La geometria del vento di Raffaele Malavasi Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore. Tra cinquant'anni, tra un secolo, la riscoperta e la consacrazione definitiva della grandezza dell'opera e della vita del Maestro sarà matura nella coscienza addormentata del mondo: e verrà un uomo, infine, che quella grandezza rivelerà. Quel giorno il nome di Cesare Lombroso rifulgerà nel nimbo della vittoria suprema. (Guglielmo Ferrero) Discorso funebre in memoria di Cesare Lombroso (1909) Parte I - Cesare Pavia, 12 aprile 1855 Cara Maria, Mi accingo a scriverti dopo aver dato alla luce alfine il mio quinto lavoro come ricercatore. L'ho or ora riposto nell'angolo in alto a destra della scrivania, accanto alla fotografia che ci ritrae su la soglia del nostro ginnasio. Debbo confessarti che, dopo averne riletto lo sviluppo, non posso ritenermi soddisfatto appieno di cotesto scritto al pari di quanto mi sentii dei precedenti. Lo stesso tema, al quale per altro dedicai per tre intensissime settimane i miei pensieri ininterrotti, e la mia penna, con l'unica eccezione dei pensieri che ogn'ora corrono a te, Maria mia, m'è parso sin da principio poco coerente coi precedenti. Tu sola sai quanto i meccanismi sottostanti l'umano comportamento, ovverosia perché taluno sia mosso da animo benigno e talaltro sia inesorabilmente attratto da azioni malvagie, carpiscano da sempre il mio interesse, fin'a indurmi al trasferimento qui, per frequentare cotesta che è ritenuta l'accademia più affermata nello studio della medicina legale. E questo pur costringendomi a una distanza forzosa da te, che brilli mia luce e stella polare. Purtuttavia da ragazzo, nella nostra bella Verona, sempre fui incuriosito dall'osservare i preti che attraversavano il sagrato della Parrocchia adiacente casa, notando che curiosamente l'abbigliamento loro somigliava a quello delle signore ch'affollavano la chiesa nelle domeniche di Quaresima; perciò volli indagare, adoprando il metodo che di norma adotto nello studio d'ossa e organi, sul motivo per cui i preti si abbigliano da donna. Il risultato al quale son giunto ti potrà sorprendere alquanto, e vorrò ascoltare il tuo parere squisitissimo quanto al prima ci potremo nuovamente incontrare. Eppur sono convinto che il metodo di indagine empirico, più d'ogni altro approccio teorico, sia esso solo a dover muovere lo studio dello scienziato; l'unico che permetta di fornire la soluzione a' più rilevanti dubbi riguardanti la fisionomica dell'essere umano e finanche il suo comportamento. Attendo tue nuove e ti abbraccio forte. Tutto tuo Cesare 1 (venerdì 5/10/07) Tallone pianta punta volo, tallone pianta punta volo. Riesce a sentire gli angoli delle articolazioni dell'arto inferiore destro che si chiudono, mentre i muscoli estensori si stirano, il tallone incontra l'asfalto poggiando su tomaia e suola, l'arto si estende e gli angoli tornano ad aprirsi fornendo al suo corpo la spinta per il volo. Ed ecco l'arto sinistro, già piegato in attesa di incontrare a sua volta il terreno e imprimere al suolo l'energia utile a permettergli lo stacco successivo. Concentrandosi sul flusso dinamico di questi semplici gesti, percepisce che ogni pressione chiama a raccolta pressoché tutto il suo organismo: l'ossigeno fluisce dentro di lui e raggiunge gli alveoli, dove si lega con l'emoglobina contenuta nei globuli rossi; da qui, pompato dal muscolo cardiaco, che sente pulsare ritmicamente, giunge ai mitocondri, all'interno delle cellule che compongono le fibre muscolari; qui si combina con zuccheri e grassi, sintesi che fornisce il carburante ai muscoli. Li può sentire, i muscoli, pervasi dall'energia e sostenuti dalla sua struttura ossea, come l'albero regge la vela: piede caviglia ginocchio ma anche spina dorsale spalle e arti superiori, grazie ai quali il suo corpo che corre può mantenersi in equilibrio e conservare l'energia elastica. Mentre la mente di Carl era impegnata in questo flusso inconscio di pensieri, il ritmo della sua corsa era involontariamente cresciuto; cominciò a percepire che le gambe non staccavano più adeguatamente dal suolo, e l'andatura tendente al rasoterra era il chiaro sintomo dell'approssimarsi del limite che il suo livello di allenamento poteva consentirgli. Dalle sopracciglia impregnate di sudore alcune gocce gli giunsero negli occhi, provocandogli un fastidioso bruciore. Sentì aumentare la presenza di saliva nel cavo laringeo; in quell'istante il cardiofrequenzimetro lo avvertì con un segnale sonoro che il numero di battiti da lui preimpostati era stato raggiunto ed era quindi giunto il momento di rallentare. Ridusse la frequenza dei passi e, gradualmente, sentì che la pressione nel suo petto si allentava, fino a rendersi conto che, se avesse avuto un compagno di allenamento, sarebbe riuscito a fargli giungere qualche comprensibile frammento di parola. Non era più di un mese che aveva preso ad allenarsi con una certa regolarità, da quando la redazione della tesi, a cui ormai stava lavorando da quasi un semestre, aveva raggiunto quello che, nei colloqui con il Prof. Molmenti, definiva un momento di proficua riflessione, mentre con l'amico e compagno di corso Giovanni Losio non stentava a qualificare un vero e proprio punto morto. Inizialmente si era prefissato l'obiettivo di arrivare a correre la sua prima maratona. Si era anche informato sulle date di possibili gare che si sarebbero tenute nel periodo coincidente con il raggiungimento del suo stato di forma apicale, programmato per la dodicesima settimana dall'inizio dell'allenamento: la Maratona del Presidente di Forlì o la Firenze Marathon. Ma già verso la terza settimana riteneva che correre una mezza maratona sarebbe stato sufficiente, da affrontare comunque non prima di sei mesi. Del resto il suo naturale ottimismo lo portava spesso a definire obiettivi ambiziosi, salvo successivamente rendersi conto di avere sovrastimato le sue capacità e dover ridimensionare le sue immodeste aspettative. Lo stesso errore, forse, aveva commesso nel fissare tempi e contenuti della sua tesi di laurea, in ciò anche condizionato dalle parole del relatore. «Guardi, Carrara, che la tesi rappresenta il momento centrale del percorso universitario e il trampolino fondamentale per l'ingresso nel mondo del lavoro. Se poi lei ha la velleità di rimanere in ambito accademico, come mi ha fatto intendere, non si può certo limitare allo svolgimento di un compitino puerile» aveva dispensato il Prof. Molmenti, titolare della cattedra di Antropometria, lasciando intendere che l'obiettivo avrebbe dovuto essere l'ottenimento della dignità di pubblicazione. E che questo obiettivo era nelle sue corde, o almeno questo aveva supposto Carl. Per la verità l'argomento era nato del tutto casualmente. Carl si era rivolto a Molmenti per un motivo diverso: trattandosi di uno degli ultimi esami superati e di un corso frequentato da pochi studenti, tra lui e il professore era nato un rapporto che definire confidenziale, visto il contesto e il carattere di Carl, sarebbe apparso esagerato. Tuttavia, la stima verso il professore era ricambiata da una certa abitudine di questi a rivolgersi con preferenza a lui quando, durante le lezioni, voleva interloquire con la sua platea. Non conosceva il motivo di questa predilezione, se così poteva definirsi: probabilmente derivava dall'attenzione che lui rivolgeva al professore durante le lezioni, nonostante il tono monocorde in cui erano tenute e le numerose pause sottolineate da suoni gutturali; inoltre dagli assensi che Carl esprimeva con movimenti affermativi del capo: non certo per adulazione, ma per reale interesse nella materia e forse anche per spirito di solidarietà nei confronti di un oratore che gli pareva piuttosto ignorato dal resto della sbadigliante aula. Per tale motivo, una volta superato l'esame con il massimo dei voti, e questo nonostante qualche sua esitazione su un paio di domande, circostanza che aveva confermato le sue supposizioni circa la benevolenza di Molmenti nei suoi riguardi, Carl decise di rivolgersi a lui per ottenere un consiglio in merito alla possibilità e ai passi da seguire per provare a percorrere la carriera universitaria. Il professore, dopo averlo caldamente sconsigliato dall'intraprendere una simile impervia salita, gli aveva proposto di scegliere una tesi nell'ambito del suo corso, forse a conferma del convincimento di Carl, oppure con il semplice scopo di cambiare argomento quanto prima possibile. E aveva fatto seguire questa offerta, prima che Carl potesse manifestare la sua accettazione, al di là del consueto assenso con la testa, dall'ammonimento di cui sopra. Peraltro Carl aveva tutte le intenzioni di accettare: aveva imparato a farsi condurre dagli eventi e non avrebbe certo evitato di seguire questa predisposizione al fatalismo in una simile rilevante occasione. Così rispose prontamente: «La ringrazio Prof. Molmenti, ha anticipato la mia richiesta. Ha lei un argomento da propormi o devo pensarci io?» «Un’idea l’avrei, ma badi che lei deve svilupparla in modo adeguato alle caratteristiche che le ho raccomandato», lo aveva messo in guardia Molmenti sei mesi prima. Ora, mentre rientrava a casa dopo i consueti esercizi di stretching, Carl ripensò al titolo che in quell’occasione gli era stato proposto da Molmenti e che lui aveva accettato senza esitazione: “Eziologia della prestazione sportiva massimale”. Con sorpresa scoprì di sentirsi sovrastato, per la prima volta dall'inizio del lavoro, da un'oscura ombra di pentimento. 2 (sabato 6/10/07) La mattina seguente, Carl fu involontariamente svegliato dalle madre che, verso le 10, aprì la porta della sua camera, accese la luce e, cercando di non disturbarlo, spalancò gli scuri. La comprensibile frenesia era dettata dalla visita della zia Lucy, all'anagrafe Lucia, sorella del padre di Carl, che sarebbe arrivata a casa loro nel primo pomeriggio. Si trattava di un vero e proprio evento per la loro famiglia, cioè per loro due, in quanto la zia Lucy mancava dall'Italia da almeno sette anni. Carl ne ricordava a malapena i lineamenti, dal momento che in occasione del loro precedente incontro aveva poco più di sedici anni. La zia Lucia aveva sposato venticinque anni prima un americano di Boston conosciuto a Roma, e non aveva esitato a trasferirsi negli Usa lasciando il suo salone di parrucchiera da poco aperto a Fidenza, nonché il fidanzato che ne aveva finanziato l'apertura. Il padre di Carl aveva inizialmente disapprovato la scelta della sorella, fino quasi a osteggiarla; ma ben presto aveva superato i suoi dubbi e addirittura, in onore del cognato americano, aveva scelto per il suo primo e unico figlio un nome di battesimo anglofono. Mentre sua madre era decisamente in fibrillazione, la visita della zia rappresentava per Carl fonte di apprensione unicamente perché pensava che avrebbe dovuto sforzarsi di esercitare il suo inglese, del quale non poteva certo dirsi entusiasta, non avendolo mai adoperato al di fuori della scuola. Riteneva infatti che la zia, visto il lungo tempo trascorso all'estero, potesse aver dimenticato la lingua madre. Decise di approfittare dell'attesa per mettere un po' di ordine nel materiale raccolto per la tesi, organizzando in modo sistematico le varie pubblicazioni scientifiche fotocopiate o stampate presso le biblioteche ove aveva trascorso buona parte del suo più recente passato. Per la verità nessuno di questi articoli gli aveva fornito lo spunto che andava cercando, la chiave di lettura del tema da trattare, il colpo di genio che gli avrebbe dato accesso a qualcosa di più del compitino puerile prospettatogli come uno spauracchio da Molmenti. In preda allo sconforto, si trovò anche confinato in spazi sempre più angusti in quanto la madre, colta da sindrome di movimento perpetuo, ogni tanto lo apostrofava con inviti del tipo “Esci dalla tua stanza Carletto che devo riordinare” oppure “Guarda che in bagno ho già pulito: non entrarci più!” Costretto in salotto, accese il computer portatile e, quasi per ricorrere a un estremo disperato espediente di ricerca, digitò banalmente su google il termine “eziologia”. Non si aspettava per la verità di ottenere risultati interessanti, infatti nei sei mesi precedenti lo aveva sempre evitato. Comparvero sullo schermo collegamenti del tutto generici, quali la definizione del termine fornita da Wikipedia: il termine eziologia deriva dal greco (aitia = causa e logos = parola/discorso) ed è utilizzato in medicina, diritto, filosofia, fisica, teologia, biologia e psicologia; si tratta dello studio e dell'approfondimento sul motivo per cui alcuni eventi o processi si verificano, o sulle ragioni che si nascondono dietro determinati avvenimenti. Cercò allora di raffinare la ricerca, aggiungendo alla parola già digitata il termine antropologia. La combinazione fornì risultati che Carl ritenne nuovamente poco rilevanti: __________________ Antropologia filosofica II www.filosofia.unisal.it/programmazione/CS07.htm seminario dell'ambito della Laurea quinquennale presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Pontificia Salesiana. Tentativi di eziologia antropologica dell'attuale “disagio della civiltà”. Materialismo, immediatismo, consumismo, narcisismo, neocapitalismo, nihilismo. __________________ Gregory Bateson, filosofo inglese www.filosofico.net/bateson.htm ... ma ben presto abbandona la storia naturale per dedicarsi all'antropologia. ... il nome di Bateson è legato a una teoria relativa all'eziologia della schizofrenia. __________________ L'uomo delinquente di Cesare Lombroso it.wikisource.org/wiki/L'uomo_delinquente_di_C.Lombroso 1.Classificazione. - Eziologia. — 2. Anatomia patologica. - Antropologia. - Esame fisico del delinquente nato. — 3. Biologia e Psicologia. — 4. ... __________________ Teorie sulla differenziazione dell'orientamento sessuale - Wikipedia it.wikipedia.org/.../Teorie_sulla_differenziazione_dell'orientamento_s... Da un punto di vista filosofico/antropologico, alcuni studiosi analizzano la... Significa solo che, al momento attuale, nessuna teoria eziologica è riuscita a... __________________ In quel momento suonò il citofono; Carl sentì la madre, al colmo dell'eccitazione, precipitarsi ad aprire. «Sììì?... Sali!» E poi, rivolgendosi a lui: «È la zia!» Quindi aprì la porta dell'appartamento per accogliere la zia sul pianerottolo; dopo un paio di minuti l'ascensore si aprì e la zia Lucy fece capolino. Travolgente nella sua ormai americana esuberanza, si precipitò ad abbracciare la cognata: «Cara Stefania, my darling.» Poi, spalancando braccia e bocca, si rivolse a Carl intonando un paio d'ottave sopra: «E tu, what a boy! Non mi ricordavo di questi belli occhi azzurri. E che spalle larghe, ormai sei un uomo.» Carl ricambiò l'abbraccio e i baci, e subito fu tranquillizzato dalla padronanza dell'italiano che nella zia, a prima vista, pareva intatta, salvo l'inevitabile marcato accento. Inoltre lo zio Bruce, che invece d'italiano sapeva ben poco, stanco a causa del jet lag aveva preferito rimanere in albergo a riposare. La zia non gli sembrò molto diversa da come la ricordava dall'ultima volta: forse solo un po' più abbondante nelle dimensioni che già allora gli erano parse generose, ma sempre vitale e dinamica. Si sedettero nel salotto e Lucy cominciò a raccontare senza risparmio di dettagli gli ultimi sette anni della sua vita: di come i figli, un maschio e una femmina, fossero entrambi al college per studiare rispettivamente medicina ed economics; di come l'attività di Bruce, una piccola fabbrica di materiali plastici, avesse subito negli ultimi anni un impressionante sviluppo. Quando sua madre andò a preparare il caffè (“non molto ristretto però, thanks!”), la zia si rivolse a Carl, che fino a quel momento, anche se lo avesse voluto, non aveva potuto proferire parola: «Carl, sei tale e quale al tuo povero papà. Sono qui seduta e mi sembra di parlare con lui... Quanto mi manca! Come procedono i tuoi studi, caro? Mi ha detto la mamma che sei quasi prossimo a diplomarti in... natural science?» «Sì zia, stavo appunto facendo un po' di ricerche con il pc.» E chissà perché nel pronunciare l'acronimo disse “pi si”. «Ormai si fa tutto con internet, vedo che anche Alex e Dorothy prendono lì tutte le informazioni che hanno bisogno» ribatté la zia. E poi, avvicinandosi al portatile che era rimasto aperto sul tavolo della sala, sorprendentemente aggiunse: «Ehi, ma vedo che ti stai occupando dello zio Cesare!» «Lo zio Cesare?» rispose stranito Carl. «Sì, Cesare Lombroso, lo scienziato. Non sai che era un nostro, come si dice, avo?» Quando la madre di Carl rientrò portando i caffè fumanti su un vassoio d'argento, trovò la cognata sorridente, in piedi al centro della sala, e il figlio sprofondato nel divano, a bocca aperta. 3 (domenica 7/10/2007) Lo stadio Tardini non era gremito come Carl si sarebbe aspettato: mancava meno di un'ora all'inizio di Parma-Roma ma, nonostante la squadra ospite fosse di buon livello, visti dai distinti laterali alcuni settori apparivano ancora semivuoti. «Non so ragazzi, ho un brutto presentimento» disse Giovanni rivolto a Carl e Alberto, seduti alla sua destra, quando la squadra di casa fece il suo ingresso in campo per l'allenamento pre-partita. «La gente lo capisce quando le stagioni si mettono male. Poco pubblico vuol dire poca fiducia...» «In effetti sei punti in sei partite sono la media perfetta per retrocedere» replicò Alberto, scrollando la testa. Alberto, un ragazzone di 190 cm., dopo aver frequentato il liceo scientifico Marconi insieme a Carl e Giovanni aveva scelto di seguire le orme del padre e lo aveva affiancato nella sua attività di agente di commercio di abbigliamento e attrezzature sportivi. Scelta forse di comodo, ma che Carl valutava anche molto adatta allo spirito indipendente e, soprattutto, alla loquacità dell'amico. Giovanni invece aveva affiancato Carl sin dalla prima media e aveva scelto la stessa facoltà, pur con un indirizzo diverso. Carl lo riteneva un fratello; si somigliavano pure un po': statura media, peso medio, faccia media. Solo gli occhi erano diversi: azzurri i suoi, castani quelli di Giovanni. Per la verità negli ultimi mesi, da quando Giovanni aveva una ragazza stabile, il rapporto tra i due si era un po' allentato. «Dai, mi sembra che stiate esagerando. Col Toro la squadra mi è piaciuta; questo Di Carlo sta facendo un buon lavoro» replicò Carl. «Mah, chissà dove lo hanno pescato» ribadì Giovanni. «Come fa a guidare una squadra dignitosamente uno che si fa prendere a calci in culo davanti alla sua panchina!» continuò, richiamando l'episodio accaduto qualche settimana prima. «Però scusa se ti ho interrotto, Carl. Mi interessava quel discorso sulla tua parentela. Chi sarebbe questo Ombroso?» «Lombroso, Gió, Cesare Lombroso. Sembra che questo tizio, al dire di mia zia che vive negli States, fosse il nonno di suo nonno; non so come si dica, bisavolo o trisavolo, boh?» «Quindi il nonno di tuo bisnonno» osservò Alberto. «E tu non lo sapevi? Strano avere un parente famoso e non saperlo...» «In effetti la cosa è misteriosa. Ma il fatto più sconvolgente è che questo Lombroso sia saltato fuori in una ricerca su google collegata alla mia tesi.» «Ahi, se sei ridotto a fare la tesi con google mi sembri veramente mal combinato» disse Giovanni, scrollando la testa. «Scusa, Carl, io non sottovaluterei questa combinazione» osservò invece Alberto. «Se Lombroso ha qualcosa a che vedere con la tua tesi e tu vieni a scoprire che è un tuo parente, io fossi in te cercherei di approfondire la questione.» «Albi, in realtà il trisnonno, ammesso che mia zia non me l'abbia raccontata, si occupava di roba un po' diversa. Da quello che ho letto di fretta ieri sera pare che fosse fissato con l'aspetto dei delinquenti.» «In effetti, ora che me lo dici, mi ricordo di aver letto qualcosa in proposito» intervenne Giovanni. «Se uno ha la testa grossa con la fronte sporgente vuol dire che è un assassino; se uno ha il naso aquilino e le orecchie a punta è un ladro...» «E se uno ha la lingua lunga è un serpente» lo interruppe Alberto. «Ma che cazzate sono queste?! Lo credo che nessuno ti ha mai detto che eri suo nipote...» Mentre i giocatori continuavano il loro riscaldamento, Carl rispose: «Per la verità questo Lombroso al suo tempo ha avuto una certa notorietà. Anzi, da molti è ritenuto il padre della criminologia moderna.» «Vabbè, ma che c'entra con la tua tesi?» affermò Giovanni. «Tu devi indagare sulle capacità sportive degli individui, non trovare il colpevole del calcio in culo a Di Carlo. » «A proposito, Giò, hai visto che naso a punta ha Di Carlo... secondo me è un maniaco sessuale!» Insinuò Alberto. «Dai ragazzi, non scherzate sulla mia tesi. Sapete che ci rimango di merda... Anche perché, a pensarci bene, qualcosa di attinente con 'sto nonno potrebbe esserci davvero.» «Te lo avevo detto io» lo provocò Alberto. «Guarda un po' Mancini, per esempio» continuò Carl indicando con la testa il giocatore della Roma impegnato in una veloce progressione. «Perché va al doppio della velocità di tutti gli altri?» «Mmh, perché ha le orecchie piccole?» disse Alberto. «E piantala, che ci rimane male» lo redarguì Giovanni, per poi aggiungere: «Perché ha i piedi a gondola?» Incurante delle provocazioni degli amici e dell'arbitro Banti che aveva fischiato l'inizio dell'incontro, Carl proseguì: «Quello che intendo è che la mia idea, alla quale finora non ho trovato conferma, è che la forma del corpo dell'atleta possa rendere la sua prestazione migliore di altri, a parità di allenamento.» Ma Giovanni e Alberto, rapiti dal gioco, non lo stavano più ascoltando. In quel momento, a partita iniziata da soli due minuti, Vucinic si liberò dal difensore sull'estrema destra e servì Totti che, con un preciso rasoterra, segnò. 4 (martedì 16/10/07) Marco Ezechia Lombroso (Verona, 6 novembre 1835 – Torino, 19 ottobre 1909), che successivamente cambiò nome in Cesare, fu un medico, antropologo, criminologo e giurista italiano, di origine ebraica, considerato pioniere e “padre” della moderna criminologia. Il suggerimento di Alberto, impartitogli per la verità quasi scherzosamente, aveva indotto Carl a riflettere: trascorse l'intera settimana successiva a leggere tutto ciò che era reperibile in rete in merito al suo parente, o supposto tale. Circa la parentela non vi era motivo di dubitare della sincerità della zia Lucy. Ma ciò che continuava a lasciarlo dubbioso era il silenzio sulla questione da parte della sua famiglia: la madre non gliene aveva mai parlato. Carl non ricordava che anche suo padre, finché era in vita, pur essendo anch'egli erede diretto, ne avesse mai fatto cenno. Così come i nonni paterni. Rimaneva pure la possibilità che la zia, in perfetta buona fede, avesse raccontato una storia inventata per come le era stata riferita. Anche perché, lo stesso pomeriggio della visita, aveva fatto seguire alla rivelazione la descrizione di una serie di episodi tramandati da suo nonno e riguardanti l'illustre avo quantomeno imbarazzanti. Tra questi anche una ninna nanna che il nonno usava cantare per il sonnellino pomeridiano dei nipoti e che sosteneva di avere a sua volta sentito dal nonno Cesare: “come cucciolo appena nato mia stelluccia, ti trastullo mia stellin guerra fuggendo, io cullar ti voglio qui tra le mie braccia, nelle feste ti canticchio questo andando; e se i musi cara mia terrai cotanto, come attore per un dramma scritturato, io per ore ligio nipotina santa, fino a Napoli ti canterò intonato”. A Carl rimaneva difficile immaginare il severo volto dello scienziato, pubblicato nella pagina di Wikipedia a lui dedicata, intonare con voce dolce e soave questa nenia da lui stesso composta. L'opinione su Lombroso che Carl aveva maturato al termine della settimana di studio era sostanzialmente riassumibile in una definizione: pazzo visionario. Sembrava egli stesso incarnare le figure del genio e del mattoide come descritte in varie sue opere. La varietà delle materie affrontate, la sterminata produzione letteraria sugli argomenti più disparati, il coraggio nel sostenere tesi originali anche se scomode, pareva scontrarsi con l'eccesso di fiducia che riponeva nelle proprie capacità di analisi e di sintesi e con la superficialità che alcune sue tesi con evidenza denotavano, almeno agli occhi dell'osservatore di oggi. Pareva capace dei più nobili gesti di generoso altruismo, come quando diffuse opuscoli alla popolazione contadina lombarda per porla in guardia dalle malattie infettive, specie dalla pellagra; ma anche di costruire teorie al limite della disumanità, come il sostenimento della pena di morte quale unico mezzo per educare i criminali atavici, o l'accanita affermazione della prevalenza della razza bianca sulle razze colorate. E le stesse reazioni dei posteri erano del tutto polarizzate: dapprima grandi slanci di encomio e fiorire di scuole di pensiero nell'alveo delle sue teorie; più di recente totale rigetto e misconsiderazione del suo lavoro, definito da ultimo in senso spregiativo “pseudoscienza”. Carl sull'onda della critica era talora sospinto all'orgoglio di essere il discendente di un personaggio talmente retto e positivo; talaltra alla vergogna di avere un progenitore in grado di affermare principi e concepire tesi al limite dell'inciviltà. Purtroppo, l'enorme sforzo di far sua ogni notizia reperibile sulla rete in merito a Lombroso, se da una parte gli aveva permesso di farsi un'idea dello scienziato e del personaggio, dall’altra non gli aveva dato alcuna utilità concreta in relazione alla tesi. Nella vasta produzione letteraria e, in generale, nel novero dei molteplici argomenti di cui Lombroso si era occupato nella lunga e variegata carriera di studioso, non aveva potuto trovare nemmeno un accenno in merito alle relazioni tra morfologia umana, che pure egli aveva studiato approfonditamente e sotto molteplici aspetti, e capacità fisiche in termini di prestazioni. Ovviamente, non si attendeva un diretto riscontro sulle attitudini sportive, nella consapevolezza che lo sport, all'epoca in cui il suo ascendente era vissuto, non raccogliesse rilevante interesse. Ma quello che aveva pensato di ottenere era una qualche teoria, o anche una semplice elucubrazione, che mettesse in relazione uno o più particolari aspetti della morfologia dell'uomo con le sue potenzialità fisiche in termini di forza, resistenza, velocità o qualunque altra virtù puramente materiale. Così come Lombroso aveva collegato determinati aspetti della morfologia umana con specifiche attitudini o tendenze comportamentali, Carl si era immaginato di trovare qualcosa di analogo che spiegasse il legame tra le caratteristiche di specifiche parti anatomiche e le capacità o attitudini di quell'individuo in termini di prestazioni fisiche. Ma con grande delusione nulla di tutto ciò aveva trovato. «Un'altra settimana buttata nel cesso» dichiarò quella sera a Giovanni, che lo aveva chiamato sul cellulare per accertarsi che fosse ancora vivo, vista la sua improvvisa e totale sparizione. «Vuoi dire che hai trascorso una settimana intera alla caccia di un aiutino che un tuo strampalato avo ti avrebbe dovuto propinare dal passato?» «Giò, ci manchi solo te a farmi sentire una pezza da piedi. Guarda che non sono del tutto rassegnato; ho come un presentimento, una vocina che mi dice nell'orecchio che questa parentela mi possa portare qualcosa di buono. Che so, un'inattesa eredità...» «Beh, nell'altro orecchio ascolta la mia di voce, che ti dice: lascia perdere! Non ti rendi conto, Carletto, che stai solo perdendo del gran tempo? Non voglio essere pessimista, ma mi sa che dovresti andare dal prof a dirglielo chiaro: l’argomento è sbagliato, prof, me ne dia un altro un po' meno campato per aria. Oppure vai avanti con la ricerca, ma seriamente: non ti aggrappare a soluzioni pirotecniche come questa del bisnonno, dammi retta!» «Ah, non vuoi essere pessimista, eh? E se fossi pessimista cosa mi diresti? Per concludere la tesi hai solo una possibilità: andare a Lourdes a piedi?» «Dai, Carlo, non la prendere così. Lo sai che ci tengo anch'io alla tua tesi. Vai a parlarne sinceramente a Molmenti.» «Okay, Gio', mi sa che hai ragione. Ciao» concluse rassegnato. «Ciao.» Spento il telefono, Carl si fermò per un attimo a pensare. Poi si avviò in camera per riaccendere il computer, mormorando tra sé e sé: «Caro Giovanni, ma vaffanculo!» 5 (mercoledì 17/10/07) «Ho letto le bozze, Carrara. Direi che ci sono alcuni spunti interessanti, ma il supporto della letteratura scientifica non mi pare adeguato. Ha raccolto qualche altro contributo, nel frattempo?» Il colloquio con il Prof. Molmenti non iniziava con il piede giusto. E Carl si aspettava che, se avesse dato corso al suo proposito di essere finalmente sincero, sarebbe finito pure peggio. «Per la verità niente che sia degno di nota.» «Dunque, riepiloghiamo» lo incalzò Molmenti. «La sua attenzione si è concentrata su una particolare abilità sportiva: la velocità. Abbiamo trovato un paio di teorie che collegano la prestazione massimale all'ambiente in cui l'atleta è cresciuto o all'età in cui ha iniziato seriamente ad applicarsi nell'allenamento. Una teoria, peraltro di recente confutata, che mette in relazione la velocità espressa dall'atleta con la velocità contrattile delle fibre muscolari degli arti inferiori. Insomma, ora come pensava di procedere?» Fu in quel momento che, deviando dal percorso che aveva scrupolosamente tracciato il giorno prima, sentì la sua voce che pronunciava queste parole: «Lo sa professore che ho scoperto di essere discendente di Cesare Lombroso, noto scienziato che si è occupato di varie discipline, tra cui anche l’antropologia?» «Interessante! Il famigerato Cesare Lombroso» esclamò allentando il nodo già un po' storto della cravatta bordò, quella con cui Carl lo aveva sempre visto. «Lo conosce?» gli chiese lui meravigliato. «Certo che lo conosco. Chi nel nostro ambiente non conosce la teoria del criminale atavico e della fossetta occipitale? Proprio una bella scoperta. Ora capisco da chi ha ereditato lei questa bramosia di escogitare una teoria innovativa, un pensiero rivoluzionario. Badi però che, se non ricordo male, molte teorie del suo progenitore si sono rivelate del tutto infondate, perché non sostenute da prove scientificamente accettabili...» «Lo so, professore, negli ultimi giorni mi sono fatto una certa cultura su di lui navigando in rete. Se devo essere sincero, però, speravo che proprio dallo studio della sua opera potesse arrivare quell'intuizione risolutiva che finora mi è mancata.» Molmenti per alcuni secondi lo guardò serio da sopra gli occhiali; a dispetto del fisico, che risultava piuttosto acciaccato, e della sua età avanzata (spesso Carl si era chiesto come potesse ancora occupare la cattedra e non essere da tempo in pensione) gli occhi nascosti dietro le spesse lenti emettevano una luce brillante e vivace. Inaspettatamente replicò: «E perché no?» «Cosa intende professore?» «Intendo precisamente quello che ho detto. Perché no. Perché non provare ad approfondire la questione. Ma dico seriamente, non su internet. Sarà perché ho i miei anni ma penso che, per una ricerca come si deve, non ci sia niente meglio delle sane biblioteche polverose. E non è escluso che nella massa sovrabbondante di informazioni prodotte dal Lombroso lei possa trovare qualcosa di attinente. Magari non quell'intuizione fenomenale che va cercando. Ma potrebbe bastare anche un'altra ipotesi sull'argomento, così rimpolpiamo un po' le fonti scientifiche, se così possiamo definirle.» Carl, visibilmente rianimato dalle parole di Molmenti, chiese: «Professore, di mia iniziativa non avrei insistito, ma se lei mi suggerisce di andare avanti comincerò oggi stesso. Anzi domani, perché se biblioteca deve essere, allora mi orienterò verso l'area di attività di Lombroso: Pavia o, ancora meglio, Torino.» «Questa mi sembra una buona idea. Però non si crei troppe aspettative, non voglio responsabilità. Al limite avrà perso un'altra settimana di ricerca... Se vuole cominciare da Torino potrebbe orientarsi sull'Accademia delle Scienze. Per l'accesso occorre la lettera di presentazione di un Socio, ma se passa domattina me la procuro e gliela lascio in segreteria. Dopodomani è venerdì, giorno ideale per una trasferta. Poi, cosa dice, ci rivediamo la prossima settimana?» «Perfetto, prof, grazie mille. Spero di portarle buone nuove!» «Glielo auguro.» Percorrendo il corridoio del secondo piano della facoltà, che in un'ala accoglieva gli studi dei professori, Carl sentì maturare un senso di euforia. Il colloquio con il relatore gli aveva portato il convincimento che a Torino, di certo, avrebbe trovato quello che cercava. Qualcosa di sorprendente, che avrebbe segnato il punto di svolta per la sua tesi, e chissà... Immerso in queste fantasie non riconobbe tra i visi che gli sfilavano accanto quello di Marta, sua compagna di corso, che, vedendolo con quel mezzo sorrisetto stampato in volto, non mancò di farglielo notare: «Ehi Carl, che ti è successo? Hai conosciuto la nuova assistente del Molme?» 6 (venerdì 19/10/2007) Il regionale delle 6.28 che avrebbe portato Carl a Milano Centrale era piuttosto affollato. Da Milano avrebbe preso alle 8.15 un altro regionale per Torino Porta Nuova, ove sarebbe giunto, a meno di ritardi, alle 10.10. Nel suo scompartimento altre cinque persone: due signore di una certa età che parlavano fitto fitto fortunatamente a volume molto basso, probabilmente di qualche argomento scabroso. Un suo coetaneo con auricolari, dai quali traboccava musica rock, forse i Nirvana. Un signore molto elegante con panciotto e farfallino. Una donna di colore, a parere di Carl centroafricana dal momento che il colore era molto scuro. Estrasse dallo zaino la lettera di presentazione, o meglio il fax di raccomandazione, come lo aveva definito mostrandolo a sua madre la sera prima. Proveniva dal Politecnico di Torino, come si evinceva dalla riga stampigliata sull'estrema sommità del foglio, inviato il 17/10 alle ore 17.10, strana combinazione. Sulla carta intestata del dipartimento di Antropologia il Prof. Enrico Manfredi presentava Carl Carrara, nato a Parma il 20/12/1983, autorizzandolo all'accesso presso l'Accademia delle Scienze di Torino per il corrente anno accademico. Alla prima lettura del testo, subito dopo averlo ritirato in facoltà il giorno prima, si era meravigliato che una biblioteca pubblica potesse prevedere un simile filtro all'accesso, quasi un limite alla libertà di conoscere. Ora, rileggendo il suo nome sulla lettera e riconoscendosi nell'élite degli aventi diritto, muoveva orgoglioso lo sguardo dalla carta ai suoi cinque compagni di viaggio, come se questi avessero potuto conoscerne il contenuto e invidiare la sua posizione privilegiata. Insieme alla chiave di accesso aveva portato con sé una certa quantità di materiale che aveva stampato. Il percorso calcolato su Google Maps per raggiungere a piedi via Maria Vittoria 3, sede dell'Accademia delle Scienze, da Porta Nuova. Un elenco delle opere di Lombroso che potevano potenzialmente avere una qualche attinenza con quanto di suo interesse. La bozza della tesi consegnata a Molmenti. Quando si stava apprestando a riprendere la lettura, cominciata nei giorni precedenti, di “Nuovi Studi sul Genio”, stampato dalla versione digitale scaricata dal sito della Biblioteca Nazionale Braidense, la donna di colore che sedeva alla sua destra avvicinò la testa alla sua e gli chiese: «Scusa, la prossima fermata è Piacenza?» Carl provò un certo senso di fastidio, dovuto forse all'interruzione, forse alla persona che lo aveva interrotto. Del resto, quando passando nel corridoio aveva notato quel posto libero, probabilmente l'unico in tutto il treno, ci aveva pensato un attimo prima di sedersi. Ma dopo essersi accomodato aveva pensato: «Che ci siano pregiudizi di questo tipo al giorno d'oggi è veramente assurdo...» Rispose un secco e frettoloso: «Penso di sì.» E riprese la sua lettura. Arrivato a Milano, Carl cercò il binario dal quale sarebbe partito il suo treno; era già presente, nonostante la partenza fosse programmata per 15 minuti dopo. Salito, notò che la carrozza non era divisa a scompartimenti e vi erano svariati posti liberi; ne occupò uno doppio e viaggiò fino a Torino in solitudine. Strano che una biblioteca non abbia un catalogo accessibile sul suo sito web, pensò. Questo non gli aveva permesso di preparare la visita come avrebbe voluto: si sarebbe trovato costretto a improvvisare. La cosa gli dispiaceva soprattutto perché il tempo a sua disposizione era piuttosto limitato. La maggior parte delle altre biblioteche, invece, forniva l'elenco delle opere disponibili per la consultazione; e tra queste biblioteche ve n'erano alcune in cui le opere di Lombroso abbondavano. Tuttavia aveva preferito seguire il suggerimento di Molmenti. Alle 10.30 era già di fronte all'ingresso dell'Accademia. Era stato a Torino solo in un'altra occasione, per un Juventus-Parma 1-1 di due campionati prima. Era di febbraio, e Carl ricordava un freddo che, fermi sugli spalti, gelava le ossa. Alberto era tornato a casa con la febbre a 39 e aveva promesso a Carl e Giovanni che non li avrebbe più seguiti in trasferte sopra i 100 metri sul livello del mare. Invece quel giorno la città gli fece un'impressione del tutto diversa, per il pur breve tratto di centro che poté vedere nella sua passeggiata fino all'Accademia. L'autunno faticava a subentrare a un'estate tenace, e i tavolini all'aperto nelle strade e nelle piazze erano ancora gremiti di torinesi impegnati in colazioni tardive, brioches al cioccolato e cappuccini schiumosi e decorati. Del resto la sua presenza in veste di studioso gli faceva apparire la vecchia capitale del regno una città pregna di scienza e di cultura, nella quale quella mattina si sentiva perfettamente a suo agio. Il palazzo che ospitava la biblioteca dell'Accademia delle Scienze, probabilmente del Sei o Settecento, doveva essere architettonicamente molto gradevole; ma la stretta strada in cui il portone d'ingresso era situato non permetteva di apprezzarne una vista completa. Entrò e si trovò in un ampio atrio delimitato da alte colonne; quando giunse al primo piano, ove era situato l'accesso dei visitatori della biblioteca, si trovò di fronte un bancone dietro al quale una signora dal viso asciutto e serio che le conferiva un'aria molto austera era intenta a sfogliare alcuni documenti. Passarono svariati istanti prima che si accorgesse della sua presenza. «Buongiorno. Mi dica.» «Buongiorno, vorrei consultare alcuni libri.» «Mi dispiace, l'ingresso è possibile solo per chi è in possesso di una lettera di presentazione» rispose la signora con il tono di chi aveva ripetuto quella frase all'infinito. «Ah, è vero, mi scusi, mi ero dimenticato. Ecco qua.» Carl mostrò la lettera di cui non si era affatto scordato, ma che aveva tenuto appositamente in tasca per provare, estraendola e mettendola sotto al naso del controllore, quella sottile goduria che deriva dalla rivalsa verso chi vuole porre un ostacolo tra te e il tuo obiettivo. La signora inforcò gli occhiali, esaminò la lettera e, con un ampio sorriso disse: «Bene, signor Carrara, mi lasci solo registrare le sue generalità così che risulti che lei ha il diritto di entrare per tutto l'anno accademico.» Mentre annotava il suo nome in bella calligrafia su di un registro dalla copertina in cuoio, aggiunse: «Io mi chiamo Giuliana. Se avesse bisogno non esiti a chiedere. Questa è la tessera da esibire le prossime volte. Ora l'accompagnerò alla sala di lettura dove potrà consultare il catalogo e chiedere all'addetto i testi che desidera, ma non più di tre alla volta. Prego.» «Mi scusi signora, una curiosità» disse Carl seguendola lungo un ampio corridoio, «non sarebbe più comodo registrare le lettere di presentazione su un data base elettronico?» «Questo lo facciamo, ovviamente. Ma la tradizione dell'Accademia vuole che per ogni anno accademico, fin dal 1790, venga compilato e conservato il registro delle presentazioni.» Il corridoio terminava in un salone affrescato, le cui pareti erano occupate interamente da libri fino al soffitto, alto non meno di sei metri. Nella sala erano distribuiti i numerosi tavoli di lettura, per la maggior parte liberi. «Si può accomodare qui» bisbigliò l'accompagnatrice in modo da non disturbare i pochi presenti, e gli indicò un tavolo e una sedia vuoti. Poi continuò: «Venga, questo è il catalogo elettronico. La ricerca va fatta per autore, titolo del testo, anno di edizione o categoria, per esempio matematica o filosofia. Può annotare i codici dei libri che le interessano su questo modulo di richiesta; poi lo consegna a quel bancone.» «Grazie, signora Giuliana. È stata veramente molto gentile.» La signora Giuliana lasciò Carl alle prese con la sua ricerca; allontanandosi si voltò verso di lui mostrando un accenno di sorriso, segno che aveva gradito l'apprezzamento. Dopo un lungo esame delle pubblicazioni che rispondevano al filtro autore=Lombroso, ne aveva scelte tre, quelle che gli sembravano più interessanti in relazione al suo tema. O meglio quelle meno distanti, dal momento che nessuna di queste gli aveva suggerito un'immediata connessione. Il tempo di cui disponeva era poco, pertanto aveva deciso di adottare una procedura il più possibile razionale e di concentrarsi su pochi volumi, nonostante le opere del presunto avo presenti nel catalogo fossero numerose. Inizialmente procedette per esclusione, depennando dall'elenco che aveva trascritto sul suo blocco notes tutto ciò che nell'ordine riguardava lo studio delle malattie infettive, i risvolti sociali e le implicazioni giuridiche delle teorie lombrosiane, gli studi psichiatrici connessi al genio e alla follia come sua degenerazione. Tra il cospicuo materiale residuo, selezionò un elenco di occorrenze nelle quali figurava predominante l'aspetto dell'analisi anatomica di un individuo o gruppi di soggetti, sottolineandone una decina con una matita rossa. Tra queste scelse le tre che, banalmente, catturavano di più la sua curiosità. Dopo pochi minuti dalla consegna dell'elenco, l'addetto si presentò con due dei tre volumi richiesti, comunicandogli che il terzo si trovava al piano interrato e avrebbe richiesto un po' più di tempo. Fu decisamente colpito dalla mole dei libri che gli vennero consegnati. Si trattava di edizioni originali in grande formato, rilegate con spesse copertine in pelle o cuoio. Cominciò a sfogliare le pagine ingiallite del numero 1876-II della “Rivista sperimentale di freniatria e di medicina legale”, ove il Lombroso aveva pubblicato l'articolo “Della fossetta occipitale mediana in rapporto collo sviluppo del vermis cerebellare. Studi”. Si trattava di dieci fitte pagine nelle quali l'autore presentava l'esito dell'esame da lui condotto su 181 individui, che lo aveva portato a sviluppare la teoria dell'anomalia cranica del criminale. In particolare, nell'intervento egli affermava che la presenza di una fossetta di alcuni centimetri alla base del cranio, invece della normale cresta occipitale, potesse spiegare la tendenza delinquenziale del soggetto; forniva quindi l’esito statistico della sua analisi, basata su altrettante autopsie condotte su cadaveri di delinquenti. Questa lettura fu per Carl di una certa utilità perché descriveva nel dettaglio il metodo empirico-statistico di Lombroso, consistente nella deduzione di fenomeni generali partendo dall’osservazione di casi individuali al fine di riscontrarvi delle anomalie, per poi validare le sue congetture estendendo lo studio a una pluralità di individui. Fotografato col cellulare e messo da parte il primo tomo, passò a esaminare il secondo testo che gli era stato consegnato, il cui autore non era Cesare Lombroso bensì la figlia Gina, anch’essa studiosa pur se in ambiti diversi dal padre. La monografia che Carl stava consultando in una superba edizione del 1915 era intitolata “Cesare Lombroso. Storia della vita e delle opere narrata dalla figlia”. In essa Carl sperava di raccogliere qualche notizia meno nota sull'ambito di attività del progenitore. Mentre scorreva l’indice, si accorse che l’uomo che era seduto nel tavolo dietro di lui si era alzato e, muovendosi con una circospezione che Carl aveva interpretato come volontà di non disturbare la sala, si stava accingendo a occupare il posto immediatamente alla sua destra. Qui giunto si sporse verso di lui e, con un tono di voce sommesso, a stento udibile, sussurrò: «Giovanotto, vedo che sta leggendo Lombroso…» Carl si voltò verso il suo nuovo vicino. Si trattava di uomo di almeno settant’anni, magro e calvo, curvato nel suo desco come un avvoltoio. Aveva interrotto la lettura di un quotidiano. «Sì» rispose seccamente per non alimentare una conversazione che temeva potesse consumare il poco tempo di cui disponeva. Ma l’altro non si diede per vinto e proseguì: «Vampiri, fantasmi o il libro segreto?» «Come dice scusi?» «Sì, è quello che di solito cercano i giovani come lei quando consultano Lombroso.» Inutile dire che la curiosità che l'elenco suscitò in Carl ebbe il facile sopravvento su ogni sua remora. «Che c'entrano vampiri e fantasmi con Lombroso? E soprattutto: quale libro segreto?» «Beh, giovanotto, è risaputo che Lombroso negli ultimi anni si era dedicato allo spiritismo, sostenendone la credibilità» rispose l'anziano signore abbassando ulteriormente la voce, spiccatamente nasale, che ormai era quasi ridotta a un sibilo. Si guardava intorno mentre trasferiva a Carl questi preziosi segreti, come a proteggerli da orecchie indiscrete. «Si sa meno che la pellagra, al cui studio egli aveva lungamente dedicato la sua attenzione in gioventù, è considerata la causa del vampirismo. Infatti i malati soffrono di disturbi della pelle, che assume un bianco pallore; di reazioni alla luce del sole, che quindi cercano di evitare uscendo di casa solo di notte; e in più il progressivo indebolimento che subiscono può essere vinto da un'adeguata assunzione di sangue...» «Ma queste sono solo credenze popolari» lo interruppe Carl. «Silenzio, per favore.» Dal fondo della sala giunse una stizzita voce femminile di protesta. «Ma il libro segreto? Cosa mi dice di questo libro segreto?» incalzò Carl con un sussurro, avvicinandosi al vecchio. «Il libro segreto? Pare che esistano uno o più manoscritti di Lombroso mai pubblicati...» e pronunciò queste ultime parole a bocca chiusa, affondando la mascella nel bavero della camicia, quasi a evitare persino di farle leggere sulle labbra che le stavano emettendo. «Se è della stessa forza del vampirismo anche questa teoria mi sembra un po' ridicola. E poi che senso avrebbe venire in biblioteca per consultare un libro mai pubblicato?» «Beh, una cosa è certa, giovanotto, a volte i computer ingannano...in vari casi...» «Cosa intende con i computer ingannano?» «Carrara, il suo libro.» L'addetto alla fornitura dei libri chiamò Carl appena in tempo per evitargli un secondo iroso richiamo da parte della signora alle sue spalle. Si avvicinò al bancone per ritirare la voluminosa copia de “La donna delinquente: la prostituta e la donna normale”. Quando, carico del nuovo fardello, rientrò in punta di piedi al suo posto, si accorse con grande stupore che la sedia accanto alla sua era tornata a essere libera: il vecchio era sparito. Aveva appena riposto l'ultimo volume pervenuto dopo averlo sfogliato con una certa superficialità, forse perché ne era stato attratto solo dal titolo, o forse perché la sua mente era ancora assorbita dalla stranezza dell'incontro appena concluso, quando si accorse che erano le 12.50 e si apprestava l'orario della chiusura per la pausa, che sarebbe durata fino alle 15.00. Volle quindi dar seguito a un proposito che gli era balenato per la testa riflettendo sulla frase criptica che il vecchio gli aveva bofonchiato prima di sparire. Lasciò quindi i libri al suo posto, raccolse lo zaino e si avviò lungo il corridoio che portava all'ingresso. Qui trovò la signora Giuliana, sprofondata nella lettura de “L'eleganza del riccio”. Carl, per farsi notare, diede un piccolo colpo di tosse. «Scusi, non l'avevo vista...» «Non si preoccupi. Volevo abusare ancora della sua gentilezza, signora Giuliana» disse Carl cercando di prodursi nel sorriso migliore del suo repertorio. Incassando il sorriso di rimbalzo, continuò: «Mi chiedevo se il catalogo è consultabile solo per via elettronica, oppure se esistesse un catalogo cartaceo. Sa com'è, mi aspettavo di trovare qualche altro risultato nella mia ricerca e non vorrei tornare a casa a mani vuote; oltretutto sono venuto apposta da Parma.» «Beh, strano che una richiesta simile arrivi proprio da un giovane come lei. Voi ragazzi ormai avete dimenticato l'uso di carta e penna. Pensi che quando sono arrivata qua io, le parlo di trent'anni fa, nessuno avrebbe immaginato che oggi le ricerche si sarebbero fatte solo ed esclusivamente con un computer. Chissà perché ma ho sempre avuto l'idea che tutta quella mole di dati conservata dentro una scatola possa da un momento all'altro sparire nel nulla. Per fortuna mi hanno detto che si fanno molte copie sui dischetti.» «Ho capito, quindi non esiste un archivio cartaceo.» «Certo che esiste! Chi ha detto il contrario? Solo che non è più utilizzato da molto tempo, e di certo non è stato aggiornato con i nuovi acquisti della biblioteca, almeno quelli più recenti. Ma nello schedario i volumi storici ci sono tutti.» A Carl cominciarono a brillare gli occhi. «E questo schedario... è consultabile?» azzardò aggrottando le sopracciglia. «Questa è una richiesta un po' particolare. Bisognerebbe chiedere al bibliotecario... Vediamo, ora c'è l'intervallo. Provo a chiedere e alla riapertura le so dire quello che si può fare. Non le garantisco nulla, però proviamoci.» «Grazie mille, signora Giuliana. Il mondo dovrebbe essere pieno di persone come lei!» Forse questa volta aveva un po' esagerato. Uscì nella via, si infilò nel primo bar-pasticceria utile e comprò due tramezzini e una spremuta per sé e un piccolo cabaret di paste fresche alla crema e al cioccolato, ben confezionate, per la signora Giuliana. Lo schedario cartaceo era situato al piano sotterraneo, segno che realmente era caduto in disuso. Si trattava di tre ampi scaffali metallici impolverati, provvisti di cassetti etichettati e idonei a contenere verticalmente le schede delle opere. Su ogni scheda era riportato il nome completo dell'opera, l'autore, l'anno di pubblicazione, la casa editrice e la data di acquisto da parte della biblioteca; era indicato anche un codice interno composto da tre lettere e otto numeri, probabilmente utile a individuarne la collocazione. Alcune schede erano compilate a macchina da scrivere, altre addirittura a penna. Il commesso presentatogli dalla signora Giuliana, che l'aveva accompagnato fin lì, congedandolo si era raccomandato di “riporre le schede nello stesso punto dove le aveva trovate, sennò non ci si capisce più niente”. Ma chi ci doveva capire, se ormai questo catafalco era diventato un oggetto di antiquariato? Dal momento che le schede erano ordinate per autore, Carl cercò sotto la lettera L, che era situata in basso nello scaffale centrale. Individuato Lombroso, cominciò a leggere in sequenza i titoli, confrontandoli mentalmente con quelli che aveva ottenuto dal catalogo elettronico. Un paio di titoli lo fecero dubitare e lo costrinsero a controllarne la presenza nei suoi appunti e sulle foto salvate sul cellulare. Ma alla fine dell'esame dovette concludere che l'elenco cartaceo e quello informatico erano perfettamente coincidenti. Eppure la frase del vecchio non gli faceva venire in mente nient'altro. Quale poteva essere l'inganno procurato dai computer se non l'omissione di una o più opere nel catalogo elettronico, evidentemente non riportate nella migrazione iniziale dalla versione analogica? In quel momento il suo sguardo, che stava percorrendo esternamente l'archivio come per trovare un suggerimento, si posò su un quarto scaffale più piccolo degli altri, posto sulla parete adiacente e recante un'unica etichetta esterna: “AA.VV.”. Lo aprì e cominciò a sfogliare le schede che vi erano contenute, rilevando che si trattava di opere ciascuna non riconducibile a un autore unico, bensì a una pluralità di autori, ossia ad “Autori Vari”: ecco il significato dell'acronimo presente sull'etichetta. Carl ripensò alle precise parole di quel misterioso individuo: “...a volte i computer ingannano”. Gli venne in mente che poi aveva aggiunto qualcos'altro a sottolineare il concetto, qualcosa del tipo “in vari casi”. Ma certo. Aveva interpretato il “vari” nel senso che nell'archivio informatico potesse essere presente più di un errore. Invece il termine usato dal vecchio, non certo casualmente preceduto da “in”, alla luce della presenza di un quarto schedario, non poteva che essere interpretato nel senso che la ricerca andava condotta all'interno di quest'ultimo, ossia tra gli autori “vari”. Doveva dunque trattarsi di un'opera scritta da Lombroso insieme ad altri studiosi. Si riversò dunque nella perlustrazione del quarto scaffale, alla ricerca di un testo in cui il suo avo figurasse tra i coautori. Constatò subito che anche in questo contenitore l'ordine di conservazione era alfabetico, sulla base dell'iniziale del cognome del primo coautore. Purtroppo alla lettera L non trovò alcuna opera scritta da Lombroso e altri. Quindi, ammesso che realmente il libro in questione esistesse, questo voleva dire che il primo degli autori non era Lombroso ma un altro scrittore il cui cognome, ovviamente, era a Carl del tutto ignoto: ciò avrebbe reso la ricerca lunghissima. Carl si armò di pazienza e iniziò a sfogliare uno per uno tutti i cartellini, cominciando dalla prima opera scritta da “Abate, Puggioni e Sforza”, e da questa procedendo progressivamente con la massima attenzione; ma dopo un quarto d'ora fu assalito da un totale senso di frustrazione perché si trovava ancora a “Arvigo e Quaglia”, alla fine del primo dei venti cassetti di cui lo scaffale era costituito. Non sarebbe riuscito a esaurire la sua ricerca prima delle 17, orario di chiusura della biblioteca, se non per un colpo di fortuna. Provò a scegliere un cassetto casualmente, il decimo, per tentare la sorte. Da questo cassetto estrasse una decina di schede, facendosi guidare dall'istinto. Ma del famoso trisavolo neppure l'ombra. Cercò allora di riflettere. Se quello strano personaggio, per chi sa quale incomprensibile motivo, si era preso la briga di dargli un suggerimento, perché gli avrebbe rivelato solo una parte del percorso da compiere? Le possibilità erano due: o in realtà le parole pronunciate dal vecchio non contenevano doppi significati, e quindi lui si trovava lì per niente e l'archivio non conteneva chissà quale segreto; oppure quelle parole celavano un ulteriore indizio che lui ancora non era stato in grado di cogliere. C'era per la verità un'altra possibile spiegazione: che la frase fosse stata proferita talmente tra i denti da far sfuggire a Carl una o più parole e che queste fossero essenziali per rendere l'indicazione completa. Ancora una volta ripensò alla frase per come l'aveva percepita. “A volte i computer ingannano, in vari casi...” Improvvisamente un lampo illuminò i suoi occhi, come se qualcuno avesse acceso alle sue spalle una torcia elettrica. E se fosse questo l'ulteriore indizio? Non gli era venuto in mente prima perché forse non si era soffermato sulle singole parole con la dovuta attenzione. Si precipitò ad aprire il terzo cassetto e cominciò a sfogliarne ansioso le schede. “Burdo G. e Burdo M.”, “Casale, Selvatico, Ponti”. Spalancò gli occhi e, con la mano che gli tremava, estrasse la scheda successiva. In vari casi in realtà stava a significare: “in vari: Casi”, cioè cercare Casi nel classificatore degli autori vari. L'intestazione della scheda che, incredulo, teneva in mano ne dava piena conferma: “Casi, Lombroso, Tenchini: le più recenti scoperte ed applicazioni dell'Antropologia - atti del convegno tenuto il 12 febbraio 1867 presso l'Accademia delle Scienze di Torino”. Non gli piaceva parlare col cellulare in pubblico. Gli procurava la fastidiosa sensazione di essere al centro dell'attenzione di tutti coloro che lo circondavano. Sentiva su di sé gli sguardi della gente, tanto in un bar che nel corridoio della facoltà. E certamente in qualunque altra occasione non avrebbe risposto a una chiamata in arrivo; tanto meno avrebbe composto un numero sulla tastiera virtuale del suo iPhone su un qualunque mezzo di trasporto pubblico. Ma quello che gli era accaduto era un evento, anzi una combinazione di eventi, assolutamente fuori dal normale. Che meritava, anzi richiedeva, di essere condivisa con qualcuno. Per questo, appena preso posto sul Torino-Milano delle 18.02, la sua mano aveva impugnato il portatile, che giaceva spento nello zaino, e una volta composto il pin e ottenuta la connessione, aveva selezionato Giò-cell dall'elenco dei preferiti. Era arrivato al treno appena in tempo, dal momento che alle 17, quando ormai tutti gli utenti della biblioteca avevano abbandonato l'edificio, Carl stava ancora aspettando che le fotocopie chieste gli venissero consegnate. Aveva dovuto insistere un po' con l'addetto quando alle 16.50 gli si era presentato davanti con la richiesta di quaranta fotocopie estratte da un'opera del 1902. «Guardi che questo libro non si può fotocopiare» gli era stato risposto. «Veramente ho letto sul regolamento che non possono essere copiati i testi anteriori al 1900, e questa edizione è del 1902» ribatté Carl. «Sì, ma tra dieci minuti chiudiamo, e questo libro va trattato con una certa cura...» «Abbia pazienza, ne ho assolutamente bisogno per la mia tesi; sono venuto apposta da Parma.» «Però poteva decidersi prima a chiedere le fotocopie.» «Ha ragione, il problema è che il libro a video non c'era. L'ho trovato solo nell'archivio giù nei fondi. La prego, guardi che è veramente importante...» «Vabbè, vedo quello che riesco a fare. Ma non so se le finisco tutte per le cinque.» Quando il bibliotecario si era allontanato con un grugnito, Carl aveva capito che avrebbe ricevuto tutte le fotocopie. E in effetti alle 17.10 gli erano state bonariamente consegnate, accompagnate da un'espressione che, se avesse dovuto convertire in parole, avrebbe suonato più o meno così: «T'è andata bene che hai trovato un santo come me, rompicoglioni che non sei altro.» Purtroppo, uscendo di corsa dall'Accademia, non aveva potuto salutare la preziosa signora Giuliana, che aveva già abbandonato la sua postazione. Aveva però notato che dal cestino dei rifiuti accanto al bancone d'ingresso emergeva un lembo della carta del bar-pasticceria “Neuv Caval 'D Brons”. «Carl, ti ho già cercato un paio di volte oggi. Dove ti sei cacciato di nuovo?» lo rimproverò Giovanni rispondendo dopo quattro squilli. Carl, in evidente stato di euforia, e distogliendo gli occhi dallo sguardo curioso della sua dirimpettaia, lo investì: «Giò, non potrai crederci ma l'eredità forse sta arrivando. Oggi sono stato in quella biblioteca di Torino che mi ha indicato Molmenti, sono sul treno di ritorno. Mentre stavo portando avanti la mia ricerca a vuoto, un vecchio si è intromesso e mi ha fatto trovare un'opera di Lombroso che non risultava nel catalogo ufficiale.» «E chi sarebbe 'sto vecchio?» «Boh, non lo so. Appena mi ha dato il suggerimento, tra l'altro con uno strano giro di parole che ho dovuto interpretare, si è volatilizzato, sparito nel nulla.» «E quest'opera misteriosa ti ha aiutato per la tesi?» «Per la verità non so neanche questo, devo ancora leggerla. L'ho fotocopiata ma non ho avuto ancora il tempo.» «Bene. Quindi un vecchio con un giro di parole ti ha fatto trovare un libro nascosto e poi si è dematerializzato. Tu non sai ancora se ti serve ma sei euforico come se ti fossi appena fatto di coca. Sei sicuro di star bene?» «Giò, non capisci, non può essere un caso.» «Carletto, ci vediamo domani va...» «No, ma scusa... vabbè ciao, a domani.» Che palle. Pavia, 28 aprile 1855 Cara Maria, puoi concedermi perdono per il lungo tempo trascorso dalla mia precedente missiva? Ciò è dipeso dagli eventi occorsimi in questi giorni, e che mi appresto a riferirti, i quali son colmi d'incredibile e m'hanno impedito fino a ora di avvicinarmi a carta e pennino. Eppur quanto avrei voluto farti partecipare di questi accadimenti! Ti basti sapere che assistetti coi miei propri occhi a un duplice assassinio; fatto che m'ha pure fisicamente coinvolto, giacché dovetti trascorrer alcuni giorni allo spedale, più per ragioni di precauzione che per veri traumi subiti, sta' tranquilla; e che quivi fui pure interrogato dalla pubblica sicurezza, quale testimone di quanto occorso. Ma solo il racconto dei fatti dettagliato ti permetterà di comprendere il motivo per cui ho qualificato incredibili gli eventi accadutimi. A una settimana da oggi mi trovavo in una taverna nei pressi della piazza Grande. Erano da poco passate le sei e stavo disquisendo con il mio amico e collega Fasce delle stranezze fisionomiche di talune specie animali. Pur concentrato a sostenere la mia tesi, non poté sfuggirmi di notare che, nel tavolo adiacente al nostro, due giovani confabulavano fitto tra loro in modo alquanto equivoco: bisbigliavano eppur nel contempo urlavano, come se l'intenzione di non farsi udire venisse sopraffatta dal tenore conflittuale della di loro conversazione. Tra le frasi al più incomprensibili che giunsero alle mie orecchie, colsi con preoccupazione e un certo raccapriccio le parole “conficcare” e “viscere”, pronunziate da quello dei due più corpulento e col viso semi-celato da un nero cappuccio. Tutt'a un tratto, cotesto corpulento, con una movenza repentina del braccio afferrò un oggetto dalle mani dell'altro; poi estrasse una lunga lama e, brandendola a mo' di minaccia, indietreggiò fin all'uscio, per poi attraversarlo e sparire. Per un attimo l'altro rimase sgomento, come inebetito; ma dopo alcuni istanti saltò fuori dal tavolo come furia e si precipitò anch'egli verso l'uscio. Io e Fasce, ch'eravamo i più prossimi al luogo del fatto, ci guardammo e, prevalendo in noi la curiosità sulla paura, ci dettimo a seguir d'appresso i due contendenti al di fuori del locale. Vidi che ambedue correvano verso il Ponte Coperto: il corpulento godeva d'un considerevole vantaggio ma l'altro, in men che non si dica, colmò la distanza che li separava compiendo dei balzi sorprendenti, quasi che fosse sospinto da un'energia sovrannaturale. Tanto che sia io sia Fasce fummo inconsapevolmente catturati dagli sviluppi della vicenda, e ci mettemmo a correre dietro di loro. Nel mentre l'inseguitore aveva raggiunto il fuggitivo e gli s'era avventato addosso da tergo, facendolo cadere a terra e precipitandogli sopra. Con l'avvicinarci, notai sgomento che il secondo dei due, quello rapido, giaceva immobile su quello corpulento; cotesto ultimo se ne liberò con uno scrollone per riprendere subitaneamente la sua fuga. Solo giunti di fronte al corpo dell'uomo che giacceva a terra ci accorgemmo che il coltello, dapprima brandito dallo scellerato col cappuccio contro di quegli, era orrendamente infilzato nel suo ventre! Nel mentre il fuggiasco, che aveva protratto la sua corsa allontanandosi da noi, di scatto e senza motivo apparente invertì la sua propria direzione, facendo ritorno sui passi suoi; s'approssimò a grandi falcate verso dov'eravamo noi, tanto che temetti che io e Fasce fossimo il suo nuovo obiettivo; rimanemmo tuttavia pietrificati dal terrore, fino a ché quello passò oltre, ignorandoci. Proprio allora sentii un pizzico alla spalla sinistra, seguito subito da un lancinante dolore: mi accorsi dunque che due carabinieri avevano sparato due colpi di moschetto per colpire l'assassino, ch'essendo incappato in loro ne stava fuggendo: uno di questi colpi aveva preso me di striscio, l'altro aveva centrato l'uomo in fuga che ora supino giaceva sull'acciottolato, tra due ali di folla curiosa; accanto a quegli, una manciata di monete scintillanti era sparsa sul selciato. Fu così che finii in corsia e fui interrogato, insieme a Fasce, da un maresciallo dell'Arma, che volle sapere ogni dettaglio sull'accaduto. Non ti nascondo che raccontai a colui tutto, per filo e per segno, ma omisi, pel dubbio di aver immaginato ciò ch'ebbi l'impressione di vedere, il racconto dell'uomo che correva più veloce d'un felino, sospinto da chissà quale energia potente e misteriosa. In questa ora la tua mancanza mi stordisce. A presto. Tuo sempre Cesare 7 (sabato 20/10/07) La notte era passata avara, senza regalare apprezzabili segni di sollievo alla fatica, soprattutto mentale, accumulata da Carl durante il giorno della trasferta a Torino. Per favorire il sonno, sia durante il tragitto in treno che una volta giunto a casa, aveva evitato di leggere le fotocopie di quel testo così rocambolescamente ottenuto. Per un certo verso questa rinuncia gli aveva richiesto uno sforzo non indifferente, attratto com'era dal desiderio di scoprire se il contenuto corrispondeva alle sue aspettative nelle dimensioni in cui queste erano state alimentate dagli eventi. Ma per altro profilo non era così dispiaciuto di rinviare la lettura, proprio perché, sotto sotto, temeva che essa avrebbe potuto rovinosamente deluderle. Nonostante questa strategia preventiva, trascorse la notte con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto, congetturando su quante e quali verità scientifiche il suo illustre avo gli avesse fatto pervenire tramite un'opera in seguito occultata e giunta a lui fortuitamente. Ma quando nel pomeriggio inoltrato Carl giunse all'appuntamento con gli amici, il suo aspetto era manifestamente allucinato, dal momento che gli effetti della notte insonne si erano sommati alle potenti rivelazioni di quella giornata dedicata alla lettura. «Ehi, che ti è successo?» esordì Alberto. «Sei per caso caduto nella lavatrice prima della centrifuga?» Di fronte al suo enigmatico silenzio, Giovanni, che era in compagnia di Anna, la sua ragazza, incalzò: «Carl, ci fai preoccupare. Hai scoperto che il tuo gatto è un assassino seriale?» «Giovanni, non dire cretinate. Lo sai che non ne ho di gatti.» La serietà del viso di Carl nel formulare la risposta gelò gli amici, combattuti tra l'evidente necessità di mostrarsi solidali e l'incontenibile impulso di prorompere in una sonora sghignazzata. Dopo alcuni interminabili istanti di attesa, corredati da sguardi in stile Mezzogiorno di fuoco, Carl mise inaspettatamente fine alla sceneggiata con un sonoro: «Yahoo, ce l'ho fatta! Offro da bere a tutti!» Giovanni guardò Alberto che guardò Giovanni che guardò Anna, che disse a Carl: «Non c'ho capito niente, ma tu sei proprio uno schifoso maledetto.» Si erano incontrati come al solito in piazza Pace, sotto al grande platano. Decisero di entrare all'Oste Magno, la cui saletta superiore avrebbe permesso a Carl di raccontare ciò che gli era accaduto con qualche possibilità di essere sentito. «Lo so che sembra incredibile, ma è successo proprio quello che speravo: un bel contributo per la tesi servito su un piatto d'argento da nientepopodimeno che lo zio Cesare in persona. Se questo non è un colpo di culo, raga.» L'entusiasmo di Carl era incontenibile. Dopo aver raccontato nel dettaglio la visita all'Accademia delle Scienze, e di come era riuscito a ingraziarsi i favori della signora addetta all'accoglienza, e di come aveva saputo decifrare un enigma propostogli da uno sconosciuto (“quello che poi si è dematerializzato”, commentò Giovanni), si accinse a descrivere ciò che aveva scoperto leggendo gli atti del convegno di Lombroso, tenuto oltre cent'anni prima in quello stesso palazzo dove Carl, come un segugio, ne aveva scovato le tracce. «Certo che ne hai avuto proprio voglia, andare fino a Torino per seguire un'intuizione così fumosa» lo aveva interrotto Anna. Era una ragazzetta non molto alta ma proporzionata, con lunghi capelli biondi ed efelidi intorno al nasino alla francese; i piccoli occhi scuri erano nascosti da occhiali con una spessa montatura verde, tanto spessa da far ritenere a Carl che il suo campo visivo ne risultasse decisamente compromesso. «Dai, bimba, che ora viene la parte interessante» la riprese Giovanni. «Piantala Giò, sai che mi dà fastidio» protestò Anna, rifilandogli una sberla sulla spalla: si riferiva evidentemente all'abitudine di chiamarla in pubblico con quel nomignolo. «Vai avanti Carl» intervenne Alberto. «Vogliamo sapere cos'hai trovato.» «Dunque, succede che Lombroso insieme ad altri due tizi nel 1867 tiene una conferenza sui più recenti sviluppi dell'antropologia applicata allo studio dei criminali. Gli altri due si occupano di aspetti interessanti ma fuori argomento. Invece lui no.» Pausa ad effetto. «Invece lui cosa?» lo sollecitò dopo qualche istante Giovanni. «Invece lui presenta una casistica di nuovi tipi criminali che ha individuato con lo studio delle parti anatomiche di numerosi cadaveri. Tenete conto che a quest'epoca ha già scritto “L'uomo delinquente”, l'opera in cui per la prima volta sostiene e dimostra che ci sono chiari collegamenti tra certi caratteri fisionomici e la tendenza a delinquere.» «Grande Lombri» osservò Alberto, facendo ridere Anna. «Bene» proseguì noncurante Carl, «il nostro introduce una classificazione di delinquenti, più o meno del tipo: vagabondo-nato, imbecille vagabondo, tipo femmineo, spia-nata, genio reo-nato, rapinatore-nato.» «Ma è bellissimo! Questo tuo bisnonno era un mito» lo interruppe di nuovo Alberto. «Parlami del delinquente tipo femmineo, che caratteristica fisiologica presenta? Uccide sparando le tette a missile tipo Mazinga?» Giovanni scoppiò in una risata ma subito si ricompose: «Scusalo, bimba, è il solito deficiente, anzi il solito imbecille-vagabondo, infatti fa il rappresentante.» Poi, ignorando l'insulto di Alberto, si rivolse a Carl: «Non ho ancora capito il nesso con la tesi, Carletto...» «Ora ci arrivo. È da stamattina che leggo le descrizioni di 'sti tipi, convinto che ci sia qualcosa che faccia al caso mio. Per esempio, il tipo femmineo, per rispondere a te, Albi. A parte le descrizioni anatomiche più piccanti, che ora vi risparmio ma un'altra volta ce le leggiamo per farci due ghignate, è uno che non cresce molto di statura e tende a ingrassare, e ha una spiccata propensione per i reati a sfondo sessuale.» «Scusa Carlo, ma come ha fatto questo Lombroso a stabilirlo?» gli chiese Anna con un'espressione tra lo scettico e l'interessato. «Sono valutazioni statistiche. Ha studiato molti cadaveri di stupratori o assassini a luci rosse e ha scoperto che tra questi abbondavano individui con quei connotati fisici. In realtà la sua indagine era molto più ampia, perché rilevava nei cadaveri ogni più piccola anomalia fisica: che so, nel cranio ma anche nelle braccia, nella schiena, nei piedi, per poi inserire tutti questi dati in una specie di archivio e trarre da questo le sue conclusioni.» In quel momento arrivò il cameriere. «Cosa prendete ragazzi?» Anna chiese un Bellini, Alberto un succo di frutta alla pera, Carl e Giovanni due bicchieri di Nero d'Avola. «Quindi, scusa, se lui esaminando due assassini trovava che avevano entrambi i piedi piatti, concludeva che tutti quelli che hanno i piedi piatti erano assassini?» osservò Anna. «Più o meno è così, ovviamente su scala molto più grande, in modo da minimizzare gli effetti del caso, della pura combinazione, come quella del tuo esempio.» «Se aumenti il campione analizzato il risultato di certo migliora. Ma non mi sembra che la corrispondenza piedi piatti uguale assassino possa essere presa per buona, anche se trovi cento assassini con i piedi piatti» insistette Anna. «Anche perché di solito i piedi piatti non li hanno gli assassini ma i poliziotti...» La battuta di Alberto questa volta non fece presa. «In realtà hai perfettamente ragione, Anna. Infatti più avanti la gran parte delle conclusioni di Lombroso sono state smontate, ritenute pseudo-scienza. È sbagliato o almeno superficiale dire che a un carattere fisico corrisponde un certo stile di vita, una tendenza a comportarsi in un certo modo.» «Quindi, se avessi trovato qualcosa per la tesi, anche se non ci hai detto ancora cosa, sarebbe comunque materiale inutile perché pseudo-scientifico» insinuò Giovanni con l'aria di chi sotto sotto intende “te l'avevo detto io”. Mentre arrivavano le bevande, accompagnate da patatine e tramezzini tagliati in piccoli quadrati, Carl continuò convinto a esporre il suo ragionamento. «Aspetta Giò, nel mio caso questa tua considerazione potrebbe non valere.» «Mah, vediamo...» «Bene. Veniamo al rapinatore-nato. Si tratta di un individuo che si distingue per la sua innata tendenza a delinquere specializzata in un preciso campo: il furto con destrezza. In particolare la categoria che Lombroso ha individuato corrisponde a criminali che rubano e poi fuggono con estrema facilità, perché dotati di abilità particolari. Capite? Fuggono con estrema facilità!» Noncurante degli sguardi un po' smarriti degli amici, Carl proseguì. «Lombroso cita diversi fatti di cronaca dell'epoca, e in particolare quello di un tale B.F., non cita il nome forse per la privacy dei suoi tempi, ritenuto responsabile di almeno un centinaio di rapine. Il suo metodo è collaudato: entra in una bottega, chiede al negoziante di vedere un oggetto e, mentre quello si allontana, arraffa dal cassetto tutto quello che può e scappa col bottino. E questa sua fuga è sempre efficace perché molti testimoni sostengono che la sua corsa è paragonabile a quella di un “treno espresso” o di un “lupo affamato”, per citarne solo due. Muore accoltellato in una specie di resa dei conti con il complice che gli segnalava le botteghe più ricche da assalire e che gli faceva da palo.» Silenzio, forse imbarazzata delusione, forse incredulo stupore. «Questo è lo stile criminale del rapinatore-nato. Chiaro no? Ma la parte interessante è l'esame anatomico. Il rapinatore-nato ha statisticamente anomalie localizzate in una parte specifica del suo corpo: non il cranio, non gli arti, non i muscoli, ma...» «Ma?» tre voci intonarono all'unisono. «La schiena.» «In che senso anomalie alla schiena?» chiese Anna. «Vari tipi di anomalie. Per esempio B.F. è chiaramente cifotico.» «Cioè... gobbo?» concluse Giovanni, con un'aria di rassegnazione. «Esatto, per la precisione presenta una cifosi alto toracica, cioè un'accentuata curvatura della spina dorsale all'altezza della parte superiore della schiena.» «E questo gli avrebbe consentito di correre come un lupo nella steppa? Mah, mi sembra una tale forzatura» sentenziò Giovanni. «Cazzo, Giò, piantala, prendi delle lamette e falla finita» sbottò Alberto. «Ci fai sentire Carl fino in fondo?» «Non c'è molto altro da aggiungere. Le altre anomalie riscontrate da Lombroso nei rapinatori-nati sono sempre localizzate nella schiena. In maggioranza cifosi toracica o cervicale, ma anche vertebre in soprannumero o mancanti. In ogni caso la validazione statistica sembra chiara e documentata.» Anna, che aveva mostrato di seguire il ragionamento con interesse, osservò: «Ma come la metti con la confutazione delle teorie di Lombroso? Anche qui mi sembra che cadiamo nella pseudo-scienza.» «E poi che uso ne fai di queste teorie?» aggiunse Giovanni, evitando di proposito lo sguardo fulminante che Alberto gli stava rivolgendo. «Beh, le teorie di Lombroso sono state contestate nel punto in cui correlavano caratteri fisici a tendenze di comportamento. A me non interessa per niente che il cifotico sia da considerare un ladro o criminale. A me interessa che sia veloce. E questo, se provato sperimentalmente, non può essere contestato. Mi spiego meglio. Un conto è dire: hai la schiena curva e quindi sei un ladro; molto diverso dire: hai la schiena curva e quindi corri veloce.» «Cioè tu prendi solo la parte del suo lavoro che non ha implicazioni comportamentali ma puramente fisiche. Senza riguardo al fatto che con quei caratteri anatomici la persona sia un pluriomicida o il più buono dei missionari, ma solo che il suo fisico abbia certe attitudini più sviluppate» osservò Anna. «Brava, proprio così. Questa potrebbe essere una delle poche teorie di Lombroso con i veri connotati per essere considerata scientifica, anche se stranamente sembra che questo filone lui lo abbia abbandonato; nelle opere successive non si trova alcun approfondimento, nemmeno un semplice richiamo a questa intuizione.» «Ma se è così, se il tuo parente non ha approfondito la questione, come puoi dar corpo nella tesi a un'ipotesi scientifica appena accennata?» gli contestò ancora una volta Giovanni. «Giò, è molto semplice, gli approfondimenti empirici li farò io.» «Tu? Ma tu non sei mica un medico legale, pensi che qualcuno ti permetta di metterti a fare delle autopsie solo per verificare la tesi del tuo bisnonno?» «Ma io non ho mai pensato di sperimentare sui morti» ribatté Carl. «La mia idea è quella di sperimentare sui vivi, su atleti in attività, usando su di loro una versione aggiornata del metodo empirico statistico di Lombroso. Mi manca solo il materiale umano, che so, una società sportiva o un allenatore disposto a darmi una mano...» Alberto, che nell'ultima parte della conversazione era rimasto in silenzio, intervenne con convinzione: «Questo non è un problema, Carl. Ci penso io!» Pavia, 30 aprile 1855 Mia dolce Maria, Qual'enorme soddisfazione sperimentai oggi, e come bramo quel che m'attende! Ricordi ciò ch'ebbi a raccontarti circa il delitto che vidi compiere e sull'orribile fine capitata all'assassino? Orbene, avendo saputo che i due cadaveri verranno domani esaminati presso la nostra illustre facoltà, e proprio per mano dell'Ill. Prof. Lanza, non potei trattenermi dal supplicare l'esimio professore del coadiuvarlo nell'esame autoptico dei poveri resti. Pel vero non nutrivo grande speranza in un suo assenso, ma con mio incommensurabile giubilo egli accettò, ringraziandomi anzi dell'offerta posto che mi ritiene tra gli studenti del suo corso il più promettente! Non immagini per me qual valore abbia il poter esaminare insieme col dilettissimo Maestro cotesti due corpi, soprattutto quello tra i due che ebbe a mostrare un tale istinto a delinquere. Non avrò per certo io la parte principale nell'opera; ma anche da ausiliario potrò osservare e cogliere ogni eventual indizio che confermare possa le teorie alle quali sto alacremente lavorando. Vorrei che fosse domani per scriverti della mia giornata. Prenditi un bacio dal tuo Cesare 8 (domenica 21/10/07) Il selciato reso appena sdrucciolevole dalla rugiada mattutina è una vera insidia per il corridore. Non tanto per il pur temibile rischio di scivolare, quanto perché lo stile della corsa ne viene inevitabilmente condizionato. La falcata si riduce, impedendo l'ottimale appoggio del piede rispetto al baricentro del corpo; le oscillazioni laterali del busto si accentuano, determinando un eccessivo lavoro dei muscoli posturali, la cui missione è mantenere il busto stesso, e quindi tutto il corpo, in equilibrio; la posizione del tronco tende a incurvarsi in avanti, compromettendo la giusta estensione dell'arto nella fase di spinta e una corretta flessione dell'anca. Mentre attraverso le cuffie gli arrivavano le note di “Bambole” dei Negrita, Carl giunse su un lungo rettilineo e fu assalito da un desiderio irrefrenabile di accelerare. Accelerò. Lo fece consapevole della presenza delle piccole gocce di umidità sul grès del marciapiede. Lo fece pensando che, se avesse curvato in avanti le spalle, avrebbe potuto verificare la fondatezza della teoria di Lombroso, simulando l'anomalia che egli aveva riscontrato nei rapinatori-nati, offrendosi alla sperimentazione quale prima cavia del nuovo approccio empirico statistico che da lì a breve avrebbe applicato. Lo fece per misurare su se stesso la plausibilità di un germe di teoria seminato più di cento anni prima e che da lì a poco avrebbe prodotto i suoi frutti. Il vento gelido del mattino gli si insinuò nei polmoni. Le gocce dispensate dagli alberi inzuppati lo colpirono sul viso come chicchi di grandine. Fu pervaso per alcuni istanti da un senso di invincibilità, di dominio assoluto che il mulinare delle gambe gli permetteva di affermare sulla strada sotto di sé, ma che in quel breve momento ebbe la sensazione di poter esercitare anche sugli elementi, sul pianeta. Sulla sua vita. «Forse ho trovato la casa. Quando vieni a vederla, Carl?» Non succedeva di frequente che sua madre lo chiamasse con il suo originario nome di battesimo: stava a significare che riteneva l'argomento particolarmente importante. Carl era appena uscito dalla doccia e stava vagando in accappatoio per la casa, in attesa della colazione. La seconda della mattina, per la verità, dal momento che prima di uscire a correre si era rifocillato con una centrifuga di arance, mele e uvetta, giusto per non essere aggredito dai crampi della fame. Ma la vera colazione non poteva prescindere da caffellatte e biscotti. «Sai, Ma', che non ho molto tempo, la tesi mi sta veramente assorbendo» rispose Carl senza sospendere il suo peregrinare. «Va bene, ma ci tengo, non vorrai che la scelga da sola. Non avrai mica in mente di sposarti presto e lasciarmi sola soletta? Guarda che è pronto.» «Certo che no, Mami, rassegnati a sopportarmi per un bel po' di anni, come ogni bamboccione che si rispetti.» Si sedette a tavola e cominciò a inzuppare i biscotti. Poi, facendosi di colpo serio, aggiunse: «Però pensare a una casa diversa da questa mi mette un po' di tristezza. Sei sicura di non volerci ripensare? In qualche modo ce la faremo con l'aumento dell'affitto.» «Carl, te l'ho detto, non è solo l'aumento che ci ha chiesto il padrone di casa.» Prese posto anche lei a tavola, proprio di fronte al figlio, e continuò: «Quello, bene o male, col mio lavoro, con la pensione di papà e con quello che ci ha lasciato, dovremmo essere in grado di affrontarlo. Però questa casa per noi due è grande. E poi...» «E poi? Troppi ricordi?» «E già, troppi ricordi... Ma dimmi un po'... ieri sera sei arrivato tardi? Non ti ho sentito nemmeno entrare.» «Era circa l'una.» «E stamattina eri già in piedi alle sette per andare a correre? Cosa ti è successo?» «Per la verità ieri sera ero talmente stanco che, mentre Giovanni e Alberto litigavano su qualche argomento stupido, mi sono addormentato sul divanetto del locale. Che figura da rimbecillito.» «Eri molto stanco, tesoro, colpa di questa tesi. Non mi hai mica detto come è andata a Torino. Ti sei rintanato in camera tua e non ti sei più fatto vedere.» Così dicendo si alzò e ripose lo zucchero nella credenza. Carl, che stava ancora ripulendo la tazza alla ricerca degli ultimi biscotti, replicò: «Per quello è andata bene, Ma', anche oltre quello che mi aspettassi. Credo di aver trovato del materiale su cui si può lavorare. E pensare che tutto è partito dalla visita della zia... Questa storia dello zio Lombroso chissà se è vera, un giorno o l'altro lo verificherò; sai che ci sono società che fanno delle ricerche sulle tue parentele, da chi discendi. Che poi forse anche andando in comune, all'anagrafe, puoi controllare in archivio e risalire ai tuoi progenitori.» «Mi pare che si chiamino ricerche genealogiche. A proposito, ieri sera ha chiamato la zia Lucy. Ti saluta tanto. Mi ha detto che le è rimasta impressa questa tua voglia di riscoprire le origini, di studiare le opere dello zio scienziato.» «Per la verità la voglia me l'ha fatta venire lei. Prima che quel giorno me ne parlasse non lo sapevo manco di questa presunta parentela con Lombroso. Ma davvero tu non ne eri al corrente? Mi sembra talmente assurdo che papà non te n'abbia mai parlato. E neanche la nonna... Boh.» In quel momento il cellulare di Carl vibrò ed emise il suono di un gong, segno che era arrivato un sms. «Me lo passi, Ma'?» Carl prese il telefono e aprì rapidamente il messaggio, poi annunciò: «Ah, è Alberto, dice: “domani ore 14.30 Atletica Ducale chiedere mister Scala”. Grande Albi, veramente operativo.» «Che vuol dire? Vuoi fare seriamente con la corsa? Mi raccomando, prima vai dal dottore eh, fatti fare quei controlli sotto sforzo e tutto il resto. Non si scherza mica con la salute.» «Ma no, Mami, non attaccare. È solo per la tesi. Alberto mi ha procurato un contatto in una società d'atletica per sperimentare una teoria scientifica che viene dal passato.» «Una teoria che viene dal passato? In che senso?» «È complicato, un'altra volta ti spiego. È l'eredità dello zio Cesare.» Si alzò e depose la tazza nel lavabo; stava per avviarsi verso la sua camera quando, improvvisamente, si fermò e voltandosi aggiunse: «Senti mamma, va bene domattina?» «Per cosa?» «Per vedere quell'appartamento.» «Domattina? Penso proprio di sì.» 9 (lunedì 22/10/07) Carl aveva voluto arrivare con una ventina di minuti d'anticipo, tanto per rendersi conto dell'ambiente. Questo gli aveva permesso di dare un'occhiata dall'esterno all'edificio che ospitava l'Atletica Ducale, una palazzina grigia di due piani in stile littorio situata a sud del quartiere Montanara. Dalle pareti laterali dell'edificio partiva la cancellata che delimitava la pista di allenamento, non visibile dalla strada perché occultata da una siepe adiacente alla parte interna del cancello che ne percorreva tutto il perimetro. Sembrava che l'unico modo per accedere alla pista fosse entrare nel palazzetto, attraversarlo e uscire dal lato opposto. Quando alle 14.20 entrò nell'edificio, si trovò in un ampio atrio con le pareti cineree come la facciata, il soffitto molto alto e il pavimento rivestito di linoleum celeste pallido. Era completamente deserto. Di fronte a lui una scala di marmo consunto conduceva ai piani superiori, dove, in base alle indicazioni di un cartello scolorito, si trovavano la palestra e gli uffici. Fu disgustato dal lezzo misto di sudore e disinfettante che impregnava il locale. Indugiò qualche momento; poi, non vedendo anima viva, si decise a salire al piano superiore. Finalmente incrociò un signore di mezza età vestito con un tuta bianca e verde. «Mi scusi, dove posso trovare mister Scala?» gli chiese tutto d'un fiato, come se temesse di non avere più l'occasione di incontrare qualcuno. «Prova al piano di sopra, ma se è per i test d'ingresso cominciano la prossima settimana.» «Grazie.» Salì a due a due gli scalini che portavano al secondo piano, notando che alle pareti dell'ampio vano scale erano appesi vari attestati impolverati, diplomi consunti e cornici contenenti medaglie. Anche il secondo piano era tutt'altro che affollato. Di fronte alla scala una vetrina accoglieva coppe di ogni forma e dimensione; sopra di essa si stagliavano tre gagliardetti della società, diversi ma accomunati dal campo bianco bordato di verde. Due corridoi si dirigevano verso le due ali dell'edificio. Imboccò il più lungo, dal quale gli era parso di sentire delle voci. Si affacciò nella prima stanza, la cui porta aperta riportava la scritta “consiglio”. Conteneva un tavolo da riunioni rettangolare circondato da una dozzina di sedie. La parete opposta all'ingresso era occupata da una grande lavagna bianca, su cui erano riportati vari orari e sigle. Nessuno. Si diresse direttamente verso la porta da cui sembrava provenire il vociare, alcuni metri più avanti. Avvicinandosi udì una voce femminile che probabilmente stava parlando al telefono. Si fermò di fronte alla porta socchiusa e attese. «...pensi che mi sia divertita a cacciarlo fuori? La prossima volta ci penserà due volte a presentarsi con più di venti minuti di ritardo. Sarà anche forte ma questo non gli permette di comportarsi come cavolo vuole... Va bene, ti faccio sapere. A dopo.» Carl bussò e chiese permesso. «Avanti.» «Buongiorno. Scusi, sto cercando il mister Scala.» «Sì.» Si limitò a rispondere la donna bionda, seduta a una scrivania ingombra di carte. «... mi può dire dove posso trovarlo?» «L'hai trovato. Ce l'hai di fronte.» Dopo un secondo di sbigottimento, Carl proseguì. «Ah, mi scusi... veramente mi aspettavo... Vabbè... sono Carl Carrara mi ha dato il suo nome Alberto Bazzani.» «Sì sì, certo, accomodati. In effetti ieri mi ha chiamato Gianni, Alberto dev'essere suo figlio» disse la donna, continuando a controllare e spostare le carte che aveva sulla scrivania. «Ah, bene. Allora le ha già spiegato qual è il mio interesse.» Lei alzò la testa e lo fissò dritto negli occhi: «Chiara Scala, piacere» gli disse senza porgergli la mano. «Ma se vuoi puoi chiamarmi Mister, come tutti. Gianni mi ha accennato qualcosa, ma è meglio che mi spieghi tu di cosa hai bisogno.» Carl non era in grado di stabilire l'età della donna che aveva di fronte: poteva avere tranquillamente dai trenta ai quarant'anni. In ogni caso il nome Chiara non gli parve adatto a lei. A volte capita che nome e sembianze di una persona siano in assoluto contrasto. Ricordava per esempio un Ercole segaligno e un Pierino alto quasi due metri. A volte non è l'aspetto esteriore ma il comportamento della persona a confliggere con il nome di battesimo. Ecco tra tutti una Vittoria dimessa e rinunciataria, o un Armando convinto pacifista. Ebbene, Chiara aveva sì i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo alta, ma il viso non aveva granché a che fare con il chiaro: carnagione abbronzata come ha chi vive molto all'aperto; occhi grandi e scurissimi, con un taglio vagamente orientale; le stesse labbra carnose sembravano disegnate con un tratto di pastello nero. Ma niente trucco. «Sto scrivendo la tesi e mi sono imbattuto in una certa teoria sulle prestazioni sportive. Mi è venuta l'idea di provare a sperimentarla, non mi risulta che sia mai stato fatto.» «Ti spiace se mentre mi racconti scendiamo, alle tre arrivano i ragazzi e devo preparare il campo.» «No, ci mancherebbe.» Indeciso se darle del tu o del lei, Carl optò per un uso diplomatico di frasi impersonali, rinviando la scelta a una successiva fase del colloquio. Chiara si alzò e, passandogli davanti, disse: «Allora, seguimi e continua.» Non se l'aspettava ma il Mister era più alta di lui di un paio di centimetri. Indossava la stessa giacca della tuta biancoverde che aveva visto addosso al tizio al piano di sotto, peraltro con un impatto estetico del tutto diverso, e calzoncini corti aderenti. Mentre scendevano le scale, Carl, sentendosi un po' come un dottorino che segue il primario in corsia, riprese: «La tesi riguarda la rilevanza delle caratteristiche fisiologiche dell'atleta sul suo rendimento, in termini di risultati al massimo livello.» «E questa teoria?» «Mi sono concentrato a studiare la velocità. La teoria collega l'ottenimento di prestazioni massimali alla forma della schiena dell'atleta.» Nel frattempo erano giunti al piano terreno e, percorso un breve corridoio, erano entrati in un ampio locale destinato a magazzino, ingombro di attrezzi, tappeti e accessori. «Aiutami a prendere questi ostacoli alti. Riesci a prenderne cinque? E cinque io, fanno dieci. Seguimi, scienziato.» Mentre Carl non riusciva a trattenere un sorriso, uscirono dal magazzino e, transitando nuovamente per l'atrio di ingresso, passarono intorno alla scalinata che portava ai piani superiori; quindi scesero alcuni scalini e percorsero un corto passaggio che conduceva all'esterno, sul campo di atletica. L'ingresso si trovava in corrispondenza del centro di uno dei rettilinei. Da quel punto di vista Carl ebbe l'impressione che il campo fosse enorme. Vi erano alcuni atleti che si stavano allenando, chi con movimenti di riscaldamento al centro del campo, chi correndo sulla pista. Il rosso dell'ovale esterno, anche se decisamente sbiadito, produceva un piacevole contrasto con il verde del prato in esso contenuto. «Vieni che li posizioniamo» lo invitò Chiara. Lui continuò a seguire il Mister, mentre le braccia cominciavano a dolergli per il peso. Rimase leggermente staccato dalla sua guida, e non poté non notare le lunghe gambe muscolose e affusolate di lei, perfettamente dritte. Anche i polpacci, leggermente pronunciati, apparivano abbronzati come il suo viso. «Oggi proviamo i 110 ostacoli con tre allievi. Gli ostacoli vanno posizionati a circa 9 metri uno dall'altro, in corrispondenza del segno giallo che trovi sulla pista; questo è l'ultimo, per gli altri andiamo verso l'inizio del rettilineo. Hai mai fatto atletica?» «Per la verità no. Un po' di basket da ragazzo, poi nuoto e pallanuoto. Ora corro, ma così, ogni tanto...» «Peccato, ti sei perso qualcosa di importante... come hai detto che ti chiami?» «Carl, Mister, ma se vuole scienziato va benissimo.» Chiara si fermò e gli rivolse uno sguardo indagatore, con le sopracciglia aggrottate. «Carl, senti, questo tuo progetto come potrebbe funzionare? Hai già un'idea?» «Per la verità no. Cercavo proprio un confronto con un esperto del settore per capire se si può fare.» «Io un po' di esperienza ce l'ho e, se devo essere sincera, non credo che la morfologia dell'atleta possa più di tanto fare la differenza. Certo, ci sono alcuni vincoli nei parametri antropometrici, come la statura, il peso, le proporzioni del corpo. Ma penso che i fattori sociali e la predisposizione individuale a sostenere lo sforzo siano di gran lunga più importanti.» «Su questo sono d'accordo con quanto dice, Mister. Ma quello che penso è che a parità di altri fattori la mia teoria possa fare la differenza.» «Ora devo andare. Senti, non sono certa di poterti aiutare; ma se domani mi porti un po' di materiale vedo di rifletterci su. Magari un po' dopo, se puoi verso le quattro, okay?» «Okay, Mister, a domani allora.» «Ah, un'altra cosa. Se vogliamo andare d'accordo piantala di darmi del lei. Va bene che ho da poco superato i quaranta, ma vuoi farmi sentire una cariatide?» «Messaggio arrivato. Allora arrivederla... scusa, arrivederci.» Cretino. Mentre Carl stava facendo ritorno all'edificio incrociò tre ragazzi di circa sedici anni che, di leggera corsa, si stavano dirigendo verso di lei. Non gli era mai capitato, nei vari sport che aveva praticato, di avere un allenatore femmina. E se fosse accaduto non ne sarebbe stato granché entusiasta. Ma, mentre si allontanava sentendo le urla femminili di esortazione ai tre nuovi arrivati, si trovò a pensare che il suo ideale di allenatore era senza alcun dubbio incarnato dal Mister Chiara Scala. «Mister Scala è una femmina, e che femmina!» Alberto rimase lievemente interdetto sentendo quanto Carl gli urlava al cellulare, senza averlo nemmeno salutato. «Che fosse una femmina lo sapevo, ma mio padre non è sceso nei dettagli... Ti ha folgorato?» «Beh, una forza della natura. Anche se non so quanto vorrà aiutarmi nella mia sperimentazione. Su questo mi è sembrata molto dubbiosa, se non addirittura scettica.» «Strano, mio padre mi ha detto che è una piuttosto aperta ai metodi innovativi. Comunque questo non dirlo a Giovanni, come minimo ti dice che hai fallito ancora prima di iniziare. Come siete rimasti con lei?» «Che domani ci rivediamo per approfondire la questione.» «Bene, ma non approfondire troppo...» lo provocò Alberto, con un evidente sottinteso. «Non preoccuparti, Albi, in questo periodo ho un solo obiettivo. E poi una così è veramente di un altro pianeta, oltre che di un'altra età...» «Vabbè, Carletto, io ti avvisato. Ciao, tienimi aggiornato.» «Ciao, Albi, e... grazie.» 10 (martedì 23/10/07) Giulio apre lentamente gli occhi. Ha sognato di essere nel letto di un ospedale militare. Un sogno con odori e suoni da sembrare vero, con tanto di infermiera giovane e alta, elegante nel suo grembiule bianco che mette in risalto le forme sinuose e le caviglie sottili. Le caviglie sottili lo hanno sempre estasiato. Professionale con quel suo incedere rigido e impettito, con quella sua ostentata cortesia nel rassicurarlo e chiedergli oggi come si sente; con quella sua cuffietta bianca a contenere lunghi capelli di chissà quale colore e forma, non sufficiente però a schermare il dolce profumo di muschio che gli allieta il risveglio. Ma non è tempo di esitare. Ilio, il comandante del suo gruppo bolognese, sta aspettando lui e gli altri tre compagni per la missione di oggi. Ieri, grazie a loro, è stata una giornata memorabile per la Patria e per la Resistenza. Forse era un ufficiale quello che è rimasto a terra affogato nel fango e nel suo stesso sangue. Anzi, di sicuro era un ufficiale, vista la reazione scomposta del suo codazzo, le sventagliate di colpi che hanno punteggiato muri, transenne, selciato. Ma non loro, che anche oggi sono pronti ad agire, per colpire fino ad annientare gli odiati nazifascisti. Per ristabilire la giustizia e riprendere il potere usurpato dall'invasore. Sei tu, Maren? Cosa ci fai qui? No, quel documento non l'ho trovato. Lo cercherò meglio, stai tranquilla, te lo prometto. Ma certo che ti amo, sai che per te ho lasciato la mia famiglia. Se è così importante lo troverò. Scusa, Marghe, lo so che non potrai mai perdonarmi. Sono stato stupido a inseguire un'insensata chimera. Il partito non c'entra, per il partito rifarei tutto nello stesso identico modo. Scusami, Aldo. Scusami, Lucia. Ho dovuto combattere anche questo nuovo nemico, di sicuro da grandi lo capirete anche voi. Gli ideali sono ciò che conta davvero nella vita. Arrivo, Ilio, aspetta che prendo il fucile, anche oggi sarà una giornata memorabile. «Giulio, è l'ora delle medicine.» Sabina, l'inserviente con le caviglie sottili della residenza protetta “I Glicini”, con un tono pacato e rassicurante avverte Italo Carrara, detto Giulio, anni 83, che una nuova giornata sta cominciando. 11 (martedì 23/10/07) «Ragazzi, la schitarrata del Drigo di “In ogni atomo” è veramente unica» si disse Carl, lanciando sulla scrivania le cuffie e la riga con cui aveva appena simulato una chitarra elettrica. «Come dici?» gli urlò dalla cucina la madre, intenta in qualche faccenda domestica. «Niente, Ma', parlavo da solo.» Mentre stava ultimando di organizzare il materiale che aveva deciso di portare con sé nel pomeriggio, la madre gli si avvicinò e, in modo apparentemente distratto, richiamò la visita del giorno prima: «Carletto, non mi hai più detto niente dell'alloggio che abbiamo visto.» «Mi sembra di averti già detto tutto ieri.» Il tono tranciante del figlio provocò un'ombra di delusione negli occhi di Stefania, che provò a insistere: «Pensavo che magari quella di ieri potesse essere la tua impressione a caldo, e che riflettendoci sopra...» «Riflettendoci sopra l'impressione è decisamente peggiorata. Come fanno a proporti a 700 euro un buco con tre finestre nel vuoto e due su una strada trafficata come via Trento, oltretutto al secondo piano?» «Vabbè, Carl, intanto lo sapevo che qualunque cosa ti avessi proposto la tua risposta sarebbe stata questa» ribatté seccata la madre, ripiegando di scatto lo straccio che aveva in mano. «Questo lo dici tu. Guarda che se la casa mi fosse piaciuta te l'avrei detto. Questa non mi è piaciuta. Anzi, mi ha fatto proprio schifo.» «Senti, modera le parole, sono sempre tua madre. Forse non l'hai capito ma questo appartamento dobbiamo lasciarlo, ti è chiaro?» Il tono risoluto della madre ed il suo sguardo accigliato non ammettevano repliche. Ma Carl insistette: «Scusa, Ma’: un conto è doverlo lasciare, un conto volerlo a tutti i costi. E pur di realizzare questo obiettivo finire in un cesso triste e rumoroso. Non mi sembra che la decisione vada presa oggi, ce ne saranno di alternative. Ovunque mi giro vedo cartelli “affittasi”.» Nel frattempo lei aveva preso a spolverare nervosamente le mensole e l'armadio della camera di Carl. «Non credere che si trovi chissà che. Questo è già il quinto che vedo ed è quello che mi è piaciuto di più.» «Figurati gli altri...» «Spiritoso... Cercherò ancora, ma questo teniamolo come opzione.» «Ti prego, mamma, lascia perdere. Va bene ridurre un po' gli spazi, ma lì non ci stiamo. Per esempio, dove lo mettiamo il pianoforte di papà?» «Non è che possiamo essere vincolati al piano, tesoro. Vuol dire che lo venderemo o lo regaleremo a qualcuno. Tanto non lo usiamo né tu né io.» «Ma non possiamo sbarazzarcene così. Ti ricordi quanto ci teneva?» «Sì, ma lui non c'è più, Carl. Dobbiamo andare oltre.» In quel momento squillò il telefono. «Rispondi tu? Devo scappare» la invitò Carl. «Pronto? Oh ciao, Giacomo, aspetta solo un attimo.» Posò la mano destra sul microfono e, rivolta al figlio, chiese: «Rientri per cena?» «Non so, ti faccio uno squillo.» Mentre si chiudeva la porta di casa dietro le spalle, sentendo il tono che la madre stava usando al telefono, Carl provò un senso di fastidio verso quel Giacomo che da qualche mese le stava insistentemente ronzando intorno. Mentre pedalava per le strade di Parma, prese a rielaborare la proposta che da lì a poco avrebbe fatto al Mister. Non era certo che il percorso che aveva in mente sarebbe risultato fattibile e gradito all'allenatore, dal momento che richiedeva un certo impegno e il coinvolgimento attivo da parte degli atleti. Ma gli pareva il modo migliore per replicare le indagini che Lombroso aveva condotto ai suoi tempi. Quando giunse al campo, trovò l'edificio decisamente più affollato del giorno precedente. Gruppi di giovani di varia età si muovevano tra il primo piano e il piano terreno, e da questo verso la pista. Evidentemente per l'atletica la settimana vera e propria iniziava di martedì. Cercò Chiara nell'ufficio degli allenatori al secondo piano, dove l'aveva conosciuta il giorno prima, ma non la trovò. Si diresse quindi verso il campo, e infatti vide da lontano il Mister che stava impartendo consigli a un gruppo di sei ragazzi, compiendo ampi gesti con le braccia. Si avvicinò lentamente, fermandosi a una decina di metri di distanza a osservare, in attesa che lei si liberasse. Erano più grandi dei ragazzi del giorno prima, forse intorno ai diciotto anni. Tutti e sei la stavano ascoltando in completo silenzio, concentrati sulle parole che lei pronunciava e sui disegni che con le mani componeva nell'aria. Carl non riusciva a percepire l'intero monologo, ma solo alcuni frammenti, a seconda dell'intensità del volume da lei impresso alla voce. «...con la presa di contatto. Il piede è fondamentale. Non puoi tenere la caviglia... piede a martello, cioè in flessione dorsale..., in modo da ottenere un molleggio rapido e reattivo. Bene, ora dieci minuti di stretching. Ci vediamo direttamente domani in palestra alle sei.» Congedati gli allievi, Chiara, come se sapesse della presenza di Carl, anche se fino a quel momento gli aveva dato le spalle, si diresse direttamente verso di lui con un'andatura sostenuta. Indossava i soliti pantaloncini aderenti ma, invece della tuta, una canottiera verde che metteva in evidenza una notevole scollatura. Carl dovette imporsi un enorme sforzo, mentre lei si avvicinava, per mantenere lo sguardo puntato sugli occhi o sul viso del Mister, invece che su quell'irresistibile insenatura e sulle curve che la formavano, da cui era inesorabilmente attratto. «Buongiorno, scienziato, scusa il ritardo. Hai portato il materiale?» «Certo, Mister, non tutto perché avrei dovuto venire con la carriola, ma quanto basta.» Mentre facevano il percorso inverso a quello del giorno prima, Chiara continuò: «Ho riflettuto sulla tua ricerca, Carl. Penso che dovrò parlarne con il Presidente della società e con il Direttore Tecnico prima di dirti di sì, eventualmente.» Quell'ultimo avverbio stava a significare: non farti illusioni. «Ma se questa sperimentazione, come l'hai definita tu, richiede test o esami sugli atleti diversi da quelli che facciamo di solito, capisci che non si può farne a meno.» «Per carità, facciamo tutto in regola, ci mancherebbe. L'ultima mia intenzione è darvi dei problemi.» «Bene, accomodati pure. Da dove cominciamo?» Carl si sfilò lo zaino e prese posto di fronte a lei, cominciando a estrarre i papiri. Da quella posizione l'effetto calamita del décolleté risultò amplificato, ma Carl resistette strenuamente e continuò a orientare in modo opportuno i suoi occhi di metallo. «Ti risparmierei le ricerche preliminari, durate la bellezza di sei mesi, e andrei dritto al punto, ossia alla scoperta fresca fresca di venerdì scorso.» Ed estrasse le quaranta fotocopie. «Devi sapere innanzitutto che l'autore di queste pagine non è uno studioso qualunque, ma un mio lontano parente vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, celebre per essere stato il padre della moderna criminologia.» «Cesare Lombroso?» chiese Chiara protendendosi pericolosamente verso Carl. «Ehi, come fai a conoscerlo?» rispose lui stupito. «Per pura combinazione: ho letto qualche settimana fa un articolo su Panorama. Mi è rimasto molto impresso perché si mettevano in luce solo aspetti negativi dei suoi studi. Se ricordo bene ha avuto seguaci in vita e a inizio Novecento, tra l'altro ispirando alcune teorie che hanno portato a crimini di massa basati sulla selezione della stirpe...» «Beh, non era sua intenzione, è stato mal interpretato» la interruppe Carl. «... ma il suo pensiero, più di recente, è stato più o meno demolito.» Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Carl fu assalito da atroci presentimenti. Ci pensò Chiara a spezzare l'imbarazzo: «Ora però sono proprio curiosa di capire che cosa ha a che fare con l'atletica questo tuo parente Lombroso.» Lo sguardo inquisitore che seguì mise Carl in seria difficoltà. Dopo aver vistosamente inghiottito la saliva, attaccò a descrivere la teoria che aveva ricavato dalla lettura della conferenza del suo avo. Descrisse i connotati del rapinatore-nato e di come egli, forse andando oltre l'oggetto delle ricerche del suo ascendente, avesse collegato la presenza statistica di anomalie della colonna vertebrale non alle tendenze criminali della categoria, bensì alle doti di velocista. Mentre procedeva con la descrizione, mostrava alla sua attenta interlocutrice i passi della conferenza che contenevano premesse e conclusioni, mentre, quando si discostava dal testo e rappresentava la sua teoria, tracciava con una matita diagrammi e scritte su un foglio bianco. Il Mister aveva dato segni di costante attenzione, anche se mai l'espressione del suo viso o il suo intercalare avevano mostrato approvazione o condivisione delle parole di Carl. Quando questi terminò di illustrare le premesse teoriche, lei lo incalzò: «Bene, direi che quanto hai esposto mi è molto chiaro. Se potessi lasciarmi i documenti mi piacerebbe leggerne direttamente il contenuto. Ma ora veniamo al punto. La sperimentazione sugli atleti come vorresti condurla?» A Carl la richiesta di lasciare i documenti provocò un'intima reazione di difesa: tutto sommato non conosceva più di tanto l'allenatore; consegnarle il frutto della lunga ricerca, nonché fulcro della sua tesi, non gli parve una scelta saggia. Perciò le rispose: «Mister, ti lascerei volentieri il plico, ma è l'unica copia che ho e stasera volevo lavorarci su. Magari te ne faccio un duplicato per la prossima volta» sapendo di mentire. Poi continuò: «Lombroso lavorava sui cadaveri con un approccio statistico, raccogliendo più informazioni possibili su individui che in vita si erano distinti per tendenze criminali; quindi confrontava i risultati con analoghe informazioni riferite a persone diciamo normali. Noi abbiamo due ordini di problemi. Il primo è che ovviamente non possiamo far fuori tutti gli atleti per poterli sottoporre ad autopsia...» «Beh, per qualcuno di loro questa soluzione non mi dispiacerebbe affatto» lo interruppe Chiara con un sogghigno. «Ti capisco» proseguì Carl sorridendo. «Ma a parte questi opportuni casi, in generale dovremmo rilevare le caratteristiche fisiche degli atleti con degli esami diagnostici strumentali, per esempio radiografie, TAC o risonanze magnetiche. Forse può anche essere utile un'analisi posturale.» L'espressione del Mister si fece più seria, ma lo lasciò continuare. «Il secondo problema consiste nel fatto che dobbiamo rilevare, per gli stessi individui, non le tendenze virtuose o delinquenziali, bensì il livello di predisposizione alla velocità, mediante test mirati che dovremo individuare insieme. Anzi che dovrai individuare tu che sei la tecnica del settore.» «Ma su quanti atleti? Di che età e di che genere? Di quale grado di formazione atletica?» obiettò con convinzione Chiara. «Dato che si tratta di raccogliere dati a fini statistici, maggiore è il campione e più rappresentativa risulta la ricerca. Quindi estenderei l'esame a tutti i velocisti, maschi e femmine, dagli esordienti alle promesse, che appartengono alla società.» Carl si accorse di aver pronunciato quest'ultima frase con un tono perentorio. Per rimediare si affrettò ad aggiungere: «Che ne dici, Mister?» Dopo alcuni istanti, che a Carl parvero interminabili, giunse la risposta: «Dico questo: chi paga?» «Come chi paga?» «Hai idea di cosa vuol dire sottoporre a quegli esami clinici 54 atleti?» «Pagherò io.» Alle spalle di Carl una voce baritonale si era improvvisamente intromessa nella conversazione. Carl si voltò di scatto e si trovò sovrastato da un omone di almeno 120 chili, con capelli bianchi impomatati all'indietro e occhietti chiari e sottili. Indossava un completo blu senza cravatta. Con un largo e smagliante sorriso porse la mano a Carl e si presentò: «Buongiorno, Carrara, sono Emilio Monteverdi, il Presidente di questa gloriosa società. Mi ha parlato di lei l'amico Gianni Bazzani e non le nascondo che le sue idee mi hanno molto incuriosito.» Carl alzandosi gli diede la mano e, sopportando l'alito da fumatore seriale che lo investiva, replicò: «Molto lieto, Carl. Non pensavo che il signor Bazzani avrebbe contattato anche lei. Ma non le nascondo che la cosa non mi dispiace affatto.» «Stia comodo. Anzi, mi siedo anch'io con voi per qualche minuto. Ovviamente quello che le ho detto dipende solo da un fatto, anzi da una persona. Quella che abbiamo seduta di fronte.» Essendo chiamata in causa, il Mister istintivamente chiese: «In che senso, Emilio?» «In questo senso. Sai che da tempo stiamo cercando in tutti i modi di rilanciare la nostra società. Per carità, i risultati non sono affatto deludenti, soprattutto nei settori giovanili. Ma quando una decina di anni fa ho accettato la carica che ricopro, la mia intenzione era quella di fare il salto di qualità, diventare una realtà che potesse dire la sua a livello nazionale. Questo purtroppo non è successo. Sicuramente non per colpa dei tecnici che sono tutti preparati e capaci; ma nemmeno per colpa degli amministratori, che hanno compiuto ogni sforzo per migliorare la struttura e attirare giovani atleti dotati di talento. Solo i risultati rendono una società sportiva prestigiosa e affermata, e per ottenere risultati oltre alle strutture e agli allenatori in gamba occorre il materiale umano. Perciò se esiste un metodo per capire già a livello giovanile chi può essere dotato di talento, chi possiede le caratteristiche fisiche adatte a farlo diventare un campione, beh, individuare e adottare questo metodo può essere veramente la svolta. Può aiutare a selezionare un gruppo su cui concentrare le risorse e permettere alla società di emergere come scuola d'eccellenza per i velocisti italiani.» Indubbiamente, pensò Carl al termine del monologo declamato con enfasi, costui è un professore o un politico. «Va bene, ma io cosa c'entro? Perché il tutto dovrebbe dipendere da me?» replicò Chiara, visibilmente infastidita dalla mancata risposta alla domanda formulata. «Perché io sono disposto personalmente a finanziare questa ricerca. Ma solo se tu ritieni che l'idea di Carl possa realmente portare ai risultati attesi.» Di fronte all'ultima dichiarazione, Carl diresse lo sguardo per terra e poi verso le pareti e il soffitto, evitando deliberatamente di incontrare gli occhi di Chiara. Da lei dipendeva il suo prossimo futuro e non voleva condizionarla con un'espressione minacciosa o, peggio, compassionevole. Dopo alcuni istanti la sentì rispondere: «Emilio, mi stai dando una bella responsabilità. Lo sai qual è la mia idea: che al di là delle doti fisiche quello che rende un atleta un campione è la testa. La volontà di emergere, la costanza nel sostenere l'impegno e la fatica, gli stessi fattori legati all'ambiente familiare e sociale che gli hanno forgiato il carattere. Ed è con questo approccio che ho affrontato ciò che Carl mi ha sottoposto. Però...» «Però?» la sollecitò il Presidente, rubando la parola a un rassegnato Carl. «Però il progetto di Carl si basa su dati statistici che, pur se datati e raccolti con diverse finalità, sembra che abbiano un certo fondamento. Varrebbe la pena approfondire l'esame in modo più mirato e con strumenti attuali. Non ti posso garantire che il risultato sia certo, che si riesca di sicuro a ottenere il metodo di selezione del talento come lui pensa e che tu vorresti. Ma credo che un tentativo vada fatto.» Anche Chiara nel proferire la sua conclusione evitò di guardare Carl, e non poté perciò notare i suoi occhi azzurri che stavano brillando per l'emozione. «Bene» affermò Emilio Monteverdi. «Proprio quello che volevo sentire. Allora buon lavoro. E tenetemi costantemente aggiornato.» Mentre, dopo essersi alzato rumorosamente, il Presidente usciva dalla stanza, Carl rivolse il suo sguardo sorridente al Mister. Fu allora che lei per stirarsi la schiena arcuò il busto in avanti puntellando le mani all'altezza dei reni e Carl, cadendo rovinosamente proprio verso la fine del pomeriggio, finì per incollare gli occhi alle rotonde forme che gli si stagliavano di fronte. Chiara gli restituì il sorriso, facendolo avvampare, per poi concludere: «Bene, si parte.» Verona, 20 maggio 1855 Caro Cesare mio, quanto vorrei essere accanto a te, al fine di sostenerti in questa tua ricerca, e anche un poco per proteggerti dall'enormità di conseguenze che potrebbero le tue intuizioni comportare. So che da sempre sei stato attratto dallo studio della connotazione fisica dell'individuo, onde comprendere come possa cotesta esercitare influenza o addirittura cagionare azioni et inclinazioni morali della persona. E tu puoi affermare senza tema di smentita che questo tuo proprio interesse mi vede partecipe e sodale. Ma, se ben ho compreso, nell'ultima tua affermi di aver potuto riscontrare le prime prove sperimentali di queste tue supposizioni. Orbene, sei certo che l'indagine su un solo individuo sia significativa per giungere a siffatte conclusioni? Tra l'altro, a coteste autopsie tu hai solo potuto partecipare senza agire attivamente. Come puoi congetturare che un ispessimento del cranio di un soggetto possa manifestare influenza sull'attitudine di costui nel compiere gesti delinquenti? Per quanto ne sai, egli non ha compiuto altre malefatte se non quella, pur grave, connessa agli eventi che gli hanno dato la morte. Il fatto poi, come scrivi, che il suo corpo sia ricoperto di tatuaggi e cicatrici in gran numero, come può essere conferma della tendenza abituale di quegli a rubare et assassinare? Ma la cosa che più turba il mio animo riguarda le conclusioni ove giungi su quell'altro individuo. Costui lo hai potuto vedere correre come furia impazzita, veloce come mai potesti vedere altro uomo. Ma non può averti ingannato l'eccitazione dei fatti, l'assistere a una rapina, a una colluttazione, a un duplice assassinio? A volte si vede quel che si vuol vedere. Quanto poi alla tua ipotesi, che tale soggetto abbia potuto correre sì veloce poiché dotato di un corpo fuori dal comune, non ti nascondo che essa mi fa rabbrividire! Non aveva muscoli potenti nelle gambe, giacché la sua peculiarità era nella schiena, la forma arcuata della quale gli avrebbe permesso di imprimer agl'arti una forza maggiore di quanto possa fare chi la schiena l'ha dritta. Ma non può essere cotesta una pura combinazione? Ossia che la velocità della di lui corsa, se tale effettivamente è stata e non una tua immagine, derivi solamente dalla voglia di questi di riprender possesso del maltolto, dalla foga nel raggiungere chi gl'aveva estorto le sue monete, senza dover incomodare teorie talmente ardite? Ti prego Cesare, non volermene per quanto ti scrivo! Sai di quanto amore incondizionato io mi nutra per te. Ma proprio per questo temo che tu sia attratto da troppo macchinose speculazioni, che ti possano sviare dalla retta strada dei tuoi studi, terminati i quali potremo ancora congiungerci nella nostra bella e amata città. Con vivo amore Maria 12 (domenica 28/10/07) Sugli spalti del Tardini, nell'intervallo tra i due tempi di Parma-Livorno, aleggiava un irreale e inquietante silenzio. Il fitto brusio che di solito connota il periodo di attesa che precede la ripresa era ridotto a qualche isolato vociare. Su di tutti emergeva quello dei tre amici. Rompendo la consolidata consuetudine in base alla quale i tre si riunivano almeno un'ora prima della partita, Carl era arrivato giusto in tempo per il fischio d'inizio. Giovanni e Alberto lo avevano accolto con un corale «Finalmente!» Per questo, appena Rizzoli aveva fischiato la fine di un primo tempo piuttosto scialbo, conclusosi con una rete per parte, i due si erano scatenati nell'assalire Carl con una raffica di domande relative agli sviluppi del suo progetto. Difatti, come ormai aveva preso d'abitudine, cosa che Giovanni non aveva esitato a rimproverargli, Carl si era immerso totalmente nella nuova esperienza, dimenticando persone e cose che lo circondavano. «Allora, ti vuoi degnare di farci partecipare ai tuoi progressi, se ce ne sono stati?» attaccò Giovanni. «Stai tranquillo che l'allenatrice non te la porta via nessuno, se questo è il tuo timore.» «Che c'entra l'allenatrice?» rispose Carl un po' stizzito. «Ma come? Mi diceva Albi prima che gli hai raccontato che è un gran pezzo di gnocca.» «Veramente non mi ha detto proprio così» lo corresse Alberto. «E soprattutto mi ha assicurato il suo totale disinteresse per raggiunta pace dei sensi.» «Ah già, è vero. Ormai si nutre esclusivamente di tesi e ricerca.» «Ragazzi, piantatela. Lo so, sono monotematico, ma questa faccenda mi ha veramente preso. E sembra che alla fine non interessi solo a me» si difese Carl. «Caspita. E chi sarebbe quest'altro interessato? La bella allenatrice, quella che frequenti solo per dovere professionale?» lo provocò ulteriormente Giovanni. «Certo gli interessati non sono i miei amici, evidentemente...» rispose Carl un po' immusonito. «Dai, Carl, non te la prendere. Come sei suscettibile, non ti si può dire proprio niente» si difese Giovanni. «Ma sì, stavamo ovviamente scherzando. Invece raccontaci come vanno i contatti con la Ducale. Mi è sembrato che la telefonata di mio padre abbia dato qualche risultato» intervenne Alberto, cercando di smorzare i toni, come sempre. «Per la verità, non so se te l'ha detto, pare che le telefonate siano state addirittura due: una all'allenatrice e una al Presidente della società. E quest'ultima è stata talmente efficace che ha portato il Presidente a finanziare, con soldi suoi, le analisi di laboratorio che servono per la sperimentazione.» «Analisi di laboratorio? Ma che diavoleria stai mettendo su, Carletto?» gli chiese Giovanni. «In realtà ci limitiamo al minimo indispensabile. Sarebbe meglio sottoporre ogni velocista del Ducale a risonanza magnetica, ma il costo sarebbe esagerato e non voglio abusare della disponibilità del Presidente. Sono più di cinquanta. Perciò abbiamo optato per una più economica radiografia alla spina dorsale, quella che nella sua porzione cervicale, secondo il mio avo, caratterizzerebbe i rapinatori-nati; anzi, come li abbiamo ribattezzati con il Mister, i velocisti-nati.» «Il Mister? Ma non era un pezzo di femmina?» lo interruppe Alberto. «Si, lo è, ma tutti la chiamano Mister.» «Non avrà mica delle tendenze questa Mister, mi dispiacerebbe molto... per te» riattaccò Giovanni. «Così a prima vista lo escluderei, ma su queste cose non si può mai dire» rispose Carl ostentando disinteresse sull'argomento. «Comunque, è una parecchio tosta nel suo lavoro, credo che il motivo del soprannome sia questo.» «E dopo le lastre cosa succede?» lo sollecitò a continuare Alberto. «Intanto per ora stiamo raccogliendo il consenso degli atleti, o dei genitori per i minorenni. Se tutto va bene questa settimana cominciamo con le analisi, Monteverdi ha fatto un accordo con una clinica. Poi, per tutti quelli che aderiranno, si comincia con i test atletici che il Mister sta elaborando. Lo scopo finale è mettere in relazione esami e test, con un programmino banale che sto scrivendo, per creare le correlazioni statistiche.» «Certo che non tutti saranno disposti ad accettare. Magari ne avranno per le palle di andare in clinica a farsi dei raggi X» constatò Giovanni. «Sembra che per ora i maggiorenni non diano problemi, stanno accettando tutti. Invece i genitori dei minori sono più dubbiosi. Le madri soprattutto, quando le chiamiamo la prima cosa che chiedono è se si tratta di un reality.» «Cacchio, 'sti talent show ci stanno rincoglionendo tutti» dichiarò Alberto. In quel momento le squadre fecero nuovamente ingresso in campo e lo stadio si riebbe dal torpore che lo aveva assalito. Carl provò ad alzare la voce per proseguire la sua cronaca ma, visti gli scarsi risultati, decise che tanto valeva godersi il secondo tempo. La ripresa fu decisamente più avvincente. Passato in svantaggio con un rigore discutibile, il Parma era riuscito prima a pareggiare e poi ad andare sul definitivo 3-2 in prossimità del finale. «Tre punti pesantissimi, soprattutto perché conquistati contro una diretta avversaria per la retrocessione» sentenziò Alberto mentre si avviavano verso l'uscita, galleggiando sulle onde formate dalla calca che abbandonava lo stadio. «In effetti pare che la stagione si stia raddrizzando» confermò Giovanni, attirando gli sguardi stupiti degli amici, preoccupati per un simile slancio di ottimismo. Continuò: «Per la verità il Livorno non è un gran metro di paragone, però...» «Ah! Ecco Giò, mi pareva, ora sì che ci siamo» commentò Carl, scambiando un cenno d'intesa con Alberto. «Ci siamo cosa?» chiese Giovanni. «Ora sì che ti riconosco. Ecco il mio Giovanni del bicchiere mezzo vuoto.» «Guarda che essere troppo ottimisti è da stupidi. Poi le cose non succedono e ci rimani di merda. Prendi la tua sperimentazione...» «Cazzo, Giò, non gufare, mi tocco i cogl...» lo interruppe Carl, dissolvendo il finale ma accompagnando l'affermazione con un gesto plateale che non si prestava a equivoci. «Non avevi un altro esempio da fare?» si aggregò Alberto, mentre il trio aveva raggiunto la piazza antistante l'ingresso dei distinti laterali. «Beh, calza a pennello. Ora tu metti insieme tutti questi dati, no? Poi se va bene fai uscire una bella striscia di numeri, magari anche due o tre grafici colorati dove si vede che sì, è proprio come il tuo antenato aveva detto. E a questo punto? Andranno ben validati questi risultati, dovrai fare ulteriori verifiche. E quanto tempo ci vorrà? E se poi sul campo non si confermano le statistiche?» Carl, che non aveva ancora spostato le mani, si sforzò di rispondere in modo ragionevole: «Giovanni, quando esplori un campo che nessun altro ha mai battuto è inevitabile che si proceda per tentativi, per approssimazioni successive. Voglio dire, intanto vediamo cosa salta fuori dalla prima fase, poi sicuramente occorrerà validare l'esito impiegando tutto il tempo che sarà necessario. E se poi, prima o dopo, non si arriva ai risultati sperati: amen, almeno potremo dire di averci provato. Io avrò tardato ancora un po' la tesi, qualcuno avrà investito dei soldi a babbo, un gruppo di atleti si sarà beccato una dose di raggi X...» «...e qualcun altro sarà contento di aver portato sfiga» concluse Alberto. «Ragazzi, non fraintendetemi...» provò a difendersi Giovanni. «Vabbè, ragazzi, ora devo scappare, ci sentiamo presto» disse Carl mentre già era in procinto di allontanarsi. «Ok, ma fatti vivo. Facci sapere come procede» lo invitò Giovanni, con un tono che cercava di sottintendere un reale interesse. «Come procede... anche con il Mister» aggiunse Alberto. Mentre Carl si allontanava salutando con il braccio teso in alto, non poté evitare si sentire i due amici che dietro di lui stavano sonoramente sghignazzando. 13 (venerdì 2/11/07) «Ehi, Mister, quanto ho fatto?» «Non preoccuparti di quanto hai fatto, Ettore. Pensa piuttosto a prepararti per il prossimo test. Forza, Tommy, tocca a te adesso. E poi si prepara Nico.» Chiara, in piedi ai margini della corsia, stava impartendo istruzioni alla categoria maschile juniores dell'Atletica Ducale. Carl, cronometro alla mano, era come al solito estasiato del modo fermo e sicuro con cui lei conduceva le sedute di allenamento. La stessa autorevolezza la stava adoperando nel coordinare i test finalizzati alla raccolta dei dati utili alla sperimentazione. I sette ragazzi si stavano avvicendando nelle batterie delle prove che il Mister aveva proposto a Carl e che questi aveva ovviamente accettato. In realtà la proposta era solo un atto di cortesia, dal momento che nessuno meglio di lei avrebbe potuto individuare quali fossero i test più idonei a fornire una rappresentazione completa delle attitudini alla velocità del singolo atleta. Ma lui aveva apprezzato che il Mister avesse usato nei suoi confronti questo riguardo. Per rendersi utile e partecipare attivamente al programma, Carl si era offerto di rilevare i tempi, e così stava facendo, dopo aver ricevuto le indicazioni tecniche su come utilizzare il cronometro. Con sua grande sorpresa, tutti gli atleti avevano prestato il consenso alla sperimentazione, tranne una ragazza i cui genitori avevano rifiutato di “far fare alla propria piccola la cavia umana”. A tutti sarebbero stati applicati gli stessi test che gli juniores stavano ora compiendo, senza distinzione per categoria e sesso. Questo approccio, ad avviso del Mister, rappresentava una piccola forzatura: sarebbe stato utile differenziare le prove per tener conto della diversa età e del diverso grado di maturità atletica raggiunta nelle varie categorie. Ma alla fine aveva prevalso la necessità di applicare le medesime verifiche sull'intero campione esaminato, rinviando a una successiva valutazione l'opportunità di apportare dei fattori di correzione al fine di tener conto dell'eterogeneità del campione stesso. «Bene, mi sembra che in una seduta si riesca a completare i test per tutta una categoria» disse Chiara quando l'ultimo atleta ebbe terminato l'ultima delle prove e il gruppo si stava allontanando. «In questo modo le sedute di allenamento non saranno intralciate.» «Scusa, Mister, a volte mi sembra di essere stato davvero invadente.» «Non ti preoccupare, Carl. Se veramente io o la società non avessimo gradito a quest'ora non saremmo qui. E se il Presidente non avesse visto in questo tuo progetto addirittura un'opportunità, stai pur certo che non avrebbe finanziato l'operazione.» «Beh, su questo devo proprio ringraziarti. Ti confesso che quando Monteverdi ha chiesto a te l'avallo mi sono seriamente preoccupato.» «Ah, bravo lo scienziato. È questa la considerazione che hai di me?» «No, scusa Mister... la considerazione che ho di te non te la dico, non vorrei sembrare un adulatore. Ma devo dire che sul metodo eri decisamente scettica.» «Non ero, sono. Sono tuttora scettica. Ma questo non vuol dire chiudere le porte. I pregiudizi spesso ti portano a fare scelte sbagliate, a perdere delle occasioni. Quindi ho pensato che una chance la tua idea la meritasse.» Carl si fermò come incantato a guardare i movimenti fluidi e decisi del Mister, che mentre parlava aveva riordinato i fogli ove aveva annotato i risultati dei test per poi riporli all'interno di una cartellina rigida. Mentre si stavano incamminando verso l'ufficio, due dei ragazzi che avevano completato le prove fecero ritorno verso di loro. Quando li raggiunsero prese la parola il più alto dei due, che a Carl pareva si chiamasse Nico. Gesticolava in modo esagerato, probabilmente più per il momento di tensione o di imbarazzo che per sua normale abitudine. «Mister possiamo parlarti... in privato?» «In privato? Se riguarda i test di oggi potete dire tranquillamente. Se invece riguarda altro ne possiamo parlare in un'altra occasione» rispose Chiara assumendo un'espressione molto seria. Carl notò che, quando si rivolgeva ai suoi atleti con un tono più fermo del solito, le si formava una ruga al centro della fronte, subito sopra le sopracciglia. «In effetti riguarda i test, ma... ne vorremmo parlare solo con te» insistette l'altro ragazzo, che aveva una pettinatura in stile moicano, rasato ai lati della testa e sulla nuca e con una specie di cresta sulla sommità del capo. Parlò guardando per terra e a voce bassa, come per evitare che Carl potesse sentire, anche se la sua posizione accanto al Mister rendeva questa possibilità nulla. «Ale, potete tranquillamente parlare anche davanti a Carl. Non c'è niente che lui non possa ascoltare.» Carl fu preso dal dubbio di allontanarsi e guardò Chiara, ma lesse nettamente nel suo sguardo e in un assenso appena accennato col capo il messaggio che doveva rimanere lì. «Beh, vedi Mister» si fece coraggio il ragazzo alto, «la verità è che volevamo sapere se con questi test che stiamo facendo possono cambiare i valori, le gerarchie per i regionali. Sai, ci è venuto il dubbio che quello che abbiamo dimostrato finora non serva più a niente.» «Sai, dopo tanta fatica e tanto impegno» aggiunse il secondo, «non vorremmo che nel giro di un'ora tutto venisse rivoltato per colpa di..., anzi, in seguito a questo metodo...» «Ragazzi, sapete benissimo che le gerarchie, come le hai chiamate tu Nico, non sono scritte né immutabili finché il Direttore Tecnico Morselli non dirama la lista dei convocati. Quindi la vostra domanda non ha senso» rispose il Mister fissando alternatamente i due ragazzi negli occhi. Dopo un istante di pausa continuò: «Però non date troppa importanza a questo test. Come vi ho spiegato nella riunione di ieri lo scopo è solo, per così dire, scientifico. Per rispondere a te, Alessio, non si tratta di un metodo di valutazione o di allenamento, ma semplicemente di un progetto di ricerca universitario. Vero, Carl?» «Sì, esatto» si limitò a bofonchiare lui imbarazzato. «Però, Mister, non ho capito una cosa» proseguì Nico. «Se questi test servono solo per la sua ricerca» e dicendo sua inclinò la testa nella direzione di Carl, «perché ieri Monteverdi ha detto che è la società a finanziarli? Allora interessa anche alla società.» Acuto il ragazzo, pensò Carl, ora voglio proprio vedere come il Mister ne viene fuori. «Vedi, Nico, capisco la tua idea. Ma non credere che tutto quello che viene organizzato dalla società serva per valutare gli atleti» rispose Chiara. «Ti faccio questo esempio. A scuola le lezioni servono per insegnare agli alunni; anche interrogazioni e compiti in classe hanno lo scopo di verificare se l'insegnamento è stato efficace. Ma una volta all'anno si fa la gita di classe, e questa ha un altro obiettivo. Diciamo che questa ricerca è un po' come la nostra gita di classe.» I due ragazzi si guardarono perplessi, e anche Carl non si sentì granché persuaso dal tentativo di Chiara di depistarli. «Sarà, ma non ci vedo chiaro. Qui sento puzza di fregatura» azzardò Alessio sbuffando, e fece per voltarsi e andarsene. «Ehi, ragazzo, dove credi di andare in questo modo?» lo bloccò Chiara alzando appena il volume della voce e puntandogli l'indice contro. La ruga si accentuò. «Se non sei convinto non prendi e te ne vai in questo modo. Sai che questi atteggiamenti non mi vanno giù. Se non sei convinto me lo dici e ci chiariamo, okay?» Alessio rimase del tutto spiazzato dalle parole del Mister. Provò a balbettare: «Ma veramente...» «Veramente non ti basta quello che ti ho detto?» lo interruppe lei, alzando di un altro po' il tono. «Questo progetto non ha niente a che fare con le scelte del Direttore Tecnico e mie. Se decideremo di scegliere te o Nico o entrambi sarà perché complessivamente ci avrete convinti di poter contare su di voi. Non perché avete le misure più adatte. Ti è chiaro ora?» «Va bene, ho capito» concluse rassegnato Alessio. «Scusa, Mister, ci tenevamo a toglierci questo dubbio» aggiunse Nico. «Bene, spero di avervelo tolto. Ci vediamo domani» li congedò Chiara. I due si allontanarono e, dopo alcuni metri, attaccarono a parlare sommessamente tra loro. Quando furono usciti dal suo campo visivo, Carl sfogò la sua delusione con l'allenatrice: «Non mi sembravano poi così convinti. Mister, pensavo tutto ma non che i ragazzi mettessero i bastoni tra le ruote. Penseranno che sono un rompipalle.» «Vacci piano con le conclusioni, scienziato» rispose Chiara, mentre la tensione che solo adesso mostrava di aver accumulato lasciava il posto a una vaga inquietudine. Poi, invitando Carl ad avviarsi verso l'edificio, proseguì: «Forse tu non hai preso in considerazione quali avrebbero potuto essere le reazioni degli atleti coinvolti nel progetto. Ma guarda che i ragazzi non sono soltanto delle cavie da studiare, come hanno eccepito i genitori dell'unica ragazza esclusa. Alcuni di loro, anzi, ripongono nell'atletica le loro uniche aspettative per l'avvenire.» «Nessuno l'ha mai pensato...» «Tu arrivi qui bello fighetto con la tua camicia stirata mentre loro sudano e si fanno un mazzo così. E tiri fuori una teoria, che loro non conoscono ma evidentemente sospettano, in base a cui no, non conta che tu ti alleni sei giorni su sette. Non conta che nonostante tu abbia i muscoli a pezzi ti spacchi ancora per grattare al cronometro, magari dopo un paio di mesi, uno o due decimi. Quello che conta è se sei nato corridore oppure no.» Carl, colpito dallo sfogo, senza pensarci due volte la interruppe: «Scusa, Mister, ma questo lo pensano loro oppure lo pensi tu?» Chiara lo guardò con un mezzo sorrisetto e, senza rispondere, continuò a camminare. Fu allora che Carl intravide nei suoi occhi, per la prima volta, una sottile ombra di malinconia. Quando furono arrivati nell'atrio fu lei a rompere il gelido silenzio che era calato su di loro: «Domani pomeriggio abbiamo le femmine junior. Chissà perché ma prevedo di nuovo casino. Speriamo che vada tutto liscio.» «Lo spero anch'io. Ho come la sensazione di averla fatta troppo semplice.» Poi, ricordandosi all'improvviso di una cosa, aggiunse: «Ah, Mister, in macchina ho la copia del libro di Lombroso per te. Esco a prenderla e te la porto.» «Non serve che sali. Sto andando via anch'io, se mi aspetti fuori salgo a lasciare la cartellina, prendo la borsa e ti raggiungo.» Le giornate cominciavano decisamente ad accorciarsi. Non erano ancora le 19 e già il buio aveva avvolto la città. Carl si diresse verso la Toyota Yaris, parcheggiata a un centinaio di metri dall'ingresso della Ducale, e salì al posto del guidatore per recuperare i fogli appositamente portati per il Mister. Quando, partendo da casa, era salito in auto, aveva pensato di nasconderli sotto il sedile del passeggero, con la conseguenza che, uscendo, se n'era dimenticato. Raccolse i fogli, che erano contenuti in una fascetta trasparente, e diede loro un'ultima occhiata. Fino a quella mattina non aveva ancora sciolto le sue riserve circa il Mister: dare o non dare fiducia a quella ragazza, se così poteva definirla, tanto capace e determinata nel suo lavoro? Sarebbe stato saggio consegnarle quelle pagine per lui così importanti? Una tale abilità poteva di certo comportare una pari dose di ambizione e, magari, di cinismo nell'appropriarsi dei risultati del lavoro comune. Ma alla fine si era deciso per il sì, facendosi guidare dall'istinto: nella logica della collaborazione che si era tra di loro instaurata, e questo a Carl pareva fino a quella mattina innegabile, il punto di vista di lei avrebbe potuto dare un importante contributo. Magari anche cogliere alcuni aspetti da lui trascurati, nonostante avesse letto l'opera almeno una ventina di volte. Gli inattesi sviluppi di quel pomeriggio, in particolare le dichiarazioni di Chiara, da lei attribuite ai ragazzi ma implicitamente rivelatrici del suo stesso pensiero, gli avevano fatto balenare nuovi dubbi. Nonostante il suo duro atteggiamento nei loro confronti, era del tutto evidente che nel caso di un eventuale problema lei avrebbe preso le parti dei suoi allievi. Tuttavia la decisione era presa e Carl non volle ritornarci su. Stava aprendo la portiera per tornare verso l'ingresso quando la sua attenzione fu richiamata da un concitato vociare: guardando verso la fonte del rumore, vide nella semioscurità che Chiara era in piedi poco distante dal portone d'ingresso della società e stava discutendo animatamente con un uomo che poteva avere all'incirca cinquant'anni. Decise di avvicinarsi lentamente per capire cosa stesse succedendo, pur mantenendosi a una certa distanza, nascosto dietro alcuni alberi, per non dare l'impressione di curiosare o intromettersi in faccende personali. «...mi devi lasciare in pace, Sergio. Non voglio più vederti né qui fuori né tanto meno fuori casa.» «Chiara, ti prego. Io ho bisogno di te, lo capisci? Mi devi dare un'altra possibilità...» la supplicò l'uomo, avvicinandosi e cercando di trattenerla a sé. «Ehi, vuoi tenere giù le mani? Lo vuoi capire che mi fai schifo? Devi stare distante da me almeno un chilometro» ribatté lei, arretrando per divincolarsi dal maldestro tentativo di abbraccio. «Ma perché sei diventata così acida? Non mi dirai che ora ti piace solo fare la puttanella con i tuoi allievi...» «Piantala, Sergio, non sai quello che dici. Hai bevuto? Puzzi di alcol. Vattene, lasciami in pace» rispose Chiara, evidentemente esasperata, come dimostrava il suo tono di voce via via crescente, quasi fino allo strillo. Mentre assisteva alla scena dalla sua postazione, Carl stava auspicando che qualcuno uscisse dal portone della società e, vedendo la situazione, intervenisse. Quando però l'uomo si avvicinò ulteriormente a Chiara alzando minacciosamente le braccia, decise di rompere gli indugi e si avvicinò risolutamente al disturbatore, senza minimamente considerare le possibili conseguenze. «Senta lei» lo apostrofò arrivandogli alle spalle «la vuole smettere di importunare il Mister?» L'uomo si voltò verso di lui e Carl, trovandoselo di fronte, si rese conto che era più alto di lui di almeno dieci centimetri e decisamente più corpulento. Il suo sguardo appariva vagamente allucinato ed era probabile, come aveva sospettato Chiara, che fosse del tutto ubriaco, a giudicare dal fetore del suo fiato e dall'instabilità delle sue gambe. Con un ghigno sprezzante gli rispose: «Cosa vuoi, ragazzetto? Togliti dai piedi. Sei per caso uno di quelli stronzi con cui questa puttanella si diverte a farsela?» E dicendo questo gli si avventò contro con intenzioni tutt'altro che amichevoli. Carl fu preso da una vampata di collera, non tanto per l'offesa diretta a lui quanto per l'insulto rivolto al Mister. Tutto avvenne in un attimo, come se la sua volontà fosse sopraffatta da una forza superiore che muoveva il suo corpo. Lasciò cadere la cartellina con i fogli, che si sparsero sul marciapiede, e, dopo aver schivato il braccio dell'uomo che fendeva l'aria all'altezza del suo viso, con tutta la forza che aveva gli diede uno spintone sul petto, usando entrambe le mani. Forse perché colto alla sprovvista, ma soprattutto a causa del suo equilibrio precario, l'uomo subì la spinta senza opporre alcuna resistenza e, lanciando una sonora bestemmia, precipitò all'indietro e finì lungo per terra. Cercò di sollevarsi da quella posizione ma il tentativo non andò a buon fine: si limitò ad alzare appena la testa e il busto, ma dopo essere rimasto per un attimo in una posa sbilenca, come un'altalena guasta, ripiombò a terra e rimase in quella posizione, a bocca aperta. Evidentemente l'alcol che aveva in corpo aveva avuto il sopravvento. Chiara, che durante la colluttazione era rimasta come impietrita, si avvicinò a Carl percorrendo un ampio semicerchio intorno al corpo che giaceva supino. «Mio Dio, è morto?» disse con un filo di voce, avvicinandosi a Carl per avvinghiarsi al suo braccio destro fino a prendendogli la mano. Carl fu sorpreso da quel gesto e anche un po' contrariato, perché Chiara di certo si era accorta che la sua mano stava tremando. Le rispose ansimando: «Non credo proprio. Non mi pare che abbia picchiato la testa. Dai, andiamocene prima che riesca ad alzarsi.» E cominciò a raccogliere i fogli sparsi per terra, sufficientemente lontani dal molestatore. Anche Chiara fece altrettanto, non distogliendo lo sguardo dall'uomo. I suoi occhi scuri, spalancati e vigili, illuminavano il buio. In pochi secondi i fogli alla rinfusa erano nella cartellina trasparente e tra le mani del Mister. «Ti accompagno a casa? Mi sembri piuttosto sconvolta», le offrì Carl mentre si allontanavano a passo sostenuto dal luogo dello scontro. Ancora non riusciva a crederlo, ma aveva messo le mani addosso a qualcuno, lui che in vita sua non aveva nemmeno torto un baffo a un gatto. «No grazie, hai già fatto veramente tanto. Ho la bicicletta proprio qui.» In effetti Chiara pareva avere già riacquistato una certa tranquillità, al contrario di Carl che si sentiva ancora mancare il sostegno delle gambe. «Veramente, non fare complimenti. Non vorrei mai che quell'energumeno ti seguisse fino a casa.» «Davvero, Carl, lo conosco. Per un po' mi lascerà in pace. Grazie ancora, sei stato un tesoro. Ci vediamo domani.» «Lo conosci? Allora è uno che ti perseguita abitualmente.» «Beh, per la verità...» concluse Chiara «quell'energumeno è Sergio, il mio ex marito.» dando la prima pedalata, Torino, 14 giugno 1871 On. Prof. Lombroso, ho ricevuto, se non erro per mezzo del comune amico Dott. Brunacci, il dono prezioso delle bozze del suo ultimo lavoro. Le debbo confidare ch'ho letto e studiato la sua prosa, e le conclusioni a cui perviene m'hanno sinceramente provocato angoscia. Già la sua mirabile conferenza, tenuta così brillantemente alla nostra Accademia lo scorso anno, m'aveva fatto balenare la deduzione che nella sua ricerca potesse celarvisi la possibilità di andar oltre lo studio dei singoli individui. Già allora v'era il germe dell'analisi antropologica e del confronto sano e positivo tra le variegate razze che abitano il nostro Pianeta. E puntualmente tali mie previsioni si rivelano fondate, come dimostra il contenuto della sua bozza, che va ben più in là di quanto avessi prognosticato. Sennonché vorrei che Lei tornasse a riflettere sulle conclusioni a cui perviene, tanto acute quanto difficili da accettare per la comunità scientifica e financo per il consesso civile. Fui colpito a tal punto che intesi subito convocare la Gilda dell'Accademia, onde sottoporre al consiglio quanto appresi dal suo scritto. E difatti la settimana prossima ci si riunirà per sottoporlo a un esame critico collegiale. Ella, avendo il privilegio del genio, sta battendo con merito un percorso scientifico ardito, che però si rileva irto di insidie e false piste. Il discrimine tra la retta via e l'aberrazione può essere molto sottile, a volte quasi impossibile da cogliere. Ma qui debbono giocoforza intervenire il senso della civiltà e della comune morale, che orientano lo scienziato nell'escludere le possibilità inaccettabili e contrarie alle regole della natura. Sono fermissimamente certo che questa luce illuminerà la sua esemplare ricerca, per il bene suo e pure della sua famiglia. Suo ammiratore Prof. Annibale Usai Politecnico di Torino 14 (sabato 3/11/07) «Un sabato pomeriggio alternativo, non c'è dubbio» osservò Giovanni, uscendo sulla pista dopo aver attraversato insieme a Carl e Alberto l'atrio di ingresso dell'Atletica Ducale. «Di che ti lamenti? Vuoi mettere un pomeriggio all'aria aperta, invece di rinchiudersi in un cinema o in un locale? E poi oggi è previsto l'allenamento femminile...» replicò Alberto. Era stato proprio lui a insistere con Giovanni per convincerlo ad assistere a quella sessione dei test, forse per evidenziare in via diretta i suoi meriti rispetto all'opportunità procurata all'amico. «Ragazzi, sistematevi qui sugli spalti» li invitò Carl, indicando la struttura metallica posizionata alla destra dell'uscita dal corridoio che portava alla pista, pressappoco in corrispondenza della linea del traguardo. Per la verità il nome usato da Carl era decisamente altisonante per quella tribuna piuttosto rudimentale, consistente in una decina di gradoni metallici collegati da una scala e larghi non più di sette/otto metri. «Io vado a svolgere il mio compito.» Si avviò verso il bordo del campo mentre Giovanni e Alberto gli mostravano entrambi il dito pollice della mano destra e un sorriso dentuto. Raggiunse il Mister, che stava già impartendo istruzioni alle cinque atlete juniores. Non molto distanti da loro altri atleti stavano provando le corse per il salto con l'asta. Quando si accorse della sua presenza, Chiara lo accolse con maggiore trasporto del solito, sorridendogli apertamente, forse in memoria di quanto accaduto il giorno prima. «Bene, ecco Carl, ve lo ricordate dalla riunione dell'altro ieri? È a lui che si deve il programma di oggi. Ci aiuterà con il cronometro.» «Ciao a tutte» esclamò Carl, non trovando niente di meglio di quel saluto da riunione per alcolisti anonimi. Quando le ragazze si allontanarono per completare il riscaldamento e prendere posizione sulla linea di partenza, Carl ne approfittò per rivolgersi a Chiara: «Tutto bene, Mister? Ti sei ripresa dall'incontro-scontro di ieri sera? Dopo mi era venuta voglia di chiamarti per sapere come stavi, ma non volevo disturbarti.» «Scherzi? Potevi farlo tranquillamente. L'ho capito che tu sei uno di quelli che teme sempre di disturbare. Beh, l'eccessiva educazione a volte ti fa passare per maleducato, oltre che farti perdere delle opportunità. Te lo dico perché ero così anch'io.» Così dicendo, gli consegnò il cronometro che aveva estratto dalla tasca della tuta. «Quindi ho fatto la figura del maleducato a non chiamarti...» le disse, passando un lembo della manica sul vetro del cronometro. «No, certo, dicevo in generale. Anzi, mi dispiace davvero che tu sia rimasto coinvolto in questa faccenda. Però meno male che c'eri. Sergio è in un momento un po' difficile...» «Capisco, ma le mani non si dovrebbero mai usare, soprattutto con le donne.» «Dai che cominciamo. Sono con te quei due che gesticolano?» e inclinò la testa verso la tribuna, facendo dondolare la coda di cavallo che aveva anche quel giorno, come in tutte le precedenti occasioni in cui Carl l'aveva vista. «Sì, sono due miei amici. Uno dei due è Alberto Bazzani, il figlio del tuo amico che ha avuto il merito di farci conoscere. Se disturbano li mando via...» «Perché? Potevi anche farli venire qui. Però vedi che col vizio della paura di disturbare insisti?» gli fece Chiara dandogli una spintarella sulla spalla. «Hai ragione, Mister, è più forte di me» ammise Carl sfiorandole la mano, «mi impegnerò per diventare un disturbatore menefreghista.» «Forza ragazze, cominciamo» urlò improvvisamente lei rivolta verso la linea di partenza, dove le atlete stavano aspettando e chiacchieravano sparpagliate. «Al fischio parte Sonia, e poi via via le altre secondo l'ordine che vi ho dato.» Poi, rivolta a Carl: «Sei pronto? Cominciamo con i 100 metri.» «Certo che sono pronto, cominciamo pure.» Sul cronometro il tempo realizzato da Sonia risultò di 12.33. Carl lo comunicò al Mister che lo trascrisse sul foglio poggiato sulla cartellina rigida, sul quale era già riportata la tabella ove rilevare i test del pomeriggio. Sulle ordinate erano indicate le varie prove, sulle ascisse i nomi delle cinque atlete. Carl sbirciò i nomi delle ragazze e constatò che sarebbe stato il turno di Valentina. Prese il posto sulla linea di partenza una ragazza che si distingueva dalle altre, nonostante la distanza, per via dei capelli di un rosso intenso, corti ma scolpiti verso l'alto a sfidare la legge di gravità. Al fischio mise in evidenza la sua andatura, potente ma nel contempo leggera come quella di una gazzella. Mentre Carl stava leggendo sul cronometro il tempo di 12.18, Valentina gli passò accanto e, col fiato appena incrinato dallo sforzo, gli disse: «Che ne dici, Einstein?» Carl la seguì con uno sguardo attonito, poi si volse verso il Mister che a stento stava trattenendo un sorriso. Fu lei a rispondere: «Niente commenti, Vale. Pensa piuttosto alla prossima prova.» I test andarono avanti per quasi tutto il pomeriggio. Ogni tanto Carl si voltava verso gli spalti e immancabilmente uno dei due spettatori, o entrambi, gli rivolgevano gesti che Carl non riusciva, o non voleva, comprendere. Nei passaggi successivi Valentina non fece commenti verbali, ma non evitò mai di bersagliare Carl con i suoi occhi verdi. In particolare, al termine dei 60 metri lanciati, nel passargli accanto strinse il pugno appena sollevato e gli strizzò l'occhio. Lui era indeciso se leggere in quel suo atteggiamento la volontà di prenderlo in giro o semplicemente la manifestazione di una personalità esuberante. Di sicuro era stata una fortuna che Giovanni e Alberto fossero rimasti lontani e non avessero potuto cogliere i segnali indirizzatigli da Valentina: sarebbe stata una rovina. Quando le ragazze ebbero terminato la loro ultima prova si radunarono intorno al Mister in attesa di istruzioni e di commenti sui risultati. Nel frattempo, su invito di Carl e dietro l'insistenza di Chiara, Alberto e Giovanni stavano scendendo dal loro punto di osservazione per unirsi a loro. «Bene, abbiamo concluso. Ci vediamo lunedì alla solita ora» dichiarò il Mister, suscitando un moto di delusione tra le ragazze. Fu Carla, una brunetta piccola e con la voce squillante, a farsi portavoce del gruppo: «Ma come, non possiamo conoscere i risultati?» «No, non è previsto che i risultati vi vengano comunicati. Per ora non sarebbe significativo» rispose il Mister perentoria. «Prima devono essere rielaborati e collegati all'esame diagnostico» aggiunse Carl. «Caspita, come parli difficile.» Carl si voltò verso la voce che aveva sussurrato nel suo orecchio destro, intuendo, ancor prima di poterlo verificare con gli occhi, che si trattava di Valentina. Aveva distolto lo sguardo da lui e, assumendo un'aria noncurante, stava osservando davanti a sé il Mister e le sue compagne. Carl fu colpito dalle sottili labbra vermiglie e dalle lentiggini che risaltavano sulla pelle bianchissima. E dal piercing alla narice destra. Era in procinto di risponderle ma fu preceduto dalla risposta polemica di un'altra atleta, una ragazza di colore con lunghi capelli ricci fermati da una fascia verde: «Però avremmo il diritto di conoscere i nostri tempi.» «Gioia, ripeto: non dovete avere fretta, verrà il momento di conoscerli.» Carl si chiese se Gioia fosse un soprannome o un epiteto usato in quell'occasione da Chiara, posto che non ricordava quel nome sulla tabella dei test. Pensò anche che doveva trattarsi di una ragazza adottata o italiana di seconda generazione, poiché parlava la nostra lingua perfettamente. Forse per la fermezza della risposta del Mister, o forse per il sopraggiungere di due estranei, Alberto e Giovanni, che nel frattempo avevano percorso la porzione di campo che separava le tribune dalla zona della pista dove si trovava il gruppo, le ragazze parvero rassegnarsi e si avviarono verso gli spogliatoi. A Carl non sfuggì un'ultima occhiata di sottecchi da parte di Valentina. «Beh, credevo peggio» sospirò Chiara quando si furono allontanate. «Mister, ti presento Giovanni e Alberto, due miei cari amici.» «Piacere» fecero i due in coro. «Appassionati di atletica?» chiese Chiara provocatoriamente. «No...» risposero di nuovo insieme. «Ma voi due parlate solo in coppia?» li interruppe subito seria, con quell'espressione che ormai Carl aveva imparato a conoscere e che lei assumeva quando voleva mettere alla prova il suo interlocutore. Dopo un'occhiata d'intesa ad Alberto, Giovanni riuscì a prendere la parola da solo: «No, non sempre facciamo i coretti. E per quanto riguarda l'atletica, io personalmente non posso definirmi un appassionato ma ogni tanto mi piace guardarla.» «Sì, anche a me piace guardarla» si associò Alberto. «Ogni quattro anni?» replicò il Mister. «Perché...?» risposero ancora all'unisono. Si guardarono e continuò Giovanni: «Perché ogni quattro anni? Anche più spesso.» «Perché di solito l'atletica guadagna importanza solo in occasione delle Olimpiadi, o sbaglio? Prova a chiederlo a tuo padre. A proposito, sei tale e quale a lui, solo un po' più alto» queste ultime due frasi erano ovviamente rivolte ad Alberto, che rispose: «Già, me lo dicono sempre. Comunque l'atletica diventa importante non solo in occasione delle Olimpiadi, ma anche quando un tuo amico cerca di introdurre in una specialità una teoria rivoluzionaria...» «Rivoluzionaria mi sembra esagerato» puntualizzò Carl. «Rivoluzione è quella che mi hai scatenato tra gli atleti, scienziato. Ma riusciremo a farcela» affermò il Mister. Poi, riponendo la cartellina nella borsa, aggiunse: «Vi saluto ragazzi, è stato un piacere. Noi ci vediamo lunedì pomeriggio, okay?» e rivolse a Carl un sorriso per lei inusuale. «Okay, Mister, buona domenica» rispose Carl, per poi aggiungere, mentre lei era già a un paio di metri di distanza: «Ah, hai per caso letto quel materiale?» «Sì, ho cominciato, magari ne parliamo lunedì. Ciao» e si avviò a passo deciso verso l'edificio. «Salve» risposero in coro Alberto e Giovanni, per poi guardarsi trattenendo a stento una risata. «E bravo lo scienziato» Giovanni attaccò a canzonare Carl appena ebbe la certezza di non essere sentito. «Però su una cosa avevi proprio ragione» continuò Alberto. «Questo Mister è proprio un gran pezzo di figliola. E che grinta. Una così ti prosciuga.» «Dai, Albi, piantala» replicò Carl, «ma vi siete accorti che sembravate Stanlio e Onlio? Oooo stupìdo parla tu. No dai che parlo io» facendo prima la voce bassa di Onlio e poi quella acuta di Stanlio. «Povero Carletto, gli abbiamo fatto fare brutta figura davanti alla sua nuova conquista» ironizzò Giovanni. Carl volle ignorarlo, ma in realtà aveva incassato il colpo. «Certo che anche tra le atlete c'è n'erano almeno un paio degne di nota» riprese Alberto, «peccato non aver approfondito la conoscenza.» «È proprio vero! Mi sa che dovremo tornare» si associò Giovanni. «Tu non fare il furbo che sei... sposato» cercò di vendicarsi Carl. Nel frattempo si erano incamminati verso l'uscita dal campo, superati da vari atleti che, assecondando il calare della luce, si muovevano nella stessa loro direzione per guadagnare gli spogliatoi. Giunti nell'atrio incrociarono tre delle juniores, quella che forse si chiamava Gioia, Carla e una terza di cui non ricordava il nome, che stavano uscendo dagli spogliatoi. Non appena le ragazze passarono oltre, Alberto scambiò con Giovanni uno sguardo complice per poi congedarsi frettolosamente da Carl: «Beh, noi andiamo, ci vediamo domani alla partita.» «Ciao e grazie» fece Giovanni. «Ok…, a domani...» rispose Carl, mentre, un po' sconcertato, rimaneva da solo al centro dell'atrio. Si avviò anche lui all'uscita e salì sull'auto. Guardando nello specchietto, vide i due amici che, allontanandosi dalla parte opposta, avevano raggiunto le tre ragazze e stavano attaccando conversazione. Partì sorridendo e scrollando la testa. Dopo due o trecento metri, superò una bionda che in prossimità del marciapiede stava curva sulla sua bici, forse per tentare una riparazione. Una bionda con una coda di cavallo alta e un paio di gambe chilometriche. Ehi, è Chiara! Si rese conto Carl, e immediatamente accostò. «Che ti succede, Mister?» le chiese avvicinandosi. «Ma guarda un po', ho proprio bisogno di uno scienziato. Mi sa che l'ho combinata grossa.» «Vediamo un po'...» Carl non era particolarmente abile nella meccanica e in generale nei lavori manuali. Anzi, sua madre spesso lo rampognava con espressioni del tipo: “Certo che in questa casa ci vorrebbe qualcuno in grado di usare cacciavite e martello”, senza precisare l'ovvio sottinteso che in casa c'erano solo loro due e chiaramente lei non era tenuta a simili interventi. Oppure: «Avresti fatto meglio a iscriverti a una scuola professionale, sai come sono richiesti al giorno d'oggi elettricisti e idraulici?», con ciò alludendo pure alla circostanza che, viste le scelte scolastiche, non vedeva particolarmente brillante il suo futuro lavorativo. Ciononostante, simulando fare esperto, si avvicinò alla ruota posteriore della bici, e, dopo un paio di minuti di tira e piega e sposta, sentenziò: «Non c'è niente da fare: qui si deve cambiare il cerchione.» «Vuoi dire che non basta riparare gomma e camera d'aria?» provò a insistere Chiara, visibilmente contrariata. «Direi proprio di no. Vedi in questo punto, il cerchione si è piegato e forma una cuspide. Se cambi solo il copertone te lo buca di nuovo.» «Cavolo, e ora come faccio? A quest'ora di sabato non trovo certo nessuno che me la ripari.» «Semplice, leghi la bici lì» disse Carl indicando una rastrelliera per biciclette poco distante, «e lunedì mattina la porti ad aggiustare. E io ti accompagno a casa.» «Scusa per l'eccesso di profumo, mia madre è un po' fissata con il deodorante auto. Bella zona via Mordacci» fece Carl quando lei gli ebbe comunicato la destinazione. Inserì la freccia sinistra e si avviò. Chiara lì per lì aveva respinto l'offerta, ma dietro la sua insistenza aveva ceduto, anche offrendo meno resistenza di quanto lui si aspettasse. «Sì, non è male. È giusto un appartamentino per una persona. Devo cercare di non ingrassare per non starci stretta.» Carl sorrise e, vincendo il timore di apparire invadente, le chiese: «Quindi sei sola, niente figli...» «No, per fortuna. Quando ti separi sono loro a subire le conseguenze più devastanti. Purtroppo lo so per esperienza diretta dato che anche i miei si sono separati quando io avevo quattordici anni.» «Eh, già. Pure io conosco il problema, anche se più alla lontana. I miei nonni paterni erano divisi; anzi, lo sono tuttora.» «Dev'esserci qualcosa di genetico nella propensione a separarsi» osservò Chiara, «spesso capita che i genitori lo siano e poi anche il figlio finisca per esserlo. Mi è capitato di notarlo più di una volta.» «Non è detto che sia una questione di geni. Forse è l'ambiente dove vivi che forma le tue inclinazioni e incide sulle scelte che compi. Un figlio di divorziati vive in un clima che magari gli rimane addosso, e che prima o dopo nella sua vita emerge e lo condiziona al punto di replicare la strada dei suoi.» «Te ne sei accorto, scienziato? È buffo ma stiamo sostenendo l'esatto contrario di quanto ciascuno pensa sulle abilità atletiche. Hai appena detto che l'ambiente in cui cresci prevale sul DNA, o no?» «In effetti sì...» ammise Carl. Mentre guidava non aveva difficoltà a parlare con lei o ad ascoltarla guardandola per diversi istanti, mantenendo la visione periferica sulla strada. Dopo un attimo di pausa continuò: «Tornando alle conseguenze dei divorzi, oltre ai bambini mi sembra che anche i mariti non la prendano granché bene, almeno a giudicare dal tuo caso...» «Sergio non è come l'hai visto ieri sera. Sono già due anni che siamo separati. È stata una scelta difficile ma, almeno per me, inevitabile. Lui inizialmente non l'ha presa così male, so anche che frequentava un'altra. Poi, improvvisamente, un paio di mesi fa ha cominciato a ronzarmi intorno con pretesti stupidi. Me lo sono trovato fuori dal portone di casa, all'uscita del campo. Addirittura qualche fila dietro alla mia al cinema. Un paio di settimane fa ho anche cambiato il numero del cellulare perché mi tempestava di messaggi...» «So che si commette un reato quando si perseguita una persona in questo modo» la interruppe lui. «Per la verità in Italia non ancora, ci sarebbe il reato più generico di violenza privata; una mia amica avvocato mi dice che invece negli Usa esiste da tempo e si chiama stalking. Comunque non vorrei arrivare a questo. Ti ripeto, avrà avuto altri difetti, ma Sergio non è mai stato un violento o un alcolizzato. Penso proprio che l'episodio di ieri sera non si ripeterà.» Mentre lei parlava dell'ex marito, a Carl parve di intravedere nel buio che gli occhi le si stavano appannando leggermente, anche se il tono della voce non lasciava trasparire commozione. Solo pena. Nel frattempo avevano superato via Ugo Bassi. Il traffico del rientro serale li costrinse a più riprese a rimanere incolonnati. Dopo qualche istante di silenzio, durante il quale Carl ebbe l'impressione che lei stesse vagando nei ricordi, pensò fosse opportuno cambiare argomento: «Mi dicevi che hai dato un'occhiata a Lombroso?» «Ah, sì» si riprese subito lei, «ho dato una prima lettura e la sensazione è che il tuo parente fosse un tipo decisamente bizzarro. Non mi avevi parlato dei vari altri tipi umani, o disumani, che ha descritto in quelle pagine: spia-nata, imbecille vagabondo e così via.» «Beh, non erano collegati al nostro ambito» replicò Carl. «Se me ne avessi parlato forse ci avrei pensato bene ad accettare... Sto scherzando, non fare subito quella faccia lì.» «Che faccia? Non ho mosso un muscolo.» «La faccia che fai appena ti si contraddice. L'ho visto, sai. Appena uno dice qualcosa di diverso da quello che pensi subito ti irrigidisci» osservò lei. «Non mi sembra mica. Detto poi da te, Mister, che si vede chiaramente che non sopporti le critiche. Ti vengono le labbra gonfie...» «Le labbra gonfie? Questo non me l'aveva mai detto nessuno.» «Sì, proprio così. Si pronunciano verso l'esterno» e per far meglio capire quello che intendeva, Carl spinse verso l'esterno la sua bocca in modo caricaturale. «Lo hai fatto sia con gli atleti che con me, quando provavo a dire qualcosa di diverso da te...» Lei lo imitò, fece le labbrone e ci aggiunse gli occhi storti. Poi abbozzò una difesa: «Guarda che io invece sono apertissima alle critiche» e gli rifilò una sberla sulla spalla destra. Poi proseguì: «Comunque, tornando a Lombroso, una cosa non l'ho capita. Quando lui parla del rapinatore-nato fa chiaramente riferimento alla continuazione di studi sul punto, come se l'argomento fosse da approfondire o ispirasse ricerche collegate.» «È vero, l'ho notato anch'io. Ma poi non ho trovato alcun richiamo...» «Ecco, gira qui a destra» lo interruppe Chiara, e non appena svoltato: «Il mio portone è quello» indicando una palazzina a tre piani sulla sinistra. Carl accostò e fece per salutarla, quando notò che lei aveva rivolto il suo sguardo accigliato in alto, attraverso il parabrezza. «Qualcosa non va?» le chiese. «È strano, vedi lì al secondo piano. È la mia camera. La luce è accesa...» «Non puoi averla dimenticata?» «Sì, sicuramente è così... Vado a vedere, ci vediamo lunedì» disse lei aprendo la portiera. «No aspetta» ci ripensò lui, «non sono tranquillo. Ti spiace se ti accompagno su?» «No, non è il caso. Di certo è una dimenticanza.» «Mister, insisto. Se è così tra un attimo scendo» volle precisare per sgombrare il campo da qualunque fraintendimento. Al suo cenno di assenso la fece scendere e parcheggiò qualche metro più avanti. Raggiungendola di fronte al portone sentì che, a dispetto dell'ostentata tranquillità, l'ansia gli si stava insinuando nel profondo. Le anguste scale di marmo salivano inusualmente ripide. Condominio da atleti, pensò Carl. Al pianerottolo del secondo piano la luce era più fioca: una delle due applique, quella tra la porta caposcala di Chiara e quella del suo immediato vicino, era spenta. Nel silenzio totale del luogo il rumore delle chiavi estratte dalla borsa parve un frastuono. Mentre il Mister girava la serratura, Carl guardava circospetto verso il piano superiore, che appariva completamente buio. «La porta sembra a posto» sospirò Chiara mentre la cricca intonava l'ultimo scatto. Un tonfo sordo al piano di sopra fece trasalire Carl, mentre lei con la porta ancora socchiusa infilava la mano all'interno, alla ricerca dell'interruttore della luce. Lentamente aprì la porta, mentre lui le si fece vicino. «Oddio, cos'è successo?» esclamò Chiara irrompendo nel locale. Un ampio soggiorno con due divanetti di pelle bruna e una grande televisione, un tavolo di legno chiaro rettangolare con quattro poltroncine di stoffa, un angolo cucina di legno e marmo ben attrezzato. Stampe di gusto alle pareti. E ovunque cassetti aperti e completamenti svuotati sul parquet, in un turbine di oggetti fogli e soprammobili rovesciati e sparpagliati in ogni angolo. Il passaggio di un ciclone tropicale avrebbe causato meno scompiglio. Chiara, entrambe le mani sulle guance e gli occhi sbarrati, era senza parole. Cercando di evitare gli oggetti a terra, avanzarono verso le due porte interne, entrambe spalancate. Una delle due stanze, quella a sinistra rispetto all'ingresso, era illuminata. Carl fece segno a Chiara di far passare prima lui; quindi si sporse lentamente all'interno. Vide le ante dell'armadio doppia stagione completamente aperte così come le cassettiere vuote. Il letto a due piazze, con la testata di legno chiaro, era invaso da quello che doveva essere stato il loro contenuto. Anche il mobile sulla parete della porta d'ingresso era stato aperto e il suo interno rovistato; biancheria e vestiario ne emergevano in ordine sparso. Quello che si intuiva essere il comodino giaceva rovesciato a terra. «È da qui che deve essere entrato.» La voce angosciata di Chiara gli giunse dall'altra stanza, subito seguita da un urlo: «Ah, cazzarola!» Cazzarola? Per un frammento di attimo Carl rimase immobile, sconcertato dall'imprecazione. Poi si precipitò verso il Mister, la raggiunse in bagno e la vide tenersi il braccio destro. «Cos'hai fatto? Ti sei ferita, fai vedere.» Chiara appoggiò il polso nel palmo della sua mano, mostrando un profondo taglio all'avambraccio destro. «Caspita, ma come cavolo...?» «Mi sono tagliata col vetro della finestra» disse lei a denti stretti. «Vedi, il bastardo l'ha rotto per entrare.» Carl estrasse il fazzoletto, lo allargò e poi lo arrotolò su se stesso per formare un rudimentale laccio emostatico. «Scusa, è pulito. Bisogna fermare il sangue. Ma qua ci vogliono di sicuro dei punti. Ce l'hai della garza? «Prova a guardare in quel mobiletto» disse indicandogli con la testa il piccolo armadio sopra il lavabo, uno dei pochi contenitori che pareva aver passato indenne la furia devastatrice del visitatore. «Eccola. Stai un attimo ferma così.» Realizzò una fasciatura approssimativa, passando più volte la garza intorno al braccio. «Andiamo subito all'ospedale.» «Non vorrai che lasci tutto così» protestò Chiara. «Certo che sì» replicò seccamente lui. «Vorresti metterti a rassettare col braccio in queste condizioni? Non se ne parla neanche.» Chiara parve un attimo riflettere, scrollando la testa mentre si guardava intorno sconsolata. Poi improvvisamente lo guardò e concluse: «Hai ragione, meglio andare al pronto soccorso. Ma facciamo presto.» «Codice verde?» protestò Chiara quando l'infermiera addetta al triage del pronto soccorso dell'Ospedale Maggiore le assegnò il codice di priorità. «Ma guardi che si tratta di un taglio grave.» «Mi dispiace signora» replicò cantilenando l'addetta al di là del vetro. Poi aggiunse, ripetendo la formula pronunciata chissà quante volte: «La sua situazione è poco critica e non presenta rischi evolutivi. Pertanto le prestazioni sono differibili.» Rassegnata, raggiunse Carl che l'aspettava poco distante. «È incredibile quanto il pronto soccorso sia affollato il sabato sera» commentò lui nel momento in cui presero posto nell'ampia sala d'aspetto. «La gente è gonfia di rabbia, e non è una malattia.» «Come dici?» «Niente, è solo una citazione.» «L'attesa sarà lunga. Se penso al casino che ho lasciato a casa...» brontolò sconsolata Chiara. «A proposito, bisognerà fare una denuncia. Forse qui c'è un posto di polizia a cui chiedere» disse Carl guardandosi intorno alla ricerca di qualche spunto. E lo spunto venne, perché di fronte a loro, poco distante dall'ingresso del Pronto Soccorso, un agente in divisa blu si stava dirigendo lungo un corridoio laterale. «Proviamo a vedere se ci ricevono. Così inganniamo l'attesa» propose al Mister, che accettò con un cenno del capo, un po' controvoglia. Imboccarono il corridoio, in fondo al quale trovarono tre porte. Carl bussò a quella centrale, che riportava la scritta “Polizia di Stato”. All'«avanti» entrarono. «Prego, accomodatevi» disse l'unico agente presente all'interno della stanza, evidentemente quello che avevano seguito. Il locale era angusto e piuttosto disadorno, ad eccezione della scrivania alla quale era seduto il poliziotto e di alcuni crest di varie forze dell'ordine affissi alle pareti. Proseguì: «Di cosa avete bisogno?» «Dovremmo sporgere una denuncia» disse lui precedendo Chiara, che a sua volta continuò: «Ho subito un furto in casa. O meglio, qualcuno è entrato rompendo il vetro di una finestra e ha buttato tutto all'aria, ma non so se ha portato via qualcosa.» «Ho capito, signora. Quindi si tratta di un'effrazione a scopo di furto» chiarì il poliziotto denotando un forte accento veneto o comunque del Nord Est. Aveva riposto il cappello sulla scrivania, accanto alla tastiera del computer. «Accomodatevi» proseguì indicando le sedie di fronte a lui, «mi favorisce un documento? Questo signore è suo... Voi siete...» «Amici» Chiara si affrettò a completare la sospensione, mentre estraeva il portafogli dalla borsa. «Lei è l'unica disponente dell'appartamento?» «In che senso, scusi?» «Nel senso che è l'unica ad abitarvi. Non so, qui, il signore magari...» disse l'agente, passandosi indice e pollice della mano destra sul pizzo, partendo dai baffi e scendendo sul mento. «No, guardi che ha capito male. Sono io l'unica disponente. Le ripeto che lui è solo un amico» ribatté lei, sistemandosi nervosamente sulla sedia. Carl distolse lo sguardo, pensando che una tale reazione gli pareva esagerata. «E non ha potuto verificare se nell'appartamento è stato asportato qualche valore o altro oggetto?» «Non ho fatto in tempo. Vede, mi sono ferita a un braccio, per cui siamo venuti subito al Pronto Soccorso» rispose Chiara, con un tono che faceva presagire che la sua pazienza si stava approssimando al limite. «Ah, quindi il signore era in casa con lei al momento del fatto.» E insiste. Carl volle a quel punto intervenire a propria difesa, ma soprattutto per evitare che lo facesse Chiara, con conseguenze imprevedibili: «Da sotto casa abbiamo visto la luce accesa; perciò per sicurezza sono salito anch'io e abbiamo scoperto il fatto.» «Ho capito. Quindi lei sporge denuncia contro ignoti per effrazione riservandosi di constatare l'entità dei danni e degli eventuali ammanchi» declamò il poliziotto fissando Chiara con i suoi occhi piccoli e ravvicinati, per poi cominciare a picchiettare freneticamente sulla tastiera. «Mi scusi, agente...» lo interruppe Chiara dopo qualche istante. «Ispettore, grazie.» «Lei ha parlato di denuncia contro ignoti, ma forse...» L'ispettore cessò di scrivere. «Mi sta dicendo che ha qualche sospetto?» disse, tornando ad accarezzarsi la barba. «Non so se posso parlare di sospetti, ma il mio ex marito di recente si comporta in modo strano, non vorrei che...» Carl la guardò preoccupato per le implicazioni della sua affermazione. «Signora, un conto sono i comportamenti strani, altro è introdursi dolosamente in un appartamento. Pensa che potesse interessargli qualcosa nella sua abitazione?» disse l'ispettore, con l'evidente intenzione di indurre Chiara a riflettere. «Direi di no. Le sue cose le ha portate via tutte da dove abitavamo. In questo appartamento lui non ha mai vissuto.» «In ogni caso, l'ipotesi della colpa di qualche soggetto necessita di un elemento di prova, o almeno di un indizio, al di là di una semplice congettura. Se vuole lo specifichiamo nella denuncia, ma per ora io sorvolerei. A meno che questi altri comportamenti strani a cui si è poc'anzi riferita siano in qualche modo rilevanti o collegabili all'evento.» Chiara guardò Carl, quasi a volerlo interpellare sul punto. Lui, che si stava nervosamente rosicchiando le unghie della mano destra, le restituì un'occhiata altrettanto interrogativa. Da un lato portare la Polizia a conoscenza di quanto accaduto la sera prima avrebbe potuto proteggere Chiara dalla deriva comportamentale del suo ex. Dall'altro l'atteggiamento di lei nei confronti di Sergio denotava anche una componente “protettiva” che avrebbe cozzato col denunciarlo per un fatto commesso di fronte a testimoni. Attribuendo maggior rilievo a quest'ultima valutazione, Carl cambiò la sua espressione da interrogativa a negativa, dondolando la testa e serrando le labbra. «No, non sono collegati» rispose il Mister recependo il suo segnale. «Va bene, allora non ne facciamo menzione. Mi lasci un suo recapito telefonico, per qualunque evenienza. Ora stampo, mi mette due firme e abbiamo finito. Si ricordi però di venire a integrare con l'elenco degli oggetti asportati, se ritiene.» «Va bene, ispettore. La ringrazio.» Chiara firmò il verbale, non senza qualche difficoltà nell'uso del braccio, e ritirò la sua copia. Mentre stavano per fare ritorno alla sala d'aspetto del pronto soccorso, l'ispettore aggiunse: «Mi raccomando signora, se in casa nota qualcosa di sospetto oppure ha qualche ripensamento in merito ai comportamenti cui mi ha fatto cenno, non esiti a contattarmi. Io mi chiamo Dal Cin, ispettore Dal Cin. Mi trova qui oppure in Questura.» «Grazie, lo terrò presente, ispettore.» «Ah, ovviamente la stessa cosa vale anche per il suo... amico.» 15 (domenica 4/11/07) La corretta tecnica della corsa può far risparmiare oltre il trenta per cento delle energie impiegate dal corridore. Perché allora la domenica mattina i viali del centro vengono percorsi con le andature più contrarie a questa regola fondamentale? Busti dritti come pennoni di bandiere o peggio reclinati all'indietro come se le gambe fossero troppo veloci per tenere il loro passo. Teste ciondolanti, che a ogni passo vengono sospinte lateralmente da colli flessuosi. Braccia che oscillano in moti pendolari perpetui. O al contrario ferme, appoggiate sul petto, forse per sostenere con la loro vicinanza lo sforzo dei polmoni. Proprio per capire i difetti della sua di andatura, Carl è solito osservarsi nelle vetrine dei negozi, nei finestrini delle auto posteggiate, nell'ombra proiettata dal suo corpo sul selciato. Il busto proteso in avanti, la testa dritta e lo sguardo diretto davanti a sé, le braccia che si muovono misuratamente con i palmi delle mani aperti a fendere l'aria. Il piede che imprime sul terreno una rollata morbida che coinvolge tutta la pianta, dal tallone all'avampiede. Eppure sa che il difetto c'è. Ne è consapevole quando incrocia un altro corridore e questi scruta il suo leggero caracollare con le spalle. Gliene dà certezza il dolore che prova ai polpacci dopo qualche ora dallo sforzo, segno di una qualche scompostezza che non riesce ad afferrare. Quella domenica mattina Carl aveva deciso di uscire a correre nonostante le ore piccole fatte il giorno prima, non per una serata sfrenata e mondana, bensì per la lunga attesa al pronto soccorso, protrattasi oltre l'una di notte. Nonostante ciò, un moto di agitazione sopraggiunto all'alba lo aveva costretto irreversibilmente a rimanere ad occhi spalancati. Tanto vale, aveva pensato, impiegare il tempo in modo proficuo. Aveva già percorso quattro chilometri, come gli aveva ricordato in inglese la app dell'iPhone che abitualmente teneva in mano correndo, che a intervalli regolari gli comunicava la lunghezza del tragitto percorso e il tempo di percorrenza, interrompendo per alcuni istanti la musica che gli giungeva attraverso gli auricolari. «Non è pericoloso correre con quegli affari nelle orecchie?» gli chiedeva sua madre quasi ogni volta che lo vedeva uscire. «È sufficiente fare molta attenzione a ogni attraversamento o interruzione del marciapiede. E poi la musica è bassa, i rumori si sentono lo stesso.» Percorse il Ponte delle Nazioni e, come di consueto, attraversò viale IV Novembre. Mentre si avvicinava alle strisce pedonali che attraversano viale Bottego, oltrepassò il barbone che abitava sulla panchina sotto gli alberi, quindi guardò a sinistra e a destra. Vide l'auto bianca che procedeva nella sua direzione a destra dell'attraversamento, ma valutò che la distanza era sufficiente a permettergli di passare senza rallentare la corsa. E poi l'auto vedendolo avrebbe certamente rallentato. Quando ormai era a metà delle zebre, con la coda dell'occhio realizzò che l'auto bianca non aveva accennato a rallentare, anzi... Non mi ha visto, devo allungare saltare togliermi da mezzo. Qualcosa mi spinge sulla coscia destra mi solleva mi rovescia. Volo rotolo atterro sul duro. Col sedere con la schiena con la testa. Buio. Luce accecante. «Ehi, come ti senti?» Carl si guardò intorno confuso. Cosa ci faceva in quella stanza con le pareti bianche, una lampada al neon color ghiaccio sopra la sua testa? Uno strano rigonfiamento intorno alla fronte e alla nuca? E chi era la figura femminile in piedi davanti a lui che gli stava parlando...? «Chiara?» «Ciao scienziato, cos'hai combinato?» Carl cercò di mettere a fuoco quello che era accaduto. «Stavo correndo, una macchina mi ha investito, credo che non mi abbia visto anche se ero sulle strisce. Ma...come sono arrivato qui? E tu che ci fai qui, Mister?» «Mi hanno telefonato. Sei arrivato qui con l'ambulanza. Non riuscivano a identificarti perché non avevi addosso documenti, niente. Poi l'ispettore di ieri sera, te lo ricordi quell'impertinente, è tornato in servizio e ti ha riconosciuto. E così hanno chiamato me. Mi hai fatto venire un accidente.» Gli accarezzò il braccio che sporgeva dal lenzuolo mentre scrollava la testa, facendo dondolare la coda bionda. Quando Carl provò a muoversi, fu sopraffatto da una raffica di stilettate. «Sono tutto rotto» disse con una smorfia. «Per fortuna no» replicò Chiara con un sorriso, «dicono che sono solo contusioni. Hai anche picchiato la testa ma va bene che ce l'hai dura.» In quel momento l'Ispettore Dal Cin fece capolino con la testa e, vedendo che Carl si era ripreso, entrò. «Buongiorno, signor Carrara, e bentornato.» «Grazie, ispettore, ne avrei fatto volentieri a meno.» «Sembra invece che ci sia messo d'impegno. Ma come ha fatto a ridursi in quel modo? E poi perché se ne va in giro senza documenti?» «Stavo correndo, di solito non porto nulla eccetto il cellulare per non avere fastidi nelle tasche. Un'auto mi ha investito...» si giustificò lui. «L'hanno investita? Ma sul posto non c'era nessuno a soccorrerla. E mi pare che nemmeno il suo cellulare sia stato trovato, sennò avremmo provato a telefonare a qualche parente invece che alla sua amica. Si ricorda che auto era? Ha visto la targa?» «Era un'utilitaria, forse una Punto o una Fiesta. Di sicuro bianca, ma non ho fatto in tempo a notare altri particolari.» «Un po' vago...» concluse Dal Cin. All'improvviso Carl chiese a Chiara: «Che ore sono?» «Un quarto all'una, perché?» «Alle tre c'è la partita.» «Stai scherzando? La partita te la scordi. Non ti rendi conto in che condizioni sei?» lo investì il Mister. «Ma non mi hai detto che non mi sono rotto niente?» fece lui come se stesse constatando l'evidenza. «Te lo confermo, e ti confermo anche che hai la testa proprio dura. Come puoi pensare di alzarti da lì che sei tutto a pezzi» sbuffò Chiara. «In effetti ha detto il medico che per precauzione è bene che lei rimanga qui almeno fino a stasera» intervenne l'ispettore, che fino a quel momento aveva assistito come se si trattasse di una disputa coniugale. «E va bene, ho capito» si rassegnò Carl, «dovrò avvisare Giovanni e Alberto.» «Sei stai bravo ti presto il mio cellulare.» «Ci mancava il cellulare. Eppure sarà di certo lì per terra. L'avranno schiacciato, ma magari la SIM si recupera. Appena esco vado a cercarlo.» «Sei vuoi ti accompagno...» gli offrì Chiara. «Va bene» osservò l'Ispettore Dal Cin, dirigendosi verso l'uscita della stanza, «ma fate molta attenzione. Non vorrei ricevere una vostra visita al Pronto Soccorso per il terzo giorno consecutivo!» Torino, 3 luglio 1871 Cara Nina, mi appresto a scrivere questa missiva ma essa non ti raggiungerà mai. Non la spedirò per evitare di alimentare il pericolo che circonda, per causa mia, te e la nostra pargoletta. È meglio che, per ora, tu non sappia. Purtroppo grave fu l'errore di poter pensare liberamente, di non porre un freno all'iniziativa della sperimentazione, e soprattutto di accettare scevro da biechi pregiudizi le risultanze che ne emersero. Tu sai che i miei studi da sempre si fondano sulla ricerca della verità, in spregio a qualunque forma di preconcetto. Disposto son sempre stato ad accogliere la verità scientifica, quantunque cotesta potesse confliggere con convincimenti sedimentati in dotte opinioni accademiche. Orbene, questi parrucconi si arrogano il diritto di dire cos'è bene e cos'è male. Di sostituire al raziocinio la loro presunta dottrina morale. Di annullare la scienza, di cui pur si professano i primi custodi e sostenitori, in favore dei loro paralogismi conservatori. Assisi sui loro scranni dispensano verità. E per custodire i loro dogmi, scatenano lacchè e tirapiedi contro chi osa contraddire le loro regole. Canagliume! Fosse per me lotterei senza tema alcuna a sostegno delle mie convinzioni. Ma di fronte all'ombra nera del pericolo che scellerato si protende sulla mia famiglia, non ho che una scelta: rinunciare. E così, se mai tu anima mia o chiunque in futuro si imbatterà a leggere queste righe e il testo che ha suscitato cotanto scalpore e che mai vedrà le stampe, saprà che non per inettitudine o per codardia ma per dovere di protezione verso voialtri che ho deciso mio malgrado di cedere alla protervia di questi infingardi. Mio malgrado mi assoggetto alla di loro volontà, pubblico ciò che essi pretendono. Ma non credano ch’io mi pieghi così facilmente, cotesti rettili velenosi che si riscaldano fra’ panni d’un rettore assiso in cattedra. È difatti mio intendimento lasciare comunque ai posteri il frutto vero della mia ricerca, di modo che la memoria di Lombroso un giorno venga riabilitata e il fango sia gettato copioso su questi professorucoli. Sappi però che voi sempre verrete prima di ogni altra cosa. Tuo Cesare 16 (lunedì 5/11/07) Ha pettinato i capelli bianchi e scarmigliati con un pettine di corno a denti fini, dopo averlo bagnato passandolo sotto il rubinetto dell’acqua fredda. Ha spuntato la lunga barba canuta e incolta con le forbici dalla punta arrotondata, le uniche che gli sono state concesse. Ha indossato la camicia di flanella a quadri che conservava in fondo al primo cassetto; è un po’ stropicciata e presenta vistosi segni in corrispondenza delle pieghe; manca un bottone a un polsino; ma andrà bene ugualmente. E’ poi venuto il momento dell’abito di velluto beige a coste sottili. I calzoni dall’orlo appena sdrucito gli sono parsi un po’ abbondanti in vita, ma ha risolto l’inconveniente con l’uso delle bretelle verdi con i morsetti di plastica. Le scarpe, anche quelle non le usa da un pezzo ma si sono conservate ottimamente: due mocassini marroni con la fibbia in ottone, la suola di cuoio consumata ma resistente. Ora si avvicina alla finestra e tira le pesanti tende di plastica grigia, destinate a sostituire gli scuri, per accecare l'esterno. Quindi circumnaviga il letto e affronta la porta della stanza, che chiude ponendovi davanti la sedia inclinata e appoggiata sotto la maniglia, succedaneo della chiave che gli hanno negato. Giù, nella zona inferiore dell'armadio, sotto le coperte infeltrite, sotto il ripiano che ha modificato per poterlo sfilare, estrae la cartella di pelle ingiallita la cui combinazione a quattro cifre protegge i documenti che vi riposano. La posa sul letto e ruota le rotelline dentate posizionandole una a una sulle cifre che non può dimenticare. Ne estrae il contenuto e constata che è rimasto perfettamente integro rispetto all'ultima volta che l'ha esaminato, alcuni anni fa. Ecco, tutto è pronto. Tutto è conforme a quanto da molto tempo ha programmato. Oggi è il giorno in cui Giulio finalmente comincerà a rivelare la sua verità. 17 (lunedì 5/11/07) «Niente cellulare, sono ancora tutto a pezzi e il Parma ha pure pareggiato col Siena.» Carl era uscito dall’ospedale la sera prima, e non aveva nemmeno incontrato la madre, che a sua volta era rincasata tardi. Quando la mattina le aveva comunicato l’accaduto, pur cercando di minimizzare il fatto e sorvolando sui particolari che avrebbero potuto angosciarla, quali il suo svenimento dal luogo dell’incidente all’ospedale, la madre aveva attaccato a rimproverargli la sua imprudenza nel correre per strada, e di quante volte glielo aveva ripetuto, e che davvero se le andava cercando, e che insomma era proprio uguale a suo padre. Carl aveva provato a offrire resistenza, ma il suo strenuo tentativo era stato ben presto sopraffatto dal fiume in piena denominato Stefania Carrara. Per fortuna era intervenuto in suo soccorso lo squillo del telefono, a cui lei aveva prontamente risposto ipotizzando che potesse trattarsi dell’ospedale o dei Carabinieri o forse della Protezione civile. Ma era Giovanni, che, trovando il cellulare di Carl sempre non raggiungibile, aveva recuperato da qualche vecchia rubrica il numero fisso di casa Carrara. «Beh, qualcosa di positivo l’avrai pure da raccontarmi» cercò di rincuorarlo Giovanni, facendo evidente violenza sulla propria natura. «Ma, forse sì. Ho provato a inserire i primi risultati dei test nel data base Access che ho creato, e, non voglio cantare vittoria, ma i risultati… sono sorprendenti.» «Cavolo, Carletto, raccontami!» «No, adesso sarebbe prematuro. Scusa Giò, non ti offendere, prima voglio il quadro generale. Che poi manca poco…» «Tranqui, non mi offendo certo. Ora vado che ho il colloquio col Prof. Ci sentiamo presto. Culo culo.» «Ciao Giò, culonzo.» Carl ripose la cornetta e sorrise, ripensando al quel loro modo di salutarsi, che risaliva agli anni del liceo. Il telefono squillò di nuovo. «Pronto.» «Pronto, buonasera. Sono Giacomo. C’è la signora Stefania?» «Sì, buonasera, gliela passo», e ancora attaccato alla cornetta gridò: «Mamma.» Possibile che, tutte le volte che chiamava, quel moscone doveva ripetere la stessa formuletta? Non aveva ancora capito che in quella casa abitavano solo loro due? Poco dopo il telefono squillò nuovamente. Sua madre, terminata la lunga telefonata con Giacomo, ora era chiusa in bagno. Carl andò a rispondere pensando che quella potesse esserne una comprensibile conseguenza. «Pronto.» «Buonasera, parlo con Carl Carrara?» «Sì. Chi parla?» «Sono l’Ispettore Dal Cin, della Polizia di Stato.» «Ah, buonasera Ispettore. Mi dica, c’è qualche problema?» disse Carl non nascondendo una certa preoccupazione causata dalla telefonata inattesa. «Senta, Carrara, possiamo fissare un appuntamento qui in Questura? Non so, domani pomeriggio o dopodomani mattina?» «Sì, certo. Va bene anche domani pomeriggio.» «Facciamo alle quattro.» «Va bene alle quattro. Ma, Ispettore, può anticiparmi il motivo dell’incontro?» «Ne parleremo domani. Mi dica solo questo: lei sta conducendo delle ricerche su un certo Lombroso Cesare?» chiese Dal Cin. Carl fu preso da una morsa allo stomaco. Rispose: «Sì, certo… sto facendo delle ricerche… per la tesi. Perché?» «Beh, vede, pare che oltre a lei ci sia qualcun altro interessato alle sue ricerche.» Per continuare la lettura vai su: http://www.amazon.it/dp/B00IAUSKS6