PROFILO DI LUIGI CORVAGLIA
ATTRAVERSO SCRITTI INEDITI
Ricerca filosofica, creazione letteraria, azione politica non sono di per sé,
isolatamente prese, adatte ad intendere bene nel suo insieme, la figura di Luigi
Corvaglia. Valgono piuttosto come esemplificazioni di un unico modo di sentire
e di vivere vita privata e vita pubblica senza limiti e distinzioni. La riprova è
proprio in quell'ardore polemico, di cui il Corvaglia si arma sdegnosamente ed
eloquentemente a segno di un irriducibile rifiuto di ogni compromesso e comoda
acquiescenza. La polemica non nasce da bizzarria di carattere o da artificioso
culto letterario, è l'espressione piuttosto di una coscienza che si rivolta, con l'uso
d'ogni mezzo (qui filosofia, letteratura, politica ) e tanto più decisamente quanto
più amaro e sofferto è l'isolamento. Ma se si scava dentro con umiltà e perseveranza, oltre il velo delle apparenze e delle audacie o dei subiti furori e degli
orgogli severi, si ritrova un uomo infinitamente umano, un uomo solo che si
cerca con disperazione quotidiana, che si guarda attorno con lo stupore e l'angoscia di chi non ha certezze ma che valga la pena costruirsele e credervi.
A Benedetto Croce, in una lettera inedita ( come le altre qui utilizzate) del
giugno 1936, accompagnando il romanzo Finibusterre a lui dedicato « col pio
sentimento del passató », apre profondamente l'animo suo e si confida: « Maestro,
sono un solitario, a cui, in questi anni di smarrimento, la sua parola è valsa di
conforto e di conferma. Per dirLe la mia gratitudine, Le dedico un romanzo che
Le invio a parte, un libro non gaio, nel quale il dramma è quello stesso del
restare uomini. Concetto e pratica di libertà spirituale ne sono l'anima, sebbene
spesso finiscano per dissolversi in scepsi; ma la volontà di questa metodologia
assume forme di contrasti così vive, da renderne possibile la figurazione in fantasmi » (1 ).
E' un ritratto, che spiega ogni momento della vita e degli studi del Corvaglia e che solleva e pone in evidenza il sottofondo anche più segreto e oscuro
della sua inquietudine e delle sue aspirazioni.
(1) Corrispondenza, documenti e appunti di L. C. mi sono stati dati in visione dalla
figliuola, che qui vivamente ringrazio. Questa lettera, in copia, è nella raccolta: Corrispondenza
fino al 1940, vol. III.
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La biografia è lineare, se si guarda all'esterno, agli atteggiamenti politici,
alle convinzioni letterarie. Ma non è di superficie levigata; è anzi rugosa ed
aspra, corrusca più che luminosa. Il Capodanno 1932 scrive ad un amico, certamente Giuseppe Gabrieli che fu con lui in lungo sodalizio, una lettera arguta e
amara insieme, in cui la tela dei dati esterni mal copre la prepotente avidità di
confidarsi, di farsi capire almeno dai pochi che si amano.
« Nacqui nel 1892. Non ti pare l'avviata di una "pompatina" biografica?
Ma io ho dentro Mefisto che vigila e corregge. Sono stato sotto le armi dal 1913
al 1919. Laureato in legge a Pisa nel 1914, tornai a laurearmi in filosofia a Torino nel 1921. Alcuni tentativi di esercizio professionale da avvocato fallirono.
E me ne venni qui [Melissano]] a rodermi con i libri, esausto della guerra, e così
ho vissuto solo, chiuso e anche sospettato perché io sono contro nessuno, cioè
filosofo, e veggo molto dall'alto le cose del mondo. Passami la parola grossa:
"sub specie aeternitatis". Sono andato errando dall'una all'altra disciplina, senza
trovare un sasso su cui fermare la mia anima erratica [...]. Io mi son rimasto
con tutta la sopravvivenza di sentimenti primordiali che la ragione devastatrice
non ha potuto estinguere. Questo mi fa vivo: il senso di questa scissione, un tragico stracco, sparuto che mi esilara fino alle allucinazioni livide dell'arte. Eppure
la sorte aveva fecondato il senso sano della mia virilità facendomi padre. Mi son
morti anche i piccoli. E son così sorpassato e vivo, che ho rischiato di smarrire
il cervello ed anche ora, dopo molti anni, questo è il mio rodimento quotidiano,
l'aguzzo trapanante che sbudella tutte le mie pretese di filosofiche atarassie. A
sfondo di questo "appetitus maximus mortis" vo brancolando e impasto larve.
E vo. Dove? per andare, ch'è improprio alle sintassi e alla vita. Ma è così » ( 2 ).
Non era questo un atteggiamento di comodo, né una proposta di se medesimo dettata da circostanze e occasioni: è invece l'essenza stessa dell'uomo e dello
studioso: un tema perenne che affiora, ora in brevi note ora in lunghe pagine,
come diario segreto e perciò vero. Delle cose non dette, ma trascritte indirettamente nell'arte, basta un nulla per farle traboccare. Si è però sempre nella cerchia dei pochi amici o delle persone che possono capire. Ad Annibale Pastore,
suo maestro nell'Università di Torino, che gli scrive accusandosi « d'essere stato
un grande asino a non intuire, quando ne aveva l'occasione, la sua geniale potenzialità » (3), egli risponde con una autobiografia bella e buona, in cui riecheggiano, con tutti i temi emersi precedentemente, il disinganno della realtà, l'incapacità di piegarsi alla menzogna, l'orgoglio di non essere mai tornato indietro.
I tentativi di tradurre se stesso in « imprese amministrative », che in tre anni
producóno « uno stabilimento vinicolo, un molino, un panificio, la bonifica di
duecento ettari di maremma ionica », non soffocano in lui l'amore delle lettere
e della filosofia. A questo punto il possidente agiato, coronato da allori accade(2)
(3)
Ibid., vol. I, f. 254. Il Gabrieli gli aveva scritto il 23 dicembre 1931.
Ibid., lettera del 23-1-1930.
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mici, un prodotto tipico della borghesia del Sud (quella costituitasi dopo l'Unità
e consolidatasi nell'esercizio delle professioni liberali) si muta in letterato e filosofo. E' forse questo un passaggio scontato nei paesi del Sud, privi di Università,
di biblioteche, di circoli di cultura e slegati da ogni rapporto vivo e continuo e
per di più in tempi quieti ove il dibattito, se riconosciuto, aveva regole e schemi
inderogabili. Tuttavia nel Corvaglia il ritorno alle lettere è segno di battaglia,
non edonismo letterario; è forza viva che tenta di tradursi in immagini e in parole per liberare e ricondurre l'autore nella comunità civile, non conservatorismo
accademico e provinciale. In quei negozia, scrive, « mi sanguinava l'anima. La
nostalgia del libro s'acuiva fino a togliermi tutto il piacere di questi successi. E
mentre gli "amici" mi complimentavano esaurendo l'ennesima freddura sulla
inutilità delle lettere, io tornavo alle lettere, riprese a poco a poco prima, poi con
resipiscenza febbrile » (4). Questo amore alle lettere era in lui remoto, istintivo
quasi, violento fin dagli anni di studente medio nel Liceo-Ginnasio di Galatina,
in una città in cui non solo si educò alle lettere, ma imparò anche ad aprirsi
ideologicamente al repubblicanesimo di Antonio Vallone (5) (scuola prodiga che
educò anche altri, come Ingusci, Ferrari, ecc. al gusto della civiltà). Proprio
nell'estate del 1907, a 15 anni, conseguita l'idoneità alla terza liceale con « licenza
d'onore » (6), scrive allo zio Francesco: « Sceglierò la carriera delle lettere alle
quali mi sento chiamato da una vocazione intima ed istintiva [...]. Siccome poi
uno studio perfetto della lingua italiana si può fare soltanto a Pisa, perché là si
parla il vero italiano, nasce la necessità che compia i miei studi proprio in questa
città » (7). E' un segno del futuro, ma ancora astratto e professionale. I tempi
concorreranno poi sia a rafforzare la vocazione, sia a corroborarla di empito morale. Le circostanze via via, da una parte gli ripropongono la giovanile predisposizione, dall'altra lo richiamano, responsabilmente, all'alto ufficio delle lettere.
Egli stesso colse e fissò questo punto di passaggio nella lettera ad Annibale Pastore, aperta anche qui come documento ufficiale e rivelatore d'ogni sentimento
e ragione interiore.
« Ho raccolti altri duemila volumi. Ho intrapresa la copiatura ed il commento delle opere vaniniane, e quando sono stato alla fine le ho offerte a Laterza.
Doveva approvarmi Gentile. Gentile riceve i manoscritti, mi legge e m'invia una
lettera di effusioni encomiastiche. Poi. Come fu e come non fu? C'entra in mezzo
(4) Ibid., f. 173 ss.; lettera ad A. Pastore dell'8-2-1930.
(5) T. FIORE, Un popolo di formiche. Lettere pugliesi a Piero Gobetti, Bari, Adriatica,
1968, pp. 34-35; A. DE VITI DE MARCO, Antonio Vallone in: AA.VV., On. prof. Antonio
Vallone. Notizie e ricordi, Galatina 1925, pp. 147-60; C. CAGGIA, Carlo Mauro pioniere del
socialismo salentino, Galatina 1967, p. 65.
(6) I voti furono: italiano 10; latino 10; greco 9; storia 10; geografia 10; matematica 9;
storia naturale 9; fisica 9.
(7) Ibid. Ma terminerà il Liceo a Galatina conseguendo la « licenza » con tutti 9 e un 10
in filosofia. A Pisa andrà, sì, ma come studente di giurisprudenza, iscrivendosi il 27-9-1910.
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la Prefettura che già aveva fatta la voce grossa per la pubblicazione di alcune
conferenze del Rubichi sul Bruno. Hanno voluto sapere chi ero. Insomma: lo
stesso motivo del concorso, suppergiù. Non avevo titoli: questa volta i titoli dovevano essere tessere. Gentile, naturalmente, non mi ha risposto più [ma è una
riserva dettata da amarezza], forse pensando che nel suo "sistema" avrei trovato
di che giustificarlo. M'immagini lei, dopo quell'insuccesso. Ora ci ripenso come
ad una provvidenza. Benedetti tutti coloro che mi hanno assillato. Ma allora! Oh,
allora! Non ci si stacca senza spasimo da uno scopo pratico di vita [...]. Ed allora
ho fatto a meno anche dello scopo. Ho amato il libro per sé, lo studio per sé...
Un vagabondaggio letterario, una specie di nomadismo atavico che si sveglia. Si
va così senza meta, per andare, perché l'andare dà l'unico senso possibile alla
vita. Non volevo morire... Ed in quella bramosia disinteressata ho letto tutto, a
caso, senza cercare... Si sveglia la fame sincera e ci si alimenta sulle vie: bacche
selvatiche, pane raffermo, la vivanda stantia [...]. Mi nutrivano ecco, e mi bastava.
Gli altri [...] tornavano a domandarmi spietatamente: — A che serve? Ti prepari
al concorso? — No; — Un libro allora? — No; — Pensi d'andare fuori, forse, a
vivere in qualche « centro »? (Curiosa idea che ha la folla dei "centri" della
vita. No — E concludevano: Vai in manicomio, allora, scuserai, e se studi
e non pensi di andar fuori, ti fai il manicomio in casa. Non pensavano invece
che io decisamente andavo "dentro". M'avevano chiuso le vie della superficie.
M'avevano così sciolto da ogni ceppo di concorsi, scuole, congreghe, necessità,
fini [...]. Avevo ormai trovata la mia verità. Verità di liberazione. Non so dirle
come sia riuscito doloroso il distacco della concezione "sedentaria" dell'esistenza.
Bisogna farsi la casa giorno per giorno. Una specie di botte di Diogene. Il giaciglio è sempre duro e non consente reverie. Ogni giorno un paesaggio nuovo d'abbracciare. Per i primi tempi è una fatica. Si capisce meglio che cosa era il sentimento dei mistici, che distribuivano il loro ai poveri » (8 ).
Il rientro in se stesso non è segno di una conquista pacifica e trionfale; rimane pur sempre uno scandaglio che si apre tra dubbi, ritorni amari, resistenze
oscure e tenaci: è la sua « piccola tragica vera realtà quotidiana ». Sente l'« io
diviso, lo smarrimento d'ogni forma, l'altra certezza non frugata, la tenace ancestrale persistenza dei sentimenti di razza, di religione, di patria, tutti amori,
questo contrasto con la logica del nulla e l'intuito sonante dei legami col passato
e l'avvenire ». Si sente come « atomo in che vibra il perenne nascimento » ( 9 ).
Questo è il centro biografico-spirituale da cui si distaccano e su cui convergono studi e ricerche, azione pratica e meditazione filosofica. Se la produzione
letteraria e filosofica, come si è detto più innanzi, è in sostanza una esemplificazione dell'ingegno e del carattere dell'uomo, l'autodidattismo passa da necessità
imposta a vessillo d'indipendenza civile e culturale. L'amarezza di esser solo si
(8) Ibid., f. 173
ss.
cit.
(9) Ibid.
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veste di temi morali e assume il distacco di un aristocratico intransigente. Lo
stile si tempra nel linguaggio più proprio del solitario, che, rotti i lunghi silenzi,
prorompe in eloquenza impetuosa e messianica. E' sempre cupa e tempestosa la
voce dello sdegno represso, del diritto conculcato, della libertà soffocata. Di qui
bisogna partire per capire l'opera, e non solo quella del narratore e dello scrittore
di teatro, ma anche dell'erudito e del filosofo, dell'uomo politico e del polemista,
essenzialmente. Questa angolazione pone l'uomo al centro (e nulla può essere
inteso se non sotto questa luce) e dà unità alla produzione.
« Ecco che f o, scrive sempre ad Annibale Pastore: Cerco di esprimere, non
la intuizione immediata della vita in cui mi sono abbandonato [...], ma la intuizione della bellezza che mi fluisce dentro a fiotti. Nulla ancora son riuscito a dire...
Quello che ha letto e quest'altro che le mando è presentimento vago, infantile,
accordi tematici ormai lontani, strumento che tende le sue corde prima del concerto. In Casa di Seneca c'è appena il senso della mia solitudine ribelle. In Rondini traspare l'umano [...] e l'ardore della irreligione c'entra con timidezza. Bisognava che mi abituasse ad ascoltarmi, che abituassi anche gli altri. Nel Viaggio
in Ispagna ch'è l'introduzione a S. Teresa e Aldonzo esprimo in pieno una delle
più accessibili scissioni della umana spiritualità, servendomi di quadri tradizionali. Nei lavori che medito orienterò, con maggior coraggio verso il profondo,
l'espressione estetica dell'uomo tragico nel fiotto dell'universale » (10).
E' in fondo il concetto che il Corvaglia aveva sviluppato in un suo programma steso nel novembre-dicembre 1922, intorno alla natura e ai fini dello studio
della filosofia. « La filosofia, ch'è dello spirito più naturale custode, poiché mira
in ultimo a ridurre in logica universale anche la realtà della materia, deve, più
rigidamente delle altre discipline, tendere a rivalutare lo spirito, soprattutto nelle
sue esperienze morali » 11 ). E' il centro, dunque, ma anche il limite della
produzione letteraria del Corvaglia. Se si pensa alla soluzione che a teatro e filosofia dava il Pirandello, in quegli stessi anni, si stabilisce il miglior modo d'intendere, ch'è atto di polemica e di rinunzia insieme, del meditare e dell'operare di
Luigi Corvaglia. All'arte considerata « disumana » ( così si legge nella Introduzione semiseria dialogato per il lettore nella commedia Tantalo) (12), egli oppone
il concetto di un'arte che rispetta la fisonomia della vita, ch'è vita nel dolore e nelle beffe, negli intrighi e nelle miserie. Infatti, come sostiene nella lettera ad
Annibale Pastore e prima del programma del 1922 e come qui dice, « tutto può
(10) Ibid. A. P. risponde il 4-3-1930 dicendo: Lunga lettera rivelatrice che mette a
fuoco la sua bella attività, il suo ardore d'arte e di vita, le sue non comuni doti di pensiero
e di affetto, i suoi propositi di lavoro », lamentando « l'amore eccessivo per certe complicazioni eccentriche. Non posso precisare e non lo voglio, perché io non sono un pedagogo, e l'artista
deve avere il suo cuore in mano non una palla elastica n.
(11) Ibid., vol. I, f. 101.
(12)
Tantalo, Commedia romantica, Matino, Carni, 1929, p. XL.
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farsi dramma » (13), cioè tutto può essere materia atta alla trasformazione della
poesia. L'impianto crociano è evidente. I borghesi che s'introducono in queste opere di teatro offrono i temi; l'artista poi riplasma e rivendica il tutto all'arte. Si
è in una zona equidistante dal teatro borghese di fine Ottocento e primo Novecento e dal grottesco di Chiarelli e Pirandello (almeno come questi erano intesi da
Corvaglia ). Tito de La casa di Seneca (1926), don Barnaba di Rondini (1928),
Bruno e Dora di Tantalo (1929) sono personaggi di questo mondo in situazioni
quotidiane, calcati in vicende famigliari a cui disdicono atti di alta tensione e di
eroismo. La vita è vita. Non v'è problema del vivere. Meno che mai c'è l'assurdo
del vivere. C'è però compiacimento d'intrecci (non tanto che si perda il senso
dell'uomo, del caso doloroso che non è certo quello tipico ed eccezionale), sottolineatura di amori che non conoscono ambiguità e avventure. E' un teatro di
vicende casalinghe e paesane, salde nel loro impianto tradizionale, legate all'intimità della casa e della famiglia. L'ultima di queste commedie S. Teresa e Aldonzo
(1931) sposta ambiente e azione (si è nel cuore del XVI secolo), ma non certamente il senso profondo della vita che si perpetua e si richiama a ideali di tendenze conculcate o di vocazioni distorte. La commedia, ch'è preceduta da alcune pagine di « sogno » (14) su un Viaggio in Ispagna, tra le cose più belle del Corvaglia,
accenna ad una nuova possibile via del patetico come evasione dagli ambienti e
temi borghesi e domestici. E' un tentativo un po' incondito, carico di suggestioni
tese più da logica intellettualistica che da maturazione di sentimento e coscienza
poetica: una nuova via solo in apparenza, ma che certo ha il merito di predisporre il Corvagia al romanzo Finibusterre (1936), dentro il quale si caricano, forse
ammassandosi, tutti gli acquisti via via raggiunti, le prove e le sperimentazioni
d'intreccio, di lingua, di stile, di maniera di narrare; e, con queste, le ambizioni e i
propositi a più complesse e mature strutture. Di per sé il romanzo storico nel primo
Novecento (e sempre più chiaramente, dopo, tra « Ronda » e « Primato ») è un
« genere » (si passi l'espressione) un po' fuori clima: di contro ha la prosa d'arte,
l'elzeviro, gli arabeschi del frammento. Quando il romanzo storico rinascerà (e
sarà piuttosto dopo che prima del 1940), esso è, in sostanza, ben altra cosa.
Si escludano, per varie ragioni, Bacchelli e Tomasi di Lampedusa, e si pensi
almeno a Pratolini e a Sciascia (15). Sotto questo aspetto Finibusterre ha una
data di nascita sbagliata. Ma se si guarda al significato che la storia ivi assume
e alla volontà che la sorregge e ai temi che le si attribuiscono, allora il romanzo
acquista diversa prospettiva. La storia non è cornice (e tuttavia in questa si
consolida); è, soprattutto, mezzo di approfondire e cogliere temi e tempi, costumi e
sentimenti di vita, senso e ragione di una gente mite ed eroica, umile ed orgogliosa,
(13) Tantalo, cit., p. XLIII.
(14) S. Teresa e Aldonzo, Bologna, Cappelli, 1931, p. 12.
(15) Cfr. A. VALLONE, Profilo ideologico del romanzo italiano in « Convivium », XXXVII
(1969), pp. 454-62.
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che il Corvaglia prima di presentare ha sentito rivivere istintivamente come propria nel sottofondo della coscienza. E' una storia che, insieme, è descrizione di
costumi e autobiografia. Anche qui l'educazione del filosofo, cresciuto e laureato
nella scuola torinese tra documento e psicologia, non è affatto marginale ed estranea. Le terre del leccese salgono a dignità d'arte, dopo che altri ne avevan fatto
scempio e stortura (e si pensi ad esempio, lungo una probabile linea salentina del
romanzo storico, a Raffaele Mura che in taluni romanzi esalta eccidi e fortune
feudali del castello di Ugento) (16). In Finibusterre il fatto storico, com' è nei
Malavoglia, s'affonda nella vicenda narrata e vi emerge soltanto per dare concretezza alle strutture portanti. Ad una lettura edonistica tutto questo può anche non
interessare. Quello che si esprime, pur tra raggiri fughe contrasti di ideologie e
resistenze ambigue di pavidi e venduti, è la perenne feudalità della vita salentina,
il costume della ubbidienza servile e, di contro, l'eroismo (ch' è dei pochi, però)
di riscattarsi come cittadini e laici. Sfondo vero e proprio sono le violenze
perturbatrici e dissacranti del Barone, violatore di innocenti, maschio per diritto
feudale, proprietario di cose e di femmine. Immaginate un don Rodrigo con tutti
gli antefatti all'avvento di Lucia, che Manzoni tace e Corvaglia inserisce. La società
è la stessa: è ancora quella del Seicento, anche se siamo due secoli dopo.
Ma qui da noi le cose giungono sempre con ritardi di secoli: le innovazioni
s'introducono in Lombardia e poi si sperimentano nel Sud. Ma unite questa società leccese (anzi del Capo di Leuca) a quella di don Rodrigo e mescolate dentro il
tutto: vi si innalzano in faccia ambienti, temi verghiani. Così è per la malaria (17),
che colpisce i pastorelli Pietro e Maria, per la palude, per il giallo-ocra del viso,
per le ragnatele degli abituri, per i cocci e così via; e sempre poi quel mare di
Leuca che brontola, si distende, scompare nell'infinito.
Il romanzo piacque alla critica. Benedetto Croce, a cui è dedicato come si
è visto, sottolineò « lo sfondo storico rappresentato in modo assai vigoroso » e il
« trattamento dei caratteri e degli effetti » (18). Guido Mazzoni gli scriveva che
« il torvo paesaggio, i costumi fieri, le passioni caratteristiche di una gente e di
un'età, il documento storico, pagine singolari d'evidenza, fanno della narrazione
alcunché d'originale » (19). Più felicemente Annibale Pastore sentiva emergere
dalla memoria, attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti e « struggente
malinconia »; ma si richiamava anche al mondo manzoniano « anch'esso celato
alla superficie, soffuso d'ironia-limite », e pur variato e turbato da altri suggestivi
ed esterni caratteri, quali: « il sorprendente realismo, la perfetta armonia, l'ef-
(16) R. MURA, Il Castello d'U gento, Napoli, Tornese, 1895. Lo scopo è qui « di richiamare alla memoria una delle epoche gloriose della nostra storia n, p. 7; ma, ahimé, con quali
mezzi!
(17) Finibusterre, Milano, Soc. Ed. « Dante Alighieri n, 1936, p. 48 ss.
(18) Corrispondenza ecc., cit., lettera del 30-9-1936.
(19) Ibid., lettera del 24-9-1936.
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fusione poetica, l'occhio acuto e sicuro che scruta l'animo umano fin nelle più
remote pieghe, la semplicità dei ritratti incancellabili nella memoria, la vivezza
dei tocchi » (20). Tuttavia sotto questa varietà e ricchezza si colse anche (e l'annotò Ugo Betti) il rischio della « sovrabbondanza » (21). Gli scrittori salentini
salutarono il romanzo come « voce sincera della nostra terra e dell'anima nostra » (22), « dipinta con la tavolozza di Verga e di D'Annunzio » (23). A Tommaso Fiore parve « un nobile vangelo di vita, che noi affideremo ai nostri figli,
oltre che un'enciclopedia del Salento » (24). In realtà Finibusterre si pone come
prova estrema di Corvaglia letterato, non solo entro la sua esperienza di scrittore; ma dentro, e ancor più intimamente, la sua ricerca di valori umani e civili,
di meditazione sulla natura e ragione dell'esser uomini, a cui, forse, la letteratura,
in quanto tale e da sola non può rispondere. La maturazione del romanzo coincide
con la preparazione e l'elaborazione degli studi su G. C. Vanini. Le due opere
possono agevolmente integrarsi, perché seppure su piani assai diversi, ardore di
ricerca, forza ossessiva di penetrazione, felicità creativa, empito espressivo sono
identici. La nascita degli studi vaniniani esprime una incoercibile fede morale,
una gioia di dialogare e di discutere, un istintivo senso di rendersi conto del
meccanismo segreto di un'opera che si sottopone ad un incalzante gioco di spezzettature e di raffronti. E' certo segno di sottile intellettualismo, ma non di calcolo
impietoso e sprezzante. Vanini è smontato nelle sue componenti come un qualsiasi
personaggio delle commedie e del romanzo. Ma se un uomo vi fu nella storia
della civiltà salentina e italiana più congeniale al Corvaglia questo fu senza dubbio
alcuno G. C. Vanini. Spesso si maltratta proprio chi più si ama. Quando nel 1959
si profila il rischio di una demolizione della casa ove nacque il pensatore di
Taurisano il primo a reagire, con istanze al Capo dello Stato, al M.P.I., alle autorità locali, fu proprio il Corvaglia. Il 2 novembre 1959, rivolgendosi al Prefetto di
Lecce, scrive: « La tragedia di questo pensatore ha suscitato in tutti i tempi e presso tutte le nazioni un interesse profondo » (25).
Con un egual tributo di omaggio si apre appunto l'Introduzione a Opere di
G. V. Vanini e le loro fonti (1933) (26). Il guaio fu che, lungo la strada alla
conquista del Vanini, il Corvaglia s'incontrò col Porzio: un incontro che si muta
(20) Ibid., lettera del 7-10-1936.
(21) Ibid., lettera del 29-10-1936.
(22) Ibid., lettera di G. Gabrieli del 25-9-1936.
(23) Ibid., lettera di C. G. Viola del 10-11-1936.
(24) Ibid., lettera del 25-11-1936.
(25) Ibid.
(26) Le opere di G. C. Vanini e le loro fonti, vol. I. Atnphitheatrum aeternae provvidentiae,
Milano, Soc. Ed. « Dante Alighieri », 1933; id. vol. II. De admirandis naturae arcanis, ibid.,
1934. Il primo ha una dedica ad A. Pastore; il secondo a G. Gentile. Né qui si vuole affrontare
(o giudicare) la validità, sotto il profilo filologico, del testo presentato dal C.
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subito in scontro, violento e impietoso, come mai è accaduto, forse, nella cronaca
letteraria dopo quello tra Carducci e Rapisardi. Le lettere inedite di Giovanni
Gentile e Rodolfo Mondolfo presentano validamente cammino e prospettive di questi studi. Il Gentile considera, fin dall'inizio, « giusto » il metodo seguito (27),
suggerendo al Corvaglia solo di non lasciarsi irretire dalla « fedeltà affatto
estrinseca » nel presentare il testo (28).
Il Mondolfo accetta la struttura nel generale e nei particolari del lavoro e
i risultati; ma esprime qualche perplessità sul giudizio conclusivo dell'opera
vaniniana come « plagio gigantesco ». E' il punto di attrito. Ma varrà la pena
presentare il problema attraverso le considerazioni di Mondolfo in una lettera
al Corvaglia del 3 settembre 1933:
« Documenta in Lei una sicura conoscenza della letteratura filosofica del rinascimento e una serietà di studio coscienzioso e paziente veramente singolare [...].
Ma vorrei richiamare la sua attenzione su un punto, che mi sembra meritevole di considerazione. Ella definisce, con documentata ragione « un plagio gigantesco » l'opera del Vanini. E certo, di fronte alle prove da Lei recate, il nostro
giudizio non può essere diverso; m a era forse tale anche quello della età cui il
Vanini appartenne? O la caratteristica del Vanini è — sia pure spinta al grado
estremo — semplicemente lo sviluppo più tipico e completo di una tendenza e di
un criterio comuni alla sua età? Prendiamo un filosofo del rinascimento, al quale
non si può certo negare la potente personalità e l'originalità del pensiero, come
Giordano Bruno: chi, come il Tocco, si è particolarmente occupato dell'esame
delle fonti antiche e recenti, ha trovato, per brani anche lunghi e di fondamentale
importanza, trascrizioni presso che letterali di altri autori (come il Cusano), non
sempre citati al luogo dovuto. Dobbiamo parlare di sfacciata appropriazione, di plagio sfrontato? Lo faremmo legittimamente per un autore moderno; non altrettanto
per una età alla quale il nostro concetto di plagio sembra facesse difetto. Senza
dubbio Ella avrà ogni ragione di dirmi che è anche questione di misura; ma più
ancora io credo che nella valutazione storico-critica degli autori di quei tempi si
debba guardare all'uso che essi han fatto dei materiali che si sono appropriati. Ne
han saputo trarre una costruzione organica? Hanno saputo imprimere il segno
della loro personalità nel disegno architettonico? E, quanto all'importanza storica,
(27) Corrispondenza ecc., cit., lettera del 14-12-1926. Il Corvaglia si era rivolto all'editore
Laterza e il Laterza, lettera del 27-11-1926, lo aveva invitato a scrivere a Croce o a Gentile.
(28) Ibid., lettera del 15-3-1927: « Quel che ho letto mi basta a darmi un'eccellente
impressione del suo lavoro, che mi pare condotto con buon metodo e utilissimo a rischiarare
il testo e il pensiero del Vanini [...1. Non approvo però il metodo da Lei tenuto nella riproduzione delle antiche stampe, con l'intendimento di riprodurre la disposizione, se non la forma
dei caratteri, la divisione e distribuzione delle pagine, delle righe, i capoversi, ecc. Tutta questa
fedeltà affatto estrinseca e insignificante per opere come queste del Vanini è inutile mentre
rende più difficile e dispendiosa la stampa n.
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hanno esercitato su contemporanei e posteri un reale fecondo flusso con l'opera
loro, sia pure di compilazione anzi che di costruzione? (29).
Nessuno degli altri critici e corrispondenti di Corvaglia va più in là. Il Mazzoni è incerto se riconoscere al Vanini « il merito della compilazione sagace (30).
Il De Ruggiero testimonia che la ricerca delle fonti « conferma e documenta con
particolari impressionanti l'impressione che un lettore dei centoni vaniniani non
può fare a meno di provare » (31): un giudizio che passa nella recensione su
« La Critica » (32). Il Gentile, a pubblicazione avvenuta, riconferma decisamente
il suo giudizio favorevole: « Quello che ho letto basta ad assicurarmi della serietà
della sua tesi e della solidità delle sue prove, che hanno sgombrato già dal mio
animo ogni dubbio » (33).
Dinanzi al secondo volume il Mondolfo ritorna a scrivere al Corvaglia e ritocca sostanzialmente le sue riserve.
« Pur mantenendo l'opinione che altra volta Le espressi: che cioè il rinascimento (come del resto certe fasi dell'antichità) non avesse il nostro concetto della
disonestà del plagio, debbo pormi il problema se un autore, che non si limita a
occasionali trascrizioni di passi altrui, ma fa tutto e solo un centone di trascrizioni, non dovette aver qualche coscienza delle illegittimità delle presentazioni di
esso con un'opera propria » (34).
Né meno convinti sono i giudizi dei critici stranieri da E. Namer (35) a
A. Lalande (36), da A. Reymond (37) a E. Anagnine (38). Persuaso parve
anche il Porzio che prometteva al « bel volume » un giudizio « sereno » espresso
(29) Ibid.
(30) Ibid., lettera del 19-6-1933.
(31) Ibid., lettera del 20-10-1933.
(32) « La Critica », XXXII (20-1-1934), pp. 67-68.
(33)
Corrispondenza ecc., cit., lettera del 23-7-1933.
(34) Ibid., lettera del 25-7-1934.
(35) Ibid., lettera del 20-7-1933: « In un articolo che sarà pubblicato tra breve dalla
Rivista salentina, ho detto tutto il bene che penso della sua opera, permettendomi, tuttavia, di
fare qualche riserva » (poi altra del 18-10-1933). L'articolo di cui si parla, ha come titolo
Vanini sarebbe un plagiario? in « Rinascenza salentina », II (1933), pp. 169-74 (poi anche in
« Revue philosophique », 3, 1934, pp. 291-95).
(36) Ibid., lettera del 28-2-1934.
(37) Ibid., lettera del 2-3-1934.
(38) Ibid., lettera del 18-3-1934. Il C. stesso ricorda questi consensi in Vanini. Edizioni
e plagi, Casarano, Carra, 1934, pp. 92.94,
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« imparzialmente come è dovere di ogni critico e come merita » (39). Sopraggiunge invece un bestiale e assurdo attacco personale (40): pochi mesi dopo (41) la
risposta del Corvaglia (42): un esemplare di polemica caustica e mordace,
sotto cui stenta a riprendersi l'avversario (43). Al « fanfarone o grullo » con
cui si attacca il Corvaglia, questi risponde tacciando il Porzio, « questo bruniano
Don Cocchiarone della critica », di deformazione dolosa », di « eretismo senile »,
di «sfrontate gherminelle », nella riconferma con ulteriore documentazione che
l'opera del Vanini è e resta « un plagio gigantesco » (44). Non si fa un passo
indietro. Già in una lettera ad un amico, due anni prima, aveva scritto, facendo
riserve su una nota di G. Petraglione: « Io sono invece per la somma: plagio +
plagio + plagio — a plagio... potenziato ovverossia gigantesco (45). I consensi
dei critici sono per il Corvaglia, anche se non si doveva onorare di risposta quel
(39) Ibid., lettera del 28-9-1933: « Innanzi tutto mi congratulo con Lei per la stampa
delle opere vaniniane. Lei ha condotto a termine il disegno al quale posi mano inutilmente nel
1910 e 1911 [...]. Ma le prometto di esaminare sereno il Suo bel volume e di farne cenno
imparzialmente come è dovere di ogni critico e come merita ».
(40) G. PORZIO, G. C. Vanini non è un plagiario. Un'edizione critica libello in «Rinascenza salentina » (II, 1934), pp. 16-26. Tramite tra i due, e prima e dopo, fu N. Vacca. Il
22-9-1933 (Corrispondenza ecc. cit.) il V., infatti, scriveva al C.: « Il prof. Porzio non conoscendola la prega, a mio mezzo, di inviargli una copia del libro del quale farà una serena recensione ». Il 29-3-1934 era lo stesso V. a riscrivere al C.: « Riceverà domani Rinascenza, in
cui è contenuta una nota che non le farà piacere, stilata da Guido Porzio. L'ho pubblicata in
ossequio alla libertà di discussione e poi perché sin dall'apparire della rivista avevo invitato
il Porzio a collaborare. Vuol dire che la rivista, sempre per la libertà di discussione, rimane
aperta per lei, incondizionatamente » (ibid.).
(41) Il Vacca deplorò « la violenza del linguaggio » e le « numerose pagine di virulento
attacco personale » (Corrispondenza ecc., II f. 83, lettera del 12-4-1934 a E. Namer) e si
augurava che, con i buoni uffici del Namer, il C. potesse rispondere mantenendo « un tono di
nobiltà n. Tuttavia in altra lettera al C. il Vacca si doleva di non poter accogliere la risposta
perché troppo lunga in relazione al normale numero delle pagine della rivista (ibid., f. 91,
lettera del 1-5-1934). Ma del V. stesso cfr. ancora In margine alla polemica vaniniana in « Rinascenza salentina » Il (1934), pp. 286-87.
(42) L. CORVAGLIA, Vanini. Edizioni e plagi, Casarano, Carra, 1934, p. 95.
(43) G. PORZIO, Il Vanini non è un plagiario. Risposta provvisoria a Luigi Corvaglia in
« Rinascenza salentina », III (1935), pp. 81-102. Però anche qui il « virulento attacco personale » come aveva giustamente scritto il Vacca, non cessa ed anzi diviene più meschino.
(44)
Vanini ecc., cit., p. 65.
(45) Corrispondenza ecc., I, f. 280, lettera del 1-3-1932. Occorrerà chiarire che il Corvaglia
aveva, prima dei due volumi, pubblicato l'articolo: Un plagio gigantesco. Le opere di G. C. Vanini in « La Gazzetta del Mezzogiorno » del 1-12-1931; a cui avevano reagito N. VACCA, G. C.
Vanini e il suo più recente demolitore in « Il Giornale d'Italia », 5 .12-1931 (in cui si accusa
il C., tra l'altro, di « ingenerosità n); ELLENIO, Per G. C. Vanini in « La voce del Salento n
del 6-12-1931. Si difese già, fin d'allora, il C. con altro articolo L'opera di G. C. Vanini in
« La Gazzetta del Mezzogiorno n del 18-12-1931 (in cui si parla di sviluppo dell'« analisi delle
fonti » secondo i consigli di due « venerati maestri, Adolfo Faggi e Annibale Pastore »). Più
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« nefando Porzio ». « Lo mandi e lo lasci, gli scrivePastore, una buona volta
all'inferno: deterrima cum sit spurcitia » (46). E così il Mondolfo in altra nobilissima lettera: « Perchè dare alla polemica quel tono? Ella mi dirà: sono stato
provocato. Ed io non nego (pur non conoscendo l'articolo del Porzio, contro il
quale Ella insorge) che Ella possa essersi giustamente risentito di assalti inusitati;
ma perché ha voluto scendere e trattenersi così a lungo sul terreno deí vituperi,
mentre, con tutte le buone ragioni che aveva, poteva efficacemente tenersi in
una sfera più alta? Non si abbia a male di queste mie franche osservazioni:
credo che a chi ha (come me) la barba bianca, spetti il dovere di parlar ai giovani — e sopra tutto ai giovani di valore, com'è lei — il linguaggio della sincerità, quando ci pare che si allontanino dalla vita eletta della discussione elevata
e feconda » (47).
Il Gentile invece gli conferma il suo interesse per un « caso così curioso e
storicamente significativo » ( 4 8 ) e parla di « vigorosa polemica antiporziana » (49). Oggi come oggi, nessuno nega (ed è pronto, per rincalzo, tra gli altri
scritti inediti su Raho Cardano Scaligero, il terzo volume del Corvaglia su Vanini) (50), che dell'opera del Vanini si debba parlare di plagio; tuttavia si tenta,
come ha scritto di recente il Corsano, di cercare dentro e intendervi meglio « la
nota di originalità » (51).
distaccate sono la nota Vaniniana di C. TEOFILATO in « La Puglia letteraria » del 31-1-1932
(cui scrive il C. una lettera del 29-2-1932 in Corrispondenza ecc., cit.) e la recensione dello
stesso in « Rinascenza salentina », I (1933), pp. 164-65.
(46) Corrispondenza ecc., cit., lettera di A. Pastore del 23-9-1935. E prima ancora (ibid.,
lettera del 28-6-1934): « Farà bene a rispondere; ma procuri che nel suo opuscolo critico aleggi
quella serenità al disopra delle miserie che non si permetta di imitare in nulla lo stile di
coloro che hanno tutto da guadagnare a far perdere la pazienza. Non si abbassi mai a raccogliere un sasso scagliatole. Parli solo e sempre alla verità, sua fedele amica. Trascuri le avvisaglie
ostili. Le idee, le idee, solo le idee Gli altri si accorgeranno dell'abissevole differenza ». E ancor
dopo (ibid., lettera del 29-10-1934): « Forse era utile spendere tanto fosforo per mettere a posto
un tal Porzio?... Non discuto. Ma mi fa rabbia tanto dispendio. 95 pagine contro un malfattore.
Io supplico la musa della Filosofia a preservare per sempre il mio caro Corvaglia da siffatte
fatiche. Ercole stesso per pulire la stalla di Angìa non se la cavò facendovi entrare il fiume
Alfeo? Sotto il simbolo si capisce, altra volta — eventualmente — lasci che tal lavoro sia fatto
da quel gran fiume che è la storia ».
(47) Ibid., lettera del 23-10-1934. Ed altri, tra cui G. Mazzoni, ibid., lettera del 3-11.1934:
« Data l'indole mia, il linguaggio violento mi turbava spesso. Invece, data la mia coscienza
critica, ero continuamente d'accordo con Lei nelle cose asserite e provate ». Del resto « mortificato » si diceva lo stesso Corvaglia « pel tono che la polemica » aveva assunto scrivendo a
E. Namer, ibid., lettera del 6-3-1935.
(48) Ibid., lettera del 20-9-1934.
(49) Ibid., lettera dell'8-3-1935.
(50) L. CORVAGLIA, Ricognizione delle opere di G. C. Vanini in « Giornale critico della
filosofia italiana », XXXVI (IV, 1957), pp. 456-69.
(51) A. CORSANO, G. C. Vanini ed Enrico Silvio in « Giornale critico della filosofia ita-
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A guardar bene la polemica porziana è un'occasione, pura e semplice, che
determina il travaso di un malumore a lungo covato, di uno sdegno che la solitudine e l'onestà avevano profondamente nutrito di attese, di speranze e di convinzioni. Dentro v'è tutto lo spirito del Corvaglia, la forza di credere a se stesso,
l'indomabilità di un elogio della ragione. Non si era piegato alle prepotenze e ai
maneggi politici; non poteva piegarsi dinanzi ad un rivale mediocre e subdolo
( così, almeno, com'egli lo vide dopo l'imprevisto attacco). Aveva rinunziato ad
ogni carriera, non poteva rinunziare alla ragione di tale rinunzia, tutta sua e
tutta interiore. E' il cammino della coerenza, la logica della coerenza. Immettete
gli ideali che lo hanno sorretto come letterato e filosofo nell'azione pratica e politica (invero molto poco pratica) e avrete l'uomo politico della stessa tempra. Il
tema della redenzione sociale e civile, ad esempio, lo si trova presente negli opuscoli politici del 1910 ( aveva egli 18 anni) ma anche in quelli del 1919-1924 e
dopo ancora nel 1944-1945. Ivi lo stesso appello, rivolto con lo stesso calore e con
lo stesso tono: « Unitevi, figli del popolo » (52). « Occorre illuminare l'anima
degli umili, intenderne i disagi, lenirne le sofferenze, trasformarne gli impulsi
ciechi in volontà consapevoli, associarli nei rischi e nei vantaggi della proprietà
terriera » (53 ). E dopo l'immane catastrofe della seconda guerra mondiale: « Il
problema è umano e non può esser proposto che in questa sua sterminata validità,
cioè come problema di rieducazione della coscienza nazionale » (54). Qui e altrove
permane perenne la sfiducia dinanzi agli intrighi dei partiti, tanta quanta forse
dinanzi al partito unico, l'amarezza della diseducazione, lo sdegno della indegnità
civile. Tutto cambia nelle apparenze; ma tutto resta uguale, desolatamente senza
vita, nella sostanza.
« Conoscevamo il settarismo brigantesco del regime col suo sinistro corteggio
di intolleranza, inintelligenza, spionaggio, giustizia di parte ecc. Che cosa han
fatto a correzione i nuovi partiti fino ad oggi? Il bilancio è squallido. Han
sommossa la palude riportando a galla il fondaccio che vi si era via via depositato dal 1919 ad oggi. E poi? Dopo il tramestio iniziale si sono quasi chetati.
Sarebbero morti di noia se non li rendesse interessanti il gioco del parteggiare,
vecchio tristo gioco italico, che consente ancora una volta di essere contro qual-
liana a, XLIX (II, 1970), p. 209 (l'inciso cade a proposito del vol. di E. NAMER, Documents
sur la vie di C. V., Bari, Adriatica, 1967, recensito da I. SMET in « Carmelus », 1968,
pp. 292-93.
(52) L. CORVAGLIA, Melissano, Galatina, Tip. Economica, 1910, p. 20. Pubblica anche
alcuni manifesti agli elettori di Melissano (10-7-1910; 26-7-1910; ecc.) e interviene in una
polemica con l'avv. Felice Panico con una Lettera aperta del 15-8-1910 (in risposta a un foglio
dell'11-8-1910). E la lotta continua nel 1915 e dopo.
(53) L. CORVAGLIA, L'astensione. La candidatura del fantoccio quaresimale (foglio) del
27-10-1919. Seguono lettere aperte al Prefetto, ai Combattenti, ecc. tra il 1920 e il 1924.
(54) L. CORVAGLIA, Noi mazziniani, Mutino, S. A. Tipografia, 1944 (« Quaderni mazziniani », n. 1), p. 21.
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cuno, divisi in fazioni, con un bel pennacchio che li distingua, io di là, tu di qua,
a rimestare col bastone della politica la stagnante materia della vita di ogni
giorno » (55).
L'umanesimo laico e mazziniano del dopoguerra, quale il Corvaglia a se
stesso presentò, se da una parte lo riporta ai lontani anni liceali e universitari in
Galatina e a Pisa (56), dall'altra suggella natura e sostanza dei suoi studi come
anche predilezioni e carattere dell'uomo. L'unità è qui. La lezione sua più valida
è qui. Il fraintendimento nasce nel distinguere l'opera scritta dall'azione pratica,
gli scritti letterari e filosofici dal pensiero politico e civile. Gli uni e gli altri
hanno invece la stessa matrice. Gli uni e gli altri nascono in un unico atto di
meditazione e di ricerca.
ALDO VALLONE
(55) L. CORVAGLIA, L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Matino,
S. A. Tipografia, 1945 (« Quaderni mazziniani », n. 3), p. 29.
(56) A Pisa nel 1910, al primo anno di Università, il C. si era iscritto all'Associazione
« G. Mazzini » del P.R.I.
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