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Edizioni R.E.I.
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Ti Sento
Cassidy McCormack
ISBN 978-88-97362-15-9
Copyright 2011 - Edizioni R.E.I.
www.edizionirei.webnode.com
Stampa: Greco & Greco - Milano
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CASSIDY McCORMACK
TI SENTO
Edizioni R.E.I.
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A Riccardo Martino
con immensa gratitudine
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Non c’è niente di peggio di un telefono che si ostina a
squillare ogni giorno alle sei. Scherzo beffardo e crudele
di chi al mattino non ha di meglio da fare che
interrompere il sonno altrui.
Dovrò decidermi a cambiare la suoneria del cellulare,
questa canzone ormai non la passano neanche più alla
radio.
Sì, sì, ho sentito, adesso mi alzo. Dammi solo un altro
minuto.
Ma dove ho messo gli occhiali? Sono certo di averli visti
sul comodino ieri sera, dietro la videocamera. Che li
abbia fatti cadere mentre dormivo? Diamo una sbirciata
sotto il letto, non si sa mai. Ah, ecco dove sono finite le
sigarette. Dio, quanta polvere qua sotto. Devo proprio
prendermi un po’ di tempo per dare una pulita qua dentro.
Sì, sì, adesso scendo, smettila di rompere! Che strazio che
sei.
Ma dove diamine sono finiti i miei occhiali?
Brrr!
Voglio la moquette. Voglio la moquette.
Eccoti birbante! Volevi giocare a nascondino sta mattina?
Pessima idea, basto già io per fare ritardo.
Beh, adesso va decisamente meglio. Questa luce mi
acceca.
Aggiungere alla lista: cambiare tende di mamma. Quel
giallino è troppo femminile.
A proposito, dovrei proprio passare a vedere come sta, è
da un po’ che non la sento.
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Chissà se si è ricordata del vaccino, c’era il richiamo la
settimana scorsa.
Mi sa che non faccio in tempo a fare una doccia. Sta volta
mi ammazza davvero, ho un ritardo mostruoso.
Ha smesso di chiamare, brutto segno.
Ha ragione mia madre: devo smetterla di lasciare i vestiti
sparsi per casa quando mi spoglio, ci metto ore a
ritrovare tutto quello che mi serve.
Giubbotto o cappotto? Cappotto, non dovrebbe piovere
anche oggi. Però così devo cambiare scarpe. Ma sì,
minuto più, minuto meno, tanto la ramanzina mi tocca lo
stesso.
Camicia, maglione, jeans, cintura, calzini e scarpe uguali,
cappotto, capelli ok, occhiali, portafoglio, cellulare. Mi
sembra di avere preso tutto.
Chiavi, chiavi, chiavi.
Giusto! In bagno, sul ripiano dello specchio.
Un’ultima rimirata? Perché no?
Uff! Ancora?
<< Sto scendendo!>>
<< È da un’ora che aspetto!>>
Ma che ti strilli? Chi te l’ha chiesto di presentarti a casa
mia all’alba? << Scusa, non ho sentito la sveglia.>>
<< Muoviti!>>
Possibile che sia perennemente incazzato quest’uomo?
Acc…! Ma dove ho la testa sta mattina? Vabbeh, adesso è
tardi per rientrare a prendere il libro di genetica. Tanto
l’esame è saltato ormai. Me le sono già giocate le mie tre
assenze.
<< Signora Simonelli, buongiorno! Scendo con lei se non
le dispiace.>> Che stronza. Sempre con la solita puzza
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sotto il naso. Mai un cenno, un saluto. Vorrei vedere se
faresti ancora tanto la preziosa se sapessi che tuo marito
se la fa con la figlia del portiere del palazzo di fronte. Sei
piacevole quanto un petardo nel sedere. Fattene una
ragione, quell’uomo ti odia. Almeno è quello che dice
Sofia.
Ecco che ho scordato! La sciarpa. Che freddo che fa. Si
sta meglio quando piove.
Mmm, di male in peggio, è furioso.
<< È l’ultima volta che mi fai aspettare così!>>
Ma rilassati << Buongiorno anche a te.>>
<< Fa’ poco lo spiritoso. Sono in ritardo.>>
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto…
<< Che fai lì imbambolato? Muoviti.>>
Conto fino a dieci prima di risponderti che detesto te e
odio questo lavoro, ma non ho voglia di litigare oggi,
quindi è meglio che sto zitto <<Che hai per me,
stamattina?>> dai, tira fuori il tuo solito taccuino. Dio!
Come sei prevedibile. Sarebbe anche il caso di comprarne
uno nuovo, ti pare? I fogli scarseggiano.
<< Tieni!>>
<< Tutto qui?>>
<< Giornata tranquilla oggi? Passi a prenderli tu? Ti
aspetto in Agenzia.>>
<< Appuntamento nel primo pomeriggio? Ho la mattina
libera quindi.>> ma allora perché cavolo mi hai svegliato
a quest’ora?
<< Arriva in ritardo anche sta volta e…>>
E…? Dai, continua. Tanto ti si legge in faccia che non mi
digerisci. Mi stai stressando dal primo giorno in cui ho
iniziato questo maledetto lavoro.
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<< Ti trovo più bianchiccio del solito, ti senti bene?>>
Non direi proprio << Ho un po’ freddo!>>
<< Capisco.>>
No che non capisci.
<< Vai da qualche parte? Vuoi un passaggio in
macchina?>>
E questo che vuole?
<< Alessandro? Non ho tutto il giorno. Vuoi un passaggio
o no? Ma che stai guardando?>>
<< Mi è sembrato che quel tipo là giù mi salutasse.>>
<< Lo conosci?>>
Non mi sembra
<< No.>>
<< Sei certo che ce l’avesse proprio con te?>>
E mica sono un visionario? Ci siamo solo noi due sul
marciapiede, e tu gli dai le spalle. Ergo…
<< Sì.>>
<< Non ci pensare, è solo uno di quelli.>>
Ah sì, e che vuole da me? Se ne vada per la sua strada
<< Dovrei preoccuparmene? Dovrei fare qualcosa?>>
<< Non dargli importanza. Non ne vale la pena con gente
così.>>
Addirittura!
<< Sì forse hai ragione tu.>>
<< Allora lo vuoi o no questo passaggio?>>
Chissà dove va con quella fretta?
<< No, grazie, farò due passi fino all’università. Visto che
ho la mattina libera vado a lezione.>>
<< Come ti pare.>>
Oppure no, chissà se…
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<< Alessandro?>>
<< Dimmi.>>
<< Stai ancora pensando a quell’uomo?>>
<< Mi ha incuriosito.>>
<< Non fare niente di stupido. Il capo ce l’ha già
abbastanza con te per digerire un altro dei tuoi colpi di
testa.>>
E di che ti preoccupi? Cosa potrei mai fare?
<< Vorrei solo sapere chi è.>>
<< Pensa al lavoro piuttosto. E non ti dimenticare
l’appuntamento di oggi. Ti sei segnato l’indirizzo?>>
Uff! È successo una volta sola
<< Sta tranquillo.>>
<< A più tardi allora.>>
<< Non mancherò.>>
<< Non ti dimenticare di passare dall’Ingegnere. Per colpa
tua abbiamo dovuto rimandare l’appuntamento di due
settimane.>>
E vattene!
<< Non mancherò ho detto.>>
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Inutile affannarti tanto, caro il mio professor Melluso. Per
quanto tu possa mettercela tutta, quest’aula sarà sempre
troppo grande per te.
Se non fosse per il Branco in prima fila - che ti presta
qualche attenzione per ottenere un trenta troppo scontato
per risultare reale perfino a te – e qualche sadico
avventuriero, saresti costretto a decantare la tua scarsa
sapienza a duecento posti vuoti.
Non credere che non l’abbia capito il tuo gioco. Vuoi
tenermi incatenato a questo corso perché hai capito che
già dal secondo anno ne so molto più di te. Eppure sarai
costretto a concedermelo quest’esame prima o poi, ed io
non ti darò tregua finché non ti stancherai della mia
faccia. Diventerò il tuo incubo ricorrente. Ti sveglierai di
notte urlando di non poterne più di me. Non puoi
incastrarmi per sempre. Dovrai pur prendere di mira
qualcun altro e lasciarmi andare. Tanto io non mollo.
Sono paziente, aspetterò.
Ah, ecco la piccola Denise. Tocca a te oggi la levataccia
all’alba per correre a occupare i posti in prima fila per il
tuo branco. E brava la piccoletta! Sarebbe anche ora che
te li sistemassi quei capelli ogni tanto. Se li sciogliessi poi,
non saresti neanche così poco gradevole come sembri
ultimamente, nascosta sotto il multistrato di fondotinta che
usi per nascondere la pelle bianchiccia che ti eviteresti se
ti decidessi a prendere un po’ di sole.
È la terza volta questa settimana che ti tocca venire ad
aprire le porte. Poverina! Dopotutto a te tocca faticare un
po’ più delle altre per quel trenta, giusto? Garantirti un
posto nel branco per te è come arruffianarti il professore,
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una ruffiana fra i ruffiani. Se solo curassi un pochino di
più il tuo aspetto come un tempo…
Ammettilo, tesoro, avresti preferito rimanere a letto sta
mattina. Ma perché non lo fai allora? Ribellati al sistema!
Fregatene di perdere il tuo sgabello al bar col professore.
Tanto la lode non te la da. Non hai le caratteristiche
genetiche fondamentali per questo. Perché mai un
insegnante che da fondamento alla sua vita sulla genetica
dovrebbe lodare proprio uno scherzo della natura come
te? Smettila di studiare per tutti. Pensa a te stessa e
abbandona il branco. Sei cento volte migliore di tutti loro
messi assieme.
Guardati, sei talmente attenta ai particolari da non
accorgerti del mondo che ti vive intorno. Non potresti
vedermi neanche se lo volessi davvero. Anche se
continuassi a fissarti per le prossime due ore, tu
continueresti a non accorgerti di me. Potremmo essere io
e te soltanto in quest’aula oggi, potrei sedermi accanto a
te - a uno dei posti che hai occupato con i fogli pieni dei
tuoi appunti disordinati - e tu continueresti a non vedermi.
E perché mai dovresti farlo? Sono anni che entri in aula
senza concedere il tuo sguardo a niente che non sia un
blocco per appunti, uno schermo di tela bianca per i lucidi
o la faccia di uno qualunque dei professori. Sei patetica.
Non so come facessi a ritenerti interessante l’anno scorso.
Sembravi così diversa, così poco scontata. Ora sei banale,
proprio il requisito che si richiede per far parte del
Branco. Hai fatto presto a conformarti al gruppo, a
impararne il linguaggio, le leggi.
Che delusione vedere una mente così brillante offuscata
dall’umiliazione. Non vince sempre il più forte, Denise. A
volte – anche se devo ammettere che succede molto di
rado – il più forte perde perché è troppo convinto che non
possa accadere, e il perfido Ivan riesce a individuare lo
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spiraglio di luce dove poter puntare il proiettile della
propria fionda.
Tu non sei Golia, Denise, tu potresti mangiartelo vivo quel
furbacchione di Ivan, ma allora perché sei ancora lì a fare
la schiava?
Ah, certo. Che sciocco! Quasi dimenticavo. Eccolo che si
fa avanti con tutti gli altri, il tuo Adone. Marco Tosti, che
di tosto ha soltanto il nome. Dì un po’, li hai ancora i
segni della nostra ultima scazzottata. Non fai più lo
strafottente quando te le suonano, non è vero? Peccato
che i tuoi amici non abbiano potuto vedere come incassi
bene. Eppure non credere che sia finita, ho ancora un
conto in sospeso con te.
Ma come fa a piacerti quella specie di sorcio, Denise.
Perché continui a volerti così male? Per lui sei invisibile
tanto quanto lo sono io per te. Non gli importa niente
degli appunti che gli passi, dei favori che gli fai. Uno così
non ha occhi che per se stesso. Come fai a non
accorgertene? Che rabbia che mi fai!
E questo qui che vuole? Va a sederti da un’altra parte. Ci
sono centinaia di posti liberi davanti. Non l’hai notato che
è dall’inizio dei corsi che qui dietro ci sto solo io? Ma…
aspetta un attimo, tu non sei uno di noi. È la prima volta
che ti vedo. Hai accompagnato qualcuno e vuoi startene
qui ad aspettarlo in disparte? Hai l’aria sveglia, che ci fai
qui, va a farti un giro. Non sprecare due ore della tua vita
qui dentro, non ne vale la pena. Stai pensando alla mia
proposta, vero? Ti mordicchi il labbro inferiore,
pensieroso sul da farsi. Beh, te lo dico io cosa devi fare:
vattene. Fuggi finché sei in tempo. Tanto fra due ore la
ritroverai di nuovo lì seduta. Non la mangia nessuno. Va
pure tranquillo, amico. Qui dentro solo la noia potrebbe
farle del male.
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Ehi! Ma dove sei finita? Mi distraggo un istante e mi
sparisci così? Non è per niente gentile da parte tua.
Vediamo un po’! Il resto del Branco è tutto ai propri posti,
solo il tuo è vuoto, anche se sulla sedia hai lasciato la
Gucci nuova, regalo di papà per il compleanno della
settimana scorsa. Com’eri tenera quando la sventolavi
davanti alle altre ruffiane. Per una settimana l’hai
protetta con fare maniacale, quasi fosse il più debole della
cucciolata di accessori costosi piovuti per il tuo giorno
speciale. Se l’hai abbandonata così significa che non sei
lontana o che è diventata grande abbastanza da
permetterti di occuparti di un nuovo nato. So che puoi
tenerla d’occhio in qualunque momento, ma allora dove
sei? Perché non riesco a vederti? Cosa è successo di tanto
importante da costringerti ad abbassare la guardia sulla
cucciolata? Forse il fatto che sia accanto a Marco ti rende
stupidamente più tranquilla. Non riusciresti mai a credere
che quel sorcio non alzerebbe un dito per salvarla, vero?
Eppure è così, te l’assicuro.
Mmm… c’è un movimento strano nell’aria. Cosa mi sono
perso? Perché Melluso non ha ancora iniziato a dare
sfoggio alla sua mediocrità? Non si aspetterà mica che
arrivi qualcun altro? Ci vorrebbe un intervento divino per
questo.
No! C’è dell’altro, ne sono certo. C’è qualcosa che non
va, ma che cosa?
Ah, ecco dov’eri finita? Cosa sono tutti quei fogli?
Ohhh! Ma certo. Che stupido! È la solita verifica a
sorpresa. Come ho fatto a non arrivarci prima? Ho fatto
proprio bene a venire oggi. Mi farò due risate.
Guarda che occhi strabuzzati? Poveri novellini. Non
immaginate neanche che da questa prova dipenderà tutto
il vostro futuro. Avrei potuto avvertirvi all’inizio del
corso. Informarvi che chi non supera questa verifica
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diventerà l’ennesimo nome sulla lista nera di quel
maledetto. Quando toccò a me, nessuno si premurò di
farmi notare questo insignificante particolare, quindi
perché per voi dovrebbe essere diverso? Sono certo che
rivedrò molte delle vostre facce al prossimo giro. Si da
sempre una seconda possibilità. Sono proprio curioso di
stare a vedere chi sarà di voi a resistere per più di due
anni prima di mollare.
Ti senti più sicura ora che sei tornata al tuo posto accanto
a lui, vero? Non sembri minimamente preoccupata. E
perché dovresti? Di certo voi del Branco eravate al
corrente di questo colpo basso da settimane. Avrei dovuto
accorgermene quando ti ha fatto posto accanto a sé. Ti
concede l’onore solo quando in giro c’è puzza di verifiche.
Continuo a non capire come fai a non vedere. Come fa a
piacerti uno così? Non lo fai solo perché è un bel ragazzo,
altrimenti noteresti me, che non passo di certo
inosservato. Lo fai per i soldi? Lo fai perché sarebbe
perfetto da presentare a mamma e papà?
Che rabbia mi fai! Sciocca e arrivista.
Ah! Ben ti sta. Ora ti tocca anche distribuire i compiti. Ti
piace proprio il tuo ruolo di maggiordomo del Branco,
vero? Poco ti importa se non avrai mai il loro rispetto. Ti
basta farne parte e fare contento papà.
Ti muovi fra i banchi e quasi sembri un fantasma. Sei
dimagrita? Non me ne ero accorto, avvolta come sei in
tutti quei vestiti sempre di un paio di taglie più grandi. A
che cosa ti serve sfoggiare tutte quelle marche se non sei
in grado di indossarle? È solo uno spreco di soldi.
L’antitesi del buon gusto.
Finito? Sembri sempre un po’ sperduta quando ti guardi
intorno a quel modo. Come se non passassi quattro ore
della tua vita in quest’aula quasi tutti i giorni da almeno
due anni. Ti riscopri a guardarla ogni volta come se fosse
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la prima, cogli nuovi dettagli che prima ti erano sembrati
insignificanti e li aggiungi al quadro della tua visuale
contorta della realtà che ti circonda.
E adesso che fai? Non ti sei mai spinta con lo sguardo
oltre la settima fila. Cos’è che ti turba? Ti senti osservata
da me? Non sarebbe la prima volta. Perché oggi è diverso
allora?
Ehi! Ma mi stai fissando davvero. O c’è qualcos’altro qui
dietro che cattura la tua attenzione? No no, è proprio me
che guardi adesso. Che c’è piccola? Tutto il mondo non ti
basta? La BMW nuova non ti basta? Che te ne fai di uno
come me?
Sì, è proprio me che guardi. Sorridi al mio sorriso.
Oh, no tesoro, non ho bisogno del compito io. Sono già
stato marchiato da tempo. Potrei farlo a occhi chiusi
ormai, potrei essere impeccabile, e non servirebbe a
niente.
Che strano! È la prima volta che oltrepassi il confine. Sta
attenta! Il Branco potrebbe avvertire l’odore del nemico
su dite e non riaccettarti nel gruppo. Rischi grosso
continuando ad avvicinarti così. Torna da loro, è meglio
per tutti.
Che ti prende? Ti piacciono così tanto i miei occhi? È la
prima volta che ti soffermi a fissare qualcuno negli occhi
così a lungo, così sfrontatamente. Smettila! Mi metti a
disagio.
Riesco già a sentire l’aroma del tuo profumo costoso.
Smettila di guardarmi. Smettila di guardarmi.
<< Ciao!>>
Mi parli anche? Allora vuoi giocare. Piccola sfacciatella!
<< Tutto bene, cara?>>
<< Andrebbe molto meglio se la smettessi di fissarmi.>>
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Ah, ma allora non sono poi così invisibile. Devo
ricredermi, non sei così poco attenta come immaginavo. È
tutta finzione. Quello che mi sfugge è perché ti fai avanti
proprio adesso, dopo tutto questo tempo. << Vorrà dire
che mi sforzerò di guardare da un’altra parte se ti
infastidisce tanto.>>
<< Sì, mi infastidisce.>>
E allora perché sorridi ancora?
<< Signorina Marotti! Ritiene che si possa iniziare o ne ha
ancora per molto?>>
Mille grazie prof. Ti devo un caffè.
<< Sì, mi scusi.>>
Ehi, ma che fai, arrossisci? Quell’impudente ti ha messo
in imbarazzo? << Ehi, Denise!>> è un’impressione o ti ho
davvero sentita fremere quando le mie dita si sono fermate
sulla tua mano ancora poggiata sul foglio del test davanti
a me << Mi dispiace tanto.>> sarò sembrato abbastanza
sincero?
Adesso ti ho imbarazzata io però. Non te l’aspettavi vero?
Eh no! Non sei abituata a chi ti presti attenzione. Ti mette
sempre a disagio.
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Ha un certo fascino scoprire come l’intera esistenza di
qualcuno possa essere influenzata da un dettaglio
insignificante come il sorriso di uno sconosciuto.
Quella mattina avevo fatto tutto proprio come in
quell’ultimo anno della mia vita. Avevo brontolato un po’
prima di alzarmi, avevo fatto innervosire Massimo e –
come quando non c’era lavoro – ero andato a lezione. Mi
ero seduto all’ultima fila di banchi, quella evitata come un
morbo contagioso da tutti quelli che prendono l’università
un po’ più seriamente di me, che fin dall’inizio mi sono
sempre sentito troppo al di sopra di quelle teste vuote per
trovarle abbastanza interessanti da desiderare conoscerne
qualcuna.
Ho sempre guardato tutti dall’alto in basso. Lo ammetto.
Eppure detesto quelli con la puzza sotto il naso, ma forse
solo perché li ritengo inferiori a me.
Ho scelto una facoltà scientifica perché mio padre
insisteva affinché scegliessi Giurisprudenza. È stato un
dispetto, ma almeno ho scoperto la mia vera passione: la
Medicina.
Non ho mai avuto alcuna difficoltà rilevante durante il mio
corso di studi, mi veniva naturale, quasi studiassi cose che
conoscevo già. Avevo meditato di cambiare ateneo la
quarta volta che Melluso si rifiutò di farmi passare
l’esame, ma – come con mio padre – ho preferito
dichiarare guerra e stare a vedere quanto resisterà al mio
assedio.
Senza il suo esame, propedeutico, non posso frequentare i
corsi dell’ultimo anno, lui lo sa e gli leggo negli occhi
un’ardente soddisfazione ogni volta che incrocia i miei.
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Pezzo di m…. mmm… è meglio se non ci penso.
Non ho mai saputo a che ora arrivasse in aula. Io di solito
mi presento presto, visto che con Massimo tra i piedi, da
un anno esco da casa sempre mentre il resto del mondo
dorme.
I cancelli vengono aperti alle 7:30 circa, ed io di solito
sono già da mezz’ora in attesa seduto al bar di fronte. Non
l’ho mai visto arrivare, eppure tutte le mattine, quando
varco la soglia dell’aula lui è già lì, con la sua giacca
pesante sullo schienale della sedia, il sigaro in mano,
rigorosamente spento, e gli occhiali quasi in equilibrio
sulla punta del naso, mentre affonda la testa in uno dei
quotidiani in pila nell’angolo alto a sinistra della cattedra.
Se ne sta così per ore, storcendo il naso di tanto in tanto a
una brutta notizia o liberando una smorfia quasi sempre
illeggibile. Le brutte notizie gli fanno venir voglia di
fumare, lo si capisce perché tutte le volte che ne legge una,
da un’annusata al sigaro fino a quando i tratti del suo viso
teso si distendono per riassumere la forma della maschera
inespressiva di sempre.
Di certo è sposato. Il suo abbigliamento è sempre
impeccabile. Abiti puliti, camicie stirate. Non credo viva
ancora dai suoi. È un uomo piacente dopotutto e gli
piacciono troppo le donne per non desiderarne una tutta
per sé. Chissà se ha anche dei figli? Non ha ancora l’età
per essere mio padre, ma ne ha abbastanza per avere un
bambino che va già a scuola. Mi piacerebbe sapere se è
uno da foto nel portafoglio.
Se non fosse che mi disprezza senza motivo, non mi
sembrerebbe così sgradevolmente irritante.
Ma che ti ho fatto? Lasciami andare.
È da due anni che conosco Denise. Frequentava il corso di
chimica generale del primo anno ed io, al secondo, facevo
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da assistente al Professore. Tenevo i corsi pomeridiani per
le esercitazioni in vista dell’esame scritto. Non è mai stata
molto socievole. Sceglieva sempre la fila di banchi più
vuota per essere certa che nessuno potesse distoglierla dai
suoi doveri. Mi vedeva scrivere formule sulla lavagna, ma
non mi guardava mai. Mi ascoltava spiegare la lezione, ma
non mi sentiva. Viveva in un mondo tutto suo, fatto di
appunti, libri, internet. Era capace di seguire i miei
logorroici discorsi, prendere appunti e allo stesso tempo
cercare approfondimenti sul pc portatile da tremila euro
che si portava sempre dietro con noncuranza. Mi aspetto
ancora di vederglielo lanciare sul banco come fosse un
libro vecchio.
Mi sforzavo meno allora di capirla che adesso. Nonostante
le sue stranezze aveva un modus operandi molto
elementare. Ogni suo gesto, anche banale, - o che fatto dai
più sarebbe potuto risultare perfino… goffo - era
aggraziato, perché spontaneo. Al contrario di adesso, che
sembra inadeguata anche nel movimento più spontaneo,
come camminare, respirare. Più cerca di sembrare
interessante, affascinante, più finisce col diventare ridicola
e grossolana.
All’esame finale capitò con me. Lo scritto era il caos di
formule e numeri che avevo sempre immaginato
aleggiasse nella sua mente scombinata, ma nei risultati era
stata precisa al millesimo. Mi ci volle un pomeriggio
intero per capire il ragionamento applicato a ogni singola
formula. Una metodica ragionata, non studiata, rese la
correzione del compito una battaglia in campo aperto. Non
seguiva nessuno dei miei schemi ed io davanti a quel
compito mi sentivo come i primi giorni di università,
quando cercavo di decifrare gli appunti nella speranza di
capire il metodo applicato dal professore per svolgere
determinati esercizi.
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Quando il professore mi chiese il giudizio sul suo compito
feci un po’ lo stronzo. Mi sentivo poco coinvolto, come il
docente che deve esaminare un candidato esterno. Che ci
fossi stato o no, in aula in quei tre mesi, a lei non era
interessato affatto.
Dissi che l’esame era più che discreto – non volevo
ammettere che fosse perfetto, e sapevo che il professore si
fidava troppo di me per andare a controllare – però troppo
caotico per una valutazione troppo soddisfacente.
Optammo quindi per un ragionevole 27, che sapevo
l’avrebbe mandata su tutte le furie. Si sarebbe chiesta dove
aveva sbagliato, mandandola in totale confusione per una
volta tanto.
Il giorno dell’orale posò il libretto dal lato della cattedra
dov’era seduto il professore. L’occhiataccia che mi lanciò
mentre lo faceva era abbastanza chiara da farmi capire che
aveva incassato il colpo come speravo.
Non mi feci nessuno scrupolo neanche in quel caso. Chiesi
al professore il permesso di esaminarla io – non avrebbe
rifiutato mai di togliersi una di quelle rogne di torno -.
Quando fu il suo turno, l’occhiataccia si fece più arcigna.
Era stata una delle prime ad arrivare in aula, eppure io la
chiamai per ultima. Il professore aveva altri due studenti
da esaminare, e di solito non prestava attenzione ai miei.
Si mise seduta con movimento pesante, giurerei d’averla
sentita sbuffare. Non c’era la minima paura nei suoi occhi.
Mi sfidava la sfacciata. Troppo sicura di sé per avere
timore in un esito negativo.
<< Allora, signorina, >> dissi per stuzzicarla ancora <<
Ha con sé le sue relazioni di laboratorio? Posso
vederle?>>
Senza un attimo di esitazione, tirò fuori dalla sua borsa
una cartelletta arancione. Me la porse senza troppi
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complimenti, ma nel farlo guardò il professore con la coda
dell’occhio per assicurarsi che fosse distratto da altro.
Mossa poco accorta la sua, perché me ne accorsi e sfruttai
a mio favore quel briciolo di imbarazzo che sotto sotto
covava, dopotutto.
Mi sporsi leggermente in avanti facendole cenno di
avvicinarsi e dissi piano, per non farmi sentire << Ceni
con me stasera?>>
Mi guardò impietrita.
Io non riuscii a trattenermi dal sorridere divertito dalla sua
espressione offesa.
Fece no con la testa, ma non guardava me. Era troppo
attenta a non insospettire il professore.
Allora mi feci avanti di nuovo per farle capire che volevo
parlarle ancora in privato << Perché no?>> stavo per
scoppiare a ridere e mi si leggeva in faccia.
<< Non posso.>> sussurrò dopo aver riflettuto troppo per
cercare una risposta abbastanza diplomatica da non
costarle l’esame.
<< E allora ti boccio.>> dissi con una specie di ghigno.
Si fece subito indietro facendo rumore con la sedia.
<< Qualcosa non va?>> chiese il professore al mio fianco.
Mentre noi ci eravamo persi in quell’innocente preambolo
lui aveva già quasi finito di esaminare il suo ultimo
studente. Non che gli ci volesse molto, dato che si limitava
a giudicare la preparazione di un esaminando con non più
di due domande.
Denise raggelò.
<< Nulla di grave professore!>> risposi << La ragazza è
solo un po’ emozionata.>>
<< Su, su, signorina.>> cercò di spronarla << Non la
mangia nessuno. Vorrei tornare a casa per ora di cena se
non le dispiace.>>
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Arrossì talmente da farmi sentire perfino un po’ in colpa.
<< Su, su, signorina.>> infierii << dopotutto le cose o si
sanno o non si sanno. Non ci faccia perdere altro tempo.>>
Era furente. Imbarazzata e furente. Il mix perfetto per
scatenare una crisi di pianto.
Decisi di affondare il colpo di grazia solo quando sentii la
sedia dell’ultimo candidato muoversi all’indietro. Il
professore sbuffava mentre sul libretto tracciava con la
penna nera un 18 strappato con le pinze.
<< Può andare a casa professore, se crede. Resto io con la
signorina. La vedo un po’ agitata, sarebbe un peccato
bocciarla solo per questo. Sono quasi certo che in quella
testolina c’è molto più di quanto vuole farci vedere.>>
Senza rispondere, il professore firmò la camicia e raccolse
il giaccone dalla sedia accanto. Sbirciò ancora una volta
quella tremolante figura sottile incollata alla sedia di
fronte a me e, mugugnando qualcosa di incomprensibile, si
avviò all’uscita.
Il 18 stava riordinando le sue cose per andarsene, ma fui
costretto a trattenerlo ancora qualche minuto. La mia
vendetta era vincolata alla presenza di testimoni.
<< Allora>> dissi cercando di risultare il più odioso
possibile << vuole farlo o no quest’esame?>>
Annuì, nonostante una lacrima sfuggisse al suo controllo
bagnandole la guancia. La maschera strafottente che aveva
osato sfidarmi era finalmente sparita da quei lineamenti
altolocati.
Sorrisi. Avevo ottenuto quello che volevo. Ero stato
carogna abbastanza.
Il 18 sbuffò dal fondo dell’aula nel quale si era rifugiato ad
ascoltare un po’ di musica nell’mp3
<< Mi dispiace.>> mormorai per essere certo che mi
sentisse solo lei.
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Scosse la testa nel vano tentativo di recuperare un minimo
di dignità.
<<Dico davvero.>> afferrai un pacco di fazzolettini dalla
mia borsa e lo posai sulla cattedra invitandola a prenderne,
se ne volesse <<È solo che non riesco a resistere a una
sfida. È più forte di me, mi piace vincere.>>
Continuava a stare in silenzio. Si vedeva lontano un miglio
che lottava ferocemente con quel demone interiore che
voleva staccarmi la testa a morsi.
<< Se sei pronta possiamo iniziare.>>
L’esame durò meno del previsto. La sua testa non era poi
così caotica quando si trattava di esprimere dei concetti a
parole. Provai a prenderla in castagna più di una volta, ma
riuscì sempre a farla franca. Era evidente che sapeva di
cosa stavamo parlando.
Avrei voluto rimediare alla carognata dello scritto, ma mi
sentii ancora più carogna quando mi accorsi di non poterle
dare la lode a causa di quel 27 <<Sei più preparata di
quanto mi aspettassi, ma non posso darti più di 30.>>
Fece spallucce come a dire che non le importava granché,
ma io sapevo che non era vero, lo dimostrava la collezione
di 30 cum laude sul libretto.
Nonostante si sforzasse però, la calma durò troppo poco.
Appena le riconsegnai il libretto, infatti, si alzò di scatto.
Rabbiosa. Se ne accorse perfino il 18 che nel frattempo si
era appisolato sulla sedia.
<< Posso provare a parlare col professore.>> dissi << Non
è nuovo a questo tipo di eccezioni.>>
Fu un attimo << Vaffanculo, Alessandro!>>
Ma come? Conosceva il mio nome? Questa nuova
prospettiva mi stupì più di quanto avrei desiderato.
Scavalcai la cattedra con un balzo- sotto gli occhi del 18
ancora assonnato - e la afferrai per un braccio per
27
fermarne la corsa verso l’uscita. Sembravo pazzo perfino a
me stesso mentre provavo a riesaminare dall’esterno
quella mia reazione improvvisa e senza controllo.
<< Non mi toccare!>> strillò adirata.
In quel momento entrò Salvatore, l’addetto alle pulizie del
turno di pomeriggio. Mi guardò in cagnesco prima di
indicarmi con la mazza dello spazzolone <<Tutto bene qua
dentro?>>
Mollai la presa << Certo che sì.>> risposi con lo stesso
tono burbero che aveva usato lui.
Il 18 uscì dall’aula senza badare minimamente a noi. Non
lo odiai mai come in quel momento. Avrebbe anche potuto
dire la sua, no? Aveva visto com’era andata. Perché
scappare in quel modo? Farmi fare la parte del maniaco
rientrava nei suoi piani di vendetta per averlo costretto a
trattenersi più del dovuto?
Denise non rispose niente, si limitò a seguire il ragazzo,
ma non prima di affondare un’ultima volta il suo sguardo
gelido nel mio. Ed effettivamente, per quanto mi sforzi di
ricordare, credo proprio che quella fu l’ultima volta che mi
guardò. L’ultima prima di quella stramba mattina di metà
gennaio. Al contrario di me, che da quel giorno non le tolsi
più gli occhi di dosso. Ossessionato d’averla ferita in
modo irreparabile.
28
4
Alle scuse, quella mattina, avrei voluto aggiungere di stare
attenta, di non commettere i miei stessi errori, ma dentro
di me sapevo che non ne avrebbe avuto bisogno. Mi
sforzavo di crederlo almeno. Forse era solo una scusa
inconscia per trattenerla ancora un momento lì accanto a
me. Il senso di colpa per quanto le avevo fatto mi bruciava
dentro, vivo come il primo giorno. Quanto aveva influito il
mio crudele comportamento sul suo cambiamento? Ero
stato io a trasformarla nell’essere vuoto e frivolo che
vedevo allontanarsi da me un passo dopo l’altro, con
quell’andatura ondeggiante, incerta, innaturale… che non
le apparteneva. Ero stato io a gettarla in pasto al branco?
Non avrei mai potuto chiederglielo apertamente senza
risvegliare in lei quell’ira furibonda nei miei confronti che
l’aveva tenuta così distante in questi ultimi due anni. Però
ero curioso di sapere cosa le avesse fatto cambiare idea
proprio quel giorno. Cos’era successo?
Una sbirciatina?
Che ora fosse istintivamente attratta dalla mia vicinanza
era logico come un’addizione elementare. E questo
pensiero più che altro mi irritava, ma non come quando
vedevo Marco posare le sue zampacce su di lei – troppo
certo di ottenere il favore che cercava - era un’irritazione
più simile a quella che sentivo quando quel sorcio la
ignorava.
Man mano che i minuti scorrevano verso la fine della
seconda ora, cresceva in me l’irritazione per
quell’innocente saluto.
Che cosa l’aveva portata a quella decisione così drastica?
Volevo saperlo. Dovevo saperlo. Quel pensiero iniziò a
martellarmi la mente, già sovraccarica di preoccupazioni.
29
Mi sentivo un lupo in gabbia. Dovevo fare qualcosa o
assecondare le sue scelte? Ma soprattutto, potevo fare
qualcosa? Ne sarei stato in grado se avessi voluto?
Ero stato crudele con lei, lo ammetto, ma lei lo era stata
altrettanto, rifiutando le mie scuse per tutto quel tempo.
Imponendosi di credere che non esistessi, che fossi
invisibile.
E allora perché aveva improvvisamente deciso di vedermi?
Dovevo saperlo, o sarei impazzito.
Ringraziai Melluso per la sua poca pazienza di fronte al
tempo perso a far niente. Aveva terminato di leggere i
quotidiani che aveva lasciato da parte e i dieci minuti
successivi gli parvero tanto interminabili da decidere che il
tempo a disposizione per il test era a sufficienza.
Non potei trattenermi dal ridere di fronte alle facce
esterrefatte di chi sperava in un colpo di genio dell’ultimo
minuto.
Lei si voltò, disturbata dalla mia risata sfacciata. Ma era
davvero disturbata? Non avrebbe potuto essere
qualcos’altro invece? Quell’espressione fredda avrebbe
potuto
essere
il
riflesso
dell’insoddisfazione,
dell’afflizione per non aver terminato il test.
Certo che avrebbe potuto essere questa la causa, ma non ci
credevo abbastanza. Ero più sicuro che avesse terminato
già prima dell’inizio della prima ora. Lo doveva al branco,
dopotutto. Era lei che aveva la responsabilità di superare
gli scritti anche per gli altri.
Scappa, stupida snob che non sei altro! Continuavo a
pensare mentre incrociavo i suoi occhi ancora una volta.
Non ridevo più però. Sentivo chiaramente la mia mascella
irrigidirsi mentre nella mia testa lottavo tra disgusto e
disapprovazione.
30
Si alzò Simona per raccogliere i compiti. I suoi movimenti
erano molto più aggraziati di quelli di Denise, si vedeva a
distanza che non applicava nessuno sforzo in quello che
faceva. Era naturale. Naturale come la sua innata
superficialità. Tanto superficiale e vuota da sembrare
perfino attraente. Con quelle sue movenze armoniose
sarebbe riuscita a incantarmi di nuovo se avesse voluto, e
di nuovo mi sarei lasciato chiedere qualsiasi cosa, e privo
di ogni volontà l’avrei assecondata, sentendo che era
ingiusto non accontentare un esserino così grazioso.
Forse in questo sono perfino più superficiale di lei. O forse
sono solo un essere umano. Un uomo, più precisamente,
che freme dal desiderio di far emergere il cavaliere che è
in sé per salvare la fanciulla indifesa.
Credo che fosse questo che mi irritasse davvero di Denise.
Irritava e attraeva allo stesso tempo. Lei non sembrava mai
indifesa, ed io mi sentivo troppo stupidamente uomo per
reprimere il fanatico impulso di possedere qualcosa di
delicato e fragile da proteggere per appagare il mio
orgoglio maschile.
Per un breve momento si voltò di nuovo a guardarmi,
quasi riuscisse a sentire le mie parole come se le stessi
urlando e non soltanto pensando.
Non sembrava più irritata adesso, piuttosto… incuriosita.
Accennai un sorriso, pentendomene subito. Però avevo
bisogno di una prova. Dovevo essere certo che fossi
davvero io l’oggetto della sua attenzione. Forse era stato
solo un breve momento il suo. Che male ci sarebbe stato
ad ammetterlo? Si cambia idea per molto meno, dopotutto.
La risposta alle mie domande giunse quando la vidi
chiaramente rispondere al mio sorriso.
Sfacciata come al solito! pensai. A quanto pare mi ero
sbagliato ancora. Aveva proprio deciso di tornare a
vedermi. Non credo di essermi sentito più inquieto di
31
allora in passato. Sapevo di dover reagire in qualche
modo, ma l’unica reazione che continuava ad assecondare
i miei sensi era quella di fissarla. Ogni movimento, per
quanto impercettibile si imprimeva nella mia mente come
un’immagine sul rullo di negativo delle vecchie macchine
fotografiche.
Alzati e vattene! Continuavo a ripetermi mentre - come se
avessi altri occhi a disposizione - me ne stavo a guardare
la piccola folla di facce sconsolate abbandonare l’aula
dalla porta secondaria, quella che da direttamente
all’aperto, sull’atrio lastricato interno dell’istituto.
Con gli altri occhi invece, continuavo a guardare lei.
Immobile al suo posto. Il Branco l’aveva lasciata sola, ma
per poco. Erano appena le 11:00, troppo presto per riunirsi
al bar a pranzare. Forse, semplicemente, non aveva
particolare voglia della loro compagnia quel giorno.
Dall’alto della mia presuntuosa arroganza giurai che stesse
ancora rimuginando sul test.
L’aula rimase vuota in un lampo. Eravamo rimasti solo noi
due. Lei alla prima ed io all’ultima fila di banchi. Non
avrei potuto raffigurare meglio per immagini la nostra
evidente differenza. Una il perfetto opposto dell’altro. E,
come la fisica insegna…
Inevitabilmente mi sentii attratto dalla mia carica opposta
e, prima ancora che riuscissi a realizzare questo concetto
nella mia testa, ero già accanto a lei.
<< Disturbo?>> chiesi sperando fortemente in una risposta
affermativa.
E invece mi sorrise.
Piccola impudente! << Come mai qui tutta sola?>>
nonostante tutto sembrava non prestarmi attenzione. La
testa china su un blocco per appunti aperto nel centro.
32
<< Matematica!>> aggiunsi inclinando appena la testa per
osservare quale fosse il punto del programma che la
impensieriva.
Esattamente come con la chimica però, anche in questo
caso usava metodi tutti suoi per risolvere gli esercizi. Era
ancora impossessata dal caos dei suoi ragionamenti.
Non mi guardava, non parlava, eppure - non mi spiego
come - riusciva a prestarmi quel minimo di attenzione che
bastava a trattenermi lì.
<< Cosa c’è che non va?>> chiesi ancora, cercando di
sembrare disinvolto e il più possibile ambiguo.
Naturalmente rispose la cosa più ovvia per la domanda più
ovvia << C’è un passaggio che proprio non mi torna.>>
Non era sufficiente, ma per il momento avrei potuto
accontentarmi.
<< Permetti?>> chiesi, quasi esitante.
Spinse il blocco verso di me, che potei chinarmi un poco
per esaminare il problema. Scivolò leggermente verso di
me col busto. Voleva mostrarmi il passaggio che l’aveva
frenata dalla sua corsa per chissà quanti giorni. Nel farlo
quasi mi sfiorò, ma la schivai senza che se ne accorgesse.
Mi indicò il punto con la gomma un po’ consumata della
matita. Mi trovai di nuovo stupidamente in difficoltà.
Avevo bisogno di più tempo di quanto immaginassi per
decodificare il suo ragionamento contorto. Da lì a un
attimo se ne sarebbe accorta anche lei e avrei fatto una
pessima figura. Avrebbe preso la mia esitazione per
ignoranza e il mio ego ne sarebbe rimasto profondamente
ferito.
Non potevo vedermi, ma ero certo che in quel momento
sul mio viso ricomparve il ghigno infastidito di quando mi
trovai il suo compito di chimica fra le mani. Le sfilai
33
accanto, un po’ brusco, cercando di mantenere la calma,
per quanto possibile.
Se ne accorse? Se ne accorse, ma ormai era tardi per
rimediare. Sulla cattedra del professore c’erano i soliti
fogli spazzatura ammonticchiati in un angolo. Ne tirai uno
verso di me mentre mi mettevo a sedere. Arraffai
nervosamente la penna del blocco delle firme e le chiesi sperando di sembrare tranquillo e gentile - di dettarmi la
traccia dell’esercizio.
Credevo rimanesse al suo posto a violentarsi il cervello nel
tentativo di dimostrare che avrebbe potuto risolverlo anche
da sola, invece sentii il rumore della sedia spostarsi e i
suoi passi incerti avvicinarsi alla cattedra. Avvicinarsi a
me.
Fece strisciare un’altra sedia accanto alla mia e si mise in
ginocchio, in equilibrio sugli avambracci, attenta a
osservare la mia mano muoversi nervosa sul foglio di
fortuna.
Curvata com’era, riuscivo a sentire il suo respiro
profumato sul viso.
Allontanati! Allontanati! Continuava a dire la voce nella
mia testa. La stessa voce che un attimo prima mi aveva
sconsigliato di avvicinarmi.
Mi voltai appena per osservarla – mi era quasi impossibile
averla così vicina e non fissare i particolari, che fino ad
allora ero stato costretto a cogliere solo da lontano, ora che
ne avevo l’occasione. –
Quando la guardai era ancora concentrata sull’esercizio,
che prendeva piano piano significato sul foglio, ma si
accorse che c’era qualcosa di strano quando osservò la mia
mano fermarsi senza motivo.
Sollevò piano il mento a cercarmi, e mi trovò.
34
Riprenditi! Sembri un maniaco. Niente di più vero.
Scrollai istintivamente la testa nella speranza di cancellare
quell’espressione troppo curiosa sul mio viso.
Credevo che l’avrei vista ritrarsi, indispettita dal modo
morboso in cui l’avevo guardata, invece non si mosse. Era
sorpresa, questo sì, imbarazzata - forse sotto tutto quel
fondotinta era perfino arrossita -, ma affatto disturbata.
<< Perché ti sei fermato?>> chiese.
Perché mi ero fermato? Ah sì. Giusto!
<< Riflettevo su un passaggio.>> mentii.
<< Io non li svolgo così.>>
Certo che no! Perché mai avresti dovuto scegliere di
seguire il metodo più semplice, più intuitivo? Che gusto
c’era?
Non gliel’avrei data vinta neanche sta volta e il mio ego
perfido rideva di soddisfazione di fronte a quella certezza
<< Forse è per questo che non riesci a svolgerlo.>> dissi,
ma fu più un mormorio, come se dentro di me, avessi
saputo che dirlo ad alta voce era tanto sbagliato quanto
appagante.
Mi preparai a farmi investire da un’esplosione di rabbia,
ma non arrivò.
Mi fissò con occhietti curiosi invece.
<< Che c’è?>> chiesi. Mi aveva disorientato. Mi sentivo
come perso nel vicolo buio di una grande città in cui non
ero mai stato prima. Sensazione nuova. Ho troppo senso
dell’orientamento.
<< Sbaglio?>> sembrava sinceramente sorpresa.
E adesso? Come facevo a risponderle senza offenderla
almeno un pochino? << Non proprio.>> fu l’unica risposta
che riuscì a elaborare il mio cervello in una frazione di
secondo.
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Sono sempre stato talmente presuntuoso da dire quasi
sempre quello che mi passa per la testa, ma con lei era
diverso. Con lei avevo capito quanto potesse essere
meschina a volte la verità. Meglio mentire.
Le persone si sentono appagate dalle menzogne, quindi
che c’è di male nel poter concedere loro quello che
desiderano? Se solo non mi risultasse sempre così
faticoso…
Avrei mentito spudoratamente anche quel giorno.
Dopotutto mi ero ripromesso che non avrei più permesso
al mio ego crudele di farle del male. Era giusto così! Ma
allora perché mi sentivo in colpa?
<< Diciamo solo non è proprio come con la chimica. Lì
puoi mescolare dei passaggi aritmetici e riuscire
comunque a ottenere quello di cui hai bisogno. Con la
matematica sarebbe il caso di rispettare certe leggi
fondamentali.>> non riuscivo proprio ad essere meno
garbato di così.
<< È che non capisco il perché di certi passaggi?>>
rispose subito.
E chi te l’ha chiesto? << È importante?>>
<< Cosa?>>
<< Hai sempre la necessità di sapere il perché di ogni
cosa? Non ti puoi limitare come tutti a seguire solo le
regole senza chiederti continuamente il perché di tutto? >>
e il mostro parlò inorridendo la fanciulla!
Stupido, stupido, stupido e cattivo che non sei altro.
Non rispose. Non mi guardò. Teneva lo sguardo basso,
rossa di vergogna.
Chi ero io per giudicare? Perché mai avrei dovuto
interferire? Che male c’era se era quello il suo approccio
alla vita? Perché devo sempre dedurre che sia
36
semplicemente sbagliato tutto ciò che non rientra nel
campo visivo della mia prospettiva d’insieme?
E adesso che faccio? << ehm…>> che le dico? Non
sarebbe meglio che me ne stessi zitto invece, prima di
peggiorare la situazione? << Denise?>> mi inorridiva
pronunciare il suo nome ad alta voce. Non volevo che mi
sentisse, che le risultasse disgustoso pronunciato da me <<
Ehi!>> ma ce la fai o no a dire qualcosa di sensato? <<
Mi dispiace!>> ecco, originale come sempre.
Complimenti. Mi sentivo davvero un mostro.
<< No!>> rispose lei, e mi sembrò di congelare << Hai
ragione!>> aggiunse poi. Disarmata. Vulnerabile.
Vulnerabile? Denise?
No! Mi rifiutavo di crederci. Non lei, non la Denise che
conoscevo io.
Senza dire altro la sentii muoversi. Tornò al suo banco
senza mai alzare lo sguardo su di me. Io naturalmente non
le toglievo gli occhi di dosso.
La vidi radunare le sue cose distrattamente - come se
stesse ancora pensando a quello che le avevo detto - poi
uscì dall’entrata principale per raggiungere l’aula di
matematica per la prossima lezione.
Avrei volentieri passato un paio d’ore a flagellarmi se la
mia attenzione non fosse stata attirata dall’orologio alla
parete. 11:38.
11:38?
Come al solito ero in ritardo per il lavoro.
37
5
Quanto si può tenere una maschera sul viso prima che inizi
a prudere tanto da immobilizzarti la mente sull’unico,
convulso desiderio di strappartela via?
Ventuno anni, più o meno.
La mia maschera è molto sofisticata. Ha l’aspetto di un
ragazzo per bene, colto, altolocato, tanto affascinante da
suscitare il tipico chiacchiericcio delle signore quando la
indosso per presenziare a uno dei tanti noiosissimi
ricevimenti di qualche magnate dell’alta società. È l’unica
maschera che mi è permesso indossare in pubblico,
soprattutto se in presenza di mio padre. Mi sono nascosto
dietro quel viso perfetto per oltre vent’anni e rimpiango
ognuno di quei giorni per la mia identità occultata per
onore di madama Apparenza.
Mio padre!
Non ho mai parlato molto con lui. Il lavoro assorbiva quasi
ogni secondo del suo tempo, quando ero a casa. Gli
concedeva qualche istante giusto per non fargli perdere la
mano con le solite paternali.
Se qualcuno mi chiedesse, ancora oggi, “Pensi che tuo
padre ti voglia bene?” mi verrebbe troppo spontaneo
rispondere con un secco “No!”
Non ci siamo mai andati a genio, questa è la verità. Troppo
diversi. Troppo diverso io dall’idea di figlio che lui si è
costruito negli ultimi vent’anni.
Spesso mi chiedo se mio fratello Stefano l’abbia concepito
per riprovare un esperimento fallito piuttosto che per il
desiderio di avere un altro figlio.
Non è mai stato molto presente fisicamente nelle nostre
vite, quindi mi sembra strano provare a guardarlo da una
38
nuova angolazione e ammettere che forse, dopotutto,
Stefano sia nato come entità a sé stante e non come
sostituzione di un pezzo difettoso del puzzle della sua
esistenza impeccabile.
Stefano è tutto ciò che lui ha sempre voluto che fossi io.
Estremamente elegante, educato, rispettoso, prevedibile.
Nauseante aggiungerei se non fosse mio fratello, se non
fosse che è l’unica persona al mondo per cui senta un
sincero affetto senza riserve.
I primi anni sperimentati con me sono serviti a mio padre
come rodaggio per la sua nuova macchina. Sapeva
perfettamente dove aveva sbagliato ed è stato ben attento a
non commettere una seconda volta gli stessi errori. Abolito
ogni respiro quindi. Ogni traccia di libertà. Nulla sarebbe
andato storto sta volta.
Anche Stefano ha vissuto il proprio periodo nero
dell’adolescenza, questo è certo, ma è passato troppo in
fretta per lasciare tracce significative nei nervi labili di
nostro padre.
La vita di Stefano e, di riflesso, la mia, è sempre stata
basata su due condizioni fondamentali.
Punto primo: la reputazione di Stefano non può essere
macchiata dalla mia condotta. Di conseguenza, per quanto
non potesse interessargli nulla di me, la sua stessa
condizione gli imponeva di garantirmi tutto il necessario
per costruire attorno alla mia persona la reputazione degna
di un principe ereditario. Da qui, la maschera.
Per quanto assurdo, io che sono il figlio che non esiste, fui
costretto a frequentare un collegio privato troppo vicino a
casa per impedirmi di farvi ritorno in ogni occasione
concessa, mentre Stefano si godeva dieci mesi l’anno, un
prestigioso collegio londinese. Il perché di quella scelta è
limpidamente spiegato nella seconda condizione.
Punto secondo: nessuna cattiva influenza su Stefano.
39
Ha cercato di tenerci lontani l’uno dall’altro, o meglio, ha
cercato di tenere Stefano lontano da me, il più possibile.
Mio padre disapprovava praticamente tutto ciò che facessi.
Persino i miei pensieri, le mie idee sembravano
infastidirlo. Era come un riflesso incondizionato. Oggi
sono arrivato a credere che sotto sotto non ci facesse
neanche più caso.
Se volevo suonare la chitarra, mi iscriveva a conservatorio
per studiare pianoforte. Se volevo frequentare la scuola
d’arte mi iscriveva a equitazione. Se volevo la moto mi
comprava la macchina.
Giorgio, sei sicuro che in fondo anche questo sia un modo
per farmi capire che pensa a me?
Effettivamente deve impegnargli molto tempo trovare
sempre il modo giusto per rovinarmi la vita.
Intanto però, mentre Stefano proseguiva il suo esilio
forzato per spianarsi la strada che l’avrebbe reso il grande
uomo che mio padre vede ereditare le chiavi del suo regno
perfetto, io smettevo di nascosto la mia maschera e
sperimentavo le prime droghe, le prime ubriacate con gli
amici, il primo tatuaggio, la prima infezione da piercing, i
primi rapporti occasionali.
Avrei provato di tutto pur di mandare mio padre fuori di
testa.
40
6
Mi infilai tra la folla degli studenti che si spostavano da
un’aula all’altra per la lezione successiva. Avevo un
ritardo spaventoso. Mi muovevo svelto cercando di non
badare troppo alla delicatezza con cui spintonavo qualcuno
che mi ostruiva il passaggio. Assurdo! Dovevo ancora
passare a casa a prendere la macchina. Sentivo già il fiato
di Massimo sul collo, i suoi occhi ardenti sulla pelle. Ero
talmente concentrato a sgattaiolare via da vedere tutto
offuscato attorno a me, un arcobaleno di macchie più o
meno brillanti, non avrei riconosciuto neanche mio padre
se mi fosse passato accanto. Una di quelle macchie però,
riuscì ad attirare la mia attenzione, era diversa dalle altre.
Familiare. Mi fermai un istante per osservarla meglio. La
seguii fino al viale dei parcheggi, un po’ in disparte.
Alex sei in ritardo!
Lo trovai appoggiato, mani incrociate al petto, allo
sportello anteriore della mia macchina.
Ma come…?
<< Non credevo avessi le chiavi!>> esclamai
avvicinandomi.
<< Massimo temeva che ti dimenticassi.>>
<< E ha mandato te a controllarmi?>>
Ivan si spostò dallo sportello portando le mani nelle tasche
dei pantaloni << Più o meno!>>
Detestavo il fatto che Massimo non si fidasse ancora di
me, ma più di tutto odiavo che usasse Ivan per mettermi in
carreggiata.
<< Me la so cavare da solo!>> brontolai rabbioso.
<< Messaggio ricevuto!>> ghignò. Si mosse per uscire dal
parcheggio.
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<< Tu non vieni con me?>> chiesi insospettito.
Scosse la testa divertito << Mi faccio un altro giro, magari
ci si vede più tardi in Agenzia.>>
<< Non sei qui per me, vero?>> gli urlai dietro, più di
quanto ce ne fosse stato bisogno.
Ivan si voltò col suo solito ghigno sulle labbra << Il
mondo non gira solo intorno a te, Alessandro.>>
<< Chi è?>> chiesi senza raccogliere la provocazione.
<< Lo saprai quando sarà il momento.>> rispose
riprendendo ad allontanarsi.
<< Dimmi solo se è qualcuno che conosco!>>
Non si voltò neanche per rispondere << Chiedilo a Max!
Io non posso dirti niente.>>
Quasi volai per arrivare in tempo a casa dell’Ingegnere.
Mi stava aspettando inquieto, per fortuna c’era un suo caro
amico a fargli compagnia e non innervosirlo per il ritardo.
Ero dovuto passare a prendere prima il signor Modilano.
<< Mi dispiace averla fatta aspettare tanto, signore, ma ho
avuto un piccolo contrattempo.>> dissi sfoderando il mio
perfetto sorriso da agente immobiliare.
Aspettai un minuto che dicesse qualcosa a sua moglie,
intanto tenevo lo sportello della macchina aperto per far
salire il suo amico sul sedile posteriore.
<< Ho visto Ivan all’università.>> esclamai per frenare sul
nascere i rimbrotti di Massimo per l’ennesimo ritardo.
<< Sì, ce l’ho mandato io.>> rispose brusco.
<< E allora?>>
<< Cosa?>>
42
<< Di chi si tratta? Chi ha preso appuntamento con
l’Agenzia?>>
Si portò la sigaretta alle labbra, noncurante delle mie
domande << È un cliente di Paolo, non vedo come possa
interessarti.>>
<< Sono solo curioso!>>
Non mi rispose.
<< Tu sai quanto ci tengo, Massimo!>> dissi con tono
accusatorio.
<< Non ricominciare Alessandro. Abbiamo già fatto
questo discorso un milione di volte. Non le faccio io le
regole.>>
Tranquillo! Respira. << No, è vero, ma prendi tu le
decisioni.>>
<< E credi che una possa essere migliore di un’altra? E
poi, in questo caso non dipende da me.>>
Sapevo che aveva ragione, non potevo dargli torto, ma non
potevo neanche continuare a guardarlo, quindi mi voltai a
fissare il panorama dalla finestra del suo ufficio.
<< Dovresti iniziare a prendere questo lavoro un po’ più
seriamente. Questo stupido senso di competizione, che ti
prende tutte le volte, sta facendo saltare i nervi a tutti. Non
costringermi a cambiarti zona d’azione. Sempre che non
sia questo che vuoi, lo sai che in quel caso non avrei
obiezioni.>>
Sbuffai << No! Mi sta bene il quartiere che ho.>>
<< E allora smettila di rendere la vita difficile a tutti. Non
mettermi nella condizione di dovermi schierare dalla parte
di qualcuno. Non mi piace l’atmosfera di tensione tra
colleghi.>>
Chinai il capo a guardare il pavimento. Non avrei ottenuto
altro da lui << D’accordo!>>.
43
Intravidi Paolo con la coda dell’occhio, mentre uscivo
dall’agenzia. Parlottava fitto fitto con un cliente. Si voltò
appena si accorse d’essere osservato. Con un cenno
leggero del capo mi invitò a raggiungerli.
<< Che c’è che non va?>> mi chiese senza tirarla troppo
per le lunghe. Il suo sorriso incoraggiante mi ridiede un
po’ di speranza.
<< So che ti è stato affidato un cliente che frequenta la mia
università.>> risposi secco, sempre un po’ troppo ostile.
<< Sì!>>
<< Chi è?>>
Si rabbuiò << Non posso dirtelo.>>
<< Perché?>>
<< Max!>> indicò con lo sguardo la porta chiusa
dell’ufficio del capo.
A quanto pare le mie intuizioni erano giuste. Voleva
tenermelo nascosto di proposito. Ma a che scopo?
Frequentando le lezioni era impossibile che non me ne
accorgessi da solo << Quando avete appuntamento?>>
<< Non lo so, cambia idea in continuazione.>>
Sospirai pensieroso << Hai provato a parlarci?>>
<< È una decisione sua, non mi va di fare troppa
pressione. Rischierei di ottenere l’effetto opposto.>>
Vero anche questo. Era già successo in passato di voler
convincere un cliente al punto da rafforzare le sue
convinzioni.
<< Ti spiace se provo a fare un tentativo?>> chiesi, con
tono troppo retorico per indurlo a rifiutare la mia richiesta.
<< È una tua conoscenza?>>
44
<< Diciamo di sì.>>
Annuì << Io non so niente però.>> e indicò di nuovo
l’ufficio.
<< Non ti preoccupare. Questa conversazione non è mai
avvenuta.>>
Annuì di nuovo, più convinto di prima.
<< Mi devi un favore!>> mi urlò dietro mentre mi
affrettavo verso l’uscita.
45
7
Così come per Stefano anche per me fin da piccolissimo si
scelse una carriera scolastica accademica. Ero destinato
all’Ancharos – così si chiama, in onore del capostipite
della famiglia che lo ha istituito – in quanto primogenito
maschio, in quanto nipote di mio nonno più che in quanto
figlio di mio padre, che non l’aveva frequentato. Non avrei
potuto scegliere diversamente neanche se avessi voluto.
Ricordo bene il primo giorno che misi piede all’Ancharos.
Avevo sei anni. Avevo assistito al primo giorno di scuola
di tutti i miei amichetti che, zainetto in spalla si lasciavano
accompagnare semplicemente alla scuola più vicina. Non
che a quel tempo frequentassi altri bambini all’infuori
delle mie cugine e dei figli dei domestici. Volevo andare
anch’io con loro. Poter tornare a casa fra le braccia di mia
madre per l’ora di pranzo, ma a me non era concesso.
Stefano aveva appena iniziato a farfugliare frasi
comprensibili di senso compiuto. Eppure quella mattina
sembrava rendersi conto che stava per cambiare qualcosa
nella sua quotidianità.
Era un lunedì di settembre e il cielo mandava giù pioggia
da far invidia a una tempesta tropicale.
Fu mio nonno ad accompagnarmi <<Tuo padre è occupato
in Clinica>> mi disse <<e tua madre deve stare con
Stefano, che sta mattina ha un po’ di febbre.>>
Questa era la trasposizione letterale della considerazione
che la mia famiglia aveva di me.
Varcammo il grande cancello in ferro battuto nero intorno
alle 7:00. Procedemmo molto lentamente lungo il viale
alberato per raggiungere il portone d’ingresso.
46
Dall’aspetto aveva tutta l’aria d’essere un bel posto.
Guardai mio nonno con attenzione prima di scendere dalla
macchina con un saltello.
<< Tornerò a prenderti venerdì.>> mi disse accennando un
sorriso per incoraggiarmi << Sono solo cinque giorni.
Passano presto.>> e mi mise in mano un’agendina dalla
rilegatura raffinata << Segna qui i giorni che mancano. Ti
accorgerai presto che non sono così tanti.>>
Dovevo avere l’aria stravolta e affatto convinta, perché
non mi aveva mai parlato a quel modo. Ero abituato a
sentirlo tuonare rimproveri non a elargire carezze gratuite.
Quell’improvvisa gentilezza più che rassicurarmi mi
inquietò.
Vidi degli uomini scendere le mie cose dal bagagliaio.
Solo più tardi mi sarei accorto che le avevano portate in
quella che da quel giorno sarebbe stata la mia stanza per
quasi tredici anni.
Una donna poi si avvicinò a mio nonno per stringergli la
mano. Parlarono di qualcosa, dopodiché mi accorsi dalle
loro facce che era giunto il momento dei saluti. Credevo
mi accompagnasse dentro e invece non ebbi che qualche
breve momento per salutare il nonno prima che se ne
andasse.
La donna mi prese per mano e mi accompagnò all’interno,
in un lussuoso androne <<Aspetta qui, d’accordo?>> disse
sollevandomi appena per mettermi a sedere su una
panchina di legno dall’imbottitura in pelle.
Rimasi nell’atrio interno dell’edificio ad aspettare che
qualcuno venisse a chiamarmi per quasi tutta la mattina.
Ebbi, nel frattempo, modo di dare una prima occhiata a
quella che sarebbe stata la mia nuova casa per i prossimi
anni. Vedevo solo ragazzi salire e scendere la grande
scalinata di marmo al centro dell’androne, in silenzio, libri
47
in bella mostra. Erano tutti rigorosamente in divisa, di
colore diverso, per ogni sezione di corso.
Sabbia era il colore delle divise dei più grandi. Mi
sembravano estremamente eleganti, rivestiti di quegli abiti
d’alta sartoria. Mi strinsi le ginocchia al petto, intimorito
dalle espressioni dure sui loro volti.
Il colore dei ragazzi di metà corso era il verde scuro:
pantalone grigio fumo e maglione verde. Camicie, tutte
rigorosamente bianche.
Mentre per i più piccoli, tipo me, il maglione era
bordeaux.
L’unico particolare comune in tutti gli allievi era lo
stemma del collegio cucito su giacche, maglioni gilet e
camicie, proprio sulla parte alta sinistra del petto.
Un’immagine che non dimenticherò mai, anche perché mi
fu tatuata sul dorso della mano destra una settimana dopo
il mio ingresso all’Ancharos.
Avevo deciso di toglierlo una volta uscito dal collegio, ma
poi sono successe tante di quelle cose che quel tatuaggio è
diventato l’ultimo dei miei pensieri.
Intorno alle 11.30 arrivò un uomo distinto con in mano un
paio di opuscoli. << Alessandro?>> mi chiese.
<< Sì signore.>>
<< Seguimi!>>
Attraversai con lui un lungo corridoio. Col tempo ho
imparato a guardare il collegio con occhi diversi, ma quel
giorno mi sembrò tutto molto più maestoso di quanto non
fosse realmente.
Ci fermammo dinanzi ad una porta, con lo stemma in bella
vista intagliato direttamente nel legno.
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<< Questo è l’ufficio del Rettore Lombardi.>> spiegò <<
Attendi un momento qui fuori e tieniti pronto ad entrare
non appena ti si chiama. È tutto chiaro?>>
Io annuii senza badarci troppo e mi sedetti lì accanto su
una panchina identica a quella nell’ingresso.
Il silenzio non mi è mai piaciuto granché. Mi rende
nervoso. A quei tempi invece mi spaventava. Più i minuti
scorrevano e più in me accresceva l’ansia e la paura per
quell’incontro. Ma non volevo mettermi a frignare come
uno stupido, cercai quindi un modo per distrarmi da quel
pensiero e lo feci iniziando a guardarmi intorno.
Le pareti erano affrescate di immagini mitologiche. Poco
rassicuranti per un bimbo di sei anni impaurito e
disorientato.
L’attesa a un certo punto divenne snervante, tentai perfino
di sentire cosa si stessero dicendo di tanto importante, ma
parlavano un linguaggio che allora ancora non conoscevo.
Era un parlare fitto fitto il loro, come di due che hanno
molto da dirsi.
Aspettai ancora qualche minuto, poi fu finalmente il mio
turno. << Signor Renzi!>> è così che mi hanno sempre
chiamato lì dentro da quel momento in avanti.
Bussai quindi, ed entrai quando mi fu chiesto di entrare.
Del discorso del Rettore Lombardi ricordo solo un sacco
di bla bla bla bla. Un particolare rimasto indelebile come il
primo giorno invece, è che mi diede un grosso libro dalla
copertina rigida in pelle marrone con lo stemma marchiato
a fuoco al centro. Era il Libro degli Ancharos, una sorta di
manuale con incise tutte le ferree regole dell’istituto, o
della Setta, perché era questo che si nascondeva dietro
quella facciata elegante.
Lo conservo ancora. Non come ricordo, ma come monito
per il futuro.
49
Terminato il colloquio, il segretario mi diede uno dei tre
opuscoli – se si può chiamare opuscolo un libro di
duecento pagine - che aveva tra le mani e si decise a farmi
strada per mostrarmi la mia camera
All’inizio quando mi accorsi che avrei diviso la stanza con
qualcuno fui contento, ma quando vidi il mio compagno di
stanza mi scivolò via di dosso tutto l’entusiasmo.
Signor Marrui si chiamava, il suo nome non l’ho mai
saputo. Era un ragazzetto di dieci anni, tutto eccitato
perché l’anno dopo sarebbe entrato a far parte del gruppo
di allievi di metà corso. Mi guardò dall’alto in basso non
appena mi vide e continuò a farlo fino al suo ultimo giorno
di permanenza all’Ancharos.
Purtroppo mi resi conto fin troppo presto che la vita lì
sarebbe mutata in un inferno.
Per tutto il resto della giornata mi lasciarono libero di
disfare i bagagli e ambientarmi a quella nuova situazione.
Ricordo che il Signor Marrui non mi rivolse la parola per
tutto il giorno e anche per quello successivo, e in seguito,
quando lo fece, usò la voce solo per offendere.
Sistemata la mia roba mi coricai sul letto e sfogliai curioso
l’opuscolo che mi era stato dato. Mi stupii nel notare che
vi erano semplicemente annotate una serie di norme di
buona condotta e gli orari con le aule dei corsi che
dall’indomani avrei frequentato con i miei nuovi
compagni.
Sveglia alle 6:00.
Colazione alle 7:00.
Si lascia la stanza solo se in perfetto ordine.
Orario lezioni mattutine: 8:00-12:00
Pranzo 12:30
Ritiro in stanza 13:30 –15:00
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Orario lezioni pomeridiane 15:30-18:00
Tempo libero 18:00-19:00
Cena 19:00
Palestra (solo per allievi del secondo e terzo corso) 20:0022:00
Ritiro in dormitorio 22:30 (21:00 per allievi del primo
corso)
Le luci si spengono alle 23.00. (22:00 per allievi del primo
corso)
Ogni Venerdì riunione nell’atrio esterno dell’istituto dalle
21:00 alle 23.00 per assemblee di ordine generale gestite
dai cinque rappresentanti del corpo studentesco (riservato
esclusivamente agli allievi del terzo corso).
Un solo giorno al mese è concesso saltare l’intero ciclo
delle lezioni per dedicarsi ad altro. Senza ripercussioni.
Una specie di assenza giustificata.
Non è possibile per nessun motivo correre all’interno
dell’edificio se non in palestra o durante le esercitazioni
in campo aperto.
Non è permesso chiamare un proprio compagno o un
superiore senza l’appellativo “Signore”.
Non è tollerato per nessun motivo alcun tipo di rissa tra
allievi.
Non è permesso mangiare oltre l’orario stabilito.
Non è permesso proferire parola in presenza di un
superiore a meno che non sia stato egli stesso a chiederti
di farlo.
Non è permesso piangere, ridere smodatamente o
lamentarsi.
In altre parole non era permesso vivere.
(Solo per gli allievi del secondo e del terzo corso) Sono
concesse 8 settimane di licenza l’anno, ripartite in modo
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da tornare a casa almeno una settimana ogni due mesi.
L’ultima settimana di novembre, febbraio aprile e giugno.
Le ultime due settimane di agosto e settembre.
All’infuori di quei giorni non c’era peste che tenesse, non
era permesso lasciare l’istituto.
Tra gli allievi vi era una sorta di elementare gerarchia in
base all’anno di corso. Ti era superiore chiunque fosse
almeno un anno più avanti di te.
Essendo io uno dei più piccoli, parlavo poco e sgobbavo
troppo per ubbidire ai fastidiosi capricci dei ragazzi più
grandi. Mi consolava però, l’idea di non essere l’unico di
quell’età a essere trattato così, era una ruota che girava per
tutti allo stesso modo. L’anno dopo, infatti, anch’io ho
avuto il mio novello schiavetto.
Ogni violazione delle regole aveva la sua specifica
punizione, in base alla gravità del caso, dalle umiliazioni
più degradanti alle pene corporali. Ce ne erano di tutti i
gusti ed io come ogni studente che si rispetti, nei tredici
anni passati lì, le ho provate davvero tutte.
La punizione più esemplare la subii a quindici anni,
quando una sera di marzo, per non ricordo più neanche
quale motivo, tentai di fuggire da quell’orrore.
Naturalmente non riuscii a evadere, le guardie armate
addette alla sicurezza mi ripresero ancora prima che
riuscissi ad avvicinarmi anche solo di qualche centinaio di
metri al cancello. Per punirmi per quello che avevo tentato
di fare, e forse anche per dare un esempio concreto agli
altri ragazzi e inibirli anche solo nel pensare di provare la
mia medesima impresa, mi legarono a un palo, in cortile e
mi diedero tante di quelle cinghiate che, ancora adesso, se
ci penso mi vengono i brividi.
52
Riportai escoriazioni di secondo grado su tutto il corpo che
mi costrinsero a rimanere in infermeria per oltre tre mesi.
Saltai quindi le due settimane di licenza di aprile e giugno.
Non avevo il permesso di dire a nessuno cosa fosse
accaduto davvero, quindi mi toccò inventarmi una scusa
qualunque per giustificare la mia assenza da casa quel
periodo. Mio nonno probabilmente immaginò che c’era di
mezzo qualche magagna, sapeva cosa succedeva lì dentro
e non riesco ancora a perdonargli il fatto di avermici
mandato con la consapevolezza di quello che sarebbe
successo.
Nulla di quello che accade all’interno delle mura
dell’Ancharos deve essere rivelato all’esterno.
La pena per questa trasgressione non l’ho mai saputa,
probabilmente ne è venuto al corrente solo il diretto
interessato. Se ce n’è mai stato uno tanto coraggioso da
affrontare il sistema. Io non lo sono stato.
Brevemente ho riassunto oltre quattrocento regole
stampate sull’opuscolo di presentazione del collegio.
Quattrocento regole che, in fin dei conti, se seguite alla
lettera riescono a salvarti la vita.
Non sono mai stato visto di buon occhio in collegio. Ero
definito il classico figlio di papà, un raccomandato.
Sicuramente ero il più facoltoso dell’istituto e questo non
era tollerato dai miei compagni. Gli insegnanti poi, non
avevano alcun potere, il loro unico compito era insegnare
e fingersi estranei a tutto il marciume in cui galleggiava il
buon nome della scuola.
Il primo compito di responsabilità assegnatomi
all’Ancharos fu di accogliere i nuovi arrivati e farli rigare
dritto finché non si fossero ambientati a dovere. Ero una
sorta di supervisore anziano. Avevo 16 anni e, a parte
l’episodio della fuga, a quell’età ero riuscito a
guadagnarmi quel briciolo di fiducia nei superiori
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sufficiente a garantirmi di vivere almeno con un minimo di
dignità i miei pochi giorni riamasti lì dentro.
Anch’io ho avuto un supervisore a mio tempo. Il Signor
Wellingthon. Era un ragazzo irlandese di quindici anni. È
stato fortunato con me, non gli ho mai dato problemi, e di
conseguenza lui non ne ha dati a me.
Mio nonno, mio padre, sono sempre stati uomini molto
autoritari ed io ho dovuto imparare fin da piccolissimo a
obbedire agli ordini senza replicare e questo mi ha aiutato
tanto in quegli anni difficili.
Ero un ribelle senza speranze, questo lo devo ammettere a
me stesso prima che agli altri, ma in fin dei conti non ero
cattivo. Avevo solo un’innaturale capacità di mettermi nei
guai. Allora come oggi, non ho mai saputo dire di no a una
sfida, quale che fosse la conseguenza della sconfitta, mi
buttavo a capofitto in quell’impresa ogni volta come se
fosse l’ultima. Ne ho prese tante da bambino. Soprattutto
da mio padre che, esasperato dai miei continui tentativi di
farmi ammazzare da qualcosa o qualcuno, cercava di
mettermi giudizio con un ceffone o due, ben assestati.
Quando ero su di giri era l’unica cosa che mi tenesse a
freno. Se ero particolarmente nervoso, a volte cercavo
perfino lo scontro di proposito. Non aveva importanza con
chi, andavo a caccia di risse per sfogare la rabbia che
accumulavo in collegio ogni giorno. Lo dimostra il fatto
che non c’era una volta che non rientrassi all’Ancharos
senza un nuovo trofeo di guerra: un livido, qualche punto,
escoriazioni di ogni tipo. Forse è in quel periodo che mi è
venuta la passione per la medicina, ma non saprei dirlo
con certezza.
I ragazzetti affidati alla mia supervisione erano alquanto
vivaci e spesso sono stato punito a causa loro. Una in
particolare di quelle pesti si impegnava più di tutte a
mettermi nei guai, il Signor Nosph, un ragazzino austriaco
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di soli undici anni, così tremendo che in un solo anno
riuscì a demolire tutto l’Impero di stima che mi ero
costruito intorno. Adorava farmi uscire dai gangheri,
godeva nel vedermi perdere il controllo, era un vero genio
nel creare scompiglio e far ricadere la colpa su di me. Per
dodici interminabili mesi non passò un giorno che non
finissi in punizione a causa sua. Per mia fortuna, il periodo
di supervisione durava solo un anno.
Non era il massimo della correttezza il regime disciplinare
dell’Ancharos, ma il percorso scolastico non aveva eguali.
Ho imparato a fare di tutto nei tredici anni trascorsi tra
quelle mura, anche se sembrava più un’accademia militare
che un collegio. Si studiava di tutto però: dallo spionaggio
alla lotta armata e non, dalla medicina alla filosofia, dal
latino ai geroglifici egizi. Ho perfino imparato a dialogare
correntemente in Inglese, Francese, Tedesco e Spagnolo,
oltre il Peres che ci venne insegnato come seconda lingua
madre. Un linguaggio segreto ideato più di seicento anni
fa dallo stesso capostipite della setta. I giovani del terzo
corso, infatti, potevano comunicare solo in Peres. Era una
strategia che preparava all’iniziazione dell’ultimo anno.
Come ho già accennato in precedenza, l’Ancharos è una
Setta, una potente Setta istituita per preparare un’elite di
predestinati a proseguire il delicato incarico che da
generazioni portavano avanti con scrupolo e assoluta
segretezza.
In tredici anni d’istituto ho avuto un solo amico, l’unico di
cui conoscessi il nome, l’unico che si sia degnato di
rivolgermi la parola come se fossi un ragazzo normale e
non una piaga da evitare a tutti i costi.
Trascorremmo insieme tutto l’ultimo anno, stando
ovviamente accorti a non far trapelare in pubblico la nostra
segreta complicità.
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Si chiamava Mark, giunto in Italia direttamente
dall’Oregon, dove non tornava ormai da più di un anno.
Aveva diciassette anni come me. Un bel ragazzo, alto,
fisico asciutto e due occhi penetranti, molto espressivi.
L’unico vero amico che in ventitre anni abbia avuto mai.
Lo notai in palestra, durante un’esercitazione di lotta. Lui
non era molto abile in quella disciplina. La violenza non
era proprio nella sua indole. Il suo avversario lo stava
pestando a sangue. Gli aveva già rotto il naso con un
calcio in pieno volto quando entrai in palestra con il mio
gruppo per la lezione. Perdeva sangue a fiumi. Credo non
ci vedesse neanche più dal dolore e a fatica riusciva a
tenersi in piedi.
L’istruttore lo guardava fisso, lo vedeva barcollare sfinito,
ma non si decideva a interrompere l’incontro, al contrario,
si compiaceva nel vedere l’altro ragazzo che si avventava
come un cane rabbioso su un corpo ormai stremato.
Quando Mark cadde a terra privo di sensi sotto l’ennesimo
colpo di Siloni, non riuscii a trattenere la rabbia e mi
scagliai su di lui. Avevamo un piccolo conto in sospeso
noi due. L’ultima volta che ci eravamo trovati uno contro
l’altro su quel tappeto, mi aveva battuto fratturandomi il
metacarpo della destra con una pedata.
All’istruttore parve piacere questo improvviso cambio di
programma e non mi fermò, ed io non mi fermai finché
non vidi quel bastardo andare a tappeto senza avere più la
forza di rialzarsi da solo.
Mi sentii meglio, mi sentii appagato per quello che avevo
fatto, ma allo stesso tempo mi sentii strano, perché ogni
giorno che passava percepivo un’incontrollabile rabbia
crescermi dentro. Ultimamente, infatti, perdevo il
controllo troppo facilmente. Stava cambiando qualcosa in
me e questo non mi piaceva.
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Fu in quell’occasione che il Rettore mi convocò nel suo
ufficio per comunicarmi personalmente che ero pronto,
che da lì a un anno avrei potuto affrontare l’iniziazione e
guadagnarmi il mio tanto sudato congedo. Sapevano che
non vedevo l’ora di andarmene, sapevano che avrei fatto
qualunque cosa pur di lasciare quel posto orrendo.
Ho conservato solo dei confusi ricordi degli anni trascorsi
all’Ancharos, il mio inconscio e due anni di psicoterapia
devono aver rimosso gli incubi di quel periodo. Però i sei
mesi che precedettero l’iniziazione non sono riuscito a
dimenticarli, quelli sono ancora vivi nella mia mente.
Dolorosi come il primo giorno.
Lo scopo della preparazione era inibire totalmente le mie
facoltà mentali. Dovevo giungere alla rinascita, mi dissero,
avrei dovuto risvegliare il mio vero Essere e soccombere
l’anima di Comune che aveva prevalso per diciotto anni
sulla mia mente.
La loro prima azione fu di buttarmi fuori dalla mia stanza.
La seconda fu condurmi in un sotterraneo buio e umido.
Mi fecero entrare in una delle celle disponibili, chiusero la
porta a chiave e andarono via.
Non mi dissero cosa sarebbe successo da quel momento in
avanti, non mi accennarono nulla, potevo solo sentire di
tanto in tanto dei lamenti strazianti provenire dalle stanze
vicine e dar libero sfogo all’immaginazione.
Ben presto divenni anch’io uno di quei lamenti.
Torture, digiuni, abusi, pestaggi ingiustificati sarebbero
serviti a renderci più forti secondo un loro macabro e tetro
pensiero.
Più cattivo! Pensavo io.
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