ISTITUTO COMPRENSIVO B. BARBARANI MINERBE SCUOLA PRIMARIA DI BEVILACQUA DA QUI E’ PASSATA LA STORIA DA QUI È PASSATA LA STORIA INDICE Scuola Primaria Giuseppe La Masa – Bevilacqua Concorso “Cronaca dai nostri inviati nel Risorgimento – Personaggi, eventi, battaglie dall’arrivo di Garibaldi nel Basso veronese” Prima Parte Cosa direbbero gli studenti della scuola primaria di Bevilacqua se avessero età e capacità adeguate…vale a dire se…fossero più grandi…. Seconda parte Come lo hanno detto e rappresentato in relazione al loro attuale essere e sentire…. Terza parte Intervista all’attuale castellana, signora Miresi Cerato Iseppi DA QUI È PASSATA LA STORIA Prima parte Come lo direbbero….. Siamo alunne ed alunni della scuola primaria Bevilacqua-La Masa. Il suo nome di per sé dice già tutto: serve a ricordare alle generazioni di studenti che la frequentano e che la frequenteranno, che da questo paese, dal paese di Bevilacqua, proprio per merito della famiglia Bevilacqua è passata la storia, la storia italiana ed in particolare la storia del risorgimento negli anni dal 1848 fino all’unità. Nel loro castello, che fa ancora bella mostra di sé vicino alla nostra scuola, si rifugiavano i patrioti cacciati dalle città e perfino dalla vicina Legnago, che visse un ’48 di giorni liberi. Da qui è passata la storia, quella triste e violenta della punizione dei soldati austriaci mandati nel nostro paese a punire l’intera famiglia Bevilacqua per avere aiutato gli insorti e dissuaderli a dare l’appoggio alla causa italiana. E qui la storia è tornata a passare con la bellissima e, a tratti, anche dolorosa vicenda tra la bella duchessa Felicita e l’impetuoso giovane siciliano Giuseppe La Masa. Giuseppe La Masa e Felicita Bevilacqua Proprio loro due vogliamo ricordare. Felicita Bevilacqua e il generale Giuseppe La Masa, conosciuto in tutta Italia come colui che con Garibaldi e Bixio fu uno dei maggiori artefici della riuscita dell’impresa dei Mille. Sono sepolti assieme, qua vicino, nella cappella del Castello. Lo facciamo con questa nostra partecipazione al concorso del Primo Giornale. Sì, perché da qui dopo essersi sposati nel 1857 (matrimonio singolare per quei tempi, lei del nord, veneta, lui del sud, siciliano) partirono nel 1860: per Genova lui, per imbarcarsi coi Mille e per Torino, lei in appoggio all’impresa per convincere Cavour a favorirne l’attuazione nonostante sembrasse una follia: Mille contro ventimila, ma fondamentale per l’unità d’Italia. Mille garibaldini e una donna Felicita fu una figura di grande rilievo, ma è stata dimenticata dalla grande storia: per questo vogliamo renderle il nostro omaggio, per quanto semplice ed umile possa essere. Per il marito era Titti, così egli affettuosamente la chiamava. Lui per lei era invece il caro Peppino. Felicita ha svolto un lavoro importante per la riuscita dell’impresa dei Mille. Prima della spedizione infatti non solo si è trasferita con il marito a Torino aiutandolo ad organizzare il gruppo dei partenti, ma soprattutto ha svolto un’importante azione politica per convincere Cavour che Garibaldi intendeva unire le terre conquistate al Piemonte e non fondare uno stato separato del Sud. Titti organizza inoltre una raccolta di fondi e arriva a fornire a Garibaldi anche una spedizione di armi. Ecco perché possiamo dire “mille garibaldini più una donna”, la duchessa Felicita Bevilacqua. Ali e radici Anche da questo nostro paese pertanto - lo possiamo veramente dire- è passata la storia e da qui vogliamo partire per ricordare l’impresa di Felicita e di Giuseppe La Masa e rinnovare la memoria dei fatti di cui si sono resi protagonisti. Lo vogliamo fare per testimoniare che l’Italia non solo non seccherà le sue radici, ma che i suoi rami continueranno a crescere anche attraverso i nostri pensieri e le nostre riflessioni. Siamo gli alunni della primaria di Bevilacqua e frequentiamo le lezioni nella scuola intitolata a Giuseppe La Masa. Anche a Trabia, luogo natale di Giuseppe La Masa, sia la scuola dell’infanzia che la primaria sono intitolate a lui, ma non a Felicita e questo un po’ci dispiace perché il nostro desideri sarebbe che portassero il nome di entrambi. La nostra scuola è molto bella, grande e spaziosa. Recentemente è stata ristrutturata ma conserva le tracce del suo passato. In particolare lo possiamo osservare nell’ala di pietra posta in alto sulla sua facciata. Un’ala che si ritrova anche nello stemma del paese e nel palazzo comunale la cui presenza ci permette di fare due importanti considerazioni. L’ala ci rimanda alla storia di questo paese, richiama l’origine e le vicende che lo hanno caratterizzato. L’ala infatti è il segno del luogo d’origine della casata dei Bevilacqua (Ala di Trento) che ha dominato su questo territorio e che ha lasciato al Comune anche il proprio nome. E questa è la prima considerazione che riguarda il passato, le nostre radici. L’ala però ci permette di fare anche un sogno che rappresenta invece il futuro. Le ali infatti sono il simbolo del volare. Quindi radici per trovare l’energia necessaria a crescere stabili e forti e ali per volare in alto, vedere oltre l’orizzonte e vagheggiare nuovi scenari. Non ci dispiacerebbe così poter incontrare i nostri coetanei di Trabia e immaginare la possibilità di un gemellaggio tra il paese di Felicita e quello di Giuseppe La Masa essendo molti gli elementi che ci uniscono. Il contributo della famiglia Bevilacqua al risorgimento italiano La famiglia Bevilacqua è stata al centro di numerose vicende risorgimentali. Si pensi ad Alessandro Bevilacqua e a suo figlio Girolamo, morto nella battaglia di Pastrengo. Ma non meno importante è stato il contributo di Carolina Santi Bevilacqua e della figlia Felicita Bevilacqua. Le due donne parteciparono attivamente al processo di unificazione dello stato italiano, rendendosi promotrici di molteplici iniziative. Purtroppo il loro ricordo vive soprattutto di luce riflessa e se non fosse per il fatto che Felicita ha sposato Giuseppe La Masa, di lei non risalterebbero né l’impegno civile né il ruolo avuto negli eventi del risorgimento. Le interviste Con queste “interviste” vogliamo rendere loro “giustizia”. Allo stesso modo vogliamo anche rinverdire il ricordo delle loro imprese e in particolare dell’operato di Giuseppe La Masa. Riteniamo infatti che il loro apporto sia stato fondamentale per il risorgimento italiano anche se non sempre adeguatamente riconosciuto ed apprezzato. Gentile duchessa Felicita Bevilacqua, in occasione della ricorrenza dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia abbiamo imparato a conoscerla studiando quanto su di Lei è stato scritto ed in particolare approfondendo le narrazioni di Gianni Moro, un “maestro” di questo nostro paese che ha compiuto molte ricerche storiche sulla vostra casata tanto da averne una speciale conoscenza e comprensione. Abbiamo così tante domande da farle che ci aiuteranno a capire meglio il suo tempo, un tempo particolarmente importante per la costruzione dell’unità dell’Italia. Innanzi tutto ci piacerebbe che ci parlasse di sé, della sua infanzia e di quanto siano stati importanti gli insegnamenti di sua madre per sollecitare in tutti i suoi figli l’amor di patria contro la prepotenza austriaca, fino al sacrificio di suo fratello Girolamo nella battaglia di Pastrengo del 1848. Come voi giustamente mi avete chiamato, sono Felicita, la primogenita del conte Alessandro Bevilacqua di Verona e di Carolina Santi di Brescia. Ho passato l’infanzia nel nostro bellissimo castello di Bevilacqua, vicino a Legnago, paese che prende il nome dal nostro casato. Ho studiato con impegno e cura nel vicino Educandato Femminile di Montagnana. Nella nostra famiglia sia mamma che papà ci hanno cresciuto a idee di libertà e democrazia. Nostro padre però è venuto a mancare ancor giovane per le ferite riportate nelle guerre napoleoniche per cui nostra madre ha dovuto provvedere sia alla nostra crescita che alla cura del patrimonio familiare. Allo scoppiare delle insurrezioni anti austriache del 1848 io e i miei fratelli, Girolamo e Guglielmo, risiedevamo a Brescia, nelle proprietà di nostra madre. Cresciuti nell’idea di dover operare per l’indipendenza dall’Austria, ci siamo sentiti in dovere di mettere a disposizione degli insorti di Venezia il nostro castello di Bevilacqua con relative provviste alimentari. Il 5 aprile il castello di Bevilacqua fu occupato da un reparto di 750 volontari romani al comando del colonnello Livio Zambeccari. Per il gesto generoso il governo provvisorio di Venezia ci ha inviato, a firma di Manin e Tommaseo, una lettera di ringraziamento. Tutto questo non piacque molto agli Austriaci. E ancor di più li irritò il fatto che a soli dieci chilometri da Legnago, uno dei capisaldi del Quadrilatero, si fosse istallato un reparto di rivoltosi che avrebbe potuto far da base ad altri gruppi di rivoluzionari. Perciò il generale Radetzky ha subito inviato a Bevilacqua il colonnello Heinzel con due reparti, uno uscito da Legnago, l’altro da Verona per Cologna, formati da mille uomini tra ulani e italiani e da cinquecento croati, con quattro cannoni e due mortai. Questi reparti occuparono Bevilacqua il 21 aprile 1848, quando da poco lo Zambeccari aveva lasciato il castello ritirandosi verso Este e Padova, poiché non aveva ricevuto rinforzi da Vicenza e riteneva di non avere forze sufficienti per sostenere lo scontro. Non è noto se l’azione austriaca sia stata mossa da spirito di vendetta nei confronti della nostra famiglia, colpevole di parteggiare per gli insorti, ma sta di fatto che pur non avendo incontrato alcuna resistenza le truppe si diedero a distruggere, a saccheggiare e a incendiare. Il nostro castello fu bombardato e bruciato, non solo ma nella chiesetta adiacente fu profanata la tomba di nostro padre, il conte Alessandro Bevilacqua, i cui resti furono dispersi. Anche una decina di case di nostra proprietà furono incendiate, compresa la canonica. Il bestiame e parte delle derrate del castello furono messe in salvo, ma una buona parte del riso rimase nelle mani delle truppe austriache. Il maresciallo Radetzky il 23 aprile fece affiggere un proclama in cui portava a conoscenza per “salutare esempio”, in modo da scoraggiare altre iniziative del genere, che: “il castello di Bevilacqua, espressamente ceduto dai proprietari ai cosiddetti Crociati, come punto di difesa e di assalto delle mie truppe, restò esso, con tutto il paese, preda delle fiamme”. Non è stato l’unico prezzo pagato dalla nostra famiglia per l’unificazione dell’Italia, ma solo il primo di una lunga serie. Ci può parlare di suo fratello Girolamo morto nella battaglia di Pastrengo e di come sua madre abbia vissuto questa perdita? Tutti i membri della mia famiglia furono personalmente coinvolti nelle vicende della Prima guerra d`indipendenza. Guglielmo fu membro del Governo Provvisorio di Brescia e con altri firmò l’atto di convenzione per la partenza delle truppe austriache da Brescia. Girolamo si arruolò, invece, nel Piemonte Reale Cavalleria e come ufficiale di questo reparto partecipò alla battaglia di Pastrengo dove il 30 aprile trovò la morte nel tentativo di strappare la bandiera a un reparto nemico. Giorgio De Pimodan, ne ha descritto con parole di ammirazione il gesto eroico "giovane ufficiale piemontese, seguito da una ventina di cavalieri si lanciò coraggiosamente sul battaglione nemico e volle strappargli la bandiera: egli cadde, crivellato di colpi". Quali conseguenze ebbe la morte di Girolamo su sua madre? E’ stata una grande tragedia in quanto Girolamo non solo era la speranza della nostra famiglia, ma gli eravamo tutti legati da grande affetto. Queste vicende però anziché abbattere l'animo di mia madre, Carolina Santi, la spinsero più decisamente verso i patrioti combattenti tanto da aprire un ospedale a Valeggio. Al termine della guerra, il re Carlo Alberto le concesse una medaglia d'oro fatta coniare appositamente con la seguente dedica: A MARIA CAROLINA SANTI NEI MARCHESI BEVILACQUA DI BRESCIA CHE AI VALOROSI ITALIANI FERITI NELLA GUERRA D'INDIPENDENZA APPARECCHIANDO OSPIZIO E CONFORTI MERITAVA DELLA UMANITA’ E DELLA PATRIA MDCCCXLVIII Ci può descrivere questo vostro impegno per i patrioti feriti? Mia madre ed io ci siamo sentite in dovere di occuparci dell’organizzazione dell'assistenza ai feriti durante i moti rivoluzionari di Brescia. Abbiamo così trasformato il nostro palazzo di Brescia in un luogo di accoglienza per i feriti che io stessa provvedevo ad organizzare mentre mia madre Carolina andava a prestare soccorso negli ospedali da campo. Anche i giornali del tempo hanno messo in luce questa nostra instancabile attività: “Moriva nel combattimento di Pastrengo il giovane Marchese Bevilacqua Bresciano; la madre sua ricchissima gentildonna, dopo un tanto olocausto fatto alla patria, si volse a vendicarne il sangue coll’armi della pietà, ed avendo come figli tutti i compagni del figliuol suo, postasi a Valeggio aprì uno spedale pei feriti nostri ov’essa e la sua figlia li curavano colle proprie mani e con quei modi e quelle parole che eran più degne di chi dava e riceveva un tanto beneficio, li assistevano e confortavano, lasciando in tutti i Piemontesi una indelebile gratitudine per tanta e sì squisita carità per la gentil città ch`era patria di quell'angelo di consolazione ..." Nel bellissimo giardino pensile del castello dove spesso andiamo, ci sembra di vedere lei e Giuseppe La Masa passeggiare, intenti a discorsi amorosi. Ci affascina molto il suo incontro con Giuseppe La Masa e le vicende del vostro amore: ce ne può parlare? Ho conosciuto Giuseppe La Masa, di due anni più vecchio di me, a ventitre anni, nel maggio del 1845, in occasione di un viaggio con mia madre e mio fratello Guglielmo a Firenze. Giuseppe aveva dovuto allontanarsi da Trabia, suo luogo natale, nel comune di Termini Imerese per le sue idee e si era recato a Firenze dove continuava la sua attività letteraria e frequentava il letterato Gian Battista Niccolini, in casa del quale avvenne il nostro incontro. Giuseppe, focoso e irruento, si innamora subito di tutta la mia famiglia: per mia madre Carolina manifesta una grande stima e ammirazione; per mio fratello Guglielmo ha l'affetto di un fratello maggiore; per me arde subito di un amore irresistibile. Neppure io rimango indifferente alle sue attenzioni, ma la riservatezza, la prudenza e i consigli di mia madre, mi trattengono dal compiere passi affrettati. Nell’autunno del 1845 Giuseppe La Masa è per un mese ospite della nostra famiglia nel castello di Bevilacqua ed io ho modo di conoscerne le idee. Nella serenità della campagna cominciamo a intenderci. Giuseppe mi propose un’attesa di quattro anni durante i quali in piena libertà avrebbe potuto dedicarsi alla Patria, posta al primo posto dei suoi valori, seguita da Gloria, Amore, Fede. Io, in segno di accettazione, ricamo per lui un segnalibro con le tre parole sottolineate da un “eternamente”. È l’inizio della nostra vicenda sentimentale che durerà per oltre un decennio tra sogni, sospiri, lacrime, rossori, rapidi incontri e una fitta corrispondenza che permetterà di conoscerci sempre più a fondo. La Patria è il valore posto da Giuseppe nel punto più alto delle mete da raggiungere e così, coerente col proprio ideale, tra il I847 e il l848, torna in Sicilia per animare la rivolta contro il regime borbonico con il pericolo di essere scoperto e catturato. La prima guerra d’indipendenza lo porta nel Veneto e a Roma. Per me è una grande pena perché dopo la perdita di mio fratello temo la stessa sorte anche per lui. Sappiamo che dopo gli avvenimenti del 1848 le cose sono molto cambiate per la vostra famiglia; ce ne può parlare? Finita la guerra i danni subiti dalla nostra famiglia sono ingenti tra incendio al castello, saccheggi, mancato reddito, tasse e prestito forzoso imposto dall’Austria. Mia madre Carolina, saggia amministratrice del patrimonio, ha dei forti dubbi sulla possibilità di uscire da una tale situazione senza finire in povertà. Dopo un mese nostra madre muore e mi lascia in eredità la pesante situazione economica per cui da questo momento devo fare della salvezza del patrimonio famigliare la ragione prima della mia vita. Se fino a quel momento avevo potuto vivere sognando un futuro accanto a Giuseppe, ora devo guardare in faccia la triste realtà e cercare soluzioni. La prospettiva di un mio matrimonio in tempi brevi sfuma completamente: ho prima il dovere morale, verso mio fratello e verso l’onore della mia famiglia, di salvare il patrimonio. A risentire della nuova situazione è soprattutto il mio rapporto con Giuseppe. Egli continua ad essere più che mai senza patria: vive in territorio piemontese spostandosi da Torino a Genova, da Nizza alla Svizzera, senza poter mettere piede in Lombardia e nel Veneto a causa della sua posizione antiaustriaca. Perfino la corrispondenza deve essere indirizzata a nomi fittizi per non essere intercettata dalla polizia austriaca. Ha fretta di concludere il nostro rapporto che si prolunga ben oltre i quattro anni del patto iniziale. Ha bisogno di una casa, di una famiglia e di una donna vicino che lo sorregga e lo conforti. Non ha un reddito costante e sufficiente a garantirgli da vivere. Devo quindi intervenire e, pur nelle ristrettezze in cui mi trovo, riesco sempre ad inviargli il denaro necessario fingendo di fargli dei prestiti per non farlo sentire troppo a disagio. I problemi economici continuano infatti a condizionare la nostra vita. Per pagare i grossi debiti di famiglia sono costretta a vendere parte della proprietà, ma soprattutto a chiedere prestiti e a fare debiti nei quali resto invischiata sempre più. I terreni rendono poco perché, probabilmente, sono condotti male. Guglielmo che ne è il proprietario se ne cura molto saltuariamente per inseguire piuttosto i suoi sogni di grandezza. Pur nelle difficoltà finanziarie, mio fratello infatti trova il modo di comperare Ca' Pesaro a Venezia. È un investimento di rappresentanza che dà lustro al nostro nome, come glielo dà il titolo di duca che riesce a ottenere dal granduca Leopoldo di Toscana per me, per sé, per la sua futura moglie e per i figli. Palazzo e titolo potrebbero aiutarlo a trovare una sposa con una buona dote in grado di sollevare le sorti della famiglia. Anch’io penso che un buon matrimonio di mio fratello potrebbe risolvere i problemi permettendomi così di considerare esaurito il mio compito e coronare, finalmente, il mio sogno d'amore. Intanto, però, arrivano i pignoramenti e devo correre da ogni parte per controllare le proprietà e per trovare i soldi per tacitare i creditori. Passa qualche tempo e mio fratello Guglielmo conosce a Parigi Ernestina, figlia unica del margravio di Baden. Dopo un breve fidanzamento, nella primavera del 1856 avviene il matrimonio. Gli sposi si stabiliscono a Bevilacqua dove io ho modo di conoscere mia cognata e di vedere la loro buona intesa. La felicità non dura molto; mio fratello muore poco dopo nel luglio del 1857, assistito amorevolmente da Ernestina incinta. Ancora una volta mi sento in obbligo di rinviare il mio matrimonio e di occuparmi degli affari di famiglia. Alla fine di settembre parto per Vienna per cercare di ottenere il risarcimento dei danni di guerra del 1848. A Vienna mi riservano una buona accoglienza e belle parole, ma non fatti. Sono anche preoccupata per le condizioni di mia cognata e purtroppo al parto non sopravvivranno né lei, né suo figlio. Dopo la loro morte sembra inutile rinviare ulteriormente il nostro matrimonio. Ci sposiamo a Torino nel gennaio del 1858. Mio marito però è sempre il patriota dall’animo ardente che continua a seguire con attenzione le vicende politiche. Ha contatti con Cavour e con Garibaldi per progettare la liberazione della Sicilia e nel 1860 é nell’isola con i Mille dove si distingue nel creare buoni rapporti con la popolazione e nel partecipare, incurante del pericolo, alle azioni militari più rischiose, meritando la stima di Garibaldi. Per mio marito è un periodo esaltante in cui vede realizzarsi le sue idee di libertà. Anch’io ne sono molto contenta e spero nella gloria e nella fama per lui. Sappiamo che lei voleva seguire Giuseppe La Masa nell’impresa dei Mille ma non essendole stato possibile ha dato il suo aiuto in altro modo. Ce lo può raccontare? E’ vero, la mia attività patriottica ha avuto nuovo slancio quando, dopo aver rinunciato per volontà di mio marito ad imbarcami con i Mille, nei principali giornali del tempo ho lanciato un appello a tutte le donne italiane invitandole a contribuire all’impresa. Sentivo infatti di non poter rimanere inerte di fronte a quello che stava avvenendo ma che dovevo impegnarmi per la causa italiana e per questo diedi avvio ad una sottoscrizione femminile. L’iniziativa ebbe molto successo, arrivarono adesioni e fondi anche dall’estero. La somma raccolta è stata di 5000 franchi che feci pervenire a Giuseppe Garibaldi. E di questo mio - sia pur modesto contributo - fui molto orgogliosa. Terminata l’impresa dei Mille anche a Bevilacqua si è potuta festeggiare l’unità nazionale. Come sono stati gli anni successivi? Con la liberazione del Veneto Giuseppe poté finalmente circolare in piena libertà, risiedere a Bevilacqua, curare il restauro del nostro castello e seguire gli affari di famiglia, alternando l'attività privata a quella di deputato che lo ha portato spesso lontano da casa. I debiti, però, rimangono, tanto che dopo la morte di mio fratello Guglielmo il nostro patrimonio di famiglia finisce in amministrazione giudiziale. La felice conclusione della nostra vicenda sentimentale ci dà un po' di serenità, ma le difficoltà non sono finite. Antichi parenti rivendicano l'eredità di Guglielmo, sostenendo che il patrimonio dei Bevilacqua è di origine feudale e quindi trasmissibile solo in linea maschile. Io mi oppongo alla richiesta ma la controversia non è di facile soluzione; alla fine mi vedo costretta a cedere circa milletrecento campi in cambio della loro rinuncia ad ogni ulteriore pretesa. La disputa, però, si protrae ancora per anni e mio marito, pur gravemente colpito dalla cecità, deve diventare il difensore dei miei diritti che alla fine vengono riconosciuti. Le disavventure economiche non sono però ancora terminate. Le cartelle del prestito nazionale garantito dallo stato, che ero riuscita ad ottenere per poter ripianare i debiti, non riescono a soddisfare tutti i creditori perché mal gestite. Mi barcameno pertanto come posso cercando appoggi e impiegando i pochi denari disponibili per calmare i creditori che minacciano di mettere sotto sequestro tutti i miei beni. È in questo clima dì incertezza economica che mio marito Giuseppe La Masa muore a Roma nel 1881. Viene sepolto nella chiesetta del nostro castello di Bevilacqua assieme agli altri familiari. Dopo la sua morte resto proprio sola, ma devo continuare il tentativo di salvataggio di quello che rimane del nostro patrimonio. Tutto viene messo all’asta ma per fortuna riesco a riscattare il castello con intorno il parco. L’ultima parte della mia vita, piuttosto ritirata come era nel mio carattere e nelle mie abitudini, la vivo nel ricordo di mio marito, Giuseppe La Masa per il quale avrei voluto ben altri onori e riconoscimenti. Muoio a Venezia il 28 gennaio 1899 ed anch’io voglio essere seppellita nell’oratorio di famiglia a Bevilacqua, accanto a mio marito, a mia madre, ai miei fratelli. Lì infatti vi sono cresciuta e ho trascorso momenti di grande serenità in compagnia di mia madre, dei fratelli e degli amici e lì “Peppino” mi ha dichiarato il suo amore. Signor Giuseppe La Masa, noi la conosciamo soprattutto per due cose: per le sue imprese a fianco del generale Garibaldi nella spedizione dei Mille e per aver sposato la duchessa Felicita Bevilacqua. Ci può parlare di lei, dove è nato, come ha conosciuto Felicita e qual è stato l’impegno più grande della sua vita? Sono nato a Trabia, il 30 novembre 1819. Non avevo neppure un anno quando, durante i moti rivoluzionari carbonari, rimasi orfano assieme alle mie due sorelline, di entrambi i genitori che perirono nel rogo appiccato per motivi politici alla nostra casa di campagna. Fortunatamente fummo sottratti alla furia del fuoco da nostra zia, Antonia che abitava lì vicino. Rimasti orfani, ebbero cura di noi la sorella di nostra madre, Rosaria, con il marito Giacomo La Masa e lo zio sacerdote Giuseppe Pitissi. Dopo aver frequentato le scuole elementari, fui avviato dallo zio prete alla vita ecclesiastica presso il Seminario Arcivescovile di Palermo. Ben presto però si rivelò il mio carattere ribelle finché il Rettore, non potendomi rendere obbediente, fu costretto ad espellermi. Terminate le scuole superiori mi sono iscritto alla facoltà di giurisprudenza all`Università di Palermo, ma poi per le mie capacità intellettuali sono entrato a far parte della redazione del giornale "La Ruota". Anche se non sono vissuto a lungo in Sicilia grande però è sempre stato il mio attaccamento a Trabia e a Termini Imerese, mia terra natale. Come era d’aspetto? Noi abbiamo visto un suo ritratto ma è avanti negli anni. Come era invece da giovane? È una domanda a cui rispondo volentieri perché la vanità è sempre stata il mio peggior difetto. Non rispondo però con le mie parole ma con quello che di me hanno detto altri. “Fu un uomo colto e piacente, ispirava tanta amicizia e familiarità, di bell’aspetto, affascinante e seducente”. Anche Cesare Abba, colpito dal mio fascino così mi descrive: "...biondo ancora quasi come un giovinetto e di carnagione che dovea essere rosea, finissimo nei lineamenti del volto, più che un siciliano sembrava uno scandinavo. Certo aveva nelle vene sangue normanno". Voglio però far presente che non fui solo un bell’uomo di apparenza, fui soprattutto un uomo di carattere cocciuto ed inflessibile che non si arrese mai e rifiutò sempre ogni compromesso, come ebbi a dimostrare per tutta la mia vita. Quando ha cominciato ad interessarsi di politica? Il mio esordio l’ebbi ad appena ventidue anni, quando i concittadini trabiesi mi vollero loro "Decurione", carica che era stata rivestita anche da mio padre Andrea. Accettai di buon grado tale incarico, ma ben presto mi trovai in contrasto con le autorità fiscali di Palermo che decretarono il mio arresto. Avvertito in tempo, dovetti lasciare Trabia e riparare a Firenze che in quel tempo, sotto i duchi di Toscana, godeva di un governo mite. Nel 1844 ebbe così inizio la mia vita di proscritto e per circa sedici anni girovagai tra i vari Stati italiani dove riuscivo a trovare asilo politico. Furono anni duri, ma mi adattai e ben presto arrivai a far parte dei ritrovi culturali dell’epoca, distinguendomi per i miei lavori letterari. Quando conobbe Felicità Bevilacqua? L’ho conosciuta a Firenze. Aveva ventitre anni e me ne innamorai appassionatamente. La incontrai per la prima volta, accompagnata dalla madre, in casa dello scrittore Niccolini che mi presentò con queste parole: "amo questo giovane figlio dell’Etna come mio figliuolo, perché giammai ho trovato congiunta in una persona tanta potenza d’ingegno con tante virtù di cuore". Fu un grande amore. Felicita, sin dall’inizio del nostro rapporto, fu intensamente innamorata di me. Io incarnavo il suo ideale: patriota, coraggioso, onesto e retto. I suoi incoraggiamenti sono stati fondamentali a farmi perseverare sulla strada della rettitudine e dell’impegno patriottico. Nell`autunno del 1845, Felicita mi invita nel suo castello di Bevilacqua e vi rimango ospite per un mese. Pur in un così breve lasso di tempo ci intendiamo subito. Io le propongo un’attesa di quattro anni per il matrimonio spiegandole i motivi. Dentro di me infatti ho una graduatoria di valori da perseguire in ordine temporale: Patria, Gloria e Amore e Felicita li accetta ricamandomi come pegno d’amore un segnalibro con queste parole e aggiungendovi "eternamente". Trascorsi i quattro anni vi siete sposati? No, purtroppo per tutta una serie di motivi il mio fidanzamento con Felicita è durato dodici anni. In questo lungo periodo di tempo, fatti luttuosi come la morte dei suoi fratelli, Gerolamo e Guglielmo, e fatti incresciosi per questioni di eredità tra parenti e di cattiva amministrazione delle proprietà, portarono Felicita alle gravose responsabilità di salvare il patrimonio e l’onore della famiglia. Fu cosi che passarono, tra alterne vicende, dodici anni. Solo nel dicembre del l857 abbiamo finalmente potuto coronare il nostro sogno d’amore durato, sempre con viva intensità, fino alla fine della nostra vita. Sul piano patriottico ci può parlare del suo impegno e degli eventi cui ha partecipato per la liberazione della Sicilia e dell’Italia? A Firenze la mia popolarità crebbe enormemente e la mia presenza era richiesta nei migliori salotti fiorentini; avevo infatti pubblicato un opuscolo titolato “I popoli delle Due Sicilie ai fratelli italiani, agli Inglesi, ai Francesi, a Pio IX” che ebbe molto successo. In esso affermavo decisamente l’esigenza di attuare in Sicilia la rivoluzione armata, ritenendola l’unica via per giungere alla sua liberazione dalla dominazione borbonica. In molti condivisero la mia idea tanto che un patriota siciliano, Francesco Bagnasco, attraverso un proclama clandestino, lanciò una sfida al re Borbone preannunciandogli che a Palermo il l2 gennaio 1848, giorno del suo genetliaco, sarebbe scoppiata la rivoluzione liberatrice. Mi recai pertanto a Palermo, ma giunta l’alba del fatidico 12 gennaio, non c’era nessuno nella piazza della Fieravecchia e così mi decisi io, da solo, a fare la rivoluzione. La mia reazione fu inaspettata tanto che la popolazione mi credette pazzo. E pazzo lo fui per davvero, ero sceso in una piazza deserta da solo, seguito soltanto da un popolano scamiciato e senza scarpe che suonava un tamburello per attirare l’attenzione della gente. A poco a poco però la piazza della Fieravecchia cominciò a rianimarsi: tutti erano pronti a combattere, nobili e popolani, per una causa che ritenevano giusta e sacra e tutti aspettavano che qualcuno desse l’ordine della rivolta ed io fui e seppi essere il capo della rivolta. La rivoluzione del 12 gennaio 1848, per la grandezza del suo svolgimento e per i risultati ottenuti, destò molta attenzione e nei mesi successivi diede inizio alle insurrezioni che si propagarono non solo negli Stati italiani, ma in tutta Europa. Giuseppe Mazzini, subito dopo la rivoluzione, volle indirizzare ai siciliani il seguente messaggio per riconoscerne l’eroico coraggio: "Voi siete grandi, voi avete in pochi giorni fatto più assai per l’Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni di agitazioni. Ma l’animatore, il fautore, il trascinatore che accese la fiaccola della libertà fu Giuseppe La Masa che a soli 28 anni divenne il generale del popolo e l’eroe della rivoluzione siciliana”. Sappiamo che alla rivolta di Palermo seguì l’offensiva borbonica e fu instaurato il vecchio regime. E lei cosa fece dopo? Fui proscritto ancora una volta e riparai a Genova dove ripresi a tessere altri piani per la liberazione della Sicilia. La mia idea era che si dovesse preparare una spedizione armata con cui sbarcare in Sicilia. Da lì l’insurrezione in breve tempo avrebbe potuto estendersi a tutte le altre parti d’Italia. Di questo bisognava convincere sia il re del Piemonte sia Garibaldi. Non fu facile ma finalmente la spedizione armata in Sicilia cominciò a prendere corpo. Volontari di tutti i ceti sociali giungevano da ogni parte dell’Italia e si raggruppavano nella città di Genova, pronti a salpare. In pochi giorni il numero dei volontari crebbe enormemente: erano quasi mille e tra di essi naturalmente io non potevo mancare. Mi imbarcai sul piroscafo Palermo ed ebbi il compito di comandare la quarta Compagnia. E’ vero, sappiamo che lei ha partecipato alla spedizione dei Mille. Ci può raccontare questa sua impresa? Lo sbarco a Marsala, avvenuto l’11 maggio 1860, è stato piuttosto solitario: non c’erano folle ad accoglierci né quelle che c’erano sembravano molto disponibili ad unirsi a noi contro l’esercito borbonico. Garibaldi pertanto, appena sbarcato nell’isola, non conoscendo né il terreno né la popolazione mi affidò l’incarico di organizzare le famose squadre di "Picciotti". Mi diedi subito da fare. Ottenni dalle autorità comunali carri e cavalli per il trasporto delle provviste e delle munizioni, dopodiché dalla stessa Marsala cominciai ad inviare proclami alle popolazioni dei Comuni della provincia di Trapani e di Palermo, annunciando lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e invitandole ad unirsi alle Camicie Rosse del generale per liberare l’isola dal dominio borbonico. Come è andata la battaglia di Calatafimi? E’ vero che è caduto da cavallo? Il l5 maggio, dopo aver sollevato le popolazioni e ingrossate le fila dei Mille, raggiunsi il generale Garibaldi nelle vicinanze di Calatafimi, dove, prima della famosa battaglia, si verificò una circostanza che mi perseguitò per il resto della vita: caddi da cavallo e non mi fu possibile parteciparvi, non per vigliaccheria, come molti insinuarono, ma perché ferito alla testa. Non appena mi ripresi dalla rovinosa caduta da cavallo, un po’ per orgoglio e un po' perché ritenevo di potere essere più utile come organizzatore di volontari siciliani, chiesi al generale Garibaldi di essere esonerato dal comando della quarta Compagnia ed ottenni di addentrarmi nell’Isola per incitare le popolazioni a ribellarsi. Costituii pertanto comitati insurrezionali e arruolai armati. Il mio ruolo fu fondamentale soprattutto nella conquista di Palermo. Nel campo di Gibilrossa infatti, nelle alture attorno a Palermo da dove il generale Garibaldi decise di attaccare la città, ero riuscito a raccogliere migliaia di volontari con i quali sotto un micidiale fuoco, riuscii a spingermi fino a Porta Termini e a impedire che la cavalleria borbonica avanzasse. Da lì riuscii quindi ad entrare a Palermo e ad arrivare alla famosa piazza della Fieravecchia, coinvolgendo il popolo alla sommossa. Garibaldi parecchi anni dopo, in un pubblico discorso, ha detto che senza il Campo di Gibilrossa, ideato e ordinato da Giuseppe La Masa, non si sarebbe occupata Palermo. Ed ancora: "I Siciliani a Gibilrossa insegnarono ai popoli come si trattano i tiranni. Fu quello un fatto veramente degno del popolo dei Vespri". Senza il famoso Campo di Gibilrossa, dove avevo raccolto migliaia di uomini, senza le squadre di picciotti da me raccolte, Garibaldi non sarebbe potuto riuscire nell’impresa ed entrare prontamente in Palermo. Fui vanitoso, scrissero in tanti; ambizioso e borioso fui definito: sì, un po’ lo fui, ma non si deve perdere di vista che è proprio l’ambizione che a volte può spingere l’uomo a realizzare grandi imprese. E io gareggiai con tutti spinto da un ardore patriottico che molti non ebbero. Per questa mia caratteristica mi sembra pertanto di meritare di essere ricordato fra i benemeriti della libertà nazionale mentre invece sono stato spesso incompreso e denigrato. Mi hanno soprannominato persino Enea per un episodio successo nel 1848 ai tempi della Repubblica romana quando in qualità di luogotenente generale delle forze siciliane venni a Roma per presentare un piano di guerra contro Ferdinando II di Napoli. In quella occasione infatti mi ero presentato vestito da generale con un elmo d’argento sormontato da un pennacchio bianco e i miei avversari politici non esitarono a dire che sembravo Enea per oscurare la sostanza delle mie imprese mettendo in ridicolo il mio aspetto. In queste sue parole sentiamo molta amarezza. Come mai? Indubbiamente suscitai invidie e gelosie e neppure la solidarietà di Garibaldi fu utile a far cessare le calunnie sul mio conto, per cui non servì a nulla l’aver tanto operato per l’unità d’Italia. Per la difesa del mio onore mi sono sentito in dovere di chiedere al Ministero un Consiglio d’inchiesta che accertasse lo svolgimento dei fatti successi nella battaglia di Calatafimi. Tutto ciò diede inizio però ad una incomprensibile procedura, che abilmente manovrata dai miei avversari mi danneggiò. Io che avevo dato tutto per la Patria, anche i miei averi e quelli di mia moglie Felicita Bevilacqua, ne uscii profondamente ferito nel cuore e, sdegnato per non essere riuscito ad ottenere il riconoscimento dei miei meriti e degli straordinari servizi resi alla Patria, mi ritirai a vita privata. Come sono stati i suoi ultimi anni? Gli ultimi anni della mia vita sono stati infelici per la perdita della vista, ma insieme a mia moglie ci siamo dedicati ad opere di bene. Sono morto il 29 marzo 1881, nella mia villa di Roma, assistito dall’amorevole cura di Felicita che mi ha amato intensamente per tutta la vita. La mia salma era stata richiesta dalla città di Termini Imerese, ma Felicita trovò più giusto che rimanessimo entrambi qui nella pace di Bevilacqua. Dopo la nostra morte tutto il patrimonio fu devoluto in beneficenza e racchiuso nella fondazione Bevilacqua La Masa. Seconda parte Come gli alunni hanno interpretato e rappresentato le vicende di Felicita e Giuseppe La Masa in relazione al loro attuale essere e sentire…. “Visita con sorpresa: resoconto incredibile di un incontro assai improbabile” Terza parte Intervista all’attuale castellana, signora Miresi Cerato Iseppi Premessa Gentile signora Miresi, di seguito le facciamo alcune domande alle quali confidiamo trovi il tempo di rispondere. Riteniamo importante infatti mettere le sue risposte a conclusione delle interviste figurate fatte alla duchessa Felicita Bevilacqua e al generale Giuseppe La Masa. Quasi quasi ci viene in mente un paragone: anche lei è un po’ come Felicita Bevilacqua. Felicita ha amato molto il suo castello, ha voluto che tutta la sua famiglia fosse accolta nel vicino Oratorio, ne teneva tutta la contabilità, rimproverava i fratelli per le loro spese pazze, ha difeso a denti stretti il suo patrimonio, riscattandolo dai debiti, quando ciò si è reso necessario, per destinarlo, dopo la sua morte, “a coloro che hanno stancato la vita nello studio e nelle fatiche pel bene dell'umanità senza ritrarne equi compensi dalla società per cui si trovano, giunti alla sera della vita, sconfortati e senza mezzi di sussistenza". Il progetto di Felicita non è andato a buon fine, ma lei – nuova Felicita - è riuscita a recuperarlo e a trasformarlo e renderlo godibile e visitabile da tutti salvaguardando così una struttura-simbolo della storia di Bevilacqua, dall’oblio e dallo stato di abbandono in cui era caduta. Un grande merito a lei a tutta la sua famiglia va riconosciuto perché una simile scelta, ne siamo profondamente convinti, non può essere semplicemente frutto di una operazione finanziaria, ma espressione di amore ed interesse per un patrimonio che fa parte della storia. Le domande Ci può dire come la famiglia Cerato è venuta in possesso del castello di Bevilacqua (qual è stata l’occasione, da chi è stato acquistato, chi lo ha acquistato, quando, per quale scopo,..)? E’ stato acquistato da mio padre Gabriele Cerato nel 1990 che passava per Bevilacqua venendo da Vicenza per lavoro e lo vedeva fatiscente da anni. La sua passione per le cose antiche e belle lo ha spinto all’acquisto, ricorderò sempre il giorno in cui ci annunciò di averlo acquistato senza neppure sentire il parere di mia madre! Tanto era il suo entusiasmo e la passione che per anni gli hanno dato la forza di farlo risorgere. Perché si è voluto acquistare proprio un castello (gli scopi erano chiari fin dall’inizio o l’idea di adibirlo all’attuale uso è venuta in seguito,..)? Perché proprio un castello perché è un bene unico e irripetibile con il suo fascino e qualsiasi cosa si faccia in castello proprio perché unico e irripetibile diventerà unica anch’essa”. All’epoca papà era un commerciante di mobili antichi e moderni e voleva farne una mostra permanente di antiquariato. L’idea di farne un relais hotel ristorante è stata poi mia e di mio marito. Conoscevate già la storia della famiglia Bevilacqua o l’avete approfondita in seguito? L’abbiamo approfondita in seguito all’acquisto del bene. Nei libro di Gianni Moro su Bevilacqua, tra la bibliografia, viene citata anche la seguente fonte: -Tesi di Laurea di Giacomo e Alessandro Cerato “ Il Castello di Bevilacqua”-. Ci può dire chi sono e in quale rapporto stanno Giacomo e Alessandro con l’acquisto ed il recupero strutturale ed architettonico del castello? Giacomo e Alessandro Cerato sono rispettivamente mio fratello e mio cugino e si sono interessati al Castello visto che in quegli anni studiavano architettura a Venezia. Si deve a loro l’interesse per un restauro rispettoso della sua storia? No direi che loro hanno fatto la tesi di laurea sul Castello ma i lavori sono stati seguiti esclusivamente da mio padre, con consulenze dall’architetto Sandrini Arturo, del prof. Moro Gianni, del dott. Francesco Occhi, e da mio marito Roberto Iseppi In quali condizioni si trovava il castello al momento dell’acquisto? Il Castello era distrutto e senza agibilità. A chi è stato affidato l’incarico di restaurarlo e secondo quali direttive? Per i primi nove anni è stato restaurato da Gabriele Cerato con aiuto di imprese edili preparate e poi per altri dieci anni da mio marito Iseppi Roberto con la direzione tecnica del prof Arturo Sandrini e altri tecnici professionisti e la supervisione della sovraintendenza dei beni culturali di Verona, attraverso la Dott.ssa Martelletto e altri. Quanto sono durati gli interventi di ripristino e alla fine dei lavori il castello è risultato secondo le previste aspettative? In tutto i lavori sono durati vent’anni e non sono ancora finiti e comunque il risultato rispecchia sicuramente le aspettative. Vi sembra che in paese sia adeguatamente riconosciuto il vostro sforzo, grazie al quale è stato recuperato un bene che altrimenti sarebbe in degrado? I concittadini, a partire dal Sindaco, riconoscono lo sforzo fatto sia da mio padre che da noi e apprezzano e sono fieri di quello che è stato fatto fin’ora anche perché negli ultimi anni abbiamo fatto conoscere il paese di Bevilacqua in moltissime parti d’Italia e del mondo. Avete consapevolezza ed orgoglio di aver fatto una cosa molto importante per la cultura dando la possibilità a tutti coloro che lo desiderano di camminare sul selciato calpestato da cavalli e cavalieri, eserciti e soldati, contadini e nobili… e soprattutto di visitare e sostare nelle stanze in cui hanno vissuto i Bevilacqua? Assolutamente si, siamo consapevoli della responsabilità che abbiamo nei confronti della storia e della cultura e dell’arte ecco perché investiamo continuamente con nostre risorse sia in tempo che in denaro perché il castello sia sempre più ben conservato e fruito da tutti attraverso le attività commerciali e culturali che facciamo dai laboratori didattici alle visite guidate all’attività più ludiche fino a dormire nella storia proprio così gli ospiti del castello apprezzano il nostro sforzo perché gli diamo la possibilità di vivere in un altro tempo apprezzandone la storia e le abitudini e l’atmosfera. Ci piace soprattutto ricordare la figura della duchessa Felicita e la sua importante storia d’amore con il generale garibaldino Giuseppe La Masa, in parte vissuta anche nei giardini e nel castello di Bevilacqua. Ma anche le vicende tristi dei suoi sfortunati fratelli. Una famiglia che ha fatto molto per l’unità d’Italia di cui quest’anno si celebra il 150° anniversario. Non trova che sarebbe bello ravvivarne il ricordo, ormai sbiadito dal tempo, nel Castello, nel Comune, nella Comunità tutta, rendendo adeguato omaggio e riconoscimento alla famiglia Bevilacqua e a Felicita in particolare? Assolutamente si, stiamo raccogliendo materiale in merito alla storia della duchessa e del generale e sarebbe bello fare una mostra permanente in memoria del loro amore per la patria dedicando una giornata annuale in loro ricordo Noi abbiamo cercato di farlo nella scuola con gli studenti ripercorrendone le vicende e raccontando anche di questa sua intervista. Vi ringraziamo moltissimo per l’interesse che state dimostrando alla storia a noi così cara. Si sente particolarmente fortunata a possedere un castello che ha condizionato lo sviluppo di questo paese; ne sente tutta la storia e l’impegno a continuare a farlo vivere, a curarlo e a conservarlo nel suo aspetto e nelle sue strutture e a fare in modo che tanti altri ne possano godere? Trasmette questi sentimenti anche ai suoi figli? Ritiene importante insegnare loro ad amare la storia in generale e quella specifica di Bevilacqua? Sì anche se molti non ci invidiano per il lavoro che c’è dietro tutto questo, mi ritengo privilegiata di appartenere alla storia di essere un po’ anche “figlia “ di quella famiglia che cento anni fa ha portato avanti questo castello e di contribuire allo sviluppo di Bevilacqua e alla conservazione e crescita del castello con l’aiuto di mio marito e dei figli che già da ora dimostrano di voler seguire questa sfida e di amare questo antico maniero. La conosce approfonditamente o conosce meglio il castello e ogni suo spazio e relativa funzione? Vi è una parte del castello che preferisce maggiormente o che la impegna di più? A quante persone la sua attività dà lavoro? Anche loro sono consapevoli che lavorano in un posto speciale? La storia del castello ha ancora molti vuoti da colmare. Abbiamo conosciuto da poco una ricercatrice che sta lavorando all’archivio di stato proprio nel fondo Bevilacqua del ramo dei Santi Apostoli secondo la quale ci sono novità interessantissime da conoscere. Direi che conosco meglio gli spazi del castello. Noi diamo lavoro a circa 20 persone più altre 40 persone a chiamata. Fanno parte di un'unica famiglia, vivono in un posto unico speciale, consapevoli di partecipare alla costruzione di un progetto importante destinato a rimanere scritto nella storia di questo paese. La ringraziamo molto. Grazie a voi per l’interesse e l’attenzione a ciò che stiamo costruendo e alla qualità delle domande che dimostrano grande sensibilità e preparazione da parte vostra. Un abbraccio: Miresi Cerato e Famiglia Iseppi.