Paolo Magionami Quei temerari sulle macchine volanti Piccola storia del volo e dei suoi avventurosi interpreti 1 3 PAOLO MAGIONAMI Psiquadro, Perugia Collana i blu - pagine di scienza ideata e curata da Marina Forlizzi ISBN 978-88-470-1589-0 DOI 10.1007/978-88-470-1590-6 e-ISBN 978-88-470-1590-6 © Springer-Verlag Italia 2010 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore, e la sua riproduzione è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla stessa. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per uso non personale e/o oltre il limite del 15% potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. 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Coordinamento editoriale: Barbara Amorese Progetto grafico, impaginazione e copertina: Valentina Greco, Milano Progetto grafico originale della copertina: Simona Colombo, Milano In copertina: iStockphoto Stampa: Grafiche Porpora, Segrate, Milano Stampato in Italia Springer-Verlag Italia S.r.l., via Decembrio 28, I-20137 Milano Springer-Verlag fa parte di Springer Science+Business Media (www.springer.com) Ai sognatori e ai sogni che accompagnano i loro risvegli Indice Introduzione 1 Nel regno degli dei 5 Ali di legno e fantasia 17 Un po’ prima dei Montgolfier 39 L’era del più leggero dell’aria 59 Mongolfiere sopra l’Europa 89 Peripezie aviatorie e altre stranezze 117 Il circo dei palloni e i primi passi del “più pesante” 157 L’aviazione, una cosa seria 195 L’era del più pesante 235 Tempi nuovi per il Vecchio Continente 259 Quei temerari sulle macchine volanti 303 La Grande Guerra 347 Fonti bibliografiche 369 Introduzione Avevo 33 anni la prima volta che misi le ali sulle spalle. Era una giornata con poco sole e qualche nube che pareva avesse voglia di rovinare il mio meraviglioso pensiero. In compagnia di due amici, Flavio e Daniele, avevo deciso che era giunto il momento di volare in deltaplano. Al nostro arrivo al campo scuola, l’istruttore ci squadrò e ci chiese chi voleva essere il primo. Occorreva spicciarsi a decidere, perché il vento si era alzato e non prometteva niente di buono. Andai io. Mica ero arrivato fino a Castelluccio di Norcia a pigliar freddo o a salire in cima al Vettore. Non scorderò quei momenti. Le istruzioni, fai questo fai quest’altro, poi la corsa appiccicato all’istruttore come un canguro dentro il marsupio della madre e poi... e poi volavamo. Solo dopo, con i piedi per terra, mi ritornarono in mente le imprecazioni dell’istruttore che si dannava a tenere buono il deltaplano preda di qualche folata di troppo. Ma lassù mica ci feci caso. In quei momenti per me volare significava quello: tenere a bada l’attrezzo e guardare l’erba dei prati da un’altra prospettiva. Parevano onde di un mare verde che scorrevano e scorrevano senza infrangersi mai. E gli amici da sotto, come formichine, salutavano gli aviatori. Fui l’unico a volare quel giorno. L’istruttore non s’azzardò a decollare un’altra volta portandosi appresso qualcun altro. Due settimane dopo ero uno dei 15 iscritti al corso per piloti di deltaplano. E se quel volo con l‘istruttore fu speciale, il primo balzo che feci da solo fu, è e rimarrà una delle sensazioni più intense della mia vita. Da ritirar fuori quando si ha voglia di essere un poco liberi. 2 Quei temerari sulle macchine volanti La corsa giù per il declivio della collina come quando ero ragazzetto, le mani strette sulla sbarra del deltaplano della scuola, un fugace pensiero del tipo “che diavolo sto facendo” e poi la mano di un dio che ti piglia per le spalle e un istante dopo le gambe che mulinano nel vento, senza poggiar sulla terra. Volavo. Ed era quello che stavo facendo. Credo, ma non sono certo, di aver cacciato un bell’urlo, tipo quello di Tarzan o di Fred Flintstone. Ricordo bene anche il mio ultimo balzo. Due anni dopo. Al tramonto, ombre lunghe a coprire la piana di Castelluccio e il caldo sole arancione di metà agosto. Non avevo ancora i galloni dell’aviatore patentato – varie vicissitudini mi avevano impedito di portare a termine quello che avevo avviato – ma, come mi dicevano, il talento c’era e il pilota si farà. Ma il vento quella sera ebbe altre accortezze. Sarà stata la stanchezza del pivello, una manovra sbagliata, il gusto di osare un pochino di più, o, appunto, il vento dispettoso che il mio deltaplano andò in stallo a una decina di metri d’altezza. Brutta cosa lo stallo. In quel pomeriggio non furono le ossa rotte la cosa più dolorosa, né l’operazione o i ferri a risistemare i cocci. È stato il modo più spietato e feroce che gli dei del volo ebbero per dirmi che avevano respinto la mia richiesta. Il modo peggiore per distruggere un sogno. A pensarci ora, credo che in realtà sia stato l’unico modo; o almeno l’unico modo buono. Ma non importa. Per poco tempo, per brevi balzi sono stato un temerario a bordo di una macchina volante e ho goduto di un piacere enorme. Quello che era stato di Lilienthal, di Hargrave, dei fratelli Wright o, più semplicemente, di coloro che in quel pomeriggio di agosto sono stati un poco più vicini ai pensieri di Dio. Il mio viaggio verso la via delle nuvole è terminato così: con il gesso e un mal di schiena che mi porto ancora dietro. Ma non importa. Da quel momento ho iniziato a pensarne un altro: un viaggio tra le storie di quelli che hanno aperto quella via. Quei temerari sulle macchine volanti è un modo, imperfetto e incompleto, di rendere omaggio agli uomini coraggiosi; è un 3 Cari amici ho una storia meravigliosa da raccontarvi, una storia che rivaleggia vittoriosamente con Le mille e una notte. Il signor Root aveva assistito di persona a uno dei primi voli di un apparecchio dei Wright e lo volle scrivere in quella rivista che nulla ci azzeccava con il volo. Cari amici, chiunque voi siate, ho una storia meravigliosa da raccontarvi anche io. Una storia dove la temerarietà ebbe la sua parte. Mi auguro che possiate apprezzare il viaggio come e quanto l’ho apprezzato io nello scriverlo. Perugia, 23 febbraio 2010 Paolo Magionami Introduzione omaggio alla sfrontatezza di certi pensieri che possono apparire folli e avventati ma che a qualcosa di buono spesso hanno portato. Se oggi voliamo da un continente all’altro su comode poltrone lo dobbiamo ai temerari dell’aria che volevano veder il grande mondo da un’altra prospettiva. Scriveva il signor Root, direttore della rivista Spigolature nell’allevamento delle api: Nel regno degli dei In un giorno di primavera del 1908, un americano, un quarantaduenne del quale si era sentito parlare a quel tempo,fu invitato a tenere un discorso davanti a una società francese di entusiasti dell’aviazione. Il tipo si chiamava Wilbur Wright e, parlando dei suoi progressi, aveva detto che per prima cosa occorreva rivolgere un tributo “all’idea che ha da sempre appassionato l’umanità”. Un’idea che lui e suo fratello Orville avevano reso possibile pochi anni prima: volare a bordo di un mezzo più pesante dell’aria, dotato di motore e governabile. Era il 17 dicembre 1903, l’alba di una nuova era. La nuova epoca s’era fatta attendere non poco e la realizzazione del sogno fu una sorta di viaggio lungo, tribolato ed esaltante, come ogni buon viaggio che si rispetti. Il primo passo del periplo alato in realtà non fu molto avventuroso: stare a guardare il cielo e i suoi abitanti. L’azzurro era dominio di uccelli e di esseri fantastici, inaccessibile per l’uomo. Così, in principio, il volo fu prerogativa degli uccelli, osservati con attenzione per cercare di carpirne il segreto. Molti grandi pensatori hanno lasciato scritti in proposito: Seneca (4 a.C -65) lo ha fatto nelle Naturales quaestiones;Plinio (23-79) nella Historia Naturalis;l’immancabile Aristotele (384-322 a. C.) nel De animalium incessu. Ancor prima di loro, antiche civiltà avevano fatto del volo questione solo e esclusivamente appannaggio degli dei. In ogni parte del mondo si sono tramandate leggende e storie di creature alate, carri e dei volanti. Era così per gli assiri, per gli egiziani, così come per i cinesi. Nell’antico Egitto, tra le molte raffigurazioni che gli uomini attribuivano a Iside, la dea della maternità e della fertilità, c’era quella che la riproduceva con le sembianze di un falco. Il leggen- 6 Quei temerari sulle macchine volanti dario sovrano Kai Kawus, secondo la mitologia persiana, si spostava su un tappeto mosso da quattro aquile che volavano nel tentativo di raggiungere della carne conficcata su quattro pali disposti a ogni angolo del tappeto. Quando il poeta greco Esiodo compilò la prima genealogia degli dei, era ormai scontato che gli esseri superiori fossero in grado di volare a loro piacimento. Il dio dei greci Hermes, Mercurio per i romani, messaggero degli dei, veniva raffigurato con delle piccole ali ai piedi; Eros, che i romani chiameranno Cupido, era un putto alato che scagliava le sue frecce agli innamorati mentre Perseo dopo aver ucciso la mostruosa Medusa fuggì montando il cavallo alato Pegaso. Anche Morfeo, dio del Sonno, e Thanatos, signore della Morte, sono raffigurati sovente come esseri alati. Nel mondo giudaico, invece, era proibito mostrare le divinità; ma quando cominciò a diffondersi l’Antico Testamento, anche il cristianesimo attinse all’arte greco-romana e iniziò a raffigurare i propri angeli adorni di splendide ali. Dunque, visto come andavano le cose, se l’uomo voleva emulare gli dei, o quantomeno avvicinarsi a loro, non doveva far altro che provare a raggiungerli; purtroppo, ancorato com’era a terra, non gli rimase altro che sperimentare qualche folle tentativo. Tutti quelli che vollero tentare l’impresa, per il gusto dell’avventura, per cavarsi dagli impicci o per giungere sino al regno degli esseri divini dovettero fare i conti con la forza di gravità. Si narra che... Minosse, re di Creta, ordinò a Dedalo, un abile inventore, di costruire un grande labirinto all’interno del quale avrebbe rinchiuso il mostruoso Minotauro. Dedalo, da quel valente costruttore che era, realizzò un complicato labirinto dove il mostro mezzo uomo e mezzo toro fu rinchiuso. Ma l’intrepido Teseo, a capo di un gruppo di coraggiosi ateniesi, riuscì a penetrare all’interno del labirinto, a uccidere il mostro e a scappare da lì. Quando Minosse venne a sapere quello che era accaduto non la prese tanto bene. Com’era possibile che quei forestieri fossero riusciti a compiere quell’impresa? 7 Maghi, imperatori e filosofi Negli Annali scritti sul bambù si narra che nel 2200 avanti Cristo il figlio dell’imperatore cinese Shin fu rinchiuso nella torre più alta del palazzo per ordine del padre. Per sfuggire dalla prigione durante un incendio saltò giù rimanendo appeso a una sorta di Nel regno degli dei Quel che era peggio, però, è che il re aveva perduto pure la figlia Arianna. Arianna, follemente innamorata di Teseo, lo aveva aiutato a risolvere l’intricato labirinto con un trucco che gli aveva suggerito lo stesso Dedalo: stendere un filo lungo il percorso. Con questo stratagemma Teseo risolse il labirinto e una volta uscito portò la bella ragazza via con sé (salvo poi abbandonare la poveretta su un’isola). A quel punto Minosse infuriato accusò Dedalo di tradimento. Per punirlo lo gettò nel labirinto insieme al figlio. Il rompicapo costruito da Dedalo era così complicato che neppure il suo creatore era in grado di uscire; alla fine pensò bene di costruire della ali e volare via. Con l’aiuto del figlio, Dedalo recuperò delle grandi piume dai resti delle aquile divorate dal Minotauro e costruì delle ali che appiccicò con della cera d’api al corpo suo e a quello di Icaro. Prima di spiccare il volo Dedalo ammonì il figlio di stare attento a non andare troppo in alto altrimenti il Sole avrebbe sciolto la cera e le ali si sarebbero staccate. Icaro rassicurò il padre, ma poi fece di testa sua. Inebriato dal volo, cominciò a salire e salire fino a quando il Sole fece il suo lavoro. Il calore sciolse la cera e le ali si staccarono. Icaro precipitò in mare scomparendo tra i flutti. La storia di Icaro non ha nulla di documentato e rimane solo un leggenda narrata dagli antichi scrittori come Igino (II sec. d.C?), che la riporta nelle sue Favole, e il grande poeta Ovidio (43 a.C- 18) che la racconta nel libro VIII delle Metamorfosi. Schiere di poeti e artisti hanno poi reso immortale la storia. Ma di mirabolanti imprese di uomini volanti, che il più delle volte saltano giù da qualche altura armati di ali fatte in casa e di molte preghiere, ce ne sono in abbondanza. Sempliciotti, ma anche maghi e imperatori tentarono l’impresa. Eccone un altro paio niente male. 8 Quei temerari sulle macchine volanti grosso cappello di paglia che, come una specie di paracadute, gli permise di atterrare sano e salvo. Molto tempo dopo, intorno alla metà dell’800, in Spagna, un uomo di nome Armen Firman fece un gran balzo dalla solita torre con addosso un grande mantello col quale intendeva atterrare dolcemente in mezzo alla folla. Fece male i conti il poveretto e si ruppe tutte le ossa, ma almeno sopravvisse alla caduta. Più o meno nello stesso periodo, a Cordoba, in Andalusia, uno studioso di nome Abbas ibn-Firmas costruì delle ali fatte con delle piume Lo strano caso di Simon Mago Con l’avvento del Cristianesimo nacque una storia riportata nei Vangeli Apocrifi legata a un personaggio assai controverso di nome Simon Mago. Nato intorno al 37 dopo Cristo in Samaria, dopo essere stato battezzato provò a offrire soldi per “comperare” il dono dello Spirito Santo. Allontanato da San Pietro per l’ignobile richiesta, si dedicò alle arti magiche e occulte. Tra le abilità che andava dicendo di possedere c’era quella del volo, talento che metteva in mostra durante pubbliche esibizioni. Anche la sua morte ha un qualcosa di leggendario e misterioso. Tra le tante versioni che circolano una riconduce la sua scomparsa ai postumi di una caduta mentre manifestava la sua potenza elevandosi in volo sotto lo sguardo di Nerone. San Pietro, veduto quello che stava combinando Simon Mago, avrebbe innalzato a Dio una invocazione: “Spiriti malefici, ombre della notte che lo sostenete, in nome di Dio lasciatelo”. L’invocazione sortì gli effetti sperati e Simon Mago cadde a terra rompendosi le gambe. Portato ad Ariccia, vicino Roma, per essere curato morì sotto le mani dei medici. Nel frattempo Nerone, irritato per quanto era successo, rinchiuse nelle prigioni gli Apostoli Pietro e Paolo. 9 L’Imperatore volle, fra l’altro, rappresentare nel circo la favola di Icaro, con la relativa caduta; ma non trovava nessuno disposto a lanciarsi dall’alto della torre appositamente costruita. Lo spettacolo era già per finire senza che la favola di Icaro avesse luogo, quando si presentò a Nerone un tal Simone, il quale, asserendo di aver scoperto il modo di poter volare, si offrì per far la parte di Icaro. Ma mentre tutti si aspettavano di vederlo volare come un uccello, lo si vide invece cadere – non appena si fu lanciato dalla torre – come un pezzo di piombo ai piedi del podio imperiale sfracellandosi al suolo e spruzzando il suo sangue fin sulle vesti dell’imperatore. e si lanciò da un’altura. Testimoni oculari affermarono che l’uomo riuscì a volare per un certo tratto prima di schiantarsi. Il folle svolazzatore se la cavò rompendosi il fondoschiena. Pare che, una volta in salvo, abbia imputato il fallimento alla mancanza di una coda come quella degli uccelli. Al di là dello stretto della Manica, il leggendario sovrano dei britanni, re Bladud, padre del famoso King Lear, nonché fondatore di Caervaddon, attuale Bath nel Somerseth in Inghilterra, provò a compiere il gran balzo. Oltre a essere un sovrano era anche un necromante in grado di comunicare con gli spiriti. Decise di usare la sua arte magica per costruire delle ali con le quali lanciarsi in volo verso il tempio di Apollo. Ma, gli spiriti adirati giudicarono oltraggiosa l’audacia del re che spirò dopo essere precipitato a terra. Da questa isola proveniva anche il benedettino “mezzo monaco e mezzo stregone” Oliviero di Malmesbury. Dopo l’anno Mille, sotto il Regno di Edoardo il Confessore, il religioso, invischiato nei meandri dell’astrologia, che voleva usare per predire il futuro, iniziò a ideare un apparecchio munito di ali. Forse prendendo spunto da Ovidio, si bardò di ali agganciate alle braccia e alle gambe e Nel regno degli dei Svetonio, nel suo Nerone, racconta in modo molto colorito l’episodio: 10 Quei temerari sulle macchine volanti si lanciò da una torre. Il tentativo non lo effettuò in patria, ma in Spagna, nel convento che lo ospitava. In aria ci rimase poco, il tempo necessario a un colpo di vento di fracassare il marchingegno. Il monaco cadde a terra rompendosi le gambe. Rimase, il poveraccio, infermo a letto per i successivi venti anni, senza tuttavia perdere un pizzico di baldanza, sostenendo che se avesse avuto l’accortezza di munirsi di un timone, il volo avrebbe avuto ben altro esito. Una cosa del genere capitò anche alla corte dell’imperatore bizantino Emanuele Comneno (1118-1180). Siamo intorno al 1145, nei sontuosi palazzi di Costantinopoli erano giorni di festa: l’imperatore ospitava il Sultano dei Turchi come segno di buona volontà per migliorare le relazioni diplomatiche. All’Ippodromo, corse e spettacoli di vario genere allietavano le giornate in onore del turco. Seguiva il sultano un arabo che, si diceva, avrebbe reso omaggio al suo signore volando per tutto lo stadio. La notizia fece presto a diffondersi per la corte e l’imperatore diede il suo assenso. Lo scenario, come lo racconta Padre Venturini nel volume Da Icaro a Montgolfier (1927), è di rara suggestione: Il dì stabilito, tutta Costantinopoli accorre nel miscuglio tumultuoso delle sue razze. Vi sono i Greci diffidenti e curiosi: vi sono gli Arabi alteri del loro campione; uno scintillo di colori e gemme, un intreccio fantastico di favelle e di voci, con lo sfondo azzurro del Corno d’oro. Ed ecco che dall’alto di una torre tra quattro leoni di bronzo d’orato – che andranno ad abbellire la Basilica di San Marco a Venezia – fece la sua comparsa il saracino “con un abito bianco, largo e lungo più dell’ordinario”. Bandito qualsiasi accorgimento meccanico, che non fossero altro che dei bastoncini di vimini a tendere l’abito, il coraggioso arabo attendeva sul parapetto della torre il vento buono. Tutti gli occhi sono rivolti a lui: i primi istanti silenzio di tomba: poi i bisbigli dei commenti: infine l’animarsi degli spettatori e il grido incondito dell’irrequietezza dell’attesa: “Vola, vola, Saracino, non ci far aspettare con la scusa del vento”. 11 […] felici movimenti, si vide annaspare alla disperata a mo’ di naufrago finché… precipitò in un ammasso svolazzante, tra gli urli d’orrore della moltitudine, a breve distanza dalla torre. Fu raccolto con le ossa frantumate, e niuno lo compianse, qual pazzo e sognatore esaltato. Tutte queste storie, più o meno ben documentate, hanno in comune due cose: l’universalità dell’aspirazione umana di levarsi in volo e l’epilogo poco fortunato. L’idea di volare non era null’altro che un vagheggiamento senza alcun fondamento tecnico o scientifico. La conquista dei cieli era, al più, di competenza della“sfera religiosa”. Solo la parte spirituale dell’uomo poteva ambire a elevarsi verso i cieli, la dimora di Dio, o degli esseri divini. È anche vero che la questione più terrena non mancò di incuriosire gli ordini religiosi più alti. Il problema dell’aria, e dei suoi abitanti, fa capolino più volte negli scritti dei Santi della Chiesa: all’assoluta impossibilità del volo umano per alcuni, replicano altri un poco più possibilisti, sebbene tutti concordi nell’ammettere la grandissima difficoltà di realizzazione. Per San Basilio (329-379) il nuoto dei pesci e il volo degli uccelli non sono poi così diversi: acqua e pinne per l’uno, aria e ali per l’altro, per entrambi la coda per dirigere lo spostamento orizzontale. Sulla stessa rotta si pone S. Ambrogio (340-397), il quale intuisce che la coda può dirigere anche la salita e la discesa dell’animale. Nell’opera di Sant’Agostino (354-430) è possibile rintracciare numerosi spunti legati al mito di Dedalo, all’atmosfera e al volo degli uccelli. A questo proposito per il Doctor Gratiae l’atmosfera è divisa in due parti, una inferiore e una superiore: solo nella Nel regno degli dei Ma il vento si faceva desiderare e la tregua fece cambiar opinione all’imperatore che mandò un servitore a dissuadere il temerario; pure il Sultano cominciò a pensare che forse non sarebbe stata una gran cosa per la religione di Maometto se quello lassù si fosse schiantato. Poi il vento si levò e si portò via i dubbi e la fremente attesa del popolino. Il“Saracino”fece un gran balzo e si lanciò, ma dopo pochi 12 Quei temerari sulle macchine volanti prima zona è possibile il volo degli uccelli poiché, come scrive nel De Genesi ad litteram imperfectus liber: In questa sfera dell’aria contigua alla terra si è detto che volano gli uccelli, perché in quella più alta e più pura che veramente aria (atmosfera) da tutti è chiamata non possono volare. Non né può infatti sostenere il peso a causa della rarefazione. Non le nubi in quella parte dell’aria possono formarsi, a quanto si afferma, né le tempeste scatenarsi, non essendoci vento. Presi dunque come esempio da imitare o come spunto per risolvere il problema, col passare del tempo diventò tollerabile cercare di simulare il volo degli uccelli, magari con giocattoli mossi da motori a molla o a spinta, ma rimaneva inopportuno, quando non pericoloso, aspirare a librarsi in aria e volare. La questione doveva sempre essere trattata con le dovute cautele e i più alti organi religiosi vegliavano in proposito. Quando a metà del Duecento il grande filosofo dell’ordine dei monaci francescani Roger Bacon (1214-1294?), italianizzato in Ruggero Bacone, sfornò un opuscolo in forma di lettera dal titolo De Secretis Artis et Naturae, vi si leggevano cose per quel tempo inverosimili: Si possono finalmente costruire macchine per volare, nelle quali un uomo stando seduto nel centro, col semplice girare un ben congegnato manubrio faccia si che le ali artificiosamente congiunte si agitino nell’aria a mo’ di uccello che vola. Il passo è notevole. Bacone ha un’intuizione che non era appartenuta a chi lo aveva preceduto: la possibilità di volare con un mezzo le cui ali non fossero mosse direttamente dalle braccia o dalle gambe dell’aviatore, ma attraverso un apposito meccanismo; in altre parole, un tentativo di discostarsi dall’esempio della natura. A questo proposito, però, precisava: Un tale strumento per volare io non l’ho veduto, né so di altri che lo abbiano fatto, ma conosco uno scienziato che seriamente pensò di costruirlo. 13 Archita di Taranto, filosofo pitagorico del IV secolo a.C, avrebbe per primo risolto il problema del volo con un giocattolo a forma di colomba. La testimonianza più antica a riguardo è fornita dallo scrittore romano del II secolo d.C Aulo Gellio, il quale affermava che il filosofo aveva costruito […] un simulacro di una colomba di legno con una certa ragione ed arte macchinativa di tal sorte che volava e tanto bene era librata e mossa dall’aura dello spirito che v’era accumulato e rinchiuso. Sul funzionamento della colomba meccanica nulla è sicuro e le congetture si susseguirono nel corso del tempo. Nel XIX secolo fu avanzata la possibilità che Archita avesse potuto utilizzare idrogeno per far innalzare una sorta di pallone a forma di uccello. Che Bacone si riferisca allo sfortunato connazionale Oliviero di Malmesbury? Non è dato saperlo, né altresì si può escludere la possibilità che sia stato lo stesso Bacone la mente dietro questo pensiero, volutamente intorbidito per evitare che l’Inquisizione si prendesse cura di lui. Precauzione, alla fine, inutile; per il Medioevo quelle idee erano fin troppo audaci, per non dire scellerate. La Chronica XXIV Generalium, che risale al 1370 ossia quasi un secolo dopo i fatti narrati, sostiene, infatti, che Bacone fu imprigionato per ordine del Generale dell’Ordine Francescano Gerolamo d’Ascoli, futuro Papa Nicola IV – un tipo, peraltro, piuttosto zelante nell’organizzare crociate e repressioni contro gli eretici – con l’accusa di aver sostenuto “novità sospette”. Pur non essendo la Chronica pienamente attendibile, è assai probabile che Bacone abbia passato dei guai seri a causa del pensiero che professava e non solo per aver immaginato globi Nel regno degli dei La colomba di Archita 14 Quei temerari sulle macchine volanti volanti. Di fronte a un ammonimento di quel genere le conseguenze potevano essere molto pericolose e Bacone, anche se non è certo che sia effettivamente finito in carcere, fu sottoposto a severe restrizioni che gli impedirono di pubblicare ulteriori scritti. Dunque, il volo rimaneva una questione di difficile risoluzione: alle difficoltà tecniche si aggiungevano gli ammonimenti religiosi e il problema fu relegato al coraggio, o alla stupidità, di qualche avventuroso in vena di tentar follie. Di scientifico non c’era nulla, e gli stessi filosofi qualora si fossero posti il problema, si limitarono a riflettere sulla questione, a prendere in considerazione il volo degli uccelli e a non urtare troppo la chiesa. Dante e Griffolino d’Arezzo Anche Dante accenna nella Divina Commedia a un temerario dell’aria. Nel XXIX canto dell’Inferno il poeta colloca Griffolino d’Arezzo che, preso sul serio, tentò di mostrare l’arte del volo ad Alberto da Siena; ma questi irritato dal fallimento del Griffolino lo fece mettere al rogo: “Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”, rispuose l’un, “mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: «I’ mi saprei levar per l’aere a volo»; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’ io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo. Ma ne l’ultima bolgia de le diece me per l’alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece” 15 Nel regno degli dei Dedalo e Icaro secondo una illustrazione tratta da Spiegel di F. Riederer (1493) Per smuovere le acque, occorreva un cambiamento nel modo di pensare degli uomini, una sorta di rivoluzione culturale che consentisse di attaccare il problema da un punto di vista differente. Cambiamento che subentrò con l’inizio del Rinascimento, l’epoca di Leonardo da Vinci. Ali di legno e fantasia “Mediante la pratica io provo esser false in più punti le teorie di molti filosofi anche i più antichi e rinomati”, scriveva Bernard Pallissy Nell’avvertimento ai lettori. Il ceramista francese, impegnato a ricercare il segreto dello smalto bianco perfetto, nella vita progettò numerosi macchinari e ben rappresentava lo spirito di un’epoca in pieno fermento turbata fin nel profondo dalla rivoluzione geografica e astronomica messa in moto da Colombo e Copernico. In questo nuovo scenario vi fu il ritorno potente delle arti meccaniche. Il mestierante francese era in buona compagnia nel portar avanti il suo proposito. Scrive Paolo Rossi in I filosofi e le macchine (1962), facendo menzione di altre figure simili a quella del francese: Pallissy, Norman, Vives, e Rabelais – a diversi livelli e con diverse intenzioni – avevano dato espressione all’esigenza, assai diffusa nella cultura del Cinquecento, di un sapere nel quale l’osservazione dei fenomeni, l’attenzione per le opere, la ricerca empirica, fossero preminenti rispetto alle evasioni retoriche, ai compiacimenti verbali, alle sottigliezze logiche, alle costruzioni a priori. Non tutti erano d’accordo, ovviamente: la meccanica era quanto di più contrario alle arti libere e rimaneva pur sempre mestiere da villani, non certo da filosofi della natura. Ma la diffusione dei libri sui viaggi, l’arte militare, le fortificazioni, le costruzioni di macchine avvicinavano il sapere del filosofo a quello dell’erudito e ancora a quello del meccanico di bottega: dopotutto l’astronomia serviva alla navigazione, la medicina alla cura dei feriti in battaglia e così via. 18 Quei temerari sulle macchine volanti In questa affascinante commistione, gli ingegneri e i meccanici che si avvicinarono al volo, tra Cinquecento e Seicento, provenivano in gran parte dagli studi sull’idraulica e sulle macchine. Volare significò più che altro costruire giocattoli meccanici a foggia di uccello o qualche marchingegno da adoperarsi negli spettacoli e nei teatri. Non è un caso che ritornò di gran moda la colomba di Archita, oggetto di studio di gente come Girolamo Cardano (1501-1576) e Attanasio Kircher (1602-1680). Il primo riteneva che solo con l’ausilio di una spinta iniziale o del vento si potesse ottenere un risultato altrimenti irrealizzabile. Il secondo, giudicando pia illusione risolvere il problema per via meccanica, fece ricorso a magneti nascosti per dare l’illusione del volo. La notizia di un tale esperimento corse veloce fino a Roma, tanto che Papa Urbano VIII volle vederci chiaro e convocò il Kircher in udienza. Visto che la faccenda non ebbe alcun riscontro, è probabile che lo studioso, per evitar guai, abbia deciso di chiarire prima“l’equivoco”. Intanto, sul finire del Quattrocento, un perugino, studioso e architetto di cose militari, aveva adattato lo spirito rinascimentale all’arte del volo. O almeno così si diceva. Il perugino volante In un giorno di febbraio del 1498, la città di Perugia si apprestava a festeggiare le sfarzose nozze della giovane Pantasilea discendente del potente casato dei Baglioni, signori della città, con il capitano di ventura Bartolomeo d’Alviano. Tra i festeggiamenti in onore della coppia, ve n’era uno di certo assai originale: Gian Battista Danti (1478?-1517), di rispettabile famiglia perugina, era pronto, con le sue ali meccaniche, a spiccare un volo sopra la piazza principale della città. Da tempo Gian Battista, fisico, matematico e architetto militare, era stato rapito dal problema del volo, e da un bel po’ cercava di risolverlo con il suo ingegno che, nello specifico, gli suggeriva di costruire delle ali fisse, non battenti, in grado di sfruttare le correnti d’aria. Da quello che ricaviamo da alcuni resoconti, Gian Battista conduceva i suoi esperimenti lontano da occhi indiscreti, pres- 19 Giovan Battista Danti, Dedalo cognominato, fu d’ingegno elevatissimo, e egli solo nel secolo nostro conseguì quello, che dall’antico Dedalo, fu vanamente tentato, imperochè mentre un giorno in Perugia molti Signori principali venuti erano ad honorare le nozze di Giovan Paolo Baglioni […] egli inaspettatamente con un remigio d’ali, che fatto si haveva à proportione della gravezza del suo corpo, si mosse dall’altezza di una Torre ivi vicina, e sibilando con fischio molto orribile, volò felicemente sopra la Piazza grande, piena d’innumerabile popolo; Ma, (ò maraviglia accagionata da nuovo accidente) hebbe appena volato circa 300 passi prima di giungere ad un destinato luogo, che egli si ruppe un ferro principale, che reggeva l’ala sinistra, nè potendosi egli più sostenere con la sola destra, fu forzato a lasciarsi cadere sopra un tetto cotiguo al Tempio di S. Maria delle Vergini, ove oggi è la Sapienza Nuova, onde restonne qualche poco offeso; Quelli che viddero non solo il volo, ma l’ossatura delle ali, e l’artificio loro maraviglioso, dissero, e si ha per traditione, che egli più volte, sopra l’acque del Trasimeno, si gettasse a volo, per imparare il modo di calarsi a poco a poco in terra, ma che con tutto il suo ingegno non lo potè mai trovare... Ali di legno e fantasia so l’Isola Polvese, uno dei tre isolotti del Lago Trasimeno. Da una delle alture dell’isolotto, il Nostro era solito balzare giù e collaudare le sue creazioni. Male che gli andava faceva un tuffo nel lago. Il solo che era al corrente di tanti sforzi era il fidato aiutante, sempre pronto a dare una mano al maestro e a ripescarlo dal lago. Da par suo, l’inventore preferiva spiccare i suoi salti all’imbrunire, in modo che meno gente possibile potesse vederlo, e, forse, farsi beffe di lui. Le nozze della nobile Pantasilea rappresentarono il momento giusto per mostrare alle folle le sue prodezze. Le cronache raccontano come in quel giorno di festa, Gian Battista si fosse lanciato sulla piazza principale, sopra le teste dei tanti cittadini accorsi alle nozze. Ecco come il perugino Cesare Crispolti presenta l’ingegnoso inventore e ne racconta l’accaduto nel suo Perugia Augusta edito nel 1648: 20 Quei temerari sulle macchine volanti Dunque alla fine il Dedalo perugino finì a gambe all’aria a causa della rottura di un montante dell’ala sinistra. A ben guardare,però, l’opera del Crispolti è opera postuma pubblicata da un suo nipote, prete dell’Oratorio, quarant’anni dopo la morte dello zio. Per giunta, il Crispolti nipote dice anche che il terzo libro dell’opera, nel quale compare la voce sul Danti, è di sua mano, sebbene stesa seguendo gli appunti che gli aveva lasciato lo zio. Dunque, qualche dubbio sulla veridicità della storia pare lecito. Malgrado alcuni storici di Perugia non facciano menzione del fatto, sono almeno quattro gli scrittori perugini che riportano l’impresa del Danti. Il racconto più completo nella descrizione probabilmente è quello steso da Leone Pascoli nel lavoro Vite de pittori scultori architetti perugini del 1732. Prima di iniziare, il Pascoli rivolge un ammonimento al lettore, libero o meno di credere a questa storia, che egli, quale scrittore di fatti, ha il dovere di riportare: Checché sia, io non pretendo di forzare il lettore a credere ciò che di Giovan Battista Dante sono per iscrivere, così non deve egli prender di forza me a scriver solo quel che pare a lui. E dacché l’uno o l’altro abbiamo tal libertà, egli crederà ciò che gli parrà credibile, ed io scriverò quel che mi pare che sia vero. A dar retta al Pascoli, per il gran giorno il novello Dedalo si era preparato a dovere, memore delle esperienze di atterraggio sul Trasimeno e aveva fatto predisporre sul sagrato del monastero una serie di materassi. Questo, naturalmente, non gli impedì di precipitare. Dopo l’incidente la folla inorridita accorse in soccorso certa di ritrovare il poveraccio moribondo. Fu una bella sorpresa scoprire che l’audace era vivo anche se non in perfetta forma, avendo riportato la rottura di una gamba. Se incertezze, dunque, vi possono essere sull’acrobatico volo del Danti pare riguardino solo la data delle celebrazioni e nondimeno chi fu in realtà a convolare a giuste nozze. Dopo il volo, Gian Battista divenne un personaggio famoso, una sorta di celebrità da presentare ai signori più facoltosi. Il conte Baglioni lo condusse a suo seguito in Lombardia, remunerandolo con grande munificenza per le sue mirabili invenzioni. 21 Le macchine di Leonardo Nel corso della vita, Leonardo da Vinci (1452-1519) ebbe numerosi e molteplici interessi. A parte la sua straordinaria abilità come artista, si interessò di scienza delle costruzioni, meccanica, fisica dei fluidi, idraulica, balistica. I suoi meccanismi furono ripresi e applicati molto dopo la sua morte ed è facile vedere l’influenza di questo pensatore nella costruzione di pompe per l’idraulica, di draghe e cavafanghi per la pulizia di paludi e canali, ingranaggi e sistemi di ingranaggi, di molle e alberi di rotazione dentati, fortezze poligonali, e pure di carri armati, cannoni e mitragliatrici. Per tenere occupata una testa tanto brillante che ha fatto di lui uno dei personaggi più luminosi di tutti i tempi, Leonardo prestò molto tempo alle riflessioni sul volo. Gli studi in tal senso risalgono al periodo che trascorse a Milano, tra il 1486-1490, e a un secondo periodo fiorentino, dopo il 1505. A questo anno risale il Codice sul volo degli uccelli, conservato oggi presso la Biblioteca Reale di Torino, una raccolta di 18 fogli di disegni e scritti a proposito del volo degli animali e di macchine per il volo umano. Sono appunti alla rinfusa e confusi, che celavano il proposito, mai realizzato, di scrivere un trattato completo […] in quattro libri, de’ quali il primo sia del lor volare per battimento d’ali, e il secondo del vol senza batter ali a favore di vento, il terzo del volare in comune, come d’uccelli, pipistrelli, pesci, animali insetti, il quarto del moto strumentale ultimo. Ali di legno e fantasia Tra i tanti che frequentavano la corte milanese spiccava il genio dei geni in persona: Leonardo da Vinci. Il quale era alle prese con lo stesso problema del collega umbro. 22 Quei temerari sulle macchine volanti Leonardo studiò a fondo l’anatomia degli uccelli per cercare di carpirne i segreti e ricavare quante più informazioni possibili che lo aiutassero a costruire delle ali. Egli amò e studiò gli uccelli per tutta la vita. Giorgio Vasari (1511-1574) nel suo Le vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti, scriveva che Leonardo […] spesso passando dai luoghi dove si vendevano, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezzo che si era richiesto, li lanciava in aria a volo, restituendogli la perduta libertà. Tra tutti i violatili, il preferito era il nibbio, al quale si riferiva nel Codice Atlantico con queste parole: Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio destino, perché nella prima ricordazione della mia infanzia e’ mi parea che essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprisse la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotesse con tal coda dentro alle labbra. La chiave di volta per risolvere il problema del volo era, per Leonardo, l’aria. La balorda idea che circolava a quel tempo attribuiva all’aria calda nascosta tra le piume degli uccelli il motivo del sostentamento, ma, per Leonardo, “l’aria in sé e condensabile e rarefattabile inverso lo infinito”. Studiando “che qualità d’aria circunda li uccelli che volano”, egli concluse che l’aria è più densa sotto l’ala dell’uccello e meno sopra, più spessa davanti, meno dietro. Muovendo l’ala, l’uccello comprime l’aria sottostante creando una sorta di cuscinetto che lo sostiene. Dunque l’ala muovendosi in un mezzo dilatabile, comprimibile e resistente dava origine a una resistenza a similitudine delle piume premute e calcate dal sonnolento; e quella cosa cacciava l’aria, trovando in essa resistenza, risalta a similitudine della palla nel muro. La proprietà resistente dell’aria portò alla progettazione del paracadute, col quale “un uomo potrà gittarsi d’ogni altezza senza danno di sè”, e a quella dell’elica come 23 La stessa proprietà che permetteva il volo degli uccelli poteva permettere il sostentamento e la progressione dell’uomo in aria per mezzo di ali artificiali. Da quel memorabile inventore che era, Leonardo progettò complicati marchingegni, veri e propri capolavori di ingegneria. Il Codice sul volo degli uccelli, rappresentò, probabilmente, l’ultimo tentativo di realizzare il volo attraverso l’imitazione della natura: la forza muscolare dell’uomo non era sufficiente per farlo innalzare, neanche se venisse moltiplicata da ingranaggi, corde, catene e pulegge, nel cui assemblaggio lui era un maestro d’inventiva. Leonardo andò modificando le proprie idee originarie; il volo umano non doveva più essere una mera imitazione del volo degli uccelli ma una giusta interazione con l’aria. La natura, più che imitata, andava assecondata e, dunque, dalle ali battenti Leonardo passò a studiare quelle fisse. Nei suoi scritti, sottolineava come volo con il favore del vento fosse facilitato per il sostentamento e la progressione del volatore, e tanto meno quanto questi era grande e grosso come accade in Natura con i grandi rapaci predatori. Tuttavia pare alquanto improbabile che egli abbia realmente effettuato qualche tentativo con una delle sue macchine, né che abbia mai utilizzato un aiutante come collaudatore. Di fatto, però, con Leonardo il volo non diventa più una questione relegata al mondo della fantasia o a quella dei tentativi privi di criterio. L’approccio di Leonardo è fatto di studio e analisi, sebbene, in questo caso, non suffragato da prove sul campo. Scriveva Raffaele Giacomelli sulla rivista L’Aeronauta del maggio 1919 a proposito del ruolo di Leonardo nella storia degli studi sul volo: l’opera di Leonardo serba tutto il suo fascino per chi, partendo dai risultati della scienza moderna – frutto di tanta collaborazione d’ingegni e di tanta ricchezza di mezzi – voglia per un momento procurarsi il diletto di ritrovarli quattro secoli prima – per sol forza di genio – già espressi da un osservatore senza mezzi e isolato. Ali di legno e fantasia strumento a vite, fatto di tela lina, stoppata i suoi pori con amido, che, voltato con prestezza, si fa la femmina nell’aria e monterà in alto. 24 La scienza dice la sua Quei temerari sulle macchine volanti Le grandi intuizioni di Leonardo dovettero aspettare due secoli prima di essere riprese; nel Seicento i suoi studi furono perlopiù ignorati e il suo operato cadde in una sorta di dimenticatoio. D’altronde, a discapito del volo umano era intervenuta la scienza con una posizione che lasciava poco spazio alle fantasie aviatorie. Il primo a dare un taglio a certi voli pindarici fu un filosofo e scienziato napoletano, Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679). Convinto sostenitore del metodo galileiano e delle teorie di Copernico e Keplero – ragion per cui fu oggetto di aspre critiche politiche e religiose – si interessò di astronomia, di meccanica, di idraulica e di epidemiologia. Il suo capolavoro De motu Animalium – la prima vera completa teoria del volo animale – pubblicato postumo, è un’opera frutto di una lunga serie di osservazioni sugli animali: nella prima parte l’autore tratta dei moti esterni dell’animale, mentre nella seconda tratta la totalità dei processi organici. A proposito del volo umano per forza muscolare scriveva: È impossibile che gli uomini con le proprie forze riescano nell’arte di volare – e questo perché bisognerebbe – o che i muscoli pettorali avessero come negli uccelli, la stessa forza motiva proporzionale, e questo è ben lungi dal verificarsi; o che, per raggiungere questa proporzionalità, il peso del corpo umano diminuisse,fino a quel determinato limite,corrispondente alle potenzialità dei rispettivi muscoli. Ora questo diventa possibile soltanto in specie, vale a dire in relazione al fluido aereo, come succede quando il piombo galleggia sull’acqua, sostenuto dal sughero. Come ottenere questa leggerezza da sughero? Di certo non con il metodo che in quegli stessi anni andava proponendo un collega e padre gesuita, Francesco Lana de Terzi, il quale aveva attaccato la questione del volo da un altro punto di vista: quello delle macchine “più leggere dell’aria”, i palloni. 25 Fisico, matematico e naturalista fu nominato membro della Royal Society nonostante avesse compiuto studi piuttosto irregolari. Ideò e perfezionò un gran numero di strumenti e dispositivi. Enunciò la legge di proporzionalità tra forza applicata e deformazione elastica, nota come legge di Hooke. Rivendicò nei confronti di Newton la paternità della scoperta della legge di attrazione gravitazionale, sebbene oggi gli storici siano concordi nell’affermare che le sue furono solo vaghe intuizioni in proposito. Fu autore di un trattato di microscopia intitolato Micrographia che illustrò con splendide tavole a colori, frutto delle osservazioni che aveva compiuto utilizzando un microscopio composto di sua invenzione. Introdusse per primo in biologia il concetto di “cellula”. Alle posizioni di Borelli giunse anche il naturalista inglese Robert Hooke (1635-1703). Tipo curioso, dal vasto ingegno e dai molteplici interessi, andava sostenendo di aver “sperimentato e fatto alcune prove sulla possibilità di muoversi nell’aria anche molto velocemente sopra acqua e terra”. Nel 1655 Hooke aveva costruito un aggeggio il quale mediante un sistema di molle e ali era in grado di sostenersi in aria. Attraverso una lunga serie di prove, suffragate da calcoli precisi, lo studioso giunse a stabilire che i muscoli dell’uomo non potevano bastare per innalzarsi in volo. Nel suo lavoro azzardò anche la possibilità di costruire una sorta di “muscoli artificiali”, realizzati mediante resine e gomme particolari. In una lettera indirizzata a un amico, dichiarò di aver trovato il modo di realizzare questa sostanza in grado di sviluppare la forza di venti uomini. Tuttavia, Hooke non fornì spiegazioni né disegni sulla effettiva fattibilità di questa gomma miracolosa, sulla quale, alla fine, non abbiamo alcun riscontro. Ali di legno e fantasia Robert Hooke 26 Quei temerari sulle macchine volanti Dunque, la scienza aveva espresso il suo verdetto. Se poi c’era qualcuno con qualche rotella fuori posto che voleva provare era libero di farlo. Naturalmente, in molti tentarono l’impresa. Erano abili meccanici, nobili sfaccendati col pallino delle invenzioni, mestieranti e religiosi gli artefici semi sconosciuti di questa piccola rivoluzione volante. Gli italiani erano rappresentati da una bella schiera di matti, ma non mancarono inglesi, turchi, tedeschi e una nutrita rappresentanza di francesi. Matti si, ma con le ali Neanche gli artisti rimasero immuni al fascino del volo. Paolo Guidotti (1560-1629), detto il Borghese, fu architetto per Sisto V, pittore per Clemente VIII, scultore sotto Paolo V.Tipo particolare e un poco portato all’eccesso, arso dalla voglia di primeggiare gli saltò in testa di scrivere un poema epico che, a suo dire, avrebbe fatto impallidire la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: la Gerusalemme distrutta; non contento gli balenò di dedicarsi all’anatomia, per approfondire la quale andava in giro per cimiteri a dissotterrare cadaveri. Un tipo così, che si vantava di possedere “quattordici arti” ciascuna della quali “avrebbe potuto dargli da vivere”, non poteva farsi mancare la voglia di svolazzare. Come tutti i nostri baldanzosi pionieri costruì le sue ali e nel 1628 si buttò giù dalla più alta torre della sua città, Lucca. Dell’esperienza vi sarebbe anche un testimone oculare, secondo quanto scritto nell’opera di Filippo Baldinucci (1624-1696) Notizie sui professori del disegno da Cimabue in poi iniziato a pubblicare dal 1681. Raccontava Matteo Boselli pittore, uomo degnissimo d’ogni fede e per lungo tempo nella scuola (del Guidotti), che Paolo si messe una volta in testa questo concetto, che potesse trovarsi il modo di volare, e con grande artifizio e fatica compose d’osso di balena alcune ali coprendole di penne, dando loro la piegatura mediante alcune molle, che egli si congegnava addosso sotto le braccia, accioché anche fussero d’aiuto a lui, 27 Nel proseguo, Baldinucci non pareva molto convinto del tentativo: secondo lui l’artista imprestato all’aeronautica riuscì a mostrare qualcosa ma “non volando ma cadendo più adagio di quello che senza l’ali egli avrebbe fatto”. Ma, come il Danti, anch’egli non andò lontano: sfondò il tetto di un palazzo fratturandosi una gamba. Qui, la storia si farcisce di romanticismo. Infatti, si narra che il Guidotti piombò nelle stanze private di una nobildonna che, riavutasi dallo spavento, amorevolmente si prese cura delle sue ferite. Una volta riacquistate le forze, il Guidotti si innamorò perdutamente della dama che lo aveva curato, tanto da cantarla nei suoi versi e dipingerla nelle sue tele.Poi, com’era giunto se ne ripartì – passando stavolta dalla porta e non dal tetto – abbandonando la povera nobildonna. Tornò a Roma per cercare di realizzare il suo sogno ma non ottenne altro che lo scherno. Deluso e indebolito dalle ferite mai del tutto sanate, morì nel 1626 solo e povero in canna “lasciando a una figliola piangente la pazzesca condotta del padre”. Un altro tipo curioso da menzionare è Salomon Idler, e non certo perché fu genio inarrivabile. Più o meno a metà del 1600, Salomon, che di mestiere faceva il calzolaio, costruì delle ali in ferro e piume che volle sperimentare gettandosi da una torre. Qualcuno un poco più savio riuscì a dissuaderlo dal compiere simile azzardo, ma non a convincerlo del tutto ad abbandonare la folle idea. Tant’è, il nostro calzolaio lasciò perdere la torre e decise di salire sopra il tetto di una casa che dava su un ponte, per l’occasione imbottito di materassi, non si sa mai dovesse capitare qualcosa. Terminati i preparativi, il tipo partì di gran carriera e, naturalmente, andò a fracassarsi sopra il ponte. L’accortezza di disporre dei materassi gli salvò la vita ma il ponte imbottito non resse l’impatto e crollò. Sotto l’arcata alcune galline razzolavano pacifiche prima che sulle loro teste crollasse di tutto, aviatore compreso. Insomma, quattro galline furono le prime vittime accertate di un disastro aereo. Un poco più sfortunato del nostro calzolaio fu un contadino polacco. Il 3 aprile 1680 il baldanzoso contadino chiese a chi di dovere un contributo per poter acquistare tutto l’occorrente per Ali di legno e fantasia per alzar l’ali medesime, nell’atto del volo, dopo essersi molte e molte volte provato, finalmente s’espose al cimento.