comune di rovolon
Rovolon
STORIE DI UNA COMUNITÀ
DEI COLLI EUGANEI
cier r e gr afic a | co m une di rovo lon
Questa pubblicazione è stata realizzata grazie al sostegno di
Edito dal Comune di Rovolon
durante l’Amministrazione del Sindaco Francesco Baldan
© Copyright 2011 Comune di Rovolon
Cierre Grafica, Caselle di Sommacampagna, Verona
www.cierrenet.it
ROVOLON
STORIE DI UNA COMUNITÀ
DEI COLLI EUGANEI
a cura di
Claudio Grandis
Con contributi di
Cristina Capodaglio, Renzo Forestan, Carla Frasson,
Claudio Grandis, Manfredo Manfredini, Vittorio Miotto,
Stefania Montemezzo, Aldo Pettenella, Don Antonio Pontarin,
Francesco Tognana, Scuola Secondaria di primo grado di Rovolon
comune di rovolon
cier r e gr a fi c a | co m une di rovo lon
Per le immagini fotografiche:
- Archivio Comunale di Rovolon, pag. 34, 35, 38, 39, 58, 59, 126, 127, 185, 211, 220, 246
- Archivio Parrocchiale di Bastia, pag. 64, 108, 111, 113, 114, 117, 118
- Mario Bortolami di Padova, pag. 234
- Rino Fiocco di Rovolon, pag. 17, 29, 101, 106, 107
- Renzo Forestan di Rovolon, pag. 57, 61, 140, 165, 168, 172, 174
- Fabiola Gagnolato di Rovolon, pag. 94
- Claudio Grandis di Selvazzano Dentro, pag. 18, 20, 21, 37, 56, 62, 63, 76, 80, 83, 90, 186, 190, 191, 197, 207,
209, 237
- Manfredo Manfredini di Padova, pag. 226, 227, 229, 230, 231, 232
- Vittorio Miotto di Rovolon, pag. 150, 151, 152, 155, 156, 157
- Ottorino Paccagnella di Rovolon, pag. 77, 84, 104, 130
- Francesco Perencin di Padova, pag. 12, 60, 136, 164, 192, 224 (in basso)
- Mario Saggiorato di Rovolon, pag. 91, 128
- Scuola Secondaria di primo grado di Rovolon, pag. 210, 240, 242, 243, 244, 245
- Marta Segato di Rovolon, pag. 206
- Giuseppe Trevisan di Cervarese S.C., pag. 16, 31, 36, 47, 67, 81, 93, 97, 98, 102, 120, 133, 166, 182, 183, 189,
212 (in alto), 214, 222
- Aldo Zanellato di Padova, pag. 22, 71, 74, 75, 85, 123, 147, 159, 170, 178, 187, 196, 198, 199, 200, 202, 203,
204, 212 (in basso), 213, 221, 223
- Foto esposizione mostra fotografica di Carbonara, pag. 124, 125, 129, 132, 205, 241
- Associazione Le Fontane di Carbonara, pag. 208
Con un grazie particolare a tutti coloro che hanno contribuito e collaborato.
Indice
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Saluto dell’Amministrazione Comunale
Presentazione
L’AMBIENTE E LA STORIA
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71
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Claudio Grandis
Rovolon: una comunità tra colline e pianura
Francesco Tognana
Dal villaggio medioevale alla villa: insediamenti,
castelli e strutture fortificate
Claudio Grandis
I boschi
Carla Frasson
Il bosco della Carpaneda
Stefania Montemezzo
Case vecie e campi magri.
Vivere contadino e sviluppo delle colture agricole a Rovolon in età moderna
Cristina Capodaglio
Il Comune di Rovolon nell’Ottocento
Claudio Grandis
Il mulino di Rovolon
Claudio Grandis
Il mulino di Carbonara
Aldo Pettenella
Altri promessi. Storia padovana del secolo XVI
SUL FILO DELLA MEMORIA
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149
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La seconda guerra mondiale a Rovolon
La mia gioventù. Ricordi di Vittorio Miotto
Il monumento ai caduti
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rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
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Renzo Forestan
Storia e vita contadina
Renzo Forestan
Un rito della campagna: le rogassion
MONUMENTI E PALAZZI
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225
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231
233
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Don Antonio Pontarin
La chiesa di San Giorgio di Rovolon
La chiesa di Santa Maria di Bastia
La chiesa di San Giovanni Battista di Carbonara
Villa Papafava alle Frassanelle
Villa Tosi, Priuli, Fogazzaro, Faggion a Lovolo
Villa Barbaro, Marchesi, Pierantoni
Villa Da Rio, Rubini, Canal
Villa Da Rio, Soranzo, Schiavinato
Villa Lion, Fardigo, Fasolo
Villa Lippomano, Barbarigo, Martinengo, Montesi
Villa Ottavia
Villa Papafava, Casiraghi detta “Il Palazzetto”
Villa Manfredini
Renzo Forestan
Il complesso rurale di via Loredan
Claudio Grandis
Ca’ Costigliola
Scuola Secondaria di primo grado di Rovolon
I capitelli della devozione popolare
Saluto dell’Amministrazione Comunale
Rovolon è un paese tranquillo, mollemente adagiato fra la pianura e le pendici dei Colli Euganei, un posto dove è bello vivere sia per la splendida cornice
paesaggistica, sia per il clima di amicizia e di collaborazione che si respira
nelle numerose feste e manifestazioni culturali ed enogastronomiche. Gli
abitanti ovviamente vivono il presente, vedono il paese com’è ora, con i suoi
quartieri, le piazze, le rotonde, le scuole e le zone artigianali e industriali, ma
ignorano tutto della storia e delle tradizioni del posto in cui vivono, soprattutto i nuovi arrivati; gli abitanti tradizionali comunque hanno una memoria
storica che non supera le due generazioni, oltre le quali tutto svanisce nella
nebbia del passato. Negli ultimi dieci anni l’Amministrazione Comunale ha
cercato di far conoscere il territorio attraverso molte iniziative, fra cui un
aggiornato Sito Internet e la realizzazione di un DVD intitolato “Colori e
Sapori di Rovolon”, ma ha messo in cantiere anche l’ambizioso progetto di
un libro che raccontasse ai cittadini la storia, le tradizioni e le vicende vissute
di coloro che nei secoli hanno abitato e trasformato questi luoghi, rendendoli
a noi incantevoli come li vediamo oggi. Il lavoro che finalmente vede la luce
rappresenta la prima ricerca storica scritta in modo organico ed approfondito
sul Comune di Rovolon e sulle sue frazioni di Bastia, Carbonara e Lovolo ed
è il risultato di una lunga e faticosa gestazione di meticolose ricerche negli
archivi comunale, parrocchiali e di Stato.
È quindi doveroso da parte nostra un vivo ringraziamento agli autori dei singoli studi, a Don Antonio Pontarin per la documentazione che ci ha messo a
disposizione e a Claudio Grandis, che, con l’ammirevole pignoleria propria
del ricercatore coscienzioso, ha coordinato ed assemblato tutto il lavoro.
Poiché è più facile amare ciò che si conosce, speriamo che questo libro, che
consideriamo come la ciliegina sulla torta del nostro mandato amministrativo, possa aprire la mente del lettore, soprattutto se giovane, e stimolarla alla
conoscenza della storia e delle tradizioni del suo paese.
Presentazione
«Rovolon è luogo antico, già sede di podestà, culla della omonima famiglia
medioevale, alla quale apparteneva il castelletto Delle Rocche. Ne rimane
superstite a sinistra, sotto il Monte Madonna cupo di boschi (sulla sommità il
Santuario della Madonna, col piccolo monastero benedettino), una torretta
che si drizza su uno scheggione. La parrocchiale di S. Giorgio risale al tempo dei longobardi (sec. VII-VIII). Fu ricostruita nel sec. XV dai monaci di
Santa Giustina, restaurata nella metà del passato secolo [XIX] e manomessa,
da poco accorti interventi, nel 1911. Bella la vista che si gode dal sagrato. A
sinistra l’osteria Fasolo, in un curioso edificio secentesco con portichetto interno» [Callegari, 1973, p. 331-332].
Come una pennellata di fresco colore, le parole di Adolfo Callegari così dipinsero nel 1931 il capoluogo del nostro comune ai lettori della Guida dei Colli
Euganei. Un affresco che ancor oggi si presenta intatto allo sguardo curioso
sia del turista occasionale sia del residente che in questa terra riconosce la
propria patria. Pochi dati sintetici riassumono una storia più che millenaria,
incisa sulle pietre, sul disegno agrario, sulle case antiche disseminate tra i
clivi delle ultime propaggini degli Euganei. La pianura aperta a settentrione
si svolge anche ad occidente verso le colline beriche, tagliata dall’alveo dello
scolo Bandezzà, secolare linea di confine tra il territorio padovano e quello
vicentino.
Gli uomini che in quest’area si sono insediati hanno trasformato lentamente un paesaggio originariamente boschivo e ricco d’acque in fertile pianura,
lasciando nei nomi di luogo la memoria dell’antica geografia. Rovolon, Carbonara e Bastia riportano infatti proprio alla vegetazione di questa terra: piante di rovere, carbone di legna e recinto fortificato interamente realizzato con
grossi pali, come un fortino del Far West cinematografico. Il bosco è rimasto
sopra gli abitati di Rovolon e Carbonara, attorno alla vetta del Monte Grande
e del Monte della Madonna e tuttora avvolge le basse colline di Frassanelle,
del Serèo, del Viale, dello Spinazzola e del Matello. L’economia rurale e quella
silvo-pastorale hanno dominato nel tempo la vita d’intere generazioni, spesso
alle prese con proprietari esigenti, monasteri onnipresenti e calamità inattese.
Le pagine di questo libro raccontano alcuni momenti di questa lunga vicenda
umana, indugiando su alcuni aspetti del passato, quelli cioè che più di altri
hanno lasciato memoria scritta, non solo sulle carte del tempo. Alcuni racconti e le testimonianze di altrettanti protagonisti trovano spazio nelle pagine di questo libro: poiché anch’esse sono memoria, cronaca di un vissuto che
il tempo trasforma e fa divenire storia.
Nel passato di una comunità affondano le radici del presente e la genesi
10
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
di quanto ci sta attorno. Sono le fondamenta del nostro essere, del nostro
ritrovarci attorno a valori comuni, a luoghi conosciuti, a persone familiari.
Non può essere diversamente. Senza citare consumati aforismi e celebri frasi sull’importanza della storia, qui è sufficiente ricordare che una comunità
è viva, ha un suo volto, ha una sua identità proprio perché ha una sua storia.
L’intento di queste pagine è principalmente questo: far rivivere momenti ed
episodi che il tempo ha inesorabilmente sepolto, senza tuttavia cancellarli o
distruggerli. Vicende, momenti che sono stati solo riposti nei grandi contenitori della memoria quali sono soprattutto gli archivi.
Da questi depositi, amati da chi fa ricerca, oscuri forse a tanti, provengono le
notizie che qui si presentano. Gli autori hanno attinto soprattutto negli archivi
parrocchiali, in quelli cittadini della Curia Vescovile e in quelli, forse più noti,
dello Stato, sia di Padova sia di Venezia, senza, ovviamente, tralasciare quello
comunale recentemente riordinato e inventariato. Un archivio, quest’ultimo,
nato all’indomani dell’Annessione del Veneto al Regno d’Italia (1866).
Il libro si presenta suddiviso essenzialmente in tre parti. Nella prima sono sviluppati i temi legati all’ambiente e alla storia; nel secondo la storia corre sul
filo della memoria del secolo appena trascorso. Nella terza sono i monumenti
e gli edifici di maggior pregio a occupare le pagine del volume. Nell’insieme
radunano tre decine di capitoli, alcuni brevi, altri più estesi. Gli autori che
hanno contribuito alla redazione di testi sono diversi, ciascuno tuttavia esperto dell’argomento trattato, sia che si tratti della ricostruzione delle vicende
castellane, sia che si affronti la storia dei boschi di pianura o dei mulini ad acqua di via Palazzina. Ma sono soprattutto le vicende del secondo millennio ad
essere qui ricostruite perché è solo dal X secolo dopo Cristo che disponiamo
di documenti scritti in grado di farci conoscere e scoprire eventi e momenti
del passato di Rovolon.
È tuttavia doveroso sottolineare che la vicenda umana nel nostro territorio ha
inizio molti secoli prima: purtroppo l’avarizia dei ritrovamenti archeologici
impedisce la ricostruzione di un quadro puntuale e preciso degli insediamenti,
degli abitati, del popolamento della zona. La Carta Archeologica del Veneto, che
raccoglie tutte le notizie ufficiali sui ritrovamenti avvenuti nella nostra regione, compresa Rovolon, riporta appena cinque “schede” archeologiche, cioè
quelle corrispondenti ai numeri 209, 210, 211, 212, 213 del Foglio 50 - Padova
del III volume della serie. Illustrano ritrovamenti di materiali sporadici, che gli
esperti hanno datato lungo un amplissimo arco temporale capace di snodarsi
dal XXXV fino al II millennio avanti Cristo: tempi lontanissimi che ci riportano alla preistoria dell’uomo veneto. Le schede edite nella Carta Archeologica
illustrano con le seguenti parole quelle scoperte archeologiche.
209. Carbonara – Monte della Madonna. «Dalle falde occidentali del Monte della
Madonna e precisamente dal pianoro della chiesetta di S. Pietro, proverrebbero materiali litici di tecnica clactoniana rinvenuti alla fine del secolo scorso
[XIX] e negli anni ’50 [del XX secolo]. Verifiche in situ durante la primavera del
1960 consentirono la raccolta di altro materiale, tra cui un nucleo poliedrico
e un raschiatoio trasversale, oltre a molte schegge. La tipologia dei reperti, in
assenza di un più preciso contesto stratigrafico, può ricondurre genericamente al paleolitico medio (ante XXXV millennio a.C.)».
rovolon, sto rie di una comunità dei colli euganei
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210. Carbonara – Monte Mottolon. «Dalle falde occidentali del Monte della Madonna e precisamente dal pianoro della chiesetta di S. Pietro, proverrebbero
materiali litici di tecnica clactoniana. La tipologia dei reperti, in assenza di un
più preciso contesto stratigrafico, può ricondurre genericamente al paleolitico
medio (ante XXXV millennio a.C.)».
211. Carbonara – Colle di S. Pietro. «Agli inizi del ‘900, presso un fossato ai piedi
del colle di San Pietro, a circa metri uno di profondità, si rinvenne una sepoltura di inumato supino, con la testa ad ovest e braccia conserte sul petto. Alle
braccia portava due armille bronzee. Sempre nella stessa area, circa 35 anni
prima, era stata rinvenuta un’altra sepoltura di inumato, senza corredo».
212. Bastia – Fondo Randi. «Si ha notizia del rinvenimento nel fondo Randi,
in seguito ad arature, di un pugnale in selce, triangolare con base ad alette e
codolo triangolare molto ristretto, attribuibile all’eneolitico (seconda metà III
– inizio II millennio a.C.)».
213. Colombara Trevisana. «È stato rinvenuto durante i lavori di aratura, un
pugnale in selce con codolo ottenuto a ritocco piatto, bifacciale, coprente,
riferibile all’eneolitico (seconda metà III – inizio II millennio a.C.)».
Materiali litici, cioè in pietra, di tecnica clactoniana, una parola che prende
origine dalla località Clacton-on-Sea, nell’Essex (Gran Bretagna), ove era attiva un’industria di selci nel Paleolitico inferiore. Da questa area archeologica
provengono numerosi manufatti consistenti in utensili di selce levigati e in
sassi scheggiati, alcuni dei quali si possono classificare come ascia corta. In
altre parole nel territorio di Rovolon vivevano uomini preistorici abili nella
lavorazione della pietra di selce, impiegata – possiamo immaginare – nella
caccia. Purtroppo le sporadiche scoperte, tutte occasionali e non provenienti
da scavi sistematici, si limitano ai tempi più lontani della presenza umana sui
Colli Euganei, vale a dire a migliaia e migliaia di anni fa. Nulla sappiamo invece degli insediamenti più recenti risalenti, ad esempio, all’età romana, cioè
a cavallo dei secoli che accompagnarono la nascita di Cristo e l’origine del
nostro attuale calendario.
L’assenza di reperti c’impedisce di ricreare l’habitat dell’uomo che precedette
la nascita delle comunità attuali, quelle, in altre parole, documentate dalle
pergamene del X secolo. Superfluo rilevare che i documenti scritti fotografano una realtà viva, radicata, presente nella zona. Ma da quanti anni, da quanti
secoli? Forse mai lo sapremo, anche se di certo è che il territorio di Rovolon
nel X secolo era popolato da tempo, abitato forse da una manciata di famiglie,
in grado, tuttavia, di dar vita ad una comunità religiosa bisognosa di una chiesa materiale, di un edificio sacro ove ritrovarsi, pregare, discutere e ricevere
i sacramenti. Da questo incontestabile dato, dal legame della chiesa di San
Giorgio all’antica comunità benedettina di Santa Giustina di Padova ha inizio
il nostro viaggio: un viaggio alla scoperta di un passato e di un ambiente nel
quale, quotidianamente, il nostro passo ripercorre sentieri e memorie di una
comune identità.
L’AMBIENTE E LA STORIA
Claudio Grandis
Rovolon: una comunità tra colline e pianura
L’attuale comune amministrativo di Rovolon è nato nel 1806 con la riforma
voluta da Napoleone Bonaparte. Il decreto emanato per il territorio francese
nel 1805 venne esteso l’anno seguente anche all’Italia settentrionale quando
l’Austria lasciò, momentaneamente, il Veneto.
Rovolon, come tutti gli altri comuni moderni della Provincia, riunì attorno al suo baricentro diverse località che fino ad allora erano rimaste autonome, quali Bastia e Carbonara. Altre contrade minori come Costigliola,
Granza Frassanella, Granza Santa Giustina, Granza di Vegrolongo e Vegrolongo del Bosco si aggiunsero al nuovo mosaico territoriale. Di lì a qualche
anno poi, il catasto napoleonico avrebbe tracciato anche precisi confini,
ponendo fine alle tante discussioni che, fino ad allora, avevano animato le
contese di campanile.
Come tutte le realtà politico-amministrative tracciate a tavolino, anche Rovolon si trovò a fare i conti con delle scelte, per terre estromesse dai nuovi confini o per aree estranee incluse nel perimetro comunale, che allora lasciarono
perplessi non pochi capi famiglia, rimasti ancorati all’antico regime veneziano cessato nel 1797. Per ragioni pratiche, infatti, i confini del nuovo comune
furono delineati seguendo di norma i perimetri delle proprietà fondiarie più
estese, soprattutto di quelle poste lungo presunti confini antichi. In diversi
casi coloro che delinearono i nuovi confini non tennero in considerazione gli
antichi vincoli, come nel caso dell’abitato di Montemerlo che da sempre era
legato a Rovolon: anziché includerlo nel nostro comune fu unito a Cervarese
Santa Croce, località con cui in passato poco aveva avuto da spartire. Così
pure singolare e incomprensibile rimase la divisione in due comuni dell’area
del Vegrolongo, la vasta superficie su cui s’estendeva il grande bosco. Da
sempre quella grande macchia arborea costituiva un’unità ben definita inspiegabilmente tagliata in due parti, con quella ad oriente assegnata a Cervarese e quella di ponente a Rovolon.
La scelta di nominare Rovolon capoluogo era comunque il riconoscimento
dell’importanza che la comunità, raccolta attorno alla pieve di San Giorgio,
aveva avuto in passato, nonché del ruolo dominante che, ancora agli inizi del
XIX secolo, continuava a ricoprire. Rovolon, infatti, assieme a Galzignano,
Arquà e Monselice è stata per secoli una delle comunità più vive ed importanti dell’intero distretto collinare. Sono i documenti disseminati tra XIII e XIX
secolo a testimoniarlo. Giusto per fare qualche esempio, in un excursus lungo
ben sette secoli, possiamo iniziare dai verbali delle vicinie, cioè le riunioni
dei capifamiglia (dei vicini) sui quali poggiava l’autorità comunale già allo
scadere del XII secolo.
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rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Alcuni anni or sono è stato pubblicato il «Liber» di S. Agata di Padova, un
voluminoso codice in pergamena, tecnicamente detto cartolario, contenente
molti atti notarili dello scomparso monastero di S. Agata e Cecilia di Padova.
Tra i documenti raccolti in questo libro vi è il verbale di una riunione tenutasi il 6 agosto 1262 «in villa Roboloni sub porticu caminate de dicta villa». A
quest’adunanza furono presenti ben centoquattordici persone, tutte nominate una per una, compresi prete Guglielmo, rettore della chiesa di Carbonara,
il chierico Gerardo e l’arciprete Savarisio della chiesa di San Giorgio. Sindaci
e procuratori del comune di Rovolon erano allora Ugolino notaio, Galvano
de Çone, mastro Enrichetto e Rolando Musio. In «plena vicinancia ad sonum
tabule more solito» (nella riunione convocata al suono di una tavola come si
era soliti fare), all’unanimità dei centoquattordici presenti fu deliberato un
accordo con il monastero di S. Agata relativo al bosco detto Viglanicus. Un
manto d’alberi che copriva ben 250 campi, delimitati a mezzogiorno dalla
fossa Nina. Un bosco che nei documenti dei secoli seguenti sarà identificato
con il toponimo di Vegrolongo.1
Ciò che qui più interessa, al di là delle vicende del bosco, è l’autonomia,
la potestà che allora quei capifamiglia seppero manifestare. Una comunità
cioè che già allora, attraverso questo atto deliberativo, manifestava la piena
sovranità sul territorio in cui era insediata e che superava le pendici collinari
del monte Grande e della Madonna per estendersi oltre la fossa Nina, proseguendo fino al corso del Bacchiglione.
La comunità di Rovolon sin dal XIII secolo fu inserita nell’elenco delle ville
che dovevano concorrere nei lavori di manutenzione e riparazione di argini,
ponti e fossati. Gli Statuti del comune di Padova (libro IV, posta 985) imposero la manutenzione di un argine che dal ponte di Tencarola arrivava a Santa
Maria Maddalena Nuova, cioè l’attuale via San Giovanni da Verdara nella
zona nord di Padova. Oltre a Rovolon nell’elenco furono inclusi altri quaran-
La sede Municipale
con il Monumento
ai Caduti.
rovolon : una com un ità tr a colline e pianur a
17
tacinque villaggi, ma non Carbonara né Bastia. La successiva norma (detta
tecnicamente posta) n. 1006 stabilì invece che i lavori di periodico riassetto
della strada che da Ponte di Brenta conduce a Vigonza, e fino ai mulini di
Stra, dovevano gravare sui villaggi compresi fra Teolo e Villafranca; Rovolon,
in questa circostanza, fu inclusa tra Noventa Padovana e Lissaro.
Ma l’onere maggiore che fu allora stabilito per il nostro villaggio, commisurato alle risorse umane ed economiche, riguardò la quantità di carri
e alimenti che dovevano essere assicurati all’esercito comunale padovano.
Un obbligo in vigore già nei primi anni del XIII secolo ma che, per ragioni
di equità, fu rivisto dal podestà padovano, il milanese Ottone de Mandello durante il suo secondo mandato. Negli anni 1234-35 venne stabilito «in
fatto di carri, che venivano dati ai capi dei centenari della città di Padova
negli eserciti», un diverso carico, adducendo come motivazione – quanto
mai attuale – che in molti casi l’onere era stato fissato «per odio più che
per grazia», tanto che alcune ville «venivano alleviate o per favore o dietro
denaro». La nuova ripartizione si preoccupò inoltre d’indicare con precisione il centenaro (contrada di Padova) nel quale andavano condotti carri e
uomini. Rovolon fu inclusa nel centenaro del Duomo e l’onere fu fissato in
dodici carri più un carro di pane. Nello stesso gruppo fu inclusa Selvazzano
con sei carri e uno di pane, Tramonte con sette carri e uno di pane, Teolo
e Villa con dieci carri e tre di pane, Carbonara con tre carri, Costa con due
carri, Castelnuovo con tre carri, Luvigliano con quattro carri e, infine, una
non ben identificata località chiamata Villa Maioris (forse Selva Maggiore)
gravata di appena tre carri.
La sede Municipale
in una cartolina
del 1943.
18
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
A Rovolon fu assegnato dunque l’onere più gravoso. Se lo confrontiamo con
il carico militare di tutti gli altri villaggi del Padovano, scopriamo che si contano sulle dita di una mano quelli con un aggravio maggiore del nostro villaggio: Montagnana, che di carri ne doveva fornire diciassette, Conselve con
dodici e quattro di pane, Tribano con dodici e due di pane, Pernumia con
sedici carri e quattro di pane.
Gli Statuti della città naturalmente si preoccuparono di includere Rovolon
anche nella periodica ricostruzione e nella manutenzione del ponte di Tencarola, l’unico attraversamento pubblico sul Bacchiglione a monte di Padova.
I villaggi caricati di questo onere furono in tutto due dozzine, praticamente
quelli disseminati lungo le strade Montanara (Padova-Teolo) e Scapacchiò,
fino a comprendere Torreglia (posta numero 1086).2 Va detto in proposito
che il vecchio ponte di Tencarola, tutto di legno, necessitava dell’integrale
ricostruzione in media ogni venticinque anni, in quanto i pali e le stilate di sostegno non duravano per un tempo maggiore. Un onere che veniva assolto o
con la tassazione monetaria e l’affidamento ad una ditta per la ricostruzione,
o, nelle annate di scarso raccolto, con la partecipazione attiva di tutti coloro
che ne erano gravati, provvedendo a tagliare e condurre legname fino al ponte, a demolire il vecchio manufatto fatiscente, a piantare pali e a realizzare
la carriera di transito per uomini e mezzi. L’ultima ricostruzione cui furono
obbligati a partecipare tutti i comuni della vicaria di Teolo, in conseguenza di
una desolante annata agraria, risale al 1795: quell’anno il governo, di fronte
alla prospettiva di dover finanziare la ricostruzione, acconsentì che i villaggi
della vicarìa di Teolo provvedessero in proprio sia a procurare i «duecento e
trenta roveri» sia a condurli dal bosco della Carpaneda sino a Tencarola.3
Ritornando agli Statuti del comune di Padova, va detto che Rovolon doveva
Una suggestiva
panoramica
di Rovolon in
primavera, “con
i ciliegi in fiore”,
come recita
la didascalia.
rovolon : una com un ità tr a colline e pianur a
19
– stando al dispositivo della posta n. 1091
– costruire e mantenere anche «i ponti
della propria villa, del proprio territorio
e confine ben solidi, alti e spaziosi, sicché
le acque vi possano ben scorrere».4
Ad eccezione del concorso nell’allestimento dell’esercito padovano, tutti gli
oneri imposti dagli Statuti di Padova gravarono sul nostro comune dagli inizi del
XIII fino all’alba del XIX secolo, quindi
per ben sei secoli ininterrottamente. A
questi gravami si aggiunsero nel corso
del XV secolo i tagli e le condotte del legname per l’Arsenale di Venezia, onere
anch’esso cessato solo con la fine della
Repubblica Serenissima (1797).
La nostra comunità, tuttavia, nel gestire il
territorio si trovò ripetutamente alle prese anche con altri problemi legati alla viabilità, agli eventi inattesi, alla gestione del
patrimonio della collettività di cui già si
è fatto cenno per il bosco Viglanicus. Il 12
febbraio 1436, ad esempio, il comune di
Rovolon concluse un accordo con i monaci di Santa Giustina. Domenico di Guidotto e Giovanni di Maliganda, decani del
comune, assieme agli altri uomini del paese concessero a frate Beltrame, che nella
circostanza agiva in nome e per conto del
monastero benedettino di Santa Giustina
di Padova, l’uso di una strada detta Cestedo che si snodava nei pressi della casa
che la comunità religiosa possedeva nella
zona. In questo edificio confluivano i prodotti agricoli che i contadini versavano all’agente del monastero a titolo di canoni d’affitto: poter disporre di un
comodo accesso non poteva che agevolare le consegne. Per maggiore efficacia
la concessione fu ratificata dal Consiglio del comune di Padova il successivo
22 aprile. Nel documento, rogato dal notaio Giovanni Belengeri il 12 febbraio,
incontriamo nella veste di testimoni prete Bartolomeo, rettore della pieve di
San Giorgio, Donato del fu Andrea da Cusano, Marchesino del fu Giovanni
Giacomo da Vicenza, Giovanni del fu Pietro d’Albania e infine Giorgio del fu
Antonio da Adria.5
Non sempre però gli eventi che la comunità dovette affrontare riguardarono
la gestione del patrimonio comunale. Altre vicende ben più gravi s’affacciarono negli stessi anni in cui fu concluso l’accordo con Santa Giustina per la
strada detta Cestedo. In un anno imprecisato, ma subito dopo il 1439 Bartolomeo Rizo e Manfredino Bertolati decani ville Rovolonis, a nome e per conto
Il territorio
di Rovolon
nell’ultima
edizione (1969)
della Carta
d’Italia al 25.000
dell’Istituto
Geografico
Militare.
20
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
della comunità, depositarono all’Ufficio padovano dei Riformatori ai fuochi
un’istanza affinché fosse rivisto l’insopportabile carico fiscale assegnato nel
1431. A giustificare la richiesta vi erano alcune mutate condizioni del villaggio, che in poco tempo l’avevano profondamente cambiato. Nell’arco di
appena sei anni, scrissero i decani, ben undici capi famiglia non erano più a
disposizione del villaggio, o perché morti, come nel caso di un certo Bussos,
Guido da Ronca, Allegro de Ungarello, Nicolò Zago, Zuan de Tofan, Zuan
di Domenico Malciade e Domenego Menexello, o perché emigrati altrove.
Da Rovolon, infatti, se n’era andato a Teolo il fabbro Ognibene di Domenico,
mentre Antonio da Solagna si era trasferito a Conselve; così pure Antonio del
Rizo aveva lasciato Rovolon per andare ad abitare a Padova. Un altro uomo
di comun, infine, di nome Domenico de Guioto, era divenuto nel frattempo
famiglio dei «frati de Santa Giustina», per cui non era più soggetto a concorrere al carico fiscale e alle corvè del villaggio.
Ma il motivo più grave che aveva indotto la comunità a depositare la supplica presso gli honorandi deputati era dovuto agli eventi occorsi nel 1439. In
quell’anno Venezia aveva perso momentaneamente il controllo della Terraferma Veneta e le truppe milanesi dei Visconti erano entrate nelle province
venete: i villaggi privi di difesa furono in tal modo saccheggiati e depredati.
Anche «villa Rovolonis [fu così] depredata ad inimizis illustrissimi domini
nostri, et in numerabilles bestie, bovine et cavaline fuerunt depredate per inimicos predictos». In altre parole i nemici della Repubblica Serenissima portarono via da Rovolon buoi e cavalli, tanto che non rimasero nel paese animali
da lavoro sufficienti per le operazioni agricole e per le altre incombenze che
gli Statuti di Padova continuavano ad imporre.
Una terza ragione illustrata nella supplica dei decani riguardava l’anzianità
e l’impotenza di ben otto capifamiglia «ultra sexaginta». Si trattava di Antonio Beco, Nicolò de Bortolamio Buxanegra, Domenico Drago, un certo
La sommità
di Monte Madonna
con il santuario
mariano e l’abitato
di Rovolon, in una
cartolina illustrata
del 1940.
rovolon : una com un ità tr a colline e pianur a
21
Toffas, Pietro de Rolandis, Uliviero Bozato, Antonio de Guio e Piero da Spiran.
Senza il loro apporto l’onere fissato nel
1431 sarebbe stato ripartito su un numero
minore di membri del villaggio diventando in tal modo per tutti insuportabilis. Non
conosciamo l’esito di quella supplica, ma
possiamo qui solo ricordare che in quei decenni centrali del secolo XV le campagne
padovane furono colpite da una pesantissima crisi alimentare ed economica e da un
impoverimento generale delle terre coltivate: vicende simili, infatti, si riscontrano anche in altre località, a volte con esiti
ancor più tragici e devastanti per la locale
popolazione.6
La comunità locale ebbe più volte rapporti
anche con l’abbazia di Praglia. L’episodio
più singolare riguarda il santuario di Monte
della Madonna. All’alba del Cinquecento il
comune propose al monastero di prendersi cura dell’antica chiesa, poiché su di essa
vantava antichi e incontrastati diritti. Prese
avvio una trattativa prima con il beneficiario del santuario, il padovano nonché abbreviatore apostolico Francesco Candi, e poi
con gli homines proprio di Rovolon. Scrive
in proposito padre Callisto Carpanese: «Favorevolmente colpiti da quanto
era accaduto nella chiesa di Carbonara ad opera dei monaci di Praglia e desiderosi di dare nuova vita anche alla loro chiesa del Monte, [gli uomini del
comune di Rovolon] rivolsero ripetute istanze al monastero perché volesse
prendersi cura di questa chiesa, così come aveva fatto con quella di Carbonara. Le trattative si protrassero per qualche anno. La comunità di Praglia, in
un primo tempo, non voleva aderire alla domanda. Venne fissato, alla fine, un
incontro tra i delegati del comune di Rovolon e alcuni monaci. Esso si tenne
il 26 marzo 1508 “in Spiran [Carbonara] ne la gastaldia del monastero di Praia, nella camera de supra, nova …”. Il monastero era rappresentato dall’abate
d. Modesto da Padova e dai cellerari d. Cipriano da Verona e d. Bernardo da
Cremona, mentre per il comune di Rovolon si presentarono Battista Bacerla,
Eustachio de Tofani, Pasquale Albanese, Pietro Buson e Pietro Baron, muniti
di speciale mandato, con atto rogato dal notaio Giacomo dal Bò in data 19
dello stesso mese».
L’incontro si concluse positivamente, tanto che i monaci chiesero di poter
disporre di un maggior spazio attorno alla chiesa: la delegazione comunale rispose affermativamente, così che, formalizzate istanze e assensi, venne
concessa all’abbazia «una petia de buscho posta in la dicta cima, nelle infrascritte confine». L’accordo lasciò alla discrezione dei monaci la decisione se
La Madonna degli
alpini venerata nel
santuario di Monte
della Madonna.
22
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
acquistare l’area oppure prenderla in affitto. Il 16 giugno 1508 una bolla di
papa Giulio II pose fine ai diritti del beneficiario Francesco Candi, il quale ottenne in cambio un vitalizio annuo di 10 ducati d’oro a carico dell’abbazia di
Praglia. Il successivo 26 novembre, una domenica, di fronte e poi all’interno
del santuario il notaio Giacomo dal Bò stese il verbale della presa di possesso
alla presenza di numerosi fedeli, dell’abate, del priore, di una decina di monaci, del cappellano di S. Giorgio di Rovolon e di sei testimoni provenienti
da Padova, Teolo, Rovolon e Zovon. Da quel giorno la chiesa entrò a far
parte a pieno titolo del patrimonio del monastero. La vicenda dei primi anni
del secolo XVI ebbe un seguito negli anni Sessanta del Novecento: il giorno
11 settembre 1962 il comune di Rovolon donò all’abbazia di Praglia 11.430
metri quadrati di terreno (tre campi alla misura padovana) che, uniti ad altri
più modesti appezzamenti ceduti dalla famiglia Valmarana e dalla Curia vescovile di Padova, consentirono all’antico monastero di completare l’opera di
recupero del santuario mariano sul colle della Madonna. 7
Accanto alle decisioni prese sul destino di luoghi sacri e venerati, la vita del comune di Rovolon fu tuttavia segnata dal gravoso onere dei continui lavori pubblici imposti dagli antichi Statuti. Un peso che divenne sempre più insostenibile
a partire dal XV secolo, quando la fame costrinse tanti piccoli proprietari a cedere le proprie terre ai nobili veneziani, acquirenti spesso esentati dal pagamento di oneri fiscali e sovente non soggetti al concorso nelle opere pubbliche.
Il mondo dell’antico comune rurale di Rovolon, così come i tanti altri villaggi
della vicarìa di Teolo, è scolpito in un vocabolario che oggi stentiamo a ritrovare. Parole come fazioni pubbliche, ville, comunità di capifamiglia, decani,
vicinìe, sembrano appartenere ad un mondo incomprensibile, privo di significato, di dimensione: eppure erano queste a costituire il dizionario secolare
su cui si fondava il senso dell’appartenenza, dell’identità.
La riforma del 1805 sull’ordinamento dei comuni, che come detto fu introdotta
Le scuole comunali
di Carbonara in
una cartolina
spedita da Bastia il
9 agosto 1947.
rovolon : una com un ità tr a colline e pianur a
23
nel Veneto l’anno seguente, diede vita ad un profondo mutamento organizzativo e territoriale che, nato in età medievale i secoli della dominazione veneziana
(XV-XVIII) seppero consolidare. In quei lunghi secoli dell’età moderna Rovolon e altre due dozzine di villaggi situati nel quadrante occidentale padovano
fecero parte di un distretto chiamato vicarìa di Teolo. La sede istituzionale e fisica era nell’edificio costruito proprio nel cuore del borgo collinare, ancor oggi
riconoscibile per la torre centrale e la ripida scalinata d’accesso aperta sull’arco
del fronte principale. L’antica denominazione di “Palazzetto dei Vicarì” si deve
al fatto che qui risiedeva il capo della vicarìa, cioè un membro della nobiltà
padovana appositamente eletto. L’incarico durava di norma dodici mesi. Per
l’espletamento del mandato il vicario poteva contare su di un articolato organigramma che qui si ripropone riprendendo parole usate nel 1794, allor quando
la vicarìa dovette difendersi dall’accusa di non aver provveduto alla manutenzione di un ponte abusivo costruito dalle famiglie padovane Da Rio e Abriani
a Bastia.
Il processo era stato intentato dai Provveditori all’arsenale di Venezia, preoccupati di mantenere in perfetta efficienza gli accessi al bosco demaniale della
Carpaneda. Essendo privato e per di più abusivo l’onere della conservazione
del ponte non poteva ricadere sugli uomini della vicaria. Scrisse dunque il
cancelliere in risposta ai quesiti posti dai giudici veneziani:
«Viene dal Consiglio Generale della città di Padova eletto per vicario uno de
suoi cittadini, il quale ivi come capo assiste e rissiede per la giudicatura delle
differenze civili, quando però non ecceda il Giudizio una tal summa limitata;
et ogni anno il primo di maggio questo si muta.
«Vi assiste un cancilier per annotar ogni atto occorrente, e per quegl’incombenti che ricerca la carica.
«Sono aggionte a questi otto persone elette dal Consiglio di Vicarìa, ed è formato dalli degani, et un Consiglio per villa, e quattro sono col titolo di cattaveri, e quattro di deputati, che vengono scielti dalli comuni soggetti, et ogni
due anni si mutano, in guisa che ogni anno ve ne sono quattro de nuovi, e
quattro de vecchi. Ha uno con titolo di nonzio che serve per un anno e questo interviene, come rappresentante di vicarìa, in ogni Conseglio che si fa di
Territorio in Padova e rifferisce ogni operazione, per le necessarie notizie di
volta in volta.
«Vi è un avvocato, et un procurator per le liti.
«Vi sono quattro comandadori per l’assistenza al detto vicario per la dispensa
degl’ordini, e proclami al Serenissimo Principe, et Eccellentissimi Pubblici
Rappresentanti, et altre occorrenze, et esecuzioni del vicariato.
«Vi è la Camera de Pegni, che se ben di poca rilevanza, e poco necessari, et si
custodisce da un cameriere a conservazione de Pegni».
Sempre in occasione di quel processo avviato nel 1794 gli avvocati della Vicarìa elencarono le spese, le obbligazioni e gli aggravi più essenziali cui dovevano
sottostare i villaggi del distretto di Teolo. Anche in questo caso lasciamo la
penna agli scrittori di allora:
«In primo capo la condotta de roveri, et olmi del Bosco della Carpaneda, ed
altri particolari che vengono tagliati, alla quale è tenuta la sola Vicarìa concorrervi per la metà che è molta.
24
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
«Seconda. Vi è quella dei tolpi tutti, che sono tagliati d’ordine pubblico nella
stessa Vicarìa, e per questo altri non vi concorrono, ma tutto si fa a spese di
essa Vicarìa, che è considerabile.
«Terzo. Vi è l’obbligo di tenir in acconzio, e far da nuovo al bisogno li ponti di
legno di Tencarola, sopra il Bachiglion, e di Trambache ove passa la Tesina,
che fra ferramenta e legnami la spesa non è poca.
«Quarto. Si ha l’obbligazione di rifar, e mantenir, le coronelle delli arzeri del
fi ume Brenta e Bacchiglione per lunga tratta di paese, et a posti destinatili,
che viene d’incomodo, ed aggravio non poco.
«Quinto. Il cavamento de ghebbi diversi, e ripari di fosse, e strade, che porta
aggravio, e spesa annuale, e non è alle altre certo inferiore.
«Sesto. L’obbligazione di mantenir per l’armar di numero 218 soldati, o 12
offiziali, pagar l’affitto alla Comunità di Este per la Casa del Capitanio delle
Ordinanze, Camera dell’Armamento, Consolato di Vicarìa, pagar li soldati
alle Mostre Generali, et un schiopetto per tenere le armi in acconcio per servizio delle milizie stesse.
«Settimo. Il mantenimento delle fabbriche, casa del detto vicario, loza pubblica, e sala del conseglio, cancelaria, e casa del comandador e le pubbliche
strade.
«Ottavo. La spesa di alcuni annui livelli perpetui in summa di lire 204 e soldi
10 che si pagano per le fabbriche sudette alli NN. HH. KK. Mocenigo e Contarini, et a signor Capodelista, oltre l’affitto annuo di lire 180 e soldi 15 alla
Comunità di Este per la Casa delle armi, e corsaletti delle cernide.
«Nono. Spese de salariati diversi, e per la quantità come nel capo 13 sarà distintamente dichiarito, con la qualità che sarà espressa, ad uno per uno.
«Decimo. Spese de liti, che si convengono fare, e per estrazioni, e per giurisdizioni, e per mantenimento de privilegi, tanto contro patroni, e comuni
soggetti, quanto anche alcuna volta contro lo stesso territorio, e ministri di
quello pretendenti inferiori pregiudizi, e danni alla Vicarìa medesima.
«Undecimo. Vi sono poi le spese per libri, carta, stampa, rate, comandamenti,
et altre diverse.
«Duodecimo. Gli alloggi delle milizie, galeotti, guastadori, in tempo di bisogno, come occorse nell’ultima passata guerra, e carri, tavolazzi per l’esercizio
delle cernide, et alcune altre per la dispensa delli libretti delle dadie a comuni,
aggiustar dell’Orologgio, e tenir netto il Consiglio, loza e camere, etc.»
L’elenco si chiude ricordando ai Provveditori dell’Arsenale che oltre alle dodici voci sopra elencate ve ne sono altre che nella circostanza non vengono
riportate «per non moltiplicare il tedio all’Eccellenze Vostre», ma che saranno debitamente illustrate in un altro capitolo della lunga memoria difensiva. Una memoria che meriterebbe di essere interamente pubblicata, ma che
l’economia di questo lavoro non consiglia. Qui dobbiamo tuttavia ricordare
che tra le opere di maggior aggravio vi erano la tassazione esosa, la continua
manutenzione delle strade Montanara (Padova-Teolo), Scapacchiò (Tencarola-Bastia), Cavalcaressa (Zovon-Cortelà) e parte della Mestrina (PadovaVicenza), la pulizia dei ghebbi, cioè degli alvei dei fossi principali, la condotta
delle roveri. Un riparto che la Vicarìa aveva ripetutamente rivisto in relazione
alla forza economica e sociale di ciascun paese, come ben ricorda Domenico
rovolon : una com un ità tr a colline e pianur a
25
Piasentin, degano della villa di Rovolon, in un intervento verbalizzato il 19 settembre 1763.8
Nel Consiglio della Vicarìa vi era dunque un rappresentante anche di Rovolon; nelle sedute si dibattevano i comuni problemi che interessavano i ponti,
i fabbricati, le strade, gli argini, gli scoli e soprattutto la condotta delle roveri
dai boschi al porto di San Martino della Vaneza. Argomenti che dalla Vicarìa
venivano fatti propri dai capifamiglia di ciascun villaggio nelle periodiche
riunioni dette vicinìe. Peccato che i registri contenenti i verbali di quei dibattiti, su cui il cancilier annotava «ogni atto occorrente», siano scomparsi
dopo il 1880 dall’archivio comunale di Teolo dove erano custoditi e dove Bartolomeo Cecchetti, soprintendente archivistico, ebbe modo di esaminarli,
inventariarli e pubblicarne la sommaria consistenza. Si trattava di ben 128
registri che raccoglievano i verbali delle riunioni tenutasi tra il 1420 e il 1815,
più altre 17 “buste” (contenitori d’archivio) di Atti del periodo della Repubblica
Veneta, compresi fra gli anni 1500-1796.9 La perdita di quei registri, di quei
documenti, c’impedisce di raccontare tanti eventi che dal Quattrocento fino
allo scadere del Settecento coinvolsero e videro protagonista anche Rovolon.
Il rammarico per la memoria perduta non ha tuttavia intaccato l’animo di
una Comunità e il senso di appartenenza che ancor oggi è vivo nel cuore di
ognuno.
Note
1. Il «Liber» di S. Agata di Padova (1304), a cura di Giannino Carraro, con Nota di diplomatica di Gian Giacomo Fissore, Padova (ed. Antenore – Giunta Regionale del Veneto –
Fonti per la Storia della Terraferma Veneta, 11) 1997, p. 136-142.
2. Statuti del comune di Padova dal secolo XII all’anno 1285, a cura di Andrea Gloria, Padova (Tip. F. Sacchetto) 1873, libro IV, p. 319-338. Degli Statuti esiste anche un’edizione
in lingua italiana: Statuti del comune di Padova, traduzione Guido Beltrame, Guerrino
Citton, Daniela Mazzon, Cittadella (Ed. Biblos) 2000, p. 372-395.
3. Archivio di Stato di Venezia (= ASVe), Savio Cassier, b. 440, fasc. 15, ripreso da Claudio
Grandis, L’ultima ricostruzione del ponte sul Bacchiglione in età veneziana (1795), in Claudio Grandis, Tencarola pagine di storia, con un contributo di Guido Beltrame, Padova
1996, p. 47-62.
4. Statuti del comune di Padova libro IV, p. 339; nell’edizione tradotta (Statuti del comune) si
veda alla p. 395.
5. Archivio di Stato di Padova (= ASPd), Corona, gener. 7484, partic. 1670.
6. ASPd, Estimo 1418, tomo 353, polizza n. 51, c. 190r. Vicende analoghe a Rovolon sono
ricostruite da Claudio Grandis, Corte al tempo della dominazione veneziana, in Corte bona
et optima villa del Padovano, a cura di Raffaella Zannato, Piove di Sacco (Art&Print)
2007, p. 90- 94.
7. Callisto Carpanese, Il santuario del Monte della Madonna nei Colli Euganei, Abbazia di
Praglia 1987, p. 30-32, 152.
8. ASVe, Fisco processi. Serenissima Signoria, III, b. 125, processo n. 464.
9. Bartolomeo Cecchetti, Statistica degli archivi della regione veneta, Venezia 1880, vol. I, p.
150.
26
Particolare
della mappa
disegnata
da Annibale
Maggi nel 1449,
il documento
cartografico più
antico del territorio
padovano. Al
centro, circondata
dall’anello d’acqua
della Fossa Nina,
è riconoscibile
la “Bastia de
Revolon”.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Francesco Tognana
Dal villaggio medioevale alla villa:
insediamenti, castelli e strutture fortificate
In un giorno d’agosto del 1252, corse voce a Padova che “per i castelli del Pedevenda” – così erano chiamati i Colli Euganei in età medioevale – “ovunque
essi fossero”, era stato visto il fuoco ardere a lungo intorno alle merlature
bruciando vividamente graticci e munitiones, strutture lignee più facilmente
combustibili. La notizia risultò in seguito priva di fondamento. È vero tuttavia che così munito doveva apparire anche il fianco del monte di Rovolon alle
truppe di Ezzelino Da Romano, il noto “tiranno”, quando, appena pochi anni
prima, marciando verso Monselice, passavano per confinia Rovolonis1.
Lo sviluppo dei castelli a Rovolon è inserito nell’ambito di un fenomeno più
ampio, detto incastellamento, il quale condizionò l’intero Occidente europeo
a partire dal IX secolo e per tutta l’età medioevale nella sua dimensione geopolitica, culturale e socio-economica. Questa eccezionale proliferazione di
strutture fortificate si manifestò con ritmi, forme e per motivi diversi nelle
varie regioni d’Europa. Molteplici sono anche i lemmi del linguaggio fortificatorio – castrum, castellum, castelletum, castellarum, turris, roca, mota, bastia,
per citare solo quelli che incontreremo nel prosieguo del nostro discorso – i
quali rinviano a una morfologia dei manufatti altrettanto diversificata. Limitatamente all’Italia settentrionale si sono potute contare almeno circa cinquecento attestazioni di nuovi siti fortificati solo entro l’anno Mille. Per il Veneto, nell’arco dell’intero Medioevo, una prima stima complessiva condotta per
i territori di Padova, Vicenza e Treviso, annovera oltre trecento agglomerati
umani che coincidevano con un castello o ne ospitavano uno. Nella sola area
dei Colli Euganei si contano una sessantina abbondante di strutture fortificate. Tra queste si distingue il sistema fortificato che metteva capo a Rovolon e
trovava compiutezza nella vicina Carbonara con ben quattordici attestazioni
riportate tra XIII e XIV secolo, delle quali cinque rinviano espressamente a
un castrum/castellum. Per il territorio dell’odierno comune di Rovolon, che
comprende le frazioni di Carbonara e di Bastia e si estende per circa 28 km2,
significa teoricamente una fortificazione ogni 2 km2. Ciò significa che in età
medioevale Rovolon era un’area densamente incastellata2.
Non vi sono invece testimonianze scritte di strutture fortificate nell’area di
Rovolon tra il X e l’XI secolo, nonostante sussistessero le premesse per una
precoce militarizzazione del territorio, dettate da una situazione di incertezza dovuta alle incursioni ungariche documentate a nord e a sud dei Colli Euganei e da un contesto geopolitico complesso dove interessi di forze diverse
convergevano nella stessa area di frontiera.
Sul comparto nord-occidentale dei Colli Euganei premevano infatti le istan-
28
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
ze del vescovo e del capitolo di Verona da una parte, del vescovo di Vicenza
dall’altra. Gli uni attestati a Montegalda, Boccon, Cinto e Villa di Teolo, l’altro a Zovon, Boccon, Fontanafredda, Teolo e, appunto, Carbonara. In questa
cornice il vescovo di Padova, nell’ambito di una politica di ristrutturazione
dei confini del territorio diocesano, e forte di un privilegio imperiale del 911
che gli consentiva di erigere castelli ovunque necessario, con l’esenzione
fiscale per quei luoghi dove fossero già stati costruiti, ribadiva le sue prerogative su Rovolon, allora in diocesi di Padova ma inserita nell’ambito del
comitato vicentino sotto il profilo amministrativo, attraverso concessioni ad
enti ecclesiastici ed ad uomini fedeli ad esso collegati. Alcuni esempi: il monastero di Santa Giustina di Padova, “monastero episcopale…strettamente
unito e incorporato alla Chiesa patavina”, nel 970 ricevette in dono dal vescovo Gauslino il diritto di decima e del quartese (cioè la decima parte del
raccolto e la quarta parte della medesima) sulle pertinenze del villaggio di
Rovolon e della sua pieve. Altro esempio: nel 976 Nantkerio, vassallo del vescovo, otteneva, per mezzo dei canonici di Padova, della terra nella contrada
Prada di Rovolon. Ed ancora: a riprova dell’interesse stringente dell’episcopio patavino su questo settore dei Colli Euganei, dietro un’azione giudiziaria
intentata nel 1077 dal clero della cattedrale di Padova e dagli arcipreti e preti
delle pievi di Monselice e Rovolon per ottenere il banno regio (cioè il potere
di costringere, giudicare e punire proprio della massima autorità pubblica)
in difesa di decime, quartesi e immobili in dotazione ai rispettivi luoghi di
culto, sarebbero da intravedere dirette responsabilità del vescovo o di suoi
“aderenti”, come studi recenti hanno sostenuto con fondate ragioni. D’altra
parte, in questo periodo, tutt’intorno a Rovolon iniziavano a vedersi i primi
segni dell’incastellamento. Al castello di Monselice (VI secolo) si aggiunsero
quelli di Arquà (X secolo) e Castelnuovo (XI), ma anche Este e Rocca Pendice,
attestate solo a partire dal XII secolo, erano quasi certamente state allestite
in età precedente3.
Eppure, al di là di possibili vuoti documentari, l’incastellamento ha lasciato
tracce nelle fonti scritte relative a Rovolon solo a partire dalla prima metà del
Duecento.
Si tratta per lo più di toponimi i quali rinviano a uno sviluppo fortificatorio
già concluso o almeno definito nelle sue principali forme al momento dell’attestazione e che sono riportati nella documentazione relativa alle vicende del
patrimonio fondiario di realtà signorili di matrice religiosa e laica che gravitavano su Padova: il monastero urbano di Santa Giustina, il monastero di Santa
Maria di Praglia e la discendenza dei conti di Vicenza e di Padova (questi
ultimi erano discendenti dei dogi Candiano di Venezia e a cavallo dei secoli X
e XI ricoprirono, appunto, la carica di conte, cioè di delegato dell’imperatore,
vale a dire di rappresentante della massima autorità pubblica nell’amministrazione della giustizia, nella riscossione delle imposte, nell’organizzazione
militare del territorio). Il fenomeno dell’incastellamento si manifesta nella
fase di consolidamento e di massima espressione di queste tre realtà in termini di presenza fondiaria e di esercizio di poteri giurisdizionali tra XII e XIII
secolo, con esiti di cui resta traccia ancora nel secolo seguente.
Il monastero di Santa Giustina, forte della donazione del 970 fatta in suo
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
29
favore dal vescovo Gauslino e confermata dai suoi successori con ulteriori elargizioni, incrementò la
propria base fondiaria a Rovolon a
partire da lasciti e donazioni della
famiglia Da Rovolon avvenuti nella prima metà del XII secolo. Della
famiglia si conservano labili tracce
nella documentazione scritta, le
quali riconducono, sembra, a legami importanti con la realtà vassallatica vescovile veronese e padovana, tra antenati (Erzoni/Ingoni) e
più prossimi parenti (Tanselgardi),
e rinviano ad una ancora relativa
disponibilità fondiaria. Il monastero entrava anche nella piena disponibilità
del diritto di decima su Rovolon del quale erano titolari i de Orlano (presumibilmente Orgnano, nel Trevigiano), antica famiglia dell’aristocrazia della
Marca Veronese Trevigiana, che ne fece espressa rinuncia a favore del monastero nel 1192. Nel 1261, tramontata la dominazione ezzeliniana, nell’ambito
del riassetto delle proprie sostanze, il monastero era impegnato a riprendere sotto il proprio diretto controllo le proprietà di Rovolon, e precisamente quelle ubicate nel castello. Come sappiamo da documentazione di metà
Trecento ma che rinvia a un periodo anche precedente, il monastero si era
radicato in loco anche attraverso una rete di vassalli, tra i quali spiccavano gli
Schinelli, eredi dei conti di Vicenza e di Padova e coinvolti a loro volta nella
vicenda dell’incastellamento locale, come vedremo4.
Il monastero di Santa Maria di Praglia, fondato e patrocinato all’inizio del
XII secolo dai Maltraversi, lontani parenti degli Schinelli, nel 1154 comprava
mansi a Costa dai Da Limena, vassalli degli stessi Maltraversi5. Il cenobio fa la
sua comparsa tra i proprietari terrieri di Rovolon e di Carbonara almeno dagli anni Settanta e Ottanta del XII secolo6. Da allora l’ente religioso accrebbe
la propria base fondiaria grazie ad acquisti, donazioni e ad una sapiente opera
di valorizzazione e colonizzazione del territorio, dai singoli appezzamenti ai
più consistenti organismi fondiari, come quella curtis di Carbonara citata solo
dal 1205 ed epigono del tradizionale modello di organizzazione agraria – il sistema curtense, appunto, articolato nella pars dominica, cioè l’insieme di terre
che il padrone (dominus) teneva sotto la propria gestione diretta, e nella pars
massaricia, l’insieme di fondi assegnati a coltivatori dipendenti – adottato anche nei Colli Euganei nel X secolo, almeno a Zovon, Boccon, Cinto, Villa di
Teolo, a Petriolo di Monselice e anche nella vicina Lovertino7. A corroborare
la crescente infl uenza del monastero sul piano politico e socio-economico
locale erano diritti giurisdizionali propri di una signoria territoriale che l’ente
religioso deteneva a Carbonara almeno all’inizio del XIII secolo. Tali diritti si
manifestavano nel 1205 “cum omni honore et districta et signoria” cioè con
la facoltà di costringere (costringere a obbedire, a prestare eventuali servizi
militari, a pagare i tributi) e di punire (e quindi di chiamare in tribunale). Il
Bastia in una
cartolina illustrata
del 1943.
30
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
loro esercizio era collegato al possesso di una motta (mota), un complesso
fortificato di cui si darà conto in seguito8.
La componente laica del potere signorile era rappresentata dalla discendenza
dei conti di Vicenza e di Padova: i Conti e gli Schinelli per la linea padovana, i
Maltraversi Da Castelnuovo e i Maltraversi Da Lozzo, castelli dei Colli Euganei
vicini a Rovolon, per la linea vicentina. L’attestazione di più rami della stessa
famiglia in loco induce a pensare ad una presenza del clan comitale a Rovolon
anteriore all’articolazione nei due rami principali, padovano e vicentino, avvenuta nella seconda metà dell’XI secolo. Di fatto membri della famiglia sono ricordati attivi in quest’area solo a partire dalla metà del XII secolo con Alberto
figlio di Maltraverso, l’eponimo del ramo vicentino, confinante nel 1147 con i
beni del monastero di Santa Giustina. Il consolidamento della loro posizione a
Rovolon sembra corrispondere invece al “ritiro dalla scena” dei Da Rovolon e
dei de Orlano, ai quali erano forse legati per parentela e interessi. Infatti, risulta
sibillino che nel 1226 i discendenti di Manfredino conte (del ramo dei Conti, appunto) dichiarassero tra i beni ereditati un fondo “eorum de Rovolone,
in quo habitabant, et descendebant” e che Zordanino, fratello di Manfredino
conte, si appellasse anche “Da Orgnano” per i diritti vantati su quel castello
del Trevigiano9. Nel 1174 Alberto Terzo dei Conti, zio dei predetti, riceveva
a titolo di feudo dal vescovo di Padova un terreno a Rovolon da lui precedentemente posseduto e ceduto al presule in cambio di terreni in città10. È significativo che per irrobustire la loro presenza a Rovolon i Conti ricorressero al
vescovo, il più antico possessore di beni a Rovolon, e allo strumento del feudo
il quale, creando un rapporto gerarchico tra il dominus (cioè colui che concedeva il feudo) e il vassus (il vassallo, colui che riceveva il beneficio), tramite la
superiore autorità del vescovo, non limitava ma anzi conferiva veste legale al
L’abitato
di Rovolon con
la chiesa circondata
dalla mura del
cimitero (in basso a
sinistra) e la rocca
in una mappa
del XVIII secolo.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
31
potere del suo vassallo. La dimensione e il peso specifico del dominio signorile
della famiglia a Rovolon possono essere colti a pieno nel corso del XIII secolo
e sono da mettere in stretta relazione alle prerogative del casato sul castello
e alla disponibilità delle strutture fortificate collaterali da parte dello stesso.
L’eredità di Manfredino conte, alla quale si è accennato sopra, vedeva il grosso
di beni e di clientele nel contado concentrato soprattutto a Rovolon: 51 nuclei
familiari che costituivano altrettante masnade ( “bande armate” al seguito di
un signore), 36 vassalli detentori di altrettanti feudi, 7 vassallatici, censi (affitti)
e servizi d’opera (corvées) sulle terre del signore, dovuti dai contadini locali,
oltre ad un centinaio di unità immobiliari cui è da aggiungere il possesso di
interi mansi (poderi) e del monte di Rovolon (monte della Madonna). Eco
di tanta ricchezza e influenza si riflette in una cronaca medioevale la quale
ricorda che i Conti di Padova e gli Schinelli “montem Rovoloni posederunt”.
Gli stessi Schinelli si appelleranno nel XIV secolo anche Da Rovolon e cronache del secolo seguente li avrebbero definiti, seppur tardivamente “Comites
Rovolonis sive Schinelli”, a sancire il vincolo tra la famiglia e il villaggio11. Essi
vigilavano i centri nevralgici di controllo del territorio: li ritroviamo confinanti, ad esempio, nel 1232 nella contrada del Castello con i Maltraversi Da Castelnuovo e Da Lozzo e nel 1261 precisamente nel castello e ancora nel 1287
nelle contrade del Castelrotto e di Vigonovo, località anch’esse fortificate12. La
vitalità del potere signorile di queste famiglie ancora nel tardo Duecento trova conferma nel Liber possessionum13, una sorta di “catastico”, di inventario di
beni, di Adelmota dei Maltraversi Da Castelnuovo, progenitrice di quei Papafava Da Carrara che nel XIV secolo, entrando in possesso anche delle sostanze in Rovolon di Caterina Schinelli sposata Papafava, ricostituivano almeno
in parte l’unità patrimoniale della famiglia comitale in loco14. Dal “catastico”
La piana che dagli
Euganei si stende
verso i Berici.
32
Dettaglio
della “Gran Carta
del Padovano”
(1780) di Giovanni
Antonio Rizzi
Zannoni.
In evidenza i rilievi
collinari, la viabilità
e i principali
proprietari
della zona.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
risulta che la signora possedesse oltre mille campi tra Rovolon, Costa e Carbonara, in
gran parte forieri di censi e prestazioni dovuti
dai livellari ivi insediati, cui si sommano quasi
un centinaio di unità immobiliari, alcuni feudi,
dieci masnade nonché la piena disponibilità di
“duas partes sive medietatem comitatus totius
ville Rovolonis et eius districtus et duas partes
seu mediatatem roche et castellarii” (due parti o metà di tutto il comitato del villaggio di
Rovolon e del suo distretto e due parti o metà
della rocca e del castellaro). Con quest’ultima
espressione si precisava lo spazio del dominio
della signora (domina), il quale abbracciava un
ambito territoriale che superava i confini delle
proprietà della nobildonna e si estendeva, per
la “quota” che era dovuta, su tutto il villaggio,
il territorio e la sua popolazione. I diritti comitali che le spettavano, eco lontana dei poteri connessi alla funzione pubblica delegata ai
suoi antenati su tutto il comitatus di Vicenza e
di Padova e di cui si è detto, o da ricondurre
ad investiture successive, di cui peraltro non resta traccia, si erano all’epoca
ormai “territorializzati”. Essi si erano cioè concentrati in una zona dove la
famiglia aveva un maggior numero di possessi e dove all’epoca, il potere di
coercizione e di comando, di origine pubblica, non era esercitato solo sui suoi
coltivatori, ma su un territorio circostante più esteso delle sue proprietà e su
tutti i contadini che a vario titolo lo occupavano, fossero essi dipendenti del
signore o lavoratori di terre altrui o piccoli possessori che coltivavano la propria terra. E l’esercizio di tali poteri risultava intimamente connesso al possesso della struttura fortificata che ne era, per contro, l’espressione e il simbolo
materiale. Il dettaglio documentario che un pronipote di Adelmota, Giacomo
di Rinaldo Papafava Da Carrara, possedesse ancora nel 1324 “quartam partem totius comitatus Carbonarie et cum suis districtibus et Coste secundum
quod habebat dicta domina Adelmota” (la quarta parte di tutto il comitato di
Carbonara e di Costa con i loro distretti secondo quanto spettava alla signora
Adelmota”) precisa quale fosse il volume e la consistenza del potere signorile
della nobildonna15.
Queste forze signorili si muovevano in un’area di frontiera caratterizzata da
una situazione ambigua e di parziale compromesso sotto il profilo geopolitico ancora nel tardo XIII secolo. Se Rovolon e Carbonara erano ormai passate
entro quell’epoca sotto la sfera di infl uenza padovana rispondendo sia al sistema fiscale del Comune della Città euganea e sia, sotto il profilo religioso,
alla sua diocesi, la chiesa di Costa ricadeva in diocesi di Vicenza (1297) benché
il suo territorio aderisse al distretto padovano (1333). A ciò si aggiunga anche
che parte delle sostanze di Adelmota nella zona di Rovolon sconfinava nel
distretto vicentino lambendo le proprietà del comune di Vicenza16.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
33
Alcuni fatti permettono di misurare il
livello di tensione che poteva scaturire
dalla “convivenza” di tanti soggetti con
interessi distinti in un territorio dagli
“incerti” confini. Al 1268 risale la notizia
di un giudizio intentato dal monastero
di Santa Giustina contro Benedetta moglie del fu Michele Schinelli, i suoi figli
e il comune di Rovolon forse per la “distrazione” di alcuni beni del cenobio da
parte degli Schinelli appoggiati dalla comunità locale. Altro fatto: all’indomani
della dedizione di Vicenza a Padova nel
1266, la partecipazione di Ansedisio e
Bartolomeo Schinelli al complotto ordito dai Veronesi contro Padova nel 1279
andrebbe letta anche come risposta alla
rinvigorita attività legislativa del Comune di Padova, volta a un controllo più
serrato del contado a scapito di enclave
di autonomo potere feudale. Le norme intendevano regolare l’esercizio dei
poteri dei signori limitandone di fatto i
margini d’azione e prevedevano nel 1276 l’istituzione di un podestà di contado anche per Rovolon e, appena due anni dopo, inquadravano nell’ordine
comunale nella città di Padova le prerogative dei domini (signori) Da Castelnuovo e Schinelli in materia di polizia nel distretto rurale di Rovolon, a loro
soggetto17.
Se eminenti ragioni strategiche di dominio e di presidio del territorio sono
dunque alla base dell’incastellamento, la definizione di aree di potere signorile e il consolidamento della trama dei castelli si palesano anche a Rovolon,
come altrove in Italia e in Europa tra XII e XIII secolo, in relazione a dinamiche di carattere demografico e di concentrazione della forza lavoro in prospettiva della colonizzazione dell’ambiente e della valorizzazione del territorio. E in questo senso la struttura fortificata, quale espressione materiale del
potere dei signori, diventa centro di coordinamento di terra e di uomini.
Per tutta l’età medioevale, l’habitat locale fu caratterizzato da una diff usa
macchia boschiva. Si distinguevano la vasta area “buskiva, palludiva et aquiva” a Gazzo di Carbonara, il bosco di Mardelugo, sempre a Carbonara, quello della Carpeneda nella zona di Bastia, gli oltre duecentocinquanta campi
di bosco detto Viglanico a Rovolon con alberi di varia qualità: rovere, faggio,
frassino, cerro. Lo sviluppo delle potenzialità agricole del territorio si evince
dalla diff usione di toponimi che rinviano al disboscamento quali Ronchaya,
in Runchis, in Roncha, in Ronchole, in contrata que dicitur vigris e alla bonifica
e alla messa a coltura che sono ricordate in espressioni come in Novoledo, in
Pratonovo o in Pranovo, in contrata que dicitur Campilongi, in Campis plantatis,
in Camporeo. Specifiche colture sono richiamate da nomi di contrade e luoghi
Carbonara in un
rilievo topografico
del 1828 elaborato
per il trasferimento
dell’antico cimitero
in altro luogo.
34
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
detti Persicaria, Perara, Vignola, Preulivera. Ad esse si aggiungevano coltivazioni di frumento, numerosi vigneti di uva schiava e garganica e oliveti. In
una siffatta realtà agricola, fertile e prospera dove il contadino era tenuto a “
bene laborare, arare, seminare…segare, lodamare, fosatos cavare”, i signori
predisponevano spazi appositi per l’immagazzinamento e lo “stoccaggio” in
vista dell’uso o del commercio dei prodotti nei mercati locali e in città. Il monastero di Praglia aveva una canipa a Costa mentre Bonaccorso Schinelli ne
possedeva una a Rovolon.
La persistenza di ampi specchi lacustri, confermata in vari toponimi (contrata
Bagnolo, contrata Bagnara, in Ysolis, in Gurgo, Palusello, Palus Teçure, una palude
a Rovolon, un’altra a Carbonara, un’altra ancora “di Faedo”), garantiva l’attività piscatoria. Lungo i canali si sviluppava l’attività molitoria (supra rostas,
recitano puntualmente i documenti che ricordano anche una casa cum molendino). Corsi d’acqua detti “calti” incidevano le valli dei colli. Altri percorrevano la pianura antistante le pendici dei colli di Rovolon (contrata Spirani intus
ambas foveas, contrata Spirani ultra foveam con la degora comunis, tra Rovolon e
Carbonara, contrata rialis Çovonis, rium Carbonarie, contrata que dicitur canalis a
Rovolon, in Fossepoye, a latere superiori de fossatum Braydolini, ultra foveam, fossatus bastardus). Questi ultimi erano utilizzati come vie del commercio locale
in collegamento con la principale via di comunicazione tra Padova e Vicenza,
il fi ume Bacchiglione: noti erano il navilium, il navilium medium, la fossa Nina
o “de Pedevenda”. Contemporaneamente essi segnavano il confine naturale
tra il Padovano e il Vicentino (fossatum quod est intus confinia civitatum Padue et
Vicentiae; navilium confinium). Pur in presenza di una serie di passaggi, ponti
(numerosi i rinvii a ponte; a ponte novo, a ponte de pria, a pontesellis; in Silva de
Ponte; a Ponte fratalie), vie arginate o rialzate ai margini del perimetro collinare, si era di fronte a una realtà lacustre di difficile accesso, reso ancor più
arduo da frate (cioè fratte, terra lasciata volutamente intricata e cespugliosa),
la quale offriva una prima difesa naturale sicura per i villaggi e le strutture
L’antico abitato
di Rovolon.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
35
fortificate allestiti nelle zone d’altura e lungo le pendici collinari (si ricordino
i toponimi in Monte, in Monte Rovolonis, in Monte Viale, in Montesello, in Pindisella, solo per citarne alcuni)18.
Parallelamente allo sviluppo agricolo vi fu un’espansione demografica che
raggiunse i suoi massimi livelli nel XIII secolo. Essa si fondò su solide basi,
come prova il villaggio (villa) di Rovolon con la sua chiesa, attestati sin dal
X secolo come un nucleo abitato sostanzialmente definito, che denota un
ambiente relativamente ben popolato dall’Alto Medioevo. Tale crescita lasciò tracce evidenti nella conformazione dell’abitato e nel tessuto insediativo
del territorio (campanea Rovolonis) con una quantità di siti, località, contrade
abitate, in gran parte non documentate prima del XIII secolo (oltre un centinaio i toponimi attestati nella sola Rovolon e più di una cinquantina quelli
riportati complessivamente per Carbonara e Costa)19.
La pieve di San Giorgio di Rovolon, dotata di un palazzo porticato (nel 1287
un atto è rogato infatti sub porticalli caminate ecclesie Sancti Georgi) si affacciava
sulla piazza (plathea ecclesie Sancti Georgi) e dava nome a una contrada dove
abitava anche Bonaccorso Schinelli. Il portico della “caminata” del villaggio
era il luogo di incontro della comunità riunita in assemblea (1261). Punti di
riferimento per la popolazione locale erano anche altri luoghi rurali di culto
o centri di ricovero per malati e viandanti ai quali rinviano toponimi come a
Sancto Andrea o in contrata Sancti Andree o in contrata que dicitur hospitalis e ab
hospitale Sancti Iacobi e l’insediamento eremitico della chiesetta di Santa Maria de summitate montis Rovolonis. A una località detta “vigo” (forse il nucleo
antico dell’insediamento) si sommarono nuove realtà abitate dette espressamente “Vigonovo” e “Canove”20.
Anche la vicina Carbonara, che nel X secolo ospitava dei “casali” (insediamenti agricoli accentrati di dimensioni ridotte forse collegati a forni per la
legna, come suggerisce la stessa voce Carbonaria), nell’arco di due secoli aveva assunto le forme del villaggio, con propria chiesa dedicata a San Giovanni
La pianura verso
i Berici ripresa dalle
colline di Rovolon.
36
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Battista (1190), forse con altri luoghi minori di culto (alla fine del XIII secolo
presso Carbonara è menzionato “un luogo detto Santa Giustina”, in omaggio
alla patrona della città di Padova, come era uso anche altrove nei Colli Euganei e nel Padovano – ne sono esempio le pievi di Santa Giustina di Teolo, di
Pernumia, di Santa Giustina di Monselice, di Pernumia, di Santa Giustina in
Colle, quella vicentina di Montegalda, ma in diocesi di Padova, e la chiesa di
Santa Giustina di Laurano presso Este – o forse in riferimento alle sostanze
dell’omonimo monastero urbano fortemente radicato a Rovolon) e con tanto di porte d’accesso al paese (a capite ville, a portis Carbonarie e in Bagnara a
portis). Questi ultimi elementi permettono di immaginare la fisionomia di un
paese limitato forse da fossati, terrapieni, palizzate di legno21.
Solo a partire dal 1154 si ha notizia di un altro villaggio tra Rovolon e Carbonara. Si chiamava Costa e prendeva il nome della sua ubicazione a mezza
costa sul monte, appunto. Il villaggio era dotato di una chiesa dedicata a san
Pietro (1226) e tra i suoi edifici si poteva riconoscere una casa (domus) di Bonaccorso Schinelli (1288)22.
Una sorta di gerarchia tra i villaggi vedeva Rovolon distinguersi per la presenza della pieve, sede di fonte battesimale e cuore della vita religiosa locale, per
consistenza dell’abitato (il dato relativo al patrimonio di Adelmota dà 60 nuclei edificati a Rovolon, 8 a Carbonara, 12 a Costa), per numero di fuochi (175
quelli di Rovolon, 16 e 10 quelli di Costa e di Carbonara, rispettivamente) e di
vicini, cioè di capifamiglia (nel 1262 Rovolon ne contava ben 105) nonché per
numero di carri che i villaggi erano tenuti a fornire alla milizia comunale di
Padova per il trasporto di vettovaglie e pane (13 Rovolon, 3 Carbonara), dati
che illuminano, complessivamente, sul processo di crescita demografica e di
valorizzazione ambientale. Nei tre villaggi il solido nucleo abitato formatosi
attorno alla chiesa si risolveva senza soluzione di continuità in un tessuto
insediativo a maglie larghe tra cortili con alberi da frutto e viti, campi, prati,
boschi e un edificato, composto da case “murate” in pietra o laterizio, quelle
La pianura attorno
a Frassanelle.
A destra
è riconoscibile
la villa Papafava.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
37
più solide, o in paglia, le altre, ma tutte sostenute da elementi in legno con
tetti in coppi o di paglia23. Alla materia
prima con cui erano costruiti gli edifici
rinviano toponimi come a Calcara, in
Caal(c)e Carbonarie, Terralba o a Terre
blanche, ma anche il riferimento a cave
di pietra in contrada Riçago e le strutture dove la materia prima era lavorata
(Fornaxe, in Fornaxe, monte Vallis Fornacis, in Valle Fornacis, in Villa Coste seu
Fornaxe, in confinibus Coste in contrata
que dicitur Fornaxe; in Fornaxe de Costa,
in Riva de Fornaxe, sempre a Costa)24.
È su questo “impasto di terra e di uomini”25 che si definì il tessuto della maglia fortificata di Rovolon, in forme articolate che non corrispondevano necessariamente solo a dimore nobiliari
ma che potevano prevedere, nell’ambito dello spazio munito di difese, anche
case e aree coltivate eventualmente affittate o concesse dal signore a propri
livellari.
Noto alle fonti a partire dal XIII secolo, nel 1232 il castello di Rovolon dava
il nome a una contrada del villaggio
(contrata castelli…in villa Rovolonis)
dove convergevano gli interessi fondiari di vari esponenti della famiglia comitale (Schinelli, Da Castelnuovo e Da Lozzo)26. Le successive notizie relative
al castello forniscono invece informazioni sull’ubicazione del sito fortificato
e sulle dimensioni del manufatto. Alla data del 1297 tra le pertinenze del castello vi era la chiesa di San Pietro (ecclesia de Rovolone o Monte Sancti Petri de
castro de Rovolone). La chiesa dipendeva dalla pieve di San Leonzio di Lozzo
e rientrava nell’ambito della diocesi di Vicenza retta nel primo Duecento dal
preposito Nicolò Maltraversi Da Castelnuovo, il potente canonico padovano
congiunto Da Lozzo e divenuto vescovo di Reggio Emilia27. Per la sua posizione risulta degna di nota l’attestazione “sul monte di Rovolon” di una contrada di San Pietro, dove avevano beni il monastero di Santa Giustina (1269) e
i discendenti dei conti di Vicenza e di Padova28. Il riconoscimento della chiesa
di “San Pietro del castello di Rovolon” con quella di San Pietro in Costa di
Carbonara promosso in studi recenti, e il toponimo Costa attestato in territorio di Rovolon suggeriscono la possibile ubicazione del castello di Rovolon29.
D’altra parte il villaggio di Costa, pur con una propria area di pertinenza
(confinia Coste) e una certa autonomia (nel 1333 la comunità locale si riuniva
“in plena et comune vicinancia”), ancora nel tardo Quattrocento rientrava
nel territorio di Rovolon e la sua chiesa – identificabile con l’ ecclesia Coste
Sopra,
Villa Papafava
a Frassanelle
in una cartolina
illustrata degli anni
Venti del secolo
scorso
Sotto, Carbonara
agli inizi degli anni
Settanta del secolo
scorso.
38
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Rovolonis confermata da Papa Urbano III al Capitolo della Cattedrale di Santa
Maria di Vicenza nel 1186 – fu annessa a quella di Carbonara solo negli anni
Venti del Cinquecento30. Non resta però alcuna esplicita testimonianza di un
castello di Costa sebbene l’inedita notizia di muralee antique e di una domus
di pertinenza dei Papafava in Costa (1483) illumini sulla possibile presenza
di un qualche manufatto di una certa solidità. Per contro, il toponimo Castei
indica oggi un’area compresa tra il “Castellaro” e la chiesa di San Giorgio di
Rovolon, al lato del sentiero per Sella Fiorine località tra il Monte Grande e
il Monte della Madonna31. Non si può escludere, in conclusione, che il riferimento tardo duecentesco al castello (e alla sua chiesa intitolata a San Pietro)
rinvii al tessuto insediativo locale incardinato su un complesso sistema fortificato allestito in qualche forma a difesa dell’abitato, tanto che la chiesa di San
Pietro era detta anche “de Rovolone”, tout court.
Del castello si conoscono solo parziali dimensioni: in castro vi era un sedimen
del monastero di Santa Giustina, un fondo con casa o destinato ad averla
(1261) e confinante con i beni degli eredi di Ugolino Schinelli; sempre in castelo vi era un quarto di terra coltivata ad oliveto (tardo XIII-primo XIV secolo)
di Adelmota dei Maltraversi32. La pluralità di soggetti cointeressati nell’area
di pertinenza del castello denuncia l’importanza per i diversi signori di poter
intervenire nel controllo del manufatto e dell’area circostante.
Altro elemento fortificato di rilievo era la rocca. Dal catastico di Adelmota
essa risulta ubicata nel villaggio di Rovolon (rocha est in villa predicta Rovolonis,
precisa la fonte): la rocca marcava lo spazio di un potere signorile ingombrante che faceva sentire tutto il suo peso nella vita quotidiana della comunità.
Il toponimo “Sotto la rocca” (De subtus rocha) palesa di riflesso la posizione
soprelevata del manufatto fortificato. Quest’ultimo inoltre definiva attorno
Il “Castèo
dée Roche”
al “Casteàro”
di Rovolon:
resti di struttura
fortificata.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
39
a sé uno spazio noto al tempo come la “contrada detta la Rocca” (contrata
que dicitur Rocha). Coordinato alla rocca ma da essa distinto era il castellaro,
spazio fortificato circoscritto e ben definito: terreni di Adelmota erano infatti
ubicati in castellaro de rocha o in castellaro.
La toponomastica locale conserva ancora oggi memoria di questi apprestamenti fortificati. Casteàro è uno spuntone roccioso dove sorgeva il Castèo dée
Roche, di cui sono ancora visibili i resti, e si erge poco a sud del centro del
paese, alla base del fianco settentrionale del Monte Grande33.
Il castello e la rocca di Rovolon non furono esperienze fortificate isolate.
Nel 1287 le fonti parlano di una “contrada del Castelrotto” (in confinio ville Rovolonis…in contrata Castrirupti), la quale aveva tra i suoi confinanti un membro della famiglia comitale, Bonaccorso Schinelli. Il toponimo, con le varianti
contrata de Castello roto o del Castelo roto attestate tra XIV e XV secolo, rimanda
a una struttura fortificata all’epoca già in rovina34. Il castelrotto era un manufatto distinto dal castello, che infatti sembra ancora efficiente nel tardo Duecento. Il castelrotto era ubicato verosimilmente sul dosso più alto del Monte
Viale, dove è attestato il toponimo “Castaròto” e dove sono ancora visibili i
resti di una fortificazione. In riferimento a questo luogo, emergenze recenti,
risalenti alla seconda metà del XX secolo, e la relativa documentazione hanno
messo in luce un “largo spiazzo sulla cime del colle” e “un’antica torre…di
forma quadrata” con “sbocco a metà del monte tramite passaggio sotterraneo” con la precisazione che “anche la gente del posto tramanda questo
particolare” ed “opere in muratura di difesa della torre”; anche la bibliografia
più recente menziona “sopra una sorte di vallo…i resti di un muro circolare
che chiude un breve rialzo dal quale si innalza la base di una torretta”35. Con
ridotte potenzialità militari, lo spazio fortificato del castelrotto che si esten-
Il “Castèo
dée Roche”
al “Casteàro”
di Rovolon: la
muratura rimasta.
40
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
deva per almeno due campi e dieci piedi, appartenuti ad Adelmota e passati
ai suoi discendenti, era coltivato a vite e ulivo36. Inoltre la distinta menzione
del castelo roto e di un castrum fractum nella contrata Castrifracti a Rovolon
in un documento del 1373, che riporta la dote di Caterina Schinelli sposa di
Giacomo Papafava, suggerisce l’esistenza, forse, di un secondo manufatto al
tempo ormai anch’esso in fase di destrutturazione37.
Segno del consolidamento della maglia fortificata è anche la menzione nel
tardo Duecento di un castellarum Canove e di un castello de Chanova, un agglomerato fortificato sorto in corrispondenza di un preesistente nucleo abitato,
menzionato solo agli inizi del secolo come di recente formazione e dove aveva terreni la famiglia comitale. Nel castello di “Canove” Adelmota aveva un
casa “murata” con tetto di coppi, un fienile/ricovero (teza), un’aia e un orto
abitata da livellario. E anche i suoi eredi vi possedevano campi ed edifici, puntualmente ubicati in ora Canove supra chastelo Chanove (1324)38.
Al 1354 risale la menzione di un castrum Berlina, una struttura adibita forse a
prigione e sempre in territorio di Rovolon, probabilmente in corrispondenza
della contrada “Costa Berline”, attestata nel 140639.
Un documento del 1373 ricorda quindi una rocca con torre di solida fattura
posta in posizione sopraelevata nell’ambito di una proprietà di cento campi
di bosco sul colle della Vallalta di Rovolon, un ripiano alla base del versante nord del Monte Grande e di pertinenza del monastero di Santa Giustina
(“una rocha cum una turri de muro cum centum campis nemoris supra montem de la Valalta de Rovolone”) e che sembra conciliasse funzioni militari e
esigenze di coordinamento della vasta proprietà rurale circostante40.
Infine, nel 1394 nella contrada Vigonovo di Rovolon, località nota almeno
dalla metà del secolo precedente, vi era una mota. Rilievo più o meno arti-
Dettaglio
della carta militare
austriaca del 1798.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
41
ficiale che fondava le proprie potenzialità fortificatorie su terra et aqua e che
all’occorrenza poteva servire da rifugio ai locali, la motta dava a sua volta il
nome a una contrada (contrata mote) estesa, appunto, tra macchie boschive,
terre dissodate (vigre) e corsi d’acqua che le fonti ricordano con i termini fovea, fovea Vicinovi, fovea Savarini e fossatum Brardulini41.
Il processo di incastellamento coinvolse anche la vicina località di Carbonara
con fortificazioni di forme apparentemente più ridotte che avrebbero sostenuto le potenzialità di attacco e di difesa dei vicini castelli di Rovolon, creando con essi un unico articolato “distretto di difesa”.
All’inizio del XIII secolo le fonti citano, come si è accennato, una motta del
monastero di Praglia a Carbonara, alla quale afferiva l’esercizio di poteri signorili e che, dotata di orto e collegata alla dimora (domus) del loro possessore (1216), di Albrigetto de Luca, uomo vicino al monastero, dal quale l’aveva ricevuta in permuta, doveva sembrare una struttura a metà “tra azienda
agricola e fortezza” e rappresentare così, per il suo possessore, un segno di
distinzione sociale42.
Tra la fine Duecento e il secolo successivo si infittiscono le notizie di manufatti fortificati, più o meno in relazione con la motta del monastero.
Al 1296 risale la prima attestazione di una “contrada del Castelletto” (contrata
Castelleti) dove il monastero di Praglia possedeva un bosco sito precisamente
ubi dicitur Castelletum (1308). Il toponimo sub Plano castelleti, dove Adelmota dei Maltraversi aveva dei terreni, denuncia la posizione sopraelevata del
luogo che ospitava il manufatto. Casteéto è chiamato oggi un promontorio
pianeggiante con il gruppo di case sottostanti verso la strada provinciale a
sud del centro abitato di Carbonara. Parziali riferimenti alle dimensioni delle
pertinenze del castelletto e del paesaggio agricolo circostante si deducono
inoltre dalla menzione, tra i beni della stessa Adelmota, di tre campi a viti e
ulivi in Plano casteleti e di altri tre, sempre coltivati a vite, ubicati nel castelletto (in casteleto). I terreni erano lambiti da corsi d’acqua (caaltum in castelletto o
caaltos de casteleto) e attraversati da strade di campagna (via de chasteleto)43.
Nel territorio di Carbonara altre due erano le fortificazioni che facevano capo
ad Adelmota e ai suoi eredi, il castelletto di Casarse (casteleto de Casearse) e quello di Bagnara (castelletto de Bagnara) – declivio quest’ultimo sotto il pianoro di
San Pietro in Costa, che da ponente si estende verso Zovon, a sud di Carbonara – al cui interno gli stessi possedevano terreni. Il castelletto di Bagnara,
in particolare, dava il nome a due contrade, la contrata Chasteleti e quella Plani
chasteleti di Bagnara, appunto, espressioni che richiamano la conformazione
del sito fortificato44.
I primi segni di sofferenza del sistema fortificato di Rovolon si manifestarono,
come si è visto, sin dalla seconda metà del XIII secolo. Di ciò rimane traccia
in espressioni come “castelrotto” e in altre risalenti al XIV secolo e con simile significato come “castrum fractum” o “castelletto de Casearse” . Gli esiti
dell’incendio appiccato al villaggio e al castello di Rovolon nei travagliati momenti delle guerre con gli Scaligeri (1312) avrebbero reso necessario il rinnovo della chiesa di Costa (1314)45. La parallela menzione di strutture fortificate
ancora efficienti nel XIV secolo ed altre in fase di destrutturazione sin dalla
seconda metà di quello precedente, sembra confermare che il settore nord-
42
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
occidentale dei Colli Euganei fosse un’area strategica per la sua posizione di
confine e, per questo, oggetto di attenzioni speciali volte ora a potenziare ora
a recare danno al suo impianto fortificato.
Nel tardo XIV secolo, anche a Rovolon appare un nuovo tipo di sito fortificato, la bastia. Il vocabolo, noto in Italia e in Francia dal XIII secolo, indicava una struttura fortificata allestita sommariamente con tavole, travi, assi di
legno, cinta da terrapieni circondati da fossati ed eventualmente munito di
altre torri lignee e rinvia al termine “imbastire”, edificare in fretta, realizzare una struttura precaria, allestire provvisoriamente una difesa. Tra XIV e
XV secolo, periodo di massima diff usione del nuovo modello fortificatorio
in area padano-veneta, nell’ambito di strategie militari di signorie cittadine,
impegnate a espandere il loro potere su scala regionale, volte a valorizzare i
grandi centri fortificati di dimensioni semiurbane, le “terre murate”, le bastie
risultavano particolarmente efficaci sul piano militare. Allestite a sostegno di
siti fortificati preesistenti o in zone relativamente isolate in appoggio al movimento degli eserciti, i nuovi manufatti erano piazzeforti provviste di soldati,
armi e vettovaglie e basi strategiche di attacco/difesa adatte a incursioni e
scorrerie. In area euganea si contano le quattro bastie costruite nel primo
Trecento durante la guerra scaligero-carrarese-veneziana in corrispondenza
delle porte del solido complesso fortificato di Monselice (San Giacomo, San
Salvaro, San Michele e “accanto al monte”) e, al lato opposto dei Colli, dagli
anni Sessanta dello stesso secolo, quella di San Martino della Vanezza allestita
presso il castello, vicino al fi ume Bacchiglione46. Quella di Rovolon fu eretta
molto grande e forte nel 1386, quando infuriava la guerra tra gli Scaligeri, signori di Verona e i Carraresi, signori di Padova. Costruita presumibilmente a
partire dal maggio di quell’anno, quando le truppe scaligere si accamparono
presso Rovolon per meglio controllare la frontiera tra il Padovano e il Vicentino e nella speranza di ottenere maggiori successi di quanti ne avevano avuti
stando nella Scodosia di Montagnana più a sud, la bastia portò molto danno
alle montagne Padoane, cioè i Colli Euganei. Già nell’agosto del 1386 la fortificazione fu sottratta con la forza (per forza) dalle truppe inviate da Francesco
Da Carrara47. Nel 1392 la bastita Rovolonis, lambita da una “fovea acquosa”
con argini da entrambe le parti, posta nel distretto padovano, e detta “la fossa
de la Nina seu la Vaneça” che scorreva vicino al fi ume Bacchiglione, era ancora ben riconoscibile all’orizzonte di un paesaggio piatto e paludoso48. Nel
1402 la bastia era un avamposto militare ancora attivo a presidio del territorio circostante al comando di un capitano49.
Dal XV secolo, ormai sotto il dominio di Venezia, furono le città a giocare
un ruolo strategico nella scacchiera geopolitica che mirava ad orizzonti più
vasti di scala sovraregionale. Tale politica accentuò la destrutturazione del
tessuto fortificato di cui si erano avvertite le prime avvisaglie già nel secolo precedente. Il lento abbandono o il riuso di antiche fortificazioni lasciò
spazio all’affermarsi della grandiosa “civiltà di villa” e alla diff usione anche
nei Colli Euganei di dimore padronali, case di villeggiature in luoghi ameni
“per vincere l’afa, il caldo torrido e la pesantezza del clima cittadino”50 e che
permettevano di seguire i lavori agricoli, la riscossione degli affitti, la raccolta
dei prodotti, dando forma, ad esempio, ormai in piena età moderna, a quelle
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
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“fabbriche dominicali” con annessi rurali di Niccolò Coletti al Castèaro de
Cristofanon di Rovolon (1756) o ad esiti architettonici di particolare fascino e
bellezza come le ville Ottavia, Da Rio, Lion e ancora Barbaro , Lippomano,
Papafava, Priuli51.
Note
1. FIORESE (2004), p. 318-319; 150-151.
2. SETTIA (1984); BORTOLAMI (2004); CASTIGLIONI (1994); TOGNANA (2006-2007).
3. CDP, I, doc. 27, p. 40; doc. 52, p. 76; doc. 53, p. 78; doc. 55, p. 80; doc. 62, p. 87; doc. 67,
p. 96; doc. 69, p. 102; doc. 70, p. 103; doc. 101, p. 136; doc. 93, p. 123; doc. 97, p. 131;
doc. 101, p. 136; doc. 117, p. 153; doc. 126, p. 162; doc. 146, p. 182; doc. 239, p. 266; doc.
274, p. 300; II, doc. 71 p. 58; doc. 767, p. 74; l’espressione citata tra virgolette si trova
in FASSERA (1980), p. 11; BORTOLAMI (1988); BORTOLAMI (1996); BORTOLAMI
(2003); MONETI (1995); MONETI, DRAGHI (1997), p. 175; MONETI (2000); COLLODO (2006), p. 24-25.
4. CDP, I, doc. 55, p. 80; doc. 98, p. 132; doc. 129, p. 165; doc. 187, p. 216; II - 1, doc. 50, p.
41; doc. 136, p. 112; doc. 360, p. 274; doc. 377, p. 287; doc. 455, p. 339; doc. 485, p. 359;
doc. 523, p. 381; II - 2, doc. 655, p. 6; doc. 840, p. 116; COLLODO (2006), p. 13-14; CAVALLARI (1965); ASPd, Corona, Santa Giustina, gen. 7424, part. 1602; CASAZZA (2008),
doc. 153, p. 302; doc. 184, p. 364; RIPPE (2003), p. 131, 150.
5. CDP, II -1, doc. 611, p. 437; BORTOLAMI (1999), p. 232.
6. CDP, II - 2, doc. 1085, p. 258 ; RONCARATI (1962 -1963).
7. BORTOLAMI (1999), p. 240; COLLODO (2006), p. 12 -13; cfr. nota 3.
8. RONCARATI (1962-1963), doc. 86, p. 154.
9. CDP, II - 1, doc. 485, p. 359; II - 2, doc. 1158, p. 300; CASTAGNETTI (1981), p. 187189; DONDI OROLOGIO, (1802-1817) I, p. 129-138; BORTOLAMI (1985), n. 21, p. 8-9;
ASPd, Diplomatico, 10628-917;
10. CDP, II -2, doc. 1158, p. 300.
11. BLASON BERTON (1972), p. 50; PAGLIARINI (1990), p. 243.
12. ASPd, Corona, Santa Giustina, gen. 7401, part. 1578; CASAZZA (2008), doc. 153, p. 302;
AGSLA, Archivio Papafava, codice 35, doc. 10.
13. AGSLA, Archivio Papafava, codice 26.
14. PAPAFAVA DEI CARRARESI (2005), p. 16.
15. BP, Documenti Carraresi - BP 990 I, doc. XXX.
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(1941), p. 112-113, 253; AGSLA, Archivio Papafava, codice 36, doc. 4; AGSLA, Archivio
Papafava, codice 26, f. 57 v.
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18. AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 1 v., 2 r. v., 3v., 4 r., 5 r. v., 6 r., 7 v., 9 r. v., 10 r., 14
v., 15 r. v., 16 r. v., 18 r., 20 r., 21 r., 22 v., 23 r., 24 v., 27 r., 28v., 33 r., 40 v., 41 r., 44r., 46 r.,
50 r., 54 v., 56 v.; codice 35, doc. 9, 10; CARRARO (1997), doc. 27, p. 136; BORTOLAMI
(1999), p. 242, 245.
19. CDP, I, doc. 55, p. 80; doc. 239, p. 266; AGSLA, Archivio Papafava, codice 26; COLLODO
(2006), p. 21.
20. AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 6v., 8 r., 10 r., 19 r., 51 r.; codice 35, doc. 4, 9, 11,
12; ASPd, Corona, Santa Giustina, gen. 7401, part. 1578; Diplomatico, part. 2508 (1271,
dicembre 20); CARRARO (1997), doc. 27, p. 136; RIGON (1987) p. 131.
21. CDP, I, doc. 67, p. 96; ASPd, Corporazioni soppresse, S. Maria di Praglia, b. 3, “catastico” del
Marchettani, f. 121 v. - 124 v.; AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 24 r. v., 38 v., 40 v., 56
r.; BARZON (1955), p. 43-84.
22. CDP, II, doc. 611, p. 437; BORTOLAMI (1999), p. 232; ASPd, Corporazioni soppresse, S.
44
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Maria di Praglia, b. 3, “catastico” del Marchettani, f. 121 v. - 124 v.; AGSLA, Archivio Papafava, codice 35, doc. 13.
AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 4 r., 5 v., 6 v., 7 v., 8 r. v., 10 r. v., 12 r, 13 r. v., 15
r., 18 r. v., 19 r., 21 r., 22 r. v., 23 r. v., 24 r., 25 r. v., 26 r. v., 27 v., 29 r., 29 v., 30 r. v., 31 r.,
32 r., 33 r. v., 34 r., 39 r. v., 40 r., 41 r., 42 r. v., 43 r., 44 r. v., 46 r., 48 r., 49 v., 50 r., 51 r. v.,
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20).
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AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 3 r., 33 r. v., 57 r.;ASPd, Notarile, 34, f. 213
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26, f. 10 v., 12 r., 34 r., 51 v., 52 r., 57 v., 58 r; BP, Documenti Carraresi - BP 990 I, doc.
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ASPd, Notarile, b. 167 (notaio Meiorino Rustighela), f. 55 r.; AGSLA, Archivio Papafava,
codice 36, doc. 12.
ASPd, Corporazioni soppresse, Santa Giustina, b. 287, II, f. 2 v.
ASPd, Corporazioni soppresse, Santa Giustina, b. 220, vol. F, f. 2 r. - 4 v.
RONCARATI (1962-1963), doc. 82, p. 145; doc. 86, p. 154; doc. 109, p. 199; doc. 110, p.
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ASPd, Diplomatico, part. 3800 (anno 1296); Coroporazioni sopporesse, Santa Maria di Praglia, b. 165, f. 144 r.; f. 244 v.; AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 38 v., 39 r, 40 r. v.,
56 r. v., 58 r.; ACVPd, Feudorum, VI, f. 9 r.
AGSLA, Archivio Papafava, codice 26, f. 28 v., 39 r., 41 v.; BP, Documenti Carraresi - BP 990
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ASPd, Foro Civile, b. 209, f. 205 r. - v.; dis. 70 A; ZUCCHELLO (2001), p. 445-453.
da l v il lag g io a l la ‘ v il la ’
45
Legenda
Archivio Curia Vescovile di Padova = ACVPd
Archivio di Stato di Padova = ASPd
Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti di Padova = AGSLA
Biblioteca Civica di Padova = BP
Codice Diplomatico Padovano (vedi bibliografia) = CDP
busta = b.
documento = doc.
foglio = f.
generale = gen.
pagine = p.
recto = r.
verso = v.
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medievali dell’Alta Italia. Ricetti, ville forti, recinti, “Bollettino storico - bibliografico subalpino”, LXXIV (1976), p. 527-617; A.A. SETTIA, Motte e castelli a motta nelle fonti scritte dell’Italia
settentrionale. Dati e problemi, in Mélanges d’archeéologie et d’histoire médiévales en l’honneur du
Doyen Michel de Boüard, Genève 1982, p. 371-383; A.A. SETTIA, Motte nell’Italia settentrionale,
“Archeologia Medievale”, XXIV (1997), p. 439-444; A.A. SETTIA, Tra azienda agricola e fortezza: case forti, “motte”e “tombe” nell’Italia settentrionale. Dati e problemi, “Archeologia Medioevale”, VII (1980), p. 31-54; F. TOGNANA, L’incastellamento medioevale nei Colli Euganei. Insediamenti, società e poteri, tesi di Dottorato di Ricerca in “Storia (antica, medioevale, moderna
e contemporanea)” - XVIII ciclo, Università degli Studi di Padova, supervisore Prof. S. BORTOLAMI, 2006-2007; E. ZORZI, Il territorio padovano nel periodo di trapasso da Comitato a
Comune. Studio storico con documenti inediti, “Miscellanea della Deputazione di storia Patria
per le Venezie”, s. IV, III, Venezia 1930; Ville venete la Provincia di Padova, a cura di N. ZUCCHELLO, Venezia 2001, p. 445-453.
Claudio Grandis
I boschi
Il territorio comunale di Rovolon si stende per 27,56 chilometri quadrati e
comprende oltre al piano, dominato dall’abitato di Bastia, l’estremo lembo
collinare euganeo su cui si sviluppano le tre località di Frassanelle, Carbonara
e Rovolon.
Osservando i versanti delle colline del Sereo, Viale, Grande, Madonna, l’occhio è attratto dal manto boschivo interrotto qua e là da radi squarci su cui
spuntano vecchie case costruite nei secoli passati. Gli alberi della flora euganea attraggono per la dolcezza che da lontano anima il cuore. Il piano,
invece, spoglio e marcato geometricamente da strade e fossati, argini e coltivi
induce a pensare che qui l’agricoltura abbia radici profonde, capaci di perdersi nel buio del lontano Medioevo. I documenti ci raccontano invece una
storia diversa. Il paesaggio del piano, che dall’unghia collinare si spande verso lo scolo Bandezzà oltre il quale inizia il Vicentino, è frutto di una recente
trasformazione del suolo, di un mutamento radicale e profondo conseguente
alla scomparsa di varie quanto estese macchie di bosco planiziale. Una parola
strana – planiziale – inconsueta eppure familiare ai botanici. Planiziale vuol
dire pianura. Il territorio della pianura di Rovolon, infatti, fu a lungo ricoperto di boschi, in particolare di querce, farnie, roveri e olmi. È avvincente leggere, nei documenti che dal XIII giungono al XIX secolo, il continuo rinvio alle
La pianura fra
Euganei e Berici
un tempo popolata
dai boschi di rovere.
48
Il testo iniziale
della Parte presa
dal Consiglio
dei Pregadi il 20
febbraio 1598 in
materia di boschi,
inserita nella
Novissima Veneta
Statuta stampata a
Venezia nel 1729.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
piante di rovere e scoprire che il tema dominante
non è tanto quello della produttività dei terreni
agricoli quanto, piuttosto, la preoccupazione di
non distruggere irrimediabilmente questa singolare risorsa.
Tutti questi boschi di quercia avevano un proprio
nome di battesimo: Carpaneda, Vegrolongo, Carpi, Labixeto, Spexa Catena, e quanto mai singolare è che nel loro sfruttamento trovano origine
toponimi (i nomi di luogo) quali Fossona, Bastia,
Carbonara e Lovolo. Com’è possibile vien da
chiedersi? Qual è il legame di nomi apparentemente estranei al lessico botanico. Carpaneda ci
riporta al Carpino, all’essenza diff usa della nostra
area euganea. Curiosamente però, almeno dal XV
secolo, Carpaneda fu uno dei principali boschi del
demanio statale veneziano: dietro a questo nome
si nascondono secolari vicende tutte comunque
annodate attorno alla singolare preoccupazione
di uno sfruttamento razionale, controllato, ecosostenibile. In altre pagine di questo libro è narrata, per sommi capi, la vicenda secolare di questo
bosco.
Non lontano dalla Carpaneda, contiguo sul perimetro di levante, si sviluppava il bosco del Vegrolongo: un nome che significa terreno non dissodato, non coltivato, un’estesa superficie che superava il confine attuale per ammantare anche parte
dell’odierno comune di Cervarese Santa Croce fino ai margini del castello di
San Martino della Vaneza.
Fossona dal canto suo è un nome che ha origine proprio dallo sfruttamento
di questi due boschi. Per facilitare la condotta dei pesanti tronchi di rovere
dal bosco all’imbarco situato all’ombra del castello di San Martino, nel 1676
il governo veneziano approvò il progetto e finanziò l’opera di allargamento
dell’alveo dello scolo Nina, corso d’acqua allora chiamato anche fossa Martina e, anticamente conosciuto come Naviglio di Pedevenda. Ebbene quella
poderosa opera idraulica trasformò il fossato in una fossona, come ricorda il
perito padovano Francesco Alberti incaricato di dirigere i lavori nel 1676. Nel
nome Fossona vi è dunque memoria di questo singolare evento seppur oggi
si fatica a comprendere il collegamento della fossa Nina con il Bacchiglione
per l’interramento del tratto iniziale, proprio tra il castello di San Martino e
il rettifilo di via Scapacchiò.1
Ai boschi, alla ricchezza di legname ci riporta anche il toponimo Bastia, una
fortezza, un luogo di difesa costruito con il legno, con i tronchi, come i fortini dei vecchi film western americani. La disponibilità di legname consigliò gli
ingegneri militari delle truppe scaligere di abbattere gli alberi anziché estrarre
trachite o cuocere laterizi per dar vita alla bastita. Così innalzata la difesa divenne luogo di ricovero delle truppe per gli attacchi alle postazioni carraresi.
i b oschi
49
Così pure Carbonara, al limitare del pendio di
Monte della Madonna, ci ricorda che qui vi erano le carbonaie, le cataste di legna ricoperte di
argilla per produrre carbone. Se a Carbonara
convergeva legname dai Colli, è pur vero che
dai pendii giungevano anche tronchi di pezzatura diversa, raccolti nel cuore dei boschi della
contigua pianura.
In Lovolo, infine, è rimasta memoria di un animale oggi scomparso che popolava questi boschi: il lupo.2
Nomi di luogo che rimembrano paesaggi
scomparsi, popolati da attività e quotidianità
che difficilmente si possono immaginare. Il boscaiolo, il saltaro (cioè il custode dei boschi), i
carrettieri, i fabbri, sono figure che siam soliti
ricondurre ai grandi manti boschivi delle Prealpi e delle Alpi. Il radicale cambiamento, capace di lasciare, come detto, solo qualche traccia
nella toponomastica inizia nella seconda metà
del XV secolo. Proprietari dei boschi di Rovolon, da data che non ci è nota, erano i monaci
di Nonantola (in provincia di Modena) che attraverso il controllo sul priorato di San Leonardo di Padova il 20 gennaio 1470 disposero la
concessione a lunga scadenza dei boschi ad Andrea Dandolo di Venezia; in
precedenza, nel 1464, avevano parimenti concesso a Ludovico Palazzolo e a
Bernardo Maraspina, una superficie complessiva stimata in quasi 1300 campi
padovani, equivalenti oggi ad oltre cinquecento ettari.3
Il bosco di Vegrolongo scomparve invece per il continuo taglio voluto dal governo veneziano. Migliaia e migliaia di tronchi furono abbattuti nell’antico bosco di proprietà del monastero di Sant’Agata e Cecilia, del monastero di San
Benedetto, delle famiglie Calza e Buzzacarini.4
Nonostante i tagli ripetuti e continui delle piante, capaci di far scomparire
ettari su ettari, all’alba del XIX secolo il comune di Rovolon vantava ancora un’estesa superficie di bosco. All’interno del Dipartimento del Brenta, i
tecnici rilevarono che i comuni euganei erano ammantati per una superficie
complessiva di oltre 12.450 campi. A Rovolon se ne contavano più di 1278,
pari cioè a poco più della decima parte di tutti i boschi euganei. Nella lista,
a precedere Rovolon, al primo posto v’era il comune di Vò con 2661 campi
(quindi il 21,37% del totale), poi quello di Cinto Euganeo con altri 1785 campi, cioè il 14,34% e al terzo posto il comune di Torreglia dove si concentravano altri 1739 campi.
Il censimento eseguito allora tenne distinti i campi di bosco dello Stato, da
quelli dei comuni e pubblici stabilimenti e infine quelli di proprietà esclusiva
dei privati. La maggior concentrazione di superficie demaniale era proprio a
Rovolon dove i terreni a bosco di proprietà pubblica comprendevano ben 532
La facciata
della chiesa
monastica
di Nonantola
(Modena).
I monaci
di questa antica
abbazia erano
in parte proprietari
dei boschi della
piana di Rovolon,
gestiti attraverso
il priorato
di San Leonardo
di Padova.
50
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
campi, cioè il 42% del totale. Nessun altro comune dell’allora Dipartimento
del Brenta superava i 200 ettari di superficie demaniale, segno questo del notevole interesse e dell’attenzione che il governo centrale riservava al nostro
territorio. Ma in questo quadro un ruolo importante lo ricopriva anche l’autorità comunale. I boschi della collettività s’estendevano per quasi 60 campi
padovani, pari cioè a 23,09 ettari attuali.5
Una superficie che nel 1850 era ancora saldamente iscritta nel patrimonio
comunale, e tale rimase per tutto il XIX secolo.6 La superficie a bosco era suddivisa in prese cioè in zone, distinte con un numero romano. Queste prese,
seguendo un rituale le cui origini si perdono nella notte dei tempi, venivano
assegnate alle famiglie di Rovolon, con un contratto della durata settennale,
scaduto il quale le prese venivano affidate ad altre famiglie, seguendo un criterio a rotazione di cui ci sfuggono, per ora, le modalità. Le carte del nostro
archivio comunale ricordano che porzioni del bosco nel 1929 furono affittate
a mezzadria ad Antonio Veronese, Aldo Martini, Rino Graziani e altri fino
al 1950, mentre un’altra presa fu affidata nel 1925 a Giuseppe Zattarin. Una
memoria più triste ci ricorda invece che la seconda guerra mondiale provocò
non pochi danni, soprattutto per i ripetuti furti di legname nel 1945.7
Note
1. Claudio Grandis, Il paesaggio scomparso. Acque, mulini, boschi e cave al tempo della dominazione veneziana (Secoli XVI-XVIII), in Cervarese S. Croce. Profilo storico di un comune del
Padovano tra Bacchiglione e Colli Euganei, a cura di Alberto Espen e Claudio Grandis,
Cervarese S. Croce (Biblioteca Comunale – Il Prato ed.) 2004, p. 113-118.
2. Dante Olivieri, Toponomastica veneta, Venezia-Roma (Istituto per la collaborazione culturale) 1961 (rist. Firenze 1977), p. 71.
3. Devo alla cortesia di Giannino Carraro la segnalazione dei contratti stipulati dal priorato di San Leonardo conservati in Archivio di Stato di Padova, Notarile 3337, c. 601;
Giannino Carraro, La parrocchia di S. Leonardo di Padova dipendenza nonantolana (sec.
XII-XVIII). Fondazione, sviluppo, soppressione, «Benedictina», anno 50 (2003) fasc. M 1, p.
35-38, p. 82-86.
4. Manca a tutt’oggi uno studio puntuale e completo sui boschi del Padovano, vera risorsa scomparsa nel corso dell’età veneziana per l’intenso sfruttamento decretato dal
governo della Serenissima. Basta scorrere i due inventari, quello del 1568 del perito
Surian [Archivio di Stato di Venezia (ASVe), Provveditori sopra boschi, vol. 130, c. 225240] e quello di Alvise Bembo del 1588 [Archivio di Stato di Padova (ASPd), Boschi,
busta 7, c. 199-290 – Rovolon è alle c. 261v-266v] per avere un quadro territoriale preciso
delle numerose macchie di bosco che popolavano l’intera provincia. Purtroppo anche
i documenti sono dispersi: oltre alle quattordici buste di carte raccolte nel fondo Boschi
dell’ASPd, per svolgere un’accurata ricerca di quanto è accaduto nel corso dei secoli
XVI-XVIII c’è bisogno di un’indagine attenta su diversi altri fondi documentali prodotti
dagli uffici che, seppur con competenze diverse, in passato amministrarono il patrimonio boschivo provinciale.
5. ASVe, Provveditori sopra boschi, registro 172 “Riassunto di tutti i boschi esistenti nel Dipartimento del Brenta”.
6. ASPd, Censo stabile, Rovolon, vol. 311-316, in particolare il vol. 313, partite 162, 170,
203.
7. Archivio Comunale di Rovolon, buste 10.1.6 (Vertenza Bonino Francesco per la strada
vicinale del bosco, anno 1876) e 10.1.9 (bosco comunale, affittanze e danni).
Carla Frasson
Il bosco della Carpaneda
Il bosco della Carpaneda si trovava nel confine tra il territorio padovano e il
vicentino: riprendendo le parole di alcuni tecnici che lo visitarono nel 1574
ricadeva giuridicamente «nella villa di Revolone, nella contrada di Vegrolongo et della Bastia». Il suo sviluppo era di «forma più lungo che largo, perché
è lungo da levante a ponente, circa 1132 pertiche et è largo da tramontana
a mezo giorno circa 250 pertiche, talché la circonferentia saria miglia tre et
un quarto».1 Il bosco della Carpaneda inoltre era «morbidissimo e bello di
publica ragione»,2 motivo per cui il suo legname veniva riservato all’Arsenale
di Venezia. Si trattava di una superficie boschiva molto estesa, circondata da
un profondo fosso all’esterno del quale s’elevava il relativo argine; entrambi,
fosso e argine, erano stati fatti costruire dalla Serenissima «acciocché le acque esteriori non intrassero, in detto boscho et li animali non vi andassero a
pascolare et farvi danno».3
Il pericolo maggiore, per la Carpaneda, era costituito dalla penetrazione e dal
ristagno delle acque che facevano marcire i legni. Il bosco, infatti, s’estendeva
tra il corso della Fossa Nina o Naviglio Vecchio a levante, e la Fossa Bandezzà a
ponente: quest’ultima divideva il territorio Padovano dal Vicentino.4 Le due
fosse erano sempre colme di detriti e avevano argini insufficienti a sopportare
le piene d’acqua che, uscendo dall’alveo del Bacchiglione, si spandevano nel
Padovano. Ad aggravare la situazione ci pensavano poi i vicentini: «al tempo
delle excrescentie – scrivono ancora i periti nella relazione del 1574 – sogliono tagliar li arzeri di essa fossa in tre lochi»5 portando danni gravissimi alle
campagne padovane, ma soprattutto al bosco il cui fondo era «basso e concavo onde ogni poca di pioggia lo tiene tanto bagnato e morbido che sta molto tempo ad asciugarsi».6 Per questo nella Carpaneda si poteva trovare una
«grandissima quantità di legnami di roveri, olmi e semenzali buoni» e ancora
«bellissime macchiate di semenzali seminate in alcune piazzette», e così pure
«gran quantità di legnami non buoni, né per venir buoni, come busi, saettati
scavezzati, morti e cavati».7
L’arginatura e lo scavo delle due fosse Nina e Bandezzà e la costruzione di
un argine più alto attorno alla Carpaneda, saranno le soluzioni invocate in
più occasioni. Il 17 marzo 1559 il perito Domenico dell’Abaco, inviato da
Giustiniano Foscarini, capitano di Padova, per un rilevamento sul posto a
causa di alcuni tagli fatti nell’argine della Carpaneda, propose di scavare la
fossa Bandezzà per una spesa di ducati 2373; la fossa Nina, per altri ducati
2100; di allargare il fosso e di arginare la Carpaneda per ulteriori ducati 600.8
La stessa soluzione venne indicata nel 1574 dai periti che compirono sopralluoghi nella zona, tutti incaricati di pronunciarsi sulla controversia sorta tra il
52
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
monastero di Praglia e i signori Da Rio.9 La proposta avanzata nel corso del
XVI secolo fu condivisa anche da Francesco Valdagni che, diversi decenni più
tardi, cioè nel 1655, compose e pubblicò un memoriale sul bosco. Il lavoro
era il frutto della sua lunga esperienza nella veste di capitano ai boschi, per
questo venne intitolato Osservazioni e ricordi sopra il bosco della Carpaneda ed
altri boschi circonvicini nella vicaria di Teolo. Ben conoscendo la realtà dei luoghi e delle istituzioni, nel testo dato alle stampe Valdagni sottolineò che tali
opere di scavo e di arginatura, interessando un bosco demaniale, andavano
addebitate ai «comuni circonvicini senza spese pubbliche».10
Valdagni ben conosceva le condizioni che allora regolavano i rapporti tra il
vicariato di Teolo, il distretto Padovano e l’autorità centrale. Un paio di secoli
prima, il 18 febbraio 1457, era stato siglato un concordio, approvato dal governo veneziano il successivo 6 aprile, in virtù del quale gli uomini che abitavano
nella vicarìa di Teolo dovevano provvedere gratuitamente non solo a tagliare
le piante e a condurre i tronchi dal bosco all’imbarco, situato sotto la torre
del castello di San Martino, ma pure ad accollarsi l’onere della manutenzione
delle strade, dello scavo periodico dei fossati di scolo, del rincalzo e del ripristino degli argini. Dovevano inoltre assicurare la stabilità dei ponti di pubblico transito, come quello di Tencarola, e sottostare ad altri eventuali obblighi
straordinari dovuti agli effetti d’inattese avversità atmosferiche, quali erano
allora in particolare le esondazioni.
Lo scolo delle acque nelle due fosse vicine rimase per secoli l’insoluto problema della Carpaneda e questo spiega l’abbondanza di documenti rimasti
nei nostri archivi. Sono carte che attestano i numerosi tentativi, spesso falliti,
promossi dal Capitano di Padova, dai Provveditori all’Arsenale, dal Vicario
di Teolo e dal governo centrale di risolvere una questione annosa.11 A partire
dal secolo XVII la ricerca di una soluzione duratura verrà affidata ai retrat-
Il bosco della
Carpaneda nella
carta militare
austriaca del
Veneto di Anton
Von Zach (1798).
i l b o sco de l la ca rpa n e da
53
ti (originaria denominazione degli attuali
Consorzi di bonifica), come quello di Lozzo che nel 1615 costruirà un nuovo argine
nella Bandezzà, poiché quello esistente
era stato rovinato dalle acque l’anno precedente;12 o come quello di Ottoville, che
in più occasioni sarà protagonista nel rimediare ai disordini e ai danni provocati
dalle acque nel bosco stesso.13
Alla Carpaneda ulteriori danni furono
inferti dai proprietari dei terreni vicini, i
quali illegalmente praticavano tagli nei
già disastrati argini delle due fosse Nina e
Bandezzà e, in maggior misura, facevano
boccaroli e tagli nell’argine del bosco. Nei
sopralluoghi compiuti nel 1574, ad esempio, i periti ne contarono ben ventotto.14
Per mantenere le terre asciutte, i proprietari vicini di nascosto incidevano gli argini
creando dei condotti attraverso i quali facevano affl uire le acque: il bosco le riceveva, avendo un piano posto ad una quota
altimetrica più bassa di quello della campagna circostante. Come se non bastasse i
tecnici nei loro sopralluoghi constatarono
che, dalla parte dei padovani, il «terreno
delli arzeri della fossa era stato portato in molti lochi per terrazzare», cioè era
stato asportato per coprire avallamenti nelle loro proprietà private.15
Nel 1588 il provveditore sopra i boschi, Alvise Bembo, riportò nel suo Catastico (un vero e proprio inventario delle piante di rovere e olmo) che a Vegrolongo di Rovolon vi era «un bosco de la Serenissima Signoria chiamato il bosco
della Carpaneda … Il suo fondo è buonissimo, lontano dal fi ume Bachigion
circa quatro miglia. Li legni, che sono in esso – precisava nella sua relazione –
non s’hanno numerati, né bolati, stimando ciò più tosto perdita di tempo, et
cosa superfl ua, essendo bosco publico nel quale non vi può praticar alcuno,
ne può esser tagliato non solamente roveri ma neanco altra sorte di legname. Basta [sapere] che in esso vi sono roveri in gran quantità, et di bellissima
sorte, essendo la maggior parte di grossezza di quattro in cinque piedi, et
più, con pur assai semenzali et olmi». A suo giudizio, dunque, le condizioni
di demanialità e di tassativo divieto di accesso erano ottime garanzie per la
conservazione della preziosa macchia cedua. I cinque e sei piedi equivalevano rispettivamente a metri 1,75 e 2,10 attuali.16
Sul finire del XVIII secolo, quindi due secoli più tardi, nel verbale di consegna
dei boschi del distretto Padovano il nostro bosco demaniale, unico ad essere
iscritto tra quelli di prima classe, fu così descritto: «Un solo bosco di Pubblica
Ragione esiste nella Provincia Padovana, e quest’è il Bosco della Carpaneda,
in villa di Bastia, vicariato di Teolo. Questo bosco è di figura quasi rettan-
Nel 1655
il Capitano
dei boschi
Francesco Valdagni
pubblicò un
opuscolo dal titolo
Osservazioni
e ricordi sopra
il bosco della
Carpaneda,
inserendovi questa
mappa topografica
della Carpaneda,
incisa da
Giacomo Ruffoni.
L’orientamento
del Nord è in basso.
54
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
golare bislunga; di campi 265; di terreno dolce; piantato interamente di soli
roveri. Nell’ultima curazione del 1794 vi si sono recise piante n. 1316, delle
quali ne sono entrate nella Casa dell’Arsenale n. 337, e agli usi sociali se ne
sono somministrate n. 356; le altre si sono devolute al Magistrato alle legne.
Le piante, che esistono tutt’ora in questo bosco, dai piedi 3 di circonferenza
fino alli piedi 5, ascendono al numero di 4.000, tutte marcate di color rosso
ad oglio; e quelle di circonferenza minore di piedi 3, si calcolano all’incirca
14.000; oltre essere ben provvedute di novellami e tenere pianterelle». Duecentosessantacinque campi padovani sono equivalenti ad oltre 100 ettari attuali, più precisamente più di un milione di metri quadrati attuali.17
Tra le ultime memorie del bosco è il caso di ricordare quella di Andrea Gloria,
risalente al 1862, che descrivendo Bastia ricorda che la Carpaneda «appartiene allo Stato. Intorno al quale scrive il Cittadella [1605] – Bastia che fu terra,
ov’è il bello bosco del Carpaneo carico di quercie (quasi piccola Hircina) di
campi 333 che scolano nella fossa della Nina e Bandessà e Bacchiglione per
commodità di condurre li legni all’arsenale di Venetia e contiene il Vegrolungo copioso di lepri, volpi, lupi e tal’hora orsi e cinghiali».18 Questi ultimi
selvatici son tornati dalle nostre parti, ma della Carpaneda, purtroppo, con le
roveri e gli olmi è rimasto solo un labile ricordo.
Note
1. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 310v.
2. Francesco Valdagni, Osservazioni e ricordi sopra il bosco della Carpaneda ed altri boschi
circonvicini nella vicaria di Teolo, Padova 1655.
3. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 310v.
4. Si veda il disegno inserito nell’opera di F. Valdagni.
5. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 311r.
6. Valdagni, Osservazioni e ricordi, s.p.
7. Valdagni, Osservazioni e ricordi, s.p.
8. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 166-167.
9. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 310-314.
10. Valdagni, Osservazioni e ricordi, s.p.
11. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 164r.
12. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 108, c. 334.
13. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 109, c. 77-105.
14. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 311.
15. ASPd, S. Maria di Praglia, b. 107, c. 311.
16. ASPd, Boschi, b. 7, c. 245v.
17. ASVe, Provveditori ai boschi, b. 89, fasc. 1 “Catastico de’ Boschi di Prima e Seconda classe
esistenti nella provincia Padovana”.
18. Andrea Gloria, Il territorio padovano illustrato, Padova 1862, vol. II, p. 85.
Stefania Montemezzo
Case vecie e campi magri.
Vivere contadino e sviluppo delle colture agricole
a Rovolon in età moderna
Adagiato sui declivi collinari e ai piedi del Monte Grande e del Monte della Madonna, nella parte più settentrionale dei Colli Euganei, il territorio di
Rovolon è l’estrema propaggine del territorio padovano, prima di entrare in
terra vicentina.
Le due diverse realtà di cui si compone, pianeggiante e d’altura, sono dal
punto di vista agrario assai differenti. In pianura trovano la loro naturale
posizione colture di tipo cerealicolo, quali frumento, segale, miglio e orzo.
Le zone collinari, invece, sono contraddistinte da tratti boschivi e coltivazioni quali vite e ulivo. Una tale differenziazione era naturale, seppure l’Italia
settentrionale seguisse nei metodi le tendenze europee, in particolare in un
mondo agrario caratterizzato da metodi di lavorazione della terra arcaici e da
una forza lavoro essenzialmente umana e animale.
Il periodo che si prenderà in considerazione in questo contributo è definito
come Età moderna. Questo arco di tempo si colloca fra la scoperta dell’America (1492) e la Rivoluzione Francese (1789), un momento di importante cesura per l’Europa e il Veneto. I fattori essenziali del cambiamento furono, da un
punto di vista politico, le conquiste di Napoleone e la successiva annessione
del Lombardo – Veneto all’Austria. Dalla fine del Settecento, inoltre, si vede
l’inizio della rivoluzione industriale che, partendo dall’Inghilterra, portò a
innovazioni tecniche che, con tempi e modalità diverse, sconvolsero l’aspetto agrario del vecchio continente, non essendo più l’agricoltura il principale
settore dell’economia per percentuale di persone occupate.
produttività e lavorazione
Tra ’500 e ’700 il settore trainante dell’economia fu, dunque, l’agricoltura.
È sufficiente pensare che circa l’80% della popolazione vi era impiegato. Il
problema fondamentale era la produttività, che si legava a svariati fattori,
talmente pericolosi da essere definiti “i cavalieri dell’apocalisse”, ovvero epidemie, carestie e guerre. Anche il verificarsi di uno solo di essi era sufficiente a mandare in crisi la produzione agricola di un’intera annata. Purtroppo,
molto spesso si verificavano in contemporanea o in sequenza ravvicinata.
Di frequente succedeva che una guerra avesse il potere di provocare una carestia, causata generalmente delle scorribande e incursioni degli eserciti per
56
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
procurarsi il vitto. Proprio a causa delle scarse condizioni igieniche dei soldati e della malnutrizione della popolazione, dovuta alla carestia, vi era una
forte possibilità che si verificasse un’epidemia, che andava a colpire per primi
gli individui più deboli, cioè anziani e bambini.
Anche quando non vi era un evento catastrofico, come appena descritto, le
rese dei coltivi erano estremamente basse. Per tutta l’Età moderna, in Italia,
per quanto riguarda i cereali si ottenne appena 6,3 volte il seme utilizzato per
la semina, per un raccolto medio per ettaro che si attestava sui 5/7 quintali, seppur con differenze notevoli tra le diverse zone. Per un raffronto, basti
pensare che oggigiorno la resa media è di 41,4 quintali per ettaro. I motivi
di un tale basso rendimento si possono rintracciare negli strumenti tecnici
utilizzati, che non permettevano di piantare i semi alla necessaria profondità, alla scarsa concimazione e al persistere della rotazione triennale. Questo
metodo prevedeva che i campi fossero divisi in tre settori: il primo coltivato
con il frumento, a semina autunnale; il secondo ad avena e legumi, a semina primaverile; l’ultima parte sarebbe stata destinata al riposo, il cosiddetto
«maggese». Il sistema funzionò inizialmente, alzando le rese, permettendo
una migliore distribuzione temporale del lavoro contadino e lasciando a disposizione dell’allevamento il campo incolto. L’anno di riposo tuttavia non
era sufficiente a fornire al terreno le sostanze azotate, sottratte dal frumento,
e ciò comportava un costante impoverimento dei terreni che non andava a
vantaggio dei raccolti. La soluzione più adatta, già attuata in alcune zone
della penisola e nei Paesi Bassi, era la rotazione quadriennale, che prevedeva
l’introduzione nel ciclo delle piante foraggere, utili anche all’allevamento stabile. Il sistema prevedeva che due parti del terreno fossero coltivate a cereali,
una a legumi e l’ultima lasciata non incolta, ma a giardino (con le piante da
foraggio). Il nuovo metodo avrebbe esteso la dimensione della terra coltivabile e aumentato considerevolmente la fertilità del suolo. A partire dall’Ot-
Una panoramica
su Rovolon in una
cartolina illustrata
del 1949.
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
57
tocento questa innovazione arriverà anche nelle zone venete. L’avversità alle
innovazioni che si riscontro sul territorio suggerisce che la preferenza andava
verso la coltivazione di carattere estensivo più che intensivo: vi era maggiore
interesse a mantenere le medesime rese e, in caso di necessità di cereali, si
sarebbe ricorsi semplicemente all’estensione del coltivo.
Il clima era un elemento importante per la resa del suolo, così come il tipo di
terreno. Sulla parte collinare del comune vi era molto spesso il problema della siccità: il suolo trachitico combinato ai pendii faceva in modo che l’acqua
piovana defl uisse velocemente verso le valli, dove era rapidamente assorbita
dai terreni tufacei. In questo modo le zone collinari di Rovolon soffrivano la
siccità, che poteva compromettere la raccolta della frutta e la vendemmia.
Il basso livello tecnologico delle pratiche di lavorazione infl uiva pesantemente sul raccolto e provocava variazioni annuali anche molto pesanti. Un cambiamento, seppur minimo, poteva provocare scompensi, a causa delle basse
rese delle coltivazioni, danneggiando l’intera economia rurale e non garantendo il minimo di sussistenza per la popolazione. L’incremento demografico
avvenuto tra XI e XII secolo, aveva inoltre portato alla specializzazione delle
aziende agricole nella sola coltivazione dei cereali, eliminando le attività silvo
– pastorali, quali pesca e caccia, che nei secoli precedenti avevano integrato
l’alimentazione contadina. Questa trasformazione portò l’area a essere mag-
Bastia.
La corte della
famiglia Forestan.
58
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
giormente esposta alle carestie. Queste
ultime indicavano in effetti la penuria di
cereali che erano divenuti il maggiore
alimento nella dieta dei contadini e delle fasce di popolazione più povere delle
città.
coltivazioni e alimentazione
La diligenza
a Bastia in
un’istantanea di
fine Ottocento.
La produzione agricola era, dunque,
fortemente legata alle condizioni naturali, in particolare in periodi in cui il lavoro dei campi era caratterizzato da una
tecnologia poco sviluppata e dalla mancanza di concimazione dei suoli. Dal
XII secolo si andò sempre più intensificando la coltivazione dei cereali, che si
stima potessero fornire tra l’80% e il 90% della razione calorica giornaliera.
Il pane si poneva allora al centro dell’alimentazione europea, un po’ come
il riso era, ed è, al centro di quella cinese. I cereali, in particolare quelli che
producevano una farina panificabile, divennero il prodotto da coltivare per
eccellenza. Come in buona parte d’Europa, i prodotti che più si ritrovavano
nella campagna padovana erano: il grano e i farinacei di vario tipo nelle zone
pianeggianti con terra bonificata; la vite, che si trovava nell’alto Medioevo sia
in piano che in collina, ma che divenne poi coltura specializzata sulle alture,
assieme all’ulivo; il lino, nelle zone in cui vi erano acquitrini e paludi. Non
va dimenticato anche il manto boschivo, che ricopriva le colline e parte del
suolo pianeggiante di Bastia.
Il frumento era considerato il cereale nobile per eccellenza, nonostante un
calo nella produzione durante la crisi alto medievale che aveva momentaneamente portato alla sua sostituzione con la segale (pianta meno delicata da
coltivare). Ideale per la produzione di farina adatta alla panificazione, era il
cereale maggiormente coltivato nel padovano. Nel Veneto, era molto spesso
accompagnato da un’altra pianta: il sorgo. Importato dall’Oriente, in particolare dalla Siria a cui deve il suo nome, era utilizzato già in epoca romana. Era
considerato, tuttavia, un grano povero e generalmente destinato dai romani
al foraggiamento degli animali. In Veneto, e nel padovano in particolar modo,
il sorgo trovò la sua terra di elezione e iniziò a essere coltivato per la dieta
quotidiana, soprattutto degli strati più poveri della popolazione. Con questo
grano minuto era prodotta, in particolare, una prima specie di polenta di colore grigio, a differenza della giallina prodotta col miglio nel Medioevo. Nel
XVI secolo, a seguito dell’introduzione del mais importato dalle Americhe,
il sorgo non fu più seminato. Miglio e segale erano coltivati, ma in misura
inferiore rispetto a frumento e sorgo. Molto più raro era l’orzo, mentre avena
e farro erano totalmente assenti. I coltivatori, inoltre, tendevano ad accompagnare ai cereali delle leguminose, come le fave. Assimilate ai grani grossi,
potevano essere ridotte in una farina adatta alla produzione di panificati. Per
i cereali era utilizzata una rotazione triennale intensiva, che alternava alle
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
59
piante invernali, quali frumento e fave, quelle
primaverili, cioè sorgo e miglio.
I contratti agrari, e in qualche caso gli statuti comunali, evidenziano che l’interesse per i
grani grossi (come frumento e orzo) era soprattutto dimostrato dagli abitanti dei centri
cittadini. Essi, infatti, preferivano cereali che
fornissero farine fini e panificabili. Il mondo rurale dimostra invece una predilezione
per i grani minuti, come il sorgo, più adatto a
preparazioni come la polenta. Si andò allora
specializzando nelle campagne padovane una
produzione di grani pregiati per le città e una
di grani più rustici per gli abitanti del contado.
Per il suo carattere pregiato, il frumento era
spesso utilizzato per il pagamento degli affitti,
come nel caso di Antonio Bertoldo di Rovolon che dichiara che per campi dui in la contra
de Fondorizzo delli qualli pago de livello stara tre
formento all’anno alli eredi del quondam signor
Rinaldo Papafava.1
Dal Cinquecento vi fu la graduale introduzione della coltura del mais. Inizialmente coltivato
a fianco degli altri cereali, piantato a margine
dei campi o come alternativa al campo incolto, divenne sempre più l’alimento base della popolazione rurale. In un primo
tempo non fu tenuto in particolare considerazione dalla classe nobile, tanto
da non essere nemmeno menzionato nei contratti agrari. In seguito, invece,
soppiantò gradualmente il sorgo. Ciò fu possibile soprattutto grazie alla sua
alta resa: a metà Seicento il rapporto semente/prodotto era di 1 a 15, mentre
il frumento stava a un rapporto di circa 1 a 5, con differenze secondo le zone.
Il formenton giallo, dunque, se inizialmente concepito come integrazione alle
altre colture, divenne in seguito essenziale per il sostentamento della popolazione rurale prima, e cittadina poi. Non producendo una farina panificabile,
fu sostituito al sorgo per la produzione della polenta, che divenne l’alimento
base della dieta veneta. La forte produttività portò all’estensione dei coltivi e
alla limitazione degli spazi destinati alla pastorizia e all’allevamento animale,
con un conseguente calo dell’assunzione di proteine da parte dei contadini. L’alimentazione rurale divenne in molti casi mono – maidica. La dieta a
base di polenta però cominciò a creare problemi di salute alla popolazione. Il
mais, infatti, se non opportunamente integrato con alimenti freschi, inibiva
l’assimilazione di vitamine del gruppo B, come la niacina (vitamina P.P., che
significa Pellagra Prevention). La mancanza di tale vitamina, oltre a causare
un abbassamento delle difese immunitarie e una maggiore esposizione alle
malattie epidemiche, faceva ammalare gli individui di pellagra. Quest’ultima
è responsabile di un quadro clinico definito delle tre D (demenza, dermatite
e diarrea) e se non opportunamente curata con il reinserimento nella dieta
Un antico
lavabo nella casa
“Colombara”
di Monte Sereo.
60
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
della niacina, porta in molti casi alla morte entro pochi anni. Fu soprattutto con l’Ottocento
che la popolazione veneta cominciò a patire
le conseguenze di un’alimentazione a base di
polenta di mais.
Il pane, che in campagna era nero e raffermo, e la polenta di solito si accompagnavano
con delle zuppe, fatte con i prodotti dell’orto,
come cavoli, rape e legumi secchi (piselli, fagioli e fave). Quando ve n’era possibilità, vi si
aggiungeva del pollame (galline, polli e capponi) o del maiale, i quali non essendo tassati
erano molto spesso allevati dalle famiglie nel
proprio cortile, anche se non in quantità tali
da garantire ai contadini un sufficiente apporto di lipidi e proteine nella dieta. Per capire
quanto questo piccolo allevamento era diff uso è interessante osservare come fosse utilizzato dai contadini per pagare, in parte o del
tutto, gli affitti agrari. Nel 1615 Alvise Bonfio
del fu Camillo dichiarò di possedere
la meta d’una casa de muro coperta de coppi con colombara et cortivo serado de muro posta in Villa de Revolon in contrà de mollini la quale confina con una roda
et meza de mollini in detta Villa et contra confinano
alla detta casa, la via comune Marc’Antonio Corsato et
le raggioni del sopradetto Illustrissimo signor abbate Papafava sono affittuari al presente
a domino Francesco Schio, et si cava ogni anno denari ducati trentasei, formento stara
quaranta, computa la casa sopradetta, ovi numero cento, capponi para uno, pollastri
para doi, galline para numero doi.2
Uno scorcio
della campagna,
oltre l’ingresso
di un rustico.
La quantità di prodotti avicoli in questione era abbastanza alta, questo fatto
suggerisce che la famiglia fosse ben rifornita di pollame.
La vite beneficiò per prima delle opere di bonifica sostenute dai monaci benedettini, potendo crescere su terreni in condizioni non ottime, purché non
paludosi. Tuttavia, dal X e XI secolo, con l’aumentare della popolazione e la
destinazione delle zone pianeggianti alla coltivazione dei cereali, la vite fu
spostata sui pendii più dolci dei colli, pur rimanendo ovviamente presente
anche in altre zone della pianura, quali alcuni tratti della riviera del Brenta
e nei pressi di Padova. Nel settore settentrionale degli Euganei, la vite non
sembra essersi attestata prima del XII secolo a causa della posizione meno
adatta. Il versante di Rovolon, essendo esposto a nord, era troppo freddo. Il
terreno di origine vulcanica rese, inoltre, almeno inizialmente, più complicata la crescita della pianta. La ripresa economica cittadina in atto spingeva
tuttavia i proprietari terrieri e i piccoli coltivatori ad aumentare la produzione di beni destinati al mercato come appunto cereali e vino. In questa pro-
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
61
spettiva si inserisce lo sforzo operato dai contadini per adattare la pianta a un
clima non favorevole. I contratti agrari stipulati tra proprietari del terreno
e contadini, i livelli in particolare (di cui si parlerà nel prossimo paragrafo),
dimostrano che fin dall’alto Medioevo i conduttori tendevano da un lato a
migliorare la qualità delle viti, e di conseguenza dell’uva, tramite la potatura
dei rami che venivano definiti “superficiali”; dall’altro a incrementare la coltivazione dei vitigni, tramite imposizioni inserite proprio nei contratti. Dal
tredicesimo e soprattutto quattordicesimo secolo la vite divenne una risorsa
fondamentale per l’economia collinare, che sviluppò progressivamente uve
tipiche. Secondo i Catastici dell’epoca, le uve che dominavano il panorama
euganeo erano due: le vigne sclavae e quelle garganicae. La prima era bianca,
con maturazione precoce e riusciva ad adattarsi a tutto il territorio collinare.
La seconda era invece meno diff usa, anche se aveva il vantaggio di produrre
vini che invecchiavano bene. La sempre maggiore estensione dei vigneti e
la specializzazione produttiva presuppongono la presenza di ben sviluppati
mercati vinicoli in città. Seppur prodotto nelle campagne, infatti, il vino
veniva consumato soprattutto nei centri urbani. Le fonti rivelano come i
consumi rurali della bevanda alcolica fossero piuttosto bassi. Il contadino
beveva con ogni probabilità solo nelle occasioni di festa e non durante i periodi lavorativi. In campagna, inoltre, il consumo riguardava i vini di qualità
Un antico aratro
con vomere
a collo d’oca nella
corte Forestan
al Vegrolongo.
62
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
inferiore: le élites preferivano i bianchi delicati, lasciando alle fasce di popolazione più povere le qualità rosse più nutrienti. Una polizza presentata nel
1615 conferma questa situazione, dicendo:
Si paga ogn’anno de livello sopra li campi delle Pacagnole al magnifico signor Teodoro
Bacho lire dodici affrancabili et sopra tutti li beni per un lasso de Bortolamio Corsato si
paga ogn’anno mastello uno vin dolce de monte alla veneranda fraglia del Santissimo
Nome di Cristi di Padova.3
La bevanda per eccellenza delle campagne rimaneva dunque l’acqua, che poteva essere di sorgente o di pozzo.
L’ulivo fu un’altra coltura specializzata dei colli. Pur affiancando la vite nelle
coltivazioni, era molto più complicato da coltivare. Innanzitutto, necessitava
di almeno 20 anni per giungere a completa maturazione e poter cominciare
a dare i suoi frutti, contro i 5 delle viti. Inoltre, era molto più sensibile ai forti
sbalzi di temperatura. La spremitura delle olive era poi assai più complicata
di quella dell’uva e richiedeva un maggiore investimento di capitali nei macchinari. Erano i ricchi proprietari a incentivare la coltivazione della pianta,
sostenendone anche i costi iniziali. L’olio era destinato principalmente all’illuminazione, soprattutto nelle case dei ricchi e in città (nel mondo rurale
si usava l’olio di lino) e durante le liturgie nelle chiese e nei monasteri. Nel
territorio di Rovolon gli ulivi si trovavano principalmente sul versante nordorientale, più esposto al sole e meno soggetto alle forti gelate. La produzione locale non era tuttavia paragonabile a quella di altre zone collinari, come
Arquà e Monselice, che avevano una posizione più adatta.
Alcuni documenti suggeriscono che nelle zone più acquitrinose del comune
Il monastero
di Santa Giustina di
Padova, che tanta
parte ebbe nella
gestione delle terre
e nella vita religiosa
di Rovolon e Bastia.
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
63
vi fosse spazio per l’introduzione della coltura del lino. Questa produzione
mobilitava tutte le forze familiari, in particolare nel momento della raccolta
e successivamente delle lavorazioni che avrebbero portato alla filatura e alla
tessitura. La produzione era tuttavia minima e con un significato economico relativo. Le fonti non riferiscono con precisione i luoghi dove si trovavano
le piantagioni.
Oltre alle coltivazioni selezionate, nelle zone collinari erano molto presenti
gli arbusti ad alto fusto. A quote inferiori si trovavano in generale i querceti,
di roveri e farnie, mentre a quote superiori vi erano i faggeti. Sin dall’Età
romana il manto boschivo cominciò a essere “manipolato” dagli abitanti che
inserirono, al posto del faggio, il castagno. Studi recenti sull’economia collinare hanno dimostrato che la pianta trovò la sua posizione ideale proprio a
Rovolon, perché riparata dai venti del sud che non avrebbero favorito il suo
sviluppo. Il castagno era utile sia per il legno, particolarmente adatto alle
costruzioni in quanto resistente e di media durezza, sia per i frutti, da cui si
ricava un’ottima farina.
Sempre in epoca romana cominciò un forte processo di disboscamento, che
tuttavia s’interruppe durante l’alto Medioevo, a causa della recessione demografica, che fece calare la necessità di legname come anche di nuovi terreni
da mettere a coltura. La tendenza ebbe un’inversione dal XII secolo. Con la
rinascita delle città e il ripopolamento delle campagne crebbe la domanda
di legname, sia da ardere che per uso costruttivo, e di derrate alimentari,
con l’estensione dei terreni a coltura per aumentare la produzione agricola.
I nomi di località attualmente in uso che rimandano alla presenza di antichi
boschi sono molti: Rovolon, che probabilmente indica la forte presenza di
roveri; Frassanelle richiama la presenza di frassini; Carpaneda indica grandi
Il monastero
di Praglia.
Fino al 1806
fu proprietario
di una vasta
azienda agricola
a Spirano
e della chiesa
di Carbonara.
64
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
65
distese di carpini, albero ad alto fusto facente parte della stessa famiglia delle
betulle. In parallelo al disboscamento avveniva l’opera di bonifica del suolo
a valle, promossa dai monaci benedettini, reso così coltivabile. Del naturale
manto boschivo non rimane oggi quasi più nulla, essendo stato quasi totalmente manipolato dall’uomo.
Oltre al castagno, nel territorio erano certamente presenti alberi da frutto,
di cui però si hanno scarse notizie. La dieta contadina era integrata da frutta
fresca o essiccata, ma è difficile dire in quali quantità e varietà.
L’allevamento del bestiame conobbe nei secoli dopo il Mille un forte sviluppo. Ciò avvenne per le esigenze dell’agricoltura (tiro dell’aratro, trebbiatura, concimazione dei terreni), del trasporto e dell’artigianato tessile; ma
anche per il consumo alimentare di carne, latte e formaggio. In Età medievale nei contratti i proprietari affidavano il bestiame agli allevatori. Questi
avevano il compito di provvedere ai pascoli e governare le bestie. I contratti
sono chiamati di «sòccida». Allo scadere del contratto il bestiame era diviso
fra il proprietario (soccidante) e il pastore (soccidario) in modo variabile e in
base al precedente accordo, ma solitamente a metà. Il bestiame pascolava
generalmente nelle terre comuni o nei campi a maggese. Il principale animale da tiro utilizzato era il bue. Nei campi trainava l’aratro pesante, con il
vomere in metallo, che rivoltava le zolle ed ebbe una notevole diff usione a
partire dal secolo XI. Le innovazioni tecniche (come la ferratura e un nuovo
tipo di collare che non “strozzava” gli animali durante il tiro) introdotte tra
XIII e XV secolo, migliorarono le possibilità di impiego del cavallo quale
animale da tiro. Questi fattori concorsero a produrre un incremento delle
rese. La crescita demografica che si stava realizzando nel periodo provocò
un’estensione della cerealicoltura a scapito dell’allevamento. L’allevamento
dei grossi capi, quali buoi, mucche e cavalli si ridimensionò a favore di pollame, ovini e suini.
forme della proprietà e contratti agrari
Nel 970 il territorio di “Revolone” e la cappella di San Giorgio, assieme a
Tribano, Pernumia, Conselve, Arre, Maserà e Monselice, furono ceduti dal
vescovo Gauslino all’Abbazia di Santa Giustina di Padova.4 In particolare erano ceduti decime e quartesi. Questi erano un contributo, la decima parte del
reddito, che tutti i parrocchiani dovevano pagare al clero locale. Un quartese
(quarto di decima) era assegnato al pievano, mentre il rimanente era destinato alle attività di assistenza ai credenti e al mantenimento del luogo di culto,
nel caso di Rovolon la cappella di San Giorgio. Nei secoli successivi, dopo le
ulteriori conferme dei vescovi padovani a Santa Giustina (Orso nel 1014, Burcardo nel 1034, Ulderico nel 1064), molte zone di Rovolon pervennero nel
patrimonio di Praglia, monastero che andò affermandosi e acquisendo terre
grazie alle continue donazioni dopo il 1117. L’opera dei monaci benedettini,
prima di Santa Giustina e successivamente di Praglia, si rivelò fondamentale
soprattutto nel dissodamento e nella bonifica delle zone adiacenti Carbonara
e Bastia, che avevano terreni difficilmente coltivabili a causa dell’ eccessiva
La Memoria
del turbine
abbattutosi a
Bastia il 17 agosto
1756 che causò
in parrocchia ben
nove morti e il
crollo della chiesa
appena ricostruita.
Lo stesso turbine
distrusse anche
la copertura del
Palazzo della
Ragione a Padova.
66
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
durezza del suolo. All’inizio del quindicesimo secolo i monaci benedettini ingrandirono le loro proprietà nella zona di Rovolon, subito dopo la conquista
veneziana e le relative confische dei terreni ai nobili padovani compromessi
con i Da Carrara. Nel 1441 l’Abbazia di Santa Giustina acquistò, nelle vicinanze di Rovolon, la località detta “la Costa”. Ricevette poi una donazione
di terreni, consistente in 700 campi padovani, posti nella zona del Vegrolongo.
Secondo le fonti il territorio era soprattutto boschivo e acquitrinoso, quindi
non coltivabile a meno di non essere bonificato, operazioni che i monaci
svolsero assoldando braccianti locali. Sorse così una corte benedettina, affidata a un gastaldo che rispondeva dell’andamento degli affari. La gestione
amministrativa era rimessa invece nelle mani di un rettore, anch’egli monaco,
che dimorava in quella che oggi è conosciuta come Villa Ottavia, e ubicata
sulla strada che attualmente si chiama Via Torre, ma che all’epoca era conosciuto come “palazzo della Costa”. I due monasteri mantennero i loro diritti
sulle pievi di San Giorgio e su quelle delle frazioni sottoposte fino al 1806
quando, assieme alla conquista francese, vi fu la soppressione napoleonica di
tutti i beni di diritto ecclesiastico.
Dal 1405 il territorio di Rovolon, come tutto il resto del padovano fino
all’Adige, cadde sotto il dominio veneziano. Le autorità della Dominante favorirono l’insediarsi di patrizi veneziani e la conseguente creazione di vasti
possedimenti, controllati da uomini e famiglie fedeli alla Serenissima. I nobili
lagunari cominciarono, come già era accaduto in altre zone del padovano
come la riviera del Brenta, a costruire sui colli sfarzose ville che spesso si
ponevano al centro di grandi possedimenti coltivati. In tali possedimenti le
aree boschive andavano diminuendo a favore di coltivazioni cerealicole o viticole. Nel territorio comunale mantennero tuttavia le proprie possessioni
i Papafava. A causa della loro parentela con i Carraresi, signori di Padova
sconfitti dai veneziani, la famiglia rischiò la confisca di tutti i beni. Riuscendo
però a dimostrare che i possedimenti sui Colli Euganei erano frutto non della
parentela con la famiglia Da Carrara, ma della discendenza dagli Schinelli,
signori feudatari di Rovolon, mantennero le loro proprietà.
Le soluzioni adottate dai veneziani per la gestione della Terraferma rispecchiano il metodo di dominio che la Repubblica aveva con successo già sperimentato nei suoi possedimenti oltremare, ma in contrasto con gli altri stati regionali
della penisola. Seppur con modifiche e adattamenti fatti dalle magistrature di
riferimento rimasero in vigore gli statuti già esistenti per regolare la vita delle
comunità di villaggio. La Repubblica promosse inoltre ulteriori diboscamenti
e dissodamenti dei terreni, oltre a mantenere attivo il sistema di canalizzazione che arrivava direttamente in laguna attraverso il Bacchiglione.
Nella gestione del sistema amministrativo, fiscale e giudiziario i veneziani
mantennero l’impostazione dei governi comunali. Questa prevedeva una
netta divisione tra campagna e città, con la supremazia della seconda sul contado. Rispettando poi una consolidata tradizione, Venezia accordò alle città
esenzioni e privilegi non concessi invece agli abitanti del territorio. A livello
fiscale, Venezia assegnava le imposte da pagare, decise di volta in volta in base
al fabbisogno, già ripartite tra i diversi «corpi»: «Città», «Clero» e «Territorio».
La ripartizione delle somme dovute dai corpi fiscali non era inizialmente sog-
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
67
getta a mutamenti. Con il passare
del tempo il sistema, che già doveva essere a favore degli abitanti
della città, venne perdendo il suo
equilibrio quando i cittadini andarono acquistando sempre più
beni in campagna, rendendo proprietari di second’ordine, quando
non mezzadri e lavoranti, gli abitanti dei borghi rurali. Lo scompenso che si veniva a creare ricadeva in larga parte sulle comunità
rurali, che vedevano invariata la
quota di tributi ma con una base
imponibile che si andava riducendo. Un tale sistema portava i
contadini a contrarre forti debiti,
costringendoli a indebitarsi o con
un usuraio, cittadino, oppure con
i maggiori possidenti del luogo.
Dalla fine del Cinquecento la Repubblica veneziana, che aveva interesse a una buona gestione della fiscalità,
andò riequilibrando la situazione.
Strumento fondamentale per la riscossione delle gravezze era l’estimo. Era
una procedura che stimava la capacità contributiva del soggetto d’imposta,
tramite la valutazione della base imponibile (rappresentata da reddito capitalizzato più che dai beni posseduti) al netto delle detrazioni che si potevano
ottenere. Gli estimi dei tre corpi, di cui si è detto sopra, rispecchiavano, se
sommati, la capacità contributiva del padovano. L’estimo aveva la peculiarità
di mostrare più i beni di un territorio che quelli di una persona. Questa fonte
è dunque preziosa per comprendere come fosse costituita la proprietà di un
certo territorio. Ma come funzionava questo sistema, peraltro complesso e
abbastanza lungo? Quando si andava a «fare estimo» chiunque possedesse
beni immobili o potesse vantare utili di qualsiasi natura doveva presentare
una polizza, corredata di nome e cognome, contrada e luogo di residenza.
Inoltre doveva dichiarare:
- tutte le proprietà fondiarie, descritte nei particolari;
- i beni immobili di proprietà e il loro uso;
- le attività svolte, mercantili e artigiane, con il «capitale di traffico»;
- gli eventuali livelli e censi.
Le polizze venivano poi registrate nella cancelleria per formare i libri dell’estimo. Partivano successivamente dei controlli per verificare la qualità delle
possessioni e attribuire loro un valore accertato. Tale valore era indicato in
«lire d’estimo», che rappresentavano la quota da pagare all’interno del totale
dei contributi dovuti da un «corpo». Nel 1615 donna Caterina Pegoraro dichiarava nella sua polizza per i tre presidenti dei corpi:
Filari di viti sui
declivi Euganei.
68
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Cattarina Pegorara rellita quandam Battista possede li sottoscritti beni come appare
per sua polizza con suo giuramento per lei presentata sotto di 20 giugno 1615 numero
10292.
Campi tre in circa arativi et zappativi con un campo de vegro, con una casa de muro
coperta de copi quale ha per suo uso, confina da una la via comune, dall’altra Gasparo
Fattore, dall’altra li padri di Santa Giustina, dall’altra Marc’Antonio Corsato paga de
livello perpetuo al signor Antenore Bonfio Lire dodici, una gallina et un pollo et il quartese al curato di Carbonara.
Quartieri de terra arrativa in detta villa senza piante confina da una il signor Steffano
Nani dalle altre due il signor Marsolio Papafava, dall’altra il detto Corsato et lo tiene per
suo uso paga de livello perpetuo al signor Carlo Genoa lire sette all’anno.
Espedita in lire doicento et dieci fano di estimo
£ire 0, soldi 2, denari 15
La donna, all’atto della dichiarazione, descrive minuziosamente tutte le proprietà e le fonti di reddito. Questo punto era fondamentale al fine di pagare la
giusta quota di tributi e non incorrere in sanzioni da parte dell’autorità. Tuttavia, si tendeva generalmente a svalutare davanti all’autorità il vero valore
dei propri beni, per cercare di pagare una quota inferiore di tasse.
Una volta inseriti in questo registro e appurata la consistenza delle proprietà,
i pubblici ufficiali passavano all’assegnazione della quota da pagare, espressa
in lira d’estimo. Nel 1518 Galeazzo Facchin fu inserito nel registro d’estimo
in questo modo:
200 Galeazzo Fachin del q. Zuane Piero
400 Lorenzo Conforto del q. Toma
Agnol suo fradello
0 campi quattro terra con una casa paga livello a miser Bernardin Spiciale stara otto
fromento et paro uno galline
47 campi dui in monte paga livello a miser Francesco Papafava £ 1 . 14 una galina
0 campi tri terra arativa parte paludiva in pianta in monte paga livello a miser Bernardin Spiciale stara otto fromento et paro uno galline
200 Marco del q. Bertio Carmignan
228 campi sei proprii
0 una casa con campo mezo ara6
L’uomo viveva con i due fratelli Conforto a Rovolon, dove era registrato.
Come si può vedere, oltre a possedere una casa, di cui non conosciamo la
consistenza materiale lavorava soprattutto su terreni concessi a livello da un
tale Bernardino speziale (rivenditore di spezie del villaggio) e dal nobile Francesco Papafava. Il livello era versato parte in contanti e parte con galline e
frumento. L’integrazione del pagamento con prodotti in natura non è occasionale. Gli estimi del comune sono ricchi di esempi che confermano la
frequenza di questo costume.
Dopo aver delineato le caratteristiche della giurisdizione e delle forme di proprietà del territorio di Rovolon, è importante capire quali fossero i contratti
che permettevano la coltivazione dei terreni da parte dei contadini.
Nelle campagne padovane del Sei e Settecento sono presenti diversi tipi di
c as e v e cie e ca m p i m ag ri
69
conduzione dei terreni. Innanzitutto vi era la piccola proprietà contadina,
molto presente soprattutto tra Cinque e Seicento. L’aumento demografico
mise in crisi questa tipologia di azienda, che andò così diminuendo a favore
dei grandi possedimenti. L’indebitamento contadino in seguito all’incremento dei prezzi e la penetrazione di capitale cittadino nel contado, aveva messo
in crisi i precedenti equilibri.
Le proprietà di grandi dimensioni appartenevano alla classe nobiliare o ecclesiastica. La gestione dei terreni avveniva secondo modalità differenti. La
prima prevedeva la conduzione diretta, tramite l’assunzione di braccianti.
Questi erano contadini senza terra che vendevano per un salario la propria
forza lavorativa ed erano impiegati di solito nella pars dominica, di stretta pertinenza del signore. Per i terreni più vasti, la terra era concessa a famiglie di
coltivatori liberi.
Un contratto agrario molto diff uso era la mezzadria. Si trattava di un accordo che prevedeva la compartecipazione di spese e ricavi da parte del proprietario e del contadino. Il primo concedeva al secondo il terreno, gli attrezzi, i
concimi e, in alcuni casi, l’abitazione. Il mezzadro prestava la propria mano
d’opera per tutte le attività agricole e curava la manutenzione ordinaria dei
fondi e dei muri di sostegno.
Il livello era un altro contratto presente nelle campagne venete. Nei territori
del padovano la sua durata era di 29 anni e nella maggior parte dei casi veniva
rinnovato divenendo di fatto perpetuo. Il contratto prescriveva la quantità
di olio, di frumento, di vino che il colono doveva versare come pagamento per la concessione del diritto di sfruttamento della terra. Il proprietario
non aveva alcun vincolo verso il concessionario, né interveniva nelle spese di
coltivazione o miglioramento: si riservava solo il riconoscimento giuridico
formale della proprietà. Per questo motivo i contadini erano tenuti a versare
ulteriori contributi al concedente, a dimostrazione dell’ascendenza feudale
dell’istituto. L’agricoltore agiva comunque in maniera autonoma. Il terreno non poteva essergli sottratto e il canone non poteva essere modificato.
Egli, inoltre, poteva vendere il suo diritto o trasmetterlo per successione. Il
rapporto impediva, in genere, ogni innovazione delle colture, per non pregiudicare il canone di fitto. Inoltre, seppure avesse interesse ad aumentare la
produzione, il contadino non possedeva risorse sufficienti per apportare le
migliorie necessarie ai fondi che gestiva.
Un ulteriore forma di rapporto contrattuale era il livello francabile. Quest’ultimo aveva la funzione di rappresentare un prestito mascherato. In Età moderna non era, infatti, possibile prestare una somma di denaro e ricevere un
interesse sulla stessa, poiché vietato dalla normativa religiosa. Il bisogno di
ricorrere al credito era, dunque, stato soddisfatto attraverso un piccolo stratagemma. Se un contadino necessitava di una somma di denaro, vendeva il
proprio appezzamento di terreno a un ricco proprietario. Quest’ultimo gli
pagava la somma pattuita, poniamo 100 ducati, ma gli concedeva immediatamente a livello lo stesso campo con la promessa di affrancarglielo (di qui francabile) dopo un certo periodo (normalmente 29 anni), tramite il pagamento
della stessa somma. Ogni anno, per tutta la durata del contratto, il contadino gli avrebbe dovuto inoltre versare un canone pari a 5 ducati. La somma
70
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
rappresentava, così, un modico interesse del 5% l’anno, su base ventinovennale. Durante il Cinquecento e i primi decenni del Seicento, l’incremento
demografico, associato all’aumento dei prezzi, aveva, infatti, contribuito al
continuo frazionamento della piccola proprietà contadina, mettendo gli agricoltori nella condizione di non riuscire soddisfare i debiti precedentemente
contratti e costringendoli a trovare vie legali per ottenere denaro a prestito.
A Rovolon un contadino poteva comunque coltivare in parte la terra di sua
proprietà, avendo poi altri terreni concessi a livello. Nell’estimo del 1518 risulta che:
50
6
26
Beni de Baptista Cozante over sui heredi
una casa de muro con un quartiero de terra propria
campo uno boscho proprio
campi doj terra paga livello a miser Hanibal Papafava £ 4 all’anno7
Battista Cozante possedeva, oltre a una sua casa in pietra, evenienza non del
tutto usuale per l’epoca, un quartiero (cioè poco più di 900 metri quadrati)
e un campo boschivo di proprietà. Oltre a questo, aveva due campi a livello
da Annibale Papafava, nobiluomo e ricco possidente residente a Frassanelle.
Questo breve excursus sul vivere contadino nelle terre di Rovolon, tra basso
Medioevo ed Età moderna, sia permesso di ricostruire alcuni fra gli aspetti
dei problemi più significativi di un territorio che, fra permanenze e lente trasformazioni, si avvicina alle soglie dell’Età contemporanea.
Note
Amintore Fanfani, Storia economica, Torino (UTET) 1970, I, p. 541. Più in generale si rinvia
a Daniele Beltrami, Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e
XVIII, Venezia-Roma (Istituto per la collaborazione culturale) 1961; Giorgio Borelli, Questioni di storia economica europea tra Età moderna e contemporanea, Padova (CEDAM) 2001;
Lorena Favaretto, L’istituzione informale. Il Territorio padovano dal Quattrocento al Cinquecento, Milano (Unicopli) 1998; Jean Louis Flandrin, L’alimentazione contadina in un’economia di
sostentamento, in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean Louis Flandrin e Massimo Montanari, Roma-Bari (Laterza)1997, p. 465-489; Igino Michieli, I Colli Euganei. Vicende economiche
e sociali, Padova (Società Cooperativa Tipografica) 1965; Massimo Montanari, La società medievale di fronte alla carestia. Osservazioni preliminari con particolare riguardo all’Italia padana,
«Società e Storia», VI (1983), p. 379-385; Gérard Rippe, Padoue et son contado (Xe-XIIIe siècle).
Société et pouvoirs, Rome (École Française de Rome) 2003, p. 603.
Archivio Stato di Padova (ASPd), Estimo 1575, reg. 98, c. 167v.
ASPd, Estimo 1615, reg. 181, c. 77v.
ASPd, Estimo 1615, reg. 181, c. 77v.
Rizieri Zanocco, Decime e quartesi in diocesi di Padova alla luce dei documenti, Padova
(Antoniana) 1951, p. 104-105.
5. ASPd, Estimo 1615, reg. 181, c. 81v.
6. ASPd, Estimo 1518, reg. 347, c. 12r.
7. ASPd, Estimo 1518, reg. 347, c. 11v.
1.
2.
3.
4.
Cristina Capodaglio
Il Comune di Rovolon nell’Ottocento
Dopo la caduta della Repubblica di Venezia nel 1797 e la parentesi napoleonica, il Veneto viene annesso all’Impero austro-ungarico nel 1815 e resterà
sotto il dominio austriaco fino al 1866. Seguirà poi l’annessione al Regno
d’Italia.
Al di là delle vicende politiche che hanno infl uenzato anche la vita del nostro
comune, quello che interessa scoprire è quale fosse la condizione di vita della
popolazione di Rovolon nel corso dell’Ottocento. Non è sempre facile, tra
dati statistici e relazioni, far luce su questa realtà.
Il comune di Rovolon, in una descrizione dedicata alle notizie cronologiche e
statistiche del territorio di Padova nel 1818 risulta suddiviso nelle parrocchie
di “Carbonara, con le contrade di Carbonara in piano e in monte, Bastia, con
le contrade Castigliana, Granza Frassanella sotto Revolone, Revolon con le
contrade Revolone in piano e in monte, Granza S. Giustina sotto Revolone,
Vegrolongo, Granza di Vegrolongo, Vegrolongo del bosco”. 1
Ma di cosa viveva chi abitava in queste contrade?
Nell’Archivio di Stato di Venezia si trovano i preziosi “Atti preparatori per il
catasto austriaco”, di cui le Notifiche Generali, redatte negli anni 1826-1829,
forniscono un quadro dettagliato per ogni singolo comune. Anche per Rovolon abbiamo quindi una descrizione di quale fosse la realtà economica e
Uno scorcio
di Rovolon ripreso
in via Principessa
Jolanda sul finire
del XIX secolo.
72
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
le condizioni di vita della popolazione in quei primi decenni dell’Ottocento.
Prevaleva naturalmente l’agricoltura, come principale attività economica, e
la destinazione colturale dei terreni fu allora così riepilogata:
Catasto austriaco 1826-1829
qualità di coltura
pertiche censuarie
(1000 mq.)
aratorio
aratorio arborato
arboreto
prato
pascolo
bosco
valle
argine
incolto, zerbo
orto
brolo
giardino
fabbricati
vari
totale
1.451
12.284
2.258
4.048
464
4.881
101
366
16
51
196
14
294
67
26.491
Nella pianura di Rovolon predominavano i terreni l’aratorio arborato vitato. Su questi terreni, destinati alla semina tradizionale, l’avvicendamento
delle colture prevedeva due anni a frumento e uno a granoturco, per i fondi
migliori, mentre per quelli di minor qualità due anni a frumento, uno a
“sorgo turco” e uno a riposo. Il contadino doveva preoccuparsi di concimare il campo, spargendo il letame sui campi, calcolato in media tra 6 e 8
carri di letame. Di fatto però il letame disponibile in realtà era insufficiente
e bastava soltanto a concimare un terzo o un quarto della superficie totale
coltivata dell’intera superficie agraria, con una conseguente minor resa delle
colture. In genere si seminavano in ogni campo arativo due staia e mezzo di
frumento (equivalenti a 72,45 litri), da tre quarti a uno staio di granoturco
(cioè da 22 a 29 litri), un quarto di staro (7,25 litri) di sorgo turco. La resa,
a seconda dell’ubicazione dei terreni, se in piano o in monte, variava come
riportato in tabella:
frumento
granoturco
sorgo rosso
piano
monte
sacchi 2,5 a staia 4
sacchi 6 a staia 1,5
sacchi 4,5 a staia 2
sacchi 1,5 a staia 3
sacchi 2 a staia 1 e 1/4
-
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
73
Nelle parti più basse predominava il prato, dove, a seconda dei terreni, si
praticavano uno o due tagli. I pascoli posti in pianura offrivano una migliore
qualità di fieno rispetto a quelli in monte. Di solito i pascoli non venivano
affittati, ma dato che non esistevano né prati privati, né prati comunali, vi
avevano accesso le pecore del comune. In caso queste fossero state in numero insufficiente, i pastori montani avevano il diritto di portarvi le loro pecore, mantenendo così viva l’antica consuetudine del pensionatico, con grave
danno dei proprietari. La servitù del pascolo era limitata dal 29 settembre
al 17 marzo di ogni anno. È certa la presenza di pastori montani provenienti
dall’Altopiano di Asiago, che ogni anno sostavano a Carbonara, come risulta
dai registri parrocchiali: nel 1854 e 1860 Maddalena Marin e Bortolo Dalla
Bona, pastori domiciliati a Gallio ma in sosta a Carbonara, fecero battezzare i loro figli in parrocchia.2 Nel novembre 1864,3 invece, Bortolo Tagliaro,
nato a Gallio nel 1834 e là dimorante, di professione pastore, sposò Giovanna
Marin, pastora di Gallio, anch’essa in sosta nella parrocchia di Carbonara. Il
comune di Rovolon, ancora ai primi del Novecento, come descritto nel Regolamento dei pastori vaganti, permetteva il libero pascolo dal primo novembre
a tutto il mese di marzo, dal levare al tramontare del sole, previa richiesta al
proprietario del pascolo.4
Il sistema di locazione più usato nelle campagne era l’affitto in denaro, data
l’esistenza di grandi proprietà soprattutto in piano, e si articolava tra la partizione, adottata per le aziende di maggiori dimensioni, e l’affitto misto con
canoni in natura (prodotti della campagna) e partizione. A Rovolon l’affitto in
denaro era praticato sia dai privati che dalle amministrazioni pubbliche, in genere su una possessione a podere completo. Al proprietario l’onere di pagare
tutte le tasse (prediali, provinciali, comunali, consorziali) e le spese per la manutenzione degli edifici; all’affittuale la consegna delle decime e dei quartesi
(era prevista la questua a favore dei cappellani, dei campanari e degli organisti)
nonché le spese per lo scavo e la pulizia dei fossi interni alla campagna. Consuetudine antica e radicata poi la consegna delle onoranze, costituite da polli,
capponi, galline, carne di maiale (in poca quantità), che in certi casi poteva
corrispondere al 2- 3 % del valore dell’affitto. L’affitto di una possessione, sia
in piano che in monte, comprendeva anche il caseggiato rurale e il canone variava dalle 28 alle 50 lire il campo, per il piano, dalle 35 alle 40 lire per i piccoli
appezzamenti in monte, e dalle 25 alle 30 lire per un campo zappativo; per il
bosco ceduo invece l’affitto medio si aggirava tra 5 e 6 lire il campo.
Qualche agricoltore praticava anche il sistema di partizione: cioè veniva prelevata una parte (da cui l’espressione partizione) pari alla metà del raccolto
di frumento, granoturco e uva. Il colono disponeva invece di tutta la legna
ricavata dai campi ed era proprietario del bestiame. Era anch’esso, comunque, tenuto a pagare le onoranze in polli, galline e capponi. Alcuni proprietari, ma solo in piano, adottavano il sistema di affitto in generi e partizione:
l’affitto in generi ricadeva sui prodotti del suolo (frumento e granoturco),
mentre la partizione si limitava al vino. L’affittuale mirava quindi a procurarsi il frumento e il vino per poter pagare il canone d’affitto, senza badare
al fatto che la coltivazione di tali prodotti fosse più o meno adatta alla natura
dei terreni.
74
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
I proprietari di vaste estensioni di terra adottavano di norma il sistema della conduzione dei terreni “ad economia”, per cui i lavori venivano svolti da
lavoratori salariati, chiamati obbligati. Questi, in cambio delle giornate di
lavoro, ricevevano il granoturco e la possibilità di poter zappare il granoturco
per 1/3 del suo prodotto (dai 3 ai 4 campi); per la pulitura e messa in granaio
del frumento ne ricevevano uno staio ogni undici staia di raccolto; abitavano
infine nelle case appartenenti ai proprietari terrieri versando in cambio un
canone d’affitto. Accanto ai lavoratori obbligati c’era il bovaio, a cui si assegnava un salario in generi e denaro, che consisteva in 10 staia di frumento,
10 di frumentello, 30 di granoturco, 173 lire venete e la possibilità di abitare
gratuitamente una piccola casa. Nelle possessioni condotte ad economia,
servivano abbastanza spesso anche lavoratori assunti a giornata, o per un
periodo limitato di tempo, dopo averne pattuito il compenso. Nella stagione
della potatura, dei raccolti, per lo scavo dei fossi e la formazione di cavedagne,
servivano sempre lavoratori, che venivano anche da altri paesi, con i quali si
stipulavano dei contratti. In genere i giornalieri guadagnavano a giornata,
per le spese ordinarie e meno faticose, da 14 a 20 soldi, per il taglio del fieno
da lire 1 a lire 1.10, per la mietitura del frumento, invece, il compenso andava
da 2 lire e 10 lire giornaliere oltre al vino grosso e ad alcuni anche il cibo.
I prodotti agrari principali del comune di Rovolon erano allora il frumento,
il granoturco, l’uva, il fieno, la legna da fuoco, le castagne e un po’ di olive,
prodotti che, tranne il vino, erano tutti di qualità mediocre. Il vino, il frumento, tolta la parte per le semine e quello consumato in paese, le castagne e la
frutta si vendevano a Padova o ai mercanti di Venezia. Il granoturco veniva
consumato in paese mentre il fieno serviva per le bestie.
Un visitatore che fosse passato per Rovolon nella seconda metà dell’800
avrebbe visto “in sui dossi di queste colline frutteti e viti sceltissime, e molti castagni, che pregiansi di migliore qualità dopo quelli di Calaone”.5 Il vino era dunque
L’antica chiesa
di Carbonara.
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
75
l’unico prodotto che godeva di una certa rinomanza ed era fonte di denaro.
Il vino prodotto veniva venduto e in casa si beveva la graspia, una bevanda
ricavata dalle vinacce. L’uva prodotta era in maggioranza nera e, a seconda
della diversità dei terreni, era di qualità differente. Se ne produceva anche di
bianca pari al 10-15% della produzione di uve nere. In annate ordinarie, nella
prima metà dell’800 si producevano, calcolando l’uva già ridotta in mosto,
dagli 8 ai 10 mastelli per vigneto.
I campi sul monte avevano bisogno di molti lavori, come la concimazione,
che veniva fatta trasportando letame a spalla, la zappatura e la potatura delle
viti. Accanto al vecchio vigneto, quando questo non produceva più, se ne
piantava uno nuovo, togliendo a poco a poco le viti vecchie. La nuova piantagione dava un buon prodotto solo dopo 12, 16 anni, a seconda dei terreni,
dal momento in cui era stata piantata. Molto spesso vicino ai filari di vite
venivano piantati alberi da frutto che erano fonte di cibo per la famiglia del
contadino, in particolari fichi, ciliegi, meli. Il terreno tra i filari veniva lasciato
a prato oppure anch’esso coltivato: si seminava frumento e granoturco, oppure si piantavano ortaggi e fagioli.6
C’era poi il bosco, da sempre fonte di legna, che serviva sia per essere bruciata, sia per ricavare pali di sostegno per le viti o per la costruzione di botti.
La legna era fonte di guadagno perché veniva venduta ai vari commercianti
per essere smerciata a Padova o a Este o nei paesi vicini. La legna eccedente
veniva utilizzata per fare del carbone che veniva venduto in zona. Ancora nei
primi decenni del ‘900 restavano le tracce dei pojatti, i luoghi dove la legna
lentamente diventava carbone.7 I boschi erano in maggioranza di castagni e
rovere, sottoposti a rigidi controlli. Erano sia privati, per la maggior parte,
sia comunali e appartenenti all’erario. Il comune nel 1826 era proprietario di
un bosco di 75 campi e mediante asta pubblica ne vendeva il taglio. Il taglio
del bosco veniva fatto ogni 7 anni. Dai castagneti si allevavano polloni per
Villa Giro in una
cartolina degli inizi
del Novecento.
76
La copertina dei
Capitoli normali del
contratto di affittanza
dell’Amministrazione
Fogazzaro-Biego,
stampata a Vicenza
nel 1900. Il testo
contiene i patti che i
contadini di Rovolon
dovevano rispettare
quando prendevano
in affitto le terre di
Matilde Fogazzaro,
sposata con il conte
Alvise Biego di
Vicenza.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
la costruzione di botti, che si tagliavano ogni
14 anni (chiamati doali); per il resto si ricavava
legna da fuoco, cioè fasci e fascine. Dal bosco,
in particolare dai castagni, si ricavavano i pali
che servivano a sostegno delle viti.
Esistevano anche dei boschi speciali, come il
bosco forte della Carpaneda, di regio diritto e
altri due boschi privati sui quali il governo esercitava dei diritti speciali per cui il proprietario
godeva solo del taglio dei cespugli e di quello
di cui la regia direzione permetteva il taglio,
ogni 18-20 anni nelle aree dove il bosco era
troppo denso. Questi boschi erano in piano, in
posizione abbastanza comoda per il trasporto
del legname, che avveniva spesso via acqua.
Oltre allo Stato, era proprietario di boschi anche il monastero di Santa Maria di Praglia, che
li concedeva in affitto a pezzi, chiamati campi.
Nel 1817 ad esempio, il monastero cedeva in
affitto ad Andrea e Pietro Zattarin di Carbonara, due boschi, denominati il primo la Barbana, di 10 campi circa, di 3 anni e il secondo la Castagnola, di circa 2 campi e di 4 anni
d’età. L’affitto era di 8 lire venete il campo. Al
momento del taglio del bosco, ossia al compimento dei 7 anni di età, l’affittuale doveva
chiedere il permesso del taglio al monastero. Anche il comune cedeva in affitto il bosco, suddiviso in prese.8 Nel 1876 gli affittuari di tre prese boschive comunali, fecero domanda per il taglio anticipato del bosco, di 6 anni, anziché
7, impegnandosi a pagare anche l’ultimo anno di affitto. Il comune accordò il
permesso del taglio, dato che avrebbe ricavato in più i soldi della nuova affittanza, sicuramente aumentata nel valore del canone d’affitto.9
Il comune, inoltre, mediante asta pubblica, vendeva il taglio del bosco, ad
esempio per le prese del Monte della Madonna.10 L’affitto del bosco veniva
concesso anche per la sorveglianza diurna e notturna, per impedire i furti di
legna, come era avvenuto con Giuseppe Zattarin, che per 21 anni (dal 1906)
aveva avuto in affitto le 16 prese boschive di proprietà comunale, poste sul
Monte della Madonna.11 Il Monte della Madonna, infatti, era chiamato anche
Monte comun.
Questa la situazione economica della prima metà dell’Ottocento, che racconta una vita di difficoltà giornaliere per ricavare qualche soldo e un duro
lavoro sui campi e sui vigneti. Ci si mettevano poi anche le annate di cattivo
raccolto, come nel 1853-1854, che fu di grave carestia.12 La zona dei Colli
Euganei ne risentì molto e anche a Rovolon, nei mesi invernali, quando non
era possibile per molti contadini trovare lavoro, si verificarono quei fenomeni
tipici del periodo come le questue, ossia un assembramento di persone senza
lavoro che si recava dai notabili del paese a chiedere da mangiare.13 A Rovo-
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
77
lon il 2 e 3 gennaio 1854 circa 30 contadini si
recarono, muniti di forche, bastoni e badili dal
conte Papafava, a chiedere lavoro e granoturco. L’agente della famiglia fece loro preparare della polenta che i contadini mangiarono,
per allontanarsi poi tranquillamente. Il giorno seguente, circa 40 individui si recarono dal
possidente Giovanni Gritti e, minacciando il
gastaldo Michele Zaso di incendiare la casa,
pretesero della farina di sorgo turco; gli stessi si recarono poi da Matilde Fogazzaro, altra
grande possidente del comune, allora minorenne, dove ricevettero 2 sacchi di sorgo.14
La miseria era tale che andarono in crisi anche
i matrimoni: in quel 1854 se ne celebrarono
appena uno a Rovolon e tre a Carbonara.
La situazione economica e sociale non subì
cambiamenti di rilievo nei successivi cinquant’anni.
Nella seconda metà dell’Ottocento i terreni
classificati aratorio arborato vitato costituivano
la qualità predominante dei terreni; seguivano, per estensioni ben più ridotte i pascoli, l’oliveto e il castagneto.15
Come mostra il prospetto che segue, nel 1860 a Rovolon sono registrati sette
proprietari terrieri titolari ciascuno di più di 600 pertiche di terra e dove la
pertica metrica equivale oggi a 1000 metri quadrati:
Matilde Fogazzaro
Conte Alessandro Papafava
Nobile Leopardo Martinengo
Erario civile ramo boschi
Giovanni Gritti
Cavaliere Lodovico Folco-Zambelli
Francesco Gasparini
4596 = mq. 4.596.000 = ettari 459,6
2897 = mq. 2.897.000 = ettari 289,7
1750 = mq. 1.750.000 = ettari 175,0
1704 = mq. 1.704.000 = ettari 170,4
1130 = mq. 1.130.000 = ettari 113,0
918 = mq. 918.000 = ettari 91,8
752 = mq. 752.000 = ettari 75,2
Più della metà della terra era ancora di possesso nobiliare estesa al piano e
frazionata al monte, con un’estensione media di 5 ettari per la frazionata.16
La situazione economica era stazionaria: le coltivazioni non erano cambiate
e il frumento, il vino, la legna da fuoco, le castagne superavano i bisogni locali
e continuavano ad essere venduti sul mercato esterno. Erano invece insufficienti i foraggi per il bestiame, il granoturco, i fagioli e il riso.17 La scarsità di
foraggi rappresentava un grosso problema perché non permetteva l’allevamento estensivo del bestiame. Quest’ultimo, poi, oltre a servire per il lavoro
nei campi, forniva il letame per la concimazione dei terreni, ma la cronica
insufficienza non permetteva un’adeguata concimazione con la conseguente
riduzione delle rese agricole.
All’indomani dell’Annessione del Veneto all’Italia (1866) fu diramata una
Il fratello di
Rebecca Vanni con
la consorte agli
inizi del Novecento.
78
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Circolare da parte del Regio Ministero dell’Agricoltura intesa a conoscere
la situazione della proprietà fondiaria nei diversi comuni della Regione. Il 15
ottobre 1868 Angelo Rossi, agente del nobile Alberto Papafava e rappresentante del comune di Rovolon nel Comizio Agrario di Padova, rispose ai numerosi quesiti formulati da quella Circolare. Analizzando le risposte fornite
emerge che nel nostro comune i passaggi di proprietà nell’ultimo triennio (18651868) erano stati insignificanti, per cui non era possibile stabilire se la proprietà
fondiaria tendesse a concentrarsi o a dividersi; molti dei proprietari del comune
– rilevava l’agente Rossi – difettavano più o meno del capitale bisognevole per la
coltura e per il miglioramento delle loro terre. Rossi, da esperto delle campagne
qual era, segnalava inoltre che i conduttori della terra nel procurarsi il denaro
non solo più a forte interesse, lo facevano con grosse difficoltà e con infinite brighe
e spesa, tanto che nel maggior numero dei casi – concludeva – tornerebbe loro più
conto vender piuttosto parte del fondo.
La liquidità monetaria, ricordava ancora l’uomo di fiducia dei Papafava, era
uno fra i più gravi ostacoli che inceppano il progresso dell’agricoltura locale e nazionale … I braccianti, specialmente d’estate, si trovano in numero piuttosto inferiore al
bisogno; non si nota però in essi tendenza spiegata ad emigrare in città; solo pochissimi proprietari in comune hanno migliorato in parte gli antichi sistemi di coltivazione, gli altri fecero assai poco, vanno però imitando i buoni esempi.18
Sul delicato versante delle bonifiche, Angelo Rossi, scrive: «Non già terreni
incolti, ma alcuni tratti di prato naturale vennero sconsigliatamente dissodati in Comune. La irrigazione poi non sarebbe qui possibile che a prezzo
di un’opera quanto utile altrettanto grandiosa, per derivare l’acqua dal Bacchiglione, come accennai sulle mie proposte. Anche di prosciugamenti nulla
affatto si fece. E sì abbiamo in comune un’estesissima valle che con poca
spesa e con molto interesse potrebbe venire artificialmente prosciugata; ma
sgraziatamente la maggior parte di questa valle appartiene ad un ricco proprietario (vicentino)».
La relazione diretta al Ministero dell’Agricoltura così concludeva: «Nessun
importante mutamento si è fatto in comune riguardo alla estensione delle
terre coltivate a cereali, legumi, viti. I principali prodotti agricoli del comune
esposti in ordine della loro importanza sono: vino, frumento, granoturco,
seta e frutti. Il risultato dei raccolti in questo ultimo triennio fu nel complesso abbastanza buono».
L’andamento dell’annata agricola nel 1868 ci viene descritto sempre da Angelo Rossi: «La primavera che corse oltremodo calda e asciutta, fu molto
propizia alla fioritura ed all’allegamento della frutta, alla ultimazione dei lavori di terra e soprattutto alla seminagione del granoturco, la quale giammai
venne eseguita in condizioni migliori. Scarso fu il primo taglio del fieno per
la soverchia siccità come scarso altrettanto fu l’ultimo per causa opposta, in
compenso però la stagione estiva fu così favorevole alla produzione d’ogni
sorta di foraggio, che questo in complesso si calcola più che sufficiente all’ordinario consumo. Il prodotto dei bachi, relativamente alla poca coltivazione
che se ne fa in comune, fu soddisfacente. Le buone riproduzioni pareggiarono i cartoni originali. Fallirono completamente le poche sementi indigene,
quelle del Portogallo e di ogni altra razza non giapponese. Abbondante pure
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
79
sarebbe stato il raccolto di frumento se i guasti enormi del cosiddetto riscaldamento non lo avessero più tardi decimato. Io sono d’avviso che si avrebbe
potuto facilmente prevenire questo infortunio, se il grano liberato dall’umido del suo involucro colla più sollecita trebbiatura, fosse stato disseccato e
giornalmente spalato in granaio, come io e tanti facemmo. L’uva, mercé alle
ripetute diligenti solforazioni ed a favorevoli circostanze di sua maturazione,
si mostrava assai bella e prometteva in qualità in compenso alla quantità alquanto inferiore dell’ordinario; ma la grandine del 29 agosto e le susseguenti
continue piogge distrussero in parte e guastarono questo prezioso prodotto
oltre a ciò, la troppa elevata temperatura all’epoca della vendemmia fu di
non lieve danno alla buona e regolare fermentazione per le quali cose anche
la qualità del poco vino ottenuto in quest’anno, non può essere certo molto soddisfacente. Copioso fu il raccolto del granoturco, tanto al colle che al
piano. La seminagione del frumento, avversata dalle incessanti piogge, riuscì
per ogni rapporto cattiva».19
Per quanto riguarda la produzione di vino20 i dati per quegli anni riportano:
a) ettari coltivati a viti 1405,00;
b) vigne ettari 125,00;
c) altre colture nell’intermezzo dei filari, ettari 1280,00;
d) quantità d’uva (in miriagrammi) 110.000,00;
e) prodotti per ettaro in miriagrammi 76,56; a vigna 80,00;
f ) ettolitri di vino prodotti 6.000,00.
La produzione di vino avrebbe potuto essere di migliore qualità, ma la realtà
di Rovolon rientrava nella media della provincia di Padova, che figurava, negli
anni ’70 dell’800, fra le ultime nella graduatoria che considerava la produzione e la qualità del vino. Se ne duole, in proposito, un osservatore che scrive:
«È cosa questa che stringe il cuore a tutti coloro che hanno percorso i nostri
Euganei e che avranno assaggiato perfino nella capanna di qualche contadino, un vinetto limpido, aureo, pieno di spirito, tale da inebriare un modesto
bevitore con pochi bicchieri. Quel vino, confezionato da mani intelligenti,
potrebbe centuplicare di valore, facendo concorrenza a molti dei migliori
vini esteri!».21 Sempre di quegli anni, una relazione del 1871, elaborata per
descrivere le condizioni della viticultura e della vinificazione nel circondario
di Padova, lamenta che: «Se da una parte dobbiamo godere che nel nostro
Distretto siasi in via di progresso, per quanto riguarda la coltivazione della
vite, tanto nella scelta delle migliori qualità di uve, che sostituendovi a marito
l’oppio al noce, come pure estendendosi sempre più la formazione dei vigneti a palo secco, dall’altro canto dobbiamo rammaricarci come purtroppo
si pensi soltanto ad aumentare la quantità e poco a migliorare la qualità del
prodotto. Difatti, tranne qualche raro coltivatore del Distretto che attende
alla fabbricazione del vino coi nuovi metodi, la maggior parte continuano
negli antichi ottenendo così un prodotto poco duraturo, non atto a sostenere
viaggi, e quindi da doversi vendere al più presto possibile a prezzi che non
stanno in relazione colle cure usate per averlo. Fra coloro che progredirono
piaceci ricordare il Signor Angelo Rossi agente del Nob.Co. Papafava Alberto
in Rovolone. Causa di un tal lento progredimento in siffatto ramo di agri-
80
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
coltura è dato dalla poco coltura agricola dei nostri proprietari, dalla crassa
ignoranza e dalla mancanza dei mezzi nei coloni».22
La povertà fra i contadini era molto diff usa e c’era chi cercava di industriarsi
come meglio poteva: a Carbonara ad esempio, chi viveva sul monte raccoglieva e poi vendeva altrove una polvere ferruginosa composta di frantumi di trachite nera e quarzo che si adoperava per asciugare gli scritti.23 Tale “spolvero”
si depositava a valle del piccolo ruscello alimentato da una sorgente naturale,
che serviva agli usi della popolazione. Quest’acqua però, se assaggiata, aveva
un sapore che ricordava il solfato di magnesio. C’era chi ne aveva suggerito
l’analisi da parte dei chimici, dubitando della buona qualità di quest’acqua,
tant’è che gli abitanti di Carbonara che ne facevano uso affermavano che,
bevuta a digiuno, purgasse il corpo.
Altra fonte di acqua dolce nel comune si trovava nel sito denominato Fontana Coperta, una piccola fontana d’acqua che dava origine ad un modesto rio
che scendeva nello scolo Comune e quindi nello scolo Nina. Come sottolineato nel 1851 sulla situazione idrografica degli Euganei «i Colli quanto sono
copiosi di acque termali o minerali, altresì sono scarsi di acqua dolce, la quale
basta appena agli usi della popolazione».24
Nonostante la miseria, gli abitanti di Rovolon vengono descritti come gente
“di mente svegliata, arguti nel raziocinio e belli di figura”.25 La situazione
divenne più critica nell’ultimo trentennio dell’800: nel 1874, ad esempio, centinaia di contadini e braccianti con le loro famiglie erano in una tristissima
condizione, senza alcun mezzo di sostentamento, in particolare senza granoturco. Il comune avviò quindi una serie di lavori di costruzione di strade per
dare lavoro ai padri di famiglia indigenti.26 Negli anni seguenti la situazione
non migliorò: si fecero sentire le conseguenze della crisi agraria che aveva
investito prima l’Europa e poi l’Italia e il Veneto fu duramente colpito, con
il crollo dei prezzi dei prodotti agricoli, in particolare del frumento e del
Il forno
da calce della ditta
Quagliato ripreso
in una cartolina
illustrata spedita
da Bastia il
29 agosto 1912.
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
81
granoturco, cioè i prodotti prevalenti della regione. In seguito alla
crisi, che veniva a sommarsi all’arretratezza dell’agricoltura e alle
tasse troppo gravose, nel distretto
di Padova diminuì costantemente
il numero dei piccoli proprietari.
Un fenomeno che indusse non
pochi piccoli proprietari, residenti
sul monte, a vendere la terra e a
diventare braccianti.
Quando nel 1882 furono pubblicati i risultati dell’Inchiesta Agraria
“Iacini”, così chiamata dal parlamentare che la promosse e diretta
a conoscere le reali condizioni di
vita dei contadini in Italia, l’immagine che ne emerse fu di tragica
criticità. Emilio Morpurgo, incaricato di svolgere l’inchiesta per il
Veneto, descrive le condizioni dei
contadini del comune di Rovolon come “molto infelici”. Le abitazioni erano malsane, esposte al freddo dell’inverno e al caldo estivo, col pavimento
di terra, e le famiglie, numerose, costrette a vivere in spazi angusti. Molte
delle case occupate dagli affittuari erano ridotte in tristi condizioni, perché i
proprietari erano restii ad intervenire per la loro manutenzione. Anche dal
punto di vista morale i giudizi sul modo di vivere della popolazione del comune risultavano “abbastanza sfavorevoli” soprattutto se confrontati con i
costumi delle popolazioni montane.27 A testimoniare queste tristi condizioni
e la scarsa alimentazione v’è il fatto che nel 1882 nel comune si registrarono
52 pellagrosi.28 La pellagra, definita come la malattia della miseria, era causata dal mangiare granoturco deteriorato.
Negli anni 1889-1894, definiti gli anni più critici dell’economia italiana, anche
nel Padovano la situazione economica si aggravò notevolmente, creando le
condizioni per possibili sommosse. Nel 1891-92 a Rovolon c’era ancora un
centinaio di braccianti senza lavoro.29
L’introduzione di nuove macchine agricole stentava a diffondersi. Gli unici
casi in cui si introdussero alla fine dell’800 le nuove e costose macchine (erpice snodato, estirpatore, seminatrici, falciatrici, spandifieno, trebbiatrici meccaniche e a vapore) erano limitati alle grandi tenute, per iniziativa di qualche
proprietario illuminato. Tra questi c’era il conte Alberto Papafava nelle sue
terre di Cervarese e Rovolon.
L’agricoltura era l’unica attività svolta dalla popolazione. Le uniche industrie
censite nel comune nel 1890 non offrivano un lavoro fisso per tutto l’anno:
c’erano le sei cave di trachite, chiamata masegna, utilizzata per selciati e lavori
edilizi,30 che davano lavoro a 27 operai; due fornaci da mattoni, tegole e calce,
che davano lavoro a 15 adulti per circa 190 giorni l’anno; una fabbrica di botti
La fornace
Quagliato oggi.
82
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
e tini dove lavoravano 4 operai; una fabbrica in cui si lavoravano trecce di paglia che dava occupazione a 13 operai. Nel comune c’erano poi nove telai per
la tessitura di lino e canapa e tre per la lavorazione di materie miste.31 Il conte
Papafava possedeva un maceratoio per la canapa di notevoli dimensioni.32
La popolazione di Rovolon
Ma quanti erano gli abitanti del comune due secoli fa? Chi erano tutte queste
persone che faticavano e sudavano del lavoro dei campi? I due prospetti che
seguono offrono un quadro complessivo del numero di residenti censiti in
circostanze diverse, con l’indicazione della crescita e della contrazione (indicata col segno - ) della popolazione.
Popolazione residente
anno
residente
1747
1846
1871
1881
1901
1911
1921
1931
1936
1951
1961
1971
1625
1819
2204
2891
3408
4208
4843
4882
4682
4654
3858
3472
differenza
194
385
687
517
800
635
39
-200
-28
-796
-386
Crescita della popolazione per singole frazioni
anno
Rovolon
Bastia
Carbonara
1822
1841
1871
1881
1901
1911
1921
788
762
883
1132
948
1118
1244
590
725
757
1005
1565
2017
2293
639
571
364
751
895
1073
1306
Totale
2017
2058
2204
2891
3408
4208
4843
Da questi dati vediamo come ci sia stata una crescita lenta, ma costante, dalla
metà del Settecento a quella dell’ottocento (1% annuo). Sappiamo che nel
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
83
1822 c’era un medico, il dott. Luigi Chiarellati di Teolo, che serviva le parrocchie di Rovolon e Carbonara, mentre nessun medico a Bastia. A Carbonara
c’erano 3 levatrici, 1 a Bastia e a Rovolon (bravissima e che esercita senza
mercede).33
Nella seconda metà dell’Ottocento si ebbe un notevole aumento demografico, come in tutta Italia, dovuta principalmente alla diminuzione del tasso di
mortalità, soprattutto quello infantile; la crescita della popolazione del comune continuò fino agli anni venti del Novecento, dovuta anche all’arrivo di
nuove famiglie che acquistarono le terre vendute da famiglie nobili (i conti
Donà Dalle Rose, gli eredi Martinengo, i Camerini, i Folco-Zambelli).
La popolazione aumentò in particolare nelle frazioni di Carbonara, che quadruplicò la sua popolazione e Bastia, che la triplicò. Il maggior sviluppo si
è avuto quindi nelle frazioni in piano, dove c’erano maggiori probabilità di
trovare un podere in affitto o un lavoro come salariato.
Nei decenni successivi al 1931 la popolazione del comune è diminuita, con
un’accentuata tendenza all’invecchiamento: in particolare dal 1951 al 1963 la
diminuzione registrata è del 19%, dovuta all’esodo verso il capoluogo, Padova, dall’isolamento e dalla scarsità di risorse.34
L’insediamento della popolazione è sempre stato prevalentemente sparso
(88%), in quanto le case contadine si trovano di norma ai margini o nel cuore
dei poderi coltivati.
Com’è noto l’attività agricola condizionava la vita sociale. I matrimoni, ad
esempio, fino ai primi decenni del secolo scorso si celebravano nel periodo
invernale, prevalentemente in novembre, cioè al termine dell’annata agricola
quando la famiglia aveva raccolto un po’ di denaro, e in febbraio, prima d’iniziare l’attività nei campi. L’età media dei celibi e delle nubili al primo matrimonio è attorno ai 25-27 anni per gli uomini, 22-23 anni per le donne.35 Ci
si sposava con persone abitanti nella stessa frazione o nelle altre frazioni del
Cartolina postale
pubblicitaria della
ditta Fratelli Marin
titolare di forni
da calce a fuoco
continuo a Bastia.
Il biglietto reca il
timbro postale del
14 agosto 1920.
84
1950. Rebecca
Vanni a lato
del classico “tino”
usato nei forni
da calce.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
comune; se un coniuge era forestiero, proveniva in genere da un vicino paese dei Colli o della
provincia di Vicenza, come Albettone o Montegalda. Quando si sposava, la donna andava a
vivere in casa del padre dello sposo, aggregandosi alle famiglie dei fratelli dello sposo. Questa
convivenza non doveva certo essere facile, come
testimoniano le tante interviste fatte agli abitanti del comune.
Per quanto riguarda l’istruzione, il dato del censimento del 1871 ci dice che l’analfabetismo era
diff uso: su una popolazione di 2204 persone,
ben 1664 non sapevano né leggere né scrivere, degli altri appena 60 sapevano solo leggere
e 480 erano in grado di leggere e scrivere. Con
la costruzione delle scuole elementari in tutte e
tre le frazioni del comune, tutti cominciarono
ad andare a scuola, almeno fino alla terza elementare. Dobbiamo tener conto che i bambini
cominciavano a lavorare molto presto, aiutando
nel lavoro dei campi, e che spesso le famiglie
non avevano i mezzi sufficienti per comprare i
quaderni e i libri per la scuola.
Alcuni documenti, come ad esempio le relazioni
per le visite pastorali da parte del vescovo nelle
parrocchie, fanno luce sulla vita di quei tempi.
Il parroco di Carbonara, Pierantonio Valente,
nella relazione sulla parrocchia redatta per la visita pastorale del vescovo Modesto Farina del 17
settembre 1822, lamenta che «gli adulti amano
poco l’insegnamento della Dottrina Cristiana,
ma sono assai dediti al vino».36
Cento anni dopo, le cose non sono cambiate:
nella visita pastorale del 6 aprile 1921 il prete di Carbonara, Giovanni Bernardini, parroco dal 1911, riporta che predomina il vizio del vino e lamenta che
non c’è Schola cantorum, nonostante si sia provato più volte, spendendo anche
denaro: a suo avviso il fallimento dell’iniziativa era dovuto alla mancanza
«d’istruzione, di spirito di sacrificio e soprattutto – concluse – per l’abbondanza di spirito di vino».
Anche il prete di Bastia nel diario della visita del 4 aprile 1921 riporta come
vizi della popolazione il “turpiloquio, la bestemmia e in parte l’ubriachezza”.37 Allo stesso tempo ci dice che la popolazione sente vivamente la religione, che i sacerdoti sono rispettati e che il parroco ha infl uenza, oltre che
sulla vita spirituale, anche negli affari domestici, sui quali viene quasi sempre
consultato.
Negli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale, si diff usero anche nelle
campagne le idee socialiste (nel 1921 venne fondato il Partito Comunista
i l co m un e di rovolon n e ll’otto c ento
85
Italiano). A Bastia, nel 1922, vi è
una lega rossa (anche se il prete
dice che è in dissoluzione e quasi
tutti gli aderenti desiderano mettersi sotto la bandiera bianca); a
Carbonara il prete si lamenta che
l’attività dell’associazione, per le
giovani del Sacro Cuore di Gesù,
che conta 120 iscritte, analoga
alle Figlie di Maria, da un anno
è sospesa «perché la più parte,
nel famoso maggio 1920, si sono
lasciate trascinare dall’idolo bolscevico, si sono ascritte alla lega
rossa, hanno preso parte a cortei
anche fuori di parrocchia al grido di rivoluzione, con canti sovversivi, accompagnate da giovinastri e dalla
bandiera socialista, dando un miserabile esempio di follia, di degenerazione
e di ignoranza. Però, siccome fallì completamente il programma bolscevico,
e molti e molte si sono ravveduti, si spera entro l’anno di ricostruire su solide
basi la detta congregazione».
La conferma che gli abitanti della parrocchia di Rovolon dovessero ogni giorno scontrarsi con la miseria ci viene dalla testimonianza del parroco che lamenta le difficoltà di frequentare la dottrina cristiana la domenica da parte
di molti bambini: «Data la stagione, o troppo caldo o troppo freddo, la scomodità della chiesa, la difficoltà della strada e la mancanza di indumenti, la
frequenza non sempre è confortante».
Se le fonti scritte ci forniscono pochi, anche se illuminanti, dati che possiamo
interpretare, le fonti orali, il racconto di chi è cresciuto e ha vissuto a Rovolon nella prima metà del secolo scorso, ben ci restituisce le condizioni di vita
di quegli anni. Una condizione che ben si coglie dalle interviste ai vecchi del
paese, interviste in grado di far emergere la fatica per il lavoro, le usanze, i
riti, la miseria e la fame. Frasi e racconti che hanno confermato quanto i tanti
documenti scritti ci consentono di comprendere, ma con lo spessore dell’anima che il freddo documento cartaceo non sa esprimere. E a conclusione di
questo mio tentativo di ricostruire la vita nell’Ottocento e nei primi decenni
del Novecento della popolazione di Rovolon, mi piace riportare la frase conclusiva di una intervista: “e vedo che sémo vegnù grandi o stéso”. 38
Note
1. Almanacco per l’anno 1819 contenente le più interessanti notizie cronologico-statistiche della
città di Padova e suo territorio, n. II, Padova, Tipografia Penada, 1818.
2. Archivio Parrocchiale di Carbonara (= APC), Libro dei battezzati. Anni 1828-1900.
3. APC, Libro dei matrimoni. Anni 1816-1871.
4. Archivio comunale di Rovolon (=ACR), Deliberazioni consiliari. Anni 1900-1905, Regolamento dei pastori vaganti.
Il giardino di villa
Giro agli inizi
del Novecento.
86
5.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Antonio Mastromarino, La vite nell’economia agricola dei Colli Euganei, «Rivista del Comune di Padova», n. 5 (maggio 1934).
6. Marino Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità, Milano (Banca Commerciale Italiana) 1963, p. 232-243.
7. APC, Cronistoria. Anni 1938-1945.
8. Archivio di Stato di Padova (=ASPd), Corporazioni religiose soppresse, S. Maria di Praglia,
b. B, fascicolo 11, interno 1, 25 aprile 1817.
9. ACR, Deliberazioni consiliari. Anni 1872-1877. Boschi, taglio anticipato delle tre prese XI,
XII, XIV.
10. ACR, Deliberazioni consiliari. Anni 1882-1887. Vendita taglio boschivo.
11. ACR, Cat. 10, classe I. Estratto dalla deliberazione presa dal podestà di Rovolon, 1928.
12. Antonio Keller, Prodotti agrari e cenni sull’agricoltura della provincia di Padova, Padova
1884.
13. Piero Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e Friuli, 1814-1866,
Padova (Marsilio editori) 1981, p. 108.
14. ASPd, Presidio luogotenenziale, b. 104, I 3/125.
15. Andrea Gloria, Il territorio padovano illustrato, Padova (Tip. Prosperini) 1862, (ristampa
anastatica, Atesa editrice, Bologna 1984), vol. I, p. 92-95.
16. Keller, Prodotti agrari e cenni sull’agricoltura, p. 7.
17. Keller, Prodotti agrari e cenni sull’agricoltura, p. 52.
18. «Il Raccoglitore», serie II, anno VI, 16 marzo 1869, p. 275.
19. «Il Raccoglitore», serie II, anno VI, 16 novembre 1868, p. 76.
20. «Il Raccoglitore», serie II, anno VII, 1° marzo 1869 (Statistica dei vini anno 1867), p.
228.
21. «Il Bacchiglione», 29 maggio 1873, n. 64, p. 2.
22. «Il Raccoglitore», serie II, anno VIII, 14 gennaio 1871.
23. Gloria, Il territorio padovano, vol. II, p. 80.
24. Statistica agraria della provincia di Padova, Padova 1873.
25. Gloria, Il territorio padovano, vol. II, p. 83.
26. ACR, Categ. 10, classe I, Progetti di strade, anno 1874
27. Emilio Morpurgo, Le condizioni dei contadini nel Veneto, in Atti della Giunta per l’Inchiesta
agraria sulle condizioni della classe agricola, 4. Relazione sulla 11 circoscrizione (province
di Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Venezia, Treviso, Belluno e Udine), parte I, Roma
1882, p. 351-352.
28. Oddo Arrigoni degli Oddi, La pellagra nella provincia di Padova, Padova 1883, p. 77.
29. Giulio Monteleone, Note sulle condizioni economiche e sociali della città e provincia di Padova dopo l’Unità, Padova (Società Cooperativa Tipografica), 1969.
30. Gloria, Il territorio padovano, vol. I, p. 94.
31. Ferdinando Cavalli, Le condizioni industriali della provincia di Padova, 1890, (ristampa
anastatica, Bologna, Li Causi editore, 1984), p. 34.
32. Pier Franco Gaslini, Cronache padovane di vita economica, Padova (Banca Popolare di
Padova e Treviso) 1954, p. 135.
33. La visita pastorale di Modesto Farina nella diocesi di Padova, 1822-1832, a cura di Pio Pampaloni, Roma (Edizioni di storia e letteratura), 1983, p. 210.
34. Igino Michieli, I Colli Euganei. Vicende economiche e sociali, Padova (Società Cooperativa
Tipografica) 1965, p. 196.
35. Dati ricavati dalla consultazione nell’APC del Libro dei matrimoni. Anni 1821-1900 e
1901-1928 e nell’Archivio Parrocchiale di Rovolon, Libro dei matrimoni. Anni 1792-1909
e 1910-1929.
36. La visita pastorale di Modesto Farina, p. 211.
37. La visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1912-1921), a cura di Liliana Billanovich Vitale, 2 voll. Roma 1975 (Edizioni di storia e letteratura. Istituto per le ricerche
di storia sociale e di storia religiosa), vol. 1, p. 91-106.
38. Intervista a Tranquillo Alban, 13 ottobre, Bastia.
Claudio Grandis
Il mulino di Rovolon
Lungo via Palazzina, di fronte all’abitazione della famiglia Facchini, si scorge una vecchia costruzione sepolta dal tempo e dalla vegetazione. Un’antica
casa, abbandonata decenni or sono che più nulla dice del suo passato, sia
per la semplicità costruttiva, sia per le ridotte dimensioni. Eppure se si apre
il vecchio Catasto elaborato nella metà del secolo XIX, grosso modo centosettanta anni fa, si scopre che proprio in corrispondenza di questa vetusta
costruzione funzionavano tre distinti mulini ad acqua. Pochi anni prima un
tecnico, l’ingegnere Pietro Neri, era stato incaricato dai proprietari, i fratelli
Francesco e Alessandro Papafava, assieme ad un capomastro falegname di
nome Francesco Pavan detto Barichella, di stimare il loro esatto valore. Dovendoli affittare la perizia serviva per avere precisa consapevolezza di quanto
valevano sul mercato delle attività produttive. Quella relazione, scritta nel
1834, rimane uno dei documenti più preziosi per la storia del mulino di Rovolon e, più in generale, per le ruote ad acqua dei Colli Euganei. In essa infatti
vi è la minuziosa descrizione dell’opificio con le dimensioni espresse in metri,
l’indicazione delle singole parti e l’essenza arborea del legname impiegato
per costruirlo.1
I mulini collinari erano diversi da quelli che macinavano in pianura lungo i
canali o immersi nelle acque dei grandi fi umi, come il vicino Bacchiglione
o l’imponente Adige. I mulini degli Euganei avevano una specificità che li
distingueva dagli altri presenti nella provincia di Padova: la loro ruota, infatti,
non era a pale bensì a cassette, a coppe, da cui la denominazione di mulini a coppedello. Erano detti anche mulini del Maltempo, poiché, a differenza
di quelli a pale, andavano a seconda del tempo. In altre parole solo quando v’era abbondanza d’acqua, in grado di assicurare il funzionamento per
l’intera giornata e anche la notte seguente, essi garantivano la produzione
di farina. Diversamente se ne stavano fermi in attesa del “maltempo”, cioè
della pioggia che portava acqua nei calti di alimentazione generando preziosa
energia idraulica.
I mulini euganei, come del resto tutti quelli del tipo a coppedello, erano dotati a monte di una grande vasca, di un invaso artificiale simile ad uno stagno,
che si riempiva raccogliendo le acque dei calti, cioè dei torrenti delle nostre
colline. L’invaso era detto gorgo e si estendeva in media tra i trecento e i seicento metri quadrati. Spesso era profondo e pericoloso, tant’è che le mamme
erano solite minacciare i bambini, affinché non si avvicinassero ai gorghi, con
il racconto della presenza misteriosa di fate, di esseri soprannaturali pronti
a rapire i piccoli che si fossero affacciati sull’acqua. Era un modo ancestrale,
una metafora efficace, per allontanare il rischio di veder cadere, mortalmen-
88
Il mulino
a coppedello
disegnato per
l’opera di Vittorio
Zonca, Novo teatro
di machine et
edificii, stampato
a Padova nel 1607.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
te, nell’acqua i propri figli, notoriamente curiosi di tutto ciò che è insolito e sconosciuto.
Il mulino di Rovolon apparteneva dunque
alla tipologia degli impianti a coppedello ma
ricalcava al suo interno, nei meccanismi di
funzionamento e di trasmissione del moto
dalla ruota idraulica alle macine, l’antico mulino romano, documentato sin dai primi secoli dopo Cristo nelle colline del Gianicolo, la
zona trasteverina di Roma. Un ingranaggio
meccanico, infatti, trasformava un giro della ruota idraulica in quattro, sei, otto fino a
quattordici giri della macina: una velocità in
grado di assicurare la trasformazione dei duri
chicchi in soffice farina. Ma a Rovolon le ruote
che giravano furono per secoli ben tre e tutte
alimentate dalla stessa acqua. Fortuna vuole
che del nostro mulino sia rimasto un prezioso
disegno, stampato in un libro scritto da Vittorio Zonca e pubblicato dopo la sua morte
nel 1607. L’incisione che accompagna la descrizione mostra ben bene come l’acqua del
calto Figaro, raccolta nel gorgo soprastante il
mulino (laddove oggi prospera un vigneto),
condotta con un apposito canale giungesse in
prossimità del mulino raccolta in tre distinte
canalizzazioni (gorne) capaci di riversare equamente l’acqua su altrettante ruote idrauliche
a cassetta, o coppe. Collegato ad ogni ruota, attraverso un robusto albero
disposto orizzontalmente, l’ingranaggio (detto scudo, o scù) era innestato al
lubécchio (un cilindro a forma di lanterna), a sua volta solidale alla macina
superiore: in questo modo la trasmissione del movimento meccanico passava
dalla ruota alla mola che, così girando, triturava i cereali trasformandoli in
soffice farina.2
Abbiamo detto sopra che nel 1834 il mulino apparteneva ai fratelli Papafava.
Ma da quanto tempo? e da quanto il mulino macinava lungo via Palazzina?
La domanda, oltre che lecita, ci appare doverosa anche per una curiosa ragione che fra poco spiegheremo. Durante il governo della Repubblica di Venezia
nel Padovano (1405-1797) fu deciso di rivedere e di censire tutte le concessioni d’acqua. La ragione partiva dalla semplice considerazione che l’acqua è un
bene pubblico e quindi appartiene a chi ha il potere sul territorio. L’acqua che
movimentava mulini, segherie, folli da panni, folloni, pistrini per l’olio, magli
per battere il ferro e il rame o, ancora, per triturare gli stracci di fi bra vegetale
da cui ricavare la carta, era un diritto esclusivo dello Stato, quindi – nei secoli
XV-XVIII – del governo di Venezia. Nel 1556, a seguito dell’attivazione di un
nuovo ministero (allora si chiamava Magistratura, da non confondere con il
concetto attuale e con il significato che oggi noi diamo a questa parola) detto
i l mul in o di rovolon
89
dei beni inculti, fu deciso di redigere un catastico, cioè un inventario, un censimento generale
di tutti coloro che utilizzavano, a vario titolo,
le acque pubbliche. Ognuno doveva pertanto
dimostrare che da almeno trenta anni utilizzava ininterrottamente sorgenti, corsi d’acqua,
canali, fi umi per ricavarne energia idraulica o
per irrigare i terreni coltivati, oppure, ancora,
per alimentare fontane private, riempire abbeveratoi o risaie. Dal censimento furono esclusi
solo i pozzi domestici. A quell’ordine tutti dovettero attenersi, presentando, all’Ufficio dei
beni inculti, i titoli, cioè i documenti, le carte,
gli atti notarili, le denunce dei redditi (allora
dette polizze d’estimo) in grado di dimostrare
da quanto tempo le acque erano sfruttate.
Nel 1684 Francesco Papafava, proprietario
del «molin a copedello sopra l’acqua dei gorghi», non fu in grado di produrre documenti
più antichi del 1541. Poiché il provvedimento
governativo era datato 10 gennaio 1560, i tre
decenni di sfruttamento non erano documentabili. Fu così che Francesco
dovette inoltrare una supplica per ottenere una nuova concessione d’acqua.
I magistrati incaricati dell’esame furono tuttavia clementi e riconobbero che
se anche i documenti non andavano oltre il 1541 si poteva comunque sostenere l’antichità del «possesso di dette tre rode da molino».3
In quello scorcio del XVII secolo i Papafava non trovarono tra le carte del
loro archivio, né in quelle dell’Archivio generale dell’Ufficio dell’estimo di
Padova, altre pezze giustificative in grado di dimostrare che a Rovolon un
mulino era attivo ben prima del fatidico 1541. A soccorrere Francesco non fu
d’aiuto nemmeno una dettagliata pubblicazione di Pietro Saviolo stampata a
Padova nel 1667: pur riportando le rendite dei mulini dell’intera provincia sin
dal 1431, Rovolon non figurava nell’elenco.4
Eppure scorrendo le denunce presentate all’Estimo (l’Ufficio incaricato di
tassare i beni immobili di Padova e Provincia) a partire dal 1418, un mulino a
Rovolon compare sin dal 1427. Non tra i beni Papafava, bensì fra quelli della
chiesa parrocchiale di San Giorgio. Nell’elenco, ricchissimo e lunghissimo
dei beni denunciati da prete Pietro, troviamo infatti nella lista dei livelli, un
sedime di mezzo campo con una casa coperta di coppi e con una tezza (tettoia) di pali e con «una posta molendini». Era situata nella contrada detta
Peraria e rendeva, in forza del contratto d’affitto a lunga scadenza (il livello
poc’anzi ricordato) unitamente ad un’altra pezza di terra di vigne schiave poste nella contrada Bagnolo, uno staio di frumento, uno di miglio, una spalla
di maiale (cioè un prosciutto), una focaccia e un paio di galline. Dalla pur
breve descrizione ricaviamo anche il nome del conduttore del mulino e del
vigneto: Stefano Bronzato.5
Il documento non ci consente di stabilire se contrada Peraria è divenuta in
Schema
di funzionamento
del mulino
idraulico dei Colli
Euganei.
90
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
seguito l’odierna via Palazzina: di certo è, comunque, che un mulino da antica data macinava a Rovolon. Attorno al suo edificio si muoveva allora una
clientela che non sappiamo se continua e costante, visto che le ruote e le macine giravano solo quando v’era disponibilità d’acqua. Il canone di locazione
pagato dal mugnaio appare infatti modesto se rapportato agli affitti versati
per la conduzione di analoghi impianti di macinazione situati in pianura. Ma,
come già abbiamo detto, si trattava di macine che giravano solo quando le
condizioni del tempo lo consentivano, quando cioè l’abbondanza d’acqua assicurava la spinta necessaria sulle grandi ruote in legno. E per quanto grande
possa essere stato il gorgo che lo alimentava – nel 1810 copriva una superficie
di 730 metri quadrati – una volta svuotato le ruote si fermavano.
Negli stessi volumi dell’Ufficio padovano dell’Estimo vi sono anche altre testimonianze di mulini: nel 1468 è Bartolo Bozato a denunciare la conduzione
di un molin roto con un’area di ben sei campi di terra circostante. Vent’anni
più tardi, più esattamente il 13 ottobre 1487, Bartolomeo del fu Curso fu
indicato come il gestore del mulino precisando che era «exempto per la persona per lo privilegio de molendinariis» e che era titolare di vari beni a Rovolon tra i quali un quartiere di terra «cum uno molin da Mal Tempo proprio».
Nello stesso elenco, infine, tra i beni degli eredi di messer Bartolomeo da
Soncin si ritrovano «campi dui parte araura e parte cum una caxa e … uno
molin» che – riporta il documento – in precedenza era nell’elenco dei beni di
Corso Bozato.6
I documenti custoditi negli archivi di Padova e Venezia, purtroppo, sono in
grado di fornirci un quadro piuttosto povero sulla storia del nostro mulino.
Abbiam detto che già negli ultimi decenni del XVII secolo l’impianto apparteneva ai Papafava: a questo dato possiamo aggiungere che nel Catastico
dell’Ufficio dei beni inculti non v’è traccia di un mulino di proprietà della
chiesa di San Giorgio di Rovolon. Possiamo ipotizzare – ma con le dovute
Il moderno mulino
di Bastia in una
cartolina illustrata
viaggiata agli inizi
degli anni Venti
del secolo scorso.
i l mul in o di rovolon
91
cautele – un passaggio di proprietà tra i due soggetti (chiesa
nella veste di venditore e Papafava in quello di acquirente) anche se ci appare strano che un simile evento non abbia lasciato
traccia nel ricco archivio dei nobili padovani. Possiamo verosimilmente ipotizzare più una sottrazione, lenta quanto irreversibile, da parte dei Papafava nei confronti della chiesa, come
all’epoca – tra XVI e XVII secolo – accadde anche in altri contesti, come quello di Cervarese dove le monache di Sant’Agata di
Padova, proprietarie di una quota del mulino galleggiante nel
Bacchiglione, ad un certo momento si ritrovarono incapaci di
riscuotere i loro canoni livellari per la lenta, quanto losca, sottrazione nell’utilizzo del mulino da parte della potente famiglia
Trento.7
Dobbiamo rilevare che la contrada Peraria non compare, almeno dal XVII secolo, nei paraggi del mulino a meno che l’antico
toponimo, per corruzione lessicale, non sia divenuto la Priaria ricordata in documenti successivi. L’impianto, stando alle
dichiarazioni rese da Michele Albanese e Antonio Visentin, rispettivamente il 4 marzo 1543 e il 18 novembre 1546 era infatti collocato nella
«contrà del Molin over Priara» prossima alla contrada del Gorgo, ai margini
di terreni detenuti dal monastero di Santa Giustina. La contrada del Molin,
ricordano alcuni testimoni oltre un secolo dopo, era detta anche Savellon,
un toponimo che ci conduce a Monselice dove il locale stradario contempla
tuttora via Savellon Molini.8
La discendenza di Francesco Papafava si estinse verso la metà del XVIII secolo, così che i beni tutti transitarono in un ramo collaterale rappresentato
in quel momento dall’omonimo Francesco (1714-1790), figlio di Giacomo e
Maria Antonia Mussati. Alcuni documenti del XIX secolo illuminano brevi
momenti di vita del nostro mulino. Al 21 maggio 1800 data l’affittanza con la
quale la Commissaria Papafava – creatasi per la morte prematura di Giacomo
avvenuta il 26 agosto 1785 – cedette al mugnaio Pietro Fasolo e ai suoi fratelli la «posta de’ mollini di rode tre, con sue caselle, e casa d’abitazione con
un pezzo di terreno contiguo» di 1400 metri quadrati. In cambio ai Fasolo
fu chiesto un affitto di 946 lire di cui 68 in onoranze. Una serie di clausole
stabilì obblighi e diritti reciproci in merito alla conservazione dei fabbricati
e degli impianti di macinazione. Solo in caso di «terremoto e fulmine che incendiasse o rovinasse» il mulino la ricostruzione rimaneva a totale carico dei
Papafava. I Fasolo nei pressi del mulino c’erano già nel 1792 e più tardi, nel
1805, figurano nella veste di conduttori. Il canone era rapportato all’attività:
se confrontato con impianti delle medesime dimensioni situati in pianura, risulta infatti di appena un quinto a riprova della contenuta attività, nonostante l’indiscutibile rilevanza della sua presenza per l’intero abitato collinare.9
Dal censimento napoleonico del 1810 proviene l’esatta articolazione planimetrica dei tre fabbricati sorreggenti le ruote, del gorgo e della vasca «per
raccolta dell’acqua», della superficie di sessanta metri quadrati, ubicata a valle dell’acqua stessa uscente dalle coppelle dell’ultima ruota. Da rilevare che la
vasca d’acqua per uso di molino di 730 metri quadrati situata a monte in contra-
Giustina
Michelazzo con i
figli a Carbonara.
S’iniziava sin da
ragazzi ad andare
al mulino, spesso
per macinare pochi
chili di cereali.
92
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
da della Persegara, non apparteneva ai Papafava bensì a Domenico Miotti del
fu Leonardo. Sintomatici pure i toponimi raccolti allora dagli agrimensori
nell’area: Molini, Gorgo, Molino di Mezzo, Molino di Sopra, Molino di Sotto,
Fontana Figaro, a conferma del ruolo di caposaldo topografico assunto dal
sito molitorio.
Nel 1826 i tecnici incaricati dall’Ufficio del Censo rilevarono a Rovolon due
«molini da biada», notizia questa che fa il paio con le quattro ruote segnalate
nel 1862 da Andrea Gloria nel suo Territorio padovano illustrato.10 La quarta
ruota era collocata in un edificio ben più a valle della posta dei Papafava e
apparteneva alla famiglia Miotto detta Munaro; le testimonianze orali degli
abitanti del luogo ricordano che essa girò fino al 1954, a ridosso del fabbricato oggi abitato dalla famiglia Medè. Le macine di questo impianto ottocentesco vennero vendute poco dopo al mulino elettrico di Carbonara mentre la
ruota idraulica fu trasportata in un luogo imprecisato per servire da mezzo
pubblicitario.11
La stima più volte ricordata del 1834 ci presenta nella veste di mugnai Andrea
Martini e il figlio Giovanni, capostipiti della secolare generazione che lungo
tutto il secolo XIX condurrà i mulini; solo nel 1914 le ruote a coppedello
cesseranno di girare, abbandonate da Giovan Battista Facchini, l’ultimo mugnaio morto nel 1939.
Note
1. Devo alla cortesia della famiglia Facchini la messa a disposizione del prezioso documento.
2. Vittorio Zonca, Novo teatro di machine et edificii, Padova 1607 (ristampa anastatica, con
premessa e note di Carlo Poni, Milano – Il Polifilo ed. – 1985), p. 21-24. Claudio Grandis, I mulini ad acqua dei Colli Euganei, Este (Parco Regionale dei Colli Euganei) 2001.
3. Archivio di Stato di Venezia (= ASVe), Provveditori sopra beni inculti, b. 389 “Investitura
d’acqua alla famiglia Papafava 6 sett. 1684”.
4. Pietro Saviolo, Compendio delle origini et relazione delli estimi della città di Padova, Padova
(eredi di Paolo Frambotto) 1667, p. 262.
5. Archivio di Stato di Padova (= ASPd), Estimo 1418, vol. 297, c. 131r. La descrizione del
mulino, molto più dettagliata rispetto alla polizza del 1427, si trova anche in un altro
inventario dei beni della chiesa di Rovolon redatto nell’anno 1437 (ASPd, S. Giustina, b.
180, filza E.P. P.19, c. 7v).
6. ASPd, Estimo 1418, vol. 353, polizza n. 46 (13 ottobre 1487).
7. Claudio Grandis, Il paesaggio scomparso. Acque, mulini, boschi e cave al tempo della dominazione veneziana (Secoli XVI-XVIII), in Cervarese S. Croce. Profilo storico di un comune del
Padovano tra Bacchiglione e Colli Euganei, a cura di Alberto Espen e Claudio Grandis,
Cervarese S. Croce (Biblioteca Comunale – Il Prato ed.) 2004, p. 69-86.
8. Claudio Grandis, I mulini di Bagnarolo, in Monselice. Storia, cultura e arte di un centro
“minore” del Veneto, a cura di Antonio Rigon, Monselice (Comune e Canova ed.) 1994,
p. 415-428.
9. ASVe, Censo provvisorio. Notifiche della provincia di Padova. 1805, b. 119, num. 9822.
10. ASVe, Censo provvisorio (c.d, Catasto austriaco). Atti preparatori, b. 36, num. 4. Andrea
Gloria, Il territorio padovano illustrato, Padova (Tip. Prosperini) 1862, (ristampa anastatica, Atesa ed., Bologna 1984), vol. II, p. 83.
11. Le informazioni provengono da interviste orali eseguite da chi scrive nel febbraio
1999.
Claudio Grandis
Il mulino di Carbonara
Sono numerosi i mulini dei Colli Euganei per i quali si ignora la data di costruzione, visto che le attestazioni che ne documentano l’esistenza di norma
si riferiscono a ruote già in funzione. La loro comparsa nelle carte antiche ci
riporta spesso ad atti di compravendita, a denunce dei beni posseduti, a permute e a concessioni idrauliche rilasciate a conferma del loro sfruttamento.
A volte capita d’incontrarli tra i confini di altri immobili, segnalati incidentalmente da toponimi come Contrà del Mulino o Rio Molino. In questo contesto viene spontaneo chiedersi quali siano state le ragioni che hanno dato
origine a questi impianti e quali le motivazioni di fondo che hanno favorito
la nascita delle due dozzine di poste molitorie, capaci di macinare per secoli
sui pendii Euganei. Di certo l’analisi della loro distribuzione sul territorio
collinare evidenzia una presenza maggiore sul versante occidentale rispetto a
quello orientale: su questo fronte, infatti, s’allineavano i mulini di Mezzavia,
Battaglia, Pontemanco, Rivella e Bagnarolo che potevano beneficiare della
disponibilità idrica assicurata dall’idrovia Padova-Monselice.
Tra le carte dell’ufficio veneziano dei Provveditori sopra beni inculti è rimasta
memoria di ben quattro concessioni rilasciate per la costruzione di altrettanti
nuovi mulini nell’area dei Colli Euganei: Carbonara 1664, Montegrotto 1675,
Valsanzibio 1678 e Faedo nel 1768. Di questi, tuttavia, solo quello di Valsanzibio ebbe fortuna mentre degli altri sono rimasti solo sporadici ricordi. A que-
Carbonara oggi.
Nel 1663 il
nobile veneziano
Bartolomeo Paruta
chiese al governo
la concessione
per costruire
un nuovo mulino,
a poche decine di
metri dalla chiesa.
94
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
sto elenco va poi aggiunto il mulino del
Molian costruito nel 1610 a Villa di Teolo
in anni in cui non era ancora tassativa e
obbligatoria la concessione governativa
per piccole ruote.
La richiesta di costruire un mulino a Carbonara fu presentata dal nobile veneziano Bartolomeo Paruta, figlio del defunto
Marc’Antonio, il 7 settembre 1663. Nelle
intenzioni del richiedente vi era quella di
«poter construire un molino da macinar
grano nel vicariato di Teolo, territorio
padovano nella villa di Carbonara con
l’acque d’una fontana detta della Castagnara», posta sul versante settentrionale
del Monte della Madonna, da riconoscere, forse, nella fontana del Moretto delle mappe attuali, tra beni di Marcantonio Corsatto, a valle, e del nobiluomo Trevisan a monte. Nel disegno dello
stato dei luoghi, elaborato dal tecnico dell’ufficio veneziano Iseppo Cuman
il 10 gennaio 1663 more veneto (cioè l’anno 1664), si può ricavare la posizione
che Bartolomeo Paruta scelse per installare la nuova ruota da macinare. Il
fabbricato era previsto a poche centinaia di metri dalla chiesa di Carbonara,
lungo quella che oggi è chiamata via San Giovanni Battista.
Dell’effettiva costruzione, del funzionamento e della durata del mulino purtroppo nulla sappiamo: l’unica cosa certa che ci è rimasta è la ricevuta del
versamento di 40 ducati, richiesti dal governo veneziano per l’investitura,
effettuato dal richiedente il 10 marzo 1664. Il silenzio sul nuovo impianto è
confermato anche dalle carte dei Provveditori all’arsenale di Venezia, incaricati di annotare tutte le autorizzazioni concesse ai proprietari dei mulini per
tagliare le roveri necessarie alla fabbricazione degli alberi delle ruote idrauliche: nel registro delle località, purtroppo non compare Carbonara, segno che
il mulino, se attivato, non ebbe lunga esistenza.
Nota
Carbonara
in una istantanea
di fine anni ’50.
Quanto si conosce della vicenda sul mulino di Carbonara è ripreso da Claudio Grandis, I
mulini ad acqua dei Colli Euganei, Este (Parco Regionale dei Colli Euganei) 2001, p. 65, 7273. I documenti sono in Archivio di Stato di Venezia, Provveditori sopra beni inculti, b. 385,
mentre il disegno predisposto per la concessione è nel medesimo fondo, rotolo 342, mazzo
14, disegno 7.
Aldo Pettenella
Altri promessi.
Storia padovana del secolo XVII
La storia che vi racconto è tratta per intero da un fascicolo processuale conservato nell’Archivio di Stato di Padova*. Altri documenti (di natura amministrativa,
fiscale, notarile ecc.) sarebbero in grado di fornire informazioni su molti dei personaggi implicati: ma li ho sfiorati appena quanto basta per accertarmene. Quanto al
processo aperto contro Teodoro Boattin, all’uccisione sua e del suo amico Scoin, o al
procedimento a carico di Ottavio Bellacato che portò al suo arresto – fatti che han
radice esterna rispetto a quelli qui narrati, ma li intersecano in momenti cruciali –
non ne resta traccia nei fondi padovani relativi alla giustizia criminale: ne sopravviveranno probabilmente in sedi diverse.
Insomma, queste pagine ricapitolano la prima tappa di un lavoro interrotto, e non
andrebbero mostrate in pubblico. Ma siccome non so se e quando mi rimetterò a cercare notizie su questi casi e queste persone, tanto vale che li faccia conoscere a voi così
come io oggi li conosco. Del resto non sono uno storico, solo uno che ama le storie; e
mi accontento, ambizioso obiettivo minimo, che chi legge ne ricavi qualche piacere.
L’attentato rapto
1
La vicenda di questo capitolo, semplice antefatto di quelle narrate nei successivi, occupa una settimana di mezzo settembre di 340 anni or sono. Ve la
racconterò cominciando dal suo ultimo atto, l’unico che attirò l’attenzione
di molte persone, e si sviluppò a partire dalla piazza di Bastia di Rovolon venerdì 15 settembre 1656.
Dico piazza ma intendiamoci: piazza vera non può esserci, se neppure c’è,
e non ci sarà per i successivi tre secoli, vero paese. C’è piuttosto un nodo di
strade, e nel luogo della fortificazione medievale che lo presidiava, da tempo
distrutta e rievocata fino ad oggi nel toponimo, c’è la chiesa parrocchiale; la
reggono i frati di Santa Giustina, massimi proprietari di terre in questa zona
che una bonifica ancor lontana dal compimento ha già cominciato a costellare di corti e boarie. Ci sono nei pressi della chiesa i servizi di base richiesti
dall’importante incrocio viario: l’osteria di Francesco “Fabio” Falda e di sua
moglie Maria, e un’officina di fabbro ferraio, l’equivalente per l’epoca di un
moderno meccanico d’auto. Di una terza bottega conosco il nome del gestore, Anzolo “Michieletin” Albanese, non la specialità merceologica. Ci sono
poche altre abitazioni, fra cui qualche residenza di campagna di proprietari
cittadini.
96
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Sono le nove di mattina. Una ragazza esce dalla casa delle signore Gazze
incamminandosi frettolosa in direzione di Padova; Paulo Toffan, boaro al servizio della stessa famiglia, la vede dalla piazza e si precipita a dar la campana
a martello, lascia poi l’incombenza di sonare al primo che accorre e si lancia
all’inseguimento. Nel trambusto pochi notano un tale che si allontana veloce
dall’osteria attraverso i campi. Forse anzi sono due. Quanto agli altri presenti, tutti si fanno a guardare ma non si mobilitano (in termini tecnici, non
si sollevano); il solo “Michieletin” si unisce al boaro, più per curiosità che per
dargli man forte, come vedremo.
Toffan raggiunge la ragazza e l’afferra per un braccio. La giovane si lascia cadere a terra, «Copeme, amazzeme, non voglio tornar a casa» grida, ma altre
urla son quelle che arrestano il boaro: «Cospettazzo di Dio lascialla andare!
Lascia star quella putta sangue di Dio che tu non sai con chi habbi che fare!
Ricordati che tu l’hai fatta a Gio Batta Breo, che ti farò trar in terra [= ti farò
ammazzare] né me lo scorderò1».
Il giovanotto che così minaccia e si nomina è lo stesso che è corso via poco fa
precipitosamente dall’osteria: strepita ora da un prato prossimo alla strada,
spalleggiato da un compagno silenzioso. Ha l’archibugio in spalla e non lo
spiana, anche perché non occorre. Tre o quattro uomini di Bastia, lì presso
impegnati a sterrare un fosso (che fa anche da confine comunale) e chiamati
in soccorso da Paulo Toffan, si guardano in faccia (uno ha per soprannome
Faccia di rospo: particolare che non potevo tacervi), si aggrappano con prontezza e giudizio ad un cavillo giuridico (la donna è già oltre il confine del Comune), e non volsero solevarsi. “Michieletin” non mostra minor buon senso. Il
boaro molla la presa.
La ragazza si alzò, si andò ad unire con detto Breo e poi partirono. Dissolvenza.
2
Questa scena, svoltasi in piena luce ed al cospetto di numeroso ancorché
passivo pubblico, è l’acme drammatico dell’episodio intitolato Attentato rapto
della Sig.ra Anzoletta Gazza con bestemie.
Delle bestemmie sapete tutto: sono quelle che avete letto qui sopra – così si
bestemmiava allora, niente porchi, ma è l’intenzione che conta.
Della Anzoletta (nata intorno al 1640, e figlia del q. Simon Gazzo, gentiluomo padovano morto intorno al 1650: i cognomi si declinano per numero e
genere) conoscerete un po’ alla volta parecchio: basti per ora sapere che non
è lei la fanciulla che avete visto scappare.
La fuggitiva è una certa Laura, di cui abbiamo anche il cognome (o il soprannome di famiglia, quella forse dei “Ciuci”: in cerca di una grafia che lo
renda degno di comparir su carta il notaio inquirente e verbalizzante scriverà invariabilmente Laura Chiuchia). È al servizio delle signore Gazze (cioè
di Chiara, la vedova di Simon, e di Angela) si può dire per nascita, essendo
figlia della massara cui le signore affidano la loro casa di Padova (in via dei
Tadi, vicino al ponte) quando loro sono in villa. Potrebbe avere più o meno
l’età della padroncina, 16-17 anni, ed essere, nella misura concessa dai ruoli
rispettivi, una sua amica: tutto il suo comportamento nei giorni precedenti è
alt ri p rom e ssi
97
stato improntato a quei modi confidenti e disinvolti cui dà diritto l’amicizia,
non la dipendenza.
Ma è nato poi il forte sospetto, per non dire la certezza, che si sia lasciata
comperare dal nemico, ed abbia agito d’intelligenza con lui. Il nemico è, ovviamente, il Breo.
3
Non sappiamo quanti anni abbia Gio Batta Breo: attribuiamogliene, per immaginarcelo meglio, tra i venti e i trenta. Qualcuno si riferirà a lui come a
quel putto Breo, ma questo non è appellativo che possa aiutarci più di tanto a
determinarne l’età (indica piuttosto la condizione di celibe e di figlio di famiglia, come oggi toso). Per sottolinearne gli umili trascorsi si ricorderà di lui
che è stato nolegin (variante nolecio, cocchiere di piazza), ma ora ha fatto passi
avanti: è vendifen, gestisce cioè con il padre un magazzino e rivendita di fieno
in città, in contrà del Ponte dei Ta’ dentro la mura vecchia, proprio dirimpetto la
Sig.ra Chiara Gazza. Lui si definirebbe un mercante. Inoltre tiene in affitto dal
Cardinal Bragadin alcuni campi con abitazione discosto dalla villa di Bastia circa
tre miglia, in quel di Saccolongo.
I gentilhuomeni del medesimo rango della famiglia Gazzo sottolineano vivacemente la sua condizione inferiore, di artegiano, di plebeo, di vilan; ma i lavoratori di campagna e di città non tralasciano, parlandone, il Signor davanti al
nome.
Gli affari devono andargli bene, i soldi non gli mancano. Aggiungerò che è
piuttosto conosciuto fra persone di ogni ceto. Il sabato che segue al famoso
venerdì viaggia in carrozza da Saccolongo a Padova: altre due carrozze in
due distinti momenti lo incontrano. Rapido incrociarsi d’occhiate attraverso
i finestrini e quattro ragguardevoli signori padovani lo ravvisano e posso-
La campagna ai
piedi delle colline.
98
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
no testimoniare (uno di questi, quando si dice
la combinazione, si chiama Nicolò Verdabio:
cfr. par. 10).
Orbene, il giovane Breo ha messo gli occhi
sulla giovanissima dirimpettaia, la nobile Angela Gazza.
«Sapendo lui non essere suo pari et che mai mi
sarebbe capitato in pensiero che costui la pretendesse non che di dargliela», dirà la madre,
signora Chiara, «s’è andato imaginar di rapirla, non havendo riguardo alla sua conditione,
che è d’artegiano, alla mia, che è di cittadina;
et sapendo questo anco, che mia figlia havrà
di dote circa ducati quindeci mille, tanto maggiormente è andato pensando d’effettuare
questa sua mala intentione».
15.000 ducati! Gran bella dote, decisamente.
Ma forse la parola non è qui usata in senso tecnico. La ragazza è, per quel che si comprende,
l’erede unica dei beni paterni. Tanto per dire,
di cento trenta campi piantati e videgati in villa di
Arè (Arre) con un palazzo con tezze di muro, con
tutti li mobili di ogni qualità, nonché la dimora
di Padova. Quanto basta per evitare l’interrogativo: era bella l’Anzoletta?, al quale non
avremmo comunque elementi per dare risposta. Sul suo aspetto ci dobbiamo
contentare di due parole in tutto, che contestualizzerete a suo tempo, sana
et gagliarda.
4
Campi coltivati
nei pressi di
Monte Grande.
E dunque, l’artegiano Gio Batta Breo s’è andato imaginar di rapire la gentildonna. Impresa assai arrischiata, commentava il Manzoni a proposito dell’illustrissimo don Rodrigo che aveva fatto analogo disegno su Lucia Mondella,
operaia; eppure, se ci pensate un momento, il disegno era analogo solo in
apparenza e il plebeo padovano rischiava meno del nobile milanese.
Nel caso del Breo, sempre che avesse davvero in mente rapire la ragazza
(ma non è da escludere che sperasse piuttosto in un suo consenso a fuggire
con lui: cfr. par. 7), il sequestro non aveva altro scopo che quello di forzare
lei e la sua famiglia ad accettare il matrimonio. Il che, anche sul piano delle
conseguenze legali, poteva fare una grandissima differenza2. Non voglio dire
che i rischi mancassero, ma potevano essere ragionevolmente messi in bilancio a fronte dei benefici sperati.
Il progetto di rapimento non è comunque la prima mossa documentata del
Breo. Qualche settimana prima dei fatti che stiamo raccontando aveva offerto, a tu per tu, ad un uomo di fiducia delle Gazze, il boaro che già conosciamo,
100 ducati per guadagnare la sua mediazione nella richiesta di matrimonio
alt ri p rom e ssi
99
(con 100 ducati, per intenderci, si comperavano sei buone vacche). Forse Paulo Toffan ritenne poco affidabile la promessa; forse l’acuto senso dell’onore
proprio e altrui che esprimeva a parole era proprio sincero; fatto sta che non
riuscì ad immaginarsi nelle vesti di chi proponeva una simile mésalliance alla
padrona, donna, temo, incline a furie tempestose. Rispose che non facieva di
queste attioni. «Lui mi disse che era poca cosa, et che ero coglion a non pigliar
tanti soldi che in vita mia non ne guadagnerò tanti; le replicai che stimavo
più il poter andare in ogni loco come huomo da bene che il far assai denaro
et non poter andar per tutto».
Che il Breo, trovata chiusa la strada col Toffan, sia riuscito ad aprirsene una
con Laura Chiuchia è, a posteriori, facile deduzione. La spedisce da Padova a
Bastia (fino a Saccolongo l’avrà portata lui in carrozza), lunedì 11 settembre,
a fare un’improvvisata alle padrone. Le quali, come previsto, la invitano a
fermarsi, la fanno anzi mangiare quotidianamente a tavola con loro. La sua
missione? Preparare il terreno, per esempio lasciando cadere nella conversazione che li mercanti havevano belli cavalli, belle carrozze, et che le loro mogli
havevano belle zogie e simili; ma soprattutto, convincere l’Anzoletta ad uscire a
spasso con lei, in campagna, a uva, a insalata.
5
Fra quel lunedì e quel venerdì Gio Batta Breo si fa vedere spesso a Bastia, non
lontana come sappiamo dalla campagna che ha in affitto; sta generalmente
dall’oste, con la famiglia del quale è in evidente dimestichezza, e il cui esercizio dista poco più che un trar di sasso dalla casa delle Gazze. Fa in modo di
incontrarle e di salutarle mentre vanno in chiesa. Si saprà poi che per alcuni
giorni (sicuramente il mercoledì e il giovedì) ha tenuto a sua disposizione
nelle vicinanze, in questa o in quella corte, una carrozza e dei compagni.
Di questi uno è stato riconosciuto: è suo fratello, il Breo pittor, e con lui c’è
anche la moglie. Un pensiero indiscutibilmente gentile verso la candidata al
rapimento.
Il mercordi mattina, 13 settembre, il boaro Toffan lo vede, in un formenton, confabulare con Laura Chiuchia, ed è pregato poi dal Breo stesso di non andare
a dirlo in giro: curiosissima gaffe, si vede che il Breo credeva l’altro suo amico
più di quanto non fosse. Il buon Paulo, geloso dell’onore delle padrone e già
al corrente delle ambiziose mire del personaggio, si mette in allarme rosso.
Avverte la signora Chiara: badi a non lasciar uscire l’Anzoletta, guardi che la
Chiuchia dev’esser venuta per trapolar fuori di casa detta Sig.ra Angela, che il
Breo di sicuro era ivi per menarla via.
Chiara Gazza investe la Chiuchia: «Ho qualche ombra che tu sij venuta qui
per qualche cativo fine, non ne son certa, che se ne fossi certa ti taglierei le
treccie, ma guarda bene come tu tratti, perche vedi come tratto teco tenendoti alla mia tavola». La Chiuchia: «Dio guardi Sig.ra, come trovasti mai di
queste cose, sono venuta a spasso» e parole simili.
E nonostante questo, Laura Chiuchia (con cui il Breo tiene contatti frequenti
tramite l’ostessa Maria) riesce alfine a far uscire l’Anzoletta nel tardo pomeriggio di giovedì, mentre la madre è a letto indisposta, alla volta del brollo qui
100
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
attaccato alla casa che è però loco apperto. «La Chiuchia», deporrà l’Angela, «mi
disse: “Andiamo un poco avanti qui in campagna a mangiare dell’uva”, ma io
non volsi andare, et m’abatei casualmente guardar verso una pezza di nostro
formenton poco discosto dal nostro brollo sudetto, et vidi due nel mezzo
detto formenton... Bisogna [che il Breo] havesse concertato con lei che mi
guidasse a quella parte per prendermi poi et menarmi via».
Anzoletta, così racconta, alla vista dei due uomini tornò in casa di corsa.
La servetta, accortasi che non poteva fare la botta che haveva dissegnato e che era
ormai scoperta al di là di ogni possibile diniego, la mattina seguente a tre hore
di sole si partì di casa correndo verso Saccolongo, scatenando con la sua fuga l’impulsiva reazione del boaro; il seguito ci è noto.
6
Questo è praticamente tutto, per quanto riguarda l’episodio in questione.
Tutto, cioè niente. Certo la temerità di un vendifen aspirante alla mano di una
gentildonna poteva risultare di per sé scandalosa quanto un rapimento, o più:
si rileggano su questo le parole della madre (par. 3). Non ho poi dubbi che
la corruzione di una domestica, indotta per denaro a tradire i padroni, fosse
considerata un atto detestabile, un’infamia. Questo sotto il profilo del comune sentire di allora. Ma sotto il profilo, come noi diremmo, della rilevanza
penale, era davvero accaduto qualcosa?
L’intenzione, se c’era, non era neppur diventata un tentativo di rapimento,
né aveva prodotto altre azioni criminose che le bestemmie, la minaccia di
morte gridata a Paulo Toffan, il porto d’arma.
Bestemmie: non trascurabile imputazione, ma temibile in realtà soprattutto
per vagabondi, marginali, magnaccia, ubriaconi, gente di mala vita, perché
contro di loro poteva valere quale precisa fattispecie di reato e consentire una
condanna severa, a punizione di un insieme di condotte tanto poco definibili
penalmente quanto socialmente indesiderabili3.
Minacce: proferite, è vero, in presenza di testimoni, ma perseguibili solo se il
boaro se ne fosse querelato, il che non avvenne.
Armi: cosa da non darsene pensiero, quando si tratti di arcobuso longo portato
all’esterno di città e luoghi murati. Ci voleva sì una licenza4 (che il Breo avrà
probabilmente avuta): ma anche a non averla, la pratica universale era di
girare con lo schioppo in spalla (schioppo da osellare, precisavano invariabilmente gli interessati). Altro par di maniche era mostrarsi con archibusi curti,
con pistole alla cintura; ma, le avesse pur avute in quell’occasione il nostro
uomo, un opportuno soprabito, la gabanela, le nascondeva, e nessuno poté
dire di avergliene viste.
E comunque: bestemmie, minacce ed armi avrebbero potuto, se mai, essere
imputate unicamente a Gio Batta Breo. Invece non contro di lui soltanto, ma
anche contro Laura Chiuchia, in seguito a denuncia presentata il 20 settembre 16565, vien formato presso il Maleficio di Padova un processo affidato al
nodaro Prosdocimo Fanton.
Spesi senza fretta alcuni mesi, sentiti numerosi testimoni, viene deciso (23
novembre) il cauto arresto della Chiuchia (di lei soltanto: al suo nome nessuno
alt ri p rom e ssi
101
mai premetterebbe Signora), che peraltro fallisce (10 febbraio 1657: notate la
solerzia). Sia la donna che il Breo sono il 21 febbraio citati ad informar, e poiché
non obbediscono un nuovo proclama intima loro il 29 aprile di presentarsi
alle prigioni per difendersi. L’ultima nota di questa sezione dell’incartamento
registra, in data 28 giugno, una richiesta del Breo di poter disporre, prima di
presentarsi, di un altro mese per provvedere ai suoi affari: formula consueta
e normale pratica dilatoria6, che un’incuria opportunamente incentivata poteva trasformare in soluzione definitiva.
Sta di fatto che, quando circostanze impreviste imposero di spolverarlo (cfr.
par. 27), il fascicolo dormiva ormai da nove mesi un sonno che non presentiva risveglio.
7
Gio Batta Breo faceva l’amore all’Anzoletta in via dei Tadi, dal portone del
magazzino alla finestra di fronte?
La signora Chiara: «Signor no, perché tengo sempre le fenestre serate et sto
pochissimo a Padova». Ma via, Signora...
Con che occhi guardava l’Anzoletta al corteggiatore? Attraverso occhiali
di ceto sicuramente: improponibile come marito. Lei poi non era una
nobile impoverita, come sappiamo. Detto questo, che restasse da dire
qualcos’altro?
L’ipotesi che il giovanotto non le dispiacesse ha qualche appiglio. Non molto
evidente, in verità; ma a questo dovrà ricorrere chi, nel corso dei prossimi
capitoli, maturasse qualche simpatia per la ragazza, per non vedere con soverchia tristezza quel che le accadrà fra diciotto mesi.
Torniamo alla sera di giovedì 14 settembre, quando Anzoletta Gazza vide
due uomini in attesa tra gli alti fusti del mais, a poca distanza dalla casa da
Un panorama
di Rovolon
circondato da alberi
in fiore, alla vigilia
della II guerra
mondiale.
102
Le colline di Monte
Grande e di Monte
della Madonna.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
cui Laura Chiuchia l’aveva finalmente convinta ad uscire. Li vide anche un
abitante di Bastia, Giacomo “Andrian” Zambon.
Lei dice che scappò subito indietro, e se noi vogliamo crederle nessuno ci
impedisce di farlo: anche il testimone la vide andare verso casa sua (sebbene,
dalle parole che usa, non sembri propriamente una fuga), ma non può precisare se prima ella avesse o no incontrato più da vicino quei due.
Quel che voglio insinuare è che forse la loro vista non fu per Anzoletta quella
sorpresa che lei ci vuol far credere: potrebbe darsi che lei fosse uscita apposta
per vederli, o meglio per vedere uno dei due (è uscita, ricordiamolo, dopo
che il Toffan aveva già messa in guardia la madre), e gli avesse davvero parlato. E magari il Breo, nella speranza di persuaderla a scappare con lui, se non
quel giorno il giorno dopo, perse l’occasione di portarla via con la forza.
Spingerebbe a pensarlo la parola di un’altra testimone, assai meno estranea
ai fatti, sospettata anzi di complicità e dunque meno credibile nelle sue affermazioni: l’ostessa Maria. La quale ammette spontaneamente (e non so
perché dovrebbe mentire su questo) di aver portato alla giovane gentildonna
la richiesta di un abboccamento da parte del Breo. Sostiene che Angela ha
rifiutato di uscire perché la madre era a letto ammalata; che a questo punto
la Chiuchia di sua iniziativa si è offerta a lei, Maria, di portar fuori la ragazza
con pretesti (qui, ovviamente, la sua versione non ci convince affatto); che
quella sera stessa il Breo le ha confidato che l’Anzoletta era pronta a scappar
di casa insieme a lui. Davvero l’uomo era tornato con questa convinzione
dal colloquio (se l’aveva ottenuto), o cercava solo di tranquillizzare l’ostessa,
convincendola che non ad un ratto stava dando mano, ma ad una fuga d’amore? Oppure è costei che vuol convincere l’inquirente d’averlo creduto?
Interrogata se la Signora Anzoletta poi fosse d’accordo di fuggir con il Breo, l’ostessa
Maria rispose con molto buon senso: «Io non lo so, ma se fosse stata d’accordo poteva fugire, che non v’era chi potesse tenirla». Possiamo anche noi,
visto come sono andate le cose, escludere che Angela fosse pronta a fuggire
alt ri p rom e ssi
103
con il Breo; uscire, però, era uscita. E forse solo quando fu rientrata seppe
di non voler correre la fascinosa avventura, si pentì dell’audacia propria, si
spaventò dell’altrui, diede alla madre la versione che sappiamo (cfr. par. 5),
finendo di inguaiare la serva già sospettata.
Un comportamento incauto, incoerente, contraddittorio, propenso a scaricare su spalle altrui la propria parte di responsabilità, non sarebbe per questo
meno plausibile: anzi, vorrei quasi dire.
8
Aggiungiamo un paio di notizie sulle azioni del Breo successive a quella mattina del 15 settembre 1656.
Il nostro è un pianificatore, avrà altre occasioni di dimostrarlo, né successo
né insuccesso possono coglierlo di sorpresa, e la sua ritirata non è una rotta
disordinata. Nell’abitazione di Saccolongo riunisce i compagni della fallita
impresa (la Chiuchia, il fratello con la moglie, un altro huomo scarmo d’ettà
d’ani 36 in circa non meglio identificato), e per prima cosa scrive una lettera compitissima (il giudizio è suo) alla signora Chiara Gazza chiedendole un
colloquio; poi una seconda al suo carissimo ms. [messer] Fabio oste di Bastia
(questa è acclusa agli atti processuali, l’altra no), perché metta bone parole con
la signora Chiara se questa lo mandese a trovare per fargli lecer la letera7, e perché lo raggiunga a Saccolongo onde potergli discorrere abocha. Il giorno dopo
tornerà a Padova in carrozza (cfr. par. 3).
Il processo avviato contro di lui non lo allontana dalle occupazioni e dai
luoghi consueti. Risulta che dia ricetto, oltre che a Laura Chiuchia, ad un
servitore delle Gazze: entrambi corrotti da lui, entrambi smascherati, si sono rifugiati presso quij vilani nominati li Breij8. Risulta anche che continui a
frequentare Bastia, ad infastidire ed a preoccupare le Gazze, appoggiandosi
logisticamente non più all’osteria, ma alla casa del frate della chiesa della Bastia,
vicina a quella delle S.re Gazze che non vi è altro che la strada in mezzo, a far l’amor
con la S.ra Anzola se bene essa non voleva consentirgli; et lui per mezo di quel frate
procurava insinuarsi in casa di dette donne, anzi per questa causa le dette donne
s’inimicarono con detto frate9.
Parecchi mesi dopo, nella notte che precede un’alba di cui riparleremo (quella di lunedì 25 giugno 1657), movimenti d’ignoti figuri presso la casa destano
allarme, sempre che vogliamo prender per buona questa informazione di
fonte sospetta10. In altra occasione un contadino confessa d’essere stato pagato (doi scudi d’argiento) dall’indefettibile Gio Batta perché gli procuri alcuni
effetti personali di Anzoletta (una cordella, o vero una scarpa) per poterle fare
un strighamento.
Una casa resta senza donna ed un’altra senza uomo
9
A Padova, in un palazzo di via san Pietro (contrà di San Piero), abitava allora
104
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
un ramo dell’importante famiglia dei Bellacati (anche Belacati, Pellacati, Pelacati: sono fortemente tentato di vedere nelle diverse forme del cognome
altrettanti sforzi d’allontanamento da un originario Pelagatti, che direbbe
bene di un’inclinazione riaffiorante qua e là nella discendenza. Ai Bellacati
piaceva comunque il loro cognome, che ricorre nelle loro generazioni anche
come nome proprio). Un Bellacato dottor, un Alvise medico, fratelli, si erano
trasferiti a Padova da Brescia verso la metà del ’50011, e il primo dei due è
l’antenato dei personaggi che incontreremo.
Non potevano vantare una nobiltà araldica comparabile con quella dei Gazzo, che discendevano da un Manfredino podestà di Padova nel 1206 o amavano crederlo e farlo credere, ma erano forse anche più ricchi. Accolti a pieno titolo nel novero della nobiltà cittadina, sedevano da un secolo quasi nel
Maggior Consiglio e da decenni partecipavano alle cariche più alte12.
Il 20 febbraio 1657, cinque mesi dopo i fatti esposti nel primo capitolo, nella
casa di via san Pietro muore Camilla, moglie di Ottavio Bellacato.
Il vedovo è sulla sessantina, e non si sente troppo bene neanche lui. Gli amici
che vanno a trovarlo (i nobili signori Daniel Boromeo e Francesco Giusto)
lo trovano a letto, prostrato dalla perdita subita e più ancora dalla preoccupazione per la sua casa rimasta senza governo. A questo si rimedia facilmente,
gli suggeriscono: fai sposare tuo figlio Bellacato (dev’essere sui 15-16 anni;
di poco più piccolo è Girolimo o Momolo, figlio naturale di Ottavio e pure
convivente). Mio figlio? Scherzate! È troppo giovane. Le putte non voglion vecchi, gli ribattono, e giù subito a fare elenchi di possibili candidate.
L’idea buona viene al Giusto, che sta di casa vicinissimo alla dimora padova-
Anni ’50
del secolo scorso.
La famiglia
di Giovanni
Paccagnella,
con la moglie
Bruna Giona che
tiene in braccio
il figlio Oreste e,
a lato, Rebecca
Vanni. Davanti
i due figli Orfeo
e Orlando.
alt ri p rom e ssi
105
na dei Gazzo: chiedere l’Anzoletta. «Fra le altre – deporrà – le nominai questa
putta Gazza, dicendogli che sarebbe stata un buon partito per il giovine, rispetto che anco haveva la madre, donna di buon spirito, et che sarebbe stata
atta a governar la sua casa».
Tutti i presenti a quel colloquio insistono volentieri sulla tesi dei due piccioni con una fava, che appare come il peso che fa pender la bilancia; nessuno
invece riferisce che si sia fatto cenno all’ingente eredità destinata a seguire la
fanciulla: ça va sans dire, letteralmente.
I Boromeo erano un po’ parenti della Chiara Gazza (un Antonio Boromeo
è nominato come suo cognato), anche se non risultano rapporti fra lei ed il
signor Daniel; in ogni caso, non è costui che si incarica della trattativa, anche
perché per aver la putta bisogna parlare non con la madre, ma con lo zio
Teodoro Boattin, e dunque un compadre di questo, il Sig.r Nicolò Verdabio, sarebbe stato buon mezzano, come quello che altre volte haveva tratato anco con il Sig.r
Ludovico Frecimelega (Frigimelica, famiglia padovana di primissimo piano) per
questa putta Gazza, negotio che non si era poi concluso.
10
Del già nominato Nicolò Verdabio (cfr. par. 3), egli pure abitante nella stessa
contrà dei Giusti e dei Gazzo, nodaro ottimamente piazzato nell’élite, membro
del Maggior Consiglio, solito ricoprire incarichi pubblici, non sento il bisogno di dirvi altro; si sappia comunque che appartiene alla considerevolissima
schiera di notabili cittadini solidale coi Bellacati nel corso delle vicende che
seguiranno.
Di Teodoro Boattin dirò subito tutto quel che posso. È invariabilmente designato come cognato della signora Chiara; faccio l’ipotesi che sua moglie Marietta, cui si accenna casualmente nel processo, sia la stessa persona di una
Marietta Gazza zia dell’Angela (altra apparizione di striscio). Teodoro avrebbe sposato insomma la sorella del padre dell’Anzoletta.
Era lui quello che haveva in custodia la detta giovine et la madre anchora, secondo
Daniel Boromeo: questo significherà, per come lo intendo io, che pupilla e
patrimonio gli erano stati legalmente affidati in tutela, e poiché la dote a suo
tempo portata da Chiara non era scorporata dai beni della figlia (cfr. par. 15),
anche la vedova di fatto dipendeva da lui. Credo che la casa di Bastia dove
abitano spesso le due donne sia del Boattin, anche se per la maggior parte dei
testimoni è la casa delle Sig.re Gazze. Lui stesso ci abita, così come a Padova
abita nella casa di via dei Tadi (questa sicuramente facente parte dell’eredità
paterna di Angela). Nell’episodio del primo capitolo non appare mai, salvo
che per un accenno contenuto in una frase del fido boaro, da cui risulta momentaneamente assente – e tocca infatti al Toffan in quella circostanza sostenere la parte dell’uomo di casa.
È invece sicuramente a Bastia fra l’inverno e la primavera del ’57, insieme
alle parenti. Se qui avete sussultato sorpresi avete fatto benissimo: a Bastia
in febbraio, in marzo? Non son mesi da starsene in campagna, quelli, clima
cattivo, fango dappertutto, pochi lavori, niente raccolti, e poi c’è il carnevale:
ma il nostro piccolo nucleo ha altro per la testa che balli e maschere. Te-
106
Villa Manfredini
ripresa sul finire
del secolo XIX
per una cartolina
illustrata.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
odoro Boattin è stato proclamato
per l’inquisitione, e teme di essere
arrestato; anzi, la Chiara Gazza
haveva mandato fuori di casa (da
quella di via dei Tadi) il meglio che
vi fosse, per tema che capitassero gli
sbirri per retenir il Sig.r Boatino13.
Dal che si trarrà conferma che realmente la Chiara, donna di buon
spirito, sa governare una casa con
previdenza (prevede facilmente per esempio che gli sbirri si
contenterebbero di portar via al
posto del proclamato ogni cosa di
valore): niente di preciso si ricava
invece sul genere di guai giudiziari in cui il Boattin si trovava. Riunendo gli sparsi accenni che sono in questo incartamento, posso però dire
qualcosa della sua battaglia procedurale.
Al nostro doveva essere stato intimato, come si usava di frequente (l’abbiamo
visto già per il Breo), di presentarsi alle carceri per far le sue difese (e nel
frattempo si stava dentro): naturalmente, presentarsi non si usava con altrettanta frequenza (visto anche questo), e, fidando nella lentezza e trascurataggine degli apparati repressivi (visto), si lasciavano scadere i termini prescritti,
e intanto si frapponevano appelli, richieste di un nuovo termine (visto), ecc.
Un nuovo termine (cioè la proroga della data ultima per la presentazione) effettivamente il Boattin lo ottenne quella primavera, credo a maggio; se era,
come normale, di un mese, scadeva in giugno, e Teodoro visse abbastanza da
giocare la carta successiva: non un giorno di più, come vedremo.
Non so quali fossero i rapporti quotidiani fra la Chiara e il cognato. Burrascosi, secondo una testimone14, intenzionata però a presentare la Sig.ra Gazza come un caratteraccio lunatico e insofferente: mai lo lasciava star col dirli
che voleva levarsi da quella casa, che non voleva star sotto l’obbedienza di alcuno e
(voleva) retirarsi da sua posta, et per tal causa ogni giorno se gridava. Fosse anche stato così, sta di fatto che era lui l’unico uomo a cui la vedova potesse
appoggiarsi.
Per tutto il seguito di questa storia nessun altro parente, e del resto nessun’altra persona che appartenga al suo ceto, muoverà un dito o dirà una parola a
suo sostegno. Magari la madre Gazza era davvero un essere insopportabile e
aveva rotto i rapporti con tutti; magari lo scontro in cui si troverà coinvolta
apparirà al parentado troppo impari per arrischiarcisi (Chiara sosterrà che
lei e sua figlia erano abbandonate da parenti per spavento). Certo un simile isolamento fa impressione, in una società come quella, in cui relazioni di consanguineità, solidarietà di stirpe, alleanze di famiglia costituiscono obblighi
cogenti e insostituibili garanzie.
Questo isolamento dalla parentela vale anche per il Boattin, che a Padova,
dove non può farsi vedere, necessiterebbe di assistenza per la sua vicenda
alt ri p rom e ssi
107
processuale e dice testualmente «li mieij parenti non me ne posso valer di
cossa alcuna». Non sembra però privo di appoggi fra le persone che contano, a Padova e a Venezia: allude in un’occasione alla protezione dell’Ill.mo
S.r Marco Priulli suo S.re; oltre che compare del Verdabio è poi amico, per
esempio, di Gasparo Scoin, che ha casa al ponte di San Zuanne ed appartiene
alla crema della società cittadina, quella fra cui turnano le cariche (era per
quell’anno membro del Consiglio dei Sedici, anche se la mattina di domenica
24 giugno 1657, tenete a mente la data, venne sostituito in tale incarico perché destinato ad assumerne uno diverso in luglio).
11
Fra Nicolò Verdabio (pregato dal Giusto e dal Boromeo) e Teodoro Boattin
si sviluppa fra marzo e maggio una regolare corrispondenza. Quattro lettere
del secondo sono accluse al processo, ed il loro argomento principale, ma
nient’affatto unico, è la trattativa di matrimonio.
Le due Gazze, informate della proposta, mostrano un acconsentimento non
entusiasta («la Sig.ra cugnata ne meno mia nezza non ga dispiaciuto») e nessuna fretta di concludere («come sarà quetatto questo mio negotio – i problemi giudiziari, naturalmente – o in bene o in male... si tratterà et spero che si
possi affetuare il tutto»).
Fra le altre cose che dalle lettere del Boattin si ricavano almeno due vanno
ricordate. Una già l’accennavamo: non sono terminate le preoccupazioni a
causa di Gio Batta Breo, e Teodoro, in esilio dalla città, soffre di non poter seguire da presso gli sviluppi del processo istruito contro costui, perche si tratta
della reputatione.
L’altra è che i Bellacati sono per lui qualche cosa di più di un nome noto: «Sa
bene li ll.mo S.r Ottavio che li son servitor vechio, che quello non facesse per
La villa
di Frassanelle
allo scadere
del secolo XIX.
108
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
luij non lo fareij per niuno, che sia sichuro che quello dependerà dalla mia
volontà farò tutto aciò resta servito».
L’ultima lettera, del 14 maggio, dichiara l’intenzione del Boattin (cui il nuovo
termine restituiva libertà di movimento) di venire a Padova con le donne, «et
se sequirà quel tanto che converà»: non sa dire quando, perché lui è in cattiva
salute e le due Gazze sono impegnate a dirigere il grande bucato di primavera, il primo dei due annuali («come starò melglio delli miei piedi et cossie
che mi butano la febre adosso et che queste gentildonne habiano fenito la sua
lisia veremo»). Uno dei due impedimenti, credo, si protrasse troppo a lungo,
e la proroga doveva essere scaduta quando il Boattin si decise a recarsi a Padova: forse per questo ci andò da solo, e arrivò giusto fino a casa di Gasparo
Scoin, abbastanza vicino all’ingresso della città per chi veniva dalla parte dei
colli Euganei.
Qui, nella dimora dell’amico, in una sera che è probabilmente quella di sabato
23 giugno 1657, incontra Ottavio Bellacato accompagnato da Nicolò Verdabio.
Del colloquio, è da presumere, sarà stato testimone anche il padron di casa.
Secondo Ottavio Bellacato e Nicolò Verdabio in tale occasione il negotio fu concluso e la ragazza venne promessa, anche se non si mise nulla su carta, rimandando la scrittura nuptiale al momento in cui anche le Gazze fossero presenti.
Sono abbastanza incline a prestar loro fede su questo: mi piacerebbe però
che tale accordo esclusivamente verbale fosse stato confermato dal Boattin
e, perché no, dallo Scoin. Questo non fu, ahimè, possibile.
Sta di fatto che in quel medesimo incontro, essercitando la confidenza di parente, esso Boatino pregò il S.r Ottavio che li facesse sicurtà in forma all’officio dell’inquisitione, intendendo presentarsi, e già la mattina dopo il Bellacato ghe fece la
sicurtà de ducati 300 de ritornar all’obbedienza della Giustizia: insomma (e questo viene sottolineato quasi implicita conferma del patto concluso), impegnò
i suoi soldi e il suo nome per garantire dell’intenzione del Boattin di presentarsi, rimettendolo così temporaneamente al riparo dall’arresto.
Bastia. Festa
dei catechisti e
delle catechiste
diplomati
nell’anno 1938.
alt ri p rom e ssi
109
Esemplare sollecitudine, come vedete; credo del resto che quella domenica
mattina Ottavio Bellacato si trovasse già in centro, in zona uffici, per partecipare alla seduta del Consiglio maggiore (cfr. par. 10) in cui fu eletto un nuovo
deputato al posto di Gasparo Scoin il qual doverà entrare in Banca15.
Restituito dopo mesi, grazie a tale cauzione, alla libertà di mostrarsi per le
strade di Padova, Teodoro Boattin quel pomeriggio stesso fece quello che
avremmo forse fatto voi ed io, uscì a passeggio con l’amico Scoin; e nei pressi del ponte di San Giovanni, per ragioni che non so, da chi non so, l’uno e
l’altro furono trucidati a schioppettate. Forse uno dei due è morto soltanto
perché era in compagnia dell’altro, forse no. Intorno a questo assassinio, che
certo Padova intera commentò a lungo, non ho trovato altro che gli avari
accenni contenuti in questo incartamento. E pensate che rabbia: le allusioni
sono tanto asciutte proprio perché nessuno si dilunga sopra un fatto di cui si
è già tanto parlato, di cui tutti sanno tutto.
12
Di quel che vi ho raccontato fin qui sono abbastanza sicuro, anche se le Gazze negheranno alcuni particolari di non poco conto (diranno, ad esempio, di
essere state perfettamente all’oscuro della trattativa di matrimonio: ma perché il Boattin avrebbe dovuto tacere con loro, e scrivere intanto al Verdabio
di aver avuto il loro consenso?).
Da qui in poi, non sono sicuro che alcune cose siano accadute davvero, e
quanto ai non pochi fatti indiscutibili, essi sono interpretabili, e vengono interpretati dai protagonisti, in opposte maniere. Fra le diverse interpretazioni
ho le mie preferenze, ma anche quando la plausibilità sembra stare nettamente da una parte (e non sta mica sempre dalla stessa, ma nell’essenziale da
una sì), non voglio rinunciare a mostrarvele entrambe. Separatamente, però:
vi racconterò insomma due storie diverse, una dopo l’altra.
La prima delle due è quella che avreste sentito dalla bocca di Ottavio Bellacato, o di Bellacato Bellacato, suo figlio e promesso sposo di Anzoletta, o di uno
dei loro numerosi e altolocati amici.
Un avvenimento stravagantissimo
13
«Mentre si ritrovassimo il S.r Ottavio et io in casa del Turchetto in questa
città capitò nova che era stati interfetti li S.ri Theodoro Boatino et Scoino di
nome Gaspare. Ciò da me inteso dissi al medesimo S.r Pellacato che non vi
era tempo da perdere se lui desiderava d’haver la putta per suo figliolo, come
gli era stato promesso da suo barba Boatino, perche sapevo che vi eran altri
che la pretendevano d’haverla con violenza».
Come se il diffondersi della notizia che un’ereditiera era rimasta senza protettore dovesse avere l’effetto stesso del sangue che si spande in acque tropicali
pullulanti di squali; e su questo neanche voi, quando avrete letto la storia, vi
110
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
sentirete di dar torto a Francesco Giusto. È lui infatti che parla così, e l’ombra
minacciosa evocata è naturalmente quella di Gio Batta Breo (riferimenti alle
insidie provenienti da quella parte erano contenuti nelle lettere del Boattin).
Con sorprendente rapidità agiscono ora Ottavio Bellacato e i suoi amici, decisi ad arrivare a Bastia prima che la nova vi giunga dalla città16. L’omicidio era
avvenuto nel pomeriggio, lo avranno appreso ad un’ora ormai troppo tarda
per una partenza immediata: ma la sera stessa Ottavio ottiene dall’allora Capitano di Padova, Angelo Giustinian, suo singolar Sig.re (intendo che il nobile
padovano avesse un particolare rapporto di clientela col nobile veneziano,
individuale o familiare che fosse il legame), che gli faccia aprir le porte nell’alba
la matina seguente.
«Et così – restituisco la parola a Francesco Giusto – la mattina a bon hora
partissimo da questa città in quattro [con due servitori cioé], et passassimo
d’avanti alla casa [la residenza di campagna] del S.r Nicolò Verdabio à Tencarola, al quale raccontassimo l’accidente della morte di quelli due S.ri, lo
pigliassimo in carozza come quello che haveva tratato il negotio della putta
con suo zio et ci portassimo tutti alla Bastia».
Ognuno dei nostri ha, com’è naturale, il suo schioppo con sé; stavo per dire
che solo un frate avrebbe viaggiato senza, ma non lo dico, perché mi sono
venuti in mente i nomi di un paio di frati che viaggiavano con.
A Bastia tutto è tranquillo: nella casa di Teodoro Boattin, da poche ore quondam, ancora si dorme.
Chiara Gazza si mise in un pianto grande alla nuova della morte del cognato
(«che apunto non havevo altri che facessero per me se non quel solo et unico
parente», dirà, e con ragione), ma, quetate le lacrime, altra è la questione che
urge. Il povero Teodoro, che il Signor l’abbia in cielo, aveva promesso l’Angela
a Ottavio Bellacato per moglie di suo figlio; Nicolò Verdabio, lì presente, può
testimoniarlo; è avvenuto questo con loro consenso, ratificano madre e figlia
l’operato del parente?
Tutti i membri della spedizione padovana riferiranno la risposta di Chiara
quasi con le stesse parole: «Che se il S.r Teodoro fosse visciuto e si fosse pentito, ad ogni modo esse non si sariano mai pentite».
Più o meno questa è anche la versione di Gio Batta Bonetti, altro compare
del Boattin che era venuto a trovarlo a Bastia, da Vicenza dove risiedeva, a
prender meglio aria perché convalescente da una malattia, e si trovò presente
all’incontro17.
Mentre è in corso questa visita (avvenuta, se i miei calcoli son giusti, lunedì
25 giugno 1657) arriva un fachino da Padova con una lettera della famiglia
Scoin che, oltre a portare l’ormai superflua tragica notizia, chiede istruzioni
e denari per la sepoltura di Teodoro Boattin. La Chiara non ha liquidi, Ottavio cava di tasca 4 o 5 zecchini e li passa al Verdabio, che manda ad un amico
tramite il messo medesimo soldi e istruzioni (il defunto riposerà nella tomba
di famiglia dei Gazzo, nella chiesa di sant’Agostino ora scomparsa, presso
l’attuale riviera Paleocapa).
Altri denari Ottavio dà a Chiara per far tuor su il racolto, che era in stato; le lascia infine in prestito uno dei due servitori che aveva condotto seco, Pompeo
Patella, che possa sovrintendere ai lavori della campagna (non c’è traccia in
alt ri p rom e ssi
111
quest’occasione della presenza di Paulo Toffan, chissà che fine ha fatto), ma
soprattutto che possa vegliare su quella casa restata senza uomo («perche
dubitavano che detto Breo capitasse a fargli qualche insulto essendo morto
il suo cognato»).
È Chiara stessa a chiederlo, che se potesse si trasferirebbe immediatamente
a Padova (a questo punto probabilmente riferisce d’essere stata spaventata
proprio quella notte da gente che si aggirava presso la casa: cfr. par. 8), ma
come si fa?, con il raccolto da seguire, con la residenza di città praticamente
sguarnita di mobilia, e senza disporre di abiti adatti al lutto...
14
Nelle settimane successive più volte per vario tramite (e con lettere scritte,
pare, dal Bonetti) la signora Gazza comunica con Ottavio, si fa mandare altri
soldi, chiede un incontro ufficiale tra i novizi. Una nuova spedizione consente
l’incontro, che assume i caratteri propri degli sponsali, di un rito di sposalizio
nel senso antico, extraecclesiastico, del termine: alla presenza dei consueti
Giusto e Verdabio avvengono il gesto del toccamano, un regalo di gioielli (una
gargantiglia, una collana cioè, ed una vereta con un diamantino), il bacio.
Al termine di questa visita, o, meno probabilmente, di una spedizione successiva, le due donne salgono in carrozza con i nuovi parenti (per la precisione,
il giovane promesso sposo, in serpa, carozzava personalmente) e via tutti a
Padova, con grande alegrezza, e con soste lungo la strada nelle ville di amici
che si felicitano, brindano, augurano.
Le due donne, vi meraviglierete, non smontano a casa loro, ma a casa dei
Bellacati, inaugurando una convivenza che va da quella seconda metà del
luglio ’57 al 17 marzo 1658.
15
Da subito, o quasi, i due giovani promessi cominciano uniti andare al letto.
Sul loro affiatamento abbiamo in tutto poche intenerite parole di un amico
di famiglia: «Vedevo questo gentil homo [Bellacato Bellacato] ...che molto
amava la S.ra Anzoletta destinatagli per isposa, alla quale faceva carezze che
Bastia.
Bambini e bambine
della Prima
comunione fatta
nel maggio 1938.
112
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
parevano fossero puttini»; puttini magari no, ma non fanno 35 anni in due.
Ad una più ufficiale cerimonia nuziale in forma religiosa naturalmente si pensa, ma senza fretta: anche perché la Chiara Gazza, avanti che fosse sposata la
S.ra Anzoleta sua figliola, teneva a risolvere una questione patrimoniale. Dai
beni ereditari della figlia voleva in qualche modo scorporare ciò di cui era
personalmente proprietaria, cioè la sua dotte e controdotte: come in effetti fece
(direi alla fine d’agosto), assistita dal dottor Pochini (già Avocato del q. S.r Boatino suo congionto) e dal S.r Paulo Gragnoti proccurator, con l’incaminamento di
quegli atti che si potranno veder nei pubblici registri.
A sentire Ottavio Bellacato la Chiara agì in perfetto accordo con lui, che non
voleva se non le sue sodisfationi. Lo contraddice (involontariamente, penso) il
suo amico Giusto, che ricorda di aver cercato di mediare un vivace conflitto
fra i due, e di aver parlato alla donna «per divertirla dall’intentione che haveva di voler ella star in casa del S.r Ottavio e manezar la sua dotte come gli
paresse, che il S.r Ottavio non si contentava volendo contribuirghe un tanto
all’anno». Tanto era disgustata la signora che minacciava di andarsene da
quella casa portando seco la figlia, promessa o non promessa. Comunque sia,
il pagamento di dotte, o, per essere più esatti, l’assicurazione del suo valore in
beni stabili, l’ottenne.
Veramente neanche Ottavio nega che ci siano stati momenti di tensione e
minacce di sfascio della nuova famiglia: ma li riconduce ad altro motivo. La
Gazza madre avrebbe voluto raddoppiare gli sposalizi, e impalmare personalmente lui, il Bellacato padre: in questo senso su di lui faceva pressione
valendosi degli offici del giovane Bellacato. Al che rispose che essendo vecchio,
né buono per donne, né bene asciutte le lacrime di sua moglie, non poteva in questo
satisfarla. Sarebbe stata questa ripulsa a mandare in furia la madre, a farle
esprimere il proposito di menar via la figlia. Se vuole andarsene lei, padrona,
le si manda a dire, ma la Sig.ra Anzoletta era gia destinata in moglie al S.r Bellacato... e sopra la fede di matrimonio haveva dormito 40 e più notte con esso: non era
il dover che la levasse.
Troppo giusto, troppo evidente. Parve che la sudetta Sig.ra Chiara si acquietasse.
Parve, ma da qui, ci vuol dire Ottavio, covò in lei l’avversione per quell’unione e per quella convivenza.
Più o meno in quel periodo si trasferiscono in ca’ Bellacata dalla residenza di
Bastia diversi mobili (la parola aveva un senso più ampio di quello odierno: si
tratta qui soprattutto di biancheria), di cui si fanno valutazione ed elenco con
l’aiuto di un tecnico stimador di monte (dei pegni), e la Chiara, ufficialmente
investita del governo, riceve chiavi e liste dei mobili di casa.
16
Verso la fine d’agosto, o all’inizio di settembre, la Chiara vuole essere portata con la figlia nella villa che i Bellacati hanno a Tremignon, vicino a
Piazzola, ove haveva inteso haver belle cose. Le due donne vi si trattengono
con molto gusto e molto a lungo (aggiungeremo che è il momento della seconda lisia dell’anno, da farsi entro la fine della bella stagione), a periodi
con qualcuno dei Bellacati, a periodi sole. Ottavio Bellacato, in particolare,
alt ri p rom e ssi
113
deve seguire i suoi affari nelle numerose campagne che possiede (ha, per
esempio, un’altra villa con relative pertinenze a Vigonza, nonché terre date in affitto all’Arcella e altrove), e deve inoltre recarsi a Conselve, di cui è
stato eletto vicario.
Di sicuro in settembre, diciamo verso o dopo la metà del mese, lo sposo Bellacato Bellacato è lì con Anzoletta, visto che la ragazza resta incinta. Quando ne sarà stata certa, e l’avrà comunicato? Non prima di novembre, si può
supporre.
Et essendo di già la Sig.ra Anzoletta resa gravida, la verità è che esso S.r Bellacato
haveva deliberato per ogne buon termine di convenienza di voler che il S.r Bellacato
suo figliolo sposasse la Sig.ra Anzoletta privatamente in detta villa; al che, se bene
esso S.r Ottavio ne fece molte instanze, non volse mai condescendervi la Sig.ra Chiara, dicendo che essendo sua figlia gentildonna voleva che fosse sposata in città, il che
causò dilatione di matrimonio.
Due cose avvengono quasi contemporaneamente poco prima di Natale: le
Gazze tornano a Padova (il 20 o il 21 dicembre), e Ottavio Bellacato viene
arrestato e messo in prigione. Il che, dato il calibro del personaggio, autorevolissimo in Padova e investito proprio in quei mesi di un vicariato, deve discendere da imputazioni di gran peso, legate forse ai suoi incarichi pubblici.
Per la terza volta un caso estraneo alla vicenda che qui si narra ne incrocia
il percorso, e per la terza volta devo rammaricarmi di averne finora cercato
invano altre tracce archivistiche. Se dispiace alla vostra curiosità, figuratevi
alla mia.
La detenzione comunque non divertì punto Ottavio dalla sua rissolutione, perché
fece elevar un mandato episcopale, il Carneval del 1658, perché potesse essa Sg.ra
Anzoletta sposarsi privatamente, et sarebbe seguito se la Sig.ra Chiara non si fosse
oposta, dicendo che vol aspettare che il S.r Ottavio esche di prigione.
Bastia.
I catechisti e
le catechiste
diplomate
nell’anno 1937
mostrano
orgogliose la
pianeta rossa con lo
stemma vescovile,
ricevuta quale
premio per il terzo
posto raggiunto
nella graduatoria
diocesana.
114
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
17
Di prigione il signor Ottavio non uscirà più: ci morirà l’estate successiva, ma
questo per ora nessuno può saperlo.
Basta però la notizia del suo arresto a riaccendere mire e trame della vecchia
nostra ostinatissima conoscenza, Giò Batta Breo. Così almeno ricostruirà i
rapporti causali e temporali Bellacato Bellacati, lo sposo, nei suoi capitoli,
esposizione ordinata per punti di fatti e circostanze su cui si chiede l’escussione di testi (era naturalmente opera di avvocati). Alla forzata assenza da casa
del vecchio corrisponde l’introduzione di una presenza nuova, quella di una
tal Gasparina che prende a frequentare quotidianamente le Gazze in qualità
di cameriera non residente.
Indovinate che cosa aveva fatto costei, che già era stata al servizio del Boattin, nell’intervallo fra la morte del vecchio padrone e l’assunzione del nuovo impiego? Ma era stata alle dipendenze del Breo, naturalmente: più come
amante, si aggiunge, che come serva. Come sua agente in ogni caso viene
insinuata nella casa stessa Bellacata e posta al fianco delle nostre donne, ed
introduce alla loro dimestichezza pure una complice, una tal dona detta la Secha, moglie del cogo dei SS.ri Frizimelega, con la quale abita lì presso. Per questo
doppio tramite il Breo si lavora le Gazze.
Le loro seduzioni rinfocolano facilmente in Chiara l’avversione per la casa
Bellacata e il desiderio di una piena indipendenza, così che tutte e tre si danno a pressare la giovane Anzoletta perché si convinca a mollare lo sposino e
a cambiar sorte. La ragazza resisteva, che lei non si voleva partire dalla casa del
S.r Pellacato in alcuna maniera perche lo teniva in conto de padre... che non voleva
assolutamente far una cosa tale, che credeva esser amata e reverita da tutti, che non
era di dovere usargli un affronto tale. Curioso che manchino, fra questi argomenti (stiamo seguendo, ve lo ricordo, la versione dei Bellacati), i due che
ai nostri occhi sarebbero i più forti: voglio stare col mio sposo, e aspetto un
figlio da lui.
Bastia.
Il gruppo
delle missionarie
ripreso nel 1938.
alt ri p rom e ssi
115
L’assedio comunque non si allentava. Gasparina e la “Secca”, può testimoniarlo una vicina, uscendo al mattino di casa scherzavano fra loro: «Andiamo a conzar la testa alla S.ra Anzoletta», quasi volessero dire: a pettinarle
il cervello.
La testa della signora Anzoletta non è docile da conzare, se prestiamo fede a
coloro che nel corso stesso dell’episodio cui tra breve assisterete (v. par. 18)
la videro afflitta e mesta... pianger dirottamente, dimostrando contro sua voglia
esser guidata dalla Sig.ra Chiara sua madre.
Anche ad altre attività si dedicano, a quanto pare, la Gasparina e la “Secca”.
Per esempio asportano a più riprese dalla casa, con la connivenza della signora Chiara, viveri e biancheria. Ma soprattutto, è da presumere, mediano un
fitto scambio di messaggi fra la Chiara e il Breo.
Trascorre intanto il carnevale sfiorando appena la casa il cui padrone è incarcerato. Una sera entrano in casa alcune maschere, le più belle maschere che si
possi vedere, a scherzare con le signore. A posteriori si riterrà che fra di loro
ci fosse il Breo. «Un sabbato de sera in tempo de quadragesima [il primo sabato di quaresima cadde quell’anno il 9 marzo: questa, o quella del 16, sono
le uniche date possibili] ...capitorno alcuni sonadori sotto le nostre finestre»,
racconta Orsola, massara dei Bellacati; «sentij la S.ra Chiara dir verso sua
figliola: vedito figliola che belle musiche, se dio vorà ghe ne haverai quante
vorai... Io poi le dissi se conoscevano quelli sonadori, la S.ra Anzoletta me
rispose: forse che sì che li conosco».
18
Alcuni mesi fa il S.r Bellacato Bellacato fig.lo del S.r Ottavio contrasse sponsali con
la S.ra Anzoletta Gazza, et le donò conforme il costume de sposi una gargantiglia di
gioie, le toccò la mano, la tradusse a casa come moglie, et havea già elevato mandato
episcopale per poterla sposar in casa, che subito non si essequi per la prigionia del S.r
Ottavio padre del sposo.
Essendo in questo stato le cose, è seguito avenimento stravagantissimo; un tal Batta
Breo, artigiano temerario sopra il credere, et che altra volta faceva il vago con la detta
Anzoletta, le tese insidie et tentò rapirla, presa occasione opportuna dalla prigionia
del sodetto S.r Ottavio, hieri, 17 del corente, ha con maniere infami fatte portar la
Sig.ra Anzoletta et madre di lei in una casa vicina alla Bellacata scortandole con
vinti in circa tutti armati d’arcobugi longhi et curti, et poi entrato in essa casa, che
è della Sig.ra vedova Benedetti, ardi per forza far poner li cavalli della medesima
sudetta sotto la carrozza, et quelle condusse dove più le piacque.
Questo fatto gravissimo per tanti riguardi ha commossa la città tutta, vedendo
un’artiggiano tanto ardire di levar con altissima ingiuria dalla casa di conspicuo
gentil’huomo una giovane gentildonna sposa del figliolo; qual sij le conseguenze che
succeder possono ben le comprende la somma sapienza di Vostra Eccellenza (il Podestà di Padova, cui è indirizzato lo scritto steso per conto di Bellacato Bellacato in data 18 marzo 1658), ma perché eccesso gravissimo resti con suprema autorità
et con pena adeguata severamente punito nelle persone del raptore et compagni et
complici, pertanto humilissimo il S.r Bellacato sposo supplica Vostra Eccellenza a
restar servita di portare con sue questa sincera espressione di fatto all’Eccellentissimo
116
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Consiglio di Dieci a fine che si degni quel gran Sacrario delegare con autorità e rito
a Vostra Eccellenza, o agl’Eccellentissimi Rettori con l’Eccellentissima Corte, il caso
e tutte le cose connesse e consequenti... (l’iter qui auspicato si svolse in effetti sollecitamente, e già il primo d’aprile il processo era stato delegato dal Consiglio
dei Dieci ai Rettori di Padova).
L’idea dell’accaduto che vi siete fatti leggendo queste righe necessiterebbe subito di chiarimenti e correzioni di non poco conto. Non basterebbe a darveli
un altro scritto che reca la stessa data e che vi risparmio, la denuncia portata
all’officio del Malefficio da Zamaria Trevisan, capo di cento della Parrochia di San
Pietro (l’equivalente in un distretto cittadino del degano in un paese): non basterebbe per l’ottimo motivo che la denuncia è ispirata dalla fonte medesima
e dalla medesima intenzione dell’altro documento, pur evitando una palese
falsità in quello contenuta (che il Breo avesse cioè fatto portar, con quel po’
po’ di scorta, le due Gazze in casa Benedetti).
Il nodaro Giacomo Maggione, cui toccò, a seguito di tale denuncia, di avviare
una prima istruttoria, si fece certamente un’idea più chiara dei fatti interrogando quel giorno stesso la signora Livia vedova Benedetti e la sua servitù.
Sulla base soprattutto di queste testimonianze (prudenti, ma nel complesso
abbastanza neutre) vi racconterò a suo tempo (v. par. 26), per sommi capi e
per quanto possibile, quel che plausibilmente successe nella tarda mattina del
17 marzo 1658, domenica di pioggia. Ma il proposito che ho rispettato in questo capitolo era quello, ricorderete, di darvi una versione di parte; e voglio
che dei fatti in esso narrati sentiate adesso l’altra, quella delle Gazze.
Una tribulacion sopra grande
19
Torniamo a Bastia di Rovolon e a quell’ora di prima mattina del 25 giugno
1657, quando l’arrivo di Ottavio Bellacato e dei suoi quattro compagni sveglia la casa in cui le Gazze stanno dormendo.
«Son il corvo delle male nove, perché vi do avviso esser statto hieri a 20
hore... amazzato il S.r Theodoro Boatino vostro cognato», esordisce il Bellacato. Già la vista in casa sua di tanti uomini armati d’achibuggi lunghi et curti18
aveva spaventata la signora Chiara, facendole sospettare qualche tradimento, o
altro male; la notizia la sbigottisce del tutto, e scoppia in dirotto pianto misurando in un lampo la sua nuova solitudine e la sua nuova debolezza: «non
havevo altri...».
«Il Pellacato mi disse», continua Chiara, «che apresso quella disgratia le veniva ancor lui passione [traduciamo: che il lutto era anche suo], perché esso
S.r Theodoro avesse promessa mia figliola per moglie a S.r Bellacato di lui
figlio». Le due donne cadono dalle nuvole: questa è in merito la prima parola
che sentono. «Ma lui repplicò esser questo verissimo, e lo fece anco attestare
da quei altri S.ri, che coadiuvavano in persuadermi». Propone addirittura che
le gentildonne traslochino subito in casa sua.
«Noi povere donne timide», dirà Anzoletta Gazza, «non havessimo modo
alt ri p rom e ssi
117
di opponersi a quanto lui asseriva perché oltre l’esser huomo et con quattro
compagni haveva in aggionta lui et gli altri gli archibusi alla mano et il sig.r
Ottavio in aggionta haveva le pistole18, alli altri non le vedessimo perché
havevan le gabanelle»: insomma, di mettere in dubbio le sue parole non han
coraggio. La madre finì col rispondere «che non sapeva cosa alcuna di questi
tratati, ma che se era destinato dal S.r Dio quel matrimonio, ghe penserebbe
e gli haverebbe mandat’a dire».
Le donne resistono però, in quella giornata, sul punto del trasferimento. Quasi in risposta a questo (e non dunque a protezione da temute insidie del Breo:
su queste non si troverà una parola nelle dichiarazioni delle Gazze) Ottavio
lascia di sua iniziativa in casa loro il suo servitore armato: «per dar al mondo
ad intendere d’haver lui preso possesso di casa mia, e levar forsi ad altri [al
Breo?] il modo di trattarsi per matrimonio di mia figliola», dice Chiara19.
Qualcuno, inspirato forsi da pietà (il servo stesso, secondo Chiara; gente di fora
via, secondo altri) moltiplica le apprensioni delle signore Gazze commiserandole, perché erano cativi questi Pellacati, e però dovevano temere d’andar loro
in casa. Sono angosciate, le due donne, «Povere noi, che sarà di noi, andar in
casa di gente non conosciuta, e non haver alcun del cuore», eppure in quella
casa vanno davvero, forse un mese dopo quella mattina di giugno.
Il passaggio in ca’ Bellacata non vien preceduto, nel loro racconto, da sponsali
di sorta, il che rende una decisione del genere ancora più difficile da spiegare:
loro parlano di impossibilità di resistere alle pressioni di Ottavio – soprattutto
dopo che egli, agli occhi del mondo, le aveva già compromesse insediando il
suo salariato in casa loro. Ribadisce Angela: «Ero necessitata dalla reputazione, havendomi lasciato il sig.r Bellacato in casa un suo soldato quando vene a
Bastia.
Religiosi in posa
il 13 luglio 1937
in occasione della
prima messa solenne
del parrocchiano don
Ampelio Montemezzo.
Da sinistra a destra
in prima fila: padre
Eusebio o.f.m., don
Ampelio - sacerdote
novello, il parroco
e un sacerdote
ferrarese.
In piedi: il chierico
Ottorino Tubaldo,
don Antonio Forestan,
don Antonio Fraccaro
- cappellano, don
Vittorio Furlan.
118
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
trovarmi, e con questa forma fece conoscere al mondo il possesso che haveva
sopra di me».
Le due donne si troverebbero già dunque su di un piano inclinato difficile da
risalire, necessitate dal bisogno di recuperare la reputazione a compiere atti che
le faranno scivolare via via più lontane da tale obiettivo.
Qualche cosa che nella deposizione delle Gazze manca, e trapela invece da
quelle dei testimoni da loro stesse indicati, può aiutarci a comprendere appena un po’ di più: andare in casa di Ottavio Bellacato parve alla Chiara e
a sua figlia il male minore (semplicemente per la condizione loro di donne
indifese, senza più parenti che facessero per loro, o per qualche meno indefinita
minaccia?). È certo che non usò lui (il Bellacato) alcuna forza, né di parole né di
fatti; la servitù di casa ricorda le parole della padrona quel giorno, fra le lacrime, che «bisognava che andasse... con li Bellacati perché era sola, essa S.ra
Chiara, né sapeva a che banda buttarsi per li fatti suoi».
20
Roma.
Un gruppo
di parrocchiani
di Bastia in
pellegrinaggio alla
Città Eterna.
Nella nuova casa e nella nuova condizione Chiara appare, attraverso le sue
parole stesse, occupata immediatamente ed essenzialmente da un problema:
mettere al sicuro la sua dote, facendosela garantire dalla figlia su beni immobili. L’Angela prontamente condescese a domanda così giusta. Ne abbiamo già
parlato, e conosciamo all’incirca tempi e modi in cui questa faccenda si concluse. Avevamo anche già intuito che su questo punto era nato un robusto
litigio col vecchio Bellacato.
Ora apprendiamo che Ottavio fece dire in proposito ad Anzoletta che guardasse a non far niente, perché ne sarebbe per provare una cattiva vita. Anzoletta,
proprio come un anzoletto, voltatasi à guardar il cielo, disse: «Pazienza, Sig.
ra madre, non dubitate, che se mi scorticassero voglio farvi la quietanza». Ad ogni
alt ri p rom e ssi
119
buon conto, per far venire in casa il Grignoti ed il Pochini (cfr. par. 15), le
donne aspettano che sia fuori la città il vecchio insieme col figliolo, per mettere
all’ordine di andar a Conselve, cioè per preparare il suo soggiorno colà in veste
di vicario (cfr. par. 16).
Conselve dista pochi chilometri da Arre. Forse in quell’occasione il Bellacato
fece una visita che gli stava a cuore: «vene a Arè il vechio, il S.r Ottavio,...
ch’era puoco tempo ch’era vicario a Conselve, e si fece riconoscere per padrone dei beni di quelle S.re perché fece me e gli altri lavoratori fatticar nel
cavar fossi alle possessioni della sig.ra Chiara, onde da questo argomento che
possi haversi impadronito anco del resto della sua robba», racconta Pasqualin
Ferro, affittuale delle Gazze. Come padre dello sposo di Anzoletta Ottavio
assume de facto l’amministrazione dei suoi beni, nonché quella di alcune chiesure, sempre ad Arre, di proprietà di Chiara, e riscuote da quel momento
tutte le loro entrate.
Se vogliamo a questo punto parlare anche di faccende minori, perché Chiara non è donna da passarci sopra, ella ricorda che poco dopo, avendo fatta
portare la sua roba da Bastia, di essa fu fatta valutazione attraverso persone
scelte da Ottavio, «senza l’inserimento di alcuno che facesse per me, che poi
finita la stima di tutta detta roba la mandò subito a Conselve, per fornire la
casa del vicariato suo».
Ma non sono queste ormai le preoccupazioni dominanti delle due donne:
non sarebbe tempo di pensare alle nozze? Ad altro pensa il giovane Bellacato («lasciò star d’andare a dormire con mia figliola, tenendo in più veneratione la sua puttana»20). Ottavio, in questo agosto-settembre, va su e
giù da Conselve, ma promette che lo sposalizio presto si farà; anzi la stessa
faccenda dei mobili di Bastia trasportati prima a Padova e poi nella sede del
vicariato era stata in origine presentata come trasloco del corredo per la
sposa: «mandò alla Bastia... per portar in città le nostre robbe ciò è biancarie
e fornimenti della casa d’ogni sorte volendo far la stima alla putta, e sposarla
al suo figliolo».
Invece Ottavio e Bellacato portano le donne a Tremignon, nella loro villa,
dove si celebrerà intanto il rito della lisia; dopo qualche giorno se ne vanno
per essitar del frumento, promettendo di tornare di lì a poco per la celebrazione
di quell’altro rito. «In loco di ritornarvi, non s’è più veduto né il vechio né il
figliolo né altri di casa».
21
La vita delle due signore in villa (ci rimarranno, lo sappiamo, fin oltre la metà
di dicembre) assume di giorno in giorno, nella relazione che esse ne fanno, i
caratteri da incubo dell’esistenza in un lager, quasi una sadica punizione per
l’affare della dotte di Chiara; e ricorderà del resto anche Angela che Ottavio
le aveva «fatto dire... che se io facevo quietanza alla Sig.ra Madre per il suo
mariozzo mi voleva [far] fare una vitta da cani: in somma non mi à promesso
se non la verità».
Sono lì con i loro abiti leggeri da estate, ma la stagione avanza ed il clima si fa
precocemente invernale. Mancano in villa provviste di mangiare, di legne, sale
120
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
e di tutto quello che fa di bisogno al sostentamento
d’una casa, massime d’inverno così rigoroso; restano senza esito le richieste di soccorso che
fan pervenire ai Bellacati attraverso i contadini della villa. Da questi sono state costrette a
tior ad imprestito il cibo, «passendoci nel viver
di raveti la sera e la mattina de verze, che si
può dire spiantassimo tutto quanto vi era in
quell’orto».
La loro odissea di fame, di freddo e di abbandono è assai ridimensionata dalla deposizione
di una testimone da loro stesse prodotta21, ma
che le due patissero non v’è dubbio, lasciate com’erano in quell’attesa interminabile, a
pianger la loro mala fortuna, et maledire chi era
causa di queste crudeltà e tirannie, con Angela
certa ormai della sua gravidanza che si chiedeva se le nozze promesse sarebbero arrivate
mai, e quando pensava di no certo si disperava, e quando pensava di sì non so quanto se
ne consolasse. Forse in quel periodo (più tardi, secondo il racconto della madre) la ragazza si ammala, tanto che finisce
per trovarsi in letto quasi stroppiata.
22
La facciata della
chiesa di Bastia.
L’arresto di Ottavio Bellacato appare a Chiara come una speciale provvidenza di Dio mirata al loro ristoro: e subito in effetti viene a prelevarle dalla terra
d’esilio il giovane Momolo. Ma del rientro nel palazzo di via san Pietro non
avran motivo di rallegrarsi: pessimi maltratamenti, una vera reclusione («non
lasciandoci mai uscir di casa ne anco per andar alle chiese»), comportamenti
ingiuriosi («conducendoci il S.r Bellacato sotto li occhi diverse volte meretrici, strappazandoci con parole di tutto dispregio»). Ora che Angela è incinta ed
ha più che mai bisogno di farsi sposare la condotta di Bellacato Bellacato, che
ne ha in pugno la sorte, si fa nei suoi riguardi insopportabile22.
Torna sì (non si sa per quanto) a dormire con lei, e con l’occasione, secondo
la madre, l’empì di male di rogna, scolamenti et altri sporchezzi, sempre che non
l’avesse fatto prima, com’è opinione di Angela, la quale aggiunge all’elenco
il mal francese: auguriamole che almeno questa, che ha tutta l’aria di essere
un’autodiagnosi, non risultasse poi confermata.
Alle quotidiane, imploranti richieste la risposta, da dilatoria che era, si fa apertamente ricattatoria: il giovane Bellacato è stufo di giocare a carte coperte e
dichiara fuori dai denti che se vuol essere sposata la ragazza deve prima fargli
donazione formale dell’intero patrimonio.
«Quando io mi vedevo crescere il ventre, essendo gravida di lui, lo stimulavo perché si facesse questo matrimonio: mi rispondeva che non voleva
far cosa alcuna, se non le donavo il mio. Io le rispondevo che non volevo
alt ri p rom e ssi
121
privare la creatura che havevo nel ventre ne la mia persona della propria
robba, e lui mi rispondeva che non voleva far altro, et gettava il mandato
episcopale su la tavola et diceva: Vedetelo là, quella è la licenza di sposarvi,
ma cospettonazzo, e sanguinazzo, con l’aggionta di Dio, io mai vi sposerò
se non mi fatte questa donatione». O, se preferiamo sentirla raccontare
dalla bocca della madre, «altro non mi rispondeva che d’esser matta e inspiritata, e finalmente nel repplicarli queste instanze, messe mano in scarsella
dicendo: Ecco qua il mandato per il sposalizio, ma non voglio farlo, voglio
andarmene a forbir il cullo, se volete che la sposi voglio che mi facci donatione di tutto il suo».
Stiamo seguendo qui, non lo dimentichiamo, la storia come le Gazze la raccontano: ma, indipendentemente dalla sua verità, qual è la sua logica? Che ai
Bellacati interessassero i beni di Anzoletta e non altro l’avevamo capito subito (lei poveretta ci è arrivata poi, dal tono con cui dice: «veramente conosco
che la mia robba mi ha fatto fortuna, et li SS.ri Bellacati solo sopra quella designavano e di quello erano invaghiti»). Ma non bastava sposare la ragazza?
Questa dev’essere stata, in effetti, la loro prima intenzione: forse è stata
modificata nell’attimo stesso in cui appresero della morte di Teodoro Boattin,
forse nel corso del mese che separa tale decisiva circostanza dall’inizio della
convivenza, o forse persino più tardi. Sta di fatto che nella mutata situazione
videro l’opportunità di avere i beni più direttamente e più pienamente.
Angela, anche da maritata, sarebbe rimasta proprietaria della sua eredità paterna; non avrebbe potuto disporne liberamente, sarebbe stata sotto la tutela
del marito (così credo, almeno), ma l’amministrazione di quest’ultimo sarebbe stata a sua volta sottoposta a vincoli precisi.
I figli di Angela e di Bellacato sarebbero a tempo debito diventati padroni di
quella robba, Bellacato mai. Dal punto di vista della strategia patrimoniale
della famiglia non faceva differenza. Dal particolare punto di vista di Bellacato, ed anche di suo padre Ottavio, la differenza era straordinaria.
23
Il nuovo soggiorno a Padova (durerà, come sappiamo, tre mesi meno tre
giorni) non significa neppure, nel racconto delle Gazze, la fine dei disagi materiali. Fin dal loro primo ingresso in casa dei Bellacati le entrate delle loro
campagne son rimaste nelle mani di costoro, e loro due sono al verde, tanto
che devono farsi prestare poche lire da qualche affittuale che adesso, a Carnevale, va a trovarle per portar loro le tradizionali onoranze di pollame: benedette onoranze, perché anche di vitto han scarsità, per non parlar d’altro. «Io
addimandavo al Sig.r Bellacato, che credevo essere mio novizo, qualche suffragio sì per il mangiare come per vestirmi», racconta Angela, «e lui sempre
su le sue mi rispondeva che cospetazo... non haverei havuto niente se non li
facevo la donatione».
Intanto le condizioni di salute della ragazza si aggravano, ed essa si trova «in
statto così deplorabile,... che dubbitando io [Chiara, naturalmente] potesse
intravenirgli anco la morte, perché si era ridotta imobile et a segno che io la
voltavo con li lenzuoli, dissi però a lui [B. Bellacato] che si raccordasse di Dio,
122
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
la sposasse come haveva promesso, acciò che non la morisse in quel peccato
mortale e che andasse a ca’ del diavolo».
Che la meschina sia proprio malridotta non lo sappiamo soltanto da lei e
dalla madre, perché anche altre persone l’han vista in quel periodo: la Teresia, per esempio, da Carbonara (un miglio discosto da Bastia), filatrice di lino,
solita lavorar per le Gazze («secondo mi davano da lavorare li portavo il
fillo, et ne tollevo il lino a far dell’altro»). È andata con un’amica a trovarle
a Padova, a febbraio, portando loro in omaggio la prima insalata selvatica
dell’anno, quei ramponzoli che ancor oggi negli Euganei si ricercano come
una ghiottoneria: «vedendo la Sig.ra Anzoletta in statto totalmente diverso
da quello che godeva in villa, dove era sana et gagliarda, e qui in città la vidi
piena di rogne e di male, che teneva tutti due i brazzi appesi al collo, mi
fece compassione... veramente era in una cadrega imobile, che bisognava
sua madre le dasse il bocon in bocca, poiché non poteva meno tener un
pirone in mano».
Si teme che possa disperdere, abortire; una levatrice è chiamata a visitarla e le
fa con l’occasione un rimedio da onzersi, penso per le infezioni cutanee (rogna)
di cui soffriva.
24
Angela, sofferente ed angosciata, si dibatte in una trappola che la tien prigioniera più assai che le stanze da cui non la fanno uscire. La sua reputatione le è
stata tolta, e solo chi gliel’ha strappata può restituirgliela con il matrimonio:
riuscire a farsi sposare è l’unico obiettivo cui può tendere, e la gravidanza
deve darle motivi ed urgenze in più per volerlo raggiungere. Perché non fa
donatione di tutto il suo, perché non cede al ricatto? Il giovane Bellacato, che
un’aquila non doveva essere, era sicuro che si sarebbe sottomessa alle sue
condizioni. Perché lei non l’ha fatto?
Voi l’avrete già capito, l’avevo capito già anch’io, ma facciamolo dire a lei:
«Dio le [= a Bellacato] ha levato il cervello, et ha permeso che lui habbi multiplicato tanto verso di me le ingiurie, disperandomi che potessi recuperare
l’honore, che mi son risolta a partire da casa sua, e certo eleggerei prima la
morte che tornargli». Disperandomi che potessi recuperare l’honore: non ha ceduto perché aveva perso ogni speranza che cedere potesse servire. Il mandato
episcopale che il suo promesso le sventolava sotto il naso era, l’aveva capito,
solo uno specchietto per allodole, e non credeva che Bellacato l’avrebbe sposata, quando lei si fosse piegata al ricatto.
Anzi, cominciava a pensare che una volta impadronitosi di tutto il suo l’avrebbe volentieri lasciata morire, se la malattia o il parto l’avessero condotta in
pericolo di vita («se partorivo in casa sua certo sarei morta»), o temeva che
l’ammazzasse addirittura («altro non era ricercarmi la donatione che il volermi privar di vita con morte violenta»).
Rifiutarsi di sottoscrivere la donazione doveva apparirle in quei giorni, prima
ancora che una difesa dei diritti del nascituro (v. par. 22), l’unica garanzia
possibile per la sua stessa vita: finché non ho fatto la donazione non gli conviene che io muoia.
alt ri p rom e ssi
123
La Gasparina deporrà, liberi noi di crederle, di esser venuta a conoscenza
di una conversazione fra Bellacato e Momolo, in cui quell’ebete del fratello
maggiore chiedeva al minore una consulenza di diritto patrimoniale (Momolo doveva raccontarla in giro per casa come quella barzelletta che era): «Una
mattina il Sig.r Girolimo disse alla mia presenza che suo fratello l’haveva
ricercato se, morendo la Sig.ra Anzoletta, le restaria la robba, non havendola
sposata, e lui le disse di no».
25
Nella versione che ne danno le Gazze, la loro uscita da casa Bellacata è solo la
fuga da qualcosa, non verso qualcosa, un puro riflesso di autoconservazione.
«Non potendo più mia figlia insistere alle tiranidi d’huomini così crudeli... e
vedendosi anco avvicinata al parto con pericolo di perdere la vita senza confessione né comunione, si rissolse di partire, e ancorché io la suadessi di distrarsi
da questo pensiero, non volle assentire: uscì una mattina come disperata, la
seguitai anch’io per non abbandonarla. Andassimo dalla S.ra Benedetti con
gasparina23 nostra camariera, quale mandassimo a trovar il S.r Z. Batta Breo,
come amorevole del q. S.r Boatino, perché venisse a levarci da quella casa,
dubbitando che se incontrassimo nei Pellacati ne potessero amazzare. Non lo
trovò a casa, ma ben due dei suoi soldati [servitori], che non li conosco né so
li suoi nomi, quali vennero a casa della Benedetti, la quale imprestataci la sua
carozza partissimo; e mentre erimo in piazza del Castello s’incontrassimo nel
Il centro di Bastia
con il vecchio
Ufficio Postale
in una cartolina
illustrata spedita
nell’estate 1931.
124
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
S.r Breo medesimo, che vene accompagnarci
fino al ponte de legno, prendendo alloggio in
casa d’un nobile non so chi sia. E la mattina andassimo a Venezia, facessimo ricorso nell’Eccellentissimo Consiglio di Dieci...».
Lasciatemi per ora soltanto sottolineare in rosso quei due “Sior” davanti al nome del Breo:
chi li avrebbe potuti immaginare, un anno e
mezzo prima, in bocca a Chiara!
Non un lieto fine, ma poteva finir peggio
26
In bicicletta
davanti alla chiesa
di Carbonara,
negli anni
dell’ultimo
dopoguerra,
quando il
campanile
attendeva ancora
la cuspide.
Vi avevo promesso una più attendibile ricostruzione del fatto clamoroso del 17 marzo 1658,
che abbiamo sentito raccontare in modi tanto
diversi dalle due parti in causa. Eccovela.
È mezzogiorno passato. La vedova Benedetti,
signora Livia, è andata con la sua carrozza alla
predica al Domo. Quando bussano al suo portone una domestica pensa che sia lei di ritorno
ed apre subito; entrano senza neanche dire si
può Chiara ed Angela Gazze, accompagnate
da una cameriera (la Gasparina). Abitano lì accanto, han fatto solo pochi passi sotto i portici. La padrona è in casa? Sarà qui
a momenti. «Andorno di sopra nella salla e mi ordinarono che non dovessi
aprire la porta della strada se non sapevo a chi».
La vedova Benedetti arriva e si meraviglia di sentire che è attesa di sopra
dalle Sig.re Bellacate (dice proprio così): non sono evidentemente abituate a
frequentarsi. Le due fecero una grandissima scusa per quell’invasione, e dichiararono all’attonita vicina di essere scampate via perché non erano sposate et che
volevano Giustizia essendo malissimo tratate, et che aspetavano una carozza.
La Gasparina era intanto uscita dalla stanza: rientra per dire alle padrone che
la carrozza non è disponibile, ma è arrivata parte delli huomeni per riceverle.
Tutte e tre si volgono alla Livia, chiedendo che presti loro la sua vettura. Ma
quella nelle liti familiari dei vicini non ha intenzione di immischiarsi: «Io le
dissi di no, né che volevo adosarmi questo negotio».
Al rifiuto della vedova la Gasparina ridiscende e fa entrare in casa due uomini
armati, che riattaccano di mano propria i cavalli da poco staccati alla carrozza
che è ancora nel cortile e ordinano di tornare in serpa al tremante cocchiere
della Benedetti. Assicurano a quest’ultima che non subirà alcun danno et di
breve il caroziero sarebbe ritornato in dietro con li cavalli et carozza, fanno salire in
vettura le Gazze e la loro cameriera, e via: non dall’ingresso principale, ma da
quello posteriore, drio la mura (casa Benedetti si estendeva, come si comprende facilmente, fra le attuali via san Pietro e riviera A. Mussato, incorporando
alt ri p rom e ssi
125
dalla parte di questa una porzione delle mura
medievali).
Uno dei due uomini precedeva la carrozza;
quando questa uscì, altri tre la tolsero in mezo.
Tutti e cinque sono intabarati nei loro feraroli,
sotto i quali il povero caroziero («a pena ardivo
alzar l’occhi per paura») intuisce gli schioppi
imbracciati a canna in basso. Dove si va? a S.
Maria di Vanzo, al Torresino diremmo oggi,
per le riviere e il Castello.
Intanto ribussano a casa Benedetti, dalla parte di via san Pietro. Stavolta, ovvio, prima di
aprire la servitù chiede chi è. «Gio Batta Breo»,
vien risposto.
Noi che lo conosciamo abbiamo già notato
questa sua spavalderia, di dir forte il suo nome
e cognome in situazioni compromettenti. Non
lo conosce invece la signora Livia, che equivoca: «Pensando io che fosse qualche hebreo che
volesse parlarmi, ordinai che fosse aperto, et
uno si affaciò sopra la mia porta della strada
ricercando se quelle donne fossero partite, et
li fu risposto di sì; il quale disse di non voler
altro» e se ne andò. Due compagni erano al
suo fianco: un drappello che vegliava su quel
lato, il più pericoloso, e che, accertatosi della
riuscita dell’operazione, correrà a raggiungere
la vettura procedente a passo d’uomo (può ben essere a piazza Castello, probabilmente attraverso un percorso interno alle mura antiche).
Nessuno o quasi vede la carrozza col suo corteggio: è domenica, piove ed è
l’ora di pranzo, le strade sono deserte.
Quel che si ricava da questa ricostruzione ha un significato non equivoco:
nessun rapimento è avvenuto, piuttosto una fuga minuziosamente predisposta e coperta da un robusto ed accurato dispositivo militare. Siamo lontani
dalla cifra di vinti in circa tutti armati, ma gli otto uomini dai nervi calmi e ben
appostati che contiamo attraverso le testimonianze sono una forza sufficiente
ad arrestare qualunque reazione proveniente da casa Bellacata; ottimamente
svolti i compiti di collegamento dalla staffetta Gasparina.
Probabilmente davvero all’ultimo momento una carrozza che era prevista
viene a mancare. Vi sembrerà forse indizio di organizzazione approssimativa; ma, com’è noto, ogni buona previsione deve tener conto dell’imprevisto,
e più dell’incidente colpiscono la decisione e la prontezza con cui vien trovato il rimedio. Tutto il carattere dell’azione, rapida, pulita, senza strepito,
è quasi da corpi speciali, direbbe mio figlio che guarda la televisione; se non
condividete, è perché v’è mancata l’occasione di farvi un’idea di che pasticcioni fossero in genere i giovanotti dell’epoca, quando si trovavano un archibugio in mano.
Davanti
al vecchio
campanile
di Carbonara,
negli anni
tra le due guerre.
126
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Sulla meta della carrozza disponiamo di indicazioni insieme molto precise e
molto misteriose. Oltre il ponte che da piazza Castello conduce verso il Torresino (ponte di S. Maria di Vanzo), la carrozza svolta per l’attuale via Tiso di
Camposampiero dietro l’acqua che va in Cademia (piazza Accademia Delia), e
passato quelli segadori di pietre si ferma ad una casa che al presente vene fabricata.
Nel palazzo in costruzione (proprietà di un nobile di cui nessuno dirà il nome,
e che del resto non era tenuto a saper nulla della faccenda) le donne trascor-
Lettera del sindaco
di Rovolon del
26 agosto 1870
al Commissario
Distrettuale
di Padova
sull’ampliamento
della chiesa
parrocchiale di
Carbonara reso
necessario «da
eminenti riguardi
di religione, di
moralità e di
pubblica igiene
in forza della
raddoppiata
popolazione».
Con la missiva
si comunica
l’impossibilità di
contribuire alla
spesa essendo
il comune «uno
dei più miserabili
che appena può
sostenere le spese
d’obbligo imposte
dalla legge»
alt ri p rom e ssi
127
rono il pomeriggio e la notte: la mattina dopo partono per Venezia, con il
Breo. Nella Dominante la Chiara domanderà giustizia per sé e per la figlia
alla suprema autorità del Consiglio dei Dieci.
27
A partire dalla denuncia del capo di cento della Parrochia di San Pietro, dalla
128
Giustina
Michelazzo con la
figlia all’alba degli
anni Sessanta
del secolo scorso
in una casa
a Carbonara.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
contemporanea istanza di Bellacato
Bellacato al Podestà, dal ricorso di
Chiara Gazza al Consiglio dei Dieci
si incrociano azioni legali, che vengono unificate pochi giorni dopo
nel processo delegato ai Rettori di
Padova.
Causa assai complessa, insieme penale e civile, generatrice d’un ponderoso incartamento, cui fu allegato, su richiesta dei Bellacati, anche il fascicolo relativo all’attentato
rapto del settembre 1656, quello del
primo capitolo. Sul piano penale, i
Bellacati agiscono contro il raptore della promessa sposa (il Breo), i
suoi non identificati compagni e gli
altri complici (la stessa madre Gazza, Gasparina, la “Secca”); le due
gentildonne chiedono che i Bellacati siano puniti per l’inganno e per le
angherie che le hanno costrette a subire, e per l’usurpazione che han compiuta di quanto era loro. Sul piano civile, le Gazze chiedono di essere reintegrate
nel possesso dei loro beni stabili e mobili di cui la controparte s’è impadronita, e rimborsate per le entrate che sono state loro sottratte.
Non seguirò passo passo la vicenda giudiziaria, che si prolungò almeno fino
all’estate del 1660: ho già posto a rischio eccessivo le mie competenze nelle
pagine precedenti, temo che alle sciocchezze che già mi saranno scappate ne
aggiungerei di troppo grosse scendendo sul terreno tecnico-procedurale, e
poi comincerete ad averne abbastanza.
Per dirvi subito come andò a finire: sul piano penale, il processo manca di
qualsivoglia conclusione (non è impossibile che le parti abbiano ritirato le rispettive querele). Su quello civile la vittoria delle Gazze fu piena almeno in via
di principio: Chiara rientrò subito in possesso dei suoi immobili, per quelli di
Angela fu il 15 aprile 1658 estratto a sorte et elletto Daniel Sala (uno dei Sedici del
Consiglio minore di quell’anno) che li amministrasse con carità et amorevolezza
a gli avantaggi della medesima; per il recupero delle entrate, del bestiame, dei
mobili perduti dovettero penare di più, e non so se riebbero tutto.
Risultato comunque mirabile: alla prospettiva di vedere in altra forma puniti
i loro avversari è probabile che le nostre gentildonne non avessero mai veramente creduto, data la disparità di forze fra le due parti.
28
Chiara Gazza, in data 7 aprile 1658, 20 giorni dopo la fuga, rivolge una supplica ai Rettori affinché la provvedano di avvocato: poiché, spiega, «non ho potuto ritrovarne alcuno che non si dichiari preocupato [già impegnato, cioè]
alt ri p rom e ssi
129
dalla parte dei miei prepotenti adversarij, o per rispetti [per paura] della loro
formidabil tirannide non poter ne voler diffendermi».
Ci guarderemo bene dal prenderla alla lettera: sarà già successo anche a voi
di pensare che la signora sapeva mentire con disinvoltura ammirevole, e qui
è chiaro il suo scopo di impressionare i giudici a proprio favore. Direi che la
mossa doveva esserle stata suggerita dal Pochini, già avvocato del defunto
cognato, che per non fare uno sgarbo aperto ai Bellacati avrà preferito farsi
incaricare dai Rettori del patrocinio di Chiara piuttosto che assumerselo liberamente: e lo penso perché l’“estrazione a sorte” di un avvocato, avvenuta
l’8 aprile, vide uscire proprio il suo nome (non chiedetemi come avrà fatto),
e perché la vecchia volpe, ottenuta in tale occasione per maggior coadiutamento la nomina al proprio fianco di un secondo avvocato, Gasparo Todiscato, seppe far sì che fosse poi sempre il nome di questi a comparire in tutte le
occasioni (riservando a sé, immagino, compiti di regia).
Ma, se anche son giuste queste supposizioni, proprio se queste supposizioni
sono giuste, salta agli occhi il peso di un “fattore ambientale” che gioca ad
intero vantaggio dei Bellacati, nonostante che questi stiano passando i loro
guai, tanto che Ottavio la sua ricostruzione dei fatti davanti al Cancelliere
pretorio la fa estratto dalle Carceri ove per altra causa s’atrova.
Forse le Gazze qualche alta protezione l’avevano a Venezia (Teodoro Boattin, ricorderete, pensava d’averne); quando non ce l’avesse avuta Giovan
Battista Breo, affittuale del cardinale Bragadin. Ma a Padova l’isolamento di
Chiara, priva d’appoggi nell’ambito del suo parentado e dell’intera sua classe,
è totale. Sei illustri membri della miglior società padovana sfilano a deporre
chiamati dai Bellacati (sei perché basta così, per carità, ma ce n’erano in lista
almeno il doppio): ad essi le Gazze non han da contrapporne, del loro ceto,
uno che sia uno. Possono far venire contadini e gastaldi, filatrici di lino e servi: le stesse persone che si ricordavano di loro quand’erano in ca’ Bellacata,
Carbonara.
In gruppo davanti
alla chiesa.
130
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
dove non risulta che una sola Sig.ra degna di questa sigla sia passata mai per
dar loro un salutino. Una solitudine da lebbrose: si dirà che dipendeva dalla
poco onorevole condizione in cui si trovavano in quella casa; sarà, ma le radici son più vecchie.
Comunque dobbiamo riconoscere che le mosse di Chiara, o di chi la consiglia, sono molto abili, a cominciare da quella di appellarsi direttamente al
Consiglio dei Dieci, invocando la sua protezione sopra due sventurate che
hanno lasciato in casa dei loro traditori la robba e la reputatione, due povere
donne nobilmente nate, deboli per il sesso, abbandonate da parenti per spavento,
destituite da ogni sussidio humano, una delle quali deflorata, mai sposata,... strappazzata dal Pellacato per il corso di dieci mesi continui con il più turco trattamento
che mai sia stato usato nel mondo, nonché gravida.
Pensate che andandosene dalla casa delle loro tribolazioni le due Gazze presero con sè alcuni gioielli (sono quelli, io credo, che Bellacato Bellacato regalò all’Anzola il giorno del “toccamano”, quel “toccamano” di cui le due
gentildonne non sanno nulla). A sentir loro, non portarono nient’altro con
sè, solo le strazze che ancora indossano, che non vagliono tre gazete (a sentire
i Bellacati, invece, tramite il lavoro da formichine della Gasparina e della
“Secca” gli avevano già prima più o meno svaligiato la casa). Bene, proprio
mentre lamenta la radicale miseria sua e della figlia incinta, spogliate, annientate, rimaste senza una mica di pane per alimento, di quei gioielli (che saranno
stimati quasi 700 lire) la Chiara fa un bel pacchettino, e lo spedisce al Consiglio dei Dieci: «questi, non dati come regali di marito, non ricevuti come
indegni pagamenti di concubito, si presentano con integerrima ingenuità a’
piedi dell’Eccellenze Vostre».
1964.
Festa di
famiglia per il
venticinquesimo
anniversario
di matrimonio
di Giovanni
Paccagnella e
Bruna Giona.
alt ri p rom e ssi
131
29
Volete sapere che ne è stato della creatura che Angela aveva in grembo? Vorrei saperlo anch’io. Quel che so dirvi è che il 5 giugno 1658 Angela si dichiara
prossima a sgravarsi (facendo conto che abbia partorito entro quel mese ho
ipotizzato al par. 16 la data del concepimento). Se il parto sia andato bene, se
il bambino sia o no rimasto con la madre, chi lo sa.
Un’altra cosa posso dirvi invece con sicurezza. Il 13 novembre 1659 Angela
si confessa, nero su bianco, ...intieramente sodisfatta della somministracione [amministrazione] de suoi beni, fatta dall’Illustrissimo Sig.r Daniel Salla Comesario
elletto dalli Illustrissimi Eccellentissimi Retori; adesso, avendo alfine reseutto tutta
la roba di sua ragione...si chiama paga sotisfatta in fede. Il bigliettino reca poi: «Io
Gio Battista Breo maritto di essa S.ra Anzoletta ho fatto il presente di propria
mano per non saper lei scrivere».
Avesse lei saputo scrivere, non avremmo magari neanche saputo che si era
sposata col Breo. Avremmo dovuto accontentarci di supporlo, lavorando sui
materiali forniti dalle contrapposte versioni che abbiamo ascoltato e provando a migliorare l’interna plausibilità della nostra storia.
30
Quanto all’avvio della vicenda, mi piacerebbe moltissimo poter avanzare
l’ipotesi che i Bellacati, messi gli occhi sull’eredità dell’Angela Gazza, avessero
colto al volo l’occasione che la morte del Boattin offriva loro per precipitarsi
a Bastia, millantare un’inesistente promessa che nessuno poteva più smentire, trascinare le Gazze nella loro trappola. Il che sarebbe fondamentalmente
quel che le due signore vogliono far credere.
Non mi dispiacerebbe spingermi più in là, ed insinuare che essi potessero
aver avuto una qualche parte nell’uccisione del povero Teodoro, o anche
solo che sapessero in anticipo che essa sarebbe avvenuta, il che spiegherebbe
meglio la fulmineità della loro mossa del 25 giugno 1657.
Purtroppo non posso far niente di tutto questo, perché le lettere di pugno del
medesimo Teodoro, che il Verdabio consegna all’inquirente (cfr. par. 11),
me lo impediscono.
Ho preso in considerazione, naturalmente, l’ipotesi che si tratti di falsi, ma
non riesco a crederci. Chi avesse architettato e realizzato una simile impostura sarebbe stato diabolicamente bravo (sarà forse l’invidia che proverei
per un simile romanziere che mi vieta di prender sul serio l’ipotesi della sua
esistenza). Le lettere mi sembrano troppo vere, troppo attraversate da un
disordine di preoccupazioni estranee alla trattativa matrimoniale ma inevitabili per il povero Boattin coi guai che si ritrovava, per considerarle una
costruzione a posteriori di altra persona.
Escluso a malincuore questo quadro, seducente ed impossibile, dirò che per
la prima metà del ’57 quello disegnato da parte dei Bellacati mi sembra nelle
linee di fondo assai più credibile di quello tracciato dalla controparte.
In altri termini, sono incline a credere che la trattativa matrimoniale si sia
effettivamente svolta con il consenso delle signore Gazze; che esse, rima-
132
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
ste improvvisamente prive dell’uomo di casa, abbiano proceduto sulla via
già tracciata senz’altre esitazioni forse che quelle ispirate dalle chiacchiere
raccolte nel frattempo (queste sì plausibili) sulla cattiveria dei Bellacati; che
gli sponsali ci siano effettivamente stati; che nella decisione delle due donne
di partir da Bastia e di prender dimora a Padova non nella casa Gazza ma
in quella Bellacata molto abbiano pesato i timori (saranno anche stati soprattutto della madre, questo non cambia nulla) per le insidie del Breo, che
minacciavano di mettere definitivamente Angela fuori di un mercato matrimoniale degno di lei.
31
Ancor meno credibile è quanto raccontano le Gazze sulle modalità della loro
fuga, e su questo non occorrerà che mi dilunghi. Le evidenti bugie circostanziali non devono però distrarre dalla verità sostanziale che le loro parole
contengono.
La loro fuga non sarebbe in alcun modo comprensibile se non fosse suggerita dall’esasperazione, dalla disperazione e dalla paura, da quella condizione
d’animo su cui le parole di Angela, più di quelle della madre, ci hanno aperto
spiragli eloquenti: ma anche da una lucidità a caro prezzo conquistata.
Che Bellacato Bellacato intenda sposare la ragazza, né lei né sua madre possono più crederlo; ma ormai, fosse anche possibile, non lo vorrebbero loro.
Tanto che neppure in sede processuale, quando la strategia scelta dai loro
avversari offrirebbe l’appiglio per spingerli a quel matrimonio (la promessa
costituita dagli sponsali era una cosa seria), appaiono mai sfiorate dal dubbio:
«mi son risolta a partire da casa sua, e certo eleggerei prima la morte che tor-
Carbonara.
Corteo nuziale
degli anni Sessanta
del secolo scorso.
alt ri p rom e ssi
133
nargli» (Angela); «più presto che ritornar in detta casa, si contentiamo andar
lemosinando per le strade» (Chiara).
Io son convinto che la prigionia del vecchio Ottavio rovinò in effetti un
piano che aveva ottime probabilità di riuscita, e che era senz’altro farina
del suo sacco. Fosse stato in casa, non credo che avrebbe permesso al figlio
di ostentare disgusto e disprezzo per Angela fino al punto da rendere del
tutto inverosimile l’intenzione di sposarla, e intollerabile l’idea di sposarlo:
avrebbe magari architettato un gioco delle parti, in cui sarebbe toccato a
lui esercitare una pressione sul fronte patrimoniale, ed al figlio render credibile il compenso su quello matrimoniale; in ogni caso avrebbe proceduto
con un po’ di cervello.
Invece Bellacato Bellacato, per quante istruzioni potesse ricevere dal padre carcerato, dovette all’atto pratico cavarsela da solo, e il cervello Dio glielo levò, ammesso che mai gliel’avesse dato. Così la ragazza e la sua robba presero la fuga.
Solo che non fu un salto nel buio: Angela saltò piuttosto sull’unica sponda
che provvidenzialmente ancora si offriva al suo sguardo, perché quella che
appariva in migliori momenti come sciagura da scongiurare si era mutata in
una via di scampo.
Non so se fu effettivamente il Breo a ritessere i rapporti con le due gentildonne tramite Gasparina; loro stesse, aperti gli occhi fino in fondo sui termini re-
Vigneti a
Frassanelle.
134
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
ali e spietati della situazione in cui si trovavano, avrebbero potuto prendere
l’iniziativa, e magari lo fecero.
Bruciata com’era nel ceto sociale a cui apparteneva, minacciata come si sentiva (non credo senza ragione) nella sua stessa sopravvivenza, Angela si adeguò
alla sola prospettiva che le restava. Se il sacrificio fu più della madre che suo,
tanto meglio per lei. Al Breo in ogni caso, come il citato biglietto testimonia,
non fu costretta a fare donatione di tutto il suo.
Quanto al Breo, neanche per lui quella decisione rappresentava un puro
beneficio a costo zero. Lui non era mica il contadino nascosto in fondo ad una
campagna, pronto per modico compenso a far da marito alla concubina di cui
il padrone si fosse stufato: era uno che voleva girare per Padova col Signor davanti al nome. Direte che qui il compenso non era modico, e se lo disse certo
anche lui: nella strategia di una famiglia plebea in ascesa l’occasione che gli si
presentava, e che aveva caparbiamente, lungamente inseguita, era troppo preziosa per lasciarsela sfuggire, e lui, non abbiamo dubbi, sapeva pensare in prospettiva. Il costo immediato, per imbarazzante che fosse, gli sarà sembrato più
che accettabile, e se ne sarà caricato con quello spirito stesso che lo spingeva,
nei momenti in cui temeva d’aver paura, a dire a voce alta: Gio Batta Breo.
NOTE
1. Qui e in ogni successiva occasione cito senza modificare l’ortografia, limitandomi a
svolgere molte abbreviazioni e a ritoccare con moderazione la punteggiatura.
2. Non che il consenso di una ragazza ad una fuga d’amore, o le intenzioni matrimoniali
di un rapitore, cancellassero il reato: la logica della legislazione – veneziana e non solo
– tutelava innanzitutto l’onore e la volontà della famiglia della donna. Piuttosto, di fronte a un ratto o a una fuga, purché riuscissero, la famiglia stessa avrebbe probabilmente
evitato di mettere la cosa nelle mani della Giustizia.
3. Cfr. R. Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ’500-’600. Gli Esecutori contro la bestemmia, in G. Cozzi (a cura di), Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII),
Roma 1980, pp. 456 sgg.
4. Cfr. C. Povolo, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII, in G. Cozzi (a cura di), Stato società e giustizia..., cit., pp.
221-223.
5. La storia della denuncia è divertente. «Denontio io Francesco Vacchin degano della
Villa di Revolone come il giorno di venere... Ms. Batta Breo vene alla Bastia», ecc.: ma
Francesco Vacchin, interrogato come di prassi all’atto della consegna della denuncia, dichiara candidamente: «Io non so dir cosa alcuna, solo che la S.ra Chiara Gazza (i)eri mi
fece chiamare... et mi diede questa denoncia in mano acciò la portassi alla Giustizia».
6. Cfr. C. Povolo, Aspetti e problemi..., cit., pp. 221 sgg.
7. L’Anzoleta, apprenderemo esplicitamente, non sapeva scrivere (cfr. par. 29); più o meno analfabeta sarà stata anche la madre, che vedremo ricorrere ad altri per farsi scrivere
lettere (cfr. par. 14).
8. L’espressione, come la notizia, è tratta dalla lettera di T. Boattin a N. Verdabio del 18
marzo 1657 (cfr. par. 11). Del servitore di cui si parla non sappiamo altro.
9. Deposizione di Francesco Giusto (cfr. par. 9).
10. Ne parla ancora il Giusto. La notizia sembra fatta apposta per giustificare l’urgenza che
Chiara Gazza avrebbe mostrato di lasciare Bastia (cfr. parr. 13 e 14).
11. Una genealogia della famiglia è in Prove di nobiltà, ASP, b. 9, fasc. 32.
12. Cfr. P. Ulvioni, La nobiltà padovana nel Sei-Settecento, in “Rivista Storica Italiana”, anno
103 (1992), fasc. III, pp. 803 e 807.
alt ri p rom e ssi
135
13. Testimonianza di Francesco Giusto.
14. Orsola figliola di Vendramin Bottazzo, massara e probabile concubina di Ottavio Bellacato (cfr. nota 20).
15. Atti del Maggior Consiglio, b. 26, ASP. La Banca in questione è quella del Monte di Pietà,
che fungeva anche da tesoreria cittadina. Per alcune vicende ad essa relative in quegli
stessi anni vedi P. Ulvioni, La nobiltà padovana..., cit., pp. 812-816.
16. Se però i misteriosi movimenti notturni cui si accenna alla fine del paragrafo 8 ci furono
davvero, potrebbe darsi che la notizia fosse già uscita dalle mura urbane la sera precedente.
17. Questo Bonetti non è figura facilmente definibile: raggiunto dalla notizia della morte
del suo compare in casa di lui, rimase fra ’57 e ’58 almeno a periodi a fianco delle Gazze,
ma con veste e nome più di servitore che di amico di famiglia. Nel processo compare
come teste citato dai Bellacati e si uniforma nella sostanza alla loro versione.
18. La questione se oltre allo schioppo, ammesso con naturalezza, Ottavio avesse quel
giorno anche archibusi curti non è oziosa come sembrerebbe a noi, già se ne parlava
(cfr. par. 6). L’esibizione di pistole alla cintura era il contrassegno, si può dire, del malintenzionato temerario, e costituirebbe, se fosse qui comprovata, un elemento forte di
quell’atmosfera initimidatoria che le Gazze vogliono rendere palpabile.
19. In verità neppure i testimoni chiamati (ed istruiti, si può crederlo) dalle Gazze appaiono
su questo punto del loro stesso parere: secondo la Catti, allora massara a Bastia, il servo
Pompeo viene lasciato ad effetto che serva di sicurezza alle donne medesime, e che nisuno non
andasse a dar loro molestia, e perché anco potesse attendere ai fatti della campagna.
20. Si trattava veramente, per quanto posso ricostruire, di una ragazza che era concubina
abituale di suo fratello Momolo. La casa dei Bellacati apparirà, nella memoria di Angela, come un publico postribolo, in cui il vechio mantiene una puttana nominata orsola, et
Girolimo suo figliolo più piccolo, che deve haver 15 anni in circa, tiene una putazza detta maria
che deve haver tanti anni quanto lui, con la quale anco ha comercio il sig.r Bellacato, et questi
SS.ri tutti tre non si guardavano punto di farsi vedere a tutti di casa ad essercitar atti venerei
con quelle sue donne, come basi et mille altri sporchezi vituperosi: in somma in quella casa non
si fano altro che disoluteze, né mai da alcuno si parla di confessarsi né comunicarsi né di andare
a messa.
21. Maddalena, donna al loro servizio già ai tempi di Bastia che le ha seguite nel nuovo
domicilio ed accompagnate anche a Tremignon, ricorda che alle volte li mandavano li
Bellacati quello che li bisognava per viver, ciò è carne, luganeghe, sisiole [giuggiole], e li giorni
de pesse alcuna volta anco pesse, e delle volte non vi era né anco il sale; pane e vino però sempre
ve n’era... et qualche volta si mangiava delle rave e delle verze, così fra pasto. Quanto agli habiti
però è vero che erano li leggeri da estate, e se bene li mandassimo a dire che ne capitassero vestiti
d’inverno per quelli contadini secondo venivano a Padova... mai li hanno mandato cos’alcuna,
onde pattivano fredo, stavano però al fuoco.
22. Secondo Gasparina, lo sposo avrebbe dato in un’occasione ad Angela un fiancone (un
colpo violento) per il quale stette molto male e credeva di disperdere (abortire). In altra occasione, racconta sempre Gasparina, «vene il sig.r Girolimo figliolo minore à casa con
schizeto d’Aquarosa, il quale schizeto preso dal fratello maggiore mi tirò tutta l’acqua
nelle spale, e poi con della orina schizetò la Sig.ra Anzoletta Gaza, che si levava dal letto
et si calzava: quella Sig.ra si contaminò tutta, ma non ardì parlare, et esso sig.r Bellacato
la minchionava... diceva che le pareva di veder un diavolo, e mille altre cose simili». Anzoletta, che a questo episodio accenna, di altri non se la sente di parlare: «altri vituperij
che non dirò se dovessi perdere la vita».
23. Lascio qui, come ho fatto nella nota 20 per Orsola e Maria, l’iniziale minuscola del
nome proprio: sono grafie assai rare nelle molte carte di questo processo, e non è forse
senza significato che in questi tre casi si applichino a donne, serve di mestiere e più o
meno esplicitamente indicate come concubine dei padroni.
SUL FILO DELLA MEMORIA
La seconda guerra mondiale a Rovolon
L’eco della Grande Guerra non si era ancora spento quando il 10 giugno 1940
il Capo del governo italiano firmò la dichiarazione di guerra alla Francia e
all’Inghilterra. Gli eventi che seguirono sono rimasti scolpiti nella memoria
d’intere generazioni: quella dei padri e delle madri che videro partire i propri
figli verso fronti ignoti e luoghi sconosciuti; quella dei giovani chiamati alle
armi, in un’età compresa tra trentacinque e vent’anni, parte della quale non
fece più ritorno al paese natio; quella dei nipoti che durante l’infanzia e l’adolescenza hanno ascoltato i tanti racconti dei protagonisti con le innumerevoli
vicissitudini sofferte per la guerra e per tutti gli effetti che essa provocò. A
distanza di settant’anni da quel tragico e funesto evento, val la pena riprendere le parole e i racconti di alcuni testimoni, soprattutto per ricordare, a
chi l’avesse dimenticato, quanto preziosi siano la pace e la libertà, assieme ai
valori della solidarietà e della civile convivenza.
Nelle pagine che seguono è stata raccolta la vicenda autobiografica di un
anziano che in divisa visse in prima persona, sul fronte, la disastrosa occupazione della Russia: ottantamila uomini furono inviati con l’ARMIR (acronimo di Armata Militare Italiana in Russia) sulle gelide steppe dell’Est europeo
con l’unica motivazione di voler estirpare il bolscevismo e il comunismo. Di
quella generazione di giovani italiani, solo ventimila fecero ritorno dopo la
lunga marcia del gennaio 1943, in mezzo alla neve e con temperature di ben
venti gradi sotto zero. Basta leggere Il sergente nella neve, del compianto Mario
Rigoni Stern, per capire quale tragedia si è consumata in quelle lontane terre
bagnate dal Don.
Rimanendo a Rovolon dobbiamo qui accennare ad alcuni episodi accaduti
negli anni di guerra, soprattutto dopo l’otto settembre 1943. A ricordarceli
sono le relazioni scritte dai parroci che allora guidavano le comunità di San
Giorgio di Rovolon, Santa Maria di Bastia e San Giovanni Battista di Carbonara. Quelle relazioni, che narrano quanto accaduto entro i limiti di ciascuna
parrocchia, furono espressamente richieste nel giugno 1945 a tutti i parroci
della Diocesi dal vescovo mons. Carlo Agostini. Solo nel 2007 sono state rese
note, grazie all’opera infaticabile di don Pierantonio Gios, nel poderoso volume Guerra e Resistenza. Le relazioni dei parroci della Provincia di Padova.1 Le
riprendiamo, in parte, nelle righe che seguono accompagnate e integrate da
alcuni documenti emersi nel riordino dell’Archivio comunale. Tra questi documenti un paio sono d’indubbio interesse, non fosse altro perché riflettono
i problemi e le difficoltà dell’immediato dopoguerra. In quella temperie di
speranze per la fine del confl itto, a guida del comune liberato dai nazi-fascisti
il 29 aprile 1945 fu scelto il conte Novello Papafava. Un personaggio di rango
140
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
e un intellettuale unico, un liberale capace di assumere, pochi anni dopo, la
Presidenza della RAI, Radiotelevisione Italiana.
Della guerra, degli effetti nefasti che la popolazione subì, accanto alle ferite
mai del tutto rimarginate per chi ha perduto affetti e familiari, oggi rimane
un quotidiano testimone: il Monumento ai caduti sulla piazza antistante il
Municipio. Non un documento muto, celebrativo, bensì un segno della memoria capace di rinnovare il ricordo del tributo di sangue e di vite umane che
accompagna ognuno dei nomi scolpiti sul bianco marmo.
Rovolon
Nomi che non ritroviamo nelle relazioni dell’arciprete don Achille Marchiori
(nato a Cittadella del 1888), di don Anselmo Bernardi e di don Antonio Costa. Dei tre religiosi il più sintetico nel riferire gli eventi al vescovo Agostini
fu proprio l’arciprete di Rovolon. Alla richiesta di quanti sfollati giunsero in
parrocchia don Achille rispose: «Il numero degli sfollati in parrocchia è stato fluttuante: al massimo sono arrivati a 375, quasi tutti provenienti da Padova, una famiglia dalla Sicilia e due da Napoli. I prigionieri di guerra – aggiunge – furono 25; gli
internati in Germania 35. Fra gli sfollati: 11 famiglie povere. A favore di queste furono erogate £. 500 e generi in natura come frumento, granoturco, fagioli, patate, legna,
grasso di maiale eccetera, forniti generosamente dai parrocchiani». Alla richiesta di
quanto fu fatto in materia di assistenza spirituale il reverendo sacerdote precisò telegraficamente che «furono fatte speciali funzioni religiose per gli sfollati e
particolari istruzioni ai fanciulli».
Su quanto accadde nel territorio parrocchiale durante il movimento delle
truppe, don Achille si limitò a registrare l’occupazione delle ville Papafava
e Montesi, prima dalle truppe tedesche e successivamente da quelle inglesi,
Foto di gruppo
con milizia fascista,
riconoscibile dai
distintivi
sul berretto.
la se con da g ue rr a m on diale a rovolon
141
non mancando di sottolineare che «purtroppo non mancarono tresche e balli». La
parrocchia, fortunatamente, non subì né bombardamenti né mitragliamenti,
perché nel territorio non vi era «alcun obiettivo militare» e non vi erano «arterie
di traffico». Pure la chiesa non soffrì danni, fatta eccezione per la requisizione
della «campana grande del peso di Kg. 1050 e la campanella di richiamo del peso
di Kg. 35». Oggetti immediatamente sostituiti al termine della guerra «con
slancio unanime di tutto il popolo», in grado di raccogliere ben 170.000 lire per
acquistare una nuova campana grande. La relazione, datata primo agosto
1946. si concludeva con la dichiarazione che chiesa, casa canonica e casa della Dottrina non ebbero a subire bombardamenti, come pure «nessun danno
ebbero a soffrire i sacerdoti».2
La laconica relazione di don Achille, una delle più brevi dell’intera serie e una
delle ultime ad essere consegnata al cancelliere vescovile, denota l’assenza di
annotazioni nel registro cronistorico di quanto andava accadendo negli anni
del confl itto a Rovolon, in palese inosservanza delle direttive impartite dal
vescovo Agostini a tutti i parroci della Diocesi ben prima dello scoppia della
guerra. Redigere puntualmente il libro Cronistorico era un dovere canonico
disciplinato da precise direttive sinodali e al di là della semplice registrazione
degli eventi, aveva lo scopo di conservare memoria della vita religiosa e materiale di ogni comunità cristiana.
Bastia
Un compito che assolse invece con diligenza don Anselmo Bernardi (classe
1913) a Bastia. Diversamente dal confratello di Rovolon, il parroco di Santa
Maria della Neve il 31 luglio 1945 riferì al vescovo un quadro molto più ricco, articolato e puntuale di quanto successo soprattutto a partire dall’otto
settembre 1943. Sembra di essere in un altro paese, in una località lontana
chilometri e chilometri da Rovolon. Scrive don Anselmo.
I primi anni di guerra non portarono conseguenze gravi alla parrocchia, a parte
i richiami e la partenza dei giovani per la guerra. I soldati che complessivamente
nel periodo bellico prestarono il loro servizio militare si possono dire 260. All’otto
settembre 1943 molti di essi tornarono alle famiglie né più ripartirono. Però già una
trentina erano stati fatti prigionieri e portati nei campi di concentramento in tutto il
mondo. Altri 35 furono purtroppo internati in Germania, aggiungendosi così ad altri
5, che già vi erano rimasti per motivi di lavoro. Durante tutta la guerra non vi furono
morti sui campi di battaglia; tre soldati rimasero dispersi e sulla loro sorte non si
possono fare illusioni le famiglie. In Germania morirono come prigionieri un giovane
e un uomo sposato. Col primo bombardamento di Padova il 16 dicembre 1943 in parrocchia incominciarono ad affluire vari sfollati o sinistrati dalla città e dal suburbio
di Padova. Coi successivi bombardamenti altri se ne aggiunsero fino a raggiungere il
numero approssimativo di 500. Si allogarono come meglio poterono nelle varie famiglie; anche la casa della Dottrina e la canonica furono da essi occupate. Tra gli sfollati
c’erano dei ricchi, ma anche dei poveri. Si cercò di fare in modo che i ricchi aiutassero
i poveri. Fu pertanto subito costituita una speciale San Vincenzo, di signore sfollate e parrocchiane, le quali avessero da interessarsi ai bisogni delle famiglie sfollate.
142
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
L’opera fu davvero provvidenziale e riuscì a fare gran bene, compresa sempre più
ed appoggiata dai parrocchiani e dalle autorità comunali. Si poterono così assistere
tutte le famiglie bisognose, che successivamente raggiunsero il numero di 30. Furono
distribuiti effetti letterecci, indumenti, medicinali, buoni ed ogni altra cosa che fosse
necessaria. Il bilancio complessivo della San Vincenzo per gli sfollati si può valutare
a Lire […]. La pia associazione non si è ancora sciolta e lavora con frutto anche oggi
a vantaggio delle poche famiglie sfollate ancora rimaste; però le consorelle oggi sono
tutte parrocchiane, giacché le sfollate sono ritornate in città.
Alla domanda sull’assistenza spirituale offerta ai soldati al fronte, il parroco
di Bastia garantì di avere inviato lettere nelle varie solennità dell’anno, sia
con comunicazioni personali, sia con contatti diretti alle famiglie dei militari.
Ogni sabato in parrocchia si celebrava la messa del soldato, divenuta del prigioniero e dell’internato dopo il fatidico otto settembre 1943. Per prevenire
gli orrori dell’invasione e del passaggio della guerra venne fatto solenne voto
al Sacro Cuore di Gesù con l’impegno di celebrare ogni venerdì una funzione. Al termine della guerra quel voto si sciolse con l’acquisto di una statua
del Sacro Cuore, opera dell’artista padovano Luigi Strazzabosco e con una
solenne e sentita celebrazione tenuta il primo luglio 1945. Anche gli sfollati
trovarono conforto spirituale e assistenza morale, oltre a quella materiale,
tanto che diversi bambini si avvicinarono alla prima comunione.
Sul comportamento delle famiglie giunte a Bastia don Anselmo rilevò in alcuni un contegno «un po’ libero in fatto di moda», ma non tale da generare scandali. Dannoso e grave invece l’atteggiamento dei militari in transito. «Furti e rapine in quantità furono commessi dai tedeschi in ritirata: biciclette (anche quella del
parroco con la sua macchina da scrivere), buoi, cavalli, carretti, biancheria, eccetera
furono portati via: poco fu poi recuperato», annota amareggiato don Bernardi. Il
ballo, tuttavia, rimaneva lo scandalo numero uno, in grado di generare una
«moda indecente, contro ogni altro pericoloso divertimento». Nonostante le battaglie verbali contro la moda dilagante le prediche non riuscivano a far argine.
Il pensiero della guerra veniva momentaneamente accantonato proprio con
le feste e il ballo, di cui gli sfollati spesso ne erano i frequentatori più convinti.
In quegli anni iniziava il sostegno politico alla Democrazia Cristiana – scrive
sempre don Bernardi – e si combatteva la cellula comunista che faceva proseliti soprattutto fra gli operai della cava di calcare della ditta Marin.
Gli eventi bellici registrati a Bastia sono così narrati dal parroco.
Durante la battaglia aerea del 28 dicembre 1943 caddero in parrocchia di Bastia varie
bombe che causarono la morte dell’uomo cattolico e confratello del Santissimo, Scacco Cesare, colle sue bambine: Pia di anni 4 e Silvia di anni 5. Fu un dolore per tutta la
parrocchia. Il 4 gennaio di quest’anno durante il passaggio di varie formazioni una
bomba seppelliva il giovane Brocca Natale di anni 18. I tedeschi in ritirata di notte,
credendo di essere attaccati dai partigiani, spararono in direzione della campagna
dilaniando il bambino Baldin Franco di 5 anni. Altre vittime non vi furono, quantunque i mitragliamenti siano stati assai numerosi durante la guerra e specialmente
durante la ritirata. Non mancò un bombardamento a farfalla, il 21 marzo di questo
anno [1945]: vi perirono tre soldati tedeschi, ma nessun parrocchiano.
I danni materiali alle opere parrocchiali riguardarono i vetri e il tetto della
chiesa colpiti dal bombardamento a farfalla del 21 marzo 1945. In anni così
la se con da g ue rr a m on diale a rovolon
143
difficili, tuttavia, la comunità seppe costruire il cinema “Alessandro Manzoni”
«opera grandiosa e tanto utile alla parrocchia. Fu compiuta in 4 anni di lavoro e colla spesa complessiva di Lire 533.000», sottolineò soddisfatto ed orgoglioso don
Bernardi nella sua relazione. Nella parte personale la relazione del parroco di
Bastia contiene questa testimonianza.
Il 23 novembre 1944 elementi delle SS italiane e della Muti, unitamente a due parrocchiani di Bastia, arrestarono e tradussero alla Casa di Pena di Padova il reverendo
cappellano di Bastia, don Gelindo Rizzolo. Egli era imputato di disfattismo con la
sua predicazione, di antifascismo, di aver sobillato i giovani a non presentarsi alla
leva. Il parroco fece tutto il possibile per affrettarne la scarcerazione e il 23 novembre
dello stesso anno il sacerdote fu dal comando della SS tedesca affidato a sua Eccellenza monsignor vescovo perché da lui fosse messo in luogo quasi di prigione in cui
Denuncia
dei danni subiti
dall’ingegnere
Veronese durante
la ritirata dei
tedeschi, datata
3 maggio 1945.
144
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
non potesse, a loro giudizio, essere nocivo. Durante la prigionia il sacerdote non ebbe
particolari maltrattamenti; fu interrogato senza violenze; ma dovette rimanere in
una cella fredda ed umida con un trattamento da carcerato. Al parroco riuscì con
difficoltà di confortarlo con una sua visita.
Al parroco sembra di poter dichiarare che il contegno del suo cappellano non giustificava l’arresto e la prigionia: il sacerdote, antifascista di vecchia data, qualche
volta nella predicazione e nella conversazione pronunciò qualche parola di disapprovazione della violenza, dell’odio e anche della politica fascista: questo specialmente
dispiacque, ma non doveva certo essere motivo sufficiente per una cattura.
Il parroco personalmente ritiene, durante il periodo bellico, di aver sempre tenuto
un contegno ispirato alla prudenza, astenendosi da qualsiasi politica e coltivando
soltanto il bene delle anime. Ciò non toglie che abbia avuto qualche noia dalle truppe tedesche di presidio: ma in complesso il suo contegno non fu criticato. Si occupò
sempre e con tutti i mezzi di far del bene a quanti ebbero maltrattamenti ed arresti e,
grazie a Dio, in parrocchia non vi furono incidenti gravi e dolorosi.
Se qualche parola fu detta contro di lui dopo la liberazione, è motivata dal suo contegno riservato durante la guerra, in confronto con quello del cappellano, e specialmente dell’aver interposto i suoi buoni uffici, in nome della carità cristiana, a favore
dei fascisti che furono tratti in arresto con delle accuse manifestamente ingiuste, anzi
assurde. Ora sembra che tutto sia tornato alla normalità. A chiusa della relazione, il
parroco esprime al Sacro Cuore di Gesù la sua riconoscenza perché durante il flagello
la parrocchia fu preservata da gravi calamità e prega perché le sofferenze passate
servano a bene dell’avvenire.3
Un avvenire di speranza fu il lascito di don Anselmo, in seguito divenuto
parroco di Bassanello in Padova e dei suoi amati barcari, e più tardi primo
direttore del nuovo Seminario Minore a Tencarola. Chi l’ha conosciuto serba
in cuore il ricordo di un uomo pacato e sensibile, attento e premuroso.
Settembre 1947.
Il conte Novello
Papafava, primo
sindaco di Rovolon
dopo il 25 aprile
1945, a Frassanelle
con la moglie e,
al centro, lo storico
Gaetano Salvemini
(Molfetta 1873 Capo di Sorrento
1957).
la se con da g ue rr a m on diale a rovolon
145
Carbonara
Non molto diverso dalla relazione del parroco di San Giorgio di Rovolon ci
appare il resoconto di don Antonio Costa, parroco di Carbonara. Sugli sfollati giunti in parrocchia il giudizio amaro si accomuna al disappunto per la
scarsa frequenza alla chiesa: «il 10% ascoltano la santa messa alla domenica, una
percentuale ancora più bassa adempì al precetto pasquale; i furti furono all’ordine
del giorno». La parrocchia visse momenti difficili non solo per i 139 sfollati ma
pure per i 105 tedeschi «fermatisi per sei mesi nella frazione di Lovolo».
La relazione di don Antonio, datata 25 luglio 1945, riferisce poi della battaglia aerea svoltasi sul cielo di Carbonara il 28 dicembre 1943. Lasciamo al
testimone la penna. Più di cento velivoli inglesi contro un numero molto maggiore
di tedeschi si contendevano il primato. Gli inglesi, visto la mal parata, cercarono di
fuggire e per essere più lesti cominciarono a scaricarsi delle bombe che portavano. Dieci bombe caddero alle Valli, attorno alla casa di Padovan Silvio, e per miracolo non
si lamentarono vittime. La casa subì molti danni e per parecchi mesi fu inabitabile e
intanto i componenti la famiglia (nove persone) si alloggiarono in varie case, accolti
caritativamente dai buoni.
Sui rastrellamenti tedeschi compiuti nella zona settentrionale dei Colli Euganei il parroco annota ancora. Due furono i rastrellamenti sul Monte della Madonna, ma senza esito perché gli sbandati fecero tempo a fuggire. Due pure furono le
visite notturne dei così detti ribelli: una l’8 luglio 1944 dal fittavolo di Cogo “Miotello
Giuseppe” e portarono via una cavalla con biroccino e finimenti col lasciar detto che
sarebbero ancora tornati e che il padrone preparasse ottantamila lire. L’altra visita
notturna ebbe luogo il 25 luglio da Pierantoni Antonio, il quale dovette consegnare
una schioppa da caccia a due canne e poi del denaro.
I fatti più gravi, infine, accaddero negli ultimi mesi del ’45. Scrive ancora don
Antonio Costa. Nessun sacerdote ebbe a soffrire per ferite o allontanamento; solo un
secolare, contadino, Soranzo Riccardo d’anni 42, da Lovolo il 28 aprile ore 10 fu ucciso nei suoi campi e non si sa il motivo. Il danno più grande alle persone venne il 4 gennaio 1945, giorno nel quale si videro passare centinaia di veicoli e si crede che alcuni
furono colpiti dalla contraerea di Verona e nella fuga verso Padova una formazione di
sette bombardieri volò sopra questa parrocchia lasciando cadere una bomba a Lovolo
dove seppellì un ragazzo di 17 anni da Bastia di cognome Brocca e poi ne lasciò cader
una in via Palazzina colpendo in pieno la casa colonica di Veronese Giordano, abitata dagli affittuali Rinaldi e rimasero morte cinque persone: nonna Oliviero Angela
d’anni 58; mamma Sgarabottolo Albina d’anni 32; figli Rinaldi Luciana d’anni 10,
Silvano d’anni 8, Ermenegildo d’anni 6.
Quanti disastri portò questa inutile guerra e quanto forse dobbiamo soffrire ancora.
Ci aiuti Iddio buono e misericordioso.4
Tra 1943 e 1945: gli ultimi venti mesi
Gli eventi narrati da questi autorevoli testimoni trovano riscontro anche tra
le carte dell’archivio comunale. Una nota del 21 settembre 1944 segnala al
Prefetto di Padova che gli sfollati registratisi a Rovolon furono complessiva-
146
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
mente 607 di cui 255 maschi e 352 femmine. Dei bombardamenti sul paese
troviamo eco in un telegramma datato 28 dicembre 1943, che testualmente
recita: «Ore 14,40. Ecc. Capo Provincia. Seguita battaglia aerea precipitato apparecchio caccia tedesco – punto – Pilota salvatosi facendo uso paracadute – punto – Sgancio bombe apparecchio nemico provocato danni abitazioni et tre vittime et un ferito.
Commissario Prefettizio Rovolon». Il tragico evento della morte dei tre membri
della famiglia Scacco trovò eco nei quotidiani del tempo, che descrissero brevemente anche la cerimonia funebre che ne seguì. Delle fortificazioni realizzate nella zona per difendere il movimento delle truppe troviamo invece
riscontro in un manifesto, fatto stampare in dieci copie dal commissario prefettizio del comune di Rovolon il 15 marzo 1945. Questo il testo:
Municipio di Rovolon
MANIFESTO
Il Militar Kommandantur 1004 ha disposto che attorno
alle opere di fortificazione militare, sistemi di trincee
e simili, e precisamente per un raggio di 50 metri,
il terreno debba rimanere incolto, come campo
libero di tiro.
Qualora il terreno venga coltivato con piante di
bassa vegetazione (fino a 30 cm. di altezza), allora è
sufficiente uno spazio libero del raggio di 20 metri.
Il predetto Comando precisa che tutti i danneggiamenti
eventualmente arrecati a tali impianti dovranno
essere riparati a spese dei responsabili e, qualora
questi non fossero identificabili, a spese del Comune
Rovolon, 15 marzo 1945, XXIII
Il Commissario Prefettizio
(Amedeo Lotto)
Al termine della guerra – come ci ricorda la minuta di una lettera datata
5 giugno 1945 – le fortificazioni tedesche furono smantellate, tanto da far
scrivere al Sindaco che «esistono in Carbonara di Rovolon circa 60 quintali
di legname ricavato dalla demolizione delle opere di fortificazione militare e
raccolta dal locale Comando dei patrioti, legname che – conclude la missiva
– ai sensi delle disposizioni pervenute, non può essere assegnato se non a seguito di ulteriori disposizioni». Tra le carte dello stesso archivio si conservano
elenchi di animali da tiro e di effetti personali rubati durante la ritirata tedesca: furti che misero in seria difficoltà i contadini, impossibilitati ad effettuare
i lavori agricoli richiesti dalla stagione.
Eventi che ricalcarono un passato mai dimenticato, come la fortezza di legname (la bastita medievale) e, giusto cinque secoli dopo, il saccheggio e le
rapine compiute dalle truppe viscontee nel 1439. Allora la sottrazione di animali da lavoro mise in ginocchio un intero paese. La storia, come si può intuire, ripete il suo corso con i protagonisti, cioè gli uomini, che non perdono
la se con da g ue rr a m on diale a rovolon
147
occasione per manifestare tutta la
loro miseria.
Quanto accadde al termine del
confl itto lo troviamo descritto
in alcuni resoconti redatti nel
maggio 1945: «Il Comune venne liberato il giorno 29 aprile,
nelle prime ore del mattino tra
l’entusiasmo della popolazione»,
recita la Relazione sulla situazione
creatasi a seguito dell’avvenuta liberazione e quella stessa mattina
gli aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale costituirono,
con concorde deliberazione, la
nuova amministrazione comunale. A comporla furono il Co. Dr.
Novello Papafava dei Carraresi, nominato Sindaco; l’ingegnere e professore
Alessandro Veronese, nella veste di Vice-Sindaco; Giuseppe Manfredini, con
funzioni di assessore; Gino Fasolo, anch’esso nominato assessore; Giuseppe
Benato, figlio di Antonio Modesto, pur esso assessore; e infine Giuseppe Zattarin di Massimiliano, anch’esso assessore.
La ricostruzione materiale fu dura. Gli effetti di quei tragici anni continuarono a lungo a ripercuotersi sulla popolazione, come ci ricorda l’ultimo tragico
resoconto, con cui chiudiamo questo capitolo. È tratto da una nota del 17
dicembre 1946. Al sindaco di Vicenza vengono inviati i nomi dei “fucilati dai
nazifascisti”, un elenco che riportiamo così come fu stilato in quella nota:
Pasqualin Luigi di Natale e di Rinaldi Giuseppina nato a Rovolon il 29.11.1925;
Montemezzo Aldo di Ettore e di Toniato Gilda nato a Mossano il 18.6.1924;
Navarin Massimiliano di Giacomo e di Nardo Teresa nato a S. Angelo di Piove il
6.12.1925.
Tutti residenti in questo Comune, vennero arrestati dalle S.S. tedesche perché sospettati di appartenere a formazioni partigiane e perché renitenti ai bandi di chiamata
alle armi della Repubblica di Salò.
Rinchiusi nella casa di pena di Padova e considerati ostaggi vennero dopo pochi giorni portati a Vicenza e fucilati per rappresaglia.5
I tragici frutti della violenza della guerra.
Note
1. Pierantonio Gios, Guerra e Resistenza. Le relazioni dei parroci della Provincia di Padova,
Selci-Lama (PG) (Editrice «Pliniana»), 2007.
2. Gios, Guerra e Resistenza p. 395.
3. Gios, Guerra e Resistenza p. 39-42
4. Gios, Guerra e Resistenza p. 145-146
5. I documenti sono tutti custoditi nell’Archivio comunale di Rovolon.
Bastia.
Le scuole comunali
in una cartolina
spedita nel 1953.
La mia gioventù.
Ricordi di Vittorio Miotto
Nacqui il 10 gennaio 1920. Fui chiamato alle armi il 13 marzo 1939 dall’Esercito Italiano, avevo 19 anni. Fui assegnato al 4° Reggimento Autieri di Verona.
Da lì fummo inviati al distaccamento di Bolzano, dove rimanemmo per un
periodo di addestramento; successivamente rientrammo alla sede di Verona.
Era già il 1940. Lì venne formata un’Autosezione composta da 24 autocarri
(OM 137), 48 autieri, (dei quali facevo parte anche io), un meccanico, un motociclista, un Capitano e un Sergente: totale 52 militari. Ci mobilitarono per
la guerra: facevamo parte del Quartier Generale Divisione Pasubio.
La guerra ebbe inizio l’11 giugno 1940. Ci mandarono al fronte francese ma,
quando arrivammo, la Francia capitolò perché i Tedeschi erano già arrivati a
Parigi. Dal Piemonte ci trasferirono a S. Pietro del Carso, in Istria. Ci fecero
entrare successivamente in Jugoslavia: l’Italia infatti aveva dichiarato guerra
alla Jugoslavia. Entrammo in Jugoslavia e guidammo per 60 ore consecutive,
senza dormire perché bisognava arrivare a Sebenico. La Jugoslavia capitolò e
i suoi soldati scapparono tutti a casa, disertando. Rimanemmo a Sebenico per
circa 40 giorni poi ci fecero rientrare a Verona.
A Verona giunse Mussolini, noi sfilammo davanti a lui con la nostra Autosezione e tanti altri Reparti facenti parte della Divisione Pasubio. Del discorso
da lui pronunciato ricordo particolarmente questa frase: “a noi è concesso
l’onore di andare a combattere in Russia contro il bolscevismo a fianco dei
camerati tedeschi”.
Erano le tre del mattino del 22 giugno 1941 quando Hitler iniziò l’invasione
dell’Unione Sovietica. Noi Italiani eravamo alleati con i Tedeschi. Mussolini
e l’Esercito Italiano decisero di mandare un Corpo Spedizione Italiani in Russia (C.S.I.R.), composto da varie Divisioni, compresa la Pasubio di cui facevo
parte, e quindi il 14 luglio 1941 partimmo. Caricammo autocarri, ecc., alla
stazione Porta Nuova di Verona per raggiungere il fronte russo e combattere
a fianco dell’alleato tedesco contro i Russi. Scendemmo a Suceava, in Romania, da lì attraversammo su strada i Carpazi, catena montuosa della Romania,
per raggiungere l’Ucraina e quindi inoltrarci nel fronte russo, ove affrontammo i primi combattimenti col nemico: FU GUERRA.
La Russia fu sorpresa dall’attacco tedesco in quanto aveva stipulato patti d’alleanza con la Germania. Hitler il sabato fece bombardare i campi di aviazione, distruggendo moltissimi aerei russi, e la domenica successiva presentò la
dichiarazione di guerra alla Russia. L’aviazione russa subì moltissime perdite
di forze aeree.
Sulla scia dall’entusiasmo delle vittorie ottenute in Europa, Hitler invase Polonia, Cecoslovacchia, Olanda, Belgio, Francia, ecc., accumulò un enorme
150
Vittorio Miotto
con Danilo Rubini
a Sebenico nell’ex
Jugoslavia il 18
aprile 1940.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
bottino di guerra a spese di tutti questi paesi, ma non valutò sufficientemente il pericolo di attaccare una nazione caratterizzata da
un territorio vasto che comprende 2000 km
di fronte, ambienti impervi con poche strade
asfaltate (in maggioranza carreggiate di campagna, sterrate: quando pioveva le macchine
slittavano e si mettevano di traverso, scivolando verso il ciglio della strada). Le vetture che
avevano necessità di proseguire, nel fango fino
al mozzo, riuscivano a percorrere 1 km in un
giorno; un pantano impossibile: vedere per
credere! Bisognava aspettare due o tre giorni
per ripartire dopo la pioggia. Quindi la macchina da guerra subiva un arresto. Quanto
alle ferrovie, i treni russi correvano su binari
di 130 cm mentre i treni in Europa correvano su binari di larghezza inferiore, per cui bisognava stringere tutti i binari per far sì che
i treni nostri potessero entrare per portare i
rifornimenti alle truppe operanti. Hitler invio
le proprie Armate a sprofondare nel pantano
nell’autunno 1941. Incredibile la situazione
che si era creata a causa di tutto questo impantanamento!
La rapida avanzata delle truppe tedesche e alleate fecero sì che i raccolti di grano e altro rimanessero abbandonati a marcire nei campi. I Russi subirono gravissime perdite di uomini, fatti prigionieri
o morti in combattimenti e sotto i bombardamenti degli Stukas tedeschi.
Nelle città si soffriva la fame perché non c’erano mezzi di sostentamento. I
Russi, prima di ritirarsi, portavano via tutto, non lasciavano nulla al nemico
che avanzava. In una località vicino al Mar Nero, di cui non ricordo il nome,
esistevano dei magazzini ove si raccoglieva grano, granoturco, avena, ecc.;
circa una ventina di capannoni immensamente grandi e ognuno di questi
conteneva migliaia di tonnellate di grano. Un mese, prima dell’avanzata tedesca, i russi appiccarono il fuoco a tutti i capannoni che erano colmi.
Dopo mesi, andai anch’io lì a caricare del frumento bruciato per portarlo ai
molini a Stalino, dove veniva trasformato in farina. Era inverno ed eravamo
in una sacca, accerchiati dai Russi, e non arrivavano né posta né viveri, così ci
davano da mangiare pane fatto con la farina del frumento bruciato. In seguito riuscirono a rompere l’accerchiamento e tutto ritornò normale.
In guerra ogni giorno era buono per aspettarsi di tutto; al ritorno non si
pensava mai perché tanta era la distanza e il pericolo era costante. Non si era
sicuri neanche di notte perché d’estate, gli aerei lanciavano in cielo i bengala
che illuminavano a giorno per ore ed ore vastissime zone, mentre loro giravano sopra e lanciavano bombe incendiarie che continuamente emettevano
bagliori ad intermittenza. E noi sotto, in attesa dello sgancio di bombe. Ave-
la m ia g iov e n tù
151
vamo il cuore in gola dalla paura di essere colpiti! D’inverno, quando il tempo lo
permetteva, c’era “Pippo”, un aereo che
la notte ci volava sopra per bombardare
dove gli sembrava più opportuno. Quindi,
si dormiva con molta ansia e paura, con i
nervi a fior di pelle.
La nostra Autosezione (la 137 Autosezione Pesante) fu sempre impegnata nei trasferimenti, trasportando tutto quanto era
necessario: ospedali da campo, forni per
panettieri, uffici del Comando Divisione,
uomini, viveri, munizioni e quant’altro.
Percorremmo un’infinità di chilometri su
quelle strade che erano carreggiate sterrate di campagna, che con un po’ di
pioggia si trasformavano in fango scivoloso ed impercorribile. Superammo
tantissime difficoltà dovute all’ambiente impervi grazie anche all’esperienza
che avevamo fatto. Subimmo bombardamenti, attacchi aerei svariate volte;
per fortuna ce la siamo cavata.
Parliamo ora del clima russo
L’inverno in Russia è quanto di peggio uno possa pensare, da non augurare
a nessuno! L’inverno 1941-42, quando eravamo là noi, il termometro raggiunse i 50°C sotto zero. Erano 120 anni che non si verificava un inverno
così freddo, dicevano i Russi. Con l’avanzata estiva si arrivò al Bacino del
Donez. Noi, con la nostra Autosezione, ci accampammo a Gorlowka, dove si
trovavano le miniere di carbone. Con quel maledetto freddo, continuammo
sempre il nostro servizio di rifornimento alle truppe. Si correva su una lastra
di ghiaccio spessa 60-70 cm in continuazione, utilizzando il solo cambio e
pochissimi freni. Mettere in moto le macchine al mattino era un problema
dato il grande freddo.
Delle 24 macchine si utilizzava prima quella che aveva la batteria in condizioni migliori, dopo aver fatto un foro nella camera di aspirazione si faceva aspirare attraverso questo foro la fiamma di fuoco ottenuta da uno straccio imbevuto di gasolio a cui era stato dato fuoco. Con questa, che si utilizzava per
prima si trainavano le altre finché si mettevano in moto. Una volta in moto,
si metteva l’acqua nel radiatore e si doveva tenere il motore sempre acceso
perché se si spegneva si ghiacciava. Alla sera, quando si spegneva il mezzo, si
toglieva l’acqua per poi rimetterla alla mattina successiva dopo averlo messo
in moto.
La strada era un’unica pista tenuta aperta a suon di pale e badili, con la neve
ai lati alta 3-4 metri. Alla gente che lavorava per spalare la neve si congelavano
il mento, il naso, le sopracciglia; ho visto cose incredibili dovute al freddo. I
morti come cadevano rimanevano pietrificati dal grande freddo. Le bufere di
neve duravano 8 e anche 15 giorni e quindi sommergevano tutte le piste.
La 137a
autostazione
dove prestò
servizio militare
Vittorio Miotto.
152
Soldati italiani
in Russia nel 1942.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Il 2 febbraio 1942 rischiai anch’io di essere sommerso dalla neve in una di queste bufere; ne uscii per
puro miracolo. Andammo a caricare della carne a
Stalino e nel fare ritorno ci imbattemmo in una di
queste bufere di neve che poi durò 15 giorni e coprì
tutta la pista.
La neve che continuava a cadere era ormai così alta
sulla pista che copriva il cofano della macchina e si
divideva sul vetro. Ad un certo momento facevamo
fatica a tenere il volante. Se non ce l’avessimo fatta
ad arrivare all’accampamento, durante il tragitto saremmo stati sommersi da 4-5- metri di neve, lontani
da tutto, e quindi saremmo morti poiché il vento e
la neve, che durarono giorni, avevano sommerso e
cancellato tutta la pista. Arrivammo a Gorlowka a
mezzanotte. Dio fece che arrivammo vicino al nostro accampamento ma andammo fuori pista e ci
piantammo. Intervennero i nostri compagni e con
un’altra macchina ci tirarono fuori. Faceva un freddo cane!
Quando si parla di inverno russo sarebbe meglio
dire “inferno” russo, considerato quel freddo siberiano che raggiunse 40-50°C sotto zero.
Ho visto l’orrore della guerra. Prigionieri russi, a migliaia, camminare sulla
neve, sfiniti, stanchi, esausti, dover continuare la marcia verso le retrovie; i
più deboli, vecchi anche di 60-65 anni, non gliela facevano più e rimanevano
indietro. Gli sparavano un colpo di pistola alla nuca: cadevano morti sulla
neve e rimanevano lì marmorizzati dal freddo. Se li prendevi per un dito li
alzavi stecchiti come baccalà!
Ho visto Ebrei costretti a scavarsi la buca con piccone e badile e, una volta
raggiunta la profondità di 2 metri, con un colpo di pistola alla nuca uno alla
volta cadevano morti dentro alla fossa.
Ho visto le deportazioni di massa. I Tedeschi emisero un’ordinanza per cui
tutte le donne dai 18 ai 60 anni dovevano presentarsi alla stazione il giorno
X; venivano caricate nel treno e deportate in Germania ai lavori. C’era tanta
fame diff usa, specie nelle città, non si trovava nulla per sfamarsi; inoltre si nutriva solo chi collaborava con i Tedeschi: a questi davano da mangiare mentre
a chi non lavorava non davano nulla. I Russi soffrirono tanto la fame in questa
situazione bellica. Figuratevi che trainando a mano la slitta sulla neve, col
freddo, facevano decine di chilometri nelle retrovie e tornavano con degli
arbusti secchi che mangiavano tritati fini con un po’ di grasso. Non avevano
nulla da mangiare. Se avessero avuto quello che le nostre mamme davano da
mangiare ai maiali qui in Italia sarebbe stata una festa per loro!
Ho visto chiese trasformate in magazzini, svuotate, ecc…
Loro erano devoti alla Madonna, i quadri però li tenevano nascosti dietro al
cassone della farina perché era proibito tenerli esposti. Quando il nostro cappellano militare, nei giorni di festa, quando era possibile, celebrava la messa
la m ia g iov e n tù
153
al campo, si vedevano molti Russi avvicinarsi e unirsi a noi per assistere alla
Santa Messa.
Nei paesi, lo “Starosta il Podestà” aveva la radio e tutte le famiglie vi erano
collegate tramite altoparlanti: tutti erano obbligati ascoltare notizie che voleva lo Starosta. Quando si avanzava si trovava gente impaurita perché gli si
diceva che noi gli avremmo tolto il cuore, gli occhi e gli avremmo tagliato le
mani. Noi di solito, in estate, dormivamo all’interno dei mezzi ma quando
cominciò il freddo, si requisiva una stanza alle famiglie russe, ci si sistemavamo in gruppi di 4. Loro ci mettevano a disposizione la stanza ma rimanevano
in atteggiamento ostile e diffidente perché erano piuttosto impauriti. Io, nel
tentativo di modificare questo loro atteggiamento, offrii parte del mio rancio
ma non lo accettarono poiché avevano paura che fosse avvelenato.
Insistei perché mangiassero ma loro mi fecero capire che prima dovevo assaggiarlo io.
Le famiglie russe che conobbi erano come noi, buona gente.
La Russia in quei tempi risultava un paese dal quale non trapelavano all’esterno notizie che la riguardavano, di nessun tipo. Non c’era turismo, solo relazioni diplomatiche tra Ministri degli Esteri.
Sono convinto che Hitler non abbia tenuto conto dell’ambiente impervio e
del clima terribilmente rigido dell’inverno russo, con temperature che arrivavano a 40-50°C sotto lo zero.
A settembre cominciarono le piogge miste a nevischio, a ottobre piogge e impantanamenti a non finire. Novembre brutto, con neve, nebbie, ecc. A dicembre il grande e terribile freddo. La pianura russa è ondulata e formata da piccole collinette; la neve, d‘inverno, fa tutto un livello sicché nelle bassure raggiungeva anche i 4-5 metri. Si doveva aprire una pista per recarsi da un posto
all’altro ma quando arrivava una bufera di neve, che durava anche 8-15 giorni,
cancellava tutto e bisognava rifarla; la gente con i badili e ai lati argini (di neve)
alti 4-5- metri. A maggio, quando cominciò lo scongelamento, l’acqua correva dappertutto e spesso trovava lo sfogo, ma dove non lo trovava, creava delle
pozzanghere come laghetti lunghi anche 500-600 metri, poco profondi ma
che noi dovevamo oltrepassare per non interrompere i rifornimenti.
Ai primi di giugno 1942 iniziò l’avanzata e, dopo aspri combattimenti contro
i Russi nella sterminata steppa del Caucaso, le nostre truppe raggiunsero il
fi ume Don e si accamparono sulla riva destra del fi ume. Per arrivare attraversammo campi minati pericolosissimi; gli artificieri nella prima macchina facevano saltare le mine e tutti dovevamo scrupolosamente seguire sulla
carreggiata le impronte della prima macchina, altrimenti c’era il rischio di
saltare in aria. Attraversammo zone paludose con strade fatte con tronchi di
alberi uniti con ganci alla testa; e questo per 10-15 km.
Il Caucaso è un’immensa steppa sterile, brulla con carreggiate di campagna.
Le case erano fatte con pali, sterco e terra, il tetto era di paglia e i pavimenti di
terra. Di solito composte di due vani, un terzo occupato da una grande stufa,
con spazio sopra per dormirci d’inverno quando fa freddo e c’è tanta neve. I
pozzi erano una buca per terra, con del legno ai lati dell’imboccatura e, per
attingere l’acqua, un palo messo a bilanciere con una catena in punta. I mulini
erano a vento e dislocati sulle alture. Si trattava di zone primitive nelle quali ti
154
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
sembrava di essere ai confini del mondo. Questo per quanto riguarda le steppe
del Caucaso. Le città invece erano posti più evoluti, ma lontane centinaia di
chilometri l’una dall’altra. I paesi invece, distavano 30-40 km l’uno dall’altro.
Dopo un anno di guerra, i Tedeschi avevano perduto per morti e congelamento, feriti e prigionia più di un terzo dei loro soldati impegnati al fronte
russo. Così per le truppe loro alleate. Durante il secondo anno di guerra,
e precisamente nel luglio-agosto 1942 furono mandate in Russia anche le
Divisioni Alpine, Julia, Tridentina, Cuneense e la Vicenza che, unite alle nostre, formarono l’8^ Armata Italiana chiamata “ARMIR”. Trasportai io stesso
dalla stazione di notte, diversi alpini fino al fronte sul Don, ove si schierarono a fianco delle nostre truppe. Durante l’estate 1942, la 6a Armata tedesca,
composta da 260.000 uomini motorizzati e modernamente armati, entrò a
Stalingrado verso il Volga e i pozzi di petrolio. Fu accerchiata dai Russi e, nonostante una strenua lotta, non riuscì a rompere l’accerchiamento. Ricevette
l’ordine da Berlino di resistere ad oltranza, poiché sarebbe stata rifornita via
aerea ma poi sopraggiunse l’autunno ed il tempo avverso e ciò non fu possibile per il grande freddo. Dopo aspri combattimenti e stretti nella morsa
dell’accerchiamento, i soldati rimasero senza rifornimenti. Furono annientati dai Russi; gli ultimi superstiti sconfitti si rifugiarono negli scantinati, fatti
tutti prigionieri e ridotti alla fame.
Noi eravamo a Ogalev, un paese sull’ansa del Don. Era dicembre. Una sera
arrivò l’ordine di andare fuori di pattuglia perché c’erano infiltrazioni di pattuglie russe, una cosa mai accaduta a noi autieri. Uscimmo per l’intera notte,
faceva freddo e c’era un po’ di nevischio. Al mattino, quando rientrammo, mi
sentivo male, faticavo a respirare e non sentivo più i piedi per il freddo. Chiesi
di essere visitato e mi portarono all’ospedale da campo italiano, che era nella
scuola del paese. Sentivo i cannoni sparare vicino e il via vai dei nostri soldati
che arrivavano feriti dal fronte. Io non mi rendevo conto della gravità perché
ero notevolmente debilitato.
Un mattino entrò il Capitano medico e dette ordine a due infermieri di vestirmi e di coricarmi in un’autocarretta assieme ad altri due ammalati. Quando
mi misero nell’autocarretta, passò una squadriglia di aerei Rata russi che mitragliavano a bassa quota. Li vidi, saranno stati una ventina, sentii bene i colpi
sul ghiaccio ma per fortuna non mi colpirono: misi la testa fra le braccia ed
implorai Mamma!!! I Russi, dopo aspri combattimenti e con forze preponderanti, riuscirono a passare il Don e a travolgere le nostre linee facendo molti
morti e prigionieri.
Passati gli aerei che mitragliarono, salirono in macchina il Capitano, un Tenente cappellano e un Sergente autista e ci incamminammo per il ritorno, su pista
di neve che in qualche tratto era alta anche 4-5 metri. Si correva piano perché
la pista era innevata; ad un tratto, finimmo la benzina. Ci accorgemmo di un
fusto che qualcuno aveva scaricato per alleggerirsi; avevamo così la fortuna di
rifornirci e di continuare il viaggio. Arrivammo dopo un lunghissimo percorso lungo una pista tutta innevata a Voronezh ove il Capitano mi consegnò a
due soldati della Croce Rossa, raccomandandomi a loro perché avevo polmonite, pleurite e un congelamento ai piedi. Nelle retrovie erano spaventati perché sapevano che i Russi avevano sfondato le nostre linee. Mi lasciarono tutta
la m ia g iov e n tù
155
la notte al freddo, seduto per terra in un
corridoio; al mattino ero di ghiaccio e
mi portarono in un letto; per riscaldarmi
un po’ stetti con la testa sotto le coperte
fino al mattino successivo.
Dopo due giorni mi caricarono in treno
e fui trasferito a Kharkov, in un ospedale da campo italiano. Rimasi lì una
settimana; mi fecero varie visite e decisero di rimandarmi in Italia. Così, il 31
dicembre 1942, mi caricarono sul treno
ospedale n. 18, con i vagoni riscaldati,
coperte e assistenza italiana. Non mi
sembrava vero, dopo tante sofferenze!
Alla sera del 31 arrivammo alla stazione di Kiev e il treno rimase fermo per
tutta la notte perché fuori c’erano i partigiani Rossi. Un cappellano militare
camminava per il corridoio del treno con la corona in mano e diceva: ”Ragazzi preghiamo perché fuori ci sono i partigiani”, sentivamo infatti sparare dei
colpi. Finché, al chiarore del mattino, il treno ripartì e arrivammo in Italia il 6
gennaio 1943 e fui ricoverato all’Ospedale Macchi di Varese Campo dei Fiori.
Al ritorno, quando il treno arrivò a Bolzano i soldati che potevano farlo scesero dal treno e baciarono il suolo italiano, quello della propria Patria. Io non
ci riuscì perché ero troppo debole, ma l’avrei fatto volentieri. Dai finestrini i
civili italiani ci lanciavano fiori, cioccolato, sigarette.
Quando il treno che ci portava entrò nella stazione di Varese vedemmo un’infinità di persone con le foto dei loro cari che erano stati mandati in Russia,
che chiedevano se qualcuno avesse notizie di loro. Noi lasciammo il fronte
nel momento in cui i Russi avevano sfondato le nostre linee:questione di ore
e saremmo caduti prigionieri anche noi.
La mia salvezza la devo al Comandante dell’ospedale che al momento di –“si
salvi chi può” – all’arrivo dei russi, mi fece fuggire con lui altrimenti io, con
polmonite, pleurite e congelamento ai piedi, sarei rimasto lì e quindi sarei
stato fatto prigioniero il che avrebbe voluto dire morte, come successe a tanti
miei compagni che non fecero più ritorno. Quando ci penso, tuttora ringrazio sempre Dio di avermi aiutato a tornare.
Eravamo partiti in 52 della 137 Autosezione Pesante; ritornammo in meno
di 10. Tutti gli altri o caddero in combattimento o furono fatti prigionieri e
quindi morirono nei campi di concentramento di freddo, fame e malattie che
li ridussero a larve umane; furono seppelliti in fosse comuni, assieme ad altri
soldati di e nazionalità diverse. Molti non fecero più ritorno alle care famiglie.
Caddero sotto atroci combattimenti; colpiti da fuoco nemico in un deserto di
neve e ghiaccio, con temperature di 30-40°C sotto zero, o fatti prigionieri; e
furono così tanti che io e tutti quelli che a questa guerra parteciparono non
potremo mai dimenticare!
Io tornai dal fronte in barella con un treno ospedale, non avevo nulla, solo la
vita, che era tutto. Arrivato all’ospedale di Varese, quando sentii il rintocco
delle campane ebbi una grande emozione, come se fossi rinato. Erano 18
Gli effetti del
bombardamento
aereo a Gorlowka,
in Russia, nel 1942.
156
Cimitero di soldati
italiani a Gorlowka
(Russia) il 1°
gennaio 1942.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
lunghi mesi che non lo sentivo e ciò mi
ridiede tanta serenità. Alla prima visita
medica, chiesi alla crocerossina cortesemente di procurarmi un foglio di carta,
una busta, un francobollo e una penna
per informare i familiari che ero ricoverato all’ospedale di Varese. Lei gentilmente mi portò tutto subito e io scrissi
a casa visto che da parecchio tempo
non avevano mie notizie. Quando arrivai dal fronte pesavo 39 kg, sulle mie
gambe non si vedevano più muscoli dei
polpacci, si notava bene l’osso.
Mio padre mi raggiunse subito e l’incontro fu immensamente commovente!
Partimmo per la Russia nel 1941 e in
Italia c’era ogni ben di Dio. Tornammo nel 1943 e trovammo un’Italia in gran
parte distrutta dai bombardamenti, c’era poco da mangiare, da vestire, tutto
si acquistava con tessera, anche le sigarette. Non c’erano auto, tranne che
per il medico e il veterinario; biciclette poche e non si trovavano i copertoni;
mancava perfino il sale. Se trovavi qualcosa era al mercato nero. Io partii che
avevamo un grande magazzino di tessuti strapieno, ritornai ed era vuoto.
Tutto era stato distribuito con le tessere e non più rifornito perché non c’era
più nulla: una disperazione! Pane, carne, vestiario, sigarette, ecc: tutto con la
tessera. Mancava tutto, non c’era più nulla nei negozi.
Gli Americani sbarcarono in Sicilia. L’8 settembre 1943, Badoglio firmò l’armistizio con gli Americani per far cessare la guerra dal momento che non
avevamo più nulla e continuavano i bombardamenti sulle città che distrussero tutto poiché quando venivano a bombardare le nostre città gli aerei
americani erano centinaia. Quando il Gen. Badoglio firmò l’armistizio con
gli Americani, erano arrivati a Montecassino e sbarcati ad Anzio. Il governo
Mussolini cadde, ad opera degli stessi componenti. Con la firma dell’armistizio sottoscritto dal Gen. Badoglio, che con la caduta del governo aveva
assunto il comando, i Tedeschi si sentirono traditi e immediatamente presero
posizioni ostili contro gli Italiani; disarmarono ed arrestarono i nostri soldati
ovunque fossero e li trasferirono in campi di concentramento in Germania,
assieme anche a molti civili.
L’8 settembre 1943, molti Tedeschi si trovavano già in Italia per il fronte di
Montecassino ma mandarono altri rinforzi e presero possesso di tutto. Perciò
passammo da alleati ad invasi, sotto i loro cannoni. Fu un periodo molto nero
e brutto per l’Italia! Si appropriarono di tutto ciò che faceva loro comodo. Si
portarono in Germania migliaia e migliaia di bovini svuotando tutti i nostri
allevamenti in Emilia, in Polesine e in Veneto.
Passavano per Montegalda in gruppi di 500-600 quasi ogni giorno, diretti alla
stazione di Poiana, dove caricavano capi di bestiame sul treno e li spedivano
in Germania.
Caduto il governo, Mussolini si nascose in un rifugio sulla Maiella. Hitler lo
la m ia g iov e n tù
157
mandò a prendere con un elicottero; i soldati tedeschi fecero
un blitz, lo rapirono e lo portarono a Berlino da Hitler. Poi,
non so come, ritornò in Italia e il partito fascista fu ricostituito da volontari e fanatici simpatizzanti che collaboravano
con i Tedeschi, e quindi contro gli stessi fratelli italiani. Facevano rastrellamenti e quelli che venivano presi venivano
inviati nei campi di concentramento in Germania. Durante l’occupazione tedesca, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile
1945, trascorremmo un periodo nerissimo, molto pericoloso e difficile. Non si dormiva mai a casa propria per paura
dei rastrellamenti, non c’era più nulla, mancava tutto, non
c’erano mezzi di trasporto; se vedevano qualcosa per le strade gli aerei americani mitragliavano. Di notte Pippo girava
e sganciava bombe, anche bombe a farfalla antiuomo. Alla
sera c’era il coprifuoco.
Vivemmo momenti tremendi di guerra fratricida. Furono
uccisi molti uomini, furono impiccati anche alle piante, successe di tutto. Dopo aver già combattuto una guerra, ci si
trovò in questa situazione, in un’Italia distrutta dai bombardamenti e in una miseria assoluta. Dalle città moltissimi sfollarono da parenti
o amici in campagna. Altri fuggirono in montagna per salvarsi e costituirono
dei gruppi di partigiani per difendersi. Passavano flotte di 300-400 aerei, fortezze volanti americane, bombardieri che andavano a bombardare in Germania, sganciavano migliaia di tonnellate di bombe. Io avevo anche un fratello,
Federico, classe 1913, che partecipò alla guerra in Africa durante lo stesso periodo: fu fatto prigioniero dagli Americani e mandato in America. In seguito,
fu fatto rientrare in Italia a guerra finita. Al suo ritorno arrivò a Livorno e io
andai a prenderlo con mezzi di fortuna perché non c’era altro modo. Io in
guerra in Russia e Federico, mio fratello, in guerra in Africa: pensate ai nostri
poveri genitori e fratelli! Per fortuna, ritornammo tutti e due.
Il 25 aprile 1945 arrivarono dal sud gli Americani a liberarci con i loro carri armati, autoblindo e mezzi corazzati. Tutta la gente era contenta, in festa per la
liberazione da questa infame situazione. I Tedeschi fecero saltare il ponte sul
Bacchiglione a Montegalda, durante la ritirata. Si ritirarono non senza fare
ancora morti fra gli Italiani. Si presero tutto quello che faceva loro comodo:
cavalli, carrette, buoi, carri, biciclette, tutto ciò che trovarono e guai ad ostacolarli perché uccidevano con la massima facilità. “Al nemico che fugge fai i
ponti d’oro”. Questa è l’esperienza che feci in guerra!
Il periodo dell’occupazione tedesca, con il ricostituito partito fascista, fu un
periodo di guerra fratricida: morti, deportazioni, bombardamenti, miseria;
non c’era più nulla. Gli Americani passarono con le loro truppe corazzate
a liberarci, ci portarono il sole della libertà, tanto desiderata! Alla fine della
guerra prima di andarsene lasciarono in Italia tutto il loro parco di autocarri
di cui ci servimmo per cercare di fare ripartire qualche attività, perché non
avevamo nulla, dopo un periodo così lungo di guerra. Grazie al Piano Marshall, ci inviarono gratuitamente viveri per gli ospizi e per i bambini degli
asili, per tanti anni dopo la fine della guerra.
Le decorazioni
militari di
Vittorio Miotto.
158
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Nel 1939, in pieno regime fascista, fu ordinato a tutte le famiglie di offrire
alla Patria il ferro che avevamo (anche le inferriate), il rame che tutte le famiglie avevano (perché si usava molto in cucina all’epoca) e l’argento (chi
ne possedeva). Ricordo che anche mio padre ne offrì 120 grammi oltre che
agli oggetti in rame di famiglia. Nel 1940, durante la guerra fu ordinato dal
“Partito” di offrire alla Patria tutte le fedi nuziali in oro delle spose. In ogni
paese veniva effettuata la raccolta e nessuno aveva la possibilità di sottrarsi
perché la stessa era controllata e se qualcuno si fosse sottratto sarebbe stato
segnalato come avversario del Partito Fascista, e ciò sarebbe stato grave perché tutti dovevano essere fascisti e seguire il Partito. L’Italia è un paese che
non ha materie prime.
Alla fine della guerra, le nostre industrie erano in gran parte distrutte ed avevano esaurito ogni scorta. L’America ci mandò di tutto: ferro, cotone, lana,
gomma, caffè e quant’altro per far sì che ci riprendessimo economicamente
e che le nostre industrie ripartissero. In un paese distrutto, gli Italiani si rimboccarono le maniche e si misero a lavorare intensamente per la ricostruzione. E ce l’abbiamo fatta, fino ad arrivare ad essere fra i primi del mondo nelle
competizioni automobilistiche e motociclistiche e, inoltre, la nostra Fiat è
presente in tutti i settori: auto, trasporti pesanti, treni, navi, aerei, mezzi per
movimento terra, ecc… Molte e molte altre industrie si ripresero e ne sorsero di nuove che fecero onore al nostro Paese, esportando all’estero i loro
prodotti. Anche l’agricoltura si è molto sviluppata rispetto a una volta. Sono
stati forniti di mezzi nuovi che hanno dato ai contadini altre possibilità. Devo
anche aggiungere che sono brava gente, laboriosa ed ingegnosa; hanno trasformato l’ambiente, in particolar modo i Colli, in fertili vigneti che offrono
un ottimo prodotto.
Ho fatto un po’ il riassunto di quello che ho vissuto durante il periodo della guerra 1939-1945 e post-guerra. Descrivere dettagliatamente tutto quello
che ho vissuto è cosa impossibile perché sono stati tanti e tanti i pericoli che
ho corso e mi rendo conto che sono stato tanto e tanto fortunato ad essere
uscito miracolosamente da quell’inferno. Quando ci penso, trovo la forza di
affrontare il futuro poiché la mia sorte sarebbe potuta essere quella dei tanti
e tanti Italiani che non hanno fatto più ritorno.
Bastia, 28.12.2008
Il monumento ai caduti
Il monumento ai caduti eretto di fronte al Municipio di Rovolon in una cartolina spedita nel 1934.
160
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
i l monum e n to a i ca duti
161
ELENCO DEI CADUTI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Benato Arturo di Vittorio
Bonello Filippo di Giovanni
Breda Alban di Giovanni
Bressan Girolamo di Francesco
Bressan Virginio di Francesco
Bressan Pietro fu Luigi
Broetto Giuseppe di Gio Batta
Callegaro Pasquale di Antonio
Cazzoli Attilio di Antonio
Dal Zotti Antonio fu Pietro
Dalla Costa Floriano di Stefano
Dalla Valle Carlo fu Giuseppe
Fasolo Antonio di Luigi
Forestan Attilio di Luigi
Forestan Francesco di Luigi
Forestan Angelo di Gaetano
Frigo Olinto fu Zacaria
Franchin Pietro fu Luigi
Goldin Vittorio di Giuseppe
Gomiero Ferruccio di Giuseppe
Lazzaretto Emilio di Sante
Michelazzo Giovanni di Antonio
Mantovan Cesare di Pietro
Mantovan Giovanni di Pietro
Manfrin Sereno di Isidoro
Menaldo Valdemiro di Modesto
Miola Tullio di Valentino
Miotto Luigi fu Lorenzo
Miotto Verecondio di Luigi
Marchi Marcello fu Giovanni
Muterle Egidio fu Gaetano
Nardin Bortolo di Pietro
Pegoraro Vittorio di Pietro
Polito Pietro fu Antonio
Perin Antonio fu Giovanni
Povoleri Ernesto di Giuseppe
Regazzi Luigi di Giuseppe
Regazzi Michele di giuseppe
Rotuli Venanzio di Ignoti
Rubini Arturo di Alessandro
Rizzi Giovanni fu Florindo
Specian Grazioso di Antonio
Serra Giovanni di Ciro
Trevisan Domenico di Lorenzo
Vedovato Giuseppe fu Enrico
Vomiero Girolamo di Giuseppe
Veronese Massimo di Luigi
Varotto Luigi di Giuseppe
Veronese Abramo fu Francesco
Zabarella Luigi fu Serafino
Zilio Antonio fu Angelo
Zambolin Riccardo di Giovanni
Zambolin Vittorio di Giovanni
Zattarin Luigi fu Antonio
Zattarin Giuseppe di Fedele
Zattarin Riccardo
Bovo Riccardo di Domenico
Carraro Giuseppe di Bortolo
Donadello Benvenuto fu Antonio
Furlon Gino fu Antonio
Galasin Florindo di Luigi
Giurin Romolo di Vottorio
Raimondo Albino di Antonio
Specian Clemente di Antonio
Toffan Domenico di Luigi
Zordan Bentivoglio di Pietro
Zavattiero Giuseppe di Mariano
Ambrosini Fioravante fu Agostino
162
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
i l monum e n to a i ca duti
163
ELENCO DEI CADUTI NELLA GUERRA 1940-1945
MILITARI
Albanese Paolo di Giovanni
Canton Umberto di Antonio
Colombo Vittorio di Giovanni
Fiocco Rino di Giovanni
Giacomin Battista di Giovanni
Magagnin Giorgio di Oreste
Mandruzzato Giuseppe di Luigi
Mantovan Nerino di Luigi
Michelazzo Ottorino fu Felice
Montemezzo Augusto di Gelindo
Neri Domenico di Luigi
Palladin Lorenzo fu Stefano
Romanato Decimo fu Giuseppe
Taccon Modesto fu Clemente
Taccon Paolo fu Clemente
Toniolo Augusto di Rodolfo
Turetta Rino di Angelo
PARTIGIANI
Montemezzo Aldo di Ettore
Navarini Massimiliano di Giacomo
Pasqualin Luigi di Natale
Pavanello Ugo fu Adolfo
Militare Trevisan Mario
CIVILI
Baldan Franco di Giovanni
Brocca Natalino di Giuseppe
Marcato Geremia fu Giuseppe
Olivetto Angela fu Leonardo
Rinaldi Ermenegildo di Gino
Rinaldi Luciana di Gino
Rinaldi Silvano di Gino
Scacco Cesare fu Marcantonio
Scacco Pia fu Cesare
Scacco Silvia fu Cesare
Sgarabottolo Alba fu Luigi
Soranzo Riccardo fu Luigi
Zambolin Antonio fu Giuseppe
DISPERSI
Brigadini Ottorino fu Angelo
Busato Matteo fu Pietro
Cecchetto Bruno fu Riccardo
Michelazzo Francesco di Quirino
Sanvido Benedetto fu Bortolo
Sbicego Silvio di Antonio
Bregolato Antonio di Domenico
Bernardini Paolo fu Luigi
Carlan Alcide fu Rita
Ziggiotto Giuseppe fu Silvio
Ziggiotto Tullio fu Silvio
Renzo Forestan
Storia e vita contadina
Un’intervista a Luigi Forestan*
Ci siamo recati in via Loredan dove abbiamo avuto una simpatica conversazione con il più vecchio abitante della contrada, cav. Luigi Forestan, effettuata quando era ancora in vita, la persona più idonea a darci utili informazioni
della località su ricordi e fatti personalmente vissuti o ricostruiti in base ai
racconti dei vecchi. Sono fatti e ricordi tipici di usanze e costumi che rispecchiano condizioni di una vita contadina semplice, densa di sacrifici e umiliazioni e che certamente i magri prodotti della terra a stento riuscivano a
soddisfare le più modeste esigenze di una vita che a malapena si potrebbe
dire normale.
Le cose che il cav. Forestan ci ha raccontato sono tante e tantissime altre certamente ne avrebbe da dire che un libro intero forse non basterebbe.
Ci hanno colpito specialmente notizie e fatti riguardanti il periodo della prima guerra mondiale, dove il posto era trasformante in luogo di riposo per i
soldati che tornavano dal fronte.
Nei granai e nei locali dell’abitato si alternavano per brevi periodi di tempo
250- 300 soldati che poi ripartivano per dar posto ad altri.
Nella ritirata tedesca dell’ultima guerra poi, in seguito all’incendio di un carro armato carico di esplosivi sulla strada comunale Campanella,
la colonna germanica in ritirata
scelse come alternativa, obbligati
nella fuga, la via Loredan e quindi gli abitanti dovettero assistere
inermi al passaggio dei tedeschi
attraverso la corte. Questi portarono via il bestiame, i carri e le
biciclette. Furono giorni di grande paura e terrore, vissuti nella
solidarietà e dividendo fame e
miseria con la gente sfollata dalla
città che qui aveva trovato ospitale rifugio. Tanti e tanti ricordi
del duro lavoro nei campi dove
* Sindaco di Rovolon dal 1959 al 1961.
Luigi Forestan
tiene l’aratro
con vomere
a collo d’oca.
166
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
non esistevano certamente le comodità dei moderni attrezzi agricoli. Fu un
grande avvenimento quando si iniziò a trebbiare il frumento con la macchina a vapore; la falciatrice meccanica trainata dai buoi per esempio, alleviò
moltissimo il lavoro dei contadini quando l’erba doveva essere falciata tutta
a mano.
I ricordi poi del gran cantare che si faceva una volta durante i lavori e specie
nel periodo della vendemmia; le lunghe serate inver nali trascorse nel tepore
delle stalle dove i vecchi o gente di passaggio che veniva a “far filò”, raccontavano storie e avvenimenti che venivano poi tramandati continuamente,
travisati a volte e ampliati con particolari inventati. Esiste un patrimonio di
storie e di favole che sarebbe veramente interessante poter riscoprire.
Le domande rivolte al cav. Forestan sono state fatte senza uno schema preciso, tuttavia speriamo di dare lo stesso un’idea di come si svolgeva la vita in
questo agglomerato di case dagli inizi di questo secolo. (In corsivo le domande – R = risposta)
Da quanto tempo abita qui?
R. Io sono nato qui nel 1906, ma mio nonno e mio padre si sono stabiliti qui
nel 1888, provenienti da Grisignano di Zocco. Erano fittavoli di 120 campi e i
proprietari di questa tenuta che comprendeva in realtà ben 800 campi erano
i signori Regensburger, austriaci stabilitisi qui forse nel periodo del Regno
Lombardo Veneto. La tenuta si estendeva fino sotto il territorio di Cervarese
S. Croce.
Quando suo nonno si è stabilito qui, questi edifici erano già tutti costruiti?
R. Sì, ed all’aspetto si presentavano già vecchi. Esisteva anche all’ingresso in
corte una fornace di mattoni e tegole in piena efficienza; mancava però il forno del pane, costruito verso il 1921 dopo che i signori Regensburger hanno
Filare di gelsi nella
campagna
di Rovolon.
sto ria e v ita con ta dina
167
venduto questa loro proprietà ai signori Perazzolo. C’era invece il telaio per
tessere, molto vecchio e che è stato da pochi anni bruciato.
La tela, per lo più canapa e lino veniva tessuta per uso domestico o per qualche vicino che ne facesse richiesta, il quale pagava l’uso del telaio un tanto al
“braccio” di tela tessuta.
Come vi comportavate davanti ai padroni Regensburger?
R. Dovevamo tenere un contegno umile, rigoroso, sottomesso.
Il padrone Ottavio Regensburger aveva un aspetto nobile (non aveva però titoli nobiliari), aveva studiato molto, leggeva due o tre giornali alla settimana
e fumava 12 sigari di marca Virginia al giorno.
Come si svolgeva la vita di voi contadini quando eravate fittavoli di Regensburger?
R. C’era sempre da temere ad avere “i padroni in casa” come si suol dire.
Infatti una volta mio fratello si era fatto fare una giacca che a vista dei padroni sembrava troppo elegante per le nostre condizioni; quella giacca suscitò
un mezzo scandalo e si dovette riportarla dal sarto perché la raggiustasse e
apparisse così più adeguata alle nostre condizioni sociali. Dovevamo pagare
un affitto molto caro; in più nel contratto dovevamo mantenere due cavalli
per i padroni con il nostro fieno, dovevamo dare un pollo per campo (le cosidette “onoranse”), una giornata lavorativa alla fornace per ogni campo e
altre spese gravose. Nonostante tutto questo, noi Forestan, con sacrifici che
è facile immaginare, siamo riusciti a sopravvivere, mentre i Regensburger
sono falliti... quelli lavoravano a consumare. I Regenscurger sono andati via
da qui nel 1920.
Come si svolgeva la vita dei Regensburger? Che tipo di famiglia era?
R. Facevano una vita da gran signori! Andavano 3-4 volte alla settimana a Padova in “landò”, specialmente lui il signor Ottavio; spesso andavano in visita
dai conti Barbaro, dai conti Giro a Rovolon, dai conti Papafava. Qui a casa
loro c’erano sempre pranzi: compleanni, onomastici, anniversari vari... 15-16
grossi pranzi all’anno.
Alla sera non uscivano mai, forse per paura.
Avevano inoltre un “bel” difetto però: non controllavano il loro fattore. Infatti, il fattore se per esempio comprava un Kg. di carne di vitello per il padrone
ne comprava un Kg.e mezzo per la sua famiglia e naturalmente il conto da
pagare era per Regensburger, ciò potrebbe sembrare un esempio banale, ma
dietro questo, come si sa, correva tutto il resto.
Ottavio Regensburger aveva una figlia sposata al dott. Piozzi. Dal matrimonio
nacquero quattro figli a una figlia; questi studiarono tutti in città ma purtroppo non riuscivano negli studi e arrivarono a 40 anni senza avere un impiego.
Anche questa è stata una causa della rovina dei Regensburger. Il dr. Piozzi
morì abbastanza giovane e quindi i figli assieme alla madre chiamata “la paronsina”, ritornarono a vivere qui. In seguito tre di questi figli Nini, Ottavio
e Pino si sposarono e andarono a vivere per conto proprio, ma però molto
spesso tornavano qui con le rispettive famiglie e si fermavano anche per 7-8
mesi vivendo alle spalle del nonno.
168
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Quante persone vivevano pressa poco in questa corte?
R. In questa corte vivevano all’incirca 40 persone senza contare i padroni.
Quali contatti avevate con il centro del paese?
R. Io, personalmente ero sempre in giro, il resto però della gente che abitava
qui andava in paese solo la domenica, a piedi, per la Messa al mattino e il
Vespero al pomeriggio. Chi se lo poteva permettere, si fermava in osteria per
bere mezzo litro di vino ma poi subito a casa.
Durante la settimana sempre a casa. Lavorare e a letto, non c’erano le attrattive e le comodità del giorno d’oggi, purtroppo!
Come trascorrevate qui il tempo libero d’inverno e d’estate e soprattutto di sera?
R. Di sera in inverno si faceva un grande “ filò” nella stalla; le donne filavano, gli uomini giocavano a carte e usavano come moneta i fagioli. Ad ogni
fagiolo corrispondeva una certa quantità di denaro. Alla fine del gioco però
quando si facevano i conti dei fagioli vinti, tutti avevano fagioli in più ! ! !
Si raccontavano storie, fatti successi, visti e sentiti di recente, la stalla era
quasi un centro di informazione. In estate invece ci si sedeva alla sera al centro della corte dove c’era uno spiazzo erboso. Anche li si rimaneva fino alle
10,30-11, chiacchierando, raccontando qualche storia o barzelletta e facendo
qualche bel canto. Vi era una atmosfera di allegria specie fra i giovani.
Quando lei era piccolo come trascorreva il tempo?
R. Allo scoppio della guerra 1915-18, avevo 9 anni, e ho dovuto subito incominciare a lavorare i campi con mio nonno e mio fratello, perché mio padre e
i suoi 5 fratelli che vivevano con noi, erano tutti in guerra. Due di questi sono
morti e dispersi, mio padre è tornato mutilato, solo due sono rimasti sani,
uno dei quali ancora vivo è residente a Bosconero (TO). Eravamo sempre sui
campi, facevamo naturalmente quello che potevamo, data l’età.
Il Signor Carlotto
in corte Forestan.
sto ria e v ita con ta dina
169
Mi ricordo però che non vedevo l’ora di avere un po’ di tempo libero perché
ero sempre pieno di sonno e di stanchezza. Ecco, il nostro tempo libero lo
trascorrevamo a dormire.
Ci parli dell’Orco.
R. Forse una volta qualcuno ha visto un fantasma, un po’ lontano da qui ma
sempre in questa campagna. Allora per distinguere l’appezzamento di terreno, questo è stato chiamato “Orco” e ancor’oggi lo chiamiamo così. Sapete,
l’Orco era qualcosa che vedevi per un momento e poi appena chiuso l’occhio,
non lo vedevi più. A quei tempi però, penso che la gente avesse avuto spesso
lo stomaco vuoto e quindi vedessero facilmente i fantasmi, oppure bevessero
il vino con la “fogara” come si suol dire qua, e per questo vedevano l’orco.
Un altro appezzamento di terreno, non lontano da qui, lo chiamano ancor
oggi “traverso de canon” a ricordo dei primi cannoni antigrandine sistemati
su quel posto. Cannoni ideati da un certo don Candeo, parroco di Mestrino e
costruiti qui a Bastia dalla ditta Tubaldo.
Come si spostava la gente qui una volta?
R. La fidanzata di mio padre, cioè mia madre, da ragazza abitava qua vicino,
ma poi si trasferì ad Albettone. Mio padre, il giorno del matrimonio, è andato a prenderla a piedi, si sono sposati alle 10 ad Albettone e quindi il corteo
nuziale a piedi ritornò qui, dove fecero il pranzo di nozze sotto il portico. Mi
hanno raccontato anche che dopo quella bella camminata di quindici chilometri!, hanno mangiato e bevuto molto volentieri e con appetito!
Una volta non c’erano annunci, bomboniere, confetti. La vita era molto più
semplice, si aveva meno esigenze e spesso eravamo più felici di adesso.
Abbiamo sentito parlare dei resti di un cimitero esistente nella zona. Ci può dare
qualche notizia in merito?
R. Non lontano da qui una volta è stato scavato un fosso profondo. È stato
proprio lì che durante i lavori sono affiorati resti mortali: ossa di braccia, di
gambe, teste, pezzi di lapide. Mio padre trovò questi resti che furono poi messi
in cassette e portati nel cimitero in paese. Comunque è certo che qui esisteva
realmente un piccolo cimitero. I resti non si sa di chi fossero, le lapidi rinvenute
non avevano iscrizioni. Probabilmente, la presenza della chiesetta, di tanta gente e tante case che si trovavano nel circondario di questa corte e la lontananza
dal paese, giustificano il fatto che la gente sepolta fosse di questa zona.
Che cosa era la “ boaria”?
R. La “boaria”, oltre all’edificio adibito a stalla con fienile e portico che comunemente si intende, era l’insieme degli animali che si legavano davanti
l’aratro. Erano tre, quattro, anche cinque coppie di buoi, mucche, vitelli. Gli
animali erano muniti dal giogo. La prima coppia era attaccata all’aratro, la seconda coppia era unita alla prima con un timone mobile (“timonsèo”) e così
via. Due persone guidavano le bestie, un altro teneva l’aratro. Si era almeno
in tre persone. La boaria si usava così numerosa, perché era difficile arare in
quanto la terra qui è molto argillosa.
170
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Come si faceva il bucato una volta?
(A questa domanda ha risposto
la moglie signora Vittoria).
R. Una volta si faceva il bucato
ogni 6 mesi. Questo per quanto
riguardava
lenzuola, federe, tovaglie, ed
era chiamato “lissia grande”.
Si lasciava la biancheria da lavare in acqua per un giorno; si faceva un primo lavaggio e poi si
buttava sopra acqua bollente e
cenere; il giorno dopo si lavava
e alla sera si gettava sulla biancheria ancora acqua calda e cenere, infine il giorno seguente
dopo aver lavato e risciaquato si
stendeva al sole. Adoperavamo
due grandi mastelli di legno con due grandi tavole da lavare che conserviamo
ancora in cantina. Facevamo inoltre un bucato settimanale, per la biancheria
normale di tutti i giorni. Non c’era inoltre nessun detersivo, solo un pò di sapone spesso fatto in casa.
È emigrata molta gente da qui?
R. Non molti. I primi sono emigrati per lavorare altre campagne, perché qui
si era in troppi. Circa 20 anni fa alcuni miei cugini sono emigrati in Piemonte, alcuni per lavorare la terra, altri hanno cambiato “mestiere” e sono andati
nelle fabbriche. Attualmente anch’io ho due figli sposati che lavorano in fabbrica a Torino
Riguardo le costruzioni che vediamo qui, è stato demolito molto in questi ultimi
anni?
R. Qualcosa è stato demolito: la fornace da molti anni, poi da non molto
tempo la casa del cocchiere, il cancello di ingresso in corte, il forno. Al loro
posto sono state costruite due case nuove: una dove abito io e quella dove
abita mio nipote. Sapete, penso che a tutti piaccia abitare in case decenti.
Qualcuno può dire che abbiamo deturpato l’ambiente, forse, in parte è vero.
D’altra parte non si può restaurare case con locali bassi, umide e malsane
senza dover spendere un sacco di soldi.
Bastia.
Viale della Posta
in una cartolina
viaggiata nel 1933.
Si parla oggi della riscoperta di una nuova forma di turismo.
Quella di trascorrere le vacanze, d’estate per esempio, in campagna. Intendiamo cioè
quello che i giornali chiamano “Agriturismo”. Lei ad esempio se si presentasse l’occasione metterebbe a disposizione o restaurerebbe dei locali da affittare a persone che
ne facessero richiesta?
R. Personalmente, no.
Renzo Forestan
Un rito della campagna: le rogassion
La pia tradizione delle Rogazioni (da latino rogatio, rogationis, cioè preghiere,
richieste), si perde nella notte dei tempi. In epoca dove l’economia e la vita
erano prevalentemente di tipo agricolo, la processione a carattere penitenziale, accompagnata da preghiere e canti propiziatori, era tutta intesa a favorire
la fecondità della terra e il buon raccolto.
Nell’antico culto cattolico le rogazioni si distinguevano in maggiori, celebrate il 25 aprile e minori celebrate nei tre giorni antecedenti il giovedì
dell’Ascensione.
Anche se con il Concilio Vaticano II, con la riforma liturgica, queste pie tradizioni sono state abbandonate e lasciate a libere e generiche suppliche a
Dio per le comuni necessità dell’uomo o come atto di ringraziamento, noi
abbiamo ancora la fortuna di ricordarle e celebrarle secondo la tradizione dei
nostri padri.
Ma ha ancora senso oggi in tempi moderni dove tutto sembra si possa ottenere anche senza l’aiuto divino, celebrare un simile rito? Ma certamente sì!...
Le preghiere e le benedizioni invocate sui campi, sui raccolti, sulle case devono essere intese innanzitutto sulle persone, che oggi ancor più di ieri lavorano ancora sui campi, ma anche nelle fabbriche o negli uffici. Auspichiamo
che dall’aridità degli animi, sempre più immersi e a volte vittime del mondo
tecnologico, parta ancora il coraggio di fermarsi un po’ per osservare la natura come bellezza del creato, dove i fiori del campo o il canto degli uccelli che
non seminano e non mietono, lodano e ringraziano Dio.
“A fulgure et tempestate libera nos Domine, a flagello terremotui... libera nos
Domine!” Si ripeteva cantando in queste occasioni. E oggi quante tempeste
(anche se non metereologiche) affl iggono l’uomo moderno? Quanti terremoti familiari affl iggono la vita delle nostre case? Fermiamoci un po’, e in
mezzo a questi campi fioriti guardiamo verso l’alto e umilmente proviamo a
dire grazie per quello che siamo e che abbiamo, in quanto noi da soli “Siamo
niente, mentre Lui è tutto”, come soleva ripeterci, per chi si ricorda ancora, la
nostra compianta suor Battistina della Scuola materna. È bello non dimenticare le tradizioni dei nostri padri che si affidavano sempre alla Provvidenza.
Nell’imminenza del pericolo, con gesti e segni particolari (come accendere la
candela benedetta della Candelora, bruciando nella “fogara” l’ulivo benedetto il giorno delle Palme e intonando il rosario e recitando giaculatorie come
“Gesù, Giuseppe, Maria salvateci”, oppure “Santa Barbara benedetta, tien
lontan el ton e la saetta”), si mettevano un badile e un rastrello in forma di
croce sull’aia e intanto il parroco usciva di chiesa per benedire il tempo e il
campanaro si metteva a suonare le campane a distesa.
172
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Purtroppo il Padre Eterno non sempre ascoltava le suppliche dei contadini,
perché ovunque dai resoconti storici dei parroci o dalle cronache del tempo
abbiamo descrizioni di disastri e morte.
Il freddo invernale, la siccità estiva, la grandine, le “moeste”, con trombe
d’aria e uragani, quante volte nei secoli passati distruggevano interamente i
raccolti seminando miserie e disperazione su tante famiglie.
Da cronache dell’epoca viene riferito che il 3 maggio 1672 si manifestò un
fiero turbine che distrusse tutto in diversi comuni … nei paesi di Bastia e Rovolon si fece un solenne voto a Sant’Antonio… «di far festa di precetto tutti
li martedì di maggio, in perpetuo, e di far messa cantata in ognuno di tali
giorni, accioché con l’intercessione di sudetto santo, Iddio tenga lontano le
tempeste».
Maggio ancor oggi, infatti, può colpire duro, con la grandine che nasce dagli
sbalzi repentini della temperatura e con le “moeste” frequenti nei giorni dei
“setoni” 7/17/27.
A conclusione di questa rogazione, che in questo luogo [la corte Forestan
Carlotto Zaffari, ex oratorio della corte benedettina al Vegrolongo dei monaci di Santa Giustina di Padova] si ripete ogni anno da secoli, vogliamo ringraziare tutti i partecipanti e in particolare il nostro parroco don Claudio,
che anche quest’anno con la celebrazione della Santa Messa, ha voluto tener
vivo questo oratorio assicurando la protezione celeste sulle nostre campagne
e sulle nostre famiglie, certi che la Divina Provvidenza non ci abbandonerà
quando con cuore umile e sincero la invocheremo.
Maggio 2009.
Le crosete in corte
del Vegrolongo.
u n rito de l la ca m pag na
Un componimento di Ignazio Canesso
Le Rogassion
No tanti ani fà, la festa de l’Assension
la gera de preceto co la so procession.
E senpre de che’l dì la vegnéa
conpagnà dal deto che dizéa:
Pensa o no pensa,
de zoba vien “La Sensa”.
Che gera anca la tradission e gera belo,
de magnare la lingua de porselo.
Propio el dì de la Sensa,
par no pèrdare l’usansa.
I tre dì prima de sta festività,
se fazéa le Rogassion co solenità.
Zo dal leto a le quatro e mesa,
pa èssare a le sinque in cesa.
Prima, messa e pregare
e dopo, fora a cantare.
Se intonava le “tanìe” de i santi,
pa invocarli tuti quanti.
E via par trosi e caresà,
a benedire i canpi,
da la tenpesta e sicità.
El paroco parlava in latin,
noaltri no capìvimo on s-ciantin.
Quando el lezéa:
“... da fulgore et tempestate,
et conservare digneris... “,
a noaltri tosi i òmani dizéa;
“... Ghio capio!
No bisogna goastare ignari.”
Ogni raquante case on altareto,
co crosete e soto qualche oveto.
173
174
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
El sagrestan li rancurava,
e tuti de longo cantava.
Tanti passando, vardava co devossion,
tuta sta zenle in procession.
Chi se segnava,
chi la testa calava.
Tuti pregavimo el Padreterno,
fiduciosi del so aiuto,
par passar ben istà e inverno.
Ignazio Canesso
Le crosete
da benedire.
MONUMENTI E PALAZZI
Don Antonio Pontarin
La chiesa di San Giorgio di Rovolon
Dalle origini al xvi secolo
Nella storia della diocesi di Padova la pieve di San Giorgio di Rovolon occupa
un posto di tutto rilievo, sia per l’antichità del luogo sacro sia per lo stretto
legame che per lungo tempo mantenne con il monastero padovano di Santa
Giustina.
È datato febbraio 970 il primo documento che la nomina espressamente: ecclesiam unam quae est aedificata ad honorem sancti Georgii in loco dicto Robolone
cum terris et omnibus decimis quae ibidem pertinent et totam decimam que dare
debetur famulis sanctae Iustinae sive in montibus sive in vallibus.1 Si tratta della donazione fatta dal vescovo padovano Gauslino al monastero di Santa Giustina.
La chiesa, edificata in onore di San Giorgio – questa la traduzione del testo
latino – si trova nel luogo detto Rovolon e viene ceduta ai monaci con le sue
terre e tutte le decime che le spettano, nonché quelle dovute dai famuli (cioè
i lavoratori) del monastero di Santa Giustina per le terre che coltivano, poste
sulle colline e nelle valli.
L’edificio sacro, descritto nell’antica pergamena, in quella seconda metà del
decimo secolo era in piena attività. Per l’ordinamento ecclesiastico del tempo
figurava tra le pievi della diocesi, in altre parole era una chiesa matrice, dotata di un fonte battesimale, da cui dipendevano le cappelle dei paesi circostanti.
È noto che per i primi secoli del secondo millennio solo nelle pievi fu amministrato il sacramento del battesimo, vero rito d’iniziazione per i cristiani. In
quello scorcio del X secolo le pievi situate ad occidente di Padova si contavano sulle dita di una mano e, di norma, erano situate nel cuore dei villaggi più
antichi e popolosi. Condizioni tutte che ritroviamo nella pieve di San Giorgio
e che – indirettamente – testimoniano il ruolo trainate, importante, primario
del villaggio di Rovolon rispetto agli abitati dell’intera area che dagli Euganei s’estendeva ben oltre il Bacchiglione e fino a Montegalda. Le pievi della
diocesi di Padova, ricorda un altro documento di cent’anni dopo (14 marzo 1077), erano proprio a Montegalda e Rovolon, a Lissaro, Arino, Caltana,
Conselve, Cona, Tribano, Maserà, Albignasego, Abano, Torreglia, Galzignano, Luvigliano, Curtarolo e Sarmazza. Nell’elenco del 1077 non compare la
pieve di Selvazzano poiché a quel tempo apparteneva alla diocesi di Vicenza:
un legame che verrà reciso solo nel 1818.2
Nel documento del 14 marzo 1077 è ricordato un certo Giovanni nella veste
di arciprete di San Giorgio; suoi successori furono più tardi Achille, che incontriamo in pergamene datate 8 e 24 luglio 1204 e ancora il 22 settembre 1216;3
Galzignano, attestato da uno scritto del 1° maggio 1218;4 Carlo, che troviamo
178
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
in un documento del 12 aprile 1232 assieme a prete Cono, e ai chierici Paolo,
Todisio e Ventura,5 a conferma che nella pieve di San Giorgio viveva una comunità canonicale di sacerdoti e chierici. Nella deliberazione assunta dagli uomini di Rovolon il 6 agosto 1262, per il destino del bosco Viglanicus, il rettore
di San Giorgio risulta essere domino Savarisio: al suo fianco il chierico Gerardo
e prete Guglielmo presbitero ecclesie de Carbonaria.6 Nella decima papale del
1297 – così è chiamata la straordinaria riscossione voluta da papa Bonifacio
VIII (1294-1303) per finanziare il primo Giubileo dell’anno 1300 – il rettore di
San Giorgio di Rovolon, l’arciprete Pasquale, fu esentato dal versare la propria quota poiché non percepiva alcun reddito (excusatus quia nichil percepit)
mentre i suoi collaboratori, cioè i chierici Zambono, Federico Capodilista e
Ivasio, furono tassati per 20 soldi ciascuno, sia per la prima sia per la seconda
rata. Somme modeste se rapportate alle imposizioni richieste, ad esempio, ai
rettori delle chiese di Valsanzibio, Teolo, Zovon e Galzignano, ma in linea con
la povertà che allo scadere di quel XIII secolo si registra a Bastia, Montemerlo,
Carbonara, Boccon, Castelnuovo e Cortelà, tutte chiese esentate dall’obolo
papale per le ridotte entrate di cui potevano beneficiare.7
Eppure il patrimonio della pieve di San Giorgio non era per nulla irrilevante. All’indomani della conquista veneziana del novembre 1405 anche le comunità religiose furono obbligate a presentare la loro “denuncia dei redditi”, chiamata allora “polizza d’estimo”. L’arciprete di Rovolon ottemperò a
quell’obbligo fiscale denunciando un elenco, lunghissimo, di beni immobili
detenuti dall’ecclesia Sancti Georgii de Revolono. Una lista datata 7 agosto 1427
comprendente ben tredici “sedimi”, cioè modeste estensioni di terra su cui
sorgevano altrettante abitazioni coloniche, disseminati in una dozzina contrade. Case affittate che rendevano all’arciprete canoni in denaro e in generi
alimentari (polli e galline). Tra queste costruzioni v’era la domo de cupis con
teiete de paleis, (una casa in muratura con il tetto in coppi e una tettoia di pali
La chiesa
di San Giorgio
di Rovolon
sul finire
dell’Ottocento,
prima dei lavori
eseguiti nel 1911.
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
179
in legno) edificata su mezzo campo di terra, unita ad una posta molendini, cioè
un mulino.8
Pietro, rettore dicte ecclesie Sancti Georgij de Rovolono, in quell’agosto 1427
ebbe il suo bel daffare nel compilare l’elenco, nel descrivere uno ad uno gli
appezzamenti di terra posseduti, nel precisare contrade e località, estensione
delle superfici, nomi dei fittavoli e, soprattutto, quanto quel patrimonio rendeva in denaro e altri generi. Seppur divise tra beni esclusivi, livelli (contratti
a lunga scadenza), vigne, prati, terre arative, terre vegre, cioè non coltivate, e
decime, le unità elencate furono ben centoquarantaquattro. Erano per lo più
modesti, anzi modestissimi appezzamenti di terra estesi mezzo o un quarto
di campo, alternati a prese de olivariis, cioè piccole macchie di ulivi, o, ancora,
a fazzoletti di coltivi popolati di vigne schiave, palestre e pergole. Altre terre
erano invece a prato, nelle contrade Fontana Coperta, Fontaniva, Oltre Fossa, Lovare, Costa. In questo paesaggio agrario del XV secolo non mancano i
boschi, i ronchi, i prati serati (le cesure) e, nelle aree di pianura, le paludi.
In coda alla lista delle terre, prete Pietro aggiunse il mobilio e gli arredi sacri
della chiesa: bonarum ecclesie. Al primo posto pose un messale pulcrum (splendido), poi un calice altrettanto pulcrum de argento, seguito da un paramento ricamato. Precisò poi che l’altare era ornato di varie tovaglie, che sull’ambone
vi era un palio e che davanti all’ancona (forse una tavola dipinta racchiusa in
un’inquadratura architettonica) vi era una tenda (cortina). Due le campane
in funzione sul campanile mentre una terza, piccola, era usata in chiesa ad
levandum Corpus Xristi, cioè durante la consacrazione. A queste tre s’aggiungeva un piccolo campanello che accompagnava l’Eucarestia quando veniva
condotta fuori della chiesa.
Assieme agli oggetti sacri il nostro diligente rettore Pietro si preoccupò d’includere anche i beni mobili della canonica: un torchio per l’uva, tre botti (vegetes), due casse, un letto e una catena usata nel camino per cucinare. Forse
dimentico di alcuni oggetti sacri, o perché custoditi nella canonica, aggiunse
il possesso di un salterio usurato (frustum), di un libro grande per il canto,
in cui era inserto un graduale, e un libro per benedire. Ritornato in cantina
completò l’inventario includendo un tino grande e uno piccolo per pestare
l’uva, tre stari per misurare il frumento, una cotta (ampia tunica) bianca di
tela e, infine, un tabernacolo in argento ad portandum Corpus Xristi sine pede,
cioè privo di basamento.9
Ricordato che, dopo prete Pietro, nel 1436 rettore della pieve di Rovolon era
prete Bartolomeo,10 va qui sottolineato che sul finire del secolo XV San Giorgio divenne parrocchia monastica a tutti gli effetti. Le vicende che portarono
a quel cambiamento e alla ricostruzione materiale dell’edificio sacro, le seguiamo passo passo attraverso i documenti del tempo.
Rovolon diventa parrocchia monastica: cronaca di un evento
Con propria “Bolla” emanata a Venezia il 19 settembre 1499 il cardinale Giovanni Borgia, legato della sede apostolica per l’Italia, decretava – in perpetuo
– l’unione, l’annessione e l’incorporazione della chiesa parrocchiale di Rovo-
180
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
lon alla mensa abbaziale di Santa Giustina.11 L’atto di curia (il legato in quella
circostanza agiva come una sorta di Curia Romana itinerante), di fatto, accoglieva un’esplicita richiesta del monastero di Santa Giustina e coronava una
serie di interventi da tempo coordinati a tal fine.
I motivi che avevano spinto a questa soluzione erano molti, parte enunciati
nei documenti e parte facilmente intuibili, e li vedremo man mano in seguito. Quello più insistentemente messo in campo era legato alla fatiscenza
della chiesa di San Giorgio. L’edificio sacro era di certo in cattivo stato: non
sappiamo a quando risalisse la costruzione poiché nel testamento dell’undici
aprile 1324 il notaio Zambono aveva lasciato «solidos viginta parvorum annuatim in perpetuum ad refactionem ecclesie S. Georgii de Rovolon»12. La
quantità e il tipo di lascito fanno tuttavia pensare più ad una manutenzione
ordinaria che ad una ricostruzione materiale dell’edificio sacro.
Ad un rifacimento del tetto pensava l’abate Bernardo da Piacenza quando,
in una lettera del 14 marzo 1466, sosteneva che la spesa per l’indennizzo di
prete Antonio da Fermo era stata generata dalla rovina totale della chiesa, in
quanto le travi per la copertura erano già state tolte. I lavori dovevano quindi
esser pagati con i proventi del beneficio, proventi che l’abate temeva allora di
dover invece destinare al prete cacciato. Una qualche riparazione comunque
fu fatta se Giovanni Albanese lasciava poco dopo nel suo testamento «lire 20
a la chiesa per lavuriero», cioè per i lavori.13
Quando, domenica 20 settembre 1495, salì a Rovolon il vescovo Pietro Barozzi, la chiesa era ancora quella vecchia e il vescovo la riconciliò secondo il rito
canonico assieme al cimitero circostante perché era stata violata; al pomeriggio cresimò parecchi fedeli.14 Purtroppo la scarsa cronaca15 non dice di più:
il luogo sacro era stato violato, non interdetto (per esempio per questioni
di decime), c’era stato quindi probabilmente un fatto di sangue di cui non
sappiamo nulla.16
Il vescovo quella sera restò certamente ospite dei monaci i quali, il lunedì
successivo (festa di San Matteo apostolo), lo accompagnarono al Vegrolongo
a consacrare l’altare e la chiesa campestre ivi costruita dal monastero «per
comodità dei contadini che abitano lì attorno». Il giorno dopo, martedì 22, il
vescovo Barozzi salì alla chiesa della Madonna del Monte, non senza essersi
prima fermato a S. Antonio del Covolo e averne consacrato l’altare.
Si resta stupiti che ad un tale infaticabile consacratore sia sfuggita la chiesa di
S. Maria della Bastia da poco costruita; eppure deve esserci passato vicino, se
non proprio davanti, scendendo da Rovolon per il Vegrolongo. Il monastero
di Santa Giustina mirava di certo a ricomporre la parrocchia a suo modo: la
vecchia chiesa di S. Giorgio per la collina, vicino alla corte della Costa, e la
nuova cappella al Vegrolongo, nella zona ormai popolata e ampiamente messa a coltura e nel cuore della grande tenuta agricola in piano del monastero.
Rimaneva naturalmente la giurisdizione unitaria della vecchia chiesa madre.
In questo disegno la chiesa, sorta nella zona cerniera di Bastia, era fuori posto, era cioè una prioria con funzione del tutto devozionale e privata. Ma la
logica topografica del monastero non coincideva del tutto con i movimenti
spontanei del paese, nel quale Santa Giustina era sì l’elemento principale,
ma non l’unico. La chiesetta del Vegrolongo fu dedicata a S. Vincenzo Fer-
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
181
rer, domenicano spagnolo, grande predicatore morto a Vennes (Francia) nel
1419, canonizzato dal papa spagnolo Callisto III nel 1455. Non sappiamo le
ragioni di questa scelta certo non corrispondente alla pietà popolare che ben
presto cambiò il titolo alla chiesa con quello del più amato santo protettore
S. Sebastiano.17
All’attivismo dei monaci corrispose in modo singolare la totale “assenza”
dell’arciprete di Rovolon, Andrea dal Bò, del quale nemmeno il nome compare negli atti della visita; di certo questo sacerdote era avanti con l’età e
da qualche anno ormai si stava ventilando un suo ritiro concordato con i
monaci: la trattativa era giunta proprio allora alle ultime battute. Della cosa
essi parlarono senz’altro con il vescovo che, buon amico dell’abazia di Santa
Giustina, non creò difficoltà.
Dal 1480 circa arciprete a Rovolon era prete Andrea dal Bo, originario di
Monselice. La sua storia è alquanto singolare: si era inizialmente sposato e
solo in un secondo momento, rimasto vedovo, aveva ricevuto l’ordine sacro,
ottenendo dall’abate di Santa Giustina il governo della parrocchia di Rovolon.
In tal ufficio aveva manifestato particolare impegno nel riordinare la gestione
del beneficio parrocchiale. Nel 1488 approntò un nuovo inventario dei beni
posseduti dalla chiesa di San Giorgio distinguendo, in successione ordinata,
le varie voci, cioè i possedimenti che erano in capo all’arciprete e che questi
faceva lavorare; i quartesi spettanti di diritto alla chiesa; i beni immobili concessi in affitto.18
In quelle circostanze il notaio Giacomo, figlio e amministratore dell’arciprete Andrea dal Bò, aveva chiesto ai monaci, verosimilmente a conoscenza delle intenzioni del padre deciso a lasciare il beneficio, ben sessantadue campi,
vale a dire più di un terzo dei terreni parrocchiali da lui stesso inventariati
Veduta della chiesa
di San Giorgio
alla fine degli
anni Quaranta
del secolo scorso.
182
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
nel 1488. La lista della richiesta, manco a dirlo, contemplava i terreni migliori: un pezzo di oliveto, un prato, un bosco e discrete campagne di terra seminativa (quattordici e dieci campi) e altro ancora in varie zone del paese, con
facoltà di scambi e aggiustamenti «per megio accomodarme».19 I monaci
gli avevano fatto capire che non intendevano svendere il beneficio; il notaio
Giacomo il 15 febbraio 1494 presentò così un secondo elenco di richieste
molto più contenuto, non senza mancare di rilevare che, in passato, gli era
stato promesso di più. Nell’occasione si sarebbe pertanto accontentato di
undici campi e mezzo (una pezza di otto e altre unità minori: un campo di
bosco alla Guiza, mezzo campo dietro casa sua).20 Si intende, credo, che la
terra sarebbe stata data in godimento e non in possesso, ma a lui, e non al
padre, il quale nel contempo era intenzionato a domandare una pensione
annua di 60 fiorini d’oro di camera. Una pensione da assegnarsi sopra le
rendite della mensa abbaziale di Santa Giustina a decorrere dal momento
della sua rinuncia.21
Le schermaglie economiche andarono per le lunghe e sembra quasi che solo
allora si scoprì che il beneficio di S. Giorgio era particolarmente ricco: secondo un prospetto compilato dal notaio Giacomo dal Bò la chiesa riscuoteva
104 staia e mezzo di frumento a titolo di canone di fitti, altri 48 staia da canoni parziari e ulteriori 96 staia dal quartese; 120 staia costituivano l’entrata di
grani minuti (cereali quali il miglio, il sorgo, il panico, ecc.); 100 erano i mastelli di vino che venivano raccolti dai vigneti gestiti direttamente e da quelli
raccolti per quartese e 201 lire e 15 soldi per canoni in denaro e onoranze.22
Abbiamo detto che si era alle ultime battute quando il vescovo Barozzi giunse a Rovolon. Il venerdì della stessa settimana, 25 settembre 1495, l’abate Gaspare Giordani da Pavia dopo aver informato il Capitolo monastico sulla si-
Viti alle pendici
di Monte Grande.
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
183
tuazione della chiesa di S. Giorgio, autorizzò il monaco Antonio dei Sulimani
ad impetrare dal papa quella parrocchia in commenda nella sua persona.23
Due mesi dopo il notaio di fiducia del monastero salì a Rovolon e nella chiesa di S. Giorgio scrisse finalmente l’atto di procura con il quale Andrea dal
Bò incaricava tre personaggi, che allora si trovavano a Roma,24 a presentare,
a suo nome, la resignazione del beneficio di Rovolon a favore del sacerdote
Antonio Solimani, riservandosi tutti i redditi della parrocchia fino alla sua
morte. Presenti in chiesa, come testimoni, vi erano in quella circostanza solo
due poveri braccianti (laboratores) immigrati: Antonio Fachin da Belenzona e
Pietro Baron da Martinenyo.25
Il 10 settembre 1495, in mezzo a questo fervore di impegno – non sappiamo
se si estendesse anche alla vita spirituale della parrocchia – successe il colpo
di scena: prete Andrea dal Bò rinunciò, tramite procuratore, nella mani del
padre abate al governo della parrocchia, o meglio, per essere più precisi, rinunciò alla carica di arciprete, ma non al beneficio che, anzi, riservava a sé in
vita sua. È così che il 25 settembre successivo, l’abate concesse licenza a don
Antonio Solimani, monaco di Santa Giustina, di chiedere alla curia romana
l’investitura in commenda della chiesa di San Giorgio.
La tormentata gestione della parrocchia tra XV e XVI secolo
La resignazione in Curia, cioè la rinuncia fatta presso la curia romana e non
all’autorità che lo aveva concesso, rendeva il beneficio pienamente disponibile per concessioni in commenda da parte della curia stessa, aggirando in tal
modo possibili contestazioni e con piena facoltà di cedere in beneficio stesso
Terreni coltivati
ai piedi dei colli.
184
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
a una persona determinata, scelta dal resignante all’atto della sua rinuncia,
com’è nel nostro caso.
I documenti furono subito inviati a Roma, accompagnati da una lettera informativa per chi doveva curare la pratica.26 Essa riprende parola per parola
le motivazioni esposte negli atti ufficiali ed altre ne aggiunge: il parroco è
vecchio, ha ben settantacinque anni (qualche mese prima, chiedendo la pensione si era presentato come ultraottantenne, ma l’età allora era un fatto
opinabile), la parrocchia è posta in loco montano e il ministero che dura da
diciotto anni gli costa ormai troppa fatica; il beneficio è carico di debiti per le
tasse imposte dal governo della Serenissima, per le decime straordinarie, per
la trascuratezza del predecessore e per le grandinate insistenti cadute negli
ultimi anni; la chiesa sta cadendo ed ha bisogno di esser rifatta, così pure la
canonica, ma non ci sono soldi. L’arciprete sa che il monastero di Santa Giustina è ricco ed è solito restaurare le chiese in rovina ad esso affidate, inoltre
possiede molte terre e case contigue a quelle della parrocchia. Da quest’ultima poi percepisce le decime mentre il quartese rimane alla parrocchia stessa
ed insomma «tutto è talmente mescolato che più non si potrebbe», pertanto
sarebbe ottima cosa, vantaggiosa per l’una e per l’altro, che la parrocchia venisse annessa, unita e incorporata al monastero. Il parroco perciò ha deciso
di rinunziare chiedendo l’assegnazione vita natural durante dei redditi parrocchiali per il sostentamento suo e dei suoi servi, tolto ciò che è necessario
al culto e ai ministri: tali redditi non superavano gli ottanta ducati.
La pratica fu sbrigata velocemente in dicembre: don Solimani ottenne con
la bolla di papa Alessando VI, Religionis zelus, la chiesa di San Giorgio e si
affrettò a spedirla da Roma assieme ad una procura al padre cellerario don
Modesto da Padova e a prete Antonello da Crema, rettore della chiesa di
La chiesa di San
Giorgio tra il verde
di Monte Grande.
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
185
S. Antonio del Covolo, perché ne prendessero
possesso a suo nome.27
A questo punto la parrocchia era retta per la
seconda volta nella sua storia da un monaco
benedettino. Nel caso precedente si era trattato di una breve reggenza dovuta a circostanze
straordinarie, ora invece si intendeva assegnarle stabilmente una nuova situazione giuridica.
Il monastero, così rassicurato, mantenne le
promesse e diede il via ai lavori di ricostruzione totale della chiesa, tanto da risultare ormai
finiti negli ultimi mesi del 1499.
Prete Andrea dal Bò si godette ancora per
qualche anno il beneficio parrocchiale fino
agli inizi del 1499,28 mentre il monastero teneva saldamente la parrocchia che, resa vacante da Antonio Solimani, fu conferita il 22
giugno 1498, dall’abate Simone da Pavia, ad
un altro monaco, cioè don Andrea da Piacenza.29 Da qualche parte si avanzarono dei dubbi
di fronte ad un simile modo di procedere, ma
una decisione del governo di Venezia ingiunse ai rettori di Padova di dare il nulla osta alla
immissione in possesso del monaco.30 La soluzione raggiunta presentava ancora qualche
punto debole e doveva essere perfezionata.
L’anno dopo parve giunto finalmente il momento opportuno per condurre in porto una volta per sempre tutta la storia.
Dopo la morte del vecchio arciprete il beneficio era davvero libero e inoltre
si trovava a Venezia il cardinale Giovanni Borgia, legato della Sede apostolica
per l’Italia e quindi munito di tutti i poteri, oltre che perennemente affamato
di prebende. Bastarono pochi giorni e il monaco don Andrea, parroco da un
anno appena, fece una nuova e spontanea resignazione in curia nelle mani
del legato e contemporaneamente il monastero di Santa Giustina presentò
la richiesta formale di incorporazione e unione alla parrocchia, già ventilata,
come si ricorderà, ma non ottenuta nel 1495. In questa occasione il legato
concesse quanto richiesto.31
Come già detto, dopo neppure tre anni, vi fu un nuovo cambio del titolare
della parrocchia: in forza del diritto di collazione e della dispensa apostolica
ottenuta con la bolla Religionis zelus, l’abate Simone da Pavia conferì il governo della parrocchia al monaco di Santa Giustina don Andrea da Piacenza.32
Si arriva così all’ultimo punto di un piano, già collaudato a Villa del Bosco,
parrocchia non lontana da Correzzola (da non confondere con la Villa del
Bosco di Praglia, oggi conosciuta con il toponimo di San Biagio), su cui il
monastero esercitava, per antica consuetudine, il diritto di collazione, vale
a dire il diritto di scegliere il parroco senza l’intervento dell’autorità vescovile.33 Don Andrea da Piacenza rimase a Rovolon appena un anno: nel 1499 la
Artigiani al lavoro
per la costruzione
del pulpito
della chiesa di
Rovolon nel 1927.
186
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
parrocchia era di nuovo priva di rettore «per libera rinuncia all’ufficio fatta
spontaneamente nelle nostre mani e da noi accolta...», come si legge nel documento del legato apostolico.34
Tutta l’operazione, che mirava all’unione della chiesa di Rovolon con il monastero di Santa Giustina, giunse così in porto per la presenza a Venezia, in
quel settembre 1499, proprio del legato della sede apostolica romana per tutta l’Italia, il cardinale Giovanni Borgia. Nelle sue mani don Andrea da Piacenza compì quell’atto (conosciuto in diritto canonico con il termine giuridico di
Resignatio in curia) in forza del quale, lasciando libero del titolare un beneficio
ecclesiastico – nel nostro caso quello della parrocchia di Rovolon – lo si rimise a completa disposizione dell’autorità centrale della Chiesa affinché questa
potesse scegliere un nuovo titolare. Contemporaneamente alla Resignatio in
curia di don Andrea, il monastero di Santa Giustina presentò al legato apostolico una petizione, cioè la richiesta formale di unire chiesa e beneficio di San
Giorgio al monastero.
Da tempo immemorabile il monastero di Santa Giustina esercitava il diritto
di collazione ogni qualvolta la parrocchia di Rovolon rimaneva priva del suo
arciprete, o per cause di morte o per trasferimento in altra sede o, come
abbiamo visto sopra, per la rinuncia da parte del titolare. Prima del 1499 il
prete, investito dal monastero dell’ufficio di arciprete di Rovolon, diventava
parroco a tutti gli effetti, con una reale autonomia di azione rispetto al monastero, anche nella gestione dei beni della chiesa. Ora il monastero, ottenuta
l’unione-annessione della chiesa e del beneficio alla mensa abbaziale, diventa
esso stesso il titolare della parrocchia con la facoltà di scegliersi preti secolari
riconosciuti idonei alla cura d’anime dall’autorità vescovile, amovibili, ai quali il monastero assicura un compenso annuo di 30 fiorini d’oro.
Per quanto riguarda il beneficio della chiesa di S. Giorgio il legato autorizzava
Cartolina dei primi
anni Settanta
con le tre chiese
del comune
di Rovolon. Bastia
è ancora priva del
campanile.
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
187
il monastero ad appropriarsene liberamente, a tenerlo in
perpetuo e ad impiegare ogni
reddito e provento di esso per
gli usi e le utilità della chiesa e
dei monaci. L’argomentazione accampata dal monastero
in appoggio alla richiesta fu
di ordine economico e si riferiva all’esborso, nella fabbrica
della nuova chiesa di S. Giorgio, di ben 350 ducati quando
i frutti, le rendite ed i proventi del beneficio parrocchiale
non superavano il valore annuo di 60 ducati. E siccome
il procedimento adottato dal
monastero, pure inoppugnabile dal punto di vista del diritto, conservava anche allora tutta l’apparenza dello stratagemma, la bolla si
preoccupa, ricorrendo in abbondanza a formule usuali, ad assicurare il monastero con la più larga assoluzione da ogni genere di scomunica, sospensione e
da ogni altra censura ecclesiastica in cui potesse trovarsi “innodato”. Niente
potrà più annullare l’unione tra la parrocchia di Rovolon e il monastero di
Santa Giustina, né sarebbero state più possibili altre resignazioni in curia. Alla
fine c’è la nota del conto pagato dal monastero per ottenere il privilegio: 60
ducati di annata, tanto quanto era secondo la stima più stretta l’ammontare
delle rendite annuali del beneficio parrocchiale di Rovolon.
Una volta ottenuta la bolla pontificia di unione della chiesa al monastero, i monaci ebbero fretta di darvi esecuzione; addirittura tirarono in campo l’obbedienza: «Volentes uti filli oboedientes bullas unionis ... executioni mandare».35
Il mercoledì 25 settembre 1499, sei giorni dopo l’appuntamento di Venezia,
fu convocato il Capitolo per designare la delegazione incaricata di prendere
possesso della chiesa di Rovolon.36 Alla riunione furono presenti come testi
due laici: mastro Bartolomeo, mastellaio della contrada di Ognissanti, e Domenico detto Beffa, mugnaio della contrada di Pontecorvo. Nel verbale del
capitolo monastico fu inserita una preziosa notizia: la chiesa, di cui il monastero stava per entrare in possesso, era quella «fabbricata recentemente dai
padri nella villa di Rovolon ... dedicata a S. Giorgio, là dove per l’addietro
c’era la vecchia chiesa parrocchiale, la quale minacciava totale rovina, anche
quella chiamata con il titolo di S. Giorgio».
Il martedì primo ottobre giunse a Rovolon una delegazione di alto livello; dal
capitolo dei monaci erano stati «constituti, creati, et specialiter electi, ordinati et
deputati»:37 l’abate Simone da Pavia, il decano Girolamo, il cellerario Girolamo
Bellomi da Venezia ed altri tre monaci. A presenziare in qualità di testi furono
chiamati due sacerdoti, cioè prete Antonello «de Scachis», priore di S. Antonio
del Covolo, e prete Pasquale de Rossi, cappellano della chiesa di S. Giorgio. Alla
Il centro di Bastia
in una cartolina
spedita nel 1937.
188
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
stesura dell’atto era presente anche Giacomo dal Bò, il figlio notaio dell’arciprete Andrea dal Bò, a quel tempo già defunto, ed un certo ser Peregrino Zuchelo:
di fatto gli unici rappresentanti ufficiali di Rovolon. Oltre a questi, nell’atto si
leggono i nomi anche di tre artigiani: magister Pietro del fu Giovanni, marangon originario dal lago di Como ma abitante a Padova nella contrada di San
Canziano; magister Battista del fu Baldassare, anch’esso da Como e residente a
Padova nella contrada di San Giorgio; magister Lorenzo lapicida del fu mastro
Giovanni Trevisan della contrada padovana di San Prosdocimo.
Verosimilmente si tratta di tre artigiani addetti alla fabbrica della chiesa: l’opera di costruzione doveva essere ancora in corso. Ma prestiamo attenzione al
solenne rituale impiegato nel rispetto della consuetudine per significare il
cambiamento dell’arciprete per la chiesa di Rovolon: «Entrati spontaneamente di persona, pacificamente e quietamente e senza incontrare opposizioni,
dimostrarono di prendere in reale tenuta il corporale possesso della chiesa di
S. Giorgio della villa di Rovolon toccando le estremità dell’altare maggiore e
le tovaglie di lino esistenti sopra lo stesso altare, salendo nello stallo, mediante il suono delle campane, aprendo e chiudendo le porte della detta chiesa,
entrando e uscendo così pure con altri atti».
Se oltre ai testimoni ufficiali, Giacomo dal Bò e Peregrino Zuchelo, abbiano
assistito come spettatori casuali altri parrocchiani non lo sappiamo: in caso
affermativo non poco deve essere stato il loro stupore vedendo lo svolgimento di un cerimoniale del genere.
Tra le parrocchie del monastero di Santa Giustina
Ora importa sottolineare come questo atto di unione non fosse un episodio
isolato, ma facesse parte di una strategia più generale seguita sia dal monastero di Santa Giustina, sia da quello di Praglia. Lo dimostrano a sufficienza
alcuni dati. Prete Antonello «de Scachis», presente alla presa di possesso in
qualità di teste, era reduce da un’analoga vicenda: investito nell’anno 1464 del
beneficio di Villa del Bosco e della commenda della chiesa di Concadalbero, il
30 giugno 1488 faceva la “resignatio”, cioè formale rinuncia alla parrocchia,
così che il rettorato delle due chiese era assunto dal monaco Ambrogio da
Lodi. Questa svolta radicale nella conduzione della parrocchia era stata preparata dal monastero già due anni prima con la richiesta al papa del privilegio
«di porre nel beneficio di S. Nicolò di Villa del Bosco, quando si fosse reso vacante, solamente monaci dello stesso cenobio, rimovibili a sua discrezione e
l’autorizzazione a rendere l’effettivo servizio attraverso cappellani secolari o
regolari».38 In altre parole nel caso della parrocchia di Villa del Bosco, nel cui
territorio il monastero aveva vasti possedimenti, si era fatto un po’ il collaudo
del procedimento adottato poi a Rovolon.
Per quanto riguarda Praglia, nel 1507, su esplicita richiesta del monastero,
papa Giulio II concesse ai monaci la chiesa di Carbonara con tutti i beni e i
diritti.39 Su sollecitazione dello stesso monastero, nel 1517, una bolla di Leone X unì, annesse e incorporò in perpetuo la parrocchia di Tramonte al
monastero di Praglia, rafforzando una dipendenza preesistente.40 Alcuni anni
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
189
prima, nel 1508, papa Giulio II aveva affidato, sempre all’abbazia di Praglia,
la chiesa della Madonna posta sul monte omonimo ceduta dal comune di
Rovolon, i cui beni confinavano con quelli del monastero.41
L’ultimo passaggio di chiesa-beneficio al monastero di Santa Giustina riguardò la parrocchia di Legnaro, nel 1557.42 Il più delle volte questo genere di
petizioni veniva giustificato con motivazioni di ordine spirituale e religioso,
quale lo stato di abbandono in cui versavano l’edificio della chiesa e la cura
delle anime. Ma il fatto che le parrocchie oggetto di simili petizioni fossero
caratterizzate dalla presenza di vasti possedimenti fondiari dei due monasteri
entro i confini del loro territorio, fa pensare che non sia mancato l’intento
di conglobare insieme due ordini di cose: la potestas in spiritualibus con la
potestas in materialibus, il controllo delle anime e quello dei corpi. Nel caso di
Rovolon sembra abbastanza evidente il peso del movente economico. Che
la prospettiva di un affare non sia stata assente in tutta l’operazione di incorporazione della chiesa-beneficio di San Giorgio al monastero, lo dimostra
il seguito dei fatti. Anzitutto una parte delle terre della chiesa confinava da
tutti i lati, o quasi, con le proprietà del monastero,43 mentre una parte dei
campi che componevano l’ex beneficio arcipretale fu utilizzata dai monaci
come materiale di scambio. Il monastero riuscì in tal modo a dare compattezza ai suoi possedimenti nel territorio di Rovolon, altrimenti mortificati dalla
frammentarietà di tante piccole “chiusure” che, a guisa di corpi estranei, ne
interrompevano la continuità. Non a caso dall’agosto 1502 all’ottobre 1504 si
portarono a termine ben sei operazioni di permuta.44
È vero che la bolla di unione risaliva al settembre 1499, ma per dar corso alle
sue direttive bisognava attendere la scadenza dei contratti d’affitto in cor-
Il territorio di
Rovolon con filari
di viti che scendono
verso il piano.
190
Lo stemma
di Santa Giustina
sopra il portale
d’ingresso della
pieve di San
Giorgio.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
so. Del resto prete Andrea, pur avendo rinunciato
all’ufficio, si era riservato il beneficio “in vita sua”:
solo alla sua morte fu pertanto possibile stipulare
delle convenzioni tra monastero ed erede, cioè il
più volte ricordato notaio Giacomo dal Bo, così
che ogni divergenza fosse appianata.45
Intanto i lavori di ricostruzione erano finiti e il vescovo Barozzi che aveva visitato la vecchia chiesa
poco prima della sua demolizione, ritornò a Rovolon a consacrare la nuova, domenica 24 aprile
1502, giorno successivo alla festa di San Giorgio,
che come noto cade il 23 aprile. Santo che rimane
il titolare della parrocchia e dell’altar maggiore,
mentre vengono almeno in parte cambiate le dediche degli altri due altari; in tutti e tre gli altari
il vescovo inserisce “preziose reliquie” come era
sua abitudine ed insieme le reliquie trovate nei tre
altari precedenti distrutti, reliquie di santi ignoti
«quorum nomina ignorantur, scripta sunt autem
in libro vitae», come dice il verbale: bell’esempio
di rispetto per la tradizione, se non di scrupolosa critica storica.46
In seguito all’organica unione al monastero di Santa Giustina, la parrocchia di
San Giorgio divenne cappellania di San Giorgio: è così che la troviamo nominata in qualche atto del monastero di quegli anni.47 Come si andò configurando il rapporto tra monastero e preti incaricati in qualità di cappellani-vicari
della cura d’anime? Dopo tre anni di rodaggio il monastero sentì il bisogno di
stendere un regolamento col quale fissare – in alcuni punti – diritti e doveri,
sempre comunque nei limiti di un rapporto di chiara dipendenza.48 Anzitutto
i nuovi rettori furono obbligati a compiere tutti gli atti in capo ad una chiesa
con cura d’anime, seguendo in tal modo la consuetudine de la cura de le anime e
lo costume de la parrocchia. Fu stabilito che la cura principale, vale a dire l’azione direttiva, fosse svolta dai due cappellani a turno e con cadenza settimanale: «una septimana l’uno et una l’altro». Uno dei due scendeva la domenica a
celebrare nella chiesetta di S. Vincenzo o S. Sebastiano al Vegrolongo.
Quanto al delicato capitolo della remunerazione fu stabilito poi che: «dividano tra loro tutti gli incerti che pervengono a dicta chiesa per metà equalmente». Dal canto suo il monastero garantì a ciascuno dei due cappellani, a titolo
de salario all’anno et a rason de donno, 18 ducati d’oro, un moggio di frumento
e dieci mastelli de vin de pian. L’ultimo punto, molto chiaro nella sua formulazione, stabilì che in caso di comportamento cattivo – Dio non lo voglia e noi
non lo crediamo – fosse «in libera facultà et potestà del ditto padre abate ... dare
commiato et licenziare» sia uno solo sia entrambi i cappellani anche «infra
annum, non obstante che l’anno del accordio non fusse compiudo».
Il 1° novembre 1502 fu sottoscritto un patto fra due preti. Il padre don Eusebio
da Modena, abate di Santa Giustina, accettò per suoi cappellani nella chiesa di
San Giorgio di Rovolon, prete Giovanni Rossi da Padova e prete Alessandro
Fabris da Ferrara. I patti, che in quella circostanza furono siglati, non erano
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
191
tutti di facile esecuzione: la norma infatti prevedeva la cura d’anime esercitata communiter
et promiscue (insieme e promiscua);49 una pratica che ben presto si rivelò poco praticabile
a causa di interminabili discordie. Il visitatore
monastico – che per conto dell’abate visitava
periodicamente la chiesa – Nicolò Galerio nella visita pastorale del 1587, di fronte a questa
insostenibile situazione disporrà la creazione
di una nuova parrocchia nel luogo di Bastia:
solo così verrà posto fine alla difficile coabitazione dei due cappellani.
Vari fattori segnarono negativamente la cura
d’anime affidata ai due cappellani: in più di un
caso si ha l’impressione che il monastero assumesse sacerdoti un po’ ad occhi chiusi, in altre
parole pescando nel “mercato” che la manovalanza clericale offriva, visto che non di rado si
trattava di personale ecclesiastico eterogeneo
e dalla provenienza più disparata. Un modo di
procedere che riservò all’abate, vero signore di San Giorgio di Rovolon, più
di un inconveniente, soprattutto nel corso di quel tormentato XVI secolo.
Imbarazzante, in quanto accaduto in pieno clima di riforma post-tridentina,
fu il caso di prete Piero detto Gobbi e prete Francesco de Paoli, inquisiti nella
visita abbaziale del luglio 1575: ebbene il primo si trovava a Rovolon da non
più di tre anni e l’altro da soli cinque mesi, sufficienti comunque per farsi
segnalare negativamente agli occhi dell’abate. Da rilevare che prete Pietro
detto Gobbi con molta probabilità aveva sostituito quel Marco Targa che al
visitatore vescovile del 1572 diede prova di saper leggere il latino del messale
senza capirlo.50
Per tutto il corso del XVI secolo si registrò inoltre una forte mobilità di cappellani curati, dovuta verosimilmente al fatto di essere persone dipendenti,
continuamente sottoposte alla vigilanza del monaco-rettore che risiedeva
nel vicino palazzo della “corte benedettina”. I rettori della parrocchia di San
Giorgio erano infatti rimuovibili in qualsiasi momento da parte dell’abate.
Un esempio di quelle movimentate vicende si registra nella visita pastorale
compiuta nel 1579. Il padre abate di Santa Giustina nel controllare le condizioni dell’abitazione dei due curati, di proprietà dell’abbazia, venne a sapere
che in una parte dell’edificio abitava un nipote del curato, che allora era prete Ludovico. Il nipote era sposato, circostanza sulla quale l’abate si riservò
di riflettere; in seguito avrebbe fatto conoscere al rettore le sue decisioni.51
Qualche mese più tardi l’abate di Santa Giustina ritornò a Rovolon e in quella
circostanza impartì alcune direttive intese ad accentuare la dipendenza della
chiesa dal monastero padovano. Anzitutto, sotto pena di privazione del beneficio don Ludovico non doveva più tenere né ospitare la cognata sposata
nelle case di proprietà del monastero, tanto meno nella casa parrocchiale. In
secondo luogo invitò il curato a procurare un predicatore per l’ormai immi-
Tabernacolo
del XV secolo
nella pieve
di San Giorgio.
192
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
nente tempo di Quaresima: una volta individuato avrebbe dovuto chiedere
comunque l’assenso all’abate. Infine, a salvaguardia della giurisdizione del
monastero sulla parrocchia di Rovolon, aggiunse un altro richiamo: quando fosse stato necessario amministrare i sacramenti, prete Ludovico doveva
valersi soltanto «delle suppellettili esistenti nella sua chiesa di San Giorgio
e nella chiesetta di San Sebastiano, soggette alla giurisdizione spirituale del
monastero e non delle altre chiese».52 È probabile che nella circostanza l’abate alludesse alla chiesa di Santa Maria della Bastia, allora officiata dai Servi di
Maria; pare di capire la natura dell’infrazione commessa dal curato Ludovico: in date circostanze, per necessità o per comodità, egli andava a prestito
di qualche arredo liturgico dal religioso che officiava la chiesa della Bastia e
magari, qualche altra volta, in quella chiesa avrà celebrato la S. Messa o qualche sacramento. L’abate con quella decisione impose un taglio netto ad una
forma di cooperazione, verosimilmente per timore che potessero ingenerare
confusioni di carattere giurisdizionale sulle chiese dipendenti dall’abbazia.
Note
1. Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, a cura di Andrea Gloria,
Venezia (Monumenti storici pubblicati dalla Deputazione veneta di Storia patria) 1877,
doc. 55, p. 81.
2. Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, doc. 239, p. 266. Francesco
Selmin, Selvazzano. Documenti di storia, Selvazzano (Centro Sociale di Educazione Permanente) 1972, p. 40-48.
3. [Ireneo Daniele], La diocesi di Padova nel 1972, Padova (Tip. Antoniana) 1973, p. 478;
Archivio di Stato di Padova (= ASPd), Pergamene, generale 8928 e 7396.
4. ASPd, Pergamene, generale 8506.
5. ASPd, Pergamene, generale 11048.
6. Il «Liber» di S. Agata di Padova (1304), a cura di Giannino Carraro, con Nota di diplomatica di Gian Giacomo Fissore, Padova (ed. Antenore - Giunta Regionale del Veneto
- Fonti per la Storia della Terraferma Veneta, 11) 1997, p. 136.
7. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Venetiae-Histria, Dalmatia, a cura di Pietro
Sella e Giuseppe Vale, Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana - Studi e testi,
96) 1941, p. 111-114, num. 1323-1350.
8. Si veda in questo libro il capitolo dedicato al mulino di Rovolon.
9. ASPd, Estimo 1418, vol. 297, c. 131r-132v.
10. ASPd, Pergamene, generale 7484.
11. ASPd, Corona (provenienza monastero di Santa Giustina), generale 7659, part. 1881, collocazione CCCLX, “Bolla di unione di San Giorgio di Rovolon al monastero di Santa
Giustina, datata 1° ottobre 1499”.
12. [Daniele], La diocesi di Padova, p. 478.
13. L’evento dovrebbe collocarsi tra il 1467 e il 1469.
14. Pierantonio Gios, L’attività pastorale del vescovo Pietro Barozzi a Padova (1487-1507), Padova (Istituto per la storia ecclesiastica padovana) 1977, p. 125 n. 20.
15. Archivio della Curia Vescovile di Padova (=ACVPd), Visitationes, III, c. 390. Si tratta
della più antica visita pastorale di cui si abbia memoria, se si eccettua quella del vescovo
Marco Nigro (domenica 8 settembre 1465).
16. Gios (L’attività pastorale del vescovo Pietro Barozzi, p. 133 n. 35), riporta un caso analogo
che riguarda la riconciliazione della chiesa e del cimitero di Camponogara «propter
eff usionem sanguinis» di cui era responsabile Bernardino Nardini.
17. Forse fu un omaggio al papa regnante, Alessandro VI (al secolo Rodrigo de Borja y
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
18.
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27.
193
Doms, in italiano Borgia), nato a Játiva (Valencia) nel 1431 ed eletto pontefice nel 1492.
Era nipote di Callisto III (1455-1458) e a Roma morì nel 1503.
Il notaio Giacomo dal Bò fu attivo a Padova tra il 1454 e il 1513 (ASPd, Notarile, vol.
2925, 2926, 2927, 2928).
ASPd, Corporazioni religiose soppresse. Monasteri della città. Santa Giustina (= ASPd, S.
Giustina), b. 137, filza C.R P.II, c. 253 “Contro il comune di Rovolon per causa di spese
nelle riparazioni della chiesa e del campanile” (senza data, ma evidentemente anteriore
alla richiesta seguente).
ASPd, S. Giustina, b. 180, filza E.P P.19, c. 107 “Atti contro l’arciprete di S. Giorgio di
Rovolon e contro comune di Rovolon per la chiesa di S. Giorgio di Rovolon e S. Maria
della Bastia”.
ASPd, S. Giustina, b. 137, filza C.R P.II, c. 238r: brutta copia senza data di petizione indirizzata a Beatissime Pater (il papa); lo stesso testo in bella copia a c. 232 con indirizzo
Reverendissime Domine, cioè all’abate. L’arciprete si presenta qui più che ottantenne e
oppresso da malattia e vecchiaia.
ASPd, S. Giustina, b. 137, filza C.R P.II, cc. 239-240. È da notare che l’arciprete in questo
momento non coltiva più cereali in proprio: gli bastano ad abundantiam quelli raccolti
come canone e quartese. Nella medesima filza, alle carte 258 e 260 (tra le quali è stata
inserita in altro tempo la lettera formante la c. 259) c’è un bilancio più tardo, fatto in
occasione della visita dell’abate Giovanni da Trento nella domenica 3 luglio 1575 (Cfr.
ASPd, S. Giustina, b. 183, filza E.P P. 25, c. 46). Le spese sostenute furono queste: ai
due sacerdoti in cura d’anime il monastero passa lire 223 e 4 soldi di salario, 24 staia
di frumento, 4 di miglio, 4 di sorgo, 8 di legumi, 20 mastelli di vino, 25 libbre di carne
salata, 25 libbre di formaggio, un carro di fieno e uno di paglia. Le entrate sono così
calcolate: a) 12 ducati di reddito complessivo da 13 campi (seminativi, prati, vigneti) in
vari luoghi; b) 20 campi di bosco, “li quali so inutili” perché vi si potrebbe cavar legna
ogni 10 anni ma con tanta spesa, “che non si fa le legne”, perciò reddito zero; c) canoni
riscossi da trentatre affittuari: 79 lire e 3 soldi, 7 moggia, cioè 84 staia, di frumento, 6
paia di polli e 6 di galline; d) il quartese parrocchiale che rende 5 moggia (= 60 staia) di
frumento, 2 moggia (= 24 staia) di cereali di varietà diverse, uno staio di sorgo, 8 staia di
legumi e 25 mastelli di vino. Le due voci principali, denaro e frumento, danno in totale
rispettivamente lire 153, soldi 11 e 12 moggia (= 144 staia). La base fondiaria era stata
evidentemente modificata e il tutto era gestito ora dal monastero, pur conservandosi
memoria di una certa distinzione.
ASPd, S. Giustina, mazzo 577 “Instrumenti diversi in pergamena” (1405-1567), pergamena n. 127. Estensore il notaio Lorenzo Violato. A questo punto erano state scartate
altre possibili soluzioni, compresa la pensione in fiorini per Andrea dal Bò, soluzioni di
cui resta traccia nelle minute di petizione sempre in ASPd, S. Giustina, b. 137, filza C.R
P.II, c. 238r: vi si chiedeva l’autorizzazione per l’abate ad assegnare la chiesa, in caso di
vacanza, ad un monaco di Santa Giustina. Antonio Solimani acconsente come cellerario ad una permuta di terre del beneficio parrocchiale di Rovolon il 19 dicembre 1493,
nella fattoria del monastero (ASPd, S. Giustina, b. 180, filza E.P P.19, c. 97v). Al momento del Capitolo egli era assente, forse già a Roma per imbastire la pratica.
Sono: Stefano Capponi da San Geminiano, canonico di Massa e sollecitatore presso la
Curia, Nicolò da Barchinova priore del monastero ferrarese di S. Marco, ora a Roma nel
monastero di S. Paolo in urbe e il sig. Innocenzo de Leis, avvocato in Curia.
ASPd, S. Giustina, b. 180, filza E.P P.19, c. 108: atto del 27 novembre 1495, in copia fatta
dallo stesso notaio rogante Lorenzo Violato.
ASPd, S. Giustina, b. 137, filza C.R P.II, c. 255.
La bolla è in ASPd, S. Giustina, mazzo 577, “Instrumenti diversi in pergamena” (14051567), pergamena n. 128 datata 16 dicembre 1495; per la procura sempre in ASPd, S.
Giustina, vol. 8 (Annali, tomo VIII, anni 1429-1550), c. 749 in data 11 dicembre 1495.
Sulla figura di prete Antonello da Crema si veda Giuseppina De Sandre Gasparini, Contadini, chiesa, confraternita in un paese veneto di bonifica. Villa del Bosco nel Quattrocento,
Padova (Istituto per la storia ecclesiastica padovana) 1979, p. 119-112 e p. 139-144.
194
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
28. Continuano ad essere a suo nome i contratti d’affitto di terre parrocchiali (si vedano i
contratti del 31 dicembre 1496, alla presenza di prete Lodovigo cappellano e del 24 aprile
1497). Si vedano anche in ASPd, S. Giustina, b. 180, filza E.P P.19, c. 62: «Pagamenti facti
ale decime per la ghiexia de messer S. Zorzi essendo rectore messer prete Andrea dal
Bò», che arrivano fino al 14 agosto 1498, con due versamenti di lire 26 e soldi 2 ciascuno.
Prete Andrea continuò a pagare le tasse come fruitore effettivo del beneficio. Il 17 aprile
1499 è invece il monaco Andrea da Piacenza rettore della chiesa di S. Giorgio che affitta
per tre anni una terra della chiesa (ibidem, c. 101). Su Carbonara: Antonio Rigon, La
parrocchia di S. Giovanni Battista di Carbonara, in L’Abbazia di Santa Maria di Praglia, a cura
di Callisto Carpanese e Francesco Trolese, Milano (Silvana Editoriale) 1985, p. 71-73.
29. ASPd, S. Giustina, mazzo 577, “Instrumenti diversi in pergamena” (1405-1567), pergamena n. 130.
30. ASPd, S. Giustina, vol. 8 (Annali, tomo VIII), c. 761 in data 28 giugno 1498.
31. ASPd, Corona (provenienza monastero di Santa Giustina), generale 7659, part. 1881, collocazione CCCLX, “Bolla di unione di San Giorgio di Rovolon al monastero di Santa Giustina, datata 1° ottobre 1499”. Nel documento vengono citate la resignazione di don
Andrea e la petizione dei monaci. Alla bolla sono stati poi uniti, così da formare un solo
rotolo, anche il mandato per la immissione in possesso e l’atto d’immissione citati qui
di seguito. Il procedimento seguito dai monaci per acquisire anche il beneficio parrocchiale, inoppugnabile sotto il profilo del diritto canonico, manifestava già allora tutta
l’apparenza di un esplicito stratagemma tanto che nella “bolla” del cardinale Borgia ci
si preoccupò, ricorrendo in abbondanza a formule usuali, di proteggere il monastero
da ogni possibile ricorso. Nel testo della bolla, infatti, si coglie pienamente la volontà
di tutelare il proprio operato e quello del monastero contro ogni genere di scomunica,
sospensione e da ogni altra possibile censura ecclesiastica.
32. Per quanto riguarda la gestione dei beni immobili, che doveva assicurare una rendita
tale da garantire la sopravvivenza dell’arciprete, va rilevato che prete Andrea dal Bò aveva provveduto a redigere un accurato inventario, dimostrando attenzione e diligenza:
una cura che facilitò in quei frangenti l’acquisizione da parte del monastero dei beni
stessi. Un patrimonio che, liberamente detenuto dal monastero, consentiva di impiegare il reddito e i proventi per le necessità e i bisogni della chiesa e dei monaci. È curioso
rilevare che l’argomentazione accampata dai benedettini di Santa Giustina in appoggio
alla richiesta fu di ordine squisitamente economico: era stato lo stesso monastero a impegnare nella costruzione della nuova chiesa di San Giorgio ben 350 ducati – e quindi
non la comunità civile come spesso accadeva in altri luoghi – mentre i frutti, i redditi ed
i proventi della chiesa parrocchiale non superavano il valore annuo di 60 ducati.
33. I casi di ricostruzione o di nuova costruzione di chiese parrocchiali da parte dei comuni
sono diversi, qui ricordo quello di Galzignano, avvenuto nel 1674, che comportò uno
sforzo finanziario e un indebitamento del locale comune rurale, risolto con l’alienazione di parte del patrimonio immobiliare (boschi e terreni coltivati) della collettività
(Claudio Grandis, Il comune di Galzignano e la famiglia Giavarina, in Comune di Galzignano Terme, Inaugurazione della nuova sede municipale in palazzo Giavarina, Galzignano
Terme 2007, p. 19-21).
34. Vedi sopra alla nota 31.
35. Cfr. sopra nota 31.
36. Così è detto nel verbale della immissione in possesso.
37. Mandatum ad capiendam possessionem.
38. Missio in possessionem.
39. Si confronti per questa vicenda quanto scrive Giuseppina De Sandre Gasparini, Contadini, chiesa, confraternita in un paese veneto di bonifica, p. 109-112 e 139-140; la citazione è
da p. 140.
40. Rigon, La parrocchia di S. Giovanni Battista di Carbonara, p. 71
41. Giuseppe Tamburrino, La parrocchia di S. Giorgio di Tramonte e di S. Maria di Praglia, in
L’Abbazia di Santa Maria di Praglia, a cura di Callisto Carpanese e Francesco Trolese,
Milano (Silvana Editoriale) 1985, p. 63-67.
la chie sa di sa n g iorg io d i rovolon
195
42. Callisto Carpanese, Il Santuario del Monte della Madonna nei Colli Euganei. Tra storia e
cronaca, Abbazia di Praglia 1987, p. 25-38.
43. ASPd, S. Giustina, mazzo 338, fasc. III, c. 1v-2r (copia siglata 322). “D: Chiese, n. 3
privilegi. Scritture, ecc. appartenenti al possesso delle chiese soggette al monastero”
1131-1749. Breve di papa Paolo IV del 19 novembre 1557; mazzo 553, fasc. 2, c. non
numerata dove si legge: «Il Santo pontefice Paolo IV unisce al monastero di Santa Giustina la chiesa parrocchiale di S. Biasio di Legnaro talmente che sia lecito al padre abate
e monastero prendere possesso di detta chiesa, ritenere perpetuamente le di lei entrate
e convertirle in uso proprio e della detta chiesa; nec non farvi esercitare la cura d’anime
per due preti secolari ad ognuno 60 ducati di Camera».
44. Il dato emerge dalla lettura dell’inventario steso nel 1488. Una situazione durata nei
secoli seguenti come attestano vari documenti in cui terreni del monastero sono in
prossimità della chiesa di San Giorgio. A titolo di esempio si veda la perizia di Antonio
Turcato del 1787 che descrive un appezzamento di oltre cinque campi di terra diviso
in due pezze di cui una «di ragione delli reverendi padri di Santa Giustina di Padova» e
l’altra posseduta «dal reverendo signor arciprete», terre che si trovavano in contrà delle
Roche, cioè di fronte alla chiesa di San Giorgio oltre la strada che tuttora la costeggia
(ASPd, Notarile 6726, c. 157r).
45. ASPd, S. Giustina, vol. 8 (Annali, tomo VIII), c. 789, 793-795.
46. ASPd, S. Giustina, vol. 4 (Indice alfabetico per materia delle scritture del monastero, tomo IV,
lettere P-Z), sub voce Rovolon – chiesa, in data 1500, 15 luglio.
47. ACVPd, Visitationes, III, c. 394. La curia padovana era naturalmente rimasta esclusa da
tutto il tramestio dei quegli anni.
48. ASPd, S. Giustina, busta 553, carta sciolta segnata 120: “Pacti fatti con la cappellania di S.
Giorgio del 1° novembre 1502”. Nella stesso contenitore vi è anche il “Libro dei capitoli
della Scuola della Morte eretta nella chiesa di S. Giorgio di Rovolon” (1649).
49. ASPd, S. Giustina, busta 553, carta sciolta segnata 120.
50. Claudio Bellinati, La Pieve di Rovolon. Notizie e cenni storici dalle visite pastorali, in Franco Holzer, Rovolon amore per una terra, Padova (ADLE edizioni) 1997, p. 36-37.
51. ACVPd, Visitationes, X, c. 296v, contiene il verbale della visita del vescovo Federico Corner effettuata a Rovolon il 1° luglio 1587. Il riassunto di quella visita è in Bellinati, La
Pieve di Rovolon, p. 37-38.
52. ASPd, S. Giustina, busta 183, filza E.P P. 25, “Visite delle chiese di S. Matteo, S. Giuliana,
S. Daniele, S. Giorgio di Rovolon, S. Martino dei Ronchi ed altre, con inventari, esami e
decreti dei superiori” (1534-1699). Visita abbaziale alla chiesa di Rovolon del 7 maggio
1579.
53. ASPd, S. Giustina, busta 183, filza E.P P. 25, visita abbaziale alla chiesa di Rovolon del 28
gennaio 1580. Sulla chiesa di S. Giorgio: Francesco Giovan Battista Trolese, S. Giorgio
di Rovolon una chiesa donata a Santa Giustina di Padova cenni storici di un rapporto secolare,
in in Franco Holzer, Rovolon amore per una terra, Padova (ADLE edizioni) 1997, p. 4763. I verbali di visita dell’abate sono in ASPd, S. Giustina, busta 183, filza E.P P. 25, c.
41 (1546); c. 45 (1582); c. 46-50 (1575); c. 103 (1579); c. 129 (1580); c. 169 (1587); c. 178
(1588); c. 230 (1699). Numerose notizie sulla vita della parrocchia sono anche nel lavoro
di Ludovico Francesco Maschietto, «Ut grex dominicus salubriter regatur, conservetur et
custodiatur». Visite pastorali degli abati di S. Giustina in Padova alle parrocchie dipendenti
(1534-1791), Padova (Istituto per la storia ecclesiastica padovana) 1998.
La chiesa di Santa Maria di Bastia
Nel toponimo Bastia è rimasto impresso il ricordo della fortificazione in legno eretta sul finire del XIV secolo. Bastia ha la stessa radice linguistica di
bastone, bastonare. Pure bastire ci riconduce a questa matrice, tant’è che nel
lessico medievale voleva dire “munire di bastia”, steccato: un documento del
1319 relativo a Montefiascone (in provincia di Viterbo) a tal proposito recita:
«fecit bastiri per quosdam sticchones ligneos pro una roccha inibi facienda».1
Per la storia del territorio che oggi fa capo alla nostra Bastia è dunque inutile
cercare tracce più antiche seguendone il nome di luogo. Questo spazio fisico
in passato doveva essere indicato con altre denominazioni, verosimilmente
una delle tante che ritroviamo citate nei documenti su Rovolon risalenti al
XII e XIII secolo. Lasciamo tuttavia ad altri ricercatori scoprire l’antica denominazione del luogo, partendo dalle pagine che in questo libro Francesco
Tognana ha dedicato alle strutture fortificate del territorio comunale e in
particolare quelle riservate proprio a Bastia.
Questa breve premessa ci sembra doverosa prima di raccontare, per sommi
capi, la vicenda delle quattro chiese edificate a Bastia, per la semplice ragione
che il tempio dedicato a Santa Maria della Neve (S. Mariae ad Nives de Bastia,
recita ufficialmente il Bollettino diocesano di Padova), con il compatrono San
Mauro, occupa proprio il luogo fisico della bastia, cioè della struttura fortifi-
La vecchia chiesa
di Bastia, demolita
per far posto
all’attuale.
Nella pagina a
fronte: la chiesa
nel 1928.
198
La vecchia chiesa
di Bastia in una
cartolina illustrata
spedita il
28 febbraio 1927.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
cata medievale. L’interramento cui è stato sottoposto il tratto di fossa Nina (detta anche Fossa Martina, scolo Fossona o
naviglio di Pedevenda), non ci consente
di cogliere l’unicità del sito, di questo
spazio, di questa isola vera e propria sulla
quale nel corso del XV secolo fu deciso
di costruire un tempio sacro. Tempio che
per oltre un secolo non fu riservato agli
abitanti di Rovolon, che lentamente erano andati popolando la pianura ritagliata
tra Monte Sereo e il grande bosco della
Carpaneda, bensì al culto mariano promosso nella zona dall’ordine dei Servi di
Maria di Padova.
L’oratorio al centro dell’anello d’acqua
creò in tal modo un quadro, uno scenario, che nella visita abbaziale del 14 dicembre 1646 indusse il cancelliere notarile ad annotare che la chiesa ed il cimitero
erano «circondati a fovea» e accessibili
«per ponte super foveam constructum».
Nel tempio e nel luogo delle sepolture si
giungeva dunque attraversando un ponte gettato sopra la fossa d’acqua che perimetrava e definiva l’intero spazio sacro.
Un ponte dotato anche di una porta per
impedire l’ingresso agli animali vaganti,
come i cani che non di rado nei cimiteri
tendevano a scavare sulle sepolture alla
ricerca di ossa; o degli ovini che brucavano l’erba tra le tombe con l’immaginabile strascico indecoroso che lasciavano al loro transito.2
Proprio in questo luogo i frati serviti di Padova costruirono una chiesa dedicata a Santa Maria, loro grande protettrice. La definizione esatta di questo
Ordine, fondato da sette mercanti fiorentini nel 1233, è infatti “Servi di Maria” per la particolare devozione alla beata Vergine. A Padova l’Ordine approdò nel corso del Trecento. Nel 1372, per volontà di Fina Buzzacarini, moglie
di Francesco il Vecchio da Carrara, venne costruita una nuova chiesa sull’area
del demolito palazzo abitato del traditore Nicolò da Carrara; chiesa che fu
consegnata ufficialmente ai Serviti il primo novembre 1392.3
Nel mentre a Bastia l’Ordine edificò un piccolo, modesto tempio mariano,
al Vegrolongo i monaci di Santa Giustina eressero un oratorio in onore di
S. Sebastiano (noto e invocato a protezione delle pestilenze, spesso in coppia con S. Rocco), ponendolo alle dipendenze della chiesa di S. Giorgio di
Rovolon. Poiché la pieve di S. Giorgio e l’oratorio di S. Sebastiano dipendevano entrambe da S. Giustina, e fisicamente si trovavano agli antipodi del
la chie sa di sa n ta m a ria bastia
199
territorio parrocchiale, l’abate del monastero dispose che vi fossero due sacerdoti dimoranti nella medesima casa
canonica di Rovolon. A loro era affidata
la cura d’anime e l’obbligo di alternarsi nella conduzione delle due chiese e
nella pratica religiosa: una promiscuità
che divenne confl ittuale per le disagiate condizioni di strade e ambiente. Lo
scontro violento e aperto tra i due sacerdoti indusse l’abate di Santa Giustina
a proporre lo smembramento dell’antica parrocchia di S. Giorgio.
Fu così che, ufficialmente il primo luglio 1587, Bastia assunse la veste di vera
e propria parrocchia, non più dipendente da Rovolon. Il decreto vescovile
che ne sancì la nascita, offrì tuttavia ai
monaci di Santa Giustina, titolari della
cura d’anime, la facoltà di richiedere
ai Serviti di Padova «ecclesiam Sanctae
Mariae della Bastia», al posto di trasformare S. Sebastiano in parrocchia
per la posizione periferica del tempio
rispetto al grosso dell’abitato. L’istanza
fu accolta e il 10 ottobre 1590, si rese
così esecutiva la volontà pastorale. Da
quel momento gli uomini e il comune
di Vegrolongo, tutti i parrocchiani che
abitavano nelle case oltre la fossa Martina, presenti e futuri nessuno escluso,
dovevano essere considerati comunità parrocchiale di S. Maria della Bastia,
staccati di fatto e di diritto perché «separati ac dismembrati» dalla chiesa di S.
Giorgio di Rovolon.
La nuova comunità iniziò a frequentare la chiesa che i serviti avevano edificato nel 1470, per la posizione più comoda rispetto al periferico oratorio S.
Sebastiano. All’abbazia di S. Giustina rimase il diritto di nominare il parroco,
come avvenne, ad esempio, nel 1645 con l’elezione a rettore di don Cherubino da Padova, monaco professo e decano del monastero che assunse l’incarico con un salario di 100 ducati annui.4
Il tempio di S. Maria purtroppo crollò nel 1667; ricostruito, fu nuovamente
travolto dal turbine del 17 agosto 1756, quello che devastò la copertura del
Palazzo della Ragione a Padova. Come ricorda una memoria custodita nella
canonica di Bastia, il violento fortunale fece crollare gran parte della chiesa
e uccise il cappellano, don Pietro Graziani di quarant’anni, i due figli minori
del campanaro Pietro Marcato e altri sei parrocchiani, due dei quali adolescenti. Nel breve volgere di un anno sorse un terzo edificio, inaugurato il 6
La chiesa
con il fossato
circostante in una
cartolina spedita
il 16 agosto 1941.
200
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
novembre 1757. Le ridotte dimensioni e gli insufficienti ampliamenti attuati
nel corso del Novecento, indussero la comunità parrocchiale a progettare un
nuovo tempio più ampio. Il 19 marzo 1949 fu così benedetta la prima pietra
della quarta chiesa di Bastia, con la conseguente demolizione di quella settecentesca. I lavori si conclusero alcuni anni dopo permettendo la benedizione
del nuovo tempio il 1° maggio 1954.5 Solo più tardi prese avvio l’erezione
del nuovo campanile, l’ultimo, in ordine di tempo, ad essere innalzato nel
quadrante ovest di Padova.
Note
La vecchia chiesa
in una cartolina
illustrata inviata
da Bastia il
6 ottobre 1911.
1. Pietro Sella, Glossario latino italiano. Stato della Chiesa, Veneto, Abruzzi, Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana) 1944 (rist. anastat. Modena 1979), p. 61.
2. Archivio di Stato di Padova (= ASPd), S. Giustina, b. 137, filza C.R P.II, c. 187.
3. Ruggero Maschio, S. Maria dei Servi, in Padova. Basiliche e chiese, a cura di Claudio Bellinati e Lionello Puppi, parte prima, Vicenza (Neri Pozza editore) 1975, p. 239.
4. ASPd, S. Giustina, b. 137, filza C.R. P.II, c. 185.
5. [Ireneo Daniele], La diocesi di Padova nel 1972, Padova (Tip. Antoniana) 1973, p. 103
La chiesa di San Giovanni Battista
di Carbonara
Gli studiosi che in passato si sono occupati delle principali vicende di questa
chiesa e della relativa parrocchia sottolineano concordemente la stretta dipendenza che essa ebbe con il monastero di S. Maria Assunta di Praglia; una
dipendenza che iniziata nel 1507 si concluse giusto tre secoli più tardi, nel
1806, con la prima soppressione dell’antica abbazia benedettina.
Cenni di una sua esistenza ben prima di quel fatidico 1507, provengono da
un documento del 17 dicembre 1198: quel giorno l’abate do Praglia Alberto
concesse ad un certo Offredino di Rafaldino alcuni terreni da coltivare, con
delle viti soprastanti. Erano appezzamenti del monastero situati a Carbonara
e uno di questi confinava con diritti (ius) della chiesa di San Giovanni di Carbonara.1 A quella data, dunque, la chiesa esisteva già ed era titolare di alcuni
beni che ne costituivano il beneficio, un patrimonio, tuttavia, di cui ignoriamo completamente la consistenza.
Da tempo nella zona il monastero di Praglia deteneva beni immobili; beni
che le antiche pergamene mostrano trasferiti a contadini attraverso l’istituto
contrattuale del livello, un affitto di lunga durata, di norma ventinovennale,
spesso rinnovabile alla scadenza. Vicino alla chiesa i monaci erano proprietari
di terre già al debutto del XIII secolo, come ricordano due compravendite
rispettivamente del 24 luglio 1204 e 23 giugno 1205, e due livelli stipulati in
Carbonara «apud ecclesiam» (presso la chiesa) il 28 marzo 1210.2
La prima attestazione di un presbitero a servizio della parrocchia de Carbonaria proviene dal verbale steso il 6 agosto 1262 in occasione della cessione
del bosco Viglanicus alle monache di Sant’Agata di Padova fatta dagli uomini
del comune di Rovolon. Nel lungo documento tra i primi nomi ad essere
registrati dal notaio appare infatti «domino presbitero Guillelmo ecclesie de
Carbonaria». Di questo sacerdote nulla di più sappiamo, ma la sua vicinanza
ai due altri preti di Rovolon, in quel giorno d’agosto, sembra dimostrare non
solo lo stretto legame della cappella di Carbonara alla pieve di San Giorgio,
ma pure la diretta appartenenza della parrocchia al più ampio territorio di
Rovolon.3
Altre frammentarie notizie sulla chiesa di Carbonara si raccolgono dalle registrazioni delle decime papali del 1297 e del XIV secolo. In quelle circostanze
fu incluso nel libro dei pagamenti il nome di prete Fino, ma a margine fu
annotata l’espressione «excusatus», esentato. A Carbonara, accanto al rettore
troviamo, sempre in quell’anno, anche il chierico Castelnovus pur esso scusato
dal pagamento, verosimilmente, è da pensare, per la miserevole rendita che
il beneficio procurava.
In un estimo seguente del XIV secolo alla chiesa di San Giovanni Battista
202
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
fu imposto il pagamento di un’imposta sull’entrata di 20 lire di piccoli, ben
poco se confrontato con quelle di Boccon, che era di 30 lire, o di Galzignano
calcolata in 50 lire.4
Carbonara era allora l’unica dipendenza della pieve di San Giorgio di Rovolon, sorta a servizio di un piccolo villaggio dedito alla produzione del carbone
di legna, un’attività che sappiamo esser stata proibita dal Comune di Padova
con uno specifico provvedimento del 1267.5 Ma la piccola realtà demografica,
insediata sull’unghia occidentale del Monte della Madonna, ben presto finì
nell’orbita del monastero di Praglia, che sul finire del XV secolo prese l’iniziativa di acquisire la chiesa da tempo decadente e in stato di abbandono, tanto da non essere nemmeno nominata nei verbali della visita compiuta nella
zona dal vescovo Barozzi nel 1495.6 Va comunque ricordato in proposito che
in precedenza, soprattutto dalla metà del XIV secolo, Praglia visse una crisi
profonda e uno spopolamento dell’abbazia, cessato solo con l’adesione avvenuta nel 1448 alla congregazione De Unitate, detta anche di Santa Giustina e,
ancora, dell’Osservanza e più tardi Cassinense.7
Nell’ambito della vasta opera di rinascita e di riorganizzazione dell’ampio patrimonio fondiario del monastero euganeo si colloca dunque anche l’acquisizione della cappella di San Giovanni Battista di Carbonara. Come si svolsero i
fatti è noto da tempo, sia per lo studio compiuto da Antonio Rigon nel 1985,8
sia per la recente (2010) messa a punto di Giannino Carraro dedicata alla
cura d’anime del monastero di Praglia tra XII e XVIII secolo. In quest’ultimo
lavoro si possono leggere anche i diversi verbali delle visite abbaziali compiute alla chiesa di Carbonara e scorrere l’elenco dei sacerdoti che ressero
la parrocchia tra il 1527 e il 1839, dei quali ci è rimasta memoria nelle carte
dell’antico archivio monastico.9
Tornando alle vicende di quell’acquisizione, di quell’unione con Praglia del
1507, dobbiamo ricordare che l’evento fu possibile per la nomina a procura-
Carbonara in una
cartolina illustrata
degli anni Trenta
del secolo scorso.
la chie sa di sa n g iova n n i batt ista di c arbonar a
203
tore del monastero dell’abate di Santa Maria di Saccolongo, al quale fu dato
mandato di trattare la cessione del beneficio ecclesiastico con il commendatario Lelio da Teramo in cambio di un congruo risarcimento. L’abate commendatario di Saccolongo, Girolamo Sambuci, raggiunse lo scopo con l’intervento di papa Giulio II, di cui il molisano Lelio era «scriptor et familiariis».
Praglia s’assunse l’onere di ricostruire la chiesa e di riordinarne il patrimonio.
Un’operazione che vide, pochi anni più tardi, il coinvolgimento anche della
vicina chiesa di San Pietro in Costa, e che, di fatto, permise all’abbazia di
Praglia di controllare e gestire le due chiese, frequentate soprattutto dai coloni che lavoravano le terre monastiche gravitanti sulla vasta corte agricola
di Spirano e Vegrolongo. In quel XVI secolo il monastero pragliese deteneva
nella zona un patrimonio fondiario stimato in 215 campi di terra «valliva e
paludiva».10
Divenuta propria dipendenza, il monastero provvide alla ricostruzione
dell’edificio sacro e alla nomina del rettore. Nel 1532 iniziarono anche le visite pastorali da parte dell’abate: nella circostanza a reggere la parrocchia
vi era prete Matteo, un frate predicatore teutonico. I verbali di quelle visite
fotografano le condizioni dell’edificio, degli arredi sacri, del comportamento
dei rettori, ma soprattutto la rinascita di una chiesa e di una piccola comunità
religiosa viva e presente. Sono «homeni da ben» e vivono cristianamente, annota il curato Giovanni Crescenzio, nativo di Arquà, in occasione della visita
compiuta dall’abate Giulio da Mantova l’otto agosto 1599.11
Condizioni che si perpetuano anche nei secoli seguenti e che dimostrano
come il monastero fosse interessato non solo allo sfruttamento dei terreni
che gravitavano attorno alla chiesa, ma pure al comportamento morale dei
contadini occupati nei campi. Tra le norme delineate nei primi decenni del
XVI secolo per disciplinare i contratti agrari – note agli studiosi col termine
di capitula – per la conduzione delle aziende agricole, i monaci di Praglia in-
Carbonara in una
cartolina viaggiata
nel novembre 1941.
204
Carbonara
in una cartolina
illustrata spedita
nel luglio 1936.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
serirono tra i patti anche il rispetto della famiglia. Litigi, insulti, bestemmie,
separazioni coniugali, matrimoni di giovani senza il consenso dei genitori,
mancanza di rispetto agli agenti del monastero, erano motivo di annullamento dei contratti agrari e di cacciata dalle terre monastiche.12 L’etica e la morale
dovevano servire da esempio quotidiano, felicemente coniugato alla pratica
religiosa, alla frequenza ai sacramenti. Era dunque la povertà materiale che
a volte impediva l’allestimento e un migliore decoro della piccola chiesa di
San Giovanni Battista, e non certo il convincimento religioso, come si coglie
dalle relazioni abbaziali.
Il monastero continuò ad esercitare il diritto di collazione, cioè la scelta del
parroco di Carbonara, alternando a monaci altri sacerdoti secolari, fino al
1770 allorquando il parroco divenne inamovibile. La chiesa nel frattempo fu
decorata e abbellita con gli altari laterali in pietra che nel 1696 sostituirono
quelli in legno.13
Agli inizi del XVII secolo gli uomini habili erano in numero di duecento, se
diamo fede ai dati forniti da Andrea Cittadella; lo stesso autore riporta anche
le dimensioni della chiesa: 28 piedi di lunghezza per 16 di larghezza, pari
cioè a 10 metri per 5,70 attuali.14 Dimensioni rimaste pressoché invariate fino
all’alba al 1912. Dalla visita vescovile compiuta nel giugno 1747 dal vescovo
padovano, il cardinale Carlo Rezzonico, futuro papa Clemente XIII (17581769), ricaviamo alcuni dati sulla popolazione: 485 anime di cui 324 adulti e
161 minori.15
Dopo la soppressione del monastero di Praglia decretata nel 1806, per tutto
la chie sa di sa n g iova n n i batt ista di c arbonar a
205
il secolo XIX l’amministrazione materiale della chiesa venne curata dal Regio Erario, cioè
dallo Stato, prima austriaco e poi italiano. Nel
1827-28 su progetto dell’ingegnere ed architetto Valeriani, fu realizzato il nuovo cimitero,
abbandonando definitivamente l’area delle sepolture adiacente alla chiesa, un’area ripetutamente ricordata nelle visite abbaziali.16
Dal 1806 al 1929 la chiesa di Carbonara fu
dunque proprietà dello Stato, in quanto confiscata al monastero di Praglia. All’alba del
Novecento s’iniziarono i lavori per la costruzione di un nuovo edificio sullo stesso luogo
del precedente. Il progetto, elaborato nel 1883
dall’ingegner Menegoni, inizialmente accantonato venne ripreso nel 1912 e con rapidità
incredibile già il 9 febbraio 1913 il parroco don
Giovanni Bernardini, con l’assenso del vescovo, fu posto nelle condizioni di benedire la
nuova chiesa, celebrarvi la Santa Messa cantata e svolgere la processione eucaristica.
Altri lavori e altri ambienti s’aggiunsero in
seguito: a ricordo dei caduti della Grande
Guerra fu costruita una cappella in onore di
Sant’Antonio, inaugurata il 9 ottobre 1921. Il
2 maggio 1931 il vescovo Elia Dalla Costa consacrò la chiesa mentre solo il 21 novembre 1943 prese avvio la costruzione
del nuovo campanile, benedetto dal vescovo Girolamo Bortignon il 3 agosto
1957.17
Note
1. Giannino Carraro, Monachesimo e cura d’anime. Parrocchie ed altre chiese dipendenti del
monastero di S. Maria Assunta di Praglia in diocesi di Padova (sec. XII-XVIII). Con edizione delle visite abbaziali, Padova (Istituto per la storia ecclesiastica padovana – Fonti e ricerche
di storia ecclesiastica padovana, XXXIV) 2010, p. 61.
2. Carraro, Monachesimo e cura d’anime, p. 61-62.
3. Il «Liber» di S. Agata di Padova (1304), a cura di Giannino Carraro, con Nota di diplomatica di Gian Giacomo Fissore, Padova (ed. Antenore – Giunta Regionale del Veneto –
Fonti per la Storia della Terraferma Veneta, 11) 1997, p. 136.
4. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Venetiae-Histria, Dalmatia, a cura di Pietro
Sella e Giuseppe Vale, Città del Vaticano (Studi e testi, 96) 1941, p. 113, num. 1335 e p.
187 n. 2186.
5. Andrea Gloria, Il territorio padovano illustrato, Padova (Tip. Prosperini) 1862, (ristampa
anastatica, Atesa editrice, Bologna 1984), vol. II, p. 79.
6. Pierantonio Gios, L’attività pastorale del vescovo Pietro Barozzi a Padova (1487-1507), Padova (Istituto per la storia ecclesiastica padovana) 1977, p. 125 n. 20.
7. Callisto Carpanese, Cenni storici. Dal 1448 al 1980, in L’abbazia di Santa Maria di Praglia,
La cuspide
del campanile in
costruzione.
L’opera verrà
inaugurata dal
vescovo di Padova
il 3 agosto 1957.
206
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
Nubi all’orizzonte:
una veduta
del panorama
mattutino da
una collina di
Carbonara.
15.
16.
17.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
a cura di Callisto Carpanese e Francesco Trolese, Milano (Silvana Editoriale) 1985,
p. 17-19.
Antonio Rigon, La parrocchia di S. Giovanni Battista di Carbonara, in L’abbazia di Santa
Maria di Praglia, a cura di Callisto Carpanese e Francesco Trolese, Milano (Silvana
Editoriale) 1985, p. 71-73.
Vedi sopra alla nota 1.
Carla Frasson, Il monastero di Praglia nel secolo XVI. Conduzione agraria e bonifiche, tesi
di laurea, Università di Padova, Facoltà di Magistero, relatore prof. Aldo Stella, a.a.
1978-79, p. 128.
Carraro, Monachesimo e cura d’anime, p. 342-345.
Frasson, Il monastero di Praglia nel secolo XVI, p. 94-95.
Rigon, La parrocchia di S. Giovanni Battista di Carbonara, p. 71.
Andrea Cittadella, Descrittione di Padova e suo territorio con l’inventario ecclesiastico brevemente fatta l’anno salutifero M.D.C.V, edizione a cura di Guido Beltrame, Conselve
(Veneta Editrice) 1993, p. 118.
Rigon, La parrocchia di S. Giovanni Battista di Carbonara, p. 72.
Il dato è desunto da una copia del verbale redatto nel 1828, che riporta in copertina i
dati progettuali, tratto dall’Archivio comunale di Rovolon ma di cui ignoro la collocazione.
[Ireneo Daniele], La diocesi di Padova nel 1972, Padova (Tip. Antoniana) 1973, p. 165.
Nel territorio comunale di Rovolon sono presenti diversi
edifici di pregio costruiti nel corso dei secoli per l’iniziativa dei privati e per l’intraprendenza delle comunità
benedettine, in particolare delle due abbazie di Santa
Giustina di Padova e Santa Maria di Praglia, interessate a dare un’organizzazione adeguata e funzionale alle
esigenze produttive delle vaste tenute agricole detenute
nella nostra zona. I casi più noti sono villa Ottavia, in
via Torre n. 18, e la “corti benedettine” di Spirano e Vegrolongo. L’Istituto regionale per le ville venete ha
censito a Rovolon una decina di fabbricati meritevoli di
tutela e di attenzione: sono tutti classificati con la qualifica di “ville venete” e ognuno di questi è contraddistinto con una sigla alfa-numerica. Nell’ordine essi sono:
PD436 – villa Barbaro, Marchesi, Pierantoni in via Ca’
Marchesa; PD437 – villa Da Rio, Rubini, Canal in via
Monte Sereo; PD438 – villa Da Rio, Soranzo, Schiavinato in via San Giorgio 9; PD439 – villa Lion, Fardigo,
Fasolo in via San Giorgio 51; PD440 – villa Lippomano,
Barbarigo, Martinengo, Montesi in via Monte Sereo 75;
PD442 – villa Ottavia in via Torre 18; PD443 – villa Papafava dei Carraresi in via Frassanelle; PD444 – casa
Papafava, Casiraghi detta “Il Palazzetto” in via Spinazzola 20; PD 445 – villa Tosi, Priuli, Fogazzaro, Faggion in via Lovolo 56. Palazzi e
fabbricati di notevole valore storico e architettonico che meritano attenzione e che
conferiscono prestigio al territorio in cui sorgono. Di questi complessi riproponiamo
qui il testo che accompagna la loro descrizione iconografica nel volume stampato su
iniziativa della Regione Veneto nel 2001. Un elenco integrato da altri tre fabbricati di
particolare pregio che non figurano nella lista dell’Istituto regionale. Iniziamo con la
villa più giovane, seppur nel nome dei proprietari conserva il legame più antico con il
territorio di Rovolon: villa Papafava a Frassanelle.
Villa Papafava alle Frassanelle
L’imponente complesso è formato da più corpi: la villa, le vicine cappelle, le
adiacenze rustiche, il tempietto jappelliano, una serie di fattorie, tutto inserito
in un ampio parco. La villa e le cappelle sorgono in cima alla collinetta ai cui
piedi si elevano le amplissime adiacenze, mentre gli altri edifici sopra elencati
sono integrati all’interno del parco romantico che li ha utilizzati spesso come
punti di fuga prospettici. La famiglia Papafava, che è presente in zona sin dal
Cinquecento* con parecchie proprietà terriere e costruzioni, edifica su alcune
preesistenze il suo palazzo: lo troviamo inserito già nella “Gran Carta del Pa-
La villa Papafava
a Frassanelle.
208
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
dovano” di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni
del 1780. Nelle forme attualmente visibili viene sistemato dal conte Alessandro Papafava
nel 1822, che ne è proprietario e architetto.
L’edificio ha pianta quadrata e si sviluppa
su tre piani; agli angoli quattro simmetriche
torrette, elevate sopra la quota del volume
centrale di un piano e coperte da un tetto a
piramide, completano la costruzione. Decisamente lineare, la villa ha le aperture dei fronti
simmetriche, impostate su una tripla luce nel
volume mediano e doppia nelle ali; porte e
finestre sono architravate, con semplice profilo: solo quelle del primo piano presentano un
decoro aggettante sopra l’architrave. Tutto il
pian terreno ha l’intonaco reso a conci di bugnato liscio che termina su una modanatura
marcapiano aggettante ripetuta anche alle
quote soprastanti.
L’immobile poggia su un terrazzamento lastricato, circondato da un basso muretto, sul
lato ovest vi prospetta anche la cappella: citata nelle visite vescovili del 1680
e 1696 era dedicata a Santa Marina e viene menzionata sino al 1822; l’altra
chiesetta, ad essa simmetrica, è stata costruita solo per motivi decorativi. Alla
base del colle vi sono gli annessi e le scuderie.
Il tempietto di Giuseppe Jappelli è in pieno stile neoclassico, impostato su
un solo piano; ha la pianta rettangolare e copertura a capanna che forma il
timpano triangolare in facciata. Al centro due colonne con capitello ionico
formano il loggiato, mentre i lati, decorati a conci lisci, sono aperti in una
monofora architravata priva di cornice.
All’interno, tripartito, è ora inserita un’abitazione.
Sempre allo Jappelli si deve la sistemazione del parco, con lo scavo del laghetto e la costruzione della grotta artificiale, oltre al disegno dei percorsi ed alla
piantumazione di nuove essenze arboree.
Alla base della collina sorgono gli annessi, un lungo corpo porticato, occupato dalle scuderie cui fa seguito una corte chiusa, con edifici variamente
adibiti, principalmente elevati di due piani con ampie soffitte a volume unico
coperte da splendide capriate lignee. In una parte della campagna di pertinenza sul versante opposto è stato inserito un campo da golf, con tutti i
servizi necessari.
Uno dei due oratori
del cortile
di Villa Papafava.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete - Marsilio) 2001, p. 450, PD443]
* In realtà negli Estimi di Padova la presenza dei Papafava nella zona è attestata sin dal primo Quattrocento [ndc].
Villa Tosi, Priuli, Fogazzaro,
Faggion a Lovolo
La recinzione ovest del complesso, formato da più corpi: la villa padronale,
l’oratorio, le adiacenze rustiche e la torre colombara, segna il confine tra la
provincia di Padova e quella di Vicenza. I dati d’archivio attestano qui una
proprietà Priuli sin dal 1661, quando, in una Condizion aggiunta, Cornelia
Corner relitta (vedova) di Zuanne Priuli per i figli Alvise e Marco, dichiara
in Vegrolongo sive Carbonara una «casa dominicale con cortivo, orto e brolo
di campi 5», oltre a beni in altre località. Nel 1740 Ludovico Priuli dichiara in
Lovolo: «casa dominicale con chiesa, barchesse, stalle, tezze, orto e brolo»,
elencando il complesso praticamente così come appare ancor oggi.
La datazione della costruzione è stata posta da alcuni studiosi tra il 1625 ed il
1635, con una attribuzione progettuale a Baldassare Longhena dovuta principalmente all’impostazione planimetrica della villa stessa: mancano a tutt’oggi documenti d’archivio che possano avvallare tale ipotesi.1
Alla villa, preceduta dall’ampio giardino cintato si accede attraverso un portale in ferro su pilastri; recentemente restaurata ha pianta rettangolare, elevata di due piani più le soffitte, mostra una sopraelevazione timpanata centrale
in entrambi i fronti.
Il prospetto principale è esposto a sud, impostato su un’area centrale, con
Il prospetto
centrale di villa
Priuli, Fogazzaro
a Lovolo agli inizi
del Novecento,
ripreso in una
cartolina spedita da
Matilde Fogazzaro
nel dicembre 1913.
210
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
notevole apparato decorativo, corrispondente all’androne passante ed ali più semplici che
terminano in spigoli marcati da una serie di
conci rustici sovrapposti da terra fino alla cornice di gronda: quest’ultima, potentemente
modanata, aggetta di molto rispetto al filo
della facciata.
Le ali hanno finestre rettangolari, con le soglie
e gli architravi collegati da fasce marcapiano
lisce; sono prive di decoro agli stipiti. Il sottotetto presenta piccole finestrine rettangolari,
assiali alle aperture sottostanti, e ugualmente
decorate.
La partizione mediana ha il portale d’ingresso archivoltato con cornice a bugnato e, ai lati
della lunetta, un finestrino quadrato secondo uno schema che ricorda la serliana. I piani soprastanti sono aperti in loggiati: il piano
nobile ha un triplo fornice a pieno sesto, con
piedritti a bugne e poderose agrafi in chiave,
aperto su un terrazzo in pietra a colonne poggiato su mensoloni; la sopraelevazione delle
soffitte sostituisce i pilastri a bugne con paraste lisce ed il terrazzo con balaustra, e trasforma in architravate le tre aperture; sopra i
capitelli vi è l’architrave ed il timpano triangolare. Quest’ultimo ha segmenti poderosamente modanati e reca uno stemma nobiliare al
centro.
Il prospetto posteriore è caratterizzato dall’aggetto del volume nel quale è inserito lo scalone monumentale, a doppia rampa con spigoli
decorati da conci sovrapposti. All’interno tre
arcate immettono alle due rampe ed al corridoio voltato, mediano, che porta al portoncino archivoltato, con cornici a bugne; due
finestre quadrate lo affiancano mentre triple
aperture stanno ai piani soprastanti, piccole al
sottotetto; un timpano triangolare, con cornici a dentelli, definisce il volume. Ai lati semplici finestre architravate, alcune tamponate,
completano il prospetto
Inserita allo spigolo nord-est del fabbricato
vi è l’adiacenza che, oltre un vano porticato
e due stanze, ancora parte dell’abitazione, si
allunga verso est con corpi di fabbrica a funzione abitativa e porticati ad uso agricolo, vol-
vi l la tosi, p riul i, fo ga zzaro, faggion a lovolo
211
tando poi, con un altro lungo fabbricato,
verso sud.
Ai limiti esterni, a sud-est del giardino,
sorge l’oratorio dedicato alla Immacolata
Concezione, costruito nella prima metà
del Settecento e citato nelle visite pastorali
del 1777; mostra all’interno un bell’altare
marmoreo.
Gli interni della villa mantengono i pavimenti in terrazzo veneziano originali
anche nelle soffitte, e dato inusuale e certamente pregevole, si conserva anche un
camino originale in pietra nella stanza a
nord-ovest del pian terreno.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura
di Nicoletta Zucchello; responsabilità scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti, Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio
Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le ville venete – Marsilio) 2001, p. 452, PD445]
Nota del curatore
1. Dai registri catastali si rileva che nel 1840 titolare della villa era Giuseppe Fogazzaro del
fu Mariano. Oltre al palazzo padronale a Rovolon deteneva una superficie complessiva
di ben 4.362,84 pertiche metriche, pari a 4.362.840 mq. di terra, cioè oltre 436 ettari
attuali, per una rendita di 12.272,69 lire austriache. Nel 1846 Giuseppe acquisì altri immobili fino a raggiungere la superficie di 5.054,97 pertiche metriche, per una rendita
di 13.361,13 lire austriache. Nello stesso 1846 si aprì la successione per la morte del
proprietario: a subentrare nella proprietà furono i figli Francesco, il sacerdote Mariano,
Angelo, Caterina e Teresa. L’anno seguente morì anche Francesco così che il 10 marzo
1853 buona parte dei beni situati a Rovolon pervennero alla figlia Matilde Fogazzaro:
la superficie si era nel frattempo ridotta a 4.620,67 pertiche metriche, per una rendita
di 13.560,54 lire austriache. Una superficie destinata comunque ad aumentare, visto
che nel 1894 l’estensione della proprietà di Matilde era di 5.123,56 pertiche metriche
per una rendita di 14.909,13 lire austriache. Maritata con il cav. Dott. Alvise Biego del
fu Antonio, Matilde era solita soggiornare a Lovolo, in considerazione anche dell’area
esclusiva che circondava il palazzo padronale capace di estendersi per ben 9.700 metri
quadrati (Archivio di Stato di Padova, Censo stabile, Rovolon, vol. 313, partite 237, 248).
Tre istantanee dal
complesso di Villa
Tosi a Lovolo.
212
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Due immagini di Villa Papafava.
Villa Barbaro, Marchesi, Pierantoni
Il complesso della villa è stato ampiamente rimaneggiato e restaurato
dopo l’acquisto da parte degli attuali
proprietari. Dalla documentazione
disponibile si evince che il complesso,
che ha impianto databile al XVIII secolo, era di proprietà della contessina
Matilde Barbaro ed era formato da
un corpo padronale, pur di modeste
dimensioni, barchesse ed annessi rustici vari oltre ad una chiesetta, posta
discosta dai restanti edifici ed un parco
piantumato da circa 200 secolari querce, ora scomparso.
La chiesetta è l’edificio che ha subito
minori manomissioni: si presenta con
quattro lesene in facciata, disposte simmetricamente, che sorreggono il timpano triangolare decorato da uno stemma centrale in marmo, il portale di ingresso è architravato, con cornice, e sormontato da una finestra termale semicircolare. Alcune superfetazioni postume, costruite sul lato oltre la stanzetta
dell’originaria sacrestia, ne hanno sconvolto l’impianto molto regolare.
La barchessa ha ampie arcate a pieno sesto su pilastri a pian terreno mentre
piccole finestrine quadrate illuminano il soprastante granaio.
La villa, rimaneggiata, mantiene l’impostazione planivolumetrica alla veneta, con vano centrale e stanze ai lati*.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete – Marsilio) 2001, p. 445, PD436]
* Nella carta militre austriaca di Anton Von Zach del 1798 il complesso è indicato con la
legenda “Case Papafava” [ndc]
Ca’ Marchesa
a Bastia in una
cartolina spedita
nel settembre 1907.
Villa Da Rio, Rubini, Canal
Questo complesso, citato da Alessandro Baldan1 come di proprietà della famiglia Da Rio nel 1543, è parte dell’edificato agricolo sviluppatosi in seguito
alla fondazione benedettina quattrocentesca della “Corte di Vegrolongo”. La
costruzione si sviluppa secondo due assi ben distinti: l’orizzontale delle barchesse e degli accessori ed il verticale della colombara.
La barchessa si presenta con una simmetria di facciata molto accentuata: si
notano le due grandi aperture a sesto ribassato, che indicano i passaggi carrabili che attraversano l’intero edificio, e la porta d’ingresso centrale centinata con tre finestrelle rettangolari ai lati, disposte simmetricamente. Il piano
superiore è caratterizzato da tre aperture centinate, poste al centro della costruzione. Sopra la cornice modanata di gronda la copertura è a due falde a
capanna.
Un annesso rustico di dimensioni minori, ma con le stesse caratteristiche
forometriche della barchessa, finestre centinate ed entrata archivoltata, sembra quasi annunciare la verticalità della colombara. Questa si presenta come
una costruzione massiccia su pianta quadrata, con un’elevazione di cinque
piani fuori terra. Fasce marcapiano ed archetti pensili sottolineano i piani alti
che si collocano al di sopra dell’altezza del corpo padronale della villa. Sul
prospetto principale della colombara le finestre esistenti sono disposte ai lati
della costruzione.
La villa padronale si presenta come una costruzione molto compatta, elevata
di due piani più le soffitte e costruita in aderenza alla torre, priva di decoro a
sottolinearne il suo valore agricolo. Altre costruzioni più tarde completano
il complesso.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete – Marsilio) 2001, p. 445, PD437]
Note
1. Alessandro Baldan, Ville venete in territorio Padovano e nella Serenissima repubblica. Documentazione – iconografia – testimonianze, Abano (Aldo Francisci Editore) 1986, p. 433434.
Nella pagina
a fronte la
Colombara
di villa Da Rio.
Villa Da Rio, Soranzo, Schiavinato
L’immobile è citato per la prima volta in un documento del 1532 di Galeazzo
da Rio come «casa di muro per uso». Alessandro Baldan riporta una polizza
di poco successiva, 1543, in cui Ludovico da Rio dichiara in contrà Bastia over
Saltixello: «campi 6 di broli, orti, cortivo per mio uso e dei lavoratori con abitazion sopra di muro, colombara, chiesura e teza con pegorile per uso lavoranti». L’immobile, poggiato ad un terrazzamento lungo il declivio collinare,
ha l’ampio brolo cintato da un muro verso monte, mentre verso valle, oltre il
salto del terrazzamento suddetto, si apre la campagna di pertinenza.
L’edificio, le cui adiacenze addossate ad est sono state restaurate e parzialmente trasformate, si presenta con il fianco libero con la base contraffortata,
simile ad un fortilizio, e con aperture varie, ed a vario livello, protette da
inferriate in ferro battuto. Come cita la relazione allegata al decreto di vincolo ai sensi della legge n. 1089 del 1939, la villa presenta «una distribuzione
interna molto particolare, fatto che la rende piuttosto anomala rispetto alla
classica pianta di villa veneta»: osservando i prospetti infatti si notano luci poste in maniera disordinata a causa dell’alternarsi, negli interni, di stanze alte e
di mezzanini. Spicca comunque, nel fronte verso la valle, una trifora centrale
architravata, con luce mediana resa da una portafinestra e finestre ai fianchi,
contornata da una cornice modanata in pietra di Nanto. Le altre aperture
sono regolarmente piccole nelle soffitte e più ampie nel piano nobile: qui
hanno la cornice in pietra con la soglia leggermente sporgente e l’architrave
modanata assoggettante.
L’ingresso, verso il giardino, ha portale architravato con cornice in pietra decorata. L’immobile è coronato da una cornice di gronda a dentelli in laterizio
intonacati, sotto il cornicione.
Negli interni si mantengono le travature lignee alla sansovina, parte ancora
con decori originali. Al piano terra si conserva un camino in pietra ed un
portale, sempre con cornice modanata in materiale lapideo. La scala è ad una
sola rampa, in pietra, e porta ai vani soprastanti; tra essi particolare è una
stanza voltata a botte ribassata, mentre un’altra mantiene un camino con
mensole in pietra lavorata sulla cui cappa è dipinto un cavallo impennato con
cavaliere. Tale decorazione è stata raffrontata con il riquadro raffigurante
“Antenore Vincitore” di Gualtiero Padovano, attivo tra il 1520 e il 1535. La
decorazione delle pareti del salone passante è costituita da una fascia a grottesche in cui sono putti, alcuni inseriti in finti oculi ovali; sotto tale fregio,
finte architetture con colonne sormontate da piccoli capitelli a formare un
pergolato in prospettiva con viti e putti che spiccano gli acini; sullo sfondo
si vede un paesaggio con edifici, alberi, uccelli; un sovrapporta presenta una
Nella pagina
a fronte villa
Da Rio vista
da via San Giorgio.
218
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
figura di donna seduta. Un’altra stanza ha un fregio sotto il soffitto con paesaggi e grottesche. Le varie decorazioni sono state attribuite da Giuseppe
Fiocco all’ambito di Gualtiero Padovano, i putti invece alla mano di Domenico Campagnola.
Il prospetto
di villa Da Rio
su via San Giorgio.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete – Marsilio) 2001, p. 446, PD438]
Villa Lion, Fardigo, Fasolo
Malgrado la sua collocazione nell’abitato
di Rovolon la villa non ha perduto né la
propria leggibilità né le proprie caratteristiche di casa, certamente di villeggiatura, riusalente, secondo lo storico Gianni
Degan, al XVII secolo. La mancanza di
annessi rustici evidenti ed il carattere austero della facciata prospiciente la chiesa
del paese fanno di questa villa un singolare
manufatto di grande impatto, «un oggetto
concluso in sé».
La forometria presenta i classici cinque assi
in facciata con i contorni delle aperture in
conci bugnati in trachite. L’asse principale è determinato dall’entrata archivoltata,
anch’essa con bugne di trachite, la loggia
al primo piano sopra il salone centrale passante aperta su una balaustra in
pietra, le due finestre al secondo piano collocate in mezzeria e un piccolo
foro tondo al centro nonché la “piegatura” del profilo esterno della facciata.
Il tetto è a due falde ma non è reso evidente nella facciata principale. I due
oculi ellittici, ai lati al secondo piano, sottolineano le aperture architravate
sottostanti. Il fronte volto ad ovest si apre su di un piccolo cortile e dà accesso
al ristorante, inserito nel fabbricato*.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete – Marsilio) 2001, p. 447, PD439]
* Nel 1787 la proprietà dell’area è indicata dal perito Antonio Turcato tra i beni della famiglia padovana Dottori (ASPd, Notarile 6726, c. 157r) [ndc]
Villa Lippomano, Barbarigo,
Martinengo, Montesi
I dati d’archivio partono da una Condition del 1661 per «metà di una casa
dominicale tenuta per mio uso», in Cereo, resa da Francesco Lippomano.
Nel 1689 la proprietà passa ad Antonio Barbarigo, dalla cui famiglia prima
dell’Ottocento viene venduta ai Michiel.
L’imponenza di questa villa colpisce per la sua originalità nell’ambito del panorama dei Colli Euganei e delle ville coeve. Data la presenza del pendio, i
due fronti differiscono di molto nel numero di piani: uno verso il monte e
tre verso valle, oltre alla sopraelevazione di un intero solaio nelle due torri
che abbracciano il volume centrale, secondo un modello spesso presente in
territorio vicentino nel Cinquecento.
Tutte le finestre presentano cornice ed hanno le soglie e gli architravi collegati da fasce marcapiano che sottolineano la partitura orizzontale del fabbricato. La forometria, simmetrica, presenta i classici sette assi che si evidenziano
222
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
di piano in piano in maniera diversa. Al piano terra l’asse principale è reso
evidente da un’unica apertura archivoltata centrale mentre le finestre, disposte simmetricamente ai lati, sono quadrate e in numero di tre per lato, equidistanti fra di loro. Il primo piano ha le finestre aumentate di numero, sono
ben nove e diventate rettangolari con aumento dell’altezza; le tre centrali si
raggruppano attorno all’asse principale. Al secondo piano oltre all’aggiunta di oculi, al di sopra delle finestre architravate poste nei lati, si assiste alla
trasformazione delle tre aperture centrali in una trifora archivoltata resa da
portefinestre aperte su di un terrazzo in pietra.
Le due torri laterali superano di un piano l’altezza del volume mediano sottolineando, con gli alti camini, l’impulso verticalizzante già enfatizzato dalla
gradinata che collega il terreno al basamento della costruzione.
Il fronte opposto, ad un solo piano al centro e con ali a due livelli, si apre in
un loggiato a tre fornici architravati su colonne cui si sovrappone, sopra la
modanatura dell’architrave, una sopraelevazione culminante in un timpano
aperta in una monofora archivoltata e raccordata da volute al tetto. Anche
in questa facciata, aperta in oculi ai lati del loggiato e sopra le finestre architravate, cornici, fasce marcapiano e conci, in corrispondenza dei tre distinti
volumi, segnano la muratura.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete – Marsilio) 2001, p. 447-8, PD440]
Villa Montesi vista
da via Roma.
Villa Ottavia
Le notizie della villa risalgono alla metà del Quattrocento, 1441 per l’esattezza, quando i monaci benedettini di Santa Giustina di Padova acquistano il
terreno, e le fabbriche in esso presenti, da Giovani Parasini per farne la sede
amministrativa della “Corte di Vegrolongo”, sita in pianura. Passata in mano
ai Pasetti durante l’Ottocento, l’immobile è poi acquistato dalla famiglia Negro attorno al 1970; attualmente è proprietà della signora De Fabi Pezzani
Lucilla.
Accanto alla villa signorile sorge una barchessa, mentre una colombara ed
un annesso rustico completano gli edifici inseriti nell’ampio parco. La villa
padronale, i cui caratteri stilistici si ascrivono alla metà del Cinquecento, si
eleva, a pianta rettangolare, per due piani più le soffitte su un’area cantinata.
I fronti simmetrici sono scanditi da cinque assi di aperture, variamente rese.
Verso il giardino l’accesso è attraverso un portale architravato, con cornice a
listelli, posto al termine di una scalinata; gli si affiancano due finestre e, a seguire, altre due monofore illuminano le stanze ai lati dell’androne passante.
Al piano superiore il centro del prospetto è marcato da una trifora archivoltata, con lunette cieche, incorniciata da listelli scanalati e con ghiere a doppia
modanatura in pietra tenera. Due monofore simili stanno ai lati, in asse con
Villa Ottavia
in una cartolina
stampata alla fine
del secolo XIX.
224
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
le luci sottostanti; il sottotetto è illuminato da cinque finestrine quadrate.
Sopra tali aperture vi è una fascia dipinta a spicchi, simile ad una serie di archetti ciechi e, oltre, si incontra lo sbalzo della travatura di sostegno del tetto.
Il fronte opposto a nord, pur simmetrico, sostituisce le monofore voltate del
piano nobile con simili finestre architravate e trasforma in centinate le aperture delle soffitte. Ad est è addossato il corpo con il loggiato.
Ad ovest, sopra un pian terreno aperto al centro in un portale architravato
con finestre ai lati ed un mezzanino, si incontrano cinque fornici a pieno
sesto, poggiati su colonnine con capitello vagamente corinzio; ai lati è aperta una singola luce su muratura piena. Il soffitto del loggiato è a travatura
lignea.
Di fianco alla villa si eleva la barchessa, un edificio più simile ad un chiostro
monastico che ad un corpo rustico, con arcate a pieno sesto poggianti su
colonne rastremate e voltata a crociera su peducci.
Il fianco opposto alla villa ha un fornice a pieno sesto sormontato da un oculo circolare.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete - Marsilio) 2001, p. 448-9, PD442]
Il cortile
e la torretta
di villa Ottavia.
Casa Papafava, Casiraghi detta “Il Palazzetto”
L’edificio in oggetto era parte delle proprietà della famiglia Papafava dalla costruzione, attorno alla metà
Settecento, sino al secondo decennio del Novecento.
Passato da allora attraverso più mani è stato recentemente acquistato, e restaurato, da Alberto Casiraghi
che vi risiede.
“Il Palazzetto” è un edificio molto semplice, impostato su base rettangolare ed elevato di due piani più le
soffitte su un seminterrato visibile, data la pendenza del terreno, sul fronte
esposto a nord, secondario, mentre il prospetto principale guarda a sud; per
la sua costruzione sono stati evidentemente utilizzati i materiali disponibili,
al tempo, in loco e ripristinati, per quanto possibile, durante il restauro.
Il fronte principale si presenta scandito da cinque assi di aperture, simmetricamente reso rispetto al centro, impegnato a pian terreno dal portale di ingresso, architravato, al quale sono affiancate due aperture in corrispondenza
delle due stanze laterali. Il piano superiore ripete le luci architravate mentre
il sottotetto ha tre soli piccoli finestrini e due finti fori per mantenere la simmetria del prospetto. Il retro essendo esposto a nord è stato impostato con un
numero inferiore di aperture, ridotte a tre per piano.
In origine le scale erano due, ora ne resta una sola, quella centrale, in pietra;
al primo piano l’una smontava in un camerino e la seconda partiva da un
secondo piccolo vano affiancato e saliva alle soffitte.
Al pian terreno le due stanze presentano originali camini in pietra in stile
Luigi XVI, che confermano l’ipotesi di datazione dell’immobile al Settecento. Il vano delle soffitte è a volume unico, con tetto a capriate in legno; il
seminterrato è aperto verso tre lati, il quarto, a sud, è addossato al pendio:
originariamente era adibito a cucina e a magazzino.
Il tetto è a quattro falde collegate nel colmo.
Un fienile, presente nel terreno di pertinenza, è stato riattato ed adibito a
deposito.
[Tratto da: Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di Nicoletta Zucchello; responsabilità
scientifica Sergio Pratali Maffei, Pierluigi Fantelli; saggi introduttivi Guglielmo Monti,
Giuseppe Gullino, coordinamento Maurizio Gasparin, Venezia (Istituto regionale per le
ville venete - Marsilio) 2001, p. 451-2, PD444]
226
Due signore
di casa Manfredini
all’inizio del
Novecento.
Ritratto di famiglia
in casa Manfredini,
all’alba del
secolo scorso.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Villa Manfredini
Villa Manfredini si trova in via Loredan ed è identificata alla partita catastale
n. 1000317, mappale 6 del foglio 8 del catasto del comune di Rovolon. L’accesso padronale è in via Roma al n. 53 e il secondario, oramai in disuso, in via
Loredan n. 1.
È attualmente proprietà dei marchesi Manfredini discendenti da un’antica
famiglia nobile, propaggine dei Duchi Ravennati, le cui origini risalgono al
752.
Come si evince dallo studio dei catasti storici il manufatto faceva parte di una
vasta proprietà intestata alla nobile famiglia veneziana dei Loredan (o Loredani come si legge nel sommarione del catasto napoleonico del 1810)1 ed era
una “casa di villeggiatura”, nota come “Palazzo Loredani”, contornata da un
orto, un brolo, dei pascoli e degli aratori vitati e con un’adiacente “casa da
massaro” divenuta poi “casa colonica”.
Alla morte del nobile Girolamo Loredan, probabilmente nel 1844, l’intera
proprietà, dietro compromesso datato 24 aprile 1844 viene assegnata in eredità ai
tre fratelli Mario, Adelaide e Colomba. Il palazzo e la casa colonica vengono
quindi divisi in tre parti, subendo così una prima ristrutturazione.
I fratelli Mario e Adelaide Loredan nominavano l’ingegnere civile Piero Neri
di Padova,2 mentre Colomba Loredan nominava l’ingegnere civile Giuseppe Sacchi anch’esso di Padova, affinché compilassero l’asse della sostanza da
dividersi. Essi debbono di questa sostanza formare tre parti uguali. Inoltre per la
confezione dell’asse e pel conguaglio delle parti si abbia ad aver riguardo al valore attuale delli fondi, che nelle divisioni debbasi avitare e togliere tutte le possibili servitù
e promiscuità … con l’obbligo però che a ciascuna parte sia assegnata una porzione
delle fabbriche.
La perizia di stima così redatta, in data 26 ottobre 1844, riporta lo stato di
fatto dell’intera proprietà Loredan e per quanto riguarda il Palazzo dà una
descrizione dei vari ambienti con le loro caratteristiche principali.
Varie si susseguono negli anni le compravendite, fino a quando tra la fine
degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, le tre parti
di ricongiungono, acquistate nel tempo da Francesco Pedrotta fu Pietro, livellario dei Loredan, che a sua volta il 28 ottobre 1886 venderà l’intera proprietà alla nobile Teresa Tretti fu Giovanni Battista, maritata con il marchese
ingegnere commendatore Marco Manfredini.
Agli inizi del Novecento i nuovi proprietari interverranno con alcuni miglioramenti:
• alzando di poco la casa, aumentando l’altezza delle finestre in modo da
rendere vivibile il piano superiore.
In alto Marco
Manfredini, in
basso la moglie
Teresa Tretti.
228
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
• La parte della barchessa sul lato sinistro della casa dove vi era il portone
per l’accesso ai campi viene ridotta, spostando il cancello di passaggio fra
la corte e via Loredan incernierato da un lato sulla casa e dall’altro sulla
barchessa, più a sinistra, e costruendo in due fasi successive un piccolo
edificio, a ridosso della casa con le finestre a bifora al piano terra e rotonde
al piano superiore.
• Modificando l’ingresso dalla corte alla casa con una “bussola” di accesso e
tre scalini.
• Eliminando la porta, che dal salone dava in via Loredan e probabilmente
spostando il muro che divideva il fondo del “salone”, costruito per dividere in tre parti la proprietà del nobile Girolamo Loredan, creando una sala
da pranzo e dando una maggiore profondità alla sala d’ingresso.
• È probabile che in quel periodo la facciata della casa venga dipinta con
fasce orizzontali di vario colore, rendendo una migliore prospettiva all’insieme.
• Il giardino viene ridisegnato, seguendo lo schema italiano, con un’ellisse,
dove l’asse principale è in continuazione del lungo viale d’ingresso.
Negli anni 1920-25 verrà costruita la scuderia (presente nel catasto aggiornato nel 1929) all’ingresso del giardino, un edificio “merlato” con un gran
portone di legno, dove entravano i cavalli e le carrozze, il quale riporta le
finestre sotto merlatura rotonde, tipo quelle del piccolo edificio già citato a
lato della casa.
La corte dove venivano svolte le attività agricole, ora è stata ridotta in modo
consistente, nel 1973, in quanto la fabbrica di vasi crescendo di dimensioni
chiese, con il consenso dell’amministrazione comunale, ed ottenne, di aumentare la sua presenza sul territorio acquistando i campi a lato della casa:
la zona che un tempo era agricola è stata quindi trasformata in industriale,
eliminando la corte con i campi e riducendo quindi il valore storico della
zona.
Note del curatore
1. La famiglia veneziana dei Loredan era presente a Rovolon già nel 1648, come ricorda
un verbale della vicarìa di Teolo del 28 settembre 1648. Quel giorno nella sala del Consiglio venne accolta la supplica del nobile Marco Loredan intesa a scorporare le terre di
proprietà dal comune di Vegrolongo, entro cui ricadevano, in quello di Granza di Santa
Giustina; al termine del dibattito la richiesta fu accolta con quarantatre voti a favore e
tre contrari. Gli immobili di Marco Loredan in precedenza appartenevano alla nobil
donna veneziana Isabetta Falier (ASPd, Santa Giustina, vol. 116, c. 115).
2. Seppur poco noto, Pietro Neri, figlio di Giovanni, fu un abile professionista di Padova,
città in cui nacque nel 1793. Collaboratore, e forse discepolo, di Giuseppe Jappelli, fu
tecnico di fiducia della famiglia Papafava, da cui ricevette diversi incarichi, tra cui la
redazione della preziosa perizia sui mulini di Rovolon del 1834. Va ricordato per essere
stato il progettista della facciata neogotica di palazzo Romanin Jacur in piazza Antenore
a Padova (ASPd, Fogli di famiglia 1806-1816, n. 29, n. 3152/H).
vi l la m a n fre din i
229
Data 22/02/2005
Spett. IL GAZZETTINO,
ho letto a pagina VII de “ IL GAZZETTINO” di Martedì 22 febbraio “LE ALTRE
NOTIZIE” la morte dell’imprenditore Genero.
Vi ringrazio di aver ricordato che tale fabbrica artigianale sia stata condotta da
Vincenzo Manfredini, ma mi fa piacere metterVi al corrente della storia di tale attività, che tra l’altro è un pò la storia di un periodo di vita di Bastia di Rovolon.
Mio nonno, el Marchese, (n.16.08.1883 m.11.09.1968 nato a Padova in Via Galileo Galilei ex Vignale al civico n°17), così viene chiamato dalla gente, il Marchese
Manfredo Manfredini.
Dotato di una forte personalità e di instancabile capacità creativa.
La sua vita comincia presto, perché la sua mamma la Nobile Teresa Tretti muore
nel 1901, lasciandoli la proprietà di Bastia di Rovolon. Fu il 7° patentato di Padova, tanto che ebbe la medaglia d’oro dell’A.C.I. come pioniere delle guida.
Appassionato di meccanica, a Padova, impiantò in Riviera Albertino Mussato,
un’officina ed anche una falegnameria. Ma la sua passione era la campagna di
Bastia di Rovolon. Chiese alle autorità dell’epoca circa il 1920 che venisse portata in Bastia la stazione dei
Carabinieri, cosa poi avvenuta. Inoltre si faceva mandare i giornali dell’epoca, e una volta letti, li lasciava
al buon Carletto che provvedeva a portarli in paese
la sera creando così la cultura della lettura anche nei
paesani. È sempre per la sua passione di attività quasi
febbrile che nel 1925 fu al centro di quei progetti di
trasformazione della vita agricola in industriale, cominciò a progettare l’elettrificazione del comune di Bastia di Rovolon come Selvec (una ramificazione della
SADE Società Adriatica Di Elettricità) a portare i 10.000 Volt dalla Cabina dei
fratelli Marin attraverso il monte Sereo fino a 200 metri dal centro di Bastia e li
costruì la prima sottocabina, trasformando il 10.000V in 220-127 Volt. Passò poi
a prolungare le linee elettriche a Rovolon. Non fu facile far capire ai contadini di
allora i vantaggi che avrebbero avuto, tanto che alcuni si opponevano all’impianto dei pali nei loro campi, anche se si cercava sempre di impiantarli ai confini. Il
1929, fu un anno molto freddo con temperature molto al di sotto della media
e per il Marchese fu una “debacle”; ci fu la recessione industriale e le materie
prime aumentarono di molto il loro costo, il rame, (cioè i fili che utilizzava per
il trasporto della corrente elettrica) passò da 1 lira a 8-9 lire al Kg. Nel 1928 impianta tremila viti da uva nei campi dietro la casa di Bastia di Rovolon, circa 20
campi padovani, ma con il freddo del 1929 morirono tutte. Sempre nel 1929 per
aver scritto un articolo sulla Gazzetta del Veneto contro quota 90, criticando un
discorso fatto a Pesaro da un personaggio (forse Starace) del regime Fascista fu
incriminato come antifascista, e confinato a San Severino Lucano. L’albergo dove
alloggiava era in fondo al paese, composto di tre stanze al piano superiore, ed il
piano terra aveva una cucina con il pavimento di terra battuta, inoltre vi era un
maiale che entrava ed usciva a suo piacimento. Per fortuna tale confino non durò
230
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
a lungo, solo tre mesi. Successivamente andò a Salerno dove si fece ricevere dal
Prefetto di allora Prof. Ottavio Dinale, nativo di Badoere in provincia di Treviso. Successivamente tornò a casa in Bastia di Rovolon agli
arresti domiciliari per sei mesi. Continuò l’ampliamento
delle linee elettriche ad altri comuni. Fu la volta di Lovolo,
Albettone, poi Bosco di Nanto.
Tutto questo fu fatto con l’ausilio del bravo ed indimenticabile Carlo Pressato, detto Carletto, instancabile lavoratore di una onestà insuperabile. La storia racconta che Carlo
Pressato incontrò il Marchese all’età di 14-16 anni. Gli si
era forata una gomma della vettura e per cambiarla aveva chiesto a questo ragazzo, di sostituirla, cosa che il buon
Carlo fece rapidamente, tanto che il Marchese gli chiese se voleva lavorare con
lui. Mentre faceva questo, per allora, grande impresa di civiltà, non trascurava
la sua passione per l’agricoltura, fece i primi esperimenti sui cereali, in questo
caso, frumento. Erano le nuove produzioni di grano senza riste e con meno altezza e più precoci, cioè si maturavano circa un mese prima del tempo previsto
e con una quantità di prodotto superiore al grano prodotto precedentemente.
Partecipa alla cosiddetta “Battaglia del grano” voluta da Mussolini, tanto che in
quel periodo l’Italia riuscì a non importare più grano dall’estero. Alleva mucche
lattifere e galline ovaiole “Livornesi” coltiva la viticultura e partecipa a mostre a
Bresseo e a Padova di uve pregiate meritandosi una diecina di premi e di attestati ancora esistenti. Più tardi circa nel 1938 incominciò la produzione di vasi ed
attrezzi agricoli; quali l’erpice, lo sgranatoio, il torchio da uva, la diraspatrice, la
pigiatrice eseguita dal bravo Carletto. Infine si accorse che la terra dei campi era
un’ottima argilla per fare vasi da fiori, ed altri oggetti, e così impiantò la “ceramica”. Prima fece un forno poi un secondo detto “muffola” per poter cuocere i
vasi dipinti dalla figlia Teresa, nella zona oggi ancora chiamata “Officina Privata”
poi la trasferì nella corte della casa oggi in parte non più dei Manfredini, facendosi aiutare dal figlio. Quando il figlio Vincenzo (detto Enzo), tornò a casa dalla
prigionia, in quanto combattè con i Leoni di Giarabub in Africa nella seconda
guerra mondiale, fu fatto prigioniero e dopo l’onore delle armi, per la strenua
resistenza che opposero ai soldati Inglesi, fu deportato in India, gli affidò la ceramica che condusse per parecchi anni, passando dal lavoro del vasaio con il tornio
in legno costruito nell’officina di casa, a quello delle macchine automatiche. La
ceramica divenne poi una fabbrica artigianale con il nome di VIMA. (Vincenzo
Manfredini), poi venduta a causa di un enfisema polmonare causato dal periodo
di prigionia al Sig. Attilio Genero.
El Marchese fu amico del Conte Novello Papafava dei Carraresi e del giornalista direttore del giornale “La Libertà” (sotto il patrocinio de “Il Gazzettino”)
Giuseppe Della Torre, che successivamente sarà chiamato da Benedetto XV alla
direzione a Roma dell’Osservatore Romano.
Ringrazio dell’eventuale spazio concesso ed invio cordiali saluti.
Manfredo Manfredini (nipote)
Renzo Forestan
Il complesso rurale di via Loredan
Al turista che si aggira nei dintorni di Bastia alla ricerca di vecchie case rurali, via Loredan offre materiale
degno di destare in lui curiosità e interesse. In questa
via si trova infatti un agglomerato di case, alle quali
si giunge attraverso un viale, lungo 800 metri, fino a
non molti anni fa alberato da due file di gelsi e fiancheggiato da due fossati. Al termine di questo viale
rettilineo si giunge ad un grande cortile, di forma rettangolare, di circa 50
metri per 70, circondato per tre lati da edifici.
Fiancheggiano l’entrata al cortile due costruzioni quasi nuove, che contrastano nettamente con il resto del sobborgo che si presume abbia all’incirca
trecento anni.
Lungo il lato sinistro del cortile sorge una grande stalla, la cui facciata è formata da cinque arcate in cotto.
Attualmente l’edificio è suddiviso in tre diverse proprietà.
Di fronte all’apertura del cortile si trova un caseggiato lungo circa 70 metri,
suddiviso in due costruzioni, contrastanti nettamente per lo stile, infatti quella di sinistra era l’antica casa (ora disabitata e crollata) dei fittavoli, formata
da circa dieci locali.
Il piano terra, visto dal cortile, si presentava con un lungo porticato, a tre
campate orizzontali.
Nel sottoportico era situata l’antica stalla dei cavalli, una cantina, quella dei
fittavoli, e una scalinata in pietra che conduceva ai granai e che si può considerare particolarmente interessante, data l’età in cui si presume sia stata
costruita l’abitazione. Sotto detta scala si trovava un locale dove anni fa si
poteva ammirare un antico telaio per la tessitura della tela.
Adiacente a questo, sulla destra, oggi troviamo un edificio più alto, ancora in
buone condizioni, che è usato dagli attuali proprietari.
Si nota una lunga facciata costituita da sei arcate e un grande sottoportico
pavimentato con lastroni di trachite, dove cinque colonne, due tonde e tre
quadrate, sorreggono due granai, uno anteriore per il granoturco e uno posteriore per il frumento, lunghi circa 30 metri.
Sotto il primo arco si trova un locale, adibito a deposito per le macchine
agricole, ma che al tempo degli antichi proprietari costituiva la rimessa della
carrozza e del calesse.
Nella parte posteriore dell’edificio, a una profondità di circa 2 metri, si trova
una cantina, lunga quanto i granai, e ancor oggi parzialmente usata a questo
scopo.
La trebbiatura
effettuata nella
corte della casa
Manfredini.
232
Zappatura
della terra davanti
a villa Manfredini.
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Sul lato destro di questo caseggiato, sorge l’antica casa padronale, composta
da circa quindici locali, ora restaurata e abitata da due famiglie.
Il restauro rispecchia abbastanza fedelmente le linee architettoniche originali
della casa, sebbene sia evidente un certo contrasto.
Il lato destro del cortile è privo di edifici e attualmente c’è un grande vigneto,
che fino a trenta anni fa costituiva il così detto “brolo” o “broeto” dei padroni
(frutteto).
Sulla destra, nella parte anteriore, rimangono ancora dell’antico caseggiato la
chiesetta del 1777 e i resti della vecchia casa del fattore, ora adibita a pollaio.
L’ingresso in corte era delimitato da un grande cancello in ferro battuto, i cui cardini erano fissati ai pilastri col piombo. Su una lapide in pietra erano incise le
iniziali R.O. (Regensburger Ottavio) antico proprietario; inoltre sulla stessa lapide c’erano delle iscrizioni
che a ricordo di persone espressamente interpellate
non si è mai riusciti a decifrare. Perfino il vescovo di
Padova Carlo Agostini in visita pastorale alla chiesetta, incuriosito da tale lapide, non era riuscito a capire cosa fosse scritto.
Sulla sinistra esisteva l’antica fornace di mattoni, mantenuta in funzione per
circa centodiciannove anni e che terminò di funzionare allo scoppio della
prima guerra mondiale.
Da informazioni certe di persone ancora viventi sappiamo che questa fornace dava lavoro a circa trenta operai e che produceva circa 60.000 mattoni e 20.000 tegole ogni fornaciata. I mattoni e tegole erano siglati R.O (Regensburger Ottavio).
Il tempo di cottura per i mattoni era di otto giorni e in un anno si facevano
circa sei o sette fornaciate.
All’estrema sinistra esisteva la casa del cocchiere dei proprietari terrieri.
A destra del cancello esisteva il forno del pane costruito circa novanta anni fa
dai signori Perazzolo che avevano acquistato la proprietà dai Regensburger
nel 1920, un edificio adibito a deposito per attrezzi agricoli, quindi la chiesetta e la casa del fattore.
Esiste ancora un sotterraneo, attualmente completamente interrato e di cui
non siamo risusciti a sapere l’uso al quale effettivamente serviva. Questo sotterraneo parte dalla casa dei vecchi proprietari ed arriva, attraversando tutto
il lungo cortile, sotto la chiesetta.
Durante la seconda guerra mondiale sappiamo con certezza però, che qui
veniva nascosto il frumento per evitare eventuali requisizioni.
Sulla destra, dove si trovava l’antico giardino, ora sorgono disordinatamente
alberi. Nella corte si trovavano tre pozzi, ancora in funzione e una grande
vasca, a forma di parallelepipedo, ricavata da un unico blocco di pietra che
era l’antico abbeveratoio per il bestiame.
Claudio Grandis
Ca’ Costigliola
Il 30 ottobre 2010 l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero ha inaugurato il recupero architettonico di Ca’ Costigliola, un antico insediamento rurale che affonda le sue origini nel tardo Medioevo. Situato nel comune di Rovolon, al confine con i comuni di Teolo e Cervaerse Santa Croce, sorge su una
piccola altura che domina la valle attraversata dallo scolo Rialto. Dopo esser
stato, nel corso dei secoli XV-XVII, di proprietà della nobile famiglia veneziana dei Boldù, il complesso rurale pervenne alla famiglia padovana Zambelli,
in seguito divenuta Folco-Zambelli per il matrimonio dell’ultima discendente, Matilde, con il nobile vicentino Lodovico Folco. La famiglia mantenne
la proprietà dell’immobile per lungo tempo e trasformò radicalmente i due
iniziali fabbricati nel complesso che oggi possiamo osservare. Agli inizi del
Novecento, Ottavio, erede di questa famiglia, suddivise la grande campagna
circostante e nel 1926 cedette l’intera azienda agricola al fattore Girolamo
Trova, il quale, a sua volta, la rivendette ai nobili da Camposampiero. Questi
ne conservarono il possesso fino al 1971, anno in cui Antonietta legò il bene
alla chiesa parrocchiale di Villa del Conte. Con la riforma del Concordato tra
lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica, nel 1992 lo splendido complesso agricolo è passato all’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero che ne
ha curato e sostenuto l’intero recupero. La presenza della famiglia Zambelli
fu rilevante per l’intero territorio ad ovest di Padova tra XVI e XX secolo. Le
pagine che seguono ne ricostruiscono un breve profilo.
La famiglia Zambelli tra Padova e Venezia
Tra i più famosi musei di Venezia spicca la raccolta statale allestita nelle Gallerie dell’Accademia. Chi vi entra, dopo aver visitato le diverse sale piene di
capolavori mozzafiato, si ritrova in un ambiente molto ampio ricavato nella
parte elevata di un’abside e della relativa navata antistante; poco oltre la sala,
discesi alcuni gradini, s’imbocca l’uscita dell’incomparabile quadreria. Soffermandoci sull’ambiente molto ampio solo l’occhio esperto coglie la singolarità della volta, seppur in alcuni casi agevolato dalla lettura delle guide più
scrupolose, come quella di Giulio Lorenzetti che a tal proposito scrive: «La
chiesa di S. Maria della Carità, soppressa nel 1807, è l’edificio che, sebbene
dimezzato nell’interno dall’architetto Giovan Antonio Selva per essere destinato superiormente a Galleria, e al basso ad aule dell’Accademia di Belle Arti,
conserva più che gli altri, all’esterno, il primitivo suo insieme costruttivo». La
descrizione dello studioso veneziano non s’arresta tuttavia a questo stringato
234
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
giudizio, in quanto prosegue con un’ulteriore aggiunta di notizie e di curiosità sull’Accademia di Belle Arti e sulla sua singolare Galleria.1
Il riferimento alla chiesa di S. Maria della Carità che qui abbiamo ripreso non
è affatto casuale in quanto ha un significato preciso nella vicenda prosopografica della famiglia Zambelli: in questa chiesa, infatti, il 29 aprile 1783 si
celebrò l’apoteosi di una fortuna, di una scalata sociale rincorsa quanto meno
per un paio di secoli. Quel giorno, in questa chiesa, s’unirono in matrimonio
Matteo Zambelli, figlio di Giovan Giacomo e di Caterina Maria Giovanelli,
e Lucchesa Maria Priuli, a sua volta figlia di Marcantonio I° e di Eugenia
Donà.2 Lucchesa era discendente diretta di una delle famiglie patrizie più
importanti della città lagunare. Tra i suoi antenati poteva vantare ben tre
dogi: Lorenzo (1556-1559), Girolamo (1559-1567) e Antonio (1618-1623), e
numerosi altri illustri personaggi che avevano occupato cariche importanti
nell’amministrazione dello Stato e della Chiesa. Senza dimenticare cronisti,
come il diarista Girolamo Priuli (1476-1547) – omonimo del doge – autore
dei Diarii che documentano la vita quotidiana di Venezia a cavallo tra la fine
del XV e i primi anni del XVI secolo,3 e musicisti come Giovanni Priuli (1575
ca – Vienna 1629), organista prima a S. Marco e poi alla corte di Ferdinando
II° d’Austria, considerato uno dei più apprezzabili esponenti dello stile concertato di scuola veneziana.
Matteo Zambelli coronava il sogno cullato dagli antenati sin dal 27 dicembre 1648, cioè da quando, versando 100.000 ducati d’oro, i fratelli Giovan
Giacomo (1602-1673) e Pietro Zambelli (1605-1653) avevano ottenuto dalla
Repubblica il titolo di Nobil Uomini (NN.HH) veneti.4 Un salto notevole, mal
condiviso dall’antica aristocrazia lagunare costretta suo malgrado ad aprire
le porte del patriziato pur di raccogliere denaro da destinare agli armamenti
militari, nel durissimo frangente della difesa di Candia dall’assalto degli ottomani. Quell’anno il governo offrì la possibilità a quanti erano disposti ad
Veduta
del complesso
di Ca’ Costigliola
dopo il restauro.
c a’ costig l io la
235
acquisire il titolo di patrizi: una proposta che trovò ben sessantasette nuove
famiglie pronte a versare quanto richiesto. Famiglie che nel corso degli ultimi
due secoli si erano arricchite sia in Terraferma sia nella capitale con commerci ed usura. L’ingresso di così tanti nuovi, ricchi e potenti clan costrinse la
vecchia oligarchia a rivedere ruoli e spazi, compiti e gradi. Da quel dicembre
1648 la nobiltà veneziana non fu più la stessa e le diverse famiglie ormai in
declino, o al tramonto di fortunate genealogie, non avrebbero avuto più occasioni per risorgere.
In quello scorcio di metà Seicento la famiglia Zambelli risiedeva a Padova
da quasi tre secoli per cui l’acquisto del titolo e dell’arma araldica impose
il trasferimento della dimora ufficiale a Venezia.5 A Padova risiedeva in una
casa situata al Vòlto della Malvasìa, nel cuore del quartiere Sant’Andrea, un
luogo che nel tempo ne dettò anche il soprannome (Zambelli “dal Volto”); la
tomba di famiglia era posta invece nella chiesa di San Francesco Vecchio.6 Nel
corso del XVIII secolo poi la residenza padovana si spostò nella contrada di
Santa Maria Iconia, nel popolare quartiere del Portello,7 luogo presso il quale si trovava anche la dimora Priuli stabilmente occupata per tutta la prima
metà del XIX secolo.8
A Venezia la nuova abitazione fu scelta nel sestier di Santa Croce, nella parrocchia di San Giacomo dall’Orio: qui un sotoportego e una corte recano ancora oggi il toponimo Zambelli.9 Nell’omonima chiesa di San Giacomo riposa
invece l’ultimo discendente maschile della famiglia: Pietro Zambelli, nato il
21 novembre 1786 (giorno della Madonna della Salute, da sempre veneratissima a Venezia) e morto l’undici agosto 1809. Un freddo marmo bianco,
che ricopre la tomba al centro della cappella absidale dell’Addolorata, 10 ne
riassume la breve vita nella seguente epigrafe:
petro. zambellio. / unico. matthaei. et. luchesiae. priuliae. filio. / patritio. veneto. iuveni. egregiae. indolis / ingenii. et. memoriae. praestantia. aeximio / latinis. tuscisque. litteris. apprime. edocto / gallico. et.
theutonico. idiomatibus. musicesque / studiis. exculto. pietate. in. deum.
in. parentes / praecipua. charitate. in. amicos. mira. benevolentiae /
praedito. morum. suavitate. et. integritate / singulis. exoptatissimo. in.
aetatis. flore / heu. inopino. funere. erepto. moestissimi / parentes. monumentum. p. p. / obiit. iii. idus. augusti. mdcccix. annos / natus. xxii.
menses. viii. dies. xx.
Pietro ebbe solo una sorella, Matilde, nata il 30 giugno 1800 e morta il 22
luglio 1855, che sposò il conte vicentino Lodovico Folco Leonardi portando
in dote l’intero patrimonio di famiglia: dal loro matrimonio nacquero quattro figli, cioè Francesco Pietro nel 1827, Pietro Giuseppe nel 1828, Matteo
Francesco l’anno seguente e Lucchesa nel 1830. Con il matrimonio il padre
della sposa dispose che gli stemmi delle due famiglie fossero uniti e che si
mantenesse l’antico cognome unendolo a quello dei Folco. In precedenza,
vale a dire il 1° marzo 1820, con sovrana risoluzione la famiglia Folco aveva
ottenuto la riconferma di nobiltà momentaneamente cancellata dalla rivoluzione napoleonica.11
236
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
Abbiamo detto della residenza padovana della famiglia Zambelli tra il Vòlto
della Malvasìa e la parrocchia di Santa Maria Iconia. Un antico manoscritto
custodito nell’Archivio di Stato di Venezia narra le origini più antiche del casato e indugia sull’origine bergamasca dei capostipiti. Il loro arrivo a Padova
si colloca al 1372, cioè negli anni della signoria di Francesco da Carrara il Vecchio (1350-1384), e la loro fortuna è fatta coincidere con il commercio di vini
– la malvasìa in particolare – nei pressi dell’omonimo Vòlto.12 Su di loro scrive
in proposito il padovano Giovanni Barbo nel 1585: «Quelli dal Volto vennero
di Bergamasca, et erano poveri et vennero a Padova et cominciarono con li
denari delli Rologi […] a far la mercanzia presso il Volto e delli Relogi et il
padre di messer Zuan Giacomo, che hora vive, et di Varisco e fratelli, ch’è
morto, portava dell’oglio in piazza a vender et era poverissimo, esso poi tolse
ad affitto una di quelle botteghe dalli Rologi, e cominciò a far mercantia con
li denari d’esci Relogi, talché sono diventati ricchissimi».13
Le carte d’archivio svelano, dietro la facciata di un incessante commercio, anche un traffico rilevante di prestiti in denaro, favorito da un’incredibile liquidità. Un’attività che consentì alla famiglia di tradurre le fortune finanziarie in
cospicui e sempre più numerosi immobili. Terre, case, palazzi, soprattutto
tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del successivo, andarono
ad allungare la lista del patrimonio familiare. Tra gli edifici di maggior spicco
figura il palazzo dominicale di Tencarola, affacciato al Bacchiglione e in prossimità del ponte, oggi adibito a scuola materna, proprietà delle suore dell’Istituto Madame Clair. L’edificio mostra due splendide serliane (porta centrale
arcuata contornata da finestre con sopraluce a foro quadrato e con l’architrave
allineato alla chiave di volta dell’arco della porta).14 Nell’estimo del 1615 sono
ben 477 le partite elencate, dove per partita s’intende ogni singolo bene immobile in grado di produrre reddito. Un patrimonio disseminato dentro e nei
sobborghi della città; nel quadrante occidentale gravitante attorno alle pendici euganee di Teolo; nella Saccisica che da Fossò scende ad Arzergrande, senza
dimenticare località come Monselice, Camposampiero, Limena e Conselve.15
Soffermandoci su alcuni esponenti della famiglia, un personaggio di spicco,
anche per la società padovana di allora, fu nella seconda metà del XVI secolo
Varisco Zambelli “dal Vòlto”, figlio di Lorenzo, intraprendente ‘banchiere’
capace di prestare denaro a privati e a pubbliche istituzioni. Il 29 marzo 1571
lo troviamo impegnato a concludere un importante accordo con l’Università
dell’Arte della Lana di Padova, impossibilitata a pagare la “tansa del galeotto”: per assolvere all’imposizione fiscale l’Università ricorse ad un prestito di
300 ducati, che Varisco concesse a fronte dell’istituzione di un livello di lunga
durata sul “purgo delle Garzerie”. Il contratto comportò la retrocessione del
purgo all’Università sotto forma di affitto (cioè il livello) a fronte di un canone livellario “de ducati 18 d’oro”, in pratica un interesse annuo sul prestito
del 6%. Quattro anni dopo Varisco si accordava con il nobile veneziano Alessandro Donato per permutare questo diritto in cambio di sette campi di terra
posti a Selvazzano; da un successivo atto del 13 agosto 1577 si apprende poi
che il fratello di Varisco, Giovan Giacomo, aveva accettato la dichiarazione
resa dal Donato di aver riscosso dagli Zambelli il livello di 18 ducati per l’anno
in cui il livello stesso era stato permutato.16
c a’ costig l io la
237
Prima del 1594 Varisco esce dalla scena economica padovana, sostituito dal figlio Lorenzo, definito in alcuni documenti Magnificus. Quest’ultimo nel 1604
appare nelle vesti di procuratore di Gaspare Dondi dall’Orologio, figlio del
defunto Galeazzo, e nel 1608 di un altro Dondi di nome Galeazzo, a sua volta
figlio del defunto Giovanni Antonio. I rapporti con i Dondi dall’Orologio,
come ricordano sopra le parole del Barbo, non furono comunque di sola
rappresentanza. Nel 1611 assieme ai fratelli, non nominati nel documento,
Lorenzo risulta creditore per parte della dote di Clotilde Strassoldo vedova di
Federico Dondi dall’Orologio,17 mentre in precedenza, esattamente nel 1588,
Lorenzo, assieme a Bernardin Verdabio, aveva indossato le vesti di gastaldo
dell’Università dell’Arte della Lana, una carica d’indubbio prestigio per la Padova del tempo.18
Un altro Varisco, figlio di Lorenzo, negli anni tra il 1607 e il 1622 rivestì la
carica di esattore generale della Cassa Fiscale del Territorio,19 mentre il fratello Giovan Giacomo, prima del 1581, fu tra i protettori dei frati cappuccini.
Assieme a Paolo Bevilacqua e Giovanni Longo, Giovan Giacomo concorse
nell’acquisto di un appezzamento di terreno alla porta di Santa Croce, contiguo al convento cappuccino istituito nel 1550, per poi donarlo ai frati al
fine di consentire loro la costruzione di «una bella chiesa in sito differente
dalla prima». La cessione del terreno permise nella circostanza anche l’ampliamento della struttura conventuale.20
Nei primi anni del XVII secolo si osserva una gestione familiare e consociativa del patrimonio, efficacemente sintetizzata da Andrea Cittadella nel 1605
che definisce gli Zambelli «principalissimi mercanti della città».21 La famiglia
del resto, come molte altre dello stesso rango, non mancò poi di stringere
affari e rapporti anche con il mondo ecclesiastico e con le istituzioni religiose
della città. All’origine vi sono prestiti, spesso ipotecanti immobili, altre volte
acquisti mascherati da prestiti giustificati dall’insolvenza altrui. Un esempio è
Le valli
di Costigliola
sommerse
dall’acqua esondata
dallo scolo Rialto.
238
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
dato da Varisco che il 27 maggio 1606 acquista all’asta, esperita dalla Camera
fiscale di Padova, il livello del debitore Paolo di Crassi, istituito sul mulino,
di proprietà della Sagrestia maggiore del Duomo di Padova, galleggiante nel
campo (specchio d’acqua) di Pontemolino.22 In un’altra circostanza, invece, la
famiglia procede all’acquisto di diritti su terreni posseduti dalle monache di
Sant’Anna di Padova situati in località Brentelle di Sotto.23 La fame insaziabile di terre naturalmente finì col generare anche numerosi contrasti con le
comunità religiose quali San Prosdocimo, San Pietro, S. Agata e Cecilia, e il
monastero di Praglia. Intrecci, vertenze legali che tuttavia non impedirono
alla famiglia Zambelli di ottenere dalla Chiesa cattedrale di Padova l’assegnazione della «decima e ragion di decimare nella villa di Tencarola et altri
luoghi circonvicini».24
Le vicende che si snodano lungo tutta l’età moderna meriterebbero uno spazio ben maggiore di questa breve nota. Il matrimonio celebrato il 29 aprile
1783 tra Matteo e Lucchesa Priuli costituì il sigillo più luminoso sulla famiglia Zambelli. La fortuna patrimoniale di Matteo è ben nota da tempo.
All’alba dell’Ottocento, nei comuni di Selvazzano e Teolo egli concentrava
qualcosa come 996 ettari di terreno agricolo interamente dato in affitto a
coloni.25 Per il solo comune di Selvazzano il sommarione napoleonico censì
una superficie fondiaria di oltre 175 ettari, pari a 454 campi alla misura padovana: un decimo dell’intero territorio comunale.26 Delle vicende familiari
che seguirono già abbiam detto. Qui dobbiamo solo ricordare che Matteo
Francesco Folco Zambelli Leonardi (un cognome, quest’ultimo, aggiunto
nel 1816) soggiornò a lungo a Tencarola e che, essendo uno dei maggiori
proprietari fondiari, nel 1866 ricoprì la carica di primo sindaco di Selvazzano
Dentro dopo l’Annessione del Veneto all’Italia unita. Dal suo matrimonio
con la nobil donna vicentina Gabriella Branzo Loschi, vennero alla luce ben
undici figli. Con la morte di Matteo, avvenuta a Selvazzano il 13 settembre
1897, gli eredi nel 1899 si divisero l’intero patrimonio stimato dai periti incaricati in lire 1.284.135,12 equivalenti oggi ad oltre cinque milioni di €uro.27 Tra
quei beni erano inclusi i cinque campi, tre quartieri e settantaquattro tavole
della «Montagnola, composti da terre prative in contrà della Costigliola con
casa rusticale, con caneva, stala e tezza».28
Note
1. Giulio Lorenzetti, Venezia e il suo estuario. Guida storico - artistica, Trieste (Lint) 199911
(1a ed. Venezia 1926), p. 650.
2. Archivio di Stato - Venezia (= ASVe), Avogaria di Comun, matrimoni con notizie dei figli, IX,
c. 318.
3. I Diarii di Girolamo Priuli, 5 voll. a cura di Antonio Segre e Roberto Cessi, «Rerum Italicarum scriptores», vol. XXIV (1912-41).
4. Camillo Freschot, La nobiltà veneta, o’ sia tutte le famiglie patrizie con le figure de suoi scudi
et arme, Venezia 17072, p. 438; Marco Barbaro - Angelo Maria Tasca, Arbori de’ patritii
veneti, in ASVe, Miscellanea codici, I - Storia Veneta, 17, t. VII, p. 297.
5. Freschot, La nobiltà veneta, così descrive l’arma della famiglia: «Porta d’azzurro con una
fascia vermiglia, il capo caricato d’un huomo nascente vestito di rosso, e che sostiene
nelle mani stese due gigli d’oro, e un terzo giglio d’argento in punta dello scudo».
c a’ costig l io la
239
6. Sandra Faccini, Lineamenti della scultura nella chiesa di S. Francesco Grande - Appendice
III, in Il complesso di San Francesco Grande in Padova. Storia e arte, Padova (Associazione
Culturale Francescana di Padova - Signum), 1983, p. 227.
7. È in questa casa che il 16 agosto 1788 muore Giacomo Zambelli, padre di Matteo, suocero di Lucchesa Priuli e nonno di Matilde. Brevi note biografiche sono in: Giuseppe
Gennari, Notizie giornaliere di quanto avvenne specialmente in Padova dall’anno 1739 all’anno 1800, introduzione, note ed apparati di Loredana Olivato, 2 voll., Cittadella (Rebellato editore) 1982-1984, p. 503-4.
8. Archivio di Stato - Padova (= ASPd), Atti comunali, b. 684, n. 676 (anno 1827).
9. Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane. Ovvero origini delle denominazioni stradali di Venezia,
Venezia (Filippi Editore) 2009 (1a ed. 1863), p. 748.
10. Antonio Niero, Chiesa di S. Giacomo dall’Orio. Venezia, Venezia (Tip. L. Salvagno) 19902,
p. 72.
11. Federico Schröder, Repertorio genealogico delle famiglie confermate nobili e dei titolati nobili esistenti nelle provincie venete, Venezia 1830-31, vol. I, p. 330-331; vol. II, p. 465.
12. ASVe, Miscellanea codici, I serie, n. 153 (già Miscellanea codici 929), “Catastico Zambelli”,
1372-1624.
13. Giovanni Barbo, Delle case nuove dei cittadini padovani dell’anno 1585, ms. della Biblioteca
Civica di Padova, B.P. 707 II, Araldica famiglie varie.
14. Claudio Grandis, Note per una storia della famiglia Zambelli, in Tencarola pagine di storia,
Padova 1996, p. 63-78. Silvia Gonella, Un esempio di architettura minore in Terraferma
veneta: Ca’ Folco-Zambelli a Tencarola (PD), tesi di laurea, Università degli Studi di Padova,
Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1999/2000, relatore prof. Ruggero Maschio.
15. ASPd, Estimo 1615, b. 75, c. 1-41.
16. Maria Borgherini, L’arte della lana in Padova durante il governo della Repubblica di Venezia.
1405-1797, Venezia (Deputazione di storia patria per le Venezie - Miscellanea di Studi e
Memorie, vol. X) 1964, p. 95.
17. Biblioteca Civica di Padova, Fondo Dondi dall’Orologio, tomo 9, n. 39; tomo 10, nn. 13,
26 e 47.
18. Borgherini, L’arte della lana, p. 148.
19. ASPd, Archivio Civico Antico, Cassa del territorio, b. 20, 21, 22 e 141.
20. Angelo Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623 (rist. anast. Sala Bolognese
1973), p. 467.
21. Andrea Cittadella, Descrittione di Padova e suo territorio con l’inventario ecclesiastico brevemente fatta l’anno salutifero MDCV, edizione a cura di Guido Beltrame, Conselve (Veneta editrice) 1993, p.124.
22. ASVe, Provveditori sopra beni inculti, b. 398, investitura ai fratelli Zambelli del 3 settembre
1737.
23. Grandis, Note per una storia, p. 74-76.
24. ASPd, Corporazioni religiose soppresse, monasteri della città, S. Prosdocimo, b. 23; b. 49, n.
237; S. Pietro, catastico vol. 2, c. 286, 712, 718; S. Agata e Cecilia, b. 42 n. 9; Notarile 4388,
c. 498-499.
25. Giovanna Trevisan, Proprietà e impresa nella campagna padovana all’inizio dell’Ottocento,
Venezia (Regione del Veneto - Giunta Regionale) 1980, p. 32, 53, 57; ASVe, Demanio
statistica, reg. 38, c. 112-116.
26. ASVe, Sommarione del catasto napoleonico, Selvazzano Dentro, n. 135.
27. Contratto divisionale rogato dal notaio Giovanni Da Ponte fu Girolamo, repertorio n.
413 del 26 settembre 1899. La morte di Matteo è così ricordata dal contadino dantista
di Selvazzano Giuseppe Toffanin detto Bepi Badèle: «Nel 13 settembre 1897 di mercordì
– sepolto il 15 settembre … - moriva il Conte Folco Matteo di Vicenza con tenuta in
Selvazzano di anni 74 lasciando molti millioni che ai quali era molto attacato, ma morì»
(Beniamino Bettio, Trecento anime disperse. Tessere di storia della comunità di Rubano, Parrocchia S. Maria Assunta in Rubano (Padova) 2007, p. 349).
28. Così è descritta la “possessione detta la Costigliola” in ASVe, Censo provvisorio. Notifiche
della provincia di Padova, b. 209, n. 15109.
Scuola Secondaria di primo grado di Rovolon
I capitelli della devozione popolare*
Abbiamo condotto una ricerca storico linguistica sul capitello e abbiamo scoperto che questa parola ha numerosi significati e non solo quello che comunemente si crede nella zona in cui viviamo.
Generalmente il capitello si identifica in un elemento architettonico strutturale di origine antichissima e universalmente diff uso, avente lo scopo di raccordare la struttura verticale (colonna, pilastro, parasta, anta) con la struttura
sovrastante (architrave, arco).
Nella sua forma più semplice e più diff usa consta di una lastra interposta tra
colonna, pilastro e travatura e trova esempi praticamente in tutte le tecnologie edilizie.
Nel Veneto i capitelli indicano tabernacoli e presentano caratteri omogenei.
Per quanto riguarda la documentazione scritta le ricerche sono state condotte direttamente per il territorio alla scoperta di tabernacoli, alberi, pali,
nicchie, che tuttavia stano scomparendo con gli ultimi rappresentanti di quel
mondo agrario antico che si muove con i capitelli. Il nome capitello ha un
nesso con il latino “caput” nel valore topografico della parola, cioè nel senso
di capo, estremità, incontro di vie.
Carbonara.
Un vecchio
capitello lungo
via San Giovanni
Battista.
Nella pagina a
fronte: il capitello
all’inizio di via
Ponte Valli a Bastia,
costruito con
alcuni elementi
architettonici della
vecchia chiesa
parrocchiale.
242
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
i c a p ite l l i de l la de vo zione popolare
243
Documenti, dall’alto Medioevo in poi, nominano con locuzione, “in capite”, tali
punti ai quali, di frequente, corrispondeva ed ancora corrisponde l’insediamento
di centri abitati, il convergere di confini, l’inizio di una via. Questo è confermato
dal fatto che i capitelli stavano e ancora stanno all’incrocio delle vie.
Occupano lo stesso sito che già era occupato dal “compitum” pagano (con
questo termine era indicato, nell’antichità, tanto il ricovero del sacro, che il
convergere delle vie), anche questo riferito al culto dei “lares compitales o
viales”, poteva essere cappella, edicola, altare.
Nella città di Padova se ne trovano relativamente pochi, ma nel nostro paese,
sono invece presenti un po’ ovunque.
Ad un primo momento l’immagine è quella di un edificio di piccola mole
dal tetto a punta, aperto sul davanti o sorretto da colonnine o pilastrini, destinato ai fedeli e sorto per loro iniziativa, contenente la raffigurazione di un
personaggio sacro e inserito, per lo più, in uno spazio aperto e rurale.
Un tempo si proponevano come possibili forme di tipologia del capitello anche croci e alberi sacri.
È chiaro che a questo punto il capitello rappresenta il segno più tangibile
della devozione dell’uomo. Nei capitelli è maggiormente rappresentata la
Vergine, poi Cristo, ma se la raffigurazione di Maria rappresenta sempre la
madre, per il figlio le cose vanno diversamente.
Più che il personaggio sembra importante la sua funzione: Cristo bambino,
Cristo coronato di spine, che porta la croce, Cristo deposto; lo stesso vale per
i santi.
Nella pagina
a fronte, in
alto a sinistra:
Frassanelle,
capitello al
“Palazzetto Rosso”;
in alto a destra:
Bastia, capitello
in via San Mauro;
in basso a sinistra:
Bastia, via Ponte
Valli; in basso a
destra: Carbonara,
in via San Pietro.
In questa pagina,
in alto a sinistra:
Bastia, oratorio in
via Ca’ Marchesa;
in alto a destra:
Carbonara, in
via San Giovanni
Battista.
244
rovolon, storie di una comunità dei colli eu ganei
A Padova i santi che compaiono sono di due
categorie, i primi sono quelli che in città ci
sono fisicamente e vi hanno operato; i secondi
sono quelli la cui devozione è stata introdotta
da varie cause, ma non dalla loro personale
permanenza.
Il grande leader è S. Antonio cui fanno seguito
gli altri tre protettori della città: S. Prosdocimo. S. Giustina, S. Daniele.
I santi dentro le mura risultano legati alla storia cittadina, a devozioni popolari, a ordini religiosi, a funzioni o protezioni civiche, inoltre
vi sono anche angeli, immagini religiose e allegoriche.
La forma tipica del capitello urbano-padovano
è quello sotto i portici, nei sottarchi, tra un
portico alto e uno basso.
Come sono fatti?
Solitamente il materiale è pietra tenera, terracotta e ceramica invetriata. La loro comparsa
è un fatto antico; di sette sono però state ritrovate le tracce.
Come sono nati?
Dalla riconoscenza per grazia ricevuta, per
protezione presente o futura, in memoria di
qualcuno, per celebrazioni di eventi comuni,
per celebrazioni di una comune solidarietà.
Il capitello può ammalarsi e morire come
è sorto o vivere in simbiosi con la comunità
umana. Quando tale comunità si degrada,
cambia, emigra, il capitello è come una mummia ridotta a reperto archeologico.
* In occasione della 11a “Festa della birra” che si è svolta a Rovolon dal 15 al 28.07.1993, il Comitato festeggiamenti ha coinvolto gli alunni della scuola media “A.
Manzoni” di Bastia in una ricerca storica sui capitelli
della devozione popolare disseminati nel territorio comunale. Lo scopo principale della ricerca è stato quello
di scoprire la devozione nel nostro territorio attraverso queste testimonianze alcune delle quali risalgono al
XVII secolo.
Tutta la documentazione ha costituito una interessante
mostra esposta nella sala nell’asilo di Rovolon: in quella circostanza il Comitato, alla presenza delle autorità
comunali e dei dirigenti del Parco Regionale dei Colli
Euganei, ha premiato e ringraziato studenti e docenti
delle scuole per l’ottimo lavoro svolto.
i c a p ite l l i de l la de vo zione popolare
245
Nella pagina a fronte,
in alto: Carbonara,
Capitello in via Manzoni;
in basso: Bastia, quartiere
Garibaldi.
In questa pagina,
in alto: Bastia, capitello
in via Pozzetto;
in basso: Bastia, oratorio
in via Monte Sereo.
Foto aerea di Bastia, al centro la sede municipale.
Finito di stampare nel marzo 2011
da Cierre Grafica
via Ciro Ferrari 5, Caselle di Sommacampagna (VR)
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