Questo contributo mi è stato inviato da Barbara Duden, che ho incontrato a Roma al Simposio internazionale delle filosofe. In quell’occasione si è molto interessata all’approccio all’educazione che abbiamo elaborato in Italia nella Pedagogia della differenza e nell’autoriforma della scuola: non lo conosceva e l’ha sentito come un modo nuovo di pensare l’intera questione educativa. L’essere umano condizionale, di Johannes Beck, Silja Samerski e Ivan Illich, fa parte degli atti della seconda conferenza europea Educazione permanente dentro e fuori la scuola, tenuta a Brema nel febbraio del 1999. Sottopone a analisi serrata il paradigma di educazione permanente che si è istallato nelle nostre società, vedendolo come “la prospettiva di una vita ricostruita come una serie di moduli di apprendimento”. Lo trovo di grande interesse e mi sembra vada felicemente incontro alle riflessioni sulla vita quotidiana che nello stesso Simposio di Roma hanno avanzato Ina Praetorius, Chiara Zamboni, Wanda Tommasi. Vita Cosentino L’essere umano condizionale di Johannes Beck, Silja Samerski e Ivan Illich traduzione di Guido Lagomarsino Parte I: Johannes Beck Gentili ospiti, Vi saluto e vi do il benvenuto a questa conferenza, Nelle ore che seguono interverranno tre di noi, tre amici. Il tema che affronteremo è quello che chiamiamo l’essere umano condizionale o relativo. Silja Samerski è una genetista e una filosofa che ha studiato una delle forma che oggi prende l’educazione permanente, la consulenza genetica alle donne gravide. Ivan Illich, che insegna all’università di Brema dal 1991, si interessa alla storia del senso della misura e di come questo sia andato perduto nel mondo moderno. Io mi occupo della ricerca di una forma di educazione che sappia resistere allo spirito dei tempi. Perché, in effetti, ci sarà sempre resistenza, anche davanti alla pericolosa prospettiva di una vita ricostituita come una serie di moduli di apprendimento. Pur essendo io l’ospite di questa conferenza, sono estremamente scettico riguardo al tema trattato. Non che io dubiti del fatto banale che ognuno di noi, dopo i suoi studi normali, continui ad apprendere nel corso della sua esistenza. Il mio scetticismo riguarda piuttosto l’affermarsi e il diffondersi dell’idea di un’educazione permanente. Si tratta di una novità assoluta, di una nuova dottrina antipedagogica, che stabilisce che ognuno deve “imparare” continuamente, perché è questo che l’esistenza, per dir così, impone a tutti. Il mio scetticismo non svanisce né davanti alle buone intenzioni dei pedagoghi imbarcati in questa impresa né davanti ai generosi finanziamenti che le sono dedicati. I miei amici e io siamo convinti che sia necessario prendere una distanza critica da questo nuovo fenomeno e dalla sua pratica. Lo facciamo con la piena consapevolezza che la nostra critica apparirà ridicola dal punto di vista più “responsabile” delle scienze ufficiali e delle discipline accademiche. La dottrina dell’educazione permanente ribalta le idee tradizionali riguardo alla formazione. In futuro i pedagoghi faranno la parte dei flauti di seconda fila nel concerto dell’istruzione. La “vita” in sé, si dice, occuperà il posto del primo violino e noi danzeremo tutti alla sua melodia. Ciò nondimeno, io spero che mentre saremo qui seduti insieme nei prossimi giorni, le vostre critiche a questo nuovo approccio non si riducano o non svaniscano, spero che le nostre conversazioni portino un soffio d’aria fresca e non diventino un modulo in più della “formazione permanente”. La particolarità del termine tedesco, Bildung, dimostra quanto sia difficile farci capire. Nella versione inglese di questo testo è reso con la parola education, ma in realtà è molto difficile da tradurre in qualsiasi altra lingua. E non trova un corrispettivo in termini quali apprendimento, qualificazione, formazione, conoscenza o istruzione. La conversazione diventa ancor più difficile quando si mescolano parole cosiddette di “plastica” adottate a livello internazionale. Parlo di termini come “creatività”, “competenza”, “comunicazione”. Essi invadono e la fanno da padroni nei nostri colloqui, spiazzano le esperienze personali e soffocano la precisione di senso. Anche gli appartenenti alla mafia si possono definire informati e qualificati, buoni comunicatori, innovatori, capaci di giocare in squadra e quindi in grado di apprendere e di prendere decisioni. Lo sono quelli che clonano i geni, che spaccano gli atomi, i presidenti delle multinazionali e i poeti che scrivono la pubblicità per quelle stesse multinazionali. L’ideologia dell’educazione permanente trasforma la formazione in una forma di posizionamento, una ricerca infinita di mettersi in luce. La formazione non riguarda più l’acquisizione di capacità specifiche o una crescita interiore, ma un processo illimitato e privo di specificità. Un processo che è facile vedere all’opera nella vita di tutti i giorni. Farò qualche esempio. Un anziano signore vuole prendere un treno in città. Alla stazione non riesce a trovare un bigliettaio. Invece sulla pensilina c’è una biglietteria automatica alla quale bisogna “servirsi da soli”. Il signore armeggia disperatamente sull’apparecchio: i soldi scompaiono all’interno, ma la macchina non gli restituisce un biglietto. Evidentemente ha fatto qualche cosa di sbagliato. Ora che cosa dovrebbe fare: dovrebbe viaggiare illegalmente, pagare un supplemento acquistando il biglietto sul treno o fare reclamo all’apposito sportello (quel giorno purtroppo chiuso), fare un corso sull’uso delle biglietterie automatiche o tornarsene a casa? Tra queste alternative non ha la possibilità di scegliere. Vuole andare a trovare la figlia proprio quel giorno. Ma a questo punto è nervosissimo, dà dei colpi inutili alla fessura dove sono sparite le monete. Una ragazza che ha osservato i suoi tentativi di pagare, arriva al suo soccorso e recupera il biglietto premendo un pulsante e gli dice: “Non si finisce mai di imparare”. Solo poche ore dopo quella persona gentile avrà anch’essa bisogno di aiuto e di un consiglio. Arrivata in centro città sullo stesso treno dell’apprendista sull’uso della biglietteria automatica, acquista un apparecchio elettronico per il taglio dei capelli. Il dispositivo è corredato da un manuale di 50 pagine, che nella primissima pagina la informa, con una scritta a lettere rosse, che se non segue alla lettera le istruzioni si espone al pericolo di morte. Il resto dell’opuscolo le risulta incomprensibile, ma dall’ufficio di assistenza clienti del fabbricante viene informata sulla sequenza di pulsanti da premere. In questo modo riesce a tagliarsi i capelli senza fare un disastro. Quando propone un corso sull’utilizzo dei manuali di istruzione alla locale scuola di formazione per adulti, si ritrova a esserne lei l’insegnante. Un tale, un carpentiere disoccupato, si trova in una situazione diversa ma analoga. All’ufficio di collocamento gli dicono che se è stato messo nella categoria dei non assumibili è solo per colpa sua. Alla fine dei conti, non è in grado di produrre prove di avere fatto almeno un tentativo di una crescita professionale. La sua obiezione, che gli ci sono voluti molti anni di studio e di apprendistato per diventare un carpentiere, non produce nessuna reazione. Il fatto che rivendichi il valore della sua esperienza verrà registrato nel suo fascicolo con questo commento: non disponibile a un’ulteriore formazione. Resta ancora la storia di una giovane donna che, dopo molto tempo, va dal medico per una visita di controllo. Purtroppo le viene diagnosticato un cancro al seno. Ma il medico le dice che il mancato rispetto delle scadenze regolari dei controlli la rende in parte responsabile della sua condizione. A quel punto le probabilità di superare la malattia con un intervento chirurgico sono del 60 per cento ed egli non può darle nessuna garanzia. La decisione a quel punto è tutta sulle sue spalle. Deve ricordarsi, però, cha la sua assicurazione copre solo le terapie riconosciute dal sistema sanitario. Potrei proseguire presentando questi scandalosi esempi di educazione permanente per ore. Vale la pena di esaminarli uno per uno, e Silja Samerski lo farà dopo di me, esaminando qualche caso di consulenza genetica. A me qui interessa vedere ciò che queste storie hanno in comune. Quali principi sottesi mettono in luce? Tutti i miei personaggi hanno a che fare con nuovi “insegnanti” dentro e fuori delle mura scolastiche. Moderatori, animatori, facilitatori e operatori di rete saranno i loro compagni per tutta la vita. Il modello dal quale sono ritagliati tutti questi personaggi è quello celebrato della società della conoscenza, dell’informazione e del rischio. Possono essere persone dignitose e disponibili, oppure insistenti e aggressive; il fatto è che questi insegnanti di nuovo tipo stanno sempre dietro all’eterno studente e sono sempre pronti a riorientarlo. Come si dice nel gergo pubblicitario: aiutano i loro clienti ad aiutarsi da soli. Molti prodotti ormai hanno bisogno di un supplemento di formazione, che i consumatori non sono in grado di assumere o non sono disposti ad assumere. I nuovi insegnanti li aiutano ad adattarsi. Per dirla in modo semplice: non sono le circostanze che si adattano alle persone, ma le persone che si adattano alle circostanze. Di per sé, non è una novità. La moderna devastazione dell’essere umano va avanti da 500 anni, attraverso la struttura scolastica, quella militare, il riformatorio. Il cronometro e il regolo, la fabbrica, il ghetto e il mercato hanno tutti contribuito alla produzione industriale di un’umanità condizionata e dipendente. Si è finito per considerare i bambini esseri incompleti per i quali era necessaria una formazione, che dovevano essere trasformati in individui utili attraverso compulsioni esterne, i riti pedagogici della scolarizzazione e la propaganda. Le procedure della formazione dovevano essere estese fino a colonizzare anche il mondo interiore. La storia dei moderni stati nazionali e delle loro attività economiche è la registrazione trionfale del successo di tali pratiche di civiltà. Questa irregimentazione ha sempre prodotto una rsistenza. Ci sono state rivolte popolari, alcune animate da speranze, altre disperate, e ci sono state persone che non erano disposte a cedere le proprie responsabilità a questa o a quell’istituzione. I metodi pedagogici convenzionali non sono mai riusciti a piegare del tutto questa resistenza. È tuttavia possibile che tale difficoltà sia stata ora aggirata, in quanto la formazione ha una sua efficacia senza ricorrere a evidenti costrizioni o a un controllo organizzato. Con una certa riluttanza ho cercato di delineare le caratteristiche di questa riforma educativa. Ciò che prima era imposto con la costrizione è ora diventato un bisogno. Adesso si ha a che fare con clienti, la cui accettazione delle possibili opzioni è accompagnata dalla sensazione di una sicurezza interiore. Le scelte prefabbricate hanno la durezza e l’inevitabilità dei fatti naturali. Una società globalizzata e astorica si presenta come priva di alternative. I ragazzi e le ragazze, gli uomini e le donne, in questo regime, sono soltanto “il fattore umano”, che compare unicamente come risorsa o rischio. In quanto fattori, si chiede loro di adattarsi responsabilmente a una situazione che non corrisponde alle loro persone. Devono dare risposte a domande irrespondibili. Ci si aspetta che si considerino per un verso attori indipendenti e produttori indipendenti, e per l’altro clienti e debitori. In quanto tali, devono investire in loro stessi per accrescere la propria commerciabilità. A tal fine devono permettere che qualcuno li “animi” e faccia loro da consulente. Devono autoregolarsi, agire con decisione e prendersi il rischio delle scelte. Sono autoprodotti e autoproduttori e questa sovrabbondante autoreferenzialità è un fatto profondamente nuovo. I moderni cittadini che vogliono fare una bella carriera si trovano davanti a una situazione priva di chiari confini e limiti e ciò impedisce loro di riconoscere alternative alla propria “educazione permanente e attività decisionale” autodiretta. Il loro andare e venire, il loro progredire, il loro benessere, l’arricchirsi o l’andare in rovina dipendono dalla capacità di adattarsi a diversi sistemi. In particolare, devono imparare a funzionare e a competere in simbiosi con le attuali situazioni economiche. Non basta più accettare, tollerare tali condizioni: si deve imparare a identificarsi con esse. Nella macina della new economy, dove tutto dipende dal posto che si occupa, si suppone che la graniglia sia macinata in modo tanto sottile da fungere essa stessa da lubrificante per gli ingranaggi. Chi non sa o non vuole ungere le ruote, deve sapere che cosa lo aspetta. Fuori della porta, dietro al mulino, si accumulano le scorie fatte da chi si è dimostrato recalcitrante. Queste scorie degradano trasformandosi in pesi per la società, e chi non ha più prospettive serve da lezione concreta. Serve da dimostrazione dell’importanza cruciale di avere un posto nella società e incita tutti a formarsi infinitamente. Il motto nazista “Tu sei niente, il popolo è tutto” è stato rivisto così: “Tu sei il posto che occupi”. Chi tragga vantaggio da questa soluzione, è un segreto di Pulcinella. Sta scritto sui cartelloni pubblicitari e sulle magliette, alla Borsa e nei grandi magazzini, sugli schermi televisivi e nelle piazze. Esserci è tutto! Una fornitura infinita di materiale didattico promuove con cura le cose come stanno. Gli studenti permanenti chiedono di più alle proprie energie limitate per perseguire l’obiettivo. Ma solo pochi lo raggiungono al momento giusto. Gli altri ci provano invano e scoprono che l’obiettivo si sposta continuamente più in là. Eppure continua ad attirarli. I nostri contemporanei soffrono il supplizio di Tantalo, più che di quello di Sisifo. Certi discorsi che circolano sull’importanza del posto, vorrebbero convincere con la paura quelli ai quali sono rivolti. Sono discorsi che nascono dalla scienza e dalla politica, dall’economia e dal commercio. Presentano una notevole coerenza, almeno in Europa. Ci dicono che esiste “una grande coalizione pedagogica” dedicata a diffondere la preoccupazione per il posto. Questa coalizione non ha nessun interesse nella pedagogia. Anzi, essa sabota ogni forma di educazione, nella quale il benessere dei giovani viene prima dei meschini interessi di chi ha il potere. Questo sabotaggio porta a ridicolizzare qualsiasi insegnante aspiri per i propri studenti a qualcosa di meglio della condizione attuale. La grande coalizione pedagogica vuole assorbire la personalità stessa dei suoi soggetti e il suo tentativo di creare una persona completamente funzionale e responsabile sembra giustificare qualsiasi mezzo. Sono cooptati gli esperti delle scienze cognitive, genetiche, dell’informazione e della formazione. Si prendono in consegna i concetti di solidarietà, autonomia, apprendimento, decisione, consenso e perfino di Bildung. Il futuro è colonizzato. Un numero infinito di esperti dell’educazione infantile si mette a disposizione, anche non richiesto, dei questa coalizione, nella speranza di ricavarne qualche vantaggio. Gli insegnanti che mettono al primo posto gli interessi delle generazioni future non hanno la possibilità di dare un contributo. Ma, finché restano convinti che ciò che oggi conta sia un impegno ostinato e comune per un’educazione autentica, questi insegnanti continueranno a resistere ai sabotaggi della “grande coalizione”. L’educazione autentica consiste ancora, come è sempre stato, in una paziente e costante ricerca della verità, nello sviluppare capacità che siano buone e belle di per sé. Si svolge dando una forma pensata al nostro ambiente, nelle conversazioni e soprattutto nell’ospitalità. Chiunque apprezzi questa educazione non sacrificherà il presente per un futuro rimandato all’infinito. Io non so, ovviamente, in quali capanne o in quali palazzi, per quali monti e valli del paesaggio scolastico, voi vi troviate attualmente. Da questo dipenderà la prospettiva con cui valuterete il paesaggio che ho cercato di delineare. Ma, a prescindere da questo, io sono sicuro che un fenomeno senza precedenti come quello che ho tratteggiato provocherà resistenze e contraddizioni. Al posto dell’irragionevole pretesa di una formazione permanente, io propongo una forma di studio che abbia limiti e sia collettiva. Solo entri tali limiti potremo scoprire o riscoprire un mondo personale e una voce personale. Ciò può avvenire se noi rifiutiamo di trasformarci in altoparlanti, componenti o risorse di un sistema statico. Parte II: Silja Samerski Verso la metà del 1998 l’associazione degli industriali tedeschi (Bundesverband der Deutschen Industrie) ha pubblicato una dichiarazione politica sulla «iniziativa individuale», presentandola come la chiave per un primato tedesco in Europa. L’associazione sottolinea come proprio principale interesse la «flessibilità», seguita dalla competitività, la capacità di vedere lontano, il senso della comunità e della responsabilità personale. Si pretende da ciascuno più della semplice disponibilità ad accettare una ricollocazione o una nuova formazione. Ognuno deve riconoscersi come un’unità di un sistema informativo. L’associazione prevede che d’ora in avanti ognuno valuterà il proprio comportamento e le proprie abitudini alla luce delle esigenze di un’epoca nuova e sarà sempre vigile per scoprire nuove opportunità. Questo, continua il documento, costringe tutti a un continuo consumo di informazioni, in altre parole, a una «formazione permanente». Per fare fronte alle nuove esigenze, si devono aprire sempre più opportunità di formazione permanente, occorrono sempre più servizi di consulenza che diano ai potenziali clienti la possibilità di scegliere le opzioni appropriate. La tesi che sta alla base di questa visione è chiara: nascita e investimento, cure terminali e occasioni di vacanza sono in costante miglioramento (vaginale o cesareo? Azioni o obbligazioni? Chemioterapia o Kervorkian? Coppia o single? Queste sono alternative angoscianti). A ogni pie’ sospinto siamo davanti a opportunità mai viste. Per ognuna di queste ci servono informazioni, perché ogni opportunità implica anche insospettabili opzioni. Per scegliere tra queste, abbiamo bisogno di un orientamento sensibile al contesto, un orientamento che, nel migliore dei casi, ci sarà fornito come un servizio di consulenza. L’idea che servisse un orientamento specialistico per fare fronte alle faccende di tutti i giorni, fino a poco tempo fa era qualcosa di inaudito. Il primissimo ente di consulenza in Germania risale agli anni venti: si occupava di orientamento professionale per i diplomati delle scuole elementari. Nella repubblica di Weimar diventarono di moda le consulenze per l ’allattamento al seno e subito dopo l’orientamento professionale per giovani in cerca di un avanzamento di carriera, le consulenze matrimoniali per coppie che desideravano i figli. Ma queste forme prebelliche di consigli quasi zieschi non devono essere viste come anticipazioni delle guide al consumatore oggi gentilmente rifilate ai singoli, con la pretesa di fornire loro strumenti di autogestione e di autoorientamento. Con un esempio estremo, ma caratteristico, voglio spalancare il sacco delle ipotesi che stanno alla base dell’esigenza di un orientamento permanente alle opportunità di apprendimento. Comincerò dall’esigenza di informazioni e di orientamento nelle donne con figli. La signora K. è sui trentacinque anni. È in preda all’agitazione. Le si è gonfiata la pancia e le hanno detto che è alla quinto mese. Il ginecologo l’ha avvertita che c’è bisogno di una decisione, una decisione che deve prendere lei. L’ha anche informata che, in una fase così avanzata della gravidanza, qualsiasi esame comporta un certo rischio. Poi l’ha avvisata che senza esami rischia di far nascere un ritardato. Ha tenuto a sottolineare che non è proprio compito decidere per lei, che solo lei è in grado di fare una scelta, a questo punto. Per vagliare altre possibilità, l’ha indirizzata al Servizio di Consulenza Genetica. Dovete sapere che in Germania i consulenti di questo servizio devono essere medici con cinque anni di specializzazione in genetica. Così la signora K. si trova davanti al genetista che siede dall’altra parte della scrivania e che ha esaminato la sua documentazione e vuole sapere da lui che cosa fare. Da questo punto in avanti, vi leggerò frasi del verbale che ho steso durante quel colloquio. Il genetista comincia il colloquio definendo i limiti entra i quali può assisterla. «Mi permetta di cominciare con qualche osservazione… il mio lavoro di consulente non ha niente a che vedere con il dare consigli… possiamo discutere, deciderà lei che cosa è importante e deciderà in base a ciò che ritiene giusto per lei. Tenga presente che non esistono ragioni scientifiche a favore o contro i testi genetici, che la cosa va soppesata volta per volta. Lei è venuta a consultarmi e io devo limitarmi a dirle: “È una cosa che deve scoprire da sola”.» Ho steso tre dozzine di verbali di questi incontri. Quella che ho appena letto è la tipica frase d’esordio. A questo segue un corso sintetico con citazioni prese da libri di testo, sulle possibili malformazioni, e ve lo risparmio. Poi il consulente spiega che tutte le donne in attesa sono soggette a un rischio di base. Gli esami possono mettere la signora K. in una fascia più ristretta di donne che, in ragione di qualche caratteristica, è sotto la «minaccia» di un rischio superiore alla media. Per la signora K, come per qualsiasi altra donna sottoposta a questa procedura, questa «minaccia» porta il colloquio a un punto critico. Se capisce che la probabilità che se si verifica un evento su una data fascia di popolazione (per esempio una malformazione del feto), questo non significa che quell’evento si verifichi nel suo caso, la donna sorriderà con condiscendenza al demografo, si alzerà e se ne tornerà a casa. La maggior parte delle donne, però, non reagisce in questo modo. Le informazioni sul rischio statistico attribuito a una certa popolazione sono avvertite come un pericolo dalla persona che riceve la consulenza. Il colloquio prepara questo tranello. Il consulente scorre pagine stampate al computer e dice: «Signora K., veniamo al suo caso… Lei forse sa che la sindrome di Down si manifesta in un caso su 435 gravidanze. Però, badi, la sindrome di Down non è l’unica alterazione cromosomica. Queste si verificano con una frequenza dello zero virgola sei per cento. Ma è solo lei che può decidere se questa percentuale sia alta o irrilevante, se è un fatto che la spinge a intervenire o un dato che dimenticherà subito.» Al che la signora K. comincia a scuotere il capo e a balbettare: «Che vuol dire tutto questo?» E il medico insiste: «Sta a lei sapere che atteggiamento prendere. Può dire: “Ah, sì, quello che mi dice è un rischio”, e richiedere di fare un esame. E il risultato potrà indurla a trarre certe conseguenze, cioè a interrompere la gravidanza. Deve decidere lei, signora K., lei capirà che io posso solo dirle che cosa si può fare, non che cosa si dovrebbe fare. Noi non ci assumiamo la responsabilità delle conseguenze.» Ecco qua. La signora K. è completamente sconvolta. Rischia un aborto? Acconsentirà mai a una procedura che provoca l’espulsione di un feto morto? Saprà fare i conti con il senso di colpa, se farà nascere un bambino handicappato? Il colloquio di consulenza ha prodotto un «apprendimento sensibile al contesto», ma anche un bell’enigma. E soprattutto: ha provocato l’esigenza di una scelta, decidere se portare avanti o no la gravidanza. Tutto l’onere della scelta e delle sue conseguenze è stato scaricato sulla donna. Tutta la faccenda ha preso non più di un’ora e mezza. Non posso dirvi come sia andata a finire, perché dopo il colloquio ho perso di vista la signora K. Non so se abbia riflettuto sulle probabilità, se sia andata in un bar e abbia riacquistato la calma, se sia esplosa di rabbia per il trattamento indegno cui è stata sottoposta. In qualche caso l’irritazione della persona davanti al consulente comincia a manifestarsi molto prima della conclusione del colloquio, certe volte ho visto donne alzarsi, confuse ma calme. Perché vi ho raccontato la storia della signora K.? Ho deciso di farlo quando Johannes Beck vi parlava del passeggero alle prese con la biglietteria automatica. Sono stata colpita dall’analogia tra la cerimonia di consultazione nella quale la signora K. «imparava» ad affrontare la sua gravidanza, e il modo in cui l’anziano signore doveva confrontarsi con i pulsanti e le leve sotto allo schermo. E ve l’ho raccontata, perché mi ha anche colpito la differenza tra le due situazioni. Il passeggero voleva un biglietto e non aveva trovato nessuno allo sportello. La signora K. aspettava un bambino: è andata dal suo medico che ha trasformato la sua fiduciosa speranza in un fatto da esaminare. Poi si è rivolta al consulente, al genetista. Da costui ha appreso ciò che si suppone serva in quel momento della sua vita: ha appreso che dare la vita è una faccenda di sua scelta. Che doveva affrontare un rischio, valutarne il livello, scegliere tra varie possibilità. Portare avanti la gravidanza diventa una questione di scelta. Qualcosa da decidere. Una decisione che nessuno all’infuori di lei poteva prendere. Che un figlio doveva essere il frutto di un calcolo dei rischi, delle possibilità e delle opportunità di una madre. Per concludere, permettetemi di parlarvi di un amica: di una che si è rifiutata di imparare. Quando ha concepito la speranza di avere un figlio, non ha scelto esami e consulenze, ma il riposo. Conosceva il livello di rischio in cui l’età e la storia familiare mettevano la sua gravidanza. Ma sapeva anche che per sorprendente che fosse, aspettava il suo bambino. È arrivato Peter: è un po’ lento ma sano. Sua madre lo adora, così com’è. È contenta di avere escluso ogni «decisione» sulla sua venuta. Parte III: Ivan Illich La mamma di Peter è contenta che la sua venuta non sia mai stata una questione di scelte. Quando si è accorta di essere incinta, ha preso consiglio da se stessa, ha fatto nascere il bambino e si è goduta la sorpresa. Ecco che cosa ci ha appena raccontato Silja Samerski. La sua amica ha volontariamente escluso un orientamento dall’esterno. Per tutta la mia vita sono stato dalla parte dei bambini che cercano di rifiutare la scuola. L’ho fatto, avendo compreso con Peter Berger che il rito della scuola è uno degli artefici del mito che legittima la competenza solo se dipende da precedenti apporti curricolari. Io esorto i bambini a ragionare sui motivi che li spingono ad andarsene. Paul Goodman mi ha indotto a credere che i bambini sanno il perché. L’energia con cui ho sostenuto la destabilizzazione della scuola la devo all’esempio che mi hanno dato Gene Burkart e Aaron Falbel, che continuano l’opera di John Holt con mezzo milione di famiglie americane che, senza motivi settari, proteggono i propri figli dalla scuola. Seguirò l’esempio di Johannes Beck: lo scambio di opinioni con gli amici è per me un’occasione per scoprire quello che siamo capaci di fare bene, e per capire che sappiamo che cosa facciamo. All’università mi occupavo di retorica e di esegesi, e per quanto potevo mi astenevo dal fare prediche. Se dopo una lezione qualcuno mi diceva: «Sì, ho capito, però…», ero tutto contento. Se veniva a ringraziarmi per quello che aveva imparato da me, pensavo di avere sbagliato qualcosa nella mia lezione. Finora avevo considerato le chiacchiere sulla «educazione permanente» un semplice slogan utilizzato da insegnanti disoccupati in cerca di lavoro nell’industria, nel commercio o nella politica. Oppure, a un livello più pretenzioso, m’era parso un tentativo di riconvertire gli amministratori scolastici facendone ingegneri delle opportunità di apprendimento. Per molto tempo ho evitato di vedere in faccia l’intera verità: trovarsi tutta la vita in una selva di opportunità di apprendimento mi sembrava equivalente a una propaganda ineludibile a favore di un adattamento senza limiti a un universo tecnogenico, una propaganda a favore di una fede grottesca e nauseante sulla plasticità dell’essere umano. Consideravo tutta la faccenda una fantasia di pedagoghi impazziti. Ero certo che ogni persona di buon senso se ne sarebbe tenuta alla larga e ci avrebbe scherzato su. Conversando con Silja, ho perso questa mia sicumera. Ho scoperto un aspetto ancora più spregevole in questa educazione permanente che voi propagandate. Solo grazie ai suoi verbali di trentasei sessioni di consulenza, sono arrivato ad accettare il fatto che queste incomprensibili sciocchezze fossero davvero messe in pratica. Ho capito che una donna incinta è chiamata, no, è obbligata ad apprendere quale sia il probabile futuro del figlio, perché deve prendere una decisione responsabile sul dare la vita, e che resterà l’unica persona responsabile delle conseguenze di quella scelta. La formazione permanente obbligatoria è diventata per me come il demonio. Perché? Con la crescita esponenziale delle opportunità di apprendimento, spariscono le limitazioni che impediscono di «prendersela con le vittime». Se la prenderanno con te perché hai un figlio o per il fatto che hai abortito con la scusa male espressa che ti impediva di lavorare. In entrambi i casi hai rifiutato di ricevere gli insegnamenti che ti venivano presentati e qualunque cosa succeda sarà solo colpa tua. Ma se accetti quegli insegnamenti, la responsabilità della decisione sarà solo tua e tu, solo tu, ne porterai le conseguenze. Con il prospettato boom delle opportunità di studio, potrà solo lievitare l’offerta di servizi di orientamento. E la responsabilità di accettare o no le offerte di studio sarà solo tua. La prima cosa che dovrai imparare sarà di ponderare le offerte e scegliere che cosa studiare. A questo punto subentra il consulente dell’orientamento. A lui spetta condurre la cerimonia in cui la persona «orientata» si trova contemporaneamente di fronte a percentuali di probabilità e alla pretesa che a decidere sia solo lei. Samerski vi ha illustrato come la legge sancisce che questa cerimonia funzioni con una donna in gravidanza. Altre funzioni di questo tipo saranno forse meno ripugnanti, ma la struttura è sempre la stessa. L’orientamento è oramai fornito a ogni svolta dell’esistenza di ognuno, e soprattutto per le «decisioni» che prospettano di accrescere le occasioni di apprendimento di un individuo autodiretto. Le conseguenze di questo fenomeno sono pesantissime. Finora il potere disabilitante dei Pedagoghi riguardava solo la legittimazione del sapere e delle capacità apprese. Le conoscenze e le competenze, per essere valide, dovevano essere acquisite sotto la loro supervisione tecnica e valutate in base ai loro criteri scientifici. Adesso questo potere disabilitante si estende al di là del sapere e delle competenze, e tocca le capacità decisionali. Libertà, scelta, opzioni sono ridefinite in modo che per utilizzare il modo appropriato presuppongono il ricorso a servizi di orientamento. È questo il punto che noi tre vogliamo mettere in evidenza. L’educazione permanente che sia socialmente accettata in quanto modo legittimo per dare a ciascuno la capacità di adattarsi in ogni momento alle nuove occasioni create dalle novità tecniche e organizzative, a prima vista non fa che ribadire ciò che insegna il curriculum occulto della scuola: il grado di autovalorizzazione dipende dal rito con cui la si acquisisce. A prima vista pare che l’educazione permanente vada ben oltre la scolarizzazione, soprattutto in quanto sostiene il senso di impotenza in mancanza di un pedagogo che faccia da balia. Nessun sistema scolastico aveva finora mai prospettato qualcosa di simile a un costante aggiornamento che rendesse la persona compatibile a una società assimilata a un sistema operativo. A una seconda occhiata, però, ci vediamo un’altra novità assoluta, senza precedenti per la sua portata antidemocratica e immorale. È il legame tra l’orientamento e l’impiego di ciascuno dei moduli di apprendimento offerti. È la pretesa che, sempre e continuamente, a ogni svolta del cammino della nostra esistenza, noi dobbiamo cercare una guida per scegliere tra opzioni caratterizzate da complessi profili statistici di probabilità. Chi si assoggetta a questa pretesa svilisce la propria capacità di decidere, assimilandola a un lancio di dadi, si affida alla sorte, tradisce se stesso. Punto il dito su questa ripugnante eventualità per esortare a seguire l’esempio della madre di Peter: rivolgersi agli amici, con i quali superare le oscure ombre di un apprendimento guidato.