APPROCCIO ALLA PEDAGOGIA ROGAZIONISTA SECONDO LA MENTE ED IL CUORE DI S. ANNIBALE MARIA DI FRANCIA SCHEMA I – FONDAMENTI: 1.- Idee, principi e concezioni alla base della pedagogia annibaliana. 2.- La persona creata e salvata. 3,- La finalità trascendente della persona. 4.- La relazione fondamentale tra educando ed educatore. II – IL SOGGETTO – OGGETTO DELL’ AZIONE EDUCATIVA: 1.- La persona dell’ Educando: a) Nella sua personalità b) Nel suo ambiente di provenienza c) Nella esperienza delle sue relazioni primarie e secondarie d) Nell’ ambiente della sua crescita. e) Nella struttura della sua personalità. 2.- La persona dell’ Educatore: a) Nella sua capacità di amare. b) Nella gestione della sua professionalità. c) Nella sua capacità di accoglienza. d) Nella sua presenza: costante, discreta, fedele e preveniente. 1 III – LA METODOLOGIA PEDAGOGICA 1.- Individuazione ed osservazione delle qualità dell’ educando. 2.- Promozione delle qualità della persona dell’ educando. 3.- Orientamento verso le professionalità più prossime alle capacità dell’ educando. 4.- Accompagnamento nel inserimento o reinserimento nella doscietà dell’ educando. 2 PARTE PRIMA «I Fondamenti» PREMESSA: L’ idea di elaborare un “Trattato di Pedagogia Annibaliana” – al di là del fascino – è un’ impresa grandiosa. Grandiosa sia per la sensibilità pedagogica di S. Annibale Maria Di Francia, ma anche per gli innumerevoli scritti e regolamenti che riguardano la dimensione pedagogica della sua azione personale nell’ educazione dei bambini, sia per il patrimonio teorico-pratico che Egli ha lasciato ai suoi figli e figlie spirituali. Tuttavia un approccio, il più possibile sistematico, della pedagogia annibaliana, oltre che lecito è addirittura necessario. In questa prospettiva si deve comprendere lo schema presentato. Esso si prefigge di inquadrare la dimensione pedagogica di Annibale Maria Di Francia in una visione della realtà umana, dalla quale Egli fa scaturire ogni relazione con gli altri e specificamente con i bambini. Visione della realtà che diventa il fondamento dell’ azione pedagogica e del suo relazionarsi con il mondo cosmico, umano e spirituale. Da questo fondamento scaturisce la sua concezione della persona dell’ educando, nella complessità del suo essere e del suo esistere; nella complessità della sua esperienza relazionale nell’ ambiente d’ origine, cioè, nelle sue relazioni primarie e secondarie e quindi nell’’ ambiente della crescita e nello strutturarsi della sua personalità. Infine da questo fondamento scaturisce anche la sua concezione della persona dell’ Educatore nel patrimonio valoriale, professionale e soprattutto nella sua capacità relazionale, specificamente nella capacità di amare. Ultima necessaria premessa è quella di avvertire gli eventuali lettori e/o fruitori di questo approccio alla pedagogia annibaliana, che l’ autore non è ne uno psicologo, ne un pedagogista, tanto meno un filosofo o teologo. Egli è semplicemente un rogazionista. Che Dio e S. Annibale perdonino la mia presunzione. Questo mio approccio, più che di scienza e intelligenza è frutto di cuore ed amore. 1.- IDEE, PRINCIPI E CONCEZIONI ALLA BASE DELLA PEDAGOGIA ANNIBALIANA Volendo fondare la pedagogia annibaliana, bisogna partire dalla sua visione della realtà. Tale visione, in S. Annibale, è inequivocabilmente ed esplicitamente quella cristiana. La visione cristiana della realtà si fonda sulla fondamentale relazione creaturale tra Dio, il cosmo e l’uomo. Tutto l’ universo è creatura di Dio ed in quanto tale porta nella sua struttura il progetto e l’ impronta di Dio, secondo i quali deve sviluppare il suo essere 3 ed attuare il suo esistere. Questa coscienza creaturale è presente continuamente nei suoi scritti, siano essi preghiere o di altro genere. Ecco l’ inizio della sua famosa preghiera “Offerta della propria vita per il bene spirituale della città di Messina”:«Eterno Iddio, Creatore e Signore di tutte le cose, Padrone supremo di tutte le vostre creature, io mi prostro col capo nella polvere al vostro cospetto. Confesso, lodo, benedico ed esalto la vostra infinita bontà e i vostri divini attributi…» (3 maggio 1880, Scritti, vol I, p. 47). Così si esprimeva in una preghiera del 6 luglio 1906, per il suo 50° compleanno: «Ecco, o Altissimo Iddio, Signor mio, Creatore mio, che io ieri sera, 5 luglio, alle ore 9 compii 50 anni della mia nascita. Ahimè che ne ho fatto io di questi cinquant’ anni di vita?...Oh, potessi nascere di nuovo al mondo, per cominciare ad amarvi e servirvi e contentarvi fin dal primo istante della mia concezione! Deh! Perché non vi conobbi ed amai, o Bellezza infinita, o Eterna Verità, fin dal primo istante di esistenza!». (Scritti, vol. I, p. 287). In un’altra preghiera senza data: “Lodi, benedizioni e ringraziamenti all’ inizio dell’ anno”, così canta: «O Supremo Signore e Dio di tutte le cose, che avete creato tutto quello che esiste, e con mirabile provvidenza regolate il moto dei cieli e della terra, facendo succedere gli anni e le stagioni, noi, vostre meschinissime creature, ci prostriamo al vostro divino cospetto, e nei primi momenti di quest’ anno novello vi adoriamo profondamene. Noi sappiamo che vi piacciono le primizie, e perciò vi presentiamo umiliati le primizie di quest’ anno novello ricolmo di lodi, di benedizioni e di affetti per Voi nostro supremo Signore e Dio. Noi cominciamo quest’ anno novello, adorandovi, lodandovi, benedicendovi, e così vi preghiamo che ci diate grazia di seguitarlo e di compierlo. Adoriamo, lodiamo e benediciamo la vostra onnipotenza, che trasse dal nulla tutte le cose. Adoriamo, lodiamo, benediciamo la vostra divina misericordia, che si degnò di darci l’essere. Adoriamo, lodiamo, benediciamo la vostra divina sapienza, che risplende mirabilmente nel regno della natura, della grazia e della gloria. Adoriamo, lodiamo e benediciamo la vostra divina provvidenza, che regge e governa tutte le cose, con ordine e misura. Adoriamo, lodiamo e benediciamo la vostra eterna carità, con la quale ci avete dato l’ essere per renderci eternamente felici. Vi benediciamo o Eterno Padre, che amate le vostre creature come vostri figli diletti, e per la nostra salvezza avete mandato sulla terra il vostro Unigenito. Vi benediciamo o Verbo eterno del Padre, o dolcissimo nostro Gesù che per amore delle anime nostre siete venuto in terra e siete per noi morto in croce. Vi benediciamo, o Spirito Santo, Spirito d’ infinito amore, che santificate mirabilmente le anime nostre. 4 Vi lodiamo, vi benediciamo, vi glorifichiamo, Santissima Trinità che dall’ altissimo vostro trono non sdegnate di rivolgervi benignamente alle meschinissime creature che noi siamo». Va inoltre ricordato che una delle nostre tradizioni più care e profonde, la annuale: Supplica all’ Eterno Divin Genitore nel Nome SS.mo di Gesù, nel suo stesso titolo porta la piena coscienza del primo, fondamentale, creaturale legame con Dio Creatore e Padre. In un suo opuscolo titolato: “Lettera del Ca. A. M. Di Francia ai suoi Amici e signori”, - opuscolo indirizzato ad atei, miscredenti ed indifferenti a Dio – così si esprime: «Dio Uno e Trino è l’ Essere Onnipotente, Infinito. Egli à creato il Cielo e la terra, il mare e i monti, il Sole la Luna e le Stelle: astri innumerevoli dell’ infinito spazio, di tale grandezza e numero, che la mente umana si smarrisce a pensarlo! Dio è il nostro continuo Benefattore. Ci dà la vita, ce la conserva, ci à dato l’ anima, il corpo, i sensi, l’ ingegno, ci dà il cibo, l’ acqua le comodità della vita, fa servire al nostro benessere tutta la natura creata. Egli è infinitamente bello! Ogni creata bellezza non è che un minutissimo saggio della sua bellezza increata ed eterna, e, paragonata a Dio è nulla! Egli è infinitamente buono e perfetto. Ogni bontà e perfezione naturale e soprannaturale, che possa apparire in un uomo, non è che un pallido riflesso della infinita bontà e perfezione divina! Egli ci à dato un cuore sensibile per amarlo sopra tutti e sopra tutto. Ma, ahimè, chi è che si applica ad amare filialmente e teneramente il suo Dio Creatore, Padre, Benefattore e Redentore?...». Come si può evincere, il linguaggio usato dal Fondatore non è di tipo argomentativo, ma di annuncio. Egli sa benissimo di scrivere a persone non credenti che sul piano dell’ argomentazione per negare l’ esistenza di Dio potrebbero essere anche più ferrate, per cui non scende sul loro piano, ma vuole trasmettere le proprie certezze, convinzioni, la propria fede in maniera coinvolgente. Tutto ciò corrisponde piuttosto alla filosofia, teologia, psicologia e pedagogia di Cristo che gli riempie il cuore e la mente e glieli fa traboccare. Questi riferimenti non sono impropri, né fuori luogo nella prospettiva pedagogica di S. Annibale Maria Di Francia. La fede in Dio è la roccia sicura sulla quale è costruito tutto il suo castello interiore ed ogni dimensione del suo agire apostolico, compreso quello pedagogico. Si comprende questa espressione tipicamente annibaliana:«Da trent’ anni che mi affanno a raccogliere orfanelli ed educarli, per provvedere al loro avvenire, ho stimato ed ho sperimentato che base inconcussa di ogni educazione civile si è l’ educazione religiosa! Ho toccato con mano questa verità insegnata dalla esperienza, dalla ragione, dalla fede,dai dotti e dal buon senso di tutta l’ umanità, che per formare l’ uomo civile, educato, buon cittadino, bisogna formarlo cristiano!» (Discorso 31 gennaio, 1909; in AR p. 294). 2.- LA PERSONA CREATA E SALVATA Altro fondamento della pedagogia annibaliana è la visione e stima della persona degli educandi come creature amate e salvate da Dio. Il concetto di Dio Creatore e Padre presiede a tutto il mondo interiore ed a tutte le attività di Annibale Maria Di Francia. 5 Tutte le creature – in maniera speciale la persona umana – sono riflesso della Sua bellezza e della Sua bontà. Qualche flash del suo pensiero: «Dobbiamo amare Dio perché Dio è bene infinito, in Dio si racchiudono tutte le perfezioni, bellezze, tesori, perfezioni, bellezze, che non possiamo comprendere. Se volgiamo lo sguardo alla natura, vediamo un’ immagine quantunque debolissima della dei divini attributi. Osserviamo lo spazio, esso è immenso, che mente umana non può calcolare; eppure Iddio è più immenso dello spazio. Osservate gli astri: essi sono milioni di milioni, e fra di essi ve ne ha che sono centomila volte più grandi della nostra terra; sospesi nel vuoto girano e rigirano con ordine inalterabile; eppure non possono esprimere quanto + potente Iddio, perché Dio li cerò con un solo fiat e ne potrebbe creare quanti ne volesse. Osservate la natura quante bellezze non contiene! Bella è la primavera, odorosi sono i fiori, maestosi i monti, vaghi i ruscelli, amene le campagne, misteriose le spelonche, terribili gli oceani: or quanta bellezza e varietà dev’ esserci nell’ Autore di tante cose! Dio è un bene infinito: tutte le virtù dei Santi provengono da Dio. Egli mostra la sua faccia ai Beati: tutti Lo vagheggiano, ne provano una gioia l’ uno dall’ altro differente. Egli riempie di sé le varie misure di meriti dei suoi eletti senza che scemi…Ora, se Iddio è un bene sommo, un bene infinito, che racchiude in Sé ogni bellezza, ogni grandezza, non merita Egli il nostro amore?» (Predica sull’ amore di Dio, 21 giugno 1877, in AR, p. 105 e ss.). «L’ animo si commuove, e si intenerisce il cuore, quando si pensa che Dio ci amò con carità eterna. Noi non eravamo ancora nati al mondo, non erano nati i nostri genitori, non erano nati i padri dei nostri padri ed Iddio ci amava. Anzi, ancora non era formato il mondo, non erano formati i cieli, non erano create le stelle e Iddio ci amava. Ma forse Iddio aveva bisogno di noi, meschine creature? Forse non era Egli pienamente felice senza di noi? Ah, che Iddio non aveva certamente bisogno di noi: poteva lasciarci nel nulla, poteva non amarci, non crearci, che sempre sarebbe stato felice! Eppure fu tanto l’ amore che portò Iddio alle anime nostre, che non solo ci creò, ma pure ci redense. Ci creò a sia immagine e somiglianza, e quando noi avevamo perduto la immagine e somiglianza di Dio col peccato, mandò sulla terra il suo Unigenito per redimerci. E che cosa pretende da noi questo benignissimo Signore per il bene che ci portato? Non altro pretende che il nostro amore!» (Conferenza sull’ amore di Dio per noi; in AR, p. 107 e ss.). E’ in questa visione di tutta la realtà che bisogna leggere gli insegnamenti pedagogici e soprattutto la testimonianza pedagogica di Annibale Maria Di Francia. 3.- LA FINALITA’ TRASCENDENTE DELLA PERSONA Se dunque l’ educando è quella creatura e persona per la quale “fu tanto l’amore che portò Iddio alle anime nostre, che non solo ci creò, ma pure ci redense”, allora il rispetto, il servizio, l’amore per lui deve essere sommo perché egli è oggetto dell’ amore sommo di Dio per lui. La dimensione creaturale e filiale dell’ uomo con Dio – come appare evidente – entra prepotentemente nella relazione primaria tra educando ed educatore. Occorre sottolineare, però, che questa relazione primaria, creaturale e filiale, tra l’ uomo e Dio, non va relegata nella pura e semplice dimensione della causalità, quanto, invece, in quella della filiazione. E’ questa dimensione che dà trascendenza al fine esistenziale della persona umana. La sua dignità, la sua grandezza, la sua bellezza, scaturisce sì dal suo essere immagine e 6 somiglianza di Dio, ma soprattutto dal fatto che essa è oggetto eterno, prima che il mondo fosse, dell’ amore di Dio. “L’ animo si commuove, e si intenerisce il cuore, quando si pensa che Dio ci amò con carità eterna”. Questa carità di Dio verso la persona umana, la rende preziosa ai suoi occhi e, quindi, degna dello stesso amore verso Dio. I Comandamenti dell’ amore annunciati da Cristo, come compimento e perfezionamento della Legge: L’ amore a Dio e al Prossimo, dicono che l’ oggetto dell’ amore, verso Dio e verso il Prossimo, ha una stessa radice o fondamento: Deus caritas. La trascendenza dell’ uomo è data dal fatto che egli è stato reso oggetto di amore personale, da parte di Dio. Perché è amato da Dio, è amabile da noi. Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica “Redemptor hominis”, esclama:«Quale valore deve avere davanti agli occhi del creatore se “ha meritato di avere un tanto nobile e grande redentore”, se “Dio ha dato il suo Figlio”, affinché egli, l’ uomo “non muoia ma abbia la vita eterna”». Questo valore della persona umana, legato al fatto che essa è stata amata da Dio fin dall’ eternità, stabilisce nella visione e nelle profonde convinzioni di S. Annibale, quel vincolo di paternità e filiazione, con i suoi assistiti, che forma il fondamento stabile e sicuro della sua pedagogia. L’ amore dunque è l’ unica modalità relazionale – che si concretizzerà in minutissimi dettagli di attenzione e di cura per i ragazzi – su cui Annibale Maria Di Francia ha costruito la sua Opera di promozione umana e di redenzione di fanciulli e giovani, di soccorso e promozione di poveri e bisognosi. 4.- LA RELAZIONE FONDAMENTALE TRA EDUCANDO ED EDUCATORE La relazionalità fondamentale basata sull’ amore genera, in S. Annibale, quella sua capacità di dono di sé materno e paterno verso i piccoli ed i poveri che non attinge semplicemente un buon sentimento di umana pietà, ma diventa habitus, stile di vita, sostanza del suo essere e del suo agire. Questa stessa capacità Egli richiede negli Educatori nei propri Istituti. E’ opportuno tentare di cogliere le radici di questa paternità, meglio della maternità e paternità di S. Annibale in una delle sue poesie, la più famosa, comunemente citata:”Io l’ amo i miei bambini”. In verità il titolo della poesia è:”Versi in risposta ad un carme”. Tale carme fu pubblicato dall’ avvocato Angelo Toscano. Secondo il padre Tusino, autore dell’ Anima del Padre, autore di questo carme è lo stesso Avvocato Toscano (Cfr. Tusino, Anima del Padre, p. 604, nota a pi’ pagina), giornalista e poeta, ma non di area cattolica. Egli apprezzava l’ Opera di S. Annibale, almeno dal punto di vista filantropico. I versi da lui scritti in omaggio al Padre Fondatore non sono mai stati ritrovati. Al di là della conoscenza dei versi essi dovevano essere certamente versi di elogio e di ammirazione per il Padre e per la sua opera di carità. Il Padre accetta gli apprezzamenti e gli elogi, anche se provenienti da uno sconosciuto, perché rispondono alla verità e perché non suscitano vanagloria e superbia. Ecco la poesia: Come nota di canti peregrini Mi giunege il suon della tua cetra bella. 7 O ignoto amico, e de li miei bambini Nell’ innocente amor mi rinnovella. Io l’ amo i miei bambini, ei per me sono Il più caro ideal della mia vita,, Li strappai dall’ oblio dall’ abbandono Spinto nel cor da una speranza ardita. Fiorellini d’ Italia, appena nati Era aperto l’ abisso a divorarli, Non era sguardo d’ occhi innamorati Che potesse un istante sol bearli. Pargoletti dispersi in sul cammino, Senza amor, senza brio, senza sorrisi, Ahimè quale avvenir, quale destino Li avria nel torchio del dolor conquisi! Perle deterse le bambine mie, Le raccolsi dal loto ad una ad una, Quasi conchiglie immezzo delle vie; Oggi avviate a più civil fortuna. Mi chiaman Padre: sulle loro chiome Del Ministro di Dio, la man si posa. Chiamano Madre, e a sì dolce nome Risponde del Signor la casta Sposa. Perché non manchi a queste mense il pane Ho gelato, ho sudato, - oh, ecco intanto Quest’ oggi il vitto, o figli miei: dimane Ci penserà quel Dio che vi ama tanto! – Spesso ho battuto a ferree porte invano; Atroce è stata la sentenza mia: - Via di qua l’ importuno, egli è un insano; Sconti la pena della sua follia! – O miei bambini, un dì verrà che voi Saprete il mio martirio e l’ amor mio Che non ama il padre i nati suoi, Che per voi scongiurai gli uomini e Dio! O ignoto amico! Il verso tuo potesse Sciogliere i geli e convertirli in foco, Onde pietà li doni suoi spandesse, 8 Pietà che al cielo e alla terra invoco! Sia pure rapidamente occorre focalizzare, attraverso le espressioni della poesia, alcuni elementi essenziali per la comprensione della natura della maternità e paternità di S. Annibale. A) ANALISI DELLA POESIA 1: “Nell’ innocente amor, mi rinnovella” Innocente amor! Il significato figurato della parola innocenza è quello di “purezza”. Innocente significa “senza colpa” né morale, né giuridica. E’ evidente che nell’ espressione poetica di S. Annibale “innocente” acquista più direttamente il senso di “purezza” che diventa, così, quasi un derivato di “innocenza”. “Innocente amore” va quindi inteso come “puro amore”. Non è un dettaglio da trascurare, in quanto è importante stabilire questa “purezza” di amore da dove e da che cosa scaturisce. 2: “Io l’ amo i miei bambini… Spinto nel caro da una speranza ardita…” Tutta la seconda strofe della poesia è una sorta di sommario, meglio, di “annuncio” che indica: a) L’ origine dell’ “innocente amor”: “L’ ideal” della sua vita. Ideale non dice solo “sfera dello spirituale”, “massima aspirazione” o “perfezione assoluta”; ma dice anche la fonte e la ragione dell’ ideale, cioè la carità, che è Dio: “Deus Caritas”. I bambini sono l’ oggetto privilegiato del Dio – Carità e nello stesso tempo il “segno vivente” della sua presenza in mezzo a noi:”Qualsiasi cosa avete fatto a uno di questi piccoli l’ avete fatto a me” (Mt 25,40). b) La via dell’ innocente amor e cioè quell’ amore che si prende cura dei propri figli: “li strappai dall’ oblio dall’ abbandono”. L’ amore che si fa presente, che, come Cristo, cura “ogni malattia e infermità”. c) Lo scopo dell’ “innocente amor”, cioè riuscire a donare il sorriso, la gioia di essere amati, il senso della vita ai più piccoli, più bisognosi, più poveri. E’ la speranza “ardita” della fede e della carità pura, quella che ama “in Dio e con Dio” (Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”,n. 17). 3: La terza, la quarta e la quinta strofe, descrivono la delicatezza e la tenerezza di quell’ “innocente amor”. C’ è tutta la maternità e paternità di un cuore che veramente ama “in Dio e con Dio”. Si preoccupa dell’ avvenire umano e trascendente dei suoi piccoli. Si preoccupa di restituire loro il sorriso e la gioia della vita; si preoccupa di preservarli dall’ abisso del male pronto a “divorarli”, si preoccupa di lenire le loro sofferenze offrendo ogni 9 opportunità per costruire un proprio avvenire secondo la loro dignità di persone, di figli di Dio, di cittadini onesti che guadagnano il pane con il proprio lavoro nella serena prospettiva di “più civil fortuna”. Ma va particolarmente sottolineata quella felicissima espressione: “le raccolsi dal loto ad una ad una”. Qui si rivela in pienezza quel “innocente amor”, che ha la sua fonte nel Dio – Carità. Qui l’ amore si fa relazione personale:”ad una ad una”. Non si può non cogliere in questo verso il riecheggia della “caritas pastoralis” del Buon Pastore:«Io sono il Buon Pastore e conosco le mie (pecore) e le mie (pecore) conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre e offro la mia vita per le pecore» (Gv 10, 14-15). C’ è anche la smentita ad una certa cultura anticlericale che vede nelle antiche strutture degli “Orfanotrofi”, una sorta di lager spersonalizzanti, dove i bambini sono numeri. Nel cuore e nella pedagogia di Annibale Di Francia i bambini non sono stati mai dei numeri, ma “fiorellini” e “perle”, raccolte “ad una ad una”. 4: Nella sesta strofe si trova l,’ esplicita confessione del perché quell’ “innocente amor”, non solo è puro ma anche trascendente. All’ invocazione e al bisogno di maternità e di paternità risponde non una generica, per quanto compassionevole, presenza, bensì quella del “Ministro di Dio” e della “casta Sposa del Signor”. Esattamente quel “Ministro” e quella “Consacrata”, primario oggetto della preghiera in obbedienza al “Rogate”, scaturita dalla carità pastorale di Cristo come esigenza imperiosa, perciò “comandata”. Tutta, allora, si riunifica in quel “mistero del Rogate da lui (S. Annibale) vissuto in unità di vita anche nell’ instancabile dono materno e paterno di se ai più piccoli del regno” (Positio, vol. I, p. 4). 5: La settima e l’ ottava strofe presentano questo amore materno e paterno nel suo crogiuolo quotidiano di fatiche e umiliazioni per provvedere alla fame, materiale e spirituale, di quei “suoi” bambini. Bambini “raccolti” ad uno ad uno, mai come numeri, ed amati non come “ospiti” dei suoi Istituti, ma come “figli”, abbandonandosi – per il futuro immediato e lontano - al Padre in assoluto, fonte di ogni amore, quel “Dio che vi ama tanto”. 6: La nona strofe è la confessione dell’ amore più grande che Cristo stesso ci ha mostrato nei suoi insegnamenti e nella sua vita. Il “crogiuolo” quotidiano di cui si accennava, viene identificato, nel suo animo, come “martirio”. Un amore che è capace e pronto a dare la vita, un “martirio” vissuto giorno dopo giorno e che è stato fonte di energia, di vitalità, di zelo, di servizio in ogni momento e contro ogni difficoltà. Una capacità che si fa tenerezza materna e paterna, perché “non da sangue, né da volontà di carne, né da volere d’ uomo, ma da Dio è nata” (Gv 1, 13). D’ altra parte un animo posseduto dalla carità pastorale di Cristo, non poteva non esprimere una carità “martirio”, fino a dare la vita per gli altri, ed una carità di maternità e paternità, supplicando un Dio che è Padre e Madre! “Un dì verrà che voi Saprete il mio martirio e l’ amor mio, Che più non il padre i nati suoi 10 Che per voi scongiurai gli uomini e Dio”. Non si possono rimuginare questi versi senza assaporare in essi la profonda commozione di chi vive il gesto d’ amore “sapientemente” (dal latino sapio), “assaporando” lo stesso amore di Dio; cioè – per dirla con Benedetto XVI – “amando in Dio e con Dio”. 7: Nell’ ultima strofe S. Annibale si rivolge ancora all’ ignoto ammiratore esprimendo un augurio che – nella prospettiva della civiltà dell’ amore - deve diventare, nella certezza della speranza, desiderio condiviso da tutti affinché anche la bellezza di un verso: “potesse Sciogliere i geli e convertirli in fuoco, onde pietà li doni suoi spandesse, pietà che al cielo e alla terra invoco”. Pietà che non è semplice sentimento compassionevole verso chi è nel bisogno, bensì è un atteggiamento relazionale con Dio, che è accettazione nella vita della sua luce (fede); è desiderio di felicità (speranza) raggiungibile nel Regno di verità, di giustizia e di pace, promesso da Dio in Cristo, è “gioia della carità” (Cfr. “Deus caritas est”, n. 17), goduta nella comunione di vita con Dio per l’ eternità. La cultura classica per esaltare la “pax augustea” ha creato il mito del “pio Enea” per dare al divinizzato imperatore romano una discendenza gloriosa, esaltata appunto da una esaltante relazione con Dio (la “pietas”). In Cristo si incarna questa “pietas” e diventa storia dell’ uomo e nello stesso tempo opportunità per la realizzazione della civiltà dell’ amore. Se la “pietas” del pio Enea esprimeva una relazione di riverenziale e sacrificale rispetto per gli dei, tesa più ad attirare benevolenza ed evitare l’ ira vendicativa, spesso anche capricciosa, in Cristo la “pietas” è relazione filiale che “scioglie” il timore in “tenerezza”, l’ oblazione sacrificale, in “martirio” – testimonianza d’ amore, il rispetto timoroso in “gioia di carità”. Non è verificabile se sono questi i “doni” ai quali pensava S. Annibale nel comporre i versi in oggetto! E’ certo, però, che sono questi i “doni” della “pietas cristiana” che egli ha “sparso” a Messina, nella Chiesa e nel mondo, con quel suo vivere «il mistero del Rogate in unità di vita anche nell’ instancabile dono materno e paterno di sé ai più piccoli del “Regno”». B) ALCUNE RIFLESSIONI SULLA “MENS” DI S. ANNIBALE ESPRESSA IN QUESTA POESIA 1.- Maternità e paternità con gli orfani La prima riflessione, in relazione alla “mens” espressa nella poesia, è quella che in essa S. Annibale rivela una profonda, anzi radicale, paternità incarnata in una dolcissima e tenerissima capacità di amare “in Dio e con Dio”. E’ la vera concezione cristiana della paternità che è quella di Dio. Non a caso Cristo ci ha detto di rivolgerci a Dio e chiamarlo: “Abbà”, Padre. 11 E’ una paternità che supera quella umana e di essa, tuttavia, non ne fa perdere il legame, il gusto, la gioia. Un episodio narrato nella biografia di S. Annibale, scritta da P. Francesco Bonaventura Vitale, manifesta la raffinatezza di questa paternità. L’ episodio è riferito nella testimonianza della Suora Maestra delle Orfanelle di Taormina, la Casa in cui si sono svolti i fatti: «Era il 1905, festa della S. Pasqua, io era, essa scrive, con le orfanelle maestra di disciplina: quando mi suonano la campana con l’ ordine di scendere al parlatorio per accompagnare alcune ragazze, le quali erano attese dai parenti che nei tempi festivi portavano dei doni alle fanciulle. Due orfanelle non avevano nessuno al mondo e se ne lamentavano che non andava mai nessuno al parlatorio per cercare di loro e regalarle. Il nostro venerato Padre, saputo questo, disse: povere figliuole bisogna che consoli il loro cuore! Fece confezionare due pacchetti di dolci con l’ agnello pasquale dentro, poi li richiuse con cera e spago, vi appose il recapito chiaro e preciso, e il giorno di Pasqua la suora li consegnò alle due orfanelle dicendo che erano state mandate dal loro padre. Le orfanelle sussultarono di gioia e di sorpresa. Come! Abbiamo noi un padre? Il dopo pranzo poi il Padre ordinò che le due fanciulle scendessero al parlatorio, perché il loro padre le attendeva. Confuse e giulive insieme corsero le orfanelle e nello schiudere la porta eccoti innanzi la figura ieratica e sorridente del Padre che dice:”Eccomi, non sono io vostro padre?” Le ragazze commosse non poterono frenare le lagrime, perché erano grandette, e compresero la squisita bontà del cuore delicato e magnanimo di colui che ea veramente più che padre” (Vitale, “Il Canonico Annibale Maria Di Francia nella vita e nelle opere”, Ediz. 1939, pp. 670-671). Nelle memorie di P. Carmelo Drago – un vero florilegio della vita del Padre nel suo quotidiano – si legge: «Ricordo pure che una o anche più volte la settimana, la sera, il Padre, andava al reparto degli orfani e si tratteneva familiarmente con loro come fosse stato uno di loro, o meglio, come la loro mamma, o il loro babbo. Ascoltava le loro richieste e cercava di accontentarne i desideri. Quindi li istruiva nella religione. Perciò i piccoli spesso quando vedevano il Padre, gli dicevano:”Padre questa sera viene da noi? L’ aspettiamo!”. Molte volte a quelle scene assistevamo noi aspiranti, e il Padre alla fine ci diceva:”Ora questo lo faccio io con gli orfani, poi lo dovete fare voi se il Signore vi darà la grazia di uscire religiosi. Oggi questo è il più caro ideale della mia vita, domani dovrà essere il vostro. Se non sentite questo trasporto per gli orfani, non potete mai essere buoni rogazionisti». Altri episodi di tenera paternità si ritrovano nelle memorie sopra cotate. Ne spigolo ancora uno.: «Un piccolo non fece in tempo ad arrivare in bagno, e gli successe quello che gli doveva succedere! Era ridotto proprio che faceva pietà, e, fermo vicino alla porta del bagno che dava sul cortile, piangeva inconsolabilmente chiedendo aiuto. Si trovava a passare il Padre e andò per consolarlo. Corsi pure io e Fratello Luigi, il quale si accingeva a pulirlo. Ma il Padre risolutamente disse:”Lo devo pulire io, andate a prendere la biancheria ed il vestito”. Per quanto insistessimo di volerlo pulire noi, non si poté fare nulla, il Padre ripeteva:”Vi ho detto che devo pulirlo io. Volete privarmi di fare per gli orfani il mio dovere?? Voi altri avete tante occasioni per farlo”. Si condusse il piccolo in camera e non 12 volle nessun aiuto. Dopo un pezzo ricomparve tenendo per mano il bambino bello e pulito, come avrebbe potuto fare solo una mamma!». 2.- Criteri educativi La raffinata maternità e paternità di S. Annibale nei confronti degli orfani, si riscontra non solo nei tanti episodi di vita quotidiana, ma anche nella concezione dei suoi stessi Orfanotrofi e nei criteri che egli impartisce per l’ accettazione e l’ educazione dei piccoli ricoverati. Ecco alcuni scampoli del suo pensiero. a) La singolare e speciale “adozione” «Quando noi ricoveriamo orfani nei nostri Istituti, in certo modo veniamo a sostituire i genitori. Dovremmo perciò amare questi ragazzi come i genitori amano i propri figli ed assumere verso di loro tutti quei doveri che hanno gli stessi genitori. E’ una parola però dire che sostituiamo i genitori. Questi infatti, propriamente parlando, sono insostituibili. Noi siamo sempre un surrogato dei genitori. Ora un surrogato è tanto più buono, quanto più rassomiglia all’ originale… L’ accettazione degli orfani nei nostri Istituti è per noi come un atto di adozione, che dura, propriamente, fino a quando l’ orfano rimane con noi, ma che sarebbe bene durasse ancora di più. L’ adottante assume tutti gli obblighi che i genitori hanno per i propri figli. Come i genitori, l’ adottante deve premurarsi per la buona riuscita dell’ adottato, cioè per la conservazione della salute, non guardando a spese e sacrifici a questo riguardo. Deve inoltre formarlo moralmente, spiritualmente, religiosamente e, secondo le possibilità, istruirlo e insegnargli un mestiere, un’ arte, una professione perché domani possa vivere nella società onoratamente con il frutto della propria attività. Altrettanto dobbiamo fare noi per gli orfani che teniamo nei nostri Istituti. Anzi dico che dobbiamo fare di più degli adottanti; di più dei genitori. Gli adottanti infatti sono legati ai loro ragazzi da un vincolo di tipo legale, i genitori da un vincolo naturale. Noi invece ci vincoliamo con un legame soprannaturale: quello della carità che è necessariamente superiore perché ha diretta relazione con Dio, il quale ritiene fatto a se stesso quello che si fa agli orfani… Quando noi quindi accogliamo un orfano, dobbiamo riceverlo come dalle mani dell’ adorabile nostro Signore, il quale sembra ci dica quello che disse la figlia del Faraone alla madre del neonato Mosè, trovato abbandonato e destinato sicuramente a morte sulla riva del fiume:”Prendi questo bambino e allevalo per me, ed io ti darò la ricompensa”(Es 2,9)» (Carmelo Drago: “Il Padre”, n. 39). b) Obblighi di giustizia e di carità Allo stesso stile di tenera maternità e paternità S. Annibale ispira i criteri relazionali che nei suoi Istituti devono coltivarsi nell’ azione educativa verso gli orfani. Ecco un altro scampolo del suo pensiero: «Anzitutto dobbiamo tener presente che noi con l’ accettazione degli orfani nel nostro Istituto, ci obblighiamo per tutto il tempo che li teniamo con noi, ad avere verso di loro tutte le cure e le attenzioni che hanno i genitori verso i loro figliuoli. Quest’ obbligo è strettamente di giustizia e di carità insieme, anche perché i benefattori ci mandano le offerte per il 13 mantenimento e la loro buona riuscita. Noi suppliamo in tutto e per tutto i genitori, e perciò dobbiamo avere verso gli orfani un amore e un interesse per la loro buona riuscita, come l’ hanno i genitori verso i propri figli. Anzi noi dobbiamo amare soprannaturalmente, cioè per amor di Dio» (Carmelo Drago, “Il Padre”, n. 47). c) Pedagogia pratica Non meno importanti e pregni di sentimenti materni e paterni sono le indicazioni di pedagogia pratica che il Padre insegnava allo stesso P. Carmelo Drago per l’ assolvimento del suo ufficio di Educatore, in questi termini: «1.- Innanzi tutto e soprattutto devi pregare molto nostro Signore e la SS. Vergine del Buon Consiglio perché ti illuminino e ti guidino, e quindi cercare quanto più possibile di disimpegnare il tuo ufficio come se direttamente telo avesse affidato nostro Signore stesso. 2.- La seconda regola è: amerai i ragazzi come te stesso e farai loro tutto ciò che vorrsti fatto a te stesso, viceversa non farai loro tutto ciò che non vorresti fatto a t stesso. Questa regola sapientissima ce l’ ha data il Signore stesso:”Amerai il prossimo tuo come te stesso”. E’ questa una regola molto facile per l’ educatore, e nello stesso tempo efficacissima se ben praticata. Vale più di un trattato di pedagogia!...Questa regola però va applicata con giudizio, perché diversamente potrebbe riuscire nociva. Mi spiego. Non devi applicarla secondo le tue vedute ed esigenze personali…o i tuoi personali desideri; né nello stesso modo per tutti, devi tener presente l’ età dei ragazzi, la loro indole, il carattere, le qualità e le esigenze fisiche, morali, intellettuali, sociali, secondo il loro ideale, le loro inclinazioni. Bisogna farsi piccoli coi piccoli. Qui sta la difficoltà. Non pochi educatori, alle volte, sbagliano completamente con grave danno per l’ educazione dei giovanetti. Pretendono cioè che i ragazzi pensino, ragionino e facciano come loro… 3.- La terza regola non meno importante ed efficace, è di guardare i genitori come modello. L’ educatore deve amare i ragazzi come e quanti li amano i genitori, e, come questi deve volere veramente il loro bene…per questo, volendo esprimere il massimo d’ amore su questa terra si parla dell’ amore materno e paterno. Il segreto dell’ educazione è dunque l’ amore (la sottolineatura è della redazione)… 4.- La quarta regola per supplire alla tua impreparazione di educatore, è la più importante e la più efficace, poiché essa è basata sul principio soprannaturale, cioè sulla carità o meglio sul tenerissimo amore di preferenza che il Divino Maestro aveva per i fanciulli, tanto da ritenere fato a se stesso quello che si fa ad essi per amore di Lui. Così l’ educatore deve amare i fanciulli come li amava nostro Signore che per loro diede la sua vita. Devi pensare che tutto quello che si fa ad essi è come se si facesse al Signore stessso» (Carmelo Drago, “Il Padre”, n. 136). CONCLUSIONE A conclusione di queste spigolature del pensiero di S. Annibale, si può affermare che il suo pensiero pedagogico si può racchiudere tutto in quella sua affermazione: «Il segreto dell’ educazione è dunque l’ amore». I versi dai quali si è partiti per cogliere le vibrazioni profonde del suo cuore; versi con i quali egli dà la stura al suo cuore con la tenera espressione: Io l’ amo i miei bambini, non sono solo espressione poetica, ma verità creduta e vissuta. 14 Creduta e vissuta nell’ ottica della dimensione soprannaturale della carità - - che pur supplendo la naturale genitorialità – tuttavia spinge (urget) a dare di più perché essa è incarnazione diretta ed immediata dell’ amore di Dio. Diventa così geniale il concepire l’ accoglienza degli orfani e comunque dei minori con disagio un “atto di affidamento o di adozione” da parte di Dio. Gli orfani, i minori negli Istituti di S. Annibale sono – come i figli per i genitori – dono di Dio. E’ Dio che li affida come frutto della Sua paternità, chiedendo, come la figlia del Faraone per Mosè, di : “Allevarlo per me”. Proprio per questo il pensiero, la testimonianza, la vita di S. Annibale acquistano la vivacità di una luce che brilla e la forza trascinante di una testimonianza, del e nel nostro oggi. In S. Annibale l’ amore di Dio e del prossimo si coniugano in quella unità di vita che attinge la capacità di amare alla sua fonte: Dio, rendendo visibile l’ amore di Dio nell’ amore del prossimo. 15 PARTE SECONDA «IL SOGGETTO - OGGETTO DELL’ AZIONE EDUCATIVA» 1,- LA PERSONA DELL’ EDUCANDO PREMESSA Si è già accennato, nella prima parte, alla visione e concezione della persona in S. Annibale. Si tratta ora di considerare più specificamente chi è l’ educando al quale si deve donare attenzione e cura. Prima di entrare nello specifico dell’ azione educativa di S. Annibale è bene richiamare e riproporre qualche stralcio di un suo discorso del 20-8-1906, con il quale si difendeva dall’ accusa che gli veniva rivolta circa i criteri di accoglienza degli orfani nei suoi Istituti. Al di là del rigetto dell’ accusa, il discorso fa comprendere con quale considerazione, oltre che con quali criteri, egli accoglieva i bambini nei suoi Istituti: «Si è detto di me che sono troppo facile ad accettare ragazzi. Ma bisogna trovarsi sotto le gravi pressioni morali in cui io spesso mi trovo. Oggi è un altolocato che mi prega, domani è un rappresentante della pubblica stampa che intercede, poi è un benefattore che pretende, altra volta – sembra incredibile! – è uno di quelli stessi che deplorano la mia facilità a prendere orfani, il quale mi pressa e mi stringe per accettarne uno; altra volta sarà un caso critico, di eccezionale gravità, che si impone; qualche volta è una bambina nero vestita, scalza, cenciosa, con due occhietti lacrimosi, che guarda la suora come per dirle: oh, io non ho più madre, prendetemi con voi! Aggiungo: se io, fin da quando cominciai a raccogliere i bambini e le bambine dispersi, avessi preso in mano il compasso del freddo amministratore, prima di tutto non avrei barattato la poca roba di casa mia, e quindi, volendo proporzionare il salvataggio della povera dispersa orfanità alle contribuzioni, che sono state sempre scarse, non avrei formato istituti di ragazzi e di ragazze. Se in ogni cosa ci vuole un po’ d’ intrapresa, d’ iniziativa, e di slancio, molto più io credo, cene vuole quando si tratta di salvare la fanciullezza abbandonata, che perisce e si perde da un giorno all’ altro! Oggi vi sono in Messina due orfanotrofi, dove tanti ragazzi e tante ragazze, che a quest’ ora sarebbero perduti, hanno trovato educazione, vita e salvezza. Perché dunque dovrei spegnere dentro di me, per freddo ed inopportuno calcolo, questa fiamma o istinto che mi ha condotto fin qui?... In quanto poi al fatto che i miei orfanelli sono ben tenuti o no, io prego i signori e le signore messinesi di venire a verificare. So in qualche modo i miei doveri di istitutore. Non è solamente alla salute delle anime e alla religiosa educazione dei miei bambini ricoverati che io attendo, ma mi prendo anche grande premura della loro salute corporale e della loro educazione civile. Buona nutrizione, igiene, pulitezza, galateo, sono tra i fattori principali dei miei istituti. 16 In quanto a nutrizione, basta vedere come sono rubicondi e ben pasciuti i ragazzi e le ragazze. In quanto ad igiene, io mi ci picco. Sono Kneppista, ho anche letto il trattato del Mantegazza, e all’ igiene ci tengo scrupolosamente. Nei nostri refettori, che sono quattro, vi è un piccolo regolamento di precetti morali , igienici e di buona creanza, riguardanti il modo di prendere il vitto. [(1.- Precetti morali : 1) Premettere al pranzo breve preghiera e ringraziare Iddio, terminato il pranzo. 2) Mangiare non per il gusto della gola, ma per ubbidire alla legge di natura e mantenersi in salute per vivere ai fini di Dio. 3) Attendere durante il pranzo alla lettura spirituale, affinché l’anima non manchi del suo cibo. 4) Considerare tanti poveri che soffrono la fame e disporsi ad aiutarli, potendo. 5) Pensare a quella mensa eterna e celeste, alla quale ci attende Gesù Signor Nostro nel suo regno, per darci il cibo della eterna gloria, se ce lo avremo meritato con le nostre azioni. (2. – Precetti igienici: 1) Mangiare a tempo e masticare bene il cibo per ben digerirlo. 2) Non mangiare troppor caldo, perché rovina i denti e fa male lla digestione. 3) Non bere freddo immediatamente sui cibi, perché si guasta la digestione e fa male ai denti. (3.– Precetti di buona creanza: 1) Mangiare ciò che vi si appresta senza fare lagnanze; e non vi sia cibo che non mangiate. 2) Mangiare a tempo e con creanza. 3) Non sporcarsi le mani, il viso e il tovagliolo. 4) Non mettere i gomiti sul tavolo. 5) Mangiare in silenzio senza far chiasso.)](Vedi AR, p. 349 e ss.). Il discorso fin qui citato continua con la descrizione degli ambienti fisici degli Istituti Mostrando la loro funzionalità ed efficienza secondo i canoni di una igiene superlativa. Infine, riassumendo tutto quanto descritto a difesa dei suoi istituti, S. Annibale nel medesimo discorso sopra citato, elenca un’ altra serie di criteri educativi. Così si esprime: «Fra tutte le opere sante, questa di salvare i teneri fanciulli è santissima; quindi vi attenderemo con ogni sacrificio e penetrando con spirito di intelligenza il bene sommo che si fa strappando i fanciulli vagabondaggio, ai pericoli, al pervertimento, per avviarli a sana educazione ed istruzione, per produrli buoni cristiani, perfetti cattolici, onesti e laboriosi cittadini e un giorno buoni padri di famiglia, se Dio a tanto li chiama. Terremo presente che educare i fanciulli è opera di continui sacrifici, che richiede grande abnegazione: si debbono sopportare molestie, privazioni, noie, difficoltà: tutto abbracciamo di buon grado e offriamo all’ adorabile Signor Nostro Gesù Cristo. Per riuscire in questa santissima impresa e ottenere la buona riuscita dei fanciulli dobbiamo: 1) Educarli con santo esempio in tutto e per tutto. Teniamo presente con grande timore la terribile minaccia del divino Maestro: “Guai a chi scandalizza, ecc.” (Mt 18,6). 2) Dobbiamo pregare giornalmente il Signore Nostro Gesù Cristo e l’ Immacolata madre per i nostri piccoli, perché siano docili, perché facciano profitto e crescano col timore di Dio. 3) Dobbiamo avvicinarli ai santi Sacramenti, procurando specialmente che facciano la SS. Comunione frequente, e saremo attenti che alla santa Confessione settimanale premettano un regolare esame di coscienza sopra punti che si debbono loro ricordare e che alla santa Comunione si accostino bene preparati. 17 4) Dobbiamo affezionarli ad altre pie pratiche, farli pregare a tempo, con apuse e con sentimento, avvezzarli alla santa meditazione e al santo Rosario; farli pregare giornalmente, e talvolta insieme a noi, per ottenere i buoni operai ecc., istillare nei loro cuori l’ amore di Gesù e di Maria con ogni industria, la devozione a S. Giuseppe, quella al S. Angelo custode, ai Santi Protettori e specialmente a San Luigi Gonzaga, di cui bisogna coltivare la pia unione da noi fondata:Luigini figli di Maria Immacolata (sottolineature della redazione). Inoltre mettiamo loro scapolari e ascriviamoli a molte confraternite, perché questo è grande segreto per attirare su di loro molti spirituali beni per la loro buona riuscita. Ogni giorno si faccia loro ascoltare la S. Messa con molto raccoglimento. 5) Bisogna loro insegnare il catechismo ogni giorno, ed esporli ad un esame annuale, con premi per i più diligenti. Sarà anche buona cosa due volte la settimana l’ insegnamento del galateo. 6) Farli studiare le cinque classi elementari sotto maestro veramente pio, cattolico e retto, con esame e premi annuali. 7) Bisogna, come cosa precipua dopo l’ educazione morale, metterli ad un’ arte e farli progredire con impegno, affinché abbiano per l’ avvenire un mezzo di onesta sussistenza. I capi d’ arte siano gente moralissima, non abbiano completa giurisdizione sugli allievi, e non si lascino loro affidati i ragazzi senza sorveglianza. 8) La vigilanza e la sorveglianza sopra i ragazzi sia per noi un precetto e un obbligo dei più stretti. I direttori e gl’ immediati, ciascuno per la sua parte, non perdano mai d’ occhio alcun ragazzo, in chiesa, nei laboratori, nella scuola e specialmente nella ricreazione e nei dormitori. Si tenga presente che i ragazzi hanno molto sottile intelligenza e un fino istinto di sapersi sottrarre alla sorveglianza senza fare accorgere l’ educatore o il sorvegliante. Questi sia dei ragazzi più sottile e avveduto per non farli sottrarre. Il demonio cerca assiduamente il pervertimento dei fanciulli; il sorvegliante deve eludere, con grande attenzione, tutte le insidie di Satana, e custodire come angelo i fanciulli a lui affidati, per renderli immacolati al Signore! 9) Amare. Bisogna amare di puro e santo amore i fanciulli, in Dio, con intima intelligenza di carità, con carità tenera, paterna, ché questo è il segreto dei segreti per guadagnarli a Dio e salvarli. Bisogna trattarli con molto affetto e dolcezza, quantunque con contegno, che escludo l’ abuso della familiarità e confidenza e induce il reverenziale timore. Mai e poi mai si debbono ingiuriare i ragazzi. Se occorre castigarli, si faccia pure, ma con garbo e in maniera che il ragazzo comprenda che si fa per suo bene. Mai e poi mai si debbono riprendere dinanzi agli altri ragazzi i mancamenti di uno, che possano recare scandalo, specialmente ai piccolini, mancamenti che non sono conosciuti: in tali casi si ammonisce o si punisce il ragazzo in segreto. Mai e poi mai bisogna indispettirsi coi ragazzi e mostrar loro rancore e diffidenza: ciò è lo stesso che disanimarli e farli rilasciare. Molte mancanze, che vale meglio dissimulare, si dissimulino. Si evitino castighi e correzioni forti in quel momento, in cui provocherebbero reazioni nel ragazzo; ché ciò sarebbe un rovinare l’ edificio. Il 18 sorvegliante, educatore immediato o no, ha bisogno molto dei lumi di Dio e deve domandarli giornalmente al Signore e alla madre del Buon Consiglio, anche con lagrime, e anche interiormente, nelle occasioni giornaliere, perché l’ educazione dei fanciulli è ars artium, scientia scientiarum (sottolineatura della redazione), pochi la sanno possedere e bisognerebbe essere filosofo, teologo, grande conoscitore del cuore umano e santo, per essere perfetto educatore di un piccolo bambino. Facciamo dunque quanto più possiamo con ogni sforzo e con ogni supplica a Gesù e a Maria, perché ci diano lumi circa l’ educazione dei bambini»(S. Annibale Di Francia, Discorso del 28-8-1906; in AR 354 e ss.). C’ è un altro episodio molto significativo che può far comprendere i criteri di fondo della pedagogia annibaliana. S. Annibale aveva ricevuto in affitto, dal Comune, i locali dell’ Orfanotrofio di Taormina, per una somma di lire seicento annue. Più volte l’ anticlericalismo aveva tentato di sottrarre quei locali a S. Annibale, adducendo come scusa la cattiva gestione, soprattutto delle ragazze ricoverate. Le solite accuse, dalle quali S. Annibale si era dovuto difendere, non solo a Taormina. Nel marzo del 1914, sembrava che l’ amministrazione comunale di Taormina stesse per riuscire a sfrattare l’ Orfanotrofio di S. Annibale. Il Fondatore indirizzò, allora, una lettera aperta al Sindaco di Taormina nella quale si difende dalle accuse e invia due fotografie di una ragazza accolta nel suo Orfanotrofio, prima e dopo l’ accoglienza. Ma ecco la difesa di S. Annibale: «Nel mio orfanotrofio le ragazze vengono educate al rispetto di tutte le autorità costituite, siano civiche che governative; neanche per ombra vi si mischiano principi di politica: si cerca di formare delle oneste cittadine, che possano diventare buone madri di famiglia. Per comprendere l’ importanza di un’ opera tanto umanitaria e apprezzata ovunque apparisca, sarebbe superflua ogni dimostrazione;ciò non di meno, per dare una soddisfazione alle SS. VV. io presento un’ eloquentissima prova di fatto: tale, che simile nella forma non mi è stata mai fornita da nessuno dei miei orfanotrofi. Presento alle SS. VV. due fotografie fatte in Taormina, di cui ecco brevemente la storia. Una ragazza orfana quattordicenne, da Taormina, priva di padre e di madre, andava di qua e di là, di casa in casa, a fare da sguattera per lucrarsi il pane. Cacciata con forti busse da una casa dove rubacchiava, passava ad un’ altra dove faceva peggio. Così sbandava, travolta nel morale, fastidiosa a se stessa, col cupo avvenire dinanzi, lacera, scompigliati i capelli, torbida, stava un giorno a prendere acqua alla fontana, quando passò un forestiero con una macchina fotografica, e, avvistata questa ragazza tipo (Sottolineatura della redazione), la fece mettere in posa e la fotografò. Ne risultò una specie di selvaggia africana, dai piedi nudi e infangati, dalla chioma scomposta e dall’ occhio e dal viso torbido, da spirare nell’ assieme un senso di orrore e di compassione, fin dove possa arrivare una infelice orfana abbandonata a se stessa, nel fiore della sua età! Di quella fotografia si fecero ben presto in Taormina delle cartoline postali. 19 Passati alcuni giorni da questo fatto, persone pietose mi pregarono di ricevermi quella povera orfana, e subito fu ricevuta, senza che nulla, nulla portasse, fuorché la sua estrema povertà. La giovane fu avviata al lavoro e alla buona educazione fino alla maggiore età. Quando compì gli anni 21 era già trasformata: nessuno l’ avrebbe ravvisata per quella della fotografia del forestiero. Uscita dall’ Istituto e situata a servizio presso una delle più distinte famiglie di Taormina, io le feci fare una seconda fotografia, la quale, oh, quanto al vivo rappresenta i miracolosi effetti di una buona educazione! Vi si vede una giovane pulita, serena, il cui sguardo, il cui viso spirano la soave compostezza dell’ animo tranquillo di chi si sente rigenerata, di chi guarda fiduciosa e tranquilla al suo avvenire. Ha tra le dita le pagine del proprio libro, che significano moralità, onestà e coltura anche della mente, Dov’ è più la selvaggia africana che sconfortava e affliggeva il solo vederla? D’ essa è sparita non dinanzi alle raffiche travolgitrici delle bufere della vita, ma dinanzi al raggio puro, benefico,, animatore della triplice educazione civile, morale e intellettuale! Ecco miei stimatissimi signori, le due fotografie in confronto l’ una del l’ altra, con soli sette anni di mezzo di educazione e istruzione nel mio travagliato orfanotrofio di Taormina! La giovane è Rosaria Scimone. Quanta sia l forza dell’ educazione, si manifestò in codesta giovane anche dal fatto che, uscita da quella distinta famiglia, e posta in pericolo, seppe alfine sciogliersi da certe insidie di cui è sventuratamente piena l’ attuale società, e trovasi ora ben collocata presso una nobile e ricca famiglia di Acireale, dove ebbi occasione ultimamente di vederla, ed appresi da quella distinta famiglia quanto siano contenti per i buoni portamenti della giovane» (Ib., in AR, pp.359 e ss.). In questi scritti di S. Annibale si ritrova tutta la sua concezione della persona, sempre inserita nella visione biblica delle sue relazioni con Dio e, soprattutto, l’idea che da queste relazioni e con queste relazioni si possa costruire o trasformare opportunamente la personalità di ciascuno. E’ evidente come, per S. Annibale, solo tale visione delle persone e delle cose possa avere forza trasformatrice, anche nelle situazioni le più fragili e drammatiche. Premesso quanto sopra, occorre ora delineare in qualche modo gli elementi determinanti la personalità dell’ educando. A) La personalità La personalità dell’ educando – nella esperienza pedagogica di S. Annibale ordinariamente è quella che oggi viene indicata con l’ espressione: “minore con disagio”. I minori con disagio presentano personalità complesse segnate da abbandoni, povertà, separazioni, che provocano disturbi vari nella persona del minore. Di questi 20 disagi occorre prendersi cura nell’ accoglienza e nell’ intervento educativo verso tali minori. 21