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Il Tempietto
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Giovanni Pascoli
e la verità
nell’era nuova
Il superamento del
relativismo assoluto
Francesca Irene Sensini
della Sorbona di Parigi
“E se ho la profezia, e conosco tutti i
misteri e tutta la scienza, e se ho tutta
la fede, sì da tramutare i monti, ma
non ho l’agàpe, nulla io sono... L’agàpe
(egli continua) tutto soffre, tutto crede,
tutto spera... i
Con l’opuscolo La messa d’oro,
Giovanni Pascoli invia un saluto
personale al Mons. Geremia Bonomelli
in occasione del suo giubileo: la
“messa d’oro”, appunto. Immagina di
entrare in chiesa in quella solenne
occasione e di essere fermato da
alcuni “severi custodi dell’adito
cristiano”. Sbarrandogli il passo alla
celebrazione, essi lo interrogano sulla
sua fede e sulla sua speranza. Ma egli
li esorta piuttosto a chiedergli conto di
ciò che è veramente essenziale, che
può redimere qualunque uomo - anche
chi, come lui, non ha la fede e la
speranza di un credente - e
presuppone tutto il resto: l’agàpe, la
caritas, l’amore. E cita a testimone del
suo pensiero S. Paolo, ad Cor. XIII,
13. Così Pascoli idealmente invita a
non restare sulla porta del tempio tutti
coloro che credono nel progresso
dell’umanità, siano essi uomini di
scienza, “fieri lottatori di classe”,
come i compagni della sua giovinezza
di socialista anarchico, o “memori
difensori della patria” degli anni
risorgimentali. Mons. Bonomelli è,
infatti, ai suoi occhi il rappresentante
di una fede vissuta che va oltre le
confessioni e le ideologie e che
riconosce nell’amore il carattere
distintivo dell’umano e il motore della
sua evoluzione. Non la ragione, che
limita al calcolo egoistico della propria
conservazione, del proprio utile, ma
l’agàpe spinge l’uomo a superare se
stesso, uscendo da sé e
riconoscenendosi nell’altro. E in
questo specchiarsi dentro un immagine
viva, attraverso l’esperienza del
confronto, che egli accresce la propria
conoscenza, realizzando il progresso
individuale e sociale. Pascoli allude a
una conoscenza mobile,
indifinitamente perfettibile e non
assoluta, perché condizionata dalla
natura delle facoltà umane: una
conoscenza relativa che si apre su
possibilità inesauribili di scoperte.
1. Una ricerca comparatistica
nel segno dell’agàpe
In questo scritto, come in altre prose
destinate a essere lette in occasioni
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pubbliche, Pascoli esprime la sua
profonda vocazione di uomo e di poeta:
raccogliere pazientemente i vari
frammenti relativi della verità assoluta,
per progredire nella ricerca
individuale e per contribuire alla
ricerca collettiva.Questa verità
assoluta è innanzitutto la dignità
umana, compendiata dalla virtù
dell’amore; essa è anche il “mistero”termine tecnico del lessico pascoliano
- permanente dell’essere, allusivo di
un oltre e di un Dio coincidente, per la
filosofia immanente dell’autore, con un
concetto-limite, non vuoto ma
tragicamente misterioso.
In nome di questa vocazione umana e
poetica, inoltre, Pascoli si sente
chiamato a sollecitare il confronto delle
diverse tessere di verità accumulate nel
corso della storia, presso culture
diverse, anche lontanissime, perché
risaltino i valori fondanti
dell’esperienza umana sulla terra, non
condizionati dal tempo e dallo spazio.
Da questo dipende la possibilità
dell’amore in quanto riconoscimento di
una verità universale, che nasce da un
comune essere uomini.Non si tratta
tuttavia di sincretismo, che tende alla
fusione in un amalgama indistinto di
idee e sistemi differenti, ma di una
tendenza comparatistica che il Pascoli
deriva in buona misura anche dagli
orientamenti della cultura europea
coeva, in cui fioriscono nuove
discipline scientifiche, come la storia
delle religioni e la linguistica
comparata, verso cui egli mostra
particolare interesse.
Nel discorso l’Avvento, del 1901 - in
cui ancora una volta un termine
connotato dal punto di vista religioso
diventa espressione di un’attesa
universale di rinnovamentoii - il
sincretismo è chiaramente escluso, in
nome dell’esigenza di un confronto che
non sopprima le identità rispettive
degli elementi confrontati, ma esalti le
possibilità di “concordia”, intesa in un
senso ampio, intellettuale e sociale:
“trovare il nesso e la somiglianza tra le
idee e i sistemi e le credenze più
disparate, è servire fedelmente la causa
della concordia dell’irrequieto genere
umano”.
Dopo queste indispensabili premesse,
cercheremo di illuminare il percorso
intellettuale che consente al Pascoli di
superare il relativismo assoluto
novecentesco - per cui ogni
conoscenza equivale ad ogni altra,
nella disperazione della verità come
meta tendenziale - per approdare a
una visione altamente problematica
della conoscenza, che elegge a suo
strumento privilegiato la poesia, intesa
in senso romantico come esperienza
assoluta e totalizzante.
2. La verità nella scienza
Occore sottolineare che l’itinerario
intellettuale del Pascoli si svolge a
cavallo dei due secoli, in un tempo
segnato dal trionfo del sapere tecnicoscientifico, dall’affermazione del
materialismo filosofico e dal
conseguente, progressivo restringersi
degli orizzonti metafisici e spirituali.
Nel progresso scientifico e materiale
della società, Pascoli riconosce, sul
piano storico-colletivo, l’origine della
frattura nel rapporto tra l’uomo e il
mondo. Nel corso della sua evoluzione,
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dai primordi all’età moderna, infatti,
l’uomo avrebbe finito per perdere
fatalmente la possibilità di esistere in
armonia con le cose e di cogliere
nell’immediatezza il senso del reale.
Dalla perdita di questa condizione
‘edenica’ originaria - che Pascoli
identifica con la Fanciullezza
dell’umanità e del singolo - deriva un
radicale impoverimento delle facoltà
dell’anima: il soggetto si scopre
incapace di provare quella meraviglia
di fronte all’essereiii da cui discendeva,
nei tempi della Fanciullezza, la
conoscenza intuitiva del mondo (e una
parola naturalmente poetica).
Così Pascoli prende atto della
condizione dell’uomo moderno e si
volge alla ricerca di modelli culturali i frammenti della verità/mistero capaci di rigenerare un’identità,
individuale e sociale, franta e
dispersa. La soluzione di questa crisi
antropologica coincide per l’autore con
il ritrovamento delle facoltà originarie
dell’anima e, con esse, della vera
poesia, che riunisce in sé l’esperienza
del bello, del vero e del bene. È
proprio da questa considerazione che
deriva al pensiero del Pascoli una
slancio utopico capace di contrastare
dialetticamente con il relativismo
radicale e il senso del nulla che lo
accompagna fatalmente. Non bisogna
dimenticare, infatti, che la filosofia
‘estetica’ del Pascoli, maturata dal
Weltschmerz leopardiano, presenta
interessanti punti di contatto essenziali
con la Philosophie des Unbewussten (La
Filosofia dell’incoscio del 1869) di
Edward Von Hartmann, che Pascoli
leggeva in traduzione francese,iv con le
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metafisiche orientali,v e appare
influenzata dalla concezione
meccanicistica della natura, propria
delle scienze positive, già presente nel
concetto di “volontà del mondo”, come
forza cieca, del pensiero di
Schopenhauer, riscoperto con
particolare interesse nella seconda
metà dell’Ottocento e in Francia
divulgato dalla Revue des deux mondes,
che fu tra l’altro uno strumento
fondamentale negli scambi culturali
con l’Italia.vi Ma l’ossessione della
morte e l’angoscia della fine,
nell’assenza di una prospettiva
trascendente, si trasformano in Pascoli
in moventi di speranza e di
esaltazione, e diventano la base di un
programma morale ed etico che trova
compiuta teorizzazione nelle prose
L’Èra nuova (1899) - che portava in
origine il significativo titolo Sulla
poesia - e nel già citato L’Avvento.
In questi scritti, Pascoli trae dalla
riflessione sul progresso scientifico e
sul valore gnoseologico della scienza,
un tassello di quella verità che lo
conduce all’elaborazione ultima del
suo pensiero. Al volgere del secolo, è
chiaro all’autore che il mito scientista
deve dichiararsi fallito. La scienza,
infatti, non ha offerto agli uomini che
un miglioramento materiale delle loro
condizioni di vita, senza poter nulla
per allargare i loro orizzonti conoscitivi
e spirituali oltre la materia, e dunque
senza poter nulla per la loro felicità:
“Forse è in queste parole - infelicità
umana - la ragione della nota
discordante nell’inno che la scienza
meriterebbe, alla fine del secolo della
sua più grande operosità?”. L’attualità
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del discorso del Pascoli è quanto mai
evidente per il mondo postmoderno, in
cui la scienza e la tecnica continuano
a compiere progressi straordinari, ma
non per questo sono meno mute
riguardo ai fini e ai valori
dell’umanità.vii
Benché sempre più evoluta, l’umanità
resta infelice, e anche più infelice di
prima a causa della scienza stessa che
ha eroso la fede in una verità assoluta,
ulteriore, se non trascendente,
l’esperienza positiva e la materia:
“Noi siamo costretti (da te, scienza
crudele e inopportuna) a
interpretare le parole d’un nostro
sacro libro in un modo affatto
nuovo.
Siamo costretti a pensare che quel
libro contiene la verità, sì, ma una
verità che cambia col tempo, che
va interpretata secondo i progressi
delle altre umane conoscenze:
verità che era vera a un modo per
Dante, a un altro per noi,
omiciattoli che non siamo
Dante”.viii
Naturalmente Pascoli si riferisce alle
Sacre Scritture, di cui sottolinea, da
non credente, la sacralità. In esse,
infatti, egli riconosce una verità
immutabile, che si distingue da
giustificazioni e credenze sottoposte al
vaglio del tempo: essa è la dignità
del’uomo, l’esigenza di un senso altro,
superiore; è in ultima analisi, la
tensione a trascendere la pura
dimensione materiale e terrena per un
oltre che in Pascoli resta tormentoso
mistero.
3. La verità nella fede
Per questo, egli spinge l’uomo
moderno a tornare alla fede - che è la
fede cristiana e, nel contempo,
l’aspirazione universale a realizzare la
propria umanità attraverso la ricerca
del senso - e, in particolare, a
considerare di essa il frammento di
verità più luminoso, di cui la sconfitta
della scienza diventa, in qualche
modo, una dimostrazione:
“La morte doveva ella (scil. La
scienza) cancellare. Viaggiare più
velocemente, sapere più presto e
dare le proprie notizie, aver
qualche agio di più, che cosa è
mai se non un rimpianto maggiore
per chi deve morire? Il morire
doveva essere tolto dalla scienza;
ed ella non l’ha tolto. A morte
dunque la scienza! Noi torniamo
alla fede che (è verità? è solo
illusione? ma illusione, a ogni
modo, che ci vale per verità) che
non solo ha abolita la morte, ma
nella morte ha collocata la vita e la
felicità indistruttibile! E così alla
scienza, sulla fine del secolo del
suo maggior lavorìo, è fatto, invece
dell’inno che poteva aspettarsi, il
rimprovero più amaro. Non solo
essa non ha fatto nulla di bene
novello al genere umano, ma ha
tentato di togliergli il bene che già
possedeva”.ix
A questa verità che la fede insegna
agli uomini, si accompagna la verità
che la scienza, fallendo, indica, come
la luce che squarcia le tenebre delle
illusione di cui l’uomo si compiace:
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“Questa è la luce.x La scienza in ciò
è benefica, in cui si proclama fallita.
Essa ha confermata la sanzione
della morte. Ha risuggellate le
tombe. Ha trovato, credo, che non si
può libare il nettare della vita con
Giove in cielo”.xi
Per l’uomo pascoliano, ateo, la
mortalità come cifra del destino umano
è la luce accecante della verità che si
fa antidoto contro il male non
necessario, - quello che l’uomo infligge
ad altri simili - corollario della
disperazione del senso. È molto
interessare rilevare, nel passaggio che
segue, come la distanza assoluta di Dio
dal pensiero del Pascoli non implichi
l’assenza di una morale altra dall’utile
e dal bene egoistici, ma al contrario la
presupponga. Se non c’è giustizia
divina, né punizione né merito, il
crimine resta nel nulla, senza
possibilità di rimedio, di redenzione;
resta eterno, immedicato. E l’uomo non
può sopportare l’assurdo di un male
assoluto, di un non-senso irrisolvibile:
“Ma questa è la luce? Oh! la morte,
a fissarla, abbarbaglia. Meglio la
penombra nella quale si stende il
pianoro Elisio, più utile l’ombra
nella quale stridono le Eumenidi.
Sì? Ecco uno scellerato che non
crede alla morte. Lo imagino
oppresso da un suo delitto. Lo vedo
anelante di terrore. A un tratto
qualcuno sa introdurre nella sua
coscienza l’assoluta convinzione
che quelle vendicatrici sono
fantasmi, e che esso non sarà
punito. Lo scellerato respira; mette
forse un urlo, non che un sospiro,
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di sollievo e di gioia. Il qualcuno si
allontana. Colui è ora solo, e,
poichè l’altro ha veramente mutata
la sua coscienza, sente il nulla [...].
L’ucciso nel nulla: l’uccisore nel nulla:
non resta che il delitto, senza castigo e
senza perdono: incancellabile!
irreparabile! eterno!”xii
Dalla necessità del morire in una
prospettiva immanente, deriva
all’uomo la necessità di coltivare la
virtù maggiore di S. Paolo, l’agàpe,
/caritas che gli permetterà di salire
l’ultimo gradino della sua evoluzione e
diventare uomo autenticamente
umano:xiii
“Uomo, abbraccia il tuo destino!
Uomo, rassegnati ad essere uomo!
Pensa nel tuo solco: non delirare.
L’amore, pensa, è ciò che non solo
di più dolce, ma di più sacro e e di
più tremendo tu possa fare; perchè
è aggiungere nuovi sarmenti al
grande rogo che divampa
nell’oscurità della nostra notte”.xiv
4. La verità nell’era nuova
e la missione della poesia
Nell’oscurità senza dio a cui Pascoli fa
cenno, l’amore universale è questa
luce tragica che si alimenta di vite
destinate a morire, ed è il valore e la
dignità che l’umanità oppone alla
morte nullificazione e male assoluto.
Portatrice di questa verità etico-morale
che unisce la rivelazione della fede,
reinterpretata in senso tutto umano, e
il dato della scienza, è la poesia
dell’èra nuova - del nuovo secolo che
Pascoli vedeva destinato ad una vera e
propria palingenesi dell’umanità - che,
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abbandonate le illusioni, è chiamata a
dare all’uomo l’intuizione profonda
della propria mortalità. Abbracciando
la caritas universale, Pascoli trasfigura
così la propria angoscia in un inedito
umanesimo moderno e, insieme, in una
moderna poesia, chiamata ad
annunciarlo:
“che il poeta è quello e la poesia è
ciò che DELLA SCIENZA FA
COSCIENZA. La scienza può dire
alla poesia: Io ho lavorato, e tu no:
dal mio lavoro non è nato tutto il
bene che doveva, ed è nato anche
del male che non doveva, perchè tu
non hai cooperato con me. Io ho
dato il grano; ma tu non ne hai fatto
il pane. Io ho pòrto il grappolo; ma
tu non ne hai spremuto il vino. Io
ho fornita la verità; ma tu non ne
hai nutrite le anime. Io non posso
far tutto io sola”.xv
E i poeti dell’èra nuova saranno
uomini di fede, liberi dalle illusioni di
chi non riconosce nella limitatezza
propria della natura umana - la
finitudine dell’essere e il relativismo
della conoscenza rispetto a un assoluto
che non è un nome vuoto, ma un
mistero - la dignità di una ricerca
sempre perfettibile e un’aspirazione
inesausta all’oltre:
“Dovete riuscire voi, o poeti della
nuova èra. [...] Voi dovete essere
sinceri: rinunziare subito, se già
nel vostro spirito ne è qualche
tentazione, a fingere di credere:
voi dovete credere”.
NOTE
i Giovanni PASCOLI, Prose, a cura di
Augusto Vicinelli, La Messa d’oro, I, p.
270. I rilievi, salvo diversa indicazione,
sono dell’autore.
ii “Ecco l’avvento! Quel che è cominciato già,
sebbene non abbia ancora conquistata tutta
la terra, è il regno della pietà, cioè della
volontà, cioè della libertà!” (G. PASCOLI,
Opere, ed. cit., I, p. 222).
iii La meraviglia pascoliana, facoltà
generatrice della poesia buona del bello e
del vero - di una poesia che è, per sua
intrinseca essenza e vocazione, filosofia rimanda al qauma>zein, “meravigliarsi”,
del Socrate platonico: “meravigliarsi, la
filosofia non ha altra origine” (Platone,
Teeteto, 155d). Lo stesso Aristotele
riconosce nella meraviglia la radice prima
ed eterna della ricerca filosofica: “gli
uomini, sia nel nostro tempo che
dapprincipio, hanno cominciato a filosofare
a causa della meraviglia, poiché
dapprincipio essi si meravigliavano delle
stranezze che erano a portata di mano, e in
un secondo momento, a poco a poco,
procedendo in questo stesso modo,
affrontarono maggiori difficoltà, quali le
affezioni della luna e del sole e delle stelle
e l’origine dell’universo” (Metafisica I 2,
982a-982b). Come ha messo in luce JeanPierre Vernant, si tratta, nei primi filosofi
milesii, in Socrate e in Platone, di una
meraviglia e di un ‘meraviglioso’, vissuto
come esperienza di rivelazione estetica e
gnoseologica, che non impone la
contemplazione muta, estatica, afasica, del
‘divino’, ma invita all’interrogazione e alla
problematizzazione filosofica: “c’est la force
de la phusis, dans sa permanence et dans
la diversitè de ses manifestations, qui
prend la place des anciens dieux; par la
puissance de vie et le principe d’ordre
qu’elle recale, elle assume elle-même tous
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les caractères du divin” (Jean Paul
VERNANT, Mythe et pensée chez les
Grecs. Études de psychologie
historique, La Découverte, Paris 1996, p.
406). Così, la meraviglia del Pascoli non
coincide con l’esotismo, il soprannaturale,
la bizzarria fantastica, ma con la fu>siv
l’essere della natura come misterioso
oggetto d’incanto e di inquieta indagine.
iv Per l’influenza della filosofia di Hartmann
sul pensiero pascoliano e sulla personale
lettura di Leopardi, rinvio a Massimo
CASTOLDI, Pascoli e Leopardi: la
genesi della conferenza Il Sabato
(1896), in “Rivista Pascoliana”, 8 (1996),
pp. 31-61.
v Nella biblioteca di Castelvecchio si trova lo
scritto di Michèle KERBAKER,
Introduzione alla Bagavadgîta, in
“Rivista orientale”, Fodratti, Firenze 18661867, dove si illustra l’episodio del
Mahabharata in cui Krishna, avatar umano
di Vishnu, espone la propria rivelazione
filosofica. Da questo articolo e certamente
da altre fonti contemporanee, tra cui lo
stesso pensiero di Schopenhauer, Pascoli
verosimilmente attinge l’idea dell’illusorietà
dell’individuo, assente nel pensiero greco,
dove l’anima individuale, la yuch>,
rappresenta il freno alla dispersione dell’io
nel Tutto, il limite ontologico dell’uomo ma
anche la sua garanzia di eternità nel essere.
vi “In Italia almeno dal 1880 erano a
disposizione degli studi su Schopenhauer,
come quello raccolto nel volume Santi,
solitari, filosofi di Giacomo Barzellotti,
che contiene anche il saggio su David
Lazzaretti ampiamente antologizzato e
lodato con calore da Pascoli in Sul
limitare, e sempre a partire dagli anni ‘80
cominciano ad essere disponibili in Italia le
prime traduzioni delle opere del filosofo”
111
(Marina MARCOLINI, I Poemi conviviali:
un libro per la critica di domani, in “I
Poemi conviviali di G. Pascoli. Atti del
Convegno di studi”, (San Mauro Pascoli e
Barga, 26-29 settembre 1996), a cura di
Mario Pazzaglia, La Nuova Italia, Firenze
1997, p. 209). Per un’indagine dei rapporti
tra i Poemi conviviali e la filosofia
contemporanea rinvio inoltre all’articolo di
Willy HIRDT, I Poemi conviviali tra
mitografia e filosofia, in “Studi italiani”,
XII, 2000, 1, pp. 75-95.
vii Le riflessioni del Pascoli sono, in fondo,
molto vicine a quelle di Umberto
GALIMBERTI nel suo L’ospite
inquietante. Il nichilismo e i giovani,
Feltrinelli, 2007, che sottolinea come
scienza e tecnica si limitino a essere
efficaci e a funzionare, senza tendere a uno
scopo che sia al di là dell’attuazione
immediata di un compito materiale, senza
produrre un senso al di là dell’atto.
viii G. PASCOLI, Prose, ed. cit., L’Èra
nuova, I, p. 113.
ix Ibid., p. 112.
x In questo passaggio dell’Èra nuova,
Pascoli riprende l’immagine di S. Giovanni
3, 19: “E gli uomini amarono più le tenebre
che la luce”.
xi G. PASCOLI, Prose, ed. cit., L’Èra
nuova, I, p. 119.
xii Ibid., p.121.
xiii Proprio del Pascoli è il concetto di homo
humanus, ultima tappa dell’evoluzione
dell’uomo moderno, ridotto dalla società
moderna, prona all’utile e al produttivismo,
a mero homo oeconomicus (G. PASCOLI,
Prose, ed. cit., La messa d’oro, p. 219 et
224).
xiv G. PASCOLI, Prose, ed. cit., L’Èra
nuova, p. 121.
xv Ibid., I, p. 111.
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