BRANISLAV JEVTIĆ L’AMORE NEL GIARDINO DI VETRO Traduzione dal serbo di Nevena Radojevic e Delia Garofano Finito di stampare il 22 Ottobre 2013 Da Bcsmedia - Via F. Consoli, 5 - Roma I° Edizione - Dicembre 2013 - ISBN 978-88-96480-67-0 Tutti i diritti sono di proprietà dell’autore Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa senza il suo consenso. PRIMO MOVIMENTO «John Fischer von Gotha, in un suo articolo pubblicato nell’aprile del 1876 sulla rivista «Der Zoologiche Garten»1, descrive accuratamente il comportamento di un giovane mandrillo che, quando per la prima volta si vide riflesso in uno specchio, subito volse le spalle allo specchio per mostrargli il suo rosso deretano». CHARLES DARWIN, L’origine dell’uomo Il posto più bello del mondo eri tu, confinavi con tutto… Era questo il primo e l’ultimo verso del canzoniere Il fiume senza sponde scritto dal Signor Padre finché, ancora giovane, aveva desiderato conquistarsi la fama di poeta illustre. Pronunciate dalle labbra ormai avvizzite, quelle stesse parole davano inizio al suo rituale quotidiano. Spalancava le imposte nelle prime ore della sera, quando tutte le finestre si aprivano contemporaneamente «Der Zoologiche Garten»: «Il Giardino degli Animali» o, più semplicemente, «lo Zoo». 1 3 sull’arietta fresca che iniziava a soffiare su Nuestra Seňora Santa Maria de Buenos Aires. «Quando finisce la siesta comincia la fiesta», gli piaceva ripetere, mentre con le mani cercava la Kolomast, come tra sé e sé chiamava la brillantina. Era il ricordo dei suoi anni Quaranta, quella pomata vischiosa che lasciava ogni giorno le tracce di un passaggio irreversibile sui suoi capelli, che raramente lasciava al naturale. Un poco alla volta, con gesti lenti e accurati, si spargeva sul capo, come polline, le perle effervescenti della Kolomast, simili a quelle che fermentano nel buio delle cantine mentre il vino matura paziente. Si pettinava i riccioli ribelli all’indietro, trascinandoli col pettine con la stessa energia che avrebbe impiegato per tendere un arco. I muscoli non lo tradivano, e di questo doveva ringraziare le sue origini mediterranee. Quella sera si pulì le mani con la solita spugna ruvida e si volse appena 4 verso lo specchio. Quell'abitudine da debole mai superata, gli era rimasta in eredità dalle dispute quotidiane che lo avevano stretto in un legame assurdo con la sua ex-moglie. Era una donna brutale, Cardea2, come lui l’aveva chiamata per tutta la loro vita coniugale, ed era a lei che andava imputato anche quel fastidioso retaggio. Il cozzo continuo dei loro temperamenti incompatibili era stato la causa dei loro «litigi tempestosi». No, questa non era una definizione di celluloide adatta al grande incubatore di Cinecittà, ma l’esatto corrispettivo geometrico di una figura complicata come l’ottagono. Per casa erano volate le teiere smaltate - bombille, spesso ancora piene di mate caldo. Sin dai tempi del loro fidanzamento, lei aveva messo in dubbio il loro rapporto. «Perché mi hai fatto adescare e innamorare di te se di me non avevi 2 Divinità femminile che, presso i Romani, aveva cura dei cardini delle porte; proteggeva, quindi, l’esterno delle case. Era conosciuta anche con il nome di «Grane». 5 bisogno?», gli chiedeva. «A te serve una replica di te stesso. Perché, dunque, non ti dai all’omosessualità?». Infuriato dalle parole sconsiderate di Cardea, come qualunque altro letterato pedante in età appena postpuberale gli sarebbe piaciuto risponderle, con la stessa brutalità, che volentieri l’avrebbe accontentata se solo avesse scoperto dentro di sé il primo segno di una attrazione latente verso il proprio sesso. Il verme dell’offesa, invece, era riuscito a superare indenne il suo stretto imbuto di Eustachio, così che lui aveva finito per replicare agli assalti di Cardea con le stesse identiche parole di lei. Il moto di soddisfazione aveva trovato nel suo riflesso nello specchio. I muscoli del suo viso avevano svariato dalla melancolia di Baster Keaton all’intraprendenza di Benhurov, tra la baldanzosa navigazione di una galea o sul’oppressione immobile della calura del deserto. Da quel giorno fu rimasto abbattuto solo al pensiero al proprio rifrazione. 6 Dopo che si era pettinato, la sua attenzione si rivolgeva ogni sera all’abbigliamento. Siccome la volubilità della moda non gli interessava per niente, pensava con convinzione che di sabato bisognasse vestirsi alla maniera dei tangheri. La crisi degli uomini macho di mezza età lo aveva sfiorato solo di striscio, plasmandogli le tracce sul suo viso bruciato dal sole e spingendolo ad indossare ogni sabato pantaloni affusolati e camicie degne di un palcoscenico di varietà. Dopo la grande indecisione sulla scelta del profumo, che doveva essere intonato con gli motivi della camicia, si occupava della scelta delle scarpe. Ogni volta, dopo averne legato i lacci, gli scappava un sorriso malizioso, simile a quello di un pescatore quando, preparata l’esca, getta l’amo lontano facendoselo roteare sulla testa. Si avvicinò lentamente alla porta, la socchiuse e rimase in ascolto per un momento. Gli uccelli, che per tutto il giorno avevano sciamato per il giardino, si erano 7 ora rifugiati nell’ombra per non essere sopraffatti dal clamore di altri bipedi ben più agitati. Buon segno: voleva dire che il cortile era adesso pieno di gente, e che sarebbe stato facile svignarsela senza che sua figlia se ne accorgesse,e così risparmiarsi una delle sue prediche, che proprio non sopportava. In quel momento era molto lontano dal Signor Padre il pensiero che, molti anni prima, in quello stesso luogo era cresciuta la sua infanzia felice, nascosta nel cuore del Barrio della bohème dei Boemi di San Telmo. Suo padre, che era originario di Napoli, aveva preso in moglie una ragazza onesta, immigrata dalla Galizia ai tempi della rinascita di Buenos Aires, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Per tanto tempo il vecchio aveva dovuto caricarsi sulle spalle prosciutti e carne sanguinolenta, mentre la madre faceva l’istitutrice ai figli dei ricchi. Tutto questo era durato fino a quando, dopo essersi lanciati nella grande avventura dell’emigrazione, erano riusciti a porre le prime pietre 8 della loro prosperità futura. Per pura fortuna,erano andati a stabilirsi nel quartiere di progetto architettonico più bello di quell'epoca durante uno dei frequenti alti e bassi della classe media argentina. Dopo la morte dei suoi genitori, il Signor Padre aveva faticato per anni come redattore letterario di una casa editrice. Poi, dopo il disastro economico dell’inizio degli anni Novanta, quando la crisi monetaria era rientrata, era riuscito ad ampliare la casa, a recintarne il cortile e, senza sfigurarla, a trasformare la proprietà in un grande ostello. Aveva riservato per sé e la figlia il piano superiore di uno dei due edifici che componevano l’ostello, che metteva a disposizione degli ospiti sessantaquattro posti letto. L'aria era pulita,sua figlia non era in vista, e dopo che , un paio di volte, si guardò con occhi amorevoli le scarpe, lucidissime – erano le sue scricchiolarono allegramente lungo le scale. 9 preferite -, Al ragazzo della reception, che si trovava in quel momento in giardino, fece segno con un dito sulle labbra di tenere la bocca chiusa. Poi, passando come un’ombra tra la folla dei giovani scalmanati nel patio, si limitò a fare qualche commento tra sé e sé. Maledetti spagnoli… Cazzo! D’estate restano col culo all’ombra e d’inverno vengono qui a prendersi un’insolazione. In pubblico, naturalmente, non avrebbe mai osato esprimersi così. La gente gli voleva bene, per non dire che lo adorava. Ovunque si presentasse, la sua persona disegnava intorno a sé un alone di carisma, da cui irradiava un fascino inspiegabile. Trasmetteva agli ascoltatori vitalità e ottimismo e, quando qualcuno lo vedeva da lontano, gli veniva voglia di trattenersi come la parte del suo orizzonte salutare. Semplicemente, il Signor Padre sentiva il bisogno di illuminare ogni cosa intorno a sé, e riservava un’attenzione tutta particolare alle parole. Così, sulle sue labbra, il brutto diventava bello, e il bello virava talvolta dall’arabesco all’enfasi. Per 10 questo motivo, il suo primo e ultimo poema, Il fiume senza sponde, era stato lasciato naufragare-la critica letteraria, l'aveva crudelmente etichettato come un «libro patetico e retorico». In senso stretto, ne avevano diagnosticato con esattezza la malattia: elefantiasi oratoria,propensione verso le sovradimensioni . Dopo le prime recensioni malevole, il Signor Padre aveva impiegato tutte le proprie forze per difendersi onorevolmente al banco degli imputati. Un paio di volte, deciso a controbattere la ferocia della stampa, si era impegnato nella stesura di articoli di contro-risposta. Senza grandi risultati,scriveva filippiche pompose e ristampava opuscoli in suo favore, proclamando ai quattro venti che era arrivata la fine dei tempi, e che nella letteratura era rimasto solo il simbolismo banale, mentre tutto il resto erano cazzate. Ogni suo sforzo fu vano. Dato che i recensori avevano smesso nel frattempo di tentare di dipanare ad uno ad uno i densi strati melmosi del suo verseggio, già 11 all'inizio si era trovata ai livelli della narrazione parola per parola lontano dal mondo pieno di plurisignificati romaneschi. La sua opera era finita nella discarica letteraria, e lui, dalle alte vette dell’ispirazione più sublime, si era ritrovato nel fondo di una disperazione da Apocalisse. D'allora, animato da una furia cattiva e dal risentimento verso il mondo intero, si era gettato a capofitto nello studio di volumi delle discipline più disparate, deciso a far incetta di conoscenze in ogni campo. Poiché, oltre a talento, aveva una memoria soprannaturale, si mise in testa di appropriarsi della tecnica e dei segreti dei più grandi maestri dell’eloquio. Molto presto aveva cominciato a leggere e correggere i manoscritti altrui, lavorando a tempo perso per varie case editrici. In breve tempo, progredì tanto in quella sua competenza, sorretto dalla volontà di sfida, che nei circoli letterari il suo nome cominciò prima a circolare e in seguito ad occupare un posto di rilievo. Dopo aver subìto 12 le critiche e le recensioni favorevoli di cui s’è detto, un paio di volte si trovo davanti al pubblico. Ringraziando a tutto ciò, una delle case editrici più importanti della città gli spalancò le porte, gli offrì un ufficio tutto per sé e il posto del direttore. La sua disperazione, però, non si era attenuata. A poco a poco lasciò il lavoro creativo. Il coraggio di scrivere lo abbandonava, come ogni ispirazione. Ormai non si azzardava a buttar giù in proprio neppure una frase, timoroso che venisse giudicata inferiore agli alti criteri letterari che lui stesso aveva fissato per giudicare quelle degli altri. Allora cominciò a disertare l’ufficio per farsi vedere sempre più spesso nei salotti e ai simposi, dove non aveva rinunciato a militare con passione e aggressività contro il monopolio della cultura di massa e di consumo. Non perdeva occasione per insultare gli scrittori; mobilitando tutta l’erudizione, il cinismo e la retorica di cui era capace, suscitando però negli astanti timore, malcelato fastidio e, soprattutto, una certa compassione. 13 Perfettamente consapevole di questo, superiore per ampiezza di vedute al pensiero dominante del suo tempo, si decise infine all’ultima abdicazione. E così divenne quello che era ancora oggi: un buon albergatore. Anche nell’esercizio della nuova professione non aveva tuttavia derogato al suo codice d’onore, insistendo ancora, se non altro con se stesso, nel culto della parola, così che alle sue labbra affioravano ancora quelle più adatte di volta in volta alla circostanza, sempre circonfuse di una squisita dolcezza. Di conseguenza a tutto ciò, casti spagnoli, dunque, avrebbero lasciato d’estate nell’ombra il sud della schiena per venire a scaldarsela nella ridente Argentina l’inverno. Chiuse il cancello del cortile dell’ostello, con la maniglia enorme sormontata dal doppio volto del Dio Giano, e si ritrovò in calle Chakabuco. Si stiracchiò come se fosse appena uscito dal letargo, respirò la libertà e, incoraggiato dalla calma del cielo bluprofondo, si lanciò nella serata del sabato. 14