DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO Pagine di Noticum Missio Supplemento n.1 a Noticum n.12 - dicembre 2011 Direttore: Crescenzio Moretti Comitato di redazione: Paolo Annechini, Giandomenico Tamiozzo, Ugo Piccoli, Federico Bragonzi, Beppe Magri, Maurizio Cuccolo. Segreteria: Cinzia Inguanta Impaginazione: Francesca Mauli Stampa: Divisione Novastampa Gruppo Siz-Verona Redazione e direzione: Lungadige Attiraglio, 45 - 37134 Verona Tel. 045/8900329 Fax: 045/8903199 E-mail: [email protected] Sito internet: www.fondazionecum.it Autorizzazione tribunale di Verona n° 1319 del 7/5/1998 c.c.p: 18641373 DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO Pagine di Noticum Missio In questo libro, testimonianze di missionari da: Italia Thailandia Brasile Sudafrica Guatemala Israele Argentina Sudan Colombia Camerun Prefazione La domanda di pane Abbiamo pensato anche quest’anno di raccogliere i dossier di Noticum in un opuscolo da inviare ai nostri lettori e a quanti sono legati alle attività del CUM. Quest’anno ci siamo soffermati, nel dossier allegato alla rivista nei mesi di marzo, giugno e settembre, sulla povertà del discepolo missionario come condizione dell’annuncio dell’Evangelo di Dio, che richiede una coraggiosa e sapiente educazione alla domanda del vero Pane: il Pane del Vangelo, della Giustizia, della Fraternità. All’articolo di fondo curato dal teologo don Mario Antonelli, collaboratore presso la Fondazione CUM, abbiamo via via raccolto varie testimonianze di missionari/e che lavorano nei diversi sud del mondo. Ci sembra, questo che abbiamo prodotto, un piccolo ma utile strumento di riflessione, che la fondazione CUM utilizzerà nei suoi incontri di formazione per i missionari in Italia e all’estero. Buona lettura Don Maurizio Cuccolo Direttore CUM IL PANE DEL VANGELO “Da ricco che era si è fatto povero per arricchirci della sua povertà” (2 Cor. 8,9ss) Inserto marzo 2011 L’ultima chiamata La povertà del Signore, la povertà della Chiesa Chi è avvezzo a vicende e vicissitudini missionarie viene spesso ad imbattersi con la visione quasi sinottica di “belle pietre e costruzioni” e di “povere vedove”. In vista del culto e delle attività pastorali si immaginano e assemblano le prime; memori dell’invito di Gesù si osservano le seconde con sana inquietudine. Dallo sguardo magistrale di Gesù trapela un tale affetto per la vedova povera che si scorge bene la sua identificazione con quella donna e il suo “dare tutta la vita”. Leggendo divinamente i cuori, Gesù sentiva nei discepoli certa debolezza religiosa, ammaliati com’erano dalla grandiosità di quanto si fa per Dio; se mette in guardia da un’ammirazione smodata per il Tempio e le sue belle pietre, quasi ci si possa così inebetire da smarrire la vigilanza cristiana, Gesù non manca di allertare i suoi circa lo stile degli scribi: sempre in agguato. Cosa guardate con ammirazione? Chi scegliete come maestro esemplare, ora che me ne vado? Seguendo il vangelo di Marco (12,38-44), siamo all’ultima chiamata. Chiamare presso di sé Per sei volte infatti nel vangelo di Marco compare il verbo “chiamare presso di sé” riferito ai discepoli: un itinerario formativo in cui Gesù chiama presso di sé i discepoli, invitandoli ad una prossimità speciale con lui per istruzioni che devono essere decisive nell’avventura di essere cristiani. Davanti alla povera vedova ecco l’ultima lezione magistrale: l’ultima chiamata. Non bastava redarguirci circa la nota assuefazione ecclesiastica allo stile degli scribi: il gusto compiaciuto di vesti sontuose e saluti reverenziali, l’attaccamento ai primi posti nella casa di Dio e nelle case degli uomini, la scaltra e professionale consuetudine al culto di sé, servendosi di tutti e di Dio stesso e della sua Parola. Non bastava: allora chiamò presso di sé i discepoli e indicò loro il gesto della povera vedova. Ecco il maestro esemplare che vi accompagnerà nel tempo del vostro andare: esattamente come me, dando “tutta la vita”, senza indulgere a calcoli, non offrirete il superfluo a Dio, non darete uno spicciolo a lui tenendovi l’altro per garantirvi la vita e la gloria. Nella sua povertà, nella sua penuria, 6 lei che è all’ultimo posto, lei ha gettato tutta la sua vita: come me. Questo rimpingua il tesoro di Dio, questa è la ricchezza di Dio: quella che Gesù ci ha testimoniato e affidato. Poveri sarete non tanto perché non avrete nulla, ma perché continuerete a dare tutto… Assaporare il dono, la bontà, la dolcezza, la carità Scorgere acutamente il profilo e le forme della povertà dei discepoli missionari e delle Chiese, Paolo ci aiuta a mandare a memoria la lezione divina di quell’ultima chiamata di Gesù. Lui, forte di un’evidente esperienza di povertà evangelica, vuole che la Chiesa anche in questo brilli, riflettendo la povertà del Signore: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo che, essendo ricco, si fece povero per voi, per farvi diventare ricchi con la sua povertà” (2Cor 8,9). Ai Corinti, sollecitati a partecipare alla carità tra le Chiese, Paolo rammenta il principio della loro vita nuova: assaporare e sperimentare il dono, la bontà, la dolcezza, la carità, …in una parola, la grazia di Gesù Cristo. In tre frasi In tre frasi la storia di Gesù, in tre frasi l’identità di Dio che in quella storia si rivela, in tre frasi la vera ricchezza dell’umanità nuova che la Chiesa è. Dapprima una subordinata che indica la singolare condizione divina di Gesù (“essendo ricco”); poi la principale con la memoria concisa della dinamica della grazia di Gesù (“si fece povero per voi”); infine, in una seconda subordinata, Paolo dice della finalità della grazia, la vita divina sperimentata nella comunità (“per farvi diventare ricchi con la sua povertà”). Al cuore della confessione sta la decisione drammaticamente storica di Gesù di farsi povero, decisione che abbraccia tutta la sua esistenza terrena, unica sua dimora e unico suo sabato, scandendo i passi suoi, il suo dire nuovo, il suo dare il corpo, gettando la vita intera, fino alla morte di croce. Nessun “nonostante” Sempre dobbiamo umile venerazione alla parola apostolica: senza soffocarla sotto il peso mortale di ovvie convinzioni religiose. Poiché istintivamente resistiamo alla forma cristologica di Dio e della sua potenza, abbiamo ricondotto l’inaudito di questa confessione paolina ai canoni del buonsenso religioso, persuasi che “nonostante 7 fosse ricco, Gesù si fece povero”, o che “pur essendo di condizione divina, Cristo Gesù spogliò se stesso” (cfr. Fil 2,6ss). Invece il testo non afferma che Gesù si fa povero in deroga alle sue prerogative divine; l’affettuosa meditazione paolina del mistero della croce non consente di pensare lo svuotamento di Gesù e la sua povertà come un venir via dalla sua condizione divina di Figlio, quasi che il farsi povero contraddica la sua originaria condizione divina. Piuttosto leggeremo che “essendo ricco”, “essendo di condizione divina”, Gesù si fece povero, svuotò se stesso: indietro non si può tornare. Al più Paolo ci permetterebbe di intendere un “precisamente per il fatto di essere ricco, Gesù si fece povero”. La sua condizione divina (la “ricchezza”) si dispiega nella dinamica di “farsi povero”: nessun “nonostante”, nessuna concessiva! Nessuna opposizione tra l’esistenza di Gesù, marcata a fuoco dalla povertà del servo solidale, e la sua condizione divina; nessuna antitesi tra l’apice di questo svuotarsi (la morte di croce) e la ricchezza divina del suo essere; nessuna opposizione tra la “forma di Dio” e la “forma di schiavo” nella vita di Gesù. Anzi, non si tratta solo di compatibilità: c’è in gioco l’idea, inedita e fecondissima per la Chiesa e la sua povertà, di una forma di schiavo, quella di Gesù, che identifica e rivela Dio, quel Dio che sempre ci sfugge e sempre, malamente, immaginiamo. Paolo rimprovera certi stili… Se ascoltata con amorevole docilità, la confessione di Paolo rimprovera certi stili che finiscono per tradire questa identificazione tra la “forma divina” e il “farsi povero”. Disattendendo alla Parola della Croce, accade che la povertà divenga facoltativa, che si pensi di dire Dio e il suo Vangelo fuori della dinamica dello svuotarsi e del donare fino alla morte di croce: fatalmente attratti da mode di scribi che si impossessano delle case delle vedove, obnubilati dal fascino di belle pietre scambiate per la casa di Dio. Invece Gesù così ha testimoniato Dio e il suo agire con gli uomini, assumendo senza sosta la forma di schiavo, in quello svuotamento di sé dove interamente si dà in quanto interamente si riceve. Fiorendo sulla contemplazione di questo mistero della povertà del Signore, la testimonianza di una Chiesa povera potrà propiziare negli uomini lo stupore per il vivere di Dio che coincide con la forma del servizio. Ma bisogna farne tesoro e bisogna dirlo: 8 che il Signore Gesù per farsi povero non ha dovuto né voluto distaccarsi dalla ricchezza divina. Al contrario, il massimo di attaccamento alla “forma di Dio” urge in lui tutta la risolutezza per la povertà: il suo farsi povero avviene per una incondizionata e coerente conformità all’identità di Dio, il Padre suo e Padre nostro. La sua kenosis non contraddice la sua ricchezza divina; piuttosto, la realizza in maniera radicalmente fedele, nell’obbedienza al Padre. Lui, lui che in modo assolutamente singolare vede e sente Dio, lui che in nostro favore ne realizza la volontà originaria, lui si fa povero, svuota se stesso, si dà interamente, ricusando ogni gloria mondana, ogni giaciglio compromettente, resistendo ad ogni lusinga di avere, di potere, di apparire. Proprio per il fatto di essere ricco, originariamente ricco della vita divina, il Signore Gesù viene necessariamente nella piccolezza e nella povertà, da Betlemme a Gerusalemme, dal grembo vergine di Maria al ventre nudo della terra. Chi veramente vede e sente Dio si fa povero. Abbiamo in noi lo stesso suo sentire (cfr. Fil 2,5)? Torneremo alla povertà di Betlemme, torneremo alla solidarietà nascosta e discreta di Nazareth, torneremo a peregrinare per il mondo senza “avere” dove posare il capo, torneremo ad entrare nella città degli uomini sull’asino che il Signore ha sciolto per noi? Volgeremo lo sguardo verso la vedova povera che nella sua povertà ha gettato tutta la vita? Lì ci raggiunge la ricchezza di Dio: riconosceremo lì la ricchezza del nostro vivere divino? Don Mario Antonelli Teologo Come il cammino nel deserto Una riflessione missionaria sul mistero dell’Incarnazione La prima cosa con la quale il missionario che parte dalla sua terra deve confrontarsi è la novità della cultura, della lingua e della situazione in cui viene a trovarsi arrivando nella sua “terra di missione”. Per il missionario sacerdote c’è anche la necessità di 9 inserirsi nel presbiterio e nella linea pastorale della Chiesa locale dove lavorerà. Da un punto di vista personale deve cominciare a mettere da parte il suo bagaglio culturale per “entrare” nella nuova cultura. Nasce così spontaneamente la riflessione sul mistero dell’Incarnazione. S. Giovanni, nel prologo del suo vangelo, ci dice che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto a piantare la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). Già questa espressione ci ricorda il cammino del popolo di Israele nel deserto e ci fa ricordare che noi, come popolo di Dio oggi, siamo gente che sta in cammino e che vive in un processo continuo di costruzione del nuovo, per realizzare il progetto di Dio, il suo Regno; e l’Emmanuele, il Dio con noi, cammina al nostro fianco. Da ricco che era… S. Paolo ci ricorda che Gesù, “da ricco che era, si è fatto povero per arricchirci della sua povertà” (2Cor 8,9ss). Non solo, ma nella lettera ai Filippesi, Paolo arriva “all’esagerazione” di dirci che Gesù si è “svuotato del suo essere Dio” per farsi uguale a noi e assumere la nostra natura umana (Fil 2,6-7). L’Onnipotente quindi si rivela a noi come quello che non ha potere e il suo potere si manifesta unicamente in questo infinito gesto d’amore. Con certezza facciamo fatica a capire (e ad accettare, alle volte) un Dio così, perché ce lo hanno sempre dipinto come quello che può tutto... ma in realtà si spoglia del suo potere. Per questo, il Natale è la festa che ci ricorda questa “pazzia amorosa” di Dio per noi. Come una persona appassionata, alle volte fa qualche “stupidaggine per amore”, così Dio sembra aver perduto la ragione ed ha compiuto questo gesto da “amante appassionato” per l’umanità, svuotandosi della sua divinità. Purtroppo noi abbiamo trasformato il Natale in un caleidoscopio di consumismo. Il missionario allora è quella persona che assume nella sua vita e nei suoi atteggiamenti gli stessi atteggiamenti di Dio. Alcune cose sono semplici conseguenze della scelta missionaria: lascia... la tua terra, i tuoi parenti, i tuoi amici, le tue abitudini e costumi, ma il lasciare non può essere solamente fisico, deve essere soprattutto “creare il vuoto dentro di te” per poter accogliere e amare il popolo che si incontrerà. Finché la missione è vista come “un dare di chi ha a chi non ha” avremo sempre un rapporto di superiorità, 10 dall’alto al basso di potere e non di fratellanza piena tra uguali. Credo sempre più che la missione si realizza nella misura in cui ci si “incarna” nella realtà dell´altro e se ne assume le gioie e i dolori, le allegrie e le speranze, (cfr. GS 1) finché si diventa parte della loro vita, come mi ha detto in Brasile un barcaiolo, una notte in cui stavamo attraversando un fiume in piena: “vocês são gente da gente “ che vuol dire “voi siete come sangue del nostro sangue”. Fame di fraternità, di giustizia La fame di pane che esiste nel mondo, in questa prospettiva, diventa, prima di tutto, fame di fraternità, fame di giustizia, fame di vita con dignità, rispettosa della stessa immagine di Dio che ogni persona porta dentro di se. La proposta di Gesù si racchiude in sintesi nella “condivisione”, dove, come per miracolo, i cinque pani e i due pesci diventano l’alimento sufficiente per sfamare una moltitudine (Mc 6,35-44). Il donare diventa così prima di tutto il donarsi con la vita e la propria persona. È il farsi comunione, imparando da Gesù che si è fatto alimento per noi. In America Latina, come nel resto del mondo, abbiamo luminosi esempi di missionari e missionarie che hanno donato la loro vita perché la vita possa crescere negli altri. Il testo di S. Paolo nella II Lettera ai Corinti fu scritta nel contesto di una colletta in favore delle comunità più povere che stavano soffrendo la fame a causa di una grande siccità avvenuta all´epoca. Questa condivisione dev’essere il risultato di un atteggiamento fraterno che ci aiuta a costruire comunione. La povertà del missionario La povertà del missionario è allora vivere continuamente le dimensione del cammino nel deserto, quando la manna non poteva essere accumulata, altrimenti marciva (Es 16). È la povertà di chi vive sotto la stessa tenda, a cammino, facendo sempre crescere dentro di se la fiducia estrema nella bontà e provvidenza di Dio. È la povertà che si fa ricchezza in umanità, nel riuscire a “vedere” le cose e la vita con altri occhi, riuscire a vedere quello che Gesù vedeva quando lodava il Padre per le meraviglie realizzate (Mt 11,25-27). Quando vado in Italia e mi chiedono perché ritorno in missione 11 quando ci sarebbe tanto bisogno anche là, ormai rispondo con l’unica risposta che mi viene: “Perché voglio sempre imparare a essere uno che cresce in umanità”. Credo allora che è questo lo “svuotamento” che succede nella persona e nella vita del missionario e che non è solo rinunciare alla sicurezza dell´avere ma praticare sempre più questo “scambio” perché così tutte due le parti possano crescere nell’essere. Se noi sentiamo come missione di portare Gesù e farlo conoscere e amare, e può essere anche intenzione sincera da parte nostra, è la presenza del suo Spirito che ci fa crescere assieme in una scuola di vita nella quale non esiste più professore e alunno, ma assieme si è alunni e professori. È la povertà di chi deve continuamente imparare ad essereuomo e donna, in un cammino di maturazione. Don Pierluigi Sartorel fidei donum in Brasile Il pane evangelico della povertà La condivisione come stile di vita Il Signore nel suo Vangelo ha dichiarato beati i poveri. Come stile d’annuncio ha chiesto ai suoi missionari di essere gente semplice, senza il peso di sacche e bisacce, per un agire snello ed efficace. Gesù propone uno stile di vita fondato non sull’accumulo ma sulla condivisione: il di più e il di troppo diventa iniquo cioè non equo, quindi malvagio. Alla cerimonia di Invio, quando per la prima volta partivo per L’Africa australe, mi è stato consegnato un Vangelo e i miei parenti con i compaesani hanno messo la loro firma autografa ai lati di alcuni brani. Molte firme si sono condensate su brani evangelici che facevano accenno alla semplicità, alla povertà, agli ammalati, ai sofferenti, agli emarginati, quasi come un invito a essere un loro rappresentante in quei campi sociali che si mostrano più fragili e più bisognosi di attenzione. A Brits, Sud Africa, ho incontrato il povero Luiz. Un uomo finito, senza casa e senza niente. Aveva 12 lavorato una vita in un hotel di nome Santa Barbara. L’hotel chiuse e lui si ritrovò sul lastrico. Non era registrato nell’anagrafe del comune, era entrato in Sud Africa molti anni prima quando i confini erano poco sorvegliati e non si sa da dove. Non era in possesso di documenti sudafricani, non si era mai interessato, quindi non esisteva perché il suo nome non era scritto nei registri del comune. Mi sono letto il brano del Vangelo: “Beati i Poveri”. Per la prima volta ho capito che non era rivolto a Luiz ma era rivolto a me, era un invito a scendere dalla mia cavalcatura e farmi vicino fino a immedesimarmi con lui, con il suo desiderio di protezione, di sicurezza e di amore. Sarei io stato beato se fossi stato capace di capire il messaggio che Dio mi lanciava attraverso di Luiz. Sarebbe stato Beato anche Lui se io fossi stato capace di un gesto d’amore nei suoi confronti. Si sarebbe sentito amato, capito e sostenuto. Sarebbe stato beato perché avrebbe capito che Dio lo amava e non lo avrebbe abbandonato. In quel momento ebbi la certezza che Dio era lì, non solo in lui ma anche vicino a lui, come una sfida, per invitare me a collaborare con lui a creare nuovamente il mondo. In quell’istante ho capito che si stavano gettando almeno nel mio cuore le fondamenta per un nuovo sistema che dovrebbe regolare il mondo: il condividere. Ricordo di aver scritto a molti di quelli che avevano messo il loro nome nel Vangelo consegnatomi al momento del mio invio in missione dicendo: Gesù sta bussando, aiutatemi ad aprirgli la porta. La risposta non si è fatta attendere. Ognuno ha fatto la sua parte incominciando a tirar fuori qualcosa di buono che aveva nel cuore: l’amore. C’era, ma occorreva una scintilla per farlo emergere. Si è scatenato così un piccolo uragano di solidarietà che ha prodotto il miracolo dell’amore: con beneficio di Luiz e con grande gioia di chi ha scoperto sotto le vesti di un povero le orme della presenza di Dio. Mi sembra di capire che l’evangelizzazione nuova o vecchia si realizza proprio nella semplicità e nella povertà di gesti d’amore che riscaldano chi dona e chi riceve, chi ama e chi è amato. p. Gianni Piccolboni missionario stimmatino 13 Il riso della quotidianità Alimento fondamentale in Asia, diventa parabola di vita In Thailandia parlare di pane è parlare “straniero”. Non è molto diffuso il pane, anzi è considerato cibo prezioso o quantomeno alla stregua di “dolce”. Piuttosto si parla di riso, da secoli. Il riso è quotidiano, onnipresente, accompagna ogni pasto, abbordabile da tutti, nutriente anche se monotono, facile da piantare e da raccogliere. Basta avere acqua e pazienza. Il linguaggio così come i ritmi delle stagioni sono legati al ciclo del riso (mangiare si dice “mangiare riso”). C’è stato in passato anche un timido tentativo di un sacerdote della diocesi di Chiang Mai di elaborare una spiritualità del riso, una liturgia che abbia attenzione al lessico del riso. Il riso non si pianta per fare business, ma per mangiare, per vivere. Grazie al riso in Thailandia noi missionari non siamo provocati costantemente da immagini di fame fisica e cronica. Una scodella di riso, magari solo con erbe o peperoncino, c’è sempre. Già questa prima osservazione mi permette di riflettere sul senso del lavoro e del produrre. Penso alla creazione, ai suoi doni come strumenti di vita prima che di speculazione. Non voglio minimizzare l’ingegno umano che si attiva per creare risorse a garanzia del futuro, e nemmeno banalizzare tutta la formazione alla previdenza, al risparmio, al “mettere da parte qualcosa”. Certo che tra questa gente recupero una provocazione a me utile nel pensarmi missionario: l’evangelizzazione è per vivere non per guadagnare. La Provvidenza è compagna di strada del missionario; se non sul versante alimentare (godiamo di molti appoggi e stima della gente), almeno per quanto riguarda la spiritualità. Un po’ come la manna che va assunta quotidianamente nella fiducia per il giorno dopo. Ciò che nutre non sempre è appetitoso Il popolo Thai (solo i Thai?) è un popolo che ama la novità, rifugge la monotonia, inventa stratagemmi per sfuggire alla routine, crea occasioni per rendere saporita la quotidianità. I riti buddhisti e le feste popolari ritmano il calendario locale. Eventi familiari 14 (inaugurazione di una casa, funerale) e sociali (giorno del Re, della Regina, del maestro, del bambino, i capodanni thai, cinesi, occidentali...) sono momenti di grande kermesse, motivo per stare assieme, uscire di casa, assaggiare gli infiniti tipi di cibi. Anche il vizio contribuisce a rendere straordinaria la ferialità: si beve spesso, si scommette su tutto: sulle formiche che corrono e sul peso dei maiali... Insomma se la vita non è divertente non merita di essere vissuta. Tornando al nostro riso: è buono ma monotono, non attira l’attenzione, mattina, mezzogiorno e sera, sempre riso. Si perde il valore del riso solo perché è privo di “novità”. Così la vita spirituale: può essere importante, può sostenere una persona o un popolo ma non risulta sempre “appetitosa”. In questo momento la Chiesa in Thailandia, e noi missionari con essa, sente che la novità della fede ha lasciato il passo alla ferialità. Le piccole comunità richiedono stabilità, formazione, accompagnamento, consolidamento. Ne sono coscienti i Pastori che sottolineano l’aspetto nei piani pastorali del quinquennio e ne siamo coscienti noi che non vediamo progressi numerici nel lavoro pastorale. Anche gli occhi si nutrono Qualche missionario a suo tempo professava che non solo bisogna essere poveri ma anche sembrarlo. Meriterebbe riprendere il senso di tale stile apostolico in tempi come i nostri dove la suggestione dei beni status entra nel tessuto anche del credente, il fascino della tecnologia spacciata per utilità ma che inevitabilmente ci allontana dalla sobrietà. In tale riflessione vorrei segnalare l’impatto che ha sulla gente l’esempio delle migliaia di monaci buddhisti che, scalzi e con il saio visibilmente arancione, ogni mattina questuano il cibo. Nonostante certe contro-testimonianze è indubbio che l’esempio di povertà da loro offerto parla al cuore della gente thai. La povertà entra per gli occhi. Quasi a dare conferma al principio sopra esposto, ma soprattutto a ricordare che la povertà non è solo concetto teologico, è anche segno storico. Ai monaci un grazie per mantenerlo attuale. Don Attilio de Battisti fidei donum in Thailandia 15 Celebrare la trasfigurazione Percorrendo un cammino di conversione e di povertà Il cammino di Gesù da ricco che era fino alla povertà trova certe similitudini con il cammino che non poche volte mi sono ritrovato a fare verso alcune comunità situate su in montagna, come un vero paradigma di un cammino di conversione e di povertà. È un cammino in discesa per Gesù, è un cammino in salita per me… allora mi faccio compagno di viaggio in una delle salite di Gesù in montagna per comprendere con Lui la fatica e la bellezza di un cammino fino alla cima. Come quella volta che con Pietro Giacomo e Giovanni, Gesù sale verso il monte della trasfigurazione. Anche io non fermandomi ai piedi della montagna, da circa tre anni vado salendo verso un villaggio che si chiama ”Las Mesas” a due ore dalla parrocchia incluso il tratto con il “fuoristrada”, il quale purtroppo può arrivare solo fino ad un certo punto: resta poi un’ ora di strada da percorrere a piedi. Il giorno che mi tocca andare nella comunità de “Las mesas” ci si alza prima del solito, prima che salga il sole, in modo da camminare al fresco, e limitare la fatica. La pendenza è molto ripida, ogni 3/4 passi si sale di un metro, non ci sono molte zone di ombra, ed arrivare il prima possibile è la preoccupazione che spinge a camminare con una certa celerità. È comunque necessaria almeno un sosta per riprendere fiato e riorientare la direzione, visto che non sempre il cammino è ben tracciato. Alcune volte ci sono i catechisti che ti accompagnano, altre, come le ultime due volte, mi è toccata la sola compagnia del silenzio e della vista del panorama che diventa sempre più ampio e colorato. Ad un certo punto finisce la salita ed il cuore e l’animo si rallegrano, pur sapendo che mancano ancora 20 minuti prima di raggiungere l’oratorio dove ti aspettano già da un’ora. Beati loro. Il cuore si rianima Allora sì, che il cuore si rianima in prospettiva di un caffè caldo, una sedia e volti da incontrare e salutare dopo circa un mese. Il sudore abbondante fa fatica ad asciugarsi, per questo bisogna avere pazienza ed aspettare… una vera e propria trasfigurazione, altro che vesti splendenti e bianchissime. Finalmente si celebra 16 l’incontro con la gente; le confessioni e la messa trasfigurano noi e questo luogo, sicuramente lontano, ma non da essere dimenticato da Dio visto la celebrazione dell’Eucaristia che abbiamo vissuto… Abbiamo ascoltato la “Legge” e i “Profeti”, per riconoscere nel Signore il compimento della Parola fatta carne, fatta storia, fatta quotidianità… quello che è avvenuto nell’ultimo mese, i problemi della comunità, la poca acqua dell’inverno passato che mette a rischio i raccolti, la fatica degli insegnanti di arrivare fin su in cima al villaggio, la attività di annuncio con le comunità vicine, le catechesi settimanali attraverso le piccole comunità, la formazione permanente dei catechisti e “delegati della parola” (figura pastorale, responsabile della comunità) i vari appuntamenti formativi da svolgersi giù “en el pueblo” (la sede urbana della parrocchia)... fino a comprendere il mistero del Figlio Suo Gesù, l’Amato, ed ascoltarlo… Ora è tempo di scendere, per un altro cammino, dall’altra parte della montagna ci aspettano anche loro da circa un mese, per celebrare la trasfigurazione, il volto nuovo di Cristo che sempre più assume i contorni di una storia nuova e viva, segreta e profonda. Tanto profonda da non poter essere rivelata, ma solo vissuta nella propria carne. Così come il mistero di Cristo in croce, che da ricco che era si è fatto povero proprio per la sua passione per il mondo che lo ha portato alla passione della croce. Sono le tre del pomeriggio, ancora mezz’ora di strada. E siamo arrivati al “fuoristrada” che mi riporta a casa, pronti domani a riprendere il viaggio vero nuovi cammini di conversione e di salvezza. Don Luigi Pellegrino fidei donum in Guatemala 17 IL PANE DELLA GIUSTIZIA La scelta preferenziale dei poveri Inserto giugno 2011 Perché la Chiesa del Signore sceglie i poveri? “La povertà del Signore è l’autentica apparizione divina della verità” L’incanto non si è dissolto; pur tra palpabili delusioni, il ricordo di quella stagione porta con sé sapori di Vangelo. Sulla musica del Vaticano II, le chiese latino-americane si erano presentate al gran ballo cattolico come vestite a festa: e hanno incantato il mondo e infervorato i cuori, danzando l’indimenticabile “opzione per i poveri”. Cautele e timori (“preferenziale”, “non esclusiva né escludente”) non attenuano certo l’impeto evangelico di questa opzione. Del resto, aprendo i lavori di Aparecida, Benedetto XVI ribadì: “L’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, arricchendoci con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9)”. Se è intrinseca alla fede in Gesù Cristo, l’opzione per i poveri è tutt’altro che opzionale! La Chiesa del Signore sceglie i poveri, semplicemente. Gli occhi fissi su di Lui, la Chiesa “va e fa lo stesso”. Proprio per il fatto di essere di forma divina, Gesù si è svuotato e ha assunto la forma di servo, in una perfetta e drammatica corrispondenza alla sua forma originaria, quella di Dio. Molto più che obbedienza a un comando, l’abbassarsi, il diventare povero di Gesù è obbedienza incondizionale alla sua forma divina: poiché, Lui ce lo ha rivelato, la forma divina è “diventare piccolo”, “abbassarsi”, “discendere”. Nessun distacco, quindi, dalla forma di Dio; al contrario, in nome della conformità a Dio, per il radicale attaccamento alla forma di Dio, ecco l’attaccamento incondizionale alla causa della salvezza degli uomini. Condividendo singolarmente l’ardente desiderio del Padre – la comunione con gli uomini – Gesù viene nel posto degli uomini. Discende, sempre, fino alla fine, Figlio dell’Uomo, pane vivo, chicco di grano, Figlio amato e fedele negli abissi del Giordano, Maestro e Signore ad altezza dei piedi degli amici, pellegrino santo nelle tenebre degli inferi: discese. Discese là dove gli uomini si trovano, echeggiando in quel suo “Dove l’avete posto?” (Gv 11,34) la prima struggente, tenerissima domanda di Dio all’uomo: “Adamo, dove sei?”. Discese, per incontrarli tutti, per tutti attrarre e guidare al Padre, nella vita finalmente buona e giusta dei figli. Già, dove stanno gli uomini? 20 Ingenui o miopi, diremmo che stanno sulla terra, uno a fianco all’altro: no. Gli uomini stanno nelle tenebre della sottomissione, nell’angoscia della schiavitù, nei sepolcri della solitudine e della morte. Per via di quell’antico contagio della superbia di Adamo e dell’invidia di Caino, gli uomini non stanno uno a fianco all’altro, ma uno sopra l’altro, molti sotto pochi. Sempre, i molti, stesi, piagati, prostrati, sotto i pochi, in piedi, meglio, seduti sopra i molti. L’ostinato permanere di Gesù nella forma di Dio, si svolge come discendere non simulato, mai interrotto, determinato nel giungere fino al punto più basso, dove, appunto si trovano non genericamente gli uomini, ma quanti stanno “sotto” gli altri, gli schiacciati, gli “scartati”, gli esausti, i dimenticati, i derubati di parola e volto, ...i poveri. Lui discende fino alla fine: incontra loro. Vivendo del pathos della paternità di Dio, Lui discende, Lui è il discendere di Dio. Nessuna preferenza, nessuna selezione: Lui deve scendere, fino alla fine. Discendere è la movenza di Dio. Incontratili lì dove dimorano, a loro annuncia il Vangelo di Dio, a loro spezza e offre il pane, a loro schiude gli occhi e scioglie la lingua, li benedice e protegge... che neanche il seno di Abramo. Il ricco? Accade che, stando lì, aggirandosi con loro in ogni sepolcro della storia e in ogni periferia del mondo, sedendo con loro ad ogni tavola dei reietti, accade che così Gesù visita il ricco, sempre e solo insieme al povero: e così lo ama, così lo inquieta, lo sveglia. Per questo il ricco può intendere che non vi sono alternative: se vuol venire dietro a Gesù e godere della vita eterna, deve venirci insieme con il povero con il quale Gesù sta, diciamo per vocazione e mandato divino (cfr. Lc 4,18); se vuole accogliere Gesù, deve accogliere il povero. Se no si resta fuori, anche se si dicono preghiere e si celebrano Messe, anche se si innalzano templi e ci si batte per la causa di Dio: già, la causa di Dio... La memoria evangelica del discendere del Figlio In ogni tempo voci inconfondibili: grida che lamentano l’assenza di Dio, diciamo la sua morte, gemiti di sofferenza che lascia la terra ubriaca di sangue. La spada del potere e l’incenso della religione sono implacabili, e quando stringono alleanze diaboliche, uccidono. Uccidono Dio e gli uomini, senza vergogna. Anzi, non potendo uccidere Dio, il quale sempre ha una riserva di vita, ecco che uccidono quelli che più gli somigliano: i poveri. Lì si sente il grido dell’assenza 21 di Dio; lì si ascolta il gemito della sofferenza di oppressi e sfruttati. La memoria evangelica ci istruisce, senza scampo: così Gesù è “entrato nel mondo” (cfr. Eb 10,5), discendendo, abbassandosi fino a giacere al margine di ogni strada, fino a riposare e lottare negli inferi di chi ormai è muto, meno che polvere: i poveri. Scendendo, costeggia ogni margine del cammino, prossimo e solidale con ogni “Se tu vuoi, puoi guarirmi” e sempre domandando “Cosa vuoi che io ti faccia?”. Scendendo, vide e sentì compassione, saziò e annunciò, denunciò la menzogna su Dio e sull’uomo, poiché di questa menzogna loro, i poveri, sono il frutto: “sacramento del peccato del mondo”. Così in basso che, soltanto incontrando loro, Gesù compie il suo discendere: “Li ho visitati tutti, non ho perduto nessuno”. Nella compassione solidale con il grido e il gemito dei poveri, Gesù testimonia la sua divina contrarietà al peccato del mondo, non accetta il disordine e la rovina del mondo sognato e voluto dal Padre (cfr. 1Cor 1,27). La Chiesa che discende... In Gesù e con Gesù non si esce dal mondo, vi si entra. Anzi, vi si discende: senza dimenticare che il mondo è trama articolata di strutture sociali, di vettori economici, di strategie politiche, di dinamiche culturali, di tradizioni religiose. Scegliere i poveri significa ripensare una pastorale più capillare e competente nel leggere, giudicare, agire nei mutati contesti umani, più tempestiva nel riconoscere i volti dei poveri, più disincantata nel sondare e affrontare i nessi profondi che, tra globalizzazione e ingiustizia planetaria e locale, alimentano vecchie e nuove forme di marginalità. La Chiesa, corpo reale di Gesù Cristo, entra nel mondo e in esso discende così, al modo di Gesù? Siamo umanità singolare, partecipi dell’umano singolare di Gesù? Sulle labbra di chi soffre e spera al margine di ogni cammino tra periferie e centro del mondo, si schiude la meraviglia che già è consolazione e liberazione? Cominciano a sillabare: “Umani così soltanto possono essere i figli?”. Si accende in loro l’idea giusta che questo umano identifica l’agire di Dio, il suo discendere, il suo stesso essere? Aparecida viene a dirci che l’opzione preferenziale per i poveri deve attraversare ogni nostra struttura e priorità pastorale, il nostro tempo e la nostra preghiera, i nostri piani pastorali e le nostre finanze (cfr. DA 396). Dedichiamo tempo ai poveri, prestiamo loro amabile attenzione, li ascoltiamo con interesse e passione, li accompagniamo con fedeltà divina, li scegliamo 22 per vivere il tempo della vita nuova dei figli, “scendiamo” dove loro giacciono, respirando con loro la polvere della marginalità, “stando sotto” con loro, inventando da lì sotto, con loro, il mondo nuovo del Regno dei figli, in carità e giustizia? ...invece di fermarci e sederci “sopra di loro”, banchettando lautamente con quanti così, poveri, li hanno resi o lasciati. “Quando dai un banchetto, invita i poveri, gli infermi, gli zoppi e i ciechi” (Lc 14,13). La Chiesa “divinitus missa” (cfr. AG proemio) è la Chiesa che discende: divinamente mandata. Il Signore Gesù prospetta l’atto identificante del suo essere unto e mandato dallo Spirito del Padre esattamente nell’evangelizzare i poveri: non altro! Il Vangelo “a tutti” discende e passa sempre dai poveri: altrimenti non è Vangelo, punto. L’annuncio del Vangelo ai poveri, dunque, attesta che la Chiesa è “divinamente mandata”: non altro. La Chiesa avvocata della giustizia e dei poveri “Discendendo”, la Chiesa denuncia le strutture di ingiustizia e di morte, vipere avvelenando la terra e i cuori, lupi terrorizzando e divorando piccoli e indifesi, sfruttandoli e rendendoli “scartabili”. Quanta libertà, quale indipendenza da vincoli e interessi per poter alzare la voce profetica che annuncia e denuncia, difende e promuove, che unisce forze e intelligenze sensibili e incoraggia progetti in favore della vita degna dell’uomo! Mai si placheranno i venti sinistri, che impauriscono rendendo la traversata una lotta. Accade che per mantenere relazioni di reciproco interesse con le autorità pubbliche e quanti detengono il potere effettivo, finiamo per tacere. Eppure quel “Vieni!” a Pietro e alla Chiesa suonerà più forte di ogni vento contrario: e torneremo a “discendere” con Lui, Chiesa “povera, missionaria e pasquale, libera dal potere temporale e audacemente impegnata nella liberazione di ogni uomo e di tutti gli uomini” (Medellín). La Chiesa è “avvocata della giustizia e dei poveri”, “avvocata della giustizia e della verità” (Discorso inaugurale di Aparecida): chi sta nel posto di Pietro non tace. Benedetto XVI insinua quasi una sinonimia tra “poveri” e “verità”. Optare per i poveri è optare per la verità; discendendo dove i poveri giacciono, si coglie la verità, la si concepisce: la verità che dalla terra germoglia, come il Figlio dell’Uomo dal seno degli inferi. Optare per i poveri è lasciarsi attrarre e sedurre dalla verità, quella di Dio, quella della vedova al Tempio: che è lo stesso. Verità, forma di Dio, essere semplicemente senza 23 avere nulla, poiché tutto è donato, dolce miracolo delle mani vuote. Solo in quanto familiare con la verità di Dio e dell’uomo, la Chiesa solidarizza con i poveri, forma un solido con loro: Chiesa dell’opzione per i poveri, Chiesa povera, semplicemente. Che realmente “verità” e “povertà” siano sinonimi? Il vincolo è profondo; i poveri sono epifania di Dio, gli assomigliano spaventosamente, sono senza avere nulla. Del resto, l’allora Card. Ratzinger scriveva che “la povertà è l’autentica apparizione divina della verità”. Eccolo, il sogno di Giovanni XXIII: “La Chiesa di tutti e, in particolare, la Chiesa dei poveri” (Messaggio al mondo, 11/09/1962), la Chiesa “casa dei poveri di Dio” (DA 524). Don Mario Antonelli Teologo I cristiani di Taybeh Una comunità che non vuole arrendersi al conflitto Settantasette. Settantasette sono i bambini nati sul checkpoint tra Palestina e Gerusalemme. Di questi settantasette ventidue sono morti. È da questi numeri che a Taybeh, paese palestinese di 1300 abitanti, tutti cristiani, si è deciso di cambiare. Don Raed, sacerdote palestinese parroco del paese, ha preso l’abitudine di rispondere sempre con l’azione alle richieste della sua gente. Stanco di vedere i suoi parrocchiani fare di tutto per lasciare la loro casa e andare a vivere all’estero, ha deciso di chiedere loro cosa potesse fare per tenerli nella loro terra, per non farli scappare. “Dacci un lavoro”, è stata la risposta. E così don Raed ha fatto. Da quella richiesta sono nati tantissimi progetti che hanno permesso a tanti di Taybeh di avere finalmente un lavoro. Sì perché prima di don Raed qui non c’era assistenza sanitaria e per trovare un ospedale occorreva andare a Gerusalemme. Ma andare a Gerusalemme per un palestinese non è poi così facile. Devi passare tutti i posti di blocco israeliani, devi trovare un soldato che ti faccia entrare senza il permesso, indispensabile per passare il muro e che non puoi avere se hai l’urgenza di curarti e di far nascere tuo figlio, 24 perché per avere il lasciapassare ci vuole tempo, un motivo valido e magari anche la giusta conoscenza. Così è nata la clinica di Taybeh, con la sala parto, una sala operatoria per le emergenze e un laboratorio di diagnostica. Prima di don Raed… Prima di don Raed non c’era una scuola efficiente, perché lo Stato poco si cura dell’educazione. Ora sono 430 i ragazzi che frequentano le scuole di Taybeh, provenienti da tutti i paesi vicini e di tutte le religioni. Qui si insegna che la coesistenza pacifica è l’unica possibile soluzione al conflitto che da tanti anni distrugge questa terra. Prima di don Raed qui non c’era lavoro perché il 40% della popolazione era disoccupata a causa dell’instabilità politica ed economica in cui versa tutta la Palestina. Ma di lavoro ce ne poteva essere molto con tutti gli uliveti che circondano le colline del paese. E quindi si è creata una cooperativa per la produzione dell’olio perché è importante “educare e capovolgere la mentalità del guadagnare e trasformarla in mentalità del condividere”. All’inizio l’olio di Taybeh non aveva mercato e veniva usato solo per pagare la retta scolastica dei propri figli. Ma poi la parrocchia si è attivata e ora l’olio extravergine di oliva di Taybeh viene venduto come prodotto del Commercio Equo e Solidale sulla grande distribuzione francese e risponde ai requisiti di qualità europei. All’olio si è aggiunta la produzione della birra, l’unica prodotta in tutta la Palestina e per la quale quest’anno si è fatta una fiera per attivare anche il turismo; delle lampade della Pace, che vadano a illuminare tutte le chiese del mondo perché tutti preghino per la Pace in Terra Santa; dei manufatti in legno d’ulivo; dei saponi e delle creme del Mar Morto. Ora a Taybeh c’è anche una casa per anziani Prima di don Raed gli anziani rimanevano sulle spalle della famiglia oppure restavano soli se i loro cari migravano all’estero. In Palestina non c’è pensione e quindi andavano ad aumentare la povertà delle loro famiglie. Ora a Taybeh c’è una casa di cura per anziani e malati gravi. Tra poco verrà avviata una stazione radiofonica, l’unica cattolica in tutta la Palestina. Si arrabbia questo dinamico parroco palestinese con tutti i giornalisti che parlano della Terra Santa per dire che i suoi abitanti sono dei perseguitati: “Non dobbiamo sentirci così! È 25 ingiusto! Dobbiamo lottare per migliorare la nostra vita, lavorare, risolvere i problemi quando ci sono, credere nella pace, denunciare le ingiustizie perché una Chiesa di Gesù Cristo che non risponde ai bisogni della sua gente e che non risponde ai perseguitati e alle ingiustizie che la gente subisce non è una Chiesa di Gesù Cristo.” È per questo che don Raed ha studiato negli anni la “mentalità del posto di blocco” per sconfiggerla, perché “le leggi ingiuste sono imposte per essere infrante”. Don Raed si rifiuta di pensare che il soldato che gli vieta il passaggio, perché solo in quanto palestinese non ha patente, sia un nemico. Gli parla come a un amico, gli “dà umanità” affinché il soldato “restituisca a me quella umanità che la legge mi toglie”. È per questo che a Taybeh i giornalisti sono ben accetti, “che vedano che anche in Palestina si lavora, si vive, si spera”. È per questo che i quarantamila pellegrini che ogni anno passano da questo paese sulle colline circondato da ulivi tornano a casa convinti che la comunità parrocchiale di Taybeh è un grande esempio di come sia possibile lottare per la Pace con la Pace. Benedetta Musumeci Regalo di Pasqua nell’anno 2011 Lo speciale incontro - nella “casita” - tra la piccola Maria e don Francesco Ballarini Tre anni fa tre sorelline, Alejandra di 8 anni, Daiana di 6 e Maria di 5 anni, venivano accolte nel nostro Centro Integrale Casa del Niño Lourdes (che qui tutti noi ormai chiamiamo semplicemente e familiarmente “Casita”). Quest’anno si è unito anche un loro fratellino, Yunior, di 5 anni. La loro mamma, tre anni fa, li ha abbandonati per unirsi con un altro uomo. Il loro papà si è fatto carico dei suoi figli e veramente li accompagna e li segue con grande amore e dedizione. Quando il loro papà era venuto a bussare e a chiedere aiuto alla Casita subito abbiamo aperto loro la porta delle attività. Vivono in due stanze non molto lontano dalla Casita e adesso il papà, con l’aiuto del Comune, sta cercando di costruirsi un’altra abitazione. Le bambine si inserirono 26 presto con gli altri bambini. Però dopo qualche mese manifestarono tutti i sintomi di chi è stato abbandonato. Soprattutto la più piccola, Maria, si buttava per terra, gridava, calciava e scoppiava in un pianto che era un grido di dolore. Molte volte mi capitava di assistere alle sue grida di disperazione, e allora me la prendevo in braccio e la tenevo con me anche un’ora intera e lasciavo che piangesse. Poi piano piano si calmava e tornava alle attività con gli altri bambini. Come pure molte volte, quando restavo a pranzo, vedevo che Maria non voleva assolutamente mangiare. Allora la facevo sedere al mio fianco, le parlavo, le tagliavo la bistecca e così cominciava a prendere il cibo. Era logico che, poco a poco, si creasse un clima di fiducia da parte di Maria nei miei confronti. Sempre, quando arrivo alla Casa del Niño, e anche oggi che Maria ha 8 anni, è la prima che corre a salutarmi. In questi anni Maria è cambiata moltissimo: è sempre felice e sorridente. A scuola è stata premiata come la migliore compagna della sua classe. Veramente si vede come il frutto dell’amore di tutti l’ha fatta rifiorire e rinascere. Il compleanno di Maria Nei primi giorni di aprile, mentre stavo alla Casita, Maria mi si avvicina e a bassa voce mi dice che il 9 di aprile avrebbe compiuto otto anni. Spontaneamente le chiedo che regalo desiderasse ricevere e lei mi dice che le sarebbe piaciuto avere una piccola cucina per giocare. Ne parlo con Maria Laura, una parrocchiana, che si incarica dell’acquisto. Sabato 9 di aprile al mattino vado a fare lezione ad un Centro di Catechesi della Diocesi vicino alla casa di Maria. Nell’intervallo mi carico sulle spalle il regalo e a piedi cerco la casa di Maria. Mi raggiunge Silvita, un’operatrice del Centro, e assieme raggiungiamo la casa. Chiamiamo e chiamiamo ma nessuno risponde. Allora bussiamo forte ad una finestra che dà sulla strada e d’improvviso si apre una porta di fianco: Maria esce di corsa con le sue sorelline. Non sto a descrivere gli occhioni di Maria quando riceve il regalo. Ci salutiamo in fretta ed io corro a terminare la lezione. La domenica mattina il papà viene alla messa e non ha parole per ringraziarmi. Il martedì della settimana santa avevo programmato la mia giornata: visitare alcuni ammalati, confessare alcune persone ed altre cose. Mi chiamano improvvisamente dalla Casita per complicazioni riguardanti dei lavori di ristrutturazione che stiamo completando: 27 l’incaricato del Municipio che doveva arrivare non arriva. Lo aspetto fino al primo pomeriggio, invano. Il programma che mi ero prefissato era completamente saltato e per di più avevo la netta sensazione di non aver concluso niente. Verso le 16.30 decido di ritornare alla Casita. Come entro in macchina vedo sul sedile davanti, al mio fianco, un libretto che avevo lasciato il giorno prima. É un bellissimo libretto per bambini che avevo trovato in un armadio in parrocchia, nel quale con piccole frasi e con bellissimi disegni molto colorati si commenta la preghiera del Padre Nostro. Sapendo che Maria quest’anno comincia la catechesi per la Prima comunione ho pensato di donarglielo. Arrivo alla Casita ma ormai già tutti i bambini se n’erano andati. Scendo dalla macchina e vedo che lungo il viale ci sono ancora Maria, Daiana e il loro fratellino Yunior in attesa del loro papà. Come Maria mi vede, si mette a corrermi incontro. Mentre mi si avvicina le dico “Sai, Maria, ho un piccolo regalo per te”. E lei Maria abbracciandomi stretto mi dice, con la sua voce chiara e profonda: “Pero, Francesco, vos sos un regalo de Dios para mi” (“Ma, Francesco, tu sei un regalo di Dio per me”). Resto ammutolito… Resto ammutolito... e mi cadono le lacrime dagli occhi. È difficile descrivere quello che ho provato in quegli attimi. Come in un film rivedevo tutto quello che la Casita aveva significato per Maria in questi tre anni. Credo che mai e poi mai, nella mia vita, dimenticherò quanto mi ha detto Maria. So solo che Maria è stata come un sole dopo una giornata grigia. Ho vissuto la settimana santa e la Pasqua con questa frase di Maria stampata nell’anima e tutto si illuminava, tutto brillava. E ripetutamente mi ritorna alla mente quando Gesù dice ”Ti ringrazio, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai saggi e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Durante tutte le messe di Pasqua, della Vigilia e della Domenica, ho raccontato alla mia gente questa esperienza con Maria. Come Maria Maddalena corse ad annunciare ai discepoli che Gesù era risorto, così Dio quest’anno mi aveva mandato un altro angelo, la piccola Maria di 8 anni, per annunciarmi che Gesù è vivo e presente. Don Francesco Ballarini fidei donum in Argentina 28 Frammenti di resurrezione Açailândia, Maranhão - Brasile Ogni giorno la nostra comunità missionaria cerca segni di resurrezione, dispersi tra i frammenti di molte battaglie, parecchie sconfitte ed un certo senso di impotenza. Gli stessi discepoli hanno avuto bisogno di molto tempo per comprendere ed assumere la resurrezione di Gesù: è stato necessario raccogliere una buona serie di indizi e testimonianze chiare. Mi sono chiesto: in questo anno, che testimonianza di resurrezione può dare la nostra comunità? Abbiamo qualche parola di speranza, un messaggio concreto e fecondo da condividere? Il nostro modo di testimoniare la resurrezione dipende molto dal tipo di morte che stiamo sperimentando. La peggiore è la morte del sogno collettivo, sconfitto dall’interesse istantaneo di piccoli vantaggi individuali. È morte politica di chi desiste da uno sguardo più profondo ed ampio e si lascia comprare o convincere da soluzioni immediate e a buon prezzo, convenienti solo per un momento. In questa regione giunsero, quasi contemporaneamente, imprese ricche, voraci e determinate ad investire nelle risorse della nostra terra; fu difficile, per la gente, resistere alla tentazione di poche ‘perline colorate’ che promettevano d’immediato. E così industrie minerarie, di cellulosa e grandi investimenti in idroelettriche ed allagamenti provocarono forti impatti, con il ‘rattoppo’ di pochi progetti d’investimento sociale, puntuali e discontinui. È risurrezione quando c’è ribellione contro la dipendenza È resurrezione, quindi, tutte le volte che esiste una ribellione contro questa dipendenza e, malgrado sproporzionata, la voce delle comunità si alza per garantirne diritti e sogni. Con una immagine biblica, è resurrezione tutte le volte che troviamo una di quelle cinque pietre che hanno permesso al piccolo Davide di sconfiggere (o perlomeno intontire) il gigante Golia. Se questo si ripetesse varie volte, i ‘giganti’ di oggi si accorgerebbero poco a poco che non si possono calpestare i territori delle comunità senza una seria ed effettiva interazione con le popolazioni che vi abitano. Cinque pietre, dicevamo: 29 - una è stata la nostra recente partecipazione all’assemblea degli azionisti dell’impresa multinazionale mineraria Vale, in minoranza rappresentando le comunità più colpite dalle sue operazioni. Nel cuore della logica incondizionata del guadagno, si sta sollevando sempre più forte la voce di chi denuncia l’impatto socio-ambientale ed esige rispetto per i piccoli; - un’altra sarà la ‘Romaria da Terra e das Águas’, incontro di preghiera e pellegrinaggio che raccoglierà nella nostra città di Açailândia in settembre comunità cristiane del Maranhão intero: migliaia di persone, segno di una chiesa vigilante e coraggiosa, che viene a criticare un modello di sviluppo a senso unico, per il quale il guadagno è privato ma gli impatti pubblici; - un’altra sarà la recente missione, in Maranhão, della Federazione Internazionale dei Diritti Umani, che ha studiato gli effetti nefasti della multinazionale Vale in due casi emblematici della nostra regione ed appoggia le rivendicazioni della gente: priorità assoluta e condizione primaria di un reale sviluppo è il diritto alla vita, alla salute e ad una abitazione dignitosa; - ancora una la troviamo nei vari momenti di articolazione delle comunità vittime di queste violazioni: si sta rafforzando una rete di gruppi e piccole comunità che scambiano esperienze, strategie, appoggi e solidarietà. Le imprese tendono a dividere la gente per indebolirla, ma questo dialogo tra i movimenti rafforza la resistenza; - una ultima è il successo di alcune azioni giuridiche o popolari che finalmente obbligano le imprese ed il governo a rispettare gli interessi della gente: lo sciopero dei lavoratori delle siderurgiche e degli abitanti vittime dell’inquinamento, l’indennizzazione dei famigliari di una persona travolta dal treno che trasporta il minerale per l’esportazione, la condanna di Vale ad indennizzare quasi 800 famiglie tradizionali (quilombolas) a causa del conflitto su un’area di esplorazione mineraria. Sono questi i nostri piccoli frammenti di resurrezione; li aggiungiamo umilmente agli altri che voi, che state leggendo, potrete incollare nel mosaico della vita dei figli di Dio, più forte della morte che si vuole installare in mezzo a noi! p. Dario Bossi missionario comboniano in Brasile 30 IL PANE DELLA FRATERNITÀ “Beati voi poveri perché vostro è il Regno” Inserto settembre 2011 Beati i poveri Una riflessione alla luce della Parola di Dio Anni di convivenza, secondo il costume diffuso. Poi, sorpresi e allietati dall’inedito di una Chiesa che visita e condivide il pane, Benedita e Beto osano la novità del matrimonio secondo il Vangelo. Nelle sere pensose, tra foresta e periferia di città, sensibili alla voce dello Spirito, sognano, maturano, considerano, scovano dubbi e dilatano il desiderio: “…e vorremmo che il Vangelo delle nostre nozze fosse il brano delle Beatitudini”. Così fu. Oggi apro questa consunta Bibbia dei miei anni brasiliani perché sia essa ad addestrare l’intelligenza della beatitudine dei poveri: e vi vedo, proprio sulla pagina di Mt 5, il rossetto appassionato e credente delle labbra di Benedita. Già, quella sera delle loro nozze, dopo la proclamazione del Vangelo, con occhi e sorriso, mi chiese che anche lei e Beto potessero baciare quella pagina. E non fu simulazione: resiste quel rossetto, marchiando a fuoco la lettera della Scrittura perché venga a scaldare i cuori, attestando la verità della beatitudine dei poveri, fissandone ed illustrandone il paradosso: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli. Loro, i poveri, ci redarguiscono quando, sulle note di una retorica insana, confondiamo l’essere “beati” con l’essere “santi”. Non solo ogni professionista della missione ad gentes, ma chiunque con dedizione disincantata abiti le periferie del mondo, sa molto bene che i poveri non sono ipso facto santi. Il tempo della prossimità e le fatiche condivise smentiscono in modo inappellabile che i poveri siano senz’altro buoni. Del resto ci viene giustamente insegnato che questo portale del discorso della montagna (così come la sua redazione lucana) non tratteggia il profilo dell’uomo virtuoso, non pretende elencare delle attitudini morali (la povertà, l’umiltà, la mitezza, la giustizia, la purezza…) come meritevoli del Regno di Dio. Piuttosto vi si dice di Dio e del suo operare in favore degli uomini; in fondo, del suo modo di essere. La misericordia e la giustizia del Regno di Dio La beatitudine dei poveri – e la vicenda storica di Gesù che la 32 incarna in modo singolare – rivela la misericordia e la giustizia del Regno di Dio. Non risuona la raccomandazione di una disposizione spirituale o di una postura religiosa; si parla invece di Dio e del suo operare grazioso in favore degli uomini tutti. Felici i poveri non già perché il Regno, la forza dell’agire grazioso di Dio sia a loro esclusivamente riservato, a scapito dei ricchi; …ma perché l’agire grazioso di Dio, che è per tutti, senza misura e senza flessioni, nel povero non rimbalza contro la grassa prosperità che ottunde l’intelligenza e pietrifica il cuore. Davvero beati i poveri – e la storia del Povero di Nazareth lo conferma proprio nel suo esito pasquale e nell’esultare di gioia per la rivelazione del Regno ai piccoli – perché “costituzionalmente” aperti all’opera della grazia di Dio, perché naturalmente consueti al chiedere e all’attendere, perché nella notte del freddo e degli incubi la loro mano è tesa e non si stanca. “C’è una trasparenza della povertà” Beati i poveri, poiché c’è una trasparenza della povertà: il povero ha la forma del vuoto che può ricevere. Al contrario, quanto è difficile a uno che ha ricchezze entrare nel Regno. La ricchezza, per sé, si ritrova vertiginosamente esposta all’obesità dell’io che impedisce di passare per la porta stretta: essa deve vigilare e duramente lottare per riconoscere e vivere la sua intima vocazione che è la condivisione e la solidarietà. Come potrà accadere l’esercizio del ricevere nella gratitudine, laddove la logica dell’accumulo produce sazietà e spegne l’attesa, riempie le bocche e le case e toglie il fiato all’invocazione? Parliamo allora di un privilegio dei poveri: non che Dio abbia un occhio di riguardo per loro. Il fatto è che, in quanto poveri, essi non hanno gran ché da vedere e consumare; per questo, mentre al ricco è difficile – e quanto! – entrare nel Regno, accoglierne la forza trasformante, al povero è “facile”, …è meno arduo avere un occhio di riguardo per Dio, sua speranza, suo bene. Beati i poveri, poiché il “non avere” li cesella secondo la forma dei “mendicanti della grazia di Dio”. E così si ritrovano “avvantaggiati” per godere della verità di quanto, in fondo, Paolo afferma in 1Cor 13: c’è un avere (la grazia di Dio che in te si fa carità) che è un essere, anche se non hai nient’altro; c’è un non avere (la grazia di Dio…) che è un non essere, anche se hai tutto il resto… 33 La povertà fornisce una predisposizione Non che ciò sia scontato, ma in essi, ma nella povertà si dà come una predisposizione: non che i poveri siano per sé bravi, ma in loro l’agire della grazia di Dio non incontra la barriera e la potenziale opposizione di tanti averi. La grazia più facilmente è sentita dal cuore, poiché il cuore non è disperso in tante ricchezze, poiché il corpo non è gonfio dai tanti banchetti né rivestito di porpora e bisso. Eppure non basta. Anzi, se ci fermassimo qui nell’ascolto della beatitudine dei poveri, ci rimarrebbe tutto l’imbarazzo di un equivoco secolare: quello che nella parola di Gesù intende la legittimazione interessata e/o rassegnata dell’insopportabile ingiustizia della fame e della miseria, dell’indigenza e della sottomissione. Oppure potrebbe farsi strada l’altro aspetto dello stesso equivoco: quello secondo cui il cristiano ha il diritto di disprezzare le cose (e cibo e vestito e casa…) o di guardarle con sufficienza. Per questo, si intende bene la beatitudine dei poveri soltanto dicendo anche dei santi. I santi, quelli che camminano per le strade e non temono la solitudine; quelli che nella lingua del popolo annunciano la meraviglia che è Dio e denunciano in faccia ai potenti ogni attentato al respiro del piccolo e del povero. Loro, i santi, non ti raccontano il loro sforzo e il loro sacrificio, ma ti dicono che Dio è davvero vino di festa e pane e vestito e casa: e si percepisce al volo che questi, i santi, non conoscono altra festa, altra gioia che quella di Dio e cercano anzitutto il pane della grazia e lo spezzano sempre e sono vestiti di carità. Vestiti di carità, e quindi di polvere e di sudore: e non riesci più a distinguere il loro sudore da quello dei poveri e dei piccoli che gli si è attaccato addosso... I santi… In effetti, i santi custodiscono la buona memoria della beatitudine dei poveri. Loro sanno bene che il Regno è dei poveri, che il Regno viene a visitare e trasfigurare la storia dei poveri. Loro sanno bene che Dio non vuole che il paradosso della beatitudine dei poveri si tramuti nella chimera di una promessa impalpabile. I santi e le loro prime comunità garantivano l’oggettività di quella beatitudine, con il coraggio della fede ne mostravano la verità: il Regno dei Cieli è la gioia dei poveri. L’agire della grazia di Dio che istituisce la comunità credente in quanto “vita nuova dei figli nel Figlio” sazia i poveri, ne 34 inventa la gioia. A questa condizione la beatitudine dei poveri è autentica: che la comunità dei santi anticipi in qualche modo la gioia dei poveri, offrendo al povero Lazzaro la felicità del seno di Abramo già qui nei suoi giorni di fame e di stenti. In qualche modo – si intende al modo di Gesù – la comunità cristiana realizza la beatitudine dei poveri: la profezia di Dt 15,4 (“Non ci sarà in mezzo a te nessun povero…”) si fa storia. L’autenticità della beatitudine dei poveri è responsabilità della comunità cristiana! Le parole di Gesù non ingannano i poveri con il miraggio di una felicità che verrà alla fine e le briciole vergognose di assistenzialismo ed effimere consolazioni. I credenti Luca conosceva bene l’oggi di Dio, grazia che si fa storia, vita nuova delle comunità dei santi: “nessuno era bisognoso” (At 4,34), perché tutto è posto in comune. Si pone tutto in comune perché si è “credenti”; questa è la parola che ricorre nei tre quadri di At 2,4247; 4,32-35; 5,12-16. L’essere credenti è la ragione profonda della comunione fraterna e della condivisione/comunione dei beni: gioia dei poveri, il Regno per loro… e per noi. E Paolo non tace la sua indignazione quando viene a sapere che la comunità di Corinto non onora la sua conformità eucaristica al Corpo del Signore. Se davvero mangiamo la cena del Signore, siamo vestiti a festa, danziamo la carità, disegniamo la forma della croce, portiamo le piaghe dell’umanità afflitta e disperata, ci pieghiamo a lavare i piedi dei fratelli, siamo pane spezzato per tutti, nutrimento e consolazione per gli affamati e i desolati: storica, memorabile anticipazione della gioia dei poveri. Altrimenti finiamo per “disprezzare la chiesa di Dio” e “umiliare i poveri”: e le due cose coincidono! “O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente?” (1Cor 11,22). Quando la Chiesa cede all’avidità e all’accumulo… Che la Chiesa di Dio, cedendo alla logica mondana dell’avidità e dell’accumulo, smarrisca così il suo splendore evangelico, è chiaro. La si abbruttisce al punto da renderla irriconoscibile come Corpo del Signore: dove le mani che tutto ricevono e tutto condividono? Dove lo sguardo della compassione e la voce della consolazione? Che i poveri, quelli che “non hanno niente”, se ne vadano “con 35 vergogna”, ecco questo merita un’ultima parola. I nullatenenti di Corinto, Benedita e Beto e tanti altri, si erano accostati alla comunità attratti dalla novità divina della condivisione, sognando il pane per ogni giorno di stenti: come un presentimento di gioia sul palato e nel cuore. Ed escono di casa per cercare la novità di questa comunità, scommettendo sulla verità della beatitudine dei poveri proclamata da Gesù, attendendone una cospicua anticipazione intorno alla mensa della comunità, nelle case dei santi: oggi. Presumibilmente, pure confidano quel presentimento di gioia a figli e amici, ne osano la comunicazione e invitano alla festa, sfidando il ghigno diffidente dei sospettosi che, forse già sanno come vanno le cose a Corinto e altrove... Come torneranno alle loro case? Raccontando e testimoniando che l’agire della grazia di Dio è davvero la gioia del cuore e la sazietà dei corpi? O torneranno con la bocca ancora vuota, le mani anche, e dovranno affrontare lo sguardo interrogativo e deluso di figli e amici, resteranno ammutoliti dalla vergogna, ridicolizzati da quanti volevano dissuaderli? “Dov’è il tuo Dio? Dov’è il pane, la gioia promessa?”. Insomma umiliati, …da noi. Ma il bacio di Benedita sulla pagina di Mt 5 non si cancella: mai. Don Mario Antonelli Teologo Sud Sudan: condividere la festa con i poveri Juba, Sud Sudan, 11 luglio 2011 Carissimi amici, sabato 9 Luglio 2011 il Sud Sudan ha proclamato ufficialmente, davanti a tutto il mondo, la sua Indipendenza. È il 54° stato africano! Fin dalle prime ore del mattino, una folla immensa ha occupato la grande spianata del Mausoleo di John Garang, l’eroe del Sud Sudan, colui che nel 1983 ha dato inizio alla grande ribellione contro il potere del Nord e che è morto tragicamente nel 2005, solo 7 mesi dopo la firma 36 del trattato di pace. All’aeroporto di Juba non sapevano più come parcheggiare gli aerei che atterravano in continuazione. Ma devo riconoscere che gli addetti ai lavori sono stati bravissimi. Finalmente alle ore 11, dopo che tutti gli ospiti hanno raggiunto il Mausoleo, hanno dato inizio alla grande cerimonia. Il momento più forte è stato quando lo speaker del Parlamento ha letto la Dichiarazione ufficiale di Indipendenza, seguita dall’innalza bandiera e dal nuovo inno dello stato. A quel punto in tanti occhi sono comparse le prime lacrime, di gioia, di felicità, di commozione, di dolorosi ricordi. A quel punto l’emozione ha fatto inumidire anche i nostri occhi. Noi non sappiamo cosa sia stata la guerra in tutti questi anni, ma siamo testimoni degli effetti devastanti di questa guerra, siamo testimoni della fame, della povertà, della mancanza del necessario, e già questo ci basta, non osiamo immaginare di più, ma siamo ben consapevoli delle sofferenze e delle privazioni che i sudanesi hanno vissuto. Ma sabato non si poteva indulgere troppo sui ricordi tristi, la festa e la gioia sono state dirompenti! Non so, mi sembra di non trovare le parole giuste, per farvi gustare, comprendere le sensazioni che ho sperimentato in questi giorni, spezzando il pane della fraternità con questi nostri fratelli. Si respirava un’aria elettrizzante, una frenesia nel preparare la città, ma anche se stessi, a questo grande evento. Era l’attesa di un sogno, per cui si è pagato tantissimo in termini umani, che diventa realtà in questo 9 luglio! Ho potuto vedere la felicità, quella vera, che non è superficiale, evanescente, ma è la felicità nata dalla fatica, dalla sofferenza e dall’impegno forte e costante nel perseguirla. In questi giorni i riflettori di tutto il mondo si sono posati su Juba e sul Sud Sudan. Ho visto che anche il nostro Telegionale Rai ha dedicato ben due minuti di servizio a questo evento! Scusate la polemica, ma da un paio di mesi ho la possibilità di vedere in televisione il canale Rai Internazionale. Alla sera, alle ore 9 sudanesi, trasmettono il TG1. È veramente una cosa oscena. Di fronte alle grandi istanze che vengono dal tutto il mondo (Libia, Siria, Egitto, Tunisia, Bangladesh, Sud Sudan, solo per dire alcuni Paesi) il nostro telegiornale serale non fa altro che interessarsi delle piccinerie da bambini dell’asilo dei nostri politici. E quando trasmette qualcosa dall’estero, il servizio più lungo riguarda la mostra dei cani a Parigi!!! Forse è un pò esagerato, ma spero che abbiate capito il mio pensiero. 37 Dicevo che i riflettori del mondo si sono posati, almeno per un attimo, sul Sud Sudan. Ciò che spero è che questi riflettori non si spengano troppo presto! Una nuova nazione che nasce ha bisogno di tanto sostegno da parte di tutti. Spero che i Sud Sudanesi non vengano dimenticati, così come spero però che non vengano ricordati solo per il petrolio e le altre ricchezze che il sottosuolo ancora nasconde! Mi piacerebbe che i Sud Sudanesi e la loro nuova Repubblica vengano considerati come i fratelli più piccoli che hanno bisogno dell’aiuto dei fratelli e delle sorelle più grandi per crescere. Un abbraccio a tutti Franca Cattorini OVCI - La nostra Famiglia Caracolì, Bogotà Vivere la missione in mezzo alla gente Suor Caterina Pintossi è una missionaria marista. Assieme ad altre tre consorelle, da due anni vive a Caracolì, nella periferia di Bogotà. Una zona abbandonata a se stessa, dimenticata dallo Stato, in cui convergono migliaia di sfollati provenienti da ogni zona della Colombia. Persone che fuggono dalla violenza, da una storia familiare segnata da assassini, che cercano di proteggere i loro figli dalle bande che li vogliono arruolare. Arrivano lì per ricominciare, anche per dimenticare. Si accorgono, poi, che dimenticare è impossibile, e che anche a Caracolì vige la legge del più forte. Ogni persona porta infatti con sé la propria storia, i propri conflitti personali, che spesso sfociano in una forte aggressività che rende difficile la convivenza. Aggressività e violenza diventano degli stili di vita, nella convinzione che solo attraverso di esse possano essere risolti i conflitti. Sia quelli familiari, che quelli tra i diversi gruppi sociali e culturali che si spartiscono quel territorio lacerato. In un luogo in cui lo Stato è pressoché assente, droga e gruppi armati trovano terreno fertile per le loro azioni. «Lo Stato qui è presente solo con dei piccoli bonifici» spiega suor Caterina, che li considera come «un’elemosina data per 38 metterli a tacere, in una situazione di odio e violenza, in cui la sola cosa da fare è predominare». Problemi difficili da risolvere, perché chi prova a ribellarsi, a denunciare, rischia la propria vita. In questo scenario, le missionarie mariste si propongono di aiutare, pian piano, un cambiamento nel punto di vista di queste persone: non più la legge del più forte come unico credo, ma il dettato della solidarietà, della condivisione, della fraternità, nell’ottica per cui riprendere in mano la propria vita è possibile. Per far questo, occorre riconoscere le conflittualità e le diversità, dando ad ognuno gli strumenti necessari per comprendere le proprie potenzialità e svilupparle. La prima missione di Caterina e delle altre suore mariste è di farsi presenti in mezzo alla gente, vivendo tra di essa. Prima di loro, mai nessun membro di un’associazione, di una ONG aveva scelto di vivere lì in pianta stabile. Tutti, ancora oggi, vengono a svolgere la loro azione durante il giorno, una volta alla settimana, o una al mese, per poi ritornare alla propria abitazione, al proprio mondo. All’inizio non è stato facile: ricorda Sr Caterina che le persone non davano loro nemmeno il saluto e quando si avvicinavano, chiedevano loro “Che cosa mi date?”. Con il tempo e con l’aiuto di una piccola lotteria, le missionarie sono riuscite a entrare realmente in contatto con gli abitanti di Caracolì, divenendo un punto di riferimento da cui farsi ascoltare, a cui raccontare la propria storia, i propri sentimenti, il proprio dolore. Aiutarli a far memoria della loro vita è un modo per portarli a riconoscere e a prendere coscienza della luce e della speranza radicate nel cuore di ognuno, fondamenti su cui ricostruire una base per una nuova vita. Aiutarli a trovare in primis delle soluzioni alle molte problematiche in cui vivono è un modo per responsabilizzarli e renderli indipendenti. Le missionarie mariste sono presenti con l’ascolto, la visita alle famiglie, l’accompagnamento dei bambini, che spesso non riescono a frequentare la scuola perché devono badare ai fratelli più piccoli mentre la mamma è fuori a lavorare, verso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri talenti. Accanto ad un lavoro pastorale, queste missionarie portano avanti un lavoro sociale, collaborando anche alla costruzione di un centro formativo: la “Ciudad de Bra”. Il progetto, in fase di realizzazione, prevede al suo interno la creazione di 4 aree (lavorativa, accademica, missionaria spirituale e tempo libero), con attività che aiutino le persone a sentirsi di nuovo in grado di prendere in mano la propria 39 vita. Le missionarie e tutte le persone che lavorano con loro, e da loro si fanno accompagnare, hanno scommesso sulla creazione di una nuova città, in cui condivisione, solidarietà, giustizia siano i valori fondanti di ogni giorno. Per sr Caterina, il Vangelo, letto a Caracolì, dà buone notizie, testimonia una Chiesa semplice, che sceglie l’opzione per i poveri, facendosi realmente povera e condividendo tutto ciò che ha. Una Chiesa che non è sinonimo di gerarchie e potere, ma di presenza semplice che accompagna, invece di imporre, che è realmente fraterna ed è testimonianza della possibilità dell’esistenza di un nuovo mondo, del vero regno di Dio. Fa un certo effetto, continua sr Caterina, leggere la pagina delle Beatitudini tra questi versanti di Caracolì, strapieni di baracche, dove c’è un omicidio al giorno. Fai fatica a vedere nel povero il beato se non entri nello loro case e ti fermi con loro, e parlando con loro capisci come, dalla loro povertà, sono molto più vicini a Dio e alla sua storia. La Colombia ha conosciuto un’escalation di violenza in questi ultimi decenni. La situazione colombiana, ci ricorda anche sr Caterina, è molto critica: secondo le stime di varie organizzazioni non governative ci sono circa 4 milioni di persone che sono state obbligate ad abbandonare le proprie terre, circa trecentomila morti violente l’anno, quindicimila desaparecidos ed il 40 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Oltre a questi dati allarmanti si ha la quasi completa assenza del diritto alla salute e all’istruzione. 40 anni di guerra La Colombia sta vivendo da circa 40 anni una vera e propria guerra civile dove si fronteggiano i guerriglieri delle FARC da una parte e lo Stato con l’esercito ed i paramilitari dall’altra. Si sprecano le manifestazioni popolari per condannare, fermare e denunciare, da parte della società civile, quello che viene definito il Terrorismo di Stato. Ogni anno moltissime persone sono minacciate di morte, innumerevoli torturati, rapiti ed infine molti omicidi mirati (nel 2007 sono stati uccisi 70 sindacalisti) e la gran parte di queste violenze si possono ricondurre alla polizia ed ai paramilitari. Il 6 marzo del 2008 300 mila persone invasero le strade del paese contro la violenza. Alcuni giorni dopo l’evento vennero uccisi quattro organizzatori, due sono stati sequestrati e gli altri sono stati 40 minacciati di morte con lettere a loro recapitate in cui si leggeva: “Vi colpiremo uno a uno e non permetteremo alla società civile colombiana di alzare la testa”. Secondo alcune stime, sempre di organizzazioni non governative, circa il 35% dei parlamentari e senatori sono legati o fanno parte di gruppi paramilitari. E questo certamente non aiuta a pacificare il paese. La redazione I poveri di Erik Nella chiesa Trinità di Salvador Bahia (Brasile) In una chiesa abbandonata di Salvador Bahia, in Brasile, la chiesa della Trinidade, Erik, un missionario pellegrino francese, ha iniziato ad accogliere persone che vivevano sulla strada. Assieme a p. Joao e ad altri volontari, Erik ha dato vita a una piccola comunità che vive la dimensione della fratellanza. La chiesa della Trinidade ha oltre 300 anni e si trova nella città bassa di Salvador, vicino al porto, lontano dalla parte storica, più famosa e bella della città, tra droga, prostituzione e malaffare, dove vivono gli esclusi dalla società. Da dieci anni, Erik apre, ogni giorno, le porte della chiesa a chi vive per strada, offrendo un’accoglienza molto semplice, ma fondamentale. «L’idea era di dire alle persone: “stai dormendo sulla strada? Entra, sei benvenuto: porta il tuo cartone dentro la chiesa e dormi”» racconta Erik. Ogni notte, trentaquaranta persone prendono i propri cartoni e si sdraiano tra le mura della chiesa, sugli scalini, ovunque sia possibile trovare un giaciglio su cui consentire al proprio corpo di riposare lontano dalla violenza della strada. Non si richiedono documenti, non si fanno domande, non si fanno discriminazioni. Semplicemente, si apre loro la porta, li si accoglie, in uno spazio di confronto e di accompagnamento. Si inizia poi a camminare con questa gente, per rendersi conto della loro situazione e aiutarli a lavorare sulle cause dei loro problemi, in modo che, poco a poco, possano reinserirsi nella società, trovare un lavoro, una casa, per poter volare con le proprie ali. «Questa redenzione dei “cattivi” – dice 41 Erik – può cambiare il popolo della strada, della prostituzione e della droga». E in questo spazio fisico, queste persone possono incontrare la libertà, intraprendere un cammino di affrancamento dalla strada, dalla prostituzione e dalla droga, iniziare un nuovo cammino di vita. Accanto ad essi e a Erik, alcuni uomini e donne che hanno scelto di rimanere nella chiesa della Trinidade per condividere la loro vita con il popolo della strada: due sacerdoti, suore, laici, che hanno scelto questa vita per seguire meglio il Vangelo. Tra loro, p. Giovanni Cara, che racconta come vivere lì, tra queste persone, gli abbia insegnato una cosa fondamentale: a fare silenzio, a tacere ed ascoltare queste persone che, dopo aver perso tutto, cercano di recuperare la loro dignità. Lo scopo pastorale della comunità è permettere a tutte le persone che vengono qui di cogliere e rendere reale l’invito che il Signore fa ai “paralizzati” dalla vita che incontra: “alzati e cammina”, credi in te stesso, trova in te questa forza e va’. C’è chi vive nella comunità, in questa dimensione di fratellanza, da anni. Comune a tutti è la sorpresa di aver trovato, finalmente, dopo anni di vita durissima sulla strada, qualcuno capace di accoglierti e volerti bene così come sei. La redazione Un nuovo liceo a Mogodè Un’opera dei fidei donum di Como, impegnati nel nord del Camerun Le settimane scorse, durante il corso per i partenti, hanno fatto una visita al CUM Laura Pellizzari, Brunetta Cincera, don Corrado Necchi, tutti fidei donum della diocesi di Como, impegnati nella diocesi di Maroua-Mokolo, al confine con la Nigeria, dove la diocesi di Como ha la cura di 4 parrocchie impegnando 7 persone: 4 preti, 2 laiche consacrate, 1 laica. Nell’incontro ci hanno parlato del nuovo liceo a Mogodè, iniziativa che ha come slogan “perché la scuola sia una possibilità per tutti”. Le province del nord del Camerun sono le più densamente popolare 42 e le più povere del paese. Dieci anni fa era stato fatto il calcolo che la popolazione del Camerun sarebbe raddoppiata in 20-25 anni, considerando la speranza di vita media (55 anni), il tasso di fertilità è di 5/6 figli per donna e il tasso di mortalità molto ridotto, grazie ad una sempre maggiore sensibilità alla prevenzione e alla salute. È facile dedurre, dicono i fidei donum di Como, che la popolazione giovane sia molto numerosa. Le province del nord, lontane dalla capitale, dai centri amministrativi e industriali, sono le più svantaggiate. L’assenza di risorse naturali le rende di scarso interesse politico ed economico. Inoltre la dilagante corruzione fa si che la maggior parte dei soldi pubblici si perdano per strada. Nel comune di Mogodè sono state costruire recentemente cinque scuole superiori: quattro licei e una scuola professionale. In queste strutture le classi sono formate da 120-150 alunni, a volte anche 180, anche se la legge prevede un massimo di 60 alunni per classe! Con questi numeri è difficile far lezione, se poi si aggiunge, continuano i fidei donum di Como, che i professori non sono presenti regolarmente perché la loro retribuzione statale arriva spesso in forte ritardo, si capisce come la qualità della scuola nel nord del Camerun sia molto scadente. La diocesi di Maroua-Mokolo cerca di offrire, attraverso le scuole diocesane, un insegnamento di qualità e una proposta formativa a ragazzi e genitori che vivono in condizioni disagiate. Il vescovo quindi ha pensato di realizzare a Mogodè una sezione staccata del liceo già esistente a Maroua, offrendo la possibilità ai giovani del territorio di frequentare un corso di studi superiore. Il comune ha donato il terreno, la popolazione si è mossa per la raccolta dei fondi necessari alla costruzione. Nell’autunno del 2008 sono iniziati i lavori, nell’anno scolastico 2009-2010 la scuola ha aperto i battenti, anche se ancora incompleta. Il direttore e lo staff degli insegnanti sono locali, coordinati dall’equipe dei missionari di Como. I costo della struttura (63 mila euro), è stato coperto per i 2/3 da risorse locali e da 1/3 dalla diocesi di Como. Così pure il costo di mantenimento annuale della scuola: 10.000 euro dei quali 6.000 a carico delle famiglie e di finanziatori locali, 4.000 euro a carico della Diocesi di Como. Beati i poveri, perché riescono a trovare le strade della condivisione e della fraternità. Paolo Annechini 43 Sommario - Prefazione - La domanda di pane pag. 3 - IL PANE DEL VANGELO – inserto marzo 2011 - L’ultima chiamata - Come il cammino nel deserto - Il pane evangelico della povertà - Il riso della quotidianità - Celebrare la trasfigurazione pag. 5 pag. 6 pag. 9 pag. 12 pag. 14 pag .16 - IL PANE DELLA GIUSTIZIA - inserto giugno 2011 - Perché la Chiesa del Signore sceglie i poveri? - I cristiani di Taybeh - Regalo di pasqua nell’anno 2011 - Frammenti di resurrezione - IL PANE DELLA FRATERNITÀ - inserto settembre 2011 - Beati i poveri - Sud Sudan: condividere la festa con i poveri - Caracolì, Bogotà - I poveri di Erik - Un nuovo liceo a Mogodè pag. 19 pag. 20 pag. 24 pag. 26 pag. 29 pag. 31 pag. 32 pag. 36 pag. 38 pag. 41 pag. 42 Ascolto assiduo della parola di Dio, celebrazione liturgica e comunione nella carità sono, dunque, le dimensioni costitutive della vita ecclesiale; esse hanno un’intrinseca forza educativa, poiché mediante il loro continuo esercizio il credente è progressivamente conformato a Cristo. Mentre testimonia la fede in letizia e semplicità, la comunità diviene capace di condividere i beni materiali e spirituali. Già così il compito educativo si mostra quale «esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa». Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla buona vita del Vangelo, n° 20