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GIORGIO ANTONUCCI E ALESSIO COPPOLA
IL TELEFONO
VIOLA
CONTRO I METODI DELLA PSICHIATRIA
elèuthera
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© 1995 Giorgio Antonucci, Alessio Coppola
ed Editrice A coop. sezione Elèuthera
Copertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive
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INDICE
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PARTE PRIMA
Pensieri sulla morale dei costumi
di Giorgio Antonucci
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PARTE SECONDA
L’esperienza del Telefono Viola
di Alessio Coppola
I. Davide contro Golia
II. Il mostro di Imola
III. Valerio Valdinoci ora cammina
IV. Ecologia umana e psichiatria a confronto
V. Fabio N. contro la persecuzione scientifica
VI. Marisa Giupponi o Giuseppe Mazzini
VII. Tiziana P., una diversa per l’elettroshock
VIII. Carlo Rellini sotto i grappoli mortali
IX. Cosa fare. Rui Barbosa dove sei?
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APPENDICE
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Riappropriamoci dei sintomi. Riflessioni
sul Telefono Viola di Bologna
di Noemi Bermani
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Riferimenti bibliografici
La rete del Telefono Viola
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PARTE PRIMA
PENSIERI SULLA MORALE
DEI COSTUMI
di Giorgio Antonucci
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Corri via, tu che vieni dalla oscurità.
Papiri magici egiziani, 1700-1600 circa a.C.
Pare opportuno domandarsi cosa significa saggezza. Solamente
dopo si potrà legittimamente riflettere, se necessario, sui concetti e
sui problemi della follia, per arrivare, infine, a discutere della presenza sociale degli psichiatri, con le loro specifiche dottrine e i loro
particolari metodi di intervento.
Di regola si dà per scontato, come fosse un dogma religioso, che
vi sono persone sagge e altre no, e si dà pure per scontato che la
sapienza medica possa distinguere le prime dalle seconde, per altro
con decisioni molto estemporanee e veloci, e con provvedimenti
drastici pieni di preoccupanti e durature conseguenze. Anzi, l’intervento del parere dello psichiatra pregiudica in ogni caso il futuro del
suo paziente e non certo in modo utile e vantaggioso. Ognuno sembra più o meno disponibile a lasciare agli specialisti la custodia della
propria ipotetica saggezza, e pare autorizzare di buon grado un
potenziale controllo rigoroso del proprio pensiero e del proprio comportamento all’interno della dottrina sociale dei costumi.
La distinzione tra saggezza e non saggezza riguarda ogni
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momento della vita dell’uomo, dal grembo materno fino alla morte,
e coivolge la vita sociale in tutti i suoi aspetti, condizionando anche i
tribunali e l’applicazione della legge, per la possibilità del cittadino
di essere considerato capace o non capace di intendere e di volere e
di conseguenza responsabile o no di fronte ai reati. Insomma l’intera
struttura sociale è condizionata dal pensiero psichiatrico e attraversata dalle sue conseguenze.
Secondo la scienza ufficiale il cervello sarebbe sano solo se e
quando rispetta i costumi e le convenzioni della tradizione di ogni
società costituita e specificamente organizzata. E ogni differenza –
anche solo di modo di sentire – sarebbe effetto fastidioso e preoccupante di intrinseca disfunzione organica o psicologica del cervello. Il
controllo e la coercizione che ne viene su ognuno di noi è più sottile
e efficace di qualunque possibilità diversa si voglia per ipotesi
immaginare.
Ma per tornare al problema che ci siamo posti, che cosa vuol dire
e che cosa significa saggezza? È un problema filosofico, etico,
moralistico, politico o semplicemente pratico? O vi sono implicati
tutti i problemi del pensiero e della convivenza? E come nasce il
concetto di follia?
Si deve dire prima di tutto che la ricchezza dell’inventiva umana
e la varietà delle esperienze individuali sono origine di molti orientamenti più o meno differenti che rendono inevitabilmente complicata
ogni convivenza tra gli uomini, in qualunque epoca si voglia considerare, e in qualsiasi tipo di società. Infinite sono le possibilità di
morali e di usanze senza che nessuna scelta o costume abbia un fondamento privilegiato. Scriveva Nietzsche che vi sono molte specie
di occhi, dunque molte specie di verità. D’altro lato, il desiderio di
regolarità ordine e sicurezza portano con sé la volontà di racchiudere
la vita sociale in forme rigorose che poi si cerca di far rispettare con
ogni mezzo e per questo si tenta di dar loro un fondamento assoluto
filosofico o religioso che dovrebbe essere vincolante per tutti.
La paura dell’incertezza e la voglia di ordine danno origine a
ogni tipo di ferocia e può darsi anche che siano tra le ragioni principali di repressione e tra i primi motivi di fanatismo e di guerra.
Questo essere sospesi nel vuoto e affidati al caso è pertanto inizio di
ogni malevolenza e perfidia, come annota Giacomo Leopardi nella
Storia del genere umano quando con un concetto opposto a quello
biblico della Genesi viene scrivendo che «s’ingannano a ogni modo
coloro i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana
dall’iniquità e dalle cose commesse contro gli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle
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loro calamità». Ma la nostra principale calamità è proprio l’essere
affidati al non senso e all’imprevisto e dovere costruire i significati
volta per volta in un universo senza riferimenti. Così i riferimenti
sociali vengono imposti con la forza e mantenuti con la repressione
arrivando a tutti gli orrori e a tutte le crudeltà che la storia ci viene
raccontando in tutte le cronache e in ogni memoria.
Il caso in cui siamo immersi e a cui ci rivoltiamo è quello che
Niccolò Machiavelli chiama nelle sue riflessioni filosofiche e politiche la fortuna che fa da contrappunto alla virtù in modo per ogni
verso imprevedibile e bizzarro. Scrive Machiavelli ne Il Principe:
«Perché gli uomini offendono o per paura o per odio». E forse anche
l’odio è un effetto della paura legata al non senso dell’esistere e
all’impossibilità di riferimenti sicuri. O comunque questa instabilità
metafisica è molto influente e sempre viva e operante nella psicologia di ciascuno.
Micidiale del resto fin dai tempi più antichi il concetto di scongiurare la propria morte o la propria sventura attraverso la sventura o
la morte degli altri. Come testimonia il concetto di sacrificio propiziatorio sia degli uomini sia degli animali parimenti al concetto di
capro espiatorio profondamente radicato in ogni cultura conosciuta
al di là delle molteplici differenze. E come rende l’idea la concezione della ricchezza come dono divino e del male e della malattia
come punizione per le colpe e espiazione dei torti, che spiega la
mescolanza tra pietà odio e persecuzione sia per chi sembra divergere dalla moralità dei costumi, sia per chi vive nel dolore e nella sfortuna.
Anche la reincarnazione di antiche filosofie indiane e del buddismo porta la traccia di questo moralismo vendicativo che considera
la sventura come colpa e il privilegio come merito o addirittura diritto naturale legittimato in senso metafisico.
Insomma, il genere umano trae dalla propria instabilità motivi di
odio per il prossimo e di persecuzione per gli sfortunati e anche procedimenti di accusa e di distruzione per gli innovatori di ogni genere
e di ogni attività o disciplina, sia morale, sia scientifica o filosofica,
sia pratica o artistica.
Solo Giacomo Leopardi ne La ginestra o il fiore del deserto
indica la solidarietà nella sventura invece che nell’amore metafisico,
già vedendo l’universo come puro divenire indifferente e caos privo
di modelli e senza princìpi antropologici. Da cui il silenzio della
luna e la quiete assoluta dell’infinito e la purezza virginea della
morte come poetica condizione interiore e chiara serenità filosofica
al di fuori della ferocia e al di là e al di sopra di ogni genere di fanatismo e di ogni sorta di sentire dogmatico e autoritario.
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Ma già nel linguaggio di ogni giorno come in quello della filosofia si parla continuamente di ragione e non ragione, razionale e irrazionale, come se i due termini fossero distinti e definiti, e come se
fosse scontato che c’è una ragione universale, un punto di riferimento di valutazione e di giudizio collettivo, a cui tutti dovrebbero attenersi per meritare la qualifica di saggi o assennati o capaci di intendere e di volere, come dicono i giuristi e gli psichiatri, i quali si prendono il compito arduo e discutibile di distinguere tra chi sarebbe e
chi non sarebbe responsabile delle proprie decisioni, delle proprie
scelte, del proprio agire, e delle proprie possibili o reali divergenze
con la legge.
Il pregiudizio che c’è una ragione universale vincolante per tutti
si è consolidato col dogmatismo illuminista e con il terrore della
rivoluzione francese attraverso l’uso razionale della ghigliottina,
nuovo strumento scientifico per la pena capitale. Poi si è rafforzato
con le superstizioni filosofiche dei positivisti. Così la sciagura del
dogmatismo laico si è aggiunta alla sventura della dogmatica religiosa che già aveva fatto vittime da secoli e che avrebbe continuato
a farne ancora, a seconda dei casi, in antagonismo o collaborazione
con le nuove ideologie, più o meno mascherate di formalità di genere pseudo-scientifico. Ed ecco che chi non si sottomette alle regole
imposte dall’alto viene giudicato un fenomeno innaturale oppure, in
termini di intervento e trattamento medico, un caso diciamo così non
perfettamente fisiologico.
Sia il potere di Hitler sia quello di Stalin sono stati un insieme di
misticismo e di scientismo, e gli altri poteri per imporre la loro verità
li imitano più o meno fedelmente, ricalcandone la natura fondamentale e riproponendone sempre di nuovo e sempre da capo metodi e
violenze. E perfezionando il concetto che si deve essere tutti uguali
passivi e intercambiabili come le ruote di un meccanismo di fabbrica o le unità di un computer da ufficio. Pena la repressione più dura.
O la psicoterapia.
Ora il problema essenziale è come si può evitare di divenire funzioni di una serie di sistemi assurdi senza fini, se non quelli di provocare in qualche modo l’estinzione della specie, almeno come specie composta da individui creativi. Perché può verificarsi l’estinzione fisica oppure quella morale. Per cui nel futuro si direbbe: un giorno ormai antico gli uomini e le donne erano capaci di poesia e si
dice che sapessero cantare e danzassero nei giorni di festa.
È certo che l’incapacità di affrontare in modo positivo il mondo
della creatività degli uomini, che poi è un proseguimento della creatività dell’universo, è sempre stata notevole in tutte le civiltà orga-
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nizzate che conosciamo dagli antichi Sumeri, Ittiti, Persiani, Egizi,
Cinesi, Indiani fino ad ora, ormai alla fine del ventesimo secolo, alle
soglie del villaggio globale. Si tratta veramente di un problema che
riguarda tutti i popoli e tutte le epoche. Però, negli ultimi secoli della
nostra cultura la repressione è divenuta più efficiente e sistematica
sia per motivi di particolare sviluppo culturale sia per motivi di sviluppo tecnologico. È l’epoca della psicologia come strumento di
potere. Così è più difficile sfuggire sia ai sofismi della cultura sia a
mezzi pratici di controllo e di programmazione del consenso forzato
e della sottomissione coatta.
Non bisogna mai dimenticare che l’internamento di tipo psichiatrico è stato e continua a essere il modello culturale di tutte le altre
forme di internamento di cui il nostro secolo è così prodigo. I nazisti
cominciarono il loro viaggio verso lo sterminio di milioni di persone
con proposte di eutanasia per internati in manicomi e in cliniche psichiatriche. Furono poi paladini di esperimenti inutili su cavie umane,
ma questo succede ancora con i medici di ospedale civile e gli specialisti delle cliniche psichiatriche sia nei servizi pubblici sia nei servizi privati sia nei centri territoriali sia nelle università, d’accordo
con i produttori di farmaci e con i fabbricanti di altri strumenti di
intervento demolitivo.
Le prodezze degli psichiatri attuali in questo campo sono descritte bene da Roberto Cestari nel suo ottimo libro L’inganno psichiatrico. Roberto Cestari è sempre preciso e ben documentato, anche a
livello di questioni internazionali. Interessante è la testimonianza
delle gesta dello psichiatra Jovan Rastovic nell’attuale conflitto tra
serbi e croati che appare come la conferma dei contenuti reali di un
certo tipo di cultura.
A proposito dell’analisi storica di questo problema si legge in
Michel Foucault, all’inizio del capitolo Il mondo correzionario della
sua Storia della follia nell’età classica, che «dall’altra parte delle
mura dell’internamento, non si trovano solo la povertà e la follia, ma
dei volti assai più variati e delle sagome di cui non sempre è facile
riconoscere la comune statura». «È chiaro – continua Foucault – che
l’internamento, nelle sue forme primitive, ha funzionato come un
meccanismo sociale, e che questo meccanismo ha agito su una
vastissima superficie, perché si è esteso dai regolamenti mercantili
elementari al gran sogno borghese di un ordinamento pubblico in
cui regnasse la sintesi autoritaria della natura e della virtù. Da questo
a supporre che il significato dell’internamento si esaurisca in
un’oscura finalità sociale che permette al gruppo di eliminare gli elementi che gli sono eterogenei o nocivi, non c’è che un passo».
È singolare il fatto che Foucault non ne deduca che i concetti di
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follia e quelli di malattia mentale non sono niente di più che forme
convenzionali – e vuote di contenuto di pensiero – utili a dare una
apparenza logica e una giustificazione morale agli internamenti
coatti e agli altri provvedimenti fisicamente e psicologicamente
distruttivi costantemente praticati dai medici e dagli psichiatri a tutela dell’intolleranza dei costumi e dell’ordine sociale autoritario
nemico della creatività degli individui.
Scrive con molta proprietà Arthur Schopenhauer negli aforismi
su La saggezza della vita che chi deve vivere tra gli uomini non può
assolutamente respingere nessun tipo di individualità e aggiunge che
se si condanna in blocco un altro essere a quest’ultimo non resta
altro, se può, che combattere in noi un nemico mortale, perché noi
abbiamo deciso di concedergli il diritto di esistere soltanto a condizione che egli divenga un altro da se stesso. Schopenhauer parla in
generale, senza riferirsi ai problemi di cui ci occupiamo, in un periodo in cui il meccanicismo deterministico influisce anche sulla filosofia dell’uomo e domina inoltre la biologia e le conoscenze che
riguardano gli esseri viventi; però il suo discorso è in ogni caso
molto pertinente perché nasce dalla conoscenza diretta dei rapporti
psicologici tra gli individui in una società difficile e in un mondo
spietato e progressivamente sempre più anonimo e sempre più diretto alla trasformazione degli uomini in funzioni.
Il mondo attuale dei test psicologici e dei computer è molto più
tragico di quello che lui conosceva.
«Ora la morale – scrive Friedrich Nietzsche nell’aforisma 55 raccolto ne La volontà di potenza – ha protetto dalla disperazione, dal
salto nel nulla la vita di uomini e ceti che erano violentati e oppressi
da altri uomini; infatti l’impotenza di fronte agli uomini, non già
l’impotenza di fronte alla natura, genera la più disperata amarezza
nei confronti dell’esistenza». E ora l’impotenza dell’individuo creativo di fronte agli strumenti di persuasione e oppressione del potere
politico, organizzato con tecnologie ogni volta più sofisticate, ha
raggiunto livelli senza precedenti. D’altra parte, il potere politico è a
sua volta sottoposto a funzioni economiche disumane ormai difficilmente controllabili.
È in questo ambito che è stato possibile concepire e tentare di
realizzare il controllo psicologico dei costumi, anche senza il bisogno dei manicomi, con strumenti apparentemente meno violenti e
disumani ma sostanzialmente più sottili ed efficaci e più opportuni
per un intervento capillare sui pensieri e sui comportamenti delle vittime da soggiogare e sottomettere. E l’accentramento delle ricchezze
e del potere – con l’addestramento di eserciti anonimi di cittadinifunzione – rende la comunicazione umana reale sempre più rara e
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inutile, con l’esplosione sempre più frequente di ferocie e nefandezze sia personali sia collettive sia programmate dalle burocrazie statali o da altre burocrazie organizzate come ad esempio la mafia o la
camorra.
Così si rendono utili gli uomini-funzione. Sono mezzi uomini
con gli occhi attaccati al televisore – trascurati con se stessi e spietati
con gli altri per ragioni di fallimento personale e per motivi di passiva subordinazione ai costumi – che rimangono sottoposti e fedeli
anche nel caso che diventino per avventura trasgressori.
«Il nichilismo – scrive ancora l’autore di Zarathustra nell’aforisma già citato – come sintomo del fatto che i falliti non hanno più
alcuna consolazione: che distruggono per essere distrutti e, sciolti
dalla morale, non hanno più alcuna ragione di moderarsi; che si mettono sul terreno del principio opposto e anche da parte loro vogliono
potenza, obbligando i potenti a essere i loro carnefici. Una specie di
buddismo all’europea, l’agire negando, dopo che tutta l’esistenza ha
perduto il suo senso».
Così troviamo da ogni parte i serial-killer che una volta identificati e arrestati – in procinto di presentarsi all’ergastolo o al patibolo
– dichiarano che se fossero liberati e rilasciati ucciderebbero di
nuovo per loro necessità psicologica o esistenziale e aggiungono da
buoni cittadini rispettosi delle autorità e dello Stato che la pena capitale è giusta e adeguata per difendersi da tipi come loro e per mantenere il perbenismo sociale. Così troviamo le sette religiose o politiche che asfissiano i viaggiatori della metropolitana imitando i
modelli distruttivi e terroristici inventati dalla scienza ufficiale per
uso delle politiche di Stato.
Infatti in una cultura come la nostra l’omicidio e l’eccidio sono
una forma usuale banale e arida di piatta adesione ai valori della
società – come ordine costituito basato sull’esercizio metodico della
violenza e come sistema organizzato sulle virtù principali della
sopraffazione e dell’odio. Come scrive Foucault: «la sintesi autoritaria della natura e della virtù è il sogno della società borghese». Ma la
virtù borghese è legata al moralismo, che è la sottomissione ai costumi tipica di Adolf Eichmann o di Rudolf Höss e soffoca l’etica che è
il patrimonio di uomini come Gandhi o Albert Schweitzer e che
vive nella poesia dantesca nell’esempio di Catone uticense.
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Il mio cuore non è una pietra
non puoi farlo rotolare.
Canzone popolare cinese
Tenuto conto che ci occupiamo di moralità dei costumi mi sembra opportuno che ci si fermi a riflettere sulla Genealogia della
morale di Friedrich Nietzsche e sulle sue personali posizioni sui problemi di etica e di politica che tanto hanno fatto discutere filosofi e
moralisti e che ancora continuano a essere al centro dei principali
dibattiti contemporanei.
Come sappiamo ormai bene di Nietzsche viene detto di tutto:
così è accusato di essere il precursore di Hitler e dei campi di sterminio o diversamente di avere con Zarathustra indicato un tipo di
uomo più generoso degli stessi Buddha e Gesù e di ogni altro profeta. Solo Zarathustra ritorna dalle sue solitudini di nuovo tra gli uomini rinunciando ai privilegi della saggezza così faticosamente conquistata. Anche se non deve annunciare nessuna verità.
Il paragone con Buddha viene anche da maestri spirituali
dell’India promotori di una tradizione culturale molto diversa. Come
per esempio Osho Raineesh nel suo lavoro Zarathustra. Un dio che
danza. Certo sembra utile ripensare attentamente un filosofo così
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incisivo, il quale ha scritto in Umano troppo umano che «per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza e apparire a se
stesso obiettivo, non ne ricava alla fine nient’altro che la propria
biografia».
Nietzsche può essere la premessa per capirsi come uomini (intendo dire sia come singoli sia come specie) al di là degli schemi delle
usanze e delle particolari convenzioni, per cominciare a pensare con
più larghezza e con meno superficialità e approssimazione. Per
vedere la creatività della specie in modo vasto.
Come esperienza personale preziosa ricordo le discussioni sul
significato di Nietzsche nell’ambiente culturale di Mazzino
Montinari e Giorgio Colli di cui, ancora studente in medicina, avevo
la fortuna di far parte, per merito di Mazzino che mi aveva trovato
per caso a un seminario su Nietzsche, tenuto da Delio Cantimori
presso l’Università di Firenze. Allora la grande opera filologica di
Colli e Montinari su tutti gli scritti di Nietzsche non era nemmeno in
progetto. Sarebbe cominciata dopo. Si discuteva molto sull’attribuzione di Nietzsche al fascismo, sia da parte dei fascisti sia da parte
dei filosofi marxisti. Gli uni e gli altri avrebbero avuto ben altro di
cui preoccuparsi, come ben presto si sarebbe visto. Naturalmente la
diatriba ci pareva in ogni modo e da ogni parte arbitraria sia pure
considerando Nietzsche ognuno di noi differentemente secondo il
proprio pensiero.
Dopo, con Mazzino, avevo avuto modo di discutere sulla malattia che aveva portato Nietzsche alla fine del pensiero – che risulta
dai documenti a causa di una paralisi progressiva da sifilide cerebrale – e Mazzino ne avrebbe tenuto conto nel suo lavoro su Nietzsche
intitolato Che cosa ha detto veramente Nietzsche. In quest’opera
Mazzino Montinari smentisce con chiarezza la leggenda di un
Nietzsche che a un certo punto passerebbe dalla saggezza alla follia,
secondo le superstizioni romantiche e i pregiudizi degli psichiatri,
per una specie di eccesso di tensione interiore o per un difetto cerebrale che covava.
Quest’ultimo falso concetto è stato micidiale.
Molti ne hanno approfittato per considerare tutto il pensiero di
Nietzsche dal punto di vista di una latente pazzia. È la funzione del
concetto di pazzia per l’invalidazione anche culturale del pensiero
che non si condivide e che ci mette in discussione.
Altra superstizione è quella adottata anche da Thomas Mann nel
Dottor Faustus che attribuisce all’infezione cerebrale una immaginaria funzione di stimolo della genialità.
Il positivismo lombrosiano è largo di conseguenze culturali e
ancora duro a morire. È utile per liquidare un sacco di pensieri diffi-
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cili. Tant’è che anche Nietzsche a volte faceva confusione su questi
concetti. Anche lui confondeva spesso la saggezza con la fisiologia
attribuendo arbitrariamente alle scelte che rifiutava caratteri di degenerazione e patologia proprio nel senso delle malattie mediche, o
degli schemi psichiatrici, contraddicendo in questo modo alcune sue
splendide intuizioni sul significato relativo e prospettico delle verità
morali di qualunque cultura e di qualunque periodo della storia
conosciuta.
È molto singolare vedere come anche le menti filosoficamente
più critiche usano le scempiaggini degli psichiatri come fossero oro.
È comprensibile che i fisici di fronte alle quattro forze fondamentali dell’universo, scopo della loro ricerca, si propongano di trovare
un modello di spiegazione scientifica unitaria, per capire tutti i possibili nessi logici e per indagare a fondo su tutti i collegamenti interessanti. Le quattro forze che scaturiscono dalle origini aspettano di
essere comprese in un modello unitario. Si tratti dell’inizio misterioso dal big bang o dai germogli della molteplicità dell’universo inflazionario. Ma tutt’altra cosa è lo studio della psicologia dell’uomo
essendo ognuno di noi una moltitudine di qualità non riducibili a
un’unica spiegazione perché sostanzialmente distinte e perennemente separate e diverse, in concordanza o conflitto reciproco, sullo
sfondo vivace di un terreno fertile e continuamente creativo.
Il nostro mare è popolato di pesci differenti. E poi c’è la nostra
capacità di selezione e di scelta che non può essere relegata sul
piano delle illusioni – se non per arbitrio intellettuale, dovuto a semplicismo riduzionistico. Però la maggior parte dei filosofi, degli storici, degli economisti, dei politici, psicologi, antropologi e sociologi
sono presi dal furore dell’unificazione e cercano la caratteristica
principale da cui tutto il resto deriverebbe; e fanno ogni sforzo per
trovarla e per adattarvi tutto come in una camicia di forza. Inoltre
ricercano sempre una gerarchia delle qualità. Ricorrono poi a petizioni di principio o tautologie parlando di volontà per la voglia di
vivere, di volontà di potenza per la tendenza al potere, di erotismo
per la voglia di far all’amore, adoprandosi con diligenza per ridurre
tutto a un solo principio che finisce per divenire la spiegazione
metafisica.
Così sotto questo aspetto Nietzsche non è differente dagli altri.
Sotto molti aspetti parlare del significato di Nietzsche può apparire estremamente difficile. Lui dice di se stesso di rappresentare una
rivoluzione senza precedenti, ma poi alla fine in morale e in politica
– nonostante le sue osservazioni brillanti sulle origini dei costumi –
rischia alla fine di riproporre le vecchie regole e le vecchie usanze
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senza alcuna modifica sostanziale.
Cosa c’è di nuovo nel mondo se si deve proporre ancora come
logico e giusto che i forti e i privilegiati debbano imporre le loro
regole e i deboli e gli emarginati debbano rassegnarsi a subirle
soffocando quello che Nietzsche considera il loro passivo e pericoloso risentimento? Perché poi l’imposizione sarebbe un’attività utile
e la rivolta una passività spregevole e degradante?
Non si pone il problema di vedere Nietzsche dalla parte dei fascisti o dei nazisti, anzi questa risulta una semplificazione falsa e dannosa, ma piuttosto di vederlo per quello che è: dalla parte della sottomissione e del conformismo che coinvolge tutte le forme conosciute
della società di ora, comunque la si definisca a parole, tutta tesa in
modo spietato alla costruzione dell’uomo-funzione, forgiato come
un materiale passivo e inerte, con tutte le finezze o con tutte le grossolanità dei mezzi di comunicazione collettivi, posseduti e controllati dalle classi al potere che decidono tutto senza tener conto di nessun significato.
Chissà da dove deduce Nietzsche che la crudeltà e la ferocia sono
più utili alla specie che non la dolcezza e la generosità e chissà dove
ha visto che le classi al potere sono più utili alla cultura creativa e al
miglioramento della specie (ammesso che questo miglioramento sia
possibile) che non le classi subalterne. Viene piuttosto in mente con
l’acutezza di un abisso notturno il malinconico pensiero pieno di
incertezze della solitaria riflessione di Pascal, quasi una meditazione
del Golgota davanti ai tre crocefissi già spenti: «Quale chimera è
mai dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale
soggetto di contraddizione, quale prodigio? Giudice di tutte le cose,
imbecille verme di terra, depositario del vero, cloaca di incertezza e
di errore, gloria e rifiuto dell’universo. Chi scioglierà questo groviglio?».
Però la Genealogia della morale con i suoi tre saggi è di importanza particolare per la sua impostazione critica indipendentemente
dalle opinioni personali dell’autore. Per il nostro scopo conviene
commentarla con una certa accuratezza. I saggi sono: Buono e malvagio. Buono e cattivo; Colpa, cattiva coscienza e simili; Che significato hanno gli ideali ascetici?
Dal primo saggio risulta essenzialmente che la morale è convenzionale e imposta, evidentemente imposta dall’alto dai detentori del
potere. Dal secondo saggio vien fuori che le regole e le leggi sono
costruite promulgate e mantenute nel tempo con il terrore e con la
ferocia nell’esclusivo interesse delle classi dominanti. Il terzo saggio
fornisce una serie di riflessioni sul rapporto tra le idee religiose e
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filosofiche e le imposizioni sociali che purtroppo vengono spesso
profondamente interiorizzate compromettendo la creatività e la
voglia di vivere degli individui, che rischiano di diventare numeri e
funzioni perdendo ogni tipo di originalità e ogni autonomia personale e ogni capacità di scelta.
In realtà, il singolo uomo nell’assoluta solitudine delle scelte si
trova isolato tra la lama della violenza pubblica e la ferocia della
violenza privata. Non ci sono, né potrebbero esserci, punti di riferimento di significati, poiché i significati vanno creati giorno per giorno dal vuoto e dal nulla fecondati solo dalla sensibilità, che è il
nostro mondo interiore attivo misterioso e senza spiegazione, come
il mondo della bellezza e della poesia.
Non esistono – come pensa Nietzsche – epoche in cui la creatività è privilegiata e non esiste alcun potere che sia creativo o favorevole alla creatività. Basterebbe vedere il disprezzo e le difficoltà in
cui vivevano gli artisti del Rinascimento se si studia la loro vita per
quello che è stata realmente. Non furono né la politica né l’economia a favorirli e tantomeno individui come Cesare Borgia. Ma nemmeno individui come Lorenzo il Magnifico o Giulio II. Se lasciarono traccia dipende esclusivamente dal loro talento e dalla loro tenacia e da un po’ di casuale fortuna in un mondo come sempre indifferente e assurdamente violento e spietato con tutti.
La violenza è nello stesso tempo immotivata e sterile. Come le
guerre. Basta ricordarsi l’autobiografia di Benvenuto Cellini o ripercorrere la storia di Michelangelo o la tragedia del Caravaggio.
Napoleone perseguitava gli artisti non sottomessi come ad esempio
il fiorentino Luigi Cherubini emigrato a Parigi. Come tutti i suoi
simili aveva bisogno di cortigiani servili che gli suonassero i flauti
della vanità e i tamburelli della sottomissione. E anche in Atene
come sappiamo benissimo gli spiriti liberi incontravano la morte o
l’esilio o gli insulti delle autorità o le persecuzioni delle moltitudini
feroci dei sottomessi.
La sterilizzazione dell’uomo deriva dalla congiunzione delle
autorità con i conformisti che le appoggiano e le adorano e le servono con fanatismo furibondo e le seguono con violentissima passione
e le sostengono e difendono con ferocissima crudeltà.
Scrive propriamente al riguardo Giacomo Leopardi nei Pensieri,
toccando sia il problema individuale sia il problema collettivo e precisando, sia pure indirettamente, il contenuto delle regole sociali, che
i buoni e i magnanimi, come diversi dalla generalità, sono tenuti dalla
medesima quasi creature d’altra specie, e conseguentemente non solo
non avuti per consorti né per compagni, ma stimati non partecipi dei
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diritti sociali, e, come sempre si vede, perseguitati tanto più o meno gravemente, quanto la bassezza d’animo e la malvagità del tempo e del
popolo nei quali si abbattono a vivere, sono più o meno insigni; perché
come nei corpi degli animali la natura tende sempre a purgarsi di quegli
umori e di quei principii che non si confanno con quelli onde propriamente si compongono essi corpi, così nelle aggregazioni di molti uomini
la stessa natura porta che chiunque differisce grandemente dall’universale di quelli, massime se tale differenza è anche contrarietà, con ogni sforzo sia cercato distruggere o discacciare. Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano
le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano il quale
non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.
In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e
potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli; essendo gli uomini
prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in
parole ne siano salvi.
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Regolo, non ho più
un soldo in tasca, e temo non mi resti
che vendere i regali che mi desti:
me li comperi tu?
Marziale
La volontà di potenza non è affatto l’essenza della specie e non è
nemmeno un sentimento di fondo nella profondità della nostra consapevolezza di esistere e della nostra continua sete di creazione. È il
bisogno di vivere che non ci dà pace e rischia ogni momento di trasformarsi in furore e in ferocia. La consapevolezza sempre rinnovata
e sempre acuta dei nostri limiti mortali ci incalza senza tregua.
Vorremmo sottrarci all’effimero.
Inoltre cerchiamo senza risultato di sfuggire la casualità sempre
pronta e sempre incombente su ogni nostro tentativo di respiro.
Anche il suicidio può essere una fuga da questa tortura. Quando non
si trova altro sbocco o quando si vuole anticipare i tempi.
Avidità di vivere e coscienza di essere sospesi.
Il Riccardo III di Shakespeare esprime subito questo discorso
nell’introduzione della tragedia quando dice che la guerra dal viso
arcigno ha spianato la sua fronte corrugata e allora lui, che non ha
grazia fisica per i giochi d’amore e per altre piacevolezze mondane,
decide di dedicarsi agli intrighi dell’odio per essere vivo nonostante
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le sue deformità e per placare le angosce della sua natura inquieta e
le voglie della sua individualità avida di soddisfazioni passionali.
Ma il caso ci sorveglia fin dalle origini e tiene ogni cosa in sospeso. Per esempio Picasso era nato e non respirava. Dal tutto al nulla
basta un piccolo evento. Avrebbe anche potuto fermarsi a quell’inizio. Già tutti avevano rinunciato al bambino e si occupavano della
madre. Ma lo zio, il fratello minore del padre, un medico, gli soffiò
una boccata di sigaro, e lui respirò, e cominciò a gridare, e iniziò il
suo singolare percorso creativo «con la smorfia e un urlo di rabbia»,
come riferisce Arianna Stassinopoulus Huffington nella sua intensa
biografia dell’artista.
La smorfia e l’urlo di rabbia si ritrovano in tutta la sua opera
attraverso tutti gli stili della sua arte molteplice. Riesce come pochi
altri a far emergere le creature dal vuoto e a farne sentire l’instabile
fragilità.
Parlando della sua attività di artista Picasso dirà che all’inizio non
sa mai quale può essere il contenuto definitivo dell’opera essendo
ogni nostro viaggio un’avventura nuova e imprevedibile. Nessuno
di noi sa cosa farà tra un momento e cita il poeta maledetto che
afferma maliziosamente: «Io è un altro». Jung quando vede una sua
mostra a Zurigo si spaventa e da buon psichiatra lo classifica schizofrenico, sfuggendo così ai problemi che lui propone in modo così
diretto e espressivo con particolare acutezza. Scrive Jung: «Il tutto è
piuttosto insensato, come uno spettacolo che non ha bisogno di spettatori».
Jung trova somiglianza tra i lavori di Picasso e quelli di alcuni
suoi pazienti, ma questo significa solo che i pazienti di Jung sono
uomini della stessa epoca che fanno ricerche simili vivendo contraddizioni dello stesso tipo. È singolare che Jung, così esperto in problemi metafisici, rimanga vincolato a simili pregiudizi. Però, se ci si
riflette bene, anche i pensatori più aperti si prefigurano società regolamentate con costumi e modelli ristretti e rigidi, e con funzionari
autoritari che li facciano rispettare, sia con la persuasione, mediante
sofismi e falsi concetti, sia con la forza brutale e disumana delle istituzioni.
I pregiudizi sono sia sulla libertà di pensiero sia sulla libertà delle
scelte. E vengono applicati là dove non arriva la legge. Le leggi
infatti non interferiscono con i pensieri e con le intenzioni. Anche se
c’è ad esempio una legge contro il suicidio, come in alcune società
si è verificato, nessuno può essere arrestato o perseguito per l’intenzione di uccidersi, mentre molti vengono internati con la forza dagli
psichiatri sulla supposizione di un possibile suicidio e trattati come
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esseri inferiori incapaci di intendere e di volere.
E i magistrati possono processare uno psichiatra perché non ha
prevenuto un suicidio, involontariamente accusandolo di non essere
un preveggente o un indovino o un esperto di lettura del pensiero.
Quando si sa che nemmeno la persona che si uccide può saperlo un
attimo prima di averlo già fatto.
Per i conformisti la possibilità del suicidio è un vero terrore.
Un ex soldato americano in Vietnam racconta in un suo scritto
che i responsabili dell’esercito, nel mezzo dei massacri più assurdi
sia di combattenti sia di popolazione, tra campi minati stupri e bombardamenti, perdevano la testa di fronte al suicidio. Evidentemente
la morte programmata dallo Stato è meno scandalosa della scelta
individuale. Nel gregge dei sottomessi è previsto ogni orrore purché
autorizzato.
Ma queste regole arrivano anche nel pensiero metafisico. Si deve
pensare come vogliono le autorità anche in materia di trascendenza,
pena l’essere considerati mentecatti, cioè oggetto di trattamenti psichiatrici. Molte persone vengono ricoverate e trattate per la individualità del loro pensiero religioso o filosofico o per le loro riflessioni
in materia di fini ultimi. Alcuni per le loro particolari idee cosmologiche.
La possibilità che alcuni hanno di classificare e internare i propri
simili ha come inevitabile conseguenza il manicomio con tutte le
sue particolari e inconfondibili caratteristiche. È inutile parlare di
superamento delle istituzioni lasciando immodificata la cultura che
le alimenta. Il movimento di Basaglia e dei suoi seguaci, privo di
critica alla psichiatria, non ha suggerito prospettive. Anzi ha lasciato
il vuoto a vantaggio delle idee dei conservatori.
Ora, trascurando il problema tragico dei nuovi ricoveri, si fanno
passare i trasferimenti forzati dei lungodegenti come fossero provvedimenti di liberazione e superamento dei manicomi. È una storia
vecchia, che ricorda tanti fallimenti del passato, dovuti all’illusione
o all’ipocrisia di voler umanizzare la repressione invece che decidersi ad abolirla.
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Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che invidiosi son d’ogni altra sorte.
Dante, Inferno, III-46
In ogni modo la situazione rimane difficile.
Io ricordo le acrobazie che dovevo fare al mio esordio negli anni
1965 1966 1967 a Firenze, prima di andare a Cividale del Friuli, per
sottrarre le persone agli internamenti, in mezzo alla diffidenza e allo
scetticismo di quasi tutti. Sembra che fosse la prima volta che si
vedeva una pratica di questo tipo, almeno in modo così sistematico.
E tutto ciò dipendeva da una duplice convinzione: primo che i problemi psicologici e le difficoltà di convivenza con gli altri riguardano tutti e non una minoranza di persone giudicate arbitrariamente
dagli psichiatri o da altri specialisti come individualità difettose;
secondo che privare le persone della libertà è comunque un danno,
oltre che essere naturalmente un’ingiustizia.
Evitare i ricoveri richiedeva molto lavoro e anche molti rischi,
come si può facilmente immaginare. Richiedeva anche un impegno
psicologico qualitativamente diverso da quello degli psichiatri, che
lavorano con le chiavi in mano, in ogni caso sempre impegnati a privare le persone della loro autonomia. In ogni modo la nascita e lo
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sviluppo del mio pensiero sono legati all’opposizione pratica agli
internamenti prima ancora che al lavoro antistituzionale.
Muoversi in questo modo significa andare incontro a molte particolari difficoltà. Per la psichiatria ad esempio chi tenta il suicidio è
un incapace e deve essere fermato tutelato sorvegliato e messo sotto
cura. Nello stesso modo pensa la maggioranza dei magistrati. Anche
l’opinione comune in generale è allineata su quest’idea. Nessuno
pensa che si tratta di una scelta di cui ognuno di noi ha diritto. La si
considera una scelta soltanto quando la si fa per scopi autorizzati,
per esempio una missione suicida o senza scampo al servizio dello
Stato. Non viene tollerata la scelta individuale che viene degradata a
difetto del cervello. Per questo scopo alcuni dividono i suicidi in
razionali e irrazionali attribuendo le scelte individuali a questi ultimi.
Quando cominciai, mi occupai di una ragazza di sedici anni, sottraendola a una casa di cura, che aveva più volte tentato il suicidio
perché respinta dalla madre e dalle sorelle come non appartenente
alla famiglia. Si era trovata in questa situazione dopo la morte del
padre. Ricordo che fui aiutato anche da Roberto Assagioli e da alcune persone dell’Istituto di Psicosintesi che ospitarono la ragazza. Ma
se la ragazza fosse morta per suicidio, io sarei stato sicuramente processato, perché mi avrebbero accusato di non averla internata e di
averla considerata in ogni momento libera di scegliere, senza limitarla o demolirla a livello psicologico come fanno di regola gli specialisti.
Attraverso gli psichiatri il costume sociale si riserva di togliere
validità alle scelte sconvenienti annullando la libertà degli individui.
Nel senso della limitazione altrui naturalmente gli psichiatri
hanno pieno potere di giudizio e consenso della legge e complicità e
simpatia dei conformisti e piena collaborazione delle persone perbene, rispettose dell’ipocrisia ufficiale, e indifferenti o ostili ai diritti
della libertà individuale, alla dignità delle scelte e alle sorprese
dell’esistenza. Così si ostacola lo spirito creativo della specie trasformando il mondo in uno squallido ospizio di tristezze o in un teatrino
nero di burattini spauriti. La consapevolezza di poter scegliere anche
il morire è il nocciolo profondo dell’esistenza e ne è pure, momento
per momento, la tragica bellezza. Senza questa possibilità il nostro
attuale percorso terreno sarebbe solamente passivo, come una condanna infernale scolpita senza appello.
Roberto Assagioli aveva una vecchia amica molto intelligente e
colta, appassionata di poesia e di mistica indiana, ammiratrice di
Tagore e esperta di religioni orientali, che viveva in quegli anni nel
bel quartiere fiorentino delle Cure subito sotto le colline. Quando
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frequentavo l’Istituto di Psicosintesi era divenuta anche amica mia
con un intenso rapporto culturale tanto che ci si trovava a discutere a
leggere e a riflettere. Seppi poi che periodicamente veniva ricoverata
con pretesti psichiatrici contro i suoi desideri e la sua volontà e con
suo grande orrore angoscia e umiliazione. Venivano e la prendevano. Così come si usa.
Il fatto è che viveva sola e aveva rapporti difficili con i vicini che
d’accordo con i medici la accusavano di delirio di persecuzione. La
sorella e Assagioli nei momenti di maggior conflitto organizzavano
l’internamento.
Quando io lo seppi parlai con Assagioli e con la sorella e ottenni
di occuparmene personalmente senza interferenze in modo che lei,
con grande sua gioia, non vide più cliniche né psichiatri per l’intero
resto della sua vita. Naturalmente io mi misi anche dal suo punto di
vista e intervenni insieme a lei sui problemi reali da affrontare.
Era la prima volta che evitavo un internamento. Iniziava la mia
storia di lavoro.
Mi dispiace che Assagioli, testimone di questa mia attività, iniziata in circostanze che lo riguardavano, non abbia lasciato – per
quello che so – alcuna testimonianza scritta sull’argomento. Tanto è
il potere della tradizione e la paura del nuovo e tanto è forte
l’influenza della psichiatria sulla cultura degli psicologi, degli psicanalisti e anche di altri intellettuali. È tutto accettato senza ragionare
come in ogni antica consolidata utile e rispettabile superstizione.
Anche molti altri specialisti, testimoni diretti del mio lavoro,
hanno sperato che io finissi nel silenzio, spesse volte fingendo la mia
inesistenza nonostante che lavorassi con loro. Questo è avvenuto in
tutte le sedi in cui ho lavorato fino al periodo attuale di Imola.
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Parla, lira divina:
diventa la mia voce.
Saffo di Lesbo
Se si deve parlare di letture mi vien da pensare che leggere gli
psicoanalisti fa morire la poesia e spegne la voglia di vivere. Si
rimane in sospeso senza rimedio. Ma che cos’è questa storia? Non si
sa più che fare.
C’è chi pensa ingenuamente che gli psicoanalisti si interessino e
si occupino di sessualità, o discutano di erotismo, o indaghino su
passioni che cercano spazio respiro e espressione, come accade nelle
opere dei poeti. Si pensa che vogliano aiutare le persone a vivere e a
capirsi.
Invece loro – questi psicoanalisti – si occupano di perversioni.
Dalle origini alla fine. Anzi non conoscono altro che perversioni.
Con Freud si scopre che Leonardo e Michelangelo sono dei pervertiti che cercano di redimersi senza nemmeno riuscirci.
Dunque gli psicoanalisti si occupano di perversioni e ordine
sociale. Si interessano di censura e perbenismo. E così ogni uomo (o
donna o bambino) diventa un pervertito da domare. Il che vuol dire
un pericoloso sconvolto da ostacolare. Sembra infatti che perversio-
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ne significhi sconvolgimento. E gli sconvolgimenti sono una minaccia.
Qualunque preferenza umana – per questi singolari personaggi –
diviene comunque e in ogni modo un caso sospetto. Un caso da sottoporre a verifica e da indirizzare a controllo. Secondo loro ognuno
ha bisogno di analisi per capire chi è – direi anzi, più precisamente,
per capire chi non è.
E per smettere di agire.
E per smettere di godersi la vita.
E per smettere di cantare e far musica.
E per smettere di appassionarsi.
E per guardarsi nello specchio con orrore.
Ma loro – viene a questo punto la domanda – chi sono per giudicare? Chi li autorizza a decidere e a dar sentenze? Cosa sanno più
degli altri? E quale autorità li conforta? Perché considerano il vivere
una malattia e il mondo un ospedale?
La prima volta che mi occupai di consulenza psicologica fu con
un giovane che mi era stato mandato da Assagioli e che aveva
preoccupazioni dubbi e angosce per una sua esperienza di omosessualità.
Aveva ventidue anni.
Mi raccontò che a dodici anni mentre lavorava come pastore
nelle campagne toscane era stato sedotto da un collega più anziano
che aveva approfittato della sua ingenuità o comunque del suo essere indifeso. Dopo questa esperienza si era sentito inferiore agli altri e
visibilmente diverso tanto che aveva cominciato a avere paura di
avvicinare le donne. «Me lo vedono nel viso», mi diceva, e pensava
di essere differente per natura, e nato difettoso e incapace di cambiare. La notte sognava con terrore di congiungersi con gli animali, e le
stelle del cielo gli parevano infuocate per il furore. Gli psicologi e gli
psicanalisti con il concetto di «malattia psicologica» lo avevano confermato in questa idea di essere difettoso.
Durante il servizio militare aveva avuto altre esperienze omosessuali. Con malinconia si era convinto sempre di più di essere legato
a una sola esperienza esistenziale da considerarsi come negativa.
Dopo aveva trovato lavoro a Firenze come cuoco in un ristorante
e viveva volentieri in città dove si era fidanzato con una piacevole
ragazza di cui si era innamorato. Però gli capitava il fatto terribile di
avere l’erezione con gli uomini e non con le donne. La sua impotenza con l’innamorata gli suggeriva il pensiero del suicidio.
Il mio dialogo con lui fu molto difficile e faticoso. Si trattava di
analizzare la tradizione di un’intera cultura e di demolire convinzio-
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ni tenacemente radicate. Il mio compito fu di aiutarlo a capire in
profondità che non era né un mostro né un malato, ma un uomo
indipendente, che doveva far tesoro delle sue esperienze, sia positive
sia negative, per scegliere finalmente secondo i suoi desideri e le sue
inclinazioni, nel rispetto di se stesso e degli altri, ma senza paura di
nessuno, e senza concessioni ai pregiudizi della società e agli schemi
conformisti della scienza psicologica ufficiale.
Il suo concetto di essere biologicamente o psicologicamente tarato fu difficile a morire. Quando smise di sentirsi un mostro o un
malato cominciò ad avere buoni rapporti amorosi con la sua donna e
smise di pensare al suicidio. E visse sogni meno tragici. E quasi ogni
giorno si alzava la mattina con gioia, in ogni modo con la voglia di
vivere. Era uscito dall’incubo quando aveva capito di essere un
uomo come gli altri. Rivedeva il passato senza paura.
Infatti non esiste un passato che ci determina, ma solo lo sguardo
con cui lo si considera, che varia secondo le prospettive che ci
confortano e le speranze che ci alimentano. Anche senza saperlo
viviamo la vita come un’opera d’arte e la nostra tristezza le nostre
malinconie e i nostri dolori ne difendono e ne mantengono il significato.
Anche il sogno non è un conflitto tra i desideri e la censura, ma è
uno dei luoghi della creatività come caratteristica essenziale del
mondo biologico.
Il laboratorio delle nuove invenzioni.
Il mondo dei viventi genera i colori, i suoni, gli odori, i piaceri,
l’incanto delle albe e dei tramonti, il silenzio degli incubi e delle
paure.
Questa vita sospesa sul nulla.
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Guarda com’entri e di cui tu ti fide
Non t’inganni l’ampiezza dell’entrare.
Dante, Inferno, V-19-20
Alla critica radicale del pensiero psicoanalitico si potrebbe obiettare che Freud per primo ha provato a sottrarre i conflitti psicologici
ai pregiudizi della medicina, però di fatto, almeno finora, si è verificato che gli psicoanalisti, di ogni scuola e di ogni corrente, hanno
contribuito a collocare l’intera psicologia umana nella rubrica triste e
un po’ grottesca dei trattamenti terapeutici.
Diventa tutto psicoterapia, dal sesso alla musica, dalla letteratura
alle passeggiate in campagna, dalle visite ai musei alle vacanze al
mare. Anche il campanile di Giotto può essere terapeutico – e non
solo per quelli che vi si buttano di sotto. Pure masturbarsi è terapeutico, almeno secondo alcuni. Ma può essere più terapeutica un’amorosa.
Così nascere significa ammalarsi. Forse ci vogliono dire che
sarebbe meglio non nascere, ma una volta nati non ci resta che la
psicoanalisi. Parallelamente gli psichiatri riempiono le cliniche e
pongono per molti giovani la candidatura a divenire cittadini di
second’ordine. Aprono una strada senza ritorno, che è il vero mani-
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comio contemporaneo, al di là della discussione sugli edifici.
Mentre la legge psichiatrica prevede il sequestro di persona per chi
non pensa secondo i canoni convenzionali prescritti, o per chi manifesta intenzioni sconvenienti.
«Se continui così mi ammazzo» e si ritrova a «Diagnosi e Cura»
tra infermieri e assistenti sociali.
A questo si deve aggiungere che una psicologia deterministica
che non tiene conto dell’uomo come soggetto di scelta è una disciplina che dimentica l’essenziale e rimane pertanto una sequela di
sofismi senza significato e un seguito di discussioni senza contenuto. Infatti i libri di psicologia sono incredibilmente noiosi, e i libri di
psichiatria ricordano da vicino i musei delle cere con le collezioni di
figure morte e con i corridoi e i labirinti dei manichini. Ma vengono
in mente anche le raccolte di farfalle piantate col chiodino e gli
armadietti degli uccelli imbalsamati con i cartellini della classificazione zoologica.
Culturalmente i mezzi di informazione si riferiscono in modo
costante ad alcuni canoni di riferimento che sembrano immutabili.
Quando, per esempio, si parla di episodi di suicidio, tentato o arrivato a compimento, si trova logicamente inevitabile aspettarsi il giudizio dello psichiatra, e lo si prepara con appropriate annotazioni, i cui
fondamenti di pensiero sono accettati come verità rivelate o visti
come princìpi universali assoluti, incisi e scolpiti su pietra come le
tavole della legge teologica.
Così i giornali e le riviste, la radio e la televisione, il cinema e i
romanzi, e tutte le altre forme di comunicazione diffusa riportano e
coltivano gli stessi pregiudizi e sembrano custodirli e diffonderli con
sicurezza ammirevole, senza il minimo dubbio e senza il più piccolo
sospetto.
E il naufragar m’è dolce in questo mare (Leopardi, L’infinito)
Ma che cosa si può dire ancora a proposito di saggezza? Il
Grande dizionario della lingua italiana di Battaglia la definisce
come «capacità di valutare esattamente e di affrontare con lucidità e
misura gli eventi e le situazioni, dando loro la giusta importanza alla
luce delle esperienze passate, della propria prudenza e del proprio
equilibrio interiore».
Ma qual è la giusta importanza?
Ognuno ha le sue misure, che variano continuamente anche nella
stessa persona. Dunque non c’è saggezza che possa mettere d’accor-
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do anche due sole persone. Ognuno ha il suo concetto di equilibrio e
la sua propria personale lucidità. Il mare dell’essere è pieno di onde
in conflitto e non ha un porto definito e non c’è uno scopo per tutti.
Così è nata la torre di Babele, quando gli uomini si accorsero del
loro disordine, differenti e liberi senza una ragione.
In questa vita solitaria ogni singolo cerca negli affetti e nelle congiunzioni d’amore uno scopo di tutti e due provvisorio, un incantesimo ingannevole per essere insieme, un’ombra consistente di beatitudine.
In televisione, a Mixer, lo psichiatra dichiara che i serial killer
non sono malati di mente, ma hanno un disturbo della personalità:
pare che abbiano bisogno di affetto, verrebbero da un’infanzia
incompleta. Con queste e altre finezze psicologiche si continua a
diffondere la più pura ignoranza in materia di conoscenza dell’uomo. Da ricordare che la storia biblica comincia con un omicidio in
famiglia. «Dov’è tuo fratello?» è una domanda che ritornerà spesso.
Naturalmente se il serial killer è stato condannato a morte o
all’ergastolo lo psichiatra non contraddice i magistrati, ma si riserva
di dire che non c’è omicida senza un’infanzia infelice. Se non avessimo i traumi infantili saremmo tutti angioletti del cielo, innocenti
come passeri dell’aria. Gli stessi psichiatri dichiarano schizofrenici i
giovani scapestrati che non contentano i genitori o che usano droghe
proibite. O che hanno poca voglia di lavorare.
Bisogna essere allineati senza incertezze. A cominciare dall’infanzia. Se non sei allineato sei difettoso: se poi c’è un’ipotesi di
reato sta alle autorità decidere se mandarti in manicomio o in carcere
secondo le opportunità e le convenienze dell’ordine sociale.
Chiunque può essere giudicato sano di mente o malato di mente
ad arbitrio di chi decide. Ma solo pochi si rendono conto di questa
assurdità.
Nessuno è in grado di controllare i giudizi dello psichiatra proprio perché non c’è una misura per farlo, così lui ha mano libera per
svolgere tranquillo il suo meritevole servizio di desiderabile pianificazione sociale e la sua lucida opera di distruzione metodica degli
individui che pensano.
Non è che al determinismo degli psichiatri vogliamo contrapporre semplificazioni o determinismi diversi: cerchiamo al contrario di
richiamare la conoscenza e la ricerca alla complessità della nostra
struttura neurologica e alla ricchezza delle nostre scelte che non possono essere in alcun modo semplificate o ridotte a generici modelli
apparentemente rassicuranti.
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Non è possibile né desiderabile una programmazione della vita
degli individui e delle collettività che pretenda di inquadrare la vita
degli uomini. Le conseguenze di questi concetti le abbiamo già
conosciute abbastanza e sperimentate sufficientemente a fondo con
tutti gli orrori relativi.
Così succede che alcuni di Alleanza Nazionale fanno una interpellanza per chiedere l’internamento psichiatrico di Umberto Bossi
che dichiara di volere l’autonomia del nord con capitale politica a
Mantova e quelli della Lega rispondono per le rime chiedendo
l’internamento dei parlamentari che hanno firmato la richiesta.
Dobbiamo essere contenti per l’alto livello di cultura.
Se venisse un regime più autoritario i nostri specialisti avrebbero
un lavoro più qualificato.
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PARTE SECONDA
L’ESPERIENZA
DEL TELEFONO VIOLA
di Alessio Coppola
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I
DAVIDE CONTRO GOLIA
Quello che era successo a Davide Catalano sarebbe potuto succedere a chiunque. Una forte delusione amorosa a 16 anni. Maria era
tutto per lui1. Un’estate al mare ha sepolto ogni speranza. Il motorino non riesce a portarlo più lontano dalla sua giovane disperazione.
Si butta dalla finestra. Forse sceglie quella bassa del primo semipiano che dà sulla strada per lasciare una possibilità all’istinto di
sopravvivenza. Un ricovero in ospedale diventa ricovero psichiatrico. Un ragazzo che si vuole togliere la vita per una cotta andata male
è meglio metterlo a posto subito. Deve avere qualcosa di guasto nel
cervello.
È il primo incontro di Davide con la psichiatria. Un breve passaggio per Villa Armonia, e se le cliniche psichiatriche non prendono
nomi di pace prendono quello dei fiori e così l’illusione è salva.
Gli psichiatri dichiarano guerra al primo amore di Davide sparando nel suo cervello le prime bombe di psicofarmaci della sua vita.
Lo dichiarano mutacico perché è chiuso in sé a raccogliere e difendere la memoria di Maria. Sì, è dolorosa quella memoria, ma è la
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memoria della sua vera vita.
Scrivono nella cartella clinica che è affetto da delirio paranoide
perché si appella continuamente a un essere superiore e rivela di
essere guidato da lui in tutti i suoi passi. Scopre dopo qualche giorno
che in quella clinica, inchiodati ai letti dai trattamenti ipnotici, le
famose cure del sonno, vi sono decine di uomini e di donne con storie dolorose alle spalle. Rinuncia allora al silenzio. Ora vuole sapere
cosa è successo a loro, entra e esce dalle stanze e attacca discorso
con tutti alla ricerca di storie come la sua, altri Davidi, altre Marie.
Questo comportamento è giudicato chiassoso e invadente, rompe
gli equilibri dei condannati al sonno chimico, rompe i ritmi programmati della casa di cura. Un mutacico che ora parla troppo e con
tutti è trattato come un logorroico schizofrenico.
Davide è un ragazzo molto intelligente e la borgata gli ha insegnato a cavarsela nelle situazioni difficili. Capisce di essere prigioniero di un carcere che costruisce le sbarre qualunque sia il suo comportamento, soprattutto se spontaneo. Sputa le pillole e assicura che
le ha prese. Studia una soluzione mediana: né troppe parole né
poche, né troppo dio né troppo diavolo, risposte gentili e garbate a
medici e infermieri, e soprattutto, gli consigliano gli altri ricoverati,
«se vuoi uscire, non parlare con loro di Maria».
Per gli psichiatri è la regressione del male. Remissione totale no.
Prudenza. Si sa come è pervicace e indefinibile questa malattia mentale.
Ma è la memoria di Davide a essere pervicace e ci vorranno anni
e il matrimonio di Maria con un altro uomo per metterlo un po’ in
pace con le sue frustrate speranze.
Una giornata calda di giugno del ’91. Sono trascorsi sei anni da
quella drammatica storia. Faccio la sua conoscenza dal vetro di una
stanzetta asettica del decimo piano del reparto gravi ustionati del S.
Eugenio di Roma. Un citofono ci dovrebbe permettere di parlare,
ma Davide è legato al letto. L’infermiere gli ha messo la cornetta sul
petto e se ne è andato. A ogni sforzo di accostarsi, l’apparecchio gli
ricade sul fianco. L’infermiere si stanca di rimettergli il telefono
nella posizione di partenza.
Mi incavolo:
- Ma se non può slegargli le mani, gli assicuri con qualcosa il
telefono alla bocca.
- Tanto delira, non si capisce nulla di quel che dice.
- Ma io voglio sentire lo stesso.
Lo psichiatra, chiamato a rinforzo del reparto ustioni dal reparto
psichiatrico dello stesso ospedale, mi assicura che Davide è un
malato di mente.
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- Ma lei che ne sa?
- (Lo psichiatra assume il tono professionale). È stato trasferito
qui al centro ustioni dal reparto psichiatrico del Forlanini dove era in
TSO [trattamento sanitario obbligatorio, riservato a chi rifiuta il trattamento psichiatrico, N.d.A.].
- E allora? Cosa le assicura che i suoi colleghi non abbiano preso
un abbaglio?
- È affetto da delirio paranoide. Non sente come urla, le frasi
sconnesse, salta di palo in frasca, dice nomi di persone sconosciute.
Nessuno dei parenti sa chi è questo Claudio contro cui bestemmia
continuamente. E poi chiama Emidio, il fratello, anche se sa che qui
non c’è.
- Ma cosa farebbe lei se, legato a un letto del Forlanini da qualche
suo collega, si vedesse attaccare il fuoco alle lenzuola e fosse tirato
fuori dal rogo con un tallone già carbonizzato? Direbbe le preghierine per i suoi infermieri?
Ne avevo sentite e viste già tante sugli psichiatri e sulla psichiatria, ma questa volta mi sembrava di parlare con un tocco di legno.
Era successo che Davide, la mattina del 6 giugno era stato portato
al pronto soccorso del S. Filippo Neri in seguito a una caduta dal
motorino perché accusava persistenti dolori alla testa. Si attendeva i
soccorsi e gli accertamenti diagnostici per il trauma cranico subìto,
ma alla richiesta di eventuali precedenti ricoveri ospedalieri parlò
ingenuamente del ricovero psichiatrico di sei anni prima. Il mal di
testa fu messo in relazione a quel suo incerto tentativo di suicidio
con caduta dalla finestra e invece di fargli l’elettroencefalogramma
fu trattenuto dagli psichiatri del S. Filippo.
Di fronte all’arresto egli reagì con tutta la forza. La sua risposta
violenta non fu considerata una reazione logica e naturale, ma la
prova della sua mancanza di senno. Bloccato fisicamente e siringato
a dovere con grosse fiale di valium e serenase fu spedito con richiesta di TSO al reparto psichiatrico del Forlanini. Qui, legato a un letto
di contenzione con cinghie forti e moderne, veniva sciolto solo
durante i pasti. C’erano stati scontri violenti anche con gli infermieri
del Forlanini, ovviamente uno contro tutti. Davide per loro era un
mostro da abbattere a tutti i costi.
Il secondo giorno il fuoco. Lui era legato e sedato. Chi glielo ha
appiccato? E come avrebbe fatto a darsi fuoco da solo, legato come
era e vigilato anche durante i pasti? Come avrebbe fatto un mozzicone di sigaretta a volare da una mano bloccata fin sotto il tallone sinistro, pur esso bloccato, da dove certamente sono partite le fiamme
che lo hanno portato all’amputazione della gamba sinistra fin sotto il
ginocchio? Perché i soccorsi non sono stati immediati?
39
Domande che attendono la risposta in sede di processo civile e
penale2.
Sapemmo di questa drammatica vicenda mentre eravamo impegnati in una dimostrazione contro l’elettroshock davanti al S.
Eugenio. Ci avevano detto infatti che erano in arrivo macchinari
nuovi, roba americana, per il reparto psichiatrico di quell’ospedale,
ma di questi congegni vi dirò in seguito.
Tornai la seconda volta a visitare Davide con il dottor Giorgio
Antonucci, che era a Roma per un nostro coordinamento. Impostammo con lui un programma di denuncia pubblica e di azione
legale, ma fummo mandati via perché l’orario di visita era appena
scaduto.
«Quanta stupida precisione» pensai, «mentre si continua a
distruggere una vita umana».
La nostra presenza al reparto ustioni fu costante. Per un mese, un
po’ io, un po’ Gianni, uno dei primi compagni del CEU3, facemmo i
turni per non perdere una visita. Era l’occasione per entrare in un
qualche contatto con Davide, per accompagnarlo nel suo doloroso
sfogo cerebrale con cui tentava di darsi una via d’uscita dal rogo che
ancora gli bruciava il corpo come se fosse il minuto prima. Sfidava
di nuovo, a sei anni dalla sua perduta Maria, l’azione di potenti psicofarmaci, che volevano negare ogni libertà alla sua sacrosanta
ribellione. Ormai Davide mischiava i nostri nomi a quelli dei parenti. Chiedeva continuamente di noi. Come mi vedeva, all’inizio di
ogni visita, spezzava il filo del suo monologo, «Alessio!» mi gridava
con gli occhi spaventati e con il corpo sollevato come un arco
vibrante, teso dai quattro legacci, «Voglio giustizia, giustiziaaa!».
Eravamo per lui il filo da non mollare per uscire dal suo labirinto
di fuoco e ce ne sentivamo la responsabilità.
Davide aveva subìto l’amputazione della gamba sinistra sotto il
ginocchio. Tre operazioni successive perché gli ortopedici arrivassero a fermare la cancrena che, a partire dal piede carbonizzato,
rischiava di portargli via tutta la gamba. Ma la sua preoccupazione
maggiore allora non era l’amputazione subìta ma il terrore di restare
intrappolato per sempre tra un reparto psichiatrico e l’altro.
E quello del S. Eugenio era già in simbiosi con il reparto ortopedico. Davide quando appariva qualcuno, o noi al di qua del vetro, o
infermieri e medici al di là del vetro nella sua stanzetta, cercava di
divincolarsi dai legacci che lo tenevano bloccato notte e giorno,
compresa la coscia della gamba amputata. Gridava contro il fuoco,
imprecava contro vecchi e nuovi responsabili della sua situazione,
rifiutava spesso il cibo (quindi anoressico, altro segno di malattia
mentale per gli psichiatri!). Davide, un giovane di ventidue anni alto
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e forte, aveva perso più di trenta chili. Ne pesava quaranta. Ci appariva come uno scheletro monco inchiodato a un letto.
Era passato un mese, decidemmo un intervento più energico.
- Dottore, noi, i nostri consulenti, i nostri avvocati, i familiari, vi
chiediamo di mandare Davide a casa, dove riceverà le cure più
opportune alla sua nuova condizione. Tornerà qui per le visite ortopediche. (Era Paola Cecchi, la nostra psicologa del CEU di Firenze,
incaricata di sostenere la nostra decisione).
- Lo dimetteremmo volentieri, ma Davide continua ad essere
pericoloso. Non lo possiamo slegare perché ci aggredirebbe con
tutto il suo furore. Continua inoltre nel suo delirio, per cui ha ancora
bisogno di cure psichiatriche. Non ci possiamo prendere questa
responsabilità.
- Allora lasci fare a me.
- Ma lei non è abilitata a questo.
- Sono psicologa. Di quello che vado a fare me ne intendo più di
lei. Assumo io la responsabilità. Scioglietelo.
Dopo varie resistenze, Davide fu sciolto. Medici, psichiatri e
infermieri si chiusero nell’angolo pronti a scattare per accoppare
quell’orribile mostro.
Ma il mostro non li attaccò. Si prese le mani di Paola e se le avvicinò alla bocca e poi se le tenne a lungo tra le sue. Continuava il suo
effluvio fantastico, privo di grammatica e di sintassi, ma senza alcuna aggressività. Paola lo accarezzò, lo abbracciò come poté, gli
baciò il viso. Davide si fece tenero e dolce come un coniglietto spaventato: «Davide, non aver paura, il fuoco non c’è più, non sarai più
legato, ti porteremo via subito».
Il giorno dopo con i familiari riportammo Davide a casa. Un giovane infermiere, che era entrato in una positiva sintonia con il fraseggio spezzato e concitato del giovane, ci aiutò a portarlo nel modo
giusto. Davide, al di là delle piaghe da ustione del moncone sinistro,
aveva un buco purulento da decubito, grande come un’arancia, che
gli dava un gran dolore. L’ultimo regalo del lungo bloccaggio al
letto di contenzione.
Nei trenta giorni successivi andammo a trovare Davide a casa
sua. Stava per lo più fuori sul pianerottolo che dava in uno slargo
circondato da palazzine di due o tre piani. Qualcuno ci spiava dal
terrazzo o dalla finestra e non capiva come noi facessimo a stare e a
colloquiare con un corpo che si dimenava continuamente su una
sedia a rotelle, mezzo nudo – faceva un gran caldo e le piaghe, sia
quelle provocate dall’incendio sia quelle al coccige provocate dal
decubito, non lo lasciavano comodo in alcuna posizione –, qualche
volta col pisello di fuori, con l’urina spesso in libera uscita
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nell’imbarazzo dei suoi familiari per la nostra cocciuta presenza.
Inoltre quei vicini-lontani si allarmavano non poco per le urla spezzate che Davide lanciava nei loro confronti, a volte gridava forte i
nostri nomi, qualche altra quello della cugina Gianna, della zia
Adele, del suo caro amico Stefano. Per quei vicini doveva apparire
come una pubblica conferma della sua mostruosità. Sì, c’era stato
quel maledetto fuoco, ma in effetti si doveva trattare anche per loro
di un povero malato mentale.
Ma Davide nonostante le torture subìte recuperava velocemente
la sua abituale dolcezza di carattere e tranquillità di spirito. E con
queste riprendeva una capacità di conversazione e di ascolto che
farebbero invidia ai tanti esseri replicanti che ci circondano.
Domenico e Maria, da allora nostri fans e nemici giurati dei trattamenti sanitari obbligatori, si presero intanto una prima soddisfazione. Portarono Davide in visita ortopedica al S. Eugenio. Domenico
al ritorno mi disse che «i dottori» non volevano credere che quel
giovane, di nuovo bello e robusto, anche se con la vistosa e permanente menomazione, fosse «il loro paziente» del mese prima. E poi
«come era possibile che il giudicato delirante paranoide dai loro colleghi psichiatri parlasse ora così bene e fosse addirittura gentile?».
La seconda ce la prendemmo tutti insieme in televisione di fronte
a qualche milione di telespettatori di «Caffè Italiano», la rubrica di
Elisabetta Gardini. Davide stesso raccontò la sua storia, concedendo
poco alle pur facili emozioni del momento.
Era il primo gennaio del ’92. Giorgio Antonucci e l’avvocata
Galantucci stavano in trasmissione con Davide e con me a rappresentare il neonato Telefono Viola.
Il CEU infatti il 15 ottobre del ’91, a conclusione di un lunghissimo travaglio di idee e di esperienze, in continuità storica con le
esperienze di liberazione dal manicomio portate avanti con successo
da più di vent’anni dal nostro Giorgio Antonucci, aveva deciso di
dar vita a un nuovo strumento della telefonia sociale. Tra i pochi
colori rimasti liberi c’era il viola, ma, a pensarci bene, calzava benissimo con i nostri propositi e con la nostra storia. Viola come un fiore
che ci dice «non ti scordar di me»; «anche se il mio profumo è più
delicato di altri, se ti accosti di più puoi avvertirlo»; «anche se nasco
come posso, in posti imprevedibili, sto bene dove sto, non è il caso
che tu mi sradichi per custodirmi da qualche altra parte»; «anche se
pochi mi scelgono, ci sono tante donne che ormai mi prediligono»;
«è vero, qualcuno con me fa il superstizioso, ma se ci fate caso,
porto sfortuna solo a certi (tanti!) psichiatri».
Questa idea di offrire uno strumento di difesa legale e socioculturale contro la psichiatria costrittiva, denunciando i suoi abusi e le sue
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violenze, l’avevamo già cullata alla fine del primo corso di ecologia
umana da me tenuto presso la Legambiente Lazio dall’ottobre dell’
’89 al giugno del ’90.
Ma ci aveva sempre scoraggiato l’enorme sproporzione tra i
nostri mezzi e la cultura psichiatrica dominante a tutti i livelli, di
elite e di massa. L’esperienza di Davide ci aveva finalmente spinto
all’audacia. Un Davide, pensammo, potrebbe ancora vincere contro
un Golia. Senza Davide, quello biblico e quello romano, probabilmente non starei ora a scrivere sui primi passi del Telefono Viola.
Note al capitolo
1. Il nome vero è un altro. L’importanza per Davide della sua storia con Maria è
una mia personale interpretazione, fondata su episodi raccontatimi da Davide e dai
suoi genitori.
2. Il processo civile contro i responsabili dell’Ospedale Forlanini tarda a concludersi per la latitanza degli imputati e delle assicurazioni, e per gli scioperi degli avvocati. L’indagine per quella penale è stata affidata al giudice Dott.ssa Lori. Per cartoline di solidarietà si può scrivere a Davide in Via Pramollo 18, 00166 Roma.
3. Il CEU è il Centro di Ecologia Umana, da me fondato alla fine del ’90, dopo il
primo corso di ecologia umana presso la Legambiente Lazio. Ha doppio statuto, quello di Legambiente ispirato alla «qualità della vita e alla protezione della persona
umana» e quello autonomo del ’93, ispirato specificamente alla teoria e alla pratica
antisegregative e non psichiatriche. Si possono chiedere gli Atti del CEU e altri materiali del Telefono Viola, sottoscrivendo liberamente sul c.c.p. 67172007, intestato a
Associazione Telefono Viola, Via dei Campani 73, 00185 Roma.
43
II
IL MOSTRO DI IMOLA
Una mattina di ottobre dell’85 mi era successo di vedere da vicino per la prima volta un essere umano liberato da una lunga contenzione psichiatrica: Teresa B. Stavo facendo delle interviste con un
registratore a Giorgio Antonucci, che allora era responsabile di due
reparti del manicomio di Imola, «l’Osservanza». Il materiale registrato doveva servire per il primo libro sistematico pubblicato in
Italia sulla pratica di Antonucci1.
Stefano Sguario del Telefono Viola di Genova mi ha chiamato
pochi giorni fa e mi ha dato una bella notizia: «Alessio, I pregiudizi
e la conoscenza fra poco lo facciamo girare su Internet, l’ho già
scannerizzato e assorbito in banca dati».
Dò questa notizia perché di fronte alle tante cose da scrivere, ma
anche da rappresentare visivamente, da interpretare con tutti i generi
espressivi possibili, poesia compresa, io e Antonucci non pensavamo che un libro potesse contenere tutto o esprimere le emozioni che
si provano e i problemi che si affrontano quando lungodegenti vengono liberati dopo trenta, quaranta anni di legatura. Ci voleva un
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qualcosa che fosse anche un film, un brano di teatro, un poema, un
interminabile grido, mentre noi avevamo solo una piccola e traballante editrice. Per tutto questo tra di noi lo chiamammo «il libro
impossibile». E ora se andrà su Internet sarà anche impossibile come
libro, un libro che si mette a volare...
Quel libro mi era costato più di un anno di lavoro e aveva impegnato anche altri redattori della Cooperativa Apache. Ricordo che
alcune compagne, durante le correzioni di bozze e i vari rifacimenti,
mollavano il lavoro per scappare da quelle righe terribili e lanciare
bestemmie tipo «sti stronzi di nazisti» contro psichiatri, infermieri e
infermiere, responsabili della contenzione a vita – trenta, quaranta,
cinquanta anni – di individui internati all’Osservanza fin da bambini
o di ritorno dai campi di prigionia della seconda guerra mondiale.
Mi ritrovai davanti agli occhi un primo fascicolo con le riflessioni
di Antonucci, raccolte da Vito Totire, un medico pugliese, attualmente fiancheggiatore, come lui dice, del Telefono Viola di Bologna, e quaranta cartelle cliniche fotocopiate con cura da Paola
Cecchi2 appartenenti ad altrettante vittime di quegli internamenti.
Da allora il mio sonno non è più tranquillo e la mia veglia si
sdoppia. In superficie vedo e parlo con le stesse persone così come
sono, più in profondità vedo e qualche volta parlo sotto le labbra con
persone ridotte a ombre o larve umane. Emma Maria, la mia compagna da più di quindici anni, visse intensamente con me questo drammatico cambiamento dell’umore.
Ma si trattava solo di umore? Dall’85 la nostra comunicazione è
popolata di sfondi che diventano primi piani e di primi piani che
diventano sfondi. Ormai è una esercitazione continua. Proviamo a
vedere come sarebbero i nostri stessi interlocutori del momento e
noi stessi, l’un l’altro, se fossero, o se fossimo, stati legati da un giorno, un anno, venti anni nell’unico inferno che esiste veramente.
Inferno, come quello che si aprì alla vista di Giorgio Antonucci
quando volle prendere in affidamento i reparti peggiori di Imola,
quelli degli «agitati e pericolosi».
Teresa B., di questo reparto, fu liberata da Antonucci dopo quarant’anni di continua legatura, imbavagliata con una museruola dai
suoi aguzzini specializzati. Dopo i pasti le richiudevano il portoncino blindato della sua celletta3. L’unico suo esercizio fisico in quarant’anni di prigionia psichiatrica fu quello di raschiare il legno
intorno allo spioncino a bocca di lupo perché qualche essere vivente
che non fosse un camice bianco la portasse dall’altra parte del
mondo, nella luce piena del giorno.
Teresa l’avevo vista quella mattina. Antonucci mi aveva portato
a vedere l’ex reparto 14, con le sbarre divelte e con le celle di isola-
45
mento spalancate. Le 44 donne considerate dai suoi predecessori
agitate e pericolose, dopo un lento e faticoso programma di recupero
sensoriale, erano state inserite in un reparto autogestito. Era avvenuta in pochi mesi una trasformazione incredibile. Niente più letti e
fasce di contenzione – Antonucci ne aveva fatto grandi sacchi e li
aveva spediti all’amministrazione –, psicofarmaci aboliti o ridotti al
minimo se richiesti da pazienti molto assuefatti, solo assistenza
medica generale, le attenzioni e le parole necessarie per ricreare una
fiducia infranta da decenni di maltrattamenti e persecuzioni.
Ero stato spesso a Imola e avevo registrato il lento ma inarrestabile ritorno alla vita di quelle 44 sepolte vive. Avevo notato come
Antonucci si muoveva tra di loro. Le conosceva una per una, sapeva
le loro storie dall’infanzia. Alcune avevano ripreso una capacità
comunicativa notevole anche con le persone estranee che andavano
a visitarle. Molte erano ancora alle prese con i fantasmi dell’orrore
che avevano popolato la loro lunga condizione di immobilità fisica e
di contenzione psichiatrica, donne che avevano avuto solo se stesse
per parlare e che ormai non credevano in nessun ponte che le portasse dall’altra parte o in un viale veramente libero. Antonucci mi
accompagnò nel cortile e mi mostrò Teresa.
Era una donna alta, sulla cinquantina, dotata ancora di grande
vigore, capelli biondi che la sua mano ravviava con un pettine dalla
nuca in giù continuamente, gli occhi grandi e azzurri, spalancati sul
verde del prato. Camminava con un passo veloce come per divorare
in poco tempo quanta più luce e quanta più aria le fosse possibile. Io
le venni vicino, la salutai. Rispose con un cenno del capo, si fermò a
guardarmi per lunghi attimi, e continuò nel suo rapido passo.
Giorgio mi disse: «In genere non parla con nessuno salvo me, ma
come vedi con te è tranquilla».
Eccola con noi «il mostro di Imola» a girare liberamente per il
parco tra i grandi alberi e le aiuole dell’Osservanza.
Riporto l’intervista che feci a Antonucci in quel momento sulla
storia di Teresa B. e sulle 44 compagne di prigionia, e che pubblicai
nel libro già citato.
- Giorgio, abbiamo ritrascritto in modo integrale la cartella clinica di Teresa B., che tu hai incontrato a Imola all’ospedale psichiatrico dell’Osservanza quando sei diventato responsabile del reparto 14.
Ci puoi raccontare brevemente come hai trovato le persone nel
reparto e, in particolare, ci puoi parlare di Teresa?
- Il reparto era tutto chiuso come un cubo, nel senso che c’erano
dei muri che io dopo ho fatto buttare giù, delle porte di ferro che
sono state sostituite con porte a vetri, e i vari locali, la sala d’ingresso attuale, poi un piccolo corridoio che porta al corridoio delle stan-
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zine. Le varie parti erano tutte chiuse, vale a dire che da una stanza
all’altra si passava solo aprendo le porte con le chiavi, c’era
un’infermiera in ogni locale con le chiavi pronte, nel senso che un
certo numero di persone stavano in una sala con l’infermiera, poi
porta chiusa, altra sala con infermiera e chiavi. Un cortile recintato
con alte mura era l’unica possibilità per poter stare all’aria, poi,
all’interno, c’erano le stanze (le celle) a due letti, in alcuni casi come
per Teresa per una persona sola, quando era ritenuta particolarmente
pericolosa. Dunque arrivavi e ti trovavi la porta chiusa con lo spioncino: si possono ancora vedere le impronte delle unghie, all’interno,
delle persone che, le volte che erano slegate, tentavano di uscire, di
aprire.
- In quali condizioni si trovava Teresa quando la vedesti per la
prima volta?
- Teresa era ritenuta la più pericolosa di tutte nel reparto delle
«pericolose», era quello che con termini molto usati ora si chiama
«il mostro»; lei era considerata il mostro di Imola. Dunque intanto
dovevo passare tutte queste barriere (anche Noris, mia moglie, ha
visto questa scena tanto che mi disse: «Cosa ci fai qui dentro, non
puoi mica farci nulla; è una cosa tremenda, assurda, è una camera di
tortura»). Arrivato davanti alla porta vedevi solo dallo spioncino; di
Teresa dallo spioncino vedevi solo gli occhi e i capelli, perché lei
aveva la maschera (descritta come «museruola» nella cartella,
all’annotazione del 17/4/71), poi aveva la camicia di forza toracica
che la teneva fissa al letto, le cinture di contenzione alle gambe e ai
polsi, per cui era una mummia.
- Perché la maschera le copriva interamente la bocca, per impedirle di sputare?
- Sì, la bocca e quasi tutto il viso, come quando i banditi fanno le
rapine e si mettono la maschera fino agli occhi. Nel caso di Teresa la
maschera era fissata con delle cinture di cuoio al letto. Quindi io
vedevo solo gli occhi di Teresa e accanto a me l’infermiera aveva
paura.
- Cosa hai fatto concretamente quando l’hai vista?
- Ho cominciato a slegarla, ho cominciato da una mano. A volte,
anche prima che arrivassi io, tentavano di slegarla. Tutti i giorni
dovevano slegarla per pulirla. Naturalmente andavano diverse infermiere perché quando lei veniva slegata, faceva quello che poteva,
picchiava; è anche una donna forte.
- Ma lei voleva essere slegata?
- Una delle prime difficoltà sta nel rendersi conto che gli stessi
degenti finiscono con il rifiutare essi stessi di essere slegati. Ad
esempio nel caso di Teresa, le slegavano una mano e mentre l’infer-
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miera tentava di darle da mangiare lei le graffiava il viso; a quel
punto la rilegavano e la picchiavano. Tanto che molte di loro che
sono state legate non hanno più denti sia a causa dell’elettroshock e
sia perché le alimentavano con la sonda. Mi hanno raccontato le
infermiere che se le degenti rifiutavano di aprire la bocca, venivano
forzate e nell’ «operazione» partiva anche qualche dente.
- Qualcuno era dalla tua parte, qualche medico, qualche infermiera? O operavi da solo?
- Ero da solo. Si trattava di cominciare a slegarla contro il parere
dei medici. Anche se il reparto dipendeva interamente da me, il
medico precedente si ritirò subito e così le infermiere. Avevano
paura, e si capisce perché avevano paura, data la situazione, il modo
abituale di pensare e il fatto che tutto sembrava andare contro la
volontà della stessa paziente. Trascorsi un mese interamente nel
reparto notte e giorno, perché non c’era solo Teresa, nel reparto
c’erano quarantaquattro donne, di cui una trentina erano legate in
continuazione, mentre le altre stavano slegate qualche ora al giorno.
C’era tutto questo lavorio di legarle e slegarle.
- E come erano intanto i tuoi rapporti con la direzione?
- Non ve ne erano molti. Ero pienamente assorbito dal lavoro nel
reparto. Dopo un mese ho consegnato alla direzione i mezzi di contenzione in un sacco accompagnato da un biglietto con su scritto:
«Questi strumenti di tortura devono uscire da un reparto ospedaliero». Ogni volta che prendevo un reparto facevo questo lavoro, slegavo tutti e poi consegnavo i mezzi di contenzione. Perché consegnarli? Perché fino a che si tengono lì, anche se non si usano, sono una
possibilità terroristica. Quando mandai tutto via lo feci sapere ufficialmente a tutti, infermieri e degenti: era finita!
- Dicevi di Teresa...
- Sì, Teresa è quella che si è rifiutata per più tempo di essere slegata, perché aveva paura di quello che avrebbe fatto lei stessa, perché lei sapeva che una volta slegata avrebbe picchiato gli altri, e gli
altri l’avrebbero repressa duramente, allora preferiva «stare tranquilla». Tante volte ho sentito dire dagli psichiatri che «i pazienti stessi
vogliono stare legati», ma bisogna capire il perché. È un po’ come
gli imputati di Stalin che dicevano di avere torto e che aveva ragione
Stalin. Bisogna sapere il perché. Teresa, ora tu la vedi, ognuno la
può vedere – purtroppo non ha trovato dove andare –, è una persona
con cui si comunica bene. Dal punto di vista biologico c’è da dire
che, oltre alla muscolatura rovinata, i denti che non ha più, aveva
altri seri e delicati disturbi fisici, per i quali in genere si interviene
chirurgicamente. Molti suoi problemi fisici sono spariti quando lei è
passata dalla condizione di donna legata costantemente al letto a
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quella di una donna libera, che può camminare, uscire, andare dove
vuole.
- Tu hai tolto a lei come a tutti gli psicofarmaci. Dalla cartella clinica risulta che veniva pesantemente imbottita di psicofarmaci, e
nonostante questo continuava giustamente a ribellarsi!
- Sì, si è trattato di buttare giù le porte e i muri, di togliere i mezzi
di contenzione, e questa è la costrizione fisica, di convincere le
infermiere a tenere le porte aperte e contemporaneamente togliere
gli psicofarmaci. Per questo era importante un’operazione di cambiamento di cultura con le infermiere, perché smettessero di fare
ricatti. Vanno tolte le strutture fisiche di repressione, ma anche le
strutture farmacologiche e le strutture psicologiche: questo è il lavoro che uno deve fare contro la sostanza del manicomio. Dalla camera di tortura bisogna arrivare alla civile residenza come è ora.
- Come hanno reagito i tuoi colleghi dopo le prime liberazioni?
- Teresa era una delle tante persone, ma era quella che più ha
fatto paura. Ricordo che i medici non parlavano della liberazione di
quarantaquattro persone del «14», parlavano del fatto che Teresa B.
era in libertà! Tanto che un medico che diceva di conoscerla bene
mi disse: «Stai attento che qualche volta ti può saltare addosso e
staccarti i coglioni». Questo per dirti cosa pensava di Teresa B. uno
dei medici responsabili del manicomio. Lei non ha fatto male a nessuno tranne che nei primi tempi quando c’erano molti litigi. Adesso
non succede neppure più.
- Adesso come passa la giornata?
- Qualche volta va anche fuori Imola, ma non le interessa molto,
sa che ci può andare quando vuole. Lei ora vuole essere lasciata in
pace. È molto contenta quando viene a trovarla qualche familiare, ha
una figlia che raramente viene a trovarla.
- Ma come capitò qui in manicomio?
- Teresa fu ricoverata a 21 anni dopo la nascita di quella figlia di
cui ti dicevo, durante il puerperio. Una donna attraversa dopo il
parto un periodo difficile e può stare male e deve essere curata fisicamente, perché c’è un cambiamento di situazione ormonale, fisica,
psicologica. Naturalmente lei era contadina povera, faceva la casalinga e insieme lavorava nei campi, aveva un periodo di debolezza
fisica e dei problemi psicologici normali in una donna e probabilmente non riusciva a lavorare come prima.
- E allora?
- Allora a quel punto hanno chiamato un medico. Magari era sufficiente un semplice periodo di riposo. Mentre il medico ricorre allo
psichiatra. L’hanno presa e mandata al manicomio: un primo ricovero a Bologna, dove è stata sottoposta a elettroshock e insulinoshock,
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ed un secondo qui a Imola, dove si trova ormai da trentatre anni.
Avevo sempre dormito con la porta chiusa. Da allora la spalanco
altrimenti non prendo sonno facilmente.
Diverse notti in quell’anno sentii distintamente raschiare la porta
della mia camera da letto. Dapprima non capivo. Possibile che ancora sognassi rumori così nitidi stando dritto sul cuscino e con tutti i
sensi sotto pieno controllo? Poi mi si fece chiaro il fenomeno.
Sì, era Teresa B., ma questa volta raschiava con eguale forza la
porta della mia camera da letto, nonostante fosse già aperta.
Un’ombra, no, neppure un’ombra. Una forza fatta solo di vento che
portava alle mie orecchie gli stridii delle unghie e delle dita scheletriche senza più unghie. «Ci sono altre porte da aprire». Era una
voce chiara di donna che non sentii da fuori ma da dentro, dalla
bocca in giù. «Anche il cuore può essere chiuso» pensai. «È che per
essere liberi», mi rispondeva Teresa, «ci vuole qualcuno che ti tiri
fuori facendoti passare per il suo cuore». «Allora questa storia esige
quasi uno sfreghìo», mi ribellavo, «un momento, un lungo momento
in cui io e te stiamo insieme in uno stesso stretto canale che ci stringe fino a farci confondere, a compenetrare?».
Ora Giorgio Antonucci chiudeva le mie orecchie al rumore delle
unghie sulla porta. «Non è tanto questione di cuore», diceva, «ma
questione di testa. Bisogna prendere il posto dell’altra e venirne
fuori insieme». «Bisogna cioè che prima si perda il senno?», mi
opponevo, ancora più dritto sul cuscino. «No, mai. Il senno non si
perde, si allarga, al massimo sconfina. Devi guardare oltre, devi dare
per possibile ogni pensiero».
«Ma questa è pazzia! Per liberare Teresa devo diventare pazzo
io?», ero ormai in piedi e facevo su e giù per la camera da pranzo.
«Questo non è pazzia, è solo capire, andare cioè oltre le prime, e poi
le seconde, e poi ancora le terze apparenze».
Note al capitolo
1. G. Antonucci, I pregiudizi e la conoscenza - critica alla psichiatria, a cura di
A. Coppola, Cooperativa Apache, Roma, 1986. Copie residue presso il nostro archivio di Roma, disponibili solo per le nuove sedi del Telefono Viola.
2. Paola Cecchi attualmente è riferimento del CEU-Telefono Viola per la Toscana.
L’abbiamo incontrata già con «Davide». Paola mi presentò Antonucci nell’84 per la
pubblicazione del suo libro (cit.) presso la Cooperativa Apache di cui ero presidente.
Fu l’occasione per scambiarci i nostri interessi tra prigionieri politici e prigionieri psi-
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chiatrici. Attualmente Paola è impegnata a Firenze anche nel settore dei nomadi e dei
profughi dalla Bosnia.
3. Massimo Golfieri di Imola ha realizzato un eccellente servizio fotografico e,
insieme con Mara Ciaschini, una documentazione di videofilm sugli ex reparti manicomiali dell’Osservanza, comprese le «bocche di lupo». Per altre informazioni rinvio
il lettore a I pregiudizi e la conoscenza, cit., e ai libri successivi citati in bibliografia.
51
III
VALERIO VALDINOCI ORA CAMMINA
Una notte del luglio ’87 mi capitò la prima esperienza a diretto
contatto con un giovane legato a un letto di contenzione.
Verso le 21 stavo nell’ufficio di Giorgio Antonucci, all’interno
dell’Osservanza. Con il lavoro e la pubblicazione del libro, il manicomio di Imola era diventato un riferimento costante per la mia
ricerca personale nella critica alla psichiatria e alle sue nefaste conseguenze sulla vita di decine di migliaia di persone. Mi interessava
quindi continuare quel rapporto con Antonucci che aveva segnato
una svolta anche nella mia vita e nelle mie riflessioni. Quel giorno
partecipai a diversi colloqui con gli ospiti dei suoi reparti. Era appena finita una discussione abbastanza vivace con un giovane che abitava nei dintorni di Imola e che pretendeva da Antonucci un certificato di schizofrenia per evitare il servizio militare. Fu la prima volta
che si discuteva dell’arbitrarietà del giudizio psichiatrico, riferita a
una situazione attuale e non soltanto alle centinaia di vittime che
ancora erano internate nei reparti lì intorno a noi. Fino ad allora il
mio interesse era stato semplicemente storico, mentre quella discus-
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sione a cui presi parte attivamente mi metteva di fronte all’attualità
della questione. Fino ad allora la mia curiosità era stata motivata da
forti princìpi di umanità e di solidarietà. Avevo avuto anche ragioni
personali che mi avevano spinto a frequentare gli istituti di Imola.
Mi avevano detto infatti fin da piccolo che un mio zio era morto
internato nel manicomio «Il Frullone» vicino Napoli, ritenuto pazzo
dagli psichiatri ma dolce e ragionevole dalla famiglia di origine e da
molti che ebbero occasione di frequentarlo da vicino.
Quella storia comunque veniva solo toccata superficialmente da
mia madre, che mi raccomandava di non parlarne con nessuno perché anche i familiari di chi finisce in manicomio vengono trattati
con sospetto.
Il giovane romagnolo era andato appena via, insoddisfatto delle
spiegazioni e del rifiuto di Antonucci, quando entrò un infermiere,
Gilberto Bertonello, di un reparto poco distante da quello delle ex
agitate e pericolose, ormai depsichiatrizzato.
Dacia Maraini, uno dei primi scrittori interessati alla particolare
esperienza di Antonucci, dopo una sua visita ai reparti aperti, aveva
riferito lo stupore destato in lei dalla diretta constatazione che a
distanza di cinquanta metri potevano esserci situazioni di reparti
manicomiali agli antipodi. Da una parte le donne e gli uomini dei
reparti di Antonucci, ormai liberi di passeggiare nei viali, di uscire in
città pur se con tutte le precauzioni richieste dalle iniziali difficoltà
di rapporto tra lungodegenti e cittadinanza, dall’altra reparti ancora
chiusi, con stanze di isolamento, fasce di contenzione, sbarramenti
all’uscita e all’interno tra le varie sale.
Il particolare che rendeva il contrasto ancora più assurdo era che i
reparti presi in affidamento da Antonucci erano stati, come si ricorderà, i peggiori. Così restavano ora chiusi i reparti con degenti considerati «meno agitati e meno pericolosi» anche dagli stessi psichiatri
che li avevano ancora in carico. La contraddizione portava alla luce
una verità importante, che ispira tuttora la pratica del Telefono
Viola: il totale arbitrio del giudizio psichiatrico con cui vengono etichettati i comportamenti umani e l’assoluta autonomia con cui un
solo psichiatra può determinare le condizioni di vita, anzi di detenzione, di una come di centinaia di persone che capitano, si rivolgono
o sono sottoposte alla sua, diciamo, «osservazione». Tornerò su questo argomento a proposito di vicende più attuali che impegnano la
nostra attività di tutela.
Nonostante il black out attorno alle esperienze di Antonucci e
l’assoluta sovranità sui reparti da parte dei singoli psichiatri, qualcosa comunque non poteva non filtrare. Infermieri e familiari raccon-
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tandosi le cose tra di loro costituivano una grande possibilità di contaminazione tra sistemi così opposti.
E forse la notte le cose si potevano dire e fare più liberamente.
Quell’infermiere ci disse che il primario del suo reparto non c’era
e che per questo finalmente aveva trovato l’occasione buona per
parlare con Antonucci, di cui conosceva la pratica e i risultati. «La
prego dottore, venga subito» invocò, «lì da noi c’è un giovane handicappato, Valerio Valdinoci, legato da tanti anni, la cui esistenza è
ignota anche alla maggior parte degli stessi degenti in quanto tenuto
in una stanzetta chiusa al secondo piano del padiglione, dove pochi
possono accedere».
Avevo ancora il registratore in funzione. «Portalo!» mi disse
Giorgio, «così ne potrai parlare meglio». «Ma non è meglio che io
resti qui, sai non saprei cosa fare!». La verità era che avevo il terrore
di qualche scontro con medici o infermieri, di trovarmi invischiato
nelle solite richieste di soldi, orologio o altri oggetti da parte di
degenti privati a lungo di tutto, o in preda ai fantasmi della loro prigionia. «Non ti preoccupare» mi rassicurò. «D’altronde io non faccio nulla che non potresti fare anche tu».
Allora non credetti all’osservazione di Antonucci, mi sembrò
un’esagerazione. A distanza di dieci anni e dopo alcune prove in cui
mi sono trovato da solo, ora penso che Giorgio avesse ragione, ma
credo ancora che l’autorità pubblica del medico, anche se non psichiatra («I medici si specializzano in psichiatria», afferma Giorgio,
«passando per il tirocinio da Auschwitz!»), gioca un ruolo favorevole in molte situazioni.
L’infermiere Bertonello ci aprì il reparto. Quasi tutti i degenti stavano digerendo i loro psicofarmaci nel primo sonno. Dopo un primo
corridoio ci si parò di fronte un suo collega, che aveva le chiavi che
ci avrebbero potuto aprire il passaggio verso il secondo piano del
padiglione. Qui, dopo i primi cortesi convenevoli, cominciò una
discussione alquanto vivace. «Ecco ci siamo, l’avevo immaginato»,
il cuore cominciò a battermi forte e il mio nervosismo diventò tale
che non riuscivo a spingere neppure il tastino del registratore. Pensai
con rabbia quanto cocciuto fosse quell’Antonucci e quanto sarebbe
stato meglio se dopo una faticosa giornata ce ne fossimo stati tutti in
trattoria. In fondo ero venuto per fare un libro e non per trovarmi nel
buio di uno stretto corridoio di manicomio in quei terribili pasticci
tra medici e infermieri.
«Dottore, mi scusi, ma lei non è il primario di questo reparto e
non sono autorizzato ad aprirle», il collega di Gilberto si mostrava
irremovibile.
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«Dai, non fare il rigido, non succederà nulla, sai bene chi è
Antonucci no?» provò a smussare.
«So bene chi è qui il dottore, ma so bene pure chi è il nostro. E se
poi mi licenziano, chi mi assume, Antonucci?», incalzava l’infermiere stringendosi le chiavi nella tasca del camice.
«Lei invece potrebbe essere licenziato per impedimento a un soccorso medico richiesto da una situazione di emergenza. Ho saputo
che qui trattenete un giovane legato da anni e in questo momento
sono l’unico medico presente. Io ho l’obbligo di intervenire e lei non
mi può contrastare. Mi assumo io le responsabilità», Antonucci parlava calmo ma senza mollare di una virgola e soprattutto senza
offendere. A questo punto venni fuori anch’io... Ero un editore e
avrei denunciato il suo tentativo di opporsi a Antonucci. L’infermiere la smise di fare il cerbero. Vistosi alle strette e liberato dalla paura
di perdere il posto di lavoro, cambiò atteggiamento. Ci accompagnò
al secondo piano, ci aprì la stanzetta dove stava Valerio e da allora
partecipò attivamente alle informazioni e al futuro miglioramento
della situazione.
«Perché è legato?» domandò Antonucci. Valerio, che si era già
svegliato a causa del rumore delle voci e dell’apertura della porta, si
muoveva con piccoli sussulti del corpo. Era un giovane di una trentina d’anni, ma poteva sembrare un vecchietto sulla settantina, piccolo di statura, molto magro, scavato in volto, con grosse cicatrici che
gli apparivano tra i capelli corti e molto neri.
«La storia è un po’ lunga, dottore», fece il collega di Gilberto.
«Sì, ma qual è la ragione per tenerlo legato?» insistette Antonucci. Valerio allora si mosse dalla posizione raggomitolata sul fianco destro in cui l’avevamo trovato e tirandosi al legaccio che gli
bloccava il braccio sinistro si rigirò sulla schiena ingobbita. Mi
apparve come una piccola rana da vivisezione, legata per gli arti rinsecchiti al tavolo chirurgico. Trattenni a stento il vomito e mi girai
verso un finestrone buio di quel posto orrendo.
«Dottore, il primario chiede di tenerlo legato per il suo bene, perché è autolesionista. Se proviamo a scioglierlo per dargli da mangiare, comincia a picchiarsi sugli occhi e la fronte». A questo punto
guardai Valerio. Gli occhi erano quasi completamente chiusi. Quello
destro era circondato da un enorme ematoma che gli copriva tutta
l’orbita oculare. Aveva croste di sangue rappreso in diversi punti
della fronte e del volto e un altro grosso ematoma intorno e dentro
l’orecchio sinistro.
Gilberto, che si curava di Valerio dall’83 e che spesso aveva provato a slegarlo contro il parere del medico, si era rivolto a Antonucci, visto che tutti gli altri reparti non ne volevano sapere: addirit-
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tura gli infermieri avevano minacciato di lasciare in blocco il lavoro
se Valerio fosse stato trasferito nel loro reparto.
«Cosa fu notato al momento dell’accettazione all’Osservanza?»
si informò Antonucci. Le prime annotazioni della cartella clinica
così rispondevano:
19/10/72. Entra in data odierna proveniente dall’Ospedale Psichiatrico di
Rovigo. Trattasi di un idiota cerebropatico. Completamente incapace di
stabilire il benché minimo contatto, sudicio, irrequieto, gesticola senza
senso con evidenti manierismi e stereotipie, emette grida inarticolate,
presenta un evidente eretismo sessuale e cerca di masturbarsi di continuo. Date le condizioni psichiche passa al padiglione 15.
21/10/72. Frequentemente irrequieto, presenta crisi di eccitamento percuotendosi violentemente il volto, procurandosi estese ecchimosi.
Condizioni di nutrizione scadenti.
23/10/72. Viene alzato e riesce a camminare. È necessario tenergli i
guanti (di contenzione) alle mani e contenerlo in qualche modo per evitare che si percuota1.
Avevamo quindi davanti a noi, rattrappito come un uccellino al
freddo, un essere del tutto incomprensibile e che per gli psichiatri
non era più considerato umano. Mi dicevo che non poteva essere,
che qualcosa ancora di vivo e intelligente doveva pur nascondersi
sotto quelle miserabili spoglie. Un ricordo d’infanzia, un pensiero
sepolto a una qualche profondità. Troppo in giù nel tempo e nella
psiche da non poter essere più raggiunto da un qualsiasi sforzo,
anche sovrumano. Mi giravo e piangevo di nascosto come un bambino. Ero alle seconde apparenze. Cominciai a spiegarmi che forse a
un certo punto, a un grado massimo di una infanzia infelice, un
ragazzo potesse pure pensare di farsi fuori con le sue stesse mani o
di adeguare al disprezzo dei grandi e dei coetanei un viso ancora più
brutto, ecco, graffiato, schiaffeggiato, deformato dai suoi stessi
pugni. Ma Antonucci era già lì che metteva la mano tra gli occhi
chiusi e tumefatti del mostricino e la sua mano destra che, appena
slegata dagli infermieri dietro suo invito, era ripartita come un terribile martello che fosse stato trattenuto a lungo da una molla
d’acciaio e poi improvvisamente rilasciato. Ma la mano di Valerio
come toccò quella di Antonucci si fermò improvvisamente cominciando a tendere il legaccio che gli tratteneva la sinistra per potersi
colpire con quella. Antonucci fece slegare anche la sinistra e mi
disse di fare come lui. Così feci con grande paura. Valerio fermò
anche la sinistra contro la mia mano. Era evidente che si era stabilito
un contatto, che quell’essere era un essere sensibile che faceva
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buona differenza tra il suo corpo e quello degli altri.
«Vedete» disse Antonucci, «vorrebbe fare male a se stesso, non
sappiamo ancora perché, ma a noi non ci torcerebbe un capello.
Invece che legarlo per una vita bisognerà fargli sentire sempre più
vicine le nostre mani». Ero emozionatissimo. Provammo a togliere
le mani e puntualmente Valerio, sicuro ora di fare male solo a se
stesso, ricominciò a colpirsi. Conservo la registrazione di quei movimenti e di quei colpi sordi che l’uomo si batteva in testa. Ora, da
quando ho rivisto Valerio nel ’94 camminare libero, mangiare e sentire la TV nel reparto autogestito di Antonucci nell’Istituto Lolli,
quei colpi non sono più lugubri come quella notte. A volte li risento
per incoraggiarmi: dài, dài, dài, ce la farai.
Partii la mattina dopo con una grande forza dentro. Dare una
mano era stato questa volta una cosa diversa da tutte le altre.
Antonucci concordò nel novembre successivo con il dott.
Ernesto Venturini, coordinatore dei servizi psichiatrici, di prendere
Valerio nel suo reparto autogestito.
Dopo i primi giorni, che richiesero un grande impegno da parte
di infermieri e di obiettori di coscienza che prestavano servizio
volontario, con la collaborazione anche di Bertonello che andava
spesso a visitare Valerio, cominciarono ad esserci sensibili progressi.
Ma qui conviene riprendere il racconto dello stesso Antonucci,
riportato nel libro sopra citato.
«Nei giorni successivi crisi di agitazione si alternano a periodi di
tranquillità sempre più lunghi. Migliorano le sue condizioni fisiche e
si notano minori tendenze autolesioniste, maggiore sicurezza nel
mantenersi in posizione eretta, nel camminare, nel salire le scale.
Incomincia a usare il cucchiaio, tiene senza problemi le scarpe, non
rifiuta più le coperte. Valerio quindi, già dopo pochi giorni, ottiene
un parziale recupero dell’attività muscolare e riprende ad usare il
proprio corpo per muoversi ed agire, per toccare ed esplorare.
«Ai primi di dicembre, durante una passeggiata nel parco vicino
al recinto degli animali, Valerio si è messo a battere le mani e a ridere. Ha sempre tenuto per mano l’operatore cercandolo quando gli si
sottraeva, dimostrando di gradire le sollecitazioni tattili. È evidente
che, dal momento in cui viene trattato come un essere umano,
Valerio manifesta la sua ‘umanità’: ha reazioni di piacere, di fame,
di fastidio. Mostra interesse per l’acqua, gli animali, la musica.
Cerca il contatto con le persone. In questo modo gli è stata aperta
una strada verso un recupero considerato impossibile.
«Attualmente cammina da solo senza problemi, senza bisogno di
qualcuno cui appoggiarsi e, se inciampa, è in grado di rialzarsi da sé.
57
Non si picchia quasi più, non ha più croste, graffi, contusioni.
Mangia con appetito e di tutto. Di notte dorme tranquillamente mentre prima era agitato e spesso si svegliava. Si distende sull’erba e vi
si rotola. Tocca avidamente e porta alla bocca erba, sassi, rami, tutto
ciò che gli ricorda la sua infanzia contadina e che per tanto tempo gli
è stato impedito di avvicinare. Sorride se gli si offre qualcosa che lo
interessa: un nuovo oggetto, una caramella, una gita, un nuovo gioco
o un nuovo contatto affettuoso.
«Rimane purtroppo l’handicap della cecità. Ho fatto visitare
Valerio da alcuni specialisti, che hanno riscontrato il distacco della
retina. A questo proposito è importante rilevare che in nessuna pagina delle cartelle di Valerio appare qualche riferimento alle condizioni della sua vista, ad eccezione di una breve nota del 13/2/77: ‘visita
specialistica: riscontrata cateratta occhio destro’. Eppure le osservazioni riguardanti le sue condizioni fisiche abbondano ed è stato sottoposto a più esami clinici. È difficile pensare che nessuno si sia
accorto della sua cecità. Dalle testimonianze dei genitori sappiamo
che Valerio è divenuto cieco durante il suo ricovero all’Osservanza
ed è certo che non compare nessuna notizia al riguardo.
«Ho inoltre fatto sottoporre Valerio al primo elettroencefalogramma. Benché infatti gli sia stata diagnosticata una grave cerebropatia non esistono referti di precedenti EEG. Né da questo né dal
secondo esame risulta alcuna particolare lesione o anomalia.
«Ho portato Valerio dai genitori dicendo loro la verità, che del
resto era là sotto i loro occhi: e cioè che il trattamento riservato a
Valerio poteva essere evitato. La madre aveva un’espressione molto
triste e parlava lentamente e a fatica, intorpidita, come lei dice, dagli
psicofarmaci. È rimasta colpita dalla vista del figlio che non incontrava più da parecchio tempo. Era diventato troppo doloroso trovarlo
sempre legato, sempre a letto, fino al punto di preferire non vederlo
più.
«È lei che ricorda di quando andava a Imola da Valerio e gli portava qualche cosa da mangiare, lui le apriva la borsa dove sapeva
che avrebbe trovato dei dolci, dei biscotti, e li mangiava golosamente. È sicura che allora ci vedesse. Ricorda la disperazione di quei
momenti: si chiedeva perché gli infermieri se ne stessero lì senza
fare niente e lasciassero suo figlio in quel letto per tutto il giorno,
tutti i giorni. Dice il padre: ‘Io quando vado a lavorare, lo so quello
che devo fare e lo faccio, ma loro, questi medici e infermieri, lo
sanno quello che devono fare? Ogni volta trovavamo Valerio in
condizioni peggiori’.
«Ora Valerio è in condizioni sempre migliori, ma gli infermieri
del reparto 19, che lo conoscevano bene, non credono che lo tenia-
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mo sempre libero, slegato, che cammina e che non si picchia, e si
rifiutano perfino di venirlo a vedere. Per loro Valerio era una specie
di vegetale prima e lo è tuttora. Senza appello.
«La storia di Valerio, come quella di tutte le altre persone che ho
slegato, ha invece il valore di una dimostrazione scientifica che
attende di essere confutata. Casi come Valerio ne esistono ancora a
centinaia in altri manicomi, ma soprattutto ci sono migliaia di persone che subiranno la sorte di Valerio. Finché la psichiatria viene ritenuta una scienza e il trattamento psichiatrico una terapia, potremo
aprire o smantellare tutti i manicomi ma rinasceranno sotto altre
forme».
Oggi, 18 aprile ’95, in un pomeriggio di sole mi ritrovo con un
gruppo di ex lungodegenti di Imola. Giorgio Antonucci è stato invitato alla trasmissione «Maurizio Costanzo show». Non si parlerà di
Valerio ma di come si finisce e come si è trattati in manicomio. E a
me non sembra vero di poter accompagnare per Roma questo gruppo di «ex condannati» considerati, prima dell’arrivo a Imola di
Antonucci, irrecuperabili malati di mente. La lira in questi giorni sta
andando giù e Fontana di Trevi si riempie di monetine americane e
giapponesi. Mi si affianca a un certo punto Franco Fuzi: vedere
Fontana di Trevi gli sembrava un sogno impossibile.
Era stato messo in manicomio all’età di otto anni. La sua epilessia, il grande male come lui precisa, aveva autorizzato tutti, familiari
e psichiatri, a trattenerlo in manicomio per più di trentacinque anni
in uno stato di dura contenzione che veniva aggravato a ogni suo
tentativo di ribellione. Nessun medico potrebbe mai dimostrare che
un solo minuto di manicomio faccia bene a un epilettico, infatti
eccolo a passeggio con me – dodici chilometri a piedi senza stancarci –, un epilettico condannato a trentacinque anni di ospedale psichiatrico da una criminale ignoranza. All’altezza di Villa Borghese
nel cammino verso Teatro Parioli, dove Maurizio Costanzo farà
anche la sua conoscenza, Fuzi mi ferma e mi fa leggere due sue poesie, una degli inizi, un’altra recente scritta quando ormai era fuori
dell’inferno. Le riporto non tanto per il loro valore poetico, di cui
non mi intendo, ma perché esprimono in modo diretto due opposti
stati d’animo relativi alle due opposte condizioni di vita:
Come Bestie - 10/8/71
Chiusi dentro ad un luogo oscuro
non siam mai certi del futuro.
Tutti ci sfuggono con precipitazione
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e ci fan pesare, di ammalati, la condizione.
Stiam chiusi, dalle reti, in un cortile come animali.
A noi son tolti tutti i beni, e ci vengon dati i mali.
Come bestie siam trattati,
dagli infermieri siam picchiati
sia con scope, pugni e chiavi.
Ma la ragione l’han gli infermieri, son loro i savi.
Se per caso, si avesse tutta la ragione,
ti legan a letto e ti trattan da coglione.
In un sospiro - 26/7/94
In un sospiro ti dirò che t’amo,
in quel sospiro capirai che sei ciò che bramo
sentirai, in quel momento, una gioia infinita
saprai d’esser signora della mia vita.
Con un sospiro mi donerai l’amore
saprai di me, saprò di te, tutti i ricordi,
tutti gli amori
in quel sospiro c’è il profumo d’un fiore
tanto variopinto, di tanti colori.
Prima della trasmissione Giovanni Angioli, infermiere, o più propriamente coordinatore del reparto autogestito dell’Istituto Lolli, che
ha seguito e sostenuto Antonucci da diversi anni, mi descrive il progetto di completa depsichiatrizzazione con cui si arriverà, in accordo
con le autorità comunali e sanitarie di Imola, a trasformare gli attuali
reparti in abitazioni civili «con tanto di nome e campanello».
E io non vedo l’ora di tornare a Imola a bussare alle porte di
Valerio Valdinoci e Franco Fuzi, come a quelle di cari amici che
furono molto e ingiustamente perseguitati2.
Note al capitolo
1. Informazioni più dettagliate sulla storia e sulla cartella clinica di Valerio si possono leggere in G. Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, Elèuthera, Milano, 1989,
nelle pagine da 109 a 118, scritte in collaborazione con Giulia Zani. Il libro è una riedizione più sintetica di quello precedente, edito dalla Cooperativa Apache, aggiornato
con la storia di Valerio e la battaglia di Antonucci contro i processi di interdizione di
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massa intentati dalla magistratura contro i lungodegenti di Imola.
2. Il problema dei manicomi in Italia è ancora irrisolto e fonte di grande scandalo.
Attualmente nei quasi cento manicomi grandi e piccoli ancora aperti, nonostante la
loro chiusura ufficiale decretata con la riforma del ’78, vi sono ancora circa 25.000
cosiddetti «residui» manicomiali. Il medico Roberto Cestari, tra i consulenti del
Telefono Viola, presidente del CCDU (Comitato Cittadini per i Diritti dell’Uomo),
conduce da qualche anno, insieme con il senatore Edo Ronchi e con altri parlamentari, un importante lavoro di pressione sulle autorità e sull’opinione pubblica italiane
facendo visite e riprese televisive a sorpresa (blitz) negli ambienti manicomiali.
Con la Legge Finanziaria del dicembre ’94 è stata disposta ancora una volta la
chiusura definitiva dei manicomi entro la fine del 1996. Il CEU - Telefono Viola e
altre associazioni sono impegnate perché la chiusura avvenga nel rispetto dei diritti
dei lungodegenti. Bisognerà quindi vigilare perché non vi siano speculazioni edilizie
e antiecologiche sulle grandi aree territoriali. Le alternative devono essere concettualmente più umane, quindi o presso abitazioni esterne o presso gli stessi padiglioni ex
manicomiali. L’importante è che questi orrendi casermoni vengano ristrutturati
secondo una logica di nuova civiltà e di nuove relazioni come nelle esperienze
dell’autogestito di Antonucci, sostenute anche da Ernesto Venturini, coordinatore dei
servizi di salute mentale di Imola.
61
IV
ECOLOGIA UMANA E PSICHIATRIA
A CONFRONTO
La fondazione del Telefono Viola trovò nell’esperienza fatta con
Davide Catalano la sua ragione più prossima, ma, l’abbiamo visto,
aveva ragioni precedenti nella lunga esperienza di Giorgio Antonucci.
L’ecologia umana invece è una mia elaborazione che collega
diversi princìpi dell’ambientalismo e delle scienze umane con l’approccio non psichiatrico, iniziata nei primi anni ’80 e confrontata
con la realtà attraverso un impegno costante contro l’emarginazione
sociale e ambientale. I primi contenuti di questa teoria sono stati
oggetto dei corsi di ecologia umana, da me tenuti dall’ottobre ’89 al
giugno ’91, che hanno portato alla costituzione del CEU e quindi del
Telefono Viola. La teoria ecoantropologica, come l’ho definita, si
approfondisce anche con la pratica del Telefono Viola a contatto
con i problemi che affliggono la vita di tantissime persone.
Matteo Mobilio, un «televiolista storico» della sede di Roma, mi
dice che ha scoperto che c’è un corso di ecologia umana presso
l’università di Roma e vorrebbe verificare se le parole indicano la
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stessa sostanza. In effetti il binomio ecologia umana già di per sé
non dovrebbe portare a pensieri e a pratiche molto diverse, ma le
sorprese non sono mai finite da quando si parla troppo superficialmente di ecologia e si attribuisce il carattere ecologico anche ai massaggi o alle cure termali.
Ora, pur non avendo questo mio libro uno scopo teorico, ritengo
utile per i lettori riportare in sintesi alcuni passaggi fondamentali.
Sto lavorando da tempo a una trattazione più sistematica di questa
che ritengo una nuova materia, distinta da filosofia, psicologia,
medicina, psichiatria. Alcuni spunti sono stati inseriti negli opuscoli
editi a uso interno degli operatori del CEU e del Telefono Viola. Nel
trattato, che mi impegnerà ancora per qualche tempo, chiarirò anche
le analogie e le differenze della mia concezione rispetto a quella del
movimento dell’ecologia profonda, che va da Lovelock a Naess, e
rispetto alle posizioni di Bateson, Commoner, Capra, Prigogine, O’
Connor, Bookchin ed altri ecologisti, a cui riconosco contributi fondamentali1.
Confluiscono inoltre nella mia visione dell’ecologia umana o
ecoantropologia, accanto a elementi distintivi propri, vari princìpi
derivati dalle scienze umane, quindi filosofia, psicologia scientifica,
antropologia, linguistica, storia, letteratura, religione, morale, politica, sociologia, medicina, e soprattutto l’ecosistemica. Inoltre, oltre
ad essere una visione complessa dei comportamenti, l’ecologia
umana è soprattutto una pratica di vita, potremmo dire una modalità
di relazione con gli altri, con le loro manifestazioni, le più varie e
disparate, gradite o non gradite.
In questo capitolo, e in altre pagine seguenti all’interno del vissuto del Telefono Viola, tratterò dell’ecologia umana solo quegli
aspetti più direttamente connessi con la questione psichiatrica, aspetti che si integrano bene con la psichiatria antistituzionale di Cooper,
Laing e Basaglia, e ancor più con l’approccio non psichiatrico praticato negli ultimi due decenni da Giorgio Antonucci in Italia e da
Thomas Szasz negli Stati Uniti. Vediamo in breve.
L’assunto base dell’ecologia umana è che ogni essere umano è
un essere unico e diverso fin dalla nascita e ancor più diventa diverso con la sua libera azione sull’ambiente e con l’azione dell’ambiente su di lui. Se va difesa la diversità vegetale e animale, va difesa
ancor più la diversità umana. Il concetto quindi di biodiversità va
allargato e applicato a quella umana. Sulla base di questo principio
fondativo, l’ecologia umana impone una ristrutturazione dello
sguardo sociale verso l’individuo. Cosa vuol dire questo? Vuol dire
che l’attenzione al singolo, così come questi si manifesta, deve essere un’attenzione gelosa e interessata alla sua particolarità e alla sua
63
singolarità, alla sua incomunanza. L’individuo, questo individuo che
ho davanti, è una semente unica e irripetibile che ha la possibilità di
dare un contributo che nessun altro individuo può dare, è una
semente unica e irripetibile di biodiversità, è un germe prezioso per
la ricchezza della specie. Ora, le condizioni economiche sociali e
politiche generano a livello planetario una selezione e uno sfruttamento di risorse naturali a danno di alcuni biotipi, che sono stati già
soppressi o rischiano l’estinzione. Ma ancora più grave è il conseguente impoverimento del patrimonio della specie umana per la perdita e la soppressione delle individualità.
La pressione dei sistemi sociali sui singoli individui, soprattutto
quelli più deboli economicamente, tende a un suo grado massimo
che corrisponde allo schiacciamento di tutti gli elementi di singolarità che sono propri dell’individuo in quanto umano, una specie di
catena di montaggio per la produzione di esseri asserviti e replicanti.
La stessa pressione sociale esercita la sua tendenza al soffocamento anche oltre la barriera del comportamento manifesto del soggetto umano. Essa influisce sugli strati della coscienza per creare tra
tutte le voci interne possibili e immaginabili la voce più allineabile e
omologabile con i sistemi sociali costituiti. La singolarità dell’individuo umano è un insieme di singolarità interne che sono alla ricerca
di un proprio spazio espressivo e di una unità sempre mobile.
Rispetto all’appiattimento operato dalla pressione sociale, l’ecologia umana tende all’opposto, cioè alla garanzia e all’accrescimento dei valori individuo-individuali della specie. La stessa unità della
specie umana è vista come un’alleanza generale a favore delle individualità e non viceversa. Essa è una unità delle diversità, e può dirsi
ancora umana solo se tutela i suoi fattori distintivi di specie.
La tutela degli individui, dei biotipi umani, è però particolarmente ardua in quanto il fattore che più differenzia la nostra specie dalle
altre e gli stessi individui tra di loro è quello della libertà. Non è che
piante e animali non siano dotate di una qualche capacità di scelta,
ma negli esseri umani questa dote è al massimo grado esistente in
natura. Uomini e donne senza libertà sono robot, esseri guidati da
altri, esseri schiavi, esseri non umani o disumanizzati.
La specie umana è più umana, cioè più felice, se i suoi individui
sono più liberi; è meno umana se i suoi individui sono meno liberi e
quindi meno felici.
Le relazioni e i collettivi umani, dai più piccoli come la coppia e
la famiglia ai più grandi come condomini, scuole, quartieri, città,
partiti, organizzazioni, nazioni, trovano il loro significato ecoantropologico se la regolazione dei loro rapporti è orientata allo sviluppo
di ogni individuo, anche di quell’ultimo individuo che ancora non
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fosse libero.
Questo individuo è la sfida posta a ogni organismo collettivo più
o meno stabile e rappresenta il vertice mobile di ogni piccola o grande organizzazione. L’ecologia umana costituisce per questo anche
un ribaltamento di molte visioni politiche. Un qualsiasi incontro tra
viventi, animali e piante compresi, che si ponga un qualche fine
comune, dovrà iniziare e finire con una maggiore tutela delle singolarità che si esprimono al suo interno. E questo, ripeto, è per il bene
comune stesso della specie. La maggioranza è possibile solo in
quanto biòfila, nel senso che comprende e tutela maggiormente le
singolarità viventi all’interno dell’incontro. Per capire e difendere
bisogna lasciare spazio all’espressione di ogni singolo, ai suoi modi
specifici di espressione. Nella prassi politica, quindi, ecologia
umana e democrazia espressiva sono la stessa cosa.
Anche nel caso di posizioni «tutti contro uno», quell’uno rappresenta la distanza che il resto del collettivo umano in questione deve
raggiungere per un aumento della sua stessa libertà e felicità. La
maggiore individualità compresa è l’unica reale maggioranza a cui
tendere. Parafrasando il principio per cui la legge deve essere per
l’uomo, non l’uomo per la legge, potremmo dire: i tanti devono
essere per l’uno, non l’uno per i tanti. In questo modo si supera
almeno concettualmente il problema dell’handicap.
Passando ora ad altri aspetti, vediamo che la storia ha dimostrato
spesso come quell’uno aveva ragione e quei tutti avevano torto. Da
qui ne consegue che non è corretto teoricamente, ma neppure praticamente, che l’uno venga escluso dal campo della razionalità possibile. Dunque, l’uno non si scambia con i tutti, né i tutti si scambiano
con l’uno. Un solo individuo ha già in sé la caratteristica dell’incommensurabilità. Spesso è anche successo che l’uno emarginato oggi
sia stato causa di riscatto generale in seguito. Vedremo come questo
fenomeno è spiegabile con una concezione del cervello individuale
come di una rete complessa di relazioni, collegata a sua volta, in
modi non sempre conosciuti, con altre reti complesse di relazioni.
Questo spettacolo unico e meraviglioso appare molto evidente nei
grandi geni, ma esso è diffuso in modi e quantità diverse in tutti i
biotipi della specie. Emersioni di genialità teorica o pratica sono
possibili, secondo gradi e tempi diversi, in tutti i punti della immensa rete costituita dalle connessioni neuroniche interne agli individui
pensanti e al mondo pensante. L’individualità è quindi una unità di
pensieri e di relazioni interne, comunicanti con un infinito esterno di
pensieri e relazioni. L’individuo insomma è già una vasta socialità
pensante e in movimento. Socialità e individualità non sono termini
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contraddittori da usare l’uno contro l’altro. La cosiddetta socialità,
riferita all’esigenza di una piacevole e amata convivenza, è una
necessità degli individui per essere più liberi dai condizionamenti
esterni. È mettere insieme le varie capacità di scelta tra alternative,
apprendere l’uno dall’altro le tante strategie di libertà a partire da
quella di fare gruppo per sopravvivere all’aggressione della natura e
degli animali concorrenti.
Ma se lo scambio tra i progetti individuali di libertà è ineguale,
l’individuo in qualsiasi modo fatto schiavo dagli altri non riconoscerà alcun valore alla cosiddetta socialità. A questo punto la socialità è la sua nemica, la solitudine diventa preferita, anche se non facile. La solitudine resta la sua intima e complessa socialità per lui
ancora disponibile contro quella esterna e ostile.
Uomini e donne, lo vedremo anche nelle prossime pagine, sono
individui complessi, né sociali né asociali. Saranno liberamente
l’uno o l’altro a seconda della socialità loro possibile o loro riservata. La cercheranno o se ne difenderanno in base alle reali possibilità
di sviluppo della loro individualità. Per convenienze di vario genere
si afferma spesso che «l’uomo è per sua natura un essere sociale».
Direi al contrario che l’uomo è un essere individuale per natura e per
scelta, mentre è sociale solo per necessità.
Ritengo anche che il grande sviluppo della corteccia cerebrale
nell’homo sapiens-sapiens rispetto a tutti gli altri esseri viventi non
si possa essere determinato se non a partire da una capacità e da un
esercizio continuo di scelta tra le varie alternative possibili, offerte o
contrastate dal suo ambiente esterno. La scelta fra alternative già
presenti, la costruzione e prefigurazione concettuale di alternative
prima non date, si identificano con lo stesso processo della conoscenza, certamente sono alla sua base. Pensiero quindi e libertà
costituiscono un binomio inscindibile. ll pensiero è libertà di pensiero, la libertà è pensiero della libertà.
Veniamo ora a un altro importante risvolto. La libertà è il principio su cui si basa la responsabilità delle azioni, dei comportamenti,
degli atteggiamenti. Chi compie un gesto non avendo la libertà di
non compierlo non è responsabile di quel gesto. Buono o cattivo che
sia, quel gesto non è un gesto umano, perché privo della caratteristica della specie umana che è la libertà. Così non è assurdo che un
atto, nonostante produca effetti positivi, non sia un atto libero e
quindi sia non umano, mentre un atto che arreca del male possa
essere libero, quindi umano. Purtroppo il linguaggio corrente genera
confusione. Per umano si intende generalmente un atto, un comportamento buono o «umanitario», mentre per l’ecologia umana gli atti
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umani possono essere buoni o cattivi. Tanto la bontà quanto la cattiveria sono attributi umani, in quanto è proprio degli uomini poter
scegliere di essere buoni o cattivi. La caratteristica di specie, che è la
libertà, offre loro questa terribile possibilità di scelta tra due comportamenti opposti. Per noi perciò si può dare un comportamento criminale – quindi immorale in quanto scelto contro il bene comune della
specie, che è la libertà di un altro o di tutti – ma che è libero, umano,
frutto di cosciente autodeterminazione e per questo responsabile e in
debito con l’interesse generale della specie.
Qui si apre un grande e insanabile contrasto tra visione ecoantropologica e visione psichiatrica. Dall’85 leggo manuali di psichiatria,
cartelle cliniche psichiatriche e discuto con psichiatri. Non c’è niente
da fare, tutta la psichiatria spiega i comportamenti considerati negativi o che sono realmente distruttivi come espressioni esterne di una
malattia mentale interna. Anche quando parlano, per indorare la pillola, di disagio psichico o psicologico, a proposito di comportamenti
socialmente indesiderati, presuppongono chiaramente o, peggio,
alludono a blocchi parziali o totali della facoltà raziocinante. La psichiatria organicista poi, che ora sta riprendendo l’egemonia almeno
in Italia, attribuisce qualsiasi comportamento socialmente dirompente o semplicemente fuori di un determinato standard familiare, a
guasti prodottisi nel cervello della persona.
Attribuendo i suddetti comportamenti a guasti cerebrali, la psichiatria di fatto toglie ai soggetti in causa la responsabilità dei loro
atti. Se sono malati mentali allora non hanno colpa per le loro azioni.
E la psichiatria è chiamata a intervenire perché non si verifichino
quegli atti. E se quegli atti dipendono da un cervello guasto, essi
devono in qualche modo intervenire fisicamente sul cervello, costi
quel che costi. Ma se uno dice che il suo cervello è a posto, gli psichiatri, ritenendo che anche i suoi atti dovrebbero essere a posto, lo
obbligano a sottostare ai loro trattamenti che dovrebbero riparare
quei difetti per far venir fuori atti buoni e desiderabili.
D’altronde per lo psichiatra, e quasi per tutti, compiere quegli atti
significa avere il cervello guasto e se uno, difendendosi disperatamente dalla costrizione, afferma che il suo cervello non è guasto,
questa affermazione è proprio il segno che il suo cervello è guasto e
che quindi va sottoposto obbligatoriamente ai trattamenti. Scusate il
balletto con la parola guasto, ma mi aiuta a rendere il vortice terminologico in cui si cade con la psichiatria. Lo psichiatra si offende:
«Ma come, combini questo po’ po’ di casino e affermi di non essere
malato di mente. Io me ne intendo. Tu che ne sai? Tu non ammetti
l’evidenza».
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Una psichiatra di una cittadina di mare vicino Roma, a cui chiedevo conto la settimana scorsa di un ricovero coatto subìto da un
denunciante, accettò di intavolare con me un confronto del tipo vortice, di cui vi dicevo sopra. Ve lo riporto quasi nella sua interezza.
- (dopo aver fatto le presentazioni e aver comunicato allo psichiatra di guardia che il Telefono Viola ha iniziato un’attività di sorveglianza democratica in merito ai diritti di Giovanni C., un giovane
rivoltosi a noi con procura legale preventiva e con pressanti telefonate) Dottoressa, perché vuole trattenere in TSO Giovanni C.? Non
pensa che stia prendendo un abbaglio?
- Ma come, lei mette in dubbio la mia professionalità, ma lo sa
che Giovanni C. non ha coscienza di malattia?
- E allora?
- (la giovane psichiatra è su tutte le furie) Allora, allora, proprio la
coscienza di non essere malato di mente è un grave segno di malattia mentale.
- Mi scusi, abbia pazienza, mi faccia capire, se Giovanni avesse
coscienza di malattia non sarebbe più malato di mente e lei lo dimetterebbe?
- (imperterrita) No, sarebbe un malato di mente che accetta di
esserlo, e io lo curerei volontariamente.
- Quindi Giovanni con lei non ha scampo, o si dichiara lui stesso
malato di mente contro le proprie convinzioni, e lei lo tratta come
malato di mente e lo trattiene in cura volontaria, o rifiuta di dichiararsi malato di mente, e lei avrà una ragione in più per trattenerlo,
questa volta in cura obbligatoria?
- (raggiante) Proprio così, finalmente!
- (tornando alla carica) Ma scusi ancora dottoressa, a prescindere
dalla sua coscienza o incoscienza di malattia, Giovanni perché
secondo lei sarebbe malato di mente?
- (solennemente) Giovanni C. è affetto da una grave forma di
delirio paranoide e di mania di persecuzione.
- Questo suo giudizio...
- Il mio non è un giudizio, è una diagnosi.
- Bene, giudizio o diagnosi che sia, mi può dire per cortesia su
quali analisi si basa? Sa, conosco anch’io Giovanni e non sono del
suo parere.
- Ma lei è psichiatra? (mi interroga sapendo già che io non lo
sono).
- No, no, lo sa. Ma forse non sa che sono dieci anni che leggo di
psichiatria e non trovo mai niente di convincente. Su che testi e
esperienze si basa lei? (qui rischiai la chiusura della scontrosa conversazione, ma la dottoressa dopo una lunga esitazione riprese).
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- Lasciamo perdere i testi, qui non facciamo teoria né psicologismi, qui guardiamo alla realtà e la realtà è che questo giovane fa il
diavolo in casa, maltratta la madre e la sorella, rifiuta l’assistenza del
CIM, del centro di igiene mentale di M., non vuole più prendere psicofarmaci e vuole vivere fuori di casa spendendo a sbafo della famiglia. E poi pensa cose stravaganti, inverosimili. Ma lo sa che la notte
si barrica in camera, si chiude a chiave e mette il tavolo contro la
porta perché ha paura che i familiari vengano ad aggredirlo durante
il sonno? E poi, e poi, pare che abbia commesso anche qualche violenza sessuale sulla sorella.
- Pare o è sicuro?
- Non posso dire con certezza, ma i familiari mi hanno fatto capire che è così.
- Sa, dottoressa, questa è un’accusa grave, bisognerebbe esserne
ben certi, e se la madre fosse lei malata di persecuzione e se la prendesse con il figlio?
- Ah, certo che anche la madre qualche problema deve averlo,
perché mi è sembrata molto agitata al telefono, e poi su certe cose
non me la conta giusta! Si tratta di un ambiente familiare certamente
patologico e patogeno.
- Ma allora farà un ricovero psichiatrico a tutta la famiglia?
- (con tono di forte rimprovero) Lei sta scherzando con cose
molto serie.
- Al contrario, a me sembra che lei giochi con le etichette psichiatriche e le appiccichi al soggetto più debole tra familiari in conflitto.
Lei spiega etichette con altre etichette, e ne fa dipendere la privazione della libertà di una persona. Lei fa un gioco veramente pericoloso
e non ha alcuno strumento scientifico di supporto.
- (dopo un lungo respiro) Ma lo sa che Giovanni se ne è andato
all’improvviso a Londra ed è stato riaccompagnato a casa dalla polizia ché non aveva neppure un soldo per il viaggio?
- E allora?
- Allora, cosa vuole di più, questo è un grave sintomo di delirio di
onnipotenza e di dissociazione (rincalzò la dottoressa).
- (poiché mi capitano poche volte psichiatri così loquaci, approfittai) Senta, mi scusi, ma non mi vorrà dire che i giovani che scappano di casa e vanno all’estero senza soldi li considerate malati di
mente da curare a tutti i costi. Quindi per lei se hanno il permesso
dei genitori e i soldi in tasca sono sani di mente? (ma la psichiatra
non mi lasciò continuare e mi affrontò con una specie di confidenza
professionale che a lei doveva sembrare schiacciante).
- Lei dice di conoscere Giovanni, ma certamente non sa di quella
sua fuga in Sardegna!
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- Sì, so della sua fuga in Sardegna, ma che significato diagnostico
lei attribuisce all’episodio?
- Episodio, episodio, me lo chiama episodio. Un giovane, senza
soldi e senza lavoro... anzi senza soldi e senza lavoro solo perché lui
vuol fare il signorino e non si vuole abbassare a lavorare nella pizzeria dello zio... non lascia alcuna traccia di sé per più di dieci giorni e
poi lo trovano per puro caso sulla battigia di una spiaggia sperduta in
Sardegna di inverno. Pensi di inverno, fosse successo di estate... E lo
sa come lo hanno trovato, lo sa? Era tutto coperto di sabbia bagnata
mischiata con degli arbusti di rovo, morto di freddo e di fame,
mezzo nudo. Se non lo avessero trovato, forse sarebbe morto assiderato. Le dico io, Giovanni si deve curare, o con le cattive o con le
buone.
Il giorno dopo fu dimesso. Credo che la procura legale che ci
aveva fatto Giovanni oppure le noie delle nostre telefonate abbiano
scoraggiato la psichiatra più delle mie argomentazioni.
La storia di Giovanni si presterebbe a diversi approfondimenti e
considerazioni, ma qui mi interessava riportarla per mostrare l’enorme e insanabile distanza tra la visione psichiatrica e quella dell’ecologia umana.
Devo anche precisare che non credo vi sia un caso dove la malattia mentale è chiara e dove non lo è. Per me la malattia mentale è un
costrutto mitologico di comodo, non ha niente di scientifico che
possa comprovarla, e su questo aspetto non devo aggiungere nulla ai
libri di Szasz, Cooper, Laing, Antonucci, Cestari e altri, riportati
nella bibliografia2. Posso solo confermare che in questi cinque anni
di attività del Telefono Viola, sulle tante e varie situazioni che ho
potuto conoscere, non ho mai trovato, né nelle cartelle cliniche né
nelle discussioni con psichiatri e familiari, motivi per convincermi
dell’esistenza della malattia mentale.
Dal falso costrutto della malattia mentale vanno ovviamente
esclusi tutti i problemi di carattere neurologico e neuropatologico,
accertati o accertabili con analisi cliniche. Il pateracchio tra neurologia e psichiatria porta a confusione e a mistificazione. Esso fa bene
solo alle tasche dei neuro-psichiatri, i quali anche se il cervello risulta neurologicamente sano, pescano dalla fertile fantasia psichiatrica
diagnosi di «malattie» di comodo3. Alcuni psichiatri ci attaccano
dicendo che noi siamo collusi con i pazienti perché negando la loro
malattia non li aiutiamo a guarire. I loro pazienti preferirebbero noi
perché noi insomma li coccoliamo, gli nascondiamo le «patologie»
di cui loro soffrono e che non vogliono ammettere, ma da cui in
qualche modo devono essere curati e «difesi». Concezione paterna-
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listica e violenta tipica dello schiavismo, come giustamente osserva
Szasz in Disumanizzazione dell’uomo. Il nostro approccio al contrario è anaffettivo e responsabilizzante, proprio perché non concediamo nulla a indimostrate e indimostrabili malattie mentali, ma tutto
alla difficoltà di vivere e alla responsabilità di scelta degli individui
umani. I «pazienti» psichiatrici vengono e verranno sempre più da
noi perché da noi non ci sono «poveri pazienti» da curare e proteggere, ma persone umane libere, portatrici di diritti e quindi di doveri
verso la libertà della specie. La battaglia culturale, oltre che giuridica, tra ecologia umana e psichiatria quindi è lunga e inevitabile.
Anche perché il problema non è solo la psichiatria ma lo psichiatrismo. Nella mia relazione al primo convegno nazionale di ecologia
umana dell’aprile ’90 ho parlato per la prima volta di psichiatrismo,
per indicare un comportamento linguistico e culturale presente a
livello di massa. Quasi tutti riproduciamo nei nostri giudizi il giudizio psichiatrico di malattia mentale usando in continuazione espressioni del tipo: pazzo, ossesso, schizofrenico, delirante, paranoico,
catatonico. L’uso di questo linguaggio non ha alcuna funzione di
spiegazione o comprensione di un problema ma solo di accusa e di
stigmatizzazione. Esso si accompagna sempre a qualche forma di
rifiuto o soppressione di diversità, di negazione della pari dignità di
esseri razionali. Attraverso lo psichiatrismo, il razzismo ha la possibilità di superare gli schemi più classici e storici delle differenze di
razza, di colore, di religione, di politica, e aggredire, uno per uno,
tutti gli individui umani, utilizzando il facile schema del diverso da
sé visto come inferiore a sé, che è lo schema più estensibile. Infatti
ognuno, a seconda del punto di vista e del grado di potere sociale,
potrà essere soggetto o oggetto di psichiatrismo. Ogni individuo può
essere declassato dalla razza dei sani di mente alla razza inferiore dei
pazzi. Contro lo psichiatrismo del suo interlocutore giudicante, egli
non si potrà difendere né con un eguale colore di pelle, né con lo
stesso ideale politico, né con la stessa religione e così via. Ci può
essere cioè un collettivo o un partito antirazzista che è sostanzialmente razzista al suo interno in quanto psichiatrista. Non è per nulla
casuale che le forme storiche di razzismo più abiette e distruttive
come il nazismo di Hitler e la recente pulizia etnica serba siano stati
anticipati dalla consulenza di psichiatri come Rudi e Karadzic, favoriti dal più generale psichiatrismo individuale e nazionalpopolare
presente in ogni «stirpe». Anche in un gruppo di militanti dopo la
vittoria contro una dittatura politica può annidarsi lo psichiatrismo:
eliminato il dittatore sopra di loro, l’autopresunto più sano di mente
comincia a opprimere e schiavizzare il giudicato meno sano di
mente, soprattutto se è un suo oppositore. Voglio dire che si può
71
essere antirazzisti politicamente ma razzisti psichiatricamente, cioè
razzisti nel midollo. L’ecologia umana quindi non rappresenta una
visione idilliaca e disimpegnata. Al contrario essa esige una coerenza antirazzista e antifascista a tutto campo, a iniziare da quello dei
propri legami e affetti personali. Nell’ecologia umana non c’è una
barriera tra l’impegno pubblico e l’impegno privato, neppure nelle
forme esterne dell’approccio. La modalità relazionale è unica sia
fuori che dentro casa. L’ispirazione costante è quella della difesa
della biodiversità, della tutela della sua espressione, della regolazione sociale a favore delle libertà e delle responsabilità individuali in
gioco.
Voglio anche precisare che mentre come CEU portiamo avanti
l’approfondimento su questo costrutto mitologico, come Telefono
Viola non ci mettiamo a fare discussioni teoriche su questo aspetto,
ma quando è necessario lo contestiamo volta per volta, caso per
caso, a partire da una conoscenza dei fatti e dalla loro interpretazione non psichiatrica. Per questa interpretazione non psichiatrica,
l’ecologia umana ci è di grande aiuto, anche se non indispensabile
per la stretta tutela dei diritti nell’ambito psichiatrico4. La negazione
del pregiudizio psichiatrico è invece essenziale per venire a capo dei
problemi complessi o almeno, se non si riescono a capire, come può
succedere spesso, per non farne derivare la costrizione e la distruzione della persona umana.
Inoltre abbiamo sperimentato che la negazione del pregiudizio, o
del giudizio psichiatrico, che è la stessa cosa, pone la persona davanti a noi in un piano di assoluta parità e dignità quanto ai processi
razionali che guidano all’agire. La persona davanti a noi avverte
subito questa pari dignità, mentre non l’avverte quando si trova di
fronte a molti psichiatri e anche psicologi. Il facile passaggio da toni
di comprensione, a volte quasi adulatori, che certi psichiatri usano
nei loro colloqui di primo approccio con il loro interlocutore già
fatto «paziente», alle frasette tecniche ufficiali, le cosiddette diagnosi – espresse nelle cartelle cliniche, nelle loro relazioni o nelle confidenze a parte con familiari e altri pubblici esterni – risulta semplicemente un infido tranello. Già le parole, lo sguardo sono «psichiatrizzanti», in quanto incapsulano la persona in una griglia che è già
stampata nella testa dello psichiatra e che traspare anche quando
assume toni filantropici e accattivanti, non direttamente insultanti o
minaccianti. Ovviamente se la persona non si mostra «ragionevole»
di fronte a tanta bontà, i raggiri e le mezze misure lasciano il posto
alle maniere spicce degli infermieri, sempre pronti a braccare, picchiare, immobilizzare e iniettare con supersedativi il malcapitato
«fatto paziente»5.
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Tornerò in seguito su questi congegni infernali a proposito di
alcune storie esemplari, ma intanto vorrei approfittare per suggerire
a chi volesse fare esperienze concrete in questo campo, senza bisogno di andare nei luoghi della psichiatria, tra l’altro di difficile
accesso, di iniziare da subito. Come si fa? È molto semplice. Le
occasioni sono quasi quotidiane per tutti. La psichiatria non è professata solo dagli psichiatri ma, di fatto, da tutti quelli che pensano
che certi comportamenti siano segno di pazzia, psicosi, schizofrenia,
delirio paranoide, ecc. ecc., cioè da quasi tutta l’umanità, compresi
noi. La classificazione tra normale e anormale, tra sano e malato di
mente, è probabilmente lo schema più usato nel linguaggio comune
e nel giudizio verso gli altri.
A tutti è capitato o capiterà di aver chiamato e ritenuto pazzo un
altro, e quindi anche di essere stato chiamato e ritenuto pazzo qualche volta. Quando è successo a noi di essere oggetto di questo schema, ne abbiamo certamente sofferto, a volte fino all’indignazione e
allo sfogo aggressivo.
Ognuno quindi si può esercitare nel confronto con le situazioni e
le persone che gli capitano. Se si affrontano senza pregiudizio psichiatrico, la stranezza diventa comprensibile, se ne vedono le ragioni
prossime e lontane, si svelano le dinamiche che hanno portato quella
persona a comportarsi in quel modo, si individuano a volte modi di
pensare nuovi. E questa comprensione delle cause prossime e remote prescinde dal nostro giudizio morale sui comportamenti scelti
dalla persona. A volte possono restare molto riprovevoli, a volte
bisogna difendersene con decisione come nel caso dei razzismi e
fascismi di vario genere, ma diventano razionalmente comprensibili.
Vediamo ora come la psichiatria interpreta situazioni più gravi di
quelle della storia di Giovanni. Partendo dal pregiudizio che un
grande criminale deve essere per forza un malato di mente e che
certi delitti possano essere compiuti soltanto da persone senza cervello o con un cervello guasto, molti psichiatri, non sapendo come
spiegare le dinamiche così razionali e consequenziali messe in atto
da alcuni efferati assassini, parlano di follia lucida. «Follia» perché
non si capirebbe e «lucida» perché si capirebbe!
È molto più coerente ammettere, anche se non ci fa piacere, che
l’uomo è un essere dotato di una capacità libera e razionale con cui
può fare cose meravigliose, ma anche provocare grande danno ai
suoi simili, agli ecosistemi e alla natura di cui è fatta la sua stessa
vita.
Moralità e razionalità non vanno d’accordo necessariamente, ma
liberamente. Su questo Kant ha stabilito punti chiari non superati,
73
tranne che per la gran parte degli psichiatri, che non vogliono perdere tempo con la filosofia... La moralità sta nell’ordinare razionalmente i comportamenti rispetto al bene comune, l’immoralità sta
nell’ordinarli razionalmente contro il bene comune. Un comportamento quindi può essere immorale, e colpevole, senza essere irrazionale.
Questo discorso può sembrare puramente teorico, ma non lo è.
Per non andare lontano vi dico di un breve incontro di ieri sera.
Sono venuti da me i genitori di un giovane che, soggetto spesso a
TSO, aveva chiesto la nostra tutela. Il papà era spaventato e preoccupato perché il ragazzo non tornava a casa da alcuni giorni dopo essere stato in trattamento sanitario obbligatorio, richiesto dagli stessi
genitori. Sembra che U. F., che ha fatto presso di noi una procura
legale contro i ricoveri e le cure coatte, sia stato dimesso dopo pochi
giorni o sia scappato dal reparto psichiatrico del S. Filippo Neri. «Si
calmi. Cosa è successo questa volta?» gli chiedo. «È entrato di notte
nella mia camera da letto e mentre dormivo ha cercato prima di
soffocarmi col cuscino e poi di strangolarmi con le mani» mi racconta il padre ancora in preda all’emozione. «E poi cosa è successo?» continuo. «Sono riuscito a divincolarmi e con l’aiuto degli altri
familiari l’ho respinto violentemente». «Quindi ha chiamato il
113?» aggiungo io. «No, ho chiamato direttamente l’ambulanza per
farlo ricoverare». «È successo altre volte?» domando. «È successo
spesso, e ogni volta l’ho fatto ricoverare». «E dopo ogni ricovero
come va, va meglio?». «No, anzi è sempre peggio». Il colloquio è
andato avanti per un po’ e alla fine i genitori hanno ammesso che
non era il caso di chiedere altri ricoveri coatti, ma di difendersi dalla
violenza del figlio in maniera più efficace, se necessario anche legale, cercando però di andare alle radici dei gravi problemi di incomprensione e di conflitto tra di loro.
Sapevo già di questi problemi perché il figlio mi aveva parlato
più di una volta dandomi una versione diversa, se non opposta, da
quella che mi diede il padre in seguito. Ora non so la piega che prenderà la storia di U. F., se ancora si farà vivo con noi e se si troverà
un migliore equilibrio tra lui e i genitori6. Quello che spero che i
genitori ieri sera abbiano compreso è che non è vero che noi difendiamo qualsiasi comportamento di una persona solo perché riteniamo sia spiegabile razionalmente. Siamo contro i ricoveri coatti perché sono contro la libertà e contro la responsabilità della persona. In
fondo stavamo parlando di Kant senza fare filosofia. I genitori spesso ammettono più facilmente che il figlio non ragioni bene piuttosto
che il figlio si comporti come un delinquente. La psichiatria coattiva
cui essi ricorrono non farà altro che cercare di risolvere con la costri-
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zione fisica e chimica – psicofarmaci a tutto spiano – problemi psicologici a cui essi stessi sono intrecciati o problemi di moralità non
risolvibili con legature e neurolettici.
Oggi, lunedì 8 maggio ’95, se ci distraiamo un attimo dalle
vicende elettorali del centro destra e del centro sinistra, veniamo a
sapere che Ludwig von Hackwitz, nominato da un mese direttore
generale del gruppo Fondiaria, 49 anni, «brillante avvocato, carriera
tutta costruita nel settore delle assicurazioni», si è tolto la vita ieri
mattina lanciandosi dal suo appartamento al ventunesimo piano
della Torre Velasca, un grattacielo di 80 metri nel cuore di Milano, e
che un signore di 53 anni, Sebastiano Acquaviva a Moricone, un
paesino a trenta km da Roma, ha ammazzato la moglie Alina
Kuczynska, polacca. Un suicidio e un omicidio. Atti gravissimi,
vere tragedie umane. Ma vediamo come sono trattati dall’opinione
corrente di cui si fanno interpreti e portatori i giornalisti.
L’alto dirigente si sarebbe suicidato perché in preda a una grave
depressione. Questa è su tutti i giornali la prima spiegazione.
Bisogna fare fatica, cercando qui e lì tra le righe, per ricostruire i
fatti drammatici vissuti e sopportati dal dirigente. Per ultimo quello
di dover prendere da lì a poco la decisione di una forte ristrutturazione della Fondiaria che avrebbe comportato la riduzione di mille
posti di lavoro. Il primo messaggio è quello che resta importante per
tutti: il dirigente si è tolto la vita perché depresso. La depressione
non lo avrebbe fatto più ragionare... Il dirigente avrebbe compiuto
quel grave atto perché non avrebbe più capito cosa fare e cosa non
fare. Questo in prima pagina. Nel dettaglio di cronaca a pagina 14
del giornale viene invece raccontato come von Hackwitz abbia studiato il suo piano: «Per saltare nel cavedio, dove corrono le tubazioni del grattacielo – un pozzo largo tre metri per due, interno al palazzo e che passa attraverso i venticinque piani della Torre – von
Hackwitz è salito su una sedia e ha scavalcato il muretto di un metro
e 80 che protegge il pozzo. Vestito di tutto punto è precipitato a
terra, dilaniato da ferri e tubi. Il riconoscimento è stato difficile, per
alcune ore quel corpo sfigurato non ha avuto un nome. Per portare a
termine il suo progetto suicida von Hackwitz ha approfittato di una
breve assenza della moglie».
Le crisi depressive vengono invocate in questo caso per spiegare
una specie di coazione cieca a uccidersi. Ma come potrebbe compiersi una serie così logica e consequenziale di atti, definita addirittura «progetto suicida», senza l’uso pieno e deliberato della ragione?
Ma con quali altri strumenti, vi domando, se non con il suo attento e
vigile cervello questo illustre e brillante avvocato avrebbe potuto
75
compiere una serie di atti organizzata così efficacemente per lo
scopo? Potremmo concordare che lo scopo era sbagliato, che un
individuo umano ha responsabilità morali nei confronti della specie
anche in termini di esemplarità e di incoraggiamento nei confronti
dei più infelici, ma questo è un giudizio che appartiene alla sfera
della moralità dei comportamenti umani, non della razionalità o
della libertà.
D’altronde la cultura psichiatrica, diffusa a piene mani da tutti i
media, affronta tutti i casi di suicidio come casi di depressione o di
delirio o di schizofrenia paranoide o di psicosi, insomma come
malattia mentale. Al massimo si arriva a qualche distinzione psichiatrica più raffinata: se il suicida era molto adirato si parlerà di
delirio e di psicosi, se era molto triste si parlerà di depressione.
Cassano, il noto psichiatra di Pisa che imposta le sue fortune teoriche e pratiche concentrando tutte le etichette psichiatriche in quella
di depressione, dirà sempre e semplicemente che il suicida era un
depresso, e se era a tratti troppo allegro e a tratti troppo triste, dirà
che sempre di depressione si tratta ma bipolare. Dopodiché tutti i
depressi d’Italia, monopolari e/o bipolari, un mercato corrispondente
all’80% della intera popolazione, aspettano di passare dalle cliniche
di Cassano e centri simili per dare una sistemata ai loro sbalzi di
umore con sapienti dosaggi di psicofarmaci. Se i troppo tristi non
reagiscono bene ai suoi mix allora, a detta sua, c’è sempre l’elettroshock...
Quando si tratta del suicidio di un grande personaggio o di un
grande letterato, come quello di Primo Levi7 che si lanciò dalla
tromba delle scale del suo condominio, non gli si nega proprio tutta
la lucidità, non gli si dà brutalmente del pazzo, ma comunque si
parla di una persona depressa o con gravi problemi psichici.
Insomma non si vuole, non si deve, ammettere che uno, importante
o non importante, possa togliersi la vita lucidamente e sulla base
delle sue tante ragioni. La scelta suicida può, deve essere, un atto da
sconsigliare, da scoraggiare, da contrastare – e nei casi di estrema
disperazione non solo con parole ma con immedesimazione e se si
può anche con sostegno fattivo –, ma non può essere spacciata come
frutto di un cervello offuscato. Negare tra l’altro dignità razionale a
un tentato o candidato suicida significa solo dare qualche ragione in
più al radicamento della sua convinzione.
E gli efferati omicidi come vengono trattati? Stiamo alla cronaca
di oggi. Tra le righe dei commenti all’accusa di omicidio nei confronti di Sebastiano Acquaviva – lui dice che lo ha fatto per legittima difesa, ma non è questo il punto – veniamo a sapere anche qualche dato storico che può interessare questa mia breve trattazione
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sull’ecologia umana. La cronista di «Repubblica» riporta che
«Acquaviva era senza lavoro fisso dal ’90. In quell’anno era uscito
dall’ospedale psichiatrico, dove era stato ricoverato dieci anni fa per
il tentato omicidio della precedente compagna, un reato dal quale
era stato prosciolto appunto per ‘vizio di mente’». Seguendo il racconto della cronista sappiamo poi di un signore al bar di Moricone
che, preoccupato della buona immagine dei suoi conterranei, così
commenta l’accaduto: «Bisogna dire subito che quel tipo non è nato
qui. Ma nessuno di noi pensava che avesse dei trascorsi così oscuri».
In questa storia l’unica cosa veramente oscura che c’è stata è
quell’attribuzione, psichiatrica prima e giudiziaria dopo, di vizio di
mente al precedente tentativo di omicidio. Quella versione ha fatto
scuola e oggi la cronaca la ripropone a proposito del compiuto omicidio: «Agli inquirenti Acquaviva ha raccontato che Alina ha tirato
fuori da un cassetto della cucina il coltello, con il quale lo ha ferito.
Quindi lui per difendersi è stato costretto a prendere in mano l’arma.
Poi il raptus omicida». Cioè una forza cieca e estranea gli avrebbe
rapito la coscienza e avrebbe guidato la sua mano a colpire con il
coltello più volte la donna al ventre e al collo. Ora, una efficace
risposta di legittima difesa, se questa ipotesi venisse confermata,
include la passione e la violenza o come strumenti preordinati volutamente allo scopo o come strumenti che non si farebbe agire in altre
condizioni ma che in questo caso sono comandati da automatismi
cerebrali necessari alla propria sopravvivenza. La funzione del
paleoencefalo, il cosiddetto cervello dei rettili, che è ben presente in
noi e generalmente governato dal neoencefalo, è proprio quella di
garantire la maggiore tempestività possibile per difendere la propria
sopravvivenza anche rispetto ad attacchi imprevisti e imprevedibili.
Non è un cervello che rapisce, è un cervello che fornisce una reazione pronta per l’uso. Quello che può succedere è che il neoencefalo
non si trovi sempre nelle condizioni migliori per dirigere e controllare la forza della reazione più istintiva propria del paleoencefalo,
come nel caso delle intossicazioni da alcol, droga, psicofarmaci o
affezioni neurologiche di vario genere. Non solo, ma un’affezione
neurologica anche passeggera come quella da neurointossicazione
può modificare la stessa sensazione esterna, far vedere un dinosauro
al posto di una lucertola, generando una reazione adeguata al dinosauro invece che a una lucertola. Avremmo cioè problemi di carattere neurologico, accertabili con riscontri scientifici, e non misteriosi
raptus psichiatrici.
Rileviamo poi un’altra serie di comportamenti che vengono considerati «raptus» soltanto perché chi vi assiste non vede o non vuol
vedere se ci sono lucertole o se ci sono dinosauri, ma isola dal suo
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specifico contesto il fenomeno che sta osservando, mettendolo in
relazione a un contesto artificiale o ideologico. Compie cioè un errore ecoantropologico, disinserendo il fenomeno espressivo dall’ecosistema in cui si sviluppa e perdendone la corretta interpretazione.
Mi spiego meglio con un esempio. Nell’agosto del ’93 mi capitò
di salvare una donna dal linciaggio dei passanti e dalla cattura di
un’autoambulanza perché era uscita nuda per strada gridando
improperi e bestemmiando non si sa contro chi. Nessuno si era preso
la briga di chiederle cosa le fosse successo prima. E prima era successo che aveva ancora una volta scoperto che il marito la tradiva
apertamente nella sua camera da letto. Si parlò subito di un raptus a
sfondo sessuale, ma l’esposizione in strada del suo corpo nudo era
invece un fenomeno comprensibile. Con un minimo di ricerca
risultò essere non un raptus ma una risposta intelligente e adeguata a
provocazioni che erano fuori dell’ambito visivo e cognitivo dei passanti e degli infermieri del pronto soccorso8.
Piuttosto bisogna stare attenti che un reale raptus di coscienza, e
quindi di responsabilità, non avvenga né in sede di attribuzione di
responsabilità penale né in sede di trattamento psichiatrico conseguente. La costrizione della libertà fisica insieme con le incursioni
psichiatriche nel cervello di imputati di omicidio, colpevoli o innocenti, trasformati in pazienti psichiatrici a vita, possono portare, queste sì, a un offuscamento costante della coscienza vigile o a un
aumento dell’aggressività contro gli stessi psichiatri, parenti, personaggi simbolo o pezzi indistinti di società. Gruppi antipsichiatrici
americani hanno spesso messo in rilievo come quasi tutti gli assassini o attentatori dei presidenti USA o responsabili di stragi fossero
pazienti psichiatrici9.
Ma su questo problema tornerò in seguito a proposito di altri
effetti dannosi dei trattamenti sanitari obbligatori.
Potrei continuare con la cronaca. Nei giorni scorsi è rimasta
parecchio sulle prime pagine la storia di Tullio Brigida, accusato di
avere ammazzato i suoi tre bambini e di averli seppelliti a Cerveteri.
Qui devo dire che uno dei pochi che ha difeso le capacità intellettive
di Brigida è stato lo psichiatra Paolo Crepet. Il coro unanime è stato
che si tratta di un pazzo che non si rendeva conto di quel che faceva.
Ho riportato queste riflessioni a proposito di fatti di cronaca perché sono un esempio di come i princìpi dell’ecologia umana si possano applicare ai vissuti quotidiani. Nei corsi di ecologia umana e
poi negli incontri settimanali del CEU ho spesso fatto insieme ai partecipanti questo tipo di esercitazione: cercare nelle cronache nere gli
elementi di storia, razionalità, libertà e responsabilità al di là delle
descrizioni e etichettature psichiatriche che ne fanno i giornalisti e
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gli psichiatri. Il fatto che in questi incontri vi siano spesso persone
trattate, in passato o tuttora, come pazienti psichiatrici, contribuisce
a creare un clima di assoluta parità nella ricerca socioculturale e di
grande aiuto a chi tuttora è vittima del pregiudizio psichiatrico.
La tutela della biodiversità comporta, dicevo, anche una funzione
attiva di «coltivazione» della libertà. Essendo questa il patrimonio
distintivo della nostra specie, più la rendiamo possibile in rapporto
alla libertà di tutti, più la libertà generale cresce con grande arricchimento e felicità per tutti.
Sappiamo però che tanto la libertà che la diversità interagiscono
con il loro contesto e nessuna crescita di biotipi, anche umani, è realmente possibile al di fuori di un ambiente che la accolga e la faciliti.
Qui l’ambientalismo scientifico viene in soccorso dell’ecologia
umana e viceversa. Da un’attenzione all’ambiente inteso solo come
ecosistema naturalista bisogna passare a un’attenzione complessiva
all’ambiente ecoantropologico, un ambiente cioè dove l’individuo
umano, gli individui delle altre specie animali e vegetali, i complessi
della materia organica e inorganica intervengono con relazioni complesse tra di loro, alcune in rapporto di causa e effetto, altre in rapporto di reciproca assimilazione-repulsione, altre infine con rapporti
presenti ma ancora nascosti o sconosciuti10.
Se quindi il biotipo umano, l’individuo, è di per sé, e già dalla
nascita, un soggetto diverso e differente dagli altri, il sistema ecoantropologico interagisce con lui continuamente facilitando o rendendo più difficile la libera espressione della sua individualità.
La condizione più comune che si verifica è quella di una continua
e instabile mediazione tra il bisogno di simbiosi con l’ambiente e il
bisogno di individualità, tutti e due necessari per la comune sopravvivenza. Se per bisogno di ambiente intendiamo anche bisogno di
accesso concreto all’ambiente e quindi di alimentazione, cultura,
amore, protezione fisica, sicurezza del proprio sviluppo futuro, ci
rendiamo conto di quanto sia difficile la sua soddisfazione per la
maggioranza degli uomini sul pianeta11.
Il contesto ambientale per l’ecologia è un concetto fondamentale,
ma bisogna fare qualche passo avanti e inserire elementi specifici
derivanti dalla riflessione ecoantropologica.
In breve, sappiamo che nessun essere vivente può attecchire e
svilupparsi se non all’interno di «nicchie ecologiche» dove siano
presenti condizioni che facilitino quei determinati soggetti biotipici.
Questo vale ad esempio per le piante, ma vale anche per gli esseri
umani. Lo sradicamento di un essere dalla sua nicchia ecologica e
l’inserimento in un altro habitat a lui non più favorevole può com-
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portare la sua distruzione. Ma è anche vero che la rottura di delicati
equilibri di interdipendenza all’interno del contesto vitale di origine
può causare il soffocamento del soggetto in questione. Quindi il trasferimento da un contesto all’altro può essere per alcuni causa di
soffocamento, per altri di invarianza, per altri addirittura di sopravvivenza: dipende dalla qualità degli equilibri esistenti all’interno del
vecchio e del nuovo habitat.
Ora, se è vero che anche per gli uomini e le donne le condizioni
naturali sono importanti tanto quanto lo sono per le piante, per essi i
fattori di «nicchia» sono molto più complessi, in quanto si arricchiscono delle condizioni determinate dai rapporti economici, sociali e
politici che influiscono direttamente sullo sviluppo del fattore distintivo della loro specie che è la libertà di scelta e di autodeterminazione.
Gli scambi possibili tra atti e soggetti liberi moltiplicano all’infinito, se vogliamo, la complessità dell’habitat. La nicchia ecoantropologica rispetto a quella ecologica è infinitamente più complessa.
Gli equilibri sono sempre instabili. L’individuo, che è già, dicevamo, una rete complessa instabilmente coordinata, entra direttamente
in contatto con il suo habitat immediato, ma se qui la sua esigenza di
libera crescita non è soddisfatta, si collegherà attraverso la sua
potente rete raziocinante, cosiddetta fantastica, con altri possibili
habitat a lui più favorevoli, che esplorerà ai fini di un qualche nuovo
e più fortunato attecchimento. Quindi l’esigenza di affermazione
della propria identità, e non altro, porta l’essere umano a radicarsi
dove è o a trasmigrare altrove. La libertà per l’uomo è come il vento
per la semente: può venire da lontano e portare lontano.
La tensione continua alla ricerca del migliore ordito possibile di
relazioni spinge l’individuo in tutte le direzioni spaziali e temporali,
dalle migrazioni geografiche per i bisogni di sopravvivenza, alle
migrazioni extratemporali al di fuori della sua immediata identità
anagrafica, secoli indietro e secoli in avanti, in questo mondo sensibile e al di là di questo mondo sensibile. Ogni artificiale suddivisione della sua identità e della sua coscienza, ogni blocco, come nel
caso delle segregazioni fisiche e psichiatriche, rompe la complessità
dell’ordito – complexus significa «tessuto insieme» –, spezza i fili e
quindi la trama del disegno, fissa l’individuo in una nicchia non più
ecoantropologica ma mortuaria, rapprende la materia vivente in
discariche per rifiuti umani senza possibilità di «riciclo».
La complessità del sistema ecoantropologico genera quindi per
sua natura una serie infinita di contraddizioni e di gradi di contraddizione. Rispetto a questa impostazione la psichiatria che parla di schizofrenia come di malattia mentale – cioè, nel senso letterale, una
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sola mente che si sdoppierebbe in due – dice cose insulse, riduttive
e senza fondamento scientifico. La generazione delle variazioni e
delle contraddizioni è sempre attiva a livello planetario, e nella
coscienza umana si riflette in modalità non duplice ma multiforme,
multi-milli-forme.
L’infinito grande del cielo stellato sopra di me e l’infinito piccolo
dentro di me, di cui parlava Kant, sono molto più vicini alla realtà
delle pericolose semplificazioni psichiatriche.
La ricerca sull’ecologia umana va avanti e ha ancora molte piste
da battere e molti problemi da risolvere. Il CEU, il Centro di
Ecologia Umana associato alla Legambiente, ha iniziato questa
riflessione. Ha promosso con le sue poche forze alcuni corsi a cui
hanno partecipato qualche centinaio di persone. È un seme, spero,
destinato ad espandersi a favore di una cultura contro tutte le forme
di segregazione. Il Telefono Viola è un suo primo risultato.
Ogni settimana teniamo l’incontro di ecologia umana dove invitiamo anche persone psichiatrizzate o minacciate di ricovero coatto.
È un luogo dove si sentono alla pari, tutti con la propria semente di
diversità da tutelare e da mettere a disposizione degli altri.
Mi piace ricordare che all’inizio molti partecipanti pensavano di
trovarsi di fronte a psicologi e psichiatri, e quelli che tra di loro avevano avuto esperienze spiacevoli al riguardo erano molto diffidenti.
E invece si trovavano in mezzo a sconosciuti filosofi, a studenti di
lettere, di psicologia, o semplicemente a compagni di sventura. Una
volta un invitato, riferendosi alla nostra Paola Mastroluca, che organizzava l’ascolto nel primo anno del Telefono Viola, mi chiese:
«Ma che fa quella ragazza nella vita, la psicologa?». «No» risposi,
«Paola fa la vivaista in una serra del Comune di Roma».
Non escludiamo gli psicologi, non escludiamo neppure quegli
psichiatri che si battono concretamente contro i ricoveri coatti. Ma le
vivaiste, che se ne intendono di semi, piante e ecosistemi, hanno una
predisposizione naturale per l’ecologia umana.
Note al capitolo
1. L’ecologia profonda, detta anche ecosofia, di Arne Naess, B. Deval e G.
Sessions, è ancorata alla teoria di «Gaia», la terra considerata come un unico grande
organismo vivente; l’ecologia della mente di Bateson è una teoria dei processi decisionali in condizioni di incertezza e di contraddizione tra tipi logici, contraria alla psichiatria organicista, vicina alle posizioni degli antipsichiatri inglesi Cooper e Laing;
Commoner afferma i princìpi della necessità del riciclo generale della natura e degli
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esseri viventi; l’ecologia della complessità di Capra e Prigogine contesta radicalmente ogni ipotesi di carattere riduzionista e meccanicistico, anche in medicina e psichiatria; l’ecomarxismo o ecologia marxista di O’ Connor tenta una sintesi tra marxismo e
ecologia in una visione radicale e antiriformista contro quelle posizioni dei movimenti Verdi che ammettono compatibilità tra interessi capitalistici e interessi ambientalisti; l’ecologia sociale o ecologia della libertà di Bookchin inserisce l’ecologismo
all’interno della tradizione anarchica proponendo una società libera dal dominio delle
varie forme di gerarchia.
2. A questi autori, soprattutto Szasz e Antonucci, mi accomuna la critica alla psichiatria. Ritengo però che la psichiatria, insediata com’è nel corpus accademico e
nelle procedure sanitarie, possa essere sconfitta non soltanto con una critica negativa,
certo essenziale, ma anche con una nuova visione teorica e una nuova pratica
nell’approccio ai comportamenti complessi, che è quella dell’ecologia umana e delle
sue possibili concretizzazioni a livello socioculturale e «controterapeutico». Molte
persone hanno trovato negli indirizzi dell’ecologia umana concrete possibilità risolutive a problemi che invece prima venivano trattati psichiatricamente. Per noi non esiste una terapia perché non esiste una malattia mentale da «curare» ma problemi,
anche molto gravi, da risolvere o da accettare come tali.
3. I lavori del neurologo Oliver Sacks, il noto autore di L’uomo che scambiò sua
moglie per un cappello e di Risvegli (da cui è stato tratto un film) stanno dimostrando
come una serie di comportamenti ritenuti patologici da un punto di vista psichiatrico
lo siano soltanto da un punto di vista neurologico. Nel suo più recente libro, Un
antropologo su Marte, anche il cosiddetto autismo viene sottratto all’ambito psichiatrico per rientrare nei fenomeni neurologici. Spesso Sacks si meraviglia del fatto che
individui con problemi neurologici specifici, con ritardi o con caratteristiche sensoriali molto particolari, finiscano in cliniche e ospedali per malattie mentali, come è successo agli epilettici fino a poco fa. Egli sembra tuttora riconoscere una validità alla
psichiatria, e spesso si rifà a una terminologia psichiatrica con parole del tipo nevrosi,
psicosi, schizofrenia. Noto però che, nei suoi scritti recenti, la parola normale viene
sempre più riportata tra virgolette e che le parole dello psichiatrismo di cui fa uso
restano vuote carcasse di fronte al suo approccio strettamente neurologico.
4. Devo precisare che il Telefono Viola è uno strumento della telefonia sociale
per le denunce di abusi e violenze psichiatriche rispetto agli ordinamenti di legge e
alla Costituzione. In alcuni casi, dove ci siano gruppi di volontari che si pongono
anche il problema di diffondere una cultura alternativa, come nel caso dei gruppi del
CEU, è possibile approfondire la visione dell’ecologia umana. L’azione concreta di
informazione e di tutela ne può prescindere (per approfondimenti contattare la rete
del Telefono Viola).
5. La Legge 180, assorbita nella Legge di Riforma Sanitaria N. 833 del 1978, inizia con l’affermazione importante che «il trattamento sanitario è volontario» per continuare invece con una serie di vincoli procedurali e garanzie che regolamentano il
trattamento sanitario obbligatorio. Di fatto quella che è una eccezione si sta rivelando
una regola, per cui basta che ci sia un primo medico che chieda un TSO e molto diffi-
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cilmente esso non verrà autorizzato, e ancora più difficilmente sarà contestato nel
merito. Al cittadino manca la possibilità di difendersi con un avvocato e con un altro
suo medico di fiducia al momento dell’inizio degli interrogatori psichiatrici e della
«sentenza» di reclusione forzata. Se qualcuno vorrà o potrà intervenire a suo favore,
lo farà sempre tardivamente rispetto al suo arresto di fatto e agli effetti delle prime
settimane di trattamento forzato. Molti trattamenti rendono poi il soggetto realmente
disabile rispetto alla sua piena capacità di difesa, per cui davanti a un giudice non se
la caverà facilmente. Un imputato di un grave delitto o di un furto ha più garanzie di
un imputato di malattia mentale. In base a queste e altre considerazioni riteniamo
vada sollevata eccezione di incostituzionalità dell’attuale ordinamento del TSO in
Italia. Insomma i diritti dei pazienti psichiatrici sono difficili da difendere, quelli dei
cittadini a non diventare pazienti psichiatrici lo sono ancora di più. La lesione dei
diritti costituzionali di libertà è molto grave e i sindaci, che sono autorizzati dalla
legge a fare le ordinanze per i TSO, non ne sembrano convinti. I giudici tutelari poi,
insieme con i sindaci, sono del tutto subalterni al giudizio degli psichiatri che richiedono il TSO. La legge parla di «alternative» al TSO, ma queste alternative, sulla base
delle nostre verifiche, non vengono mai seriamente perseguite né predisposte.
6. U. F. si è rifatto vivo il 13 giugno con chiamate continue alla nostra segreteria
telefonica di Roma. Era ritornato a casa, ma dopo una decina di giorni e una nuova
lite in famiglia, era stato di nuovo ricoverato con la forza presso lo stesso ospedale. Il
15 è riuscito di nuovo a scappare, cosa che mi è stata comunicata dal primario. Di
nuovo ripreso, il giorno dopo è stato dimesso. Il primario Roberti ci ha invitato in
ospedale a un incontro chiarificatore sul problema. Con Roberti, di Psichiatria
Democratica, siamo nello stesso Comitato delle associazioni contro l’elettroshock,
ma le divergenze tra il loro e il nostro concetto di TSO si sono rivelate molto forti.
Altre volte è andata peggio, come nel caso di Gloria C., ricoverata lo scorso anno al
Pertini di Roma, costretta alle cure anche a TSO scaduto. Gloria fu dimessa dopo le
nostre pressanti richieste e l’arrivo di una volante della polizia. Gli psichiatri però
stanno imparando a mettersi in regola almeno formalmente. Finché il TSO non sarà
dichiarato incostituzionale sarà molto complicato tutelare i diritti delle persone che vi
vengono sottoposte. Per questo problema stiamo rafforzando gli orientamenti preventivi e l’informazione all’opinione pubblica.
7. Libri di P. Levi come il famoso Se questo è un uomo si inseriscono pienamente nella teoria dell’ecologia umana.
8. Il criterio di «raptus» è usato molto dalla psichiatria per definire comportamenti improvvisi, eclatanti, di grande impatto sociale. Un termine psichiatrico analogo è
quello di «crisi acuta» o «crisi psicotica». Queste denominazioni inibiscono buona
parte del tentativo di capire il contenuto della «crisi», perché partono dal presupposto
che c’era o c’è in quella persona una belva accovacciata pronta per l’assalto quando
meno te l’aspetti. Spesso comportamenti sessuali, soprattutto di donne, vengono stigmatizzati e duramente repressi come malattie mentali o «raptus» sessuali. Ho letto
qualche volta in cartelle cliniche: «Paziente affetta da pazzia morale»! La sessualità
libera e non violenta è fonte di felicità e di grande benessere. Essendo anche il canale
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di maggiore filtraggio tra corpo umano e corpo della Terra considerato come organismo vivente (la «Gaia» degli ecologisti), sfugge alla piena comprensione e al pieno
dominio degli stessi corpi sessuati, diventando la maggiore nemica delle ideologie del
controllo, tra cui eccelle la psichiatria.
9. Vedi nota precedente sull’omicidio del piccolo Ludovico da parte della madre
Alessandra D’Afflitto. Le indagini sono in corso. I giornali del 30 giugno, dell’1 e 2
luglio ’95 sono pieni di dichiarazioni tranquillizzanti da parte di noti psichiatri, tra cui
Reda che incontreremo a proposito della storia di Rellini. Nessuno ha detto, salvo noi
del Telefono Viola, che ci sono in America centinaia di cause aperte contro il Prozac,
l’Halcion e simili per induzione di auto e eteroaggressività. Lo psicoanalista Aldo
Carotenuto approfitta poi per rilanciare la più innocua «cura dell’anima» della psicoanalisi e del freudismo attualmente in crisi sotto i colpi bassi delle multinazionali dello
psicofarmaco. Ma, a parte le interessate polemiche, sarebbe doveroso che la
Commissione Unica del Farmaco desse finalmente il suo «autonomo» parere senza
paura di ledere gli interessi di case farmaceutiche e psichiatri, che ricevono omaggi e
prebende per le loro allegre prescrizioni.
10. Pagine importanti sulla interdipendenza e coistantaneità dei fenomeni sono
state scritte da ecologisti come Bateson e Capra, citati in bibliografia.
11. A questo proposito la visione ecosofica di Naess, anche se importante per
l’insistenza sugli aspetti della simbiosi universale, mostra il suo limite. Un mondo
parimenti biocentrico, con la stessa posizione per tutti gli esseri viventi, non individua
gli elementi distintivi della razionalità e della libertà umane come i fattori dell’agone,
storico e drammatico, del conflitto tra le classi sociali, del conflitto interpersonale e
del conflitto intrapersonale, che inducono e subiscono le potenti trasformazioni dei
sistemi ecoantropologici. Alla visione ecosofica di «Gaia», un po’ troppo poetica e
«pacionista», più che pacifista, sopperiscono in parte O’ Connor con il suo ecomarxismo e Bookchin con la sua ecologia anarchica. L’ecologia umana integra e approfondisce questi ultimi due approcci.
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V
FABIO N.
CONTRO LA PERSECUZIONE SCIENTIFICA
Fabio è un giovane di trent’anni. Da diverso tempo è alle prese
con i trattamenti sanitari obbligatori. Abbiamo spesso svolto
un’azione a suo favore perché non venisse privato della libertà e sottoposto a cure costrittive. In questi mesi è costretto dagli psichiatri di
una USL ad andare da loro ogni mattina a prendere una dose di melleril. Ovviamente né i TSO né lo psicofarmaco quotidiano hanno
minimamente cambiato le sue profonde convinzioni. Hanno invece
prodotto maggiori paure dentro di lui, una profonda ribellione contro
psichiatri e psichiatria, contro i familiari che fanno ricorso agli psichiatri a suo danno, e una maggiore diffidenza verso chiunque possa
entrare nella macchina della persecuzione scientifica che ritiene sia
costantemente alle sue calcagna.
In questi anni, pur venendo lui da fuori Roma, ci siamo visti e
sentiti frequentemente. Il CEU e il Telefono Viola costituiscono uno
dei pochi riferimenti dove ancora può parlare liberamente dei suoi
problemi senza essere tacciato di schizofrenico e delirante, così
come gli succede con gli psichiatri e con i familiari.
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Devo dire che il rapporto con Fabio non è stato facile, non per le
sue convinzioni poco verificabili, ma perché, stretto nella morsa tra
psichiatria coattiva e macchina della persecuzione, di cui vi parlerò,
non resisteva dal chiamarmi a tutte le ore, in ufficio e a casa, per
comunicarmi la sua terribile ansia, per discutere con me sul da fare e
perché facessi intervenire gli avvocati a tutti i costi.
Spesso persone che abitano presso la sede del Telefono Viola ci
raccontavano di aver visto un giovane, alto e biondo, un po’ curvo
sulle spalle, che aveva aspettato impaziente diverse ore lì davanti. La
distanza tra le chiamate è poi divenuta più lunga. Per qualche settimana non l’ho visto più e me ne sono preoccupato, perché ad ogni
lunga pausa nei nostri rapporti è sempre seguito un nuovo TSO con
ulteriori peggioramenti per lui. Finalmente qualche giorno fa mi ha
telefonato e mi ha voluto spiegare il perché. Faccio seguire il contenuto della telefonata, che gira un po’ intorno al problema della macchina persecutoria.
- Vedi, non è per voi che non vengo, ma è per via della Libreria
Anomalia dove vi siete trasferiti.
- Cosa c’entra ora la libreria?
- In quella libreria vi sono persone che sono d’accordo con la CIA
e con la Questura di Roma per farmi fuori.
- Guarda Fabio che lì ci sono persone che io conosco e ti posso
garantire che nessuno ti farebbe del male, o almeno che nessuno sia
d’accordo con la CIA e con la Questura per farti fuori.
- E io invece credo di sì. Lo sai che anche quelli di Via dei Volsci
[un’organizzazione politica extraparlamentare di sinistra, N.d.A.] mi
hanno minacciato che se mi faccio vedere ancora da quelle parti mi
denunciano alla Questura?
- Senti, allora facciamo così. Tu mi avvisi prima del tuo arrivo
così ti aspetto all’entrata e poi entri con me. Quando finiamo ti riaccompagno all’uscita. Stai più tranquillo?
- No, non so, ci devo pensare, ti farò sapere.
- Fabio, ma non è possibile continuare così, adesso finisce che
non possiamo neppure più incontrarci! Senti, ho un’idea, tu mi avvisi, io ti aspetto all’uscita e poi andiamo al bar vicino, ci mettiamo a
un tavolino e parliamo senza problemi.
- Lì proprio no, e sai bene perché. Baristi e alimentaristi sono
preavvisati dalla Questura. Questa, come sente la mia voce, avverte i
gestori che sono io quello che devono contagiare e loro lo fanno.
Prendono un condensato virale di Aids e lo mettono nelle bevande
[altre volte Fabio parla nei suoi scritti di sostanze liquide incolori e
insapori, N.d.A.].
- Ma allora dimmi tu dove ci possiamo incontrare. Se è importan-
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te che parliamo un po’, qualche rischio calcolato possiamo prenderlo, e poi potremo sempre usare qualche cautela in più, basterà non
consumare nulla, dài! Comunque ti prego anche di riconsiderare la
storia della libreria. Noi ci stiamo benissimo e non ci succede nulla.
Puoi venire quando ti senti più sicuro. Abbiamo bisogno di riprendere quella discussione sulla verità verificabile.
- Va bene, mi rifaccio vivo io.
Fin qui l’ultima telefonata, dieci giorni fa. Devo ora spiegarvi in
breve il congegno persecutorio a cui Fabio accenna nella telefonata.
In breve, perché Fabio sulla macchina per la sua distruzione ha
speso centinaia di pagine. Da anni non solo noi, ma anche avvocati,
familiari e psichiatri, sono stati inondati da decine e decine di fogli, a
mano e dattiloscritti, in cui Fabio descrive in modo molto analitico e
conseguente la sua terribile vicenda e il meccanismo inestricabile
che rischia di stritolarlo.
Questo materiale costituisce per gli psichiatri la prova della sua
malattia mentale. Si tratterebbe di un delirio paranoide, quindi senza
fondamento nella realtà, determinato da pure invenzioni fantastiche
e accompagnato da incongruità logiche. A questa diagnosi sono
seguite durante gli ultimi dieci anni le persecuzioni psichiatriche, e
queste praticamente documentabili.
Ma in questa sede non mi assumo il compito di denunciare gli
psichiatri per i maltrattamenti contro Fabio ed altri giovani con gli
stessi problemi, trattati allo stesso modo. Mi interessa invece dimostrare come il giudizio psichiatrico prenda una via del tutto diversa
da quella dell’ecologia umana. Infatti, mentre sarebbe legittimo, di
fronte ai vissuti e alle denunce di Fabio, credere o non credere nella
sua verità, è comunque illegittimo far dipendere da questi giudizi il
braccaggio e la privazione della libertà per sottoporre la persona a
condizionamenti fisici, psicologici e chimici finché non cambi la sua
idea. Mentre una libera opinione in merito potrebbe e dovrebbe portare a discussioni e a verifiche, il giudizio psichiatrico porta diritto
alla carcerazione del soggetto considerato privo di senno. Posso
dimostrare come quest’approccio ha portato solo a violenze psichiatriche con danni fisici alla persona e induzione di stati di maggiore
ansia, a maggiori difficoltà di autoregolazione nell’umore e soprattutto a una maggiore e generalizzata diffidenza. Ritengo che la vera
aggressione all’assennatezza di Fabio, e di tutti i «Fabi», derivi dalle
cure coattive cui viene sottoposto. La condizione di offuscamento
cerebrale, causato dalle massicce dosi di serenase e di altri neurolettici, produce durante questi trattamenti una perdita provvisoria di
lucidità e soprattutto di memoria dei suoi problemi. Lo psichiatra
dichiara alla madre che «ora sta meglio» e che è possibile dimetter-
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lo. Tralascio di parlare delle nostre battaglie contro gli arresti psichiatrici di Fabio e delle nostre sollecitazioni per pronte dimissioni.
Come in questo caso, gli psichiatri spesso mi dicono che si sentono
«tra l’incudine dei familiari, che lo vorrebbero ancora più tempo nel
reparto psichiatrico e il Telefono Viola che pretende l’opposto».
Nonostante le nostre differenti opinioni, devo dare atto al dottor
Sangiorgio, il primario del reparto psichiatrico di Frascati, della sua
sincerità e della sua buona fede quando, in una vivace ma civile
discussione a proposito di un TSO a carico di L. G., mi pone il problema in quei termini, perché sono quelli reali. Spesso il nemico più
duro per un’alternativa alla psichiatria sono gli stessi familiari del
prefabbricato paziente.
Ma cosa succede dopo ogni dimissione? Succede semplicemente
che la ripresa graduale dei suoi rapporti con la realtà esterna, che
d’altronde dovrebbero essere favoriti dalle stesse strutture territoriali
della psichiatria (i centri di igiene mentale delle Unità Sanitarie
Locali), costituiscono ovviamente per Fabio la ripresa dei rapporti
con la macchina persecutoria che lo affligge.
Per contrastare la ripresa piena dei rapporti con una realtà afflittiva, e quindi la ricomparsa dei famosi sintomi di delirio paranoide,
anche gli psichiatri del CIM non trovano di meglio che imporre la
dose di psicofarmaci quotidiana. In altri casi l’obbligo è di una iniezione di haldol o di moditen, potenti sedativi con rilascio lento e prolungato nell’organismo, che mantengono un effetto di contenzione
neuromuscolare dai dieci ai venti giorni. È così che quella condizione di offuscamento cerebrale garantita dagli psicofarmaci si stabilizza nel tempo. Ma a meno che non ci sia una reclusione a vita e una
più massiccia psichiatrizzazione, la realtà esterna anche con pochissime stimolazioni sensoriali rileverà di nuovo la sua trama, senza
che Fabio cambi minimamente la percezione del suo disegno nonostante l’azione paralizzante dei neurolettici. Questo chiaro insuccesso delle cosiddette cure dovrebbe far prendere altre strade, e invece
la psichiatria si accanisce di nuovo contro il giovane. Si riaumenta il
dosaggio e, se ci sono rifiuti e proteste, allora si chiama di nuovo
l’ambulanza con due o tre muscolosi infermieri, si blocca di nuovo
Fabio con la forza e si ricomincia con il TSO, che permette agli psichiatri dei reparti ospedalieri, con l’approvazione scontata del giudice tutelare e del sindaco, di ricominciare un ciclo di trattamento più
intensivo e quindi con rischi maggiori di sindromi maligne da neurolettici (ben contemplate nelle controindicazioni degli psicofarmaci).
Mi auguro che questo cerchio si spezzi quanto prima, ma sono
convinto che non sarà facile perché la psichiatria della famiglia e
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quella degli psichiatri identificano il bene del giovane con la distruzione fisica e chimica del suo delirio. Insomma Fabio per loro sarà
guarito quando non penserà più le cose che pensa, anche se questo –
e lo stiamo vedendo – potrebbe accompagnarsi con la distruzione
fisica e chimica dello stesso soggetto pensante. Ed è in questo assurdo modo che la psichiatria coattiva proverà a tutti che la macchina
della persecuzione di cui parlava (e parla) Fabio era del tutto vera,
anche se, in quella terribile conclusione, il ruolo della CIA e della
Questura non sarebbero minimamente chiariti. E cosa cambierebbe
per la vita di Fabio se invece della C di CIA o della Q di Questura era
da mettere alla guida della «macchina persecutoria» la P di
Psichiatria? O se invece del liquido pieno di virus fossero individuati
come responsabili i veleni ben più diffusi degli psicofarmaci?
Sulla base poi dei frequenti casi di induzione nei pazienti psichiatrici di fantasie persecutorie che possono portare fino a concepire il
suicidio come liberazione e l’omicidio come difesa, non si può neppure escludere che alla base delle percezioni persecutorie di Fabio
non ci siano proprio i primi e prolungati trattamenti psichiatrici a cui
fu sottoposto, sempre con la violenza, già prima del servizio militare
in una caserma del nord.
Fabio è un brillante studente universitario e questo mi fa ricordare il caso di un famoso docente della École Normale di Parigi, Louis
Althusser, morto nel 1990 dopo frequenti internamenti presso cliniche e ospedali psichiatrici. Dopo l’incidente poco chiaro in cui massaggiando il collo della compagna Hélène, le arrecò la morte per
soffocamento, il tribunale francese concluse l’inchiesta con la formula «non luogo a procedere» in quanto non risultò una chiara
volontà e una coscienza di omicidio da parte di Althusser, di cui già
erano noti i trascorsi psichiatrici. Questo drammatico incidente successe il 16 novembre del 1980. Ora pochi sanno che da giugno a settembre dello stesso anno il filosofo subì uno dei suoi peggiori ricoveri psichiatrici. Quella volta fu sottoposto a delle vere novità nel
campo degli psicofarmaci, in alternativa agli elettroshock che pure
gli furono somministrati senza scrupoli. Nel suo libro autobiografico
così racconta: «Subito mi prescrissero del niamide (IMAO)1. Questo
medicinale, somministrato di rado per il pericolo che costituisce (in
particolare il noto cheese effect) e a causa degli spettacolari effetti
secondari, in precedenza si era sempre mostrato eccezionalmente
efficace, agendo rapidamente e senza conseguenze. Stavolta, con
grande sorpresa dei medici, le cose andarono diversamente. Non
soltanto l’atteso effetto rapido non ci fu, ma precipitai di lì a poco in
un grave stato di confusione mentale, di onirismo e di persecuzione
‘suicida’... Come che fosse, entrai in uno stato di semincoscienza,
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talvolta perfino di incoscienza totale e di confusione mentale. Non
padroneggiavo più i movimenti del corpo, cadevo di continuo,
vomitavo senza posa, non vedevo più distintamente, urinavo in
modo disordinato, non padroneggiavo più il linguaggio, scambiando
una parola per un’altra, né le mie percezioni, che non potevo più
seguire o coordinare, né a maggior ragione la scrittura, e presentavo
forme di discorso deliranti. Per di più le mie notti erano tormentate
da incubi atroci, che perduravano anche molto tempo dopo il risveglio, e ‘vivevo’ i miei sogni in stato di veglia, vale a dire agendo
secondo i temi e la logica dei miei sogni, scambiando l’illusione dei
miei sogni per realtà, sicché non ero più capace di distinguere da
sveglio le mie allucinazioni oniriche dalla semplice realtà. In simili
condizioni continuavo a sviluppare, a beneficio di chi veniva a trovarmi, temi di persecuzione suicida. Ero convinto che degli uomini
volessero la mia morte e s’accingessero a uccidermi: uno con la
barba, in particolare, che probabilmente avevo intravisto nel reparto;
o che un tribunale, in seduta nella stanza accanto, volesse condannarmi a morte; oppure che uomini armati di fucile a cannocchiale
stessero per farmi secco mirando dalle finestre degli stabili di fronte... Condannato a morte e minacciato di esecuzione, avevo una sola
risorsa: anticipare la morte imposta uccidendomi preventivamente.
Immaginavo ogni sorta di possibilità mortali, e in aggiunta volevo
non soltanto distruggermi fisicamente, ma distruggere anche ogni
traccia del mio passato sulla Terra»2.
Credo proprio che i giudici, già messi sull’avviso dai ricoveri psichiatrici precedenti il dramma, avrebbero potuto trovare «un luogo a
procedere» molto specifico cercando nelle responsabilità di medici
siffatti che spacciavano psicofarmaci senza neppure sapere cosa fossero. Riporto questi cenni su Althusser a proposito degli effetti degli
IMAO perché gli stessi effetti possono verificarsi anche nella somministrazione dei più noti neurolettici. Quello che appare assurdo è che
non si tenga conto degli effetti sulle singole persone di certi farmaci
solo perché ad altri «non è successo nulla». Capita spesso anche che
non ci siano collegamenti tra internamenti presso strutture diverse.
Non sempre gli psichiatri si preoccupano di sapere o vengono informati di quello che è successo precedentemente al paziente
nell’assunzione di quel farmaco in altri ricoveri; o magari approfittano di un nuovo ricovero per fare un’altra prova, non si sa mai... Così
successe a Althusser. Dopo il drammatico episodio fu ricoverato per
sei mesi al Sainte Anne, uno dei più oscuri ospedali psichiatrici francesi, dove andarono giù duro con gli elettroshock. In seguito, trasferito a Soisy, nel padiglione 7, tutto ricominciò: «All’inizio dovettero
curarmi con l’anafranyl, ma senza risultato. Si tornò allora di nuovo
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al niamide. E si ebbero le stesse conseguenze. Caddi in una grave
confusione mentale, nell’onirismo e nella persecuzione suicida, proprio come a Montsouris. Non sto a tornare su quei sintomi. Ma essi
si aggravarono profondamente quando, in mancanza di meglio, si
decise di raddoppiare la dose di IMAO. L’esito fu allora catastrofico.
Non potevo più mangiare e nemmeno bere senza vomitare immediatamente, cadevo di continuo, mi ruppi perfino un braccio, inseguivo i miei incubi da sveglio per buona parte della giornata, e cercavo disperatamente nel bosco vicino un ramo su cui impiccarmi.
Ma la corda? Per precauzione mi avevano tolto la cintura della
vestaglia e i lacci delle scarpe [non il niamide! N.d.A.]. ... Gli IMAO
mi gettarono in uno stato tale (naturalmente ho dimenticato tutto di
quel periodo) che di nuovo dovettero portarmi in rianimazione a
Evry».
Alcuni mesi fa, uscito da un nuovo periodo di TSO della durata
complessiva di un mese, Fabio venne a un nostro incontro del
lunedì. Luca Jani, un nostro operatore che aveva avuto rapporti positivi con Fabio, mi chiamò in disparte e mi disse: «Guarda che Fabio
non parla più, scrive soltanto». Fu subito chiaro per noi perché Fabio
non volesse parlare, mentre per gli psichiatri si trattava di un nuovo
sintomo di malattia mentale, un motivo in più per fargli il TSO e
costringerlo ad altri psicofarmaci. La ragione secondo noi era che,
per sfuggire al «controllo a distanza della CIA», Fabio non aveva più
altro scampo se non quello di non parlare. E infatti gli chiesi di scrivermi perché avesse deciso di non parlare più e mi scrisse la spiegazione che noi già ci eravamo dati. Era soltanto un nuovo passo nella
logica della persecuzione a distanza che lui ci aveva già descritto
minuziosamente. Lo chiamai fuori sulla strada e gli comunicai la
mia preoccupazione che lui potesse gradualmente arrivare all’assenza di comunicazione umana e che era il caso di trovare momenti e
ambienti adatti per riprendere a parlare. Cosa che qualche giorno
dopo puntualmente si verificò, con mia grande gioia.
Spesso ci è capitato di sentire al telefono o di incontrare amici o
familiari di persone che presentavano questo problema dell’interruzione del dialogo, della chiusura in se stessi. Questo fenomeno viene
classificato dalla psichiatria come afasia mentale o mutacismo,
oppure come stato depressivo ipomaniacale, e così via a seconda
degli stili linguistici dei singoli psichiatri. Poche volte ci si prende la
briga di darsi delle spiegazioni logiche, di cercarle con pazienza. È
più facile dare un po’ di gocce e fare qualche iniezione, sperando
che dopo qualche giorno la voce torni, la persona si rianimi come un
giocattolino ricaricato da una pila elettrica e si rimetta a dare le
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rispostine affettuose, intelligenti e collaborative che partner di coppia, familiari, colleghi di studio e di lavoro si aspettano dal «depresso taciturno».
Per scelte editoriali questo libro deve essere piccolo e non posso
raccontare troppi particolari. Né mi piace indulgere al gusto facile
del pubblico e della stampa nel rimestare in storie drammatiche alla
ricerca di spettacolari curiosità. Il criterio che ha ispirato la mia selezione dei vissuti non è quello del sensazionalismo, ma quello di una
certa tipologia di problemi molto diffusi, per i quali le persone
diventano facilmente vittime del giudizio psichiatrico e delle sue terribili conseguenze.
Ho scelto la storia di Fabio perché rappresenta, al massimo grado
da me conosciuto, il problema drammatico della percezione persecutoria, chiamata comunemente mania di persecuzione e che nella
terminologia psichiatrica diventa delirio di persecuzione o delirio
paranoide. Le classificazioni psichiatriche non hanno alcun fondamento scientifico e sono attribuzioni molto variabili a seconda degli
umori e delle evoluzioni culturali degli psichiatri americani, chiamati ogni due o tre anni ad aggiornare il DSM, il sistema ufficiale di
classificazione delle malattie mentali. Ora siamo arrivati al DSM/4 e
nell’arco di una sola generazione alcune malattie mentali non sono
più malattie, mentre alcune che non lo erano ora lo sono.
A questo proposito mi farebbe piacere lavorare a un «Dizionario
non psichiatrico» in cui, accanto alle formulazioni psichiatriche, vi
fossero le formulazioni delle problematiche comportamentali nei
termini dell’ecologia umana senza alcuna accezione di malattia.
Aspetto di averne il tempo e che qualcuno mi aiuti.
Dicevo niente curiosità. Ma almeno con la storia di Fabio faccio
un piccolo strappo, perché varrà per tutte le altre storie, sia quelle
riportate in questo libro, sia quelle che non scriveremo da nessuna
parte.
In uno dei primi TSO successe che Fabio riuscì a scappare. Si
liberò come poté dalla stretta dei legacci alle mani e ai piedi e, barcollante e farfugliante a causa dei neurolettici già iniettatigli, evase
dall’ospedale. Braccato com’era, né pensò né ebbe tempo di vestirsi.
Fuggì quindi in pigiama. Era di sera. Psichiatri, infermieri e polizia
si sarebbero subito messi alle sue calcagna. Se ne andò quindi con il
passo più tranquillo possibile verso la fermata dell’autobus, già che
la casa era un bel po’ lontano, in un paese fuori Roma. Ma una volta
sull’autobus nel vederlo in pigiama gli altri passeggeri cominciarono
a fissarlo e a temerlo: che non si trattasse di un ergastolano evaso da
qualche isola alla Montecristo? E quando, alle prime battute rivolte-
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gli da qualcuno più curioso o più intimorito, lui non riuscì a rispondere che farfugliando a causa dei neurolettici o svelando che era
oggetto di persecuzioni diaboliche e che era stato legato al letto di
un reparto psichiatrico, l’intero popolo di quell’autobus lo cominciò
a deridere e a sfottere volgarmente. Ne scese non più inseguito da
infermieri e psichiatri, ma da un plotone di comuni viaggiatori.
Come non vedere una terribile metafora in questo episodio? La
mentalità psichiatrica è pronta a scattare anche in un autobus di fronte a un uomo in pigiama, che peraltro aveva le sue gravi e impellenti
ragioni. Quella volta furono i familiari a difendere Fabio contro il
TSO che gli psichiatri cominciarono a reclamare di nuovo per telefono.
Il problema che io definisco come «percezione della persecuzione» è tipologico anche rispetto a forme molto diffuse di comportamenti rituali, insistiti o standardizzati. Sono le cosiddette manie che
obbligano molti a fare cose che sono strane per gli altri, ma logiche e
quasi necessarie per chi le fa. I processi di raziocinio possono essere
ferrei e concatenati, senza alcun vizio logico, ma la loro proporzione
rispetto alle stimolazioni esterne può variare moltissimo tra soggetti
diversi posti di fronte agli stessi stimoli. Si sa quanto gli stessi fenomeni fisici abbiano creato discordie scientifiche, a volte ancora irrisolte, e come ci siano voluti millenni per ammettere che il sole era
rotondo e non girava intorno alla Terra. Erano tutti matti prima?
Certamente no. E quanto è stato duro per la Chiesa ammettere che
Galileo non era un pazzo quando vedeva le macchie solari. Un sole
che rappresentava Dio non poteva avere macchie! Erano pazzi papa
e cardinali? Non lo erano. Il criterio per attribuire razionalità e intelligenza a una persona non può essere cercato nella obiettività di una
percezione, tutta sempre da dimostrare. E neppure si può fare confusione tra essere ragionevoli e avere ragione: se no avremmo risolto
tutti i nostri problemi, non avremmo più discussioni, avremmo tutti
ragione, penseremmo tutti allo stesso modo... e magari faremmo
tutti la stessa cosa!
Percepire uno stesso oggetto, uno stesso fenomeno fisico, infine
uno stesso comportamento ci può portare a opinioni diverse già a
partire dalla prima interpretazione del cosiddetto reale. Percezione
non è infallibilità, ma interpretazione del dato. Sappiamo poi da
molti esperimenti che l’interpretazione già nella prima fase della
percezione è condizionata dalle proprie idee e dai propri vissuti personali. Idee e vissuti personali influiscono sullo stesso dato oggettivo e creano opinioni diverse, in genere tutte logiche, ma che portano
a opinioni e convinzioni diverse.
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Una mente può essere lucida ma può non cogliere la verità obiettiva, questo è il punto. Pensate che per decenni si riteneva che gli
elettroni fossero corpuscoli, ora tutti ritengono che a volte si comportano come corpuscoli, a volte come onde elettromagnetiche
senza corpo. Questo per parlare di chi ci dovrebbe riferire scientificamente sull’obiettività delle stesse componenti atomiche della
realtà! Secondo gli psichiatri sarebbero da chiamare schizofrenici
anche gli elettroni della materia di cui siamo costituiti. Ma allora...
Allora veniamo finalmente a cosa pensa Fabio. Riporto alcuni
suoi brani testuali che più rendono l’idea.
La CIA aveva fatto pervenire all’ospedale dove ero ricoverato dei recipienti che contenevano un condensato altamente infettivo ricavato dal
virus dell’Aids. Nei mesi di ottobre e di novembre 1993, F. N. [Fabio
scrive in terza persona perché utilizza i materiali anche come esposti
contro ignoti, N.d.A.] fu costretto a mangiare dei pasti infettati con il
condensato virale. La CIA aveva manipolato e convinto i medici del
reparto in cui si trovava F.N. I medici del reparto avevano accettato di
mettere in atto il piano criminale della CIA. In queste situazioni specifiche F.N. ha subìto il reato di tentato omicidio.
Come ho già riferito, in tutto il Lazio i negozi di generi alimentari, i bar,
i ristoranti, vendono prodotti alimentari, cibi e bevande ed acqua minerale, contagiati con il virus dell’Aids, destinati a F.N. In tutta la faccenda
sono naturalmente implicate anche le industrie di generi alimentari. I
prodotti alimentari, prima di arrivare nei bar, nei ristoranti, nei negozi di
generi alimentari, vengono precedentemente contagiati nelle industrie di
generi alimentari. Lo stesso meccanismo riguarda le industrie farmaceutiche, e quindi le farmacie.
F.N. ha acquistato in alcune farmacie di Roma farmaci contaminati con
il virus dell’Aids. Fondamentale in tutta la faccenda è la copertura della
CIA, del SISMI e del SISDE [servizi segreti italiani, N.d.A.]. Questi servizi segreti hanno organizzato logisticamente tutto il piano criminale.
Come ho già detto nelle pagine dattiloscritte, il fatto che la CIA usufruisca del registratore di onde acustiche, e di elaboratori ad alta e sofisticata
tecnologia, ricopre una funzione di vitale importanza nell’attuazione e
nella copertura di tutto il piano criminale.
Riprendo da altri scritti di Fabio la descrizione dei congegni che
la CIA starebbe usando contro di lui.
Durante il periodo di servizio militare, F.N. venne a sapere che all’interno della questura centrale di Roma la polizia e la CIA dispongono di
sofisticate apparecchiature che consentono di fare le cose più incredibili
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anche quando la persona che subisce queste cose si trova a decine di
migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui si trovano queste apparecchiature.
Il registratore di onde acustiche è una di queste apparecchiature. Esso
consente di ascoltare ed eventualmente di registrare quello che una persona dice anche quando questa persona si trova a distanze enormi rispetto al luogo in cui si trova il registratore di onde acustiche. Questo consente anche di controllare in maniera praticamente perfetta i movimenti
di una persona nel raggio di decine di migliaia di chilometri e può essere
usato ventiquattro ore su ventiquattro per tempi molto lunghi da agenti
speciali che si avvicendano secondo turni stabiliti.
La polizia e la CIA dispongono inoltre di un altro apparecchio che permette di riprodurre perfettamente il tono e il timbro della voce di una
persona anche quando questa persona non è presente fisicamente o non
pronuncia le parole che vengono riprodotte. Quando la voce di una persona viene riprodotta tramite questo apparecchio, questa voce può essere
inserita all’interno di una telefonata facendo credere che si tratti proprio
della persona che sta parlando. In questo modo è possibile far credere
che una persona abbia pronunciato parole che nella realtà non ha mai
pronunciato. È inoltre possibile che la voce di una persona che è stata
riprodotta tramite il computer venga inserita nel raggio di decine di
migliaia di chilometri anche in una normale conversazione che non si
svolge per telefono, facendo pronunciare a una persona parole che in
realtà non pronuncia affatto o non ha intenzione di pronunciare.
...Tramite l’attivazione dell’apparecchio sopra menzionato, il processo di
trasformazione istantanea della conversazione fra due persone può verificarsi in modo che le due persone non si avvedano della trasformazione
avvenuta nelle parole pronunciate. In questo modo la persona che parla
arriva a pronunciare frasi che non ha mai pronunciato e non riesce a pronunciare frasi che invece dovrebbe pronunciare effettualmente, perché
queste frasi vengono cancellate acusticamente a distanza, tramite l’apparecchio, nell’attimo stesso in cui vengono pronunciate, e al posto di queste frasi vengono inserite altre frasi che la persona non pronuncia affatto.
Passo ora ad alcuni brani dove Fabio fornisce le ragioni che
avrebbero mosso la CIA e la polizia a usare la macchina con gli strumenti sopra descritti contro di lui.
La ragione precipua che ha indotto la CIA, il SISMI e il SISDE ad organizzare tutto questo articolato piano criminale ai danni di F.N. è da ricercare nel fatto che F.N. è a conoscenza di segreti militari inerenti alla
morte violenta di obiettori di coscienza, anarchici e testimoni di Geova
nelle carceri militari italiane...
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Il nucleo di questi segreti militari è costituito fondamentalmente dal fatto
che nelle carceri militari italiane gli obiettori di coscienza vengono barbaramente assassinati, in una situazione in cui nemmeno il codice militare prevede in tempo di pace la pena di morte per gli obiettori di coscienza che rifiutano idealmente il servizio di leva e il servizio civile.
Fabio aggiunge a questo proposito riflessioni di carattere generale che in questi giorni si dimostrano di grave attualità politica.
Viene alla luce quello che è da sempre il carattere sovversivo di alcuni
settori deviati delle istituzioni e la servilità pecorina dei cittadini che si
lasciano manipolare dalle strutture occulte e visibili di potere.
Una nota di colore su certi ambienti di caserma, che fa emergere
la cultura antifascista che ispira la filosofia di Fabio, ma anche le sue
doti di accortezza.
Quando F.N. tornò in caserma, prima di ricevere il congedo, dovette
passare per l’ospedale militare, e qui dovette rimanere per un paio di
giorni. Passò in una stanza dove avrebbe dovuto scrivere le sue generalità. In questa stanza c’erano tre caporali. Mentre F.N. si accingeva a
compilare il modulo, uno di questi caporali sopra menzionati leggeva ad
alta voce frasi prese dal libro più atroce della storia dell’Occidente, il
Mein Kampf di Hitler. Questo caporale, mentre leggeva e scandiva le
parole, commentava le frasi con parole di consenso e di ammirazione
per il gerarca nazista Hitler. F.N. rimase decisamente agghiacciato e
contraddetto, ma pensò di non contestare quello che il caporale stava
facendo, perché il congedo l’avrebbe ricevuto entro quarantotto ore ed
aveva compreso che avrebbe avuto la possibilità di denunciare certi reati
e descrivere certe situazioni soltanto dopo che avesse ottenuto il congedo
di servizio di leva.
Questi documenti sono più che sufficienti per dimostrare la lucidità dei ragionamenti di Fabio: descrizione del fenomeno persecutorio e delle conseguenze, spiegazione degli strumenti adatti al tipo di
persecuzione che sarebbe stata orchestrata dalla CIA e dalla polizia,
ragioni della persecuzione contro di lui. Cosa manca perché possa
dirsi illogico, irrazionale e irragionevole?
Ho promesso di non fare citazioni, ma credo che Orwell capirebbe molto bene Fabio e dovrebbe aggiornare molto il suo 1984.
Penso addirittura che la CIA possa prendere qualche spunto per perfezionare qualche aggeggio simile a quelli descritti da Fabio, ottimo
e infallibile nello spionaggio e controspionaggio internazionale a
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distanza.
Questo sul piano della razionalità del discorso, che dovrebbe far
impallidire ogni psichiatra che lo accusi di pazzia.
Ora passiamo al piano della famosa obiettività nella percezione
di cui vi parlavo prima, da non confondere, come abbiamo già assodato, con la produzione del ragionamento da parte di un cervello
non solo sano ma direi eccellente.
Allo stato attuale della discussione con Fabio e delle mie informazioni non posso dire che i suoi racconti corrispondano sicuramente alla verità dei fatti e che non siano costruzioni fantastiche propalate per creare interesse, attenzione su di sé. E questo gliel’ho
detto più di una volta. Ma neppure si può dire che sicuramente ha
torto. Sulla base di quanto poi la cronaca man mano ci rivela circa le
responsabilità della CIA e dei servizi segreti italiani nella strategia
della tensione in Italia, tutto il discorso di Fabio si potrebbe ritenere
almeno culturalmente verosimile, da prendere comunque con attenzione, almeno come motivo di riflessione.
Oggi è domenica 21 maggio ’95, e per scrivere queste pagine su
Fabio ho letto solo qualcosa delle prime pagine del quotidiano «La
Repubblica». In seconda pagina veniamo a sapere quanto segue:
«Generali, terroristi neri, piduisti e 007. Nella lista dei presunti ‘collaboratori’ della CIA, in base alla quale il Pm Felice Casson ha chiesto al governo USA di poter consultare gli archivi del servizio segreto
americano, c’è di tutto. Oltre all’europarlamentare missino Pino
Rauti, compaiono i nomi del filosofo fascista e ispiratore di razzisti
incalliti Julius Evola, morto nel 1974, uno degli ex capi di Gladio
Gerardo Serravalle, il responsabile dell’Ufficio Affari riservati degli
Interni Federico Umberto D’Amato, il giornalista e collaboratore del
vecchio SID Guido Giannettini, il leader di Avanguardia nazionale
Stefano Delle Chiaie, più volte processato per attentati e sempre
assolto, il terrorista nero toscano finanziato da Licio Gelli Augusto
Cauchi, poi un gruppo di generali ormai deceduti, il capo del SID
Vito Miceli, il responsabile della divisione Pastrengo dei carabinieri
Giovambattista Palumbo e il capo del vecchio SIFAR Giovanni
Allavena; infine il piduista e principe siciliano Giovanni Alliata di
Montereale».
Non possiamo dimenticare le accuse mosse qualche tempo fa dal
giudice Salvini che ha scritto cose e riportato fatti a dir poco paurosi
sulle responsabilità dei governi e dei servizi segreti italiani nelle stragi perpetrate con la strategia della tensione contro cittadini innocenti
allo scopo di conservare semplicemente equilibri politici. Ora ci si
crede di più. Quando lo scrivevano sui volantini i gruppi extraparlamentari italiani dieci e vent’anni fa, erano presi per pazzi farnetican-
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ti, privi di qualsiasi credibilità politica e giudiziaria. Adesso le stesse
cose, e con accuse ben più gravi, le afferma la magistratura!
Allora il discorso di Fabio è in sé filato, è verosimile perché fondato sulla cultura, sulla storia e sulla cronaca politica.
L’unico reale problema è quello della strumentazione valida ai
fini di rendere creduto un discorso, credibile o incredibile che sia, e
di rendere verificato per tutti un discorso che per ora è una verità, o
una importante bugia, solo per sé.
Quindi la discussione non va posta in termini psichiatrici, di giudizio sulle sue egregie facoltà raziocinanti, ma in termini di metodologia scientifica e attrezzatura giudiziaria perché le accuse e le
denunce possano essere provate come incontrovertibili. Va acquisita
tramite la discussione la cautela d’obbligo per passare da una verità
percepita come unica e reale dal proprio apparato percettivo a una
verità che ha bisogno di affermarsi anche con gli altri, secondo il
metodo delle prove e delle testimonianze. Che è quello che vogliono
fare Casson e Salvini a proposito delle dirette responsabilità di istituzioni italiane nella strategia della tensione. Resta la libera scelta di
denunciare i persecutori pur non avendo le prove valide per gli altri,
ma questa è una scelta che comporta la responsabilità per le conseguenze previste dalla legge.
Qui ci vuole gente che ha voglia di discutere alla pari con Fabio e
parlare di aspetti metodologici e legali. La psichiatria non ci fa fare
un passo avanti, anzi rischia di portare serio danno a un cervello da
difendere a tutti i costi. Abbiamo infine dalla nostra parte tutti i
docenti universitari che hanno interrogato fino ad ora Fabio nei vari
esami che con gran fatica, e nonostante i trattamenti psichiatrici, sta
portando avanti. Quasi tutti trenta e trenta e lode!
Il Telefono Viola e io personalmente siamo stati accusati spesso
dalla madre di Fabio di impedire i trattamenti psichiatrici, di non
preoccuparci seriamente della salute di suo figlio, di scroccare lo stipendio ai nostri datori di lavoro perché perderemmo tempo facendo
danni alle persone, dando consigli medici che non ci competono e
così via. Dico la madre di Fabio, ma potrei dire la madre di F.G. in
TSO a Latina a causa di una grave forma maniacale di mistica sessuale, o il padre di A.M. in TSO a Roma perché vuole dormire per
terra e rifiuta gli psicofarmaci, e così via. A parte l’ignoranza di
come funziona il volontariato sociale, questi sgarbati signori scaricano su di noi le responsabilità loro e degli psichiatri, che stanno da
anni acchiappando le nuvole a danno della integrità fisica e psichica
di Fabio e di altre giovani vittime.
Alcuni, come Fabio, ritengono, correttamente o scorrettamente,
di non poter prendere bevande al bar perché ci sarebbero i veleni
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ordinati dalla CIA o da altre misteriose entità, ma i loro genitori
sanno bene quante volte gli hanno messo il serenase di nascosto
nelle aranciate, forse su indicazione degli stessi psichiatri! Alcune
mamme ce lo rivelano pensando di trovarci d’accordo con questi
loro raggiri domestici fatti per «il bene» dei figli.
Quello che può succedere dopo trenta gocce di serenase se lo
possono leggere nei fogliettini acclusi al farmaco. E se Fabio, accusando reazioni di neurointossicazione, dopo queste «buone bevande», e volendo escludere la madre per affetto, trovasse una qualche
ragione logica nell’incolpare la macchina persecutoria della CIA? La
costruzione ragionata di una macchina che lo avveleni a distanza,
per cui egli passa a rifiutare qualsiasi bevanda nei bar, non ha niente
a che fare con quanto già sicuramente e segretamente è stato fatto
contro di lui, e con gli effetti dannosi che sarebbero comprovabili?
Non parliamo forse di veleni? Ricordo che un medico, responsabile del Telefono antiveleni del Policlinico Umberto I di Roma,
prima di una trasmissione televisiva sulla telefonia sociale a «Caffè
Italiano», sul primo canale della RAI, mi disse: «Questi psichiatri
fanno dei gran casini; noi dobbiamo disintossicare quelli che loro
intossicano». Così, potrebbe succedere che uno entri nel reparto
antiveleni di un ospedale solo perché è stato ricoverato qualche giorno prima al reparto psichiatrico dello stesso ospedale!
Di fronte a certe accuse devo anche chiarire altri aspetti importanti della nostra impostazione. Molti – genitori, familiari e psichiatri – pensano che noi obblighiamo le persone a non prendere psicofarmaci o a non rivolgersi allo psichiatra. Noi non obblighiamo nessuno ad alcunché. La verità è che siamo per l’assoluta libertà terapeutica e lottiamo perché il diritto alla libertà terapeutica sia sancito
dalle leggi, in quanto è coerente con i princìpi di libertà dichiarati
dalla nostra Costituzione e dai Diritti Universali dell’Uomo. Come
siamo contrari a che persone indifese vengano prese con la forza e
trattate psichiatricamente contro la loro volontà, così egualmente
rispettiamo la volontà della persona a prendere psicofarmaci e a farsi
ricoverare, ma liberamente. Se lo desiderano, li aiutiamo soltanto a
farsi un’idea più precisa delle conseguenze possibili delle loro scelte
sulla base dei prontuari medici ufficiali sui farmaci, e sulla base
delle stesse denunce che ci pervengono da persone che sono state
private della libertà fisica e psicologica negli innumerevoli casi di
TSO. A Roma nel ’94 ci sono stati più di mille TSO. Questo fenomeno è diffuso in tutta Italia. Sono tutti casi di sospensione delle libertà
del cittadino su cui c’è la più completa ignoranza e connivenza
sociale. Vito Totire ci diceva in un recente coordinamento nazionale
che per quanto diffuso sia il TSO, è sintomatico constatare come
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possa anche succedere che in una provincia d’Italia se ne facciano
tanti mentre in un’altra provincia contigua non se ne facciano quasi
per nulla. Cosa vuol dire: che in una città ci sono tanti pazzi e in
un’altra vicina non ce ne sono per nulla? Succede invece che in
qualche città c’è più difesa sociale contro i trattamenti obbligatori
oppure c’è una psichiatria territoriale che giustamente li respinge,
cercando e trovando alternative libere. Combattere il pregiudizio
psichiatrico diffuso e rispettare la libertà delle persone impegna a
trovare soluzioni adeguate e a cambiare i modelli culturali interpretativi della complessità umana.
Ricordo che un pomeriggio, dopo aver discusso con il primario
per telefono e avergli preannunciato che sarei andato a fare visita a
Fabio, mi presentai al reparto. Un infermiere forzuto non mi voleva
aprire la porta perché «il paziente è in TSO e non vuole parlare con
nessuno». Dopo alcune spiegazioni e insistenze mi aprì. Fabio era
ben sveglio e mi aspettava. Cominciammo a parlare. L’infermiere
restò stupito perché aveva inquadrato il rifiuto di Fabio a parlare con
lui come segno della malattia mentale registrata in cartella clinica.
Fabio si rifiutava di parlare anche con gli psichiatri, tanto che il primario mi aveva chiesto lui di andare perché «noi del CEU eravamo
gli unici con cui Fabio potesse parlare»! Contrattai con infermieri e
medico di guardia la possibilità di uscire a passeggio con Fabio perché avremmo parlato meglio... Ce ne uscimmo così tra lo stupore
generale di infermieri e ricoverati. Questi ultimi, sapendo che ero del
Telefono Viola, mi fecero richiesta di tutela. Non solo, ma volevano
seguirci tutti a passeggio. Decisi però di non forzare troppo, anche
se mi sentivo molto contrariato nel portare fuori solo Fabio, sapendo
che gli altri ne avevano egual diritto e possibilità.
Così attraversammo i due o tre cortili degli altri reparti – il reparto psichiatrico è in genere sempre quello più nascosto, inaccessibile
e blindato – e ce ne uscimmo per il paese. Entrammo in un bar. Ci
sedemmo a un tavolino. A Fabio tornava la voglia di parlare.
Aspettò che bevessi prima io, a causa del problema che vi ho raccontato sopra, e poi ci mettemmo a discutere sui problemi della percezione umana e dei modelli culturali interpretativi. Il barista entrò
anche lui nella conversazione. Insomma, a trecento metri di distanza
dal reparto psichiatrico dove era tenuto sottochiave, Fabio era diventato protagonista in un bar di un incontro umano curioso e interessante, e nessuno dei clienti del bar avrebbe mai immaginato che si
trattava di un paziente psichiatrico in TSO!
Fabio ha vissuto sulla pelle gli effetti devastanti della psichiatria
coattiva e ne ha fatto anche un’occasione di riflessione critica.
Intervenendo a qualche nostro convegno, Fabio ha denunciato dura-
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mente l’imposizione costrittiva di psicofarmaci, l’uso dell’elettroshock e la segregazione punitiva in ambienti di tipo carcerario, cliniche, manicomi, reparti psichiatrici. Poiché questi sono fattori che
annullano concretamente la funzione intellettiva umana, la sua
dimensione razionale, Fabio afferma che la psichiatria si contraddice: in nome di una supposta razionalità ideale distrugge di fatto le
facoltà umane raziocinanti.
Da questa contraddizione deriverebbe il carattere falsamente
razionale della psichiatria. Un metodo che si presume razionale ma
che produce situazioni di disagio, di offesa e di vegetalizzazione
delle funzioni intellettive sarebbe una contraddizione in termini, uno
spaventoso paradosso concettuale. L’uso di metodologie apparentemente razionali, ma che provocano effetti disastrosi sul corpo e sullo
spirito, è la spia luminosa che rivela il paradosso irrisolto di tutta
quanta la medicina psichiatrica.
Sono d’accordo con la denuncia di Fabio, tranne laddove giudica
«falsamente razionale» la psichiatria e i suoi metodi. La psichiatria è
un apparato razionale che arriva fino alla ferocia, perché è costruito
su un presupposto inesistente o non dimostrato che è il giudizio di
malato di mente dato ad alcuni individui. Questi non hanno alcun
modo di contrastarlo in quanto il potere di affermare se uno è malato
di mente o no è del solo psichiatra, che intanto si esime dal dimostrarlo. La psichiatria è un apparato razionale costruito su un presupposto non scientifico o non verificabile. Dello psichiatra, che tratta
Fabio come malato di mente e lo vuole curare a forza rischiando di
distruggerlo «nel fisico e nello spirito», dico che non è un malato di
mente neppure lui, ma che agisce razionalmente a partire dal presupposto che gli è proprio, e cioè che Fabio abbia un cervello difettoso
da riparare a tutti i costi.
Abbiamo così due costruzioni razionali su giudizi non verificati e
non verificabili: da un lato la percezione di un presunto sistema persecutorio di cui è attore o vittima Fabio, dall’altro la persecuzione di
una presunta malattia mentale di cui sono attori gli psichiatri. La
grande differenza è che il giudizio psichiatrico inferiorizza immediatamente il soggetto e, rendendolo paziente, lo tratta in modo da
escluderlo dalla società dei «sani».
Il giudizio psichiatrico quindi appartiene alla stessa categoria del
pregiudizio razzista e nazista o di quello della «santa» inquisizione.
Il pregiudizio di una razza superiore porta razionalmente alla distruzione di quella ritenuta inferiore, il pregiudizio di persone, soprattutto donne, possedute dal demonio porta a liberarsene in qualche
modo. Manicomi, cliniche e reparti psichiatrici sono i luoghi deputati alla «soluzione» degli ebrei e delle streghe moderni: i malati di
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mente inventati dalla psichiatria.
Note al capitolo
1. IMAO è la sigla che sta per «inibitori della monoaminossidasi». Si tratta di
potenti psicofarmaci usati per combattere condizioni psicologiche di profonda angoscia e estremo abbattimento che gli psichiatri chiamano «stati maniaco-depressivi».
2. L. A., L’avvenire dura a lungo, Guanda Editore, Parma, 1992, p. 262 e ss.
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VI
MARISA GIUPPONI O GIUSEPPE MAZZINI
Con la storia di Fabio N. abbiamo visto l’uso violento della psichiatria contro le percezioni persecutorie, razionalmente coerenti
anche se non sempre verificabili, oppure più chiaramente indotte
dagli stessi abusi psichiatrici.
Ora passo a parlare di un altro problema che chiamerei quello
delle percezioni di sé, della propria personale identità. Nel capitolo
sull’ecologia umana facevo notare la differenza tra il concetto
ecoantropologico dell’identità personale e quello psichiatrico. Il soggetto umano è considerato nel nostro approccio come un individuo
«complexus», tessuto da mille fili interni e mille fili esterni, con
disegni e equilibri sempre mobili, coordinati instabilmente dalla
coscienza emergente, e soggetto agli apparati repressivi dei codici
culturali e sociali dominanti.
La psichiatria è chiamata a intervenire a favore di una sorta di
semplificazione forzosa dell’identità complessa, soprattutto quando
questa non trova più mediazioni rispetto ai contesti culturali e vitali
del suo habitat oppure rispetto al grado attuale della loro evoluzione.
Abbiamo visto come l’individuo si rapporta con infiniti influssi,
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distanti nel tempo e nello spazio, attraverso modalità di cognizione,
non tutte conosciute. Influssi esterni, senz’altro, ma anche interni,
quelli dell’«infinito piccolo» della sua stessa coscienza.
La percezione quindi del proprio io, della propria identità complessa, può portare, diciamo naturalmente, a viversi in modo diverso, a volte ambivalente, a volte plurivalente. Non solo, può portare
anche a scegliersi una identità per l’esterno, diversa dalle precedenti.
Per comodo, per necessità, oppure come atto di libertà rispetto alle
varie maschere a disposizione nel grande teatro della vita.
E dobbiamo dire che la percezione del sé può portare a scoprire
identità prima sepolte ora invece emergenti. Mentre l’ecologia
umana si rapporta a tutti i mondi e a tutte le individualità possibili e
le legittima di per sé, la psichiatria legittima solo ciò che è già legittimato nel contesto contiguo all’individuo.
Un anno fa seppi da una collega d’ufficio che una famiglia voleva sottoporre di nuovo a TSO una giovane ventenne. La ragione
addotta dai familiari era che la ragazza, che chiamerò Maria, cominciò una mattina a rivelare che lei era la Vergine Maria, poi sempre
più chiaramente che era la Madonna. Dapprima la cosa fu presa con
derisione e con scherno. Poi la rivelazione destò più preoccupazione. Seguirono violente discussioni e poi il primo ricovero nel reparto
psichiatrico di zona.
Ma dopo il TSO, la nuova identità si rafforzò ancor più. Questa
volta Maria se ne stava tutto il giorno chiusa nella sua stanza a pregare. Qualche volta rifiutava il cibo, ma non al punto di denutrirsi
completamente. Ovviamente la nuova identità imponeva a Maria
una condizione ascetica anche rispetto al cibo. Il comportamento era
del tutto mite, il tratto gentile, le emozioni sotto assoluto controllo, il
volto rapito nella contemplazione divina. Non è vero che la psichiatria agisce solo contro i comportamenti aggressivi o irritati.
Non intervenni direttamente contro i nuovi tentativi di TSO, ma
so che non ve ne furono più. Probabilmente quella mia collega, da
me brevemente informata sui problemi del TSO, riuscì ad avere
l’approvazione dei familiari. Tutto sommato anche i familiari dovettero convenire che non era il caso di costringere la figlia a un letto
d’ospedale e all’obbligo di psicofarmaci, risultati inoffensivi sulla
nuova identità e pericolosi per le sue condizioni di salute.
Non conosco gli sviluppi successivi della storia, ma conviene
fare qualche considerazione al riguardo. È noto come famosi psichiatri abbiano parlato di Gesù come di un uomo invasato, un paranoide delirante. Non solo diceva di essere figlio di dio, ma dio lui
stesso... Ora si dà il caso che quasi un miliardo di persone credano la
stessa cosa e, per logica, gli psichiatri dovrebbero trasferire su di essi
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l’accusa di delirio paranoide. I cristiani avrebbero anche l’aggravante di consegnare il loro spirito a un uomo paranoide delirante, di parlare con lui e, cosa psichiatricamente assurda se non raccapricciante,
di nutrirsi della sua carne e del suo sangue nel rito dell’eucaristia
almeno una volta all’anno. Devono credere per dogma nella santissima trinità, cioè che dio è uno e trino nello stesso tempo, che è un
solo dio in tre persone distinte. Ognuna delle tre persone si differenzia solo per la relazione ma non per la sostanza. Si vede che l’idea è
abbastanza complicata, e infatti è il primo mistero della fede per i
cristiani. Per non parlare dei dogmi dell’incarnazione e dell’immacolata concezione. Con mistero della fede si vuole far intendere che
si tratta di cose che devono essere credute un po’ per buona volontà
e molto per un dono stesso di dio, la fede appunto. Certamente non
sono comprensibili con la sola ragione. Chi non ha il dono soprannaturale delle fede non ci arriva.
Il fatto è che centinaia di milioni di persone credono in questi
misteri per potersi considerare cristiani e cattolici. Tra questi vi sono
tantissimi intellettuali, scienziati, scrittori, medici, che trovano normale credere o «dover» credere in queste complesse dottrine, sostenute più da una fede ricevuta insieme con il latte materno che dal
proprio cervello. Mi domando: non dovrebbero e potrebbero essere
accusati tutti di delirio paranoide? Che facciamo, rinchiudiamo un
miliardo di persone perché credono e si affidano a un ordine trascendente? La psichiatria, cioè, non ci aiuterebbe a capire le ragioni e il
comportamento legittimi di buona parte dell’umanità che, cosciente
dei limiti della propria ragione, si affida fiduciosa a ragioni di carattere soprannaturale.
Alcuni cristiani poi, considerati dalla Chiesa come esempio da
imitare, elevati, come si dice, all’onore degli altari, hanno perseguito
una vera e propria fusione tra la propria identità e quella di Cristo.
Le elevazioni mistiche di Teresa d’Avila sono tra le più famose e
ispirano i comportamenti del monachesimo contemplativo più diffuso. Nessuno, leggendo gli scritti di questa mistica, potrebbe seriamente dubitare delle sue capacità di raziocinio e di equilibrio.
Ho conosciuto alcuni cattolici militanti che cercano di «vedere
Gesù nell’altro e di trattarlo quindi come tratterebbero Gesù». Ci
sono molte persone che pensano e che fanno così. E lo fanno con
convinzione e con coerenza a partire, anche qui, da premesse non
ben verificabili con i criteri comuni. La premessa è che esista un dio,
padre di tutti gli esseri viventi. Derivare da questa premessa il fatto
che dio sia presente in tutti gli esseri viventi è logico e razionale.
Così e diversamente, il filosofo Spinoza parte da un concetto
divino di natura e attribuisce una divinità naturale estesa a tutti gli
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esseri viventi. Crede in una divinità senza credere in un dio personale. Come si vede sono tutte deduzioni molto logiche e credibili. Esse
si rifanno a punti di partenza, ipotesi, possibili anche se non chiaramente dimostrabili per tutti. Altrimenti avremmo una sola idea del
mondo, una sola religione e una sola filosofia, senza più discussioni.
Ma anche senza crescita e senza nuove esplorazioni.
La dottrina della reincarnazione è poco diffusa in Occidente, ma
moltissimo in Oriente. La presenza di vecchie vite dentro di noi
sotto nuove forme è un tema importante del buddismo e emerge in
molte coscienze umane a diverse latitudini. Il compito attribuito alle
varie reincarnazioni di una stessa sostanza vitale, è quello di una sua
continua e progressiva purificazione. Nelle religioni indiane il karma
è un insieme di atti ereditati dalle nostre precedenti vite, che si ripetono nella vita presente.
Ma non c’è solo questo aspetto passivo per cui il karma appare
come il destino della vita presente determinata dalle precedenti reincarnazioni. Il karma è anche una nuova possibilità, la nuova forma
di pensieri e azioni appartenuti già ad altre vite precedenti. Ognuno
ha il suo bottino, il suo personale karma, che può venire dai remoti
secoli e millenni, e si ripeterà in nuove incarnazioni affinandosi e
liberandosi della sua parte più materiale e passionale. Le reincarnazioni hanno quindi uno scopo che è quello di diffondere nei secoli il
pensiero umano e le sue azioni, non solo attraverso libri e altra documentazione, ma anche attraverso nuove forme di esistenza personale
molteplici e contemporanee. Il progresso della identità spirituale, il
suo perfezionamento tramite il lavorio di nuove esistenze è ritenuto
una cosa credibile e desiderabile da centinaia di milioni di persone
in India e nell’Estremo Oriente.
Ma se a Roma qualcuno pensa di essere la reincarnazione di un
personaggio già vissuto, state pur sicuri che non avrà vita facile. La
psichiatria lo comincerà a scandagliare come un pericoloso marziano. Se poi è una donna i rischi di essere bollata come malata di
mente e trattata di conseguenza sono molto più alti.
Una mia corrispondente, insegnante di scuola elementare in una
cittadina di mare della provincia di Latina, vuole adesso rivelare,
anche dalle pagine di questo libro, che lei pensa seriamente di essere
Giuseppe Mazzini, e che non desidera assolutamente per questo
subire trattamenti sanitari obbligatori o inquisizioni psichiatriche e
ostracismi sociali.
Fin dal 1992, dopo un incontro di ecologia umana sul problema
delle identità complesse, mi prese da parte e mi diede molti fogli
scritti, lettere, articoli, fotocopie di libri, materiale che aveva a che
fare con la sua reale identità interna. Mi rivelò che la sua vita era
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legata a quella di Platone e di Mazzini. Messa così la cosa non mi
stupì più di tanto. L’avevo presa per una dichiarazione di preferenza
filosofica o politica. Ma Marisa Giupponi, questo è il suo vero nome
che lei stessa vuole rivelare, non stava parlando in modo figurato
come io mi ero affrettato a interpretare. Marisa è una persona di
grande sensibilità e intelligenza, ma soprattutto, mi sembra di capire,
in grado di percepire da poche parole e dal tono della tua voce se stai
facendo solo un discorso di circostanza o se sei realmente attento al
contenuto del suo dire. «Alessio, non sto scherzando, io sono veramente Giuseppe Mazzini, sono una sua nuova forma di esistenza».
Così parlammo del karma, di quella continuità personale tra passato
e presente, propria delle religioni e filosofie indiane, e ora patrimonio delle cosiddette scienze dell’occulto.
La mia opinione al riguardo è quella dell’identità complessa di
cui ho accennato nelle pagine sull’ecologia umana, e credo che in
questa complessità possa rientrare benissimo l’eredità e la trasmigrazione del karma, ma senza obbligarla a forme specifiche e «ridotte»
di esistenza personale. Cioè nessuno può dimostrare di avere dentro
di sé tutta l’eredità possibile di un’esistenza precedente. Mentre
invece è molto più probabile che un’esistenza attuale si voglia
conformare del tutto a una precedente, o a più esistenze precedenti.
D’altronde è del tutto astratto parlare della propria identità come di
un prodotto con esclusiva origine personale, in quanto ogni identità
è il risultato di azioni continue conformi a modelli interni o esterni.
Ogni condotta umana è conforme a princìpi e modelli e ciò che
rende «autentica» una identità non è la sua assoluta indipendenza da
modelli ma il libero conformarsi o non conformarsi ad essi. I casi di
cosiddetto invasamento o interiorizzazione possono interpretarsi
come processi di forte conformazione a modelli. Processi tipici,
come dicevo, nelle manifestazioni dell’ascesi e della mistica religiose e in tutti i fenomeni di trance legati a ritualità ritmo-fisiche coinvolgenti. La dottrina della reincarnazione attribuisce però alla
sostanza vitale anche di conformarsi a nuove e progressive forme di
esistenza personali una volta che la prima esistenza si spenga. I due
processi di conformazione non sono antitetici. Così uno potrebbe
pensare di essere «come» Napoleone a forza di conformarsi al suo
modello (camminata, tono, parole effettivamente dette, rivisitazione
delle battaglie e così via) o pensare che Napoleone stia rivivendo in
lui un’altra vita, in parte uguale alla precedente e in parte diversa
almeno come nuova occasione. Il fenomeno dei fan è molto noto. Si
può discutere e dissentire su queste forme di autospossessamento a
favore di «oggetti» esterni, di identificazione in nuovi idoli, ma non
si possono tacciare di incoscienti e irrazionali. Migliaia di ragazzine
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impazzite per i Take That, recitano oggi i titoli di giornali e tv, ma
sappiamo che queste ragazzine mettono in atto comportamenti tenacemente e lucidamente perseguiti. Le mamme, ora disperate, lo
facevano con i Beatles: atti volontari di abbandono e di fusione con
l’idolo, il mito, o semplicemente la persona amata.
Stiamo parlando, come vedete, di fenomeni quali l’amore e
l’innamoramento, cioè delle esperienze più belle della vita. Sono
quelle esperienze che quando ci vedono coinvolti fanno dire agli
altri: «È impazzito! Pensa solo a quella lì, non vede altro che lei».
Pronti anche noi a dare del pazzo agli altri quando perdono la testa
per un loro amore, un qualsiasi oggetto d’amore. Invece si trova
molto logico affermare quando due si sposano: «Ora siete una sola
carne, siete una cosa sola». E dirsi reciprocamente: «Tu sei la mia
vita» non è mai considerato falso dai due protagonisti dell’innamoramento.
Ora torniamo a Marisa. Lei, lui, pensa di essere la reincarnazione
di Platone (2.500 anni fa) attraverso quella più recente di Giuseppe
Mazzini (150 anni fa, 1805 - 1872). Accostiamoci con attenzione al
suo percorso.
Il dialogo che segue si rifà a risposte, scritti e documenti inviatimi
dalla stessa Marisa Giupponi.
- Marisa, qual è il tuo pensiero su di te, oggi?
- Credo nella reincarnazione e in seguito ad esperienze extrasensoriali, avute negli anni 1978 e 1980, sono pienamente convinta di
reincarnare il pensiero di Platone, poi Mazzini, oggi me stessa.
- Cosa furono queste esperienze extrasensoriali?
- Il 1978 fu per me l’anno di una crisi coniugale. Una notte non
potevo dormire. Ero tormentata da una passione segreta. Alle tre, nel
cuore della notte, mi alzai, andai nel soggiorno. Accesi la Tv.
- Vedesti qualcosa di strano sullo schermo?
- Io vidi un moderno Risorgimento con me come protagonista.
Vidi Mazzini, Garibaldi e i loro amici, uomini e donne dell’anno
2000, tornare tutti sulla Terra (reincarnazione) ed impegnarsi tutti
nell’attuale movimento per una politica educativa che vedrà
nell’Italia la protagonista dell’Europa, agli inizi del terzo millennio.
Nella seconda mezz’ora di questo programma televisivo personale
io ricevetti tutti gli input per capire le mie ultime vite vissute (cinque).
- Cosa cambiò nella tua vita questa esperienza?
- Cambiò tutto. Il giorno dopo fu uno dei più felici della mia vita.
Pensa, conobbi tutta la teoria di Mazzini senza averla letta.
- Sì, ma con i tuoi parenti come la mettesti?
- Quell’episodio extrasensoriale ha segnato tutta la mia vita.
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Lasciai mio marito, la mia famiglia, cominciai a vivere una vita
completamente indipendente, da singola, dedicandomi all’educazione del popolo attraverso il mio lavoro di insegnante, e mi impegnai
nel volontariato con grande passione.
- Sei sempre presa da questi impegni totalizzanti?
- Mi sento sempre presa dalla nuova missione, ma non solo con
l’attività. Coltivo anche lo studio, la concentrazione, la meditazione,
la preghiera, il silenzio e la solitudine nei momenti liberi da impegni,
tutti i giorni e per alcune ore.
- Ma cosa ti fa essere così ottimista oggi? Dove vedi i segni di un
nuovo risorgimento? Io non la vedo così rosea, né per l’Italia né per
il mondo.
- Tutt’altro. Il movimento che comunemente chiamiamo New
Age è un grande movimento di idealismo, di proporzioni mondiali.
Sta cominciando ad affermarsi e nei prossimi decenni ci porterà alle
«Repubbliche filosofico religiose» (ideale platonico mazziniano).
Ciò accadrà nei Paesi più emancipati del mondo (Occidente, Giappone). Ritengo che stiamo vivendo esattamente questo periodo e
vedo i fenomeni dell’occulto e l’interesse verso queste discipline
destinato ad aumentare.
- E che funzione avrebbe la reincarnazione in tutto questo?
- La reincarnazione può spiegarci molte cose. Secondo il mio
pensiero molti geni del passato sono oggi vivi e veri sulla Terra,
anche se non li riconosciamo perché hanno connotati diversi. I loro
pensieri sono tutti in comunicazione in questo momento storico,
dopo un secolo e più di letargo...
- Dal Risorgimento...
- Infatti bisogna ritornare al Risorgimento per trovare un’epoca
così viva come quella che stiamo vivendo. Nel campo dei mass
media sono presenti molti geni di famose scuole artistiche del passato e di famose scuole filosofico religiose. I loro pensieri sono tutti in
comunicazione, anche con il mio pensiero e si esprimono con
immagini, scritte, simboli, testi.
- Come si è sviluppata in te la certezza di reincarnare il genio di
Mazzini?
- Dopo quegli episodi extrasensoriali cominciai a leggere e studiare Mazzini e Platone, e vi trovai una perfetta sintonia con il mio
pensiero. Oggi io sono convinta di essere Mazzini nella sua nuova
vita. Sono convinta di incarnare il pensiero del Mazzini, il quale poi
derivò le sue idee, di 150 anni fa, dal pensiero elaborato nelle precedenti incarnazioni.
- Ma ti sei mai confrontata con le reazioni degli altri?
- Mi confronto ma non posso rinnegare la mia chiara visione. So
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che questa mia convinzione incontra scetticismo e indifferenza. Dal
1990, dopo gli studi personali anche su Mazzini e Platone, sono
ancora più sicura delle mie idee perché i fatti hanno cominciato a
verificarsi. Ho cominciato a scrivere a intellettuali italiani, a trasmissioni radiofoniche e televisive, aperte al pubblico e che affrontano
questi argomenti.
- Hai avuto risposte interessate...
- No, ho ricevuto poche ed evasive risposte. Ma ciò nulla toglie
alla mia fede, che si rafforza sempre più man mano che questa cultura aumenta e che gli eventi si verificano.
- Senti Marisa, sinceramente io non vedo nel mondo di oggi
segnali chiari e univoci che farebbero pensare a una nuova epoca di
grande progresso e di universale benessere. Le cose continuano a
andare bene solo per una minoranza sul pianeta. La grande maggioranza se non si fa la guerra, muore nell’abbandono e nell’ignoranza
da parte dei popoli più potenti o più fortunati.
- Tu dubiti per questo delle mie convinzioni? Tu mi ascolti seriamente, ma cosa pensi?
- No, tutt’altro, non dubito delle tue convinzioni. La reincarnazione è una credenza legittima e mi trova possibilista. In qualche modo,
anche se diverso dal tuo, penso che le vite umane si comunichino e
si ripetano nell’oggi e nel domani. Personalmente credo che una vita
non si riproduca interamente in un’altra esistenza, ma in molte come
per frazionamento. Penso che nessuno possa presumere di reincarnare da solo tutto e soltanto il pensiero di un personaggio storico
precedente. Sono poi contrario a ogni forma di cieco destino che
diminuisca il valore della libera scelta dell’individuo presente, concreto e irripetibile nella sua attuale espressione. Tu per me non sei
Mazzini. Sei una che crede di esserlo. Segui e rilanci il suo pensiero,
hai una visione impegnata, anche se mi sembra ingenuamente ottimista, ma per me questo è importante. Ovviamente se tu scegli di
essere Mazzini, o di essere «anche» Mazzini, io mi rapporto con
tutte le tue identità, ma senza necessariamente subirle.
- Subirle come?
- Sì, non mi piace quel tuo riferimento a sentirti il leader di un
popolo...
- (seguendo un suo filo) Sì, è vero. Dobbiamo applicare sempre
meglio il programma «pensiero/azione» e sempre meno chiacchiere
e affari inconcludenti, come se ne sono fatti troppi nei decenni passati. La parola subirà una grande sintesi e il linguaggio più attuale
verso la fine del secolo sarà di tipo documentario e pubblicitario,
perché estremamente sintetico e convincente.
- E il tuo ruolo sarebbe...
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- Io mi sento il leader di questo popolo, un leader nascosto oggi
come ieri, un leader che questa volta verrà alla luce solo negli ultimi
anni dell’attuale tappa terrena. Ma questo senza prepotenza o autoritarismo, come tu temi. E del resto tu sai che il Mazzini fu anch’egli
incompreso per tutta la vita e diramò il suo pensiero dalle carceri e
dai luoghi dell’esilio fino agli ultimi anni della sua esistenza.
Rimane certo un fatto che i grandi cambiamenti della storia sono
spesso partiti da luoghi marginali e quasi mai dai palazzi del potere
o dalla cultura ufficializzata, dove le situazioni si stanno sempre più
complicando.
- Su questo sono perfettamente d’accordo. Scusa Marisa, penso
che avrai fatto spiacevoli incontri con la psichiatria per queste tue
convinzioni.
- Spiacevoli e piacevoli. Dell’assistenza sanitaria che ho avuto in
questi eventi debbo criticare i due ricoveri ospedalieri del luglio ’78
e del novembre ’80 e le precarie condizioni dell’ospedale di Latina
(reparto Centro di Igiene Mentale). Sono stati prima di tutto due forzature, avvenute contrariamente alla mia volontà, dopo che con una
iniezione di valium 100 mi era stata tolta ogni possibilità di reagire.
Sono stata poi caricata su un’ambulanza, come un sacco di patate, e
mandata, da sola, in ospedale. Nei giorni seguenti sono stata visitata
dagli amici.
- Chi dispose i tuoi ricoveri coatti?
- Nel ’78 il medico della mutua, presenti mia madre ed alcune
persone che si trovavano a casa mia, le quali non tennero assolutamente conto della mia volontà. Mia madre, disposto il ricovero, se
ne andò, tornando a Fiuggi, dove stava facendo la cura termale.
Nell’80 un’amica che si occupò di questo mio caso si attenne a quella prassi precedente. Dopo alcuni giorni in cui stetti a casa sua, risolse il problema con il ricovero. Tengo comunque a precisarti che essa
è veramente una mia amica e che in quei giorni, probabilmente, ha
dovuto affrontare un problema superiore alla sua possibilità di risolverlo.
- Ricordi qual era il comportamento che presero a pretesto per il
tuo ricovero?
- L’episodio extrasensoriale, di cui ti ho parlato, mi poneva in un
grande stato di eccitazione. Io però già allora ero convinta che quella
forte condizione emotiva si sarebbe ridimensionata da sola
nell’ambito di pochi giorni, come infatti è avvenuto.
- Ma possono dire che ti sei calmata grazie agli psicofarmaci!
- No, non lo possono dire. Oppure solo a metà. Nei due ricoveri,
infatti, raramente ho preso i forti farmaci che avrebbero voluto somministrarmi, in quanto sistematicamente li facevo sparire (Largactil,
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Serenase, Disipal, in pillole). Ho subìto solo i trattamenti per intramuscolo e endovena.
- Non è poco. Come ti spieghi ora esattamente la tua forte condizione emotiva di quei momenti?
- Ci voleva poco a capire. Bastava entrare un attimo nella mia
nuova coscienza. Per forza dovevo essere «eccitata». In una sola
notte avevo recuperato una grande quantità di conoscenze. Conoscenze sia relative al mio passato (Platone) sia al futuro dell’umanità
(capacità profetiche).
- Dopo questi due ricoveri coatti come si è evoluto il tuo rapporto
con la psichiatria?
- In maniera eccellente. I medici psichiatri hanno collaborato con
me per ordinare questo mio pensiero, lasciando ad esso gli stessi
contenuti e convinzioni, ma ridimensionandone l’aggressività verbale e le troppo forti pulsioni. Questo nel corso di 18 anni di terapie
(analitiche e talvolta farmacologiche in piccole dosi).
- Pensi quindi che ci possano essere buoni rapporti con gli psichiatri?
- Solo se si pongono su un piano di parità e di rispetto della
libertà fisica e di opinione altrui. È raro, ma con me, dopo quei due
brutti episodi, è successo.
- Prendi ancora psicofarmaci?
- No, oggi i farmaci non sono più necessari e ritengo di aver raggiunto una condizione di perfetto equilibrio, fatto di forti ideali in
cui credo e di una grande attenzione alla vita quotidiana e ai suoi
bisogni.
- E come te la cavi oggi con la tua scelta di solitudine?
- La mia vita non è facile in quanto io vivo da sola, completamente staccata da qualsiasi parente di origine o acquisito. Da sola ho
dovuto gestire i miei anni passati che non sono stati facili perché ero
continuamente fraintesa. Ora cerco di frequentare e di parlare delle
mie convinzioni con le persone più sensibili.
- Hai scelto tu di vivere da sola o sono gli altri che ti hanno
abbandonato?
- No, assolutamente. Io ho fatto questa scelta e tra l’altro andando
in una città che non è quella mia d’origine. L’ho fatta per aderire
meglio ai miei princìpi di libertà e di indipendenza, nonché di unità,
unità uomo/donna che provvede da sola a tutti i suoi bisogni e che
gestisce da sola tutta la sua libertà.
- Devo dire che hai avuto molto coraggio. La tua è una scelta
controcorrente. Perché pensi che la maggioranza sia schiava del
conformismo?
- La gente cade nel condizionamento e nel conformismo perché
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manca di conoscenze. Non si ha il coraggio necessario per uscir
fuori da certi ruoli che la famiglia e la società hanno costruito per
noi. La voce corrente oggi ci propone, come unici valori cui fare
riferimento, il denaro, l’utilitarismo, la mancanza di rispetto, il
degrado della Terra, l’erudizione fine a se stessa, l’eccesso di parola,
la chiacchiera.
- E tuttavia spesso pensano di essere nella vera realtà, quella che
si tocca con le mani e si manovra con le parole e con gli affari...
- No, la verità è oltre le apparenze. Le persone che credono di
essere libere in realtà sono come dei pesci in un acquario, incapaci
di scoprire gli stupendi fondali naturali. I condizionamenti familiari
e sociali hanno posto la maggior parte delle persone nell’acquario.
Non sono più capaci di uscirne. Ci vuole molto coraggio per non
porre il modello sociale a modello della propria esistenza.
- Marisa, ho molti dubbi sulla reincarnazione, così come tu la
vivi, e non so se tu sia un nuovo Mazzini, ma sono d’accordo con
molte tue idee. Questa dell’anticonformismo per esempio...
- Ci vuole molto coraggio...
- Per te, per te in qualità di Mazzini, su cosa bisogna far leva per
avere coraggio, oggi?
- Ti rispondo invece con Platone... «Coraggio è conoscere le cose
temibili ed evitarle». Il maggiore coraggio viene dalla maggiore
conoscenza. E sull’anticonformismo ti ricordo un passo di Platone
dal capitolo quarto del Critone: «Non consentirò mai a quello che
mi proponi, anche se la potenza del volgo vorrà farmi paura come si
fa ai ragazzi... Ad alcune di queste opinioni bisogna far mente, ad
altre non bisogna. Delle opinioni degli uomini alcune sono da tenere
in gran conto, altre in nessuno».
- Questa tua scelta Marisa è molto coraggiosa e coerente con il
tuo pensiero. Dove trovi realmente la tua forza?
- La mia forza viene dagli ideali dell’educazione, dell’associazionismo e della comunicazione del pensiero, nei quali credo moltissimo e per i quali vivo con forte passionalità. Ritengo che il pensiero
uno, libero, indipendente e repubblicano sia la mèta per tutti noi.
- Cosa vedi di tuo nel Telefono Viola?
- Una grande e infaticabile lotta per la libertà del pensiero umano
contro ogni costrizione. E questo è il mio ideale. E questo è
Mazzini!
E così ci lasciamo in piena simbiosi con il nuovo Mazzini.
«Marisa, ma devo andare a rileggermi Mazzini?» le grido. «Sì, fai
bene, però ci sono anch’io!»1.
113
Note al capitolo
1. Marisa Giupponi intrattiene corrispondenza con intellettuali, operatori di mass
media, docenti universitari. I suoi punti di vista sono contenuti in alcune rubriche
giornalistiche (ad esempio «Dossier») e in vari scritti non pubblicati, ma che lei spedisce a chi è realmente interessato. Diffida infatti di persone curiose e ciarlatane. Il
suo indirizzo è: Viale Europa 211, 04019 Terracina (LT).
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VII
TIZIANA P.
UNA DIVERSA PER L’ELETTROSHOCK
Tiziana1 ha saputo di noi dalle amiche del Telefono Rosa e di
«Differenza Donna», associazioni che combattono la violenza contro le donne. È una ragazza spigliatissima, di 26 anni. Arriva quasi
come un fulmine nel sottoscala della libreria Anomalia, dove ci
siamo trasferiti da qualche settimana. Per poco non cade dalla scaletta di legno a chiocciola. Mi sta subito simpatica. Tiziana ha un linguaggio diretto, senza mediazioni. Ha una parlata romana di borgata: «Ma che me stai a di’, seh, me ci hanno trovata, ‘sti stronzi, scusa
sa’, ma questi m’hanno rovinato, m’hanno rovinato». Mi apre sotto
gli occhi una cartella rossa gonfia di fogli. Cartelle cliniche, prescrizioni di farmaci, sentenze di tribunali, certificati di recenti maltrattamenti subiti dal fratello, ma anche dal cognato. «Sto stronzo, ma hai
capito? le mani addosso a me? t’hai capito? se n’abusano. Me vòjono fa ffori. Se vòjono pijà tutto, li sordi, la casa, le terre. A me? A
me me vòjono mette ar manicomio giudiziario! Ecco ‘o vedi qua.
Scusi ‘a foga, ma ci ho ‘na rabbia. ‘O so, nun ci avevo l’appuntamento. Ma è urgente. Scusa, scusi. Anvedi qua ‘ste foto. Vedi a dif-
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ferenza? Qui è prima der ricovero a Villa dei Fiori, e qua è doppo».
Guardo le foto. Effettivamente nel dopo clinica Tiziana è ingrassata
il doppio, ha la faccia tutta gonfia e butterata, tratti che ora, dopo
quattro anni, non sono del tutto scomparsi salvo il ritorno a una
maggiore magrezza.
«Pure a Villa dei Fiori t’hanno portata?» le chiedo. «Certo, da
quer criminale di Valducci». «Allora t’hanno fatto pure gli elettroshock?». «De questo so proprio sicura». «Ma hai dato il consenso
scritto?» le chiedo. «Er consenso, er consenso, sor Alè, ma quale
consenso! Io nun capivo gnente. Stavo ‘mbriaca de medicine. Me ne
davano fino a nun farme arzà più dar letto. Nun capivo manco quello che je dicevo con la bocca. Na vorta m’hanno fatto firmà un fojo.
Certe vorte me svejavo tardi e nun me recurdavo manco come me
chiamavo». «Tiziana, questi problemi di memoria ce li hai ancora
oggi?» le domando. «Certe cose me so tornate a mente, ma certe
artre no. Pensa, ‘nsacco de vorte dovevo chiamà ‘n’ amica mia de
ragazzina per farmi ricordà quello che avevo fatto da piccola e quello che nunn’avevo fatto».
Ho letto in questi giorni la documentazione di Tiziana. Un primo
vaglio prima di passarla allo studio legale. Vale la pena che riporti
qualche stralcio di questa odissea che si potrebbe riassumere così:
come una ragazza diversa e sfortunata viene definita prima disfasica,
poi borderline, poi depressa; poi è sottoposta a elettroshock con il
consenso di madre e fratelli; poi è da questi respinta e maltrattata per
le sue comprensibili reazioni aggressive, e quindi denunciata dai
genitori al tribunale. Il Gip la salva in extremis da un minacciato
internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, in cambio però
della infamante marchiatura «per difetto totale di mente al momento
dei fatti», in quanto «una esauriente e motivata relazione medico psichiatrica ha infatti ritenuto essersi realizzata, all’epoca dei fatti, nella
P. una infermità mentale (stato dissociativo in soggetto borderline)
tale da escludere ogni capacità di intendere e di volere».
Attualmente sembra che ci siano interessi ereditari su case di
famiglia. Madre e fratelli avrebbero facile gioco nell’escludere
Tiziana dai suoi diritti ereditari rifacendosi a quei precedenti ricoveri
psichiatrici, da loro stessi favoriti, e alla stessa sentenza del 13 aprile
’92 di «non luogo a procedere per difetto totale di mente». La
matassa quindi è molto ingarbugliata e c’è il rischio che per difendere legittimi interessi si debba respingere il giudizio psichiatrico di
«difetto totale di mente» e che per respingere questo si possa incorrere in quelle sanzioni penali che il Gip intese evitare. Ora la matassa è ingarbugliata perché fin dall’inizio la famiglia ha risposto in termini violenti e segregativi alle manifestazioni della diversità espres-
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siva e comportamentale di Tiziana. Gli psichiatri poi hanno dato
subito una grossa mano ai membri della famiglia che volevano
ridurre al silenzio una adolescente schietta e piena di vita. Dalla
pelle un po’ gonfia e molto provata di Tiziana, ora con 26 anni,
ancora traspira la freschezza del carattere, l’esplosione continua di
immagini fantastiche e di desideri impossibili da realizzare, ma
anche il buon senso, sapere che «prima di andare dall’avvocato,
dovemo capì tutto pe’ filo e pe’ segno». «Borderline»? Cosa
dovrebbe significare per la psichiatria questa parola, questa etichetta? Borderline per lo psichiatra è «un soggetto» che cammina con
passo incerto su un bordo, una linea di confine, un esile ciglio tra
l’abisso della pazzia e la verde prateria della saggezza... Quindi a
momenti è normale, a momenti è infermo di mente.
Se il cosiddetto borderline perde un giorno la testa per tante e
sacrosante ragioni, i familiari troveranno psichiatri pronti ad affermare che si è verificata «una sindrome dissociativa in un soggetto
borderline», ed ecco che quella destinazione di malato di mente, da
rinchiudere con la forza, che covava su quel bordo ora finalmente si
compie. Il borderline è caduto nel burrone della pazzia perdendo la
maschera della sua apparente e incerta normalità. E una volta giù in
fondo al precipizio viene preso in consegna da chi si intende di
mistero della psiche...
Qualche commento va fatto anche sull’altra diagnosi, quella di
stato disfasico, con cui si apre la sua prima cartella clinica che fra
poco leggerete. La disfasia letteralmente starebbe a indicare una
interruzione del linguaggio, che psichiatricamente diventa «un
disturbo dell’espressione orale». La psichiatria attribuisce caratteristiche di disturbo organico (altre volte parla di disturbo funzionale,
ma i guasti li va a cercare sempre nel cervello della «non funzionante») a reazioni e comportamenti che sarebbero ben comprensibili se
ci si immedesimasse nella situazione di una ragazza di vent’anni.
Tiziana, già all’età del primo arresto psichiatrico, si porta dietro anni
e anni di conflitto con la madre e con i fratelli per via delle sue idee
e del suo temperamento, poco disposti ad umiliarsi alla prepotenza
dei parenti. Spesso adolescenti e persone molto giovani, soprattutto
donne, di carattere indomito e trasgressivo, in situazione di forte
pressione ambientale rinunciano a parlare del tutto o in parte. Il rifiuto di parlare viene tacciato di mutacismo o di disfasia, che sono
segni di malattia mentale nella persona, la quale diventa da subito un
«paziente psichiatrico» e come tale viene trattato. In effetti se
l’ambiente non si modifica fino a creare una condizione di ascolto e
di fiducia, le «Tiziane» resteranno mute, afasiche o disfasiche.
L’ambiente psichiatrico dei reparti ospedalieri e delle cliniche priva-
117
te riproduce e esalta la condizione di inferiorità in cui erano già collocate in famiglia. Questa condizione di protesta tramite il silenzio o
il parlare a vanvera, se viene impedita o punita in vario modo, può
trasformarsi coscientemente anche in aggressività e autoaggressività
con esplosioni di collera verso gli oggetti, le persone o se stessi.
Questa esplosione, disperata ma ripeto cosciente, a sua volta sarà
interpretata come una «crisi psicotica» e diventerà un pretesto più
facile della precedente «disfasia» per un nuovo TSO con aumento dei
dosaggi di neurolettici, e così via in una spirale senza uscite.
Ho avuto già due incontri con Tiziana, e qualche volta anche alla
presenza di altri operatori, e devo dire che fortunatamente le dosi
massicce di psicofarmaci, i prolungati trattamenti obbligatori, le catture, i maltrattamenti fisici, gli elettroshock non hanno intaccato la
sostanza della sua personalità. Tiziana da tempo non prende più psicofarmaci e sta recuperando le sue capacità di dinamismo e di
comunicazione. Spero che questo lento e faticoso recupero non sia
più interrotto da trattamenti psichiatrici obbligatori.
Seguiamo alcuni passaggi di questa storia così come registrati
dalle cartelle cliniche, facendo qualche considerazione sugli aspetti
della realtà che sono stati invece rimossi o per nulla considerati dalle
narrazioni psichiatriche.
Dalla cartella clinica del reparto psichiatrico dell’Ospedale S.
Giovanni di Roma:
Nome: P. Tiziana
età: nata 17/9/69
tel xxxxxx
USL RM 4
Ospedale S. Giovanni
Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura
Cartella Clinica 25/1
Entrata 20. XI. 89. Uscita 24. XI. 89
Diagnosi di ammissione: Stato disfasico
Diagnosi all’uscita. Malattia principale:
Disturbo di personalità
(personalità ossessiva)
Anamnesi
La paziente è stata ricoverata nella serata di ieri dall’Accettazione medica con consulenza psichiatrica per stato di agitazione. Questa mattina è
stata dimessa dall’Astanteria. Dimessa viene portata dai familiari presso
la nostra Accettazione.
Fin da bambina eccitabile con grosse problematiche di relazione con la
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propria madre, scarso profitto scolastico (ha ripetuto per 3 volte alcuni
anni della scuola media inferiore), insofferente verso tutto ciò che rappresenti un’istituzione. All’età di 11 anni comincia ad essere seguita
dall’Istituto di neuropsichiatria infantile dell’Università e all’età di 15 aa.
si rese necessario il ricovero in tale Istituto per una degenza di circa 20
gg. È stata trattata con neurolettici e sembra con sedute di terapia familiare.
Tutto ciò non ha modificato di molto il comportamento della paz. anzi
negli ultimi tempi si sono accentuati sia i comportamenti fobico-ossessivi (non tocca i rubinetti perché sporchi, non mangia perché c’è la polvere, etc.), sia le crisi pantoclastiche che hanno portato la paz. alla distruzione di varie suppellettili e mobili di casa. Spesso manifestava e manifesta un comportamento di aggressività non solo verbale nei confronti
soprattutto della madre.
Non lavora, ha smesso da tempo gli studi, trascorre il tempo senza
un’occupazione (per esempio le faccende domestiche), non si apprezza
una pur minima progettualità futura, spesso durante il colloquio mostra
una labilità emotiva per passare bruscamente ad una ilarità non sempre
ben motivata. L’ideazione si svolge corretta per contenuto e forma ma si
apprezza in essa una povertà di contenuti. Non sono presenti, al momento, disturbi dispercettivi; nel passato vengono riferite allucinazioni visive
(! ?) [nota dello psichiatra estensore].
Si concorda con la paz. un ricovero di qualche giorno per una più attenta
osservazione e valutazione del caso.
Osservazioni e Terapia
Entra nel reparto, inizia terapia (Largactil, 25, 1 c per 3).
Contrariata per il ricovero, attribuisce ogni responsabilità alla madre,
chiede di essere dimessa. Si richiede un colloquio con i familiari.
I familiari fanno presente la difficile situazione ambientale della p. e
l’anomalia del rapporto con la madre che sarebbe totalmente succube
della ragazza, che ultimamente avrebbe accentuato i propri comportamenti ossessivi e le crisi disfasiche durante le quali rompe ogni oggetto
in casa. I familiari desiderano condurre la p. in una casa di cura privata
per allontanarla qualche tempo dalla madre. Sono venuti gli operatori del
C.S.M. a prendere contatti con la p.; tranquilla, in attesa del trasferimento in casa di cura privata come da desiderio dei familiari.
Vengono i familiari a prendere la p. che si dimette.
Firma dello psichiatra.
Dalla cartella clinica di Villa dei Fiori intestata a Tiziana P.:
anni 20
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Diagnosi definitiva: Disturbi della personalità
Entrata 24/11/89
Diario Cartella Clinica
24/11/89. La p. entra in clinica alle ore 12 accompagnata. Nubile, senza
occupazione, vive con la sola madre in quanto una sorella più grande è
sposata ed un fratello ed il padre sono andati via da casa a causa del difficile clima familiare venutosi ad instaurare. La paziente dopo alcune
bocciature in II e III media ha lasciato gli studi senza ottenere la licenza,
ha iniziato diversi lavori, lasciandoli poi anche dopo poche ore, senza un
motivo specifico, ma magari anche solo perché si era «scocciata». Circa
cinque anni fa alla luce di queste difficoltà fu visitata da specialisti di
Neuropsichiatria infantile, da allora è stata visitata da altri senza però che
si delineasse una diagnosi precisa. A detta della paziente tutte le difficoltà si originano dal rapporto conflittuale esistente con la madre che la
perseguita obbligandola a farsi visitare. I familiari riferiscono viceversa
di intollerabili episodi di violenza orale e fisica nei confronti della madre
e degli altri parenti obbligati ad allontanarsi, di ripetute distruzioni di
arredamenti e suppellettili e di uno stile di vita talvolta bizzarro. Al culmine di uno di questi episodi è stata ricoverata al S. Giovanni da dove
questa mattina è stata dimessa. Ha effettuato una cura con neurolettici
che però non sa bene specificare. Al colloquio è sufficientemente tranquilla, il pensiero è adeguato nella prima e non sembra presentare contenuti deliranti; una volta fatti entrare alcuni parenti si evidenzia una notevole irritabilità ed impulsività. Non beve alcolici, nega di aver mai
assunto sostanze stupefacenti.
5/12/89. La p. è congrua, adeguata; il tono dell’umore è un po’ elevato,
è presente una certa quota d’ansia.
11/12/89. La paziente è decisamente più tranquilla e serena. Tono
dell’umore stabile, sonno regolare.
22/12/89. Dimessa.
È interessante notare come anche lo psichiatra riscontri congruità
e tranquillità fin dal primo colloquio. Perché allora la conferma del
ricovero? Il fatto che Tiziana faccia risalire tutto al pessimo rapporto
con la madre non condiziona minimamente il prosieguo del trattamento, è sempre lei che deve essere curata e che deve cambiare. Il
fatto che all’apparire dei familiari Tiziana cambi umore e diventi
irritabile non induce ad alcuna riflessione nello psichiatra: è la ragazza che non «funziona» bene. La causa per cui Tiziana, già tranquilla
e «congrua» al primo colloquio, sia «decisamente più tranquilla» al
ventottesimo giorno di trattamento deve essere cercata non in maturazioni di nuovi e più avanzati equilibri nei rapporti con madre e fratelli, rapporti che nessun psichiatra in questo caso si è messo a perse-
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guire, ma nella pesante psichiatrizzazione a cui viene costretta.
Dalla cartella clinica risulta infatti che contro i fantomatici
«disturbi della personalità» viene organizzata una immediata spedizione punitiva contro il cervello della giovane donna. Ogni giorno,
per 26 giorni su trenta del suo ricovero, Tiziana deve ingoiare (con
la forza, non dimentichiamolo mai!) tre compresse di Depakim 200,
2 compresse di Mellerette, tre di Frisium, 3 gocce di Serenase, una
compressa di Melleril 25. Come se non bastassero si mandano altri
cavalli contro l’irriducibile ragazza. Dopo undici giorni si affiancano
nella battaglia quotidiana 60 gocce di Diidergott. Al 26° giorno di
ricovero si toglie il Mellerette e si triplicano il Serenase e il Melleril.
Gli psichiatri di Villa dei Fiori diretti dal noto Valducci non
dovevano essere molto «tranquilli». Tormentati dal dubbio di non
poter vincere la battaglia contro questa ragazzina, messa nelle loro
mani da parenti violenti e sconsiderati, non hanno tralasciato alcuno
strumento del loro armamentario. Quindi due iniezioni di Moditen
Depot, a lento e persistente rilascio, la prima il quarto e la seconda il
ventiquattresimo giorno di ricovero. Ma ancora, elettrizzati dalla
loro missione, dopo quella appena fallita dai loro colleghi che quella
volta erano stati un po’ troppo bonaccioni, accompagnano questa
cosiddetta «cura del sonno» con scariche elettriche tra i 120 e 160
volt direttamente nella corteccia cerebrale della loro vittima. Gli
elettroshock, quelli segnati in cartella con la sigla ESK2, risultano
essere complessivamente undici, di cui quattro tra il secondo e il settimo giorno di ricovero, altri quattro tra il nono e il quindicesimo
giorno, gli ultimi tre fra il 26° e il 29° giorno. Il 29° giorno di ricovero corrisponde al 22 dicembre, che è lo stesso giorno delle dimissioni. I cavalli in battaglia, sempre tanti e a orde schierati, negli ultimi
tre giorni sono stati ancora più aizzati contro le residue resistenze
della giovane vittima: tre elettroshock ravvicinati cui si aggiungono
tre compresse di Tavor da 2,5, che risolvono la nostalgia per
l’abbandono delle due compresse di Mellerette al 27° giorno.
Hanno pensato: cara Tiziana, ti mandiamo via sì, ma ti diamo
una bella e «congrua» mazzata, così ti facciamo passare le fregole di
fare la ribelle.
Già dopo venti giorni gli psichiatri scrivono: «La paziente è decisamente più tranquilla e serena. Tono dell’umore stabile, sonno
regolare». Dopo trenta giorni non aggiungono altro, scrivono soltanto «dimessa».
Tiziana ci ha raccontato che si sentiva un cadavere, che era il
doppio di prima, che aveva la testa confusa e che aveva bisogno
delle amiche per ricostruire pezzi interi di passato. Ma soprattutto
che la rabbia in corpo per i vecchi rancori e per l’affronto subìto già
121
all’età di quindici anni con i ricoveri a Neuropsichiatria infantile e
ora con quello al S. Giovanni e a Villa dei Fiori era ancora lì sotto le
macerie prodotte dai massicci trattamenti psichiatrici.
- Tizià, come ti sentivi all’uscita da Villa dei Fiori? Gli psichiatri
scrivono che eri tranquilla, di umore stabile e di sonno regolare.
- M’aricordo solo che ero ‘na gran rincojonita. Mi sentivo un
terore come se potessi morì da un momento all’artro. Certe vorte me
sentivo come ‘na vecchia de ottant’anni.
- E con i tuoi parenti come andarono i rapporti?
- All’inizio ero contenta d’esse tornata a casa. M’ero pure scordata perché m’avevano fatto chiude’. Ma ero troppo vinta dentro. Era
come se m’avessero schiacciato con una montagna de piombo.
Manco camminavo bene, me sentivo come na canna secca. Non riuscivo manco a dì due parole. Poi a poco a poco m’è tornato tutto a
galla, o quasi tutto. Mi’ madre me veniva da ammazzalla con le
mani mia. Lei era stata la colpa de tutto. Fin da piccola nun me sopportava, non m’aveva voluta da quando sò nata.
- Ma cosa successe di nuovo, perché ti fecero ricoverare ancora?
- Ogni giorno c’era ‘na discussione. Noi c’avemo le case e a me
me vojono tenè fora dei diritti mia. Io allora je chiedevo li sordi e
loro m’arisponnono con le botte, tante botte. E io, quando me sentivo le forze, provavo a sfasciaje tutta casa.
Ovviamente Tiziana va e viene dalla clinica Villa dei Fiori, che la
tiene sotto controllo con una terapia domiciliare consistente in
(leggo dalla ricetta):
ore 8
1 cp Depakin 500
1 cp Frisium
3 gtt Serenase
1 cp Melleril 25
30 gtt Diidergot
ore 14
tutto come sopra
ore 22
tutto come sopra, senza il Diidergot
Moditen Depot, 1 fiala i.m. ogni 20 giorni.
Come si nota, praticamente Tiziana è sottoposta alla stessa massiccia dose di psicofarmaci cui era soggetta durante il primo ricove-
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ro a Villa dei Fiori. Le radici profonde del conflitto non vengono
comunque estinte, la permanenza nello stesso habitat distruttivo le
rinverdisce con facilità, e la struttura della personalità, per quanto
seriamente intaccata, non si modifica di tono e di approccio. Là,
dove e quando Tiziana può pensare, parlare e fare qualcosa di sua
iniziativa, questo qualcosa è sempre tipicamente suo. Ed è questa
permanenza di significato personale che diventa in certi casi l’oggetto dell’accanimento psichiatrico. In passato gli psichiatri hanno
risolto il problema con l’asportazione vera e propria di parti intere di
materia cerebrale (lobotomia), o con forme più «mirate» di psicochirurgia3. Oggi non siamo sicuri che queste forme di soluzione siano
state del tutto abbandonate sul pianeta. Ma tutti sanno che elettroshock e psicofarmaci possono dare gli stessi risultati con meno raccapriccio sociale.
Un secondo ricovero a Villa dei Fiori dal 2 al 10 marzo del ’90,
ripropone la stessa interpretazione psichiatrica dei problemi di
Tiziana e quindi lo stesso trattamento a base del pacchetto di neurolettici già consolidato nella prassi della suddetta clinica e la classica
terna di elettroshock settimanali che accompagna la famosa cura del
sonno in questa e in quasi tutte le altre cliniche private romane.
Leggiamo però le brevi annotazioni:
2/3/90. La paz. entra in clinica alle ore 13 accompagnata.
Dopo il ricovero [si riferisce al ricovero conclusosi due mesi prima e di
cui sopra, N.d.A.] la paziente ha goduto di discreto benessere fino a mercoledì u.s. quando ha ingerito circa venti cp di Depakin. Trasferita al S.
Giovanni è stata sottoposta a lavanda gastrica. Motiva questo gesto per
l’insoddisfazione per la vita che conduce. Afferma di sentirsi depressa
ma al tempo stesso nervosa. Riferisce una marcata perdita di interesse.
Ora dobbiamo subito rilevare l’enorme contrasto tra il racconto
che ha fatto a noi Tiziana sul suo periodo dopo il primo ricovero e la
descrizione ottimistica che ne fa lo psichiatra nella cartella clinica.
C’è da chiedersi come è possibile concepire che sia insorta «una
insoddisfazione nella vita» tale da portare a un tentativo di suicidio
come un fenomeno avulso dal passato e dai postumi del precedente
pesante ricovero. Come dire che «un discreto benessere» possa portare a un’insoddisfazione nella vita e poi al tentato suicidio. Lo psichiatra in questione non si rende conto delle assurdità che scrive.
Ovviamente dopo il nuovo ripasso, a base di che lo abbiamo visto,
lo psichiatra scriverà di nuovo (riporto dalla cartella clinica):
«9/3/90. La paziente appare congrua, serena, equilibrata» ecc. ecc.!
Niente da fare, la psichiatria continua imperterrita con i suoi luo-
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ghi comuni, i parenti non sono da meno. E Tiziana ogni tanto riprende a spaccare tutto. Ritengo anche che tra la rabbia accumulata e
l’effetto stesso degli psicofarmaci, si possa essere generata una pericolosissima compressione pronta a esplodere in ogni momento.
La storia di questi danni, da dove emerge Tiziana come vittima,
si conclude nel ’92 anche con la beffa. In seguito a uno di questi episodi, in cui la ragazza sfascia i mobili e si scaglia con una sigaretta
accessa contro l’occhio della madre, i parenti la denunciano per
estorsione di danaro, lesioni e percosse. Il giudice per le indagini
preliminari con la sentenza del 13 aprile ’92 conclude come abbiamo visto: «Non luogo a procedere per difetto totale di mente».
Ma vediamo ancora nella motivazione di questa sentenza quale
baratro si stava per aprire per Tiziana. Scrive il Gip: «Resta da esaminare se la P. sia persona socialmente pericolosa e se, di conseguenza, si debba ordinare un suo ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario. In proposito si osserva che se è vero che, così come sottolineato dal consulente psichiatrico, la situazione di conflittualità
familiare rende probabile, persistendo stretti rapporti tra la P. e i suoi
genitori, il ripetersi di episodi analoghi a quelli che hanno originato
il presente procedimento, è altresì vero che un diverso assetto organizzativo con un’assistenza terapeutica di tipo extrafamiliare può
evitare tutto ciò. Poiché un tale diverso assetto appare essersi realizzato..., devono ritenersi non più ipotizzabili comportamenti socialmente pericolosi della P. e quindi non necessari provvedimenti a suo
carico ex art. 205 C.P.».
È assurdo che a un assetto extrafamiliare si sia pensato solo come
neutralizzazione di una pericolosità sociale che si riconosce insita
nella relazione tra madre e figlia, ma che colpisce con le cure coattive e con una condanna virtuale al manicomio criminale solo la
figlia.
Note al capitolo
1. Il nome e il cognome sono falsi. Tutto il resto è documentabile.
2. Dal racconto di molti pazienti e dalle conclusioni della stessa commissione
d’inchiesta promossa dall’Assessorato alla Sanità della Regione Lazio, di cui parlerò
più avanti, risulta che le trascrizioni degli elettroshock e le comunicazioni delle loro
applicazioni ai DSM sono quasi sempre eluse o «incerte».
3. Vedi documentazione nel libro di R. Cestari, citato in bibliografia.
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VIII
CARLO RELLINI
SOTTO I GRAPPOLI MORTALI
Avevo già tutto con me da tempo. Luigi lo avevo conosciuto
l’anno precedente in una prima riunione del Comitato delle associazioni contro l’elettroshock. Mi aveva dato vari documenti del processo penale di primo grado. La causa si è conclusa il 21 giugno ’93
con la condanna dei medici responsabili della morte del figlio Carlo
in seguito a elettroshock presso la clinica Samadi in Roma. Avevo
già invitato Luigi a un recente coordinamento nazionale del
Telefono Viola per denunciare alcuni particolari della tragica storia
e fornire alcune importanti informazioni sull’elettroshock, su come
di fatto viene praticato nelle cliniche psichiatriche e in alcuni ospedali pubblici (spiccano tra tutti il Forlanini e il Policlinico Umberto I
di Roma).
Ma prima di scriverne qui avevo bisogno di stare qualche ora da
solo con Luigi. Così ieri sera sono andato a trovarlo sul suo luogo di
lavoro, l’officina «Luigi Rellini» in via Arno.
- Luigi, come va? Sai, non pensavo che fossi un meccanico, addirittura titolare di una officina per autoriparazioni.
125
- E perché mai? Ti dovevo sembrare forse un professore?
- Professore no, ma che so, un mezzo dottore sì, forse un ex studente in medicina.
- No, è che ho dovuto imparare molti termini medici per via della
storia che tu sai. Qualcuno m’ha preso per un capo infermiere. Ma
se vuoi proprio saperlo non sopporto camici bianchi neppure addosso ai cuochi.
Luigi mi fa accomodare nella stanzetta a vetri dell’amministrazione. Capelli brizzolati, sotto la sessantina, media statura, occhi
castani e, ora gliele vedo, le mani un po’ callose e unte di grasso di
motori. Ha lo sguardo acuto e se mi distraggo un attimo dal suo
ragionamento mi riporta al punto con un certo vigore. Per quattro
ore di seguito non mi ha mai dato risposte inutili o evasive. Mi tratta
con cortesia e insieme con affetto. Sa fare le due cose molto bene. Si
sente partecipe delle nostre battaglie e chi sa cosa farebbe per aiutarci. In questi mesi è alle prese con il processo d’appello.
- Gli psichiatri e i sanitari coinvolti si stanno riorganizzando.
Vogliono far passare tutto come una leggera imperizia. Stanno preparando centinaia di pagine in cui fanno dire ai loro consulenti,
pagati chissà quanto, che mio figlio Carlo sarebbe comunque morto
anche se non gli avessero fatto l’elettroshock e anche se l’avessero
trasportato subito in una struttura pubblica per la rianimazione.
Vogliono girare le carte a modo loro. Ma non ci riusciranno.
Dovranno pagare anche questa volta. Devono pagare per le loro
colpe. Sono stati dei criminali e non vogliono passare per tali. Dopo
la condanna in prima istanza si vogliono rifare l’immagine. Ma le
carte restano quelle e non potranno cambiarle in nessun modo. A
meno che non si comprino...
- Luigi, fai bene ad aspettarti il peggio. Ma questa volta è difficile
che possano cambiare la cronaca dei fatti, le loro stesse cartelle cliniche, prescrizioni, firme e ammissioni. Se vuoi, comunque affianchiamo il tuo Andreoli con il nostro Mancini. Il nostro studio legale
non avrebbe difficoltà.
- Vediamo come si mette la faccenda. Intanto ti ringrazio. Ti faccio sapere. E poi i giudici in prima istanza si sono mostrati molto
decisi, e credo che lo saranno anche questa volta. Brava quella presidente Vecchiarelli e anche il Pm, tosto sai? Non me l’aspettavo.
Avresti dovuto vedere come hanno sconfessato i testimoni degli
imputati nel processo di primo grado. Due psichiatri, il noto professore Giancarlo Reda, all’epoca dei fatti direttore dell’Istituto di
Psichiatria all’Università La Sapienza di Roma, e Mino Anselmi,
assistente volontario di clinica psichiatrica alla stessa università,
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allievo quindi del primo. Sono stati incriminati per falsa testimonianza e favoreggiamento.
- Ma Reda cosa aveva testimoniato?
- Se ne era uscito che lui, chiamato da noi per un consulto con
Gherardini e Anselmi, aveva riscontrato in Carlo una catatonia febbrile letale, che è una cosa che gli era successo di vedere due o tre
volte nella sua lunga carriera. Che l’unica soluzione in questo caso
era l’elettroshock e quindi bisognava continuare. Ora a parte l’associazione del tutto strana tra catatonia e febbre, a noi dopo la visita
non ci aveva detto niente di questa catatonia febbrile, e neppure ai
medici curanti. ‘Sto figlio di mignotta voleva dare una mano ai suoi
compari.
- Cosa disse invece nella realtà?
- Che la situazione non poteva continuare così. Ai medici disse
che dovevano sospendere tutte le terapie, a cominciare dagli elettroshock. Che lui voleva rivedere Carlo dopo dieci giorni dalla sospensione di tutto per «stabilire», disse, «se posso fare una diagnosi e
quale». Invece in tribunale, per coprire le responsabilità del direttore
sanitario Gianfrancesco Gherardini e dell’anestesista Francesco
Orlando, che avevano fatto gli elettroshock a Carlo, ha cambiato
tutto quello che aveva detto al consulto e a noi stessi. Io, pensa, non
ho perso mai una parola, una battuta di quello che avevano detto e
fatto i medici. Insomma si è inventata là per là questa catatonia febbrile maligna per giustificare l’operato dei suoi colleghi. Insomma la
tesi degli imputati era che comunque Carlo sarebbe morto lo stesso
perché era affetto da questa forma rara di catatonia che porta una
febbre maligna e mortale. Altro che illustri professori... Ci vuole
proprio una bella faccia tosta per rigirare i fatti in questo modo.
- E l’Anselmi come entrò in questa accusa di favoreggiamento?
- Anselmi aveva da coprire di più. Era lui lo psichiatra curante di
Carlo. Lui, dopo il fallimento della terapia a base di neurolettici che
Carlo fece a casa, ci consigliò di farlo ricoverare alla Samadi.
Questo signore in tribunale parlò pure lui di stato febbrile fin
dall’inizio, quando invece dal diario clinico dei primi giorni non
risultò nessuna febbre. E così il tribunale ha scoperto perché le cartelle cliniche sono state consegnate con tanto ritardo. Praticamente
erano state contraffatte. Capisci, hanno scritto una cosa per un’altra
e hanno aggiunto a posteriori anche una diagnosi di «catatonia febbrile – stato di male epilettico». Prima era riportata solo la diagnosi
di stato dissociativo, poi comparve scritta pure quella di catatonia
febbrile letale. Alcune annotazioni sulla rilevazione della temperatura corporea furono aggiustate e cambiate in modo che rappresentassero più il segno di questa fantomatica catatonia di Reda che della
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broncopolmonite che invece era già iniziata. I raggi al torace glieli
hanno fatti solo dopo gli elettroshock, quando stava già in coma,
capisci? La febbre che si alzava tra un elettroshock e un altro non li
fermava per niente dal continuare. Ma ti dicevo, il direttore Gherardini e il terapista rianimatore [l’elettroshockista, N.d.A.] Orlando
sono stati incriminati anche per il reato di concorso in falso in atto
pubblico, per gli inguacchi cioè sulla cartella clinica. Oltre alla condanna, rispettivamente di un anno e sei mesi e di un anno di reclusione per concorso in omicidio colposo, consistito in imprudenza,
negligenza e imperizia, come dice qua la sentenza.
La galera non l’hanno fatta perché hanno avuto la condizionale,
ma se ne meritavano ben di più.
Luigi si accalora ma senza perdere il filo. In mano ha la sentenza
e la dettagliata relazione dei due periti di parte, Roberti e Lo Savio,
presentata il 13 aprile ’95 a richiesta della Terza Corte d’Appello di
Roma. Ogni tanto apre i documenti in qualche punto per mostrarmi
alcuni riscontri. Altre volte mi indica ritagli di stampa, foto, pezzi di
ricetta, cartoline di famiglia. Tutti questi materiali sono sparsi sopra
il grande tavolo e coperti da un cristallo. Luigi ogni tanto si alza e si
sposta sugli altri lati di questo strano tavolo. Quella che era una normale scrivania di lavoro è diventata un immenso memoriale a vista
della tragedia, a volte una mappa per muoversi in un campo di battaglia ancora in corso. Sul lato dove poggia i gomiti ha le foto dei tre
figli, Carlo, Marco, quasi suo gemello, e Fabio, cinque anni meno di
Carlo. Mi avvicino alla foto: ecco Carlo, un bel giovane di 20 anni,
biondo. Il padre mi anticipa: «Alto 1,84, con un peso di 74 kg. Pensa
che dopo 4 mesi di ricovero, dopo il prolungato stato di coma, pesava 34 chili. Il prof. Proietti del Gemelli, dove alla fine fu ricoverato
in rianimazione mi disse: «Guardi che sta morendo di fame non di
coma». E invece guarda Alessio, guarda qua come era Carlo. Stava
al V anno dell’Istituto Tecnico Industriale per le Telecomunicazioni
Galileo Galilei. Avrebbe dovuto prendere la maturità. Pensa, aveva
già passato la visita per il servizio militare, naturalmente idoneo».
(Luigi si accascia leggermente con le braccia stese su questo suo
immenso doloroso promemoria. Carlo è deceduto il 27 gennaio
1989, ma il padre ancora non lo molla nemmeno per un attimo. Lui,
la moglie Armanda, Marco e Fabio sono sempre tutti lì intorno a
Carlo).
- Luigi, non stai bene, lasciamo perdere, ci andiamo a prendere
una cosa al bar.
- No, scherzi, è solo un momento. Mi fa piacere parlarne con gli
amici. Vedi ti dico cose che manco ai giudici ho avuto occasione di
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dire. È che ancora non me ne sono fatta una ragione. E poi, sapessi il
rimorso che mi prende certe volte. Non mi dò pace.
- Dài, lo sai che hai fatto, avete fatto tutto il possibile. La colpa
sta nelle idee e nei metodi della psichiatria. Se non si sanno spiegare
un comportamento se la pigliano col cervello della gente. Adesso lo
sai com’è.
- Sì, ma c’è pure la nostra ignoranza, quella di tutti, se no certe
cose non gliele faremmo fare. Tu pensa che Anselmi, quello che
faceva pratica, e che pratica, da Reda, quando mi consigliò il ricovero alla Samadi, prima ancora di visitare Carlo m’aveva già detto che
con qualche elettroshock sarebbe guarito. Cioè questo qui, prima
ancora di vedere mio figlio, capisci, aveva già deciso quello che
doveva fare. Era così convinto che non c’era verso di fargli obiezione. Poi, come hai visto dalla relazione tecnica, gli avevano dato troppi neurolettici quando stava a casa, per cui aveva molti disturbi
dovuti ad «impregnazione da neurolettici» e «parkinsonismo indotto
da neurolettici». Cioè Carlo, con le cure di Callieri, un’altra colonna
della psichiatria romana..., stava peggio di prima.
- Ma ti spiegarono che cosa era l’elettroshock, che in quelle condizioni poteva causare un coma irreversibile, che c’erano controindicazioni per la broncopolmonite, il cuore, che avrebbe arrecato problemi per la memoria e per l’orientamento, che moltissimi psichiatri
e medici lo rifiutano...
- No, niente di tutto questo. Mi fecero firmare un foglio che diceva più o meno così: «Il ss. acconsente alla richiesta del medico
Gherardini di sottoporre a terapia elettroconvulsivante (ECT) il figlio
Carlo». Gherardini mi diede solo questo foglio. Chi più mi parlò e
mi rassicurò fu una infermiera. Lei sembrava più interessata di tutti.
Mi disse: «Guardi che non c’è nessuna controindicazione. Noi qui lo
facciamo molto spesso, sa!». Anselmi poi era il più sicuro. Diceva:
«Non si preoccupi che ora lo guariamo noi». Cosa potevo fare?
- Scusa, ma i problemi non si presentarono già da subito, dopo le
prime scariche? Com’è che tutto continuò come se niente fosse?
- Carlo entrò alla Samadi il 9 maggio del 1988. Il 12 gli fecero il
primo ESK. A me non mi facevano stare presente. La sera prima,
l’11 maggio, restai di nascosto a parlare con lui. Se parlava a proposito? Certo, parlava e rispondeva a proposito. Era molto inquieto. Mi
diceva che voleva venire a casa. Io non l’avevo forzato ad andare in
clinica, avevo dato a lui le chiavi della macchina per guidare, lui si
sedette al volante, poi chiese a me di guidare. Insomma lui non voleva andare via da casa, ma si fidava di noi che ci fidavamo dei medici. A me non m’andava bene che fossimo tenuti lontani da Carlo.
Gherardini mi diceva: «Lei deve stare lontano da suo figlio, altri-
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menti aggrava il suo stato psicotico». Quando un professore ti parla
così, che fai? Veramente io me ne sono infischiato. Pensa,
Gherardini diceva che Carlo si sarebbe preoccupato a vedermi
preoccupato. Una volta fu proprio trucido: «Stia a casa lei, ché a
guarire suo figlio ci pensiamo noi!». Meno male che invece quella
sera sono stato un po’ con lui. Di nascosto, come un ladro, fino alle
22,30. Voleva venir via. E io quasi quasi me lo stavo portando. Poi
però Carlo si è messo sovrappensiero, ha chiamato due o tre volte il
fratello piccolo come se fosse presente: «Fabio, Fabio!». Sono state
le ultime parole di Carlo. Da allora non ha aperto più la bocca per
quasi otto mesi fino alla morte.
- Sì, Luigi, ma le cose andarono male da subito, dopo il primo
elettroshock...
- Questo noi lo abbiamo capito dopo. Eravamo fiduciosi nei risultati per come ce li raccontavano i medici, ma io ero molto in ansia. I
discorsi con Carlo della sera prima mi avevano lasciato in grande
apprensione.
- Ma dopo il primo elettroshock cosa ti dissero sui risultati, ti
ricordi?
- Per filo e per segno. Il dott. Francesco Orlando, il terapista anestesista che aveva fatto il primo elettroshock, mi disse testualmente:
«Il ragazzo è giovane e forte con i suoi vent’anni. Ha un cuore che
batte come un martello. Li sopporta benissimo. Continueremo con
intensità progressiva e in tempi ravvicinati fino allo sblocco. Se non
sarà sabato, sarà domenica, ma la settimana prossima ce l’ha sicuramente guarito. Si prepari alla festa. Stia tranquillo che suo figlio farà
sicuramente la maturità quest’anno. Non ci saranno problemi. Ci
lasci fare a noi che sappiamo quello che facciamo». Io scrivevo tutto
nel mio diario. Cosa potevo pensare di fronte a tanta sicurezza?
- Certo, mi sembra inutile qualsiasi commento. Mi sembra di
capire comunque che Orlando si riferisse a più di un elettroshock
nella stessa seduta mattutina. Gli avranno fatto quelli multipli...
- Esatto, lo penso anch’io. Lo pensano anche i nostri consulenti
tecnici nella loro perizia. Parlano di «grappoli di elettroshock». Ma
chi doveva bene testimoniare a questo riguardo è il prof. Vesentini,
il neurologo del S. Filippo Neri, che è morto un mesetto prima del
processo. Le crisi epilettiche si presentarono chiaramente per la
prima volta solo quattro o cinque ore dopo il terzo elettroshock, se
no, sono sicuro, avrebbero continuato tranquillamente nonostante il
fatto che l’elettroencefalogramma li avrebbe già dovuti sconsigliare.
Infatti passarono sette ore dopo il primo elettroshock prima che gli
facessero l’elettroencefalogramma. Questo esame rivelò subito un
serio danno cerebrale a causa della comparsa di onde delta con trac-
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ciato continuo che interessava tutte le zone cerebrali, non solo quelle
frontali. Questo, secondo gli esperti del tribunale, era il segno di un
danno cerebrale già in atto e diffuso in tutto il cervello. Fu rivelato
anche dall’autopsia. Ma loro al momento andarono avanti ancora
per due giorni con altre serie di grappoli di elettroshock... Che ne so,
davano la caccia a un mostro presente secondo loro nel cervello di
mio figlio, capisci. A furia di scariche elettriche, varie e intermittenti
in una stessa seduta, cercavano lo sblocco, capisci, dovevano cacciargli dal cervello quella macchina che s’era costruita dentro.
Criminali e ignoranti, dopo l’accertamento del danno pensarono di
riparare al danno con altri elettroshock. Dopo il terzo, quando
cominciò la crisi epilettica prolungata, Anselmi seppe da me che
Carlo aveva avuto la febbre a 37,4 mezz’ora prima della prima
applicazione. Capisci? Lui che aveva proposto gli elettroshock, il
diario clinico non l’aveva manco visto. Allora a cose fatte cominciò
a bestemmiare ad alta voce: «Con la febbre gli elettroshock non si
devono fare», come se lo avessi dovuto sapere io. Guarda che è
assurdo, lo stesso Orlando, il terapista rianimatore, l’elettroshockista
come lo chiami tu, ebbe il coraggio di dire a mio cognato Spoletini:
«Se avessi saputo che aveva la febbre, di elettroshock non ne avrei
fatto neppure uno». Ma chi glielo doveva dire a questi, io, che
secondo loro dovevo stare il più possibile lontano da mio figlio se
no gli aumentavo la psicosi? Mi stai seguendo, sì? Cioè tu che gli
avresti fatto? Non lo so. A me mi reggeva solo la preoccupazione di
fermare in qualche modo quella tragedia che s’era messa a correre e
che non si voleva fermare. Adesso mi pare che gli esperti loro per
l’appello vorrebbero dimostrare che la febbre c’era, ma era quella
catatonica febbrile letale, per cui Reda stesso gli diceva di continuare perché si potevano fare solo elettroshock. Hai capito la frittata
come gira? Sì, aspetta, torno al punto... ah, il punto! Ecco, dopo è
successo che le crisi epilettiche gli invertivano la respirazione, praticamente andò subito in carenza d’ossigeno.
- Ma perché almeno non l’hanno subito trasferito in un ospedale
attrezzato per la rianimazione?
- E lo chiedi a me? Adesso i tecnici dicono che con una crisi
respiratoria breve si sarebbe forse salvato. Ritardarono molto invece
il trasferimento. Volevano coprire la vergogna e il crimine, aggiungendo altri crimini. Pensa, si sono messi a fare la rianimazione con
un soffietto, come quello che usavano le nostre nonne per avviare il
fuoco coi carboni. Io protestavo: «Dottore, ma perché non lo portiamo subito in rianimazione?». Mi rispondevano: «Rellini, ci risiamo,
e noi cosa crede che stiamo facendo?»1. Guarda mi avveleno a
ripensare a una sola scena di tutta questa tragedia.
131
Luigi non ne può più. Prendo la sentenza e continuo il racconto
nella fredda ma eloquente sintesi della corte:
Sia il giorno 12 che il 13 Rellini presentava uno stato febbrile (38 - 39°)
per alcune ore, come risulta dal diario clinico2, e il 14/5, alle ore 14,30,
aveva un rialzo termico ed iniziavano attacchi epilettici, per cui, alle ore
17 dello stesso giorno, dopo una consulenza neurologica da parte del
dott. Vesentini, veniva effettuata d’urgenza una TAC (tomografia assiale
computerizzata), esame che, a giudizio del predetto sanitario, indicava la
presenza di un edema cerebrale (poi confermato dai medici
dell’Ospedale S. Filippo Neri), a motivo del quale si consigliava una
terapia farmacologica da effettuarsi alle ore 20 e alle ore 8 del successivo
15/5.
Senonché il giorno 15 lo stato febbrile perdurava e gli attacchi epilettici
subentravano a distanza di 10 - 15 minuti l’uno dall’altro; veniva somministrato continuativamente il Farmotal. Carlo Rellini entrava in stato
soporifero e alle ore 12,15 del 16/5 veniva trasferito presso il reparto di
neurologia dell’Ospedale S. Filippo Neri, dove giungeva in stato di
coma profondo (V livello) e insufficienza respiratoria – come risulta
dalla relazione clinica 21/7/88 del Centro di Rianimazione del S. Filippo
Neri – determinati da encefalopatia, broncopolmonite e depressione farmacologica terapeutica.
L’elettroencefalogramma (EEG) evidenziava segni di grave sofferenza
cerebrale diffusa3, ma Carlo Rellini, successivamente sottoposto a terapia intensiva, migliorava, sia dal punto di vista neurologico che respiratorio; l’affezione broncopneumonica e la connessa ipertermia regredivano, ma il ragazzo era in stato di coma apallico e il 3/10/88 veniva trasferito presso il centro di rianimazione del Policlinico Gemelli in «stato
vegetativo» – come risulta dalla cartella clinica relativa a tale ultimo
ricovero – per poi, in data 23/10/88, venire infine trasferito presso
l’Istituto di clinica delle malattie nervose e mentali del medesimo
Policlinico, dove, per le condizioni progressivamente aggravatesi nel
tempo, decedeva alle ore 19,40 del 27/1/89 per collasso cardiocircolatorio con diagnosi di coma apallico e sue complicanze.
Luigi si è ripreso. Mi indica i punti del disposto della sentenza di
primo grado dove, con vari passaggi, vengono contestate le false
affermazioni di Reda. Mi fa vedere sul tavolo/promemoria la foto
riportata su un ritaglio stampa di un Tir di varie tonnellate che lui
fece arrivare dalla clinica S. Pio X di Milano al S. Filippo Neri per
far fare la TAC al figlio, nell’incredulità dei neurologi che negavano
l’esistenza di una TAC mobile.
A questo punto faccio notare a Luigi che la sentenza a pagina 12
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afferma che «i consulenti si sono mostrati concordi sulla correttezza
circa l’effettuazione della elettroshockterapia, data anche la scarsa
risposta del paziente alla terapia farmacologica». Prima ancora afferma che «esclusa la diagnosi di catatonia, appare corretta quella formulata all’ingresso della clinica: sindrome dissociativa, più precisamente bouffée psicotica delirante di tipo schizofrenico, perché in
linea con le manifestazioni cliniche che il paziente presentava nei
giorni immediatamente precedenti il ricovero e nei primi giorni del
ricovero stesso».
- ...E a questo punto, Luigi, il tribunale richiama il diario da te
tenuto fin dal 17 aprile, cioè ventidue giorni prima di quel disgraziato 9 maggio, giorno del ricovero alla Samadi. Ma questa bouffée
psicotica richiamata dal tribunale...
- Ma questa bouffée psicotica... Intanto sulla cartella clinica ci sta
scritto «stato dissociativo» e già pare meno grave. Poi i miei consulenti tecnici non parlano neppure di schizofrenia già consolidata ma
di semplice «disturbo schizofreniforme, con elementi prognostici
favorevoli», che è già molto diverso, meno grave.
- Sì, ho letto di queste differenze, ma non sono queste che possono determinare un orientamento contrario alle cure psichiatriche e
allo stesso elettroshock, che, come hai letto ora, tutti i consulenti del
tribunale dicono che ci voleva. Insomma le diagnosi e il quadro clinico fanno ritenere appropriato l’uso dell’ESK ai consulenti del tribunale. I tuoi non si esprimono al riguardo. Però il fatto che parlano di
forme schizofreniche, di parkinsonismo causato dagli psicofarmaci
neurolettici e di una acuta distonia prodotta dagli stessi neurolettici
prescritti a Carlo dal prof. Callieri, non fanno pensare che tutto sommato non c’era altro spazio che per l’elettroshock? Ti è chiaro ora
quello che vorrei sapere?
- Penso di sì. Io ti devo confessare che con i problemi che accusava Carlo in quei giorni non ci capivo niente, ma speravo che gli psichiatri e gli altri medici ci capissero di più. Invece mi dicevano solo
queste formule, queste parole tecniche che per me non volevano dire
granché. Carlo poi pensava di non essere compreso, di essere male
interpretato dai medici. Lui non pensava affatto di essere un pazzo e
nemmeno noi lo pensavamo. Certo aveva cominciato a dire e a fare
delle cose strane, ma per lui un senso c’era, ci doveva essere.
- Perché non mi racconti qualcosa di particolareggiato su queste
cose strane che comparvero?
- Un po’ perché me ne vergogno, un po’ perché non le so raccontare bene e ho paura di non dirti le cose come te le avrebbe dette
Carlo. Lui te le avrebbe spiegate bene anche se ne era terrorizzato
pure lui.
133
- Allora, dài...
- Secondo me la storia è cominciata sulla spiaggia di Torvaianica,
prima del 17 aprile. Carlo un giorno era stato sulla spiaggia con un
po’ di amici. Mi raccontò che a un certo punto mentre giocavano a
pallone era arrivato uno stormo di cavallette molto strane e che qualcuna di queste l’aveva punto, o che insomma lui pensava che qualche insetto di quelli grossi l’avesse punto. Perché da allora si sentì
come infettato, intossicato. Pensammo come agli effetti di una malattia tropicale e gli volevo pure far fare l’analisi. Poi non ci badai
molto, ma da quei giorni cominciò a stare più nervoso del solito. Il
17 aprile successe una cosa precisa. Tornavamo a Roma da Torvaianica che era sera e Carlo guidava. A un certo punto ebbe un
improvviso fastidio agli occhi e non sopportò più la luce dei fari
delle macchine che incrociava, tanto che dovetti passare io al volante. Non solo, ma lui accusò il dolore come di una puntura. Disse che
era come un virus che l’aveva colpito agli occhi, che era entrato
attraverso gli occhi. Ecco, che era entrato nel suo cervello tramite
una puntura agli occhi. Una cosa simile.
- E nei giorni successivi parlò ancora in quei termini?
- No, i primi giorni aveva comportamenti insoliti. Certo che
erano strani. Una volta scoppiò a piangere alla presenza di un compagno di scuola, ma senza un motivo apparente. La sera dopo ci
telefona a casa da scuola dicendo: «Non vi preoccupate, va tutto
bene, tutto è risolto, è stato messo tutto a posto». Io non capivo che
cosa voleva dire, che cosa stava a posto ora e prima no, risolto...,
insomma, non ci capivo io, ma neppure la madre e i fratelli. Il giorno dopo, all’una di notte, s’alzò dal letto che non poteva prender
sonno, stava tutto agitato, non si dava pace. Stavamo pure noi tutti in
allerta. Insomma prese il telefono perché voleva chiamare un compagno suo di scuola per andare a scuola a quell’ora e organizzare un
gruppo di studio. Noi non capivamo. Lui frequentava l’orario serale,
era tornato appena da qualche ora, com’è che voleva ancora andare
a scuola a fare i gruppi di studio? Poi immagina questi amici che
dovevano pensare. Noi in famiglia cominciammo a credere che
aveva qualche problema in testa. Parlammo con Franceschini che è
il medico di famiglia e conosce Carlo da quando è nato. Gli facemmo fare l’esame del fondo oculare, l’elettroencefalogramma. Tutto
normale. Pensammo subito che qualcosa gli aveva dato in testa, al
cervello, anche se era tutto sano. D’accordo con Franceschini chiamammo uno psichiatra, il prof. Callieri, uno conosciuto. Ma la cura
non gli fece nulla, anzi peggiorò le cose. Carlo prendeva il Serenase,
che è un neurolettico contro le psicosi, e poi alcuni ansiolitici e poi
prendeva il Disipal per contrastare gli effetti negativi del Serenase.
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- Senti, ma quelle stranezze che dicevi passavano con questi psicofarmaci?
- Macché. Era peggio. Anzi certi pensieri erano più fissi di prima.
Lui diceva che nel cervello aveva delle macchine che gli controllavano il pensiero. Insomma gli spiavano il pensiero non appena lo
pensava. Era tormentato per questi fenomeni che gli capitavano. Noi
la ritenevamo una cosa assurda. Lui rispondeva che noi non sapevamo nulla. S’affacciava alla finestra e mandava bestemmie contro
gente invisibile, che non c’era.
- Ma qualche volta spiegava queste macchine come erano fatte?
- Non proprio ma diceva che noi non potevamo immaginare neppure lontanamente quello che la telematica e le telecomunicazioni
potevano riuscire a fare.
- Vedi Luigi, probabilmente Carlo si riferiva anche a certi studi
fatti a scuola sul problema del controllo telematico a distanza, servizi di spionaggio e cose simili. D’altronde tu mi hai detto che frequentava il Galilei, che è un tecnico industriale per le telecomunicazioni.
- È vero, c’è una forte somiglianza tra il suo ambiente di studio e
quelle idee che si era fatto sul suo cervello. Può darsi che si è impaurito, ha pensato che con qualche puntura o qualche raggio luminoso
gli avessero inserito una spia nella scatola cranica. È questo quello
che pensi pure tu?
- Sì penso a qualcosa di simile. Penso a fenomeni di percezione
su di sé legati a una forte sensibilizzazione a certe tematiche tecnologiche, forse unite alla paura di essere scoperto anche nei pensieri
indesiderabili. Pensieri che ognuno di noi può avere. Secondo me gli
psichiatri hanno agito secondo i loro schemi e sono andati a cercare
psicosi e schizofrenie dove non c’erano. Carlo si era fatto una autoconvinzione, molto probabilmente errata, ma elaborata sulla base di
informazioni scientifiche, di letture e di commenti scolastici, quindi
verosimile e soprattutto intellegibile. Il cervello era lo stesso cervello, quello buono di sempre, solo che a partire da questa immedesimazione nel ruolo del cervello condizionato a distanza, ha elaborato
comportamenti conseguenti. Ad esempio la ricerca di fare anche a
ora tarda un gruppo di studio è da giustificarsi per l’urgenza di capire insieme agli altri studenti cosa gli stava succedendo, come fare
per contrastare il controllo a distanza. L’inibizione poi dei neurolettici, la distonia acuta e il tremito parkinsoniano da questi indotto,
potevano solo confermare, e questa volta realisticamente per tutti, il
condizionamento che potenze esterne e estranee operavano a danno
del suo cervello! Insomma gli psicofarmaci gli davano ragione.
(Parlo a Luigi della storia di Fabio N. e della percezione persecutoria
135
tramite congegni a distanza).
- Io non ne so molto. Una cosa è certa. Tutti quei professori che
ne dovevano sapere più di te e più di me, a Carlo me l’hanno
ammazzato. Uno dei pochi medici che mi disse le cose in faccia,
mentre tutti mi davano ragioni di copertura, fu Carlo Sforzi, un
medico rianimatore del S. Filippo, morto da tre anni: «Rellini, non
dia retta. Ma quali crisi epilettiche. Al limite crisi ipertoniche. Ma
quali crisi ipertoniche. Quelle sono crisi elettriche. Rellini, ma non
ha capito che a suo figlio gli hanno bruciato il cervello?». Insomma
caro Alessio, dopo quello che mi hai detto mi viene da pensare a una
cosa terribile che mi sconvolge...
- Cosa, Luigi...
- Che seppure Carlo aveva sbagliato a pensare che aveva una
macchina accesa nel cervello, alla fine ha avuto ancora più ragione.
Questi delinquenti gli sono entrati veramente nel cervello e glielo
hanno bruciato4.
- Dài Luigi, come ce lo vogliamo ricordare Carlo adesso, insieme
con i nostri lettori?
- Ecco me lo voglio ricordare così. Una mattina, due settimane
prima di quei fenomeni, successe che ebbi una vivace discussione là
in basso, vedi, con un cliente particolarmente ostico. Ero fuori di me
e soprattutto mi sentivo sfinito, senza più argomenti. Li avevo usati
tutti. Carlo lasciò i libri qui su questo tavolo dove sei tu, e venne giù.
Mi prese da parte e mi disse: «Papà, stai calmo, mò ci parlo io col
cliente». Poi si mise a parlare con tono disteso con quel signore. Lui
aveva questa capacità di mediazione che io gli invidiavo. Metteva
ogni cosa per il verso calmo. Pensa, Marco aveva 13 mesi più di lui,
ma era molto più impaziente, insomma Carlo gli faceva da secondo
padre. Ti dico, non ci crederai, m’aveva ammansito quel cliente in
pochi minuti. Tornò su da me con un sorriso bello largo: «Papà che
t’avevo detto, vedi che io l’ho sistemato?». Gli risposi: «Allora ti
metterò alle relazioni pubbliche!».
Note al capitolo
1. A prescindere dalla nostra opposizione all’elettroshock, comunque applicato,
riportiamo quanto è risultato dalla Commissione, istituita il 2.11.93, dalla Giunta
Regionale del Lazio in seguito alle battaglie delle associazioni «per la verifica e la
disciplina dell’uso dell’elettroshock in strutture pubbliche e private della Regione
Lazio». La carenza di strutture adeguate per la rianimazione è stata rilevata presso la
quasi totalità delle cliniche romane dove si pratica l’elettroshock. Sono quasi sempre
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disattese le norme che regolano il consenso informato. Inoltre molto spesso non sono
garantite: la presenza dell’anestesista nelle 24 ore successive al trattamento; una fonte
congrua di ossigeno; l’attrezzatura per l’assistenza respiratoria manuale; il monitoraggio cardiaco con defribillatore; la saturometria periferica dell’ossigeno; un presidio
farmacologico idoneo ad affrontare uno stato di shock di molteplici origini, un arresto
cardiaco, un’aritmia cardiaca e un’insufficienza respiratoria (si tratta di punti ripresi
testualmente dalla circolare n. 33 prot. n. 2791 del 6/8/1994 dell’Assessorato alla
Sanità della Regione Lazio).
2. Come abbiamo visto dal racconto di Luigi e dalle accuse di falso in atto pubblico per la contraffazione delle cartelle cliniche, i rilievi iniziali sull’alta condizione
febbrile, per supportare ex post la diagnosi di catatonia febbrile letale tirata dal cappello di Reda, sono falsi e strumentali. È certo comunque che ci fosse una broncopolmonite in corso, come poi risultò dalla tardiva radiografia al torace e dalla stessa autopsia, e che un preventivo esame radiografico avrebbe sconsigliato l’elettroshock
anche ai suoi più pericolosi fautori come quelli qui citati.
3. L’autopsia specifica dell’encefalo dimostra chiaramente le alterazioni conseguenti agli elettroshock, riassunte nella relazione dei consulenti tecnici predisposta
per il prossimo Appello. In particolare: «vengono osservate alterazioni regressive
della corteccia cerebrale, proliferazione gliovascolare, gravi alterazioni della citoarchitettura della sostanza grigia, con neuroni che presentano alterazioni di tipo ischemico cronico. Aspetti di tipo ischemico vengono trovati anche nei c.d. Corni di
Ammone. C’è inoltre grave perdita delle cellule di Purkinje del cervelletto e si rilevano alterazioni ipossiche dei nuclei dentati» (pag. 14). Faccio notare che questi rilievi
dell’autopsia di Carlo Rellini corrispondono ad altri risultati di autopsie del cervello
di alcuni deceduti in seguito agli elettroshock chiamati «classici», cioè senza anestesia e con applicazioni a tutti e due gli emisferi cerebrali, risultati riportati in P.
Breggin, L’Elettroshock, i guasti al cervello, Feltrinelli, Milano, 1984. Questo prova
che i rischi di danni cerebrali gravi insiti strutturalmente, e non solo per imperizia
medica, nella pratica dell’elettroshock, sono eguali anche nel caso dell’elettroshock
«modificato», quello cioè con anestesia e applicazione sul solo emisfero non dominante usato contro Rellini e in quasi tutti i trattamenti odierni.
4. La morte di Carlo Rellini, molte denunce pervenute in questi anni al Telefono
Viola contro l’uso dell’elettroshock, le campagne del CEU per la raccolta di firme per
la sua abolizione, la costituzione di un Comitato di varie associazioni contro l’elettroshock, cui aderisce anche il Telefono Viola, Psichiatria Democratica e vari Comitati
per i Diritti dell’Uomo, con un personale impegno anche di Athos De Luca, consigliere del Comune di Roma, hanno portato a una forte sensibilizzazione dell’opinione
pubblica. Recentemente abbiamo chiesto al Comitato Nazionale per la Bioetica di
pronunciarsi contro l’elettroshock, di promuovere una legge di abolizione e intanto di
impegnare alla rigida osservanza delle procedure ministeriali per il consenso informato, puntualmente eluse, dando spazio anche alle associazioni che lavorano sulla questione. Preciso che più volte il Coordinamento Nazionale del Telefono Viola si è
espresso per l’abolizione dell’elettroshock. L’adozione del consenso informato in
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materia di psichiatria potrebbe addirittura facilitare e legittimare maggiormente l’elettroshock. Il cittadino giudicato malato di mente e trattato come tale non è credibile
agli occhi del medico, viene quindi facilmente emarginato da un’informazione efficace e severa e i suoi familiari sono ancora più remissivi nei confronti dell’autorità dello
psichiatra. Le ammissioni di Luigi Rellini insegnano. Un’informazione severa manca
anche sui potenti psicofarmaci che si somministrano ai pazienti. Spesso questi vengono trattati come imbuti per la deglutizione forzata di pasticche sfuse, a colori, senza
un nome e una indicazione, oppure di bevande con misture di gocce di cui non si dice
il numero vero, la natura e gli effetti. Per farsi una idea concreta degli abusi, chiedo
qui, insieme con i lettori, al Ministro della Sanità di farsi carico di controllare quello
che avviene nei reparti psichiatrici ospedalieri e nelle cliniche psichiatriche, non tanto
per i fattori igienici, ma per come i pazienti sono trattati nella loro persona da infermieri e psichiatri. Il Ministro potrebbe proporre alcuni stage clandestini di falsi malati
da farsi ricoverare come veri, come ha fatto lo psichiatra Rosenham in America tanti
anni fa, ricavando memorabili e terrificanti relazioni, come da bibliografia.
P.S. Mentre questo testo è in bozza di stampa, il 22 settembre ’95, il suddetto
Comitato Nazionale per la Bioetica [C.N.B.], sotto la presidenza di Francesco
D’Agostino, ha approvato il seguente parere: «Il C.N.B., allo stato attuale, nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica, richiamando la particolare rilevanza
etica dei princìpi generali in materia di consenso informato, ritiene che non vi siano
motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante». Ora, dopo questo parere, che rischia di spianare la strada all’elettroshock in Italia,
bisognerà chiedere non so a chi di pronunciarsi sull’eticità e sulla competenza di questo Comitato. Intanto il Telefono Viola dichiara il Comitato Nazionale per la Bioetica
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri culturalmente corresponsabile del prevedibile aumento degli elettroshock, nonostante il bla bla bla sul consenso informato
in psichiatria richiamato nella motivazione del parere.
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IX
COSA FARE.
RUI BARBOSA DOVE SEI?
Con il racconto della morte di Carlo Rellini ho consumato le
pagine affidatemi.
Dovrei tagliare, ridurre qui e lì per dare spazio ad altre storie, altri
problemi, ma non ne sono capace e non ne ho più il tempo. Vi avrei
voluto parlare di Beatina, che ha perso la parola da quando il padre
la voleva costringere ad avere rapporti sessuali con lui, già che la
mamma li aveva con il fratello. La volevano obbligare alle cure psichiatriche perché non parlava più e scappava continuamente da
casa... Qualcuno le disse di noi e con pochi incontri ci parlammo e
capimmo perfettamente. Il problema da risolvere era solo quello di
riuscire a trovare un lavoro per vivere in autonomia. La psichiatria
non c’entrava e in quel caso, fortunatamente, non c’entrò per niente.
Ma generalmente in questi casi la psichiatria coattiva compie
danni e ingiustizie irreparabili. Vi avrei anche voluto parlare del problema delle «voci» che molte persone sentono in momenti particolari, che possono essere indifferentemente tranquille o stressanti, che
espongono i loro protagonisti alla generale incredulità e, peggio, alla
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quasi certezza di essere ricoverati con la forza da parenti e psichiatri,
senza alcuna possibilità di essere realmente compresi e aiutati.
Spesso la psichiatria spegne le voci nuove insieme con la voce
dell’interessato. Giampaolo D. A., uno studente universitario che ci
frequenta, è riuscito a convivere con le voci in modo naturale e
senza ricorso a psicofarmaci e ricoveri in clinica. Sul problema delle
voci e sulla loro repressione psichiatrica, Giuseppe Bucalo ha scritto
spunti interessanti in Dietro ogni scemo c’è un villaggio, citato in
bibliografia. Bucalo, oltre ad avere svolto, a partire da Furci Siculo,
una pluriennale attività contro la psichiatria costrittiva, ha dato inizio
recentemente al Telefono Viola di Catania.
Molte storie ci sarebbero da raccontare anche da parte del
Telefono Viola di Bologna, costituitosi da due anni: questo libro
ospita uno scritto di Noemi Bermani, la sua responsabile, amica
anche lei di Giorgio Antonucci. Stefano Sguario, il responsabile per
Genova, mi disse qualche tempo fa che anche loro, pur essendo nati
da qualche mese, avrebbero già molte cose da far sapere. Così pure
da Napoli. Insomma ci vorrebbe un libro più grande.
Mi auguro che il Telefono Viola si diffonda su tutto il territorio
nazionale. Ogni piccola e grande città dovrebbe avere il suo
Telefono Viola. Non solo, ma ogni telefono privato appartenente a
una persona sensibile, a cui piaccia ragionare sul perché degli avvenimenti umani, si dovrebbe tingere di viola.
Non si tratta infatti di fare grandi organizzazioni, ma di lanciare
semi di una nuova cultura. Già agli inizi del CEU si parlava e si
sognava di quanto sarebbe necessario istituire corsi di ecologia
umana in tutte le scuole, a partire dalle elementari, fornendo elementi di conoscenza e di esperienza per affrontare in termini nuovi il
mondo della biodiversità umana. In alcuni convegni nazionali di
Legambiente ho lanciato anche l’idea di una Scuola Nazionale di
Ecologia Umana, collegata con le facoltà umanistiche, compresa
Giurisprudenza, e con quella di Medicina per fornire una conoscenza approfondita e integrata a tutti quelli che, nelle professioni o nel
volontariato, entreranno a contatto con i problemi posti dalla complessità umana e dagli abusi della psichiatria.
Restando su un piano più concreto del possibile «che fare», e
senza farci impigrire dai bei sogni, ritengo che vadano senz’altro
rafforzate le due direttrici su cui è stata impostata, e su cui cresce,
l’esperienza del Telefono Viola, quella legale – per la tutela dei diritti dei pazienti psichiatrici e dei cittadini a non essere pazienti psichiatrici – e quella culturale, associativa e pubblicistica – per la diffusione dell’approccio non psichiatrico.
Ma da qualche tempo, man mano che va avanti la mia personale
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esperienza, ritorno a pensare a una ipotesi di «CEU territoriali», collegati con il Telefono Viola, operanti nella realtà viva dell’emarginazione, soprattutto quando il territorio è costituito dal deserto delle
grandi metropoli. Andate in crisi le reti di relazioni dentro e fuori la
famiglia, distrutti i villaggi umani di una volta, la dimensione erratica dell’individuo va oltre i limiti della sua funzione ecoantropologica. Il seme umano non trova più terra dove attecchire e, costretto
sempre nel vento, inaridisce. È possibile costruire terra umana artificialmente? Questo è il problema che non potremo eludere a lungo.
Forse è venuto il tempo in cui l’unica realtà praticabile è quella che
possiamo produrre volontariamente, già che quella che ci troviamo
davanti è tutta consumata e arida. Forse bisogna istituire comunitàquartieri, isole della diversità, dove al posto di infermieri e psichiatri
ci siano i coltivatori e protettori delle diverse individualità. Luoghi
dove poter stare senza legature e senza psicofarmaci, dove scambiarsi le proprie idee, le più strane, dove far parlare le voci che popolano i nostri drammatici, troppo mossi o troppo spenti, vissuti quotidiani, senza che ci sia qualcuno deputato all’ortodossia del retto pensare. Luoghi della non violenza, dove la responsabilità maggiore è
quella di far crescere la libertà dell’altro per far crescere la propria.
Luoghi delle più svariate compresenze di volti e di identità, inclusa
«la compresenza tra i morti e i viventi» di cui parlava Aldo Capitini,
tra i teorici e i protagonisti dell’ecologia umana ante litteram. Tra
parentesi, lo dico per quelli che ci richiamano sempre alla «praticità», luoghi così costerebbero molto meno di un qualsiasi anfratto
manicomiale o apartheid psichiatrico.
Se idee di questo genere diventano impraticabili dipende soprattutto dagli interessi della corporazione medica e psichiatrica, che si
vedrebbe scalzare dalle ventose della sua piovra la materia prima:
quei «malati di mente» che loro continueranno a fabbricare a bella
posta.
Potrebbe essere invece un’idea da approfondire e a cui dedicare
molto tempo, pur essendovi preoccupazioni di carattere teorico e
pratico. Ho il timore infatti che le comunità o centri di ecologia
umana territoriali possano costituire un pretesto maggiore per
l’abbandono dei più deboli da parte dei più forti, cosa che già succede con le cosiddette comunità terapeutiche o comunità protette: difficile entrarvi per la loro rarità, più difficile uscirne per il fenomeno
dell’accomodamento sociale. Le famiglie e i partner sociali, laddove
esistono, rifiutano di accogliere di nuovo tra di loro le persone che
ne furono emarginate. Probabilmente la soluzione migliore sarebbe
quella di potenziare territorialmente le associazioni culturali e i centri sociali esistenti, aprendoli alla visione dell’ecologia umana. Forse
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i due programmi sono compatibili, soprattutto se, come dicevo poco
fa, il colore viola si diffonde a prescindere dalle sedi o dai centri
organizzati. Infatti, alla fine di queste ambasce progettuali, mi ritrovo ancora una volta con un grande e vitale problema, che così vi
riassumo: trovare una soluzione sicura per i Rui Barbosa.
Ognuno nella vita ha un’idea, un ricordo che lo tormenta. Io ho il
ricordo di Rui Barbosa. C’è stato un politico e grande letterato brasiliano che rispondeva a questo nome, ma il mio Rui Barbosa era un
uomo di una trentina d’anni che ne dimostrava cinquanta.
Era una notte calda del gennaio del ’71, se non ricordo male. Ero
al mio quarto anno di volontariato in Brasile e dirigevo Vila Gen, una
scuola per l’alfabetizzazione e l’addestramento ai mestieri di giovani
e anziani dell’interno del Maranhão, uno Stato a sud della foce del
Rio delle Amazzoni. Quest’uomo era braccato da qualche centinaio
di abitanti del vicino paese di Guimarães. Era lebbroso, lo avevano
scoperto che «viaggiava gratis da più di un mese», nascosto tra i suini
stivati in fondo all’Aguia Negra, un bastimento che faceva la spola tra
i piccoli centri della costa nord e São Luìs, la capitale dello Stato. Lo
stavano finendo a bastonate. Riuscì a scappare, anche perché nessuno
osava tenerlo con le mani per la paura del contagio e, sempre inseguito, si buttò ansimante e spumoso come un cavallo stremato nel mio
piccolo ingresso, saltandovi dentro dal finestrone che dava sul piano
terra. Non so chi l’aveva guidato verso di me, non certamente la
torma feroce e vociante che lo stava cacciando dal paese, il più lontano possibile. Rui mi spiegò in seguito che era stato costretto a nascondersi in fondo al barco in una di quelle «cacciate» perché tra i confini
dei due o tre paesi coinvolti dalla sua indesiderata presenza non c’era
alcuna «terra di nessuno» dove lui potesse stare senza essere espulso a
bastonate da qualcuno degli opposti confinanti. «Não achei amparo
algum, senhor Alescio, in nenhum lugar. Botaram me fora de Bacurì,
e depois de Cururupù, e depois ainda de Mirinzal e de Alcântara.
Então, uma noite resolvii jogar me ao fundo de um barco, junto con
os porcos, e nunca mais sair p’ra olhar a luz do dia» (Non ho trovato
alcun rifugio, signor Alessio, in nessun luogo. Mi hanno cacciato da
Bacurì e poi da Cururupù, e poi ancora da Mirinzal e da Alcantara.
Allora, una notte ho deciso di buttarmi nel fondo di un barco, insieme
con i porci, e non uscire più a guardare la luce del giorno). Quella
fuga impossibile durava da due o tre anni, da quando era uscito per
errore dalla immensa terra dello Stato dell’Acre, a sud-est dello Stato
di Amazonas, dove viveva in una capanna, già malato ma ancora aiutato da qualche familiare. Insomma, per un anno accogliemmo Rui,
riservandogli una casa disabitata vicino la scuola. I ragazzi di Vila
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Gen facevano i turni per portargli da mangiare e fargli compagnia e io
stesso andavo frequentemente, portando spesso con me il mio piccolo
Daniele, nonostante la madre fosse preoccupata per il contagio. Rui
aveva perso già parte degli alluci e del naso, oltre che del sulfone
aveva bisogno di una buona alimentazione e di molta igiene personale. Lo incoraggiavo quindi a fare frequenti docce e a passarsi il sapone, ma già che le sue mani non avevano alcuna sensibilità, gli passavo
qualche volta la spugna sulla schiena. Mi ero informato presso l’infermiera Ivette della vicina missione canadese sulle precauzioni da prendere per evitare il contagio, regole di cui Rui stesso era a conoscenza
e che rispettava con noi scrupolosamente. Dopo un anno Rui vinse
contro il suo male, che si arrestò del tutto, ma non riuscimmo più a
proteggerlo dalla furia dei paesani che lo volevano comunque lontano
da loro. Dovetti arrendermi, pena la chiusura della scuola, ma anche
Rui ci chiese di dargli una mano per andar via. Così lo facemmo partire con un piccolo aereo Cessna in direzione Rio Branco, ai confini
dello Stato dell’Acre. Quella mattina, già alle otto, sulla pista di terra
rossa di Guimarães c’era tutto il paese. Chi non vedeva l’ora, chi
aveva qualche lacrima agli occhi. Anche Daniele e Melina, la mia
seconda nata da un anno, erano lì a salutare Rui. Giorgio Murgia, il
mio vice alla Vila Gen, aveva disposto tutto con molta cura. C’era nel
gruppo dei curiosi qualcuno che un anno prima avevo bloccato alle
soglie di casa mia mentre aveva il bastone in mano, e che girava la
faccia dall’altra parte per non incontrare il mio sguardo. Il senhor
Barbosa era tutto fresco di bagno, bello e colorito di viso, vestito e
incravattato meglio del comandante dell’aereo, a cui fu presentato
come un nostro illustre ospite. Sono ormai più di vent’anni. Ho perso
le sue tracce. Non so cosa darei per rivedere e riabbracciare Rui
Barbosa, magari sotto la luce chiarona di quella grande luna equatoriale (Senhor Alescio, a lua é a unica mulher que me quer – la luna è
l’unica donna che mi ama). Come vedete, non ho subìto alcun contagio fisico, ma ho dentro macchie di fuoco indelebili, per via di una
strana e inquietante intimità che lui mi riportava come da un nostro
comune pianeta, che era più lontano di Marte. Quando mi salutò,
prima di salire sul piccolo aereo mi disse: «Senhor Alescio, muito,
muito obrigado, porque você foi meu irmão, mas tenha ben guardada
uma bandeira branca sobre a Vila Gen, pois que eu entendo voltar
com um avião e bombardear todas estas casas enfeitadas de raiva por
me» (molte molte grazie, perché tu sei stato mio fratello, ma tieni
sempre esposta una bandiera bianca sulla scuola, perché intendo tornare con un aereo e bombardare tutte le case infettate di rabbia contro
di me). Rui Barbosa, ti cerco ancora. Dove sei? Ci darai il tempo?
Vorremmo issare bandiere bianche dappertutto. Anzi viola.
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APPENDICE
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RIAPPROPRIAMOCI DEI SINTOMI.
RIFLESSIONI SUL TELEFONO VIOLA DI BOLOGNA
di Noemi Bermani
Il Telefono Viola è in funzione a Bologna dal settembre del ’93. Questa
avventura mi ha vista insieme ad altri come promotrice e in seguito come
presenza costante all’interno del gruppo.
Non voglio qui assumere una posizione ufficiale di resoconto di un’attività, perché, dopo due anni, ognuno avrà da dire la sua.
Il Telefono Viola è un punto d’incontro di tante individualità diverse che
hanno in comune la disponibilità a mettere in discussione il giudizio psichiatrico e la volontà di difendere i diritti delle persone psichiatrizzate.
Diversi i percorsi delle persone che ci lavorano, varie le sfumature, molti i
livelli di accordo e altrettante le differenze d’approccio. Non partiamo da
un metodo, ma piuttosto il nostro metodo è proprio quello di non averne
uno e questo, che da un certo punto di vista è senz’altro una fonte di ricchezza, si è rivelato spesso anche un elemento scoraggiante. Parlo quindi
del mio punto di vista, della mia esperienza. Prendo la parola per fare alcune riflessioni sulla realtà del Telefono Viola di Bologna, su come la vedo e
su come vorrei vederla.
Il senso che «il telefono» ha per me è in stretto rapporto con la mia storia personale, per questo, per parlarne, vorrei fare alcuni accenni alla mia
esperienza. E non per un parlare di me fine a se stesso, ma per portare la
testimonianza di un percorso, quello che conosco meglio. Se ora lavoro al
Telefono Viola, è perché questo è stato per me innanzi tutto uno strumento
per guardare ai miei problemi «psichiatrizzabili», insieme ai problemi «psichiatrizzabili» o psichiatrizzati di altri, da un altro punto di vista, per poterli leggere smettendo di considerarli come una malattia da curare o da
nascondere e per poter confrontare momenti della mia vita con quelli di
tante altre persone.
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Mia madre è morta di dolore e di una «morte improvvisa», dopo anni di
alcol e psicofarmaci.
La mia presenza nel mondo, da quando ero bambina, è stata frammentata da lunghi periodi di vuoto e di silenzio, di corpo bloccato, di paura di
avvicinarmi agli altri. «Depressione grave» e «psicosi maniaco-depressiva» sono i termini che ho sempre rifiutato. Penso che spesso, oltre alla pericolosità del giudizio psichiatrico, la cosa più pericolosa sia la resa che una
persona fa alla propria convinzione di essere malata.
Ci sono stati momenti in cui la tentazione di restare fuori da questo
mondo era fortissima e neppure troppo consapevole. In cui ho desiderato di
essere pazza, passiva e accudita, magari per tutta la vita.
L’incontro con il pensiero non psichiatrico, con un modo di pensare
radicale ed estremo che mette in discussione certezze ed abitudini sociali, e
l’incontro con tutta la gente che intorno a questo discorso ruota (e che con
questo pretesto ho avuto modo di incontrare) è stata un’occasione per me
per rimettere insieme dei pezzi.
(All’inizio sono andata in loop: ero pazza o non ero pazza, mi conveniva
esserlo o non esserlo, e se non lo ero che senso avevano tutti quei momenti
che, come tanti, credevo di essere la sola a passare, quei momenti di cui
non potevo parlare con nessuno, che senso avevano le medicine di mia
madre, e se lei non era pazza, allora cos’era...). Non è semplice rinunciare
a delle certezze, neppure rinunciare alla certezza di essere malati. Non è
semplice per le persone che in prima persona vivono dei «sintomi», qualsiasi, né per le persone che vivono loro intorno. Per questo il giudizio psichiatrico funziona e in tante situazioni più o meno «difficili», o che non si
sanno gestire, non si vuole o non si riesce a farne a meno.
Né io né il Telefono Viola, né nessun altro ha una risposta pronta,
un’alternativa. Abbiamo voglia, però di provare a sperimentare percorsi
«inediti», ricordandoci sempre che ogni storia è una storia a sé.
Quello che mi ha stupito, più avanti, è stato accorgermi di come il problema fondamentale, quando una persona si trova in difficoltà a vivere,
diventi quello di dimostrare (agli altri e a se stessi) di essere o di non essere
pazzi, e non, come sarebbe probabilmente più utile, sentire la sofferenza (o
qualsiasi stato modificato che la sofferenza produce) e chiedersi se e come
sia possibile viverlo o superarlo.
Mi sono chiesta perché questo accadeva, per accorgermi come il dolore
fosse socialmente e culturalmente rimosso: non si poteva dire, a meno di
non passare per pazzi.
Non esiste un luogo nelle nostre città (parlo di Milano e Bologna, ma
credo che il problema sia uguale anche altrove), dove sia possibile presentarsi e vivere e agire mentre si è invasi dal dolore (o dalla confusione o da
tanti altri stati non previsti), a meno che non sia un luogo di diagnosi, di
terapia o perlomeno un luogo di giudizio. Non esiste un luogo (parlo di un
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luogo sociale e non della possibilità, peraltro rara, di passare momenti in
cui si sta male accanto a persone che ci amino) dove sia possibile fare questo mantenendo intatta la propria dignità.
La mia motivazione a lavorare perché il Telefono Viola di Bologna esistesse è nata dal desiderio di creare uno spazio dove il malassere, il «sintomo» e le esperienze che semplicemente nascono dalla impossibilità di
comunicare in maniera normata, usuale o produttiva, trovassero diritto di
cittadinanza oltre gli spazi di terapia. Un luogo nuovo, ma legato ad altri
luoghi e soprattutto a luoghi dell’espressione spontanea e della produzione
culturale non istituzionali.
Durante un seminario con Georges Lapassade e Piero Fumarola su rap
e stati modificati di coscienza (eravamo al DAMS nel 1991) si parlò anche
del processo contro Giorgio Antonucci, e da una serie di incontri e di coincidenze, tra musicisti e voglia di fare, nacque Conisuoni, un gruppo di
molte persone (una trentina) che per un anno e mezzo hanno suonato dentro al reparto autogestito di Imola1. Dopo varie «contaminazioni» e «germinazioni», ci ritrovammo a intraprendere, tra gli altri, due progetti: la
Scuola popolare di musica «Ivan Illich» e il Telefono Viola. Due progetti
«cugini», per così dire, che al di là di specificità molto particolari erano
legati al desiderio di aprire degli spazi non istituzionalmente previsti ma
che rispondessero a bisogni molto forti. (La Scuola popolare di musica ha
circa centocinquanta iscritti l’anno, mentre al Telefono Viola di Bologna si
sono finora rivolte quattro-cinquecento persone).
Il Telefono Viola è nato dall’esigenza di «uscire fuori». Potevamo farlo
tra amici, ma abbiamo voluto che fosse una cosa «proposta alla città», una
scommessa e una provocazione insieme. Dopo aver parlato del progetto
con persone e gruppi, abbiamo organizzato una serie di seminari, un
«corso di formazione per operatori», dopodiché è nata l’associazione, è
stata attivata la linea telefonica, si sono presi i contatti con gli avvocati e
con i medici, ci sono stati incontri e innumerevoli riunioni.
La risposta è stata altissima, moltissime le telefonate, moltissimo l’interesse da parte dei mezzi di informazione, istituzioni, cittadini, centri sociali.
L’entusiasmo delle persone di potersi trovare in un luogo non giudicante,
dove poter raccontare le proprie esperienze più insolite, semplicemente perché c’è l’esigenza e la possibilità di farlo (senza la richiesta né la garanzia di
un cambiamento da dover attuare), la possibilità di poter confrontare queste
esperienze, che il più delle volte invece sono nascoste o compatite, con quelle
analoghe di altre persone, questa è stata la molla che, pur tra mille difficoltà
(è sempre forte la tentazione di trovare un metodo per risolvere i problemi
che le persone pongono), ha fatto crescere l’attività del Telefono.
Il Telefono Viola c’è, è stato ed è un posto importante di riferimento e di
scambio per tante persone, più o meno psichiatrizzate. È un posto integrato
nel terreno culturale di questa città, sotterraneo o riconosciuto che sia, da
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cui, per fortuna, si è riusciti ad allontanare ogni tipo di curiosità morbosa
nei confronti della «malattia mentale». È un luogo dove la proibizione culturale a parlare del proprio dolore o del dolore altrui tra pari viene sospesa. Un luogo protetto? Non più di quanto lo sia un centro sociale.
È un posto dove le persone possono prendere in mano se stesse anche se
sono in difficoltà. Dove succedono cose e si fanno discorsi che non riesco a
riportare, ma che non smettono mai di stupire (e qualcosa stupisce quando
è nuovo). È un luogo che prima non c’era e dove si impara molto.
Non è uno strumento che possa sostituire in alcun modo un percorso
personale di ricerca di modalità di vita soddisfacenti. Non è e non può essere un luogo di presa in carico e di cura. Ma può essere un pezzettino di riferimento per questi percorsi personali. Dentro al Telefono a malapena le
difficoltà riescono ad essere accolte e a prendere parola. E di soluzioni non
ce ne sono, se non le strategie che di volta in volta le singole persone riescono a inventarsi.
Quando incontriamo una persona nuova, il gruppo funziona da contenitore, ma non c’è un rapporto asimmetrico come tra operatore e utente, o
meglio questo rapporto rischia di ricrearsi ogni volta, a volte si ricrea per
poi distruggersi nuovamente e magari ricrearsi ancora.
Quello che si cerca di fare è di ascoltare le persone con le loro storie, le
loro esperienze. E di garantire loro la possibilità di scegliere se e come
venire contenuti o curati (da qualcuno), rimanere o andarsene (dal
Telefono).
È importante, secondo me, riuscire a riportare i cosiddetti sintomi (c’è
stato chi ci ha raccontato dei ricoveri, chi delle sue visioni, delle voci, eccetera) all’interno dell’esperienza quotidiana da cui vengono separati.
Nessuno di noi sa «come si fa», ma ci siamo accorti che ascoltare senza
stranirsi è già molto.
Non c’è nessuna «valorizzazione romantica della follia» nel fare questo,
anzi sono convinta che quell’atteggiamento sia molto pericoloso, quasi
quanto l’eliminazione chirurgica fatta dalle diverse contenzioni (psichiatrica, farmacologica, fisica).
Per concludere vorrei proporre una lettura dei «sintomi» come stati
modificati spontanei di coscienza e del corpo, stati cui una persona arriva
quando, impossibilitata a muoversi liberamente a causa di un sistema reclusivo di un qualsiasi tipo (un sistema fisicamente reclusivo: manicomio, clinica, centro di diagnosi e cura, eccetera; oppure una prigione relazionale),
trova canali di espressione diversi e probabilmente non codificati. Questi
stati in genere non permettono alla persona di uscire dal sistema chiuso, ma
le permettono di sopravvivere, creando altri mondi dentro un sistema
sterile2.
Viceversa, la diagnosi psichiatrica di solito identifica la persona e la fa
diventare tutt’una con il sintomo con il quale la descrive. Uno diventa uno
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psicotico, uno schizofrenico, un depresso. Il sintomo si staticizza e diventa
una prigione relazionale ulteriore che si riproduce infinitamente e da cui
spesso non si esce. Oltretutto, le persone che vivono dentro prigioni relazionali raramente hanno la possibilità di confrontarsi con chi vive situazioni
simili.
Lo dico ancora una volta: il Telefono Viola non può garantire di essere
un luogo di risoluzione. Se questo avviene per incapacità nostra o per una
nostra eccessiva «umiltà», non sono in grado di dirlo. È però uno spazio di
frontiera. Riappropriamoci dei sintomi, rimettiamoli in circolo, provando
eventualmente a trasformarli con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, o provando a tenerceli così come sono. Il nostro lavoro sta nell’affermare che la psichiatria non è l’unica strada possibile da percorrere in certe
situazioni. E nel cercare nella pratica, come formichine, esperienze differenti. Lo facciamo per amore, certo, e perché ci siamo impuntati. Lo facciamo
per noi stessi, perché non abbiamo nulla da perdere e anzi tantissimo da
imparare.
Note all’Appendice
1. Su questa esperienza sono usciti alcuni articoli. Vedi Conisuoni in Giorgio
Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Sensibili alle foglie, Roma, 1993; e le riviste: «Pum-Progetto uomo musica», n. 2, Assisi, luglio 1992 e «I giorni cantati», n.
23/24, Roma, dicembre 1992.
2. Da Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino, Nel Bosco di Bistorco,
Sensibili alle foglie, Roma, 1990: «La reclusione è innanzi tutto un’azione: l’azione di
‘chiuder via’ qualcuno, inglobarlo, costringerlo in un sistema chiuso. Questo sistema
può essere una prigione, un manicomio, un brefotrofio, un collegio, un monastero, o
la stanza di una qualunque abitazione. Comunque sia, come ogni sistema chiuso, esso
offende le radici più profonde della vita. Le offende e le recide» [p.383]. «Ogni sottrazione ai vincoli societari fissati dai programmi omologanti, quando ciò non sia
garantito da specifici e riconosciuti rituali abreativi, minaccia l’ordine simbolico su
cui si fondano le sicurezze relazionali... mentre l’omologazione viene generalmente
presentata come ‘disagio necessario’ al consolidamento ed alla continuità della formazione sociale operante, all’azione deomologante non viene affatto riconosciuta la
funzione di ‘cura necessaria’ a questo disagio, di condizione del suo oltrepassamento,
non viene riconosciuta la sua funzione divergente e positiva. E da ciò consegue la sua
repressione» [p.385]. «...alcune ricerche sottolineano, quale esito della torsione,
quell’apatia, passività, mancanza d’iniziativa, regressione, incapacità di sopravvivere
fuori dall’istituzione... Queste ricerche, tuttavia, nulla sanno dirci di coloro che nel
tempo della reclusione coltivano l’abitudine a opporre quel ‘rifiuto interiore a diventare quello che la struttura vuole’ di cui ha scritto Primo Levi. Ma saranno proprio
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costoro che, con la loro esperienza singolare, s’inoltreranno per le vie d’una esplorazione inconsueta di quelle potenzialità del proprio corpo mai attinte nei flussi ordinari
dell’omologazione. Potenzialità che, del resto, sono virtualità sociali non attuate»
[p.387].
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LA RETE DEL TELEFONO VIOLA
• Telefono Viola di ROMA, 06/4467375 (via dei Campani 73,
c/o Libreria Anomalia, 00185). Responsabile: Alessio Coppola.
• Telefono Viola di BOLOGNA, 051/342000 (piazza di Porta S.
Stefano 1, 40125). Responsabile: Noemi Bermani.
• Telefono Viola di NAPOLI, 081/5510674 (via Pasquale Scura
77, 80134). Responsabile: Paola Silvi.
• Telefono Viola di CATANIA, 095/7231276 (via Naumachia
20, 95121). Responsabile: Giuseppe Bucalo.
• Telefono Viola di GENOVA, 010/280482 (via S. Luca 11 int.
4, 16124). Responsabile: Stefano Sguario.
• Telefono CCDU di MILANO, 02/92140561 (via Bizet 11,
20096 Pioltello). Responsabile: Roberto Cestari.
Si possono lasciare messaggi e numeri di telefono, autorizzare
il centro locale del Telefono Viola alla tutela legale dei propri
diritti, sapere gli orari per incontri di gruppo o colloqui personali.
Per Milano, in attesa di un centralino del Telefono Viola, ci si può
rivolgere al numero gestito dal CCDU e collegato al Telefono
Viola per la questione psichiatrica.
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Finito di stampare
nel mese di ottobre 1995
presso le Officine Grafiche Sabaini, Milano
per conto dell’Editrice A coop. sezione Elèuthera
via Rovetta 27, Milano
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Il telefono viola