Paolo Magionami
Quei temerari
sulle macchine volanti
Piccola storia del volo
e dei suoi avventurosi interpreti
1 3
PAOLO MAGIONAMI
Psiquadro, Perugia
Collana i blu - pagine di scienza ideata e curata da Marina Forlizzi
ISBN 978-88-470-1589-0
DOI 10.1007/978-88-470-1590-6
e-ISBN 978-88-470-1590-6
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Ai sognatori
e ai sogni che accompagnano i loro risvegli
Indice
Introduzione
1
Nel regno degli dei
5
Ali di legno e fantasia
17
Un po’ prima dei Montgolfier
39
L’era del più leggero dell’aria
59
Mongolfiere sopra l’Europa
89
Peripezie aviatorie e altre stranezze
117
Il circo dei palloni e i primi passi del “più pesante”
157
L’aviazione, una cosa seria
195
L’era del più pesante
235
Tempi nuovi per il Vecchio Continente
259
Quei temerari sulle macchine volanti
303
La Grande Guerra
347
Fonti bibliografiche
369
Introduzione
Avevo 33 anni la prima volta che misi le ali sulle spalle. Era una
giornata con poco sole e qualche nube che pareva avesse voglia
di rovinare il mio meraviglioso pensiero.
In compagnia di due amici, Flavio e Daniele, avevo deciso che
era giunto il momento di volare in deltaplano.
Al nostro arrivo al campo scuola, l’istruttore ci squadrò e ci
chiese chi voleva essere il primo. Occorreva spicciarsi a decidere,
perché il vento si era alzato e non prometteva niente di buono.
Andai io. Mica ero arrivato fino a Castelluccio di Norcia a pigliar
freddo o a salire in cima al Vettore.
Non scorderò quei momenti. Le istruzioni, fai questo fai
quest’altro, poi la corsa appiccicato all’istruttore come un canguro dentro il marsupio della madre e poi... e poi volavamo.
Solo dopo, con i piedi per terra, mi ritornarono in mente le
imprecazioni dell’istruttore che si dannava a tenere buono il
deltaplano preda di qualche folata di troppo. Ma lassù mica ci
feci caso. In quei momenti per me volare significava quello:
tenere a bada l’attrezzo e guardare l’erba dei prati da un’altra
prospettiva.
Parevano onde di un mare verde che scorrevano e scorrevano
senza infrangersi mai.
E gli amici da sotto, come formichine, salutavano gli aviatori.
Fui l’unico a volare quel giorno. L’istruttore non s’azzardò a
decollare un’altra volta portandosi appresso qualcun altro.
Due settimane dopo ero uno dei 15 iscritti al corso per piloti
di deltaplano.
E se quel volo con l‘istruttore fu speciale, il primo balzo che
feci da solo fu, è e rimarrà una delle sensazioni più intense della
mia vita.
Da ritirar fuori quando si ha voglia di essere un poco liberi.
2
Quei temerari sulle macchine volanti
La corsa giù per il declivio della collina come quando ero
ragazzetto, le mani strette sulla sbarra del deltaplano della scuola, un fugace pensiero del tipo “che diavolo sto facendo” e poi la
mano di un dio che ti piglia per le spalle e un istante dopo le
gambe che mulinano nel vento, senza poggiar sulla terra.
Volavo. Ed era quello che stavo facendo. Credo, ma non sono
certo, di aver cacciato un bell’urlo, tipo quello di Tarzan o di Fred
Flintstone.
Ricordo bene anche il mio ultimo balzo. Due anni dopo. Al tramonto, ombre lunghe a coprire la piana di Castelluccio e il caldo
sole arancione di metà agosto.
Non avevo ancora i galloni dell’aviatore patentato – varie vicissitudini mi avevano impedito di portare a termine quello che avevo
avviato – ma, come mi dicevano, il talento c’era e il pilota si farà.
Ma il vento quella sera ebbe altre accortezze. Sarà stata la
stanchezza del pivello, una manovra sbagliata, il gusto di osare
un pochino di più, o, appunto, il vento dispettoso che il mio deltaplano andò in stallo a una decina di metri d’altezza. Brutta cosa
lo stallo.
In quel pomeriggio non furono le ossa rotte la cosa più dolorosa, né l’operazione o i ferri a risistemare i cocci. È stato il modo
più spietato e feroce che gli dei del volo ebbero per dirmi che
avevano respinto la mia richiesta. Il modo peggiore per distruggere un sogno.
A pensarci ora, credo che in realtà sia stato l’unico modo; o
almeno l’unico modo buono.
Ma non importa. Per poco tempo, per brevi balzi sono stato un
temerario a bordo di una macchina volante e ho goduto di un
piacere enorme.
Quello che era stato di Lilienthal, di Hargrave, dei fratelli
Wright o, più semplicemente, di coloro che in quel pomeriggio di
agosto sono stati un poco più vicini ai pensieri di Dio.
Il mio viaggio verso la via delle nuvole è terminato così: con il
gesso e un mal di schiena che mi porto ancora dietro. Ma non
importa.
Da quel momento ho iniziato a pensarne un altro: un viaggio
tra le storie di quelli che hanno aperto quella via.
Quei temerari sulle macchine volanti è un modo, imperfetto e
incompleto, di rendere omaggio agli uomini coraggiosi; è un
3
Cari amici ho una storia meravigliosa da raccontarvi, una storia che rivaleggia vittoriosamente con Le mille e una notte.
Il signor Root aveva assistito di persona a uno dei primi voli di un
apparecchio dei Wright e lo volle scrivere in quella rivista che
nulla ci azzeccava con il volo.
Cari amici, chiunque voi siate, ho una storia meravigliosa da
raccontarvi anche io.
Una storia dove la temerarietà ebbe la sua parte.
Mi auguro che possiate apprezzare il viaggio come e quanto
l’ho apprezzato io nello scriverlo.
Perugia, 23 febbraio 2010
Paolo Magionami
Introduzione
omaggio alla sfrontatezza di certi pensieri che possono apparire
folli e avventati ma che a qualcosa di buono spesso hanno portato.
Se oggi voliamo da un continente all’altro su comode poltrone lo dobbiamo ai temerari dell’aria che volevano veder il grande
mondo da un’altra prospettiva.
Scriveva il signor Root, direttore della rivista Spigolature nell’allevamento delle api:
Nel regno degli dei
In un giorno di primavera del 1908, un americano, un quarantaduenne del quale si era sentito parlare a quel tempo,fu invitato a tenere un
discorso davanti a una società francese di entusiasti dell’aviazione.
Il tipo si chiamava Wilbur Wright e, parlando dei suoi progressi, aveva detto che per prima cosa occorreva rivolgere un tributo
“all’idea che ha da sempre appassionato l’umanità”.
Un’idea che lui e suo fratello Orville avevano reso possibile
pochi anni prima: volare a bordo di un mezzo più pesante dell’aria, dotato di motore e governabile.
Era il 17 dicembre 1903, l’alba di una nuova era.
La nuova epoca s’era fatta attendere non poco e la realizzazione del sogno fu una sorta di viaggio lungo, tribolato ed esaltante, come ogni buon viaggio che si rispetti.
Il primo passo del periplo alato in realtà non fu molto avventuroso: stare a guardare il cielo e i suoi abitanti.
L’azzurro era dominio di uccelli e di esseri fantastici, inaccessibile per l’uomo.
Così, in principio, il volo fu prerogativa degli uccelli, osservati con
attenzione per cercare di carpirne il segreto. Molti grandi pensatori
hanno lasciato scritti in proposito: Seneca (4 a.C -65) lo ha fatto nelle
Naturales quaestiones;Plinio (23-79) nella Historia Naturalis;l’immancabile Aristotele (384-322 a. C.) nel De animalium incessu.
Ancor prima di loro, antiche civiltà avevano fatto del volo questione solo e esclusivamente appannaggio degli dei. In ogni parte
del mondo si sono tramandate leggende e storie di creature
alate, carri e dei volanti.
Era così per gli assiri, per gli egiziani, così come per i cinesi.
Nell’antico Egitto, tra le molte raffigurazioni che gli uomini
attribuivano a Iside, la dea della maternità e della fertilità, c’era
quella che la riproduceva con le sembianze di un falco. Il leggen-
6
Quei temerari sulle macchine volanti
dario sovrano Kai Kawus, secondo la mitologia persiana, si spostava su un tappeto mosso da quattro aquile che volavano nel
tentativo di raggiungere della carne conficcata su quattro pali
disposti a ogni angolo del tappeto.
Quando il poeta greco Esiodo compilò la prima genealogia
degli dei, era ormai scontato che gli esseri superiori fossero in
grado di volare a loro piacimento.
Il dio dei greci Hermes, Mercurio per i romani, messaggero
degli dei, veniva raffigurato con delle piccole ali ai piedi; Eros, che
i romani chiameranno Cupido, era un putto alato che scagliava le
sue frecce agli innamorati mentre Perseo dopo aver ucciso la
mostruosa Medusa fuggì montando il cavallo alato Pegaso.
Anche Morfeo, dio del Sonno, e Thanatos, signore della Morte,
sono raffigurati sovente come esseri alati.
Nel mondo giudaico, invece, era proibito mostrare le divinità;
ma quando cominciò a diffondersi l’Antico Testamento, anche il
cristianesimo attinse all’arte greco-romana e iniziò a raffigurare i
propri angeli adorni di splendide ali.
Dunque, visto come andavano le cose, se l’uomo voleva emulare gli dei, o quantomeno avvicinarsi a loro, non doveva far altro
che provare a raggiungerli; purtroppo, ancorato com’era a terra,
non gli rimase altro che sperimentare qualche folle tentativo.
Tutti quelli che vollero tentare l’impresa, per il gusto dell’avventura, per cavarsi dagli impicci o per giungere sino al regno
degli esseri divini dovettero fare i conti con la forza di gravità.
Si narra che...
Minosse, re di Creta, ordinò a Dedalo, un abile inventore, di
costruire un grande labirinto all’interno del quale avrebbe rinchiuso il mostruoso Minotauro.
Dedalo, da quel valente costruttore che era, realizzò un complicato labirinto dove il mostro mezzo uomo e mezzo toro fu rinchiuso.
Ma l’intrepido Teseo, a capo di un gruppo di coraggiosi ateniesi, riuscì a penetrare all’interno del labirinto, a uccidere il
mostro e a scappare da lì. Quando Minosse venne a sapere quello che era accaduto non la prese tanto bene. Com’era possibile
che quei forestieri fossero riusciti a compiere quell’impresa?
7
Maghi, imperatori e filosofi
Negli Annali scritti sul bambù si narra che nel 2200 avanti Cristo il
figlio dell’imperatore cinese Shin fu rinchiuso nella torre più alta
del palazzo per ordine del padre. Per sfuggire dalla prigione
durante un incendio saltò giù rimanendo appeso a una sorta di
Nel regno degli dei
Quel che era peggio, però, è che il re aveva perduto pure la
figlia Arianna.
Arianna, follemente innamorata di Teseo, lo aveva aiutato a
risolvere l’intricato labirinto con un trucco che gli aveva suggerito lo stesso Dedalo: stendere un filo lungo il percorso. Con questo
stratagemma Teseo risolse il labirinto e una volta uscito portò la
bella ragazza via con sé (salvo poi abbandonare la poveretta su
un’isola). A quel punto Minosse infuriato accusò Dedalo di tradimento. Per punirlo lo gettò nel labirinto insieme al figlio.
Il rompicapo costruito da Dedalo era così complicato che neppure il suo creatore era in grado di uscire; alla fine pensò bene di
costruire della ali e volare via.
Con l’aiuto del figlio, Dedalo recuperò delle grandi piume dai
resti delle aquile divorate dal Minotauro e costruì delle ali che
appiccicò con della cera d’api al corpo suo e a quello di Icaro.
Prima di spiccare il volo Dedalo ammonì il figlio di stare attento a
non andare troppo in alto altrimenti il Sole avrebbe sciolto la cera
e le ali si sarebbero staccate. Icaro rassicurò il padre, ma poi fece
di testa sua. Inebriato dal volo, cominciò a salire e salire fino a
quando il Sole fece il suo lavoro. Il calore sciolse la cera e le ali si
staccarono. Icaro precipitò in mare scomparendo tra i flutti.
La storia di Icaro non ha nulla di documentato e rimane solo un
leggenda narrata dagli antichi scrittori come Igino (II sec. d.C?), che
la riporta nelle sue Favole, e il grande poeta Ovidio (43 a.C- 18) che
la racconta nel libro VIII delle Metamorfosi.
Schiere di poeti e artisti hanno poi reso immortale la storia.
Ma di mirabolanti imprese di uomini volanti, che il più delle
volte saltano giù da qualche altura armati di ali fatte in casa e di
molte preghiere, ce ne sono in abbondanza.
Sempliciotti, ma anche maghi e imperatori tentarono l’impresa.
Eccone un altro paio niente male.
8
Quei temerari sulle macchine volanti
grosso cappello di paglia che, come una specie di paracadute, gli
permise di atterrare sano e salvo.
Molto tempo dopo, intorno alla metà dell’800, in Spagna, un
uomo di nome Armen Firman fece un gran balzo dalla solita torre
con addosso un grande mantello col quale intendeva atterrare
dolcemente in mezzo alla folla. Fece male i conti il poveretto e si
ruppe tutte le ossa, ma almeno sopravvisse alla caduta. Più o
meno nello stesso periodo, a Cordoba, in Andalusia, uno studioso
di nome Abbas ibn-Firmas costruì delle ali fatte con delle piume
Lo strano caso di Simon Mago
Con l’avvento del Cristianesimo nacque una storia riportata nei Vangeli Apocrifi legata a un personaggio assai
controverso di nome Simon Mago. Nato intorno al 37
dopo Cristo in Samaria, dopo essere stato battezzato
provò a offrire soldi per “comperare” il dono dello Spirito
Santo. Allontanato da San Pietro per l’ignobile richiesta, si
dedicò alle arti magiche e occulte.
Tra le abilità che andava dicendo di possedere c’era quella del volo, talento che metteva in mostra durante pubbliche esibizioni.
Anche la sua morte ha un qualcosa di leggendario e
misterioso.
Tra le tante versioni che circolano una riconduce la sua
scomparsa ai postumi di una caduta mentre manifestava
la sua potenza elevandosi in volo sotto lo sguardo di
Nerone. San Pietro, veduto quello che stava combinando
Simon Mago, avrebbe innalzato a Dio una invocazione:
“Spiriti malefici, ombre della notte che lo sostenete, in
nome di Dio lasciatelo”.
L’invocazione sortì gli effetti sperati e Simon Mago cadde
a terra rompendosi le gambe. Portato ad Ariccia, vicino
Roma, per essere curato morì sotto le mani dei medici. Nel
frattempo Nerone, irritato per quanto era successo, rinchiuse nelle prigioni gli Apostoli Pietro e Paolo.
9
L’Imperatore volle, fra l’altro, rappresentare nel circo la
favola di Icaro, con la relativa caduta; ma non trovava
nessuno disposto a lanciarsi dall’alto della torre appositamente costruita. Lo spettacolo era già per finire
senza che la favola di Icaro avesse luogo, quando si
presentò a Nerone un tal Simone, il quale, asserendo
di aver scoperto il modo di poter volare, si offrì per far
la parte di Icaro. Ma mentre tutti si aspettavano di
vederlo volare come un uccello, lo si vide invece cadere – non appena si fu lanciato dalla torre – come un
pezzo di piombo ai piedi del podio imperiale sfracellandosi al suolo e spruzzando il suo sangue fin sulle
vesti dell’imperatore.
e si lanciò da un’altura. Testimoni oculari affermarono che l’uomo
riuscì a volare per un certo tratto prima di schiantarsi.
Il folle svolazzatore se la cavò rompendosi il fondoschiena.
Pare che, una volta in salvo, abbia imputato il fallimento alla mancanza di una coda come quella degli uccelli.
Al di là dello stretto della Manica, il leggendario sovrano dei britanni, re Bladud, padre del famoso King Lear, nonché fondatore di
Caervaddon, attuale Bath nel Somerseth in Inghilterra, provò a
compiere il gran balzo. Oltre a essere un sovrano era anche un
necromante in grado di comunicare con gli spiriti. Decise di usare
la sua arte magica per costruire delle ali con le quali lanciarsi in volo
verso il tempio di Apollo. Ma, gli spiriti adirati giudicarono oltraggiosa l’audacia del re che spirò dopo essere precipitato a terra.
Da questa isola proveniva anche il benedettino “mezzo monaco e mezzo stregone” Oliviero di Malmesbury. Dopo l’anno Mille,
sotto il Regno di Edoardo il Confessore, il religioso, invischiato nei
meandri dell’astrologia, che voleva usare per predire il futuro, iniziò a ideare un apparecchio munito di ali. Forse prendendo spunto da Ovidio, si bardò di ali agganciate alle braccia e alle gambe e
Nel regno degli dei
Svetonio, nel suo Nerone, racconta in modo molto colorito l’episodio:
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Quei temerari sulle macchine volanti
si lanciò da una torre. Il tentativo non lo effettuò in patria, ma in
Spagna, nel convento che lo ospitava.
In aria ci rimase poco, il tempo necessario a un colpo di vento
di fracassare il marchingegno. Il monaco cadde a terra rompendosi le gambe. Rimase, il poveraccio, infermo a letto per i successivi venti anni, senza tuttavia perdere un pizzico di baldanza,
sostenendo che se avesse avuto l’accortezza di munirsi di un
timone, il volo avrebbe avuto ben altro esito.
Una cosa del genere capitò anche alla corte dell’imperatore
bizantino Emanuele Comneno (1118-1180). Siamo intorno al
1145, nei sontuosi palazzi di Costantinopoli erano giorni di
festa: l’imperatore ospitava il Sultano dei Turchi come segno di
buona volontà per migliorare le relazioni diplomatiche.
All’Ippodromo, corse e spettacoli di vario genere allietavano le
giornate in onore del turco. Seguiva il sultano un arabo che, si
diceva, avrebbe reso omaggio al suo signore volando per tutto
lo stadio. La notizia fece presto a diffondersi per la corte e l’imperatore diede il suo assenso.
Lo scenario, come lo racconta Padre Venturini nel volume Da
Icaro a Montgolfier (1927), è di rara suggestione:
Il dì stabilito, tutta Costantinopoli accorre nel miscuglio
tumultuoso delle sue razze. Vi sono i Greci diffidenti e curiosi:
vi sono gli Arabi alteri del loro campione; uno scintillo di colori e gemme, un intreccio fantastico di favelle e di voci, con lo
sfondo azzurro del Corno d’oro.
Ed ecco che dall’alto di una torre tra quattro leoni di bronzo d’orato – che andranno ad abbellire la Basilica di San Marco a
Venezia – fece la sua comparsa il saracino “con un abito bianco,
largo e lungo più dell’ordinario”.
Bandito qualsiasi accorgimento meccanico, che non fossero
altro che dei bastoncini di vimini a tendere l’abito, il coraggioso
arabo attendeva sul parapetto della torre il vento buono.
Tutti gli occhi sono rivolti a lui: i primi istanti silenzio di tomba:
poi i bisbigli dei commenti: infine l’animarsi degli spettatori e
il grido incondito dell’irrequietezza dell’attesa: “Vola, vola,
Saracino, non ci far aspettare con la scusa del vento”.
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[…] felici movimenti, si vide annaspare alla disperata a mo’ di
naufrago finché… precipitò in un ammasso svolazzante, tra
gli urli d’orrore della moltitudine, a breve distanza dalla torre.
Fu raccolto con le ossa frantumate, e niuno lo compianse, qual
pazzo e sognatore esaltato.
Tutte queste storie, più o meno ben documentate, hanno in
comune due cose: l’universalità dell’aspirazione umana di levarsi
in volo e l’epilogo poco fortunato.
L’idea di volare non era null’altro che un vagheggiamento
senza alcun fondamento tecnico o scientifico.
La conquista dei cieli era, al più, di competenza della“sfera religiosa”. Solo la parte spirituale dell’uomo poteva ambire a elevarsi
verso i cieli, la dimora di Dio, o degli esseri divini.
È anche vero che la questione più terrena non mancò di incuriosire gli ordini religiosi più alti.
Il problema dell’aria, e dei suoi abitanti, fa capolino più volte
negli scritti dei Santi della Chiesa: all’assoluta impossibilità del
volo umano per alcuni, replicano altri un poco più possibilisti,
sebbene tutti concordi nell’ammettere la grandissima difficoltà di
realizzazione. Per San Basilio (329-379) il nuoto dei pesci e il volo
degli uccelli non sono poi così diversi: acqua e pinne per l’uno,
aria e ali per l’altro, per entrambi la coda per dirigere lo spostamento orizzontale.
Sulla stessa rotta si pone S. Ambrogio (340-397), il quale
intuisce che la coda può dirigere anche la salita e la discesa dell’animale.
Nell’opera di Sant’Agostino (354-430) è possibile rintracciare
numerosi spunti legati al mito di Dedalo, all’atmosfera e al volo
degli uccelli. A questo proposito per il Doctor Gratiae l’atmosfera
è divisa in due parti, una inferiore e una superiore: solo nella
Nel regno degli dei
Ma il vento si faceva desiderare e la tregua fece cambiar opinione
all’imperatore che mandò un servitore a dissuadere il temerario;
pure il Sultano cominciò a pensare che forse non sarebbe stata
una gran cosa per la religione di Maometto se quello lassù si fosse
schiantato.
Poi il vento si levò e si portò via i dubbi e la fremente attesa del
popolino. Il“Saracino”fece un gran balzo e si lanciò, ma dopo pochi
12
Quei temerari sulle macchine volanti
prima zona è possibile il volo degli uccelli poiché, come scrive nel
De Genesi ad litteram imperfectus liber:
In questa sfera dell’aria contigua alla terra si è detto che volano gli uccelli, perché in quella più alta e più pura che veramente aria (atmosfera) da tutti è chiamata non possono volare. Non
né può infatti sostenere il peso a causa della rarefazione. Non
le nubi in quella parte dell’aria possono formarsi, a quanto si
afferma, né le tempeste scatenarsi, non essendoci vento.
Presi dunque come esempio da imitare o come spunto per risolvere il problema, col passare del tempo diventò tollerabile cercare di simulare il volo degli uccelli, magari con giocattoli mossi da
motori a molla o a spinta, ma rimaneva inopportuno, quando non
pericoloso, aspirare a librarsi in aria e volare.
La questione doveva sempre essere trattata con le dovute
cautele e i più alti organi religiosi vegliavano in proposito.
Quando a metà del Duecento il grande filosofo dell’ordine dei
monaci francescani Roger Bacon (1214-1294?), italianizzato in
Ruggero Bacone, sfornò un opuscolo in forma di lettera dal titolo
De Secretis Artis et Naturae, vi si leggevano cose per quel tempo
inverosimili:
Si possono finalmente costruire macchine per volare, nelle
quali un uomo stando seduto nel centro, col semplice girare
un ben congegnato manubrio faccia si che le ali artificiosamente congiunte si agitino nell’aria a mo’ di uccello che vola.
Il passo è notevole. Bacone ha un’intuizione che non era appartenuta a chi lo aveva preceduto: la possibilità di volare con un
mezzo le cui ali non fossero mosse direttamente dalle braccia o
dalle gambe dell’aviatore, ma attraverso un apposito meccanismo; in altre parole, un tentativo di discostarsi dall’esempio
della natura.
A questo proposito, però, precisava:
Un tale strumento per volare io non l’ho veduto, né so di altri
che lo abbiano fatto, ma conosco uno scienziato che seriamente pensò di costruirlo.
13
Archita di Taranto, filosofo pitagorico del IV secolo a.C,
avrebbe per primo risolto il problema del volo con un giocattolo a forma di colomba.
La testimonianza più antica a riguardo è fornita dallo scrittore romano del II secolo d.C Aulo Gellio, il quale affermava che il filosofo aveva costruito
[…] un simulacro di una colomba di legno con una
certa ragione ed arte macchinativa di tal sorte che
volava e tanto bene era librata e mossa dall’aura dello
spirito che v’era accumulato e rinchiuso.
Sul funzionamento della colomba meccanica nulla è sicuro e le congetture si susseguirono nel corso del tempo.
Nel XIX secolo fu avanzata la possibilità che Archita avesse potuto utilizzare idrogeno per far innalzare una sorta
di pallone a forma di uccello.
Che Bacone si riferisca allo sfortunato connazionale Oliviero di
Malmesbury? Non è dato saperlo, né altresì si può escludere la
possibilità che sia stato lo stesso Bacone la mente dietro questo
pensiero, volutamente intorbidito per evitare che l’Inquisizione si
prendesse cura di lui.
Precauzione, alla fine, inutile; per il Medioevo quelle idee
erano fin troppo audaci, per non dire scellerate.
La Chronica XXIV Generalium, che risale al 1370 ossia quasi un
secolo dopo i fatti narrati, sostiene, infatti, che Bacone fu imprigionato per ordine del Generale dell’Ordine Francescano
Gerolamo d’Ascoli, futuro Papa Nicola IV – un tipo, peraltro, piuttosto zelante nell’organizzare crociate e repressioni contro gli
eretici – con l’accusa di aver sostenuto “novità sospette”.
Pur non essendo la Chronica pienamente attendibile, è assai
probabile che Bacone abbia passato dei guai seri a causa del
pensiero che professava e non solo per aver immaginato globi
Nel regno degli dei
La colomba di Archita
14
Quei temerari sulle macchine volanti
volanti. Di fronte a un ammonimento di quel genere le conseguenze potevano essere molto pericolose e Bacone, anche se
non è certo che sia effettivamente finito in carcere, fu sottoposto a severe restrizioni che gli impedirono di pubblicare ulteriori scritti.
Dunque, il volo rimaneva una questione di difficile risoluzione:
alle difficoltà tecniche si aggiungevano gli ammonimenti religiosi e il problema fu relegato al coraggio, o alla stupidità, di qualche
avventuroso in vena di tentar follie.
Di scientifico non c’era nulla, e gli stessi filosofi qualora si fossero posti il problema, si limitarono a riflettere sulla questione, a
prendere in considerazione il volo degli uccelli e a non urtare
troppo la chiesa.
Dante e Griffolino d’Arezzo
Anche Dante accenna nella Divina Commedia a un temerario dell’aria.
Nel XXIX canto dell’Inferno il poeta colloca Griffolino
d’Arezzo che, preso sul serio, tentò di mostrare l’arte del
volo ad Alberto da Siena; ma questi irritato dal fallimento
del Griffolino lo fece mettere al rogo:
“Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”,
rispuose l’un, “mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.
Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
«I’ mi saprei levar per l’aere a volo»;
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,
volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.
Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece”
15
Nel regno degli dei
Dedalo e Icaro secondo una illustrazione tratta da Spiegel di F. Riederer (1493)
Per smuovere le acque, occorreva un cambiamento nel
modo di pensare degli uomini, una sorta di rivoluzione culturale che consentisse di attaccare il problema da un punto di vista
differente.
Cambiamento che subentrò con l’inizio del Rinascimento, l’epoca di Leonardo da Vinci.
Ali di legno e fantasia
“Mediante la pratica io provo esser false in più punti le teorie di
molti filosofi anche i più antichi e rinomati”, scriveva Bernard Pallissy
Nell’avvertimento ai lettori. Il ceramista francese, impegnato a ricercare il segreto dello smalto bianco perfetto, nella vita progettò
numerosi macchinari e ben rappresentava lo spirito di un’epoca in
pieno fermento turbata fin nel profondo dalla rivoluzione geografica e astronomica messa in moto da Colombo e Copernico.
In questo nuovo scenario vi fu il ritorno potente delle arti
meccaniche.
Il mestierante francese era in buona compagnia nel portar
avanti il suo proposito.
Scrive Paolo Rossi in I filosofi e le macchine (1962), facendo
menzione di altre figure simili a quella del francese:
Pallissy, Norman, Vives, e Rabelais – a diversi livelli e con diverse intenzioni – avevano dato espressione all’esigenza, assai
diffusa nella cultura del Cinquecento, di un sapere nel quale
l’osservazione dei fenomeni, l’attenzione per le opere, la ricerca empirica, fossero preminenti rispetto alle evasioni retoriche, ai compiacimenti verbali, alle sottigliezze logiche, alle
costruzioni a priori.
Non tutti erano d’accordo, ovviamente: la meccanica era quanto
di più contrario alle arti libere e rimaneva pur sempre mestiere da
villani, non certo da filosofi della natura.
Ma la diffusione dei libri sui viaggi, l’arte militare, le fortificazioni, le costruzioni di macchine avvicinavano il sapere del filosofo a quello dell’erudito e ancora a quello del meccanico di bottega: dopotutto l’astronomia serviva alla navigazione, la medicina
alla cura dei feriti in battaglia e così via.
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Quei temerari sulle macchine volanti
In questa affascinante commistione, gli ingegneri e i meccanici che si avvicinarono al volo, tra Cinquecento e Seicento, provenivano in gran parte dagli studi sull’idraulica e sulle macchine.
Volare significò più che altro costruire giocattoli meccanici a foggia di uccello o qualche marchingegno da adoperarsi negli spettacoli e nei teatri.
Non è un caso che ritornò di gran moda la colomba di Archita,
oggetto di studio di gente come Girolamo Cardano (1501-1576) e
Attanasio Kircher (1602-1680). Il primo riteneva che solo con l’ausilio di una spinta iniziale o del vento si potesse ottenere un risultato altrimenti irrealizzabile. Il secondo, giudicando pia illusione
risolvere il problema per via meccanica, fece ricorso a magneti
nascosti per dare l’illusione del volo. La notizia di un tale esperimento corse veloce fino a Roma, tanto che Papa Urbano VIII volle
vederci chiaro e convocò il Kircher in udienza. Visto che la faccenda non ebbe alcun riscontro, è probabile che lo studioso, per evitar
guai, abbia deciso di chiarire prima“l’equivoco”.
Intanto, sul finire del Quattrocento, un perugino, studioso e
architetto di cose militari, aveva adattato lo spirito rinascimentale
all’arte del volo. O almeno così si diceva.
Il perugino volante
In un giorno di febbraio del 1498, la città di Perugia si apprestava
a festeggiare le sfarzose nozze della giovane Pantasilea discendente del potente casato dei Baglioni, signori della città, con il
capitano di ventura Bartolomeo d’Alviano.
Tra i festeggiamenti in onore della coppia, ve n’era uno di
certo assai originale: Gian Battista Danti (1478?-1517), di rispettabile famiglia perugina, era pronto, con le sue ali meccaniche, a
spiccare un volo sopra la piazza principale della città.
Da tempo Gian Battista, fisico, matematico e architetto militare, era stato rapito dal problema del volo, e da un bel po’ cercava
di risolverlo con il suo ingegno che, nello specifico, gli suggeriva
di costruire delle ali fisse, non battenti, in grado di sfruttare le correnti d’aria.
Da quello che ricaviamo da alcuni resoconti, Gian Battista
conduceva i suoi esperimenti lontano da occhi indiscreti, pres-
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Giovan Battista Danti, Dedalo cognominato, fu d’ingegno
elevatissimo, e egli solo nel secolo nostro conseguì quello,
che dall’antico Dedalo, fu vanamente tentato, imperochè
mentre un giorno in Perugia molti Signori principali venuti
erano ad honorare le nozze di Giovan Paolo Baglioni […]
egli inaspettatamente con un remigio d’ali, che fatto si
haveva à proportione della gravezza del suo corpo, si mosse
dall’altezza di una Torre ivi vicina, e sibilando con fischio
molto orribile, volò felicemente sopra la Piazza grande,
piena d’innumerabile popolo; Ma, (ò maraviglia accagionata
da nuovo accidente) hebbe appena volato circa 300 passi
prima di giungere ad un destinato luogo, che egli si ruppe
un ferro principale, che reggeva l’ala sinistra, nè potendosi
egli più sostenere con la sola destra, fu forzato a lasciarsi
cadere sopra un tetto cotiguo al Tempio di S. Maria delle
Vergini, ove oggi è la Sapienza Nuova, onde restonne qualche poco offeso; Quelli che viddero non solo il volo, ma l’ossatura delle ali, e l’artificio loro maraviglioso, dissero, e si ha
per traditione, che egli più volte, sopra l’acque del
Trasimeno, si gettasse a volo, per imparare il modo di calarsi a poco a poco in terra, ma che con tutto il suo ingegno
non lo potè mai trovare...
Ali di legno e fantasia
so l’Isola Polvese, uno dei tre isolotti del Lago Trasimeno. Da
una delle alture dell’isolotto, il Nostro era solito balzare giù e
collaudare le sue creazioni. Male che gli andava faceva un tuffo
nel lago.
Il solo che era al corrente di tanti sforzi era il fidato aiutante,
sempre pronto a dare una mano al maestro e a ripescarlo dal
lago. Da par suo, l’inventore preferiva spiccare i suoi salti all’imbrunire, in modo che meno gente possibile potesse vederlo, e,
forse, farsi beffe di lui.
Le nozze della nobile Pantasilea rappresentarono il momento
giusto per mostrare alle folle le sue prodezze. Le cronache raccontano come in quel giorno di festa, Gian Battista si fosse lanciato sulla piazza principale, sopra le teste dei tanti cittadini accorsi
alle nozze. Ecco come il perugino Cesare Crispolti presenta l’ingegnoso inventore e ne racconta l’accaduto nel suo Perugia Augusta
edito nel 1648:
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Quei temerari sulle macchine volanti
Dunque alla fine il Dedalo perugino finì a gambe all’aria a causa
della rottura di un montante dell’ala sinistra.
A ben guardare,però, l’opera del Crispolti è opera postuma pubblicata da un suo nipote, prete dell’Oratorio, quarant’anni dopo la
morte dello zio. Per giunta, il Crispolti nipote dice anche che il terzo
libro dell’opera, nel quale compare la voce sul Danti, è di sua mano,
sebbene stesa seguendo gli appunti che gli aveva lasciato lo zio.
Dunque, qualche dubbio sulla veridicità della storia pare lecito. Malgrado alcuni storici di Perugia non facciano menzione del
fatto, sono almeno quattro gli scrittori perugini che riportano
l’impresa del Danti. Il racconto più completo nella descrizione
probabilmente è quello steso da Leone Pascoli nel lavoro Vite de
pittori scultori architetti perugini del 1732.
Prima di iniziare, il Pascoli rivolge un ammonimento al lettore,
libero o meno di credere a questa storia, che egli, quale scrittore
di fatti, ha il dovere di riportare:
Checché sia, io non pretendo di forzare il lettore a credere ciò
che di Giovan Battista Dante sono per iscrivere, così non deve
egli prender di forza me a scriver solo quel che pare a lui. E
dacché l’uno o l’altro abbiamo tal libertà, egli crederà ciò che
gli parrà credibile, ed io scriverò quel che mi pare che sia vero.
A dar retta al Pascoli, per il gran giorno il novello Dedalo si era preparato a dovere, memore delle esperienze di atterraggio sul
Trasimeno e aveva fatto predisporre sul sagrato del monastero
una serie di materassi. Questo, naturalmente, non gli impedì di
precipitare.
Dopo l’incidente la folla inorridita accorse in soccorso certa di
ritrovare il poveraccio moribondo. Fu una bella sorpresa scoprire
che l’audace era vivo anche se non in perfetta forma, avendo
riportato la rottura di una gamba.
Se incertezze, dunque, vi possono essere sull’acrobatico volo
del Danti pare riguardino solo la data delle celebrazioni e nondimeno chi fu in realtà a convolare a giuste nozze.
Dopo il volo, Gian Battista divenne un personaggio famoso,
una sorta di celebrità da presentare ai signori più facoltosi. Il
conte Baglioni lo condusse a suo seguito in Lombardia, remunerandolo con grande munificenza per le sue mirabili invenzioni.
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Le macchine di Leonardo
Nel corso della vita, Leonardo da Vinci
(1452-1519) ebbe numerosi e molteplici
interessi. A parte la sua straordinaria abilità come artista, si interessò di scienza
delle costruzioni, meccanica, fisica dei fluidi, idraulica, balistica. I suoi meccanismi
furono ripresi e applicati molto dopo la
sua morte ed è facile vedere l’influenza di
questo pensatore nella costruzione di
pompe per l’idraulica, di draghe e cavafanghi per la pulizia di paludi e canali,
ingranaggi e sistemi di ingranaggi, di
molle e alberi di rotazione dentati, fortezze poligonali, e pure di
carri armati, cannoni e mitragliatrici.
Per tenere occupata una testa tanto brillante che ha fatto di
lui uno dei personaggi più luminosi di tutti i tempi, Leonardo prestò molto tempo alle riflessioni sul volo.
Gli studi in tal senso risalgono al periodo che trascorse a
Milano, tra il 1486-1490, e a un secondo periodo fiorentino, dopo
il 1505.
A questo anno risale il Codice sul volo degli uccelli, conservato
oggi presso la Biblioteca Reale di Torino, una raccolta di 18 fogli di
disegni e scritti a proposito del volo degli animali e di macchine
per il volo umano.
Sono appunti alla rinfusa e confusi, che celavano il proposito,
mai realizzato, di scrivere un trattato completo
[…] in quattro libri, de’ quali il primo sia del lor volare per
battimento d’ali, e il secondo del vol senza batter ali a favore di vento, il terzo del volare in comune, come d’uccelli,
pipistrelli, pesci, animali insetti, il quarto del moto strumentale ultimo.
Ali di legno e fantasia
Tra i tanti che frequentavano la corte milanese spiccava il
genio dei geni in persona: Leonardo da Vinci. Il quale era alle
prese con lo stesso problema del collega umbro.
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Quei temerari sulle macchine volanti
Leonardo studiò a fondo l’anatomia degli uccelli per cercare di
carpirne i segreti e ricavare quante più informazioni possibili che
lo aiutassero a costruire delle ali. Egli amò e studiò gli uccelli per
tutta la vita. Giorgio Vasari (1511-1574) nel suo Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti, scriveva che Leonardo
[…] spesso passando dai luoghi dove si vendevano, di sua
mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezzo che si era richiesto, li lanciava in aria a volo, restituendogli
la perduta libertà.
Tra tutti i violatili, il preferito era il nibbio, al quale si riferiva nel
Codice Atlantico con queste parole:
Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio
destino, perché nella prima ricordazione della mia infanzia e’
mi parea che essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e
mi aprisse la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotesse con tal coda dentro alle labbra.
La chiave di volta per risolvere il problema del volo era, per
Leonardo, l’aria. La balorda idea che circolava a quel tempo attribuiva all’aria calda nascosta tra le piume degli uccelli il motivo del
sostentamento, ma, per Leonardo, “l’aria in sé e condensabile e
rarefattabile inverso lo infinito”.
Studiando “che qualità d’aria circunda li uccelli che volano”,
egli concluse che l’aria è più densa sotto l’ala dell’uccello e meno
sopra, più spessa davanti, meno dietro. Muovendo l’ala, l’uccello
comprime l’aria sottostante creando una sorta di cuscinetto che
lo sostiene. Dunque l’ala muovendosi in un mezzo dilatabile,
comprimibile e resistente dava origine a una resistenza
a similitudine delle piume premute e calcate dal sonnolento;
e quella cosa cacciava l’aria, trovando in essa resistenza, risalta
a similitudine della palla nel muro.
La proprietà resistente dell’aria portò alla progettazione del paracadute, col quale “un uomo potrà gittarsi d’ogni altezza senza
danno di sè”, e a quella dell’elica come
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La stessa proprietà che permetteva il volo degli uccelli poteva
permettere il sostentamento e la progressione dell’uomo in aria
per mezzo di ali artificiali.
Da quel memorabile inventore che era, Leonardo progettò
complicati marchingegni, veri e propri capolavori di ingegneria.
Il Codice sul volo degli uccelli, rappresentò, probabilmente, l’ultimo tentativo di realizzare il volo attraverso l’imitazione della natura: la forza muscolare dell’uomo non era sufficiente per farlo innalzare, neanche se venisse moltiplicata da ingranaggi, corde, catene
e pulegge, nel cui assemblaggio lui era un maestro d’inventiva.
Leonardo andò modificando le proprie idee originarie; il volo
umano non doveva più essere una mera imitazione del volo degli
uccelli ma una giusta interazione con l’aria. La natura, più che imitata, andava assecondata e, dunque, dalle ali battenti Leonardo
passò a studiare quelle fisse. Nei suoi scritti, sottolineava come
volo con il favore del vento fosse facilitato per il sostentamento e
la progressione del volatore, e tanto meno quanto questi era grande e grosso come accade in Natura con i grandi rapaci predatori.
Tuttavia pare alquanto improbabile che egli abbia realmente
effettuato qualche tentativo con una delle sue macchine, né che
abbia mai utilizzato un aiutante come collaudatore. Di fatto, però,
con Leonardo il volo non diventa più una questione relegata al
mondo della fantasia o a quella dei tentativi privi di criterio.
L’approccio di Leonardo è fatto di studio e analisi, sebbene, in
questo caso, non suffragato da prove sul campo.
Scriveva Raffaele Giacomelli sulla rivista L’Aeronauta del maggio 1919 a proposito del ruolo di Leonardo nella storia degli studi
sul volo:
l’opera di Leonardo serba tutto il suo fascino per chi, partendo dai risultati della scienza moderna – frutto di tanta collaborazione d’ingegni e di tanta ricchezza di mezzi – voglia per
un momento procurarsi il diletto di ritrovarli quattro secoli
prima – per sol forza di genio – già espressi da un osservatore
senza mezzi e isolato.
Ali di legno e fantasia
strumento a vite, fatto di tela lina, stoppata i suoi pori con
amido, che, voltato con prestezza, si fa la femmina nell’aria e
monterà in alto.
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La scienza dice la sua
Quei temerari sulle macchine volanti
Le grandi intuizioni di Leonardo dovettero aspettare due secoli
prima di essere riprese; nel Seicento i suoi studi furono perlopiù
ignorati e il suo operato cadde in una sorta di dimenticatoio.
D’altronde, a discapito del volo umano era intervenuta la scienza con una posizione che lasciava poco spazio alle fantasie aviatorie.
Il primo a dare un taglio a certi voli pindarici fu un filosofo e scienziato napoletano, Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679).
Convinto sostenitore del metodo galileiano e delle teorie di Copernico e Keplero
– ragion per cui fu oggetto di aspre critiche politiche e religiose – si interessò di
astronomia, di meccanica, di idraulica e di
epidemiologia.
Il suo capolavoro De motu Animalium
– la prima vera completa teoria del volo
animale – pubblicato postumo, è un’opera
frutto di una lunga serie di osservazioni sugli animali: nella prima
parte l’autore tratta dei moti esterni dell’animale, mentre nella
seconda tratta la totalità dei processi organici.
A proposito del volo umano per forza muscolare scriveva:
È impossibile che gli uomini con le proprie forze riescano nell’arte di volare – e questo perché bisognerebbe – o che i muscoli
pettorali avessero come negli uccelli, la stessa forza motiva proporzionale, e questo è ben lungi dal verificarsi; o che, per raggiungere questa proporzionalità, il peso del corpo umano diminuisse,fino a quel determinato limite,corrispondente alle potenzialità dei rispettivi muscoli. Ora questo diventa possibile soltanto in specie, vale a dire in relazione al fluido aereo, come succede
quando il piombo galleggia sull’acqua, sostenuto dal sughero.
Come ottenere questa leggerezza da sughero?
Di certo non con il metodo che in quegli stessi anni andava
proponendo un collega e padre gesuita, Francesco Lana de Terzi,
il quale aveva attaccato la questione del volo da un altro punto di
vista: quello delle macchine “più leggere dell’aria”, i palloni.
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Fisico, matematico e naturalista fu nominato membro della
Royal Society nonostante avesse compiuto studi piuttosto
irregolari. Ideò e perfezionò un gran numero di strumenti
e dispositivi. Enunciò la legge di proporzionalità tra forza
applicata e deformazione elastica, nota come legge di
Hooke. Rivendicò nei confronti di Newton la paternità
della scoperta della legge di attrazione gravitazionale,
sebbene oggi gli storici siano concordi nell’affermare che
le sue furono solo vaghe intuizioni in proposito.
Fu autore di un trattato di microscopia intitolato
Micrographia che illustrò con splendide tavole a colori,
frutto delle osservazioni che aveva compiuto utilizzando
un microscopio composto di sua invenzione.
Introdusse per primo in biologia il concetto di “cellula”.
Alle posizioni di Borelli giunse anche il naturalista inglese
Robert Hooke (1635-1703).
Tipo curioso, dal vasto ingegno e dai molteplici interessi,
andava sostenendo di aver “sperimentato e fatto alcune prove
sulla possibilità di muoversi nell’aria anche molto velocemente
sopra acqua e terra”.
Nel 1655 Hooke aveva costruito un aggeggio il quale mediante un sistema di molle e ali era in grado di sostenersi in aria.
Attraverso una lunga serie di prove, suffragate da calcoli precisi, lo
studioso giunse a stabilire che i muscoli dell’uomo non potevano
bastare per innalzarsi in volo.
Nel suo lavoro azzardò anche la possibilità di costruire una
sorta di “muscoli artificiali”, realizzati mediante resine e gomme
particolari. In una lettera indirizzata a un amico, dichiarò di aver
trovato il modo di realizzare questa sostanza in grado di sviluppare la forza di venti uomini. Tuttavia, Hooke non fornì spiegazioni né disegni sulla effettiva fattibilità di questa gomma miracolosa, sulla quale, alla fine, non abbiamo alcun riscontro.
Ali di legno e fantasia
Robert Hooke
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Quei temerari sulle macchine volanti
Dunque, la scienza aveva espresso il suo verdetto. Se poi c’era
qualcuno con qualche rotella fuori posto che voleva provare era
libero di farlo.
Naturalmente, in molti tentarono l’impresa. Erano abili meccanici, nobili sfaccendati col pallino delle invenzioni, mestieranti e
religiosi gli artefici semi sconosciuti di questa piccola rivoluzione
volante.
Gli italiani erano rappresentati da una bella schiera di matti,
ma non mancarono inglesi, turchi, tedeschi e una nutrita rappresentanza di francesi.
Matti si, ma con le ali
Neanche gli artisti rimasero immuni al fascino del volo. Paolo
Guidotti (1560-1629), detto il Borghese, fu architetto per Sisto V,
pittore per Clemente VIII, scultore sotto Paolo V.Tipo particolare e
un poco portato all’eccesso, arso dalla voglia di primeggiare gli
saltò in testa di scrivere un poema epico che, a suo dire, avrebbe
fatto impallidire la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: la
Gerusalemme distrutta; non contento gli balenò di dedicarsi all’anatomia, per approfondire la quale andava in giro per cimiteri a
dissotterrare cadaveri. Un tipo così, che si vantava di possedere
“quattordici arti” ciascuna della quali “avrebbe potuto dargli da
vivere”, non poteva farsi mancare la voglia di svolazzare.
Come tutti i nostri baldanzosi pionieri costruì le sue ali e nel
1628 si buttò giù dalla più alta torre della sua città, Lucca.
Dell’esperienza vi sarebbe anche un testimone oculare, secondo quanto scritto nell’opera di Filippo Baldinucci (1624-1696)
Notizie sui professori del disegno da Cimabue in poi iniziato a pubblicare dal 1681.
Raccontava Matteo Boselli pittore, uomo degnissimo d’ogni
fede e per lungo tempo nella scuola (del Guidotti), che Paolo
si messe una volta in testa questo concetto, che potesse trovarsi il modo di volare, e con grande artifizio e fatica compose
d’osso di balena alcune ali coprendole di penne, dando loro la
piegatura mediante alcune molle, che egli si congegnava
addosso sotto le braccia, accioché anche fussero d’aiuto a lui,
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Nel proseguo, Baldinucci non pareva molto convinto del tentativo: secondo lui l’artista imprestato all’aeronautica riuscì a mostrare qualcosa ma “non volando ma cadendo più adagio di quello
che senza l’ali egli avrebbe fatto”.
Ma, come il Danti, anch’egli non andò lontano: sfondò il tetto
di un palazzo fratturandosi una gamba. Qui, la storia si farcisce di
romanticismo. Infatti, si narra che il Guidotti piombò nelle stanze
private di una nobildonna che, riavutasi dallo spavento, amorevolmente si prese cura delle sue ferite. Una volta riacquistate le
forze, il Guidotti si innamorò perdutamente della dama che lo aveva
curato, tanto da cantarla nei suoi versi e dipingerla nelle sue tele.Poi,
com’era giunto se ne ripartì – passando stavolta dalla porta e non
dal tetto – abbandonando la povera nobildonna. Tornò a Roma per
cercare di realizzare il suo sogno ma non ottenne altro che lo scherno. Deluso e indebolito dalle ferite mai del tutto sanate, morì nel
1626 solo e povero in canna “lasciando a una figliola piangente la
pazzesca condotta del padre”.
Un altro tipo curioso da menzionare è Salomon Idler, e non
certo perché fu genio inarrivabile. Più o meno a metà del 1600,
Salomon, che di mestiere faceva il calzolaio, costruì delle ali in ferro
e piume che volle sperimentare gettandosi da una torre. Qualcuno
un poco più savio riuscì a dissuaderlo dal compiere simile azzardo,
ma non a convincerlo del tutto ad abbandonare la folle idea.
Tant’è, il nostro calzolaio lasciò perdere la torre e decise di salire
sopra il tetto di una casa che dava su un ponte, per l’occasione
imbottito di materassi, non si sa mai dovesse capitare qualcosa.
Terminati i preparativi, il tipo partì di gran carriera e, naturalmente, andò a fracassarsi sopra il ponte. L’accortezza di disporre
dei materassi gli salvò la vita ma il ponte imbottito non resse l’impatto e crollò. Sotto l’arcata alcune galline razzolavano pacifiche
prima che sulle loro teste crollasse di tutto, aviatore compreso.
Insomma, quattro galline furono le prime vittime accertate di
un disastro aereo.
Un poco più sfortunato del nostro calzolaio fu un contadino
polacco. Il 3 aprile 1680 il baldanzoso contadino chiese a chi di
dovere un contributo per poter acquistare tutto l’occorrente per
Ali di legno e fantasia
per alzar l’ali medesime, nell’atto del volo, dopo essersi molte
e molte volte provato, finalmente s’espose al cimento.
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