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Antonio De Ferrariis
detto il Galateo
(Continuazione, v. A. VI, n. 1)
Cap. VI.
L" Esposizione del Pater Noster " 11 " De Pugna tredecim
equitum" - Il " De Educatione ".
Prima di passare a considerare l'opera del Galateo come
pedagogista, come geografo e medico, mi sembra opportuno
dare notizia dell'« Esposizione del Pater Noster », opuscolo sul
quale non si è fermato nessuno di coloro che si sono occupati
del Galateo e che mi sembra invece necessaria integrazione
Heremita ». Esso ci permette inoltre di fissare la posizione del Galateo riguardo a un problema molto interessante.
Sappiamo che verso la metà del '400 il simpatico empirismo
dei primi umanisti aveva cominciato a cedere alla nuova tendenza storicistica (1). Ora, da qual parte dobbiamo collocare il
Galateo? Fra i seguaci di Poggio o fra quelli del Valla? Chi
consideri in blocco la sua opera, inquadrandola nella tradizione
letteraria italiana di quello scorcio del secolo XV e dei due
primi decenni del XVI, sarebbe tentato di dichiararlo un ritardatario, tanta è l'illusione di trovarsi dinanzi a un rappresentante della prima generazione umanistica. E' un nuovo empirismo, non meno spigliato e seducente del primo: la classicità
non è un cadavere sottoposto a dissezione anatomica; è un mon-
(1) Rossi. Op. cit., pag. 77 e segg.
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Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo '213
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do vivo al quale ci si accosta per ricevere lezioni di vita. Il
latino non è fossilizzato negli schemi del ciceronianismo: è una
lingua disinvolta, che magari non obbedisce sempre scrupolosamente alle regole della sintassi, ma che è originale, vivacissima espressione di una forte e cosciente individualità. Leggendo la « Vita Antonii Galatei » scritta dal Pollidori, ci si diverte a notare come il latino dell'umanista appaia riposante
in confronto a quello cattedratico e solenne dell'erudito settecentesco.
« Atticissent qui velint, nos loquamur ut libet », dichiara
con un'alzata di spalle il Galateo Dell'« Apologeticon ad Aquaevivum ». I grammatici gli danno addosso perchè non osserva i precetti « nescio cujus Laurentii » e perchè parla « parum latine »;
dall'altra parte i « novi philosophantes » e i medici gli scagliano
sul viso come un'offesa l'appellativo di retore se presso i principi e gli amici dice qualche cosa latinatnente, se adduce la
sentenza di qualche poeta (« ut sapientissimi veteres fecerunt »)
o qualche esempio dalla storia, maestra della vita, o l'autorità
degli antichi latini e degli stessi greci: egli si ride degli uni e
degli altri e va tranquillo per la sua strada: « libere vivo, liberius loquor (O»; gli basta di evitare i solecismi « in vita et
in arte medica ».
Umanesimo empirista dunque ? Sì, ma osservando bene l'opera galateana ci si accorge che si è agli albori del secolo XVI
e che il tempo di Poggio, del Bruni, del Filelfo è passato. Questo
medico non vive esclusivamente rinchiuso nel sogno di restaurazione dell'antichità. Egli in fondo si oppone alla scuola storicistica solo per un più acuto senso storico.
Ecco quel che scriveva intorno al '96 nel « De Podagra »:
La « perversa subtilitas » (lei grammatici è stata sempre molesta. « Nos non euramus si quando graeca, aut arabica et nonnunquam persica verba inculcamus, modo intelligamur ». Dobbiamo aver cura non delle parole, ma delle cose: bisogna viver sempre coi costumi antichi, ma si deve parlare con parole
ora antiche, ora, se è d'uopo, anche moderne: pure in questa
cosa bisogna servire al tempo. « Serviendum est tempori »: non
(1) Coll. III, pag. 66.
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Rinascenza Salentina
214
si può certo rimproverare al Galateo di non esser vissuto con
gli occhi bene aperti su quel che lo circondava, di non aver
capito la malattia di quel particolare momento storico e di non
averne saputo proporre il rimedio. « Quid agendum nobis sit co• itemus, non quid dicendu► » (1) insegnava, proprio mentre dalla
vita e dalla letteratura italiana andava scomparendo ogni ideale
che non fosse quello della bella forma. E mentre il eiceronianismo imperversava fra la turba dei mediocri, egli esponeva
sulla lingua questo interessante parere: « Le parole mi sembrano simili a certi frutti che paiono acerbi; poi serbati a casa
dentro vasi di creta o fra la paglia o esposti al sole, il tempo
li rende dolci e li matura e porta a perfezione, come tutte le
altre cose... Che anzi, per quanto sembri ridicolo a costoro che
decretano nulla doversi dire se non in latino, non temo le parole
arabe, veramente barbare e orribili alle nostre orecchie, come le
parole nostre a quei popoli » (2). Non c'è dunque da meravigliarsi
se, nel 1504, cominciando ad esporre il Pater Noster, dichiara
senz'altro che lo farà con quella medesima lingua che ha imparata dalla nutrice e che ha dalla natura, ossia nel suo « vernacolo ». Si adira pensando che la lingua greca aveva ben cinque dialetti, tutti ornati, tutti decorosi, da usarsi tutti a piacere, senza timore di esser biasimati nella scelta, e che invece
noi latini, avendo la lingua povera, la rendiamo ancor più mendica con regole vane e superflue. « Oggi è in Italia venuta la
cosa ad tale, che chi non parla a punto el toscano, non pare
che sia italiano » (3), La soverchia diligenza sta male in tutte
le cose; ci vuol la giusta misura, sempre, anche nel parlare.
« Sia felice quello ch'è nato in patria dove se parlasse bene:
ma più felice saria quello, chi frisse nato in patria dove se vivesse bene ». Verso la fine dell'opera pensa a quanti diran male
del suo lavoro: quelli « chi godono de toscanigiare » giudicheranno il suo volgare non elegante, alcuni « con uno certo bello
modo de detrahere » già sono andati a dirgli che è peccato
che egli non abbia scritto in latino, « come si le sentencie havessero più forza in latino che non in volgare: o vero come si non
(1) Coll. III, pag. 66.
(2) Coll. III, pag. 67.
(3) Coll. IV, pag. 149.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
215
fossero più quelli chi intendono et se delettano di lo volgare,
di lo toscano O di lo romano, che non di lo latino o de la lingua greca » W. Qui viene a mente il giudizio dato dal Salutati,
dal Pahnieri e da Poggio sulla Divina Commedia. In settant'anni le idee del Brutti hanno fatto strada, e in questo riconoscer la necessità di farsi intender dalla « multitudine »
scorge l'evoluzione che verso la fine del '400 aveva condotto
la letteratura umanistica a divenir letteratura italiana. E' naturale che alla difesa generica del volgare, vada unita quella
delle parlate regionali ( 2): il nostro medico salentino occupatissimo nell'esercizio della professione e che poteva dedicare allo
studio delle lettere soltanto le ore « succisivae », non aveva
tempo nè modo di apprendere il toscano come più tardi lo apprese, per esempio, il Betnbo. Il Galateo scriveva che in Terra
d'Otranto c'erano allora due lingue: la greca e la latina (due
dialetti di derivazione greca e latina). Ambedue abbondavano
di termini che si accostavano più che in alcun'altra lingua alla
greca e alla latina « simplicità antiqua » (3). Nel suo volgare infatti sono numerosissimi i latinismi. I termini prettamente dialettali invece, come già notava il Barone, sono relativamente
pochi. C'è da notare: nisciuno=nessuno; poteche=botteghe; robba=
roba; bascio=basso, paccia; buscia=bugia; masculo, pizirilli=bambini; spruvieri=sparviere; timpagni=coperchi; ticato=fegato; nui,
vui, nei=ei; stracchi=stanchi; picca=poco; lassarc, simighiare, partuto, cecato, pilato, precare=sotterrare, facimo, dicimo, ecc. In
generale la lingua è abbastanza italianizzata. Non mancano parole e frasi spagnuole (leydo, verdatero, sable, sinoble, allas
armas, donayri, gran mercè a mis manos, conia con todos, dorye) e qualche francesismo. Sarebbe interessante un confronto
tra il volgare dell'Esposizione del P. N. e quello del contemporaneo poema inedito « Lo Balzino » di Ruggero di Pazienza
(1) Coli. XVIII, pag. 101.
(2) P. SAVI LOPEZ nei suoi Appunti di napoletano antico (in Zeitschrift fiir Romanische Philologie del Griiber, XXX, 1906, pp. 28 e 31) negava
al persistere di forme dialettali nel volgare napoletano, carattere di deliberata e cosciente opposizione al toscano. Egli però non accenna per nulla all'opuscolo del GALATEO.
(3) Coll. IV, pag. 151.
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216
Rinascenza Salentina
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da Nardò» ( 1 ). In complesso il poema è più vicino alla forma
vernacola che il trattatello: ma di quello è giunto fino a noi
l'autografo, mentre di questo non si conservano che copie tardive.
Qui cade a proposito parlare della posizione del Galateo
nei riguardi della grande letteratura volgare trecentesca. I suoi
giudizi sono sempre legati alla concezione morale ch'egli ha
della letteratura. L'arte per l'arte non la capisce: la poesia, come tutte le altre discipline, ha secondo lui lo scopo preciso di
condurre alla virtù. E' naturalissimo quindi che non nutra molta
simpatia per l'opera volgare del Boccaccio e del Burchiello,
pei « minatici » e pei « sogni dei Paladini » ( 2): forse per questa
ragione stessa metteva vicini a Dante e al Petrarca, fra i moderni, solo il Sannazzaro e il Cariteo, e non il Pontano, pure
amicissimo suo ( 3). Del Petrarca conosceva certamente i trionfi
e il Canzoniere, ma non espresse mai un giudizi() esplicito su
di essi; una volta sola notò come messer Francesco, nel primo
trionfo, « per excusare lo suo errore, nei pose tutto il mondo,
li Dii et li homini ». Invece era entusiasta delle canzoni politiche e raccomandava a Crisostomo, nei riguardi del principino
Ferrante: « Si velit legere ver►ac,ulain, legat etruscam, legat
Dautem et Petrarcam, poetas meo indici() non contemnendos,
►raecipne illud nobile Petrareae car►en verius oraculis Sybillarum: Italia mia, benchè 'I parlar sia indarno » ( 4). Ma la grande
poesia italiana di cui il Galateo si nutri, fu quella di Dante.
Non dobbiamo ricavar dalla parca lode la misura dell'ammirazione che senti pel grande fiorentino. Diversi fili avvincevano
l'anima del modesto umanista all'anima immensa del sommo
poeta: religiosità sentita e vissuta, salda morale, passione politica. L'influsso dantesco si avverte nella concezione dell'« Heremita », nell'ardore dì certe invettive all' Italia — amata fino
allo spasimo —, nell'avanzo di ghibellinismo che si manifesta
nella lettera ad Eleazaro. Dante è cinto dell'aureola della clas-
(1) Pubblicato in parte da S. PANA1tE0 in « Isabella del Balzo in Terra
d'Otranto secondo un poema inedito del tempo.. Traili, 1906.
(2) Coli. IV, pag. 201.
(3) o. c., I. c.
(4) Coll. II, pag. 154.
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Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 217
sicità: nel • De nobilitate » è posto accanto a Solone, Licurgo
Aristotele, Demostene, Camillo, Scipione, Boezio ecc.: nella « Vituperati() literarum (1) » come esempi di donne cui la cultura
nacque, son riportate Saffo, Sempronia e Francesca, in opposizione a Penelope e Lucrezia. Numerose sono le reminiscenze
dautesche nell'e Esposizione del P. N. » e non mancano i versi
inseriti per intero (2). Dal modo come son fatte le citazioni, appar
chiaro che il Galateo li riporta a memoria.
Questa stessa larghezza di vedute che gli permise di gustare il bello dovunque lo trovava, fece sì ch'egli sapesse pure
apprezzare il buono e il vero di tutti i secoli e di tutti i sistemi.
Nel « De Situ elementorum » a riduce testimonianze di autori
recenti, e rimprovera tanto coloro che sembrano aver congiurato contro i moderni, quanto gli altri che, stando ai sofismi
gallici e britannici, odiano chi attende agli studi classici: egli,
è vero, ama più la filosofia attica, che la parigina o la padovana: tuttavia riconosce che anche le scuole occidentali hanno
avuto dei dotti e non teme di offendere le latinissime orecchie
del suo Sincero, esponendo le loro sentenze ( 3). Venera l'antichità,
ma senza cadere in una gretta idolatria. Sa affermare, con buona
pace di Platone, Cicerone, Averroè ed Alessandro di Afrodisia, il contrario d'una loro sentenza. Nella « Deseriptio Callipolis » domanda adirato se il mondo e l'ingegno umano siano.
talmente invecchiati che non sia più possibile dire o fare alcunchè di nostra testa: gli antichi furono grandi ed eccellenti
uomini, ma uomini, nè conoscevano ancora la filosofia cristiana M. La posizione del Galateo si potrebbe forse definire empirismo storicista, o storicismo empirista, a piacere: e, « mutatis mutandis • a seconda dei temperamenti individuali, simile
atteggiamento mi sembra comune a tutta la scuola napoletana
fiorita tra il 1470 e il 1530 all'incirca.
Riassumiamo il contenuto dell'opuscoletto. Il Galateo, dopo
aver dichiarato che adopererà non il latino, ma il suo parlar
patrio, dice di essere stato indotto a commentare il Patcr No(1)
(2)
(3)
(4)
Coll. IV, pag. 160-184.
Coll. IV, pag. 42 e segg.
Nella Vituperatio
Coll. II, pag. 219.
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Rinascenza Salentina
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ster dalla devozione con cui l'ode recitare dalla duchessa Isabella, alla quale dedica il suo lavoro. Anch'egli, non potendo
dir lunghi uffici, ricorre spesso a questa santa e breve orazione.
Come si debba pregare: con mente e corpo puri, aboliti il formalismo e la superstizione. Condanna l'« allegrezza, per non dir
eresia » di Pietro d'Abano che voleva si pregasse « quando caput
Dragonis stat cum love in medio coeli ». Alla preghiera l'uomo
è condotto dalla natura. Alcuni per parer più savi si fingono
atei, fornendo occasione al volgo indotto, anzi ad alcuni « ippocriti soldati di Cristo, e mangiatori de le fatiche aliene » di
dire che i filosofi non credono in Dio, mentre la filosofia non
è per altro « si non per conoscere Dio, amar la virtù e biasimar
li vicii e li omini viciosi » (1). Anche la religione è virtù che
consiste nel giusto mezzo tra due estremi: incredulità e superstizione.
« Pater ». Testimonianze di gentili che tale chiamarono Iddio: Aristotele, Mercurio Trimegisto, Omero, Virgilio. Qui si
confonde l'errore di coloro che dissero Dio non esser causa efficiente, ma solo finale: se cosi fosse, si chiamerebbe non padre,
ma rettore.
« Noster ». Siamo fratelli e tutti eguali: non la natura, ma
le leggi umane hanno creato lo disuguaglianze. I Re siano dunque pastori e non tiranni.
< Qui es in coelis ». Condanna la sentenza di Averroè che
ammette due dei creatori: uno solo creò le cose visibili e le invisibili. Dio è onnipresente (testimonianze di pagani) ma la somma potenza e virtù si scorge meglio nelle cose celesti che nelle
terrene. Nessuna cosa ne fa venire tanto « iu cognizione de Dio
e de le substauzie separate quanto el celo, el moto suo ». Anche « li rustici ed imperiti », mirando l'incanto di una notte serena, « li vene allo animo naturalmente ed occultamente lo pensamento e la opinione de quella maestà che ha creato e regge
le cose » (qui ha luogo una bella descrizione del firmamento
stellato e dell'aurora: la natura è guardata con una simpatia
commossa che la rende partecipe di umanità). Il moto del cielo
genera la vita; da esso provengono tutti i beni. Le stelle soli
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(1) Coll. IV, pag. 154.
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Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo '1111‘2,9',1,1
219
tutte benigne, tutte felici, come ogni cosa creata da Dio. Siamo
noi e non loro la causa del nostro male medesimo.
« Sanctifieetur nonrien tuum ». Nessun dono umano possiamo offrire a Dio: nè col far pellegrinaggi o affliggerci con discipline, nè col costruir monasteri possiamo piacergli, se l'animo non si emenda. Condanna i monaci ipocriti, riportando le
parole di S. Girolamo: « Sacrificio accetto a Dio è il benedirlo,
il ricever devotamente l'Eucaristia, l'esser giusti e caritatevoli
col prossimo, senza nutrir speranza di premio « condigno del
benefizio », perché ci si comportarebbe da usurai. Quel che conviene ai principi: « donar e perdonar ».
« Adveniat Regnum tuum ». Il Regno di Dio non è caduco al
pari dei terreni, come quello di Puglia, che in dieci anni ha mutato otto re, non per difetto del popolo, ma per colpa (lei principi
e pontefici cristiani. I regni del mondo sono tutti del diavolo.
Il Galateo passa in rapida rassegna tutta la storia d'Israele, di
Grecia, di Roma e (l'Italia, sino agli imperatori tedeschi, per
dimostrare che il Regno di Dio non si è mai avuto sulla terra;
a proposito dei Giudici e dei Re osserva che l'amore dell'immoderata libertà conduce alla schiavitù, com'è accaduto alla
Grecia e alla maggior parte (l'Italia. A proposito del castigo
che cadde sugli ebrei per le colpe di David, si domanda « non
meravigliato ma stupefatto » perché il peccato (lei re ricada
sui sudditi, e conclude che questo è segreto di Dio che l'uomo
non può conoscere. Il Regno di Dio sarà non nella città platonica, ma nella beata Gerusalemme celeste, dove la felicità
consisterà nella coscienza della ben passata vita, nella conversazione cogli spiriti illustri, nella visione e comprensione dell'essenza divina. Per giungervi non basta la legge antica, .che
è incompleta e solo è figura della nostra fede; non bastano le
leggi dei filosofi nè il diritto romano (qui rivede le bucce a tutti
i re e gl'imperatori di Roma, Numa compreso) nè le leggi dei
re (accomuna in mia sola condanna tutti i re svevi ed angioini):
ci vuole la dottrina evangelica. Un'altra fierissima requisitoria
centro gl'ipocriti: non parla del suo gran Roberto, principe della
cristiana eloquenza, nè di Mariano o di Egidio, ma di tanti altri, 4 sacchi di pane, utri de vino », ecc., i quali, sol che uno
abbia « qualche lettera, qualche particella de filosofia o vero de
lume naturale de conoscere il bianco dal negro » e conosca le
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Rinascenza Salentina
loro frodi, gli levati subito nome di eretico (1). E qui uno sfogo:
Galateo, « otno sessagenario » non ha perduto il tempo nelle
curiose questioni della teologia, che oggi sono in uso, ha servito
ottimi principi e non ha praticato se non con persone dotte,
giuste e consumate; i suoi antenati non sono stati uomini d'arme ma di lettere, e devotissimi a Casa d'Aragona: non gli sarà
dunque lecito parlare del bene e del male, della virtù e dei
vizi, nella quale disputazione è occupata tutta la filosofia morale, tutta la Sacra Scrittura, tutti gli storici, tutti i poeti? Se
non lo facesse, stimerebbe di venir meno al suo dovere di filosofo, perchè come la medicina cura i corpi, così la filosofia è
medicina delle anime. Forse non ne ha l'autorità, non. avendo
abito di monaco l « Io me tengo assai bene barbato tutto de
bianco e vestito de sacro battismo ». Ancora torna a scagliarsi
contro la presuntuosa audacia dei « fraticelli » che, oltre alla
cura delle anime, abbracciano il governo del mondo: ne conosce molti, ma ne lascia i nomi nel bianco della carta. Se il Regno di Dio si trova sulla terra, è nei pochi che amano la verità e cercano il suo trionfo: è da uomini santi e giusti la indignazione che si concepisce per amor della virtù.
« Fiat voluntas tua ». Dobbiamo sempre tener per migliore
la parte che Dio ci dà, e non preoccuparci se i buoni sono sfortunati. Dio e la natura non fanno cosa invano.
« Sicnt iii coelo et in terra ». Nel cielo le sfere superiori
guidano le inferiori: se la nostra virtù intellettuale, che è superiore, comandasse all'« appetito » che è inferiore, si sarebbe felici. Invece gli uomini commettono il male senza preoccuparsi
del castigo, poichè credono che Dio non badi alle loro cose.
Anch'egli ha dichiarato talvolta amaramente che questo mondo
è fatto per gli altri e che Dío venne per i peccatori, però « V. S.
che ha acutissima vista deve conoscere quale sia la vita e la
coscenzia mia; credo che in tanti anni non ha conosciuto in me
peccato si non de poca importanza per grazia di N. S. Iddio » (2).
Non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che tanti poeti e filosofi pagani hanno negato a parole la Provvidenza, pera()
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(1) Op. cit., pp. 193-194.
(2) Coll. IV, pag. 219.
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non hanno mai cessato di praticare la virtù e se coloro che
dovrebbero esser di esempio sono avvolti in più folte tenebre,
bisogna non badarci e comportarsi secondo le loro parole, non
secondo le loro opere. Chi potrà negare la provvidenza, considerando l'ordine mirabile della natura! Pensiamo che la scienza
nostra è ignoranza davanti a Dio e non presumiamo di giudicare Colui che ha da giudicar noi: « non se pò fare più gran
peccato al mundo che volere ponere legge a Dio ».
« Panem nostrum quotidianum •. Questo solo dobbiamo
chiedere, e non ricchezze e onori. L'ir:Lo6cnov di S. Matteo allude
chiaramente a un pane soprasostanziale, e così bisogna intendere, perchè i testi greci sono migliori dei latini: ad essi S. Girolamo consigliava di ricorrere. Chi non conosce il greco, non può
apprender bene nessuna scienza: « Et me dò ad intendere, che la
più parte de le cose, de che se hanno fatti belli et copiosi li
nostri et hanno pieni li libri, son state fatiche de greci, li quali
teneano in casa, che li cantassero la nette, come rosignoli
Qui segue un lungo elenco di poeti e filosofi e scienziati che
seppero il greco: fra gli antichi latini, il più dotto è riputato
Boezio; fra i moderni S. Tommaso. Anche Dante, Petrarca, Boccaccio, Pietro d'Abano, Simon genovese ebbero lettere greche:
e dopo di loro tutti gli umanisti, moltissimi veneti e molti arabi.
A Dio bisogna rivolgere domande misurate e convenienti: se
chiedessimo troppo e ottenessimo, sarebbe per noi gran male,
perchè « lo più delle volte soli più veloci le cascate che le sagliute ». La preghiera dev'essere onesta: « se vole parlare a Dio
come si homini fossero presenti ». Il quotidianum significa che
dobbiamo campare alla giornata e non esser solleciti del futuro:
due sono i « tortori • dell'animo umano, speranza e timore, e
ambedue appartengono al futuro. Basta aver prudenza e confidenza nel Signore: sono superstizioni le vanità dei libri, le acromantie, hyeromantie, geomantie, chiromantie, negromantie et
simili paccie », compresa la parte giudiziale dell'astrologia, edificata « supra tanto infimo fundamento, che mai orno savio se
ne volse impaziare » (2).
(1) Coli. XVIII, pag. 7.
(2) Coll. XVIII, pag. 18.
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« Et dimitte nobis debita nostra ». Dio solo può rimettere
i peccati, perchè solo contro di lui si pecca. Ai « grandi signori »
della terra conviene invece donare e perdonare.
• Sicut et nos dimittimus ». Qui comincia un po' sconfortato. « In questa parte non so che mi dica... Dio voglia che la
nostra orazione non sia contro di noi stessi ». Dappertutto risse
e odii: e invece il massimo precetto del Vangelo è un comandamento d'amore. Che è il barbaro costume della vendetta e
l'uso dei duelli venutoci dalla pazza Gallia E (lire che i nostri giuristi, o meglio « iniuristi o vero juris imperiti » hanno
commentato e approvato con la testimonianza delle leggi le
vane invenzioni francesi « di lo Blasone e de le Recheste ». Sarebbe meglio adoprar questa nostra « volenteza e gagliardia »
contro i nemici della fede. Se il sangue cristiano sparso in Italia
dalla infelice e scellerata venuta di Re Carlo in qua, fosse stato
speso in servizio di Dio, già saremmo padroni di Terra Santa.
Ma il re cattolico si è accinto alla gloriosa impresa e il suo
esercito è in Africa: « Speramo in Dio che con lo aiuto di la
grande et potentissima, si fosse più savia, Italia conquistarla
quelle parti, che non è cosa nova, et forsi è lo fato o la ragione d'Italia comandare, subjugare la Africa » (1). I singoli devono dimenticar le offese ricevute: ai re spetta invece rendere
giustizia e punire i colpevoli; però lo devono fare con senno,
tenendo presente che la povera plebe erra solo perchè sobillata
dai . capifazione. Perchè, invece, la plebe « è stracciata per le
paccie et controversie de li principi, de le citati / ». Perchè i
giusti han male per gli ingiusti ! Non lo possiamo sapere, ma
dobbiamo tenere per articolo di fede che quel che Dio fa è ben
fatto.
« Et ne nos indueas in tentationem ». La tentazione si può
intendere « active » — quando noi tentiamo altri — e « passive »
— quando altri tenta noi. Noi tentiamo Dio quando perseveriamo nel peccato (tra gli esempi biblici, classici e moderni di
re che tentarono Iddio, reca anche quello di Carlo VIII, che,
« come christianissimo, venne a far guerra a christiani » col consenso del Santo Padre: « che dicerrimo altro, se non che semo
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(1) Ivi, pag. 27.
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 223
cascati in mano di Papa spagnolo, Re francese ed un tiranno
italiano ! » (1); tentiamo la natura quando ci fidiamo troppo della
nostra forza valentia ingegno; tentiamo il prossimo quando con
parole e con fatti, « lo carricamo più che non pote comportare »; tentiamo la fortuna quando fidiamo nel suo aiuto per
riuscire in cosa che secondo la ragione non è da tentare. Talvolta è necessario affidarsi alla fortuna: allora si vada e si usi
prudenza, ricordando che la vera prudenza consiste non nell'astuzia e nella frode, ma nella semplicità. Iddio ci tenta per
provare la nostra costanza. Altre tentazioni ci vengono dalla
nostra natura, in quanto è guasta dal peccato originale. Perchè ogni creatura umana sia soggetta al peccato dei primi parenti, è questione ardua e che non si deve sollevare: « Non voglia Iddio che io habbia di entrare in quella vana, inutile, supersticiosa et scandalosa disperatione de li mendicanti, che
ha posta quasi in scisma la fede » M. Questi son segreti di
Dio che intenderemo quando lo vedremo faccia a faccia e non
« i il aenigmate ». Tentazioni inerenti alla nostra natura di uomini son pure le guerre, le carestie, le pestilenze. Nessuno può
evitare le fatiche e gli affanni, ognuno ha il suo stimolo in 'questa vita: solo Dio sta nella beata quiete. Appena nasce, l'uomo
ama affaticarsi, e mai si riposa dal piangere, « nè se adorme,
si non se ►ove la cuna ». Come bisogna comportarsi nelle guerre:
non fare offesa ai nemici, nè vincitori, nè vinti, nè in parole
l' è in fatti, se non quando sono armati e quanto la ragione della
guerra permette. Sopratutto, si deve serbar fede alla propria
parte e non volere mutare stato di proprio arbitrio: « questo l'ha da fare Dio et la revolutione di questa rota ín che
semo ». Ma quando ci viene addosso « furia grande e forza »,
come fare a perseverare I Non sa che si dire: non si può condannare questa « mutazione, la quale Dio fa, et non li homini ».
Chi si accosta al vincitore, segue la volontà di Dio, perchè vince
solo chi Dio vuole. Nelle tentazioni di guerre universali è meglio passare dritto e mansuetamente, senza dimostrar « soverchia
affettione »; quanto alle guerre civili, non vi è altro rimedio che
(1) Coll. XVIII, pag. 44.
(2) Ivi, pag. 59.
2, •
224
Rinascenza Salentina
vendere le robe e fuggire. Ma i veri diavoli tentatori sono gli
adulatori, dei quali tutta Italia è appestata, dopo che i costumi
dell'occidente passarono a noi. Dappertutto adulazione: Per
certo la vita nostra non è altro, se non una alchimia, uno figmento, una simulaeione et pegio (D. Adulazione e calunnia:
ecco i due veleni « de li alti palazi »; non c'è virtù che non sia
assalita dal morso dei maledici. Unico rimedio è l'opporre alle
serpentine lingue lo scudo della nostra pura coscienza. Terza
tentazione: la carne. Lodi della castità: se qualche cosa lo ha.
trattenuto presso Isabella per tanto tempo e in mezzo a tanti
pericoli, non è stata speranza di premio, chè la duchessa si
trova in tale fortuna da aver bisogno lei dell'aiuto degli altri,
ma solo la devozione alle sue virtù e specialmente alla sua onestà. Quarta tentazione: l'antico) serpente, invidioso persecutore
del genere umano. Ma le tentazioni del diavolo son quasi quelle
stesse del mondo e della carne, e se sapremo far sì che la parte
razionale dell'anima nostra comandi alla irrazionale, allora lo
avremo vinto.
« Sed libera nos a inalo ». Dal confronto col testo greco, deduce che quell'e a malo » si dovrebbe intendere per « ab homine
malo ». Infatti la maggior parte dei mali che patisce l'uomo
procedono dall'uomo. Bisognerebbe evitare la pratica coi malvagi, ma come si fa ? E' vero che non ci può essere amicizia
dov'è disparità di costumi, e quindi il buono non potrebbe mai
diventar amico del cattivo: ma siamo in tempi che chi volesse
evitare la compagnia dei cattivi resterebbe solo e gli converrebbe andarsene nel deserto a farsi compagno delle fiere. «A
inalo » si può intendere anche per « dal male »: di quante specie siano i mali e, per contrario, i beni.
Amen ». Origine e significato della parola. Sa che a questa sua piccola opera verranno mosse molte critiche. Egli prega
Isabella che non lo reputi arrogante e presuntuoso per averle
osato dare dei precetti: ha scritto solo per spronarla a perseverare nelle buone, consuete e sante opere. Del resto, dica ciascuno quel che gli pare: a lui basta l'aver predicato le parole
di Cristo, dei profeti e degli apostoli.
(1) Coli. XVIII, pag. 79.
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Dina Colneei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
225
In una breve esposizione del trattatello è impossibile far
risaltare ciò che ne costituisce l'interesse maggiore: le frequentissime digressioni riguardanti la vita contemporanea, i giudizi
sagaci sui fatti e sulle idee e sugli uomini del giorno, il carattere intimo della cultura classica e biblica, la disinvoltura con
cui son recati esempi dalla storia, dalla filosofia e dalla letteratura antica a documentare la verità degli insegnamenti cristiani (eerdità medievale e umanesimo del più squisito a un
tempo), l'opportunità e la suggestività delle belle citazioni dai
più bei libri della Bibbia, il calore appassionato con cui si muove
a difesa della virtù conculcata, la vivezza dello stile che, smesse
le fasce — davvero non molto strette — del latino, si muove a
suo agio ben sciolto e vispo nella libera veste del vernacolo leccese. Ma anche da uno scarno riassunto risalta subito quel che
è veramente essenziale notare: qui ci troviamo nello stesso punto
di vista dell'Heremita. Le due opere, pur se scritte con diverso
fine, sono animate da un medesimo spirito, e ciascuna di esse
si spiega e si completa con l'altra. Alcuni dei primi biografi del
Galateo (1) dissero che l'Esposizione aveva lo scopo di difendere
l'autore dall'accusa di irreligiosità mossagli in seguito alla divulgazione dell'Heremita. I moderni osservarono col Barone che
invece nel trattato sono ripetuti e di molto accentuati quegli
attacchi, che già si trovavano nel dialogo, ai degenerati ordini
religiosi. In fondo, hanno ragione glí uni e gli altri. L'Esposizione è un'apologia dell'Heremita, ma in quanto, facendoci cogliere la continuità che lega tutta l'opera del Galateo, ci permette di penetrare il senso dell'allegoria del dialogo, di capire
la genesi e l'anima di quella critica. E' la stessa lotta contro
la superficialità e il formalismo, lo stesso sforzo di ricostruire
una coscienza profondamente e non ipocritamente religiosa; la
stessa appassionata discussione sugli stessi problemi morali, la
stessa difesa contro le solite accuse d'incredulità e (l'infedeltà,
Io stesso dubbio torturante: — perchè gringiusti sono esaltati e
i giusti perseguitati — lo stesso acquietarsi nella serena fede
che la Provvidenza guida tutte le umane cose al bene: d'altra
(1) Il Da ANGELIS, il CALOGERÀ, 10 ZENO, il COLANGELO. Quest'errore
fu ripetuto, insieme con molti altri, dal CORNIANE I Secoli della Letteratura
Italiana dopo il suo Risorgimento. Torino, 1855. Voi. II, pag. 99.
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Rinascenza Salentina
parte, i retti giudizi sulla storia biblica e sul suo significato di
simbolo e preparazione (1), insieme col valore assegnato all'autorità degli Apostoli e dei Dottori chiariscono qualche fraintesa situazione del dialogo. Tanto l'Heremita che l'Esposizione
del P. N. non sono opere puramente teoriche di filosofia e di
teologia; diventano incomprensibili se avulse da quella che era
la realtà presente delle condizioni di vita nella corte aragonese
e nelle città e borghi pugliesi tra il 1490 e il 1510. Nella realtà
viveva tuffato il Galateo: era essa che gli premeva. Natura profondamente morale, non ci fu aspetto della vita su cui non portasse il suo giudizio, non ci fu piega così nascosta dell'animo
umano in cui non penetrasse il suo acuto occhio clinico. Infatti
le due opere, pur così simili, sono diverse: e quel alcunchè che
le separa è proprio la vita. Quasi dieci anni erano passati, travolgendo una monarchia, mutando faccia con le loro guerre tempestose a molti staterelli feudali e città libere, distruggendo la
gioia di tante care abitudini: anni davvero brutti, in cui pochi
riuscirono a non capitombolare, con quel terreno che vacillava
continuamente sotto i piedi. (le lo immaginiamo il nostro Galateo, il più candido degli umanisti, persuaso che la vera accortezza consista nella semplicità, fra principi come Cesare Borgia e politici come il Guicciardini i La triste esperienza di quel
decennio ha arricchito la sua anima meditativa; l'interrogativo
penoso presentatoglisi in un'ora amara, dimenticato durante la
breve parentesi del ritorno alla dimestichezza col buon Re Federico, era risorto più imperioso dinanzi a tanti sventurati capovolgimenti, e lo sforzo duro, la grave disciplina imposta a
sè stesso dall'animo ribelle di natura, per credere alla medesima risposta, per trovare ancora, fra tanta mina, il punto stabile
su cui iniziare la ricostruzione, avevano comunicato in premio
alle pagine del Galateo un più profondo senso di umanità, gli
avevano insegnato a guardare più dall'alto, e quindi a giudicare più serenamente la storia umana. Nell'FIerernita c'era un
più fiero e simpatico ardor di lotta; qui invece domina un tono
di sottile malinconia.
L'« Esposizione del Pater Noster » — dedicata, come abbia-
(1) Cfr. Coli. IV, pag. 187.
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227
mo visto, a Isabella d'Aragona Sforza — fn composta in parte
durante il tranquillo soggiorno a Bari, nella piccola corte della
duchessa. Il Galateo vi s'era forse ritirato poco dopo la sua
fuga da Napoli, e di lì assisteva allo svolgimento della guerra
franco-ispana, che si combatteva tutto all'intorno.
La magnifica cripta romanico-bizantina della basilica di
S. Nicola vide un giorno un ometto che indossava l'abito dei
sacerdoti di rito greco cercar la sua penombra suggestiva e
pregare fervidamente presso l'urna del Santo. Era il 13 febbraio 1503: fra Andria e Corato tredici cavalieri italiani spronavano in campo chiuso contro tredici francesi. Che importava, se dopo il duello i campioni d'Italia sarebbero ritornati
a militare sotto insegne straniere Scelti dalle varie provincie italiane, quei giovani sapevano che, per tutta la durata
della breve lotta, avrebbero combattuto « pro amore et gloria patriae »; sentivano dietro a sè la grande tradizione, pensavano a Torquato e Corvino, a quel popolo che un giorno aveva
imperato a tutto il mondo e del quale essi erano figli. E il buon
Galateo faceva voti ai quattro santi cavalieri, a Giorgio, Martino, Demetrio e Niceta, perchè gl'italiani riuscissero vincitori.
Quando intese che sulle bocche italo e spagnole si era levato dopo
il duello un unico grido alto: Italia ! quando vide i cavalieri
italiani entrare in trionfo a Bari, fra le acclamazioni della folla (1),
allora un'immensa gioia gli gonfiò il cuore e scrisse al suo amico
Crisostomo narrandogli minutamente l'accaduto e chiudendo la
lettera con un saluto ottimista « Bene vale et spera meliora ».
Questa lettera, pubblicata per la prima volta da G. B. Tafuri nell'edizione leccese del « De Situ Iapigiae » del 1727, fu
subito molto apprezzata, e le edizioni e le traduzioni si susseguirono. Contemporaneamente al Grande (2), la traduceva il Do
Pace (3), stimando che il suo lavoro sarebbe riuscito di gradimento a chi « nato in Italia e stanco della vita del presente,
sentesi italiano in quella del memore passato ». Il Faraglia, raccontando la storia della famosa disfida nel suo « Ettore e la
(1) Coll. II, p. 269.
(2) Coll. degli scrittori Salentini. Lecce 1867, Vol. II, pag. 259 e segg.
(3) Opuscoli Letterari. Napoli, 1867, e. 2.
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228
Rinascenza Salentina
casa Fieramosca » (1) affermava di valersi della lettera del Galateo
e dell'anonima «Historia del Combattimento dei tredici italiani
con altrettanti francesi, scritta da autore di veduta » (2 ) come di
fonti più sicure rispetto alle altre, ossia al Guicciardini, al Passaro, al Giovio, al Cantalico, al Summonte, al Mambrin Roseo,
al Notar Giacomo, allo itrita, al Sabellico. Nel 1903, ricorrendo
il centenario della sfida, si . ebbe un'altra edizione della lettera
galateana (3). Poi tornò ad occuparsene A. De Lina (4), che, confrontandola con quanto avevano scritto in proposito il Gaie,
ciardini (5) e il Giovio (6), trovava « molto più bella, più poetica
e certamente più vera » la descrizione del combattimento fatta
dal Galateo, « il medico dotto e sapiente, che fra le cure degli
ammalati e Io studio della storia antica della sua terra e le ricerche sul veleno delle tarantole, trovava modo di narrare per
esteso e famigliarmente i fatti più notevoli che avvenivano allora nella sua Puglia » (7). Il medesimo De Lina credeva di riconoscere in questa lettera una delle fonti del romanzo del D'Azeglio. Alcuni anni fa, essendo sorta una polemica intorno alla
nazionalità dell'unico morto nel famoso duello, Graiano d'Asti,
(che secondo il La Sorsa era invece francese d'Aste), G. Petraglione interveniva a chiuderla con la testimonianza esplicita
della lettera galateana, « documento redatto da uno storico di
provata scrupolosità, in un ambiente benissimo. informato e ancora tutto vibrante del clamore che la superba vittoria dei tredici campioni italiani aveva destato » (8). Parecchi storici — e
fra questi il Gothein (9) — cercarono di gettare dell'acqua fredda
- apoletano. Il, fase. 4°; III, fase. 3°.
(1) Archivio Storico N
(2) Capua, 1547.
(3) G. GIGLI. Due lettere del G. sulla disfida di Barletta e su Ettore Fieramosca. Fan f. della Doni., XXV, 6.
(4) A. Dm F. e La disfida di Barletta. Rivista Storica Salentina. III, 1907,
pp. 325-35.
(5) Historia d'Italia. Venezia, 1563, L. V., pag. 145 e segg.
(6) La Vila di Consalvo Fernando di Cordova, detto il Gran Capitano.
Firenze, 1550, pp. 136-45.
(7) Op. eit., pag. 333.
(8) Japigia, a. II, 1931, pag. 373.
(9) Op. cit., pag. 125.
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Dina Oolucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
229
sull'entusiasmo degli italiani dell'800 per la celebre disfida, osservando che era esagerato considerar come simbolo della gloria
nazionale una corona riportata in una giostra da cavalieri che
servivano nell'esercito spagnuolo. Questo è vero, ma quand'anche si volesse distruggere tutto il valore ideale che si è attribuito a quel fatto, è impossibile negare che un umanista, educato dal culto dei classici e dei grandi trecentisti ad un arde:, tissituo e quasi moderno sentimento nazionale, sentì l'animo dilatarsi in un'im►ensa speranza, vedendo che agl'italiani neque prudentiam neque animi et corporis vires, nihilque aliud
deesse, nisi bonam tnentem coneordiamque, ut iterum toto orbi
dominarentur » (1). La discordia era la prima fonte di tutti i
mali d'Italia: in ogni suo scritto il Galateo martellò su questa
idea. Gliel'avevano insegnato Dante e il Petrarca: la triste storia di ogni giorno trasformò il loro monito in esperienza vissuta.
Ecco un ah ro carattere del Galateo, sul quale non ci eravamo fermati che di sfuggita: l'amore per l'Italia. Fu proprio
questo ad attirargli nel 1867 — appena apparvero in un sol volume, insieme con gli altri opuscoli, il De Situ Japigiae », il
« De educatione » e il « De Pugna tredecim equitum » — gli entusiasti elogi del Fanfani e del Capuana (.2). < Fu una singolare
inaspettata affermazione del carattere nazionale » scrive il De
Fabrizio ( 3), alludendo specialmente al « De educatione >, e invero il tono alteramente e sanamente patriottico conferisce alle
idee pedagogiche del Galateo un carattere tutto particolare. Il
« De educatione » trovò subito molti illustratori. Il Celesia ne
parlò con calore nella sua « Storia della pedagogia italiana » (4),
dichiarando il Galateo superiore al Vegio, al Vergerio, al Piccolomini e al Filelfo, in grazia appunto della 4 sacra carità di
patria » che ispira unicamente il suo libro. Di molte note lo
corredò il Croce (5), additandolo come « una delle espressioni
(1) De pugna tretlecim equilum. Coli. II, pag. 267.
(2) Coll. III, app., pag. 7 e segg.
(3) Il sentimento nazionale nella Rinascenza. Una voce pugliese. Japigia,
1930, I, 1, pp. 4853
(4) Milano, 1872-74, pag. 205 e segg.
(5) Il trattato «Da educatione di A. G. Giorn. storico lett. ital., XII,
1894, t'. 69, pp. 394 406.
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più efficaci della ripugnanza dell'italiano del Rinascimento al
contatto dei nuovi costumi del popolo spagnuolo ' e facendo
risaltare l'importanza dei particolari concernenti la storia del
costume. Dal punto di vista storico egli se ne valse ancora nei
suoi studi su « La Spagna -nella vita italiana durante la Rinascenza» ( 1 ), sempre per documentare l'atteggiamento dei rappresentanti della cultura italiana contro l'invadenza spagnuola,
da essi giudicata barbarica.
II « De educatione », certo, ha un carattere assai curioso,
al pari di tutte le altre opere del Galateo. 4( Sa dissertation pédagogique est surtout une diatribe » osservava A. Morel-Fatio (2).
AI nostro umanista riusciva assolutamente impossibile sedere a
tavolino e scrivere una sola pagina di astratta teoria, obliando
nella calma speculazione le cure della realtà. Macellò l Scrivere
significava per lui gettare sulla carta tutto ciò che lo angustiava
e lo rallegrava, così, con la massima libertà, senza uno schema
preordinato, seguendo la penna dovunque lo volesse portare,
saltando di palo in frasca, aprendo ad ogni passo delle immense
parentesi che fanno perdere completamente di vista il tenue
filo logico. Per scrivere al suo Acquaviva o al suo Crisostomo
o al suo Sincero di filosofia o di morale o di scienza o di qualsivoglia altra cosa, non s'impaludava solennemente e non saliva
in bigoncia, circondato da mucchi di bene ordinate carte piene
di appunti: si valeva sopratutto della sua esperienza, ed esperienza vissuta era diventata per lui la stessa cultura classica
profondamente assimilata. La più gran parte delle citazioni le
faceva a memoria. Se non ricordava le precise parole degli antichi, non si preoccupava certo di andare a rovistare nelle biblioteche, perciò non aveva il tempo di « volvere volumina ».
E poi, a che sarebbe servito trascrivere una per una le opinioni
dei vari autori I A comporre un libro colle fatiche degli altri I
E se la cavava col consigliare disinvoltamente ad Altilio: — Tu,
si libet, omia perlegito (3) —. Non sappiamo che cosa fossero le
sue opere smarrite che dal titolo appaiono di carattere più stret-
(1) Bari, 1922, pp. 109-122.
(2) Romania, 24 luglio 1895, pp. 477-78.
(3) Coll. III, pag. 285.
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Dina Colucci - Antonio De Perrariis detto il Galateo
231
tamente teorico e tecnico, quali l'« Expositio super Petolomaei
tabulas », l'altra « Expositio in Aphorismos Hippocratis », i
« Problemata », l'« Encrasia » ecc.: i trattati che ci restano non
si potrebbero a rigore inventariare ordinatamente per genere
e materia e disporre ad uno ad uno nel casellario fabbricato
necessariamente dagli storici della letteratura. Il « De educatione » non è esclusivamente un trattato pedagogico, come nel
« De Situ Japigiae » non si parla di sola geografia e nel « De
Podagra » di sola medicina. Dopo le pagine dedicategli dal Celesia e dal Croce, sono state poche le storie della pedagogia
italiana che non abbiano parlato del Galateo (1), facendo risaltare specialmente la difesa dell'integrità italiana e la riabilitazione della letteratura volgare nel campo pedagogico, ambedue
da lui propugnate. Ma la migliore e più suggestiva interpretazione dell'opera del Galateo come educatore si trova nel bel
libro del Vidari su « L'educazione in Italia dall'Umanesimo al
Risorgimento » (2), dove l'umanista leccese è annoverato fra i primi agitatori di un pensiero pedagogico nazionale. Di fronte alla
concezione eudemonistico-estetica, vuota di ogni serio contenuto morale e religioso, del Palmieri, dell'Alberti, di Alessandro Piccolomini, del Castiglione, nella quale era venuta a chiudersi la parabola del pensiero educativo italiano, sorto nel '300
con l'esigenza di una nuova educazione non più meccanicistica
e verbalistica, ma viva e sostanziosa, il Galateo rappresenta la'
reazione in nome (li più forti ed alte idealità morali e nazionali.
Egli è l'uomo «che vive tra le cose, e sente la coltura, come elemento e alimento essenziale di una coscienza operosa rivolta a
fini altamente sociali ». Tanto lui che il Machiavelli si sollevano,
• sotto il pungolo della esperienza vissuta », alla intuizione di
un modo più robusto e più realistico di concepire l'educazione.
Ma il metodo educativo del Machiavelli subordina l'educazione
religiosa, morale e intellettuale alla politica e militare. Più urna-
(1) Cfr. G. B. GERINI. Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XVI, Torino, 1877, cap. I, e recens. di R. RENIER sul Giornale Storico, XXXI, 1898,
pp. 133-135. — Dizionario di scienze pedagogiche, diretto da MARCHESINI, Milano, 1929: articolo sul Galateo di E. TROILO. — BORLA e TESTORE. Manuale
di Storia della pedagogia. Torino, 1935, ecc.
(2) Roma, 1930, p. I, S. II, c. 20.
Rinascenza Salentina
232
nisticamente larga e armonica è invece la concezione del Galateo.
Quella ch'egli sogna pel suo principe giovinetto è davvero
una « institut.io italica », che sviluppi in sano equilibrio tutte
le facoltà dell'individuo. Il suo programma educati vo è svolto
in tre o quattro pagine, che però contengono più cose che non
tutti i voluminosi trattati pei suoi contemporanei. Fra le grandi
linee di quel piano pedagogico, schizzato così alla buona, circola l'aura vitale che si respirava nei giardini della Casa Gioiosa.
Invero, se andiamo cercando a quale dei pedagogisti italiani
del '400 si avvicini di più il Galateo, è la simpatica figura del
Feltrense che ci si fa subito innanzi. In quello spronare il fanciullo a saper gustare la bella natura, i « cantus avium » e la
« dulcis aurorae amoenitas ( 1 ) i. a temperar la severità degli esercizi ginnici e della caccia alle fiere colla soavità della musica,
condendo di sale italico i modi francesi, troppo concitati e tumultuosi, e quelli spagnuoli, troppo languidi e snervati ( 2); in
quell'esporre criteri così larghi e così alieni da pedanteria in un
programma di studio che comprende « res gestas heroum et
exempla maiorum et naturalium rerum historiam et moralis
philosophiae praecepta » ( 3); nel raccomandar modesta e parca la
mensa, ben distribuita fra lo studio e l'esercizio fisico la giornata, nell'inculcare l'odio per ogni menzogna (« nunquam aut
ioco aut serio mentiatur ») o la necessità di pregare sinceramente, con cuore puro, senza ambizione o ipocrisia, si coglie
l'affinità spirituale che lega il nostro umanista al principe degli educatori quattrocenteschi. Ma lo stare a contatto col popolo preservava il metodo del Galateo dall'estetismo e dall'aristocraticismo latente in quello di Vittorino. II Vidari ha notato
quello che di reazione al proprio tempo c'era nell'anima del Galateo. L'inquadramento sarà completo se comprenderemo come
egli anche si riallacciasse alla vecchia tradizione, pentirò forse
noli si sentirebbe proprio a suo agio se lo lasciassimo in compagnia del solo Machiavelli. Il suo « De educatione » che da
(1) Coll. II, pag. 145.
(2) Ivi, pag. 152.
(3) Ivi, pag. 146.
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una parte mette a profitto l'anteriore esperienza pedagogica
umanistica, e dall'altra si protende verso i nuovi tempi, dimostra come i migliori umanisti, i più coscienti, i più forniti di
senso storico, quelli che avevano saputo unificare nel proprio
spirito gl'insegnamenti umani del inondo classico col tesoro della
tradizione cristiana, e questa loro delicata esperienza interiore
arricchivano con l'operosità multiforme, con l'interesse vivo ai
massimi problemi religiosi, morali, politici del tempo, sapessero
assurgere ad una robustissima coscienza d'italianità, alla intuizione di un pensiero pedagogico che solo diversi secoli più tardi
potè pienamente svilupparsi e trovare attuazione (1),
(1) Del ,De educatione» e degli altri opuscoli pedagogici del Galateo
si sono occupati a lungo anche il DE FABRIZIO: Le idee pedagogiche di un
accademico ponlaniano. Riv. di filos. e se. affini, A. III, 1891, Vol. V, n. 5;
A. De F. pensatore ecc., pag. 92 e segg.; e G. VAGLIO. A. G. nella morale
e nella pedagogia. Lecce, 1914.
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Cap. VII.
Il " De Situ Japygiae " e la sua storia esterna. Il Galateo
geografo. Il Galateo medico.
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Ecco il nostro umanista, ormai ritirato definitivamente —
salvo qualche sporadico viaggetto a Roma o a Bari — nella sua
terra natale, accingersi a descriverla al suo amico Giovambattista Spinelli, conte di Cariati, celebrità giuridica, diplomatico
nato » (1), genero di Tristano Caracciolo che lo amava moltissimo e ne scrisse la biografia. Dato il carattere dello scrivente,
ed anche il gusto del destinatario, già si sa che il • De Situ
Japygiae » non sarebbe stata una più o meno ordinata aridissima compilazione, in cui si desse fondo a tutte le conoscenze
degli antichi su Terra d'Otranto, e basta. Infatti, • Spinelle, vir
excellentis et animi et ingenii — dichiara il Galateo dopo poche
pagine -- non alibi cura est omnia exquisite narrare, quae auctores scripsere, sed summatim aliqua, ut tibi morem gerani, et
ut philosophum, non ut historicum decet (2). Scriverà dunque
da filosofo e non da storico: ricordiamocene, se vogliamo. ben
giudicare e apprezzare il trattatello. Le fonti sono: Strabone,
Dionigi, Potnponio Mela, Tolomeo, Plinio, Livio, Stefano di Bisanzio e, fra i più recenti, Guido di Ravenna: son citati talvolta
Galeno, Ippocrate, Plutarco, Teofrasto, Avieenna, Averroè, Alfragano, Alberto Magno; spessissimo Aristotele, caro all'autore.
Ogni tanto fanno capolino i prediletti poeti: Virgilio, Lucano,
Orazio con la sua ode del • Dulce fiumen Galesi »; un ricordo
catulliano si affaccia in quali'« insularum omnium peninsularumque ocellus ì, affettuoso epiteto con cui il Galateo accarezza la
sua terra salentina (3). Ma quel che egli attinge dalle fonti geografiche e storiche è pochissimo, in sostanza: spesso menziona,
soltanto, gli autori antichi che si occuparono della tale o tal
altra città, senza riportarne l'opinione. In massima parte, il « De
Situ Japygiae » è originale e « in ciò sta il suo valore, poichè è
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(1) GOTHEIN, op. cit.
pag. 26.
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(3) Coll. II, pag. 12.
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una garbata, esatta, e qua e là vivace rappresentazione delle
condizioni di Terra d'Otranto al principio del secolo XVI, rappresentazione che è un prodotto dell'esperienza personale dell'autore » (1). Aveva ragione chi notò che la lettera a Luigi Paladini è un'introduzione al < De Situ Japygiae » (2): quel breve
documento c'indica con quali intendimenti il Galateo compose
il suo opuscolo e ci colloca nell'esatto punto di vista, da cui lo
dobbiamo guardare. « Duolmi, o mio Paladini, che la celebrità
della nostra regione sia cosi decaduta, che, per quanto in più
luoghi si scorgano le vestigia e, per così dire, i sepolcri di grandi
città, pure nessuna memoria ci avanzi nè delle imprese, nè delle
città stesse, nè di quei caratteri particolari di cui i nostri Japigi (da notare il possessivo) si servivano, prima che qui giungessero i Greci, dopo la caduta di Troia ». Così vanno le cose
mortali, e tutto logora e distrugge il tempo. Una furia ininterrotta di guerre si è abbattuta su queste città, tutto distruggendo e desertando. Perdute le opere degli storici più antichi,
quali Eratostene, Artemidoro e Ipparco: Strabone, Dionisio, Plinio ecc. già non possono dirci più nulla. «Sebbene abbia svolto
parecchi libri di antichi geografici e storici, poco ho trovato
degno di nota »: qualche cosa su Taranto, qualche cosa su Brindisi; tutto il resto è perito. Le antiche città messapiche son consunte da vecchiaia. Guido di Ravenna « nec recens nec vetus
auctor » ci dà qualche notizia interessante sulla storia pugliese
durante i tempi di mezzo: « Tu vero illum legar, ut et tibi ipsi
fidus sis testis ». Difficil cosa è raccontare quel ch'è ormai caduto dalla memoria degli uomini: « nos tamen quoad possumus
patrium solum illustrare debemus » (3).
Carità patria, desiderio di riunire le «frondi spade », culto
amoroso delle scarse reliquie di un remotissimo passato di grandezza, struggimento di non poter sapere nè dire di più: ecco il
movente e lo spirito segreto del « De Situ Japygiae ». Si potrebbe osservare che in fondo questo spirito è il patriottismo
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(1) R. ALMAGIA. Le opinioni e le conoscenze geografiche di A. de F.
3—•
Rivista geologica italiana, XII, 1905, pag. 461.
(2) E. AAR: Gli studi storici in Terra d'Otranto. Firenze 1888, p. 11 e
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(3) Coll. IV, pag. 134 e segg.
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Rinascenza Salentina
236
locale che animava fin da vari secoli tutte le cronache italiane (1).
Si, ma nel « Do Situ Japygiae » esso ha un colorito tutto speciale. I cronisti, quando volevano celebrare le vetuste origini
della propria città, non risalivano più in là di Roma o di Troia,
e, specialmente nel secondo caso, andavano sempre a cascare
nel dominio della leggenda, più o meno allettante o suggestiva.
Anche il Galateo s' intrattiene a favoleggiar di Diomede e di
Idomeneo p izio, ma sa (li poter orgogliosamente dichiarare che,
prima che Enea approdasse alle basse coste otrantine, prima
che i Greci muovessero all'assedio di Troia, già nella sua terra
fiorivano popolose città, i cui abitanti parlavano una strana lingua e si servivano di strani caratteri. Dagli scavi praticati intorno a Baleso o a Vaste egli vedeva tornare alla luce urne cinerarie, vasellame antico e bronzi e iscrizioni: la nuda storia
qui ammaliava più di qualsiasi bellissima leggenda.
In un rapido esame dell'opuscoletto rileveremo il contributo
apportato dal Galateo alla conoscenza geografica della sua regione. Nelle notizie generali che premette c'è già qualche cosa
d'interessante (2). Il geografo troverà le misure di distanze prese
da Strabone e ridotte dallo stadio greco nel miglio romano — è
riportato anche qualche dato di navigazioni più recenti — e una
discussione sul quarto clima, nella quale il Galateo, accettando
l'opinione tolemaica e respingendo quelle di Avicenna ed Averroé, coglie l'occasione per rimproverare ai nostri di aver voluto attingere la filosofia e la medicina dai « turbidi rivuli barbarorum », anzicchè dai • purissimi fontes » greci. Altri invece
preferirà fermarsi a considerar la nostalgia con cui il Galateo
si volge verso il buon tempo antico, quando l'Italia meridionale costituiva il centro del mondo, allora tutto greco; adesso
che per la discordia dei greci coi latini e per la conquista turca
l'unità si è spezzata, quella che altre volte fu chiamata la Maglia Grecia non è più che un piccolo sperduto angolo d'Europa.
Già compare quello che sarà il motivo dominante del piccolo
trattato: l'amara meditazione sull'incostanza della fortuna e sulla
caducità delle umane cose. Passa a descrivere l'eccellenza dei
(1) BURKHARDT, O. e., VOI. I,
(2) ALMAGIA, O.
e., cap. VI.
pag. 200; II, pag. 89.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo --;›
237
prodotti vegetali, ma brevemente, chè più gli preme far notare
il mite carattere degli abitanti. La temperie del loro clima li
rende temperati anche nell'animo, umani e intelligenti. E qui
una lunga parentesi per dimostrare che la mansuetudine conviene all'uomo più che l'ardore bellico e che i re dovrebbero
essere inermi. Curioso principio, che si trova anche nen'« Esposizione del Pater Noster ». Il Machiavelli non la pensava così,
ma in fondo tanto le considerazioni sue che quelle del Galateo
rampollavano dalla stessa esperienza e miravano ad eliminare
dalla vita politica italiana con metodi diversi ed egualmente
utopistici (date le condizioni storiche, anche quello del Machiavelli era praticamente inattuabile) lo stesso gravissimo inconveniente: le milizie mercenarie, troppo legate all'interesse particolare del signore che le assoldava. Dai re si passa ai papi:
a S. Pietro fu dato esplicito comandamento di riporre le armi,
ed ora egli, acquistatosi il dominio, si è abituato a maneggiarle
e a suscitare le guerre, confondendo quello che è di Dio con
quel che è di Cesare. Qui il tono è diverso da quello della lettera a Giulio II. Eppure non era trascorso molto tempo, se pel
viaggio a Roma e pel • De Situ Japygiae » accettiamo le date
proposte dal Barone (1510 e 1511 rispettivamente). Come il fiero
pontefice, in tutt'altre faccende affaccendato, aveva accolto l'omaggio del nostro umanista Cos'era questa pretesa copia autentica della • constitutio » di Costantino I E fu davvero presentata a Giulio II E vi fu qualcuno che in una corte papale
del '500 prendesse sul serio una così anacronistica riesumazione I Sono interrogativi ai quali forse sarebbe interessante poter
trovare una risposta, che ci aiuterebbe anche a ricostruire la
« fortuna » del libello del Valla (1).
Intanto il Galateo parla della fauna salentina, e propriamente di quella nociva: tarantole, serpenti, bruchi (2). Sono tutto
osservazioni originali, che egli corona col solito ragionamento
sulla sapienza della natura, che nulla fa invano, e sulla necessità di accettare da Dio, insieme cogl'innumerevoli beni, anche
(1) Cfr. PASTOR. Storia dei Papi. Desclèe 1910. introd., pag. 21.
(2) A proposito del « nunc bruchi rediere » (Coll. II, pag. 17), si osserva
che le Cronache di ANTONELLO CONIGER menzionano delle grandi invasioni
di « brucoli » in Terra d'Otranto nel 1504 e nel 1505 (ediz. cit. pp. 516-18).
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Rinascenza Salentina
quelli che a noi sembrano mali: — Ti lamenti dei ragni, deí bruchi e delle mosche Va un po' a vedere cosa succede nella Scizia
o presso gl'Iperborei o nell'Etiopia. Qui nessuno fin ora è morto
di fame pei bruchi. -Non ci sono fiumi, ma nessuno soffre la
sete, nè la piena ti porta via le stalle con tutti gli armenti.—
Taranto: il Galateo fa il nome di alcuni autori che se ne occuparono, ma nella descrizione della città Ball' « imperiosus
prospectus », che « sedet superba inter duo maria », si vale sopratutto di ricordi personali: fra l'altro accenna al bacino fatto
scavare dagli aragonesi e al giudizio dato su Taranto dai turchi
e dai francesi. Il ricordo della « politia » tarantina e del rimprovero del romano Fabrizio provoca un paragone colla realtà del
XVI secolo: la ricchezza è causa dì depravazione: anche noi
cristiani, dacchè siamo diventati ricchi, siam giunti all'apice
dei vizi, ed è strano come gli uomini e gli dei ci sopportino
ancora. Tralasciate le testimonianze degli autori classici intorno
a Taranto, riporta invece le poche parole di Guido da Ravenna.
E' caratteristica l'importanza attribuita dal Galateo alle dichiarazioni di questo storico, e il motivo che ne adduce: solo la storia che non è troppo antica nè troppo recente, riesce a interessare, perehè l'una va a finire in favola e nessuno ci crede,
« ut quae Viterbiensis de Beroso et Petosyri et Necepso somniat » (da notarsi questo giudizio su Annio Viterbense), e l'altra è risaputa da tutti noi. « Coneupiscimus historias medii temporis »: per questo egli cita Guido, autore medievale, sebbene
sappia che non gli si deve credere se non per quel che ha visto
di persona, possedendo egli scarsa cultura greca e non avendo
letto i buoni autori. Quanto. al disprezzo per le nebulosità mitologiche e la brama di notizie ben fondate e controllabili, dimostrati dal Galateo, sono una conseguenza del cambiamento
d'indirizzo avvenuto nel campo degli studi storici nella seconda
metà del secolo XV; ma il Galateo ha pure delle intuizioni che
oltrepassano i concetti definitivamente acquistati dalla critica
a lui contemporanea, preannunziando quello che sarà il metodo
dei grandi storici del '500. Parecchi anni prima, scrivendo a
Marino Brancaccio, aveva dichiarato: « Qui nescit quaerere, ne-
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
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si può far certo di lui un Cartesio avanti lettera, ma, usando
il solito granellino di sale, si può riconoscere ch'egli comprendesse la virtù del dubbio e la necessità di ricostruire sull'esperienza diretta il patrimonio culturale degli antichi. In quegli
anni scriveva al Leoniceno: « Semper philosophis fuit contradicendi libertas. Non sunt nobis datae leges quibus obedire cogannis » ( 2). Gli si potrebbe obiettare che anche lui aveva indulto al costume (lei medievalisti quando, nel « De Gloria contemnenda », aveva detto all'Acquaviva di non voler scrivere nè
di fisica nè di etica ecc., per non ledere i mani di Aristotele,
poichè allo Stagirita • non c'è nulla da aggiungere o da togliere » (3). Così è: dal nostro Galateo, come da tutti i quattrocentisti in genere, dobbiamo accontentarci di accettare intuizioni
confuse, baleni fuggitivi. Ci basti che essi riconoscano e pongano per primi i problemi le cui soluzioni costituiranno i gangli
vitali delle generazioni venture: non possiamo chiederne loro
la comprensione chiara nè pretendere sistemi compiuti. Abbiamo chiamato la posizione del Galateo empirismo storicista. La
definizione può sembrare una contraddizione in termini, e forse
non è esatta: ma non saprei che altro nome dare a questa situazione intellettuale. Il nuovo spirito del secolo — in quella
seconda metà del '400 erano fioriti il Pulci, il Toscanelli, Leonardo — si manifesta nella disinvoltura con cuì il Galateo si
sbriga in poche parole della famosa profezia di S. Cataldo:
....« plumbens libellus de quo tot et tanta narrata sunt in toto
orbe christiano » (4), che intorno alla Pasqua del 1492 aveva levato a rumore l'iutiero Regno di Napoli.
E' tutta originale la breve descrizione della costa fra Taranto e Gallipoli. L'origine greca di questa città è difesa contro la gallica assegnatale da Plinio. La vista delle mura e del
castello specchiantesi nel mare suscita il ricordo dell'eroiche difese da Gallipoli sostenute contro i veneziani nel 1484, contro
i francesi di Carlo VIII nel '94, contro gli spagnoli ed i fran(1) Coll. III, pag. 7.
(2) Coll. III, pag. 48.
(3) Coll. III, pag. 87.
(4) Coll. II, pag. 28.
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Rinascenza Salentina
tesi di Luigi XI nel 1501. Poco prima il Galateo aveva dichiarato che la storia recente no» interessa: che importa ? Adesso
ha cambiato opinione: « Quando eorum, qui in extremo Italiae
amido latent (1), virtus et fides oblivioui ac silentio datur, nos
ipsi Callipolis et Hydrun ti fortia fatta non taceamus » (2): sí
tratta di offrire all'Italia un esempio di fortezza civile, e il Galateo non esita. La storia ha un fine morale e altamente educativo: è questa veramente la sua idea madre e ad essa rimane
sempre fedele. Ecco il devastato cenobio di S. Nicola: la paginetta che gli dedica il Galateo è tutto quel che sappiamo intorno a questo antico centro di studi. Segue un po' di storia
di Otranto sotto i bizantini (fu allora che tutta la penisola salentina cominciò ad essere compresa sotto il nome di Terra d'Otranto). La storia d'Italia nel periodo bizantino e longobardo
il Galateo mostra di conoscerla abbastanza bene. Curioso però
il fatto che non ne citi mai le fonti: forse la sua cultura non
arrivava fino a Paolo Diacono, ma Procopio probabilmente lo
aveva letto. Quanto alla storia più recente, del '200 e '300, la
conosce solo nelle grandi linee: nei particolari dimostra spesso
molta incertezza; anche per quel che riguarda il Regno di Napoli. Neppur di essa cita le fonti: del resto farà lo stesso anche il Marciano, che generalmente è invece minuziosissimo per
quel che riguarda la citazione degli autori di cui si vale. La
leggenda narrava che Otranto avesse preso per insegna il mitico serpe che ogni notte saliva sulla torre del Faro a succhiar
l'olio dalla lampada. Il Galateo, uomo serio e non incline alle
« fabulae », ci tiene a metter le cose a posto: il fiume Idro aveva
dato alla città il nome — adduce la testimonianza di Tolomeo —
e l'insegna. Come chiamare il mare di Otranto, Adriatico o Jonio ? Le opinioni degli autori classici sono divergenti: il Galateo
ne enumera alcune, ma si stanca presto e se ne libera con una
scrollata: « confusio nominum perturbat rerum scientiam.... Nos
de nominibus non curemur, custodita rerum notitia » (3). Quel
(1) In « latent » è da correggere, sulla fede dell'ottob. 1922, il « Luceriae » dell'ediz. basileense del 1558, da essa derivato in tutto le edizioni posteriori che la seguirono, compresa la leccese del 1867.
(2) Coll. II, pag. 30.
(3) Coll. II, pag. 39.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
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che non bisogna ignorare è l'eroica difesa di Otranto contro i
Saraceni e il martirio degli Ottocento per la patria e per la
fede. Anche questa è storia recente, ma chi ci bada? Nel semplice scultoreo racconto latino dell'umanista, essa attinge lo
splendore dell'epopea. Compose il Galateo una storia della guerra d'Otranto? Forse sì, ma non possono esserne traduzione quei
« Successi dell'armata turchesca nella città di Otranto nell'anno 1480 e progressi dell'esercito ed armata condottavi da Alfonso ecc. », gabellati come tali dall'autore Giovati Michele Marziano, canonico otrantino W. La questione — molto complicata —
che sorse sulla loro autenticità, e alla quale parteciparono anche il Muratori e il Gregorovius, fu riassunta da L. G. De Simone ( 2). Alla bibliografia addotta da lui c'è da aggiungere un
nome, quello di Armando Perotti, il quale, riconoscendo che l'operuccia del Marziano è una falsificazione e una raffazzonatura,
fatta per esaltare qualche famiglia del luogo, rimpiangeva la
perdita della storia composta « quasi certamente » dal geniale
umanista: « Peccato:— ci rifaremmo la bocca e lo spirito leggendo,
in quel suo forbito latino, il racconto vivo di cose vedute e
sofferte » (3).
Originale è l'esattissima descrizione del lago Limini. Ecco
ricostruita con amore la storia di Roca e confutato l'errore di
Tolomeo che la identificava con Lecce. Poco più oltre, l'accenno
alla Specchia Gallone, ai « cumuli lapidum » e ai « cumuli ex
terra », così frequenti nella regione salentina, è servito al Teofilato per ricavarne la distinzione di tre tipi di Specchie esistenti
o esistite iu tutta la Puglia: la « Specula », castello, fortilizio,
tutta di nude pietre; la « Spelunca », Specchia dall'aspetto cavernoso; il « Tumulus », specchia funeraria di terra (4). Poi il
Galateo s'indugia intorno al porto di Brindisi, sagace opera
della natura « ludentis et providae »: la malaria secondo lui vi
si è sviluppata in seguito allo spopolamento ed anche all'in-
(1) Copertino, per DEVA 1583; Napoli appresso L. SCORIGGIO 1612; Lecce,
Coll. XVIII, 1871.
(2) E. AAR, op. cit., pag. 87 e segg.
(3) Storia e storielle di Puglia. Bari, 1923, pag. 248.
(4) C. TEOFILATO. Analisi e critica del passo galateano sulle Specchie. Nel
Gazzettino, A. VII, n. 28, 13 luglio 1935.
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curia dei cittadini; ecco perché i greci non costruivano se non
piccole città. Della testimonianza di Guido di Ravenna e di alcuni fatti della storia recentissima si vale per documentare l'integrità e la fedeltà di quella regione, « quae non visi veris imperatoribus parere solita est » W. Un rapido schizzo di Oria,
città montana, e poi subito anche per lei un ricordo di fortezza: la strenua resistenza opposta all'assedio spaguuolo. Eppure,
i difensori erano pochi e le mura distrutte: questo dimostra che
i regni e le città possono essere difesi solo dalle braccia degli
uomini e non da torri e fossati. Avevano forse ragione gli spartani e torto Aristotele (notare questi continui riferimenti all'antica vita greca, molt~pportuni riguardo a un paese dove
la tradizione greca era così viva): essi non vollero la loro città
chiusa da mura, affinché i cittadini fossero sempre pronti a correre alle armi. Non altrimenti giudicavano gli antichi quando
volevano che nulla si affidasse alla carta, per non divenir smemorati: ora è tanta la quantità e la voluminosità dei libri, che è
impossibile tenere a mente, nonché le parole degli autori, neanche i lor nomi. Egli non condanna i libri in sè stessi, ma l'« inanem immensitatem • di tutti i volumi che ogni giorno vengono
alla luce, scritti solo per arroganza e per dar da mangiare ai
tipografi; così, non condanna certo le fortificazioni, « sed hoc
mihi semper persuasum velim, quod nostris malis didicimus:
nihil nobis tot sumptus, tot munitiones profnisse, solamque eam
arcem ( 2) tutissimam esse, quam valentes volentesque tutantur » (3). Ritorna ad Oria. Ecco Casalnuovo: ma più che la borgata a lui interessano le rovine sulle quali è sorta, e quelle di
Baleso, coperte di primi, e qua e là le superstiti traccio della
via Traiana. Poco discosto sorgeva la sua villetta, ed ivi un
giorno era corso a chiamarlo un contadino che, scavando un
pozzo, aveva trovato tavolette di candido marmo: erano i resti
di sontuosissime terme. A poche miglia ecco un altro centro di
lavoro e di studio, già nel '500 squallido e deserto, « come tutto
ciò clic viene iu potere dei principi dei sacerdoti »: il tuona(1) Coll. II, pag. 53.
(2) Così è da correggere l'« artem » delle edizioni dipendenti dalla basi leense.
(3) Coll. II, pag. 56.
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stero basiliano « de Ceratis ». Un po' più oltre, ancora rovine:
Rudiae, la patria di Ennio. Strabone dichiarava di occuparsi
solo delle città fiorenti e popolose ai suoi tempi; il Galateo non
approva: preferisce aver notizia di quel che un tempo fu grande
ed ora le vicissitudini del tempo hanno coperto di solitudine e
« Meglio credere alle menzogne, che non esistettero,
degli antichi, che alla verità dei moderni; meglio seguir la negligenza di quelli, che l'oscura diligenza di questi ».
Evidentemente, il « De Situi Japygiae » è germogliato da
uno stato d'animo pessimista. Il Galateo non ha più nessuna
fiducia in quello che è pensiero e, quel che più importa, sentitnento moderno. Questo suo cercar le rovine non è soltanto
un voler assegnare un blasone di nobiltà alla propria stirpe:
esse prestano sopratutto un tranquillo rifugio alla sua meditazione tutta protesa verso il passato; costituiscono l'austero scenario, che i fantasmi delle lontane età sorgono a popolare. Se
nel 1496 la Puglia gli sembrava un esilio e la mente irrequieta
rimpiangeva la spiaggia ridente di Mergellina e Posillipo, ora
la vita nella capitale non gli fa più gola: non ci si troverebbe
più. Cadute le speranze in un ritorno degli aragonesi, cadute
quelle in Ferdinando il Cattolico, cadute anche quelle in Giulio II, dal quale il Galateo si attendeva molto più di quel che
i tempi e il carattere e gl'intendimenti del della Rovere consentissero, l'orizzonte politico dell'umanista torna a restringersi, a raccogliersi intorno a quel lembo di terra italo-greca,
donde un tempo la sua giovinezza aveva spiccato il volo verso
il gran sogno di restaurazione imperiale romana. Ora al suo animo in ascolto parla con voce più intima e suadente la poesia
della solitaria campagna salentina, dove l'aratro urta contro
gl'ipogei messapici, dove l'elce e l'ulivo stormiscono intorno ai
megaliti millenari, dove la terra custodisce con egual cura amorosa i semi delle messi e le argille e i bronzi della protostoria.
Difendere i miseri avanzi del patrimonio di grecità ereditato
dagli avi: ecco adesso il suo ideale. Il tono un po' agro che
adopera verso i « principes sacerdotum » forse deriva anche da
questo, che alcuni « circumforanei mendicantes latini » — quegli stessi che tanto spesso nelle sue opere ha accusato d'ipocrisia — avevano perseguitato i sacerdoti cattolici di rito greco,
sollevando una lunga disputa intorno alla questione del pane
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azimo e fermentato, questione che si era finito col portare a
Roma (1). L'appassionata difesa della grecità culmina in uno
sfogo, che a dir vero non ci aspetteremmo: — O Spinello, io mi
vergogno d'esser nato in Italia. Ls Grecia perì per vecchiaia
e per avversa fortuna, l'Italia per sua deliberazione e per le
sue discordie. L'una e l'altra servono agli stranieri, questa spontaneamente, quella costrettavi. La Grecia spesso liberò l'Italia
dalla schiavitù dei barbari, l'Italia permise che la Grecia servisse ai barbari. « Sed nos sedermi] nostrornm poenas luimus
luemusque; nam nostra mala, ut vidimus, nondum ad summum
pervenere. Non sit verbo omen; dico non quod volo, sed quod
sentio » (2). E' questa sul serio una rinnegazione dell'Italia Anche il Gothein giudicava di no. Chi conosca qual fremito di
italica fierezza abbia avvivato l'opera del Galateo, comprenderà
quale affetto doloroso si nasconda sotto le parole sdegnose.
Andiamo avanti nell'itinerario japigio. Dopo aver rivendicato
a Rudie di Lecce — identificata per mezzo delle iscrizioni scoperte in quel territorio — il vanto di aver dato i natali a Quinto
Ennio (adesso, dopo qualche incertezza, si è !tornati all'opinione
del Galateo) si passa a Lecce. L'autenticità del nome Lupiae è
dimostrata sulla scorta di un'iscrizione vista a Napoli in Santa
Maria della Libra e riportata per intero: si deve riconoscere
che il Galateo è stato uno dei primi a ricercar fonti epigrafiche, onde servirsene nella ricostruzione della storia del suo paese.
Poco più oltre, però, afferra un granchio: attribuisce l'anfiteatro
romano di Lecce (gli « arens, cuniculi, forniees .) e le circostanti
costruzioni antiche a Idomeneo, anzi agli antichi Japigi e a
Mallennio. Però il De Ferrariis ha viste chiaramente due cose:
che Japigi e Messapi avevano un'identica origine etnica, e che
questa non era greca (3). Inoltre, egli afferma che la tradizione
poetica che fa risalire le colonie greche del Salento a Idomeneo, re di Creta, è confermata indirettamente da Aristotele, che
assegna ai Cretesi il dominio delle isole greche e di tutto l'Egeo.
Le fonti antiche che fanno menzione di Lecce — Plinio, Stra-
(1) Coll. II, pag. 89.
(2) Ivi, pag. 82.
(3) Coli. II, pag. 66.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
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bone, Tolomeo sono discusse con molta accortezza; per descriver le condizioni di Lecce nel Medio Evo son citate le brevi
esatte righe di Guido di Ravenna. Originale è la vivace e abbastanza particolareggiata descrizione della campagna leccese,
della città e del caratteristico materiale da costruzione. Nello
schizzo di storia leccese sotto i Normanni, gli Svevi, i Brienue,
gli Enghien e gli Orsini, c'è al solito qualche inesattezza: Tancredi è detto nipote di Roberto il Guiscardo, mentre era pronipote di quel Ruggero incoronato re di Sicilia nel 1130, del
quale Roberto il Guiscardo era zio. Gualtiero VI di Brienue è
confuso con Ugo, suo avo, nominato conte di Lecce da Carlo
d'Angiò. Maria d'Enghien è fatta nipote di Gualtiero VI per
parte (li una figlia, mentre lo era per parte di una sorella, e il
Galateo racconta ch'ella ricuperò il teschio di Gualtiero VI e
lo fece seppellire nella Cattedrale di Lecce, mentre invece si
trattava (li Gualtiero V (1). Il Galateo pone in rilievo l'attaccamento conservato da tutte queste città salentine agli aragonesi.
La ragione è evidente: scriveva a un gentiluomo che i d'Aragona
avevano favorito ed innalzato, ed egli stesso, del resto, ancora
dopo la caduta della dinastia, aveva continuato ad essere assistito, con mecenatismo se non lauto simpatico, dalla vedova e
dalla sorella di Ferdinando II.
Ecco S. Pietro in Galatina: città nuova « sed honestis civibus culta »Al Galateo, da uomo pratico, ne loda la posizione
centrale, adatta ai commerci. Ecco la contrada di Muro, disseminata degli avanzi delle mura messapiche: quanto alla città
che esse circondavano, • aut aratur aut olivis et ilicibus obumbratur » (2). Ecco i sepolcri di Vaste e l'iscrizione misteriosa che
egli a ragione giudica senz'altro, per primo, messapica: la ricopia
accuratamente e l'inserisce nel suo manoscritto: « Solae enim
hae reliquiae sunt tam longae vetustatis ». Dopo un breve accenno alle rovine di Montesardo e Vereto, ad Ugento, città vescovile, e al suo Ninfeo, ci conduce finalmente alla sua Calatone. Per quanto il nome sembri accennare ai Galati dell'Asia,
egli insiste sull'origine tessalica della città. Da lui attingiamo
(1) BRIGGS: Nel Tallone d'Italia. Lecce, 1913, pag. 115-170.
(2) Coll. II, pag. 76.
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notizia della guerra che si svolse tra i vicini villaggi di Calatone e Fulciguano — ambedue di origine greca — portandoli a
fondersi in una sola borgata. Ecco la descrizione idilliaca del
patrio « ager apricus semper vernans fioribus » e, a proposito
della caratteristica produzione del croco, la questione — in cui
forse c'è la rimembranza di un passo delle Georgiche — se tutto
ciò che ora è sativo sia stato un giorno selvaggio. Il padre del
Galateo aveva preso parte alla guerra tra il Cablora e Giovann'Antonio Orsini, parteggiando per la regina Giovanna, come
tutti i galatonesi: qui è riportata la lettera che, dopo la vittoria dell'Orsini, egli mandò dall'esilio al suo antico avversario.
La lettera non c'entrebbe col fine principale del • De Situ Japigiae », ma è un capolavoro di dignitosa e magnanima apologia e si capisce come il nostro Galateo non potesse rinunziare ad inserirvela. Tra i vari nomi latini di Nardò, egli ritiene autentico quello di « Neritum », per la testimonianza di
una lapide scoperta in territorio leccese. E' da notare la menzione (lei fenomeni carsici nell'agro lievitino. I fantasmi che il
popolo credeva di veder sorgere dalle paludi di Nardò e dai
campi di Mauduria e Copertino sono accomunati in un sol disprezzo con tutte le altre superstiziose credenze, antiche e moderne, orientali e occidentali, di streghe, vampiri, larve, ecc., e
attribuiti a deliri della stolta mente umana. Il Galateo è il primo a spiegare con la teoria della riflessione, delle cui leggi ha
una visione chiara, il fenomeno della Fata Morgana, che aveva
fatto talvolta impazzir dal terrore le popolazioni marittime pugliesi, presentando loro dall'oriente l'avvicinarsi di innumerevole flotta turca. A lui, infine, siamo debitori di quel poco che
sappiamo intorno all'antica scuola greca di Nardò, il maggior
centro di studi della regione per tutto il Medio Evo e buona
parte del Rinascimento. La testimonianza dell'umanista riguardo
a Nardò e all'abbazia casolana, insieme con quella dei numerosissimi codici greci di Puglia sparsi per il mondo ci per-.
mettono di correggere, per quel che si appartiene al Salento,
il giudizio dello Zabughin, che cioè il Mezzogiorno, la terra più
(1) Cfr. VACCARI. La Grecia nell'Italia Meridionale. Studi letterari e bibliografici. In Orientalia Chrisliana. III, 19'25, 3.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
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247
classica fra le regioni (l'Italia, nulla abbia dato, tranne Barlaamo e Leonzio Pilato, per la cultura ellenica dell'occidente (1).
Con un saluto affettuoso alla città che aveva educato e protetto la sua adolescenza, il Galateo chiude la piccola opera.
Il « De Situ Japygiae », data la sua originalità, costituisce
una fonte preziosa per la conoscenza geografica e storica di
Terra d'Otranto. Non c'è stato in seguito corografo di questa
regione che abbia potuto prescinderne. Dopo il Galateo, Girolamo Marciano fu il secondo a occuparsi di corografia salentina nei suo Descrizione, origine e successi della provincia di
Terra d'Otranto » ( 2 ). Scorrendo il volume, si trova spesso citato
l'umanista di Galatone: talvolta -- anche — il Marciano attinge
da lui senza citarlo. Dal Galateo derivano, fra l'altro, le considerazioni malinconiche sull'antico splendore della Japigia e sull'incostanza della fortuna (p. 2 e segg.); egli è citato come fonte
per la storia del Santuario di S. Pietro della Vaglia (pp. 85-86):
alle misure da lui date è prestata maggior fede (pp. 138-139),
sua è l'asserzione che la natura del paese influisca sulla natura.
degli abitanti e che dalla temperie del clima derivi quella dei
costumi (p. 143); sua la spiegazione assegnata al fenomeno delle
« mutate » (p. 201); è citato ancora a proposito della sorgente
sulfurea di Santa Maria presso Nardò (p. 359) e della battaglia
fra gallipolini e veneziani (p. 364); è riportato quant'egli aveva
scritto intorno a Leuca, alle grotte di S. Cesarea, a Vadisco,
al monastero di Casole, al lago della Limbi:, a Rocca, al castello di S. Cataldo, alle Specchie (pp. 366-67, 375-78, 385, 39495, 397-98), a Manduria, ai fenomeni carsici, alle rovine di Baleso, al Cenobio di Cerrate (pp. 460, 464, 466, 468), a Nardò (pagina 483 e segg.). Anche se non è citato appare l'influenza dell'opuscolo del Galateo nella descrizione del porto di Brindisi e
della chiusura fattane da G. A. Orsiní (p. 398 e segg.) e in quella
della campagna galatonese (pp. 489-90). Nel capitolo 20° del libro IV (pp. 491-93) si parla di lui, col solito miscuglio di notizie
esatte e inesatte (il Marciano lo fa vivere dal 143i al 1530 !).
Lo cita ancora a proposito di Ugeuto, Vaste, Montesardo, Ga-
(1) V. ZABUGHIN.
(2)
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Rinascenza Salentina
248
latina, Soleto, e della storia più antica di Lecce (pp. 494-501,
513). Sulla sua fede dichiara falso (mentre invece è vero) quanto
avevano scritto Matteo Villani e Peregrino Scardino intorno
alla morte di Gualtiero di Brienne duca d'Atene (p. 538). A
p. 29 è l'iscrizione in lettere messapiche riportata dal G. nel
De Situ Japygiae. Talvolta il Marciano si discosta dall'opinione
del Galateo; ritiene ad esempio che Cesarea sia stata distrutta
non dai gallipolini, ma dai goti e saraceni (p. 358); e che Gallipoli sia stata fondata non dai Greci, ma dai Galli Senoni, come voleva Plinio (p. 360). Ma per gli studiosi moderni il libretto
dell'umanista è molto più pregevole della voluminosa opera dell'erudito del '600. Il vero e proprio contributo originale da quest'ultima arrecato alla conoscenza geografica e storica di Terra
d'Otranto non è molto più grande: tutt'altro. Nell'opera del
Marciano sovrabbondano le pagine di carattere generale (che
ci stanno a fare col Salento le lunghe esposizioni di storia
cretese, greca, romana, bizantina, longobarda, normanna ecc.
ecc. ? e l'elenco di tutte le divinità pagane ? e le lunghe favole
mitologiche ? e la descrizione dello sposalizio del mare a Venezia l) sì che in essa appare raccolto tutto quel che il Marciano
aveva letto, in qualsiasi libro, su qualsiasi argomento. E' un
ammasso di erudizione che sgomenta, e nel quale è difficilissimo rintracciare quello che ancora può riuscirci utile. Le fonti
sono citate l'una appresso all'altra, a decine: molte, anche se
l'autore non lo dice, devono essere di seconda mano.
Incredibile la facilità con cui sono accostati scrittori per età,
educazione e temperamento diversissimi. C'è talvolta un tentativo di mantenersi indipendente, di sceverar nel mucchio delle
testimonianze quel ch'è vero o probabile; c'è qualche vivace giudizio critico, come quando il Marciano scrive, per esempio, che
Dionigi d'Alicarnasso « va stiracchiando la storia al suo immaginario pensiero » Ma sono rare faville; in generale il discernimento critico è molto inferiore a quello del Galateo. Ci si diverte
a vedere la serietà con cui il Marciano espone le tradizioni mitologiche intorno all'origine delle diverse città e dedica un intero capitolo (il 45° del 1. III) a quella « profezia (li S. Cataldo
(1) Op. cit., p. 22.
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Dina Colucci - Antonio De Perrariis detto il Galateo
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249
ritrovata nel tempo di Ferdinando I d'Aragona », in massima
buona fede, senza dubitare neanche un tantino della sua autenticità. Il De Situ Japygiae è un piccolo capolavoro, cui l'organicità della materia rivissuta dall'animo dell'autore, da lui
dominata e riplasmata a suo bell'agio, e la suggestività della
limpida forma latina conferiscono un sapore quasi classico (i);
la « Descrizione, origini, ecc.» è una compilazione farraginosa
dalla quale la personalità dell'autore non emerge che a fatica.
Lo spirito che guidava il Galateo nel suo amoroso pellegrinaggio attraverso la terra salentina è tornato a rivivere invece,
dopo tre secoli, in uno studioso dell"800, Cosimo De Giorgi.
Nella vasta sua opera, condotta per oltre cinquant'anni, di illustrazione del Salento, più volte il De Giorgi si è riferito al
Galateo, citandolo come fonte preziosa ed esatta. Ma chi scorra
i due volumi dei « Bozzetti di viaggio », qualificati dall'autore
come « terzo censimento dei monumenti di terra d'Otranto - (2)
e gli altri due della « Geografia fisica e descrittiva della Provincia di Lecce» resterà sopratutto colpito dall'affinità spirituale che lega il medico e geografo umanista del secolo XV al
medico e geografo del secolo XIX ( 3): la stessa carità patria —
illuminata e non anuegantesi nel gretto campanilismo — lo stesso
sagace spirito d'osservazione, la stessa versatilità o genialità di
cultura, lo stesso equilibrio, lo stesso buon senso, la stessa vena
arguta e spigliata; è, insomma, il fiore di quel tipo eclettico
salentino quale si è costituito e selezionato nei millenni attraverso il succedersi delle razze.
Ed ora, alcuni particolari intorno alla storia esterna del
De Situ Japygiae. Anzitutto è proprio vero quel che asseriva
il Giustiniani (4), che cioè l'edizione basileense del 1558 (quella
del 1553, di cui parlano il De Angelis e il Soda è irreperibile
e forse non è mai esistita) è stata più tardi contraffatta. Del-
(1) Cfr. P. Giovi°. Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita.
Venezia, 1546, pag. 70.
(2) Op. cil., pag. XVII.
(3) Cfr. C. COLAMON►CO, Cosimo De Giorgi. In Rivista Storica Salentina,
XIII, fol. 11-12.
(4) Saggio storico-critico sulla topografia del Regno di Napoli. Napoli,
1793, pag. 174.
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250
Rinascenza Salentina
l'edizione vera, tipograficamente molto migliore, si possono vedere due copie nella Biblioteca Nazionale di Roma (segnate rispettivamente 6-9-F-32 e 12-17-1-9-2, provenienti l'una dalla biblioteca dei Gesuiti del Collegio romano, e l'altra da quella (lei
Cappuccini). Della falsa, diverse copie sono disseminate nella
Provinciale di Lecce, nella Nazionale di Roma, nella Vaticana,
nella Casanatense, ecc. Le differenze fra le due edizioni — lievissime e riguardanti il frontespizio, il formato, la numerazione
delle pagine, la ripresa delle parole, l'errata corrige — son quelle
segnalate dal Giustiniani. Quanto al testo, l'edizione falsa riproduce esattissimamente la vera. Dove e quando fu compiuta
questa contraffazione l Secondo il Giustiuiani, a Lecce. E' probabile. Le copie che se ne trovano nella Vaticana, appartengono
al fondo Barberiniano: poichè il Card. Francesco Barberini, fondatore della Biblioteca, tra gli altri suoi innumerevoli corrispondenti che gli raccoglievano materiale in ogni parte d'Italia, aveva pure Silvio Arcudi di Galatina (morto nel 1646: la
biblioteca provinciale di Lecce possiede, fra i ms. galateani
parecchie copie di sua mano), forse fu proprio questi a inviargli
le opere del Galateo stampate e manoscritte W. Allora, la contraffazione (lel De Situ Japygiae di Basilea si potrebbe ritenere anteriore al 1650.
Poi c'è un'altra questione. Giovan Bernardino Tafuri nella
prefazione alla sua edizione leccese del De Situ Japygiae del
1727 (2) accusava il primo editore dell'opuscolo, Giovan Bernar(lino Bonifacio marchese di Oria, di avervi inserito delle frasi
contrarie alla Chiesa Cattolica, che non si trovavano nei MISS.
dell'autore, e dichiarava che, sulla fede di questi, avrebbe restituito la lezione alla pristina integrità, come aveva già fatto
Antonio Scorrano, curando l'edizione napoletana del 1624. I
passi incriminati nell'ediz. di Basilea sono i seguenti:
1. — p. 24: Praecepit Petro dominus noster, ut arma conderet, quamvis ille nunc nescio quomodo aut quibus artibus rerum potitus, arma stringere ac bella exsuscitare tam prompte
(1) Barberiniano è il ms. del De nobilitate (app. n. 2, p. XI e segg.).
(2) Riprodotta da M. TAFURI, Op. cit.. pp. 9-10.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 251
assuetus est: atque ea, quae Dei, cum iis, quae Caesaris erant
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2. — p. 35: Exewplo nobis sunt principes sacerdotum, quibus dum pauperes erant, satis fuerant oluscula et pisciculi
nunc nee, terrae nec maria eorum gulae ac libidini sufflciunt.
3. — p. 35: Nec non et nos christiani, ut dixi, dum pauperes et mendici fuimus, pio iusteet sarete diximus: et postquam
res ehristiana ad tantas devenit opes, in apicem vitiorum ascendimus, nec habemus quo ulterius progrediamur.
4. — p. 77: .... mine paeue desertum est monasterium, ut
et caetera omnia, quae in potestatem Principum sacerdotuw
deveniunt.
Nell'ediz. del 1624, curata dallo Scorrano, il primo e il secondo passo mancano, nel terzo ali'• ut dixi » è sostituito un
« (bonorum pace) »; nel quarto al « princípum sacerdotum » è
sostituito un « principum iniquoriun ». Nella ediz. leccese del
1727, curata dal Tafuri, il primo, il secondo e il terzo brano
sono saltati; il quarto invece si trova a pag. 85 tale e quale come nell'ediz. di Basilea. Il D e Si tu J a p i g i a e curato e annotato dal Tafuri fu inserito nella « Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici » del Calogerà ivi mancano tutti i quattro
brani su riferiti e i tagli sono praticati ancora in modo diverso.
L'edizione curata dal Giordano (2) pur recando il « Cum superiorum lieentia » come le tre precedenti edizioni italiane, riproduce integralmente quella di Basilea che era stata intanto seguita anche dal Burmann (3). Michele Tafuri ristampando il De
Situ Japygiae (4 ) seguì il Giordano. Il Grande ( 5) seguì M. Tafuri.
Dei manoscritti vaticani, il Barber. 2443 riproduce integralmente l'edizione di Basilea, compresa la dedica del Bonifacio
(1) Venezia 1732, T. VII, pp. 29-205.
(2) Delectus scriptorum rerum neapolitanarum ecc. Napoli 1735, pagine 581-644.
(3) Thesaurus antiquitatum et historiarurn Italiae. Lugduni Batavorum
1723, T. IX, p. V.
(4) Le opere di Angelo ecc., pp. 25-89.
(5) Coll. cit., II, pp. 3-39.
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Rinascenza Salentina
allo Zorzi. Il Regin. 1370 e l'Ottobon. 1922 rappresentano due
tradizioni diverse, delle quali quella del secondo è la migliore.
Il Reginense, che è scorrettissimo, manca soltanto del terzo
brano, comprese le tre o quattro righe che seguono, fino a « Spinelle, vir excellentis ecc. •; l'Ottoboniano è completo, ma i quattro brani in cui si son voluti vedere degli attacchi alla Chiesa
Cattolica sono segnati in margine con una crocetta. Insomma,
dal confronto tra le varie edizioni e i manoscritti che ho potuto esaminare, mi sembra (li poter concludere che l'edizione
di Basilea è fedele alla versione originale del De Situ Japygiae
e che le edizioni dello Scorrano e di G. B. Tafuri sono invece
espurgate, secondo l'uso corrente a quei tempi. Quanto ai manoscritti originali di cui si sarebbe servito il Tafuri, credo che non
ci sia da prestargli fede.
Quando si accinse alla sua opera corografica, il Galateo
aveva già scritto anche diversi opuscoli di geografia generale:
il « De Si tu elemeiitorum » sulla questione del dislivello fra la
terra emersa e le acque; il « De Situ terrarum » sull'altra questione della permanenza della terra emersa e degli oceani; il
« De mari et aquis », dove espone la sua caratteristica opinione
— che sarà poi ripresa dal Telesio (1) — delle alte temperature
negli strati profondi dell'oceano, e il « De fluviorum origine »,
dove si sostiene che questo calore marino è causa dell'ascendere sui monti (lei vapori contenuti nelle cavità della terra. Le
idee geografiche del Galateo non sono nuove: sono attinte quasi
tutte da Tolomeo e da Aristotele, dagli Arabi e dagli Scolastici. Ma egli non le accettava supinamente: amava discuterci
su col solito buon senso e vedere se fossero o no confermate
dalle esperienze dei navigatori moderni. Alla corte aragonese
si era un po' tutti geografi ( 2): accadeva che il principe Federico, ammiraglio della flotta, si fermasse davanti ad una carta
geografica a ragionar con l'Acquaviva e col conte di Potenza
degli antichi cataclismi che un giorno avevano sconvolto l'uni(1) R. ALMAGIA. Le dottrine geofisiche di B. TELESIO. -- Sta in: Scritti
di geografia e di storia della geog. pubblicati in onore di GIUSEPPE DALLA
VEDOVA. Firenze 1908, p. 371.
(2) Cfr. A. Bmussics: La geografia alla Corte aragonese in Napoli. Roma, 1897.
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Dina Colueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
253
verso, della favolosa Atlantide e delle isole scoperte recentemente dagli spagnuoli. Il Galateo prendeva parte anch'egli ai
conversari, riflettendo malinconicamente che quelle felici popolazioni, rimaste fino ad allora nella semplicità primigenia, avrebbero appreso tutti i vizi della nostra civiltà, e poi mandava al
suo Saunazzaro un brioso resoconto della discussione. Talvolta
anch'egli, utilizzando il ricco materiale cartografico posseduto
dalla biblioteca aragonese, si metteva a disegnar piccole carte
geografiche, che poi regalava a qualche amico che si accingesse
a un viaggio W. Le sue cognizioni geografiche sono state studiate
in accurate monografie, alle quali non ho proprio nulla da aggiungere; mi limito quindi a riportare il giudizio — definitivo —
dell' Almagià: «II Galateo, uomo di mente equilibrata, ricco
di buoni studi, non più impegolato — come ancora al tempo
suo alcuni dotti all'antica — nelle pastoie della scolastica, ma
non sprofondato a capofitto — come tanti umanisti suoi contemporanei -- nello studio dell'antichità, forma un ponte di passaggio fra le idee vecchie e le nuove tendenze, e si segnala per
il retto discernimento, e, fin dove lo permetteva allora lo stato
della scienza, per accuratezza di vedute • e per diligenza d'indagine » (5).
Lo stesso sagace buon senso è da notare nell'opera del Galateo come medico. Nella seconda metà del '400, sotto l'influenza
dello spirito dell'Umanesimo, passava nelle vecchie facoltà di
medicina delle famose università italiane un alito rinnovatore (3): il nostro Galateo non fu un arretrato. Dei suoi numerosi
opuscoli di medicina non ci resta che il « De Podagra »: perduto il « De eucrasia sive de bono temperamento » e l'« In Aphorismos Ippocratis Expositio » che sarebbe interessante possedere
per studiarvi che cosa l'umanista italiano seppe aggiungere all'opera omonima dell'arabo Mosè Maimouide — che il Galateo
conosceva — la quale aveva costituito dal '200 al '400 il fondamento della letteratura igienica italiana. Il Galateo, che in difesa della grecità aveva già combattuto altre battaglie, fu un
(1) Cfr. A. BLEssicii: Le carte geografiche di A. DE F. detto il GALATEO.
In Riv. Geog. Ital., III, 1906, 80.
(2) R. ALMAGIÀ: Le opinioni e le conoscenze geografiche di A. DE F. p. 463.
(3) A. CASTIGLIONI: Storia della medicina. Milano 1927, p. 402.
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Rinascenza Salentina
fervido seguace del movimento che mirava a liberare la medicina dalla tutela araba per ricondurla studio dei grandi
Greci. Plinio e Celso, nella seconda metà del '400, erano gli più
stimati e letti: egli studiava l'uno e l'altro, come studiava anche
gli arabi, gli scolastici e i recentissimi, perchè era (l'avviso che
la scienza medica dovesse avere per confini gli stessi confini
dell'universo e « omnia legenda sunt ita ut multa sit et multorum lectio, et ut nihil contemnendum, sic et nihil temere eredendum » (1). Leggeva, e da ogni libro sceglieva quel grano di
verità che vi fosse rinchiuso. Però, si orientò decisamente verso
i luminari della scuola greca: e mentre per tutto il Medio Evo
e i primi secoli dopo il Mille la base teorica all'esercizio della
medicina era stata fornita dal sistema galenico, favorito dagli
Scolastici, egli, pur inchinandosi all'autorità di Galeno, fu l'antesignano di un ritorno ad Ippocrate. Il nome del vecchio di
Coo è « numen » per lui: Ippocrate è il « futuri praescius vates » i cui Aforismi sono oracoli di Delfo ( 2 ). Alla tempra geniale dell'intelletto del Galateo, educato alla larga speculazione
filosofica, era più consona la concezione biologica e cosmica di
Ippocrate che quella morfologica ed analitica di Galeno. II postillato galateano che fa derivare dal clima di una regione la
disposizione fisica e morale degli abitanti dipende dal tentativo
ippocratico di mettere in relazione diretta i fatti del micro e
del macrocosmo. Proprio da quest'idea partiva il Galateo per
concludere che nelle nostre regioni occidentali non si possono
adottare i rimedi proposti dai medici arabi, e che conviene seguire invece i greci, cresciuti in una regione così simile alla
nostra.
A genialità ippocratica era improntato il suo metodo: « Non
enim videntur medici ex libris fieri • dichiarava nel De Podagra (3 ). « Operari secundum libros absque perfecta razione et
solerti ingenio molestum est » (4). Il bravo medico, secondo lui,
deve possedere una larga cultura, ma sopratutto uu intuito rapido e sicuro, e deve saper cogliere l'attimo breve, quella che
III, p. 275, p. 92.
(2) De gloria contemnenda, Coll. III.
(3) Coll. III, p. 228.
(4) Ivi, p. 214.
(1) DE PODAGRA: C011.
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Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
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Ippocrate chiamava « opportunitas acuta ». E' frequente il caso
che il Galateo interrompa la sua serie di consigli per esclamare
che « haec omnia melins factis monstrantur quam dictis »: c'è
nn « quid » che sempre sfugge al teorico che traccia ricette seduto a tavolino, perchè « in medicina et in militari disciplina
non minus valet ingenium et experentia quam ars et scriptorum traditiones et praecepta » (1). Con Ippocrate egli riconosce
che la natura è il medico delle malattie: i preparati di farmacia son tutti molto simili ai veleni, e se da un lato giovano,
dall'altro nuocciono ( 2 ); continenza ed esercizio fisico ci vogliono
per conservar sempre ottima salute ( 3 ). Nei casi dubbi è meglio
abbandonare l'ammalato al « beneficium naturae » che all'ambigua e incostantissima arte (4 ). Il suo « De Podagra » appartiene al genere di quei consulti medici così comuni nel '400,
che ripetevano la loro origine dalle lettere pseudo-aristoteliche (5): enumera all'amico Gabriele Altilio — collega nella pontaniana — ammalato di gotta, i rimedi indicati a guarire questo male, accompagnando l'arida esposizione (in cui ha molta
parte anche la letteratura botanica, molto in uso a quel tempo)
con un ricco corredo di osservazioni di carattere scientifico, filosofico, morale. Sicuro, anche filosofico e morale, perchè « profecto a medico nunquam corporis morbi saneutur, nisi prius a
philosopho animus purgetur; est enim philosophia animi medicina » (6 ). La cultura umanistica e l'onnipresente fine morale avvivano l'opuscolo conferendogli un tono particolare di immediatezza e d'intimità, che lo caratterizza fra gli altri numerosissimi dei medici di quel tempo e ci fa ravvisare in chi lo
scrisse l'autore dell'« Fleremita », del « De Educatione », dell'4 Esposizione del Pater Noster » e del « De Situ Japygiae ».
DINA COLUCCI
(Continua)
(1)
(2)
(3)
(4)
Ivi, p. 283.
Ivi, p. 244.
Coll. II, p. 142.
Coll. XXII, p. 89.
(5)
.
CASTIGLIONI: Op. C a.,
(6) Coll. III, p. 267.
p. 359.
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Antonio De Ferrariis detto il Galateo