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SCRIPTA EDIZIONI
Ricche Minere
Rivista semestrale di storia dell’arte
Anno ii, numero 4
Dicembre 2015
Direzione e redazione
Cannaregio 5243
30121 Venezia
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Giuseppe Pavanello
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Direttore responsabile: Enzo Righetti
© 2015 Scripta edizioni
ISSN 2284-1717
ISBN 978 88 98877 48 5
Sommario
Contributi
Giorgio Fossaluzza
Per Giovanni Bonconsiglio ritrattista...........5
Paola Betti
Spigolature su Coli e Gherardi,
“amici e compagni svisceratissimi”........19
Francesca Stopper
La bottega al San Lorenzo Giustinian,
“Orefici di primo credito,
e fama” tra Venezia,
Roma e Gerusalemme................................41
Giuseppe Pavanello
Gli stucchi veneziani del Settecento:
le fonti e le opere (III).................................61
Scritti per Antonello Cesareo (parte prima)
Adriano Amendola
Una proposta per Nicolas de Largillière...... 107
Maria Barbara Guerrieri Borsoi
Novità su Lorenzo Masucci..........................113
Maria Celeste Cola
Gioacchino Varlè, Andrea Vici,
Vincenzo Pacetti e “l’affare
delle gloriette” di Loreto..........................120
Alessandro Spila
“Come si possa in nuove forme fare
un lodevole uso de’ ritrovati de’ nostri
maggiori”. Cenni su Giobbe, Piranesi
e le antichità dei principi Colonna.......126
Matteo Borchia
Sulle due cornici di Paolo Spagna
a Stoccarda.................................................. 132
Elisa Debenedetti
Uggeri, Rossini
e la scuola panniniana............................. 138
Ricordo di Antonello Cesareo...................... 93
Bibliografia di Antonello Cesareo............... 96
Attualità
Laura Bartoni
Foreign artists in 17th century
Rome: dynamics of settlement
and integration strategies........................ 98
Christian Sapin, Les cryptes en France.
Pour une approche archéologique, IVe-XIIe siècle
(Tancredi Bella) ............................................... 149
5
Giorgio Fossaluzza
Per Giovanni Bonconsiglio ritrattista
Il primo catalogo sistematico dell’opera di
Giovanni Bonconsiglio detto il Marescalco
assomma circa quaranta numeri, ma comprende non più di due ritratti sicuri1. È firmato solo quello ritenuto l’Autoritratto (fig.
1) della Pinacoteca Capitolina in Roma2.
Databile alla metà degli anni Novanta del
Quattrocento mostra il pittore, all’apparenza non ancora trentenne, determinato
in una restituzione di sé veritiera e concisa.
Quanto a psicologia rivela autoconsapevolezza e certo volitività: l’indole, come ben
esprime lo sguardo, non è di un compiacente ma neppure di uno spavaldo. Nello stile si è còlto l’adeguamento alla linea
antonelliana conforme alla declinazione
più matura di Alvise Vivarini, quando alla
bottega partecipa il giovane Basaiti, o si è
stabilito il confronto a date ìmpari con i
primi esempi di Lotto per quanto essi siano d’introspezione più complessa e mirino
a un sentire più elevato3. Tali corrispettivi
dimostrano, in particolare, come sia assente in Marescalco la ricerca di un’astrazione
formale e, in luogo delle trasparenze che
contribuiscono a generarla, egli prediliga gli
effetti dell’incidenza della luce in superficie,
su una materia cromatica corposa e, quindi, meno soggetta a essere sensibilizzata. In
questo emerge come sostanziale il magistero e il confronto prossimo con Bartolomeo
Montagna all’insegna dell’esperienza lombarda, la quale si è supposto persino con-
divisa4. Forte di tali requisiti di stile fondati
sull’osservazione mediata di Zenale, Bramante e Bramantino, concentrati a un’altezza qualitativa ineguagliata nella Pietà ora
al Museo Civico di Vicenza, il Marescalco si
presentava poco dopo sulla scena lagunare.
La migliore ribalta per dar prova da ‘foresto’
della sua specifica ricerca e, a un tempo, per
aprirsi a una pronta ricettività. Lo dimostra, notoriamente, la pala dei Santi Cosma
e Damiano alla Giudecca del 1497, ora documentata dai due frammenti delle Gallerie
dell’Accademia di Venezia e della Collezione
della Banca Popolare di Vicenza ai quali si
appoggia stilisticamente l’Autoritratto5. Da
allora il Marescalco si adegua, in realtà, alla
linea belliniana anche nel suo meccanismo
divulgativo dei soggetti devozionali e persino in termini che possono risultare regressivi quanto a invenzione. È quanto rivela in
apertura del nuovo secolo, ad un tempo,
la poco nota Sacra famiglia e i santi Zaccaria
e Giovannino (fig. 2), un’opera firmata del
Museo Regionale di Messina, aggiornata ai
modi di Boccaccino e da porre a confronto
con la più tarda versione su fondo unito già
Humphrey Ward a Londra6.
All’Autoritratto della Pinacoteca Capitolina si è aggiunto da ultimo il singolarissimo
Ritratto di giovane donna al leggìo (fig. 3), già
in collezione Bodmer, una brillante attribuzione che corregge quella precedente a Giovanni Francesco Caroto7. L’anomalia tipolo-
1. Giovanni Bonconsiglio,
Autoritratto. Roma,
Pinacoteca Capitolina
19
Paola Betti
Spigolature su Coli e Gherardi,
“amici e compagni svisceratissimi”*
In seguito all’eccellente intervento di Denis
Ton – che pochi anni or sono ha finalmente
fornito una ricostruzione esaustiva del catalogo e della personalità stilistica dei lucchesi Giovanni Coli e Filippo Gherardi – si presentano qui, a ulteriore integrazione, alcune novità su opere e documenti relativi alla
coppia di affiatati artisti1. Dopo una prima
formazione in patria nell’ambito dell’Accademia aperta da Pietro Paolini intorno
alla metà del Seicento, seguendo l’esempio
di numerosi concittadini loro predecessori – Guidotti, Paolini, Pietro Testa, Paolo
Biancucci – questi si trasferiscono a Roma,
all’epoca punto di riferimento imprescindibile per l’acquisizione di qualsiasi aggiornamento culturale, per studiare con Pietro da
Cortona, capofila del barocco romano. Con
lo scopo di ampliare il proprio bagaglio di
conoscenze, in seguito i due, che sarebbero
diventati amici e collaboratori inseparabili, si spostano a Venezia, dove eseguono un
ciclo di tele di contenuto allegorico per la
biblioteca benedettina di San Giorgio Maggiore. Qui osservano con particolare attenzione i grandi pittori del Cinquecento, Tiziano, Tintoretto e soprattutto Veronese, di
cui si procurano anche alcuni originali, indice, questo, oltre che della loro ammirazione, del desiderio di assimilarne la tecnica e i
valori formali. Il mondo artistico lagunare,
ricco di stimoli e spunti di riflessione, avrebbe determinato profonde modifiche sul loro
modus operandi soprattutto quanto all’uso
del colore e della luce.
Rientrati a Roma, proseguono la propria
carriera ottenendo prestigiose commissioni
– spesso grazie all’intercessione di influenti
prelati loro concittadini, il cardinale Francesco Buonvisi e Giovan Battista Spada –
come l’affresco della cupola di San Nicola
da Tolentino con la gloria del santo titolare,
della galleria del palazzo Colonna – dove
la scena principale nella volta, dall’intenso
coinvolgimento emotivo, è realizzata con
una cromia sfarzosa di chiara memoria veneziana – e la serie di tele per il soffitto di
Santa Croce dei Lucchesi, la chiesa della folta comunità lucchese di stanza nell’Urbe, riscuotendo unanimi consensi. Approvazione
che addirittura avrebbe indotto l’esigente
regina Cristina di Svezia a tentare, peraltro
invano, di accaparrarsi l’esclusiva del loro
operato dopo essere rimasta colpita dall’armonioso intervenire “insieme in una medesima figura e in una medesima testa”, come,
per primo, riferisce il marchese Giacomo
Sardini nella biografia dei due pittori2.
Tra il 1668 e il 1672 Coli e Gherardi conducono il primo lavoro di destinazione pubblica per la città natale, i tre quadri richiesti
per ornare il presbiterio di San Tommaso
in Pelleria, ristrutturato pochi anni prima
e decorato di stucchi su progetto dell’architetto di educazione borrominiana Giovanni
Maria Padredio, attivo nello stesso torno
1. Giovanni Coli e Filippo
Gherardi, Trinità in gloria,
particolare. Lucca, cattedrale di
San Martino, catino absidale
41
Francesca Stopper
La bottega al San Lorenzo Giustinian,
“Orefici di primo credito, e fama”
tra Venezia, Roma e Gerusalemme
Una coppia di Torciere in argento, eseguite a
Venezia, fiancheggia l’altare maggiore della
chiesa del Santissimo Salvatore a Gerusalemme (figg. 1-7). Assegnate alla bottega al
San Lorenzo Giustinian, sulla base delle fonti1, occupano un posto di indiscusso rilievo
nel panorama dell’oreficeria veneziana del
XVIII secolo.
Tra i pochi manufatti d’ambito veneto
di quest’epoca a esser stati presentati in un
contesto internazionale – nel 2013 facevano
mostra di sé all’esposizione Trésor du SaintSèpulcre. Présents de cours royales européennes
à Jérusalem, allestita presso il Château de
Versailles e la Maison de Chateaubriand a
Châtenay-Malabry – le Torciere sono state
oggetto d’indagine da parte di valenti studiosi2. Eppure il loro luogo di conservazione, prestigioso quanto remoto, ha indirettamente relegato nell’ombra l’attività di
questa officina orafa, fra le prime alla metà
del secolo, insieme alle botteghe al Trofeo, al
Trionfo di Santa Chiesa, al Premio e all’Honnestà. Appare perciò di qualche interesse presentare alcune testimonianze sull’insegna al
San Lorenzo Giustinian per fare luce sulla sua
produzione, la committenza cui era soggetta, e le sue alterne fortune.
Prenderemo le mosse dalle opere gerosolimitane che, tra gli esiti più felici della
stagione rococò, attestano le qualità artistiche ed esecutive, cui pervenne la ditta orafa.
Le Torciere mostrano caratteristiche tipo-
logiche affini alla forma di candelabro più
diffusa all’epoca, trasposta in dimensioni
monumentali. Innalzate su piedi incentrati sull’elemento della conchiglia – emblema
rocaille –, si caratterizzano per una base sagomata a facce leggermente incavate, che si
orna di campiture a graticcio su cui spiccano cartigli asimmetrici, delimitati da tralci
di palma, volute, inserti vegetali e conchiglie, e inghirlandati da una corona inclinata,
che racchiudono rispettivamente lo stemma
francescano, la Croce di Gerusalemme e l’iscrizione “anno do. mdcclxii” (fig. 4). Sugli
spigoli del basamento siedono gli Evangelisti, accompagnati dai loro consueti attributi, eccetto San Marco, protettore di Venezia,
cui è riservata una posizione di rilievo sulla
cornice che separa il piede dal fusto (figg. 1,
5-6). E, ancora, riccioli a fusione, ispirati al
vocabolario delle conchiglie e delle spume
marine – repertorio che impronta di sé l’intera superficie dei manufatti –, profilano il
margine superiore della base (fig. 7). Il partito decorativo delle Torciere si arricchisce nel
nodo a vaso, su cui poggiano le personificazioni delle Virtù teologali, di targhe sagomate che racchiudono episodi della Passione di
Cristo, separati, sui lati minori, da coppie di
cherubini. Microsculture angeliche con gli
strumenti della Passione sono disposte sui
lati minori del rigonfiamento del balaustro
che include altri bassorilievi della Via Crucis.
Quest’ultimo elemento, rastremandosi, si
1. Bottega al San Lorenzo
Giustinian, Coppia di torciere,
particolare. Gerusalemme,
chiesa del Santissimo Salvatore
61
Giuseppe Pavanello
Gli stucchi veneziani del Settecento:
le fonti e le opere (III)
“Im Pallast Duodi”: si è riportato, nel primo
contributo sugli stucchi veneziani del Settecento, il testo di Johann Caspar Füssli relativo agli interventi di Carpoforo Mazzetti
Tencalla (e di Abbondio Stazio) nei palazzi
veneziani1. Il pensiero non può andare inizialmente che al Duodo, l’edificio celebre
in parrocchia di Santa Maria Zobenigo affrescato da Francesco Fontebasso, nel quale, peraltro, come s’è rilevato, non esistono
decorazioni in stucco, anche se l’indagine
in quell’enorme fabbricato non è ancora
del tutto completa e assai difficilmente lo
potrà essere in modo capillare. Si può proporre comunque un’altra interpretazione di
quel passo, orientata su un diverso edificio
identificabile con quel “Duodi”: il Contarini-Michiel a San Barnaba, com’è comunemente chiamato, nel quale sono presenti
estesi interventi decorativi in stucco. Del
ramo Duodo di San Barnaba era infatti nel
Settecento quel palazzo, a partire dal 1698,
quando Camilla Michiel si sposava con
Francesco Duodo di Alessandro, mentre la
proprietà totale dell’immobile risale al 1733,
grazie all’acquisto della parte prospiciente
il rio2.
L’edificio è noto agli studi sullo stucco
veneziano settecentesco fin da anni lontani,
ed è anzi stato talvolta ritenuto come uno
dei più significativi complessi realizzati nel
secolo XVIII – generalmente riferito ad Abbondio Stazio e Carpoforo Mazzetti Tencal-
la, oppure al nipote di quest’ultimo, Carpoforo junior –, anche per esemplarità e commistioni di tematiche, presentando, fra l’altro, elementi che corrispondono a una certa
immagine di una società che fantasticava di
alcove, di boudoir, di ‘ridotti’ e così via3.
C’è un problema in merito. Nel mezzanino ci si imbatte nella cosiddetta stanza
d’alcova, uno degli ambienti più noti di tal
genere, con caratteri così ‘veneziani’, alla
Molmenti e Damerini maniera, tanto da
indurre a qualche perplessità. Anzitutto,
la struttura4. Cosa ci fanno quelle aperture laterali curvilinee, a lato dell’arcata centrale, sul luogo dei tradizionali ‘retret’, in
cui sono posti elementi d’arredo ligneo in
bianco e oro con vasi alla sommità di curiosa conformazione? Un insieme indubbiamente eclettico. Inoltre: perché nell’atrio a
pianoterra ci accoglie, a lato dell’accesso alle
scale, un putto in atto di sollevare un tendaggio, posto su un frammento di timpano
arcuato con nappe? Come un biglietto da visita di quanto ci attende salita la scala: è un
Settecento immaginario che ci si squaderna,
da “tempo felice”, come si è più volte rilevato (figg. 2-5), nella volontà di essere, per così
dire, più casanoviani di Casanova, in linea
con le istantanee neo-settecentesche di un
Favretto o di un Bressanin5. Del resto, tutta
l’Europa sedotta dagli scritti dei Goncourt
sognava un nuovo ‘Settecento’, a colorazioni diverse, dal rosa al nero.
1. Decorazione di soffitto con
il Ratto di Europa. Venezia,
palazzo Duodo-ContariniMichiel
Scritti per Antonello Cesareo
(parte prima)
93
Ricordo di Antonello Cesareo
(L’Aquila 1971 - Trento 2013):
“A gentleman of probity, knowledge and real taste”
Mi si presentò, un pomeriggio di tanti anni
fa all’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, un giovane
studioso formatosi all’Università La Sapienza di Roma per parlare di neoclassicismo e
di progetti editoriali. Si era laureato sotto
la guida di Elisa Debenedetti su Gavin Hamilton, tema attraente quanto difficile, con
tutto quanto comporta di quello che oggi si
definisce sistema delle arti, dall’archeologia
alla pittura, dalla committenza, al collezionismo, al mercato.
Non si può dire che ad Antonello Cesareo mancasse il coraggio, al pari dell’entusiasmo, che aveva al massimo grado, come
la voglia di emergere.
Da quel colloquio scaturì l’idea di pubblicare ampia parte del suo lavoro su Hamilton
nella rivista della Cini «Saggi e memorie di
storia dell’arte». Avevo preso la decisione di
tornare alla grafica delle prime annate, con
sopraccoperta fregiata di un’illustrazione.
Quando glielo dissi, prese subito l’iniziativa
di chiedere lui stesso un fotocolor, pur costoso, di un quadro di Hamilton da apporre
sulla rivista come un sigillo dei suoi studi
sull’artista scozzese. E così avvenne: era il n.
26, uscito nel dicembre 2003. Il saggio supera le cento pagine e in copertina comparve il
Giove e Giunone di Holkham Hall.
Diventerà prassi negli scritti di Cesareo
includere nel titolo una frase d’epoca, spesso in inglese – qui : “A gentleman of probity,
knowledge and real taste” e lo era lui stesso
–, lingua che conosceva molto bene e che gli
permetteva di essere qualificato punto di riferimento per gruppi di viaggiatori inglesi e
americani in visita a Roma.
Era aquilano e aveva, verso la sua città, un
attaccamento fortissimo, e non occorre insistere sulle sue angosce dopo il terremoto in
Abruzzo del 2009. Alla sua terra ha dedicato
più di un intervento, a partire dall’articolo
apparso nel «Bollettino d’arte» (2003) sulle
Storie di Mosè nel casino Branconio.
Coerente, vinto il dottorato di ricerca alla
Sapienza, la scelta di occuparsi della collezione di Lord Arundel; così come, partendo
da Gavin Hamilton, era automatico concentrarsi pure su Canova: studi che costellano
a intermittenze la sua attività scientifica,
dall’articolo apparso su «Neoclassico» (2002)
sino al volume, uscito nel 2012 su Antonio Canova e l’Accademia di San Luca; per non parlare della sua assidua presenza ai convegni di
Possagno. Consequenziale, riconoscendo la
qualità dei suoi contributi, la decisione della commissione per l’Abilitazione Scientifica
Nazionale di attribuirgli nel 2013 le funzioni
di Professore associato nell’Università.
Artisti romani e artisti d’oltralpe: è fitto
il dialogo che viene a intrecciarsi, in contributi apparsi in riviste – «The Burlington
Magazine» compreso –, quindi in atti di
convegni e in cataloghi di mostre. Gli stranieri: Hamilton, Arundel, ma anche Tho-
98
Laura Bartoni
Foreign artists in 17th century Rome:
dynamics of settlement and integration strategies
1. Rome, Archivio Storico
del Vicariato, Sant’Andrea
delle Fratte, Status Animarum,
frontispiece
The greater part of studies on foreign artists residing in Rome in the 17th century
used as privileged sources data from parish
registers, preserved today in the Archivio
Storico del Vicariato in Rome, and made
available as early as the mid-20th century
by the pioneering research of Johannes
Godefridus Hoogewerff, Jacques Bousquet
and Friedrich Noack for, respectively, the
Flemish and Dutch, French, German communities1. A major source for the study of
the population in general, preserved alongside the Registers of Baptisms, Marriages
and Deaths of the various Roman Parishes,
is the Status animarum (fig. 1), a ‘census’ of
the resident population within each parish
boundary carried out during Easter time,
with religious purposes and social control2.
Compared to the work carried out by the
earlier scholars, recent projects have included the importance of completing a wider
examination of the registers, which take
into account the entire population, since
it is only by analysing the whole context in
which a single artist was living, that one can
fully understand both his personal and his
working life3. In fact, alongside details of
age, provenance and occupation, the Status
animarum contains precious information
about types of dwelling, fellow tenants and
on the neighbourhood which, together with
the information provided by the Registers
of Marriages and Baptisms, allow us to in-
vestigate the network of social relationships
and how they reflected on professional life.
The present research takes into account
that area of the city which, in the second
half of the Seventeenth century, as is welldocumented, saw the greatest concentration of artists and craftsmen, with a substantial foreign presence: the area of the
‘Tridente’, between piazza del Popolo and
piazza di Spagna, included in the parishes
107
Adriano Amendola
Una proposta per Nicolas de Largillière
La mostra su Nicolas de Largillière (Parigi
1656-1746) svoltasi al Musée Jacquemart-André nel 2003 ha riacceso l’attenzione degli
studiosi su questo importante protagonista
della ritrattistica francese a cavallo fra Sei
e Settecento1, dopo i fondamentali studi di
Myra Nan Rosenfeld, curatrice dell’insuperata monografica di Montréal del 1981 2,
e di George de Lastic3. Largillière appare
indagato sotto la lente d’ingrandimento e,
in particolare, colpisce la sua mutevole capacità di dialogare con il ritrattato che si
mostra spesso in posa ufficiale, quasi protocollare, con il tre quarti e lo sguardo fisso
verso lo spettatore, nell’ambiente a lui caro,
oppure all’aperto in atteggiamento più disinvolto e amichevole, mondano. In alcuni
dipinti sembra anticipare soluzioni formali care ad Anton von Maron, un artista che
appartenne a generazioni successive, nato a
Vienna nel 1731, cui l’amico Antonello Cesareo ha dedicato molti studi incentrati sulla
ricostruzione della carriera e la lettura della progressione stilistica nella ritrattistica
settecentesca4. Il francese riuscì, come von
Maron, a ottenere una produzione pittorica di grande interesse per la varietà delle
sue tele, frutto della richiesta di una committenza sempre più esigente e della salda
formazione artistica. Quest’ultima vide nel
viaggio di formazione e nel soggiorno all’estero una tappa fondante; nel caso precipuo
di Largillière si svolse a partire dal 1668 ad
Anversa, presso lo studio di Antoine Goubeau e poi in Inghilterra dove l’artista rimase
quattro anni, tra il 1675 e 1679, quale allievo dell’italiano Antonio Verrio, divenendo
ben presto amico di Sir Peter Lely5, seguendo dunque rotte ben precise. A Largillière
mancò la tappa italiana, consuetudine per
l’epoca, ma l’artista non ne risentì potendo
con tutta evidenza in Inghilterra come in
patria disporre di molta pittura di maestri
italiani sulla quale esercitarsi, basti pensare
alle collezioni di Lely6, di Colbert, di Charles Le Brun e delle famiglie reali7. La fortuna
di Largillière consistette, come ha ben delineato Pierre Rosenberg, nell’aver suscitato
grande ammirazione per la propria opera,
in un periodo nel quale il genere del ritratto appariva mutevole e messo in discussione dalla preponderante pittura di storia. Il
nome di Largillière, secondo lo studioso, è
sinonimo di tutta la produzione francese
di quegli anni, grazie alla sua non comune
longevità e all’agiatezza consolidata8; l’artista da solo produsse del resto nel corso della
sua carriera circa 1.200 tele9.
Scorrendo il catalogo delle sue opere, un
dettaglio ha colto la mia attenzione, apparentemente sfuggito alla storiografia. In
due composizioni, una natura morta e un
ritratto, il francese inserisce significativamente una piccola effigie, eseguita su rame,
dalla connaturata preziosità; oggetto molto
diffuso tra i ranghi dell’aristocrazia. Per il
113
Maria Barbara Guerrieri Borsoi
Novità su Lorenzo Masucci*
Grazie ad alcuni studi recenti conosciamo
oggi un po’ meglio l’attività di Lorenzo Masucci che seguì le orme del padre Agostino
con minor talento e fortuna, ma con riconoscimenti ufficiali importanti – fu accademico di San Luca e Virtuoso al Pantheon –,
che ne attestano l’apprezzamento nel panorama dei pittori romani di fine Settecento1.
Si formò presso il padre, quando questi
era all’apice del successo garantitogli dall’essere l’ultimo erede ‘ufficiale’ della pittura
marattesca, che declinava in forme ormai
presaghe dell’incipiente neoclassicismo.
Nel sesto decennio del secolo, Lorenzo
Masucci era già attivo per le chiese romane:
nel 1756 eseguì per la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte il Riposo durante la
fuga in Egitto, opera forbita e ben condotta
anche nella resa del paesaggio2.
Probabilmente poco dopo ricevette l’incarico di dipingere un quadro per la chiesa
del Santissimo Nome di Maria, verosimilmente grazie all’interessamento paterno.
Per questo edificio ecclesiastico Agostino
aveva infatti realizzato una celebre Educazione della Vergine a opera di sant’Anna, donata al
pio sodalizio nel 1757, le cui vicende erano
tuttavia iniziate assai prima. Nel 1749 Ignazio Collotti aveva commissionato all’artista
un dipinto che avesse come figura principale sant’Anna, e gli aveva versato 150 scudi, morendo poco dopo. Agostino Masucci
portò a termine l’incarico, offrendo alla
chiesa il valore eccedente la cifra ricevuta,
purché il quadro, in loco già nel 1750, risultasse inalienabile3.
Nel 1750 la decorazione della chiesa del
Santissimo Nome di Maria era composta
inoltre da due quadri di Nicolò Ricciolini,
uno dei quali sostituito nel 1755 da un dipinto di Stefano Pozzi4, cui si aggiunse, nel
1757, anche una tela di Antonio Nessi, allievo – come Pozzi – di Agostino Masucci, che
verosimilmente in questi anni fece affidare
al figlio Lorenzo la pala con i Santi Pietro
e Paolo, già citata al suo posto nel 17635. Si
tratta di un’opera che ci interessa da vicino poiché – come vedremo – a distanza di
molti anni Masucci ne eseguì una seconda
versione da inviare nelle Marche. La tela si
caratterizza per il forte scorcio, leggermente forzato, della testa di san Pietro, intento
a osservare la colomba dello Spirito Santo
che lo sovrasta, e immemore della presenza
dei fedeli, ai quali invece si rivolge la maestosa figura di san Paolo. L’angelo sulla sinistra è atteggiato in una posizione ricorrente
nei quadri di Masucci: colto in una sorta di
rotazione che media tra la visione laterale e
quella da dietro. Sullo sfondo è raffigurata
la basilica vaticana, che conferisce un aspetto più arioso a questa sorta di ritratto di
corte dei due apostoli.
Gli anni Sessanta segnano un significativo aumento delle opere pubbliche di Masucci. Nel 1762-63 fu completamente ristruttu-
120
Maria Celeste Cola
Gioacchino Varlè, Andrea Vici, Vincenzo Pacetti
e “l’affare delle gloriette” di Loreto
Il rinnovamento settecentesco della basilica lauretana, affidato nel corso del 1788 ad
Andrea Vici1, costituisce uno dei cantieri più
rappresentativi della cultura vanvitelliana
di fine secolo e di quel nuovo linguaggio architettonico, elaborato da Murena, Toma2,
Piermarini e Vici3, che pose al centro della
produzione progettuale l’esercizio del disegno e la conoscenza delle arti figurative.
Era stato del resto presso Francesco Appiani a Perugia e più tardi presso Stefano
Pozzi a Roma che Andrea Vici si era formato4, imparando a conoscere l’arte del disegno
e della pittura in uno degli studi più aperti
e internazionali della città, frequentato in
quegli stessi anni da Brenna e Quarenghi.
L’apprendistato nella bottega di Pozzi, in
contatto almeno dal 1744 con Luigi Vanvitelli, aveva avuto un ruolo decisivo nella
formazione di Vici che al suo maestro aveva continuato a guardare fino alla fine della
sua lunga carriera di architetto. L’esito più
fecondo delle nuove personali ricerche architettoniche, frutto della totale assimilazione
degli insegnamenti di Pozzi e Vanvitelli, fu il
cantiere di Loreto dove Vici riuscì a unificare
brillantemente il carattere vanvitelliano delle cappelle5 con il linguaggio neoclassico dei
mosaici e degli elementi scultorei.
Il lungo rapporto di collaborazione e di
amicizia tra Andrea Vici e Vincenzo Pacetti6
(fig. 1) aveva avuto inizio nel settembre del
1785, quando l’architetto di Arcevia grazie al
voto di Pacetti aveva ottenuto l’accademicato di San Luca7. Da quel momento il legame
tra lo scultore romano e Andrea Vici che,
tornato a Roma dopo aver trascorso diversi
anni a Napoli e nelle Marche aveva visto riconosciute le proprie qualità con la nomina
nel 1782 di primo architetto della Fabbrica
di San Pietro, si era consolidato intorno a
una serie di commissioni prestigiosissime e
alla stretta collaborazione all’Accademia di
San Luca. Nel 1797 Pacetti era stato eletto
alla guida dell’istituzione romana, affiancato nella carica di segretario da Andrea
Vici che ebbe un ruolo chiave nella gestione
dell’Accademia in coincidenza di quel delicato momento economico che, se da una
parte aveva visto, per mancanza di fondi,
la soppressione dei Concorsi Clementini e
Balestra8 aveva spinto dall’altra Vici alla formulazione di un “codice di architettura”9.
In rapporto con i principali esponenti
della cultura architettonica romana degli
anni ottanta del XVIII secolo, Vincenzo Pacetti aveva avuto del resto da sempre con architetti, eruditi e disegnatori un legame profondo e stimolante che gli appunti del suo
Giornale restituiscono con l’immediatezza di
una scrittura a metà tra le note di un libro
mastro e le annotazioni di un diario10.
Nel 1781 Andrea Vici era stato nominato
“Architetto di tutte le fabbriche, edifici e fortificazioni della S. Casa” di Loreto e nel 1788
aveva ricevuto l’incarico di disegnare i nuo-
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Alessandro Spila
“Come si possa in nuove forme fare un lodevole uso
de’ ritrovati de’ nostri maggiori”. Cenni su Giobbe,
Piranesi e le antichità dei principi Colonna
Il ripetuto interesse sulla figura dell’imprenditore edile Nicola Giobbe, fra i maggiori
attivi a Roma nella prima metà del XVIII secolo, ha recentemente chiarito molti aspetti
sulla figura del primo mecenate e “maestro”
di Piranesi. L’attenzione storiografica si è
spesa principalmente nell’approfondirne il
profilo di singolare collezionista, bibliofilo,
studioso e teorico d’architettura1. Requisiti di
assoluto spicco se associati alla sua posizione
di tecnico, per quanto ricco, sempre collocato nel rango delle maestranze quale semplice muratore. Per la completa comprensione
del personaggio s’impone tuttavia un’analisi
aggiuntiva del suo operato professionale, al
quale molti passi della celebre dedica piranesiana del 1743 necessariamente sembrano
riferirsi2. Nella brillante carriera emerge sicuramente la lunga attività spesa per la famiglia Colonna. Il sodalizio con i principi
romani vede origine almeno dal 1696 quando il padre Antonio ottiene dall’allora abate
Carlo Colonna, neo-eletto Maggiordomo dei
Palazzi Apostolici, l’appalto per la facciata
della cattedrale di Frascati3 che darà il via al
duraturo rapporto fra i Giobbe e l’istituzione
dei Sacri Palazzi4. Negli stessi anni (dal 1698)
il contestabile Filippo II affida ad Antonio la
conclusione del cantiere della grande galleria
di palazzo Colonna5 divenendo capo mastro
muratore dell’Eccellentissima Casa, carica che
mantenne sino alla morte (1733) per poi trasmetterla al figlio. Alla luce di quanto sappia-
mo oggi sul personaggio non desta particolare stupore il ritrovamento, fra le molteplici
carte degli archivi Colonna a firma di Giobbe, di una quietanza a tergo di un conto per
lavori nel vasto circuito del palazzo ai Santi
Apostoli riportante: “Io sottoscritto ho ricevuto dall’Ill.mo Sig. D. Girolamo Colonna
un quadro rappresentante un paese dipinto
da Musieur Orizzonte e accordato il prezzo
in scudi quaranta, e questi in conto de lavori
fatti, e da farsi. Suo servitore in fede questi 3
ottobre 1743. Nicola Giobbe”6. Tale scambio
tuttavia, oltre a segnalare il rapporto con il
futuro cardinale Girolamo II e a fornirci notizie sulla possibile provenienza di uno dei
due dipinti di Jan Frans van Bloemen della
collezione Giobbe7, appare emblematico del
duplice ruolo di costruttore e allo stesso tempo intenditore d’arte e collezionista che l’impresario comasco rivestì nel lungo rapporto
professionale con i Colonna. Attività che vide
impegnato il giovane Nicola, sin dagli anni
dell’apprendistato paterno, in grandi manifestazioni artistiche del tempo. Oltre alle
opere edilizie e al mantenimento continuo
dei vasti possedimenti colonnesi nell’Urbe8,
Nicola ebbe modo di formarsi a tutto tondo
in differenti imprese di particolare rilievo. A
cominciare dall’allestimento della quadreria
e della statuaria nella galleria del contestabile, sino alle annuali messe in scena degli apparati effimeri per la Chinea di cui i Giobbe
si fanno carico a partire dal 1721 per tutte le
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ricche minere - 4/2015
Matteo Borchia
Sulle due cornici di Paolo Spagna a Stoccarda
Il 18 gennaio 1775 fece il suo ingresso a
Roma il duca del Württemberg Carl Eugen,
accompagnato da un ristretto seguito e da
Franziska von Hohenheim (1748-1811), la
donna cui era legato dal 1771 e che avrebbe
sposato nel 1785. A più di vent’anni dal suo
primo soggiorno nell’Urbe, avvenuto nella
primavera del 1753, il duca aveva scelto di
fare ritorno nella città papale proprio nel
periodo in cui era ancora in corso il conclave seguito alla morte di Clemente XIV. Sembra che la speranza di assistere all’elezione
del nuovo pontefice costituisse il motivo
principale di questa nuova discesa in Italia.
Dopo una breve tappa a Roma, durante la quale ebbe modo di incontrare alcuni
porporati appositamente usciti dal conclave, Carl Eugen si diresse a Napoli. Qui trascorse una decina di giorni, ammirando i
resti di Pompei ed Ercolano e le residenze
reali di Portici e Caserta. Tornò quindi a
Roma il 6 febbraio, riprendendo le visite ai
principali monumenti della città. La tanto
attesa elezione del nuovo pontefice avvenne
mercoledì 15 febbraio: il duca fece visita a
Pio VI quello stesso giorno e una seconda
volta prima di allontanarsi da Roma il 18 del
mese. Dal diario di viaggio del sovrano tedesco si ricava la cordialità con cui il papa lo
intrattenne in entrambe le occasioni1.
L’evidente ristrettezza dei tempi non permise al pontefice di consegnare al gradito
ospite le opere che tradizionalmente veni-
vano regalate ai sovrani stranieri in visita
a Roma. Fu solo dopo la partenza del duca
che si provvide a inviare a Stoccarda i donativi papali. A seguire l’intera vicenda fu l’agente romano di Carl Eugen, il partenopeo
Paolo Bernardo Giordani (1710 circa - 1781)2,
nello stesso periodo occupato a seguire le
numerose commissioni che il sovrano aveva
fatto a scultori e scalpellini durante le frenetiche giornate trascorse in città. Le relazioni inviate periodicamente da Giordani
alla propria corte, oggi conservate presso
l’Hauptstaatsarchiv di Stoccarda, permettono di ricostruire per intero la vicenda, dai
primi contatti con gli artisti coinvolti fino
alla spedizione dei doni papali.
Fu solo alla fine di marzo che vennero definite le opere da inviare al duca del
Württemberg. Giordani, nel corso di un
incontro col cardinale Alessandro Albani
e con monsignor Giovanni Archinto, maggiordomo papale, propose l’idea di un “tableau de mosaique, qui selon la coûtume
sera garni d’une corniche de metal dorè, et
justement me dit le Maggiordomo, qu’il y
en avoit un de Guido Reni d’un Ecce-Homo,
mais qu’il êtoit un peu petit”3. Il 5 aprile furono aggiunte alcune precisazioni: “On me
dit, que le S.t Pere vous à destinè un tableau
de mosaique de Guido Reni, qui represente Jesus Christ couronè d’epines, et un’autre de tapisserie de la S.e Vierge de Charles
Maratta […]”4. Già pochi giorni più tardi,
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ricche minere - 4/2015
Elisa Debenedetti
Uggeri, Rossini e la scuola panniniana
I preziosi suggerimenti di Rodolfo Lanciani, sparsi fra manoscritti e cartelle custoditi
presso la Biblioteca dell’Istituto Nazionale
di Archeologia e Storia dell’Arte, ci permettono di intravedere in alcuni artisti della fine
del Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento una filiazione stilistica da Gian Paolo
Pannini; e di raccogliere, di questi stessi, una
ricca produzione di vedute panoramiche dei
sette colli di Roma. Si direbbe che l’archeologo rivolga un’attenzione particolare al
famoso quadraturista emiliano, e soprattutto al figlio di questi, Francesco, dai cui
discendenti acquistò molti esemplari della
sua collezione, dando loro quasi maggior
rilievo che non alla contemporanea grafica
piranesiana.
Consideriamo due olii su tela di Pannini senior, del 1749, ora conservati a Sanssouci e commissionatigli en pendant da Federico II di Prussia, raffiguranti la Veduta
del Foro Romano dal Clivo Capitolino e Roma
dalle pendici di Monte Mario (fig. 1)1: del primo sopravvive una copia in acquerello con
minime varianti del figlio e un’incisione
di Volpato da disegno dello stesso, e del
secondo soltanto l’acquaforte degli stessi
autori, del 17792. La medesima veduta poi,
in formato molto più piccolo, fu riprodotta pressoché identica in una incisione
di Giovanni Battista Cipriani (conservata
nell’album BiASA, Roma XI.42) e ne venne
anche ricavata una stampa: un grande pa-
norama inciso da Giovanni Trevisan sempre nel 1779 e pubblicato dalla Calcografia
Camerale3. Stampa che decretò il vasto
successo di questa immagine, usata sino
alla fine del secolo per corredare libri illustrati e guide di Roma; tanto che lo stesso Cipriani ne ricavò l’acquaforte, datata
1797, che apre il suo volume Vedute principali e più interessanti di Roma. Nello stesso
album Roma XI.42 si trovano “i sette colli
di Roma” (uno mancante) di Bartolomeo
Pinelli, accanto a una interessante pagina
di alberi dai rami nodosi e fronzuti che si
intrecciano fra di loro di Angelo Uggeri.
A quest’ultimo Lanciani attribuisce grande importanza, tanto che in BiASA Roma
XI.61 si trovano altre tavole sempre a lui
riconducibili4.
Si tratterebbe di fogli precedenti a quelli
delle Giornate pittoriche degli edifici antichi di
Roma e dei suoi dintorni, mai presi in considerazione e non permeati da quella sorta di
follia antiquariale che attraversa le Journées;
tenendo anche presente come lo stesso Cicognara giudicasse l’opera completa dell’abate milanese come “non priva di qualche
cosa di buono anche se vi si sarebbe bramato un ordine migliore e una più scrupolosa
diligenza”5: vi si è individuata una chiara
ascendenza nordica, che si mantiene costante anche nei disegni a queste anteriori
cui abbiamo accennato6. Sussidio a entrambe le serie è comunque un prezioso Taccuino
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Christian Sapin, Les cryptes en France.
Pour une approche archéologique, IVe-XIIe siècle
Paris, Picard, 2014, 316 pp., 398 ill.,
col., euro 76
ISBN 978-2-7084-0965-1
Il titolo della recente monografia di Christian Sapin, Les cryptes en France, forse opzionato per ragioni innanzitutto confinate
alla diffusione del prodotto editoriale, non
rende giustizia all’auctoritas di un libro che
non è affatto – se non nell’ultima porzione
– una panoramica esclusivamente riferita
al territorio francese, come invece si crederebbe di primo acchito1. Il volume è in realtà molto di più. Si tratta nello specifico
di un audace studio della cripta medievale
tout court: delle sue origini, del suo molteplice utilizzo, dell’evoluzione morfologica e
della sua scomparsa storica. Certo, il punto
d’osservazione rimane la Francia – inevitabile – e il terreno di gioco è in buona parte
quello. Senza dubbio è una summa sull’argomento, tutt’altro che superflua, ed è anche un saggio equilibrato e solido, che non
lesina approfondimenti puntuali e in certi
aspetti inediti e che intercetta a buon diritto gli studi medievalistici italiani. Le cripte
altomedievali e romaniche, specie d’ambito
francese, non sono di sicuro sconosciute
nello scenario degli scritti di storia dell’arte
medievale e di archéologie du bâti. Questo libro tuttavia, accuratamente pubblicato nelle raffinate edizioni Picard ed esteticamente
piacevole anche per l’elegante impaginazione, riconsidera globalmente il tema, per di
più alla luce delle ultime campagne di scavo
archeologico e di restauro architettonico,
proponendo aggiornate interpretazioni,
talvolta precisando fasi e datazioni per lo
stesso complesso monumentale e provando così a rileggere fatti e fenomeni, messi
a confronto in serrate griglie cronologiche
e tipologiche ben più che meramente regionalistiche.
Sviluppo di indagini di lunga articolazione, condotte – si constata nel Préambule – a
più tranches nel corso degli ultimi decenni, lo studio di Sapin mostra uno spessore
scientifico d’eccezione ma non ha di certo
la pretesa di essere esaustivo. Questo libro
non lo è e non poteva esserlo: forse è bene
tenerlo presente da subito, nell’accingersi a
sfogliarne le pagine. Le ricerche presentate
vogliono d’altronde inserirsi esplicitamente
in un quadro di apporti ben più ampio, cui
l’autore fa continuo riferimento. Eppure
del tutto originale è per alcuni versi il taglio
del volume, chiarito sin dalle prime battute
e poi snocciolato via via. Attraverso analisi
ex novo o tramite la rilettura critica di casi
archeologici già acclarati, il lettore è introdotto in un percorso a ritroso nello spazio
e nel tempo alla riscoperta di modelli architettonici per mezzo di esempi significativi,
apparentabili non soltanto geograficamente, nell’Europa tra IV e XII secolo.
Quest’opera rivela innanzitutto un’intelligenza interpretativa di fatti storici, di
impianti planivolumetrici, di resti archeologici e perfino di semplici e nude pietre,
alimentata da un rigore metodologico che è
frutto di un vero lavoro d’équipe, condotto
insieme a esperti in materia, in prevalenza
attivi presso il Centre d’études médiévales
di Auxerre, e non solamente2: una compagine di studiosi, che si crede opportuno menzionare anche per il contributo offerto al
volume tramite molte elaborazioni grafiche
finora inedite o mediante rappresentazioni
di restituzione, utili a suffragare le ipotesi
ricostruttive di assetti oggi parzialmente
perduti (fig. 2).
Le indagini pubblicate affondano peraltro
in un’aggiornata bibliografia internazionale, forse dall’autore troppo sintetizzata, alla
quale saldamente si ancorano, ben inteso
franco-centrica sì, ma non dimentica di alcune fra le ricerche in questi anni condotte
quantomeno in Italia, Svizzera, Germania,
Spagna, Belgio e Inghilterra. E questo è un
altro merito del volume: una messa a punto,
€ 29,00
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