Gianfranco Salvatore
dispensa per il corso di Etnomusicologia
“Minoranze etniche nella musica Rinascimentale”
Università del Salento
a.a. 2011-2012
IL TEATRO MUSICALE DELLE LINGUE
Parodie di stranieri e minoranze nel
Rinascimento italiano
“Capricci”, versione 1.1
testo in progress
VIETATA OGNI CITAZIONE O
PUBBLICAZIONE ANCHE PARZIALE
DA PARTE DI TERZI
© Gianfranco Salvatore 2011
N.B.: questa è la versione 1.1 del testo; al momento manca l’Introduzione. Gli studenti
che sosterranno l’esame a partire da Febbraio 2012 dovranno scaricare e studiare la
versione 1.2.
2
PRIMA PARTE
LE MINORANZE NEI GENERI TEATRALI E MUSICALI
DEL RINASCIMENTO
1.1 “Lanzi” e “Todeschi”, e i loro canti
Quella del soldato di ventura tedesco - spesso denominato Lantzman o lanzichenecco,
a Firenze “lanzo”1 - è una delle caricature più diffuse nella letteratura italiana del
Cinquecento. Già durante il Quattrocento i “lanzi” venivano assoldati come mercenari da
sovrani e imperatori europei. Provenivano dalle regioni del Sacro Romano Impero, e furono
istituiti nel 1487 dall’imperatore Massimiliano I sul modello dei mercenari svizzeri, di cui
diventarono acerrimi nemici, riuscendo a sconfiggerli in Italia nelle sanguinose battaglie di
Marignano (Melegnano, 1515) e della Bicocca (1522), nei dintorni di Milano. La loro fanteria
partecipò ad alcuni fra gli eventi bellici più drammatici del secolo, come il sacco di Roma e la
battaglia di Lepanto contro i Turchi; nel Seicento assediarono Mantova e combatterono nella
Guerra dei Trent’anni. La fama leggendaria delle loro gesta li fece entrare nell’immaginario
popolare, in libelli e fogli volanti, stampe e acqueforti, canti e farse, fino ai Promessi sposi
manzoniani.
Costituivano quasi una microsocietà separata, e del loro contesto antropologico sono
rimasti famosi alcuni elementi pittoreschi: gli elaborati costumi dai colori sgargianti, e spesso
scomodissimi; le armi da taglio e da fuoco, sempre all’avanguardia delle ultime tecnologie,
dagli archibugi ai moschetti; e soprattutto le “vivandiere”, cioè quelle donne che seguivano le
loro unità, ufficialmente per occuparsi della cucina, ma spesso anche come prostitute.
Godevano fama di proverbiale ingordigia, per il cibo e per il vino. Una fama non estranea a
circostanze storiche: già nel 1486, a Bruxelles (dove erano entrati al seguito dell’imperatore),
vennero in contrasto con i cittadini perché insoddisfatti delle vettovaglie che gli erano state
destinate. «Si disposero in formazione e, in ordine quadrato, arrivarono davanti al palazzo del
governo cittadino. Qui c’erano alcuni carri con botti di vino, che il consiglio cittadino aveva
donato all’imperatore. Ciò non impedì ai fanti d’impossessarsene. Misero da parte le lance,
dando vita ad una selvaggia gozzoviglia, che cessò solo quando l’ultima botte fu vuotata»2.
A Firenze, fra Quattro e Cinquecento, furono spesso impiegati questi mercenari
tedeschi, che con la denominazione di Lanzi (familiarmente detti anche “lanzimanne”)
entrarono poi ufficialmente a far parte di uno speciale corpo di guardia, fra cui si ricorda in
particolare di Cosimo I de’ Medici, duca dal 1537 al 1574. Erano «ben noti al paesaggio
sociale fiorentino non solo nella loro funzione di armigeri o di guerrieri, ma anche di artigiani
dalle più varie specialità (coltellinai, specchiai, musicanti […])»3. Compaiono spesso nei canti
carnascialeschi fiorentini, che nell’insieme non risalgono a prima del 1485, ed è difficile
1
“Lanzo” deriverebbe da lantzman, “paesano”, secondo una proposta etimologica che si rifà anche alle Note al
Manmantile, dove si legge (p. 79) che tale voce è “Todesca” e «lasciataci da loro medesimi», dal loro modo di salutarsi
reciprocamente. Ma l’antica etimologia della Crusca - da Landsknechte, “lanzichenecco”, fante - non va del tutto
respinta: specie quando i Lanzi, come in molti canti carnascialeschi, «compaiono in rapporto al mestiere delle armi»
(BRUSCAGLI 1986: 100, a cui si rimanda anche per i riferimenti critici e bibliografici), e come appare anche nel vanto
che «todesche star buon fante» (Canzona de’ Lanzi arcieri, 2). L’espressione «Lanzi maine» per lantzmann si trova
nelle “canzone” Di Lanzi che fanno schizzatoi, Di Lanzi cozzoni, De’ Lanzi tamburini, e la variante «Lanzi man» nella
Canzona di Lanzi tagliatori a tavola (sempre nel verso iniziale).
2
BAUMANN 1996: 29.
3
BRUSCAGLI 1986: L.
3
datarli precedentemente ai primi anni del Cinquecento4: il più tardo, per quel che ne
sappiamo, è del 15365. In queste parodie, spesso di tono osceno, i lanzi si interessano
soprattutto al cibo, al bere e alle donne, più che alle attività militari; la loro comicità era
accentuata da una mimica che doveva simulare l’equilibrio incerto di un ubriaco. Vi emerge
però anche la loro attitudine per il canto, la musica e la danza. Cinque canti contengono
informazioni sugli strumenti da essi suonati, oltre che su tecniche esecutive6.
Abbiamo ben trenta “canti di lanzi”carnascialeschi. La maggior parte dei testi (diciotto)
era del poeta e autore di canzoni Guglielmo detto il Giuggiola, che sotto il tono parodistico
svolge un catalogo realistico delle loro attività lavorative, sia militari (Canzona de' lanzi
alabardieri, … venturieri, … arcieri) che civili (… coltellinai, … sonatori, … cozzoni cioè
domatori di cavalli, e - di Giovambattista dell’Ottonaio - stagnatai, mentre nell’anonima
Canzona de’ Todeschi sono cuochi), ma anche di aspetti della loro vita personale (Canzona
de’ Lanzi che andarono a papa Lione, … pellegrini, o altre come Canzona de’ lanzi poveri,
… allegri, etc.). Di dodici “canzone de’ lanzi” si conserva anche la musica.
Come tutti i personaggi di stranieri parodiati nella letteratura del Cinquecento (e in
particolare nella melica, dove la ridotta estensione del testo costringe alla sintesi), i Lanzi dei
canti carnascialeschi sono ritratti tramite una serie di stereotipi comportamentali,
continuamente ricorrenti. Hanno una smodata passione per il vino (le varietà più citate sono il
trebbiano e la malvasia), e sono sempre ubriachi, come si vede in particolare nelle “canzone”
Di lanzi allegri, De’ lanzi cotti e De’ Todeschi. Il vino induce a «dir zolfe e gamautte» (Lanzi
allegri, 26), cioè a cantare, e rende più forti: «star poi tutte gagliardie / e aver un gran
possanze» (Lanzi cotti, 17-18)7. Bruscagli ricorda inoltre la loro «piena disponibilità erotica,
con predilezione per i rapporti a tergo (o alla tedesca, come appunto anche si diceva […])»8.
La parodia di simili comportamenti trasmette schematicamente il modo in cui i mercenari
tedeschi dovevano essere percepiti nella Firenze rinascimentale.
Accanto a questi cliché, comunque, bisogna notare che i canti carnascialeschi, per loro
stessa natura - che è quella di una messa in scena tout court, sia pure nel breve spazio
dell’esecuzione di una canzone da parte di un gruppo di personaggi mascherati -, danno voce
a tali personaggi sempre alla prima persona plurale. L’artificio consente loro spesso di fornire
una propria autodefinizione, plausibilmente ispirata, entro certi limiti, alla realtà.
I personaggi si autodefiniscono collettivamente come «buon fante» (Canzona de’
Lanzi arcieri, 2) e «falente fenturier» (cioè valenti soldati di ventura: Canzona di Lanzi
venturieri, 2). Usano come grido distintivo «Solde, solde», a ricordare la paga che definisce il
“soldato” in quanto mercenario (Canzona de’ Lanzi arcieri, 1), e come grida di guerra e
incitazioni le esclamazioni “Sbricche, sbricche!”, dove il termine “sbricchi” è autoreferenziale
ironico per “furfanti” (nel ritornello della Canzona de’ Lanzi alabardieri), o «Stroche,
stroche» (tedeschismo da strolch, furfante, masnadiero: Canzona di Lanzi venturieri, 14). Essi
ricordano spesso la propria socievolezza e cordialità: «Questi lanzi buon compagne»
(Canzona de’ Lanzi che andarono a Papa Lione), «noi star tutte buon compagne» (Canzona
di Lanzi tagliatori a tavola, 36).
Provengono generalmente dalle “Magne”, cioè dalle lande tedesche (Canzona de’
Lanzi cotti, 21; Canzona di Lanzi tagliatori a tavola, 5; Canzona de’ Lanzi stagnatai, 6;
4
KIRKENDALE 1972: 187.
Fra tutte le “canzone”, una delle più tarde è quella De’ Lanzi tamburini, presentata al Carnevale del 1536
(BRUSCAGLI 1986: 295). È legittimo ritenere che dal 1537 i Lanzi non furono più parodiati per volontà di
Cosimo I, di cui furono al servizio?
6
McGEE/MITTLER 1982: 452.
7
Interessante il rovesciamento del cliché operato nella Canzona di Lanzi romiti, dove il personaggio
dell’eremita, abbastanza comune nei canti carnascialeschi, si fonde con quello del lanzo per puro paradosso
(oltre che per gli immancabili doppi sensi erotici): non essendo credibile che egli, dedicatosi alla penitenza, si
rassegni a mangiare solo torsoli di lattuga e a bere acqua e basta.
8
BRUSCAGLI 1986: 100.
5
4
Canzona de’ Lanzi tromboni, 5; «d’Alte Magne», Canzona de’ Lanzi tamburini, 2). Tuttavia
fra di loro ci sono anche dei “flamminghe”, fiamminghi, a loro volta soldati imperiali
(Canzona de’ Lanzi alabardieri, nel ritornello), definiti peraltro chiaramente «todesche gente»
(ivi, v. 5). Un’ulteriore indicazione sta nel fatto che occasionalmente i lanzi si dicano
impegnati, sia pure «in terre fostre», in mestieri tipicamente nordici (Canzona di lanzi
pescatori all’aringhe, 1-2).
Il corpus dei canti carnascialeschi sui lanzi, infatti, ritrae più in generale degli
immigrati nordeuropei di lingua tedesca, non sempre soldati di ventura, o a volte degli ex
militari integratisi nel tessuto sociale fiorentino intraprendendo vari mestieri. In un brano, la
Canzona di lanzi sonatori, i personaggi sostengono la loro compiuta integrazione: «Benché
noi todesche stare, / tutte siam ben talianate» (5-6). Ma spesso decantano qualità lavorative
superiori alle nostre - «Le cozzone oltramontane / star miglior che le taliane» nella Canzona
di Lanzi cozzoni (3-4) -, anche per giustificare la loro venuta in Italia, come nella Canzona de’
Lanzi tromboni: «Noi fenute delle Magne, / perché intese ha lanze dir / che Talian star buon
compagne, / quando lanzi fuol servir» (5-8). E così nella Canzona di Lanzi campanai: «Alle
belle e buon campane / che far lanzi ioverlicche [valenti, apprezzabili] / […] / Noi gittar
coll’arte nostre / tanto buon campane e nette / che non far qua Talian vostre / che più preste e
miglior gette: / perché tutte l’ingegne mette» (1-2, 5-7), ovviamente col solito doppio senso
sessuato. Si dicono sempre disponibili a insegnarci le loro arti, come nella Canzona de’ Lanzi
stagnatai (11-14), in quella De’ Lanzi tromboni (3-4), e ancora in quella Di Lanzi campanai:
«Se imparar foler da noi / Italian gittar campane, / noi insegnar a tutte foi; / ma bisogna far
pian piane: / che straccar [si stancano] presto Taliana / più che lanze ioverlicche» (35-40).
Ma non di rado si dichiarano miseri e affamati (nonché assetati), come nella Canzona
de’ Lanzi poveri e in quella Di Lanzi stracchi. Frequenti sono anche le allusioni ai loro
pellegrinaggi a Roma (per accattonaggio, ma anche in cerca di indulgenze, in occasione del
Giubileo), come quelle che troviamo nelle citata Canzona de’ Lanzi poveri e in quelle De’
Lanzi che andarono a Papa Lione, De’ Lanzi pellegrini e De’ Lanzi cotti.
Alcune altre “canzone” sono intitolate alla maestria dei lanzi nel suonare determinati
strumenti (Lanzi mastri sonatori di ribecchini, Lanzi tromboni, Lanzi tamburini). La varietà
strumentale non ha precisi confini: da una canzona all’altra abbondano i fiati (ottoni e ance),
le corde, le percussioni, il cui catalogo più ampio sta nella Canzona di Lanzi sonatori. Inoltre,
la Canzona di Lanzi mastri sonatori di ribecchini abbonda di riferimenti alla danza come
forma prediletta di svago e di corteggiamento: «Tutte sempre in ogni loche / lanzi star liete e
galante, / e con gaudio, festa e giuoche / salte, suone, balle e cante» (29-32). I lanzi sanno fare
«belle stampite» (14)9, «cibatte e bel moresche» (36), e anche «quel danz ussesche [zingare] /
che si chiama ciascherine»10.
Nella generale disponibilità esibita dai Lanzi a insegnare a noi italiani le professioni in
cui ritengono di eccellere, i Lanzi si dicono particolarmente disponibili con le «donne belle»
che volessero imparare a sonar»: precisando che esse possono trovarli al loro alloggio «Piazze
Padelle», dietro alle «stufe», cioè ai bagni pubblici (Canzona de’ Lanzi tamburini, 35-38)11.
Oltre che col lavoro, si socializzerà col solito brindisi: «E però foler fenir / a far trinche con
voi tutt: / e noi meglie insegnar tutt / a Talian menar trombon» (ancora nei Lanzi tromboni, 912).
Complessivamente, nelle simulate “autopresentazioni” dei Lanzi si incrociano punti di
vista esterni, cioè pregiudizi e semplificazioni che corrispondono al modo in cui essi erano
percepiti dai fiorentini, e dati realistici quali mestieri, attitudini, costumi: una miscela tipica di
ogni parodia dei vari soggetti stranieri e alloglotti che prenderemo in considerazione. In essa
9
Anche in Canzona di Lanzi sonatori, ma con riferimento alla musica: «star udir dolze stampite / che ti far nostre
stormente» (3-4).
10
Le danze denominate “cibatte” e “ciascherine” non sono state ancora identificate dagli studiosi.
11
Dove si trovava anche un noto bordello (BRUSCAGLI 1986: 296).
5
rientra anche il particolare linguaggio attribuito a questi personaggi: una sorta di italiano
maccheronico con pronuncia tedesca, definito farlingotto nei testi carnascialeschi (in
particolare nella Canzona de’ Lanzi romiti; mentre “farlingotte”, da intendere come plurale
maschile, sta per “Lanzi” tout court nella Canzona de’ Lanzi pellegrini).
Sui modi di espressione linguistica - dei tedeschi come di altre minoranze - gli studiosi
generalmente concordano sul fatto che fossero simulazioni abbastanza realistiche sia delle
pronunce italiane (o meglio dei vari “volgari” italiani) da parte degli alloglotti, sia del loro
modo di inserire nell’eloquio, italianizzandole in qualche modo, parole ed espressioni della
propria lingua d’origine. Scorrendo i testi dei canti dedicati ai Lanzi, la più tipica distorsione
fonetica risulta essere l’assordimento di v in f, ancora oggi un luogo comune in qualsiasi
imitazione comica dell’accento tedesco. Nel lessico che ne deriva, si possono segnalare lemmi
ed espressioni quali “taferne” (taverna), “fote” o “fotte” (vuote), “pofer” (povero), “foce”
(voci), “folte” (volta), “fostre” (vostre), “diafol” (diavolo), “dofe” (dove), “falor” (valore),
“lafore” e “laforìe” (lavori, mestieri), e le voci verbali e avverbiali “afer” e “afeme” (avere,
abbiamo), “befer” o “beffer” (bere), “fenute” (venuti), “fetute” (visto), “foler”, “fuoi”,
“fuol[e]”, “folentier[e]” (volere, vuoi, vuole, volentieri), “mi non fol” (io non voglio). In
alcuni casi, questa tipica idiosincrasia dà la stura ad ulteriori allusioni sessuali e
comportamentali: tipicamente equivoco “fotteghe” per botteghe (Canzona de’ Lanzi
intagliatori, 6)12. Fra le altre, numerose distorsioni caratteristiche, segnaliamo per il momento
anche “noie” (noi), “flasche” (fiaschi), “stazzone” (stazioni, nel senso delle processioni di
chiesa in chiesa): sui meccanismi che le regolano ritorneremo più avanti.
Non mancano dei veri e propri tedeschismi, già studiati da vari studiosi, fra i quali si
possono segnalare: “ritte ritte” (Canzona de’ Lanzi poveri, 8), probabilmente dal tedesco
recht, “proprio”; “micche”, “latte, da milch (Canzona de’ Lanzi poveri, 14); “scutte vaine” per
“buon vino” (Canzona di Lanzi che fanno schizzatoi, ritornello); “lifer trinche” da liefern,
“dare”. E ancora “obiott” nel senso di “perdìo!”, da “Ja bei Gott” nella sua forma svizzera di
“Jo bi Got” (Canzona di Lanzi tagliatori a tavola, 1); e “bracarnorde”, dalle forme medie
tracanolde o dracanolde (moderno trunkebalde) per ubriacone13. “Liffe, liffe” (dall’incipit di
Canzona di Lanzi che fanno schizzatoi), con riferimento al tedesco lippe (labbro) e col
significato di “ghiottone”, è invece, come chiarito dal Singleton sulla scorta di Leo Spitzer,
un’«espressione coniata in derisione dei Tedeschi e degli Svizzeri, allusiva alla loro smodata
avidità di bere e di mangiare, analoga al francese lifrelofre»14.
I canti dei Lanzi sono un genere prettamente maschile. Eccezionalmente, la Canzona di
Lanzi mastri sonatori di ribecchini è cantata dalle compagne tedesche al loro seguito, in lode
delle ribecchine “suonate” (con ovvio doppio senso) dagli uomini. Ma nel corpus dei
carnascialeschi la presenza femminile germanica si estende anche oltre i “lanzi” nella
Canzona di dua tedesche grosse, due donne rimaste incinte durante il loro vagabondaggio
«nel menare le lor pedate / e giacere su per le strade» (17-18), e che nella Canzona seguente
continuano a darsi il buon tempo lungo la strada. Si è visto anche che a volte i “lanzi” di
questo repertorio vanno intesi semplicemente come tedeschi immigrati in Toscana e
variamente integrati nel tessuto sociale e lavorativo.
D’altronde quella dei lanzi non è l’unica parodia musicale, o teatrale, del “Todesco” in
Italia. Una quantità di mestieranti e scolari tedeschi circolava nel nostro paese; a Venezia, ad
esempio, non pochi lavoravano come commercianti o, nei casi meno fortunati, come carbonai
o fornai15. E nel teatro veneziano puntualmente ritroviamo «imitazioni del linguaggio di quei
Tedeschi che scendevano a Venezia, accanto a connazionali impegnati in lucrosi commerci,
12
Fra le altre, numerose distorsioni tipiche, ricordiamo anche “noie” (noi), “flasche” (fiaschi), “stazzone”
(stazioni, nel senso delle processioni di chiesa in chiesa).
13
Cfr. BRUSCAGLI 1986: 100 s., 135, 149, 158.
14
BRUSCAGLI 1986: 123.
15
CORTELAZZO 1976: 177.
6
per esercitarvi umili mestieri»16. Si veda ad esempio il personaggio del servo Corado17 nella
commedia La Rodiana di Andrea Calmo, composta prima del 1541 (e stampata nel 1553 con
l’erronea attribuzione a Ruzante)18. Nel suo linguaggio spiccano tipiche distorsioni vocali e
consonantiche come «patruna» e «zurne» per “padrone” e “giorno”, abusi dell’infinito («come
star», «anche ti pregar»), immancabili riferimenti alla passione per il «vine dulce», quali «mi
no star briaghe», e al ballo, come «mi bale une moresche», imprecazioni («mi no te pagher
per Tie vere»), etc. (I, 3; II, 3; V, 1 e 10). In un’altra commedia di Calmo, La Spagnolas
(1549), il personaggio tedesco del carbonaio ha sei battute, costellate di imprecazioni: nella
più lunga, l’entusiasmo per il vino porta il carbonaio a canticchiare «dan derer don, o, o, dan
deren don, viver voie alieg[h]ermente…». Inserita nel discorso, dunque, si trova una strofetta
cantata, che plausibilmente aveva anche un’esistenza autonoma, dacché il tipico ritornello “a
nonsense” si ritrova pressoché identico in contesti analoghi19: ricollegando così il personaggio
teatrale del tedesco alla sua origine in canzone.
Ma la più tipica incarnazione del personaggio del Todesco nel teatro veneziano si
afferma, già durante gli anni Quaranta del Cinquecento, nei panni del fornaio “mistre Righe”,
ovvero Mastro Arrigo, tramite una canzone che si trova in un’altra commedia di Calmo, Il
Travaglia, messa in scena nel 1546. La canzone è inserita fra le battute pronunciate dal
personaggio di Garbino, un ragazzo (atto II, scena 12). I versi iniziali, che possono essere
considerati formulari, sono i seguenti: «Mi me chiamere mistre Righe, / cul boccale vaghe
aturne». Dopo alcune interruzioni parlate20 la canzone prosegue, a pezzi e bocconi, così:
«Delle donne mi se amighe, / Che sa mettere pan in furne…»21. Il mestiere del fornaio dà la
stura ai convenzionali doppi sensi sulle offerte erotiche del personaggio, senza dimenticare gli
altri suoi stereotipi: il boccale e la musica.
Della parodia linguistica dei germanofoni in Italia abbiamo dunque una tradizione
fiorentina, carnevalesca, che risale ai primissimi anni del Cinquecento (o anche prima), e
un’altra veneziana, di cui è più problematico inquadrare l’origine: se in àmbito teatrale, o
carnevalesco in senso stretto. Sembrerebbe esclusa una popolarità del personaggio del
Todesco nell’àmbito dello spettacolo di strada, dato che nessuna imitazione linguistica
germanofona compare tra le molte parodie di stranieri di cui era capace il famoso buffone
veneziano Zuan Polo, attivo fin dagli anni Dieci, stando al ritratto che ne fa il Caravia nel
Sogno (1541, ma Zuan Polo era già attivo nel 1504); né abbiamo opuscoli o fogli volanti
relativi al personaggio di Mistre Righe in data precedente al Travaglia (anche se ce n’è una di
poco successiva).
Esiste però un’importante testimonianza che risale al 1510 (sulla quale torneremo
estesamente più avanti), dove Louis Hélian lamenta la passione veneziana di mettere in scena
personaggi ridicoli di tedeschi (e di francesi). Apparentemente, dunque, la tradizione veneta
sarebbe di origine scenica, con quegli imprecisati precedenti dei primi anni del secolo, fino a
ricomparire nelle commedie di Calmo degli anni Quaranta, in varie incarnazioni. Quella di
Mistre Righe dovette riscuotere un buon successo, visto che nel 1547 (l’anno dopo la messa in
scena del Travaglia) il tipografo Agostino Bindoni pubblicava a Venezia Le canzonette [= “la
canzonetta”, stante la storpiatura parodistica delle finali di parola] de Mistro Rigo Forner
16
CORTELAZZO 1971-72: 113.
Corrado (anche nelle forme “Corado” e “Currado”) viene considerato un nome tipicamente tedesco, e lo si trova
impiegato paradigmaticamente anche nella Canzona de’ Lanzi cotti e in quella De’ Tedeschi.
18
D’ONGHIA 2009: 4.
19
Si veda il testo di Matona mia cara, musica di Orlando di Lasso, dove ogni distico è seguito dal ritornello «Don, don,
don, diridiri, don, don, don».
20
«Ho, messere, messere! cantate un poco la canzone de mistre Righe e guardate se questa gnàchera [nacchera o
tamburello saraceno] ha buon suono, volete?»; e più avanti: «Aspettate, ch’io vi mostrerò: pigliate con questa mano la
gnàcara e con l’altra la mazza e ditte como io: “Mi me chiamere mistre Righe”: mo dite!»21
Cfr. CORTELAZZO 1976: 180; VIANELLO 2005: 144 e n. 39.
17
7
Todesco, «uno dei tanti opuscoletti che in quel periodo riproducevano senza musica i testi di
canzonette con chiara ascendenza scenica»22.
Naturalmente, i due exploit di Mistre Righe del 1546-47 (nel Travaglia e sull’opuscolo
di Bindoni) potrebbero entrambi derivare dall’indipendente successo della canzonetta e dalla
sua circolazione orale negli anni immediatamente precedenti. In ogni caso, il personaggio si
affermerebbe a Venezia nella sfera della parodia musicale “todesca” negli anni Quaranta del
Cinquecento, seguendo di qualche decennio quella carnascialesca dei lanzi a Firenze. Se non è
nato nel Carnevale, tuttavia, Mistre Righe deve esserci entrato almeno in un secondo
momento: perché del Carnevale si trova l’apologia nelle analoghe strofette di un altro
opuscolo, di poco posteriore: «Mi me piase el Carneval / quelle zurne si divine / che con
zuche e con buchal / le va inturne e con galline / e de sere e de matine / se fa feste per ste cal. /
Mi me piase Carneval …». L’opuscolo riproduce Le Ridiculose canzonette de Mistre Gal
forner, padre de Mistro Rigo Todesco, un’altra canzonetta, che documenta la creazione di un
nuovo personaggio ricalcato su quello di Mistre Righe e con lui imparentato a testimonianza
della popolarità di simili personaggi, a cui è legata una certa fortuna nell’editoria popolaresca.
La “famiglia” di Mistre Righe torna infatti una terza volta, a stampa, nella Canzonette De
Mistro Sbrufaldo Thodesco, Fratello di Mistro Rigo Forner: «Mi son quel mistro Sbrufalde /
Bon Pistor, & bon Furner, / Anche Faure, e bon Murer. / E valente Marangon. Trinche baine
me sa bon…»23. È una piccola saga familiare, dove tutti i membri della schiatta condividono
la passione per il boccale, benché Sbrufaldo insista anche sui molti mestieri che conosce:
annotazione che riflette quella che era, nell’opinione comune, la versatilità e l’arte di
arrangiarsi dei tedeschi, a Venezia come già a Firenze, secondo quanto testimoniano - pur
umoristicamente - le parodie “todesche” prodotte in entrambe la città. Si fa strada, insomma,
l’ipotesi che questi personaggi siano ovunque di origine carnevalesca, salvo ad essere poi
recuperati nel teatro e nello spettacolo comico.
Intanto va notato che il fatto che il capostipite dell’immaginaria famiglia, Gal,
rivendichi la sua passione per il Carnevale veneziano, e il moltiplicarsi di personaggi
analoghi24, costituiscono forti indizi della penetrazione del personaggio del tedesco beone (ma
gran lavoratore e gran cacciatore di femmine) nel contesto carnevalesco lagunare, in piena
analogia con quello fiorentino. Resta al momento impossibile stabilire sia il rapporto fra le
due tradizioni (ad esempio se l’una sia un adattamento dell’altra), sia l’eventuale dipendenza
del personaggio e della sua fortuna teatrale a Venezia da una già radicata identità di maschera
carnevalesca, prima ancora che teatrale (nel qual caso bisognerebbe risalire, stante la
testimonianza di Hélian, ai primissimi anni del Cinquecento o addirittura poco prima, in
contemporanea con i lanzi fiorentini).
Per il momento, restando a Venezia, il confronto fra i personaggi tedeschi di Calmo e
quelli delle pubblicazioni popolari testimonia comunque un’osmosi fra teatro e Carnevale
veneziani, con scambio non solo di singoli personaggi, ma dei relativi modi di esprimersi
linguisticamente, e delle canzoni che vi erano associate. Battute e canti avevano in comune il
fatto di simulare un’autopresentazione dei personaggi, una fittizia self-definition nella quale in
realtà si può leggere quale fosse la visione - semplificata dall’opinione comune e stereotipata
dalla finzione scenica - di questa minoranza straniera in una dei più importanti stati italiani
rinascimentali.
22
VIANELLO 2005: 144.
Entrambe le cit. in CORTELAZZO 1976: 181.
24
Altri “mistri” seguirono, sulla scia della fortunata invenzione, come “mistro Pizin da le calde arost” e “mistro
Bonetto che vende le lesse” (VIANELLO 2005: 144). Ma non tutti erano tedeschi, e se ne trova almento un
esempio schiavonesco: nella raccolta del 1547 del Bindoni contentente Le canzonette de Mistro Rigo Forner
Tedesco si trovano infatti, precisamente annunciate nel prosieguo del titolo, anche Le Stanze de un Medico
Schiavon che se chiama mistro Damian (CORTELAZZO 1976: 180 n. 18).
23
8
Con riferimento alle parodie venete dei “todeschi”, vari studiosi hanno passato al vaglio
le idiosincrasie nella pronuncia gergale dell’italiano. Vi si rileva, sul piano fonetico,
l’assordimento di v in f, la chiusura di o in u, l’indebolimento -o > -e e altre alterazioni
vocaliche in finale di parola; sul piano grammaticale e lessicale, invece, l’abuso dell’infinito,
anche tronco; “mi” per “io”; “stare” per essere”; e qualche tedeschismo fra i lessemi più
direttamente riferibili agli stereotipi del personaggio, come tanz, trinche, o vaine (ted. Wein)
per “vino”25. Confrontandole con quelle stereotipate nelle parodie fiorentine, le idiosincrasie
mediamente coincidono: il che, sia pure sotto il filtro di una codificazione tendente allo
stereotipo, credo confermi il dato realistico sotteso alla parodia linguistica. Ancora una volta,
la parodia della minoranza alloglotta si rivela come una miscela di realtà e pregiudizio.
Allo stato attuale della documentazione, per sintetizzare quanto finora discusso,
possiamo dire che la parodia del tedesco nasce nel contesto carnevalesco, quanto meno a
Firenze, dove essa è documentata dal primo Cinquecento (o poco prima). Pur presente in varie
commedie veneziane di Andrea Calmo, tali parodie allignano soprattutto nei contesti musicali
e nelle forme cantate: anche di genere madrigalesco, come vedremo adesso. In questo
ulteriore repertorio, colpisce il ritorno di stereotipie ormai note in espressioni o anche interi
versi, che ricorrono in contesti distinti. Ad esempio i testi dedicati ai lanzi, sia nei
carnascialeschi che fra gli autori di madrigali, sono spesso molto simili. Kirkendale ha
evidenziato il fenomeno prendendo a campione i carnascialeschi del Giuggiola, dove si
trovano i versi «Questi Lanze buon compagne» e «Mi star qui sì buon compagne», e l’analogo
incipit in Mi star bon compagnon di Marenzio, conservato da Orazio Vecchi in un brano della
Selva di varia ricreatione (Diversi linguaggi)26:
Prima Parte
Mi star bon compagnon
mi trinchere co’l fiascon
Mi piasere moscatelle
Mi far garaus [uccide] di bon.
Seconda Parte
Mi folentier star fol [pieno]
Mi far tutt’ in un tru[n]ch [“drunk”]
Mi mangere bon platais
Mi folere star contente
Mi non esser minchion
Mi star bon compagnon.
A sua volta, l’incipit di Marenzio si ripresenterà cantato dai “todeschi” nelle Veglie di
Siena di Vecchi e nella Barca di Venetia per Padova di Banchieri.
Un caso particolare sta nell’approccio al tema da parte di Orlando di Lasso. Egli
musicherà un testo identico a quello su Mistre Righe dei secondi anni Quaranta, ma in una
versione molto più completa (a parte secondarie varianti morfologiche o ortografiche):
Mi me chiamere Mistre Righe
Che con le bucal vò inturne;
De le donne mi son amighe
Perché mittere pan’ in furne,
Tutte nott’ e tutte zurne.
Mi me piase magnar fighe [fichi].
25
26
CORTELAZZO 1976: 177; KIRKENDALE 1972: 188.
KIRKENDALE 1972: 187.
9
Mi me chiamere Mistre Righe.
Quando vagh’ [le donne] a comandar,
Se non è levad’ [lievitato] el pan,
Preste mi face levar [lievitare],
Quando mette le mie man;
Malvasie e tribian
Me dar poi per mie fatighe.
Mi me chiamere Mistre Righe.
Quand’ a cas’ el pan portar
Le matonn’ [signore] e masserette [merciaie]
Dise: «Care le mie fornar,
Canter’ un poch’ un canzonette».
E mi preste con pivette [piva, cornamusa]
Un canzon sonar de dighe.
Mi me chiamere Mistre Righe.
Ma Lasso riprende, in Matona mia cara, anche il personaggio del Lanzo: «Matona mia
cara, mi follere canzon, / Cantar sotto finestra, Lantze buon compagnon», con l’invito ad
ascoltarlo e le immancabili promesse “metaforiche” - «Com’andar alle cazze [cacce], cazzar
con le falcon, / Mi ti portar beccazze, grasse come rognon» - che si fanno ormai esplicite
nell’ultimo distico: «Se mi ti foller bene mi non esser poltron, / Mi ficcar tutta notte, urtar
come monton». L’espressione “bon compagnon”, la metafora sessuale del “monton”, la
negazione di essere un “poltron” (che nel lessico familiare del Rinascimento sta per
“vigliacco” o “buono a nulla”) sono tutte tipiche del genere. Tuttavia, in questa
reinterpretazione del personaggio, si colgono anche note non convenzionali. Nella quarta
strofa, ad esempio, spicca un ironico vezzo umanistico dell’autore del testo (che potrebbe
essere anche lo stesso Lasso), laddove il personaggio si giustifica della prosaica ruvidezza con
cui esprime le sue profferte: «Se mi non saper dire tante belle rason, / Petrarcha mi non saper,
ne fonte d’Helicon». Inoltre, ogni distico è seguito dal ritornello «Don, don, don, diridiri, don,
don, don», che si è visto associato al personaggio di Mistre Righe. I “todeschi” di Lasso sono
dunque frutto di una consapevole contaminazione di due tipi: quello fiorentino del Lanzo, e
quello veneziano del Maestro Arrigo. Se ciò non stupisce come scelta autorale, essendo ben
note sia la passione di Lasso per parodie e generi minori della musica del suo tempo, sia la sua
tendenza all’eclettismo, i suoi due “todeschi” appaiono come chiara testimonianza
dell’evoluzione delle tradizioni originali, che nella seconda metà del Cinquecento si
sviluppano autonomamente, arricchendosi di dettagli inediti.
Ad esempio, sul piano linguistico, è notevole la canzone trasmessa nella stampa
popolare intitolata La Galea da Valenza con una Canzon che chi non fa co faro mi hauera la
tacha, anche per la sua data del 1549, a ridosso dei personaggi calmiani. Nel distico «Li
todeschi non mi lassa / intertoph ala segura», Cortelazzo scorge due “prestiti auditivi”
altrimenti inediti: in intertoph l’esclamazione “der Teufel!”, cioè “il diavolo…”; e più avanti
loberlich, in cui risuona lo ioverlicche del ritornello nella carnascialesca Canzona di lanzi
campani, e che probabilmente è il complimentoso löblich (in medio-alto tedesco) lobelîch,
che sta per “laudabilis”27. Un estremo segno di evoluzione, e dunque di fortuna e vitalità, del
personaggio.
Per noi è rilevante che questa produzione parodistica sulle minoranze europee in Italia si
esprima spesso e volentieri in forma di canzone. La documentazione suggerisce anzi sovente 27
CORTELAZZO 1976: 174 s.
10
come nel caso dei canti carnascialeschi fiorentini, per i Todeschi, e in vari altri casi che
vedremo fra breve - che il personaggio e la sua “maschera linguistica”28 siano nati proprio in
seno alla musica vocale. Nel contesto veneziano, negli anni Quaranta del Cinquecento, il
Todesco risulta legato a una sua messa in scena in forma di canzone sia nel teatro di Andrea
Calmo, sia nel circuito degli opuscoli popolari. E durante la seconda seconda metà del
Cinquecento la diffusione “cantata” del personaggio del Todesco dimostrerà indiscutibilmente
l’esistenza di una tradizione già molto solida.
Troviamo infatti nella letteratura musicale molti altri riferimenti alle varie incarnazioni
del nostro tipo, e li incontriamo nei generi più vari: in raccolte di villotte, in libri di liuto,
perfino in descrizioni musicali di battaglie. Come i loro predecessori della prima metà del
secolo, tutti questi Todeschi sono rimasti alle prese con alcolici o prostitute29: si vedano, per il
bere, la villotta Trince got è malvasia (1566)30, e Mi stare pone Totesche, di cui parleremo qui
di seguito; e per le donne di facili costumi Patrone, belle patrone di Ghirardo da Panico (nella
prima raccolta di villotte di Filippo Azzaiolo, 1557), dove il florilegio di verbi già
caratteristici dell’eloquio del Todesco (“dancere”, “spilere”, “springhere”, con il danzare e
sbevazzare tipici del personaggio) si arricchisce degli altrettanto eloquenti “basere” e
“minere”31.
Tuttavia, come è dimostrato anche dai cimenti in materia di Lasso, in questa produzione
più tarda non mancano gli elementi di novità e di perfezionamento. Restando alle peculiarità
linguistiche, il testo forse più ricco di tedeschismi nel nostro corpus lo troviamo usato nel
Libro di Cosimo Bottegari fiorentino: una raccolta di brani (la maggior parte dei quali in
forma di villanella o canzonetta) per voce e liuto di un mercante e compositore che fu per
circa cinque anni, a partire dal 1573, alla corte del Duca Alberto di Baviera (lavorando nella
cappella guidata da proprio Orlando di Lasso) e poi, tornato a Firenze verso la fine del
decennio, a quella del Granduca di Toscana Francesco I. Il pezzo Mi stare pone Totesche è
notevole anche per lo sviluppo del tema alimentare. Qui il “totesche” spiega precisamente
quali siano - oltre all’amata malvasia - le sue preferenze culinarie:
Trinche coraus bon compagnon!
Mi mancerò tante le suppe,
bon plat ais chinche di craut,
hobren, muesse, stochfish auch.
Questi quattro versi ricorrono concludendo (con un’unica variante) tutte e quattro le
sestine del componimento. Data la conoscenza del tedesco sicuramente acquisita in Baviera,
non si può escludere che il testo sia stato elaborato dallo stesso Bottegari, che avrebbe
approfittato della sua confidenza con lingua e costumi locali presso il Duca Alberto. Ma la
melica risulta notevole anche per gli altri versi. Se non si manca di ricordare la ben nota
passione per il canto e la danza del personaggio («Mi springhere, salter’ un danzen / mi
cantare belle canzon!»), questi però, per una volta, rifiuta l’amore delle donne, spaventato dal
rischio di contrarre il “mal francese”. Anche l’incipit «Mi stare pone totesche / Et fare sempre
rason» si distacca dal solito standard.
Sempre arricchendosi di sviluppi dei temi consueti, i lanzi entrarono come personaggi di
mascherate e protagonisti di canzoni perfino fuori dall’Italia. Non stupisce che ciò si verifichi
in un ennesimo contesto carnevalesco, peraltro non distante da quello veneziano. Nella
Repubblica di Dubrovnik e nel resto della Dalmazia si tenevano infatti, nel periodo di
28
Adotto qui un’acuta definizione di ----------------------------------KIRKENDALE 1972: 187 e n. 25.
30
In Villotte alla Napolitana a tre voci, con una todescha, non più stampate (Scotto, Venezia, 1566).
31
VATIELLI 1921: 639 s., che trova espressivo il «ritmo energico e brioso» e interessante «il lato armonico per
indovinate, e in componimenti così fatti non solite, modulazioni, e per la caratteristica cadenza finale sulla dominante».
29
11
carnevale, mascherate e altri spettacoli pubblici, nei quali si intonavano canti carnevaleschi in
lingua croata32. Ed esiste una mascherata in lingua croata di Vetranović, Laci Alemani,
trumbetari i pifari, dove i lanzi ripropongono la loro perizia musicale sugli strumenti a fiato, e
l’offerta di insegnarne l’arte ai cittadini locali (qui i ragusei, concittadini dell’autore),
accontentandosi di essere ricompensati con un semplice, amichevole brindisi. Eccone la
traduzione:
Siam venuti in questa terra
sappiatelo bene ora
per insegnare a’ Ragusei
a soffiare nelle trombe.
Siamo lanzi, trombettieri
gran maestri, sappiatelo
che suoniamo i pifferi
senza chiedere la paga
ma suoniamo per amore
non vogliamo da voi la paga
ma brindar con voi vogliamo
dopo la nostra pimfarata33.
Ma esistevano anche altre alternative alla caratterizzazione da lanzichenecco o da
maestro artigiano: ad esempio, i personaggi di teutonici che frequentavano le università di
Bologna e Padova. Esiste un dialogo anonimo del 1567 tra uno di questi personaggi e uno
Zanni34, il servitore nella Commedia dell’arte, popolare anche nell’arte di strada per i suoi
battibecchi con il Magnifico, anziano e ricco veneziano - qui eccezionalmente sostituito da un
Todesco. Eventualmente, e come già fra i canti carnascialeschi fiorentini, il personaggio
teutonico poteva anche essere declinato al femminile: in una “villotta alla napoletana” del
senese Pompilio Venturi, Andand’ un giorn’ a spasso per Viena (1569), l’autore racconta un
suo incontro con una tedesca che per strada gli chiese di offrirle del vino: «Et io ch’era Italian
non l’intendia / Vuelsch capon, e sempre mi dicia / Gib mir fluckx brodt un Vuoin un malzia
[malvasia]»35.
Durante l’ultimo scorcio del Cinquecento il personaggio-standard del Todesco dovette
farsi più convenzionale e stereotipato, come si può osservare nel genere oggi definito
“commedia madrigalesca”, e all’epoca detta “comedia harmonica” e simili. Tale genere opera
infatti delle sintesi nel corpo delle diverse tradizioni, e le travasa nella tecnica dei “diversi
linguaggi”, con vari personaggi che alternativamente o simultaneamente si esprimono
ciascuno nella sua lingua o dialetto. Del Todesco, i due principali autori di commedie
madrigelesche, Orazio Vecchi e Adriano Banchieri, recupereranno la passione per il canto,
specie se occasione per brindare, o per celebrare l’agognata bevuta. Ma i versi intonati
suonano ormai formulari, con rare varianti.
Ad esempio, Kirkendale fa osservare che l’incipit sul tedesco “buon compagnone”
usato da Marenzio (e che abbiamo già avuto occasione di considerare) sarà nuovamente
sfruttato dallo Orazio Vecchi nelle Veglie di Siena (1604). Mentre una variante del secondo
verso in Marenzio sarà inserita nel brano Venetiano e Thedesco, facente parte della Barca di
32
«I testi poetici e i documenti d’archivio conservati testimoniano che le mascherate, come peraltro la maggioranza
delle altre forme musicali e sceniche (soprattutto se non venivano incluse nelle feste ecclesiastiche, liturgiche e
paraliturgiche) avevano luogo prevalentemente in lingua croata» (STIPČEVIĆ 1993: 36).
33
STIPČEVIĆ 1993: 35 s.
34
KIRKENDALE 1972: 230.
35
CORTELAZZO 1976: 177 n. 13.
12
Venetia per Padova di Banchieri (1605). Annunziato dalla didascalia che lo presenta «con il
fiasco»36, il “Thedesco”, nella parte del tenore, brinda così:
Brindes iò iò iò iò iò iò
Sgott mi trinc con el flascon
Brindes iò iò iò verlich
Sgott mi piaser el vin bon
Brindes iò iò iò iò iò.
All’osservazione di Kirkendale va aggiunto che il nostro personaggio compare, nella
Barca, anche nel brano immediatamente precedente, Cinque cantori in diversi lenguaggi, che
presenta i vari personaggi con le rispettive caratteristiche linguistiche, mettendo in bocca al
“Tudesch” i seguenti versi: «Mi star Tudesch / mi canter un bassott / Mò prima foller far un
trinc e sgott». Egli coinvolge in quest’invito tutti gli altri “cantori in diversi lenguaggi”, che
gli rispondono in coro: «O buono o buono hor cinque siamo / Prima si bevi doppo cantiamo».
E in effetti, nel brano successivo, dopo il brindisi cantato dal Tedesco tutti gli altri si uniscono
alla bevuta.
Questo insistito stereotipo del brindisi, che non trovammo nel contesto dei
carnascialeschi fiorentini, non è esclusivo della parodia degli alloglotti germanofoni. Nel
secondo Cinquecento esso si trova ad esempio anche nel contesto parodistico degli
“stradiotti” balcanici (in questo caso albanesi), di cui ci occupiamo più avanti. Nella
Barzeletta de quattro compagni Strathiotti de Albania, zuradi di andar per il mondo alla
ventura capo di loro Manoli Blessi da Napoli di Romania (1570) si legge infatti: «Una
prindes [brindisi] fo levao / Al cercassa da Manoli»37.
D’altronde, la debolezza per il vino veniva attribuita non solo ai “Todeschi”, ma a tutti
gli stranieri (e a vari marginali comuni), già in una composizione contenuta nelle Rime
pescatorie del Calmo, una raccolta pubblicata nel 1553 che, come evidenziato nel titolo
completo38, si componeva sia di forme poetiche in senso stretto che di poesia per madrigali e
canzoni: «Possa perder el vin i Borgognoni, / I Francesi, i Todeschi, i Transilvani, / I zaffi, i
bravi, con tutti i Schiavoni»39. L’anatema guadagna particolare enfasi in quanto pronunciato
da un veneziano, che tradizionalmente di vino (e avvinazzati) dovrebbe essere esperto.
Il mutare delle condizioni storiche e politiche, delle dinamiche fra gli stati europei, della
circolazione (ora migratoria, ora aggressiva) degli stranieri in Italia, costituisce il limite posto
alla sopravvivenza dei personaggi alloglotti nella letteratura popolare e nel teatro comico. La
loro vita, certo per un maggiore conservativismo di fondo delle forme festive, sarà più lunga
nel contesto carnevalesco. Ancora nel 1788 Goethe lo vedeva rappresentato nel Carnevale
romano40.
1.2 Ebraiche ed “Hebrei”
Differenze e distinzioni fra il contesto culturale fiorentino e quello veneziano si presentano
anche rispetto alle parodie degli ebrei, anche se è nel primo che emerge il nuovo personaggio.
36
KIRKENDALE 1972: 189. Banchieri usò il personaggio comico del tedesco anche in chiave strettamente
letteraria, nella sua raccolta di novelle Trastulli della villa (1617), in particolare nella Novella del Tedesco
ubriacato e nella Novella del Tedesco insaziabile (KIRKENDALE 1972: 187 n. 22).
37
Cit. in CORTELAZZO 1976: 179 n. 17.
38
Le bizzarre, faconde, et ingeniose rime pescatorie, nelle quali si contengono sonetti, stanze, capitoli, madrigali,
epitaphij, disperate, e canzoni. Et il commento di due sonetti del Petrarcha, in antiqua materna lingua per m. Andrea
Calmo.
39
Cit. in CORTELAZZO 1976: 182 n. 21.
40
KIRKENDALE 1972: 187 n. 23.
13
Due carnascialeschi di fine Quattrocento gli sono dedicati: i testi sono entrambi di
Giovambattista dell’Ottonaio, araldo della Signoria di Firenze e autore di oltre trenta testi di
canti (fra i quali tre “canzone” dei lanzi). Nella Canzona de’ giudei gli ebrei si lamentano di
essere stati espulsi da Firenze, mentre i fiorentini fanno i prestatori ad usura esattamente come
loro; il canto è anche un’eulogia sul mestiere di prestatore, per il quale vengono elargiti vari
consigli. La Canzona de’ giudei battezzati celebra invece i ritorno degli ebrei in città, dopo la
conversione al cristianesimo. La musica della prima canzona è di Alessandro Coppini,
organista e teologo fiorentino41; quella di Per non trovar di Giovanni Serragli.
Come è tipico della poesia comica e satirica fiorentina (con l’autorevole eccezione di
uno sferzante sonetto di Luigi Pulci dedicato a Napoli e al dialetto napoletano), i due prototipi
“ebraici” carnascialeschi non mostrano alcun interesse a caratterizzare i personaggi attraverso
un’imitazione del loro linguaggio; d’altronde essi non vengono neppure derisi, essendo la loro
presenza - come dimostra la sequenza stessa delle due “canzone” - funzionale all’economia
della città, a patto di rinunciare alla propria religione.
Nel teatro del Cinquecento, invece, il personaggio del Giudeo - sempre di contorno, mai
fra i principali - esordisce nella Cortegiana di Pietro Aretino, che lo riprenderà pochi anni
dopo, più concisamente, nel Marescalco. Quest’ebreo dell’Aretino appare più vessato che
deriso. Nella Cortegiana è un venditore ambulante, di ferri vecchi e abiti usati42, a cui rubano
con l’inganno un saio: e il ladro lo befferà facendolo arrestare. Notiamo, tra i dettagli più
significativi, che l’ambulante giudeo si dice fermissimo a non convertirsi mai al Cristianesimo
(ma, ironia della sorte, si farà arrestare con il saio indosso). Altri dettagli in parte
costituiscono dei cliché pregiudiziali - lo stereotipo antisemita del “crocefissore di Cristo” -,
in parte offrono qualche contributo realistico e informativo, ad esempio alludendo al fatto che
per strada gli ebrei, riconoscibili dal contrassegno rosso che portano in petto, vengono fatti
oggetto di lanci di scorze e frutti da parte dei ragazzi.
Osservo che le due commedie furono scritte l’una nel 1525 (La Cortegiana, composta a
Roma e rimasta per alcuni anni inedita, fu poi rielaborata e pubblicata dall’autore a Venezia
nel 1534) e l’altra fra il 1527 e il 1530: dunque, rispettivamente, poco prima di lasciare la città
papalina e non molto dopo il trasferimento dell’autore da Mantova a Venezia. La dimensione
del personaggio non è fiorentina e nulla ha a che fare coi carnascialeschi: si tratta di un
modesto ambulante e non di un usuraio. L’azione è ambientata a Roma, e impressioni romane
possono aver influito sul modo in cui l’ebreo viene trattato. Nel personaggio, comunque, è
assente qualsiasi caratterizzazione sia locale che carnevalesca: salvo il ricordo, forse, della
crudeltà con cui il Carnevale romano trattava i giudei43. Va anche considerato che il
personaggio resterà quasi del tutto assente nella produzione letteraria e teatrale veneziana del
primo Cinquecento. Quest’ebreo dell’Aretino non può dunque essere definito come un
prototipo44, perché non ha nulla di “tipico”, non attinge a stereotipi caratteriali e nemmeno li
introduce. Semmai, come possibile eco carnascialesca, la curiosità circa la sua posizione
sociale sembra focalizzata sulla scarsa disponibilità a convertirsi al Cristianesimo, e dunque a
integrarsi, neutralizzando la propria “diversità”.
Per gran parte del Cinquecento, dunque, l’attenzione verso il personaggio dell’ebreo
resterà molto limitata. Nel corso del Rinascimento avanzato la sua presenza più assidua
emergerà non tanto nel contesto teatrale, quanto in quello musicale: in particolare in quel
41
Coppini è uno dei tre soli autori a noi noti della musica per i canti carnascialeschi, assieme a Heinrich Isaac (Canto
delle dèe) e Bartolomeo Florentino (Canto di pastori bacchiatori di bassette) (GALLUCCI 1981: vii). Per il repertorio
carnevalesco Coppini compose anche un Trionfo di diavoli, un Canto di uccellatori alle starne, e un interessante Canto
di zingane (cioè “di zingare”).
42
Nel Marescalco si tratta invece di un venditore ambulante di gioielli e abbigliamento da donna, che bussa di casa in
casa.
43
Per caratteristiche e contesti delle “giudiate” romane, v. infra in questo stesso paragrafo.
44
Come ha fatto, in modo discutibile, Klein affermando che il personaggio del Giudeo nell’Aretino va considerato
come il «capostipite di tutti gli Ebrei da commedia che vennero appresso» (cit. in RE 1912: 384).
14
genere di parodia cantata che verrà detta “ebraica”. È questo corpus, abbastanza esteso (e,
come vedremo, eterogeneo), a conservarci anche le prime occorrenze di parole ebraiche
riadattate, espressioni di una parlata giudeo-italiana che nei repertori melici, letterari e teatrali
costituiranno, nel tempo, un piccolo serbatoio di formule continuamente riutilizzate.
Don Harrán ha identificato circa una dozzina di composizioni vocali che classifica
omogeneamente come “ebraiche”, in una serie che lo studioso fa partire dai due citati canti
carnascialeschi45. La sua sequenza si estende su un arco temporale di oltre un secolo,
arrivando fino ai primi decenni del Seicento, e le dodici canzoni appartengono ad almeno otto
compositori diversi. A dispetto di come le presenta Harrán, esse non sono affatto omogenee, e
la loro sequenza storica e cronologica presenta troppe soluzioni di continuità. Dopo i due
precedenti carnascialeschi, infatti, il tema subisce un’eclisse di circa mezzo secolo: sarà
ripreso solo negli anni Quaranta del Cinquecento, e in tutt’altro ambiente culturale. Il primo
compositore di una “ebraica” non fiorentina è infatti il napoletano Giovan Domenico del
Giovane da Nola, che pubblica Ecco la nimpha ebraica chiamata nel 1545, nel contesto
stilistico della “canzona villanesca” a tre voci. Sul medesimo testo Orlando di Lasso, che
pochi anni dopo sarebbe stato vicino al collega napoletano subendone varie influenze46,
avrebbe composto la sua Ecco la nimph’Ebrayca chiamata, pubblicata nel 1581 in una
raccolta che conteneva, per esplicita ammissione dell’autore, parecchie composizioni
giovanili. Il testo critica una donna ebrea bruttissima e maligna, «faccie da ianara» (faccia da
strega), «occhi de bove naserchia accorciata / boccha de sbecchia barba de cochiara», vittima
ma anche autrice di prese in giro: «delleggia sempre et sempre è dellegiata». Il ritornello si
basa sui verbi all’imperativo “lingnite, pingnite, stringnite”, cioè “lusingate, spingete,
stringete”47: termini che si possono riferire sia ad azioni magiche, “da ianara”, sia a
indesiderate pressioni di tipo erotico. Siamo dunque lontanissimi dallo stereotipo del mercante
o dell’usuraio ebreo, e vicini semmai al filone già tardomedievale del vituperium. Non c’è
alcuna continuità né con i personaggi del Carnevale fiorentino, né con quelli dell’Aretino.
Tuttavia, appena un anno dopo l’ebraica di del Giovane, il personaggio ebraico ritorna
nuovamente declinato “al femminile”. Nel 1546, infatti, Lodovico Novello pubblica la
canzone Quattro hebbree madonne siamo nella sua raccolta di “mascherate” musicali. Si
trattava di composizioni a quattro voci, per lo più strofiche48, che per definizione riconducono
al contesto carnevalesco, come chiarisce sia il titolo completo della raccolta (Mascharate di
Lodovico Novello di piu sorte et varii soggetti appropriati al carnevale novamente da lui
composte et con diligentia stampate et corrette libro primo a quatro voci), sia la varietà dei
suoi soggetti. La collezione raggruppa mascherate “da hebree”, “da mori”, “da nimphe”, “da
rufiane”, “da scultori”, “da calzolari”, “da vendi saorine”, “da orefici”, “da maestri di ballar”,
“da porta littere”, “da fabri”, con quell’alternanza di tipi etnici e mestieri che già conosciamo
dalla tradizione carnascialesca fiorentina, e i medesimi doppi sensi licenziosi49. D’altronde, la
fisionomia culturale di Novello - pur essendo l’unico autore veneto nell’intero corpus delle
“ebraiche” - tende notevolmente verso il modello fiorentino. Veneziano (di casa anche a
45
HARRÁN 1989: 118 n. 60; HARRÁN 2009: 428 s., n. 6.
Secondo Galanti, che riassume opinioni musicologicamente consolidate fino al secondo dopoguerra, Lasso «durante
un suo soggiorno napoletano [1549-51] aveva avuto modo di conoscere e di apprezzare l’opera di Giovanni Domenico
da Nola, mettendone a profitto non pochi elementi melodici» (GALANTI 1954: xxv). In realtà non esistono documenti
utili a rintracciare la presenza di da Nola a Napoli tra il 1547 e il 1563: Donna Cardamone ritiene che probabilmente
fosse fuggito a Roma per ragioni politiche (CARDAMONE 1999: 88), e proprio a Roma, in un cenacolo di napoletani
esuli, avrebbe potuto esercitare la sua influenza stilistica su Lasso.
47
CARDAMONE 1999: liii s.
48
Dalla dedica: «Di queste come V.S. potra vedere tutte le stanze che seguiranno la prima si cantano sopra le noti di
essa prima ne qui alcuno potra pigliare errore per che altro canto non ci e che de una sola stanza per ciaschaduna
imascherata salvo che di tre, quali sono questi: i gioiellieri, gli fabri, & i Ballarini. di queste tre l'ultima stanza di
ogniuna ha un Canto per se & tutte le altre si cantano come la prima, come si comprendera chiarissimamente V.S. le
accetta con lieto animo & mi comandi» (cit. in FELDMAN 1995: 58 n. 24).
49
FELDMAN 1995: 59.
46
15
Padova), dottore in filosofia e medicina, aduso a condividere incontri di poesia, polifonia e
ballo con illustri colleghi (frequentò il Tasso, il Ruscelli, il Dolce, l’Atanagi)50, Novello fu
infatti poeta “toscano” per scelte stilistiche e linguistiche, autore di sonetti ma anche di una
“canzona”, indirizzata Contra l’eresia: è plausibile che nelle sue mascharate abbia tenuto
presenti i canti carnascialeschi. Questo elemento di continuità, che fa seguito a uno di rottura
(il genere femminile anziché maschile), segnala la perdurante indeterminatezza negli stadi
iniziali della parodia degli ebrei.
L’unica costante sta nel fatto che tutti gli autori fin qui considerati - dell’Ottonaio, del
Giovane, Lasso, Novello - hanno praticato espressioni di tipo carnevalesco. Ciò contraddice
definitivamente un’opinione spesso reiterata, a partire da Enrico Re, che [pur consapevole dei
precedenti letterari due-trecenteschi] riteneva che il personaggio dell’ebreo fosse stato creato
soprattutto «dai comici di corte e di piazza»51. Opinone ribadita anche recentemente da Erica
Baricci, la quale ha sostenuto che i principali testi contenenti queste parodie - del tardo
Cinquecento, come l’Amfiparnaso e il Ragionamento tra due Hebrei - si rifarebbero a un
«sostrato […] da ricercare, fondamentalmente, nelle piazze dell’epoca, dove saltimbanchi e
attori cantavano e interpretavano scenette “all’improvviso”»52. In mancanza di documenti di
data più alta, dobbiamo invece rilevare il comune approccio carnevalesco alla parodia
mostrato da tutti i primi autori di composizioni musicali con personaggi ebrei nel ruolo di
protagonisti.
Musicalmente, invece, la varietà di forme e stili impiegati resta piuttosto ampia: dalle
ballate alle villanelle, passando - con Ghirardo da Panico, come vedremo fra breve - anche
dalle villotte. Tutti questi generi, comunque, hanno un timbro popolaresco e condividono
alcune caratteristiche della frottola53, per la prevalenza del cantus sulle altre voci, per
l’accompagnamento prevalentemente omoritmico, per lo stile sillabico, e - aggiungiamo pure
- per una certa sostanza scenica o pseudoteatrale proposta dall’insieme di testo e musica. Ma
non si può dire che esista, fino a questo momento, una vera e propria “ebraica”, sia per
l’assenza di caratteri linguistici specifici dei personaggi, sia per la loro dimensione
eterogenea, essendo declinati ora al maschile ora al femminile: e anzi, all’inizio di questa
produzione, sono soprattutto le donne ebree (quelle di del Giovane e Lasso, e quelle di
Novello) che che per varie ragioni - sia estetiche che morali - possono essere oggetto di
dileggio, forse anche di disprezzo. Nel complesso, fino alla metà del Cinquecento, il
personaggio del giudeo resta dunque estremamente ondivago.
Solo nella successiva occorrenza “ebraica”, che cade oltre vent’anni dopo la mascharata
di Novello, sembra cominciare a formarsi un canone. Siamo ormai negli anni Sessanta del
secolo, e solo adesso l’intestazione della partitura definisce la composizione come una
“ebraica”. Si tratta di Adonai con voi, lieta brigada del bolognese Ghirardo da Panico,
pubblicata in Il terzo libro delle villotte alla padoana a quattro voci, curato da Filippo
Azzaiolo nel 1569. Nella villotta (di cui purtroppo sopravvivono solo le parti di tenore e di
basso), troviamo una parodia di canto sinagogale: un tópos che nelle ebraiche verrà sfruttato
anche in seguito.
Con questa villotta ha inizio il filone della parodia linguistica italo-giudaica. Adonai con
voi contiene infatti due termini giudeo-italiani particolarmente emblematici, “barucaba”
(“benvenuto”) e “parachin” (“denaro”)54. Se il secondo sta per “denaro”, motivo ossessivo del
pregiudizio antisemita, il primo definisce il sound dell’intero stereotipo linguistico.
50
Cfr. CICOGNA 1827: 577 s.
RE 1912: 385.
52
BARICCI 2010: 142.
53
Ad esempio Einstein considera l’ebraica di Panico come una reminiscenza, per contenuto, delle vecchie frottole, e
afferma che, per lo stile musicale, potrebbe aver avuto origine nei primi anni Quaranta del secolo (EINSTEIN 1949:
348).
54
BARICCI 2010: 139 n. 16.
51
16
L’espressione “barukh ha-ba” (che proviene dai Salmi, 118, 26), significa infatti “benvenuto”,
ed è tipica sia della preghiera che della vita quotidiana degli ebrei. È la sua stessa frequenza
nell’eloquio della comunità a caratterizzarla, per gli ascoltatori non ebrei, come un “suono”
tipologico del giudaismo, e dunque come un contrassegno fonico di alterità etnica e
culturale55.
Questo modello di parodia linguistica sarà destinato ad affermarsi definitivamente nelle
successive canzoni sugli ebrei: per le quali, comunque, dopo la pubblicazione dell’ebraica di
Panico, bisognerà attendere ancora quasi trent’anni. Quasi tutte queste ultime “ebraiche”
fanno parte di alcune commedie madrigalesche di Orazio Vecchi e Adriano Banchieri,
apparse negli anni a cavallo fra Cinque e Seicento. Il termine “ebraica” comunque, dopo
Ghirardo, non comparirà più: nella commedia madrigalesca i brani di questo genere portano a
volte didascalie o sottotitoli come “mascherata di Hebrei”, “imitatione delli hebrei”, o
“sinagoga di hebrei”. Definizioni estremamente significative, perché testimoniano in modo
complementare il senso e la funzione del genere in questione nel carnevalesco (“mascherata”),
nella parodia linguistica (“imitatione”), e nel potenziale scenico evocato dalla sua più
frequente ambientazione (la sinagoga).
Ma torniamo un momento ad Adonai con voi. Come si è detto, è l’intestazione della
partitura a definire la composizione come una “ebraica” (suggerendo alla critica moderna la
discutibile possibilità di estendere la definizione a tutto il corpus della musica vocale
rinascimentale il cui testo parli di personaggi ebrei). Paul Nettl trovava significativo che il
pezzo stesse, nella raccolta di Azzaiolo, tra una “Tedesca” (la citata Patrone, belle patrone) e
una “Bergamasca”56. È lecito interpretare questo posizionamento come una conferma
dell’attenzione, rivolta in questo caso dal curatore di una raccolta (a sua volta compositore),
verso l’ampia varietà di spunti che poteva essere fornita da linguaggi (e forse, in certi casi,
anche melodie o ritmi) di carattere locale, come già nel repertorio frottolistico, o di particolare
estrazione etnica: ricordiamo, ad esempio, che il fiorentino Coppini aveva musicato canti
parodistici sia di ebrei che di zingare. Vi troviamo conferma anche del segnale di una certa
omogeneità di approccio sia verso dialetti e danze municipali italiani, sia a costumi e lingue
delle minoranze presenti in Italia. Aggiungerei pure che la Bergamasca pubblicata da
Azzaiolo è cronologicamente la seconda composizione a stampa a portare tale definizione,
dopo l’omonimo saltarello pubblicato solo cinque anni prima da Giacomo Gorzanis nel suo
terzo libro per il liuto. Nella sua terza raccolta, Azzaiolo antologizza dunque alcune curiose
“novità”, ivi incluse due Napolitane di autori bolognesi, che a loro volta sono segno di una
certa delocalizzazione (in crescita col tempo) degli spunti nati in chiave “municipale”. Vi
compare anche una Mascharata (di Marc’Antonio Romano), a segnalare la costante presenza
del carnevalesco in questi repertori “misti”, caratterizzati dall’attenzione verso le formule di
sapore popolaresco o festivo, e soprattutto basate su “personaggi” che parlano o interagiscono
seguendo un approccio ormai latamente “teatrale”.
Anche nel caso delle “ebraiche” siamo dunque in grado di individuare un momento,
poco oltre la metà del Cinquecento, in cui si nota una definizione migliore - e alquanto
teatralizzata - delle canzoni dedicate a stranieri e minoranze. La definizione va nel senso di
una più ampia caratterizzazione nel caso del “Todesco”, e di una prima formulazione
etnicamente marcata (il contesto sinagogale, il pidgin italo-giudeo) nel caso dell’“Hebreo”57.
Per la parodia giudaica, questa determinazione viene avviata nel contesto della musica vocale;
trova una sua prima definizione - di genere, ambientazione, caratterizzazione linguistica - nel
repertorio villottesco di fine anni Sessanta; ma ricomparirà in musica solo negli ultimissimi
55
Cfr. HARRÁN 2008: passim.
NETTL 1931: 40.
57
Bisogna dunque anticipare l’imprecisa valutazione di Emilio Re, secondo il quale è «all’ultimo venticinquennio del
secolo XVI che va ascritta press’a poco, non l’invenzione, ma la determinazione definitiva del tipo dell’Ebreo» (RE
1912: 388).
56
17
anni del Cinquecento. Se lo iato degli anni Settanta e Ottanta può sembrare difficile da
superare, in assenza di fonti musicali “ufficiali”, è almeno possibile cercare di capire cosa
avvenisse nella tradizione orale.
Elena Baricci indica al riguardo la forma degli “intermedi” teatrali, scenette che si
sviluppavano spesso come intermezzi all’interno di una commedia o di uno spettacolo
diverso, «essenzialmente sketches indipendenti dalla trama principale»58, in gran voga nel
teatro cinquecentesco e in particolare presso le corti dell’Italia centro-settentrionale.
Sappiamo che questa forma, spettacolare anche per l’uso di improvvisazione e di apporti del
repertorio buffonesco, si serviva di strumenti espressivi - e talvolta comici - basati sul canto e
la danza. Fra quelli che Baricci chiama “intermezzi all’ebraica”, di cui si trovano scarse ma
importanti testimonianze nella seconda metà del Cinquecento, la giovane studiosa indicava il
Ragionamento fra due Hebrei firmato da “Zan Fritada et il figliuolo del Fortunato” e stampato
a Pesaro nel 1588, benché la sua composizione si possa far risalire più o meno all’inizio del
decennio59. Come buffone, Zan Fritada godette di ottima fama (lo ritroveremo ai primi del
Seicento addirittura in Volpone di Ben Johnson): egli innestava i personaggi ebraici (di
ascendenza carnevalesca e, più limitatamente, teatrale) nella tradizione orale di cui era, in
quanto buffone, portatore privilegiato.
Il Ragionamento tra due Hebrei propone una grande varietà di spunti. Il testo60
costituisce un dialogo tra un “Abraam” e uno “Scemuel”, che anticipa con molta evidenza
spunti e situazioni sviluppate anni dopo nella commedia madrigalesca. I due personaggi, ad
esempio, vengono colti nel momento in cui arriva alla loro bottega un “goim” (non ebreo,
cristiano) recante un pegno per ottenere un prestito, come avverrà poi nell’Amfiparnaso di
Orazio Vecchi (1597).
Nel Ragionamento la parodia si incentra sulla pronuncia italiana dei personaggi - «chi
causa volet», «chi causa von», «comincier ch’ades virrai» - e sul loro presunto carattere
avido: «Ben venga lo goimme, / ben venga lo goimme». Il «Venite giò, venite giò» rivolto al
cliente riecheggerà in Vecchi in un «Venit à bess, venit à bess», a evocare non senza
malignità l’ambiente del ghetto con le sue botteghe di usurai sprofondate in bui seminterrati.
Si allude perfino, fra i difetti pregiudizialmente attribuiti agli ebrei, a «quel che di più terribile
gli addossava il sospetto popolare - il presunto rapimento e sacrifizio degli infanti»61, tema poi
abbandonato dalle parodie teatrali di epoca successiva. E si riaffaccia pure la tematica
amorosa, non estranea alla “mascharata” di Novello, unendosi a un invito al canto tutto
profano, non legato alle attività sinagogali. Versi come «Volem canter, volem canter. /
Cominciet ch’ades virraì, ch’ades virraì. / Barucabbà [benvenuta], stelluccia, barucabbà /
barucabbà stelluccia, / ch’io t’amo e t’amerai; mordocì, mordocai»62 sembrano anche
suggerire che il Ragionamento fosse in musica, e che la scenetta, come era d’uso negli
intermezzi teatrali, si concludesse con un ballo dei vari personaggi.
Nel Ragionamento viene inoltre anticipato il termine giudeo-italiano moscogn (pur
storpiato in “maschion”), che diventerà tipico della scena del banco dei pegni. Anche per
questo, l’intermedio buffonesco ci appare come un diretto precedente della parodia ebraica
dell’Amfiparnaso. Il conio moscogn sta per l’ebraico moshken, forma volgare di mashkin,
“promessa”; ma nell’Amfiparnaso compare anche parachem, probabilmente dalla radice prq,
che si riferisce allo scambiare o al riscattare denari o pegni63. Tutte parole «che a un orecchio
esterno al ghetto dovevano apparire usuali, concernendo per lo più il mestiere di prestatori. A
58
BARICCI 2010: 138.
Zan Fritada è infatti ricordato da Tommaso Garzoni nella Piazza universale, la cui prima edizione è del 1585, e alcuni
retrodatano il Ragionamento fino ai primi anni Ottanta (RE 1912: 386; BARICCI 2010: 138).
60
Cit. in BARICCI 2010: 142.
61
RE 1912: 388.
62
Cit. in BARICCI 2010: 138 s.
63
DENT 1911: 343.
59
18
queste si affiancano tuttavia rozze imitazioni e non meno tipiche deformazioni (badanai,
merdochai)», e precedentemente nella scena compaiono anche «momenti di mera parodia
linguistica, con finte parole che di ebraico hanno solo il suono»64.
Il termine «Badanai», nel contesto antiebraico, ha una lunga storia. È un modo biblico
per rivolgersi ad Adonai, il Signore; vocativamente starebbe per “signor mio”; ed esiste come
nome proprio. Ma in bolognese sta per un pezzo di ciarpame, un vecchio arnese di poco
conto; un “pover badanai” sarebbe un povero diavolo65. In questo senso, anche il nome
proprio suona umoristico nella satira: così lo usa il bolognese Giulio Cesare Croce in un
componimento in versi che vedremo più avanti, e Vecchi lo utilizza come tale nel brano Tich
tach toch (atto III, scena 3) dell’Amfiparnaso; mentre Banchieri lo fa indirizzare
spregiativamente, alla bolognese, dal personaggio di Burattino verso l’ebreo “Mistro Bortol’
dai ochiai”, che Pantalone vuole invitare al matrimonio della figlia, nel Ragionamento primo
della Parte Seconda della Pazzia senile. In generale, il termine può indicare tutti gli ebrei
come “razza”: in tal senso lo troviamo ancora nella terzina finale di un sonetto romanesco del
Belli del 1833, significativamente intitolato L’inferno: «Gesù mio battezzato e circonciso, /
Arberghece li turchi e badanai, / E a noi dacce l’alloggio in paradiso».
E proprio a Roma dobbiamo venire adesso, a quelle giudiate che appartengono al
contesto del Carnevale romano. Anche qui troviamo infatti una versione parodistica del
linguaggio giudeo-italiano, sempre nel formato della “canzone teatralizzata”, e per giunta
nella stessa epoca della commedia madrigalesca, ma per ragioni diverse e del tutto
indipendenti. Anche perché le parodie romane dell’ebreo non furono affatto bonarie come
erano state, e sarebbero state anche in seguito, quelle fiorentine, bolognesi e veneziane. Ciò
dimostra che il senso della parodia giudaica dovrebbe essere considerato localmente, alla luce
dei contesti e anche dei precedenti specifici.
In effetti, prima ancora che in effige, e molto prima delle “giudiate”, gli ebrei erano
entrati nel Carnevale romano di persona, partecipando a un indegno palio. Nel 1466 papa
Paolo II - che era veneziano - aveva spostato il Carnevale, di cui era grande appassionato e
sostenitore, da Testaccio a via Lata (oggi via del Corso), istituendovi la selvaggia corsa
equestre detta dei “barberi”, cioè dei cavalli arabi, lanciati al galoppo senza fantino: l’evento
più atteso della settimana di festeggiamenti. Alla vigilia si teneva però un’altra corsa che
anticipava parodisticamente il palio dell’indomani: correvano asini e bufali, ma anche esseri
umani, in tre categorie: i “garzoni” (cioè i giovani), i vecchi, e le cosiddette “bestie bipede”,
ovvero gli ebrei. Detta anche “Palio de Judei”, la loro corsa era ancora viva nel Carnevale
romano di fine Cinquecento.
Fin qui, si trattava di un’umiliazione contenuta e condivisa, oltre che volontariamente
subìta66. Ma l’atteggiamento verso gli ebrei, sul Tevere, era destinato a peggiorare. Una
famosa bolla di Paolo IV del 14 luglio 1555, Cum nimis absurdum, impose la chiusura del
ghetto e riportò in vigore molte aspre prescrizioni contro gli ebrei67. S’inasprì anche il loro
palio. Michel Montaigne, che vi assisté nel 1581, ci documenta che nel frattempo tutte le varie
categorie di “bipedi” erano costrette a correre nude. Due anni dopo, nel 1583, un’altra cronaca
riferisce che «la plebe romana sfidava i tratti di corda comminati dai Bandi pur di levarsi il
gusto di tirare fango, sassi e legnate sugli ebrei che correvano il palio»68. La corsa fu abolita
solo nel 1668 da Clemente IX, tra le proteste dei romani, che amavano accanirvisi.
64
BARICCI 2010: 141 s.
ROUCH 2006: 182 n. 168.
66
Secondo lo storico ottocentesco Agostino Ademollo, dalle cronache del tempo «non appare alcun indizio di atti di
scherno o di barbarie usati contro gli ebrei nelle corse del carnevale romano al principio del secolo decimosesto»
(ADEMOLLO 1883: 5 s.).
67
RE 1912: 395 n. 2.
68
ADEMOLLO 1883: 10.
65
19
Ma nel frattempo, fin dall’inizio del Seicento (o al più presto dalla fine del
Cinquecento)69, nel Carnevale romano era stata introdotta la “giudiata” carnevalesca, scenetta
cantata e recitata da attori. Non se ne conosce bene il contesto né lo svolgimento. Si sa però
che l’odio antisemita che vi era sotteso trovava una giustificazione religiosa e confessionale:
«gli attori che vi prendevano parte pensavano […] che l’eseguirla dovesse fruttare per la
salute dell’anima: dell’anima propria e di quella degli spettatori»70. I riferimenti ci vengono
forniti da un’opera in sei volumi di Moraldi, un bibliofilo del Seicento, nella ripresa che ne
fece il Crescimbeni nei Commentarj della volgar poesia: «molto più delle zingaresche
s’assomigliano alle farse quelle popolari rappresentazioni che soglion fare nel carnovale i
Rioni di Roma sopra carri tirati da buoi, le quali si chiamano giudiate, perciocchè in esse non
si tratta d’altro che di contraffare e schernire gli Ebrei in istranissime guise, ora impiccandone
per la gola, ora strangolandone ed ora scempiandone e facendone ogn’altro più miserabil
giuoco»71. Si simulavano, insomma, tormenti d’ogni tipo rivolti dai romani verso gli odiati
“crocefissori di Cristo”. In queste giudiate, ambientate nella “schola del ghetto”, i personaggi
subivano le peggiori vessazioni. Volta per volta li si vedeva frustati, appiccati, arsi vivi, come
si può desumere dai titoli che ci restano: titoli destinati ad essere complicemente rievocati nel
periodico fascista «La difesa della razza», come è stato recentemente ricordato72. A volte il
tono della contumelia e della violenza, sia pure solo scenica, trascendeva talmente che doveva
intervenire la forza pubblica73.
Ma anche queste piccole e ignobili farse carnevalesche si compiacevano di restituire il
pidgin giudìo e le deformazioni ebraiche dell’italiano messe in musica e cantate, come
rammentava ancora Crescimbeni parafrasando Moraldo: esse erano «composte di ogni sorta di
versi e versetti tagliati tutti col roncio e d’ogni sorta di linguaggi corrotti e storpiati e
mescolati insieme; né ànno altro ordine che di condursi con lunghissima cantilena di molti
sciocchi personaggi allo spettacolo della burla che si fa al supposto Ebreo; né altro ornamento
che di rami di lauri e d’altra [sic] fronde disposti per lo carro. Elleno si cantano anch’esse e in
varie maniere, tutte particolari del volgo, e coll’accompagnamento di tali suoni che non sono
sconvenevoli a tutto il resto; e pure allorchè si fanno, o giorno o notte che sia, infinito popolo
si tirano appresso e con estremo godimento e riso s’ascoltano»74.
Del tutto innocenti sono, al confronto le presenze ebraiche sia nella commedia
madrigalesca che nella Commedia dell’arte: presenze da mettere in stretta relazione le une con
le altre. La commedia madrigalesca di fine Cinquecento è infatti un prezioso deposito di temi
del coevo teatro dell’arte, altrimenti documentati solo dal secondo decennio del Seicento,
quando Flaminio Scala cominciò a pubblicarne gli scenari: cioè i canovacci sintetici, privi dei
dialoghi che venivano sviluppati estemporaneamente sulla scena. Un tipico tema ebraico della
69
La “giudiata” di tradizione romana, «come azione determinata, non va certo più indietro della fine del sec. XVI» (RE
1912: 394 n. 1).
70
RE 1912: 393.
71
Cit. in RE 1912: 393 s., n. 1.
72
PERRELLI 2004: 55. I titoli sono La zingara giudia arsa viva, L’Aquilano finto ebreo appiccato, Le sue rosette
simili con Ragnetto schernito et il giudio frustato.
73
Una testimonianza contenuta nel verbale di un processo tenuto a Roma nel 1666 contro l’organizzatore di un
carro di giudiata parla del «recitare una comedia sopra un carro»: «fu recitata per Roma una comedia de Hebrei».
Sul carro, «tirato da bovi», c’era una scena costruita da un falegname e dipinta da un indoratore, raffigurante
«quattro porte due aperte e due serrate», cioè «quattro case et quattro fenestre et prospettiva di dietro»; a
rappresentare «la schola del ghetto [più avanti «il tempio dell’Hebrei, dico meglio la scola dell’Hebrei»] et è
tutta con colori gialli, rossi, bianchi et anco turchini». Il testimone ha visto la commedia «più volte in detto
carnovale sopra il carro». Il “caporale” del carro, tal Francesco Palmieri, viene arrestato perché «se recitasse in
detta comedia cosa indecente contro detti Hebrei»: al momento dell’arresto, egli e altri «recitavano in detta
comedia che fu l’ottava del primo sabbato di carnevale» (cit. in RE 1912: 397 s.). La “giudiata” di tradizione
romana comincerà a decadere durante la seconda metà del Seicento, contemporaneamente all’abolizione delle
corse degli Ebrei da parte di Clemente IX (RE 1912: 395).
74
Cit. in RE 1912: 394 n. 1; corsivi miei.
20
Commedia all’improvviso, il cosiddetto “lazzo della circoncisione”, viene appunto anticipato
da Adriano Banchieri in una composizione facente parte dell’Hora prima di recreazione
(dalla raccolta di Canzonette a tre voci del 1597), Samuel Samuel (Mascherata di Hebrei). La
canzonetta nomina esplicitamente coltello e catino, strumenti chirurgici dell’operazione:
«Samuel, Samuel / vu che avite lo cortel / E venuto lo badanai. / Mordochi, mordochai, / E
venuto lo badanai. // Beniamin, Beniamin, / Vu che havite lo catin…»75. Nel teatro dell’arte la
scena ribalta la prospettiva della conversione (opzione quasi forzata per qualunque ebreo
vivente in Italia, come ricordavano anche i canti carnascialeschi) in un paradosso comico: qui
è un cristiano a doversi accostare alla religione ebraica, per ragioni puramente utilitaristiche
(ad esempio per ottenere un prestito o favorire una transazione economica), con tutte le ansie
connesse agli aspetti chirurgici della questione. Una scena di questo tipo la troveremo nello
scenario di La mula, nel secondo volume della raccolta manoscritta di Basilio Locatelli
(1622), alla fine dell’atto I; un’altra, forse non dopo il primo terzo del Seicento, e sempre alla
fine del primo atto (scena decima), nello scenario di Il finto principe76.
Ma nella commedia madrigalesca le concitate scenette trovano una sonora via musicale,
adatta ad esprimere il sound di altre situazioni tipiche, come il litigio o la baruffa, o anche
semplicemente il sapore fonico dell’eloquio giudeo-italiano. La trasposizione musicale è tanto
più interessante in quanto sa rendere polifonicamente un “personaggio collettivo”, un coro di
ebrei - al plurale - che si differenzia dalla semplice “maschera”, non trovando posto sulle
scene strettamente teatrali, e ribadendo l’originario legame con le culture carnevalesche, dove
i “tipi” regionali o stranieri venivano appunto rappresentati come gruppi, anziché come
individui.
Nella scena “all’ebraica” dell’Amfiparnaso (atto III, scena 3), Tich tach toch,
Francatrippa si reca al banco dei pegni, ma per sbaglio entra prima in sinagoga, dove
ascoltiamo un pastiche di nomi propri, tutti allusivi o distorti (Baruchai, Badanai, Merdochai),
e termini ebraici comunissimi (ghet, Baruchabà, etc.), e dove l’inizio della linea melodica
porta una chiara imitazione delle fioriture melismatiche del canto sinagogale; qualcosa del
genere si riascolta all’ingresso nel banco dei pegni, su termini ebraici che simulano un tema
penitenziale. Qui i prestatori ad usura si esprimono in una «Babelle […] di voci e horribili
favelle» che investe il personaggio di Francatrippa, servo di Pantalone, recatosi al ghetto a
«porr’un pegno». Ne segue uno scambio tra lui e un coro di “Hebrei”, che prima gli
domandano «che cheusa volit, / che cheusa dicit?», e poi, udita la richiesta del prestito:
O Samuel Samuel
Venit à bess, venit à bess
Adanali che l’è Goi [cristiano]
Chìè venut con lo moscogn
Che vuol lo parachem
L’è sabbà [sabato] cha no podem.
È una piccola sintesi dei più stereotipati motivi ebraici: il proprietario della bottega di
pegni si chiama Samuel, il “Goi” (cristiano) porta moscogn per averne in cambio parachem
ma, ahimè, gli ebrei di sabato non lavorano, e dunque niente da fare per il prestito. Su questo
stesso tema del banco dei pegni Vecchi ritornerà nel 1694 nelle Veglie di Siena, con il brano
Corrit! corrit! Messer Aron.
Contemporaneamente all’Amfiparnaso, Adriano Banchieri pubblica - sulla medesima
falsariga - Samuel, Samuel. Mascherata di Hebrei (dalla sua raccolta di Canzonette a tre voci,
1597). E sul genere dell’ebraica Banchieri tornerà altre due volte, ma spostandosi sulla
75
76
Cit. in BARICCI 2010: 153.
BARICCI 2010: 149 s.
21
parodia dell’ambiente sinagogale. La prima è Tic tac tic toc, o Hebreorum gentibus (nello
Studio dilettevole, 1600), con la parodia del canto sinagogale a bordoni e note lunghe, ma
alquanto bizzarra è anche Latrai nai nai, scena della Barca di Venetia per Padova (1605). In
didascalia, sotto il titolo di Mercante Bresciano et Hebrei, la scena viene così descritta
dall’autore: «Nel tragettar a Dolo (ò dolce spasso) / Fan sinagoga istanza un Bresciano /
Bethel e Samuel con gran fracasso». In altri termini, pur avendo ambientato la commedia sul
traghetto Venezia-Padova, Banchieri vi trascina di pesa una tipica parodia di sinagoga, ad
emblema del proverbiale fracasso degli ebrei, quasi un “latrare” - nella percezione di chi tale
non è - quando si riuniscono a pregare:
La trai nai nai nai nai nai nai nai nai na
Sté su a sentì ol noster Samuell
Che vol far sinagoga con Bethel
La trai nai nai nai nai nai nai nai nai na
Oth zorocot Ballacort Assach mustac
Oga magoga hò hò hò hò
calla mallacott la baruccabà
La sinagoga la sinagoga
La trai nai nai nai nai nai nai nai nai na.
Il tema sinagogale in musica si esaurirà con la pubblicazione tedesca Musikalischer
Zeitvertreiber (1609), dove compare una composizione Barachim e za chai, definita
Judenschul (cioè, ancora una volta, “sinagoga”), di autore sconosciuto (ma forse italiano), e di
cui ci resta solo una delle sei voci77.
Ma un ulteriore motivo ricorrente nelle parodie ebraiche sta nella tipica scena di baruffa
dove la confusione viene «spesso provocata dal trafugamento e dall’uccisione di un’oca»78. Il
tema emerge nelle Veglie di Siena di Orazio Vecchi: «Corrit! Corrit! Messer Aron, / che gli
Goi che gli Goi / hanno ucciso lo Peper e ’l nostro Ochon / Badanai se l’ha traffughet, /
assagatet, / se l’hanno pelet!»79. Lo stesso motivo ricorrerà più volte anche nell’opera di
Giulio Cesare Croce (1550-1609), uno dei più famosi cantimbanchi italiani, capace di
destreggiarsi fra la comunicazione orale e quella scritta, con moltissime operine pubblicate
nell’editoria popolare dell’epoca. Ancora una volta, come già nel Ragionamento di Zan
Fritada, il contesto degli intrattenitori di piazza fornisce una significativa intermediazione
culturale tra generi che stanno a metà strada fra la canzone carnevalesca e il testo musicale.
Ma Croce rappresentava uno stadio più avanzato di questa condizione, perché era amico e
consulente di Vecchi80. Si veda soprattutto la canzonetta Risa [rissa] tremenda fra Mardochai
e Badanai Con il Festino, colatione, e Musica fatta da loro in segno di pace. Opera
piacevole, e da ridere, stampata in appendice a La scatola istoriata (la cui probabile prima
edizione è del 1605), ma pubblicata anche sciolta81. Tra i difetti attribuiti agli ebrei, la
canzonetta di Croce «ne colpisce la litigiosità rumorosa»82:
77
HARRÁN 2009: 428 s., n. 6.
BARICCI 2010: 154.
79
Cit. in BARICCI 2010: 155.
78
80
81
Queste le notizie nel catalogo integrale dell’opera di Croce redatto da Olindo Guerrini (GUERRINI 1879: 461
s., 472). DENT 1911: 342 sostiene invece che la Risa fu pubblicata per la prima volta nel 1608 (un anno prima
della morte dell’autore), e poi come «intermezzo» (?) di La scatola istoriata, che erroneamente considera
pubblicata postuma, nel 1636. In realtà La scatola istoriata non è un lavoro teatrale ma una canzonetta di 33
quartine di settenari sdruccioli (GUERRINI 1879: 471), e la Risa conta da sola oltre cento versi.
82
RE 1912: 388. Croce sfrutterà lo stesso motivo anche in un’altra sua scenetta, la Scaramuccia grandissima occorsa
nuovamente nella città d’Ancona fra due ebrei per un’oca, utilizzando peraltro lo stesso ristretto lessico giudeo-italiano
(BARICCI 2010: 154).
22
MAR. Badanai, Badanai.
BAD. Che dicit Mardocai?
MAR. Son con vu molt instizzit [stizzito].
BAD. Perché cheusa? perché cheusa?
MAR. Vu m’havit rubet lo Peper [papera, oca],
E l’havit assagatet [uccisa, macellata].
[…]
Me l’ha dit Messer Aron,
Che l’havit accaponet83.
Da persone pregiudizialmente sospettate di atroci crimini contro i cristiani, o quanto
meno detestate per il loro mestiere di usurai, e apertamente dileggiate e aggredite a Roma
anche in occasioni pubbliche, gli ebrei di canzonette e madrigali leggeri diventeranno così
semplicemente “gente che litiga e fa chiasso”, incline alla baruffa, e che s’esprime in una
lingua buffa. Così è anche nella Commedia dell’arte: in Lo schiavetto, di Giovan Battista
Andreini (1612), il motivo viene riproposto nella forma di un’azzuffata di mercanti ebrei e
servitori84. Ne troviamo una variante, caratterizzata da sequenze di contumelie e maledizioni
particolarmente colorite, nel contesto della “commedia ridicolosa” romana, che mutua vari
temi dalla Commedia dell’arte, ma col copione interamente steso. Qui, come usuale a Roma, i
toni sono più aspri. Nell’Est Locanda di Silvano Floridi (1648) «Sciabadai, fratello di
Sciafoch, mercante di pelle di bufali, […] è introdotto a fare l’usuraio a spese di un
dissipatore battezzato, Bellodoro. È notevole una scena (I, 4) in cui il Norcino Quacqua
[tipico personaggio romanesco] fa a Sciabadai una lunga predica morale sull’avidità degli
Israeliti che egli paragona ai rospi; Sciabadai fa le viste di non capire e risponde come se
parlasse d’altro; allora Quacqua, da buon cattolico, si adonta e minaccia l’Ebreo di tutte le
pene dell’inferno; a questo punto anche Sciabadai si inquieta e lasciato il suo solito linguaggio
teatrale con le desinenze in i, e [sic] furibondo esce in questa sfuriata: “Kea nibhar schiechar
pam hanusch nash, chilim hinneh el zeh et sbaugh ot daiim” la quale è tradotta dall’autore in:
vecchio matto briaco sozzo ecc. Il povero Sciabadai, come si capisce, è bastonato, e la
commedia assume anche un vago aspetto di protesta cattolica contro gli infedeli: il che poteva
essere di buon gusto nella Roma Papale»85.
Nei successivi decenni del Seicento i personaggi teatrali ebraici non si estinguono, pur
ripetendo scene già viste. Nell’àmbito della Commedia dell’arte, uno scenario della raccolta
veneta del Museo Correr è intitolato Le nozze degli Ebrei, anche se il titolo è giustificato solo
da un’esile burla, mentre la trama non fa che ricalcare la vicenda dei Menecmi plautini,
sfruttatissimi nel teatro rinascimentale. A fine Seicento un altro autore veneto, Giovanni
Bonicelli (alias Bonvicin Gioannelli), scrive la “comedietta” Il Pantalone Bullo overo la
pusillanimità coperta (1693), dove le scene 13-16 riprendono il vecchio spunto ebraico
dell’Amfiparnaso: «Pantalone, in cambio di Francatrippa, che va in Ghetto per aver danari e
pretende una somma eccessiva di alcune “strazze” [stracci, stoffe] che offre in vendita a
Bedan[n]a e Menacai»86. Anche le “espressioni tipiche” ebraiche sono ridotte ormai a una
ristretta selezione di quelle codificate nel teatro e nella musica del secolo precedente87. Sarà
83
Come la parodia ebraica dell’Amfiparnaso, questa di Croce contiene le parole moscogn, “promessa”, e parachem,
“pegno” (DENT 1911: 343). Assagatet si rifà a shachat, cioè “macellare secondo il rito” (BARICCI 2010: 155).
84
BARICCI 2010: 157. Qualcosa del genere si trova anche nel tradizionale spettacolo di burattini Gran bataja d’jabrei
d’Moncalv, dove si legge «Giù macot [botte] propia da fol» (BARICCI 2010: 158).
85
CAPRIN 1907: 215. Tra le altre occorrenze caratteristiche, Enrico Re ricorda una scena simile anche nell’Intermezzo
dell’oca (RE 1912: 392).
86
RE 1912: 389.
87
BARICCI 2010: 144 n. 32.
23
infine Goldoni, nel Settecento, ad archiviare il genere nelle sue estreme propaggini venete, in
due ulteriori scene del banco dei pegni, che almeno, con significativa memoria della loro
origine, sono in musica. Nell’intermezzo La pelarina, del 1730 (Opere, 1954-56, X, 24),
ritroviamo il termine giudeo-italiano “moscone” (che suonava moscòn nel giudeo-veneziano):
Or che tutto va ben con il fagoto
voglio andarmene al Ghetto
che per fare de mosconi sono perfetto (p. 13).
Lo stesso termine viene sfruttato da Goldoni nell’autopresentazione del personaggio di
Volpiciona nel dramma per musica La Conciateste del 1735:
Son giudìo, son poveromo,
De mosconi son perfetto;
Ma onorato galantomo,
La dimanda a tutto el ghetto,
De gabbar l’arte no so.
Sabadin e Semisson,
Siora Luna e siora Stella,
Giacudin e sier Gradella,
In t’un tratto
De sto fatto
Testimoni gh’averò88.
Il tema è ormai regressivo: il giudìo non chiede altro che di fare “mosconi” e di essere
considerato una persona onesta, né più né meno come all’epoca dei canti carnascialeschi
fiorentini.
1.3 Schiavonesco e greghesco
Il terzo, ampio àmbito linguistico in cui si esprime la parodia rinascimentale degli alloglotti ha
occorrenze letterarie - in senso lato - molto più vaste ed eterogenee di quelle di “Todeschi” ed
“Hebrei”.
Manlio Cortelazzo ha indicato le principali caratteristiche della letteratura schiavonesca
- intesa come un complesso «di poesie e poemetti popolari con riflessi nel teatro, scritti a
Venezia nel corso del Cinquecento, ma attribuibili alla prima metà del secolo» - nella resa
umoristica della «imperfetta parlata veneziana degli Slavi (Schiavoni), che confluivano
numerosi nella città dei Dogi per ragioni di occupazione, di commercio e di milizia»89.
Anche nell’ordito di questa letteratura veneto-schiavonesca troviamo fili, sia pur di
timbro e consistenza diversa, che collegano problematicamente Venezia ad antecedenti
toscani. Dopo il precedente del Poliziano90, abbiamo nella letteratura fiorentina del
Quattrocento almeno altri due esempi di sonetti con personaggi slavi. Il primo, intitolato
Sonetto di Schiavonia paisa, si trova nel Codice Barberino (3936). Consiste nel dialogo fra
due schiave (o schiavi) nati in Slavonia, venduti a Siena e poi incontratisi - forse affrancati - a
Pisa, che per dimenticare le durezze della vita se ne vanno in taverna col ricavato di un furto
ai danni dei padroni. Di tono farsesco, nella più bieca vena gastrointestinale, il componimento
esprime i diffusi pregiudizi sulla disonestà degli schiavi e la loro inclinazione ad ubriacarsi
88
Traggo i due esempi da FORTIS 2006: 26.
CORTELLAZZO 1971-72: 113.
90
Una battuta attribuita a un pastore schiavone, anche se non si tratta necessariamente di una riproduzione
realistica, si legge già nell’Orfeo (1480) di Angelo Poliziano: «State tenta, bragata. Bono argurio: / che di cievol
in terra vien Marcurio» (cit. in CORTELAZZO 1971-72: 115).
89
24
(con conseguenze igienicamente catastrofiche e linguaggio scatologico). Tuttavia non vi
ricorrono termini slavi, e anche le distorsioni dell’italiano si limitano alle finali in a, alla
confusione fra i generi, agli infiniti con sillaba finale troncata, all’epentesi della n91.
Termini slavi autentici emergono invece nell’altro analogo sonetto di autore toscano, Se
tu fussi un di quei che fan minestra, di fine Quattrocento o comunque anteriore al 1502.
Scritto dal poeta satirico pistoiese Antonio Cammelli (poi fattosi padano, vivendo e lavorando
alla corte ferrarese di Isabella d’Este, e dedicando i suoi sonetti a Ludovico il Moro), il
sonetto in questione, dai risvolti osceni, mescola all’italiano l’uso letterario - sempre riferito a
vicende quotidiane di schiavi - di un pidgin slavo caratterizzato dall’impiego occasionale di
parole che Rodolfo Renier, curatore moderno della sua opera poetica, individua come russe92.
Se tu fossi un de quei che fan minestra
saresti favorito in qualche loco;
o, alle volte, dal guattero un poco
lavato e posto al sol d'una finestra;
di poi riposto al fin ’n una canestra,
o sopra una pignatta appresso al foco.
O se tu fussi schiava, almanco il coco
ti diria: Caco stai, madonna sestra?
Tu rispondresti: Dobra, gospodina.
Lui, col coraz in pisda a far giebati,
ti faria conduttier della cucina.
Ma tu se’ pur fra’ pochi numerati
de’ pazienti in molta disciplina,
nella gran compagnia degli scacciati.
Molti sono i vocati,
ma pochi son gli eletti a far passaggio,
maccaronazzo mio senza formaggio.
Nel sonetto (il n. 72 della raccolta) è emblematico il passaggio «Caco stai, madonna
sestra?», che unisce sintagmaticamente l’italiano al russo, trovando un facile umorismo
triviale nell’ambiguità che può assumere una parola straniera omofona a una nostrana, e che
sembra far eco alla conclusione scatologica del sonetto precedente. Ma vari termini slavi - non
necessariamente russi, come intendeva Renier: ad esempio il termine coraz, che corrisponde a
kokot, pare essere voce ragusea93 - vengono adoperati in corrispondenza delle situazioni
innominabili. Se l’apostrofe al v. 8 va letta semplicemente come il saluto del cuoco alla
schiava, «Come stai, madonna sorella?», con la risposta «Bene, signore»94, al verso
successivo la promozione di lei a capocuciniera avviene invece per “meriti” velati sotto i
91
Il testo si può leggere in FERRARA 1950.
Rodolfo Renier (cur.), I sonetti del Pistoia giusta l’apografo Trivulziano, Loescher, Firenze-Roma, 1888, p. 72
(segue il codice trivulziano).
93
CORTELAZZO 1971-72: 115 n. 6.
94
Ibidem, n. 2: Alla nota 2 riferita ai vv. 8-11, il curatore Rodolfo Renier spiega: «Così sembrami bene
interpretato questo difficile passo, misto di parole slave. Alla supposta schiava il cuoco dice: Come (russo kako)
stai, madonna sorella (russo sestra)? E la schiava risponde: Bene (russo dobro), Signore (russo gospodina).
Gospodina non può essere femminile, come ritenne chi ne diede spiegazione al Ferrari (ediz. p. 81) e come
ritenni io pure nella Riv. stor. mantov., I, 79, n. 2. Il senso non tornerebbe. La variante Lui del v. 10, data dal cod.
Triv., suggerisce la retta interpretazione del verso oscenissimo, a spiegare il quale bastano le indicazioni date dal
Ferrari».
92
25
termini coraz, pisda e giebati (o jebati), che indicano rispettivamente i genitali maschili e
femminili e il congiungimento sessuale95.
Troviamo qui chiari riflessi di un certo disprezzo toscano nei confronti degli schiavi,
causato senz’altro anche dalle paure, localmente molto accentuate, nei confronti di questi
domestic enemies - come li definisce un saggio ormai classico sull’argomento apparentemente sempre disponibili a furti, angherie e perfino violenze nei confronti dei
padroni96.
A Venezia, invece, la parodia degli slavi o schiavoni (comunque non ritratti come
schiavi) era parte del repertorio dei cantimpanca, dove la figura dello slavo è personaggio
comico e maschera linguistica fra molte, accanto a quelle del bergamasco e del pavano, del
tedesco e del saraceno, e di varie nazioni balcaniche.
Una vera e propria “letteratura schiavonesca” esordisce a Venezia già all’inizio degli
anni Dieci del Cinquecento, ma in modo piuttosto anodino. Quella che ne è forse la prima
testimonianza consiste in un sonetto caudato datato 1512, di Antonio Salvazo, dove il dialogo
si svolge da una parte in croato e dall’altra in bergamasco (non in dialetto veneto), e senza le
contaminazioni e interferenze caratteristiche delle cosiddette “rime alla schiavonesca”97. Ma
subito dopo - pressappoco nel 1513 - appare la Historia bellissima98 attribuita al famoso
buffone, amico e compagno d’arte di Zuan Polo, Domenico Taiacalze. Nel loro repertorio era
presente una vera e propria letteratura “schiavonesca” per linguaggio, stile, sentimenti. Zuan
Polo e Taiacalze usavano le lingue balcaniche in una sorta di siparietti musicali, basati su
canzoni in albanese, greghesco o schiavonesco, interpretate con opportuni travestimenti99. In
particolare, «Zuan Polo fu lo specialista per eccellenza nel simulare a fini caricaturali
l’integrazione dialettale degli schiavoni, numerosi nella città, giungendo alla definizione di un
vero e proprio gergo teatrale e specializzandosi nell’imitazione del raguseo»100, cioè della
lingua della Ragusa croata, oggi Dubrovnik. Ma non gli era da meno Taiacalze, che
nell’Historia immagina di morire e d’intraprendere il viaggio agl’inferi. Nell’incontrare le
prime spaventose presenze infernali, guidate da Minosse, pur tremando egli intona il suo
canto: «mossi la voce mia suave tanto / cantando schiavonesco dolcemente / per non ricever
da tal turba pianto» (130-32). E «quelle strane brigate dai forconi» (134) si fermano e ridono,
«pigliandosi piacer dal canto mio, quantunque al cantar mio non fusser soni» (137-38). Pur
non capendo la lingua schiavonesca (o le altre lingue balcaniche praticate dal buffone), i
demoni sono affascinati dalla dolcezza di quelle melodie. Sarà conquistato anche Lucifero. Lo
stesso Minosse chiederà al principe dell’inferno che, prima di divorare il buffone, ne ascolti
almeno il canto. E allora «in greco, in bergamasco e albanese / sforzati cantar suave il mio
tenore; / a tal che Lucifèr tanto se accese, / che la man mi toccò con allegrezza, / perché del
mio cantar gran piacer prese», conquistato da «tanta dolcezza» (182-86, 189). Così, grazie al
suo plurilinguismo greco, albanese e schiavonesco (nonché bergamasco), e al potere della
musica, Taiacalze scamperà alle pene dell’inferno, anzi invitato a partecipare a un luculliano
banchetto di diavoli.
Quella “dolcezza” non dev’essere necessariamente intesa nel senso moderno, ma come
un misto di soavità e di mero divertimento: i buffoni veneziani, abili a contraffare linguaggi, li
95
Così spiega Erasmo Percopo, curatore di una successiva raccolta cammelliana (I sonetti faceti di Antonio
Cammelli secondo l’autografo ambrosiano editi e illustrati da Erasmo Pèrcopo, N. Jovene e C.o, Napoli, 1908,
163 n. 10), dove il sonetto figura al n. CXXIII. D’altronde il termine jebati o iebati, per l’atto sessuale, è
frequente nella letteratura di ispirazione schiavonesca, e compare anche nel Rado (CORTELAZZO 1971-72:
139).
96
Cfr. ORIGO 1955.
97
CORTELAZZO 1971-72: 116 s.
98
Una historia bellissima la qual narra come el spirito de Domenego Taiacalze aperse [apparve] a Zuan Polo
narrando tutte le pene dell'inferno.
99
Cfr. Caravia, Sogno, CCXLVII, 6-8.
100
VIANELLO 2005: 105.
26
modulavano sia nel canto che in buffonerie pure e semplici. Lo mostra il contenuto di una
raccolta di sei “canzon in Schiavonesco”101 che devono risalire pressappoco agli anni della
Historia bellissima: la pubblicazione, che porta sul frontespizio un’immagine raffigurante un
ballo di schiavoni, fu stampata nel 1520 circa. Le sei poesiole, di cui non è riprodotta la
musica, ricamavano sui consueti espedienti comici delle deformazioni triviali o scatologiche
delle convenzioni amorose, e su epiche bisbocce notturne.
La passione per il banchetto pantagruelico (spesso non meno movimentato di quello
“infernale” di Taiacalze) è un altro tópos dominante nella letteratura schiavonesca, in tutte le
sue stereotipie. Caratterizzazioni tipiche ricorrono ad esempio nella citata ballata popolare
plurilinguistica della prima metà del Cinquecento, Chi non fa co faro mi havera la taccha,
dove il cantastorie invita gli astanti alle gioie del Carnevale rivolgendosi a ciascuno dei
presenti nella sua lingua. Così suona il discorso che egli rivolge agli Schiavoni: «Non lassati
vui schiavoni / che in tal tempo non si sguaza / ingrassati con caponi / lo boccali con la traza /
e menate orba la maza / che dio sa sel fare pi. // Chi non fa… // Brati vuotu snami piti / te daro
con vernical / vostu carne rusto fritti. / credo te non za fa mal / hogme nechiu brate priti. /
taccho vas da fa cussi // Chi non fa…»102.
Qui gli accenni al vino e alle armi ci introducono anche al clima dell’epica fantastica di
argomento schiavonesco, che troverà il culmine nell’opera cavalleresca di Zuan Polo. Tutto il
suo principale poema eroicomico, il Libero [libro] del Rado stizuxo [stizzoso], di otto canti in
ottave, pubblicato nel 1533, è scritto in dalmato-veneto, il dialetto parlato dagli schiavoni di
Dalmazia «non solo nei loro paesi marittimi, ma anche a Venezia»103. Zuan ne compose anche
un seguito in dodici canti in ottave, il Libero de le vendete che fese i fioli de Rado stizoxo104.
In queste opere scritte, il buffone veneziano si firmava, “alla schiavonesca”, Ivan Paulovichio.
A lui risale, direttamente o indirettamente, gran parte della produzione letteraria schiavonesca
rinascimentale.
Un commentatore moderno delle due opere, Giuseppe Vidossi, riconosce in esse
«poemi […] da cantambanchi, svolti con i procedimenti propri dei cantori popolari e con
spunti parodistici e burleschi»105. Sia per forma e struttura, sia per le caratteristiche
intrinseche dei componimenti di Zuan Polo (inclusi quelli che egli improvvisava in pubblico,
e che certamente “crescevano” da una esibizione all’altra), i due massimi poemi
schiavoneschi scaturiti dalla temperie culturale della Venezia rinascimentale dovevano
101
Taritron taritron Caco Dobro Salzigon. Con molte altre canzon in schiauonesco. Cfr. PICOT 1894: 9 s., che
riproduce le strofe iniziali delle sei composizioni.
102
Cit. in CORTELAZZO 1971-72: 114.
103
MELZI 1838: 296.
104
Il primo poema celebra il valore schiavonesco di Rado, alla pari di quello dei paladini d’Orlando, con cui è
vagamente imparentato, ma anche le sue prodezze magiche e le virtù miracolose del vino. «Carlomagno manda
Orlando e gli altri paladini alla caccia di certi lupi che, in Spagna, fanno strage dei castruni [agnelli castrati] del
Re. Per via fanno amicizia con due giganti, Malfatto e Cattabriga» (VIDOSSI 1960: 124). I quattro arrivano in
Schiavonia a casa di Rado, che è stizzito per aver rovesciato un barile di vino, ma si scopre che sua moglie è
cugina di Orlando: feste e baldoria durano otto giorni. Poi cavalieri e giganti riprendono il viaggio con Rado e in
Spagna scoprono che i lupi sono mannari. Con le sue scarpe fatate e la sua prodezza Rado contribuisce a
sconfiggerli; in seguito Carlo Magno lo fa cavaliere, ma gli rubano le scarpe e viene rapito dai turchi, che infine
l’eroe, ritrovando le scarpe, sconfigge, per poi dedicarsi anch’egli alla vita corsara. Morto, viene venerato e
opera miracoli. Il Libero de le vendete parla invece delle imprese dei figli di Rado, Licha (Alessandro) e Michulo
o Miochulo (Nicola), per vendicare il padre, e parallelamente di Iatilo (Attilo), figlio della moglie di Rado e del
demonio Farfarello. Iatilo si fa turco e va a saccheggiare la Schiavonia; Licha e Miochulo sconfiggono i turchi e
fanno prigioniero Iatilo, che però evade grazie alla magia del padre Farfarello. Lo spirito di Rado appare ai figli e
li incita alla vendetta. Anche Miochulo, come il padre, comincia a corseggiare, sbaragliando ovunque i Mori, e
alleandosi con il sultano del Cairo contro i tunisini e gli arabi: addirittura, alla morte del sultano, gli succederà.
Iatilo intanto compie imprese in India e in Ungheria, in Italia distrugge Aquileia, e alla fine uccide la propria
madre, cioè la vedova di Rado, gettandola in mare: ma il corpo di lei si trasforma in banchi di sardelle, che
divorano il matricida.
105
VIDOSSI 1960: 124.
27
corrispondere a intonazioni vocali, in parte tradizionali e in parte tipiche dell’estro buffonesco
dell’autore: insomma erano cantati, e non a caso il poema raffigura spesso
l’accompagnamento della piva.
Questo repertorio è infatti l’unico, fra le parodie degli alloglotti, a portare segni
inequivocabili di cultura popolare: da una parte l’esecuzione sulla piva (in alternativa alla più
nobile viola, che appare sui frontespizi delle stampe popolari), dall’altra la tradizione del ballo
saltato. Il contributo più spettacolare delle culture slave ai nostri intrattenimenti di strada è
infatti quello dei cosiddetti “salti schiavoneschi”, pittoresca specialità acrobatica fatta propria
dall’eclettismo buffonesco, e in quanto tale spesso citata come numero altamente spettacolare
nelle cronache cinquecentesche di intrattenimenti sia cortesi, specie nel nord Italia, sia
popolari. La loro natura tradizionale, propria dei danzatori slavi, viene anche palesata come
elemento di autodefinizione del personaggio dello schiavone nel Contrasto de un Fachin e
dun Schiavon de un sposo, e de una sposa, contenuto in una raccolta di frottole (Marciana
Misc. 2231.11). Lo slavo interviene alla seconda ottava evocando una scena di danza saltata:
«Mille salati fazo e salatoni / a vu miser novizo e vu noviza / e atorno tutti questi
compagnoni»106.
La presenza linguistica schiavonesca a Venezia non poteva sfuggire al teatro di Andrea
Calmo, con l’inserimento di quella che egli chiama «parlaura dalmatina» nel Travaglia,
messo in scena nel 1546, dove il mercante raguseo «è fatto parlare col suo linguaggio italiano
intriso di slavismi», ma anche nei prologhi della Spagnolas e delle Egloghe. «Un altro
personaggio, espressamente dichiarato “schiavone”, […] nella Rodiana riproduce con quella
approssimativa fedeltà documentaria, che è da aspettarsi in simili reperti, la parlata italoveneziana degli Slavi»107.
Anche delle più tipiche deformazioni linguistiche in schiavonesco, Manlio Cortelazzo
ha dato ampiamente conto. Tra i mutamenti vocalici, u per o; in minor misura i per e; il
dittongamento di e; a per o, e, i; o per a; u per a. Tra quelli consonantici: metatesi,
assimilazione, dissimilazione, epentesi, aferesi (specie per la sillaba iniziale a-), e qualche
isolato caso di sincope (petentia per “penitenza”, etc.). Per la morfologia, il mancato accordo
dei sostantivi femminili con articolo e aggettivo declinati al maschile, l’oscillazione
persistente di genere e numero, l’omissione dell’articolo, l’esasperazione del superlativo, e
varie distorsioni per i verbi, oltre all’uso della terza persona per la prima o seconda, e della
prima per la seconda; l’inversione dei costrutti, etc.108
Fin qui abbiamo parlato di poesia (sonetti e poemi epici), di teatro “ufficiale”, di
repertori buffoneschi. Ma, nell’àmbito di una “letteratura schiavonesca” in senso lato, il
principale apporto musicale viene dal genere delle “greghesche”. La definizione si riferisce a
un pidgin specifico, che andrebbe distinto dallo schiavonesco genericamente inteso. In senso
stretto, per “greghesco” va inteso «il veneziano stentato, misto di voci romaiche, pronunciato
secondo abitudini fonetiche greche e intriso di calchi morfosintattici dal parlar materno, di cui
probabilmente si servivano i numerosi stradiotti o mercanti provenienti dalla Morea
[definizione del Peloponneso dal XII secolo, per la forma a foglia di gelso] o dai dominî
insulari della Serenissima»109.
Il greghesco era definito in passato “lingua degli stradiotti”, cioè di quei feudatari del
Peloponneso che, scacciati dai Turchi, si rifugiarono in vari paesi europei. Per lo più
lavorarono come condottieri, con alte conoscenze tattiche; ma qualche stradiotto fu anche
autore di musica e canzoni. Questo dialetto, come è stato sottolineato da C.N. Sathas, presenta
numerose analogie col dialetto grecanico ancora parlato in alcune zone della Calabria110.
106
Cit. in CORTELAZZO 1971-72: 157.
CORTELAZZO 1971-72: 116.
108
Cfr. CORTELAZZO 1971-72: 120-132.
109
LAZZERINI 1977: 47.
110
LAZZERINI 1977: 33; per qualche sporadica analogia con il “grico” salentino v. LAZZERINI 1977: 56.
107
28
Gli studiosi che preferiscono parlare di “lingua stradiota” la definiscono come «una
specifica lingua letteraria ibrida, coltivata a Venezia durante il Cinquecento […] un misto di
dialetto veneziano e di tratti lessicali e fonetici delle parlate istriana, dalmata e neogreca»111.
Stipčević considera globalmente in questa letteratura sia il repertorio schiavonesco, sia le
greghesche in senso stretto, come quelle pubblicate da Antonio Molino nel 1564; oltre ai ben
noti Zuan Polo, Molino, Calmo, Marin Negro, egli cita fra gli autori anche uno stradioto
autentico, Giulio Schiavetti (Julije Skjavetic) di Sebenico (Sibenik), città croata sulla costa
adriatica della Dalmazia.
Pur accomunati dall’origine balcanica, e dalle vicende storiche che li fanno convergere
su Venezia, i due gerghi - greghesco e schiavonesco - restano ben distinti, benché tra le loro
deformazioni fonetiche esistano varie caratteristiche comuni, come «la frequenza di u per o»,
e «la costante sconcordanza di genere e numero tra articolo e possessivo»; così come esistono
coincidenze fra il greghesco e la parlaura dalmatina, in particolare «la tendenza
all’indistinzione delle vocali atone», anche se nella parlaura «il fenomeno è assai più marcato
(anche sotto l’aspetto quantitativo)»112. Ma la fonetica del greghesco letterario è frutto della
deformazione di parole italiane o venete secondo una pronuncia e una fonologia considerate
“tipicamente grecofone”, di cui Lazzerini dà un’ampia rassegna113. Da segnalare in
particolare: «lo scambio liquida/nasale»: ad esempio n > l; «la perdita dell’elemento
semivocalico nel gruppo qu- primario e secondario, non estranea al veneziano (che del
“greghesco” costituisce il background) ma qui generalizzata: chisto», etc.; «la notevole
frequenza dell’aferesi», cioè della caduta della prima sillaba di una parola114.
Il greghesco comincia a prevalere, nel repertorio schiavonesco (ma più in generale
balcanico) veneziano, nella seconda metà del secolo. A dar vita alla canzone polifonica in
greghesco fu il citato Antonio Molino, o “da Molin”, detto anche “il Burchiella”: mercante,
attore e autore teatrale, abile musicista suonatore di lira (viola), lirone e liuto, direttore di una
sua Accademia di musica. Per questa varietà del suo notevole eclettismo, Molino volle usare
l’ulteriore pseudonimo di Manoli Blessi, nella raccolta pubblicata nel 1564: Di Manoli Blessi
il primo libro delle Greghesche. Egli fu amico e collega dei maggiori uomini di teatro
veneziani del terzo, quarto e quinto decennio del secolo: se la sua produzione teatrale è
perduta, sulla sua bravura di attore abbiamo varie testimonianze coeve, fra cui quella del
Sansovino che lo dice «homo piacevole et che parlava in lingua greca et schiavona corretta
con l’italiana con le più ridicolose et strane inventioni et chimere del mondo»115. Di lui ci
resta anche, in lingua schiavonesca, il poemetto I fatti e le prodezze di Manoli Blessi
strathioto (1561), parodia “stradiotta” dell’Orlando Furioso. Molino dunque firmò le sue
canzoni greghesche adottando come nome d’arte quello del suo eroe eponimo: ma si sospetta
che anche le firme di altri autori “stradiotti” a cui si attribuisce una produzione di canzoni come Stamati Psari e Tonda Theriarchi - fossero in realtà suoi pseudonimi116.
A collaborare musicalmente alla stesura di queste canzoni, in polifonia da quattro fino a
otto voci, furono alcuni fra i massimi compositori del tempo, sia veneziani (Claudio Merulo,
Andrea Gabrieli e altri) che fiamminghi (De Rore, Willaert, de Wert). Gabrieli dovette
appassionarsi al genere introdotto dall’amico, giacché pubblicava a sua volta nel 1571 una
raccolta di undici grechesche a tre voci (più quattro giustiniane) su testi in greghesco di
Molino; e già nel suo secondo volume di madrigali a cinque parti (1570), che proprio al
collega e sodale era dedicato, aveva incluso un madrigale in suo onore intitolato Molino, a le
virtù tante e sì rare.
111
STIPČEVIĆ 1993: 34.
LAZZERINI 1977: 60-62.
113
LAZZERINI 1977: 52 ss.
114
LAZZERINI 1977: 61.
115
Cit. in BARTOLI 1880: X n. 1.
116
LAZZERINI 1977: 33.
112
29
Al testo del poema I fatti e le prodezze di Manoli Blessi, Molino (o il suo editore
Antonio Gardano) fece seguire un glossario dei termini greci, a conferma della
determinazione con cui veniva usato il greghesco, ma anche del fatto che qui non si trattava di
un’invenzione letteraria; la stessa parodia vi svolgeva un ruolo limitato, collocandosi
soprattutto all’inizio della produzione. Lazzerini ammette che «il punto di partenza per
l’irruzione del “greghesco” nei testi veneti del ’500 può certamente essere parodisticocaricaturale, più mimetico che libresco»117. Tuttavia, a differenza di altri generi musicali
ispirati al linguaggio o ai comportamenti di qualche minoranza linguistica, fra le greghesche
ci sono molte semplici canzoni d’amore, o comunque prive di contenuti scherzosi o osceni.
Infatti «la coloritura linguistica dialettale o regionale non implicava necessariamente una
distanza ironica dell’enunciato poetico. Lo dimostrano anche le raccolte di giustiniane e
mascherate di A[ndrea] Gabrieli, affini dal punto di vista musicale e poetico all’antologia del
Burchiell[a]»118.
Fra le greghesche comprese nella raccolta di Molino, alias Manoli Blessi, sono di tono
scherzoso la Bataglia strathiotesca, musicata dal compositore fiammingo Ivo de Vento, e una
delle composizioni di Skjavetić, Deh’ no far, che contiene anche allusioni volgari: il tono
scherzoso di quest’ultima si riflette, secondo Stipčević, anche nella musica, dove «già nelle
battute iniziali ciò è annunciato dalla forte pulsazione ritmica nell’ordine omofono»119.
Sia sotto il profilo linguistico, sia dal punto di vista poetico e musicale, la forma della
greghesca ha dunque una storia diversa da quella delle parodie di tedeschi ed ebrei. La
greghesca non intende rappresentare un mondo alieno, un innesto sociale dai tratti ridicoli e
dalle espressioni stereotipate o incomprensibili. La produzione lirica greghesca e
schiavonesca nasce o da autori nativi, o da veneziani (come Zuan Polo e Antonio Molino)
motivati da un sentimento di simpatia e di solidarietà: al punto che essi vi adottarono
pseudonimi “schiavoni” come Ivan Paulovichio e Manoli Blessi. Una situazione possibile
solo nel macrocosmo veneziano, privo di certe chiusure altrui (come quella fiorentina,
orgogliosa di sé e portata all’esclusione; o quella romana, cattolicamente ostile agli esponenti
di religioni diverse), e attento - per ragioni sia politiche che commerciali - ai domìni limitrofi,
e alla forza-lavoro immigrata in città.
SECONDA PARTE
PLURILINGUISMO E “DIVERSI LINGUAGGI”
NELLA MUSICA E NEL TEATRO RINASCIMENTALI
3.1 Contrappunto dei “diversi linguaggi” sulle scene e sulle piazze
Il fenomeno letterario, teatrale e carnevalesco delle parodie di minoranze linguistiche trova
evoluzione, verso la fine del Cinquecento, nella costruzione artificiosa di una “Babele” - per
usare un termine adoperato da Orazio Vecchi nell’Amfiparnaso - dove polifonia e
contrappunto, tecniche compositive dominanti della musica rinascimentale, diventano gli
strumenti con i quali articolare anche il gran concerto delle lingue.
117
LAZZERINI 1977: 47. Corsivo mio.
STIPČEVIĆ 1993: 35.
119
STIPČEVIĆ 1993: 35.
118
30
Nel genere che potremmo definire (adottando una titolazione spesso usata da letterati e
compositori dell’epoca) dei “diversi linguaggi”, compaiono infatti - dialogango o
sovrapponendosi - varie parodie di alloglotti alle prese con la lingua italiana, generalmente
combinate con dialetti locali. Questo dialogo, una volta messo in musica, produce una duplice
polifonie: di melodie, e di lingue.
Questo poliglottismo non sarà solo italiano: nella letteratura e nel teatro spagnolo, ad
esempio, esso costituisce un fenomeno rilevante. Durante il Cinquecento ne troviamo molti
esempi nella poesia iberica di alcuni fra i massimi autori, come Lope de Vega, Gongora,
Quevedo; ma il fenomeno era controverso, e illustri intellettuali come Fernando de Herrera
(ca. 1534-1597), Juan de la Cueva (1543-1612), e perfino Garcilaso de la Vega (1539-1616),
soprannominato El Inca, uno dei primi meticci del Nuovo Mondo, condannarono il mélange
linguistico nella poesia lirica120. Ma esso ebbe esempi illustri anche nel teatro, grazie a
commediografi e drammaturghi quali Juan del Encina, ancora Lope de Vega (che usa, oltre
alle lingue iberiche, il tedesco e l’olandese), Lope de Rueda e Calderón121.
Due casi particolari ci attirano più di altri. Il principale precedente europeo è quello del
drammaturgo portoghese Gil Vicente, attivo durante l’intero primo terzo del Cinquecento, che
scrisse circa un quarto delle sue opere nella lingua nativa, un altro quarto in castigliano, e il
resto in un plurilinguismo nel quale, oltre alle lingue iberiche e al latino, erano spesso accolti
l’italiano, il francese, il piccardo, e uno dei molti pidgin basati sull’ebraico, il giudeoportoghese. Forse da lui fu influenzato Torres Naharro, il quale - fondatore della poetica
teatrale spagnola con Propalladia, prologo alla raccolta del 1517 delle sue opere drammatiche
e poetiche - sviluppò il suo plurilinguismo in Italia. Fu infatti dal 1508, ventitreenne, a Roma,
dove scrisse varie opere teatrali, per poi trasferirsi a Napoli nel 1517 o poco prima. La sua
commedia Soldadesca (1509-10) ricreava l’ambiente della numerosa colonia ispanica nella
città papale, denunciando coraggiosamente gli abusi della soldataglia spagnola a Roma, e
dunque alternando l’italiano alle lingue ispaniche. Tra il 1514 e il 1515 venivano
rappresentate a Roma altre sue commedie: in particolare la Trophea, dove l’autore già
incrementava il numero delle lingue utilizzate, e soprattutto La Tinellaria. Questa, ambientata
durante un banchetto in un palazzo cardinalesco, sfruttava un poliglottismo che mescolava
vari dialetti e lingue spagnole, assieme al latino maccheronico, all’italiano, al portoghese, al
francese e al tedesco, attingendo forse anche al cosmopolitismo della città romana122.
Caso quasi isolato in Francia, ma splendido ed emblematico nel contesto europeo, è
poi quello di Rabelais, che riesce a parodiare - con le domande di Panurge quando incontra
Pantagruele - la varietà di competenze linguistiche che si potevano dimostrare nella società
europea del Cinquecento. Nella scena Panurge, per porgere a Pantagruele una comunicazione
fra le più banali - aveva fame -, gli risponde in tedesco, ripetendo poi varianti della stessa
risposta e poi in italiano, inglese, basco, olandese, spagnolo, danese, ebreo, greco, latino
(intervallando, per ben tre volte, con una lingua immaginaria), e solo alla fine in francese123.
Tuttavia, in Spagna come in Francia, non venivano usati i dialetti124. In Italia, invece,
pluridialettismo e poliglottismo a scopi di intrattenimento parateatrale o musicale hanno la
medesima origine, nel lavoro dei buffoni e dei commedianti di strada, e in particolare nella
loro tecnica del contrafar, cioè dell’imitare a scopo comico e parodistico.
Nella palestra della comicità, la capacità di esibire una varietà di lingue era quanto di
più spettacolare potesse offrire, all’inizio del Cinquecento, un intrattenitore di strada. Come
120
ELWERT 1960: 413, 421.
Quando il poliglottismo fu proibito anche in questo contesto, si conservò presso alcuni autori «in una misura ristretta e sotto circostanze
molto particolari» (ELWERT 1960: 421). Quanto agli altri paesi europei, in Inghilterra ricordiamo Shakespeare nell’Enrico V per l’uso del
francese, e nelle Allegre comari di Windsor per il latino (ELWERT 1960: 413, 420); mentre nella commedia tedesca del Cinquecento si
usavano vari dialetti: spesso i contadini parlano in brandeburghese o in basso-tedesco, i pastori in brandeburghese o turingiano (ELWERT
1960: 436 s.).
122
Per il teatro di Torres Naharro si può consultare LIHANI 1979.
123
Anche in seguito, Panurge citerà in arabo o in greco durante il racconto della sua fuga dai Turchi (2, 14), e in italiano quando racconta la
storia di un senese (4, 67).
124
Con l’eccezione del sayaguès, il gergo convenzionale dei pastori iberici (v. infra).
121
31
abbiamo visto, questa risorsa comica dilaga, nel giro di pochi decenni, fino al teatro veneziano
e a quello della Commedia dell’arte, nonché in varie espressioni fra musicali e teatrali che
andanno a culminare a fine Cinquecento nella commedia madrigalesca. Ma l’acme del
virtuosismo sarà toccato in due opere polifoniche, il madrigale Dialogo a dieci di Michele
Varotto (1586) e nella mini-commedia madrigalesca Diversi linguaggi di Orazio Vecchi
(1590), che intrecciano dialetti, lingue straniere e maschere, e poi, nel teatro, in una commedia
letteraria quale Li Diversi linguaggi dell’Accademico Intrigato romano Vergilio Verucci
(pubblicata a Venezia nel 1609), dove gli interlocutori parlano nove dialetti italiani e il
francese.
Il Caravia, nel Sogno (1541), immaginava che Zuan Polo - da poco defunto - gli
raccontasse del modo in cui da morto, ricongiungendosi nell’aldilà al collega Domenico
Tagliacalze, fosse riuscito a sopraffare le forze dell’inferno, sciorinando innanzi ai diavoli
l’intera rassegna dei suoi “pezzi forti” comici. Lì egli dava prova delle sue capacità imitative e
parodistiche, vocalizzando i versi di cani e gatti, fantolini e vecchi, bergamaschi, e stranieri:
albanesi, greci, schiavoni, e perfino saraceni nelle «canzon da sarasin»125. La capacità di
coinvolgere e divertire l’inferno rappresenta iperbolicamente il potere comico del contrafar
voci umane e versi animali, dialetti e lingue, utilizzando anche la musica126.
Il plurilinguismo veneto si esprimeva anche nella musica popolare e nel contesto
carnevalesco. Nella già citata ballata popolare Chi non fa co faro mi havera la taccha il
cantastorie si esprimeva in tutte le lingue degli spettatori presenti per invitarli al Carnevale.
Era insomma una specialità istrionica, tipica dello spettacolo di strada, che continuò a essere
proposta lungo tutto il Cinquecento, e anche all’esterno del contesto veneto. Una notevole
descrizione delle capacità linguistiche e mimetiche di un buffone di ambiente non veneto sta
nella Piazza universale di Tommaso Garzoni (1585): «fa del Bergamasco a spada tratta, come
fusse il primo della vallata, è Magnifico nel porgere, Spagnolo nel gestire, è Todesco nel
camminare, è Fiorentino nel gorgheggiare, è Napoletano nel fiorire, è Modenese in fare il
gonzo, e Piemontese nel languire, è la simia [scimmia] di tutto il mondo nel parlare, è nel
vestire»127.
Questo plurilinguismo era stato portato fin sui palcoscenici del teatro ufficiale fin
dall’inizio del secolo, inizialmente come “intermedio”, cioè piccolo episodio spettacolare
recitato o coreografato, inserito incongruamente (ma spesso con grande successo) fra due atti
di una commedia o di un dramma. Il diario di Marin Sanudo descrive un “intermedio” recitato
da Zuan Polo a Venezia a febbraio del 1515, per il Carnevale, fra gli atti del Miles gloriosus
plautino messo in scena dagli “Immortali” della Compagnia della Calza. Il buffone vi giocava
col tema del viaggio del negromante all’inferno, dove trovava Domenico Taiacalze che
«cazava [cacciava] castroni: el qual con li castroni vene fuora, fe’ un ballo essi castroni»128: lo
spunto da cui poi il Caravia trasse il Sogno. Ma un episodio pluringuistico (con alternanza di
veneziano, bergamasco e schiavonesco) si trova anche in un dialogo in versi contenuto in un
intermezzo teatrale anonimo “alla bulesca”, cioè basato sulla figura spavalda del bulo o
sbrico, il nostro “bullo”. Il testo è conservato alla Biblioteca Comunale di Treviso, e il suo
autore potrebbe essere lo stesso Zuan Polo, o un suo seguace, data la presenza di due suoi
personaggi (Rado e Margherita)129.
Plurilinguista sarà, nel secondo terzo del Cinquecento, il teatro di Andrea Calmo: «in
quella minuscola summa che è la Spagnolas […], al villano, al facchino, al vecchio veneziano
si affiancano lo Scarpella spagnoleggiante e lo stradiotto Floricchi, quasi che l’intento
documentario della realtà circostante, in questo testo così partecipe degli umori e dei problemi
125
Cfr. Sogno, CCXXXVII, 1-2; CCCXLVII, 6-8; CCCLXXVII, 1-5; CCCLXXXII, 6-7.
Sogno, CCCLXXVI, 4.
127
Dal discorso CXIX, De’ Buffoni o Mimi o Istrioni, p. 559.
128
Cit. in HENKE 2002 : 60 s.
129
VIANELLO 2005: 78 e n. 16.
126
32
del tempo, non potesse mancare di coinvolgere l’aspetto linguistico»130. Il “pedante raguseo”
che pronuncia il prologo della commedia si esprime invece nella “parlaura dalmatina”. Ma il
culmine si tocca nella Rodiana, dove un virtuosistico florilegio poliglotto - paragonabile al
precedente rabelaisiano - viene messo in scena grazie a un artificio della trama (Atto II, scena
8). Qui il personaggio di Truffa finge di essere posseduto, e al prete che deve esorcizzarlo
risponde in sette lingue e dialetti diversi: francese, dalmata, spagnolo, albanese, e in
napoletano, milanese e fiorentino131.
Questa vena era cara non solo a Calmo, ma anche agli altri due autori presenti nella sua
compagnia, dallo stesso Calmo definita132 come “Scuola d’i Liquidi”: Gigio Arthemio
Giancarli, di cui ci sono rimaste due commedie (La Capraria e La Zingana, pubblicate
rispettivamente nel 1544 e 1545), e il citato Antonio Molino, le cui opere teatrali non ci sono
purtroppo pervenute. Tutte le commedie dei Liquidi sono scritte in “varie lingue”: Zancarini
ha calcolato che complessivamente, nelle loro opere, si trovano parole e battute in veneziano,
toscano, padovano, bergamasco, friulano, milanese, napoletano, e (tra le lingue non italiane)
in dalmata, greco, tedesco, francese, spagnolo, turco e arabo133.
Questa voga plurilinguistica nel teatro veneto dura un ventennio scarso, culminando
negli anni Quaranta, per estinguersi verso la fine del decennio successivo: ultimo erede diretto
ne sarà Marin Negro, che qualche tempo prima prima del 1558 mette in scena la sua
commedia plurilinguistica La Pace (pubblicata nel 1561)134. Confronti e contrasti fra “diversi
linguaggi” proseguono con gran successo nella Commedia dell’arte per altri due secoli, ma
con una differenza, rilevata da Vianello. Se anche i comici dell’arte usarono la contraffazione
vocale e i “diversi linguaggi”, essi lo fecero in modo “connotativo”, a creazione e definizione
di personaggi comici; mentre il buffone usava tali tecniche in modo “simulativo”, senza
identificarsi con un “tipo”, anche perché le sue esibizioni erano generalmente solitarie135.
Questo modello sarà adottato anche dalla Commedia madrigalesca, con una significativa,
potente variante, fornita dalla musica e dal canto136.
3.2 Polifonia dei “diversi linguaggi” in musica
L’artificio dei “diversi linguaggi” troverà infatti il suo massimo exploit in congiunzione
con l’arte musicale della polifonia. L’incrocio della tecnica plurilinguistica e di quella
polifonica fanno, dell’una, un complemento virtuosistico e sperimentale dell’altra. La loro
unione sviluppa un potenziale che si esprime pienamente nel contesto teatrale.
In effetti il plurilinguismo nella musica vocale, dopo il caso isolato delle “battaglie”
quattrocentesche, e dopo il suo uso in canzone da parte di buffoni e cantimbanca del primo
Cinquecento, andrebbe studiato nelle sue relazioni con la Commedia dell’arte, da un lato, e
con la tradizione carnevalesca della mascherata dall’altro. Queste relazioni si manifestano
pienamente a partire dall’ultimo quindicennio del Cinquecento, in varie opere di alcuni
compositori di area padana, che formano un insieme compatto. Esse costituiscono infatti la
130
LAZZERINI 1977: 48. «L’apprezzamento per la rusticitas pavana non esclude necessariamente l’interesse per più eccentriche sperimentazioni»
(ibidem). Ritroviamo la tecnica plurilinguistica anche nei versi di Calmo, nella raccolta Le bizzarre, faconde, et ingeniose rime pescatorie, pubblicata
nel 1557 (LAZZERINI 1977: 37).
131
ZANCARINI 1992: 127 e n. 21.
132
In una lettera burlesca in forma di testamento; cfr. ZANCARINI 1992: 121.
133
ZANCARINI 1992: 122. Tuttavia non ci sono personaggi francesi, spagnoli e turchi, né napoletani e milanesi: queste lingue e dialetti
compaiono solo grazie all’abilità di alcuni personaggi a contrafar (ZANCARINI 1992: 127). La Zingana di Giancarli «è l’unica commedia
in cui appare un personaggio la cui lingua originaria è l’arabo», anche se questo personaggio della zingara parla in realtà un italo-veneziano
con tratti arabofoni (ZANCARINI 1992: 128).
134
Dal prologo della Pace si evince che verso la metà degli anni Cinquanta Calmo e compagni avevano smesso di scrivere e interpretare
queste commedie plurilinguistiche (ZANCARINI 1992: 122).
135
VIANELLO 2005: 50 s.
136
Nel prologo della Selva di varia ricreatione di Vecchi si allude esplicitamente all’uso poliglotto dei “diversi linguaggi” (dove i dialetti
italiani vengono usati estensivamente assieme ad alcune lingue straniere) come un artificio tipico delle «Comedie all’improvviso».
33
summa e il punto d’arrivo di due lunghe storie, che attraversano l’intero corso del
Rinascimento: la curiosità linguistica, che porta a rielaborazioni artistiche di gerghi, pidgin,
latino, lingue straniere, dialetti italiani, e sperimentazioni sull’onomatopea e sul nonsense; e la
definitiva commistione di poesia, canto, musica, teatro, mimo buffonesco e mascherate
carnevalesche.
Fra le prime opere musicali in “diversi linguaggi” è il citato Dialogo a dieci del
novarese Michele Varotto, pezzo conclusivo della Fiamma ardente (parte di un gruppo di
quattro madrigali a cinque voci risalente al 1586): di ciascuno dei due cori, interamente
composti da personaggi che si esprimono o nei dialetti italiani o nelle principali lingue
straniere, fanno parte anche tipiche maschere della Commedia dell’arte. Troviamo infatti nel
primo coro uno spagnolo, un napoletano, un milanese, un ragazzo zingaro e Graziano, e nel
secondo un siciliano, un genovese, un francese, più il classico duetto del Magnifico e
Zanni137. I personaggi dialogano simultaneamente a voci singole, con l’effetto che varie
conversazioni si intrecciano e si sovrappongono. La duplice presenza linguistica dei dialetti e
delle lingue straniere si trova enfatizzata anche nella interpolazione di due canti popolari,
Cingarin del babo e A Paris sur petit pont, che vengono però eseguiti alternati fra i due cori.
Una struttura analoga verrà riproposta nel brano Diversi linguaggi contenuto nella Selva
di varia ricreatione di Orazio Vecchi, pubblicata nel 1590. Il brano costituisce una vera e
propria, seppure breve, commedia madrigalesca, per nove voci: cinque preesistenti, scritte da
Luca Marenzio (in un momento imprecisato del decennio precedente), e altre quattro aggiunte
da Vecchi. Il brano di Marenzio, della cui versione originale non conosciamo alcuna fonte,
porta un Tedesco, che si esprime nel suo pidgin italianeggiante, e ben quattro personaggi presi
dalla Commedia dell’arte: Zanni e il Magnifico, impegnati in una disputa (il servo, affamato,
reclama le paghe arretrate), e insieme a loro Franceschina e Girometta, che cantano i due
omonimi canti popolari, rispettivamente in dialetto veneziano e bolognese. Anche qui, i canti
di tradizione orale sembrano funzionare come marcatori musicali di identità etnica, prima
ancora che dialettale. Si noti che la Girometta viene citata dal personaggio del dottore
bolognese, Gratiano, come “la mia canzone preferita quando ero innamorato di una bella
fanciulla”. La frase, pronunciata nel suo dialetto, e l’allusione alla canzone delle sue parti,
individuano mutuamente un microcosmo perfettamente localizzato, oggetto di un sentimento
elegiaco, e doppiamente “identitario”: in quanto autobiografico, e in quanto legato alle proprie
tradizioni.
Le voci e i personaggi aggiunti da Vecchi vanno ad arricchire il quadro plurilinguistico
già impostato da Marenzio, aumentando però non le lingue straniere ma i dialetti, e inserendo
anche il latino138. Tutto compreso, l’insieme è notevole: a parte le maschere della Commedia
dell’arte, i testi dei Diversi linguaggi di Marenzio/Vecchi mettono insieme il bergamasco, il
veneziano, il bolognese, il toscano, il latino “pedantesco” e il pidgin del Tedesco. Un chiaro
spaccato linguistico del multiforme cosmo cinquecentesco, di cui Kirkendale ha sottolineato
le implicazioni sociali, sottolineando che l’aggiunta di voci da parte di Vecchi incrementa sia
le possibilità drammatiche del microcosmo dei personaggi, sia la vitalità ritmica della
composizione musicale in sé e per sé139.
Interessante il ruolo di Graziano, che commenta le varie parti in commedia, fornendone
una traduzione nei tipici “a parte” che in teatro vengono rivolti direttamente agli spettatori.
Egli fornisce infatti una “riduzione veneziana” del poliglottismo in scena, localmente
collocata sia nel punto di vista che nel dialetto: «Ah, ah, ah, ah, ah, cosa dis questor? Al ghe
n’è un che dis “E la bella Franceschina ninina buffina, La filli bustachina”. Es ghe n’è un che
dis la me favorida quand’a iera inamorad d’una bella putta, “Chi t’hà fatte quelle scarpette
137
KIRKENDALE 1972: 228.
Le aggiunte di Vecchi riguardano quattro personaggi: le ben note figure di Graziano, del Pedante e di uno “Scolare”, più un altro chiamato “Fate
ben per voi”, come un celebre eremita romano. Scolare e Pedante intrattengono anch’essi una disputa, come Zanni e il Magnifico (KIRKENDALE
1972: 181).
139
KIRKENDALE 1972: 230.
138
34
Che ti stan si ben?”. Al ghè quell’altra bestiazza de Zan che dis “a voi al me salarie”. E
Pantalon ghe dis “tirra via”. Al ghè po un cert’invriagon che dis “Mi non esser minchion, Mi
star bon compagnon”. E dov’ lassavi una cera d’Hiporcate chal sta sempr’ in s’una vosa
gridando “Fate ben per voi”? Av’ do la bona sira, bon sir». La “diversità” sintagmatica vi
trova una sua parallela versione paradigmatica.
Giovanni Croce Chiozzotto (da non confondere col cantimbanca Giulio Cesare Croce),
impiegato come cantante nella cappella privata del Duca di Venezia, usò a sua volta la tecnica
dei “diversi linguaggi” in due suoi cicli di mascherate, che probabilmente venivano eseguiti
durante i banchetti del duca, o come intermezzi teatrali (meno probabilmente negli spettacoli
di strada, dato il prestigio professionale del cantante-compositore). Nelle Mascarate piacevoli
et ridicolose per il Carnevale (pubblicate nel 1590, quando - come si desume dalla dedica - il
ciclo era già molto famoso e richiesto), si ascolta in apertura una Mascarata da Lenguazi, per
sei personaggi: uno Zane (Zanni), il Magnifico, la Lessandrina, Gratiano, Quinto, e un
Tedesco. I sei si sovrappongono, ciascuno con un suo verso (il Tedesco, al solito, invita al
brindisi: «Brindes’, io berlich. Mi star bon compagnon, io»), finché intonano in coro il
ritornello popolare «Runda, rundella, runda, la rundinella gnechelle», presto punteggiato
solisticamente da altri versi e ritornelli. Gli altri brani del ciclo sono tutti di gruppo: i
Magnifici (che giocano all’eco), le “Donne Pitoche” (cioè mendicanti), i “Pescaori”, le
Buranelle venditrici ambulanti di colletti di pizzo, e in conclusione una Mascarata da Furlani
con l’intreccio dei richiami di venditori e operai friulani che offrono le loro prestazioni, non
senza confessare quanti barili di vino abbiano già consumato.
Sempre del Chiozzotto, la Triaca musicale (1595) sciorina una sorta di catalogo
polifonico in cui vari elementi della ricerca linguistica rinascimentale vengono presentati sia
“sciolti”, sia nella combinazione plurilinguistica. Il fatto che Croce intitoli la raccolta alla
triaca, “panacea di tutti i mali”, rappresenta un atto di fede verso le virtù taumaturgiche del
buonumore, ma anche, nello specifico, la testimonianza del potenziale umoristico riconosciuto
agli stili messi in commedia. Nei vari brani della raccolta troviamo un singolo Pantalone (non
più un coro di Magnifici come nelle Mascarate del 1590) alle prese con l’Ecco (eco) del
bosco, e vari gruppi omogenei di maschere nella Canzon da Contadini pavani (in dialetto
padovano, col ritornello tradizionale della tandararitondella), nella Mascheratta de Gratiani,
nella Canzonetta da Bambini; due versi avicoli gareggiano in onomatopea nella Canzon del
Cucco, e Rossignuolo [cuculo e usignolo] con la sentenza del Pappagallo (quest’ultimo
dichiara vincitore il cuculo). Si noterà come il potere del comico si esplica qui in una sorta di
catalogazione antologica degli esiti formali e spettacolari delle due direzioni di sviluppo già
evidenziate: quella del carnevalesco (le mascherate), e quelle della specialità buffonesca del
contrafar versi animali, voci di bambini, dialetti, mentre ad alcune lingue straniere è dedicato
l’unico brano plurilinguistico della raccolta, l’Incanto della Schiava.
Qui lo spunto è dato dalla vendita all’asta di una schiava chiamata Angela, pregevole
per bellezza e abilità domestiche, nella quale concorrono due stranieri (uno spagnolo e un
tedesco) assieme a un napoletano, un fiorentino, il Graziano bolognese e un veneziano, il
quale alla fine si aggiudica la fanciulla per la ragguardevole cifra di ottanta scudi. Gli italiani
si esprimono ciascuno nel suo dialetto, mentre dei due stranieri il primo fa la sua puntata in
uno spagnolo approssimativo e imbastardito, il secondo inanella i tradizionali stereotipi sui
tedeschi (in un pidgin basato, per una volta, sul dialetto veneziano: «Mi foler dar per ste
galante fie [questa galante figliola] / Quaranta scudi e pagar malvasie»).
Ma il massimo impianto “teatrale” del plurilinguismo si raggiunge in musica con la
Barca di Venetia per Padova di Adriano Banchieri (1605), dove scena e intreccio convergono
nella tipica immagine veneziana del traghetto. L’iniziale Strepito di pescatori, in dialetto
veneto, si apre con i richiami della vendita del pesce che si contrappuntano con una
descrizione degli incerti del mestiere della pesca. Poi un Libraio Fiorentino invita in barca
cinque cantori per l’esecuzione di «alcune capricciate del Banchieri», annunciando uno
35
«spasso […] artifitioso e onesto». Nel Concerto di Cinque Cantori un Napoletano, un
Fiorentino, un Bolognese, un “Venetian” e un “Thedesco” cantano ciascuno da solista un
distico nel proprio dialetto (lo straniero nel convenzionale pidgin italo-tedesco), alternati al
coro. Seguono, oltre a vari madrigali (fra cui uno alla Romana, un altro alla Napolitana, e
un’Aria a imitatione del Radesca alla Piemontese), un episodio solistico affidato al Thedesco
e un altro agli Hebrei, di cui abbiamo già trattato.
Di questo gruppo di autori e di opere fa parte anche Giulio Cesare Croce (1550-1609),
anche se nulla ci è rimasto del modo in cui egli porgeva in musica le sue invenzioni verbali,
nella tradizione degli intrattenitori di piazza. Poeta e cantastorie popolare bolognese140 di
grandissimo successo, egli ereditava - in quanto cantimpanca e comico “da strada” - vecchie
tecniche buffonesche, tra cui lo stesso plurilinguismo. Nello stesso tempo Croce ebbe
rapporti, sia diretti che indiretti, con i massimi autori delle commedie madrigalesche. Si è già
accennato che egli era amico personale di Vecchi, e suo collaboratore, forse anche per
l’Amfiparnaso141; mentre Banchieri aderì al genere di letteratura prediletto da Croce scrivendo
nel 1620, dopo la morte dello scrittore e cantimbanco, la Novella di Cacasenno, figliuolo del
semplice Bertoldino, a completamento del ciclo del Bertoldo (Le sottilissime astutie di
Bertoldo e Le piacevoli et ridicolose simplicità di Bertoldino) che Croce aveva pubblicato fra
il 1606 e il 1608, nell’ultimo scorcio della sua carriera.
Croce cantava le sue composizioni, accompagnandosi con lo strumento a corde che gli
avrebbe dato il soprannome di Giulio Cesare Della Lira, e vendendo opuscoli contenenti i testi
del suo repertorio. Come cantastorie agiva principalmente per le strade di Bologna, ma la sua
fama lo portava anche a viaggiare: fu a Modena, Ferrara, Mantova, Venezia. Il suo apporto al
revival delle tecniche pluridialettali e plurilinguistiche durante l’ultimo quarto del
Cinquecento potrebbe essere stato fondamentale. Nello stesso tempo egli recepiva i
personaggi della Commedia dell’arte, in una sorta di cortocircuito in cui questi, partiti dalle
espressioni più modeste e stradaiole della cultura urbana di stampo popolaresco, passati alle
scene veneziane e poi al nomadismo dei comici dell’arte, tornavano allo spettacolo di piazza.
La miscela di dialetti e occasionali lingue straniere (in particolare lo spagnolo, tipico del
personaggio del Capitano) della Commedia dell’arte viene da lui restituita al contesto
carnevalesco nella Tragedia in comedia fra i bocconi da grasso e quei da magro la sera di
Carnevale, pubblicata per la prima volta nel 1608: dopo un prologo recitato da un’anguilla,
l’autore vi metteva in scena Pantolone, Pedrolino, gli innamorati, Francatrippa, il Dottore,
Arlecchino e lo Spagnolo, fra gli altri. Non mancavano né la musica, eseguita fra i vari atti, né
la danza buffonesca, nella conclusione affidata a «un garbato mattazzino» eseguito da vari
pesci142. E al personaggio di Zanni, da lui spesso frequentato, Croce dedicò il massimo exploit
virtuosistico della comicità pluridialettale: Le Nozze del Zane, in lingua bergamasca, nella
quale si vedono sedici [!] linguaggi tutti differenti, e dove gli ospiti di Zanni lodano, ciascuno
nel proprio dialetto, i piatti preferiti.
Croce muore appena tre anni dopo la conclusione della breve stagione della commedia
madrigalesca, che discendeva per li rami proprio dal plurilinguismo dei vecchi comici di
strada, come Zuan Polo. Con lui si chiude un ciclo la cui evoluzione investe l’intero
Cinquecento, ma che nel giro di poco più di un ventennio, già affacciandosi sul secolo
successivo, trova l’apice in una sperimentazione musicale sulle radici carnevalesche,
buffonesche e teatrali - ormai imbricate - di una nuova comicità. La sperimentazione si trova
140
Come si apprende dalla sua autobiografia, Descrittione della vita del Croce, il futuro scrittore e cantimbanco si trasferì col padre a Medicina, nel
bolognese, attorno al 1563, e qui scoprì la sua vocazione di “poeta campestre” («Or quindi dier principio a saltar fuori / i grilli, i parpaglioni, le
chimere / de la mia zucca, e i stravaganti umori»), dilettando con le sue canzoni i signori del casale che li ospitava. Diciottenne si trasferì a Bologna
dove, oltre a mantenersi col mestiere paterno del fabbro, esordì come poeta di piazza, cimentandosi nei generi “di strada” ma dedicandosi a numerose
e disordinate letture, e scoprendo Ovidio.
141
Esiste una lettera che testimonia la cordialità di rapporti e la discussione di un progetto in cui Vecchi chiedeva l’assistenza dell’amico.
Dent considera probabile che Vecchi fosse assistito da Croce nell’elaborazione dei testi dell’Amfiparnaso, per alcune corrispondenze fra
questo e certe opere del Croce (DENT 1911: 344).
142
DENT 1911: 336 s.
36
espressa su contrappunti e polifonie di lingue e dialetti, usando la musica ora per concertarne
il difficile dialogo, ora per rappresentarne icasticamente la sovrapposizione in un’inestricabile
Babele. Concluso questo breve ma intenso periodo, la nuova comicità si separa dalla musica
per assorbirne gli artifici linguistici in una vena teatrale destinata a una lunga storia. È la
dimensione dell’equivoco verbale, sorta di “terza via” - alternativa sia al dialogo che alla
cacofonia - per rappresentare scenicamente (a volte anche in musica) i problemi di
comunicazione in una società alle prese con l’interculturalità.
3.3 Il secondo Cinquecento: un teatro dei dialetti e degli equivoci
La Commedia dell’arte seppe portare a maturazione il potenziale comico delle differenze
linguistiche, ma in un modo diverso dalle precedenti sperimentazioni.
Il meccanismo dell’interazione fra parlanti dialetti regionali costituisce uno nei nuclei
storici della commedia italiana: gli scambi tra veneziani e bergamaschi, ad esempio, sono
materia del classico duetto tra un padrone e un servo. Ma essa è innanzitutto, e per sua natura,
un teatro dei dialetti - di “diversi dialetti”, e solo secondariamente di “diversi linguaggi”.
Nella varietà definibile “lombarda” o settentrionale predominavano il veneziano, il bolognese
e il bergamasco; e ne esisteva anche una varietà “meridionale”143.
Tuttavia, i personaggi alloglotti non mancavano. La Commedia dell’arte contribuisce
infatti allo sviluppo spettacolare del poliglottismo rappresentando, fra le sue presenze minori,
alcuni tipi umani e linguistici “locali” (regionali, nazionali, anche internazionali). Negli
scenari di Scala, certo facendo sèguito a una tradizione già ben avviata, troveremo ad
esempio, al fianco delle maschere canoniche, sia «personaggi dal sottobosco urbano, alcuni
dei quali avevano affinità con gli attori itineranti: musicisti girovaghi, mendicanti, vagabondi,
bari, pazzi, ciarlatani», sia «figure provienienti da tutte le coste del Mediterraneo, spesso
incontrate in trame di intreccio amoroso, come mercanti arabi o turchi, zingari, schiavi di
galea, pirati»144.
Fra i personaggi alloglotti (senza contare quanti si esprimevano in latino
maccheronico, lingua dei dottori pedanti), i più diffusi erano quelli che parlavano in spagnolo,
lingua dei capitani sbruffoni. Qualche volta, però, lo spagnolo sbordava dal cliché del
Capitano. Vestito da spagnolo, Burattino fa lazzi in lingua spagnola in Li Finti turchi, nella
raccolta di di Basilio Locatelli del 1622 (I, f. 21 1v)145. Lazzi analoghi sono basati sulla
pretesa di alcuni personaggi di insegnare ad altri la lingua spagnola, come in Li Amanti ingrati
(dalla Corsiniana, raccolta risalente ai primi del Seicento, I, f. 126r), e nell’anonimo Gli
sdegni amorosi (ms. Museo Correr, II, 246)146.
Episodicamente emergevano altre lingue, come il francese, e le tre che abbiamo
considerato nella musica vocale: tedesco, greco, ebraico147. Francese e tedesco appaiono solo
in forma di pidgin, ma doppiano la metà del Seicento fino al Settecento inoltrato148; assai più
rari quelli in ebraico e nelle lingue dell’Europa orientale, come il polacco149. Si schiudono, in
143
Fanno eccezione i personaggi dei giovani innamorati. Perrucci, che nel trattato Dell’arte rappresentativa (1699) enuncia regole ed esempi
(molti dei quali dialettali) validi per i vari personaggi della Commedia dell’arte, agli “innamorati” prescrive un italiano letterario, basato sul
toscano, e con un’enfasi retorica e iperbolica già nota alla commedia erudita (CLIVIO 1989: 215 s.).
144
HENKE 2002: 18.
145
CAPOZZA 2006: 68.
146
CAPOZZA 2006: 68 s.
147
CLIVIO 1989: 209.
148
Lazzi del genere appaiono in alcuni dei canovacci pubblicati nello Zibaldone di Dominique Biancolelli, attore bolognese presente dal
1662 nella troupe della Comédie-Italienne a Parigi. Ne troviamo in francese in L’ipocrita (574); inoltre, Arlecchino racconta una storia di La
Fontaine in un misto (ridicolo e osceno) di francese e italiano in una messa in scena a Parigi nel 1716. Presenze linguistiche in tedesco
compaiono sia in commedie del Seicento, come il Baron Todesco (179) di Biancolelli, sia in singoli lazzi detti “della lista”, come quelli
presenti in vari scenari contenuti nello Zibaldone del 1734 di Placido Adriani (cfr. CAPOZZA 2006: 69, 352; GORDON 1983: 57).
149
Poco dopo l’inizio del Seicento si trova un raro e precoce lazzo in finto polacco in L’Hospite amoroso (Corsiniana, II, f. 183r) (CAPOZZA 2006:
68). E una qualche forma di ebraico viene attribuita a personaggi di “giudei” italiani, come in Lo schiavetto (1612) di Giovan Battisti Andreini.
(CLIVIO 1989: 231 n. 2).
37
forma parodistica, anche orizzonti più esotici, come quelli forniti dal mondo moresco e
turchesco150.
Questi meccanismi sono gli stessi che troviamo anche nella commedia madrigalesca di
fine Cinquecento, a loro volta anticipati di qualche decennio in greghesche, ebraiche e
moresche. Stabilire in quale genere - teatrale o musicale - siano cominciati a fiorire è
problematico, anche perché, se l’interazione con le pratiche attoriali dei comici dell’arte è
certa, il loro apporto nel corso del Cinquecento è difficilmente quantificabile.
Come è noto, il problema storiografico della Commedia dell’arte risiede nel fatto che,
mentre abbiamo indizi dei suoi primi vagiti fin dagli anni Trenta del Cinquecento, e trent’anni
dopo anche un esempio in nuce della sua prassi drammaturgica - consegnataci nel 1568 da
due musicisti, Orlando di Lasso e il suo amico Massimo Troiano, che ce ne dà la cronaca151 -,
i suoi primi testi a stampa, sotto forma di canovacci, appaiono solo nel 1611 con la
pubblicazione degli scenari di Flaminio Scala. Ma le commedie madrigalesche ci tramandano
indirettamente alla fine del Cinquecento l’esistenza ormai solida, e perfino già stereotipata, di
personaggi caratteristici in relazione fra loro attraverso precisi schemi funzionali, narrativi e
drammaturgici. Attraverso opuscoli e vari tipi di personaggi, sappiamo anche che uno dei
principali nuclei di questo schema, il duetto tra il vecchio e il servo (in seguito cristallizzati
l’uno nel Magnifico e in Pantalone, l’altro nello Zanni e nelle varie sue incarnazioni come
Pedrolino, Burattino, Arlecchino, etc.), risale già alla prima metà del Cinquecento. Benché
scarseggino riferimenti diretti per quasi cent’anni di storia della “commedia all’improvviso”,
quelli indiretti - fra i quali molti da noi finora considerati - sono dunque piuttosto numerosi.
Nella Commedia dell’arte, così come in quella madrigalesca, l’insieme dei personaggi
dialettali e di quelli stranieri finisce per disegnare il virtuale microcosmo di una società nella
quale la comunicazione interpersonale si poneva, spesso e volentieri, il problema
dell’intelligibilità. È stato spesso evidenziato come tale problema, causato innanzitutto dalle
grandi differenze fra un dialetto e l’altro, andasse a costituire nel teatro una feconda materia
comica152. Da parte nostra abbiamo verificato come, in musica, la simultaneità polifonica
dell’uso dei “diversi linguaggi” tendesse inevitabilmente a rendere inintellegibili, se non per
sprazzi, i vari discorsi. La commedia madrigalesca traduceva in musica quello che doveva
essere un reale problema di comunicazione delle società rinascimentali: rappresentazione
iperbolica di un normale accidente della vita quotidiana, specie nelle grandi città. Nella
musica, la polifonia dell’ordine si prestava a rappresentare la polifonia del caos.
Tuttavia, tranne eccezioni, il plurilinguismo “contrappuntistico” non è ingrediente
tipico della Commedia dell’arte153, sia perché i personaggi stranieri sono in minoranza e
prevale invece la varietà dei dialetti, sia perché il suo meccanismo scenico si basa soprattutto
su duetti comici, e dunque non si incontrano quasi mai più di due dialetti simultaneamente,
oppure una lingua straniera e un volgare italiano. La commedia “all’improvviso” comunque
produrrà, oltre ai suoi duetti dialettali (schematici e alla lunga ripetitivi, come quelli fra
Pantalone e Zanni), meccanismi perfetti e non di rado irresistibili di “equivoci verbali”, basati
su varie specie di incomprensione reciproca, che si stabiliscono in un repertorio di lazzi
ricorrenti. La Commedia dell’arte scioglie la Babele in farsa.
150
In Li tappeti alessandrini (1611) di Flaminio Scala (II, 266), Pedrolino e Pantalone, il primo vestito da turco e il secondo da schiavo,
elaborano una scena basata sul “parlare turchesco”. Lazzi “turcheschi” sono più volte affidati ai personaggi di servi: in La Turchetta, nella
raccolta di Locatelli (II, f. 146r), Zanni fa lazzi fingendo di parlare in lingua turchesca, e Arlecchino si esibisce nell’imitazione di un
mercante turco in Biancolelli, Tre finti Turchi, 320 (CAPOZZA 2006: 68 s.). Più tardi, expolit linguistici dello stesso tipo compariranno
sovente nel repertorio napoletano del Sei-Settecento, in particolare nelle raccolte di scenari di Annibale Sersale e di Placido Adriani. Si
vedano il Pulcinella travestito da pascià in Sorella picciola (I, 323), nella raccolta di Sersale, conte di Casamarciano, che contiene 176
scenari secenteschi (CAPOZZA 2006: 163), e Coviello in La Sorella, nella raccolta settecentesca di Adriani (II, iv, f. 149r) (CAPOZZA
2006: 69). Ancora Coviello e Pulcinella, in L’insalata di Adriani (III, xi-xiii, ff. 156v-157r), per fare una burla a Lattanzio vanno in scena
vestiti da turchi, esibendosi nel parlar turchesco e in lazzi sui salamelecchi (CAPOZZA 2006: 162).
151
152
153
CLIVIO 1989: 211 s.
Ma, ad esempio, Zanni fa lazzi in diversi linguaggi in Gli Scambi (Corsiniana, I, f. 49r) (CAPOZZA 2006: 68).
38
In essa, i problemi di comunicazione interlinguistica generavano due diversi modelli
nel modo in cui veniva affrontata questa materia comica. L’eventuale incomprensibilità dei
personaggi fra di loro, e quella del pubblico posto di fronte a scene polidialettali, erano infatti
risolte in modo diverso. Le difficoltà degli ascoltatori - un problema meramente tecnico venivano compensate dalla gestualità, dalla formularità delle situazioni, dalla riconoscibilità
di scherzi e beffe espresse dai “lazzi”: la struttura stessa della commedia italiana si presta a
integrare la comunicazione verbale con altri supporti espressivi e comunicativi. Le difficoltà
di comunicazione fra i personaggi entravano invece a far parte degli spunti tematici, e
andavano quindi valorizzate per alimentare il meccanismo comico. Ad esempio, nella prima
scena del primo atto di L’amico tradito di Pier Maria Cecchini (1633), il Dottore e Pantalone
discutono accaloratamente dei rispettivi figli ma, parlando l’uno in bolognese e l’altro in
veneziano, non riescono a capirsi. Ne nasce un equivoco: il dottore intende la parola “far”
come farro, Pantalone come infinito sostantivato del verbo fare (implausibile, perché in
bolognese si direbbe “fer”)154. Anche un tipico personaggio straniero come il Capitano
spagnolo viene spesso e volentieri frainteso, onde poter generare lazzi basati sull’equivoco
verbale, come nella commedia Li due Pantaloni (Corsiniana, I, f. 23r)155. Così il meccanismo
comico dell’equivoco diventa alternativo a quello della “polifonia”: la catena di significanti e
significati fraintesi dinamizza l’intrinseca musicalità dei “diversi linguaggi” in una sorta di
sviluppo per temi e variazioni sui suoni delle lingue, con le occasioni offerte da omofonie e
solecismi, che sfruttano il meccanismo retorico della paronimìa. Il riflesso di un problema di
comunicazione scaturito da una realtà sociale sempre più articolata e complessa consentirà
così di sviluppare nel teatro comico una molteplicità di risorse, spunti, dinamiche, che
meritano di essere indaghate sia storicamente che morfologicamente.
3.4 La comicità dell’“equivoco interlinguistico”
Quando nasce, nella storia del teatro, questa particolare risorsa della comicità? Osservando
che nel teatro «il plurilinguismo è premessa indispensabile al funzionamento di uno tra i più
collaudati espedienti comici», quello dell’equivoco interlinguistico, Lazzerini pretende di
tracciare una continuità che dal Poenulus plautino, col suo personaggio del Cartaginese,
passerebbe dagli esempi sacchettiani o burchielleschi (per quanto non di natura scenica) fino
al teatro comico del Cinquecento156. Ma è poco credibile parlare di continuità senza essere in
grado di riempire un salto più che millenario da Plauto fino alla novella o ai sonetti del
Duecento. Sulla derivazione del plurilinguismo dalla commedia antica, si sono spese
affermazioni apodittiche, difficilmente condivisibili157. Qualche ipotetico umanista
rinascimentale può anche aver riconosciuto nella commedia antica l’anticipazione di un
meccanismo comico dei suoi tempi, magari compiacendosene. Ma il plurilinguismo era nella
società: in quella romana al tempo di Plauto, in quella italiana all’epoca della commedia
rinascimentale, in una relazione puramente paradigmatica, ma per situazioni storiche
contingenti e diverse.
Stiamo parlando infatti di un dato di realtà che influenza la produzione artistica:
l’inverso non si pone. Una realtà anche cruda: nel Cinquecento italiano, diversamente che nel
mondo romano antico, sentir risuonare lingue straniere nelle proprie città poteva essere
inquietante e minaccioso, specie in tempo di guerra. Ce lo ricorda Pietro Aretino in una
154
CLIVIO 1989: 229.
CAPOZZA 2006: 68.
156
LAZZERINI 1977: 34.
157
Ad esempio Elwert suppone che il mélange linguistico nelle opere del Rinascimento sia stato suggerito dalla commedia antica greca e
latina, pur ammettendo che lì era ben poco sviluppato: ed è pura illazione che esso sarebbe stato «esagerato sotto l’impulso dello spirito
universalistico degli uomini del Rinascimento» (ELWERT 1960: 419). Altrettanto fa la Lazzerini quando, in uno studio successivo a quello
già citato, considera probabile «che l’esempio plautino abbia costituito, per gli autori rinascimentali, una sorta di autorevole legittimazione
dei più audaci inserti alloglotti (arabo, neogreco, turco)» (LAZZERINI 1978b: 131).
155
39
crudele visione parodistica delle violenze e degli stupri che funestarono il sacco di Roma del
1527, nella frottola Pas vobis, brigate!: «Vidi una suora bella, / che si stava in cagnesco, / che
dinanzi un tedesco e dietro avea / un spagnol, che facea / a don Caragio festa», dove il nome
del soldato spagnolo sta per carajo, il membro maschile158.
L’emergenza di personaggi alloglotti e scene plurilinguistiche nel Rinascimento ha
dunque una sua piena autonomia: da tempo, la storiografia critica ha sottolineato il forte
legame del teatro comico rinascimentale con la realtà specifica dei suoi tempi e dei suoi
luoghi, e la sua sostanziale indipendenza - eccettuate alcune convenzioni, non sempre e non
tutte rispettate - dalla drammaturgia romana antica159.
È la presenza storica di alloglotti nelle società italiane a fornire spunti per
caratterizzazioni e azioni comiche. Prima del Rinascimento, nella letteratura (non solo
comica) si riscontra, più che un autentico poliglottismo, qualche forma di contaminazione
linguistica: che ha le sue radici nelle lingue maccheroniche, sulla base del latino. Lo spunto
tracima anche nel teatro rinascimentale con la figura comica del pedante, parodia che svela
l’incompetenza dei presunti intellettuali, mettendone in scena l’incomprensibilità vuota e
pretenziosa. Il ridicolo si incentra qui sul parlante, non sull’inadeguatezza linguistica di chi,
ascoltando, fraintende. Ma in questo caso, come in altre tipologie di nuova introduzione, sono
sempre i difetti di comprensione ad alimentare la comicità dell’equivoco. Prima di svilupparsi
in senso interlinguistico, infatti, il meccanismo comico sussiste come equivoco verbale tout
court: dove, per semplice echeggiamento fonetico, una parola viene scambiata per un’altra.
Risorsa comica fertilissima, specie nel teatro, perché può servire a sottolineare l’ignoranza
(per rozzezza o incultura, oppure per estraneità al consesso civico) del personaggio che
fraintende, e perché il risultato del fraintendimento può essere, a contrasto con la parola
fraintesa, abbastanza buffo da generare involontariamente un “motto di spirito” nel senso
freudiano del termine.
È la sfera dei malapropismi, distorsioni involontarie di parole malcomprese, e difatto
sostituite da altre fonicamente simili, ma con tutt’altro significato. Essi producono, nella
realtà, un umorismo involontario: appropriandosene, e sfruttandolo scenicamente, il teatro
rinascimentale amplifica la realtà nella parodia, con vari tipi di sfruttamento e modulazione di
una risorsa attinta alla realtà.
In sé e per sé, i malapropismi involontari che si riscontrano nella realtà comunicativa
sono del tutto innocenti: e tali restano anche in alcune zone della comicità che vi si ispira,
come nella citata scena tra il Dottore bolognese e il Pantalone veneziano in L’amico tradito di
Cecchini. Altra cosa sono invece le deformazioni di parole con intenzione triviale o
ingiuriosa, e spesso oscena. Si tratta di due tipi di fraintendimento: uno inconsapevole, un
altro intenzionale. Entrambi i tipi costellano già le farse spagnole durante la prima metà del
Cinquecento: si vedano esempi come besos > quesos, dove i baci diventano formaggi (Diego
Sánchez de Badajoz, Farsa de la hechichera, 224, 16) e açucena > caqucena, gioco di parole
su caca (Lope de Rueda, Los Engañados, 23)160. Questi due esempi sono emblematici, perché
l’insistenza degli equivoci sulla sfera alimentare o su quella scatologica vanno a formare una
lunga e fiorente tradizione, anche letteraria. In Italia, ad esempio, troviamo già nell’opera di
Luigi Pulci (1432-1484) un sonetto che, riprendendo il genere medievale della “registrazione”
delle grida e dei richiami di un mercato, è dedicato alla parodia del dialetto milanese.
Numerosi e notevoli vi sono gli equivoci verbali: ad esempio il richiamo «I ofel, i ofel» al v. 2
viene inteso dall’orecchio fiorentino come “io ho fiele”, cioè l’itterizia (il che merita per
risposta un “ti prenda il malanno!”); chi propone in vendita un mestolo, che in milanese suona
cazzu, aggiungendo che oggi ne ha da vendere, «inchu gh’è», trova inevitabile risposta al v. 3
in «quel primo in cul ti sia!»; e tutto il sonetto procede sulla medesima falsariga161.
158
Cit. in ORVIETO/BRESTOLINI 2000: 248.
Si veda ad es. RADCLIFF-UMSTEAD 1969: passim.
160
CHASCA 1946: 338.
161
Il sonetto si può leggere in ORVIETO/BRESTOLINI 2000: 164 s.
159
40
Esplorando al riguardo le nostre quattro aree di ricerca - i canti carnascialeschi sui
“todeschi”, le cosiddette “ebraiche”, le greghesche, le moresche -, vediamo innanzitutto che
l’utilizzo a fini comici dell’equivoco interlinguistico vi si esprime in misure molto differenti.
Lo scarso interesse o il sostanziale disdegno per le altre lingue, tipico di ogni forma di
letteratura toscana, fa sì che nei canti dei Lanzi gli equivoci interlinguistici siano praticamente
assenti: la comicità si appunta sul ridicolizzare il carattere del personaggio. Tra le rarissime
eccezioni, troviamo un fottèghe (per “botteghe”) anche un po’ forzato, perché qui il tipico
assordimento di v in f nelle parole “tedeschizzate” dei canti dei Lanzi si estende
eccezionamente alle palatali162.
Anche nelle parodie giudaiche questo genere di equivoco ha un’incidenza limitata,
trovandosi espresso soprattutto nelle parole ebraiche e non nelle deformazioni idiosincratiche
di termini italiani. L’esiguità delle occorrenze dipende anche dal fatto che il numero di parole
ebraiche comunemente note e utilizzate in questo genere di composizioni (poetiche, musicali,
teatrali) è estremamente esiguo. Una delle parole giudeo-italiane più frequentemente fraintesa
è moscogn (“pegno”). Nella commedia Pantalone bullo di Gioannelli 1688, il personaggio
dell’ebreo Bedanna si rivolge a Menacai per riferirgli che è arrivato il signor Pantalone «per
far moscòn». E Pantalone, pensando all’insetto: «Coss’è sto moscòn, mi no vogo né mosconi
né callalini»163. Fin qui ci troviamo ancora nella sfera dell’equivoco innocente. Nel
Ragionamento tra due Hebrei (1588) - forse appena più maliziosamente - la stessa parola
veniva storpiata in “maschion”. Ma più spesso il gioco si basa sulla deformazione di nomi
propri, manifestando un certo disprezzo latente. Ad esempio, il nome Samuel si trova
deformato in “Shemuel” nel Ragionamento, e analogamente, in Lo schiavetto di Giovan
Battista Andreini (1612), uno dei personaggi ebrei si chiama Scemoel. Questa distorsione,
vero e proprio cliché dispregiativo avente per oggetto un nome ebraico fra i più diffusi in
assoluto, è ricorrente164. Andreini vi gioca con una paradossale variante: in una scena (Atto II,
scena 6), lo “Scemuel” (“scemo-lui”) si rivolge a se stesso apostrofandosi come “Scimison”
(“sono scemo”). Si veda anche, analogamente, la distorsione “Merdochai” per il nome proprio
“Mordechai”, nella scena del banco dei pegni nell’Amfiparnaso.
Ma è nella letteratura schiavonesca che troviamo il maggior numero di equivoci
interlinguistici di tipo triviale e scatologico, tutti giocati sulle idiosincrasie delle pronunce
slave dell’italiano o dei nostri dialetti. Per l’ambiguità triviale sono interessanti, ad esempio,
culami per il veneziano colo mi, “presso di me” (o anche per il croato ragusano kala mene);
tra i casi di epentesi di n, perinchuli per “pericoli”; per l’inserzione di r, porcho per “poco”165.
Nel Rado stizuso di Zuan Polo spesso le voci veneziane sono deformate ricorrendo al
quiproquo: bulle de franza per “bolle di Francia” ma anche per “malfrancese”; merde per
“verde”; mira in chulo per “miracolo”; nell’Egloga, il frequente merdecina per “medicina”; e
altrove spesso anche chulo o culo per “collo”166. Anche i nomi dei due figli di Rado, Licha e
Miochulo, veicolano simili amenità.
Quanto alla melica schiavonesca, la prima canzone della citata raccolta del 1520 circa,
Taritron taritron Caco Dobro Salzigon, suona: «Taritrun chacho in bun / Tutta note andiro
zinte / per so manzi e bin voiente / che vignissima a balcun», col ritornello «Taritrun taritrun /
Cacho dobro salsizun [com’è buono il salsiccione]…», con ovvio doppio senso sessuale. E
così l’ultima: «Laltro zorno cagando me pensava / De vostro mor doce catherina…»167. Qui
traspare, fra il cacho che vuol dire “come”, e il cagare dell’ultima poesiola, l’ossessione
scatologica sia nell’equivoco termine slavo che nel suo buffonesco accostamento a un
pensiero d’amore.
162
L’esempio è citato in CORTELAZZO 1976: 177.
Atto II, scena 15 (cit. in BARICCI 2010: 144).
164
Uno “Sciamuel” è anche nelle Zittelle canterine (1663) di Loreto Vittori (RE 1912: 392).
165
CORTELAZZO 1971-72: 122, 125.
166
CORTELAZZO 1971-72: 134 s.
167
Cit. in PICOT 1894: 9 s.
163
41
Invece, gli equivoci interlinguistici basati sul greghesco in senso stretto sono tutti di tipo
“innocente”, senza trivialità o scatologismi. Era così già nel precedente fornito, negli ultimi
anni del Trecento, dalla novella XCII di Sacchetti, che contiene il personaggio di Soccebonel
di Frioli, parlante in greghesco. «Dice Soccebonel: - Au, può essere cest? [= questo] - E que’
rispose: - Sì, può essere canestre -»168. Lo stesso registro inoffensivo viene tenuto anche nella
comicità greghesca presente nel teatro di Andrea Calmo e dei suoi sodali e seguaci.
Nella Rodiana di Calmo, nel dialogo tra il veneziano Cornello e il greco Demetrio (III,
6), il primo saluta l’altro: «Co vala, onde tireu?», cioè “Come va, dove vai?”. Risposta di
Demetrio: «Mi no tiro gnendi, xe homo de pasi [pace], varda che non have larme [armi]»169.
Anche i due personaggi del Diavolo [dialogo] piacevole di un Greco e di un Facchino,
attribuito al Burchiella (alias Antonio da Molino), si scambiano battute basate sull’equivoco
interlinguistico col greghesco:
GRECO: Vu parlan be,
propatti ombròs [cammina avanti].
FACCHINO: «Non son Ambris, sun Ze…»170.
Nella commedia La pace di Marin Negro (1561), il dialogo fra due veneziani, uno dei
quali parla in greghesco, trova un equivoco tra “spiti” (greghesco per “casa”) e “piti” (veneto
per “galletti”) quando Francia chiede «No dubitari gnendi, te halla dinto chie porò andari
cando voreu mi su la so spiti?», e Tabarin sbotta: «Che volif fa de piti, che ’l no gh’è galin
chilò?»171. Nella commedia La capraria di Gigio Arthemio Giancarli (1544) l’equivoco è
invece sulla parola “baia”: Dorotea dice ad Afrone che non ha voglia di ascoltare le sue baie,
e lui sbotta. «Chie mi xe schillo (“cane” in greghesco), cà, chie baia?»172.
Nelle moresche, infine, le tipiche idiosincrasie linguistiche degli africani subsahariani
nella pronuncia delle lingue europee provoca occasionali ironie, ma sempre strettamente
basate sul contesto narrativo che vede un “moro” alle prese con la situazione tipicamente
europea - letteraria e musicale - della serenata o mattinata di corteggiamento. Passiamo così
dal vocativo napoletano di gusto petrarchista “core mio” a cula mia (in Tiche toche e O Lucia,
miau miau), ma frequentando anche i passaggi intermedi e le neutre distorsioni fonetiche di
“core mia” o “cora mia” (in Catalina e A la lappia); e la “cantata” offerta all’amata viene
detta “cantarata”, con allusione al “càntaro”, cioè al pitale. La tolleranza e spesso la simpatia
verso gli africani neri schiavi o affrancati, tipiche del contesto napoletano, non esprimono
alcun disprezzo o malizia, se non l’effetto comico dello spaesamento culturale di chi si
cimenta con artefatti linguistici (l’italiano, il dialetto napoletano) e artistici (la serenata) di una
cultura lontanissima dalla propria; e gli scambi di contumelie fra l’africano corteggiatore e la
corteggiata (con precedenti nella poesia iberica) riflettono rivalità tribali autoctone più che
pregiudizi italiani173.
Come si può vedere, la melica predilige in generale un approccio ????
Il grande serbatoio comico della commedia madrigalesca provvederà poi a fornire una
sintesi sia di questi precedenti melici, sia degli spunti forniti della Commedia dell’arte,
assorbendo e sviluppando soprattutto il versante “innocente” dell’equivoco verbale, e solo
occasionalmente malapropismi o fraintendimenti “maliziosi”. Nell’Amfiparnaso, ad esempio,
troviamo “culintient” per “cuntent” (Atto I, scena 3). Alla sfera “innocente” si limitano invece
le distorsioni comiche di nomi propri: il servo Pedrolino chiama Pantalone “Piantalimù”
168
Cit. in LAZZERINI 1977: 34.
Cit. in ZANCARINI 1992: 126.
Cit. in LAZZERINI 1977: 35.
171
LAZZERINI 1977: 35.
172
LAZZERINI 1977: 36. La Lazzerini precisa che «l’equivoco baia/abbaia è reso possibile dall’alta frequenza dell’aferesi nel linguaggio
“greghesco”».
173
Cfr. SALVATORE 2012.
169
170
42
(piantalimoni) (Atto I, scena 1, O Pierulin, dov’estu?), che piccato gli risponde «Sì, pianta
rave, e no piantalimon». Nel Ragionamento quarto della Prima Parte della Pazzia senile di
Banchieri sarà invece invece il dottor Graziano a chiamare l’amico «messir Piantalimon», al
che Pantalone replica chiamandolo «Dottor piantacedron». Spesso in una scena compaiono
entrambi i tipi di equivoci. Nell’Amfiparnaso (Atto II, scena 2) dialogano il Capitan Cardone
in spagnolo, e lo Zanni in bergamasco, con equivoci sulla parola “mozzo” (che Zanni intende
come “evirato”); mentre lo spagnolo “accompana” viene inteso come “sunar la campana” (che
nel gergo dell’epoca vuol dire “non udire”)174. Alcuni autori sfruttano un trucco più volte. Nel
Metamorfosi musicale di Banchieri, in Non più parol il dottor Michelino insiste che vuole la
fanciulla per “isposa” e “consorte”, ma le parole che gli escono sono “spinosa” e “culstort”.
Nel Ragionamento quarto della Prima Parte della Pazzia senile è invece il dottor Graziano a
usare “spinosa” per “isposa”, promettendo a Pantalone di fare a sua figlia, di cui gli viene
offerta la mano, non un “presente” ma “un presidente”: al che Pantalone, ironico, risponde
«Sì, e digo un Podestà». I regali promessi sono «una gallana» (per “collana”) e «du pugn’in ti
dent» (per “un paio di pendenti”).
Si tratta, tutto sommato, di un approccio piuttosto blando rispetto a una ormai lunga
tradizione buffonesca e burlesca, che ha già dato molto al teatro e alla musica vocale, e che
ormai pare a volte quasi infantile. Vero è che questo carattere blando o poco aggressivo della
parodia caratterizza tutti i generi musicali e vocali dedicati alla raffigurazione parodistica
delle minoranze. Nelle caricature fiorentine dei Lanzi, i doppi sensi osceni sono affidati come in tutti i canti carnascialeschi - più all’autodefinizione dei personaggi che all’equivoco
interlinguistico. Nelle ebraiche, la caricatura linguistica non appare particolarmente
dispregiativa, e nelle greghesche è addirittura assente (diversamente che nella letteratura
schiavonesca, di cui pure fanno parte). A sua volta, l’atteggiamento parodistico delle
moresche pare quasi affettuoso. Tuttavia, nel caso di greghesche e moresche va anche
osservato che, sviluppandosi nella seconda metà del Cinquecento, lasciano supporre gli effetti
controriformistici di una stretta censoria (e di inevitabili autocensure) nella gestione della
comicità più greve o più erotizzata. A maggior ragione ciò vale per le commedie
madrigalesche di Vecchi e Banchieri, con le quali ci troviamo ormai al passaggio di secolo.
Non per questo, però, tramonta la pratica comica dell’equivoco verbale, destinata anzi
a preservarsi nel tempo come elemento fondamentale della comicità popolaresca moderna.
Prendiamo ad esempio, fra le maschere, il caso di Pulcinella, a sua volta autentico virtuoso dei
malapropismi, e la cui evoluzione, fra i personaggi della Commedia dell’arte, fu lenta e
tardiva. I suoi exploit più classici in materia si possono godere nell’opera di Gregorio
Mancinelli, prolifico autore di teatro attivo a Roma tra la fine del Seicento e i primi anni del
Settecento, in una riuscita serie di farse, come Pulcinella re in sogno ovvero Il pastore dalle
selve al trono, La clemenza di Sapiro con Pulcinella mago per amore, La vecchia astuta
ovvero il conte Cipoletta sordo con Pulcinella finto contessa delle Bergamotte, e cavalier
francese intermezzo, quasi tutte pubblicate a Roma (presso Pietro Paolo Pellegrini) fra il 1769
e il 1771. Anche se i suoi lazzi hanno chiare radici nella Commedia dell’arte175, gli equivoci
verbali vi acquistano un sapore speciale: anche perché praticamente tutti i malapropismi di
Pulcinella riguardano il cibo. Una delle commedie più riuscite è Le novantanove disgrazie di
Pulcinella, premiata da numerose ristampe nel secolo successivo (1807, 1824, 1856). Qui un
ebreo lo saluta con un “Baruccabà”, al che Pulcinella prima ribatte «Dove è la perrucca
dell’abbate?», poi rilanciando: «Tu puoi dicere baccalà quanto voi, che io no t’intendo»176. In
un’altra scena della stessa commedia, sei ebrei danzano attorno alla maschera cercando di
convincerla a convertirsi, in cambio del prestito richiesto. Il primo gli fa: «Oh voi da qui a mò
174
DENT 1911: 339.
Circa il legame di questi lazzi pulcinelleschi con la Commedia dell’arte, vorrei far notare che un’altra farsa di Mancinelli, Pulcinella
marito di tre mogli, debitore a forsa [sic], bastonato dalle donne, e perseguitato dalla magia (Roma, 1769), è sottotitolata “Commedia presa
dall’improvviso e composta da Gregorio Mancinelli romano” (corsivo mio). Cfr. FRANCHI/SARTORI 2001: 119.
176
Cit. in BARICCI 2010: 135.
175
43
non vi chiamereti più Pulcinella, ma Miscè Bersalamon», cioè “Mosè figlio di Salomone”; e
lui: «Se me chiameraggio Salamone, Merluzzo a mollo». Allora tutti gli ebrei cantano: «Da
qui nanti sto longarello [giovanotto] non se tabarrerà [chiamerà] più Pulcinella, ma Miscè
Bersalamon»; e lui: «Mosciarelle, e salamone»177.
Anche i tedeschi della Commedia dell’arte settecentesca frequenteranno ormai solo i
blandi territori gastronomici, ad esempio in una particolare interpretazione del cosiddetto
“lazzo della lista”, spesso attribuito a personaggi stranieri tedeschi. Così nella Tabernaria e in
altri scenari a cui fa riferimento Placido Adriani nel suo Zibaldone del 1734, dove «l’oste
tedesco dà la lista delle spese fatte, cioè: “Quattro pilastri spezzati = quattro pollastri; sette
colonne arrostite = sette colombi; tre monti pulciani = tre fiaschi di vino; anteposte de tripla in
falze bordon = antipasto di trippa in brodo col polmon; una fottate con dieci oche = una
frittata con dieci ova”»178.
3.5 Senso e fortuna di una nuova comicità
Dalla nostra analisi di repertori melici, letterari e teatrali, scaturita da un approccio storicoartistico (riguardante cioè la storia della parodia in musica e nelle arti rappresentative), altri
due implicazioni, però, si dipanano. Una è di natura strettamente sociostorica, concernendo il
modo di interpretare il senso di tali parodie rispetto a una presunta “domanda” dei loro utenti,
quasi esse ne fossero automaticamente eterodirette. L’altro ha invece una pertinenza storicostilistica, e riguarda sia le forme assunte da questa nuova comicità, sia le motivazioni alla base
di scelte formali e stilistiche. Il modo in cui finora sono stati affrontati questi due aspetti mi
sembra spesso limitato, nel primo caso, da considerazioni che andrebbero localmente
circostanziate e correlate a un’analisi rigorosa dei singoli contesti, e nel secondo da uno scarso
respiro prospettico.
Interrogandosi sul senso ultimo della comicità interlinguistica, non pochi studiosi dei
singoli repertori italiani e regionali convergono nell’interpretarla rispetto al senso di
superiorità degli autoctoni verso agli immigrati, al gusto di ridicolizzare le differenze, al
disprezzo che vi sarebbe sotteso. Un’interpretazione analoga, di fatto, a quella applicata - in
un contesto socioculturale molto diverso - all’analisi dei pidgin presenti nel teatro spagnolo
rinascimentale, come il sayagués del rustico (pastore o “villano”) o il guineo dell’africano
nero. A proposito di essi, Sloman sosteneva ad esempio che «chi parla il gergo è ridicolizzato:
perciò egli è sempre un servitore, un lacché o altra persona umile, in quanto un simile
linguaggio non era in armonia con l’onore e la dignità di un nobiluomo»179.
Affermazioni del genere rischiano però di confondere le intenzioni sottese a un testo
con il punto di vista (vero o presunto) attribuito al pubblico. Lo si è fatto, ad esempio, per
spiegare il successo della comicità poliglotta nel repertorio degli intrattenitori di piazza, in
particolare a Venezia. In questo senso Robert Henke ha creduto di interpretare l’uso
umoristico dei dialetti italiani: «i buffoni svilupparono un repertorio di questi dialetti
codificati, con un lessico limitato ma facilmente recuperabile [retrievable] per
l’improvvisazione orale, e li usavano per produrre la “risata di superiorità” nei pubblici
veneziani di classe media o superiore»180. A sua volta, Manlio Cortelazzo ha immaginato che
il pubblico dei cantimbanca fosse composto da ascoltatori «molto divertiti, evidentemente,
delle parodie di atteggiamenti e parlate di gruppi “estranei” non ancora assorbiti, per
costumi e lingua, nella comunità veneziana»181. Si riderebbe, dunque, per l’estraneità del
soggetto ridicolizzato, e per consolidare il senso di superiorità dei nativi. Il pidgin imitato e
177
Ibidem.
Cit. in CAPOZZA 2006: 352.
179
SLOMAN 1949: 207.
180
HENKE 2002: 59. Corsivo mio.
181
CORTELAZZO 1971-72: 114. Corsivo mio.
178
44
stilizzato si porrebbe come vero e proprio simbolo fonico di questa inferiorità sociale e
culturale, o estraneità nazionale; la risata confermerebbe e suggellerebbe l’emarginazione.
Probabilmente, il limite principale di simili considerazioni sta nella loro genericità. Lo
stesso Cortelazzo, quando fa riferimento specifico alla letteratura schiavonesca, preferisce
invece immaginare un divertimento giocoso, sia pure da parte di un in-group (cioè, in termini
sociologici, del gruppo sociale dominante, i cui membri, in virtù della loro coesione e del
senso di opposizione o competizione che proiettano sui gruppi esterni, esprimono la loro
distante superiorità)182. Riguardo alla satira degli ebrei, invece, Baricci sostiene - a proposito
di un equivoco verbale fra Pantalone e un ebreo nel Pantalone bullo - che «ciò che motiva la
risata è l’incomprensione la quale, naturalmente, nasconde il disinteresse per una reciproca,
autentica interazione»183.
In realtà, scavando dentro i testi, se ne ricavano impressioni diverse. Ad esempio, nella
commedia madrigalesca, gli unici accenni dispregiativi ai “diversi linguaggi” si concentrano
sul suono delle lingue straniere, come quella «Babelle […] di voci e horribili favelle» riferita
ai discorso fra ebrei in un banco di pegni nel brano Tich tach toch dell’Amfiparnaso di
Vecchi. Il giudizio si limita alla cacofonia che produrrebbero gli ebrei quando parlano fra di
loro, al loro interno: nessun accenno a interazioni esterne, anche perché, per il ruolo sociale
che questa minoranza esercitava in alcune professioni, come quella dei prestatori di denaro,
l’interazione indubbiamente avveniva a prescindere da qualsiasi diversità linguistica e veniva
praticata, entro certi limiti, per ragioni di opportunità.
Ogni giudizio in merito andrebbe dunque circostanziato. Stipčević, ad esempio,
afferma che - come in altri generi musicali basati su linguaggi diversi dall’italiano o su
pronunce atipiche - anche «la lingua schiavonesca e le altre varianti regionali spesso erano
oggetto di ironia, soprattutto nel teatro»184. Ma bisogna aggiungere che solo in alcune di
queste varianti l’ironia verso i balcanici era motivata da autentica diffidenza o ostilità: ad
esempio quando era rivolta verso gli uscocchi, rifugiati bosniaci che, come i greci di Morea a
Venezia, s’erano spinti verso le coste italiane dell’Adriatico per sfuggire ai turchi, e che
svolgevano attività di pirateria e di saccheggio non solo contro le navi turche, ma anche verso
la stessa Venezia. Nella commedia La malandrina (1587), lo scrittore veneziano Giovanni
Francesco Loredano prendeva in giro gli uscocchi e le loro abitudini, assieme a quelle delle
altre “genti barbare” che abitavano «nel selvaggio paese di Croazia»: la satira, in questo caso,
viene spedita a domicilio, non ha relazioni dirette con la società veneziana185. Un’anonima
canzone veneziana sulla decadenza della Repubblica, dei primi decenni del Seicento, si
rifererisce invece alla guerra contro i pirati uscocchi, che da un secolo ormai infestavano
l’Adriatico sotto la protezione austriaca, per definirli «dusento meschini / E grami stravestii
da mattacini / Che ha la casa co’ ha i bovoli [lumache] sul cao [capo] / Che magna in pugno
come i sparavieri»186. Quei pochi disgraziati - così li insulta la poesia - non hanno fissa
dimora, mangiano poco e velocemente, avidamente; ulteriore ludibrio è dirli «vestiti come
mattaccini», cioè buffoni da strada che si esibivano in gruppo, con gli abiti penzolanti e un
po’ stracciati e i colori accoppiati a casaccio. Qui il disprezzo nasce dalla malevolenza,
dall’ostilità, dalla necessità di neutralizzare culturalmente il nemico, screditandolo. Ma gli
uscocchi sono un’eccezione, e l’atteggiamento veneziano rispetto ad altri balcanici resta ben
diverso. In un foglio volante conservato alla biblioteca veneziana di San Marco si legge la
seguente quartina: «Nu la semo de Albania / Strathiotti palicari [valenti] / Chie in cavallo in
182
Secondo Cortelazzo, nei componimenti della letteratura schiavonesca «le storpiature linguistiche servono ad aggiungere un motivo di riso
alla materia di per sé pregna di pesanti sali. I testi, scritti (e, soprattutto, recitati in piazza) intenzionalmente in veneziano, affidano alle
spezzature, alle inflessioni, alle insuperabili difficoltà sintattiche, alle frequenti chiazze lessicali, reali o convenzionali che fossero (e proprio
qui, nella determinazione e nella circoscrizione di quella zona ambigua, sta il loro pieno interesse linguistico), dovute alle naturali abitudini
idiomatiche degli Schiavoni, il compito di provocare il giocoso divertimento dell’in-group» (CORTELAZZO 1971-72: 120).
183
BARICCI 2010: 145. Corsivo mio.
184
STIPČEVIĆ 1993: 34.
185
Cit. in STIPČEVIĆ 1993: 35.
186
MEDIN 1904: 395 ss.
45
terra in mari / Nol stimemo la Turchia»187. Gli albanesi vi appaiono rassicuranti, in quanto
anti-turchi.
È bene anche collegare queste indispensabili distinzioni con una ricognizione più serena
sul meccanismo alla base di ogni parodia, che è genere diverso e distinto dalla satira, e di cui
vanno dunque considerate le motivazioni che le danno forma e le forniscono stilizzazioni. In
questa direzione si può accogliere, quale premessa a una più attenta riconsiderazione degli
aspetti sociologici delle parodie delle alloglotti, quella proposta da Lazzerini. La studiosa vi
riconosce «un ennesimo recupero dell’antichissimo e universale espediente comico che
sembra annettere alla contraffazione della parlata straniera, o addirittura alla parlata in sé,
anche non contraffatta, degli alloglotti (visti come bárbaroi in senso etimologico) infallibili
proprietà esilaranti. Confluiscono in questo topos tanto la simulazione dell’idioma allotrio
(convenzionalmente rappresentato attraverso l’imitazione, all’interno della propria lingua,
delle peculiarità fonetiche e morfologiche in quelle colte, con qualche sporadica e ovviamente
non peregrina interpolazione lessicale), quanto la diretta parodia dello straniero che alterna il
proprio idioma - di cui permangono tracce sensibili, non meri relitti - a quello
degl’interlocutori, contaminando e solecizzando nel tentativo d’integrarsi linguisticamente in
una comunità per lo più identificabile col pubblico, reale o potenziale, della commedia»188.
Considerato dal punto di vista dei parlanti, ogni “idioma allotrio” rappresenta uno sforzo di
integrazione linguistica; dal punto di vista degli autori delle parodie si trattava di una
stilizzazione stereotipata ma realistica, che possiamo accogliere come un chiaro segno di
conoscenza reciproca, non solo linguistica, e di sorridente attenzione verso la loro diversità. Il
disprezzo si manifesta, dunque, solo quando c’è ragione di temere individui o gruppi estranei.
Oltre a distinguere il tipo di sentimento che anima questo genere di parodia, al di là
della sana risata con cui ciascuno può esercitare o esorcizzare il senso della differenza,
bisognerebbe pure distinguere tra i vari gruppi allotri, e tra le diverse situazioni di
inurbamento nelle grandi città italiane. Come si è visto, a Roma il pregiudizio antiebraico
almeno in parte scaturiva (e veniva alimentato e giustificato) dalla propaganda papale, che
orientava perfino il Carnevale nelle sue espressioni più discriminatorie. La situazione non è
meno peculiare - ma in senso opposto - a Venezia, centro fra i più importanti nello sviluppo
della comicità di tradizione buffonesca, e in particolare di quella dei “diversi linguaggi”.
Come ha rilevato Jean-Claude Zancarini, «il riso dello spettatore nasce da questo carnevale
delle lingue, dei loro confronti e miscugli, non da un sentimento di superiorità del nativo di
fronte all’uomo “di fuori” che non padroneggia i codici linguistici dominanti»: a Venezia
lavorano, producono ricchezza e benessere; hanno più volte ripopolato la città dopo le
pestilenze, e l’hanno difesa in armi dai nemici189. In definitiva, «questo riso non è il segno di
un’esclusione» ma di un’identità urbana complessa190.
Portiamo un nostro esempio a supporto di questa interpretazione. Nel citato foglio
volante di autopresentazione degli stradiotti, il testo introduttivo ai versi parla del diletto che
dà ai veneziani «chesta nostra lingua gresesca [sic]»: dal punto di vista degli albanesi (pur
simulato dall’anonimo autore, se veneto e non schiavone) si tratterebbe appunto di diletto e
non di derisione191. Un altro esempio cogente è offerto dal repertorio delle greghesche. A
differenza di altri generi musicali ispirati al linguaggio o ai comportamenti di qualche
minoranza linguistica, fra le greghesche ci sono molte semplici canzoni d’amore, o comunque
prive di contenuti scherzosi o osceni. Perciò vi sarebbe in parte assente perfino lo spunto
187
Cit. in ELWERT 1960: 422.
LAZZERINI 1977: 49.
ZANCARINI 1992: 130. Corsivo mio.
190
ZANCARINI 1992: 132. Ad esempio, i tedeschi erano una delle comunità straniere più stabili a Venezia, con un fondaco che risaliva al
XIII secolo, forti rapporti commerciali con gli autoctoni, interpreti e manuali di conversazione a disposizione (ZANCARINI 1992: 128). Da
qui la presenza di personaggi tedeschi nel teatro di Calmo (un carbonaio in La Spagnolas e il servo Corrado in La Rodiana).
191
Cit. in ELWERT 1960: 422.
188
189
46
comico, il meccanismo della parodia o del sarcasmo: «la coloritura linguistica dialettale o
regionale non implicava necessariamente una distanza ironica dell’enunciato poetico»192.
Alla necessità di distinguere si accompagna dunque quella di collocare le distinzioni
negli opportuni contesti letterari e sociali. Nel corpus plurilinguistico delle commedie dei
Liquidi e dei loro pochi continuatori, ad esempio, personaggi padovani, bergamaschi, greci e
dalmati sono presenti quasi ovunque, riflettendo la loro reale presenza e distribuzione in città.
Anche sulla scena essi rispecchiano una realtà sociale di coabitazione e plurilinguismo, fattori
entrambi non privi di tensioni, ma mai di nette contrapposizioni; e una politica di espansione e
relazioni sia sulle periferia di terra che sui possedimenti d’oltremare, laddove «la geografia
politica che si disegna sulla scena è un riflesso della geopolitica»193. Pur comici, dunque,
questi personaggi e le loro lingue stanno su un terreno di parità con i veneziani. Il vecchio
innamorato può essere indifferentemente greco, bergamasco o veneziano: così sono
democraticamente distribuiti i tre personaggi ridicoli della Spagnolas di Calmo. Quanto al
padovano, che rappresenta il campagnolo riciclatosi in servo sulla città lagunare, risulta - già
dal teatro del Ruzante - come personaggio astuto e di apprezzabile naturalezza, con una netta
inversione di tendenza rispetto all’eredità medievale della satira, asperrima, del “villano”.
D’altra parte greci e dalmati, così come i bergamaschi, possono essere personaggi positivi o
negativi, vincenti o perdenti, secondo i casi e senza preclusioni194.
Questa “rivincita” del villano sta a fondamento del gusto rinascimentale verso il
popolaresco, così come le parodie degli alloglotti forniscono elementi creativi di mediazione
tra un umorismo di forte impronta popolare e la tendenza a uno sperimentalismo applicato a
temi sia “alti” che “bassi” del Rinascimento inoltrato. Quando impiegati nella musica vocale,
tali temi trovano caleidoscopiche espansioni polifoniche che li proiettano in una dimensione
realmente, letteralmente corale, ormai inclini al sorriso più che alla risata, alla simpatia
anziché al disprezzo. L’affermazione protomoderna di un nuovo genere di comicità, basata
sull’equivoco verbale ma di ampia e complessa motivazione sociale, troverà in questa
simpatia un’autentica vivacità. Conservatasi ancora fresca fino ai generi teatrali “minori” del
Novecento e nelle sue forme di intrattenimento più popolare, tale vivacità fa da motore a una
comicità ispirata a valori di tolleranza, e capace di giungere a elaborazioni creative anche
altamente sofisticate, dai fratelli De Rege a Totò e, in musica, dal Quartetto Cetra agli
Shampoo195.
***
BIBLIOGRAFIA
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storici con note e documenti, Sommaruga, Roma, 1883.
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63, 1, 2010.
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del teatro popolare italiano, Sansoni, Firenze, 1880.
BAUMANN 1996: R. Baumann, I lanzichenecchi, Einaudi, Torino, 1996.
192
193
ZANCARINI 1992: 129.
ZANCARINI 1992: 130. Le altre lingue presenti sulla scena non corrispondono a personaggi nativi di quella lingua in quanto non
integrati nella città (ZANCARINI 1992: 132).
195
MACCHIA 2011: passim.
194
47
BRUSCAGLI 1986: R. Bruscagli (cur.), Trionfi e canti carnascialeschi toscani del
Rinascimento, 2 voll., Salerno Editrice, Roma, 1986.
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Gianfranco Salvatore IL TEATRO MUSICALE DELLE