, , • , wi 7111, I i :1 1 'li (,`H 1 111 HTi I i, i i ." i i 1119., Antonio De Ferrariis detto il Galateo (Continuazione, v. A. VI, n. 1) Cap. VI. L" Esposizione del Pater Noster " 11 " De Pugna tredecim equitum" - Il " De Educatione ". Prima di passare a considerare l'opera del Galateo come pedagogista, come geografo e medico, mi sembra opportuno dare notizia dell'« Esposizione del Pater Noster », opuscolo sul quale non si è fermato nessuno di coloro che si sono occupati del Galateo e che mi sembra invece necessaria integrazione Heremita ». Esso ci permette inoltre di fissare la posizione del Galateo riguardo a un problema molto interessante. Sappiamo che verso la metà del '400 il simpatico empirismo dei primi umanisti aveva cominciato a cedere alla nuova tendenza storicistica (1). Ora, da qual parte dobbiamo collocare il Galateo? Fra i seguaci di Poggio o fra quelli del Valla? Chi consideri in blocco la sua opera, inquadrandola nella tradizione letteraria italiana di quello scorcio del secolo XV e dei due primi decenni del XVI, sarebbe tentato di dichiararlo un ritardatario, tanta è l'illusione di trovarsi dinanzi a un rappresentante della prima generazione umanistica. E' un nuovo empirismo, non meno spigliato e seducente del primo: la classicità non è un cadavere sottoposto a dissezione anatomica; è un mon- (1) Rossi. Op. cit., pag. 77 e segg. 11/ irt) , i, 41.1 , , „ , , , , I fu. , , • Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo '213 5 do vivo al quale ci si accosta per ricevere lezioni di vita. Il latino non è fossilizzato negli schemi del ciceronianismo: è una lingua disinvolta, che magari non obbedisce sempre scrupolosamente alle regole della sintassi, ma che è originale, vivacissima espressione di una forte e cosciente individualità. Leggendo la « Vita Antonii Galatei » scritta dal Pollidori, ci si diverte a notare come il latino dell'umanista appaia riposante in confronto a quello cattedratico e solenne dell'erudito settecentesco. « Atticissent qui velint, nos loquamur ut libet », dichiara con un'alzata di spalle il Galateo Dell'« Apologeticon ad Aquaevivum ». I grammatici gli danno addosso perchè non osserva i precetti « nescio cujus Laurentii » e perchè parla « parum latine »; dall'altra parte i « novi philosophantes » e i medici gli scagliano sul viso come un'offesa l'appellativo di retore se presso i principi e gli amici dice qualche cosa latinatnente, se adduce la sentenza di qualche poeta (« ut sapientissimi veteres fecerunt ») o qualche esempio dalla storia, maestra della vita, o l'autorità degli antichi latini e degli stessi greci: egli si ride degli uni e degli altri e va tranquillo per la sua strada: « libere vivo, liberius loquor (O»; gli basta di evitare i solecismi « in vita et in arte medica ». Umanesimo empirista dunque ? Sì, ma osservando bene l'opera galateana ci si accorge che si è agli albori del secolo XVI e che il tempo di Poggio, del Bruni, del Filelfo è passato. Questo medico non vive esclusivamente rinchiuso nel sogno di restaurazione dell'antichità. Egli in fondo si oppone alla scuola storicistica solo per un più acuto senso storico. Ecco quel che scriveva intorno al '96 nel « De Podagra »: La « perversa subtilitas » (lei grammatici è stata sempre molesta. « Nos non euramus si quando graeca, aut arabica et nonnunquam persica verba inculcamus, modo intelligamur ». Dobbiamo aver cura non delle parole, ma delle cose: bisogna viver sempre coi costumi antichi, ma si deve parlare con parole ora antiche, ora, se è d'uopo, anche moderne: pure in questa cosa bisogna servire al tempo. « Serviendum est tempori »: non (1) Coll. III, pag. 66. 1,3{.) .19V ■I4i .1 4 1. , i;uril :11 iihiri l iwrrlli `14')H HII`:Y! i' ll+ 9,11i llti`t4I'd Rinascenza Salentina 214 si può certo rimproverare al Galateo di non esser vissuto con gli occhi bene aperti su quel che lo circondava, di non aver capito la malattia di quel particolare momento storico e di non averne saputo proporre il rimedio. « Quid agendum nobis sit co• itemus, non quid dicendu► » (1) insegnava, proprio mentre dalla vita e dalla letteratura italiana andava scomparendo ogni ideale che non fosse quello della bella forma. E mentre il eiceronianismo imperversava fra la turba dei mediocri, egli esponeva sulla lingua questo interessante parere: « Le parole mi sembrano simili a certi frutti che paiono acerbi; poi serbati a casa dentro vasi di creta o fra la paglia o esposti al sole, il tempo li rende dolci e li matura e porta a perfezione, come tutte le altre cose... Che anzi, per quanto sembri ridicolo a costoro che decretano nulla doversi dire se non in latino, non temo le parole arabe, veramente barbare e orribili alle nostre orecchie, come le parole nostre a quei popoli » (2). Non c'è dunque da meravigliarsi se, nel 1504, cominciando ad esporre il Pater Noster, dichiara senz'altro che lo farà con quella medesima lingua che ha imparata dalla nutrice e che ha dalla natura, ossia nel suo « vernacolo ». Si adira pensando che la lingua greca aveva ben cinque dialetti, tutti ornati, tutti decorosi, da usarsi tutti a piacere, senza timore di esser biasimati nella scelta, e che invece noi latini, avendo la lingua povera, la rendiamo ancor più mendica con regole vane e superflue. « Oggi è in Italia venuta la cosa ad tale, che chi non parla a punto el toscano, non pare che sia italiano » (3), La soverchia diligenza sta male in tutte le cose; ci vuol la giusta misura, sempre, anche nel parlare. « Sia felice quello ch'è nato in patria dove se parlasse bene: ma più felice saria quello, chi frisse nato in patria dove se vivesse bene ». Verso la fine dell'opera pensa a quanti diran male del suo lavoro: quelli « chi godono de toscanigiare » giudicheranno il suo volgare non elegante, alcuni « con uno certo bello modo de detrahere » già sono andati a dirgli che è peccato che egli non abbia scritto in latino, « come si le sentencie havessero più forza in latino che non in volgare: o vero come si non (1) Coll. III, pag. 66. (2) Coll. III, pag. 67. (3) Coll. IV, pag. 149. , Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 215 fossero più quelli chi intendono et se delettano di lo volgare, di lo toscano O di lo romano, che non di lo latino o de la lingua greca » W. Qui viene a mente il giudizio dato dal Salutati, dal Pahnieri e da Poggio sulla Divina Commedia. In settant'anni le idee del Brutti hanno fatto strada, e in questo riconoscer la necessità di farsi intender dalla « multitudine » scorge l'evoluzione che verso la fine del '400 aveva condotto la letteratura umanistica a divenir letteratura italiana. E' naturale che alla difesa generica del volgare, vada unita quella delle parlate regionali ( 2): il nostro medico salentino occupatissimo nell'esercizio della professione e che poteva dedicare allo studio delle lettere soltanto le ore « succisivae », non aveva tempo nè modo di apprendere il toscano come più tardi lo apprese, per esempio, il Betnbo. Il Galateo scriveva che in Terra d'Otranto c'erano allora due lingue: la greca e la latina (due dialetti di derivazione greca e latina). Ambedue abbondavano di termini che si accostavano più che in alcun'altra lingua alla greca e alla latina « simplicità antiqua » (3). Nel suo volgare infatti sono numerosissimi i latinismi. I termini prettamente dialettali invece, come già notava il Barone, sono relativamente pochi. C'è da notare: nisciuno=nessuno; poteche=botteghe; robba= roba; bascio=basso, paccia; buscia=bugia; masculo, pizirilli=bambini; spruvieri=sparviere; timpagni=coperchi; ticato=fegato; nui, vui, nei=ei; stracchi=stanchi; picca=poco; lassarc, simighiare, partuto, cecato, pilato, precare=sotterrare, facimo, dicimo, ecc. In generale la lingua è abbastanza italianizzata. Non mancano parole e frasi spagnuole (leydo, verdatero, sable, sinoble, allas armas, donayri, gran mercè a mis manos, conia con todos, dorye) e qualche francesismo. Sarebbe interessante un confronto tra il volgare dell'Esposizione del P. N. e quello del contemporaneo poema inedito « Lo Balzino » di Ruggero di Pazienza (1) Coli. XVIII, pag. 101. (2) P. SAVI LOPEZ nei suoi Appunti di napoletano antico (in Zeitschrift fiir Romanische Philologie del Griiber, XXX, 1906, pp. 28 e 31) negava al persistere di forme dialettali nel volgare napoletano, carattere di deliberata e cosciente opposizione al toscano. Egli però non accenna per nulla all'opuscolo del GALATEO. (3) Coll. IV, pag. 151. I ,:11 1!i yTfai i!! Tw!H Z i9iwTi lhiwr Hi lilliiII HI TwLH211!;1112 H AD'H :11 1,115;w 25!II Y I 216 Rinascenza Salentina _•_ • T.= ±-71 g -* da Nardò» ( 1 ). In complesso il poema è più vicino alla forma vernacola che il trattatello: ma di quello è giunto fino a noi l'autografo, mentre di questo non si conservano che copie tardive. Qui cade a proposito parlare della posizione del Galateo nei riguardi della grande letteratura volgare trecentesca. I suoi giudizi sono sempre legati alla concezione morale ch'egli ha della letteratura. L'arte per l'arte non la capisce: la poesia, come tutte le altre discipline, ha secondo lui lo scopo preciso di condurre alla virtù. E' naturalissimo quindi che non nutra molta simpatia per l'opera volgare del Boccaccio e del Burchiello, pei « minatici » e pei « sogni dei Paladini » ( 2): forse per questa ragione stessa metteva vicini a Dante e al Petrarca, fra i moderni, solo il Sannazzaro e il Cariteo, e non il Pontano, pure amicissimo suo ( 3). Del Petrarca conosceva certamente i trionfi e il Canzoniere, ma non espresse mai un giudizi() esplicito su di essi; una volta sola notò come messer Francesco, nel primo trionfo, « per excusare lo suo errore, nei pose tutto il mondo, li Dii et li homini ». Invece era entusiasta delle canzoni politiche e raccomandava a Crisostomo, nei riguardi del principino Ferrante: « Si velit legere ver►ac,ulain, legat etruscam, legat Dautem et Petrarcam, poetas meo indici() non contemnendos, ►raecipne illud nobile Petrareae car►en verius oraculis Sybillarum: Italia mia, benchè 'I parlar sia indarno » ( 4). Ma la grande poesia italiana di cui il Galateo si nutri, fu quella di Dante. Non dobbiamo ricavar dalla parca lode la misura dell'ammirazione che senti pel grande fiorentino. Diversi fili avvincevano l'anima del modesto umanista all'anima immensa del sommo poeta: religiosità sentita e vissuta, salda morale, passione politica. L'influsso dantesco si avverte nella concezione dell'« Heremita », nell'ardore dì certe invettive all' Italia — amata fino allo spasimo —, nell'avanzo di ghibellinismo che si manifesta nella lettera ad Eleazaro. Dante è cinto dell'aureola della clas- (1) Pubblicato in parte da S. PANA1tE0 in « Isabella del Balzo in Terra d'Otranto secondo un poema inedito del tempo.. Traili, 1906. (2) Coli. IV, pag. 201. (3) o. c., I. c. (4) Coll. II, pag. 154. U yuu 11 1.411 !; J IL , 14y 1.2U 371.. Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 217 sicità: nel • De nobilitate » è posto accanto a Solone, Licurgo Aristotele, Demostene, Camillo, Scipione, Boezio ecc.: nella « Vituperati() literarum (1) » come esempi di donne cui la cultura nacque, son riportate Saffo, Sempronia e Francesca, in opposizione a Penelope e Lucrezia. Numerose sono le reminiscenze dautesche nell'e Esposizione del P. N. » e non mancano i versi inseriti per intero (2). Dal modo come son fatte le citazioni, appar chiaro che il Galateo li riporta a memoria. Questa stessa larghezza di vedute che gli permise di gustare il bello dovunque lo trovava, fece sì ch'egli sapesse pure apprezzare il buono e il vero di tutti i secoli e di tutti i sistemi. Nel « De Situ elementorum » a riduce testimonianze di autori recenti, e rimprovera tanto coloro che sembrano aver congiurato contro i moderni, quanto gli altri che, stando ai sofismi gallici e britannici, odiano chi attende agli studi classici: egli, è vero, ama più la filosofia attica, che la parigina o la padovana: tuttavia riconosce che anche le scuole occidentali hanno avuto dei dotti e non teme di offendere le latinissime orecchie del suo Sincero, esponendo le loro sentenze ( 3). Venera l'antichità, ma senza cadere in una gretta idolatria. Sa affermare, con buona pace di Platone, Cicerone, Averroè ed Alessandro di Afrodisia, il contrario d'una loro sentenza. Nella « Deseriptio Callipolis » domanda adirato se il mondo e l'ingegno umano siano. talmente invecchiati che non sia più possibile dire o fare alcunchè di nostra testa: gli antichi furono grandi ed eccellenti uomini, ma uomini, nè conoscevano ancora la filosofia cristiana M. La posizione del Galateo si potrebbe forse definire empirismo storicista, o storicismo empirista, a piacere: e, « mutatis mutandis • a seconda dei temperamenti individuali, simile atteggiamento mi sembra comune a tutta la scuola napoletana fiorita tra il 1470 e il 1530 all'incirca. Riassumiamo il contenuto dell'opuscoletto. Il Galateo, dopo aver dichiarato che adopererà non il latino, ma il suo parlar patrio, dice di essere stato indotto a commentare il Patcr No(1) (2) (3) (4) Coll. IV, pag. 160-184. Coll. IV, pag. 42 e segg. Nella Vituperatio Coll. II, pag. 219. vai 1 i , • 1.1n ! il d'4uplinii,.11HdihIiwillilirTi Rinascenza Salentina 218 r ster dalla devozione con cui l'ode recitare dalla duchessa Isabella, alla quale dedica il suo lavoro. Anch'egli, non potendo dir lunghi uffici, ricorre spesso a questa santa e breve orazione. Come si debba pregare: con mente e corpo puri, aboliti il formalismo e la superstizione. Condanna l'« allegrezza, per non dir eresia » di Pietro d'Abano che voleva si pregasse « quando caput Dragonis stat cum love in medio coeli ». Alla preghiera l'uomo è condotto dalla natura. Alcuni per parer più savi si fingono atei, fornendo occasione al volgo indotto, anzi ad alcuni « ippocriti soldati di Cristo, e mangiatori de le fatiche aliene » di dire che i filosofi non credono in Dio, mentre la filosofia non è per altro « si non per conoscere Dio, amar la virtù e biasimar li vicii e li omini viciosi » (1). Anche la religione è virtù che consiste nel giusto mezzo tra due estremi: incredulità e superstizione. « Pater ». Testimonianze di gentili che tale chiamarono Iddio: Aristotele, Mercurio Trimegisto, Omero, Virgilio. Qui si confonde l'errore di coloro che dissero Dio non esser causa efficiente, ma solo finale: se cosi fosse, si chiamerebbe non padre, ma rettore. « Noster ». Siamo fratelli e tutti eguali: non la natura, ma le leggi umane hanno creato lo disuguaglianze. I Re siano dunque pastori e non tiranni. < Qui es in coelis ». Condanna la sentenza di Averroè che ammette due dei creatori: uno solo creò le cose visibili e le invisibili. Dio è onnipresente (testimonianze di pagani) ma la somma potenza e virtù si scorge meglio nelle cose celesti che nelle terrene. Nessuna cosa ne fa venire tanto « iu cognizione de Dio e de le substauzie separate quanto el celo, el moto suo ». Anche « li rustici ed imperiti », mirando l'incanto di una notte serena, « li vene allo animo naturalmente ed occultamente lo pensamento e la opinione de quella maestà che ha creato e regge le cose » (qui ha luogo una bella descrizione del firmamento stellato e dell'aurora: la natura è guardata con una simpatia commossa che la rende partecipe di umanità). Il moto del cielo genera la vita; da esso provengono tutti i beni. Le stelle soli -2>- .1=1 (1) Coll. IV, pag. 154. _77.7 a-7 3-* J il hi "." 111211TH liu;IIIII I IT11 1 ,111 Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo '1111‘2,9',1,1 219 tutte benigne, tutte felici, come ogni cosa creata da Dio. Siamo noi e non loro la causa del nostro male medesimo. « Sanctifieetur nonrien tuum ». Nessun dono umano possiamo offrire a Dio: nè col far pellegrinaggi o affliggerci con discipline, nè col costruir monasteri possiamo piacergli, se l'animo non si emenda. Condanna i monaci ipocriti, riportando le parole di S. Girolamo: « Sacrificio accetto a Dio è il benedirlo, il ricever devotamente l'Eucaristia, l'esser giusti e caritatevoli col prossimo, senza nutrir speranza di premio « condigno del benefizio », perché ci si comportarebbe da usurai. Quel che conviene ai principi: « donar e perdonar ». « Adveniat Regnum tuum ». Il Regno di Dio non è caduco al pari dei terreni, come quello di Puglia, che in dieci anni ha mutato otto re, non per difetto del popolo, ma per colpa (lei principi e pontefici cristiani. I regni del mondo sono tutti del diavolo. Il Galateo passa in rapida rassegna tutta la storia d'Israele, di Grecia, di Roma e (l'Italia, sino agli imperatori tedeschi, per dimostrare che il Regno di Dio non si è mai avuto sulla terra; a proposito dei Giudici e dei Re osserva che l'amore dell'immoderata libertà conduce alla schiavitù, com'è accaduto alla Grecia e alla maggior parte (l'Italia. A proposito del castigo che cadde sugli ebrei per le colpe di David, si domanda « non meravigliato ma stupefatto » perché il peccato (lei re ricada sui sudditi, e conclude che questo è segreto di Dio che l'uomo non può conoscere. Il Regno di Dio sarà non nella città platonica, ma nella beata Gerusalemme celeste, dove la felicità consisterà nella coscienza della ben passata vita, nella conversazione cogli spiriti illustri, nella visione e comprensione dell'essenza divina. Per giungervi non basta la legge antica, .che è incompleta e solo è figura della nostra fede; non bastano le leggi dei filosofi nè il diritto romano (qui rivede le bucce a tutti i re e gl'imperatori di Roma, Numa compreso) nè le leggi dei re (accomuna in mia sola condanna tutti i re svevi ed angioini): ci vuole la dottrina evangelica. Un'altra fierissima requisitoria centro gl'ipocriti: non parla del suo gran Roberto, principe della cristiana eloquenza, nè di Mariano o di Egidio, ma di tanti altri, 4 sacchi di pane, utri de vino », ecc., i quali, sol che uno abbia « qualche lettera, qualche particella de filosofia o vero de lume naturale de conoscere il bianco dal negro » e conosca le 1:9111 II.. , ';II,,II!i'I .Ililii!! II!IIII 220 ilii I''I^I! I. ^ _VIII Ilio, 11111: I.II''II 1 ilillll^lll!^111^1 il'llll^,rlllll l^^l i li I^^ III !III^Ì' Rinascenza Salentina loro frodi, gli levati subito nome di eretico (1). E qui uno sfogo: Galateo, « otno sessagenario » non ha perduto il tempo nelle curiose questioni della teologia, che oggi sono in uso, ha servito ottimi principi e non ha praticato se non con persone dotte, giuste e consumate; i suoi antenati non sono stati uomini d'arme ma di lettere, e devotissimi a Casa d'Aragona: non gli sarà dunque lecito parlare del bene e del male, della virtù e dei vizi, nella quale disputazione è occupata tutta la filosofia morale, tutta la Sacra Scrittura, tutti gli storici, tutti i poeti? Se non lo facesse, stimerebbe di venir meno al suo dovere di filosofo, perchè come la medicina cura i corpi, così la filosofia è medicina delle anime. Forse non ne ha l'autorità, non. avendo abito di monaco l « Io me tengo assai bene barbato tutto de bianco e vestito de sacro battismo ». Ancora torna a scagliarsi contro la presuntuosa audacia dei « fraticelli » che, oltre alla cura delle anime, abbracciano il governo del mondo: ne conosce molti, ma ne lascia i nomi nel bianco della carta. Se il Regno di Dio si trova sulla terra, è nei pochi che amano la verità e cercano il suo trionfo: è da uomini santi e giusti la indignazione che si concepisce per amor della virtù. « Fiat voluntas tua ». Dobbiamo sempre tener per migliore la parte che Dio ci dà, e non preoccuparci se i buoni sono sfortunati. Dio e la natura non fanno cosa invano. « Sicnt iii coelo et in terra ». Nel cielo le sfere superiori guidano le inferiori: se la nostra virtù intellettuale, che è superiore, comandasse all'« appetito » che è inferiore, si sarebbe felici. Invece gli uomini commettono il male senza preoccuparsi del castigo, poichè credono che Dio non badi alle loro cose. Anch'egli ha dichiarato talvolta amaramente che questo mondo è fatto per gli altri e che Dío venne per i peccatori, però « V. S. che ha acutissima vista deve conoscere quale sia la vita e la coscenzia mia; credo che in tanti anni non ha conosciuto in me peccato si non de poca importanza per grazia di N. S. Iddio » (2). Non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che tanti poeti e filosofi pagani hanno negato a parole la Provvidenza, pera() D= (1) Op. cit., pp. 193-194. (2) Coll. IV, pag. 219. i - )H i i i2 illì11"idlmill 2:1 1 1 , 0h i'41.11 111 il iT nia`luoi1117,1171h1,11"':111,11 Dina Colueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 3=- = ilm17,1,phr';',1 221 non hanno mai cessato di praticare la virtù e se coloro che dovrebbero esser di esempio sono avvolti in più folte tenebre, bisogna non badarci e comportarsi secondo le loro parole, non secondo le loro opere. Chi potrà negare la provvidenza, considerando l'ordine mirabile della natura! Pensiamo che la scienza nostra è ignoranza davanti a Dio e non presumiamo di giudicare Colui che ha da giudicar noi: « non se pò fare più gran peccato al mundo che volere ponere legge a Dio ». « Panem nostrum quotidianum •. Questo solo dobbiamo chiedere, e non ricchezze e onori. L'ir:Lo6cnov di S. Matteo allude chiaramente a un pane soprasostanziale, e così bisogna intendere, perchè i testi greci sono migliori dei latini: ad essi S. Girolamo consigliava di ricorrere. Chi non conosce il greco, non può apprender bene nessuna scienza: « Et me dò ad intendere, che la più parte de le cose, de che se hanno fatti belli et copiosi li nostri et hanno pieni li libri, son state fatiche de greci, li quali teneano in casa, che li cantassero la nette, come rosignoli Qui segue un lungo elenco di poeti e filosofi e scienziati che seppero il greco: fra gli antichi latini, il più dotto è riputato Boezio; fra i moderni S. Tommaso. Anche Dante, Petrarca, Boccaccio, Pietro d'Abano, Simon genovese ebbero lettere greche: e dopo di loro tutti gli umanisti, moltissimi veneti e molti arabi. A Dio bisogna rivolgere domande misurate e convenienti: se chiedessimo troppo e ottenessimo, sarebbe per noi gran male, perchè « lo più delle volte soli più veloci le cascate che le sagliute ». La preghiera dev'essere onesta: « se vole parlare a Dio come si homini fossero presenti ». Il quotidianum significa che dobbiamo campare alla giornata e non esser solleciti del futuro: due sono i « tortori • dell'animo umano, speranza e timore, e ambedue appartengono al futuro. Basta aver prudenza e confidenza nel Signore: sono superstizioni le vanità dei libri, le acromantie, hyeromantie, geomantie, chiromantie, negromantie et simili paccie », compresa la parte giudiziale dell'astrologia, edificata « supra tanto infimo fundamento, che mai orno savio se ne volse impaziare » (2). (1) Coli. XVIII, pag. 7. (2) Coll. XVIII, pag. 18. ' r, ditoilirithhhinmilTwwZhiill = 2= a.= 2== a.= 3— = « Et dimitte nobis debita nostra ». Dio solo può rimettere i peccati, perchè solo contro di lui si pecca. Ai « grandi signori » della terra conviene invece donare e perdonare. • Sicut et nos dimittimus ». Qui comincia un po' sconfortato. « In questa parte non so che mi dica... Dio voglia che la nostra orazione non sia contro di noi stessi ». Dappertutto risse e odii: e invece il massimo precetto del Vangelo è un comandamento d'amore. Che è il barbaro costume della vendetta e l'uso dei duelli venutoci dalla pazza Gallia E (lire che i nostri giuristi, o meglio « iniuristi o vero juris imperiti » hanno commentato e approvato con la testimonianza delle leggi le vane invenzioni francesi « di lo Blasone e de le Recheste ». Sarebbe meglio adoprar questa nostra « volenteza e gagliardia » contro i nemici della fede. Se il sangue cristiano sparso in Italia dalla infelice e scellerata venuta di Re Carlo in qua, fosse stato speso in servizio di Dio, già saremmo padroni di Terra Santa. Ma il re cattolico si è accinto alla gloriosa impresa e il suo esercito è in Africa: « Speramo in Dio che con lo aiuto di la grande et potentissima, si fosse più savia, Italia conquistarla quelle parti, che non è cosa nova, et forsi è lo fato o la ragione d'Italia comandare, subjugare la Africa » (1). I singoli devono dimenticar le offese ricevute: ai re spetta invece rendere giustizia e punire i colpevoli; però lo devono fare con senno, tenendo presente che la povera plebe erra solo perchè sobillata dai . capifazione. Perchè, invece, la plebe « è stracciata per le paccie et controversie de li principi, de le citati / ». Perchè i giusti han male per gli ingiusti ! Non lo possiamo sapere, ma dobbiamo tenere per articolo di fede che quel che Dio fa è ben fatto. « Et ne nos indueas in tentationem ». La tentazione si può intendere « active » — quando noi tentiamo altri — e « passive » — quando altri tenta noi. Noi tentiamo Dio quando perseveriamo nel peccato (tra gli esempi biblici, classici e moderni di re che tentarono Iddio, reca anche quello di Carlo VIII, che, « come christianissimo, venne a far guerra a christiani » col consenso del Santo Padre: « che dicerrimo altro, se non che semo ,111: 3— a= 7— 3— 3— = il n21',11,11 'fil i, i i i H1',V,h 1H ,i lYi ll Rinascenza Salentina 229 3— w wI, (1) Ivi, pag. 27. Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 223 cascati in mano di Papa spagnolo, Re francese ed un tiranno italiano ! » (1); tentiamo la natura quando ci fidiamo troppo della nostra forza valentia ingegno; tentiamo il prossimo quando con parole e con fatti, « lo carricamo più che non pote comportare »; tentiamo la fortuna quando fidiamo nel suo aiuto per riuscire in cosa che secondo la ragione non è da tentare. Talvolta è necessario affidarsi alla fortuna: allora si vada e si usi prudenza, ricordando che la vera prudenza consiste non nell'astuzia e nella frode, ma nella semplicità. Iddio ci tenta per provare la nostra costanza. Altre tentazioni ci vengono dalla nostra natura, in quanto è guasta dal peccato originale. Perchè ogni creatura umana sia soggetta al peccato dei primi parenti, è questione ardua e che non si deve sollevare: « Non voglia Iddio che io habbia di entrare in quella vana, inutile, supersticiosa et scandalosa disperatione de li mendicanti, che ha posta quasi in scisma la fede » M. Questi son segreti di Dio che intenderemo quando lo vedremo faccia a faccia e non « i il aenigmate ». Tentazioni inerenti alla nostra natura di uomini son pure le guerre, le carestie, le pestilenze. Nessuno può evitare le fatiche e gli affanni, ognuno ha il suo stimolo in 'questa vita: solo Dio sta nella beata quiete. Appena nasce, l'uomo ama affaticarsi, e mai si riposa dal piangere, « nè se adorme, si non se ►ove la cuna ». Come bisogna comportarsi nelle guerre: non fare offesa ai nemici, nè vincitori, nè vinti, nè in parole l' è in fatti, se non quando sono armati e quanto la ragione della guerra permette. Sopratutto, si deve serbar fede alla propria parte e non volere mutare stato di proprio arbitrio: « questo l'ha da fare Dio et la revolutione di questa rota ín che semo ». Ma quando ci viene addosso « furia grande e forza », come fare a perseverare I Non sa che si dire: non si può condannare questa « mutazione, la quale Dio fa, et non li homini ». Chi si accosta al vincitore, segue la volontà di Dio, perchè vince solo chi Dio vuole. Nelle tentazioni di guerre universali è meglio passare dritto e mansuetamente, senza dimostrar « soverchia affettione »; quanto alle guerre civili, non vi è altro rimedio che (1) Coll. XVIII, pag. 44. (2) Ivi, pag. 59. 2, • 224 Rinascenza Salentina vendere le robe e fuggire. Ma i veri diavoli tentatori sono gli adulatori, dei quali tutta Italia è appestata, dopo che i costumi dell'occidente passarono a noi. Dappertutto adulazione: Per certo la vita nostra non è altro, se non una alchimia, uno figmento, una simulaeione et pegio (D. Adulazione e calunnia: ecco i due veleni « de li alti palazi »; non c'è virtù che non sia assalita dal morso dei maledici. Unico rimedio è l'opporre alle serpentine lingue lo scudo della nostra pura coscienza. Terza tentazione: la carne. Lodi della castità: se qualche cosa lo ha. trattenuto presso Isabella per tanto tempo e in mezzo a tanti pericoli, non è stata speranza di premio, chè la duchessa si trova in tale fortuna da aver bisogno lei dell'aiuto degli altri, ma solo la devozione alle sue virtù e specialmente alla sua onestà. Quarta tentazione: l'antico) serpente, invidioso persecutore del genere umano. Ma le tentazioni del diavolo son quasi quelle stesse del mondo e della carne, e se sapremo far sì che la parte razionale dell'anima nostra comandi alla irrazionale, allora lo avremo vinto. « Sed libera nos a inalo ». Dal confronto col testo greco, deduce che quell'e a malo » si dovrebbe intendere per « ab homine malo ». Infatti la maggior parte dei mali che patisce l'uomo procedono dall'uomo. Bisognerebbe evitare la pratica coi malvagi, ma come si fa ? E' vero che non ci può essere amicizia dov'è disparità di costumi, e quindi il buono non potrebbe mai diventar amico del cattivo: ma siamo in tempi che chi volesse evitare la compagnia dei cattivi resterebbe solo e gli converrebbe andarsene nel deserto a farsi compagno delle fiere. «A inalo » si può intendere anche per « dal male »: di quante specie siano i mali e, per contrario, i beni. Amen ». Origine e significato della parola. Sa che a questa sua piccola opera verranno mosse molte critiche. Egli prega Isabella che non lo reputi arrogante e presuntuoso per averle osato dare dei precetti: ha scritto solo per spronarla a perseverare nelle buone, consuete e sante opere. Del resto, dica ciascuno quel che gli pare: a lui basta l'aver predicato le parole di Cristo, dei profeti e degli apostoli. (1) Coli. XVIII, pag. 79. ; i Dina Colneei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 225 In una breve esposizione del trattatello è impossibile far risaltare ciò che ne costituisce l'interesse maggiore: le frequentissime digressioni riguardanti la vita contemporanea, i giudizi sagaci sui fatti e sulle idee e sugli uomini del giorno, il carattere intimo della cultura classica e biblica, la disinvoltura con cui son recati esempi dalla storia, dalla filosofia e dalla letteratura antica a documentare la verità degli insegnamenti cristiani (eerdità medievale e umanesimo del più squisito a un tempo), l'opportunità e la suggestività delle belle citazioni dai più bei libri della Bibbia, il calore appassionato con cui si muove a difesa della virtù conculcata, la vivezza dello stile che, smesse le fasce — davvero non molto strette — del latino, si muove a suo agio ben sciolto e vispo nella libera veste del vernacolo leccese. Ma anche da uno scarno riassunto risalta subito quel che è veramente essenziale notare: qui ci troviamo nello stesso punto di vista dell'Heremita. Le due opere, pur se scritte con diverso fine, sono animate da un medesimo spirito, e ciascuna di esse si spiega e si completa con l'altra. Alcuni dei primi biografi del Galateo (1) dissero che l'Esposizione aveva lo scopo di difendere l'autore dall'accusa di irreligiosità mossagli in seguito alla divulgazione dell'Heremita. I moderni osservarono col Barone che invece nel trattato sono ripetuti e di molto accentuati quegli attacchi, che già si trovavano nel dialogo, ai degenerati ordini religiosi. In fondo, hanno ragione glí uni e gli altri. L'Esposizione è un'apologia dell'Heremita, ma in quanto, facendoci cogliere la continuità che lega tutta l'opera del Galateo, ci permette di penetrare il senso dell'allegoria del dialogo, di capire la genesi e l'anima di quella critica. E' la stessa lotta contro la superficialità e il formalismo, lo stesso sforzo di ricostruire una coscienza profondamente e non ipocritamente religiosa; la stessa appassionata discussione sugli stessi problemi morali, la stessa difesa contro le solite accuse d'incredulità e (l'infedeltà, Io stesso dubbio torturante: — perchè gringiusti sono esaltati e i giusti perseguitati — lo stesso acquietarsi nella serena fede che la Provvidenza guida tutte le umane cose al bene: d'altra (1) Il Da ANGELIS, il CALOGERÀ, 10 ZENO, il COLANGELO. Quest'errore fu ripetuto, insieme con molti altri, dal CORNIANE I Secoli della Letteratura Italiana dopo il suo Risorgimento. Torino, 1855. Voi. II, pag. 99. , p il ti:1H 226 il 19, wr,H F'4`1d rilTrwri i h111`i'll . ,,H 1,',Y,11;ndli91 Rinascenza Salentina parte, i retti giudizi sulla storia biblica e sul suo significato di simbolo e preparazione (1), insieme col valore assegnato all'autorità degli Apostoli e dei Dottori chiariscono qualche fraintesa situazione del dialogo. Tanto l'Heremita che l'Esposizione del P. N. non sono opere puramente teoriche di filosofia e di teologia; diventano incomprensibili se avulse da quella che era la realtà presente delle condizioni di vita nella corte aragonese e nelle città e borghi pugliesi tra il 1490 e il 1510. Nella realtà viveva tuffato il Galateo: era essa che gli premeva. Natura profondamente morale, non ci fu aspetto della vita su cui non portasse il suo giudizio, non ci fu piega così nascosta dell'animo umano in cui non penetrasse il suo acuto occhio clinico. Infatti le due opere, pur così simili, sono diverse: e quel alcunchè che le separa è proprio la vita. Quasi dieci anni erano passati, travolgendo una monarchia, mutando faccia con le loro guerre tempestose a molti staterelli feudali e città libere, distruggendo la gioia di tante care abitudini: anni davvero brutti, in cui pochi riuscirono a non capitombolare, con quel terreno che vacillava continuamente sotto i piedi. (le lo immaginiamo il nostro Galateo, il più candido degli umanisti, persuaso che la vera accortezza consista nella semplicità, fra principi come Cesare Borgia e politici come il Guicciardini i La triste esperienza di quel decennio ha arricchito la sua anima meditativa; l'interrogativo penoso presentatoglisi in un'ora amara, dimenticato durante la breve parentesi del ritorno alla dimestichezza col buon Re Federico, era risorto più imperioso dinanzi a tanti sventurati capovolgimenti, e lo sforzo duro, la grave disciplina imposta a sè stesso dall'animo ribelle di natura, per credere alla medesima risposta, per trovare ancora, fra tanta mina, il punto stabile su cui iniziare la ricostruzione, avevano comunicato in premio alle pagine del Galateo un più profondo senso di umanità, gli avevano insegnato a guardare più dall'alto, e quindi a giudicare più serenamente la storia umana. Nell'FIerernita c'era un più fiero e simpatico ardor di lotta; qui invece domina un tono di sottile malinconia. L'« Esposizione del Pater Noster » — dedicata, come abbia- (1) Cfr. Coli. IV, pag. 187. l'+',11'ih1,??, , 'u inwt!I iiiitH n il il P:11.1!! !III` ihurhil _Dina Oolueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo H1 H1';'`,.'wil 227 mo visto, a Isabella d'Aragona Sforza — fn composta in parte durante il tranquillo soggiorno a Bari, nella piccola corte della duchessa. Il Galateo vi s'era forse ritirato poco dopo la sua fuga da Napoli, e di lì assisteva allo svolgimento della guerra franco-ispana, che si combatteva tutto all'intorno. La magnifica cripta romanico-bizantina della basilica di S. Nicola vide un giorno un ometto che indossava l'abito dei sacerdoti di rito greco cercar la sua penombra suggestiva e pregare fervidamente presso l'urna del Santo. Era il 13 febbraio 1503: fra Andria e Corato tredici cavalieri italiani spronavano in campo chiuso contro tredici francesi. Che importava, se dopo il duello i campioni d'Italia sarebbero ritornati a militare sotto insegne straniere Scelti dalle varie provincie italiane, quei giovani sapevano che, per tutta la durata della breve lotta, avrebbero combattuto « pro amore et gloria patriae »; sentivano dietro a sè la grande tradizione, pensavano a Torquato e Corvino, a quel popolo che un giorno aveva imperato a tutto il mondo e del quale essi erano figli. E il buon Galateo faceva voti ai quattro santi cavalieri, a Giorgio, Martino, Demetrio e Niceta, perchè gl'italiani riuscissero vincitori. Quando intese che sulle bocche italo e spagnole si era levato dopo il duello un unico grido alto: Italia ! quando vide i cavalieri italiani entrare in trionfo a Bari, fra le acclamazioni della folla (1), allora un'immensa gioia gli gonfiò il cuore e scrisse al suo amico Crisostomo narrandogli minutamente l'accaduto e chiudendo la lettera con un saluto ottimista « Bene vale et spera meliora ». Questa lettera, pubblicata per la prima volta da G. B. Tafuri nell'edizione leccese del « De Situ Iapigiae » del 1727, fu subito molto apprezzata, e le edizioni e le traduzioni si susseguirono. Contemporaneamente al Grande (2), la traduceva il Do Pace (3), stimando che il suo lavoro sarebbe riuscito di gradimento a chi « nato in Italia e stanco della vita del presente, sentesi italiano in quella del memore passato ». Il Faraglia, raccontando la storia della famosa disfida nel suo « Ettore e la (1) Coll. II, p. 269. (2) Coll. degli scrittori Salentini. Lecce 1867, Vol. II, pag. 259 e segg. (3) Opuscoli Letterari. Napoli, 1867, e. 2. thhill'I'lpdll woh ,H1'4`1),11,11'?`1 g: t 228 Rinascenza Salentina casa Fieramosca » (1) affermava di valersi della lettera del Galateo e dell'anonima «Historia del Combattimento dei tredici italiani con altrettanti francesi, scritta da autore di veduta » (2 ) come di fonti più sicure rispetto alle altre, ossia al Guicciardini, al Passaro, al Giovio, al Cantalico, al Summonte, al Mambrin Roseo, al Notar Giacomo, allo itrita, al Sabellico. Nel 1903, ricorrendo il centenario della sfida, si . ebbe un'altra edizione della lettera galateana (3). Poi tornò ad occuparsene A. De Lina (4), che, confrontandola con quanto avevano scritto in proposito il Gaie, ciardini (5) e il Giovio (6), trovava « molto più bella, più poetica e certamente più vera » la descrizione del combattimento fatta dal Galateo, « il medico dotto e sapiente, che fra le cure degli ammalati e Io studio della storia antica della sua terra e le ricerche sul veleno delle tarantole, trovava modo di narrare per esteso e famigliarmente i fatti più notevoli che avvenivano allora nella sua Puglia » (7). Il medesimo De Lina credeva di riconoscere in questa lettera una delle fonti del romanzo del D'Azeglio. Alcuni anni fa, essendo sorta una polemica intorno alla nazionalità dell'unico morto nel famoso duello, Graiano d'Asti, (che secondo il La Sorsa era invece francese d'Aste), G. Petraglione interveniva a chiuderla con la testimonianza esplicita della lettera galateana, « documento redatto da uno storico di provata scrupolosità, in un ambiente benissimo. informato e ancora tutto vibrante del clamore che la superba vittoria dei tredici campioni italiani aveva destato » (8). Parecchi storici — e fra questi il Gothein (9) — cercarono di gettare dell'acqua fredda - apoletano. Il, fase. 4°; III, fase. 3°. (1) Archivio Storico N (2) Capua, 1547. (3) G. GIGLI. Due lettere del G. sulla disfida di Barletta e su Ettore Fieramosca. Fan f. della Doni., XXV, 6. (4) A. Dm F. e La disfida di Barletta. Rivista Storica Salentina. III, 1907, pp. 325-35. (5) Historia d'Italia. Venezia, 1563, L. V., pag. 145 e segg. (6) La Vila di Consalvo Fernando di Cordova, detto il Gran Capitano. Firenze, 1550, pp. 136-45. (7) Op. eit., pag. 333. (8) Japigia, a. II, 1931, pag. 373. (9) Op. cit., pag. 125. • TwHi( iiiiiilThiurPHinti,',i1'L Dina Oolucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 229 sull'entusiasmo degli italiani dell'800 per la celebre disfida, osservando che era esagerato considerar come simbolo della gloria nazionale una corona riportata in una giostra da cavalieri che servivano nell'esercito spagnuolo. Questo è vero, ma quand'anche si volesse distruggere tutto il valore ideale che si è attribuito a quel fatto, è impossibile negare che un umanista, educato dal culto dei classici e dei grandi trecentisti ad un arde:, tissituo e quasi moderno sentimento nazionale, sentì l'animo dilatarsi in un'im►ensa speranza, vedendo che agl'italiani neque prudentiam neque animi et corporis vires, nihilque aliud deesse, nisi bonam tnentem coneordiamque, ut iterum toto orbi dominarentur » (1). La discordia era la prima fonte di tutti i mali d'Italia: in ogni suo scritto il Galateo martellò su questa idea. Gliel'avevano insegnato Dante e il Petrarca: la triste storia di ogni giorno trasformò il loro monito in esperienza vissuta. Ecco un ah ro carattere del Galateo, sul quale non ci eravamo fermati che di sfuggita: l'amore per l'Italia. Fu proprio questo ad attirargli nel 1867 — appena apparvero in un sol volume, insieme con gli altri opuscoli, il De Situ Japigiae », il « De educatione » e il « De Pugna tredecim equitum » — gli entusiasti elogi del Fanfani e del Capuana (.2). < Fu una singolare inaspettata affermazione del carattere nazionale » scrive il De Fabrizio ( 3), alludendo specialmente al « De educatione >, e invero il tono alteramente e sanamente patriottico conferisce alle idee pedagogiche del Galateo un carattere tutto particolare. Il « De educatione » trovò subito molti illustratori. Il Celesia ne parlò con calore nella sua « Storia della pedagogia italiana » (4), dichiarando il Galateo superiore al Vegio, al Vergerio, al Piccolomini e al Filelfo, in grazia appunto della 4 sacra carità di patria » che ispira unicamente il suo libro. Di molte note lo corredò il Croce (5), additandolo come « una delle espressioni (1) De pugna tretlecim equilum. Coli. II, pag. 267. (2) Coll. III, app., pag. 7 e segg. (3) Il sentimento nazionale nella Rinascenza. Una voce pugliese. Japigia, 1930, I, 1, pp. 4853 (4) Milano, 1872-74, pag. 205 e segg. (5) Il trattato «Da educatione di A. G. Giorn. storico lett. ital., XII, 1894, t'. 69, pp. 394 406. I i, i r H H H T! F hi H P:1, 230 3-21 - )=- r i I 1,H,`11 . 1,,P, .1 1 1:H , H cl. lu, I , 1 1?inascenza Salentina più efficaci della ripugnanza dell'italiano del Rinascimento al contatto dei nuovi costumi del popolo spagnuolo ' e facendo risaltare l'importanza dei particolari concernenti la storia del costume. Dal punto di vista storico egli se ne valse ancora nei suoi studi su « La Spagna -nella vita italiana durante la Rinascenza» ( 1 ), sempre per documentare l'atteggiamento dei rappresentanti della cultura italiana contro l'invadenza spagnuola, da essi giudicata barbarica. II « De educatione », certo, ha un carattere assai curioso, al pari di tutte le altre opere del Galateo. 4( Sa dissertation pédagogique est surtout une diatribe » osservava A. Morel-Fatio (2). AI nostro umanista riusciva assolutamente impossibile sedere a tavolino e scrivere una sola pagina di astratta teoria, obliando nella calma speculazione le cure della realtà. Macellò l Scrivere significava per lui gettare sulla carta tutto ciò che lo angustiava e lo rallegrava, così, con la massima libertà, senza uno schema preordinato, seguendo la penna dovunque lo volesse portare, saltando di palo in frasca, aprendo ad ogni passo delle immense parentesi che fanno perdere completamente di vista il tenue filo logico. Per scrivere al suo Acquaviva o al suo Crisostomo o al suo Sincero di filosofia o di morale o di scienza o di qualsivoglia altra cosa, non s'impaludava solennemente e non saliva in bigoncia, circondato da mucchi di bene ordinate carte piene di appunti: si valeva sopratutto della sua esperienza, ed esperienza vissuta era diventata per lui la stessa cultura classica profondamente assimilata. La più gran parte delle citazioni le faceva a memoria. Se non ricordava le precise parole degli antichi, non si preoccupava certo di andare a rovistare nelle biblioteche, perciò non aveva il tempo di « volvere volumina ». E poi, a che sarebbe servito trascrivere una per una le opinioni dei vari autori I A comporre un libro colle fatiche degli altri I E se la cavava col consigliare disinvoltamente ad Altilio: — Tu, si libet, omia perlegito (3) —. Non sappiamo che cosa fossero le sue opere smarrite che dal titolo appaiono di carattere più stret- (1) Bari, 1922, pp. 109-122. (2) Romania, 24 luglio 1895, pp. 477-78. (3) Coll. III, pag. 285. 1q 1, ','"11wiii.tw Dina Colucci - Antonio De Perrariis detto il Galateo 231 tamente teorico e tecnico, quali l'« Expositio super Petolomaei tabulas », l'altra « Expositio in Aphorismos Hippocratis », i « Problemata », l'« Encrasia » ecc.: i trattati che ci restano non si potrebbero a rigore inventariare ordinatamente per genere e materia e disporre ad uno ad uno nel casellario fabbricato necessariamente dagli storici della letteratura. Il « De educatione » non è esclusivamente un trattato pedagogico, come nel « De Situ Japigiae » non si parla di sola geografia e nel « De Podagra » di sola medicina. Dopo le pagine dedicategli dal Celesia e dal Croce, sono state poche le storie della pedagogia italiana che non abbiano parlato del Galateo (1), facendo risaltare specialmente la difesa dell'integrità italiana e la riabilitazione della letteratura volgare nel campo pedagogico, ambedue da lui propugnate. Ma la migliore e più suggestiva interpretazione dell'opera del Galateo come educatore si trova nel bel libro del Vidari su « L'educazione in Italia dall'Umanesimo al Risorgimento » (2), dove l'umanista leccese è annoverato fra i primi agitatori di un pensiero pedagogico nazionale. Di fronte alla concezione eudemonistico-estetica, vuota di ogni serio contenuto morale e religioso, del Palmieri, dell'Alberti, di Alessandro Piccolomini, del Castiglione, nella quale era venuta a chiudersi la parabola del pensiero educativo italiano, sorto nel '300 con l'esigenza di una nuova educazione non più meccanicistica e verbalistica, ma viva e sostanziosa, il Galateo rappresenta la' reazione in nome (li più forti ed alte idealità morali e nazionali. Egli è l'uomo «che vive tra le cose, e sente la coltura, come elemento e alimento essenziale di una coscienza operosa rivolta a fini altamente sociali ». Tanto lui che il Machiavelli si sollevano, • sotto il pungolo della esperienza vissuta », alla intuizione di un modo più robusto e più realistico di concepire l'educazione. Ma il metodo educativo del Machiavelli subordina l'educazione religiosa, morale e intellettuale alla politica e militare. Più urna- (1) Cfr. G. B. GERINI. Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XVI, Torino, 1877, cap. I, e recens. di R. RENIER sul Giornale Storico, XXXI, 1898, pp. 133-135. — Dizionario di scienze pedagogiche, diretto da MARCHESINI, Milano, 1929: articolo sul Galateo di E. TROILO. — BORLA e TESTORE. Manuale di Storia della pedagogia. Torino, 1935, ecc. (2) Roma, 1930, p. I, S. II, c. 20. Rinascenza Salentina 232 nisticamente larga e armonica è invece la concezione del Galateo. Quella ch'egli sogna pel suo principe giovinetto è davvero una « institut.io italica », che sviluppi in sano equilibrio tutte le facoltà dell'individuo. Il suo programma educati vo è svolto in tre o quattro pagine, che però contengono più cose che non tutti i voluminosi trattati pei suoi contemporanei. Fra le grandi linee di quel piano pedagogico, schizzato così alla buona, circola l'aura vitale che si respirava nei giardini della Casa Gioiosa. Invero, se andiamo cercando a quale dei pedagogisti italiani del '400 si avvicini di più il Galateo, è la simpatica figura del Feltrense che ci si fa subito innanzi. In quello spronare il fanciullo a saper gustare la bella natura, i « cantus avium » e la « dulcis aurorae amoenitas ( 1 ) i. a temperar la severità degli esercizi ginnici e della caccia alle fiere colla soavità della musica, condendo di sale italico i modi francesi, troppo concitati e tumultuosi, e quelli spagnuoli, troppo languidi e snervati ( 2); in quell'esporre criteri così larghi e così alieni da pedanteria in un programma di studio che comprende « res gestas heroum et exempla maiorum et naturalium rerum historiam et moralis philosophiae praecepta » ( 3); nel raccomandar modesta e parca la mensa, ben distribuita fra lo studio e l'esercizio fisico la giornata, nell'inculcare l'odio per ogni menzogna (« nunquam aut ioco aut serio mentiatur ») o la necessità di pregare sinceramente, con cuore puro, senza ambizione o ipocrisia, si coglie l'affinità spirituale che lega il nostro umanista al principe degli educatori quattrocenteschi. Ma lo stare a contatto col popolo preservava il metodo del Galateo dall'estetismo e dall'aristocraticismo latente in quello di Vittorino. II Vidari ha notato quello che di reazione al proprio tempo c'era nell'anima del Galateo. L'inquadramento sarà completo se comprenderemo come egli anche si riallacciasse alla vecchia tradizione, pentirò forse noli si sentirebbe proprio a suo agio se lo lasciassimo in compagnia del solo Machiavelli. Il suo « De educatione » che da (1) Coll. II, pag. 145. (2) Ivi, pag. 152. (3) Ivi, pag. 146. n- • triiH, thd, 12,111illilin iuwitIr''41'L Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 233 = 5— una parte mette a profitto l'anteriore esperienza pedagogica umanistica, e dall'altra si protende verso i nuovi tempi, dimostra come i migliori umanisti, i più coscienti, i più forniti di senso storico, quelli che avevano saputo unificare nel proprio spirito gl'insegnamenti umani del inondo classico col tesoro della tradizione cristiana, e questa loro delicata esperienza interiore arricchivano con l'operosità multiforme, con l'interesse vivo ai massimi problemi religiosi, morali, politici del tempo, sapessero assurgere ad una robustissima coscienza d'italianità, alla intuizione di un pensiero pedagogico che solo diversi secoli più tardi potè pienamente svilupparsi e trovare attuazione (1), (1) Del ,De educatione» e degli altri opuscoli pedagogici del Galateo si sono occupati a lungo anche il DE FABRIZIO: Le idee pedagogiche di un accademico ponlaniano. Riv. di filos. e se. affini, A. III, 1891, Vol. V, n. 5; A. De F. pensatore ecc., pag. 92 e segg.; e G. VAGLIO. A. G. nella morale e nella pedagogia. Lecce, 1914. i • ulil; I ir l, WIT f i.11 111 !III 234 TI I Avi I W H I lin H'. Rinascenza Salentina Cap. VII. Il " De Situ Japygiae " e la sua storia esterna. Il Galateo geografo. Il Galateo medico. 717 )11.= _71 1-• 3= 3= 3-. Ecco il nostro umanista, ormai ritirato definitivamente — salvo qualche sporadico viaggetto a Roma o a Bari — nella sua terra natale, accingersi a descriverla al suo amico Giovambattista Spinelli, conte di Cariati, celebrità giuridica, diplomatico nato » (1), genero di Tristano Caracciolo che lo amava moltissimo e ne scrisse la biografia. Dato il carattere dello scrivente, ed anche il gusto del destinatario, già si sa che il • De Situ Japygiae » non sarebbe stata una più o meno ordinata aridissima compilazione, in cui si desse fondo a tutte le conoscenze degli antichi su Terra d'Otranto, e basta. Infatti, • Spinelle, vir excellentis et animi et ingenii — dichiara il Galateo dopo poche pagine -- non alibi cura est omnia exquisite narrare, quae auctores scripsere, sed summatim aliqua, ut tibi morem gerani, et ut philosophum, non ut historicum decet (2). Scriverà dunque da filosofo e non da storico: ricordiamocene, se vogliamo. ben giudicare e apprezzare il trattatello. Le fonti sono: Strabone, Dionigi, Potnponio Mela, Tolomeo, Plinio, Livio, Stefano di Bisanzio e, fra i più recenti, Guido di Ravenna: son citati talvolta Galeno, Ippocrate, Plutarco, Teofrasto, Avieenna, Averroè, Alfragano, Alberto Magno; spessissimo Aristotele, caro all'autore. Ogni tanto fanno capolino i prediletti poeti: Virgilio, Lucano, Orazio con la sua ode del • Dulce fiumen Galesi »; un ricordo catulliano si affaccia in quali'« insularum omnium peninsularumque ocellus ì, affettuoso epiteto con cui il Galateo accarezza la sua terra salentina (3). Ma quel che egli attinge dalle fonti geografiche e storiche è pochissimo, in sostanza: spesso menziona, soltanto, gli autori antichi che si occuparono della tale o tal altra città, senza riportarne l'opinione. In massima parte, il « De Situ Japygiae » è originale e « in ciò sta il suo valore, poichè è 371 >=_ 3= 3 3= a --+ (1) GOTHEIN, op. cit. pag. 26. (2) Coll. (3) Coll. II, pag. 12. H:i:. ifi riul1WHIÌ.,1iIIIHH.MIIUT111;111111 111,111°1`111111illIHIillt`iiiWiHil;)VH111119,11lill,1 1.9.`1)'11ili! Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo D= i .3171> = • -• 3 — 235 una garbata, esatta, e qua e là vivace rappresentazione delle condizioni di Terra d'Otranto al principio del secolo XVI, rappresentazione che è un prodotto dell'esperienza personale dell'autore » (1). Aveva ragione chi notò che la lettera a Luigi Paladini è un'introduzione al < De Situ Japygiae » (2): quel breve documento c'indica con quali intendimenti il Galateo compose il suo opuscolo e ci colloca nell'esatto punto di vista, da cui lo dobbiamo guardare. « Duolmi, o mio Paladini, che la celebrità della nostra regione sia cosi decaduta, che, per quanto in più luoghi si scorgano le vestigia e, per così dire, i sepolcri di grandi città, pure nessuna memoria ci avanzi nè delle imprese, nè delle città stesse, nè di quei caratteri particolari di cui i nostri Japigi (da notare il possessivo) si servivano, prima che qui giungessero i Greci, dopo la caduta di Troia ». Così vanno le cose mortali, e tutto logora e distrugge il tempo. Una furia ininterrotta di guerre si è abbattuta su queste città, tutto distruggendo e desertando. Perdute le opere degli storici più antichi, quali Eratostene, Artemidoro e Ipparco: Strabone, Dionisio, Plinio ecc. già non possono dirci più nulla. «Sebbene abbia svolto parecchi libri di antichi geografici e storici, poco ho trovato degno di nota »: qualche cosa su Taranto, qualche cosa su Brindisi; tutto il resto è perito. Le antiche città messapiche son consunte da vecchiaia. Guido di Ravenna « nec recens nec vetus auctor » ci dà qualche notizia interessante sulla storia pugliese durante i tempi di mezzo: « Tu vero illum legar, ut et tibi ipsi fidus sis testis ». Difficil cosa è raccontare quel ch'è ormai caduto dalla memoria degli uomini: « nos tamen quoad possumus patrium solum illustrare debemus » (3). Carità patria, desiderio di riunire le «frondi spade », culto amoroso delle scarse reliquie di un remotissimo passato di grandezza, struggimento di non poter sapere nè dire di più: ecco il movente e lo spirito segreto del « De Situ Japygiae ». Si potrebbe osservare che in fondo questo spirito è il patriottismo • 3=7 (1) R. ALMAGIA. Le opinioni e le conoscenze geografiche di A. de F. 3—• Rivista geologica italiana, XII, 1905, pag. 461. (2) E. AAR: Gli studi storici in Terra d'Otranto. Firenze 1888, p. 11 e 3= .3= 3— = a (3) Coll. IV, pag. 134 e segg. segg. • 5=t 3— Rinascenza Salentina 236 locale che animava fin da vari secoli tutte le cronache italiane (1). Si, ma nel « Do Situ Japygiae » esso ha un colorito tutto speciale. I cronisti, quando volevano celebrare le vetuste origini della propria città, non risalivano più in là di Roma o di Troia, e, specialmente nel secondo caso, andavano sempre a cascare nel dominio della leggenda, più o meno allettante o suggestiva. Anche il Galateo s' intrattiene a favoleggiar di Diomede e di Idomeneo p izio, ma sa (li poter orgogliosamente dichiarare che, prima che Enea approdasse alle basse coste otrantine, prima che i Greci muovessero all'assedio di Troia, già nella sua terra fiorivano popolose città, i cui abitanti parlavano una strana lingua e si servivano di strani caratteri. Dagli scavi praticati intorno a Baleso o a Vaste egli vedeva tornare alla luce urne cinerarie, vasellame antico e bronzi e iscrizioni: la nuda storia qui ammaliava più di qualsiasi bellissima leggenda. In un rapido esame dell'opuscoletto rileveremo il contributo apportato dal Galateo alla conoscenza geografica della sua regione. Nelle notizie generali che premette c'è già qualche cosa d'interessante (2). Il geografo troverà le misure di distanze prese da Strabone e ridotte dallo stadio greco nel miglio romano — è riportato anche qualche dato di navigazioni più recenti — e una discussione sul quarto clima, nella quale il Galateo, accettando l'opinione tolemaica e respingendo quelle di Avicenna ed Averroé, coglie l'occasione per rimproverare ai nostri di aver voluto attingere la filosofia e la medicina dai « turbidi rivuli barbarorum », anzicchè dai • purissimi fontes » greci. Altri invece preferirà fermarsi a considerar la nostalgia con cui il Galateo si volge verso il buon tempo antico, quando l'Italia meridionale costituiva il centro del mondo, allora tutto greco; adesso che per la discordia dei greci coi latini e per la conquista turca l'unità si è spezzata, quella che altre volte fu chiamata la Maglia Grecia non è più che un piccolo sperduto angolo d'Europa. Già compare quello che sarà il motivo dominante del piccolo trattato: l'amara meditazione sull'incostanza della fortuna e sulla caducità delle umane cose. Passa a descrivere l'eccellenza dei (1) BURKHARDT, O. e., VOI. I, (2) ALMAGIA, O. e., cap. VI. pag. 200; II, pag. 89. 1,1 Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo --;› 237 prodotti vegetali, ma brevemente, chè più gli preme far notare il mite carattere degli abitanti. La temperie del loro clima li rende temperati anche nell'animo, umani e intelligenti. E qui una lunga parentesi per dimostrare che la mansuetudine conviene all'uomo più che l'ardore bellico e che i re dovrebbero essere inermi. Curioso principio, che si trova anche nen'« Esposizione del Pater Noster ». Il Machiavelli non la pensava così, ma in fondo tanto le considerazioni sue che quelle del Galateo rampollavano dalla stessa esperienza e miravano ad eliminare dalla vita politica italiana con metodi diversi ed egualmente utopistici (date le condizioni storiche, anche quello del Machiavelli era praticamente inattuabile) lo stesso gravissimo inconveniente: le milizie mercenarie, troppo legate all'interesse particolare del signore che le assoldava. Dai re si passa ai papi: a S. Pietro fu dato esplicito comandamento di riporre le armi, ed ora egli, acquistatosi il dominio, si è abituato a maneggiarle e a suscitare le guerre, confondendo quello che è di Dio con quel che è di Cesare. Qui il tono è diverso da quello della lettera a Giulio II. Eppure non era trascorso molto tempo, se pel viaggio a Roma e pel • De Situ Japygiae » accettiamo le date proposte dal Barone (1510 e 1511 rispettivamente). Come il fiero pontefice, in tutt'altre faccende affaccendato, aveva accolto l'omaggio del nostro umanista Cos'era questa pretesa copia autentica della • constitutio » di Costantino I E fu davvero presentata a Giulio II E vi fu qualcuno che in una corte papale del '500 prendesse sul serio una così anacronistica riesumazione I Sono interrogativi ai quali forse sarebbe interessante poter trovare una risposta, che ci aiuterebbe anche a ricostruire la « fortuna » del libello del Valla (1). Intanto il Galateo parla della fauna salentina, e propriamente di quella nociva: tarantole, serpenti, bruchi (2). Sono tutto osservazioni originali, che egli corona col solito ragionamento sulla sapienza della natura, che nulla fa invano, e sulla necessità di accettare da Dio, insieme cogl'innumerevoli beni, anche (1) Cfr. PASTOR. Storia dei Papi. Desclèe 1910. introd., pag. 21. (2) A proposito del « nunc bruchi rediere » (Coll. II, pag. 17), si osserva che le Cronache di ANTONELLO CONIGER menzionano delle grandi invasioni di « brucoli » in Terra d'Otranto nel 1504 e nel 1505 (ediz. cit. pp. 516-18). 'il 11 1, i w - 10,T,`,1111 , r11`lid,ili',1.9,il 238 1` wo h P . TH ll,r111.Yu l 12ll'ildif u l 111111‘9 ,VIIM Rinascenza Salentina quelli che a noi sembrano mali: — Ti lamenti dei ragni, deí bruchi e delle mosche Va un po' a vedere cosa succede nella Scizia o presso gl'Iperborei o nell'Etiopia. Qui nessuno fin ora è morto di fame pei bruchi. -Non ci sono fiumi, ma nessuno soffre la sete, nè la piena ti porta via le stalle con tutti gli armenti.— Taranto: il Galateo fa il nome di alcuni autori che se ne occuparono, ma nella descrizione della città Ball' « imperiosus prospectus », che « sedet superba inter duo maria », si vale sopratutto di ricordi personali: fra l'altro accenna al bacino fatto scavare dagli aragonesi e al giudizio dato su Taranto dai turchi e dai francesi. Il ricordo della « politia » tarantina e del rimprovero del romano Fabrizio provoca un paragone colla realtà del XVI secolo: la ricchezza è causa dì depravazione: anche noi cristiani, dacchè siamo diventati ricchi, siam giunti all'apice dei vizi, ed è strano come gli uomini e gli dei ci sopportino ancora. Tralasciate le testimonianze degli autori classici intorno a Taranto, riporta invece le poche parole di Guido da Ravenna. E' caratteristica l'importanza attribuita dal Galateo alle dichiarazioni di questo storico, e il motivo che ne adduce: solo la storia che non è troppo antica nè troppo recente, riesce a interessare, perehè l'una va a finire in favola e nessuno ci crede, « ut quae Viterbiensis de Beroso et Petosyri et Necepso somniat » (da notarsi questo giudizio su Annio Viterbense), e l'altra è risaputa da tutti noi. « Coneupiscimus historias medii temporis »: per questo egli cita Guido, autore medievale, sebbene sappia che non gli si deve credere se non per quel che ha visto di persona, possedendo egli scarsa cultura greca e non avendo letto i buoni autori. Quanto. al disprezzo per le nebulosità mitologiche e la brama di notizie ben fondate e controllabili, dimostrati dal Galateo, sono una conseguenza del cambiamento d'indirizzo avvenuto nel campo degli studi storici nella seconda metà del secolo XV; ma il Galateo ha pure delle intuizioni che oltrepassano i concetti definitivamente acquistati dalla critica a lui contemporanea, preannunziando quello che sarà il metodo dei grandi storici del '500. Parecchi anni prima, scrivendo a Marino Brancaccio, aveva dichiarato: « Qui nescit quaerere, ne- 2— 21—f• D— = .21Z ■illi7T 1.`lid p, Ti h,7 !1 Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo h 239 scit invenire; qui nescit dubitare, nescit solvere » (1). Con ciò non si può far certo di lui un Cartesio avanti lettera, ma, usando il solito granellino di sale, si può riconoscere ch'egli comprendesse la virtù del dubbio e la necessità di ricostruire sull'esperienza diretta il patrimonio culturale degli antichi. In quegli anni scriveva al Leoniceno: « Semper philosophis fuit contradicendi libertas. Non sunt nobis datae leges quibus obedire cogannis » ( 2). Gli si potrebbe obiettare che anche lui aveva indulto al costume (lei medievalisti quando, nel « De Gloria contemnenda », aveva detto all'Acquaviva di non voler scrivere nè di fisica nè di etica ecc., per non ledere i mani di Aristotele, poichè allo Stagirita • non c'è nulla da aggiungere o da togliere » (3). Così è: dal nostro Galateo, come da tutti i quattrocentisti in genere, dobbiamo accontentarci di accettare intuizioni confuse, baleni fuggitivi. Ci basti che essi riconoscano e pongano per primi i problemi le cui soluzioni costituiranno i gangli vitali delle generazioni venture: non possiamo chiederne loro la comprensione chiara nè pretendere sistemi compiuti. Abbiamo chiamato la posizione del Galateo empirismo storicista. La definizione può sembrare una contraddizione in termini, e forse non è esatta: ma non saprei che altro nome dare a questa situazione intellettuale. Il nuovo spirito del secolo — in quella seconda metà del '400 erano fioriti il Pulci, il Toscanelli, Leonardo — si manifesta nella disinvoltura con cuì il Galateo si sbriga in poche parole della famosa profezia di S. Cataldo: ....« plumbens libellus de quo tot et tanta narrata sunt in toto orbe christiano » (4), che intorno alla Pasqua del 1492 aveva levato a rumore l'iutiero Regno di Napoli. E' tutta originale la breve descrizione della costa fra Taranto e Gallipoli. L'origine greca di questa città è difesa contro la gallica assegnatale da Plinio. La vista delle mura e del castello specchiantesi nel mare suscita il ricordo dell'eroiche difese da Gallipoli sostenute contro i veneziani nel 1484, contro i francesi di Carlo VIII nel '94, contro gli spagnoli ed i fran(1) Coll. III, pag. 7. (2) Coll. III, pag. 48. (3) Coll. III, pag. 87. (4) Coll. II, pag. 28. il 1 :',11 Hill'+`,),11 i i i hrri rir 240 3-- 3=> 1_17 = 1-. 217._ 4hinTilillii, h,d1vli Rinascenza Salentina tesi di Luigi XI nel 1501. Poco prima il Galateo aveva dichiarato che la storia recente no» interessa: che importa ? Adesso ha cambiato opinione: « Quando eorum, qui in extremo Italiae amido latent (1), virtus et fides oblivioui ac silentio datur, nos ipsi Callipolis et Hydrun ti fortia fatta non taceamus » (2): sí tratta di offrire all'Italia un esempio di fortezza civile, e il Galateo non esita. La storia ha un fine morale e altamente educativo: è questa veramente la sua idea madre e ad essa rimane sempre fedele. Ecco il devastato cenobio di S. Nicola: la paginetta che gli dedica il Galateo è tutto quel che sappiamo intorno a questo antico centro di studi. Segue un po' di storia di Otranto sotto i bizantini (fu allora che tutta la penisola salentina cominciò ad essere compresa sotto il nome di Terra d'Otranto). La storia d'Italia nel periodo bizantino e longobardo il Galateo mostra di conoscerla abbastanza bene. Curioso però il fatto che non ne citi mai le fonti: forse la sua cultura non arrivava fino a Paolo Diacono, ma Procopio probabilmente lo aveva letto. Quanto alla storia più recente, del '200 e '300, la conosce solo nelle grandi linee: nei particolari dimostra spesso molta incertezza; anche per quel che riguarda il Regno di Napoli. Neppur di essa cita le fonti: del resto farà lo stesso anche il Marciano, che generalmente è invece minuziosissimo per quel che riguarda la citazione degli autori di cui si vale. La leggenda narrava che Otranto avesse preso per insegna il mitico serpe che ogni notte saliva sulla torre del Faro a succhiar l'olio dalla lampada. Il Galateo, uomo serio e non incline alle « fabulae », ci tiene a metter le cose a posto: il fiume Idro aveva dato alla città il nome — adduce la testimonianza di Tolomeo — e l'insegna. Come chiamare il mare di Otranto, Adriatico o Jonio ? Le opinioni degli autori classici sono divergenti: il Galateo ne enumera alcune, ma si stanca presto e se ne libera con una scrollata: « confusio nominum perturbat rerum scientiam.... Nos de nominibus non curemur, custodita rerum notitia » (3). Quel (1) In « latent » è da correggere, sulla fede dell'ottob. 1922, il « Luceriae » dell'ediz. basileense del 1558, da essa derivato in tutto le edizioni posteriori che la seguirono, compresa la leccese del 1867. (2) Coll. II, pag. 30. (3) Coll. II, pag. 39. a • III iP4u, inn Thi ir 11`111 `fri rilli'`I' 11 . 1 Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo illiuhm, 241 che non bisogna ignorare è l'eroica difesa di Otranto contro i Saraceni e il martirio degli Ottocento per la patria e per la fede. Anche questa è storia recente, ma chi ci bada? Nel semplice scultoreo racconto latino dell'umanista, essa attinge lo splendore dell'epopea. Compose il Galateo una storia della guerra d'Otranto? Forse sì, ma non possono esserne traduzione quei « Successi dell'armata turchesca nella città di Otranto nell'anno 1480 e progressi dell'esercito ed armata condottavi da Alfonso ecc. », gabellati come tali dall'autore Giovati Michele Marziano, canonico otrantino W. La questione — molto complicata — che sorse sulla loro autenticità, e alla quale parteciparono anche il Muratori e il Gregorovius, fu riassunta da L. G. De Simone ( 2). Alla bibliografia addotta da lui c'è da aggiungere un nome, quello di Armando Perotti, il quale, riconoscendo che l'operuccia del Marziano è una falsificazione e una raffazzonatura, fatta per esaltare qualche famiglia del luogo, rimpiangeva la perdita della storia composta « quasi certamente » dal geniale umanista: « Peccato:— ci rifaremmo la bocca e lo spirito leggendo, in quel suo forbito latino, il racconto vivo di cose vedute e sofferte » (3). Originale è l'esattissima descrizione del lago Limini. Ecco ricostruita con amore la storia di Roca e confutato l'errore di Tolomeo che la identificava con Lecce. Poco più oltre, l'accenno alla Specchia Gallone, ai « cumuli lapidum » e ai « cumuli ex terra », così frequenti nella regione salentina, è servito al Teofilato per ricavarne la distinzione di tre tipi di Specchie esistenti o esistite iu tutta la Puglia: la « Specula », castello, fortilizio, tutta di nude pietre; la « Spelunca », Specchia dall'aspetto cavernoso; il « Tumulus », specchia funeraria di terra (4). Poi il Galateo s'indugia intorno al porto di Brindisi, sagace opera della natura « ludentis et providae »: la malaria secondo lui vi si è sviluppata in seguito allo spopolamento ed anche all'in- (1) Copertino, per DEVA 1583; Napoli appresso L. SCORIGGIO 1612; Lecce, Coll. XVIII, 1871. (2) E. AAR, op. cit., pag. 87 e segg. (3) Storia e storielle di Puglia. Bari, 1923, pag. 248. (4) C. TEOFILATO. Analisi e critica del passo galateano sulle Specchie. Nel Gazzettino, A. VII, n. 28, 13 luglio 1935. IN ,Q1 .A1 I , T, 'il i, i r:`'w w i 1,1`1,11H Itn l 7.•• 242 Rinascenza Salentina curia dei cittadini; ecco perché i greci non costruivano se non piccole città. Della testimonianza di Guido di Ravenna e di alcuni fatti della storia recentissima si vale per documentare l'integrità e la fedeltà di quella regione, « quae non visi veris imperatoribus parere solita est » W. Un rapido schizzo di Oria, città montana, e poi subito anche per lei un ricordo di fortezza: la strenua resistenza opposta all'assedio spaguuolo. Eppure, i difensori erano pochi e le mura distrutte: questo dimostra che i regni e le città possono essere difesi solo dalle braccia degli uomini e non da torri e fossati. Avevano forse ragione gli spartani e torto Aristotele (notare questi continui riferimenti all'antica vita greca, molt~pportuni riguardo a un paese dove la tradizione greca era così viva): essi non vollero la loro città chiusa da mura, affinché i cittadini fossero sempre pronti a correre alle armi. Non altrimenti giudicavano gli antichi quando volevano che nulla si affidasse alla carta, per non divenir smemorati: ora è tanta la quantità e la voluminosità dei libri, che è impossibile tenere a mente, nonché le parole degli autori, neanche i lor nomi. Egli non condanna i libri in sè stessi, ma l'« inanem immensitatem • di tutti i volumi che ogni giorno vengono alla luce, scritti solo per arroganza e per dar da mangiare ai tipografi; così, non condanna certo le fortificazioni, « sed hoc mihi semper persuasum velim, quod nostris malis didicimus: nihil nobis tot sumptus, tot munitiones profnisse, solamque eam arcem ( 2) tutissimam esse, quam valentes volentesque tutantur » (3). Ritorna ad Oria. Ecco Casalnuovo: ma più che la borgata a lui interessano le rovine sulle quali è sorta, e quelle di Baleso, coperte di primi, e qua e là le superstiti traccio della via Traiana. Poco discosto sorgeva la sua villetta, ed ivi un giorno era corso a chiamarlo un contadino che, scavando un pozzo, aveva trovato tavolette di candido marmo: erano i resti di sontuosissime terme. A poche miglia ecco un altro centro di lavoro e di studio, già nel '500 squallido e deserto, « come tutto ciò clic viene iu potere dei principi dei sacerdoti »: il tuona(1) Coll. II, pag. 53. (2) Così è da correggere l'« artem » delle edizioni dipendenti dalla basi leense. (3) Coll. II, pag. 56. I 5111 +li l* i V5. IIILL 4 D i 1,1 7`,) , 1`fl Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo = 3= 243 stero basiliano « de Ceratis ». Un po' più oltre, ancora rovine: Rudiae, la patria di Ennio. Strabone dichiarava di occuparsi solo delle città fiorenti e popolose ai suoi tempi; il Galateo non approva: preferisce aver notizia di quel che un tempo fu grande ed ora le vicissitudini del tempo hanno coperto di solitudine e « Meglio credere alle menzogne, che non esistettero, degli antichi, che alla verità dei moderni; meglio seguir la negligenza di quelli, che l'oscura diligenza di questi ». Evidentemente, il « De Situi Japygiae » è germogliato da uno stato d'animo pessimista. Il Galateo non ha più nessuna fiducia in quello che è pensiero e, quel che più importa, sentitnento moderno. Questo suo cercar le rovine non è soltanto un voler assegnare un blasone di nobiltà alla propria stirpe: esse prestano sopratutto un tranquillo rifugio alla sua meditazione tutta protesa verso il passato; costituiscono l'austero scenario, che i fantasmi delle lontane età sorgono a popolare. Se nel 1496 la Puglia gli sembrava un esilio e la mente irrequieta rimpiangeva la spiaggia ridente di Mergellina e Posillipo, ora la vita nella capitale non gli fa più gola: non ci si troverebbe più. Cadute le speranze in un ritorno degli aragonesi, cadute quelle in Ferdinando il Cattolico, cadute anche quelle in Giulio II, dal quale il Galateo si attendeva molto più di quel che i tempi e il carattere e gl'intendimenti del della Rovere consentissero, l'orizzonte politico dell'umanista torna a restringersi, a raccogliersi intorno a quel lembo di terra italo-greca, donde un tempo la sua giovinezza aveva spiccato il volo verso il gran sogno di restaurazione imperiale romana. Ora al suo animo in ascolto parla con voce più intima e suadente la poesia della solitaria campagna salentina, dove l'aratro urta contro gl'ipogei messapici, dove l'elce e l'ulivo stormiscono intorno ai megaliti millenari, dove la terra custodisce con egual cura amorosa i semi delle messi e le argille e i bronzi della protostoria. Difendere i miseri avanzi del patrimonio di grecità ereditato dagli avi: ecco adesso il suo ideale. Il tono un po' agro che adopera verso i « principes sacerdotum » forse deriva anche da questo, che alcuni « circumforanei mendicantes latini » — quegli stessi che tanto spesso nelle sue opere ha accusato d'ipocrisia — avevano perseguitato i sacerdoti cattolici di rito greco, sollevando una lunga disputa intorno alla questione del pane I i • iI,h Liwilr''9F 1'1111 ilioh ;I ii h ,117u i i Il i i àr '+`',1w i 11',",',11,1 Rinascenza Salentina 244 >=,,; .• azimo e fermentato, questione che si era finito col portare a Roma (1). L'appassionata difesa della grecità culmina in uno sfogo, che a dir vero non ci aspetteremmo: — O Spinello, io mi vergogno d'esser nato in Italia. Ls Grecia perì per vecchiaia e per avversa fortuna, l'Italia per sua deliberazione e per le sue discordie. L'una e l'altra servono agli stranieri, questa spontaneamente, quella costrettavi. La Grecia spesso liberò l'Italia dalla schiavitù dei barbari, l'Italia permise che la Grecia servisse ai barbari. « Sed nos sedermi] nostrornm poenas luimus luemusque; nam nostra mala, ut vidimus, nondum ad summum pervenere. Non sit verbo omen; dico non quod volo, sed quod sentio » (2). E' questa sul serio una rinnegazione dell'Italia Anche il Gothein giudicava di no. Chi conosca qual fremito di italica fierezza abbia avvivato l'opera del Galateo, comprenderà quale affetto doloroso si nasconda sotto le parole sdegnose. Andiamo avanti nell'itinerario japigio. Dopo aver rivendicato a Rudie di Lecce — identificata per mezzo delle iscrizioni scoperte in quel territorio — il vanto di aver dato i natali a Quinto Ennio (adesso, dopo qualche incertezza, si è !tornati all'opinione del Galateo) si passa a Lecce. L'autenticità del nome Lupiae è dimostrata sulla scorta di un'iscrizione vista a Napoli in Santa Maria della Libra e riportata per intero: si deve riconoscere che il Galateo è stato uno dei primi a ricercar fonti epigrafiche, onde servirsene nella ricostruzione della storia del suo paese. Poco più oltre, però, afferra un granchio: attribuisce l'anfiteatro romano di Lecce (gli « arens, cuniculi, forniees .) e le circostanti costruzioni antiche a Idomeneo, anzi agli antichi Japigi e a Mallennio. Però il De Ferrariis ha viste chiaramente due cose: che Japigi e Messapi avevano un'identica origine etnica, e che questa non era greca (3). Inoltre, egli afferma che la tradizione poetica che fa risalire le colonie greche del Salento a Idomeneo, re di Creta, è confermata indirettamente da Aristotele, che assegna ai Cretesi il dominio delle isole greche e di tutto l'Egeo. Le fonti antiche che fanno menzione di Lecce — Plinio, Stra- (1) Coll. II, pag. 89. (2) Ivi, pag. 82. (3) Coli. II, pag. 66. • i li' t P, tH1 m itw nn il il il h i di f'4',11 , 11 Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 245 bone, Tolomeo sono discusse con molta accortezza; per descriver le condizioni di Lecce nel Medio Evo son citate le brevi esatte righe di Guido di Ravenna. Originale è la vivace e abbastanza particolareggiata descrizione della campagna leccese, della città e del caratteristico materiale da costruzione. Nello schizzo di storia leccese sotto i Normanni, gli Svevi, i Brienue, gli Enghien e gli Orsini, c'è al solito qualche inesattezza: Tancredi è detto nipote di Roberto il Guiscardo, mentre era pronipote di quel Ruggero incoronato re di Sicilia nel 1130, del quale Roberto il Guiscardo era zio. Gualtiero VI di Brienue è confuso con Ugo, suo avo, nominato conte di Lecce da Carlo d'Angiò. Maria d'Enghien è fatta nipote di Gualtiero VI per parte (li una figlia, mentre lo era per parte di una sorella, e il Galateo racconta ch'ella ricuperò il teschio di Gualtiero VI e lo fece seppellire nella Cattedrale di Lecce, mentre invece si trattava (li Gualtiero V (1). Il Galateo pone in rilievo l'attaccamento conservato da tutte queste città salentine agli aragonesi. La ragione è evidente: scriveva a un gentiluomo che i d'Aragona avevano favorito ed innalzato, ed egli stesso, del resto, ancora dopo la caduta della dinastia, aveva continuato ad essere assistito, con mecenatismo se non lauto simpatico, dalla vedova e dalla sorella di Ferdinando II. Ecco S. Pietro in Galatina: città nuova « sed honestis civibus culta »Al Galateo, da uomo pratico, ne loda la posizione centrale, adatta ai commerci. Ecco la contrada di Muro, disseminata degli avanzi delle mura messapiche: quanto alla città che esse circondavano, • aut aratur aut olivis et ilicibus obumbratur » (2). Ecco i sepolcri di Vaste e l'iscrizione misteriosa che egli a ragione giudica senz'altro, per primo, messapica: la ricopia accuratamente e l'inserisce nel suo manoscritto: « Solae enim hae reliquiae sunt tam longae vetustatis ». Dopo un breve accenno alle rovine di Montesardo e Vereto, ad Ugento, città vescovile, e al suo Ninfeo, ci conduce finalmente alla sua Calatone. Per quanto il nome sembri accennare ai Galati dell'Asia, egli insiste sull'origine tessalica della città. Da lui attingiamo (1) BRIGGS: Nel Tallone d'Italia. Lecce, 1913, pag. 115-170. (2) Coll. II, pag. 76. !l'il hill':`,1,111 j, 2— O., i t ! ' 24(i Flui il il !,,T it'i1",?il Rinascenza Salentina notizia della guerra che si svolse tra i vicini villaggi di Calatone e Fulciguano — ambedue di origine greca — portandoli a fondersi in una sola borgata. Ecco la descrizione idilliaca del patrio « ager apricus semper vernans fioribus » e, a proposito della caratteristica produzione del croco, la questione — in cui forse c'è la rimembranza di un passo delle Georgiche — se tutto ciò che ora è sativo sia stato un giorno selvaggio. Il padre del Galateo aveva preso parte alla guerra tra il Cablora e Giovann'Antonio Orsini, parteggiando per la regina Giovanna, come tutti i galatonesi: qui è riportata la lettera che, dopo la vittoria dell'Orsini, egli mandò dall'esilio al suo antico avversario. La lettera non c'entrebbe col fine principale del • De Situ Japigiae », ma è un capolavoro di dignitosa e magnanima apologia e si capisce come il nostro Galateo non potesse rinunziare ad inserirvela. Tra i vari nomi latini di Nardò, egli ritiene autentico quello di « Neritum », per la testimonianza di una lapide scoperta in territorio leccese. E' da notare la menzione (lei fenomeni carsici nell'agro lievitino. I fantasmi che il popolo credeva di veder sorgere dalle paludi di Nardò e dai campi di Mauduria e Copertino sono accomunati in un sol disprezzo con tutte le altre superstiziose credenze, antiche e moderne, orientali e occidentali, di streghe, vampiri, larve, ecc., e attribuiti a deliri della stolta mente umana. Il Galateo è il primo a spiegare con la teoria della riflessione, delle cui leggi ha una visione chiara, il fenomeno della Fata Morgana, che aveva fatto talvolta impazzir dal terrore le popolazioni marittime pugliesi, presentando loro dall'oriente l'avvicinarsi di innumerevole flotta turca. A lui, infine, siamo debitori di quel poco che sappiamo intorno all'antica scuola greca di Nardò, il maggior centro di studi della regione per tutto il Medio Evo e buona parte del Rinascimento. La testimonianza dell'umanista riguardo a Nardò e all'abbazia casolana, insieme con quella dei numerosissimi codici greci di Puglia sparsi per il mondo ci per-. mettono di correggere, per quel che si appartiene al Salento, il giudizio dello Zabughin, che cioè il Mezzogiorno, la terra più (1) Cfr. VACCARI. La Grecia nell'Italia Meridionale. Studi letterari e bibliografici. In Orientalia Chrisliana. III, 19'25, 3. 2 • g== ?p 1•11 1 1 ,./ r ,1 Ii111'rPli1111111cU1111H1(:111' 11 1 11111 1 111111 1j 11 Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 11.2.1111 247 classica fra le regioni (l'Italia, nulla abbia dato, tranne Barlaamo e Leonzio Pilato, per la cultura ellenica dell'occidente (1). Con un saluto affettuoso alla città che aveva educato e protetto la sua adolescenza, il Galateo chiude la piccola opera. Il « De Situ Japygiae », data la sua originalità, costituisce una fonte preziosa per la conoscenza geografica e storica di Terra d'Otranto. Non c'è stato in seguito corografo di questa regione che abbia potuto prescinderne. Dopo il Galateo, Girolamo Marciano fu il secondo a occuparsi di corografia salentina nei suo Descrizione, origine e successi della provincia di Terra d'Otranto » ( 2 ). Scorrendo il volume, si trova spesso citato l'umanista di Galatone: talvolta -- anche — il Marciano attinge da lui senza citarlo. Dal Galateo derivano, fra l'altro, le considerazioni malinconiche sull'antico splendore della Japigia e sull'incostanza della fortuna (p. 2 e segg.); egli è citato come fonte per la storia del Santuario di S. Pietro della Vaglia (pp. 85-86): alle misure da lui date è prestata maggior fede (pp. 138-139), sua è l'asserzione che la natura del paese influisca sulla natura. degli abitanti e che dalla temperie del clima derivi quella dei costumi (p. 143); sua la spiegazione assegnata al fenomeno delle « mutate » (p. 201); è citato ancora a proposito della sorgente sulfurea di Santa Maria presso Nardò (p. 359) e della battaglia fra gallipolini e veneziani (p. 364); è riportato quant'egli aveva scritto intorno a Leuca, alle grotte di S. Cesarea, a Vadisco, al monastero di Casole, al lago della Limbi:, a Rocca, al castello di S. Cataldo, alle Specchie (pp. 366-67, 375-78, 385, 39495, 397-98), a Manduria, ai fenomeni carsici, alle rovine di Baleso, al Cenobio di Cerrate (pp. 460, 464, 466, 468), a Nardò (pagina 483 e segg.). Anche se non è citato appare l'influenza dell'opuscolo del Galateo nella descrizione del porto di Brindisi e della chiusura fattane da G. A. Orsiní (p. 398 e segg.) e in quella della campagna galatonese (pp. 489-90). Nel capitolo 20° del libro IV (pp. 491-93) si parla di lui, col solito miscuglio di notizie esatte e inesatte (il Marciano lo fa vivere dal 143i al 1530 !). Lo cita ancora a proposito di Ugeuto, Vaste, Montesardo, Ga- (1) V. ZABUGHIN. (2) I 24) •11111111e111 l`tV i 1 Napoli, 1855. Chiaroscuri umanistici. Roma, 1910. i ;111.1 ui, iHt i ii i i W 1119,11Hililli I i I f.'111 illii°1I11111111 1 111 .̀,? 1 il I i ll!19,11W 11.t H 1 ;1;111 Rinascenza Salentina 248 latina, Soleto, e della storia più antica di Lecce (pp. 494-501, 513). Sulla sua fede dichiara falso (mentre invece è vero) quanto avevano scritto Matteo Villani e Peregrino Scardino intorno alla morte di Gualtiero di Brienne duca d'Atene (p. 538). A p. 29 è l'iscrizione in lettere messapiche riportata dal G. nel De Situ Japygiae. Talvolta il Marciano si discosta dall'opinione del Galateo; ritiene ad esempio che Cesarea sia stata distrutta non dai gallipolini, ma dai goti e saraceni (p. 358); e che Gallipoli sia stata fondata non dai Greci, ma dai Galli Senoni, come voleva Plinio (p. 360). Ma per gli studiosi moderni il libretto dell'umanista è molto più pregevole della voluminosa opera dell'erudito del '600. Il vero e proprio contributo originale da quest'ultima arrecato alla conoscenza geografica e storica di Terra d'Otranto non è molto più grande: tutt'altro. Nell'opera del Marciano sovrabbondano le pagine di carattere generale (che ci stanno a fare col Salento le lunghe esposizioni di storia cretese, greca, romana, bizantina, longobarda, normanna ecc. ecc. ? e l'elenco di tutte le divinità pagane ? e le lunghe favole mitologiche ? e la descrizione dello sposalizio del mare a Venezia l) sì che in essa appare raccolto tutto quel che il Marciano aveva letto, in qualsiasi libro, su qualsiasi argomento. E' un ammasso di erudizione che sgomenta, e nel quale è difficilissimo rintracciare quello che ancora può riuscirci utile. Le fonti sono citate l'una appresso all'altra, a decine: molte, anche se l'autore non lo dice, devono essere di seconda mano. Incredibile la facilità con cui sono accostati scrittori per età, educazione e temperamento diversissimi. C'è talvolta un tentativo di mantenersi indipendente, di sceverar nel mucchio delle testimonianze quel ch'è vero o probabile; c'è qualche vivace giudizio critico, come quando il Marciano scrive, per esempio, che Dionigi d'Alicarnasso « va stiracchiando la storia al suo immaginario pensiero » Ma sono rare faville; in generale il discernimento critico è molto inferiore a quello del Galateo. Ci si diverte a vedere la serietà con cui il Marciano espone le tradizioni mitologiche intorno all'origine delle diverse città e dedica un intero capitolo (il 45° del 1. III) a quella « profezia (li S. Cataldo (1) Op. cit., p. 22. • h w `Ip1111 T1 11 1111-11 1 11H:111 1 111,111.1 H 191HI H Ifi 31. Dina Colucci - Antonio De Perrariis detto il Galateo 3- 249 ritrovata nel tempo di Ferdinando I d'Aragona », in massima buona fede, senza dubitare neanche un tantino della sua autenticità. Il De Situ Japygiae è un piccolo capolavoro, cui l'organicità della materia rivissuta dall'animo dell'autore, da lui dominata e riplasmata a suo bell'agio, e la suggestività della limpida forma latina conferiscono un sapore quasi classico (i); la « Descrizione, origini, ecc.» è una compilazione farraginosa dalla quale la personalità dell'autore non emerge che a fatica. Lo spirito che guidava il Galateo nel suo amoroso pellegrinaggio attraverso la terra salentina è tornato a rivivere invece, dopo tre secoli, in uno studioso dell"800, Cosimo De Giorgi. Nella vasta sua opera, condotta per oltre cinquant'anni, di illustrazione del Salento, più volte il De Giorgi si è riferito al Galateo, citandolo come fonte preziosa ed esatta. Ma chi scorra i due volumi dei « Bozzetti di viaggio », qualificati dall'autore come « terzo censimento dei monumenti di terra d'Otranto - (2) e gli altri due della « Geografia fisica e descrittiva della Provincia di Lecce» resterà sopratutto colpito dall'affinità spirituale che lega il medico e geografo umanista del secolo XV al medico e geografo del secolo XIX ( 3): la stessa carità patria — illuminata e non anuegantesi nel gretto campanilismo — lo stesso sagace spirito d'osservazione, la stessa versatilità o genialità di cultura, lo stesso equilibrio, lo stesso buon senso, la stessa vena arguta e spigliata; è, insomma, il fiore di quel tipo eclettico salentino quale si è costituito e selezionato nei millenni attraverso il succedersi delle razze. Ed ora, alcuni particolari intorno alla storia esterna del De Situ Japygiae. Anzitutto è proprio vero quel che asseriva il Giustiniani (4), che cioè l'edizione basileense del 1558 (quella del 1553, di cui parlano il De Angelis e il Soda è irreperibile e forse non è mai esistita) è stata più tardi contraffatta. Del- (1) Cfr. P. Giovi°. Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita. Venezia, 1546, pag. 70. (2) Op. cil., pag. XVII. (3) Cfr. C. COLAMON►CO, Cosimo De Giorgi. In Rivista Storica Salentina, XIII, fol. 11-12. (4) Saggio storico-critico sulla topografia del Regno di Napoli. Napoli, 1793, pag. 174. i H II‘P4.i tlil! 111-elill'il • 250 Rinascenza Salentina l'edizione vera, tipograficamente molto migliore, si possono vedere due copie nella Biblioteca Nazionale di Roma (segnate rispettivamente 6-9-F-32 e 12-17-1-9-2, provenienti l'una dalla biblioteca dei Gesuiti del Collegio romano, e l'altra da quella (lei Cappuccini). Della falsa, diverse copie sono disseminate nella Provinciale di Lecce, nella Nazionale di Roma, nella Vaticana, nella Casanatense, ecc. Le differenze fra le due edizioni — lievissime e riguardanti il frontespizio, il formato, la numerazione delle pagine, la ripresa delle parole, l'errata corrige — son quelle segnalate dal Giustiniani. Quanto al testo, l'edizione falsa riproduce esattissimamente la vera. Dove e quando fu compiuta questa contraffazione l Secondo il Giustiuiani, a Lecce. E' probabile. Le copie che se ne trovano nella Vaticana, appartengono al fondo Barberiniano: poichè il Card. Francesco Barberini, fondatore della Biblioteca, tra gli altri suoi innumerevoli corrispondenti che gli raccoglievano materiale in ogni parte d'Italia, aveva pure Silvio Arcudi di Galatina (morto nel 1646: la biblioteca provinciale di Lecce possiede, fra i ms. galateani parecchie copie di sua mano), forse fu proprio questi a inviargli le opere del Galateo stampate e manoscritte W. Allora, la contraffazione (lel De Situ Japygiae di Basilea si potrebbe ritenere anteriore al 1650. Poi c'è un'altra questione. Giovan Bernardino Tafuri nella prefazione alla sua edizione leccese del De Situ Japygiae del 1727 (2) accusava il primo editore dell'opuscolo, Giovan Bernar(lino Bonifacio marchese di Oria, di avervi inserito delle frasi contrarie alla Chiesa Cattolica, che non si trovavano nei MISS. dell'autore, e dichiarava che, sulla fede di questi, avrebbe restituito la lezione alla pristina integrità, come aveva già fatto Antonio Scorrano, curando l'edizione napoletana del 1624. I passi incriminati nell'ediz. di Basilea sono i seguenti: 1. — p. 24: Praecepit Petro dominus noster, ut arma conderet, quamvis ille nunc nescio quomodo aut quibus artibus rerum potitus, arma stringere ac bella exsuscitare tam prompte (1) Barberiniano è il ms. del De nobilitate (app. n. 2, p. XI e segg.). (2) Riprodotta da M. TAFURI, Op. cit.. pp. 9-10. il 1U i L;,;', J thill pn imil i, I Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 251 assuetus est: atque ea, quae Dei, cum iis, quae Caesaris erant con iu nxi t. 2. — p. 35: Exewplo nobis sunt principes sacerdotum, quibus dum pauperes erant, satis fuerant oluscula et pisciculi nunc nee, terrae nec maria eorum gulae ac libidini sufflciunt. 3. — p. 35: Nec non et nos christiani, ut dixi, dum pauperes et mendici fuimus, pio iusteet sarete diximus: et postquam res ehristiana ad tantas devenit opes, in apicem vitiorum ascendimus, nec habemus quo ulterius progrediamur. 4. — p. 77: .... mine paeue desertum est monasterium, ut et caetera omnia, quae in potestatem Principum sacerdotuw deveniunt. Nell'ediz. del 1624, curata dallo Scorrano, il primo e il secondo passo mancano, nel terzo ali'• ut dixi » è sostituito un « (bonorum pace) »; nel quarto al « princípum sacerdotum » è sostituito un « principum iniquoriun ». Nella ediz. leccese del 1727, curata dal Tafuri, il primo, il secondo e il terzo brano sono saltati; il quarto invece si trova a pag. 85 tale e quale come nell'ediz. di Basilea. Il D e Si tu J a p i g i a e curato e annotato dal Tafuri fu inserito nella « Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici » del Calogerà ivi mancano tutti i quattro brani su riferiti e i tagli sono praticati ancora in modo diverso. L'edizione curata dal Giordano (2) pur recando il « Cum superiorum lieentia » come le tre precedenti edizioni italiane, riproduce integralmente quella di Basilea che era stata intanto seguita anche dal Burmann (3). Michele Tafuri ristampando il De Situ Japygiae (4 ) seguì il Giordano. Il Grande ( 5) seguì M. Tafuri. Dei manoscritti vaticani, il Barber. 2443 riproduce integralmente l'edizione di Basilea, compresa la dedica del Bonifacio (1) Venezia 1732, T. VII, pp. 29-205. (2) Delectus scriptorum rerum neapolitanarum ecc. Napoli 1735, pagine 581-644. (3) Thesaurus antiquitatum et historiarurn Italiae. Lugduni Batavorum 1723, T. IX, p. V. (4) Le opere di Angelo ecc., pp. 25-89. (5) Coll. cit., II, pp. 3-39. H i I 11'.51,1,', 3- • J 11'11 h i li!i 11 11111 252 !IIIIII HITIIIIIII9111111111!éjh I 11 111iTilll Ill1D411)111111111‘ Rinascenza Salentina allo Zorzi. Il Regin. 1370 e l'Ottobon. 1922 rappresentano due tradizioni diverse, delle quali quella del secondo è la migliore. Il Reginense, che è scorrettissimo, manca soltanto del terzo brano, comprese le tre o quattro righe che seguono, fino a « Spinelle, vir excellentis ecc. •; l'Ottoboniano è completo, ma i quattro brani in cui si son voluti vedere degli attacchi alla Chiesa Cattolica sono segnati in margine con una crocetta. Insomma, dal confronto tra le varie edizioni e i manoscritti che ho potuto esaminare, mi sembra (li poter concludere che l'edizione di Basilea è fedele alla versione originale del De Situ Japygiae e che le edizioni dello Scorrano e di G. B. Tafuri sono invece espurgate, secondo l'uso corrente a quei tempi. Quanto ai manoscritti originali di cui si sarebbe servito il Tafuri, credo che non ci sia da prestargli fede. Quando si accinse alla sua opera corografica, il Galateo aveva già scritto anche diversi opuscoli di geografia generale: il « De Si tu elemeiitorum » sulla questione del dislivello fra la terra emersa e le acque; il « De Situ terrarum » sull'altra questione della permanenza della terra emersa e degli oceani; il « De mari et aquis », dove espone la sua caratteristica opinione — che sarà poi ripresa dal Telesio (1) — delle alte temperature negli strati profondi dell'oceano, e il « De fluviorum origine », dove si sostiene che questo calore marino è causa dell'ascendere sui monti (lei vapori contenuti nelle cavità della terra. Le idee geografiche del Galateo non sono nuove: sono attinte quasi tutte da Tolomeo e da Aristotele, dagli Arabi e dagli Scolastici. Ma egli non le accettava supinamente: amava discuterci su col solito buon senso e vedere se fossero o no confermate dalle esperienze dei navigatori moderni. Alla corte aragonese si era un po' tutti geografi ( 2): accadeva che il principe Federico, ammiraglio della flotta, si fermasse davanti ad una carta geografica a ragionar con l'Acquaviva e col conte di Potenza degli antichi cataclismi che un giorno avevano sconvolto l'uni(1) R. ALMAGIA. Le dottrine geofisiche di B. TELESIO. -- Sta in: Scritti di geografia e di storia della geog. pubblicati in onore di GIUSEPPE DALLA VEDOVA. Firenze 1908, p. 371. (2) Cfr. A. Bmussics: La geografia alla Corte aragonese in Napoli. Roma, 1897. 1U 'AU t HiT,L'iV yiiiiH T IiiiH i P1,9H1 i w 1(i:111111111TH Dina Colueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 253 verso, della favolosa Atlantide e delle isole scoperte recentemente dagli spagnuoli. Il Galateo prendeva parte anch'egli ai conversari, riflettendo malinconicamente che quelle felici popolazioni, rimaste fino ad allora nella semplicità primigenia, avrebbero appreso tutti i vizi della nostra civiltà, e poi mandava al suo Saunazzaro un brioso resoconto della discussione. Talvolta anch'egli, utilizzando il ricco materiale cartografico posseduto dalla biblioteca aragonese, si metteva a disegnar piccole carte geografiche, che poi regalava a qualche amico che si accingesse a un viaggio W. Le sue cognizioni geografiche sono state studiate in accurate monografie, alle quali non ho proprio nulla da aggiungere; mi limito quindi a riportare il giudizio — definitivo — dell' Almagià: «II Galateo, uomo di mente equilibrata, ricco di buoni studi, non più impegolato — come ancora al tempo suo alcuni dotti all'antica — nelle pastoie della scolastica, ma non sprofondato a capofitto — come tanti umanisti suoi contemporanei -- nello studio dell'antichità, forma un ponte di passaggio fra le idee vecchie e le nuove tendenze, e si segnala per il retto discernimento, e, fin dove lo permetteva allora lo stato della scienza, per accuratezza di vedute • e per diligenza d'indagine » (5). Lo stesso sagace buon senso è da notare nell'opera del Galateo come medico. Nella seconda metà del '400, sotto l'influenza dello spirito dell'Umanesimo, passava nelle vecchie facoltà di medicina delle famose università italiane un alito rinnovatore (3): il nostro Galateo non fu un arretrato. Dei suoi numerosi opuscoli di medicina non ci resta che il « De Podagra »: perduto il « De eucrasia sive de bono temperamento » e l'« In Aphorismos Ippocratis Expositio » che sarebbe interessante possedere per studiarvi che cosa l'umanista italiano seppe aggiungere all'opera omonima dell'arabo Mosè Maimouide — che il Galateo conosceva — la quale aveva costituito dal '200 al '400 il fondamento della letteratura igienica italiana. Il Galateo, che in difesa della grecità aveva già combattuto altre battaglie, fu un (1) Cfr. A. BLEssicii: Le carte geografiche di A. DE F. detto il GALATEO. In Riv. Geog. Ital., III, 1906, 80. (2) R. ALMAGIÀ: Le opinioni e le conoscenze geografiche di A. DE F. p. 463. (3) A. CASTIGLIONI: Storia della medicina. Milano 1927, p. 402. i rw:i'»illlil'liii;ltlillllll ';‘, lllllll h I !`f t il dr),PilIlilll l l/ h I111 I tilt+ 11 11 :1111 VIII -ji 254 Rinascenza Salentina fervido seguace del movimento che mirava a liberare la medicina dalla tutela araba per ricondurla studio dei grandi Greci. Plinio e Celso, nella seconda metà del '400, erano gli più stimati e letti: egli studiava l'uno e l'altro, come studiava anche gli arabi, gli scolastici e i recentissimi, perchè era (l'avviso che la scienza medica dovesse avere per confini gli stessi confini dell'universo e « omnia legenda sunt ita ut multa sit et multorum lectio, et ut nihil contemnendum, sic et nihil temere eredendum » (1). Leggeva, e da ogni libro sceglieva quel grano di verità che vi fosse rinchiuso. Però, si orientò decisamente verso i luminari della scuola greca: e mentre per tutto il Medio Evo e i primi secoli dopo il Mille la base teorica all'esercizio della medicina era stata fornita dal sistema galenico, favorito dagli Scolastici, egli, pur inchinandosi all'autorità di Galeno, fu l'antesignano di un ritorno ad Ippocrate. Il nome del vecchio di Coo è « numen » per lui: Ippocrate è il « futuri praescius vates » i cui Aforismi sono oracoli di Delfo ( 2 ). Alla tempra geniale dell'intelletto del Galateo, educato alla larga speculazione filosofica, era più consona la concezione biologica e cosmica di Ippocrate che quella morfologica ed analitica di Galeno. II postillato galateano che fa derivare dal clima di una regione la disposizione fisica e morale degli abitanti dipende dal tentativo ippocratico di mettere in relazione diretta i fatti del micro e del macrocosmo. Proprio da quest'idea partiva il Galateo per concludere che nelle nostre regioni occidentali non si possono adottare i rimedi proposti dai medici arabi, e che conviene seguire invece i greci, cresciuti in una regione così simile alla nostra. A genialità ippocratica era improntato il suo metodo: « Non enim videntur medici ex libris fieri • dichiarava nel De Podagra (3 ). « Operari secundum libros absque perfecta razione et solerti ingenio molestum est » (4). Il bravo medico, secondo lui, deve possedere una larga cultura, ma sopratutto uu intuito rapido e sicuro, e deve saper cogliere l'attimo breve, quella che III, p. 275, p. 92. (2) De gloria contemnenda, Coll. III. (3) Coll. III, p. 228. (4) Ivi, p. 214. (1) DE PODAGRA: C011. .3= = 3= _ ll rivi?ij 3=- ilili , p!P:',11111 p, (:!11,1 !ilTiill pi r m H i u l'im,d1 14 1',11,,i Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo pilu, 255 Ippocrate chiamava « opportunitas acuta ». E' frequente il caso che il Galateo interrompa la sua serie di consigli per esclamare che « haec omnia melins factis monstrantur quam dictis »: c'è nn « quid » che sempre sfugge al teorico che traccia ricette seduto a tavolino, perchè « in medicina et in militari disciplina non minus valet ingenium et experentia quam ars et scriptorum traditiones et praecepta » (1). Con Ippocrate egli riconosce che la natura è il medico delle malattie: i preparati di farmacia son tutti molto simili ai veleni, e se da un lato giovano, dall'altro nuocciono ( 2 ); continenza ed esercizio fisico ci vogliono per conservar sempre ottima salute ( 3 ). Nei casi dubbi è meglio abbandonare l'ammalato al « beneficium naturae » che all'ambigua e incostantissima arte (4 ). Il suo « De Podagra » appartiene al genere di quei consulti medici così comuni nel '400, che ripetevano la loro origine dalle lettere pseudo-aristoteliche (5): enumera all'amico Gabriele Altilio — collega nella pontaniana — ammalato di gotta, i rimedi indicati a guarire questo male, accompagnando l'arida esposizione (in cui ha molta parte anche la letteratura botanica, molto in uso a quel tempo) con un ricco corredo di osservazioni di carattere scientifico, filosofico, morale. Sicuro, anche filosofico e morale, perchè « profecto a medico nunquam corporis morbi saneutur, nisi prius a philosopho animus purgetur; est enim philosophia animi medicina » (6 ). La cultura umanistica e l'onnipresente fine morale avvivano l'opuscolo conferendogli un tono particolare di immediatezza e d'intimità, che lo caratterizza fra gli altri numerosissimi dei medici di quel tempo e ci fa ravvisare in chi lo scrisse l'autore dell'« Fleremita », del « De Educatione », dell'4 Esposizione del Pater Noster » e del « De Situ Japygiae ». DINA COLUCCI (Continua) (1) (2) (3) (4) Ivi, p. 283. Ivi, p. 244. Coll. II, p. 142. Coll. XXII, p. 89. (5) . CASTIGLIONI: Op. C a., (6) Coll. III, p. 267. p. 359. h i 11,,1 Pi