una cicca in bocca, l’aveva accesa e aveva tirato due boccatone da leonessa. «Eh? E non rispondi niente, non rispondi niente?». Mirko inclinò la testa di lato. «Mi dispiace» disse. «Ho altre cose per la testa, scusa». Senza dire altro si avvicinò allo scooter sentendosi addosso i begli occhi increduli della Daria, si mise il casco e avviò il mezzo. «Non ti azzardare sai!». La Daria gli si mise di fronte: «Devi dirmi se hai qualcuna e chi è che la ammazzo!». «Mi dispiace» tornò a dire Mirko, ma sotto il casco e con il rumore del motore non si udì neppure lui. Scartò di lato ed evitò facilmente la Daria che tornò ad emettere il suo gridolino di battaglia. «Vai a farti fare i bombini da qualcun altra stronzo di merda!» gridò mentre Mirko si allontanava. Bombini? Si chiese Mirko. E Mirko va. Corre. Il posto dove abita il mostro non è né lontano né vicino. È in un paesino che Mirko sa benissimo come raggiungere ma in cui non è mai stato. Uno di quei posti segnati sulle indicazioni stradali che vedete ogni giorno appena usciti di casa ma che per un motivo o per l’altro non avete mai attraversato. Eppure è abbastanza vicino, basterebbe girare a sinistra dove in genere andate sempre a destra. Ed è ben strano. Magari siete stati due o tre volte a Ibiza e quel posto lì a poco meno di un chilometro non l’avete mai visto. Proprio lì abita il mostro. E Mirko si è messo in testa di andarci. Non so dire se abbia paura o meno. Forse è emozionato, pervaso da quella curiosità primigenia che illuminava gli occhi degli antenati degli uomini all’alba dei tempi, prima che qualcuno avesse la bella idea di ergere un monolitaccio nero. Mirko non lo sa, ma qui gli capita. Mirko esce, va fuori, perde la strada solo perché ne ha preso una che nessuno prende mai. Ora non è più come gli altri. Come Marra ce ne sono tanti, come Zennaro altrettanti. Come Como, come la Daria, come Tozzello e la Zanatta, come la Renza, Pugno e Siero. Come i suoi e Joino. Sì, è pieno il mondo di gente che si assomiglia. Invece ce ne sono pochi come Mirko ora, Mirko che viaggia a cinquanta all’ora verso un destino strano come la sua vita dopo l’arrivo del mostro, dopo l’avvento del suo monolitaccio si può dire, anche se non è proprio così. Ecco il bivio, di fronte a lui. A destra si torna a casa, si mangia le lasagne di Kristen, magari si cerca di recuperare il cell smarrito. Una pennica, un videogioco, una sega. Forse si apre anche un libro. Ma proprio se capita. A sinistra l’inesplorato, il mostro. E Mirko gira a sinistra quasi senza esitare, ingenuamente, senza pensare a tutte queste diavolo d’implicazioni che ci metto io. Sa che qualcosa è cambiato, che se ti cresce l’universo in testa poi non è che lo puoi cancellare tanto facilmente come un’equazione dalla lavagna. È una cosa che resta, che c’è, che anche se si fa finta di non vedere gira, gira gira e si evolve. E visto che è così tanto vale vedere subito il conto di tutto questo casino. Penso che Mirko l’abbia pensata così in quel momento, mentre la strada d’asfalto diventava sassosa, i guardrail sparivano e spuntavano le canne e i fossi, mentre i rumori della città venivano soffocati dal frinire dei grilli. Sì, deve averla proprio pensata così Mirko, prima di arrivare alla casa del mostro. Arrivare alla casa del mostro non fu neppure così difficile. Nel suo cellulare, quello che aveva perso quasi sicuramente da Siero, c’era il navigatore e gli sarebbe stato veramente utile per trovare quella vietta sperduta fra i campi. Eppure non ce n’era stato bisogno. Appena girato a sinistra, dopo meno di un chilometro, aveva visto il nome della via alla sua destra. Si rese conto di non essere neppure tanto distante da casa, la casa di Siero era più distante, per dire. Quando l’asfalto aveva ceduto il posto allo sterrato, Mirko aveva moderato la velocità. Laggiù, a qualche centinaio di metri, vedeva una villetta. Era l’unica della via, a quanto sembrava. Tutto intorno c’erano campi di frumento sterminati. Fermò lo scooter perché gli sembrò che stonasse un po’ con l’atmosfera del posto. Ma no. Non fu per quello. Gli sembrò che se avesse fatto troppo rumore il mostro avrebbe saputo che lui stava arrivando e magari... magari avrebbe chiamato uno dei suoi sudditi/seguaci/adoratori e chissà cosa sarebbe successo poi. Ontologia: lo studio delle cose in quanto tali. E alle altre chi ci pensa? Nascose lo scooter dietro ad un cespuglio rigoglioso senza neppure darsi la pena di assicurarlo con il lucchetto. Si tolse il casco e lo poggiò vicino al mezzo. Lasciò anche la sua magra cartella ma prima ne estrasse un oggetto, quasi stupito di averlo portato. Un binocolo. Aveva già deciso dalla mattina di quel lunedì che sarebbe andato a casa del mostro, era inutile negarselo. Sapeva cos’avrebbe fatto, cos’era giusto fare e si era premunito. Il binocolo, un oggettone nero e pesante, era quello che suo padre usava per andare a caccia. Non si sarebbe mai accorto che fosse sparito, per lo meno non quel giorno. Mirko prese una sigaretta dal pacchetto che teneva in tasca e se l’accese. Fumò lentamente come non mai, nella brezza primaverile. Le ombre della vegetazione erano fresche ma il sole già cominciava a farsi più lento nel cielo. I grilli frinivano e qualche uccello sconosciuto emetteva un richiamo criptico. E adesso, visto che è da parecchio che non ve lo chiedo, fatemi un favore: immaginatevi Mirko. Non il Mirko che forse avete imparato a conoscere finora, il ragazzo col grugno strizzato o quello che viaggia nelle lande desolate di altri mondi, immaginatelo non come il protagonista di questa storia. Ecco, immaginate che sia solo un caso il vostro incontro con lui. Passavate di là (strani tragitti avete voi!) e l’avete visto per un istante, sotto un alberello che offre ben poca ombra, con un binocolo al collo e una sigaretta in bocca. Magari pensereste che un ragazzino così giovane non dovrebbe fumare ma se io per una volta non ci metto delle implicazioni sociali, di certo sarete così cortesi da non farlo voi. Mirko è lì, fermo ad ammirare con un po’ di timore i suoi nuovi pensieri ed è bello, di quella bellezza che a volte traspare nell’adolescente che sceglie involontariamente una vita, in cui si riflette l’adulto che sarà. Non so se riuscirete mai a volergli bene, in fondo era lui quello che vi prendeva in giro quando eravate piccoli, era lui quello che invidiavate perché aveva il papà più ricco, le ragazze più belle e lo scooter più grosso. Ma ora è come ciascuno di noi in quei momenti strani che mi dicono chiamarsi epifanie, momenti in cui va tutto bene e non c’è più niente da temere perché siamo vivi, parte di qualcosa di immenso e sconosciuto, stupiti della rivelazione che un giorno le nostre preziose cellule saranno acqua, piante, rocce, animali e galassie. Così si sente Mirko ora e non potete più negare di averlo visto, anche se solo per un attimo, uguale a voi e diverso da ogni altro essere. Sfortunatamente Mirko si muove proprio adesso e l’incantesimo si rompe. Arrivato a qualche centinaio di metri dalla villa in cui abitava il mostro, Mirko comprese che si stava ficcando in un guaio non solo cosmologico. Che diavolo ci facevano tutte quelle Bmw nere nel parcheggio della casa del mostro? Ed erano guardie quelle che si muovevano lentamente per il giardino? O quello o i proprietari della casa erano un club di nerboruti nerovestiti e nerocchialuti che amavano passeggiare e guardarsi in giro. La villa in cui abitava il mostro era come la casa di un boss in uno di quei bei film di botti e morti ammazzati che tanto piacevano a Mirko che, d’altro canto, benché non propriamente mingherlino di certo non aveva la stoffa dell’agente segreto. Così, appena accortosi della situazione, il nostro si nascose dietro ad un canneto, tenendo d’occhio la villa con il binocolo. Era stato visto? No. Nessuno di quei gorilla deambulanti sembrava venire nella sua direzione o dare segni di allarme. E poi, che cazzo, era un ragazzino mica Jack Bauer: se l’avessero preso avrebbe detto che stava portando i compiti alla sua compagna di classe. Certo, poi avrebbe dovuto spiegare anche che i compiti se li era dimenticati a casa... Per qualche minuto Mirko pensò di rinunciare a tutto. In fondo non stava agendo secondo un piano preciso, forse faceva ancora in tempo a tornare a casa a mangiare le lasagne. Forse la via giusta, la via che avrebbero fatto tutti lo stava ancora aspettando. Azra Ma era una Dea antica nell’altro mondo e in questo una specie di pezzo grosso di qualche organizzazione. Cristo, sarebbe stato troppo anche per uno di quegli eroi cazzuti dei film d’azione. Ed ecco il vero bivio per Mirko. Andare ad affrontare il mostro o almeno capire di cosa si stesse parlando in questo mondo qui o tornare indietro ed affogare la propria curiosità nelle lasagne e magari ripassare in un altro momento, se mai ci sarebbe stato. Mirko ci pensò e si grattò la barbetta incolta del mento (cominciava a crescere velocemente!). Sussurrò una bestemmiola perplessa e si fissò le sneakers. Poi non so cosa avvenne, sinceramente, con tutto il cuore vi giuro che non lo so proprio. Mi metto dalla vostra parte della pagina e guardo anch’io Mirko che decide di proseguire, che nota che il canneto in cui si è nascosto gli permette di arrivare non visto fino ad un terrapieno sul retro della villa. Un posto d’osservazione mille volte migliore. Così Mirko si mosse con attenzione, silenziosamente cercando di non spezzare neppure il più piccolo rametto. Trasalì un poco quando udì la voce calda di un motore tedesco. Si fermò e aspettò che il rumore passasse. Probabilmente si trattava di un’altra di quelle bmw da gangster che arrivava alla villa. Magari stavano facendo una festa. Magari oggi era il compleanno del mostro. Magari non aveva nascosto bene il motorino e il casco e la cartella. Magari fra un poco qualcuno gli avrebbe sparato. Magari fra le canne c’era uno di quei cosi, uno di quei seguaci di Azra Ma che aveva visto nel suo incubo. Magari sì tutte queste cose ma i suoi piedi erano tornati a fare il loro lavoro e Mirko andava avanti, mordendosi il labbro inferiore con i denti. I suoi pensieri, il suo universo nuovo di zecca era in agitazione, sembrava essersi fatto molto più caldo e ricolmo di radiazioni mortali. Dopo circa mezz’ora di faticoso incedere ninja, Mirko arrivò al terrapieno. Era molto, molto vicino alla villa ora, tanto da sentire qualche discorso dei gorilla portato dal vento. Tutto, nel suo corpo, voleva tornare indietro: il suo stomaco, in particolare, si stava facendo portavoce dell’opposizione. «Vai a mangiare le lasagne» sembrava dire. «O quanto è vero Dio rovescio tutto quello che ho dentro qui. E non sarà una cosa indolore». Mirko ignorò le sue masse operaie e, trattenendo il fiato, percorse di corsa la salita del terrapieno in un punto in cui le canne non potevano più proteggerlo dalla vista della security. Si trattava di uno o due metri, ma erano due metri di sfiga. Tornato al sicuro dietro al terrapieno, Mirko si concesse di tirare il fiato. Gli sembrava di aver corso la maratona di New York da quanto gli facevano male i polmoni ad ogni boccata. Durante l’aggiramento della villa gli pareva di aver respirato solo due o tre volte. Si sedette sulla terra battuta e fece quello che avrei fatto anch’io: si tirò fuori una sigaretta e l’accese, anche se non riuscì ad apprezzarla pienamente. Così la spense premendola sulla terra e se ne accese un’altra dopo che il fiatone si era un po’ calmato. Arrivato a metà della cicca però, pensò che magari qualche occhio lungo alla villa avrebbe potuto vedere il fumo. Era un pensiero stupido ma tanto valse perché anche la seconda cicca andasse a fare la fine della prima. Mirko rimase fermo così, stringendosi nelle ginocchia, seduto sulla terra. I grilli continuavano a frinire. In cielo un uccello nero tracciava pigri giri, forse in cerca di una preda. «Mamma...» sussurrò Mirko. Era veramente solo, ora. Non solo come lo si è fra gli uomini, come direbbe il piccolo principe, ma veramente, intimamente solo. Perso in un mondo che non capiva, anzi: fra due mondi che non capiva. Sì, proprio come quando era piccolo e si perdeva all’ipermercato e chiamava mamma. La differenza è che ora nessuno gli avrebbe regalato un giocattolo per farlo smettere di piangere se la tensione gli avesse fatto traboccare il cuore. Si costrinse ad agire, scendendo a patti con la classe operaia delle sue membra che ormai minacciava scioperi e sit-in. Voglio solo vedere, disse Mirko ai protestanti, fatemi solo vedere che cacchio sta succedendo qui e poi vi do tante di quelle lasagne che neppure ve le sognate. Anzi, dopo mi sparo anche una sega e dormo fino a domani. Evidentemente il sindacato del pene di Mirko aveva ben più potere di quello dello stomaco e il resto delle membra in protesta sembrò acconsentire alle nuove pretese del padrone, seppure con qualche riserva. Così Mirko si trovò appiattito supino sulla terra, con la testa che sporgeva di poco oltre il terrapieno e il binocolo ben inforcato. Il retro della villa era a non più di cento metri davanti a lui ma sembrava che il servizio d’ordine non considerasse quella zona una probabile via d’attacco. C’era solo un gorilla che fumava (beato lui) e giocava con un grosso cane nero. L’alta inferriata che separava la villa del mostro dalla campagna era comunque un motivo sufficiente a scoraggiare ladri, assassini e mostri. Ma magari quei tizi servono a tenere le cose dentro, non a non farle entrare, pensò casualmente Mirko. Quell’ipotesi lo rincuorava un poco. Certo, che una sua “compagna di classe” fosse tenuta chiusa in una villa circondata da un piccolo esercito per la sicurezza del mondo esterno era un’ipotesi piuttosto forzata. E che, quando veniva a scuola la drogavano per farla stare buona? O c’era sempre qualche gorilla con lei che, non visto, la sorvegliava? Come di consueto quando si affrontano argomenti esistenziali, Mirko era andato in cerca di risposte e aveva trovato solo domande. Ciucciati questa bella fetta di condizione umana, caro Mirko, buon appeti… ma che cazzo stanno facendo quelli? Mirko si rannicchiò di scatto dietro al terrapieno, come fosse stato colpito da un sasso. Aveva visto… cosa aveva visto? Non riuscì a capirlo per un buon minuto, sembrò che la temperatura del suo corpo fosse scesa di qualche grado e il suo cuore… cazzo! il suo cuore non stava pompando, stava schizzando a 160 battute per minuto. Qualche bel genio aveva di sicuro inventato l’espressione “cuore in gola” proprio per la condizione di Mirko in questo momento. In gola? Nei timpani, nelle tempie, sulle costole, nelle palle. Mirko era un’unica pulsazione di paura e si accorse solo dopo mezzo minuto che da quando aveva visto quello che aveva visto non aveva mai smesso di sussurrare cazzocazzocazzocazzo come una sorta di mantra liberatorio. «Vado via» disse Mirko ai suoi sindacati. «Ziocane vado via e mi vado a mangiare le lasagne che saranno anche fredde adesso. Vaffanculo telefono anche alla Daria e stasera vado a fare un giro in centro e magari ci scappa una scopata. E anche una pizza. Mi compro una camicia nuova, mi ordino una marmitta nuova su ebay. Domani sto a casa, a letto tutto il giorno, sì faccio proprio così. Sto tutto il giorno a giocare a GTA. Non voglio più sapere niente di tutto quanto, cazzo». Ma erano promesse da demagogo scafato. Senza quasi rendersene conto Mirko era tornato nella sua posizione di osservazione. Fu certo, appena si accorse che non riusciva più a cedere ai suoi istinti più forti, che non era lui che conduceva il gioco. Era il mostro a volerlo là, a volere che lui vedesse. C’era un unico finestrone sul retro della villa e correva da un lato all’altro senza interruzioni, facendo la felicità di Le Courbuisier. Lasciava vedere un’unica grande stanza che da sola occupava quasi un terzo delle dimensioni totali della villa. Non era neppure una stanza, sembrava più una di quelle piccole discoteche alternative in cui entravi gratis il venerdì con la tessera. Difatti c’era gente che faceva festa là dentro. Una maledetta festa del cazzo, per così dire, di quelle che noi poveri mortali pensiamo che facciano i ricconi ogni giorno e che magari fanno veramente. C’erano persone, persone adulte, di ogni colore ed etnia che se la spassavano allegramente tutte insieme, dimostrando che l’unica vera soluzione al razzismo è la ricchezza. C’era un tipo simil giapponese piuttosto alto in camicia, con la cravatta legata alla fronte che ballava convulso con due tizie sorridenti che se non erano escort avevano perlomeno sbagliato mestiere. Un altro tizio vestito come gli sceicchi che si vedono al telegiornale inzuppava le mani inanellate in un vassoio di tartine. Accanto a lui, un occidentale con la faccia da faina abbracciato ad una stangona con due tette enfiate si preparava una riga di catalizzatore di socievolezza. Insomma, immaginate di vedere una di quelle feste vip a cui almeno una volta nella vita vi piacerebbe partecipare e collocateci i soggetti più tipici di quel genere di feste: l’attrice, il presidente, il filosofo della bella vita, l’armatore, il produttore, il calciatore, la stilista. Erano tutti lì, nella villa del mostro e ci stavano dando dentro parecchio. Ma questo, direte voi, non è spaventoso. Bé, ci sono modi e modi per vedere la cosa, ma certo... non era la festa in quanto tale che aveva fatto saltare il cuore di Mirko. Perché vedete, tutti i partecipanti al simpatico party, che comunque sia dalle mie parti chiamiamo orgione, avevano un bicchiere in mano. Un flute riempito di una sostanza bianca. E tutti ne bevevano e quando il bicchiere era finito andavano a prendere altro liquido bianco dal distributore. Solo che non era per niente un distributore: era Azra Ma, ferma come una statua, nuda. E la fonte di quel liquido di cui tutti erano così assetati erano le sue tettone, le sue grosse mammelle giallognole e gonfie. Mirko, un po’ ripresosi dall’impatto di quella scena inaspettata non riuscì ad osservare che per pochi minuti quella scena. Gli bastò vedere il giapponese alto e dinoccolato che si avvicinava ad Azra e le afferrava da dietro le tette e prendeva a strizzarle, a mungerle con violenza, gli bastò vedere due fiotti di liquido bianco che schizzavano dai suoi capezzoli (bizzarri arcipelaghi di carne marrone) raccolti in una caraffa da un lacchè in marsina. Bastò questo e già dopo un quarto d’ora si trovava a prendere la via giusta al bivio che l’aveva condotto alla casa del mostro. Bastò questo sì, ma non era l’unica cosa. Azra Ma. Azra Ma, per tutto il breve tempo della sua osservazione, non aveva smesso un secondo solo di fissarlo. Poteva essere un’impressione, d’altronde il binocolo del padre di Mirko non era così potente e l’espressione del mostro non era facilmente deducibile. Ma era inutile dirsi balle: il mostro sapeva, sapeva che Mirko sarebbe venuto, lo stava aspettando, anzi, l’aveva chiamato lei stessa ad assistere a quello scempio del raziocinio. Quella notte, Mirko non riuscì a dormire, e vorrei pure vedere. Non ci riuscì neppure inghiottendo una di quelle pastigliette di serpax che si prendeva sempre sua madre prima di andare a letto. Non ci riuscì i giorni seguenti. Non era lui che voleva fottere il mostro, capì Mirko, era il mostro che voleva essere fottuto. Da dove veniva lei era adorata, era una Dea cosmica e al suo cospetto le creature del buio compivano sacrifici di angeli, ora, qui, sulla terra, richiamata da chissà quale rito del cazzo, non era che una misera vacca da latte. Dalle stelle alle stalle, è il caso di dire: facciamoci pure due risate. La città Come sempre i giorni fecero il loro lavoro e passarono. Per Mirko ci furono giorni di scuola, sabati, domeniche, interrogazioni, pranzi e persino qualche scopatina. La Daria Cagli sembrava essersela messa via ed aveva ricominciato il suo tran tran di messaggini (suo moroso fortunatamente aveva ritrovato il cell), rossetti plasticosi e colluttorio con il nostro eroe. Evidentemente non aveva motivo di cambiare moroso: Mirko era ricco e carino e, novità delle novità, sembrava che ora prendesse anche dei bei voti a scuola. Nessuno dei morosi delle sue amiche doveva aver preso più di un cinque in qualsivoglia materia (se non in educazione fisica) e il suo Mirko aveva collezionato in meno di un mese un sei in fisica e, udiamo udiamo, un sette in italiano. Proprio cose di un altro mondo. E c’era stato anche un altro bel voto, ma questo la Daria non era certo intenzionata a farne parola con le amiche. Un sei e mezzo in filosofia. Dio, nella sua eterna gloria, dopo il peccato originale aveva posto inimicizia fra le ragazze come la Daria e gli uomini che andavano bene in filosofia. Perché un maschio che pensa non è un maschio vero e proprio. I maschi, per le ragazze come Daria, dovevano essere stronzi, fighi, un po’ muscolosi e niente più. Pensare era una cosa che non rientrava nei requisiti necessari all’accoppiamento. Sì, perché si comincia con un sei e mezzo in filosofia e poi, poi non si sa più cosa sta nella testa del proprio moroso. Non più calcio, tette e motori ma… altre cose. Cose che non c’entrano niente con l’essere figo, cose difficili, stridenti, paurose, diverse. E se suo moroso era diverso, così lo sarebbe stata lei. E se lei fosse stata diversa… apriti cielo e piovi fulmini! Cosa sarebbe successo? No, no, si diceva la Daria, Mirko è sempre il solito: ha sempre quel broncio così carino e i suoi occhi ogni tanto si fissano a lungo sulle cose, segno questo che il suo cervello è opportunamente spento, come quello degli altri fighi e non dà segno di accendersi. Su quest’ultima cosa degli occhi, la Daria non aveva certo torto ma nessuno le aveva mai dato gli strumenti per comprendere la differenza fra uno sguardo assorto e uno vuoto. Oddìo, non che sia facile come scriverlo. Assorto e spento. Una differenza che riguarda le vibrazioni che emette una persona, forse, la sua aura se vi piace credere a ‘ste cose newage. Perché quando pensi crei e quando crei qualcosa dentro di te nasce e brucia e produce radiazioni e queste radiazioni, ogni tanto, si avvertono anche al di fuori del tuo piccolo universo privato: rimbalzano fino a colpire coloro che ti stanno accanto, i quali, se particolarmente sensibili agli stimoli, capiranno. Per fortuna (ma anche no) i pensieri radiogenici di Mirko non trovavano riceventi predisposti se non forse in quella secchia di Zennaro che però non aveva certo intenzione di imbarcarsi nell’impresa di fottere il mostro. Il secchione inveterato, per quanto sensibile e ricettivo, aveva i suoi libri da usare come scudo per non vedere le cose brutte di questo o dell’altro mondo. In questo, non era poi molto diverso dagli stessi compagni che lo ghettizzavano. Tornando a Mirko, avrete capito che il suo sguardo fisso sul muro durante le lezioni o a casa o sopra (o sotto) la Daria non significava certo: “le trasmissioni riprenderanno il prima possibile”. L’intero suo cosmo roboante rivoluzionava attorno ad un’unica, spaventosa galassia chiamata: “Quello che ho visto a casa del mostro”. Era impossibile per il nostro eroe non rivedere in sogno o nella veglia quella scena malata. Azra nuda... quelle tettone da vacca... la gente che la mungeva... Per certi versi era un ricordo ben più terribile del sogno dei trenta morti soffocati. Perché, ziocane, perché per quanto folle e verosimile quello era un sogno. Nella casa del mostro tutto era reale, immerso fino alla testa nella realtà. A volte Mirko risentiva l’odore della terra battuta su cui si era sdraiato o il finire dei grilli nella calura. Era tutto così preciso nella sua testa da fargli credere di poter chiudere gli occhi e tornare laggiù, col cuore che gli scoppiava. Il resto, tutto ciò che gli stava intorno, la sua famiglia, la scuola, gli amici, la morosa, erano solo fantasmi opachi che gravitavano come forme ameboidi alla periferia del suo punto di vista. Ironico, se ci pensate, risvegliarsi da un coma ventennale per finire in un nuovo coma stramalato. Bé, qualche differenza fra i due coma c’è e se siete arrivati a questo punto magari lo potete intuire da soli, senza che prosegua questo pistolotto di studio dei personaggi. Anzi, direi proprio che siamo pronti per una nuova partita a “Immaginate”. Immaginate la gita di quinta. Ne avrete fatta una tutti e sicuramente la ricordate con nostalgia e un sorrisetto allusivo. Bé, non voglio entrare nella vostra testa più di quanto voi siete entrati nella mia ma la gita di quinta non è mai stata un’esperienza positiva per nessuno, a meno che non foste stonati dall’inizio alla fine ovviamente. Questo è l’unico modo per riuscire a mandarsi giù ore e ore di camminate in fila indiana, di cibo del cazzo, di ostilità indigena e di musei di cui, sinceramente, a diciott’anni non ce ne può fregare di meno. Per un adolescente la gita di quinta ha più o meno questi scopi: trombare o almeno provarci, distruggersi di alcol, droga o più probabilmente entrambi, non farsi sgamare dai prof che, anche se sono delle cariatidi muschiose, sicuramente sanno e immaginano già tutto. Ora, è possibile che là fuori ci siano dei loschi e spaventosi figuri che neghino di essere andati in gita per questi squallidi (io ovviamente non ci vedo niente di squallido) motivi: ebbene allora probabilmente la loro concezione della realtà è piuttosto carente. Ma non sono di certo qui per giudicare i mostri. Siete andati in gita perché veramente volevate vedere la Gioconda? Bravi, sono contento. Ma in questo momento sarà molto più contento il vostro analista. Bene. Messi giù questi essenziali paletti tematici, andiamo a dare un’occhiata a cos’è successo una settimana quasi esatta dalla partenza della gita in un posto che abbiamo già frequentato: la classe di Mirko. La campana della quinta ora stava per suonare e le gabbie stavano per aprirsi. Il solito prof amicone d’italiano s’intratteneva con quelle della seconda fila su qualche film strano che aveva visto, in attesa che il supplizio finisse anche per lui. Marra giocava con una strana consolle portatile che un suo cugino gli aveva portato dalla Cina, Teo guardava la lancetta dei minuti del suo orologio girare, ricevendone stranamente una sensazione erotica, Como era nel suo mondo fatto di niente (niente con l’aggiunta di qualche sporadica e anonima donna nuda) e Mirko pensava alle mammelle bistrattate del mostro. Il mostro stava zitto e fermo, come aveva fatto per tutta la durata di quell’anno, un monolite di carne piantato su una sedia. I compagni di Mirko, come anche buona parte di quelli del liceo, ormai aveva installato dei buonissimi firewall per bloccare ogni input proveniente da Azra Ma. Neppure la prendevano in giro, ormai. Semplicemente non la vedevano, come si cerca di non vedere il mendicante storpio al lato della strada o l’auto che ti viene addosso a duecento all’ora sulla tua stessa corsia, impossibile da evitare. Inutile dirlo: Mirko era l’unico che poteva vederla. Che volesse vederla, a dire il vero, anche se c’è da chiedersi a questo punto quanto la volontà del nostro eroe sia così importante in questa storia. «Allora ragazzi!» chiamò il prof amicone d’italiano (che si chiamava Rovati ed era soprannominato da tutti “il Rovus”), accorgendosi che l’ora, grazie a Zeus (come diceva lui) stava per finire. «Lunedì prossimo immagino ci sarà il massimo delle presenze per quest’anno…», risolini civettosi si udirono dalla fila delle secchie. «Sentite, sappiamo tutti cosa farete a Parigi, vero Signor Marrazzi?». Marra si scosse dal suo limbo fatto di bonus e guardò il Rovus, sorridendo stupidamente mentre la sua astronavina si schiantava. «Marrazzi, ma non ti stanchi mai di non ascoltare?» chiese il prof, sparando una bella cannonata sulla croce rossa: beccare Marra distratto era gioco facile, ma gli serviva per acquisire un po’ di quel fascino “io la so più lunga di voi” che il suo discorso voleva confermare. «Marra, cosa farai in gita?» chiese Rovus, avuta l’attenzione. Il Marra in questione pensò un attimo e poi sorrise tontamente e rispose: «Mi faccio la Zardi!». La classe rise e Rovus, quasi si aspettasse quella risposta accennò ad un rimprovero poco convinto con il dito indice della mano destra. La Zardi in questione, una delle secchie di seconda fila, una tipina bassa e antipatica ma con grandi e succulente tettone, fu l’unica a non ridere e platealmente si ficcò la testa sotto l’antologia d’italiano. «Ragazzi, ragazzi...» Rovus placò gli animi come un Cicerone che arringava il senato e continuò con la solita aria hei sono dei vostri: «…sono stato giovane anch’io qualche tempo fa e ai miei tempi le cose non andavano come adesso. Era molto più difficile imboscare la ganja!». Stavolta risero tutti, persino Como si svegliò dal suo coma eterno e sorrise. «Ma ricordate che non ci sono sempre io, se create casini non vi posso parare il sedere. Anzi: ci vado di mezzo io e sapete che qui non sono di ruolo. Quindi mi straraccomando!». Marra si trovò ad annuire, d’altronde si vantava spesso che il suo sistema per trasportare l’hascish per lunghe distanze in paesi stranieri era a prova di pastore tedesco. «Va bene, va bene» concluse il prof mentre suonava il libera tutti. «Lasciatemi le autorizzazioni dei vostri genitori prima di… signor Varich ha sentito, tiri fuori l’autorizzazione, il baretto la aspetterà un minuto!». Varich, che poi era il cognome del Teo, appena suonata la campanella finale, per uno strano gioco relativistico che avrebbe messo Einstein in scacco, si ritrovava già ad aprire la porta d’uscita. A malincuore estrasse, come i suoi compagni, l’autorizzazione firmata da papà per la partecipazione alla gita dalla sua cartella (che era più simile ad un marsupio) e la consegnò a Rovus. Mirko si attardò un poco, dato che non trovava l’autorizzazione né si ricordava di averla fatta firmare. Finalmente la rinvenne in una tasca interna di una tasca interna di un astuccio in una tasca interna della cartella ma, quando alzò la testa si accorse che Rovus era in piedi accanto a lui con la pila delle autorizzazioni in mano. I suoi compagni erano già scappati e in classe rimanevano solo lui, il prof e il mostro. «La trova signor Mirko?» chiese Rovus. Non aveva di certo più voglia dei suoi studenti di rimanere in quel posto un secondo di più. Mirko annuì e la consegnò, pensando che non gli piaceva per niente che un tizio adulto gli desse del lei e lo chiamasse signore. Sembrava una presa per il culo. «Buona giornata!» concluse Rovus poi e se ne fuggì dinoccolato. Mirko e il mostro rimasero in classe da soli e Mirko, per uscire, doveva per forza passarle vicino. Era strano, ma per quanto Azra Ma fosse stata nei suoi pensieri, non aveva mai avuto l’occasione di passare neppure un secondo da solo con lei a quella distanza. Il suo cuore sussultò mentre ricomponeva la cartella e si alzava dal banco. Doveva parlarle? Doveva chiederle che diavolo le stessero facendo quei tizi? Doveva chiederle se... se fosse veramente una specie di regina dell’inferno? Non ancora, si disse, ti prego non ancora. Devo ancora pensare. Devo ancora sapere cosa devo fare... Con passo lento e misurato, come se stesse tornando a casa alle sei di mattina (cosa che succedeva non di rado) passò accanto al mostro. Azra stava sempre ferma nella sua posizione, cercava di chiudere un suo astuccio di lisa pelle nera ma aveva qualche problema coi bottoni. Arrivato alla porta, una voce lo chiamò. «Miro». Non c’erano dubbi che fosse la stessa voce che l’aveva chiamato quella notte al festone di Siero, la voce che gli aveva pregato di scrivere qualcosa. L’universo di Mirko si scaldò all’istante, prendendo a bruciare come quand’era appena nato. La voce del mostro. La voce di Azra Ma che chiamava lui. E non era neppure la prima volta, ziocane. Mirko si voltò verso il mostro, cercando di guardare un punto alle sue spalle per non dover fissare il suo volto, che già vedeva scolpito indelebilmente in montagne enormi nei suoi incubi. Azra gli stava porgendo qualcosa, un foglio. L’autorizzazione per la gita. Rovus si era dimenticato che ci fosse anche Azra. Evidentemente il suo sistema operativo montava gli stessi firewall di tutto l’istituto. Mirko prese il foglio senza esitare e lo guardò. Era firmato con un nome giapponese e non poté che pensare al tizio che strizzava le tette del mostro alla festa. Magari era una specie di tutore legale. Non poteva essere suo padre, no. Perché Mirko sapeva che ci sono posti in cui i papà fanno cose brutte alle proprie figlie, ne spuntava uno al mese al telegiornale, ma sapeva anche che Azra non era proprio venuta fuori da una trombata fra esseri umani. Magari non era proprio venuta fuori. Dava proprio l’idea di esserci sempre stata, ziocane e… E poi, per sbaglio, Mirko fissò negli occhi il mostro per la seconda volta. Ma questa volta era così vicina, così vicina. Subito, istantaneamente, Mirko rivide il cagnolino Bud spalmato sull’asfalto. La ruota del Suv che l’aveva messo sotto l’aveva trasportato per un bel po’ prima di schiacciargli la testa definitivamente. Il suo cagnolino, sempre buono e allegro, che lo assecondava in ogni gioco era diventato un pennarello di carne e sangue con cui un tizio con molta fretta aveva graffittato la strada. Questa è Azra, pensò Mirko, questo è quello che ha fatto a Cagli. Ma forse non è lei che lo fa. Le cose che mi fa vedere sono quelle dove vive lei. Questo pensiero lo scosse stranamente. Si voltò senza dire una parola con l’autorizzazione del mostro e si diresse verso la porta. «Grazie Miro» disse Azra. «Prego» rispose lui in un singhiozzo. Raggiunse il Rovus che già stava salendo sulla sua Punto rossa e gli porse il foglio. «Cos’è?» chiese il prof. «L’autorizzazione di Azra, non l’ha mica presa prima». Rovati annuì, un po’ perplesso. Guardò Mirko stringendosi le labbra fino a farle diventare esangui. «Non la prende?». «Cerrrto!» disse Rovati, superando gli indugi e cercando di trovare il suo solito contegno da simpaticone. «L’età fa di questi scherzi, sai!». Prese il foglio e lo gettò sui sedili posteriori come se scottasse. Grazie, capitan Mirko!» disse, accennando un saluto militare. Poi chiuse il finestrino dell’auto e sussurrò qualcosa. Dopo poco sgommò via. Mirko rimase a fissarlo mentre se ne andava. Aveva inteso perfettamente il sussurro del prof. Lo aveva mandato a fare in culo. La settimana prima della gita passò senza nient’altro di notevole da segnalare. Se non una cosetta che vi dico solo perché ho sempre amato i gossip sessuali o magari no, magari ve la dico perché c’entra veramente col resto. Fate voi. Bé, sì dal caso che la bella e plasticosa Daria, la morosa del nostro, aveva annunciato a Mirko che per Parigi aveva progettato una cosetta eroticamente interessante. Con ottime probabilità, questa cosetta coinvolgeva quasi di certo Sandra, la migliore amica (pardon: compagna di shopping) di Daria. Per più di un lungo minuto dopo l’annuncio, i satelliti di Mirko si distrassero dall’osservazione del pianeta Azra Ma e presero a notare una nuova, interessante formazione che si chiamava: «Ziocane, me ne scopo due in una volta!». Eppure, per quanto il nostro fortunato bastardo (chiamiamo le cose col loro nome) già fantasticasse su posizioni, tette e lingue, la buona novella non gli riempì il cuore di gloria prematura né i pantaloni di precoce erezione come sicuramente sarebbe successo prima dell’avvento del mostro. C’erano cose più importanti per Mirko, in quel momento. E Daria e la sua amica non sapevano. Non sapevano niente di cosa stava succedendo. Non nel loro liceo ma nel mondo intero. Cazzo, in tutti i fottuti mondi. Perché sì, c’erano baci e carezze e lingue e tette dolci da succhiare e pompini e tutto il resto. Ma c’erano anche i mostri. E qualche giapponese matto ne aveva sguinzagliato uno proprio dove loro giocavano a fare i grandi, spassandosela un po’ prima che la loro moderna società esigesse di spaccare i loro giorni in cicliche iterazioni di otto ore, rendendoli più deboli per quando la televisione avesse cominciato a cancellare quel poco che gli era rimasto dentro. E gita fu, quindi. Quarantuno paia d’occhi di liceali assonnati sulla pensilina della stazione alle cinque di mattina. Li accompagnavano quattro paia d’occhi di professori che fingevano di non essere assonnati e altre paia d’occhi di genitori, parenti e della povera Kristen, venuta giù dalla Germania con tanti sogni e progetti e poi finita a fare da comprimaria in questa storia. Finalmente il treno arrivò, alle cinque e trentacinque di un lunedì di giugno. Studenti e prof si mossero: qualcuno scherzava, qualcuno si sentiva l’alito, qualcuno salutava i suoi, qualcuno li aveva mandati via per non fare figure. Salirono piano, ingombrati dai borsoni. Un inserviente laggiù, verso il punto di fuga delle pensiline si tirò il cappello sulla fronte e bestemmiò. Gli toccava proprio farsi dieci ore di viaggio con una cazzo di scolaresca. Mirko, con le maniglie del suo borsone targato Vuitton che gli segavano le dita, rimase un poco fermo a guardare i suoi compagni salire sul fantabuloso treno che li avrebbe portati in gita. Doveva finire la sua cicca e non c’era poi tanta fretta: sarebbero partiti solo fra un quarto d’ora. Sì, probabilmente avrebbe dovuto trovarsi un posto, ma Marra e Teo non avrebbero voluto nessun altro con loro nella loro cuccetta. Sì, se ne sarebbero occupati loro. «Non vai?» chiese Kristen. Mirko non rispose per qualche secondo. Stava ancora pensando al sogno che aveva fatto la notte prima della partenza. Un sogno che non vi descrivo perché, che diavolo, ogni tanto anche il nostro eroe ha bisogno di un po’ di privacy. E poi, a questo punto, dovete essere diventati proprio bravi ad immaginare. Mirko gettò la cicca per terra e tentò di spegnerla con un piede, ma era rotolata un po’ troppo distante e fare un passo con quel borsone era una fatica immane. Oltre a quello, aveva altri bei fardelli sulle spalle, montagne intere direi. «Secondo te esistono i mostri?» chiese alla sua accompagnatrice, anche se sarebbe stato giusto chiamarla balia a questo punto. O magari mamma. Kristen guardò il ragazzo come mai prima. O forse no, forse lei in fondo sapeva. Ecco perché i suoi occhi erano sempre così tristi. «Il nonno di mio padre era un ufficiale nazista» rispose Kristen, gettando anche lei la sua cicca (quasi certamente al mentolo) sui binari. Si rese conto che era la prima volta che lo diceva a qualcuno. Che diavolo, neppure la sua mutter lo sapeva. Kristen la immaginava impastare il pane nella sua bakerei ad Eisenach cantando i suoi aufviedersen. Aveva una voglia terribile di rivederla, di andarsene via da quel cazzo di posto ricco solo di nebbia e volgarità. Ebbe voglia di piangere, ma non l’avrebbe mai fatto, non davanti a Mirko. Il ragazzo accettò la confessione di Kristen senza quasi esserne colpito. In quel momento gli si formò però una nuova, piccola galassia profumata stranamente di pane. Una galassia che aveva il nome dell’unica persona al mondo a cui voleva bene, che gli stava accanto ora. Quasi glielo volle dire che le voleva bene. Era giusto, era quello che sentiva. Ma Mirko era un uomo e gli uomini non dicono certe cose. Le brutte abitudini sono dure a morire. Così sostituì il suo moto d’affetto con una veloce stretta di mano. «Stai bene, ti chiamo quando arrivo. Salutami Joino quando si sveglia». «Ciao» disse Kristen e sorrise. Nella nebbia, senza trucco, con gli occhi stanchi e le braccia incrociate sul piccolo seno, nonostante la pelle segnata dall’acne di un tempo, il sorriso di Kristen era la cosa più bella, viva e reale che avesse visto Mirko da tanto, tanto tempo. Si allontanò con passo spedito, come se avesse preso all’istante una decisione importante. Salì sul treno e fu accolto subito dal Teo, particolarmente su di giri. «Te la fai la tedesca? Eh? Ti fa le seghe?» gli chiese. Mirko vide che il compagno era già carico di whisky fino al monociglio. «Dove hai messo l’alcol?» chiese solamente. Teo sorrise e il suo sorriso era… era, che cazzo, faceva proprio schifo, non c’è altro modo per dirlo. Vorrei tanto parlare del viaggio in treno della quinta B per Parigi, ma il titolo di questa storia è “Mirko e il mostro”, non “Marra e la droga”. Vorrei tanto raccontarvi dove il prode signor Marrazzi avesse nascosto l’hascish e come, per bizzarre e alcoliche traversie fosse riuscito a pomiciarsi veramente la Zardi nel bagnetto del treno. Vorrei dirvi di come Teo collassò platealmente di fronte a Puzza dopo aver ripetuto urlando la definizione di un intorno di punti. E vorrei dirvi di come Como si fosse messo a piangere di punto in bianco verso le due di pomeriggio, dopo una fumata particolarmente introspettiva. E di come a Zenna vennero gettati i pantaloni dal finestrino, questa son sicuro che farebbe particolarmente ridere. Vorrei raccontarvi queste ed altre cose ma vi lascio il preciso compito per casa di immaginarle: un po’ di allenamento non fa mai male dopotutto. Vi starete però chiedendo, e ne avreste tutte le ragioni, del mostro e del perché non l’avete vista né ferma sulla pensilina del treno, né salire sul treno della gita. Non me ne sono dimenticato, se è questo che le vostre domande insinuano. Il fatto è che nessuno ha visto salire Azra sul treno anche se, dopo le dieci (ma sembravano più undici) ore di viaggio eccola lì su una pensilina della gare de Lyon, fra gli studenti della quinta b e della Quinta C. Oddìo, non proprio “fra”. Diciamo un po’ distaccata, diciamo a qualche passo. Diciamo pure a dieci metri. Sempre vestita al solito modo, come una reduce di tutte le guerre del mondo, provvista anche lei di un borsone che sembrava più un torso di qualche animale strano tenuto insieme da cuciture nere e bottoni d’osso. Quasi nessuno era riuscito a dormire molto, durante il viaggio. Puzza, Rovus, quella di francese della Quinta C che si chiamava non mi ricordo come, e Gonzo, il vicepreside (non era il suo nome naturalmente ma tutti, compresi i prof lo chiamavano così chissà per che motivo) avevano avuto il loro bel daffare a spegnere ogni occasionale sommossa dei loro studenti. Persino quelli più tranquilli non ci avevano pensato due minuti per scalmanarsi. Gli studenti stessi, dal canto loro, avevano dato fondo al peggio, come ci si aspettava. Erano state promesse note sul registro e sospensioni ma gli animi non si erano calmati. Solo verso le ultime tre ore di viaggio i vagoni riservati alle classi in gita avevano finalmente taciuto. Il sonno, l’ebbro e fumato sonno del coma era sceso sulle care testoline matte e, finalmente, anche i prof avevano assaporato il riposo del giusto. Mirko non era stato fra i ripresi. Aveva bevuto sì, era stato uno di quelli che avevano gettato i pantaloni di Zenna dal finestrino. Aveva rollato due o tre canne. Poi aveva abbandonato Marra e Teo quando le cose si stavano facendo cattive e aveva raggiungo la Daria. Non avevano fatto nulla, se non una piccola pomiciatina prima di dormire, la Daria gliel’aveva anche preso in mano ad un certo punto ma il pisello di suo moroso aveva deciso di addormentarsi prima del suo padrone. Così erano rimasti abbracciati fino al termine del viaggio e Mirko, forse, le aveva detto che l’amava anche se non era vero, anche se forse era per assicurarsi di essersi meritato il regalino che gli aveva preparato la Daria, anche se forse si sentiva solo. Così, quando il viaggio era finito, proprio nel momento in cui tutti stavano entrando in fase di sonno alfa, quelli che scesero dai vagoni ormai bisunti non oso descrivere come zombie solo per non offendere Romero. E c’era Azra, sì. A dieci metri dal gruppetto di reduci che si avviava stancamente al metrò c’era il mostro. Mirko l’aveva notata subito, appena sceso. E sembrava averla notata anche Rovus che si avvicinò al nostro eroe posandogli la mano sulla spalla. «Senti, ma te l’hai vista salire?» non aveva il solito tono mellifluo. La stanchezza gli aveva fatto venire fuori una vocina cattiva. Anche il suo alito puzzava di alcol, come quello di Teo alla partenza. «Chi prof ?» chiese Mirko. «Ma come chi?» Rovus strinse la spalla del ragazzo. «Azra Ma, mica l’ho contata quando siamo saliti». «E non ha chiamato i suoi che non l’ha vista?». «Ma pensa te. Ma senti, ma mi dici come diavolo faccio a stare dietro a quell’handicappata? Ti rendi conto che non è normale? I suoi ce la mollano così e non ci dicono niente, non li abbiamo mai visti i suoi». Mirko cominciava a svegliarsi un po’ e quello che stava succedendo non gli piaceva per nulla. Per cominciare, che diavolo poteva avere a che fare lui con Azra Ma? Voglio dire, noi sappiamo cosa Mirko avesse a che fare col mostro ma Rovati? Mica era anche lui così sensibile come Zenna da sentire come andavano le cose! O forse sì, forse lo era stato una volta prima che gli fosse uscita quella vocina cattiva. «Senta prof, io proprio non c’entro niente con Azra Ma» disse stancamente Mirko. «E poi se è qui vuol dire che ha pagato. Avrà fatto il viaggio per conto suo». Rovus si staccò da Mirko, allargando le braccia. «Dai che andiamo!» urlò Gonzo battendo le mani. «Ci siamo tutti? Dai, contatevi. Dai ragazzi veloci che è tardi! Chi è quello? È con noi?». «E magari non è così handicappata». Disse d’un tratto Mirko a Rovus, guardandolo negli occhi. Il prof stava già contando i suoi studenti e fece finta di non sentirlo. La metropolitana di Parigi alle cinque di pomeriggio: folla, puzza come di pneumatici bruciati, labirinti che corrono sotto alla città e luci al neon. Occhi che ti guardano perché sei italiano e tutti sanno cosa vuol dire che sono arrivati gli italiani. Gli italiani piccoli sono quelli peggiori, poi. Non hanno rispetto per niente, sono cattivi, urlano, fanno casino, bevono, si drogano. E fanno tutto con quei vestiti firmati da cafoni arricchiti. Si vede che non hanno un cazzo e ci sbattono addosso le loro firme come a pensare di essere i migliori. Mirko e gli altri, piccoli italiani all’estero in cerca di un posto dove posare il borsone. Un letto per dormire un po’ magari, anche se spartirai il letto con gente che russa perché ha bevuto troppo o che ti tiene su tutta la notte perché ha le pare, o tutte e due le cose. La maniglia della borsa ti sega la mano ed è un peccato che la Samsonite con le rotelle l’abbia presa papà. Fa tutto male perché la sera prima hai bevuto e fumato troppo e qui nessuno ti vuole. Te lo dicono gli occhi del concierge della pensione Chevalier, una bettola quasi alla periferia, l’unico posto che vi ha voluto, l’unico posto che vuole gli italiani piccoli, firmati e matti. Mirko sente la prof di francese parlare con il concierge e non capisce un cazzo di quello che dicono. Le parole sono diverse, i suoni innaturali. Daria gli sta attaccata al braccio e parla costantemente a Sandra, la terza comoda incomoda. Hanno visto vetrine arrivando e vorrebbero svaligiarle, sperano che Puzza e Rovus le lascino una giornata per farsi i cazzi loro cioè in fondo abbiamo pagato e siamo maggiorenni e possiamo fare quello che ci pare. Marra e Teo, distrutti e incazzosi che non smettono di dire quanto sia schifosa una città piena di negri. Como ancora con le lacrime agli occhi e nessuno vicino a lui. Tutti hanno paura quando uno prova qualcosa, si allontanano come fosse appestato. Zenna triste e serio. Le secchie perse in qualche leccaculismo con Gonzo. Sporadici discorsi che entrano nelle orecchie di Mirko, aumentandogli il malditesta. E speri che non ti venga la febbre. È da un po’ che stai male, no? Che hai questi brividi. Eppure fa così caldo. E poi c’è qualcosa dietro il naso che vorresti grattare con la lingua ma non puoi. E chissà dov’è Azra Ma. Sicuramente laggiù, da qualche parte. E sai che devi fotterla, con il cazzo o con la pistola. In qualche modo devi riuscirci perché non va bene che stia qui. E hai questa strana sensazione che neanche a lei piaccia tanto stare in un posto dove ti mungono come una vacca. Via, camere assegnate. Maschi con maschi, si raccomandano i prof. Io non voglio stare con Zenna dice Bisiol, che è uno di quelli che non ha proprio nessuna importanza in questa storia. Mi raccomando che vi veniamo a controllare, dicono i prof. Ma non potrete controllarci per sempre, non vi pagano abbastanza per prendervi cura delle nostre verginità già sverginate. E si va su, una scala a chiocciola infinita, scura, dai larghi gradini ricoperti di linoleum giallo o grigio. Ai lati della scala vedi corridoi che si aprono e si biforcano, un altro labirinto. Ancora un’immensa, immensa fatica con questa merda di borsone. Passarlo di mano in mano non serve più, ormai entrambe le mani sono un’unica fitta. Noi stiamo qui eh Mirko dicono Daria e Sandra, le due che devi scoparti assieme, una è anche tua morosa se ricordi bene. E perché diavolo non c’hai più voglia adesso? Dai che ne hai! Non ti viene duro al solo pensiero? Ma cosa ti è successo Mirko, non ti riconosco più. Una volta ti ricordavo con una faccia a pugno chiuso, gli occhi torvi, l’intera faccia corrugata. Eri anche più abbronzato. Avevi gli occhi spenti, sì, ma ti è convenuto accenderli e perdere tutto il resto? Quel Mirko non sarebbe stato male. Magari avrebbe piantato un casino per avere la Samsonite con le rotelline per la gita, così adesso non avrebbe le mani rigate da due strisce rossastre. Quel Mirko era un figo. Questo invece è palliduccio anche se conserva la sua bellezza e la sua mascella dura. Sa ancora fare quello sguardo torvo sì, come prima a Rovus, ad esempio. Ma la sua faccia non è più un pugno d’odio. È una faccia attonita, sorpresa, stanca. Un poco spaventata forse. E ti rendi conto, amico mio, che la tua vita è come questa scala che spero un giorno finirà, una spirale buia buia che ti da solo l’impressione di andare da qualche parte. Finalmente camera tua. Bella grande, con due letti matrimoniali. Già scura, nonostante siano solo le sei e mezza di sera. Linoleum che ricopre tutto. Il soffitto, cristo, sembra fatto di plastica. Una macchia di bagnato si spande in un punto. E ti proibisco di pensare che al piano superiore abbiano ucciso qualcuno e quella non sia affatto una macchia d’acqua. Sono io lo scrittore, non tu. Marra Teo e Como sono in stanza con te, chi ha fatto gli assegnamenti delle camere deve essere un completo psicopatico. Ti riposi un attimo, giusto un attimo. Magari ti prendi un’aspirina, pensi. Finalmente le mani riposeranno un poco e chissà con chi è in camera il mostro. Finalmente un po’ di riposo pensi, ma subito Marra si risveglia dal letargo e si mette ad offendere i passanti dalla finestra con l’unica parolaccia che sa di francese, no: con l’unica parola che sa di francese. Teo ti si ficca con la bocca all’orecchio e dice che bisogna nasconderla cazzo, bisogna nascondere subito tutto che ho sentito che una volta i prof hanno perquisito le borse quando i fioi non c’erano e bisogna metterla nella cassetta del cesso lui sa come. Sì, gli dici Mirko. Fai tu dai che sai meglio di me, lo lusinghi. Teo è tutto contento e si dà da fare all’istante. Giusto un attimo e pensi che hai proprio la febbre, una brutta febbre che chissà come hai preso, magari sono proprio i pensieri che fai che te l’hanno messa. L’universo che gira e tutto il resto... ma non hai voglia di pensare neanche a questo. Como è sdraiato accanto a te e già russa. Teo urla no, nooo, nooooo e Mirko vede che sta guardando Marra che si è tirato fuori il cazzo e lo mostra dal balcone, urlando la sua parolaccia in francese. Cristo se stai male, se ci fosse Kristen saprebbe cosa fare ma sei da solo, lì, sei con i mostri. E magari Azra Ma non è neppure il mostro peggiore a pensarci proprio bene bene. Pensa a Daria e Sandra, con le bocche plasticose e le unghie rosse. Non voglio che mi tocchino, pensi. Ma cosa? Sei diventato anche una checca adesso Mirko? E forse hai ragione, non è questione di checca o no. Ed entra... no, non entra, irrompe Puzza nella camera e non è mai stato così incazzato, ha la faccia rossa rossa e prende... no, non prende, afferra Marra per l’orecchio così, con il pistolino ancora fuori e Puzza dice, no non dice, urla un porcone assurdo e a Mirko verrebbe quasi da ridere se non stesse così male. E Puzza dice che Marra si è fottuto la maturità, Puzza parla male e dice le parolacce ed è proprio arrabbiato, Marra si tira su la zip e in faccia si vede che pensa di aver vinto ma ha solo fatto una cazzata, come quella volta del banco. E c’è anche la prof di francese che è un po’ carina e dice che quel ragazzo si sente male. Tu la guardi e capisci che quel ragazzo sei tu. Ti mette la mano sulla fronte e mio dio è così fresca, e profuma anche di cuscino appena lavato. Chiudi gli occhi e senti Teo che dice che ti ha visto strano, che dovevi essere malato già da prima perché stavi buono. Buono. Stavi buono. E Puzza fa una voce dolce, tutta il contrario di prima con Marra, Puzza fa la voce dolce perché pensa che è per merito suo che sei diventato bravo. Pensa che i suoi voti belli ti abbiano reso buono. Ma Puzza non sa che se ti viene fuori un universo così grande in testa c’è tanto posto per mettere apposto tutti i suoi numeri e le formule e le regole e le funzioni. Ci sono anche delle controindicazioni, però. E la prof dice che è meglio che non vieni a mangiare fuori e a vedere la tour che s’illumina, che forse sei solo stanco per il viaggio ed è meglio che ti riposi e tu le dici che lo gradiresti molto e lo dici proprio così. Dici: «Lo gradirei molto». E lei ti guarda con un’espressione strana. I ragazzi non parlano così e tu sei un ragazzo strano, Mirko. Ma forse hai solo un po’ di febbre. Puzza torna a gridare e manda fuori dalla stanza Marra e Teo, che raggiungano gli altri da basso, gli ordina. Poi sveglia anche Como, lo sveglia di brutto, scuotendolo come si scuote un albero di patate, ma gli alberi di patate non esistono, Mirko. E neanche gli angeli e i diavoli. Forse hai avuto solo una lunga lunghissima febbre. E la prof di francese dice stenditi che prima che partiamo ti porto un aspirina e ti faccio fare un tè. E tu hai all’improvviso tanto sonno, quando resti solo. Ti togli i jeans che hai addosso da chissà quante ore, ti togli la maglietta e resti a torso nudo. Cerchi una canottiera nel borsone perché non vuoi che quella di francese ti veda tutto nudo così, la trovi e ti ficchi sotto le coperte. E sono coperte che frusciano e ti grattano la pelle. Non è un bel posto per stare male quello, ma almeno sei da solo, non c’è nessuno che ti vuole mangiare con labbra plasticose, o che ti ficca una bottiglia o un cannone in gola, nessuno che ti vuole far fare cose che non servono a niente. Perché, ziocane, perché non capite che Azra Ma è il demonio e qualche giapponese malato l’ha chiamata qui perché vuole popparsela e chissà cosa. E voi andate in gita a Parigi, andate a mangiare fuori, andate a vedere la tour e parlate di equazioni e sintagmi e stipendi e shopping e non vedete neppure che cazzo avete a un passo di distanza. O a dieci metri, fa lo stesso. Torna quella di francese e ti da il tuo tè. È buono e c’è qualche biscotto strano. Lo mangi e dici grazie, poi prendi due aspirine e dici grazie. E la prof di francese dice di riposarti ma sa che non potrai farlo per molto perché prima o poi, quella sera, torneranno dalla cena e dalla tour e Marra e Teo si fionderanno in camera a fare casino. E tu stai male e non vuoi sentire proprio cazzate. Così dici grazie ancora, e dici che adesso riposerai e lei chiede se può stare tranquilla e tu dici di sì e chiudi gli occhi sul cuscino che sa di teste altrui e forse ancora prima che la prof se ne sia andata sei già addormentato. E il sonno non è come quelli brutti di chissà quante notti prima. Non c’è la pianura infinita e nera, né i mostri, né le montagne con le facce antiche. Ci sei tu, a torso nudo com’eri prima e sei proprio nella stessa stanza della pensione Chevalier, cioè non è la stessa stanza identica, è più piccola e accogliente e pulita. E non entra la prof di francese dalla porta, né Puzza. Entra dentro Kristen in una vestaglia lunga e tu non sai se hai mai visto una vestaglia leggera così e pensi come diavolo faccio a sognare una cosa che non ho mai visto, così perfetta, con le pieghe che si muovono così e quel piccolo orlo di pizzo sulla gonna. E Kristen si avvicina, non ha più la pelle butterata e porta i capelli più corti e più scuri, ti bacia con un bacio vero. Non ti ficca una lingua di chewinggum in bocca ma ti bacia come se ti amasse e magari anche tu ami un po’ lei, perché ti sta vicino e si prende cura di te. E Kristen fa scorrere le dita sul tuo petto, ti accarezza i capezzoli e tu la baci ancora, finché la vestaglia non c’è più e neppure i tuoi boxer e vi sdraiate sulle coperte che non frusciano più ma sono così fresche, come le braccia di Kristen e senti che il tuo pene entra dentro di lei, entra bene, senza fatica come con Daria. E si può magari stare per sempre così, non ci sarebbe niente di male. Una vita dentro a Kristen così, perché così nessuno può lasciarti solo, nessuno ti tira a duecento all’ora contro una vita che non serve a niente contro i mostri. E sì, si potrebbe stare per tutta la vita ma c’è una voce che ti chiama. E mi sa che adesso è il momento, perché tu sai benissimo di chi è quella voce. La stessa che ti ha chiesto di scrivere. E te ne devi andare, ti devi sciogliere dall’abbraccio di Kristen perché non si può più aspettare. Perché la voce dice che vuole solo te. Senti? Dice: «Miro, vieni. Sono qui». Sì, mi sa che adesso siamo arrivati. Mirko passò dal sonno alla sveglia lentamente, senza scossoni. Si alzò sul busto. La stanza della pensione era buia ma sentiva i respiri di Teo e Marra sul letto matrimoniale accanto al suo. Como ronfava vicino a lui. Quante ore erano passate? Si alzò ed ebbe una piccola vertigine, ma niente di grave. Anzi: gli sembrava che la febbre gli fosse un po’ passata. «Miro» chiamò la voce. Era ora, era proprio ora, pensò Mirko. Cercò nel buio la sua valigia e ne recuperò un paio di pantaloncini, li indossò e dopo poco fu fuori dalla stanza. Accostò la porta, prevedendo o sperando che sarebbe ritornato al più presto. Non sapeva cosa fare, naturalmente. Non l’aveva mai saputo veramente. Era Azra Ma che conduceva il gioco. In fondo era logico: lei era una Dea e lui un ragazzino. Così scese la scala a chiocciola nel buio. Sentiva il linoleum caldo sotto i suoi piedi. Dai corridoi venivano rumori ovattati di ragazzi che sussurravano o che russavano. Cercò di non pensare a nulla, l’unica cosa di cui era sicuro era che finalmente quella notte si sarebbe liberato di un peso. Avrebbe fottuto il mostro. Così scese piano piano, attento a non cadere e non fu stupito quando arrivò in un punto in cui l’unico suono era il suo respiro e il buio era diventato completo. Stava andando giù. Proprio giù. Scommise che neppure quelli della pensione Chevalier sapevano di avere quei piani interrati. Poi i gradini finirono e con loro finì la discesa di Mirko. Davanti a lui s’intravedeva una luce in fondo ad un breve corridoio. La stanza di Azra Ma, la stanza del mostro. Mirko continuò a camminare, senza esitazione. Neppure per un secondo aveva mai pensato di tornare indietro. Era sotto un incantesimo? Magari, ma questo non aveva importanza. La luce proveniva da oltre una porta socchiusa. Eccola, Mirko ci poggiò le mani sopra e l’aprì, entrando nella stanza del mostro. La camera di Azra era più piccola della sua ma senza finestre. Era un loculo di linoleum in cui c’era un unico letto matrimoniale, una sedia e un comodino con sopra un televisore. Il lucore che l’aveva guidato veniva proprio dal televisore, che ora trasmetteva un cartone animato giapponese in bianco e nero, senza audio. Azra era seduta sul letto e stava guardando il cartone. Mirko sobbalzò quando si accorse che la vestaglia che portava il mostro era molto simile a quella che portava Kristen nel sogno che aveva fatto poco prima. Si fece coraggio e si avvicinò ad Azra. «Miro», chiamò lei. La sua voce non aveva espressione. «Ti piace Dragonball?». Mirko si rese conto che Azra era riuscita ad imparare bene la sua lingua, dopotutto. Certo, i professori non l’avevano mai interrogata, né pretendevano che lei parlasse. Nessuno lo pretendeva. «Lo guardavo quand’ero più piccolo. Ma ho visto tutta la serie», rispose. Azra non si girò, i lunghi capelli neri le coprivano le spalle incurvate. Ancora, sembrava una roccia, una statua, qualcosa che era stata piantata lì miliardi di anni prima. «Qui è quando Goku diventa terzo livello e gli vengono tutti i capelli lunghi». Mirko si avvicinò, per qualche ragione non gli pareva per niente strano di stare parlando di Dragonball con una specie di antico demonio in una stanza che probabilmente neppure esisteva. «Me lo ricordo, è quando va a combattere contro Majin Bu, vero?». «Sì, è perché gli altri si stanno ancora allenando». Ci fu un silenzio. Azra sembrava assorbita dal cartone e Mirko non sapeva che fare. Avrebbe potuto allungare le mani e strozzarla, non sarebbe stato difficile. Forse no, già. Ma quel corpo non era umano. «Muoio se lo fai», disse Azra. Gli aveva letto nel pensiero e questa fu la seconda cosa a far sobbalzare il cuore di Mirko. Un bel risultato per quella situazione. «Se faccio cosa?» chiese il ragazzo, fingendo di non aver capito. «Se mi strozzi muoio». Ci fu un altro silenzio e Azra rise per una scena comica. Mirko si sedette vicino a lei, sul letto. Si sentiva di nuovo un po’ stanco e aveva voglia di dormire. Non percepiva alcuna sensazione di pericolo. E... c’era questa cosa. Azra odorava di buono. Non profumava ma neppure puzzava. Era una strana scoperta: Mirko aveva sempre pensato che il mostro puzzasse come la più infima cloaca. Guardarono insieme la fine della puntata e a Mirko non venne neppure in mente di chiedere perché Azra la stesse guardando in bianco e nero e senza audio. Poi Azra premette il tasto di un telecomando che aveva in mano e la tv si mise a trasmettere un semplice effetto neve. «Non mi vuoi fottere?», chiese il mostro. «Hai scritto che mi volevi fottere». Mirko ci pensò su. E penso anche alla scelta che gli aveva dato Como. Certo, se non la fotteva con la pistola o con le mani, strozzandola… «Non sono tanto sicuro», ammise Mirko e scosse la testa. «Io non posso stare tanto qui». «Perché ti fanno male?». Mirko cercò di mettere un po’ di dolcezza nel suo tono, ma non ne era molto abituato e gli uscì un’intonazione strana. «Nessuno mi fa male» rispose Azra. «Io non sento niente». Ancora silenzio. Fra Mirko e il mostro c’era un incolmabile universo di distanza. «Perché mi hai chiamato qui?» chiese Mirko. Il mostro sembrò scuotersi a questa domanda. Poggiò il telecomando e si strinse le spalle con le mani tozze. «Hai scritto che mi volevi fottere» ripeté Azra. «Non so cosa vuol dire quella cosa». «Io sì. E vuol dire una cosa brutta o una cosa bella. E se non sei sicuro che vuoi fare la cosa brutta allora vorrei che mi facessi la cosa bella». Il mostro parlò tutto d’un fiato. Il suo tono non era più così monotono. Sembrava quasi intimidito. «Tu sei bello, Miro» disse il mostro. Dette impressione di voler voltare il capo verso di lui ma si trattenne. I lunghi capelli impedivano a Mirko di vedere il volto orribile di Azra Ma, il volto del demone. «Io una volta ero bella anch’io» continuò Azra. «C’erano le stelle e cantavamo. Poi non so cosa è successo. Nessuno mi ha spiegato». «Io non so come fare...» sussurrò Mirko, ora cominciava ad essere intimidito pure lui. Non avrebbe mai potuto fare... sì, fare l’amore con Azra Ma. Il mostro cercò di nuovo di voltare il capo e Mirko ne ebbe pietà, ma era così inorridito al pensiero di vedere il volto del mostro che non riuscì a scostarle i capelli per darle il permesso di guardarlo. E forse, se dovevano fare la cosa bella, era meglio per lui non guardarla ora. Mirko sapeva che anche Azra Ma ne era conscia. Il mostro si mosse piano, mettendosi carponi sul letto. Si sollevò la vestaglia scoprendo il grosso sedere rugoso. Lì, nell’oscurità fra i suoi glutei molli, c’era l’entrata della sua vagina. «Io sto qui, Miro. Tu prendi il tuo tempo, qui hai tutto il tempo che vuoi. Non siamo in un posto attaccato a tutto il resto». Mirko volle protestare ma tacque. Ripensò alle parole di Azra: una volta ero bella anch’io e per un attimo venne investito da una visione incredibile. C’erano le stelle, sì, le stelle lontane e colorate che aveva visto sopra di lui durante il viaggio nella pianura infinita ed erano vicine, vicinissime. E c’erano creature grandi come pianeti che volteggiavano fra quelle stelle, creature bellissime con ali e capelli di pura luce. Angeli. Azra una volta era uno di loro, poi era successo qualcosa. Nessuno ha spiegato. Mirko si tolse pantaloncini e boxer, sentendosi un po’ stupido nella semioscurità silenziosa della stanza ai confini del mondo. Il suo pene proprio non se la sentiva di alzarsi, né lui sapeva a cosa pensare per eccitarsi. Era tutto così strano. E anche un po’ triste. E pensò anche che non c’era nessun incantesimo, non era un gioco che faceva Azra. Forse qualcun altro aveva giocato con lei e stava ancora giocando con loro. Mirko si prese il pene con la mano destra e cominciò a masturbarsi. Il mostro attendeva silenzioso. Dopo qualche tempo, la masturbazione cominciò a funzionare. Qualcosa si scaldò nel ventre di Mirko, un pensiero di Kristen che lo abbracciava fece la sua comparsa. Ebbe voglia di un contatto fisico, non solo di un pensiero. «Per favore, vieni indietro sul bordo del letto. Vado meglio così» chiese al mostro e lei eseguì. Prima che quella distrazione togliesse vigore alla sua erezione, Mirko guidò con la mano il suo pene semieretto lungo la scanalatura nera fra i glutei del mostro. Immaginò il sedere di Kristen, un bel sedere morbido, immaginò il contatto con la sua vulva. Questo gli servì molto di più. Il mostro si mosse per fargli trovare la strada e Mirko la trovò accogliente e calda. Prese i fianchi di Azra Ma e le entrò dentro. Sarà il caso di andarsene ora: vi prego solo di immaginare che ci fu amore, perché ce ne fu. Al termine non ci furono né svenimenti né opportune dissolvenze narrative. Mirko si staccò da Azra Ma e i due parlarono un altro po’. Il ragazzo si accese una sigaretta (non si era accorto di averle in tasca, assieme all’accendino) né offrì una ad Azra ma lei rifiutò. Poi, passato un po’ di tempo, Mirko tornò nella stanza che gli avevano assegnato. Rifece le scale al buio, trovò quasi per miracolo la porta della sua camera e vi entrò. Como stava ancora russando, così come Marra. Teo, come si poteva dedurre dai forti conati che provenivano dal bagno, non stava avendo proprio una buona nottata. Mirko non si mise sotto le coperte, avrebbero frusciato e a lui proprio non andava. E poi gli facevano male quelle brutte coperte. D’altronde faceva abbastanza caldo per dormirci senza. L’indomani sveglia presto e poi un po’ di Parigi per tutti. Giusto un pochino. Tutti i compagni di Mirko ricordarono la gita di quinta a modo loro, come succede sempre. Chi già la chiamava mitica, dimostrando quanto le nuove generazioni avessero bisogno di miti, chi l’aveva considerata una noia mortale, chi addirittura un rompimento estremo di scatole. Chi aveva sfruttato l’occasione per fare shopping in negozi che ci sono anche in Italia perché, come dire, comprare italiano a Parigi è sempre una figata, chi aveva cercato in tutti i modi di trombarsene una o almeno pomiciare e non c’era riuscito, chi c’era riuscito (e probabilmente apparteneva alla categoria della “gita mitica”), chi non si ricordava un emerito bit di tutta la situazione perché era fatto duro, chi aveva tossito sangue appena tornato a casa. Poi c’era Mirko. Oh, adesso non pensate che il fatto che il nostro eroe stia compiendo un percorso di maturazione e illuminazione personale lo renda ora un essere superiore. Mirko aveva fatto Mirko anche dopo aver fottuto il mostro, anche se non l’aveva fottuto proprio come aveva pensato. Forse, quello che era successo nella stanza a qualche passo dalla realtà era stata una cosa troppo grande. Una cosa che anche l’universo interiore di Mirko cercò per di nascondere, di rimuovere. Perché in una notte vi può succedere di tutto e, se conosco bene chi mi legge, sono sicuro che sapete di cosa sto parlando. Ma sono rare le volte in cui si viene rapiti da una gran luce nel cielo, o si vede un fantasma che, con passo leggero, si siede sul vostro letto; o si riceve una chiamata da un amico che si è appena schiantato con l’auto dieci minuti prima, morendo, o si fa l’amore con la regina dell’inferno. Eppure queste cose succedono. Forse sono balle. Ma ognuno ha la sua storia di fantasmi e dischi volanti da raccontare. Ecco, Mirko non aveva per niente voglia di raccontarla, la sua storia, e aveva anche un po’ paura per la verità. Così della gita a Parigi ricordò che dopo il primo giorno di febbre poi era stato benissimo come non era stato da tanto e che poi lui Marra e Teo (stradistrutto) avevano fatto i deficienti in giro per Parigi deridendo i passanti e che avevano fatto incazzare persino Rovus e quella di francese. Ricordò che avevano visto noiosissime cazzate: musei e musei pieni di cose vecchie e morte tra i quali si salvava solo un museo di arte moderna che forse si chiamava Pompadour (immaginate le risate) in cui c’erano delle cose assurde, tipo una ruota di bicicletta sopra uno sgabello e, ziocane, Marra aveva preso e si era messo a far girare la ruota. Mirko ricordava di essersi seduto da quanto rideva mentre tutti gli allarmi del Pompadour suonavano e più suonavano più lui rideva e Gonzo e Puzza erano talmente incazzati da essere diventati pallidi pallidi. E poi ricordava un grande grande grande male ai piedi, sempre su e giù per quelle scale, dentro e fuori dai metrò, chilometri e chilometri di sculture, di quadri, di torri e archi. Ricordava gli occhi della gente, gli occhi che ti odiano, che vorrebbero che te ne tornassi a casa perché non parli come loro, e nessuno che si sforza a parlare almeno più lentamente. Che cazzo, non siamo mica mostri, noi! Non siamo mica come... E poi ricordava che una sera si erano fatti i bonghi, un’altra si erano scolati tre litri di Jack Daniels in quattro, un’altra Marra si era preso un quarto di cartone e alle quattro di notte si era messo a dire che vedeva Dio, ma, se mi capite non vedeva solo Dio, vedeva dio con un sostantivo attaccato e non è proprio una cosa che vorreste leggere quello che vedeva Marra, fatto sta che quella notte si era svegliato tutto il quartiere ed erano venuti anche i carabinieri dei francesi perché, ziocane, sembrava proprio che lo stessero squartando il Marra da quanto urlava. Urlava tanto che neppure Teo e Mirko ridevano più e si erano messi addosso una paura terribile. E la gita era finita così, con la terribile bestemmia di Marra e mentre lo vedeva tutto rosso in faccia, a petto nudo alla finestra, trasfigurato dall’odio per quella città aliena, Mirko tornò nel suo universo, quello che aveva finto di dimenticare per non dover più tornare sul pianeta “Mirko e il mostro”, con quella “e” che significava tanto e tutto, e capì che l’urlo di Marra era l’urlo di tutti loro, ragazzi perduti, senza padre né madre, senza amici e cervello, cresciuti in scatole e provette come galline in pollai, stretti stretti l’uno con l’altro e distanti interi universi. Era l’urlo di Joino che giocava a dedoralaiv con la bavetta alla bocca, erano i vermi che pungono che Cagli si era ritrovato addosso, il carcere di Pugno, la casa di Siero, le scie che uccidevano della Renza, la puzza di Tozzello, il nonno del padre di Kristen, era il male di un mondo che se n’era andato giù per il cesso per qualche motivo che Mirko non sapeva ma, che cazzo, per quanto avesse cercato di non vedere e non provare niente, era del tutto inutile perché c’era Azra Ma e Azra sarebbe sempre tornata nei suoi sogni (non più negli incubi) e gli avrebbe fatto capire che così le cose non andavano proprio, non andavano per niente. Perché una volta era bella e cantava fra le stelle con capelli d’energia e ali grandi quanto galassie. E sì, come ho detto, la gita finì così. Mirko Siete bravi lettori, lo so, forse più bravi di quanto sia io a scrivere e a questo punto so che mi starete per fare due domande. Sarò ben lieto di rispondervi. La prima: ma poi Mirko si era fatto la Daria e la Sandra? Eh, vedete che vi conosco? Mi piacerebbe quasi quasi non dirvelo, dirvi di immaginarlo, ma non vi farei mai un torto così grande. Dunque, la risposta è no, purtroppo. Certo, Mirko aveva avuto la soddisfazione di amare (che parola sprecata in quest’occasione) la sua ragazza a Parigi, ma niente ménage à trois. Semplicemente, alla Sandra erano venute. O forse non se la sentiva ancora. Bé, tutto qui. Non credo di dover dare altre spiegazioni su quest’argomento. La seconda: e Azra Ma che fine aveva fatto? Bella domanda questa. Se n’era andata il terzo giorno. Pensate: suo “zio”, come l’aveva chiamato Rovus quando Mirko aveva chiesto spiegazioni durante il viaggio di ritorno, era venuto a prenderla con una Bmw nera nonsochemodello. Lo “zio”, chiaramente un giapponese, parlava italiano con uno strano accento Milanese, aveva spiegato al prof che aveva degli affari da sbrigare in un posto che si chiamava Rouen o una cosa così e che Azra gli sarebbe stata utile come traduttrice. Rovus, anche se dubitava di qualsiasi capacità intellettiva (figuriamoci traduttiva) di Azra, non vedeva l’ora di scollarsi di dosso il mostro. Era amicone di tutti, sì, ma a tutto c’è un limite, no? Così Azra se n’era andata e Mirko non l’aveva neppure notato fino a metà strada del viaggio di ritorno. Fu in quel momento che Mirko tornò a diventare l’uomo che stava diventando e forse è meglio che andiamo a darci un’occhiata di persona. Il treno del ritorno. Dov’erano? Forse già a metà strada. Quante ore erano passate? Mirko non lo sapeva. Stava male ma non come quando era arrivato, quello era più un malessere esistenziale, forse magico, forse ontologico, già. Ora Mirko stava male perché aveva esagerato. Aveva profonde occhiaie e un tizio con un martello pneumatico si divertiva a scavargli buche prima su una tempia e poi sull’altra. Dello stomaco meglio non parlarne: se avesse bevuto una bottiglia di candeggina forse si sarebbe sentito meglio. Gli pulsava anche il fianco destro e questa era la cosa che lo preoccupava di più. Se ne stava perso a guardare dal finestrino con la Daria che dormiva appoggiata alla spalla, ora. Non pensava a niente, come quando l’abbiamo conosciuto. La notte, fuori, correva e c’era un gran silenzio. E sì, anche lo sferragliare del treno era silenzio. Non so cosa o come tornò a pensare alla notte di “Mirko e il mostro”. Forse successe casualmente, forse aveva visto qualcosa di strano, fuori dal finestrino, una luce rossa lontana. Forse non poteva più rimuovere. Si chiese che fine avesse fatto Azra Ma, se fosse con loro, sul treno. Pensò che fosse il caso di andare a parlarci, magari per riuscire a capire tutte le cose che non aveva capito finora: il giapponese che le strizzava le tette, i trenta morti soffocati, il sogno, l’amore che avevano fatto. Così prese la testolina di Daria e la fece sdraiare delicatamente. Lei non si lamentò, anche la ragazza sembrava distrutta: non aveva neppure un filo di trucco ma era bella comunque, coi capelli biondi che le scendevano sul viso e le braccia attorno alla vita per cercare il calore che il suo ragazzo non sapeva darle. Le volle bene, in quel momento e si ricordò di tante cose belle che avevano fatto insieme: quel sabato sui colli con lo scooter, quella volta al mare che avevano mangiato in un bel ristorante. Fu quasi tentato di baciarle la fronte ma si sentì stupido e non lo fece. Così uscì dalla cuccetta e percorse il corridoio deserto senza saper bene cosa cercare. Dopo due o tre vagoni incontrò Rovus che si fumava una sigaretta vicino al bagno, anche se era proibito. Così gli chiese di Azra e il prof rispose quello che sappiamo. Un sadico ospite del giovane universo di Mirko, ospite che chiameremo “senso di colpa”, si fece sentire all’istante, infilandosi fra il bruciore di stomaco e il dolorino al fegato. Azra Ma se n’era andata con lo zio e Mirko non l’aveva neppure salutata. Aveva cercato in tutti i modi di dimenticarla e c’era riuscito, cazzo, c’era proprio riuscito. Chissà se l’avrebbe mai rivista. La risposta venne da Rovus. «»Sai, mi ha detto lo zio che non verrà più a scuola. Non farà la maturità». Il prof emise un risolino che voleva essere complice ma che non trovò riscontro in Mirko che, tuttavia, fu felice che il prof non gli desse del lei, non l’avrebbe proprio sopportato. «Non so come avremmo potuto darle la maturità. Boh! Ma sai, ogni tanto si fanno queste cose per persone con problemi». Mirko pensò che se Rovus avesse conosciuto i veri problemi di Azra, probabilmente non avrebbe neppure cominciato a parlarne. Anzi, si sarebbe chiuso in bagno e se lo sarebbe fumato tutto, il suo pacchetto del cazzo. «Ah, guarda che hanno deciso di mandare via Marrazzi, anche se suo papà ci starà male. Il ragazzo ha bisogno d’aiuto», disse poi Rovus con tono casuale. Mirko annuì: non era sorpreso. Era Marra il mostro, ora. E l’unica sua colpa era aver urlato quello che sentivano tutti e sì, era anche un tantinello in acido quando l’aveva fatto. Funzionano così le cose, pensò, se grida lo gettate fuori dalla vostra ontologia. Ma avete buttato tante di quelle cose fuori che non c’è rimasto più niente qui. Tremò. «Gonzo... voglio dire, il vicepreside ce l’aveva anche con te per quella sera, ma gli ho detto che tu stai andando bene, che era inutile punirti per una colpa di un altro quando stai dimostrando di impegnarti». Mirko odiò l’espressione che aveva assunto Rovus. Si era acceso di una fierezza evidente. Era un re che concedeva, non un amico che aiutava. «La ringrazio prof» disse comunque Mirko. «Mi offre una sigaretta, per favore?». «Tieni qui, ma non dire che te l’ho data io». «Non si preoccupi. Grazie». Mirko prese la cicca e decise di tornare da Daria. «Non devi andare in bagno?». «Uh? No, dovevo solo chiederle di Azra. Se sapeva qualcosa». Il prof emise una risatina e domandò con voce un po’ stridula: «Ma come mai sei tanto affezionato a quel coso?». Mirko strinse il pugno. «Sa, pensi che c’è gente che l’adora proprio» rispose e in cuor suo, per tutti gli anni a venire, si sentì sempre fiero di quella battuta. Rovus, naturalmente, non capì ma rise lo stesso. Così Mirko tornò nel corridoio e, dopo il primo vagone, incontrò Marra che sedeva su uno di quei sediolini estraibili che hanno i treni. Guardava fuori, nella notte. Anche lui sembrava stanco. Vecchio, quasi. Il ragazzo ha bisogno d’aiuto, aveva detto Rovus. Marra guardò Mirko e aveva gli occhi morti. «Sono ancora fuori, vecchio», confessò. E poi, quasi sottovoce: «Mi sa che m’inculano proprio stavolta». Mirko volle toccargli la spalla ma non ce la fece. Non era da uomini. Mirko uscì bene alla maturità. Cioè, non proprio bene ma ne uscì e questo fu già un grande risultato per uno che il primo semestre aveva più quattro che cinque. Non stiamo a parlare di voti e punti, qui, ma vi dico anche con un po’ d’orgoglio che riuscì persino a non prendere il minimo. I suoi quasi non ci credettero: erano talmente contenti che organizzarono una cena in un ristorante di lusso. Fu una bella serata per Mirko: c’erano i suoi, Daria, Kristen, Joino e per la prima volta i suoi erano stati più di un’ora nella stessa stanza senza litigare. Certo, alla fine Joino aveva fatto dei brutti capricci e Kristen aveva dovuto portarlo fuori, ma, a parte questo, fu una bella serata. Il giorno dopo, prima di partire per una serie di consulenze che sarebbero durate due mesi suo padre gli mise in mano le chiavi del suo regalo di diploma. Un auto sì, quasi come d’usanza. Gli disse che ora era grande e che doveva pensare in grande, come il suo papà. Gli aveva già preparato degli opuscoli di prestigiose facoltà di economia in giro per il paese e ci avrebbe dato un’occhiata, vero? Magari un giorno potevano lavorare insieme e girare il paese per un sacco di consulenze, non sarebbe stato bello? Mirko, emozionato per l’auto nuova, gli aveva detto di sì, che sarebbe stato bello, e che sì, avrebbe dato un’occhiata agli opuscoli. Suo padre gli strinse forte la mano (non l’aveva mai fatto) e poi salì sul suo macchinone che già lo aspettava nel vialetto d’uscita. Mirko notò che seduta al posto del passeggero c’era una ragazza bionda che si stava rifacendo il trucco. Sembrava più giovane di Daria. Quella sera stessa sua madre ebbe un brutto esaurimento nervoso e il giorno dopo partì e se ne andò da certi parenti al sud. Passarono le settimane e arrivò il caldo vero. L’aria si trasformò in una cosa semiliquida e appiccicaticcia. Per fortuna che c’era il mare e Mirko ci andò spesso, quell’estate. Con Daria o con qualcuno dei soliti. Kristen era tornata in Germania per le vacanze e al suo posto erano arrivate due russe. Una che faceva da mangiare e badava a Joino, l’altra che faceva le pulizie. Non parlavano molto, come Kristen d’altronde, ma avevano gli occhi tristi e a volte stavano in cucina a parlare nella loro lingua. Mirko credeva che parlassero della Russia, del posto da cui venivano, che ora era molto lontano. Erano mostri anche loro, pensava Mirko, come Kristen. Gente che viene strappata via dalla propria casa. Quando le vedeva, Mirko ripensava sempre alla frase di Azra: una volta ero bella anch’io. Poi, doveva essere verso il dieci agosto perché c’erano le stelle cadenti, Mirko era seduto sulla battigia e guardava il mare un po’ defilato dal falò che avevano acceso gli altri, il suo cellulare aveva vibrato. Un messaggino. «Stanotte parto. Mi devi dare una mano». «Chi sei?». «Arzra. Vieni, Miro». «Dove?». «Vieni dove c’è la mia casa». E Mirko partì, con la sua macchina nuova. Abbandonò gli altri con la solita scusa di Joino che stava male. La Daria si lamentò e pianse, accusandolo nuovamente di avere un’altra che gli faceva i bombini. Mirko le disse solo che c’erano cose più importanti. Quella sera, sotto alle rade stelle cadenti, Daria si accorse per la prima volta che Mirko non c’era più. C’era qualcun altro al suo posto. Uno che assomigliava tanto a suo moroso ma che suo moroso non era. Sì, era del tutto uguale ma quegli occhi luminosi non erano i suoi. Doveva lasciarlo, prima che quegli occhi luminosi contagiassero anche lei. E così, mentre Mirko si allontanava, lei gli urlò che lo lasciava, ma il suo ragazzo non c’era più veramente e nessuno sentì il suo grido. Mirko (ma il nome può variare) guidò piano nella notte d’estate, durante il viaggio pensò a molte cose e forse pensò anche a questa storia ma spero che vogliate immaginare voi i suoi pensieri. Immaginatelo magretto, carino, forse biondo con un ciuffo ribelle che fa sospirare le fighette, forse con gli occhi azzurri (ma magari verdi) e un mento volitivo. Eccolo, Mirko, perso in un momento in cui tutte le cose si toccano e prendono vita, con i bellissimi occhi luminosi, la testa che gira un poco (non è ancora abituato a sentire la musica divina delle idee), la mascella ben serrata e la testa piena di mondi, galassie e sì, anche di buchi neri. Si fermò a casa sua per poco, entrò velocemente nel buio denso e nel silenzio in cui aveva passato tutta la vita, arrivò in camera sua senza accendere alcuna luce, con passo sicuro. Prese un regalo, un regalo per Azra, perché sentì che era giusto così, perché sentì, inconsciamente, che aveva ricevuto qualcosa dal mostro e ora con qualcosa, per quanto piccola e stupida, doveva contraccambiare. Scelse il regalo fra i suoi vecchi giocattoli, non così vecchi come avrebbe voluto pensare e poi ripartì, in un fiato. Ecco che arriva al bivio dove c’è la strada sbagliata che porta alla casa del mostro. Un posto che conosce bene, che ha visto tante volte in sogni e incubi, un posto in cui ha ricevuto in dono la sua nuova vita. Parcheggiò non molto distante dal luogo in cui aveva nascosto lo scuterone un secolo prima, scese e la prima cosa che notò fu il cielo. Non era il cielo che guardava un’ora prima dalla battigia ma era il cielo del sogno del mostro. Stelle, tante stelle. Di tutti i colori dell’iride. Unite a grappoli di galassie, risplendenti dentro a nebulose rosa e blu. Lassù ci sono tutti gli universi, pensò Mirko e si mosse, camminando piano verso la casa del mostro. Non aveva fatto che qualche passo sullo sterrato quando notò la forma nera. Era lì, alla sua destra e torreggiava dalle canne di bambù. Non si scorgeva niente delle sue fattezze, solo una vaga forma antropomorfa. E... ci si poteva vedere attraverso. Non molto ma Mirko riusciva a scorgere alcune stelle oltre alla bizzarra figura. Era un fantasma, uno degli adoratori di Azra e non era solo. Erano in tanti, tutti attorno a Mirko, lungo la strada che conduceva alla casa del mostro. Sorgevano dai campi di grano, si confondevano fra le ombre degli alberi. Uno era proprio lì, sullo sterrato. Mirko si fermò, col cuore in gola e osservò la creatura. Eccone i tentacoli, gli zoccoli, le corna ramificate, ecco una forma che non ha mai conosciuto simmetria. «Vieni, Miro» disse il mostro, da dovunque fosse. «Non ti fanno male». E Mirko procedette. Passò l’ombra del mostro sulla via, e aumentò l’andatura. Poi vide la villa. Sembrava deserta: non c’era nessuna luce accesa, nessun gorilla né tantomeno macchinoni. C’era solo una figura nera, un po’ più piccola delle ombre che lo circondavano e sicuramente più solida. Era Azra e lo stava aspettando. Quando lo vide arrivare, Azra alzò una mano in segno di saluto e disse: «Ciao Miro!». Il suo tono non era monotono come nella stanza sotto al mondo. Mirko alzò una mano in risposta: «Ciao», poi si avvicinò e stavolta non ebbe paura di guardarla. Fissò lo sguardo proprio sul suo volto del mostro ma lei, nuovamente, si voltò. Il primo istinto di Mirko fu dirle che si sentiva tremendamente in colpa per averla abbandonata e dimenticata, a Parigi. Balbettò qualcosa ma il suo universo faceva troppo rumore e il suo cuore batteva tanto. Le chiese la prima cosa che gli veniva in testa: «Cos’è questa storia che parti? Dove vai?». «Devo tornare Miro» rispose Azra. «Vogliono che torni». Mirko non seppe cosa dire. Gli venne per un momento in mente Kristen, che se n’era tornata in Germania. E anche Daria, seppure per un secondo, che gli aveva urlato di non volerlo più vedere. E Marra, che era finito da qualche parte in un collegio. E sua madre e suo padre. Sentì una tristezza che non si può descrivere a parole. «Vai via anche tu» constatò. Azra tacque e rimase ferma così, sotto il cielo iridescente. «Vieni Miro» disse il mostro dopo un po’, incamminandosi lungo lo sterrato. Mirko la seguì in silenzio oltre la villa. Il frinire dei grilli era diventato opaco, quasi provenisse da oltre una parete invisibile. Ad un certo punto Azra lasciò la stradina e penetrò fra le spighe di un campo di grano sulla destra. Mirko la seguì più velocemente, per paura di perderla. «Non perderti mai» disse Azra. «Qui è come quando tanti posti si incontrano». Mirko le tenne dietro vicinissimo, mentre lei si addentrava sempre di più fra le spighe. Procedettero fino ad una radura nel grano, in cui si trovava una specie di capanno degli attrezzi di legno e lamiera, piuttosto male in arnese. La fredda luce degli universi, lassù, non era mai stata così intensa. Mirko si guardò intorno: si trovavano su di un’isola nel mezzo di un mare di grano. Laggiù, a grande distanza, una cosa grande come una montagna si muoveva con lenti movimenti da bruco. «E quello che roba è?» chiese Mirko, indicando l’essere gigantesco. «Non guardare. È malato» rispose solamente Azra. «Vieni». Il mostro penetrò nel capanno e vi accese una lampada ad olio sostenuta da un filo metallico attaccato al soffitto. Sul pavimento della casupola abbandonata, notò Mirko, c’erano dei segni strani tracciati con una sostanza rossa. A Mirko ricordavano i simboli rituali che aveva visto sulla tunica del sacerdote di Azra. «Qui mi hanno portata da questa parte» spiegò Azra, senza voltarsi. Mirko notò che indossava ancora il vestito verde con cui l’aveva vista la prima volta e, dopo quella, tutte le volte seguenti. Tutte tranne una. «Cosa volevano da te?» chiese Mirko. «Bermi. Se mi bevete vivete di più. Poco di più ma per voi è tanto». Le cose erano semplici, pensò Mirko. «Che schifo» commentò il ragazzo. «No. Sono voluta venire io qui. Loro mi hanno aiutato». «E perché hai voluto venire?». Azra rimase in silenzio. Mirko la sentì sospirare. Un suono basso, forse un singhiozzo. «Ehi, Azra, perché hai voluto venire?» La incalzò Mirko. Alzò una mano, per toccarle la spalla e gli sovvenne un deja vu di Marra che fissava fuori dal finestrino. Stavolta non avrebbe commesso lo stesso errore. Così lasciò ogni indugio e poggiò le dita sulla tela grezza della giacca verde del mostro, proprio sopra la spalla. Assurdo, pensò, ho fatto l’amore con lei e ora ho paura di toccarla. Ma ora è diverso. Azra emise un altro sospiro. No, stavolta era proprio un singhiozzo. Alzò la mano e la poggiò su quella di Mirko. Sembrava la mano di suo nonno, rugosa e dura. La voce di Azra, quando parlò, era rotta da un’emozione indefinibile. «Io una volta ero bella» disse. «Poi io non so cosa è successo. Ma io, sai, ho sempre visto tante cose di tanti posti. E ho visto anche te, sai. Ho visto Miro». Una lunga pausa. «Tu sei bello, Miro». Un singhiozzo più forte. Mirko l’abbracciò. Ora non era più il Mirko di una volta, né quello che era diventato grazie ad Azra. Forse non sarebbe più stato il Mirko di adesso, di questo momento. «Non devi piangere. Non importa dai». La consolò, ma si sentì stupido. D’altronde, cosa poteva dire a quella creatura millenaria lui che era nato solo qualche settimana prima? Eppure, laggiù, nel capanno abbandonato, Mirko e il mostro non erano più loro: erano due creature sole che si erano incontrate e dovevano perdersi di nuovo. «Senti, ti ho portato un regalo». Mirko estrasse il Goku dai lunghi capelli biondi dalla tasca. «Dai guarda». Azra si voltò, timidamente, rimanendo di profilo. Dalla massa di capelli neri le s’intravedeva solo il naso. Ancora, non voleva che lui la guardasse. Prese il Goku dalla mano di Mirko e tornò a voltarsi. «Ti piace?» chiese. «Dai, non piangere», ma era un consiglio che lui stesso temeva che non sarebbe riuscito a seguire. Azra sussurrò: «Quando ero bella i miei capelli erano come luce». «E poi non so cos’è successo». Un nuovo singhiozzo. «Non pensarci, dai», sussurrò Mirko. Non sapeva cosa dire, né cosa pensare. Aveva come la netta percezione che quello fosse il momento più importante della sua vita. Nessuno al mondo, pensava, era mai stato così vicino ad una cosa così grande e diversa. Però se la stava facendo sfuggire perché era impotente, non riusciva che ad accampare qualche frase di circostanza. Per quanto il suo universo rifulgesse ora più che mai nella sua testa, in Azra viveva un mistero troppo grande. Mirko si sentì come in uno di quei brutti sogni in cui si assiste ad una tragedia e non ci si riesce a muovere, né si può gridare. Fuori, dal campo di grano, venne un suono che Mirko non aveva mai sentito, né che nessun altro aveva sentito prima di lui. Un suono alieno. E sì, poteva essere anche un grido. Azra, a quel suono, si scosse. «Devo andare Miro, mi devi aiutare». Il mostro si spostò goffamente in mezzo al capanno, in un punto dove i segni tracciati sul pavimento convergevano. Si inginocchiò a fatica, le sue giunture scricchiolarono. «Aiutami» disse Azra. «Cosa devo fare?» chiese Mirko, temendo la risposta. «Devi farmi la cosa brutta» rispose Azra. Mirko tacque, non incredulo ma atterrito. In cuor suo sapeva che le cose dovevano finire in quel modo. In fondo era lui che doveva fottere il mostro. Con il cazzo e con la pistola. Ma non c’era nessuna pistola nel capanno, né un coltello, né... «Sai cosa devi fare. Ci hai pensato anche a Lutetia». Mirko non sapeva cosa fosse Lutetia, ma immaginò che Azra parlasse di Parigi e sì, sapeva cosa doveva fare. Stringerle le mani al collo. Stringere forte forte. Lo sapeva, ma in quanto a farlo... quello era un altro paio di maniche. «Dai» lo incitò Azra, il suo tono era tornato monocorde. Di nuovo, fuori tornò a propagarsi il suono strano, il grido. Il popolo di Azra reclamava la sua Dea. Il ragazzo ebbe voglia di correre via, ma d’un tratto fu assalito da una paura più che umana. Come nella stanza sotto alla pensione Chevalier, ora si trovava da qualche parte fuori. Dove ci sono tanti posti che s’incontrano. Non avrebbe mai trovato la strada di casa. Ma c’era un’altra cosa: fottere il mostro era la sua responsabilità, il suo compito. Nessun altro avrebbe potuto farlo, e chissà cos’avrebbero fatto gli adoratori di Azra se lui non gliel’avesse restituita. Così pose le sue mani attorno al collo di Azra. Era come se non fosse lui a muoversi ed aveva la strana sensazione di star guardando la scena dall’esterno. Mirko e il mostro, di nuovo uniti in un attimo forse ancora più intimo dell’amore stesso. Però non andava bene così, pensò Mirko. Non andava proprio bene. Tolse le mani dal collo e Azra emise un mugugno di disapprovazione. «Aspetta» disse Mirko, si mosse e le si parò di fronte. Lei ora era inginocchiata di fronte a lui e gli unti capelli neri le coprivano il volto. S’inginocchiò anche Mirko, a anche le sue ginocchia schioccarono. Si sentiva molto stanco. Le scostò i capelli e la guardò. Azra non distolse lo sguardo, anzi, le sue labbra protese ebbero una smorfia che quasi sembrava un sorriso. Qualcosa colpì forte allo stomaco Mirko quando si trovò di fronte il volto del mostro. Non erano mai stati così vicini, neppure quando avevano fatto l’amore. E c’erano quegli occhi, gli occhi in cui la gente vedeva il male. Mirko non vedeva niente di tutto questo. Vide solo gli occhi spaventati di una creatura prossima alla morte. E c’era qualcos’altro, in quegli strani occhi che venivano da un altro posto, c’era la luce di una passata bellezza, lo splendore dei miliardi di soli in cui Azra aveva nuotato un tempo, quando era bella, prima che succedesse qualcosa di terribile, qualcosa che non aveva spiegazione. «Dai», sussurrò lei, ma non era neppure un sussurro. Solo un fiato. Mirko notò che il mostro stringeva forte fra le mani il suo Goku. Forse aveva paura. Forse il suo temporeggiare le stava solo facendo del male. Tornò ad alzarsi e a metterle le mani attorno al collo. Azra teneva la testa bassa. Cominciò a stringere, trovando una forte resistenza. Ebbe paura di non farcela. Strinse di più e la sua fronte cominciò a imperlarsi di goccioline. Strinse ancora. Azra emise un singulto, alzò il capo e lo guardò. Non piangeva più e anzi, stavolta era quasi certo che stesse sorridendo. Sorrideva per dargli forza, per fargli sentire che era giusto quello che stava facendo. Mirko chiuse gli occhi e usò le tutte le sue energie, i suoi muscoli si tesero, le dita affondarono nella carne. Qualcosa, nel collo di Azra pulsò, poi il mostro ebbe un rantolo e Mirko fu tentato di smettere ed abbandonare tutto. Pensò che ci dovesse pur essere un altro modo e poi, forse lui non ce l’avrebbe fatta, forse non era abbastanza forte. Riaprì gli occhi e vide che gli occhi di Azra si stavano offuscando. Strinse ancora e quello era il massimo, ziocane, il massimo che poteva fare. Tornò a chiudere gli occhi, a strizzarli forte e si diede tutta l’energia che poteva. Urlò, come mai non aveva fatto prima e il suo urlo aveva un riverbero strano, come se echeggiasse non in quel misero capanno, ma in una pianura infinita. «Ti amo», bisbigliò Azra e Mirko riaprì gli occhi. La testa del mostro era di nuovo bassa. Il suo corpo si era accasciato. Solo le sue mani che le stringevano il collo lo tenevano ritto. Il mostro era morto. Mirko sentì che gli stava salendo qualcosa di terribile dal petto, un nuovo urlo che se fosse fuoriuscito forse gli avrebbe spaccato testa. Tremando, appoggiò Azra a terra. Il Goku dai capelli d’energia era ancora stretto fra le sue mani. Aspettò, ansando, indietreggiò fino ad una parete del capanno. Si sedette a terra pesantemente, coprendosi le mani con gli occhi. Ora era solo e questa consapevolezza tragica gli esplose dentro in un istante. Azra gli aveva dato un mondo, lo aveva fatto sentire parte di una storia meravigliosa e ora non c’era più. Proprio quando si erano trovati, quando lui aveva capito l’importanza di quei fili che si intrecciano fra le vite delle persone, proprio quando si era risvegliato, lei se n’era andata. Come Kristen, come Marra, come i suoi. Mirko rimase solo e pianse, pianse tanto. Forse per ore intere, ma il tempo, nel posto in cui si trovava non era un problema. Lasciamolo solo, ora. Lui non vorrebbe sapere che lo stiamo guardando. Dopo un tempo indefinibile, Mirko si mosse stancamente. Non osò neppure guardare il cadavere di Azra Ma disteso sul pavimento. Uscì dal capanno e si trovò nella radura attorniata da un mare di grano. Il cielo del mondo di Azra si era spento. Ora, lassù, per quanto numerose, c’erano solo le stelle terrestri. Qualsiasi fosse l’incantesimo che intersecava i posti, ora era sparito e Mirko si trovava sulla terra. Attorno a lui, gli adoratori del mostro non c’erano più e i grilli frinivano. Non c’era nulla di strano, purtroppo. Mirko si diresse verso il grano, cercando la strada che avevano percorso prima. Non ebbe neppure per un attimo la paura di perdersi. Lo sentiva anche dentro di lui: Azra se n’era andata. Il mondo era tornato quello di sempre, quello in cui era vissuto per anni inconsapevole. Il mondo della scuola e dei prof, degli scuteroni e delle grosse macchine nere che cominciavano per M, per B o per P, il mondo delle consulenze e delle pastiglie, di Daria, di Marra, di Zenna, di Joino e dei suoi videogiochi. La magia se n’era andata e non aveva neppure più lacrime per piangere. Trovò la stradina sterrata e la percorse nella notte fino alla sua auto nuova. Premette un pulsante sulle sue chiavi e le frecce dell’auto lampeggiarono. Aprì lo sportello. Poco prima che montasse, Azra gli parlò per l’ultima volta. «Miro, scrivi qualcosa» disse. Guidò piano e percorse la strada giusta, la strada che l’avrebbe portato a casa. Parcheggiò nel vialetto e chiuse la macchina. Entrò in casa e la trovò silenziosa e buia, salì le scale e, giunto nel disimpegno della zona notte, notò che da sotto la porta della camera che una volta era di Kristen, in cui ora dormiva la russa che badava a Joino, non proveniva alcuna luce. Nessuno lo stava aspettando. Entrò in camera sua e si spogliò. Aprì la finestra e si mise a guardare le stelle. Ne vide una cadere. Faceva caldo, e l’aria era come un brodo. Forse avrebbe potuto accendere il condizionatore ma aveva voglia di silenzio. Aveva tanto sonno e gli dolevano le mani. Era grato a quel dolore: sparito quello, anche l’ultima conseguenza del passaggio di Azra nel mondo sarebbe scomparsa. O forse no, forse si poteva ancora fare qualcosa. Mirko si sedette alla scrivania e accese il computer. Aprì un programma di scrittura che non sapeva neppure di aver installato. Chiuse gli occhi e vide un deserto grigio su cui risplendeva una grande luna gialla. C’era un uomo, laggiù nel deserto, un uomo nero coperto da una tunica rossa. Stava guardando una gigantesca torre d’ombra. Da una feritoia della torre, qualcuno aveva notato l’arrivo dell’uomo nero, un essere che portava una maschera liscia che gli copriva il volto, una maschera riflettente come uno specchio. Mirko, quasi senza respirare, scrisse: “Il purificatore fu il primo ad arrivare alla torre della memoria”. E poi scrissi altre cose, scrissi di mostri, di demoni e anche di persone sole come noi, che cercano solo uno strada per stare insieme, in questo mondo che continua a dividerci per un motivo che ancora ignoro. Oh, non avete letto male e non ho sbagliato io, per una volta. Ho scritto proprio “scrissi” e “ignoro”. Perché, vedete, mi è venuto meglio scrivere tutto in terza persona, come se io non c’entrassi niente con questa storia e fossi solo un narratore un po’ eccentrico che vi ha rotto le scatole per tutte queste pagine facendovi immaginare le cose che era troppo pigro per descrivere. È il caso che vi dica che io sono Mirko (ma il nome può variare) e che una volta, tanto tempo fa, in una vita che ricordo sempre più sbiaditamente, io ho fottuto il mostro, una volta sono stato amato da una Dea. Sono passati tanti anni da quel giorno e oggi ancora seguo ciò che mi ha detto Azra prima di andare via definitivamente. Ancora scrivo. Ho questo modo per muovermi fra i mondi, sicuramente meno cruento di quello di Azra, ma sicuramente più umano. Mentre scrivo cerco sempre di ritrovarla, nei luoghi che descrivo anche senza esserci mai stato, che però mi sono familiari come la strada di casa. Cerco di ritrovarla nei sogni perché so di averla amata anch’io, a mio modo. Ma questa comprensione è venuta dopo, quando mi sono reso conto che Azra mi ha salvato la vita da una morte atroce: quella della memoria. E un po’ la odio, certo. Perché mi ha fatto diventare un mostro come lei, perché qui, vedete, nel mio paese non sta bene cercare le cose nascoste. Non sta bene piangere o scrivere. Bisogna avere la faccia dura, a pugno strizzato strizzato e non mostrare neppure per un secondo di essere diversi, altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Qui bisogna non pensare e seguire il copione che ti danno in mano, altrimenti le cose potrebbero cambiare. Un giorno sei bello e il giorno dopo sei un mostro, senza renderti conto di cosa sia successo. Eppure hai fatto quello che ti sembrava giusto: hai scelto la via difficile anche se tutti ti dicevano che quella era la via sbagliata. E ora, se potete, vi chiedo l’ultimo favore: ora che siamo diventati amici e che mi conoscete meglio di chi mi sta vicino, dovreste immaginare per l’ultima volta. In fondo io vi ho dato in mano la mia vita e me lo dovete, no? Certo, certo, non avete firmato niente, è vero. Non avete nessun obbligo e, anzi, stavolta sono io che immagino che vorreste tornare alle vostre faccende. So che sono importanti, non vi preoccupate: concedetemi un ultimo secondo, siamo alla fine. Ecco, per favore: immaginate Azra Ma, adesso. Immaginate la creatura più bella che potete pensare, per ognuno sono certo che il risultato sarà differente. Immaginatela se volete, con ali di energia grandi come pianeti, o con il volto della persona amata. Immaginatela così, perché quella è Azra Ma. Perché se siamo in tanti a vederla così, io credo che lei non sarà più un mostro e forse potrà tornare a danzare con la sua gente fra le stelle. Almeno io spero che sarà così. Lo immagino. Carlo Vanin Carlo Vanin, classe '77, ha frequentato il corso di laurea in lettere presso l'università Ca' Foscari di Venezia privilegiando gli studi in narratologia. Vive a Spinea (VE), fa parte del gruppo di autori che hanno pubblicato “The Survival Diaries” con LA CASE Books ed è uno dei membri storici del progetto Sugarpulp. Attualmente lavora come grafico freelance.