Dispense del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP Testo dattilografo e testi ciclostilati per studenti DE ACTIBUS HUMANIS (EORUMQUE MORALITATE) “Qui autem perspexerit in legem perfectam libertatis, et permanserit in ea, non auditor obliviosus factus, sed factor operis, hic beatus in facto suo erit”. Jac 1,25 PARTE POSITIVA Letteratura ausiliare: - KITTEL G., Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, (ThWNT), Ed. W.Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz, Bd 2, pp.631-649 s.v. ergon; CAYRE’F., Patrologia e storia della teologia, Ed. Desclée, Roma, 1936; ROUET DE JOURNEL M.J., Enchiridion asceticum, Ed.Herder, Friburgi Br., 19474. A. Significato generale di “ergon”. 1. L’uso del termine nella lingua greca. Ergon è una parola molto comune con un significato ampio. Essa significa un’attività qualsiasi a differenza dell’ozio (aergìa), attività utile a differenza di un fare superfluo (periergazesthai: II Ts 3,11; periergon: At 19,19; I Tm 5,13; come una critica rivolta a Socrate, cf. PLATONE, Apologia di Socrate 19 b). La parola può significare una qualsiasi attività umana agricola o artigianale: commercio, navigazione, pesca, caccia, arti figurative e meccaniche ecc. Spesso si aggiunge un significato più specificamente morale per dire che il lavoro umano è una fatica necessaria per vivere e guadagnarsi la vita. Gli erga significano in particolare le grandi opere compiute sia in tempo di pace per il bene della società, che in guerra per la sua difesa. Spesso si aggiunge un aggettivo che qualifica l’opera come bella, buona, ammirevole oppure ingiusta, cattiva, sconveniente. Già ESIODO (Le opere e i giorni 307 sgg.) mette in risalto il valore culturale dell’opera umana; l’agire umano è il senso voluto dagli dei di tutta l’esistenza umana. Il modello del lavoro faticoso che realizza pienamente l’uomo è nello stoicismo popolare Eracle e le sue opere messe a servizio dell’ umanità. L’uomo può essere giudicato (moralmente) secondo le sue opere, il suo comportamento, il suo agire. SENOFONTE conosce già la formula “conoscere dalle opere” (ek ton ergon gignoskein). L’agire degli dei e le loro opere sono “erga athanaton”: opere degli immortali (Hom. II, 16,120; 19,22). -2Come termine filosofico la parola ricorre spesso nei filosofi attici (Platone, Aristotele). In PLATONE ergon appartiene alla techne (Gorgia 517 c) e si rapporta strettamente alle virtù (aretè): Repubblica, I, 352 d. Ergon deriva dall’ambito della cultura, non da quello della natura organica. Per l’uomo è significativa l’opera dell’anima (ergon tes psychès). ARISTOTELE parla dell’agire umano all’inizio della sua Etica a Nicomaco (I, 1; 1094 a 3 sgg.). Le opere hanno un valore maggiore delle azioni che le compiono (enèrgheiai). La virtù di ogni ente consiste nella sua opera propria ben Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 1 eseguita (ad es. il vedere dell’occhio, il correre del cavallo ecc.). Enèrgheia ed ergon sono per Aristotele la forma delle cose, l’attuazione della potenza insita nella materia. La perfezione consiste nell’azione efficace. Passivamente la parola significa ciò che è stato fatto, il risultato del lavoro, il prodotto. L’equivalente nel TM è “chelij” (Num 4,16: arredi del santuario) o “joser” (Sir 9,17: lavoro eseguito da mano di esperti) o anche nel senso della raccolta dei frutti della terra (Ger 14,4) o ancora della ricompensa per il lavoro. L’idea del fare sparisce progressivamente e il significato si riduce a “cosa” in genere. 2. L’uso del termine nella Bibbia. Il verbo ergàzomai serve ai LXX per tradurre ogni tipo di attività: arare (Is 28,24), lavorare sui tessuti di lino (Is 19,9-10), lavorare il ferro (Ez 27,19) o il legno (2 Cr 2,10). Il significato di lavoro servile ha i suoi equivalenti nel TM in sevalah: Es 1 e 5; mas: Es 1,11; masa: Num 4,27. Ergon traduce anche altre parole ebraiche che significano servizio sacrificale regolare, servizio di guardia, lavoro faticoso, negozio difficile, il ricavato del lavoro. Le radici ebraiche tradotte con ergon, ergàzesthai sono nella maggior parte dei casi le seguenti: (termini in caratteri ebraici). Il loro significato è sempre fare, agire, lavorare, portare a compimento. Il greco traduce questi termini sia con ergon che con i suoi sinonimi (pòiema, pragma, ktisma, techne, energhèma, kataskeuè, ecc.). Il significato morale dell’ergon trova il suo equivalente ebraico nella via e nel camminare in essa (drk: Sir 11,21; orach: Gb 13,27; hathalak: Sir 3,17). B. L’opera di Dio. 1. La creazione. Gn 2,2-3 designa nella traduzione dei LXX come ergon l’opera della creazione, dalla quale Dio si riposa al settimo giorno. 4 Esd 6,38.43 mette in risalto il legame tra la parola creatrice e l’opera della creazione. L’idea non è generalmente quella dell’azione creatrice, ma quella dell’effetto, dell’opera creata, della creatura. Le opere del Signore manifestano la sua grandezza (Sal 8,4). Le stesse opere di Dio attestano che da lui sono state fatte (Sal 19 /18/, 2). Sap.13,1 sgg. rimprovera l’uomo incapace di riconoscere l’Artefice nelle opere. -3Da Dio si implora la misericordia per le sue opere (Sal 138 /137/,8; 145 /144/,9). Dio ha pietà anche dei peccatori, perchè sono l’opera delle sue mani (4 Esd 7,134). La discendenza di Giacobbe è opera di Dio (Is 29,23); il significato è però non tanto quello della creazione, quanto piuttosto quello dell’agire divino nella storia della salvezza. Is 64,8 si appella ancora alla misericordia del Signore verso le sue creature. Le opere di Dio sono ammirevoli (Pro 20,15), nascoste ad uno sguardo superficiale (Sir 11,4 b), incomprensibili dall’intelletto umano (Qo 8,17). 2. L’agire provvidenziale nel mondo. Solo nel giudaismo rabbinico ci si pone la domanda come si possa conciliare l’agire continuo di Dio nel mondo con il suo riposo sabbatico dopo la creazione. A questo dilemma corrisponde quello ellenico tra la divinità che agisce nel mondo e che è infinitamente al di sopra del mondo. In CICERONE si ritrovano le due concezioni: Dio non può agire (“Deum nihil habere ipsum negotii”: De Officiis. III, 28,102); eppure chi ammette l’esistenza di Dio deve ammetterne anche l’agire (“Qui deos esse concedunt, iis fatendum est, eos aliquid agere”: De Natura deorum, II,30,76). Il Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 2 Corpo Ermetico (VI, 1 sgg.) parla di un’azione statica (statikè enèrgheia); Dio non è ozioso, eppure il suo agire è perfetto e quindi “statico” (intuizione profonda di grande portata metafisica). Dio è sempre in azione (cf. Gv 5,17: “Il mio Padre agisce sempre”). La storia del popolo eletto dà testimonianza dell’agire di Dio nella storia (Es 34,10; Dt 3,24; 11,3.7; Gs 24,31; Gdc 2,7.10). Erga sono qui spesso i miracoli, sopratutto la salvezza dall’Egitto (Sal 66 /6/, 3.5; 77/76/,12). L’agire di Dio è però continuo e non è legato solo al miracoloso. Questa è la convinzione profonda dei profeti (cf. Is 28,21), dove il peccato provoca il giudizio come opus alienum Dei, che però sempre suppone la salvezza come opus proprium Dei. La predicazione della salvezza condiziona la minaccia del giudizio (cf. Atti 13,41 citando Abac 1,5). Il Dio della creazione è anche il Signore delle storia che è opera delle sue mani (cf. Is 41,4; 45,11 TM). Nel NT l’opera di Dio è salvifica sensu stricto. Le opere di Gesù annunciano il momento della salvezza messianica (Mt 11,2). S.Giovanni in particolare parla spesso degli atti salvifici e soprattutto dei miracoli di Cristo come dei segni dell’agire divino: - Gv 5,20-36: “Il Padre manifesterà opere ancora più grandi di queste ... ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere”. - Gv 7,3.21: “va’ nella Giudea perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai”. “Gesù rispose: Un’opera sola ho compiuto e tutti ne siete stupiti”. - Gv 9,3-4: “è così perchè si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finchè è giorno”. -4- Gv 10,25.32.37-38: “le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza”. “Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio”. “Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere”. - Gv 14,10-12: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi, io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perchè io vado al Padre”. - Gv 15,24: “Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio”. Non si tratta però solo della gloria che appare nelle opere miracolose compiute da Gesù, ma anche della bellezza (bontà intrinseca) delle opere sue e del Padre. L’agire salvifico di Dio è continuo, ma trova la sua espressione nelle singole opere fatte da Gesù. L’uomo partecipa all’agire salvifico nella fede che Dio stesso causa in lui: Gv 6,29: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? Gesù rispose: questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”. Le opere che fa Gesù e le opere dei fedeli sono sempre le opere di Dio. Ma la partecipazione all’opera salvifica di Dio richiede obbedienza perfetta secondo l’esempio del Salvatore: Gv 4,34: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”. Gv 17,4: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare”. Per S.PAOLO l’opera di Dio è l’edificazione della comunità cristiana: Rm 14,20: “Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo”. L’idea dell’edificio è completata da quella del campo di Dio in I Cor 3,9. L’agire di Dio è un agire per mezzo dello Spirito che appare nel lavoro missionario dell’apostolo: I Cor 9,1: “Non siete voi la mia opera nel Signore?”. La fondazione della comunità è come la stessa creazione un’opera di Dio per mezzo dello parola (Spirito). Non solo l’Apostolo, ma anche i suoi collaboratori partecipano all’opera di Dio: I Cor 16,10: “anche lui (Timoteo) lavora come me per l’opera del Signore” e Fil 2,30: “(Epafrodito) ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita per sostituirvi nel servizio presso di me”. Ogni opera del cristiano è fatta nel Signore (ergon tu kyriù): I Cor l5,58: “rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”. In Ap 2,26 è promesso il premio al “vincitore che persevera fino alla fine nelle mie opere”. Il Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 3 ministero del cristiano è opera di Dio: Fil 1,6: “Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”. -5Simili sono le espressioni negli Atti degli Apostoli: - 5,38: consiglio di Gamaliele: “Se ... questa attività è di origine umana, verrà distrutta, ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli”. - 13,2: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. - 14,26: “erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto”. - 15,38: “Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera”. La vita del cristiano ha un significato solo se significa un ulteriore progresso nell’opera di Dio (cf. Fil 1,22 “lavorare con frutto”). C. Il lavoro umano, l’opera umana. 1. Nel senso negativo, come maledizione. Dopo il peccato originale (Gn 3,17) il lavoro dell’uomo è sottoposto alla maledizione: è caratterizzato dalla fatica e dalla miseria. Gn 5,29 riprende questa idea della “maledizione del suolo”. Il Sal 90 /89/, 10 dice che gli anni della vita dell’uomo sono quasi tutti “fatica e dolore”. Sir 33,25 assegna il lavoro allo schiavo, Pro 31,15 alle ancelle. 2. L’opera umana come peccato e vanità. - Gb 4,17: “Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l’uomo davanti al suo Creatore?” - Gb 11,11: “Egli vede gli uomini fallaci, vede l’iniquità e l’osserva”. - Gb 34,25: “Poichè conosce le loro opere, li travolge nella notte e sono schiacciati”. - Gb 36,9 : “fa loro conoscere le loro opere e i loro falli perchè superbi”. - Is 57,12: “Io divulgherò la tua giustizia e le tue opere, che non ti saranno di vantaggio”. - Ger 48,30: “Conosco bene la sua tracotanza - dice il Signore - l’inconsistenza delle sue chiacchiere, le sue opere vane”. - Ag 2,14: “tale è ogni lavoro delle loro mani; anzi, anche ciò che qui mi offrono è immondo”. Anche nel NT l’opera umana è spesso presentata sotto l’aspetto della sua caducità: - Rom 13,12: “opere delle tenebre”; - Gal 5,19: “opere della carne”; - Gv 3, 19: “opere ... malvage”; - Gv 8,41: “opera del diavolo”; - Eb 6,1: “opere morte”, ecc. Il valore positivo delle opere nel tardo giudaismo. -6L’osservanza della legge è un’opera santa che raddrizza l’uomo e fonda la sua giustizia. Gios 4,24: “affinchè voi temiate il Signore vostro Dio in ogni vostra opera” e Pro 10,16: “le opere del giusto servono per la vita”, ecc. Il giudaismo indica spesso i patriarchi e la loro storia personale come esempio di opere giuste da imitare (cf. Gv 8,39 “le opere di Abramo”). Secondo questa concezione i patriarchi conoscevano la legge prima ancora che essa fosse scritta e la mettevano in pratica. Le opere della legge sono per i rabbini le opere in assoluto (Measijm); la loro pratica è l’adempimento della legge di Dio. La speranza escatologica comporta anche il fatto che alla fine dei tempi non sarà più necessario lo studio faticoso della tora, ma Dio scolpirà i suoi precetti sulle tavole di carne del cuore (Ger 31,33). Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 4 S.Paolo (Rm 2,15) estende questo fatto anche ai pagani e suppone una loro conoscenza naturale della legge di Dio. L’uomo deve scegliere liberamente tra le opere richieste dalla legge di Dio e le sue opere proprie che sono ingiustizia (adikìa), opere di Beliar. Le opere umane sono cattive, quelle divine sono buone. Le une provengono dal proprio arbitrio, le altre scaturiscono dalla legge di Dio. Anche nella concezione giudaica l’uomo peccatore non è in grado di compiere le opere di Dio, ma ciò è il privilegio dei giusti, che sono sia i santi del passato che un gruppo imprecisato di pneumatici o gnostici presenti (cf. Odi di Salomone). Secondo 4 Esd (cf. Mt 6,20; Lc 12,22; I Tm 6,19) i giusti raccolgono un tesoro di opere buone per le quali riceveranno io salvezza. La misericordia di Dio si manifesta nella sua pietà per coloro che non hanno nessun tesoro di opere buone. Le opere meritorie, caritatevoli come le elemosine, l’opera di pacificazione, l’educazione dei figli ecc. sono concepite come sequela di Dio. A rabbi Simlai è attribuito il detto: “La tora contiene sia al suo inizio che alla sua fine delle opere di carità. Al suo inizio infatti sta scritto: Jahwe Elohijm ha fatto per Adamo e la sua moglie delle tuniche e li ha vestiti (Gn 3,21) e alla sua fine sta scritto: Dio ha sepolto (Mosè) nella valle (Dt 34,6)”. 3. La giustizia delle opere e l’idea del premio. Dio ricompensa l’uomo secondo le sue opere perchè è buono e potente e conosce ogni opera dell’uomo (Sal 33 /32/,15; Sir 15,19; 39,19). Così si ha la certezza: “vi è un premio per le tue opere” (Ger 31,16) e “alla morte di un uomo si rivelano le sue opere” (Sir 11,27). Questa concezione sembra essere messa in crisi dal fatto che spesso la sorte dei giusti corrisponde all’agire degli empi e la sorte degli empi all’agire dei giusti (Qo 8,14). Il premio viene perciò attribuito all’al di là della morte. Rabbi Jonathan (attorno al 220 d.C.) dice che la morte viene anche per i giusti “affinchè gli empi non facciano una penitenza fittizia e affinchè non possano dire: i giusti rimangono in vita solo perchè moltiplicano le osservanze della legge e le opere buone; così vogliamo anche noi accumulare -7- le osservanze dei precetti e le opere buone e così l’agire non sarebbe fatto per se stesso, ma per motivi interessati” (Gn r 9 a 1,31). Rabbi Zeira (attorno al 300) disse: “Per chi accumula le osservanze dei precetti e le opere buone è preparato il Gan Eden; per chi invece non accumula per niente le osservanze dei precetti o le opere buone è preparato il Gehinnom”(Gn r 9 a 1,31). Secondo rabbi Aqiba (Ab 3,15) all’ultimo giudizio si deciderà secondo la maggioranza delle buone o delle cattive opere. Le opere buone intercedono per l’uomo nel giudizio (Apoc 14,13) o perchè lo seguono dopo la sua morte o perchè lo precedono. 4. Il lavoro dell’uomo come un compito affidatogli dal Creatore. L’idea del premio suppone che le opere umane avvengono sul comando di Dio. In Gn 2,15 si dice già che “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perchè lo coltivasse e lo custodisse”. Anche Gen 2,5 (“nessuno lavorava il suolo”) suppone che il vero compito dell’uomo è quello di coltivare i campi, di lavorare (ergàzesthai ten gen). Dio stesso ha insegnato all’uomo come deve farlo: Is 28, 23-29: “la sua perizia rispetto alla regola gliela insegna il suo Dio”. Questa concezione rientra nell’ambito dei “miti degli inventori” che fanno risalire ogni scoperta culturale dell’uomo a Dio (cf. Gn 4,20 sgg.). Gli Ebrei dell’epoca ellenistica affermavano in base a queste considerazioni la priorità della tradizione biblica su quella pagana; lo storico ebreo Eupolemo indica ad es. in Mosè l’inventore dell’alfabeto fenicio. Le Odi di Salomone mettono in stretta relazione la realizzazione dell’uomo nel lavoro secondo la volontà di Dio e l’idea della redenzione. La salvezza consiste nel trasferimento dell’uomo in paradiso, dove egli ritrova la sua attività connaturale che gli è stata affidata come compito nella creazione: “Ecco, tutti sono tuoi lavoratori eccellenti che compiono opere buone”(O Sal 11,17). Il trasferimento in paradiso appare qui non già come ricompensa per le buone opere, ma piuttosto come il loro presupposto. Le opere buone sono connaturali all’uomo secondo la volontà di Dio, sia a quello dell’innocenza originale Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 5 che a quello della redenzione finale. Ovviamente l’idea del “lavoratore di Dio” si stacca dal significato originale del lavoro fisico e assume la caratteristica del “lavoro” morale. Il lavoro umano sta sotto la benedizione di Dio. Il Dt (ad es. 2,7; 14,29; 15,10; 16,15) ripete più volte la formula “il Signore tuo Dio ti ha benedetto in ogni lavoro delle tue mani”. I rabbini mantengono questa concezione favorevole al lavoro umano. Rabbi Chijja (circa 280 d.C.) disse (cf. Ber 8 a): “Più grande è colui che si nutre del suo lavoro che colui che teme Dio. Infatti di chi teme Dio sta scritto: ‘Beato l’uomo che teme JHWH’ (Sal 113 /112/,1) ed ecco, di colui che si nutre del suo lavoro sta scritto: ‘Dal lavoro delle tue mani davvero ti nutrirai, beato sei tu e buona è la tua sorte’ (Sal 129/128/, 2); beato sei tu in questo -8- mondo e buona è la tua sorte nel mondo futuro. Ma riguardo a chi teme Dio non è scritto ‘buona è la tua sorte’ ”. Secondo Ab 2,2 disse rabban Gamaliel III (circa 220 d.C.): “Bello è lo studio della tora in collegamento con un’attività umana, perchè lo sforzo in vista di entrambi fa dimenticare il peccato (cioè: distoglie la mente umana dal peccato). Ma ogni studio della tora con cui non si collega nessun’attività professionale avrà fine e porterà il peccato con sé”. Un’altra concezione, scettica riguardo al collegamento tra lo studio della Scrittura e il lavoro umano, si trova ad es. in Sir 38,24 (25) - 39,11: “La sapienza dello scriba si deve alle sue ore di quiete, chi ha poca attività diventerà saggio”. Il NT ribadisce realisticamente la necessità di “lavorare con le proprie mani” (I Ts 4,11; II Ts 3,10-12; Ef 4,28). Il significato di questi insegnamenti è strettamente religioso ed etico come quello che riguarda le espressioni dell’apostolo delle genti, con le quali egli descrive il lavoro del suo mestiere. Questo lavoro è santificato per il fatto che esso serve alla comunità cristiana e quindi al corpo mistico di Cristo. Il lavoro in una professione umana e il servizio della comunità sono inseparabili tra loro. Tutto ciò che è “ergon” nella comunità cristiana è opera di Dio per mezzo degli uomini. Ogni opera del credente è espressione della sua fede (Gal 5,6: “fede che opera per mezzo della carità”). Le espressioni “opera della fede” (ergon tes pisteos), “fatica della carità” (kapos tes agàpes) e “perseveranza nella speranza” (hypomonè tes elpìdos) si trovano collegate tra loro (cf. I Ts 1,3; II Ts 1,12; cf. Rm 2,7: “perseveranza nell’opera buona”: hypomonè ergu agathu). Come espressioni di fede le opere del cristiano sono il criterio secondo il quale esso sarà giudicato (Rm 2,6). Nella concezione giovannea il concetto di ergon-erga comprende tutto il comportamento dell’uomo in quanto è sottoposto alla differenza del bene e del male, senza distinguere tra opere più o meno buone o cattive. Sono comprese in questo concetto anche i moti più occulti della volontà, sia riguardo a Dio che riguardo al mondo e al prossimo. Chi agisce secondo la verità ha delle opere “fatte da Dio” (Gv 3,21). Anche in Atti 26,20 (“comportarsi in maniera degna della conversione”) le opere dell’uomo rimandano alla sua responsabilità davanti a Dio e davanti alla salvezza (conversione), che Dio opera in lui. 5. Parola e atto, fede e opere. Già in Omero si riscontra la tensione tra epos ed ergon o, nella lingua attica, tra logos ed ergon. Per Platone ed Aristotele questo binomio acquista un’importanza fondamentale: cf. Critone 52 d (“vivere la vita politica in opere, non solo in parole”). Nello Pseudo-Pitagora (Carmen Aureum 13) i due concetti sono correlativi: sia in parole che in opere si manifesta la giustizia dell’uomo. Negli scritti ermetici la parola ha una forza magica e quindi porta automaticamente all’opera fattiva. -9Nella Sacra Scrittura si suppone come evidente la corrispondenza tra la parola e l’opera nella rivelazione: cf. Gl 2,11: “potente è l’esecutore della sua parola”; nel TM: “potenti sono le opere della sua parola”; Sal 33 (32),4: “retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera”. Tra dottrina e vita rimane sempre una tensione, un venir meno della seconda rispetto alla prima (cf. Mt 23,3: il rimprovero ai farisei che “dicono e non fanno”). Tit 1,16 dice che la contraddizione tra la parola e l’opera equivale a rinnegare il Cristo: “Dichiarano di conoscere Dio, Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 6 ma lo rinnegano con i fatti”. Gc 1,25 esorta a non essere ascoltatori smemorati della legge, ma metterla in pratica e in 2,17 dice che “la fede senza le opere è morta in se stessa”. Secondo la lettera agli Ebrei sono morte tutte le opere che non provengono dallo fede,che non sono opere di Dio e quindi sono morte appunto perchè conducono alla morte. Morto è tutto ciò che non avviene nel servizio del Dio vivente. Nella concezione paolina le opere della legge sono diventate da un’esigenza assoluta della volontà divina un mezzo con cui l’uomo cerca di glorificare se stesso, di giustificare se stesso. Quello che conta rispetto alla salvezza è invece l’opera di Dio che crea nell’uomo la fede e dà così il senso anche ad ogni opera umana. Ergon nel senso di un atto che viene dall’uomo solo al di là 1 dell’aiuto di Dio è per S.Paolo sempre qualcosa di negativo. Le opere dell’umanità decaduta sono cattive, ma il tempo della salvezza riporta alla condizione della prima creazione, così che ogni opera dell’uomo diventa anche opera di Dio attraverso l’uomo. Alle opere della legge, caratteristiche dell’AT, si aggiunge nel NT l’opera di Dio, opera della fede che agisce per mezzo della carità (Gdc 5,62; Gv 6,29). L’opera salvifica di Dio è però comprensibile solo per i fedeli. L’uomo naturale conosce le opere di Dio (miracoli, risurrezione di Cristo ecc.) o solo nel senso delle sue aspirazioni terrene (così concepiscono gli Ebrei la moltiplicazione dei pani in Gv 6,26 come l’opera di un “Brotmessias”) o come l’effetto di un’azione diabolica (e così intendono gli scribi l’esorcismo compiuto da Gesù in Mc 3,22) oppure infine come un tentare Dio (così comprende Achaz il segno che gli è offerto in Is 7,12). Solo al credente è manifesta l’opera di Dio (Mt 4,7). La stessa parola/opera di Dio suscita negli uni la fede, negli altri l’indur imento di cuore. Tutte le opere buone (kalà erga) sono per il credente opera di Dio per mezzo dell’uomo. Il peccatore può abusare dei beni terreni (famiglia, stato, popolo, legge: Rm 7,12-13), eppure essi rimangono per noi delle buone opere di Dio come “educatori in vista di Cristo” (“Zuchtmeister auf Christus”). D. Gli atti umani nella concezione dei SS.Padri. ORIGENE, Commentum in Joanem 1,16/EA, n.144/: “L’inizio della via buona è fare le opere giuste (Pro 16,5). La via buona infatti è molto lunga e perciò in primo luogo spetta ad essa quella parte della filosofia che consiste -10- nell’azione pratica … il resto della via spetta invece a quella virtù che è insita nella contemplazione”. S .GREGORIO NAZIANZENO, Oratio 4, 113/EA, n.300/ : “Come ci lasciamo accompagnare dalla contemplazione per ascendere alle cose celesti, così l’azione è per noi come dei gradini e come una scala che conduce alla contemplazione. Non è infatti possibile che sia partecipe della sapienza chi non vive sapientemente”. S.AGOSTINO, De Civitate Dei 19, 19/ EA, n.665/: “otium sanctum quaerit caritas veritatis; negotium iustum suscipit necessitas caritatis. Quam sarcinam si nullus imponit, percipiendae atque intuendae vacandum est veritati; si autem imponitur, suscipienda est propter caritatis necessitatem; sed nec sic omnimodo veritatis delectatio deserenda est, ne subtrahatur illa suavitas et opprimat ista necessitas”. APOPHTEGMATA PATRUM, De abbate Silvano, 5 /EA, n.1038/: “Quidam frater ad abbatem Silvanum venit in montem Sina; et videns fratres operantes, dixit seni: ‘Ne operemini cibum qui perit. Maria enim optimam partem elegit’. Ait senex discipulo suo: ‘Zaccharia, da librum fratri, et ducito eum in cellam in qua nihil sit. Cum ergo advenit hora nona, respiciebat per ostium an mitterent qui vocant eum ad manducandum ... Tum senex: ‘Quia homo spiritualis es, nec eges cibo hoc; nos autem, utpote carnales, manducare volumus, atque ideo operamur; tu vero optimam partem elegisti, qui legis per totum diem nec vis sumere cibum carnalem”. 1 2 A prescindere. Probabilmente: Gc 2,18. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 7 S.MASSIMO IL CONFESSORE, Capita de caritate 2,5/EA, n.1301/: “L’azione libera la mente dall’incontinenza e dall’odio; la contemplazione dall’oblìo e dall’ignoranza e così si potrà pregare convenientemente”. TALASSIO (circa 650 d.C.), Centurie 2,32 / EA, n.l524/: “Sta attento a non trascurare la vita attiva, altrimenti diminuirà anche la scienza e ciò significherebbe scendere in Egitto a causa della carestia.” 11- Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 8 PARTE SISTEMATICA Letteratura: • • • Summa Theologiae I-II, qq. 6-21; Commentari: o GAETANO Tommaso De Vio (card.OP), Commentarium in I-II, qq.6-21, ed.Patavii (Typographia Seminarii) 1698; o GIOVANNI DI S.TOMMASO, Cursus Theologicus, Matiscone (Protat) 1964, vol.V, p.269 sgg. (Tractatus de actibus humanis) et 465 sgg. (Tractatus de bonitate et malitia actuum humonorum); letteratura ausiliare: GARDEIL A. (OP), art. Acte humain in DThC I, col.339-346; art. Conseil in DThC III, col.1175 sg.; art. Election in DThC IV, col.2242-2256; LEPIDI A. (OP), L’attività volontaria dell’uomo, Roma 1890. Divisione del trattato: ATTI UMANI - Condizione • Volontario ed involontario in genere o per se (6) o per accidens (circostanze) (7) • in particolare o volontario elicito circa il fine • atto fondamentale - il volere o il suo oggetto (8) o dal lato del soggetto causa efficiente (9) causa formale - modo (10) • atti derivati o l’ultimo - fruizione (11) o il primo - intenzione (12) circa i mezzi • nell’ordine della scelta o la stessa scelta (13) o gli atti precedenti da parte dell’intelletto - consiglio (14) da parte della volontà - consenso (15) • nell’ordine dell’esecuzione - uso attivo (16) o volontario imperato (17) - Distinzione morale - bontà e malizia • La moralità in sé o in genere (18) o in particolare atti interni (19) atti esterni (20) • Le conseguenze della moralità rispetto al merito e al demerito (21) Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 9 Q.VI. 1. IL VOLONTARIO E L’INVOLONTARIO. an sit negli atti umani (1) negli animali privi di ragione (2) quid sit condizione essenziale - il volontario riguardo all’atto (commissione e omissione) (3) influssi sul volontario esterno = violenza • soggetto suscettibile di violenza (4) • effetto della violenza - involontario (5) interni • dalla parte inferiore o dall’irascibile = timore (6) o dal concupiscibile = concupiscenza (7) • dalla parte superiore = ignoranza (8) Negli atti umani vi è il volontario perfetto. Mi Il volontario è l’atto che consiste in un’operazione razionale (DAMASCENO). Ma Ora, tali sono appunto gli atti umani. Co Perciò negli atti umani si trova il volontario. Argomento sistematico. La tesi: E’ necessario che negli atti umani vi sia il volontario. La prova. Divisione degli agenti: Agenti che hanno il principio del loro atto e del loro moto fuori di sè (ad es. la pietra lanciata che sale). Agenti che hanno il principio del loro atto e del loro moto in se stessi (ad esempio, la pietra che cade). Agenti che non muovono se stessi. Agenti che muovono se stessi. Mi Siccome ogni agente esercita il moto o è mosso in vista di un fine, ne segue che sono perfettamente mossi dal principio intrinseco quelli agenti nei quali c’è un certo principio intrinseco non solo del loro moto, ma del loro ordine al fine. Ma Ora, affinchè una cosa sia ordinata al fine, si richiede una certa conoscenza del fine. Co Sono perfettamente mossi quelli agenti che hanno in se stessi una certa conoscenza del fine, così che essi hanno in sè il principio intrinseco non solo per agire, ma anche per agire per il fine. Ciò che non ha nessuna conoscenza del fine (agente per natura), anche se ha in se stesso il principio dell’azione e del moto, non ha però -13- in sè il principio del fatto che agisca o sia mosso per il fine, ma tale principio è in un altro soggetto dal quale è impresso all’agente naturale il principio del moto al fine. E’ mosso non da sè, ma dall’altro. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 10 Ciò che ha la notizia del fine si dice muovere se stesso, perchè ha in se stesso non solo il principio dell’agire, ma anche quello dell’agire per il fine. Ma Il volontario significa in virtù del suo stesso nome che il moto e l’atto avviene in forza dell’inclinazione propria dell’agente. Mi Ora, gli agenti che hanno una certa conoscenza del fine hanno in se stessi sia il principio del moto che quello del loro ordine al fine, così che il loro moto avviene secondo la loro propria inclinazione sotto l’uno e sotto l’altro aspetto. Co Perciò gli agenti che hanno una certa conoscenza del fine hanno un moto e un atto volontario. Chiarimento della definizione del volontario - ARISTOTEIE, S.GREGORIO NISSENO e S.GIOVANNI DAMASCENO convengono nel dire che volontario è ciò il cui principio è dentro (all’agente) con l’aggiunta della scienza (= notizia del fine). CONCLUSIONE GLOBALE. Siccome l’uomo massimamente conosce il fine del suo agire e massimamente muove se stesso, ne segue che nei suoi atti si trova massimamente realizzato il volontario. Arg. 1 Il principio dell’agire umano è fuori dell’uomo, perchè l’appetito umano si muove da un appetibile esterno. Risp. Il volontario richiede che il principio del moto sia nell’agente, non richiede però che questo principio sia il principio primo. Il fatto che il principio intrinseco sia a sua volta causato e mosso da un principio esterno non toglie lo ragione del volontario. Si noti però che il principio del moto può essere primo in un determinato genere, anche se non lo è in assoluto. In tal modo il principio intrinseco dell’atto volontario, che è la facoltà conoscitiva ed appetitiva è il principio primo nel genere del moto appetitivo, anche se è mosso da qualcosa di esterno secondo altre specie del moto. Arg.2 Ogni moto dell’animale è preceduto da un moto esterno.Ma gli atti umani, non essendo eterni, sono sempre nuovi e quindi sempre prevenuti da moti esterni, così che hanno il loro principio fuori dell’agente stesso. Risp. Il moto nuovo dell’animale può essere preceduto da un moto esterno in due modi: (a) quanto alla presentazione dell’oggetto sensibile per mezzo di un moto esterno che muove di conseguenza l’appetito sensibile (ad es. il leone che vede avvicinarsi un cervo inizia a muoversi verso di esso); (b) per immutazione naturale del corpo animale da parte di un moto esterno (ad es. riscaldamento o raffreddamento) che muta accidentalmente il senso e l’appetito sensitivo, che è facoltà congiunta all’organo corporeo. Ad es., dall’alterazione del corpo l’appetito sensitivo può essere mosso al desiderio di un appetibile sensibile. Ciò però non contraddice la ragione del volontario, perchè si tratta di moti di un altro genere. -14Arg.3 L’uomo non può agire per se stesso 3; (Cf.Gv 15,5): “Senza di me non potete far nul1a”. Risp. Dio muove l’uomo non solo proponendogli un oggetto sensibile o immutando 4 il corpo, ma muovendo la stessa volontà, in quanto ogni moto sia della volontà che della natura procede da Lui come dal primo movente. Come non è contro la ragione della natura il fatto che il suo moto 3 Il “per sè” è proprietà del sussistente. Se l’uomo agisse “per sè”, vorrebbe dire che la sua azione è sussistente, cosa invece che appartiene solo a Dio. 4 Latinismo da immutare, che sta per mutare, e quindi: mutando. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 11 derivi da Dio, primo movente in quanto la natura è in un certo modo uno strumento di Dio movente, così non è contro la ragione della volontà il fatto che essa sia mossa da Dio e quindi non ripugna all’atto volontario il fatto che esso derivi ultimamente da Dio movente. Eppure è proprio della ragione comune del moto naturale e volontario che l’uno e l’altro procedano da principio intrinseco. QUESTIONE CONNESSA Il volontario e il voluto (GIOVANNI DI S.TOMMASO). La questione è se il volontario, che procede a modo di atto dalla volontà, sia a sua volta oggetto voluto dalla volontà stessa. E’ possibile che la volontà riguardi il proprio atto come suo oggetto o direttamente (atti imperati) o riflessivamente (atti eliciti). Non è però necessario che ogni atto per essere volontario sia anche voluto, ma basta che quella cosa che è oggetto specificante dell’atto volontario sia voluta. Infatti, se l’atto non è voluto riflessivamente, non è proposto dall’intelletto pratico come oggetto della tendenza, ma come tendenza all’oggetto e quindi è proposto come un quo, non come un quod, ossia non è costituito a sua volta come oggetto terminativo della volontà. Se poi l’atto è voluto riflessivamente, ciò suppone che un’altro atto ha preceduto ed è già uscito dalla volontà e quindi l’atto precedente si suppune già volontario prima ancora che la riflessione esplicita lo renda voluto. Contro la riflessione virtuale implicita GIOVANNI DI S.TOMMASO obietta che l’atto non può essere voluto da se stesso se non è riflessivamente proposto da un altro atto come oggetto quod. Sembra però che la volontà (come l’intelletto), essendo una facoltà spirituale, conosca una certa riflessività implicita e immediata connaturale che si estende universalmente ad ogni suo atto: cf.II-II, q.25, a.2 c.a. Infatti non è bene separare troppo l’esercizio dalla specificazione 5: il quo è certamente distinto dal quod, eppure è un quo proprio rispetto a questo determinato quod, che lo termina e così l’intelletto pratico, proponendo il quod specificante, implicitamente e immediatamente propone anche il quo che ne è specificato e terminato. -15CONCLUSIONE. Il volontario e il voluto sono realmente distinti in quanto ciò che è volontario non è necessariamente voluto, anche se si può dire che ogni atto volontario è anche voluto non però esplicitamente e in senso stretto, ma in senso lato, ossia intendendo per “voluto” ciò che è oggetto di un atto riflesso, immediato, implicito, virtualmente racchiuso nello stesso atto volontario. Più che voluto l’atto volontario è con-voluto (come la vista vedendo i colori vede implicitamente la luce che li rende visibili). Articolo 2 - Il volontario si realizza in qualche modo anche negli animali privi di ragione. Mi Per il volontario si richiede che il principio dell’atto sia interno rispetto all’agente con una certa conoscenza del fine. Ma Ora, la conoscenza del fine è duplice: (a) perfetta (formale), che non conosce solo quella cosa che è fine, ma la stessa 5 L’esercizio riguarda l’atto col quale la volontà riflette su se stessa. La specificazione riguarda l’oggetto dell’intelletto, sul quale si fonda successivamente la riflessione del volere. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 12 Co ragione del fine e di conseguenza la proporzione del soggetto che è ordinato a questa tale cosa come al fine - tale conoscenza conviene alla sola natura razionale, (b) imperfetta (materiale), che consiste nella sola apprensione del fine senza conoscerne la ragione universale di essere fine e di conseguenza senza conoscere la proporzione dell’atto al fine; tale conoscenza si trova anche negli animali privi di ragione per mezzo del senso e della valutazione naturale. Perciò la conoscenza perfetta del fine è seguita dal volontario perfetto nella sua ragione di volontario, in quanto l’agente, appreso il fine, può deliberando del fine e dei mezzi per il suo conseguimento, muoversi al fine o non muoversi; invece la conoscenza imperfetta del fine è seguìta dal volontario imperfetto nella sua ragione di volontario in quanto chi apprende il fine non delibera, ma si muove subito (spontaneamente) ad esso. CONCLUSIONE. Perciò alla sola natura razionale conviene il volontario perfetto, ma secondo la sua ragione imperfetta conviene anche agli animali privi di ragione. Arg.1 La volontà dà il nome al volontario, ma la volontà è solo nella ragione e quindi non è negli animali infraumani. Risp. Il volontario si prende denominotivamente dalla volontà e può essere applicato a quei soggetti nei quali c’è una certa partecipazione della volontà secondo una certa convenienza e così si attribuisce il volontario agli animali irrazionali, in quanto per mezzo di una certa conoscenza (sensitiva) sono mossi al fine. Arg.2 Gli animali irrazionali non sono padroni dei loro atti. Risp. L’uomo è padrone dei suoi atti perchè delibera; infatti, per il fatto che la ragione deliberante è aperta ad alternative opposte, la volontà ha una potestà attiva su entrambe. Tale volontario però non si realizza negli animali irrazionali. -16Arg.3 Gli atti volontari sono seguiti da lode e rimprovero, il che non conviene agli animali irrazionali. Risp. Lode e rimprovero seguono l’atto volontario che è perfetto nella ragione del volontario, ma così non si trova negli animali irrazionali. QUESTIONE CONNESSA. Volontario perfetto ed imperfetto (GIOVANNI DI S.TOMMASO). Il volontario perfetto ed imperfetto si distinguono primariamente dalla parte della conoscenza perfetta o imperfetta, ossia dalla parte del giudizio che regola l’inclinazione dell’appetito. Infatti, nell’avere il principio del moto intrinseco al soggetto convengono gli agenti volontari e naturali. Quindi per distinguere i diversi tipi del volontario occorre fondarsi su ciò che il volontario aggiunge al naturale, ossia sulla conoscenza precedente del fine che è propria del volontario (appetito elicito a differenza dell’innato). Il volontario perfetto suppone sempre deliberazione. Difficoltà: la deliberazione è solo circa i mezzi e non del fine; sembra quindi che riguardo al fine non vi possa essere volontario perfetto. Risposta. Del fine non si dà una deliberazione terminativa e consumativa, ma una deliberazione iniziale a modo di principio. Il moto di deliberazione non termina all’amore del fine, ma lo suppone già, ma supponendolo è proprio da esso che prende il suo inizio. In tal modo la Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 13 volontà che ha piena avvertenza del fine può avere a suo riguardo il volontario perfetto e anche il libero, almeno quoad exercitium. Così il volontario perfetto dice sempre deliberazione - o inizialmente quando il moto riguarda il fine, o terminativamente quando riguarda i mezzi. Il volontario perfetto è sempre libero sensu lato (formalmente o eminentemente) non però sensu stricto (formalmente), perchè può essere necessario non per difetto di libertà, ma per eccesso della sua piena realizzazione (come avviene nell’amore beatifico). In tal caso la volontà è resa necessaria non dalla coartazione del giudizio, ma dalla adeguazione a tutta l’universalità della facoltà. Negli animali irrazionali, nei bambini e nei pazzi (senza momenti di lucidità ad es. nel caso di idiozia) c’è solo il volontario imperfetto che però conviene univocamente nella ragione del volontario con il volontario perfetto ossia libero sensu lato. Gli animali infatti convengono con l’uomo univocamente nella ragione generica del conoscere e quindi, di conscguenza, anche in quella dell’appetito che segue la conoscenza. L’uomo e gli animali irrazionali sono univocamente contenuti nel genere dell’animale (essere vivente) e quindi nel genere del conoscere. Infatti l’animale ossia il vivente sensibile, che equivale a vivente conoscente (in genere), si applica univocamente a entrambi gli estremi. -17Articolo 3 - Il volontario può essere anche senza un atto. Ma E’ volontario ciò di cui siamo padroni. Mi Ora, come siamo padroni di agire e di volere, così siamo padroni anche del non-agire e del non-volere. Co Perciò, come è volontario il volere e l’agire, lo è anche il non-volere ed il non-agire. Argomento sistematico. Mi Si dice volontario ciò che viene (causalmente) dalla volontà. Ma Ora, qualcosa può procedere da qualcos’altro in due modi: (1) direttamente, in quanto il principio da cui procede è agente: ad es. il calore che deriva da una fonte di calore che attualmente riscalda; (2) indirettamente, in quanto il principio da cui una determinata realtà procede non agisce: ad es. il naufragio della nave si attribuisce al timoniere in quanto cessa di pilotare la nave. Precisazione: Non sempre ciò che segue al difetto dell’azione si riduce all’agente come alla sua causa, ma solo se l’agente può e deve agire. Se infatti il timoniere non avesse potuto pilotare la nave o non gli fosse stato affidato il governo della nave, il naufragio non gli sarebbe stato imputato, anche se fosse derivato dalla mancanza di direzione della nave. Co Perciò, sarà detto volontario: (1) ciò che procede dalla volontà direttamente per mezzo di un suo atto e (2) anche ciò che procede dalla volontà per il semplice fatto che essa non agisce quando può e deve agire. =Mi1 Ma1 Ora, avviene spesso che la volontà, volendo ed agendo, può impedire il non volere ed il non agire e talvolta deve farlo, così che il fatto di non volere e di non agire le è imputato come procedente da essa. 1 Co In tal modo può avvenire che il volontario sia senza atto: - talvolta senza l’atto esterno, ma con l’atto interno (quando la volontà vuole non agire), - talvolta anche senza lo stesso atto interno (quando la volontà semplicemente non vuole). Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 14 Arg.1 Nulla può derivare dalla volontà se non per mezzo di un atto, almeno di un atto interno della volontà stessa. Risp. Volontario si dice non solo ciò che procede dalla volontà direttamente in quanto agente, ma anche ciò che procede da essa indirettamente come da non agente. Arg.2 Il non volere causa l’involontario, che è opposto al volontario. Risp. Il non volere si dice in due modi: -181. a modo di una sola espressione in quanto è l’infinito del verbo “nolo” (lat. non voglio) e così, se si dice “nolo legere”, il senso è “volo non legere”, come l’espressione “non velle legere” equivale a quell’altra “velle non legere”. 2. a modo di un discorso (proposizione) e così non si afferma un atto di volontà (bensì piuttosto la sua assenza) e in questo senso il non-volere non causa l’involontario. Il primo modo causa l’opposizione contraria. “Pietro non vuole leggere” signifìca precisamente “Pietro vuole non leggere”; il che suppone che Pietro pone un atto di volontà che riguarda il non leggere, ma può riguardare qualche altra cosa. Il secondo modo causa l’opposizione contraddittoria che non ammette un mezzo. “Pietro non vuole leggere” significa allora che Pietro non pone nessun atto di volontà nè riguardo al leggere nè riguardo a qualsiasi altra cosa. Arg.3 Alla ragione del volontario spetta la conoscenza previa che avviene per mezzo di un atto del conoscere. Risp. L’atto del conoscere si richiede per il volontario come l’atto della volontà e cioè che sia nella potestà del soggetto il considerare, il volere e l’agire. E così, come è volontario il non volere ed il non agire quando è tempo di volere e di agire, così è volontario anche il non considerare quando si può e si deve considerare. QUESTIONE CONNESSA. Il volontario nell’omissione (GIOVANNI DI S.TOMMASO). Il volontario diretto si dice a causa del positivo influsso della volontà in un atto e nel suo effetto. Il volontario indiretto si dice ciò che realmente, positivamente e fisicamente non procede dalla volontà, ma la volontà è in una disposizione tale che l’atto e il suo effetto avrebbe potuto e dovuto procedere da essa. Ciò suppone la conoscenza previa alla volontà come in chi vede qualcosa (ad es. una rissa) e non vuole impedirla. Tale volontario si dice anche virtuale o interpretativo, perché, pur non procedendo di fatto dalla volontà, procede tuttavia da essa secondo la virtù 6 e secondo il debito. Il voluto diretto è ciò che la volonà raggiunge come oggetto immediatamente e in sè. Il voluto indiretto invece è ciò che la volontà raggiunge mediante un altro oggetto come contenuto in esso e seguente ad esso (effetto voluto nella causa); così chi si ubriaca virtualmente implicitamente volendo l’ebrietà, vuole anche l’omicidio che ne segue. Se l’omissione esclude ogni atto sia di intelletto che di volontà circa un oggetto, l’omissione riguardante quell’oggetto non è volontaria, perchè procede dall’ignoranza antecedente che causa l’involontario. Se al contrario l’omissione stessa non solo è conosciuta, ma anche voluta, allora è volontaria anche se non c’è il debito. Ad es. chi vede una rissa e non vuole intromettersi, compie una 6 Virtualmente. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 15 omissione volontaria, ma un omicidio eventuale che avviene nelle rissa per azione altrui, non gli sarà moralmente imputato, a meno che non abbia avuto il dovere preciso di intromettersi efficacemente (cf. il concetto di “omissione di atti d’ufficio” per i pubblici ufficiali). Stante il concorso divino e la proposizione dell’oggetto dalla parte dell’intelletto pratico, la volontà non può sospendere congiuntamente l’esercizio di ogni atto fisico. Quando si dice che la volontà può volere e non volere, s’intende dire che può sospendere la volizione divisivamente, ossia può lasciare un determinato atto e oggetto e attendere ad un altro. Esempio: la materia prima può essere priva di forma sostanziale divisivamente, non congiuntamente 7. Affinché l’omissione sia imputabile in vista della colpa o in sè o nel danno seguìto, non basta che sia volontaria procedendo dalla volontà, ma si richiede l’obbligo. La colpa esplicita il rapporto alla legge che si trasgredisce; il volontario invece dice rapporto alla volontà da cui procede. L’omissione volontaria considerata in specie a modo di opera o meglio di non-opera, non costituisce nè richiede nè include un atto sia esterno che interno. Se però si considera nel suo esercizio dalla parte dell’operante, l’omissione esige un atto non per essere costituita, ma per essere causata od occasionata. Nell’esercizio individuale l’omissione è o voluta direttamente con un atto interno (voler omettere di andare alla S.Messa di Domenica), od occasionata da un atto diverso, che non ha per oggetto diretto l’omissione, ma a cui l’omissione segue: ad es. volere andare a caccia di Domenica omettendo di andare alla S.Messa. L’effetto dell’omissione è moralmente imputabile solo se c’è l’obbligo morale di porre l’atto che si omette. Dio che avverte il peccato dell’uomo e può impedirlo con il concorso efficace, non ‘pecca’ omettendo di dare il concorso, perchè non ha nessun obbligo in questo senso 8. Similmente non pecca chi chiede un prestito all’usuraio, anche se prevede che l’usuraio peccherà chiedendo l’usura, perchè chi chiede il prestito usa del suo diritto. Non pecca di omicidio chi non impedisce una rissa in cui l’omicidio avviene, a meno che non abbia un preciso obbligo in questo senso, ecc. Articolo 4 - La volontà non può subire violenza. Mi Ciò che avviene per mezzo della volontà non avviene con necessità. Ma Ora, il violento (ciò che avviene per costrizione) è necessario. Co Perciò, ciò che avviene per mezzo della volontà, non può essere costretto. Argomento sistematico. Divisione: Duplice è l’atto della volontà: uno elicito (immediato) come lo stesso volere; l’altro imperato (procedente dalla volontà per mezzo di altre facoltà operative), come camminare o parlare. La tesi: 1. Quanto agli atti imperati dalla volontà, la volontà può subire violenza in quanto per violenza possono essere impedite le membra esterne, in modo tale da non poter eseguire il comando della volontà. 2. Quanto all’atto elicito, proprio della volontà, non è possibile far violenza alla volontà. 7 Ossia la si può pensare separata dalla forma sostanziale, ma nella realtà non può essere separata. Dio non ha nessun obbligo perché le conseguenze del peccato sono a carico della creatura. Tuttavia, dato che Dio è misericordioso, benché non sia obbligato a salvarci, lo fa per amore e con un amore così grande da averci donato suo Figlio che muore in croce per noi. Questo non toglie che l’uom col peccato rifiuti la divina misericordia. 8 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 16 La prova: Mi L’atto della volontà è una certa inclinazione procedente da un principio interno conoscente, come la tendenza naturale è inclinazione proveniente da un principio interno, ma senza conoscenza. Ma Ora, ciò che è costretto o estorto per violenza è da un principio esterno. Co Perciò è contro la stessa ragione (essenza) dell’atto della volontà (atto elicito della volontà) che sia costretto o violento, come il violento è contrario anche alla ragione del naturale. La pietra può essere violentemente lanciata in su, ma non è possibile che questo moto violento che le è stato imposto proceda dai suoi principi intrinseci e cioè dalla sua inclinazione naturale. Similmente un uomo può essere trascinato con violonza, ma che ciò derivi dalla sua volontà ripugna alla stessa ragione del violento. In altre parole: chi acconsente, non subisce più violenza, ma l’atto diventa volontario, perchè assecondato dalla sua volontà. Arg.1 Dio è più potente della volontà umana e perciò può costringerla. Risp. Dio, essendo più potente della volontà umana, la può muovere: Pro 21,1: “Il cuore del re è un canale d’acqua in mano al Signore: lo dirige dovunque egli vuole”. Ma se ciò avvenisse per violenza non sarerebbe più compatibile con 1’atto di volontà, nè sarebbe mossa la volontà, ma piuttosto qualcos’altro contro la volontà. Arg2 La volontà è una facoltà passiva e quindi è costretta dal suo principio attivo corrispondente. Risp. Non in ogni immutazione 9 del passivo dall’attivo c’è violenza, ma solo se tale immutazione avviene contro l’inclinazione del passivo. Infatti le generazioni, corruzioni ed alterazioni sono naturali a causa dell’attitudine interiore della materia o del soggetto a tali disposizioni. Similmente quando la volontà è mossa dal suo oggetto appetibile secondo la sua propria inclinazione, tale moto non è violento, ma volontario. Arg.3 Il moto della volontà può essere contro la natura, ad es. nel peccato. Risp. Ciò a cui la volontà tende peccando è un male contrario alla natura secondo la verità delle cose; eppure è considerato come buono e conveniente alla natura in quanto conviene all’uomo secondo qualche passione sensitiva o secondo qualche abito corrotto (vizio). -21QUESTIONE CONNESSA. La violenza e la volontà (GIOVANNI DI S.TOMMASO). Il necessario si oppone al contingente e all’indifferente e implica nella sua definizione la determinazione all’uno 10 escludendo l’alternativa. Il violento implica dalla parte di chi subisce violenza la stessa necessità e determinazione, ma aggiunge il fatto che tale necessità deriva da un principio estrinseco. Il costretto è quasi identico al violento, ma si dice propriamente solo degli agenti spontanei e volontari, cioè dotati di qualche conoscenza (almeno sensitiva). L’involontario si confonde talvolta con il costretto, ma siccome può derivare anche da altri fattori che dalla violenza, bisogna ammettere un’estensione concettuale maggiore dell’involontario rispetto al violento (costretto). E’ infatti involontario tutto ciò che si oppone al procedente dalla volontà e alla sua regola, che è la conoscenza previa. 9 Latinismo: mutamento. Corrisponde al latino determinatio ad unum. 10 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 17 Gli atti imperati dalla volontà sono violenti o costretti non in quanto procedono assolutamente dalla loro facoltà eliciente prossima (infatti da essa procedono in un modo vitale e connaturale), ma lo sono relativamente alla volontà imperante in quanto sono impediti nell’eseguire ciò che la volontà comanda. La volontà non subisce violenza nel cessare dal suo atto per sottrazione del concorso divino o dell’oggetto (anche se si trattasse dell’atto beatifico, s’intende per ipotesi assurda). Può subire però violenza in qualche modo indiretta, se per una causa particolare è impedita nell’agire. Quanto alla prima parte. La cessazione dall’atto per sottrazione del concorso divino o per assenza dell’oggetto è connaturale alla volontà e quindi non violenta (è naturale alla volontà non operare se non supponendo il concorso divino e la presentazione dell’oggetto). Quanto alla seconda parte. La volontà che attende ad un oggetto particolare si rattrista se l’oggetto le è sottratto da una causa esterna particolare. Così chi impedisce la presenza e la conoscenza di tale oggetto fa violenza alla volontà, ma indirettamente, perché si suppone che la volontà sia occupata circa tale oggetto (se ciò non fosse, la sottrazione dell’oggetto non causerebbe tristezza). In questo senso dice S.Tommaso, I-II, q.28, a.5, che il languore è effetto dell’amore in quanto dall’assenza dell’oggetto amato segue la tristezza. Supponendo nella volontà l’amore di un determinato oggetto e la fruizione della sua presenza, l’assenza dell’oggetto impedisce l’atto di fruizione e causa la tristezza facendo in tal modo indirettamente “violenza” alla volontà. -22Articolo 5 - La violenza causa l’involontario. Mi La violenza si oppone direttamente al volontario e al naturale. Infatti, sia il volontario che il naturale sono da un principio intrinseco, mentre il violento è per definizione da un principio estrinseco. Questa la è ragione per cui nelle cose prive di conoscenza la violenza fa qualcosa di contrario alla natura e nelle cose conoscenti fa qualcosa di contrario alla volontà. Ma Ora, ciò che è contro la natura si dice innaturale e ciò che è contro la volontà si dice involontario. Co Perciò la violenza causa l’involontario. Arg.1 L’involontario si dice per riferimento alla volontà, che non può subire violenza. Risp. L’involontorio si oppone al volontario e il volontario si verifica non solo negli atti eliciti dalla valontà, ma anche negli atti imperati da essa. Quanto all’atto elicito, la volontà non subisce violenza e quindi tale atto non può essere reso involontario dalla violenza. Quanto all’atto imperato invece la volontà può subire violenza e perciò riguardo a tale atto (cioè imperato) la violenza causa l’involontario. Arg.2 L’involontario è collegato con la tristezza, ma non sempre la violenza causa tristezza. Risp. Si dice naturale sia il principio attivo che muove naturalmente, sia il principio passivo che riceve il moto naturale. Similmente il volontario può essere considerato secondo l’azione, quando uno vuole agire e secondo la passione, quando uno vuole subire qualcosa da un principio esterno. Ora, finchè rimane in chi subisce la volontà di subire l’azione del principio esterno, tale azione non è violenta semplicemente, perché, anche se chi subisce non contribuisce agendo, contribuisce però volendo subire. Perciò un simile subire l’azione dell’agente esterno assecondandola con la volontà non può essere detto involontario. Arp.3 Alcune cose violente sono fatte con volontà: ad es., chi avendo un corpo pesante sale su o chi dispone gli arti contro la loro flessibilità naturale, ecc. Risp. Il moto animale con cui l’animale si muove contro la disposizione naturale del corpo, pur non essendo naturale al corpo, è però naturale rispetto all’animale al quale è naturale muoversi Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 18 secondo l’appetito. Perciò una simile azione non è violenta semplicemente, ma solo sotto un aspetto ristretto. Similmente chi contorce gli arti del corpo fa un’azione violenta rispetto a queste membra particolari del corpo, non però rispetto all’uomo intero. Articolo 6 - La paura non causa l’involontario semplicemente. Secondo ARISTOTELE e S.GREGORIO NISSENO ciò che avviene per paura è misto di volontario ed involontario. In sè infatti non è volontario, ma diventa volontario in quella situazione particolare per evitare il male che si teme. La tesi. Ciò che avviene per paura è più volontario che involontario. Infatti, è volontario semplicemente, involontario solo sotto un aspetto particolare. -23La prova. Ma Di ogni cosa si dice che è semplicemente in quanto è in atto; in quanto è solo nella apprensione cognitiva, non si dice essere semplicemente, ma solo secondo quell’aspetto particolare. Mi Ciò che avviene per paura è in atto secondo ciò che avviene. Prova della Mi: Mi1 L’atto consiste nel singolare. Ma1 Il singolare o particolare, come tale, è hic et nunc. 1 Co Perciò ciò che avviene è in atto in quanto è hic et nunc, cioè in quanto è sottoposto alle condizioni individuali. Co In tal modo ciò che avviene per paura è volontario in quanto avviene hic et nunc e cioè in quanto in quel caso particolare impedisce il male maggiore che si temeva (ad es. il gettare le merci nel mare diventa volontario nel tempo della tempesta a causa del timore del pericolo) ed è perciò volontario semplicemente. Al contrario, se si prende 11 ciò che avviene per paura in astratto e cioè al di fuori di quella situazione concreta in quanto ripugna alla volontà, ciò avviene solo per considerazione conoscitiva e quindi è involontario soltanto sotto un aspetto particolare e cioè in quanto si considera precisamente fuori di quella determinata situazione concreta 12. Arg.1 Come la violenza riguarda ciò che al presente contrasta con la volontà, così la paura riguarda ciò che contrasterà con la volontà nel futuro (pericolo incombente) e quindi dovrebbe causare l’involontario come lo causa la violenza. Risp. Ciò che avviene per violenza differisce da ciò che avviene per paura non solo secondo il presente ed il futuro, ma anche per il fatto che al violento la volontà non presta in nessun modo il suo consenso, ma tutto è contro il moto della volontà, ma ciò che avviene per paura diventa volontario perchè diventa oggetto della volontà non per sè, ma per un altro motivo che è quello di respingere il male temuto. Basta per il volontario che il volontario sia tale in vista di un altro volontario. Volontario infatti non è solo ciò che si vuole per sè come il fine, ma anche ciò che si vuole come un mezzo in vista di un altro fine. Nel violento la volontà non agisce affatto; agisce invece in ciò che si fa per paura. Per questo motivo S.GREGORIO NISSENO precisa la definizione 11 Considera. Considerando un’ipotesi astratta, la mia volontà non è concretamente implicata, per cui si dà un involontario, ma non del tutto perché appunto io penso a ciò che farei in quella situazione. 12 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 19 del violento: cuius principium est extra, nihil conferente vim passo 13, perchè in ciò che si fa per paura la volontà di chi teme dà un suo contributo. -24Arg.2 Ciò che si fa per paura è involontario secondo se stesso e quindi dovrebbe rimanerlo anche quando sopraggiunge la paura. Risp. Ciò che si dice in assoluto non cambia per l’aggiunta di qualcos’altro (come ad es. il caldo, il bianco, ecc.), ma ciò che si dice relativamente a qualcosa cambia secondo il rapporto a termini diversi: ad es. la cosa grande rispetto ad un’altra è piccola rispetto ad un’altra ancora. Il volontario si dice non per sè in assoluto, ma relativamente e come per un altro. Perciò nulla impedisce che una cosa in sè assolutamente involontaria diventi volontaria per il rispetto a qualcos’altro. Il volontario è essenzialmente relativo alla situazione concreta in cui avviene il suo atto o la sua omissione. Arg.3 Ciò che avviene per paura è semplicemente involontario, è volontario solo condizionatamente e quindi sotto un aspetto particolare (secundum quid). Risp. Ciò che avviene per paura è assolutamente volontario, cioè in quanto è attualmente eseguito; è invece condizionatamente involontario ossia a condizione che tale paura non minacci il soggetto. Perciò l’argomento prova l’opposto di quanto si è proposto. QUESTIONE CONNESSA. La volontà sotto l’influsso della paura (GIOVANNI DI S.TOMMASO). La volontà e l’azione procedente dalla paura includono in sè e richiedono l’uno e l’altro atto e motivo: uno condizionato (di non gettare la merce nel mare), l’altro incondizionato ed assoluto (di gettare la merce). Tali atti sono realmente distinti e procedono sotto motivi diversi: uno efficace (la scelta di gettare la merce); l’altro inefficace (la velleità di non gettare la merce). Un atto può rimanere senza l’altro. Ad es., dopo aver gettato le merci nel mare, i marinai possono non volere più compiere tale atto. Un atto avviene a modo di fuga (si è dissuasi infatti, anche se inefficacernente, dal gettare la merce), l’altro a modo di proseguimento (si è attratti dal gettare la merce in quanto ciò alleggerisce la nave e serve per scampare al pericolo). Ciò che avviene per paura è assunto dalla volontà in vista di un fine come utile e conveniente per esso. Infatti, talvolta si scelgono dei mezzi per un fine senza che piacciano in se stessi: ad es., si sceglie la medicina amara non perchè piacevole in sè, bensì perchè utile in vista della guarigione. In tal modo ciò che avviene per paura si sceglie come mezzo altrimenti in sè spiacevole, ma si sceglie di fatto supponendo il pericolo e la volontà di quel fine che è sottrarsi al pericolo. Siccome la volontà efficace causa il volontario simpliciter, ciò che avviene per paura è semplicemente volontario perché è oggetto della volontà efficace; al contrario ciò che avviene per paura è involontario secundum quid, perché è in contrasto con la velleità inefficace. I precetti naturali negativi devono essere adempiuti anche con grave timore (il timore grave non scusa dalla loro osservanza 14), i principi affermativi invece, sia naturali che positivi, sia divini che umani non obbligano nel caso di timore grave tranne in due situazioni eccezionali che sono: (a) quando il precetto positivo è posto con il pericolo di vita (così i soldati sono tenuti di difendere la patria e di aggredirne i nemici anche con pericolo di vita), (b) se la paura che si fa a qualcuno ha come scopo il disprezzo della legge (non disprezzare la legge diventa precetto negativo). 13 Ciò il cui principio è al di fuori, mentre il paziente non dà alcun contributo alla violenza che gli viene inferta. Il timore, quando diventa panico, esercita una forma di violenza sul soggetto, per la quale il volontario può diminuire fino a scomparire del tutto, come nel caso della pazzia. In questi casi l’azione criminosa è evidentemente scusata o in tutto o in parte. 14 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 20 -25Articolo 7 - La concupiscenza non causa l’involontario. Ma S.Giovanni DAMASCENO dice che “l’involontario è degno di misericordia e di indulgenza ed è compiuto con tristezza”. Mi Nessuna di queste caratteristiche conviene a ciò che avviene per concupiscenza 15. Co Perciò la concupiscenza non causa l’involontario. Argomento sistematico. La tesi: La concupiscenza non causa l’involontario, ma piuttosto contribuisce a rendere un atto più volontario. Ma Qualcosa si dice volontario per il fatto che la volontà si porta in esso come nel suo oggetto. Mi Ora, per mezzo della concupiscenza la volontà è inclinata a volere ciò che si desidera con concupiscenza. Co Perciò la concupiscenza contribuisce piuttosto a rendere un atto (o una omissione) più volontario che a renderlo involontario. Arg.1 Sia la concupiscenza che la paura sono delle passioni. Sembra quindi che se la paura causa l’involontario secundum quid, anche la concupiscenza debba causare in qualche modo l’involontario. Risp. Occorre notare la differenza psicologica tra la paura e la concupiscenza. La paura riguarda il male da fuggire, la concupiscenza invece il bene da perseguire. Ebbene il male ripugna alla volontà, mentre il bene le conviene. Di conseguenza la paura è più incline per la sua stessa struttura psicologica a causare l’involontario che non la concupiscenza. Arg.2 Per paura il timido agisce contro ciò che si proponeva e similmente agisce l’incontinente a causa della concupiscenza. Risp. In chi agisce per paura rimane attualmente la ripugnanza della volontà riguardo a ciò che si fa al presente se il fatto è considerato in sè (in astratto). In chi agisce per concupiscenza non rimane attualmente la volontà precedente che contrastava con il desiderio, ma è cambiata a volere al presente ciò che prima respingeva. Di conseguenza ciò che si fa per paura è involontario almeno in qualche modo; invece ciò che si fa per concupiscenza non è involontario in nessun modo. Infatti chi è incontinente di concupiscenza agisce in contrasto con ciò che prima si proponeva, ma non in contrasto con ciò che vuole attualmente; il timido invece agisce in contrasto anche con ciò che attualmente vuole secondo se stesso 16. Può però succedere che la concupiscenza causi l’involontario per accidens in quanto all’oggetto desiderato è aggiunto qualche male che non si vuole in se stesso. Ad es. il lussurioso che è allo stesso tempo avaro vuole il piacere anche se ciò risulta dispendioso. Arg.3 La concupiscenza corrompe la conoscenza richiesta nel volontario. Risp. Se la concupiscenza togliesse del tutto la conoscenza (come avviene in chi impazzisce per concupisceriza passionale), ne seguirebbe che la concupiscenza toglie il volontario interamente. In tal caso non vi sarebbe però propriamente parlando nemmeno l’involontario, perchè in chi è privo dell’uso della ragione non c’è nè volontario nè involontario. 15 S’intende la concupiscenza di per sé controllabile dalla volontà: in questo caso la volontà peccaminosa viene rafforzata. Se invece la concupiscenza è violenta, il volontario diminuisce, fino a scomparire del tutto nei casi patologici che sono materia della psichiatria. 16 Latinismo: di per sé. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 21 Talvolta però la concupiscenza non toglie la facoltà conoscitiva, ma impedisce solo la considerazione attuale riguardo all’agibile particolare. Ciò però risulta volontario. Infatti, come è nella potestà della volontà il non agire e il non volere, così anche il non considerare. L’uomo in questo stato può resistere alla passione e se non lo fa, la sua inconsiderazione è volontaria ed imputabile. QUESTIONE CONNESSA. La concupiscenza e la libertà (MERKELBACH). La concupiscenza conseguente segue il volontario e quindi non lo causa nè lo impedisce, ma lo manifesta soltanto come un segno. La concupiscenza antecedente causa piuttosto il volontario che l’involontario, ma, pur aumentando il volontario, diminuisce il libero 17. Ciò che avviene per concupiscenza antecedente è più volontario, ma meno libero. Infatti questo tipo di concupiscenza: (a) sempre aumenta il volontario impropriamente detto, perchè essa stessa come appetito indeliberato è in questo modo “volontaria” per la sua stessa natura. (b) generalmente aumenta anche il volontario propriamente detto per quanto riguarda l’inclinazione e la propensione perchè la volontà si porta con maggiore intensità ad un oggetto proposto dall’intelletto come un oggetto della concupiscenza; lo diminuisce però quanto all’indifferenza del giudizio e di conseguenza quanto alla deliberazione. La concupiscenza infatti fa sì che l’intelletto percepisca meno la ragione del male nell’oggetto diminuendo così il libero e quindi la moralità (nel bene o nel mole) dell’atto. (c) talvolta una concupiscenza troppo veemente toglie la deliberazione e l’uso della ragione e quindi sia il volontario propriamente detto che il libero, ma non causa l’involontario propriamente detto perchè questo ci può essere solo in un soggetto dotato dell’uso della ragione. Articolo 8 - L’ignoranza può causare l’involontario. L’ignoranza causa l’involontario precisamente in quanto priva della conoscenza che è presupposta come condizione necessaria del volontario. Non ogni tipo di ignoranza produce una tale privazione di conoscenza e quindi occorre distinguere: -271. L’ignoranza concomitante riguardo all’atto della volontà si verifica quando l’ignoranza riguarda ciò che si fa eppure ciò si farebbe, anche se non s’ignorasse. In tal caso l’ignoranza non conduce a volere che il fatto avvenga, ma accade accidentalmente che qualcosa sia simultaneamente fatto ed ignorato. Esempio: Un uomo vuole uccidere il nemico e lo uccide, ma lo uccide pensando di uccidere un cervo. Tale ignoranza non causa l’involontario perchè non causa qualcosa che sia ripugnante riguardo alla volontà, ma causa il non volontario perchè non può essere attualmente voluto ciò che è ignorato. 2. L’ignoranza conseguente all’atto di volontà si verifica quando la stessa ignoranza è volontaria il che avviene in due modi secondo i due tipi del volontario (di commissione e di omissione): 17 Il volontario come tale non dice ancora libero arbitrio, ma semplicemente impulso verso il bene intellegibile. Questo impulso fa parte della natura della volontà e non è detto che sia governabile dalla medesima volontà, carattereristica, questa, che invece è propria del libero arbitrio. Per questo il libero è sempre un volontario, ma non è detto che un volontario sia sempre libero. La pienezza della colpa non sta nel semplice volontario, ma nel libero, perché è in questo che si attua in pienezza il volontario, che è legato alla colpa. Pertanto l’Autore qui intende dire che nei peccati di concupiscenza c’è sì il volontario, ma non necessariamente il libero e quindi non necessariamente una colpa grave. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 22 a. lo stesso atto di volontà si porta all’ignoranza: ad es. uno vuole ignorare per avere una scusa del peccato o per non essere impedito nel peccare. Tale ignoranza si dice finta (affectata). b. l’ignoranza può essere anche volontaria riguardo a ciò che uno può e deve conoscere, ma: a. attualmente non lo considera: ignoranza di cattiva scelta (malae electionis) che deriva alla passione o dall’abito, b. non si sforza di procurarsi la conoscenza che deve avere: l’ignoranza del diritto (nei suoi contenuti universali che uno deve conoscere) è volontario in quanto deriva dalla negligenza: • ignoranza strettamente vincibile: uno cerca di vincere l’ignoranza, ma non sufficientemente riguardo alle esigenze del suo stato; • ignoranza crassa: uno non adopera nessuna diligenza per acquistare la scienza; • ignoranza supina: uno non adopera nessuna diligenza per superare l’ignoranza. Tale ignoranza è sempre volontaria in qualcuno dei modi sopra indicati e perciò non può causare l’involontario simpliciter, ma può causarlo secundum quid in quanto porta a fare qualcosa che non si farebbe se si conoscesse. 3. L’ignoranza antecedente rispetto all’atto di volontà. Si verifica quando l’ignoranza stessa non è volontaria, eppure è causa di volere ciò che l’uomo altrimenti non vorrebbe. Esempio: Uno che ignora una circostanza alla cui conoscenza non è tenuto e di conseguenza fa qualcosa che non avrebbe fatto se avesse conosciuto (un cacciatore dopo aver adoperato ogni diligenza, non sapendo che qualcuno passa per strada, spara e lo uccide). Tale ignoranza causa l’involontorio simpliciter. Arg.1 L’involontario merita venia; non così tutto ciò che avviene per ignoranza. Risp. Non merita venia l’ignoranza di ciò che uno è tenuto a sapere. Arg.2 In ogni peccato c’è ignoranza e quindi se ogni ignoranza è involontaria ogni peccato è involontario, il che è assurdo. Risp. L’ignoranza racchiusa nel peccato è l’ignoranza voluta e scelta (ignorantia malae electionis). Uno sceglie di non considerare hic et nunc i dettami della legge morale. -28Arg.3 L’involontario è legato alla tristezza, ma non ogni ignoranza è con tristezza; ad es. chi uccide il nemico che vuole uccidere pensando di uccidere il cervo non se ne rattrista. Risp. Tale ignoranza è concomitante e causa non l’involontario, ma il non volontario. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 23 Q.VII. LE CIRCOSTANZE. • in sé: definizione (essenza) (1) oggetto della teologia morale (2) • riguardo a proprietà particolari: numero (3) gradualità di importanza (4) Art.1 La circostanza è l’accidente dell’atto umano. Ma Le condizioni particolari di ogni cosa singola si dicono accidenti individuanti. Mi ARISTOTELE chiama le circostanze i “particolari”, cioè delle condizioni particolari di atti singoli. Co Perciò le circostanze sono degli accidenti individuali degli atti umani. Argomento sistematico: Ma I nomi sono segni di concetti e quindi secondo il processo della conoscenza intellettiva (concettuale) avviene anche il processo della denominazione. Mi Ora, la nostra conoscenza intellettiva procede dalle cose più note a quelle meno note. Co Perciò nel procedere denominativo umano i nomi di cose più note vengono trasferiti per significare cose meno note. In questo modo: • dal luogo il nome “distanza” è trasferito per significare ogni contrarietà, • i nomi che significano il moto locale sono trasferiti per significare altri tipi di moto e • il nome di circostanza (ciò che sta attorno) è trasferito dalle cose collocate in luogo a significare qualcosa riguardo agli atti umani. =Ma1 Mi1 Nel luogo si dice che “sta attorno” qualcosa che è estrinseco alla cosa stessa, eppure arriva a contatto con essa o si avvicina ad essa secondo il luogo. 1 Co Perciò tutte le condizioni esterne alla sostanza dell’atto, che però arrivano a contatto con l’atto, si dicono circostanze. =Mi2 Ma2 Ora, ciò che è esterno riguardo alla sostanza della cosa, eppure spetta alla cosa stessa, è detto “accidente”. Co2 Perciò le circostanze degli atti umani devono essere chiamate loro accidenti. -29Arg.1 CICERONE dice che “circostanza è ciò per mezzo di cui il sermone aggiunge autorità e fermezza all’argomento” il che sembra avvenire però piuttosto per mezzo di ciò che spetta alla sostanza delle cose: ad es. per mezzo della definizione, del genere, della specie, ecc. Risp. Il sermone conferma l’argomento in primo luogo dalla sostanza dell’atto, in secondo luogo da ciò che sta attorno all’atto. Così qualcuno si dice imputabile in primo luogo per il fatto che ha compiuto un omicidio, in secondo luogo per il fatto che lo compì con inganno, a scopo di lucro, in tempo o luogo sacro, ecc. Perciò dice che per mezzo della circostanza il sermone aggiunge (quasi secondariamente) conferma all’argomento. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 24 Arg.2 L’accidente ha la proprietà di inerire, ma ciò che sta attorno è piuttosto esterno. (a) (b) Resp. Qualcosa si dice accidente in due modi: ciò che inerisce alla cosa: così il bianco si dice accidente di Socrate; ciò che è simultaneamente con un’altra realtà nello stesso soggetto: così il bianco è accidente (si aggiunge accidentalmente) all’erudito in quanto le due determinazioni convengono e in qualche modo si toccano nello stesso soggetto. E in questo modo le circostanze si dicono accidenti dell’atto umano, perchè insieme con l’atto umano si realizzano nello stesso uomo che dal suo atto immanente è moralmente qualificato. Arg.3 Non v’è accidente dell’accidente, ma gli stessi atti umani sono degli accidenti. Risp. Si dice che un accidente conviene accidentalmente ad un altro accidente, perchè entrambi convengono nello stesso soggetto; il che poi avviene in due modi: a. due accidenti si dicono riguardo ad un soggetto senza alcun ordine come il bianco e l’erudito si dicono di Socrate; b. si dicono dello stesso soggetto con un certo ordine in quanto il soggetto riceve un accidente mediante l’altro (ad es. il corpo riceve il colore mediante la superficie) e così si può dire che un accidente inerisce all’altro come il colore alla superficie. Le circostanze si rapportano all’atto nell’uno e nell’altro modo: alcune circostanze ordinate all’atto spettano all’agente senza la mediazione dell’atto, come ad es. il luogo e la condizione della persona, altre circostanze spettano all’agente mediante il suo atto come ad es. il modo di agire. -30Articolo 2 - Il teologo deve considerare le circostanze degli atti umani. • • Mi L’ignoranza delle circostanze può causare l’involontario (DAMASCENO, GREGORIO DI NISSA). Ma Ora, l’involontario scusa dalla colpa, la cui considerazione spetta al teologo. Co Perciò la considerazione delle circostanze spetta al teologo. Argomento sistematico. La tesi. Le circostanze appartengono alla considerazione del teologo. Argomento I. Ma Il teologo considera gli atti umani in quanto per mezzo di essi l’uomo è ordinato alla beatitudine e quindi considera gli atti umani come proporzionati alla beatitudine in quanto tutto ciò che è ordinato al fine dev’essere proporzionato al fine. Mi Ora, gli atti umani sono proporzionati al fine secondo una certa commisurazione, che avviene per mezzo delle circostanze dovute. Co Perciò la considerazione delle circostanze spetta al teologo. Argomento II. Mi Il teologo considera gli atti umani in quanto vi è in essi il bene e il male, il meglio e il peggio. Ma Ora, il bene e il male, il meglio e il peggio, sono diversificati secondo le circostanze. Co Perciò il teologo considera le circostanze Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 25 Argomento III. Ma Il teologo considera gli atti umani come meritori e demeritori e quindi come volontari, perché per il merito e il demerito si richiede il volontario. Mi Ora, l’atto umano si giudica volontario o involontario secondo la conoscenza o ignoranza delle circostanze. Co Perciò considerare le circostanze spetta al teologo. Arg.1 Le circostanze essendo esterne non possono qualificare l’atto umano. Risp. Mi Il bene ordinato al fine si dice utile secondo relazione (come il bene che è utile nell’essere per l’altro). Ma Ora, ciò che si dice secondo relazione è denominato non solo da ciò che inerisce, ma anche da ciò che è esteriormente adiacente (ad es. destra, sinistra; uguale, disuguale, ecc.). Co Perciò, siccome la bontà degli atti consiste nel loro essere utili al fine, nulla vieta che si dicano buoni o cattivi secondo qualcosa di adiacente dal di fuori. Arg.2 Gli accidenti essendo potenzialmente infiniti non sono oggetto di scienza, ma solo di sofistica. Risp. Gli accidenti del tutto accidentali non sono oggetto di scienza a causa della loro incertezza ed infinità. Le circostanze però, pur essendo estrinseche all’atto, arrivano nondimeno a contatto con esso e sono ordinate ad esso. E tali accidenti, per sé 18 ossia propri, sono oggetto dell’arte (e della scienza). -31Arg.3 La considerazione delle circostanze spetta alla retorica, che non fa parte della teologia. Risp. La considerazione delle circostanze spetta al moralista, al politico e al retore: al moralista in quanto per mezzo di esse si realizza o meno il mezzo della virtù negli atti umani e nelle passioni umane, al politico e al retore in quanto dalle circostanze gli atti sono resi lodevoli o riprovevoli, scusabili o imputabili, ma in modo diverso: al retore in quanto persuade; al politico (giudice, avvocato, ecc.) in quanto giudica. Al teologo (al cui servizio sono tutte le altre arti) le circostanze convengono in tutti questi modi. Egli infatti considera insieme con il moralista gli atti virtuosi e viziosi; li considera invece come da punire o da premiare insieme con il retore e il politico. — — Articolo 3 - Il numero delle circostanze. Cf. auctoritas Philosophi in Eth. Nic.III, c.2; 1111 a 3-6. CICERONE enumera sette circostanze contenute nel versetto: Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando. ARISTOTELE aggiunge un’ottava circostanza circa quid che in CICERONE è compresa sotto la circostanza quid. Il motivo dell’elenco delle circostanze. La loro derivazione progressiva dal contatto con l’atto umano. La circostanza si dice ciò che, pur esendo estraneo alla sostanza dell’atto, nondimeno arriva a contatto con esso; il che può accadere in tre modi: 18 Latinismo: necessari. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 26 1. in quanto la circostanza arriva a contatto con l’atto stesso: a. a modo di misura: del tempo: quando del luogo: ubi (dove) b. a modo di qualità: quomodo (modus agendi), 2. in quanto arriva a contatto con la causa dell’atto: a. quanto alla causa finale: propter quid (cur) b. quanto alla causa quasi-materiale (oggetto): circa quid c. quanto alla causa agente principale: quis d. quanto alla causa strumentale: quibus auxiliis, 3. in quanto arriva a contatto con l’effetto dell’atto: quid. -32Arg.1 La circostanza è esterna all’atto e quindi vi sono solo due circostanze: il tempo e il luogo (che soli sono determinazioni esterne). Risp. Il tempo e il luogo stanno attorno all’atto umano a modo di misura; le altre circostanze invece, in quanto lo raggiungono in qualsiasi altro modo essendo però al di fuori della sua sostanza. Arg.2 Dalle circostanze si giudica il bene e il male dell’atto; il che è dato nel modo di agire, cosicchè solo il modo è circostanza. Risp. Il modo del bene e del male non è circostanza, ma segue tutte le circostanze. Il modo si pone come circostanza speciale in quanto spetta alla qualità dell’atto: ad es. camminare velocemente o lentamente, picchiare forte o leggermente, ecc. Arg.3 Ia causa dell’atto appartiene alla sua sostanza e quindi non ci devono essere le circostanze causali (quis, propter quid, circa quid). Risp. Le condizione della causa da cui dipende la sostanza dell’atto umano non si pone come circostanza, si pone invece come circostanza una condizione causale aggiunta. Così nell’oggetto del furto non si pone come circostanza il fatto che il bene è di un altro, perchè questo appartiene alla sostanza del furto, ma piuttosto la quantità del bene in cui il prossimo è stato danneggiato. Similmente non è circostanza il fine specificante (dell’opera), ma il fine aggiunto (dell’operante). Ad es. il fatto che il forte agisca per il bene della fortezza non è circostanza, ma specie dell’atto; il fatto però che agisca fortemente per liberare la patria o il popolo cristiano o qualcosa del genere è circostanza. Nel quid dell’abluzione con l’acqua - ciò che si fa - il fatto del lavaggio non è circostanza, ma il fatto che lavando si scalda o si rinfresca, si favorisce la salute o si danneggia è invece circostanza. Articolo 4 - Le circostanze principali sono propter quid (ciò per cui si agisce) ed ea in quibus est operatio (ciò in cui consiste l’azione). Mi L’atto si dice propriamente umano in quanto è volontario. Ma Ora, il motivo e l’oggetto della volontà è il fine. Co Perciò: a. la circostanza più importante tra tutte è quella che raggiunge l’atto dal lato del fine (cuius gratia), b. la seconda circostanza nell’ordine d’importanza è quella che raggiunge la stessa sostanza dell’atto (quid fecit), c. tutte le altre circostanze sono più o meno importanti secondo la loro distanza da queste due circostanze principali. Arg.1 L’atto si svolge nel luogo e nel tempo che sono estrinseci e quindi non sembrano essere circostanze più importanti. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 27 Risp. Per ciò in cui si svolge l’azione non s’intende il luogo, ma ciò che è aggiunto all’atto stesso (quid agitur). Arg.2 Il fine è estrinseco rispetto alla realtà finalizzata. Risp. Il fine, pur non essendo della sostanza dell’atto, è nondimeno la sua causa principalissima, in quanto muove all’atto. Perciò l’atto morale trae la sua specificazione massimamente dal fine. -33Arg.3 Le determinazioni principali di ogni cosa sono la causa e la forma e quindi le circostanze principali sembrano essere il “chi agisce” (quis) e il modo di agire (quomodo). Risp. La persona che agisce è causa dell’atto in quanto è mossa dal fine e così è principalmente ordinata all’atto; le altre condizioni della persona invece non sono così direttamente ordinate all’atto. Il modo non è la forma sostanziale dell’atto, perchè la forma sostanziale si riconosce nell’atto secondo l’oggetto e il termine (il fine), ma è una certa qualità accidentale. Q. VIII - L’OGGETTO DELLA VOLONTA’. Prima si considerano gli atti eliciti, poi (q.17) quelli imperati. Negli atti eliciti prima si devono considerare gli atti riguardanti il fine, poi gli atti riguardanti i mezzi al fine (q.13). Gli atti riguardanti il fine sono tre: il volere, il godere (q.11) l’intendere (q.12). • • Circa il volere ci si chiede: qual è il suo oggetto qual è il suo motivo (q.9) quale è il modo in cui si muove (q.10). L’oggetto della volontà (il voluto): in genere = il bene (1) in particolare: quanto all’oggetto = fine e mezzi (2) quanto al moto del soggetto verso il fine e i mezzi secondo la sua unità o pluralità (3). Art.1 La volontà ha per oggetto soltanto il bene. PSEUDODIONIGI, De divinis nominibus, cap.4; MPG 3,732 C e 708 A, dice che “il male è al di là della volontà” e che “ogni cosa desidera il bene”. Argomento di ragione. I. Per ogni appetito in genere. Mi La volontà è un certo appetito razionale. Ma Ora ogni appetito è solo del bene. Co Perciò anche la volontà è solo del bene. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 28 Prova della Ma: Ogni appetito è solo del bene. Mi L’appetito è l’inclinazione dell’appetente in qualcosa di simile e di conveniente. Ma Ora, ogni cosa in quanto è ente e sostanza è un bene così che l’inclinazione di ogni cosa è in un’altra cosa (ente) e quindi in un certo bene. Co Perciò ogni appetito è del bene. Perciò osserva ARISTOTELE che “il bene è ciò che tutte le cose desiderano”. -34II. Per la volontà in specie. Mi Ogni inclinazione (appetito) segue una certa forma (nell’agente). Ma Ora, l’appetito naturale segue una forma esistente in natura; l’appetito sensitivo e quello razionale (volontà) seguono invece una forma conosciuta. Co Perciò: a) ciò a cui tende l’appetito naturale è il bene realmente esistente, b) ciò a cui invece tende l’appetito animale o volontario è il bene conosciuto (sensitivo o intellettivo). CONCLUSIONE: Affinchè la volontà tenda in qualcosa, non si richiede che ciò sia buono secondo la verità delle cose, ma basta che sia conosciuto nella ragione del bene. ARISTOTELE dice perciò che il fine è il bene (reale) o (il bene) che appare come bene. Arg.1 La stessa facoltà riguarda gli opposti dello stesso genere: ad es. la vista è del bianco e del nero. Quindi sembra che la volontà riguardi sia il bene che il male. Risp. La stessa facoltà riguarda gli opposti, ma non allo stesso modo. In tal modo la volontà riguarda il bene e il male, ma riguarda il bene desiderandolo, il male invece fuggendolo. Perciò l’appetito attuale del bene si chiama volontà in quanto dice l’atto della volontà; e così si parla ora della volontà. La fuga dal male si dice piuttosto “nolontà” 19. Di conseguenza la volontà è del bene, la nolontà del male. Arg.2 La volontà come facoltà razionale è ordinata a perseguire gli opposti e cioè sia il bene che il male. Risp. La facoltà razionale non persegue tutti gli opposti, ma precisamente quelli che sono contenuti nel suo oggetto conveniente. Infatti, nessuna facoltà persegue se non il suo oggetto conveniente (che la definisce connaturalmente). Ora, essendo l’oggetto della volontà il bene, la volontà persegue gli opposti compresi nel bene come muoversi o riposarsi, parlare o tacere e altre cose del genere, alle quali la volontà si porta sotto la ragione del bene (che è il suo oggetto formale proprio). Arg.3 Il bene è convertibile con l’ente, ma la volontà non è solo degli enti, ma anche dei nonenti, ad es. delle cose future. Risp. Ciò che è non ente nella natura delle cose è conosciuto come ente di ragione e così le privazioni e negazioni si dicono enti di ragione. Così anche le cose future, in quanto sono conosciute, sono degli enti. Come tali poi, cioè come enti almeno di ragione, le cose future sono conosciute sotto la ragione del bene e così la volontà tende ad esse. Perciò ARISTOTELE dice che “essere privi del male ha già ragione di bene”. Articolo 2 - La volontà riguarda sia il fine che i mezzi. 19 Dal latino noluntas, che vuol dire non-volere. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 29 Argomento fondato sull’analogia con le cose naturali. -35Ma Nelle cose naturali il soggetto per mezzo della stessa potenza attraversa i mezzi e arriva al termine. Mi Ora, ciò che è ordinato al fine è come un mezzo attraverso il quale si arriva al fine come al termine. Co Perciò, se la volontà riguarda il fine, essa stessa riguarda anche i mezzi per il fine. Argomento per sè 20 (con mezzo dimostrativo univoco). I. La volontà in quanto è potenza operativa si estende sia al fine che a ciò che è ordinato (come mezzo) al fine. Ma La potenza operativa si estende a tutte quelle cose nelle quali si trova o si può trovare in un modo qualsiasi la regione formale del suo oggetto. Esempio: La vista si estende ad ogni colore. Mi Ora, la ragione del bene che è l’oggetto formale proprio della volontà si trova non solo nel fine, ma anche in ciò che è ordinato (come un mezzo) al fine. Co Perciò la potenza operativa detta “volontà” si estende sia al fine che ai mezzi. II. La volontà in quanto dice propriamente l’atto riguarda, propriamente parlando, solo il fine. Mi L’atto denominato dalla potenza dice il semplice atto della potenza. Ad es. conoscere intellettivamente dice il semplice atto dell’intelletto. Ma Ora, l’atto semplice della potenza operativa si porta a ciò che è oggetto della potenza. Co Perciò l’atto denominato dalla potenza (in questo caso dalla volontà) si porta a ciò che è oggetto proprio della potenza. =Mi1 Ma1 Ora, l’oggetto della volontà è ciò che è buono di per sè ed è voluto di per sé; il che è il fine (come sommo analogato nell’ordine dei beni). Co1 Perciò: la volontà (come atto denominato dalla potenza = la simplex volitio) è propriamente volontà dello stesso fine, i mezzi per il fine non sono buoni e voluti di per sé, ma per il loro ordine al fine e la volontà non si porta ad essi se non in quanto si porta al fine, cosicchè ciò che la volontà vuole nei mezzi è il fine. Similmente il conoscere intellettivo è propriamente dei principi di per sè conosciuti, è delle conclusioni derivate dai principi solo in quanto in esse si considerano gli stessi principi. Arg.1 La volontà è del fine, la scelta è dei mezzi. Risp. Ciò è vero riguardo alla volontà come atto semplice denominato dalla potenza, non riguardo alla volontà come potenza operativa. 20 Latinismo per dire: necessario. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 30 -36Arg.2 Il fine (bene onesto e dilettevole) è nel genere della qualità o in quello di azione/passiore; il mezzo (bene utile) è nel genere della relazione. Risp. A ciò che è genericamente diverso e reciprocamente ordinato come alla pari (ex aequo) sono ordinate diverse potenze come la vista al colore, l’udito al suono. Ma l’utile e l’onesto non sono reciprocamente ordinati come alla pari, ma come ciò che è secondo se stesso e ciò che è secondo un altro. E tali oggetti si riferiscono sempre alla stessa potenza operativa come per la vista si apprende sia il colore che la luce, per mezzo della quale si vede il colore. Arg.3 Negli abiti detti “arti operative” alcuni riguardano il fine (come all’arte del timoniere spetta il governo della nave); altri invece riguardano i mezzi (come l’arte costruttiva delle navi riguarda la produzione della nave che è come mezzo al fine). Risp. Non tutto ciò che diversifica l’abito, diversifica anche la potenza; gli abiti infatti sono delle determinazioni della potenza per degli atti speciali. Eppure ogni arte riguarda sia il fine che ciò che è ordinato al fine. In tal modo l’arte del timoniere riguarda il fine (ciò che fa) 21 e il mezzo (ciò che comanda) 22; l’arte costruttiva delle navi riguarda il mezzo (ciò che fa) 23 e il fine (ciò a cui ordina ciò che fa) 24. Inoltre in ogni arte operativa vi è un certo fine proprio e qualcosa che è (come mezzo) per il fine e che spetta propriamente a tale arte. QUESTIONE CONNESSA. Il bene del fine e dei mezzi (GIOVANNI DI S.TOMMASO). Il bene conviene analogicamente al fine e ai mezzi. Eppure non conviene ai mezzi solo estrinsecamente, ma anche intrinsecamente, seppure in relazione e in dipendenza dal fine, e così vi è tra il fine e i mezzi piuttosto un’analogia di proporzionalità che un’analogia di attribuzione. L’oggetto adeguato della volontà è il bene che astrae dal bene del fine e dei mezzi, così però che tutta la ragione ultima e completiva dell’oggetto è la bontà del fine. I mezzi secondo se stessi hanno soltanto una bontà relativa e dipendente dal fine, anche se intrinseca a loro e così sono oggetto materiale della volontà attinto dalla volontà sotto la ragione formale della bontà del fine. Articolo 3 - Con atti diversi la volontà si muove verso il fine e i mezzi. Mi Gli atti sono specificamente diversificati secondo gli oggetti. Ma Ora, il fine e il mezzo (che si dice “utile”) sono specie diverse del bene. Co Perciò la volontà si porta al fine e ai mezzi non con lo stesso atto, ma con atti diversi. Argomento sistematico. Essendo il fine voluto per se stesso e ciò che è per il fine come tale non essendo voluto se non per il fine, è ovvio che la volontà può portarsi al fine senza portarsi a ciò che è ordinato al fine, ma non può portarsi a ciò che è ordinato al fine, in quanto è tale, senza portarsi allo stesso fine. - 37Di conseguenza la volontà si porta al fine in due modi: (a) in un modo assolutamente 25, secondo il fine stesso, (b) in un altro modo in quanto il fine è la ragione di volere i mezzi che sono ad esso ordinati. 21 Guida la nave. Comanda al timone. 23 Costruisce la nave. 24 Perché la nave navighi. 25 In un modo assoluto. 22 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 31 Conclusione. La volontà si porta al fine in quanto è la ragione di volere i mezzi ordinati ad esso e ai mezzi stessi con un unico moto. Diverso è però l’atto con cui la volontà si porta al fine in assoluto e talvolta precede secondo il tempo. Esempio: un uomo prima vuole la salute in assoluto, poi deliberando sul come guarire vuole invitare un medico per ottenere la guarigione. Analogia con l’intelletto: Prima si conoscono gli stessi principi di per sè noti in essi stessi, poi si conoscono nelle conclusioni in quanto l’intelletto si dichiara d’accordo con le conclusioni a causa dei principi dai quali derivano. Arg.1 La volontà non vuole i mezzi se non per il fine e perciò vuole entrambi con un unico atto. Risp. Ciò è vero riguardo alla volontà che si porta al fine in quanto è la ragione del volere i mezzi. Arg.2 Il fine è la ragione di volere i mezzi come la luce è la ragione per cui si vedono i colori. Perciò come con un unico atto si vedono la luce e i colori, così con un unico atto si dovrebbe volere il fine e i mezzi. Risp. Quando si vede il colore, sempre si vede anche la luce, ma si può vedere la luce senza vedere il colore. Similmente quando uno vuole i mezzi al fine con lo stesso atto vuole anche il fine, ma non viceversa. Arg.3 Un unico moto naturale attraversa gli intermedi per raggiungere il termine e similmente un unico moto di volontà dovrebbe portarsi al fine e ai mezzi ordinati al fine. Risp. Nell’esecuzione dell’opera ciò che è ordinato al fine è come un mezzo (qualcosa di intermedio); il fine invece è come un termine. Perciò, come il moto naturale può fermarsi nel mezzo senza arrivare al termine, può accadere che qualcuno realizza un mezzo senza arrivare al fine. Nel volere invece si verifica l’ordine contrario: per mezzo del fine la volontà arriva a volere ciò che è per il fine come l’intelletto arriva alla conclusione per mezzo dei principi che si dicono appunto “mezzi”. Perciò l’intelletto talvolta conosce il mezzo senza arrivare alla conclusione. E la volontà talvolta vuole il fine senza procedere a volere ciò che è ordinato al fine. Precisazione al sillogismo introduttivo (nel sed contra). L’utile e l’onesto non sono divisioni univoche (ex aequo) del bene, ma l’uno (l’utile) è per l’altro (l’onesto). Perciò l’atto di volontà si può portare all’onesto senza portarsi all’utile, ma non viceversa. L’uno (l’onesto) è come il di per sé voluto, mentre l’altro (l’utile) è come il voluto per l’altro (cioè per l’onesto). Di conseguenza si può volere l’uno senza l’altro (l’onesto senza l’utile), ma non viceversa (cioè non si può volere il secondo senza il primo, l’utile senza l’onesto). Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 32 -38Q. IX IL MOTIVO DELLA VOLONTA’. • Oggettivo: intelletto (1) appetito sensitivo (2) • soggettivo: interno: la volontà si muove da sè (3) esterno: in genere (4) in particolare: • corpo celeste (5) • Dio (6) Articolo 1 - La volontà è mossa dall’intelletto. Argomento d’autorità. AR1STOTELE, De Anima III, c. 10; 433 b 10-21, dice che “l’appetibile intellettivamente conosciuto è movente non mosso; la volontà invece è movente mosso”. Argomento sistematico. Distinzione. Mi Una realtà ha bisogno di essere mossa da un’altra realtà in quanto è in potenza a più determinazioni (infatti, ciò che è in potenza deve essere ridotto in atto per mezzo di una realtà che è in atto e questo è appunto il muovere). Ma Una facoltà dell’anima può essere in potenza a più determinazioni in un duplice modo: a) quanto all’agire e al non-agire (esercizio), b) quanto a fare questo o quest’altro (specificazione). Co Due sono i modi in cui una facoltà dell’anima può avere bisogno di essere mossa da qualcos’altro: a) quanto all’esercizio dell’atto (uso) e b) quanto alla determinazione (specifica) dell’atto. Il primo (a) deriva dal soggetto in quanto talvolta è agente e talvolta non agente, il secondo (b) deriva dall’oggetto in quanto specifica l’atto. I. Il moto dalla parte del soggetto. Mi Il moto del soggetto è da un agente che agisce per il fine, cosicchè il principio di questo moto è il fine. Il segno di questo è il fatto che l’arte del fine comanda l’arte che riguarda i mezzi: ad es. l’arte del timoniere comanda l’arte della costruzione navale. Ma Ora, il bene in comune, in quanto ha ragione di fine, è oggetto della volontà. Co Perciò, sotto questo aspetto (dell’esercizio), le altre facoltà dell’anima sono mosse dalla volontà al loro atto. Usiamo infatti delle altre potenze quando lo vogliamo. -39Il motivo. I fini e le perfezioni delle facoltà psichiche sono contenuti sotto l’oggetto della volontà come dei beni particolari (sotto il bene universale). Infatti, sempre la facoltà o l’arte che riguarda il fine universale muove all’agire la facoltà o l’arte che ha per oggetto un bene particolare Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 33 racchiuso nel bene universale. Esempio: il comandante in capo che attende al bene di tutto l’esercito muove con i suoi comandi l’ufficiale subalterno che comanda un battaglione. II. La mozione dalla parte dell’oggetto. Mi L’oggetto muove determinando l’atto a modo di un principio formale, dal quale è specificata l’azione delle cose naturali (come il riscaldare è specificato dal principio formale del calore). Ma Ora, il primo principio formale è l’ente e il vero universale che è l’oggetto dell’intelletto. Co Perciò con questo tipo di mozione (specificativa) la volontà è mossa dall’intelletto che le presenta il suo oggetto. Arg.1 S.AGOSTINO osserva che talvolta si conosce il bene, ma non si ha il piacere di agire eseguendolo; il che non potrebbe verificarsi se l’intelletto movesse la volontà (in tal caso infatti il mosso - la volontà - dovrebbe seguire la mozione del movente - dell’intelletto). Risp. Ciò prova non già che l’intelletto non muove, ma solo che non muove con necessità. Arg.2 Come sta l’intelletto alla volontà, così sta l’immaginazione all’appetito sensitivo. Ma spesso accade che l’immaginato non muove l’appetito, ma si presenta quasi come una pittura. Risp. Come l’immaginazione della forma senza la valutazione del conveniente e del dannoso non muove l’appetito sensitivo, così nemmeno l’apprensione del vero senza la ragione del bene e dell’appetibile può muovere la volontà (appetito razionale). Non l’intelletto speculativo, ma quello pratico, muove quindi la volontà. Arg.3 E’ impossibile che la stessa cosa sia riguardo alla stessa cosa movente e mossa. Ma la volontà muove l’intelletto; perciò l’intelletto non può muovere la volontà. Risp. La volontà muove l’intelletto quanto all’esercizio dell’atto. Infatti, lo stesso vero che è perfezione dell’intelletto è un bene particolare contenuto sotto il bene universale. Quanto alla determinazione specificativa dell’atto che avviene dall’oggetto, l’intelletto muove la volontà perchè lo stesso bene è conosciuto secondo una certa ragione speciale (del vero), contenuta sotto la ragione universale del vero. In tal modo non c’è lo stesso movente e mosso secondo lo stesso aspetto. -40- Articolo 2 - La volontà può essere mossa dall’appetito sensitivo. Gc 1,14: “Ciascuno ... è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce”. Ora, nessuno avrebbe potuto essere attratto dalla concupiscenza, se la sua volontà non fosse mossa dall’appetito sensitivo. Perciò l’appetito sensitivo muove la volontà. Argomento sistematico. Mi Ciò che è conosciuto sotto la ragione del bene e del conveniente muove la volontà a modo di oggetto. Ma Il fatto che qualcosa appaia alla conoscenza come buono e conveniente deriva da due cause: dalla condizione dell’oggetto proposto, dalla condizione del soggetto a cui è proposto. Co Anche dalla condizione del soggetto, al quale è proposto l’oggetto, dipende la mozione oggetiva della volontà. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 34 =Ma Mi Ora, è ovvio che secondo la passione dell’appetito sensitivo l’uomo è cambiato nella sua disposizione soggettiva. In tal modo, quando è sottoposto alla passione, gli sembra conveniente ciò che non gli appare tale se si trova al di fuori della passione. Esempio: ad un uomo arrabbiato sembra conveniente ciò che sembra invece sconveniente ad un uomo quieto. Infatti, il conveniente si dice secondo relazione tra oggetto e soggetto e quindi dipende anche dal soggetto (ad es. un gusto diversamente disposto ha valutazioni diverse riguardo alla convenienza di gusti diversi: di qui il detto qualis unusquisque est, talis finis videtur ei (Eth.Nic. III, 7; 1114 a 32 - b 1). Co Perciò l’appetito sensitivo muove la volontà dalla parte dell’oggetto. Arg.1 L’agente è più del paziente, ma la volontà è più dell’appetito sensitivo. Risp. Nulla impedisce che una realtà in sè più forte sia sotto un aspetto ristretto più debole. Così la volontà è semplicemente più forte (incisiva) dell’appetito sensitivo, ma quanto a colui in cui domina la passione, in quanto è sottomesso alla passione, l’appetito sensitivo guadagna un certo primato. Arg.2 L’appetito sensitivo è una facoltà particolare e quindi non può causare l’effetto universale proprio della volontà. Risp. Gli atti e le scelte umani avvengono riguardo a cose singole. Di conseguenza l’appetito sensitivo, proprio perché è una facoltà del particolare, ottiene una grande incisività nel disporre l’uomo in maniera tale che una cosa gli appaia così o così riguardo alle realtà singole (particolari). -41Arg.3 Il movente non è mosso da ciò che muove. Ora, la volontà muove l’appetito sensitivo. Quindi non può essere mosso da esso. Risp. La parte razionale di cui fa parte la volontà muove con il suo comando l’irascibile ed il concupiscibile; non però con un governo dispotico (assoluto) a modo di uno schiavo comandato dal padrone, ma con un dominio regale o politico come gli uomini liberi sono governati dal governante, cosicchè possono anche dissentire. Perciò l’irascibile e il concupiscibile possono muovere in contrasto con la volontà. Di conseguenza nulla impedisce che la volontà sia talvolta mossa da essi. Articolo 3 - La volontà muove se stessa. La volontà è padrona del suo atto proprio che è volere e non-volere; il che non si potrebbe verificare se la volontà non avesse in sé la potestà di muovere se stessa al volere. Perciò la volontà muove se stessa. Argomento sistematico (per analogia con l’intelletto). Mi Spetta alla volontà muovere le altre facoltà secondo il fine che è l’oggetto della volontà. Il fine poi svolge nell’ambito degli appetibili lo stesso ruolo che svolge il principio nell’ambito degli intelligibili. Ma Ora, è ovvio che l’intelletto, per il fatto che conosce il principio, riduce se stesso dalla potenza all’atto quanto alla conoscenza delle conclusioni e così muove se stesso. Co Perciò similmente la volontà, per il fatto che vuole il fine, muove se stessa a volere i mezzi ordinati al fine. Arg.1 Il movente è in atto, il mosso è in potenza. Ma nulla può essere in atto e in potenza riguardo alla stessa realtà. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 35 Risp. La volontà non muove ed è mossa sotto lo stesso aspetto. Perciò non è nemmeno sotto lo stesso aspetto in atto e in potenza. Infatti, in quanto vuole attualmente il fine, riduce se stessa dalla potenza in atto rispetto ai mezzi ordinati al fine così da volerli attualmente. Arg.2 Il mobile si muove alla presenza del movente e la volontà è sempre presente a se stessa. Perciò, se movesse se stessa, dovrebbe muoversi sempre, il che è ovviamente falso. Risp. La potenza (facoltà) della volontà è sempre attualmente presente a se stessa, ma l’atto di volontà con il quale vuole un fine non c’è sempre in essa ed è proprio per mezzo di quest’atto che la volontà muove se stessa. Perciò non segue che la volontà muove sempre se stessa. La volontà è resa tendente al fine oggettivamente dalla presentazione del fine da parte dell’intelletto, soggettivamente dalla mozione divina. -42Arg.3 Se la volontà muove se stessa ed è mossa dall’intelletto, sembra che abbia due motori; il che è inconveniente. Risp. Dall’intelletto la volontà è mossa secondo la ragione di oggetto (specificante); da se stessa invece è mossa quanto all’esercizio dell’atto secondo la ragione del fine. Articolo 4 - La volontà può essere mossa da un principio esterno. Mi la volontà è mossa dall’oggetto. Ma Ora, l’oggetto può essere una realtà esterna proposta al senso. Co Perciò la volontà può essere mossa da qualcosa di esterno. Argomento sistematico. I. II. Secondo la mozione da parte dell’oggetto è ovvio che la volontà può essere mossa da qualcosa di esterno. Secondo la mozione all’esercizio dell’atto è pure necessario che la volontà possa essere mossa dall’esterno. La prova. Ma Tutto ciò che talvolta agisce in atto e talvolta è in potenza (ad agire), ha bisogno di essere mosso da un movente. Mi Ora, è ovvio che la volontà comincia a volere qualcosa che prima non voleva. Co Perciò è necessario che la volontà sia mossa da qualcos’altro a volere. La volontà muove se stessa riducendosi dal volere il fine al volere i mezzi ordinati al fine e questo non può farlo se non per mezzo del consiglio deliberativo (ad es. un uomo che vuole guarire comincia a deliberare come può conseguire la guarigione e per mezzo di questo pensiero arriva alla conclusione che può guarire chiamando il medico e allora vuole chiamarlo. Non sempre però voleva la guarigione e quindi è necessario che abbia cominciato a volere la guarigione sotto la mozione di un principio esterno). Ma Se la volontà movesse se stessa al volere (assoluto del fine), dovrebbe farlo per mezzo di un consiglio supponendo un’altra volontà previa al consiglio e così via all’infinito. Mi Ora, l’infinito non si può percorrere e quindi occorre stare in qualcosa di primo. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 36 Co Perciò è necessario porre che la volontà procede al primo moto di volontà (cioè del volere il fine in assoluto) dall’istinto 26 (cioè dalla spinta, dall’impulso efficiente) di un movente esterno. Arg.1 Il moto della volonta è volontario e quindi intrinseco. Risp. Spetta alla ragione del volontario che il suo principio sia interno, ma non è necessario che tale principio interno sia primo non ulteriormente mosso da un principio esterno. Il moto della volontà ha perciò il suo principio prossimo in sè, ma il suo principio primo è esterno. Similmente il primo principio del moto naturale è esterno, anche se il principio prossimo del moto naturale è interno come quello del moto volontario. -43Arg.2 La volontà non è suscettibile di violenza, la cui caratteristica è proprio quella di avere un principio estrinseco. Risp. Non basta per costituire la ragione del violento che il suo principio sia estrinseco, ma è necessario aggiungere che “il paziente non contribuisce”, il che non accade quando la volontà è mossa dal principio esterno 27, perché è la volontà stessa che vuole, anche se mossa dall’altro. Il moto esterno sarebbe violento se fosse contrario alla volontà. Ciò però non si può verificare nel caso presente, altrimenti la volontà dovrebbe volere e non volere la stessa cosa. Arg.3 La volontà muove sufficientemente se stessa, quindi non ha bisogno di un motore esterno. Risp. Sotto un certo aspetto la volontà muove sufficientemente se stessa, nel suo ordine, come agente prossimo, non può però muovere se stessa quanto a tutti gli aspetti del suo moto. E così ha bisogno di essere mossa da un altro agente come dal primo movente. Articolo 5 - La volontà non è mossa dal corpo celeste. Argomento di autorità: S.Giovanni DAMASCENO dice che “i corpi celesti non sono causa dei nostri atti”; il che però sarebbe il caso se movessero la volontà, che è il principio degli atti umani. Argomento sistematico. I. Quanto al moto oggettivo della volontà. E’ ovvio che secondo quel modo in cui la volontà è mossa da un oggetto esterno essa può essere mossa dai corpi celesti in quanto i corpi esterni proposti al senso e gli stessi organi delle facoltà sensitive sottostanno ai moti dei corpi celesti. II. Quanto al moto soggettivo della volontà. Alcuni pensano che anche sotto questo aspetto i corpi celesti influiscono direttamente sulla volontà umana. Ciò però è impossibile. La prova. Mi 26 27 La volontà è nella ragione (cioè nella parte superiore, razionale, dell’anima). Non si tratat dell’istinto animale, perché stiamo trattando della volontà. Cioè Dio. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 37 Ma Ora, la ragione è una facoltà dell’anima non legata all’organo corporeo. Co Perciò la volontà a sua volta è una potenza del tutto immateriale ed incorporea. =Ma1 Mi1 Ora, nessun corpo può agire in una realtà incorporea, ma piuttosto al contrario, perchè le realtà incorporee ed immateriali sono di una virtù più formale ed universale delle cose corporee. 1 Co Perciò è impossibile che il corpo celeste imprima direttamente (il suo influsso) nell’intelletto o nella volontà. -44Spiegazione dell’errore opposto. ARISTOTELE attribuisce l’opinione secondo cui “talis est voluntas hominum, qualem in diem ducit Pater deorum virorumque 28” (= Giove = il cielo) a coloro che affermano che l’intelletto non differisce in nulla dal senso. Infatti, tutte le facoltà scnsitive, in quanto sono degli atti di organi corporei, possono essere accidentalmente mosse dai corpi celesti con i moti dei corpi dei quali sono atti. Complemento della conclusione. Siccome l’appetito sensitivo muove in qualche modo l’appetito intellettivo, indirettamente il moto dei corpi celesti si ripercuote sulla volontà in quanto accade che la volontà sia mossa per mezzo delle passioni dell’appetito sensitivo. Arg.1 I moti multiformi della volontà dovrebbero essere ricondotti al moto uniforme del cielo. Risp. I moti multiformi dell’intelletto e della volontà si riconducono infatti ad una causa uniforme, che però è superiore all’intelletto e alla volontà. Ciò non può essere il corpo, ma solo una sostanza immateriale superiore. Perciò non è necessario che il moto della volontà sia ricondotto al moto del cielo come alla sua causa. Arg.2 Il moto dei corpi inferiori sottostà a quello dei corpi superiori. Ma il corpo umano non può sottostare al moto del corpo celeste, a meno che non gli sia sottomessa anche la volontà che muove il corpo umano. Risp. I moti corporei dell’uomo si riducono al moto celeste nei modi seguenti: 1. in quanto la stessa disposizione degli organi congrua al moto deriva in qualche modo dall’influsso dei corpi celesti; 2. in quanto l’appetito sensitivo è stimolato dall’impressione dei corpi celesti; 3. in quanto sottostanno al moto del cielo i corpi esterni, dalla cui presentazione la volontà comincia a volere o non volere qualcosa (ad es. quando arriva il freddo comincia a volere accendere il fuoco). Tutti questi tipi di moto avvengono dal lato dell’oggetto esteriormente presentato e non già dal lato di un istinto interiore (soggettivo). -45Arg.3 Gli astrologi possono predire alcuni eventi veri che sono effetti di atti umani fondandosi sul moto dei corpi celesti. Risp. L’appetito sensitivo è atto di un organo corporeo e quindi nulla impedisce che dall’influsso dei corpi celesti alcuni siano disposti ad adirarsi o a desiderare o ad esercitare l’atto di qualunque altra passione. Un simile influsso è esercitato anche dalla disposizione naturale del corpo (da cui dipende anche il “tipo psicologico”). Ora, la maggior parte degli uomini segue le passioni, alle quali solo i sapienti sono in grado di resistere. Perciò ut in pluribus (nella maggior parte dei casi) si verifica ciò che è preannunciato riguardo agli atti umani, secondo la considerazione dei corpi celesti. Dice però TOLOMEO, Centiloquium, prop.5, che “il sapiente 28 Tale è la volontà degli uomini, quale giorno per giorno la conduce il Padre degli dei e degli uomini. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 38 domina gli astri”, perchè resistendo alle passioni impedisce con la sua volontà libera e non soggetta a tale moto celeste l’effetto dei corpi celesti. S.AGOSTINO, II super Genesim ad litteram, 17, 37; MPL 34, 278, è più scettico nei confronti dell’astrologia e attribuisce le predizioni vere ad un istinto occulto che l’uomo subisce inconsapevolmente. Se poi ciò avviene per ingannare l’uomo, deve attribuirsi all’azione di spiriti maligni. Articolo 6 - Dio è l’unico principio esterno capace di muovere soggettivamente la volontà. Argomento di autorità. Fil 2,13: “E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni”. Argomeno sistematico di ragione. Mi Il moto della valontà avviene dall’interno come il moto naturale. Ma Ora, può accadere che la cosa naturale sia mossa da qualcosa che non è causa della natura, ma il moto naturale stesso non può essere causato se non da ciò che in qualche modo è causa della natura. (Esempio: la pietra si muove in su, se è lanciata dall’uomo, che non causa la natura della pietra, ma tale moto non è connaturale alla pietra. Il moto naturale della pietra invece è causato da chi è causa della natura. Perciò si dice che il generante 29 muove localmente le cose pesanti e leggere). Co Perciò l’uomo dotato di volontà può essere mosso da una realtà che non è la sua causa, ma è del tutto impossibile che lo stesso moto volontario provenga come da un principio estrinseco da una realtà che non è causa della volontà. =Mi1 Ma1 Ora, la causa della volontà può essere Dio solo. Co1 Perciò il moto volontario può derivare soltanto da Dio come da un principio esterno soggettivamente movente. Prova della Ma1: Dio solo è causa della volontà. Argomento 1 Mi1 La volontà è una facoltà dell’anima razionale. Ma1 L’anima razionale è causata da Dio per immediata creazione. Co1 Perciò la volontà è immediatamente causata da Dio Creatore. -46Argomento II. Mi2 La volontà ha un ordine trascendentale al bene universale. Ma2 Dio solo che è bene univeraele può dare una inclinazione al bene universale. Co2 La volontà può essere causata solo da Dio. Ogni altro bene infatti è bene per partecipazione e quindi bene particolare e la causa particolare non può dare l’inclinazione universale. Per conseguenza nemmeno la materia prima, che è in potenza (passiva) a tutte le forme, può essere causata da un agente particolare. 29 Ciò che genera il moto. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 39 Arg.1 La volontà ha qualcosa di immediatamente superiore che è l’angelo. Perciò dovrebbe essere mossa dall’angelo. Risp. L’angelo è sopra l’uomo, ma non in maniera tale da essere causa della sua volontà. I corpi celesti invece sono causa delle forme naturali seguite da moti naturali. Arg.2 L’atto della volontà segue l’atto dell’intelletto. Ora, l’intelletto è ridotto all’atto non solo da Dio, ma anche dall’illuminazione angelica. Risp. L’intelletto umano è mosso dall’angelo da parte dell’oggetto che gli è proposto dalla virtù del lume angelico per essere conosciuto. E in questo modo anche la volontà può essere mossa da una creatura esterna. Articolo 3 - Dio è causa soltanto del bene. Perciò se la volontà fosse mossa solo da Dio, non si muoverebbe mai al male; il che è ovviamente falso. Risp. Dio muove la volontà umana come motore universale a quell’oggetto universale della volontà che è il bene e senza tale mozione universale l’uomo non può volere nulla. Ma per mezzo della ragione l’uomo si determina a volere questo o quest’altro, il che può essere un bene vero, ma anche un bene apparente. Eppure talvolta Dio muove alcuni a volere qualcosa di determinato con una mozione speciale e in questo caso ciò a cui Dio muove è un bene, come avviene in coloro che Dio muove per grazia. QUESTIONE CONNESSA. Le cause del moto volontario (GIOVANNI DI S. TOMMASO). L’oggetto proposto dall’intelletto non muove la volontà con una vera e reale efficenza fisica, ma solo a modo di un principio oggettivo specificante; il che spetta alla ragione di causa formale e a modo di causa finale, la cui mozione si dice metaforica ossia morale, perchè è un’attrazione in virtù della quale il fine attrae la volontà e proprio questo vuol dire muovere moralmente per differenza dall’impulso fisico e dalla mozione di una causa realmente e propriamente (efficientemente e soggettivamente) influente. L’intelletto e l’appetito sensitivo muovono la volontà con una mozione morale secondo la ragione di convenienza dell’oggetto rappresentato, senza però mutare efficientemente e fisicamente la volontà. -47Per conseguenza ogni agente, che non può muovere la volontà se non mediante la passione eccitata nell’appetito o mediante l’apprensione rappresentante30 nell’intelletto, muove la volontà soltanto moralmente. E ogni creatura esterna alla volontà può muoverla solo in qualcuno di questi modi, perchè solo attraverso queste porte l’intelletto o l’appetito sensitivo possono entrare nella volontà, anzi, l’appetito può farlo solo per mezzo dell’intelletto (pratico). Efficientemente, ossia fisicamente, e quanto all’esercizio la volontà muove se stessa per mezzo di un atto ad un altro atto. Similmente Dio muove interiormente la volontà non solo mediante la rappresentazione e l’apprensione dell’oggetto, ma mutando anche efficientemente e fisicamente la volontà 31. Quando la volontà muove efficientemente se stessa da un atto ad un altro, tale mozione non è la stessa elicienza 32 dell’atto, al quale la volontà si muove (l’emissione infatti è l’effetto del moto e non il moto stesso), ma è quell’applicazione in cui la volontà usa di se stessa e si applica dall’atto precedente all’atto seguente. L’emissione dell’atto volontario (elicito o imperato) è immediatamente 30 Il concetto. La cosiddetta “premozione fisica”. 32 Latinismo, da elicere: emissione. 31 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 40 preceduta dal comando (imperium) che è originato dalla volontà quanto alla sua efficacia, anche se esercitato dall’intelletto quanto alla sua normatività e alla sua intimazione che è una certa manifestazione; da quel lato dal quale il comando viene originato dall’impulso della volizione inclinante che è effettiva rispetto alla volontà, il comando stesso è effetto della volontà, che comanda a se stessa di elicitare un altro atto. L’uso attivo poi è l’applicazione della volontà all’agire, sia che applichi la stessa volontà sia che applichi altre facoltà esecutive. Un certo uso precede lo stesso comando e ogni applicazionc della volontà si dice nel senso largo “uso”. L’oggetto necessitante, quanto alla specificazione, si riduce ad un oggetto formale e a due condizioni in esso racchiuse. L’oggetto formale è il bene in comune e a fortiori se è visto in particolare quell’oggetto che è essenzialmente in sè ed intrinsecamente tutta la beatitudine in maniere adeguata e cioè Dio visto con chiarezza. Le condizioni sono: a. lo stesso essere, ossia vivere (e conoscere intellettivamente) e b. l’essere bene, cioè essere senza difetto. La volontà non può essere necessitata all’esercizio da nessun oggetto in virtù della sua sola mozione oggettiva, ma esiste certamente un oggetto alla cui presenza la volontà elicita con necessità l’esercizio del suo atto riguardo a tale oggetto e questo oggetto è Dio quidditativamente ed intuitivamente visto. Q.X IL MODO IN CUI LA VOLONTA’ E’ MOSSA. • naturalità (1) • necessità: dall’interno: dall’oggetto proposto (2) dall’appetito inferiore (3) dall’esterno (Dio) (4) - 48Articolo 1 - La volontà ha un moto naturale. Mi Il moto della volontà segue l’atto dell’intelletto. Ma Ora, l’intelletto conosce alcune cose (come i primi principi) naturalmente. Co Perciò anche la volontà vuole alcune cose naturalmente. Argomento sistematico. Significato del termine “natura”: a. principio intrinseco di cose mobili = o materia o forma materiale 33, b. ogni sostanza e, nel senso più vasto ancora, ogni ente. In quest’ultima accezione si dice naturale per una cosa ciò che le conviene secondo la sostanza; il che è ciò che di per sè inerisce alla cosa, alla quale si riducono tutte le altre realtà che ineriscono alla cosa non di per sè come al loro principio. In tal modo il principio in ciò che conviene sempre ad una determinata cosa è naturale. 33 San Tommaso dice in questo luogo: “natura si dice a volte il principio intrinseco nelle cose mobili. E tale natura è o la materia o la forma materiale”. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 41 Ciò appare con chiarezza nell’intelletto in quanto i principi della conoscenza intellettiva ci sono naturalmente noti. Applicazione analogica alla volontà. Similmente il principio dei moti volontari dev’essere naturalmente voluto. Mi L’uomo vuole naturalmente il principio dei moti volontari. Ma Il principio dei moti volontari sono: a. il bene in communi, al quale la volontà tende naturalmente come ogni facoltà tende naturalmente al suo oggetto formale proprio, b. il fine ultimo, che negli appetibili svolge un ruolo simile a quello dei primi princìpi naturalmente noti nell’ordine degli intelligibili, c. in genere tutte quelle cose che convengono al volente secondo la sua natura. Infatti, con la volontà non si vuole solo ciò che spetta alla stessa facoltà volitiva, ma anche ciò che spetta a tutte le facoltà umane e all’uomo tutto intero. Co In tal modo l’uomo vuole naturalmente l’oggetto formale proprio della volontà (il bene in communi e il fine ultimo) e anche tutte le cose che per natura convengono alle sue facoltà, come la conoscenza del vero che spetta alla facoltà intellettiva, essere e vivere che riguarda la consistenza naturale (istinto di conservazione) e tutte le altre finalità connaturali che sono comprese sotto l’oggetto formale proprio della volontà come altrettanti beni particolari. Il SILVIUS nota a questo proposito che tra i beni particolari ve ne sono alcuni che sono necessariamente connessi con la natura del soggetto volente e con il suo fine ultimo e tali beni sono voluti con necessità di specificazione; altri beni particolari invece sono staccati sia dalla natuta del soggetto che dal suo fine ultimo e quindi sono contingenti e voluti con libertà sia di esercizio che di specificazione. -49Arg.1 L’agente volontario 34 si divide contro l’agente naturale e quindi la volontà essendo agente volontario non può essere agente naturale. Risp. La volontà si divide contro la natura come una causa contro un’altra. Al di là del modo conveniente alla natura determinata ad una cosa sola vi è nella volontà che è padrona del suo atto un altro modo di causare, che le è proprio. Essendo però la volontà fondata in una natura, è necessario che il moto proprio alla natura sia partecipato in qualche modo nella volontà, come ciò che deriva da una causa precedente è partecipato nella causa posteriore. In ogni cosa precede l’essere che è per natura e segue il volere che è per volontà. Per conseguenza la volontà vuole qualcosa naturalmente. Cf. De Veritate q.22, a.5 c.a. (testo molto illuminante a proposito dell’universale logico ottenuto per astrazione totale e l’universale “ontologico” ottenuto per astrazione formale). La volontà si divide contro l’appetito naturale preso con precisione, cioè contro quell’appetito che è naturale soltanto come l’uomo si divide contro l’animale che è soltanto animale; la volontà però non si divide contro l’appetito naturale in assoluto, ma lo racchiude in sè come l’uomo racchiude in sè la ragione generica dell’animale. Arg.2 Ciò che è naturale inerisce sempre al soggetto come al fuoco inerisce sempre il calore. Ma alla volontà non inerisce nessun moto per sempre 35 ... 36 Risp. Nelle cose naturali ciò che è naturale in quanto segue soltanto la forma attualmente inerisce sempre alla cosa; ma ciò che è naturale in quanto segue la materia non sempre inerisce attualmente, ma talvolta solo potenzialmente. La forma infatti è atto, la materia è potenza. Ora, il moto è “l’atto dell’ente esistente in potenza” e perciò quelle cose che spettano al moto o che seguono il moto nelle cose naturali non sempre ineriscono alla cosa (ad es. il fuoco si muove verso 34 Nel testo c’era “naturale”, ma si tratta evidentemente di una svista. L’Autore intende dire che non esiste un moto che inerisca in continuazione alla volontà. 36 Questi puntini alludono al fatto che il testo tomista è più sviluppato. 35 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 42 l’alto solo se è fuori del suo luogo naturale) 37. Similmente non è necessario che la volontà ridotta dalla potenza in atto quando vuole qualcosa voglia sempre attualmente, ma solo quando è in una determinata disposizione. La volontà di Dio invece, che è atto puro, vuole sempre (eternamente) l’atto secondo 38. Arg.3 La natura è determinata ad una cosa sola; la volontà invece è aperta agli opposti ... Risp. Alla natura corrisponde sempre una sola cosa, ma proporzionata alla natura (così alla natura generica corrisponde un uno 39 in genere; alla natura presa nella sua specie corrisponde qualcosa di uno in specie e alla natura individuale corrisponde un uno individuale). Essendo la volontà una facoltà immateriale come lo è anche l’intelletto, le corrisponde naturalmente un uno comune e cioè il bene come all’intelletto corrisponde pure un uno comune che è il vero o l’ente o ciò che una cosa è. Ma sotto il bene comune vi sono molti beni particolari contingenti ai quali la volontà non è determinata per natura. -50- Articolo 2 - La volontà non è mossa con necessità dal suo oggetto. Ma Le facoltà razionali sono secondo ARISTOTELE (Metafisica, IX, 2; 1046 b 4-7) aperte agli opposti. Mi Ora, la volontà è una focoltà razionale, perché è nella ragione (cf. De Anima, III, 9; 432 b 5). Co Perciò la volontà è aperta agli opposti e di conseguenza non si muove con necessità a uno di loro. Argomento sistematico. Distinzione. La volontà si muove in due modi: a. quanto all’esercizio dell’atto, b. quanto alla specificazione dell’atto che deriva dall’oggetto. A) Quanto all’esercizio dell’atto la volonta non è mossa da nessun oggetto con necessità. Ma Ciò a cui si può attualmente non pensare, si può anche non volere in atto. Mi Ora, di ogni oggetto si può anche non pensare. Co Perciò ogni oggetto può anche non essere attualmente voluto. B) Quanto alla specificazione, la volontà è mossa con necessità da un certo oggetto; non lo è invece da un altro oggetto. Mi Nel moto di ogni potenza dal suo oggetto 40 è determinante la ragione motiva dell’oggetto rispetto alla potenza. Così l’oggetto visibile muove la vista in ragione del colore attualmente visibile, cosicchè, proposto il colore alla vista, il colore necessariamente muove la vista all’atto del vedere, a meno che uno non volga lo sguardo altrove. Se però si proponesse alla vista qualcosa che non è colore attualmente visibile sotto ogni rispetto, ma è tale solo sotto un 37 Questo discorso riflette la cosmologia medievale, secondo la quale il luogo naturale del fuoco è il cosiddetto cielo empireo, per cui il fuoco che si sviluppa sulla terra tende a salire in cielo, che è il suo luogo naturale. 38 L’atto secondo è appunto il volere. In questo luogo S.Tomamso dice che la volontà di Dio è sempre in atto di volere. 39 S.Tommaso dice: aliquid unum, che potremmo tradurre con: un qualcosa di determinato. 40 Nel moto di ogni potenza provocato dal suo oggetto. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 43 aspetto e non è tale sotto un altro aspetto, la vista non necessariamente vedrebbe tale oggetto, perché potrebbe considerarlo sotto quell’aspetto sotto il quale non è colorato in atto e così non lo vedrebbe. Ma Ora, come il colorato in atto è oggetto della vista, così il bene è l’oggetto della volontà. Co Perciò se si propone alla volontà un oggetto buono universalmente e sotto ogni aspetto, la volontà, se vorrà qualcosa, necessariamente tenderà in esso, nè potrà volere il suo opposto. Se invece si propone un oggetto che non è buono sotto ogni aspetto, la volontà non si porterà ad esso con necessità. =Mi1 Ma1 Il difetto di ogni bene ha ragione di non-bene. Co1 Perciò solo il bene perfetto e privo di ogni difetto che è la beatitudine è quel bene che la volontà non può non volere. Gli altri beni particolari contingenti, in quanto sono privi di qualche bene, possono essere considerati come non-beni e così essere rifiutati o approvati dalla volontà che può tendere alla stessa realtà sotto aspetti diversi. -51Arg.1 L’oggetto della volontà sta alla volontà come il motivo al mobile. Ora, se il motivo è sufficiente, necessariamente muove il mobile. Risp. Il motivo sufficiente di una facoltà è solo quello che ha totalmente la ragione di tale motivo; se invece viene meno in qualche cosa, non muove con necessità. Arg.2 La volontà è facoltà immateriale come l’intelletto; ma l’intelletto è mosso con necessità dal suo oggetto. Risp. L’intelletto è mosso con necessità da quell’oggetto che è sempre e necessariamente vero, non invece da quell’oggetto che può essere vero e falso, cioè dall’oggetto contingente (similmente la volontà non è necessariamente mossa dal bene contingente). Arg.3 Il fine è voluto con necessità in quanto è principio nell’ordine degli appetibili. Ora, i mezzi sono voluti in vista (e quindi a causa) del fine. Sembra perciò che tutto - fine e mezzi - siano voluti con necessità. Risp. Il fine ultimo, essendo un bene perfetto, muove con necessità la volontà e similmente tutto ciò che è ordinato ad esso come ciò senza cui il fine non può essere realizzato e posseduto (ad es. essere, vivere, ecc). Le altre cose senza le quali il fine può essere posseduto non sono volute con necessità da chi vuole il fine, come le conclusioni senza le quali i principi possono essere veri non sono necessariamente ammesse da chi ammette i principi. Articolo 3 - La volontà non è mossa con necessità dall’appetito inferiore. Gen 4,7: “se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo!”. Mi La passione dell’appetito sensitivo muove la volontà dalla parte dell’oggetto, in quanto l’uomo disposto per passione, giudica buono un oggetto che non avrebbe giudicato tale senza la disposizione passionale. Ma La passione può cambiare l’uomo in due modi: 1. legando completamente la ragione e togliendone l’uso come avviene in chi impazzisce per concupiscenza o ira veementi o a causa di qualche turbamento del corpo (tali passioni infatti non accadono senza alterazioni corporali). In questo coso è estinto il moto dello Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 44 Co ragione e della volontà e quindi avviene come negli animali irrazionali, che seguono con necessità l’impeto della passione, 2. lasciando almeno in parte libero il giudizio della ragione e così rimane qualcosa anche del moto della volontà. In quanto poi la ragione rimane libera (non sottomessa alla passione), in tanto il moto rimanente della volontà non tende con necessità a ciò a cui inclina la passione. In tal modo: • o il moto della volontà non c’è più nell’uomo, ma domina solo la passione, • o, se rimane il moto della volontà, esso non segue con necessità la passione. -52Arg.1 S.Paolo dice a proposito della concupiscenza (Re 7,15): “non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto”. Risp. Anche se la volontà non può impedire che insorga il moto della passione, essa può tuttavia non volere desiderare passionalmente, ossia non acconsentire alla concupiscenza e così non segue con necessità il moto della concupiscenza. Arg.2 In Etica Nicomachea, III, 7; 1114 a 32 b, si dice che “quale ciascuno è, tale fine gli sembra essere buono”; ma la volontà non può subito disfarsi dall’impeto passionale e quindi non è nel suo potere non volere ciò a cui la passione inclina. Risp. Nell’uomo vi sono due nature - intellettiva e sensitiva - e quindi può succedere che: a. la parte sensitiva è del tutto sottomessa alla ragione come avviene nei virtuosi o b. la ragione è completamente assorbita dalla passione, come avviene nei pazzi. Ma vi è anche la situazione intermedia: c. la ragione è oscurata dalla passione, ma rimane qualcosa di libero nella ragione e così uno può o completamente respingere la passione o almeno contenersi non seguendola. In questa disposizione intermedia altro è il bene che sembra tale secondo la ragione e altro è quello che sembra tale secondo la passione. Arg.3 Per volere qualcosa in particolare la causa universale che è la volontà deve essere applicata per mezzo della causa particolare che è l’appetito sensitivo. Di conseguenza, se l’appetito è disposto da una passione, la volontà non potrà muoversi contro tale passione. Risp. La volontà non è mossa solo dal bene universale percepito dalla ragione, ma anche dal bene particolare percepito dal senso. Perciò può muoversi ad un bene particolare senza la mediazione della passione dell’appetito sensitivo. Molte sono infatti le cose che vogliamo e facciamo senza passione per sola scelta deliberata come appare chiaramente in coloro nei quali la ragione oppone resistenza alla passione. Articolo 4 - La volontà non è mossa con necessità da Dio. Sir 15,14: “Egli” (Dio) “da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere”. Argomento di ragione. -53Mi PSEUDODIONIGI, De divinis nominibus, cap.4, MPG 3, 733B, dice che “spetta alla provvidenza divina non già corrompere, ma conservare la natura”, cosicchè Dio muove tutte le cose secondo la loro condizione connaturale: per mozione divina da cause necessarie derivano gli effetti con necessità e da cause contingenti derivano in maniera contingente. Ma Ora la volontà è un principio attivo non determinato ad una sola cosa, ma indifferentemente aperto a più cose. Co Perciò Dio muove la volontà non già determinandola con necessità ad una sola cosa, ma in modo tale che il suo moto rimanga contingente e non necessario, tranne che in quelle cose alle Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 45 quali si muove naturalmente. Arg.1 Un agente di virtù infinita non può incontrare resistenza e quindi muove con necessità. Risp. La volontà divina non si estende solo al fatto che qualcosa avvenga per mezzo della cosa che muove, ma anche al fatto che ciò avvenga in quel modo che è conveniente alla natura della cosa. Sarebbe quindi più ripugnante alla volontà divina il fatto che la volontà si movesse con necessità - il che non compete alla sua natura - che il fatto che la volontà si movesse liberamente come conviene alla sua stessa natura. Arg.2 La volontà si muove con necessità verso quelle cose che vuole naturalmente. Ma è naturale che Dio operi in ogni cosa. Quindi la volontà vuole con necessità tutto ciò che Dio opera in essa. Risp. E’ naturale ad ogni cosa ciò che Dio opera in essa affinché le sia naturale. In tal modo ad ogni cosa conviene qualcosa perché Dio vuole e in quanto Dio vuole che le convenga. Ma Dio non vuole che tutto ciò che opera nelle cose sia naturale a loro (ad es. il fatto che un morto risorga). Vuole invece che sia naturale ad ogni cosa il fatto di essere sottomessa alla potenza divina. Arg.3 E’ impossibile che la volontà non voglia ciò a cui Dio la muove, perchè se così fosse, la volontà di Dio sarebbe inefficace. Quindi la volontà vuole con necessità tutto ciò a cui Dio la muove. Risp. Se Dio muove la volontà a qualcosa, è incompossibile con questo presupposto che la volontà non si muova a questa cosa (nel senso composto). Non è però impossibile in assoluto (nel senso diviso). Perciò non segue che la volontà sia mossa da Dio con necessità. Il senso composto è la sintesi di due attualità simultaneamente presenti nello stesso soggetto (potenza di simultaneità), che è esclusa (ad es. è impossibile che Pietro simultaneamente sia seduto e cammini). Il senso diviso invece è la sintesi di una attualità con la potenza simultanea ad un’altra attualità nello stesso soggetto (simultaneità di potenza), che è ammissibile - (è possibile che Pietro seduto mantenga la potenza a camminare). La volontà mossa da Dio mantiene in potenza di autodeterminarsi diversamente, anche se attualmente si determinerà infallibilmente in questa precisa maniera 41. -54- Q. XI LA FRUIZIONE • soggetto: in genere: appetito (1) in specie: appetito razionale e sensitivo (2) • oggetto: in genere: il fine (4) in specie: il fine posseduto e inteso (5) 41 Dio muove la volontà umana a compiere quel determinato atto, ma questo resta libero. L’atto compiuto è determinato, il che significa che escludiamo il senso composto, ossia la simultaneità di due atti distinti del volere (volere questo o volere quello, oppure volere o non volere). Invece, in senso diviso, dobbiamo dire che l’atto è libero, in quanto nel momento in cui io pongo un atto (causato da Dio) conservo la potenza di non compierlo o di compierne un altro. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 46 Articolo 1 - Godere è atto della facoltà appetitiva. S.AGOSTINO, De Trinitate X, c.10; n.13; MPL 42, 981: “Frui est amore inhaerere alicui rei propter seipsam”. Argomento di ragione. I termini “fruizione” e “frutto” si richiamano a vicenda. Il primo nominato 42 nell’imposizione del nome è ciò che è più manifesto. Ma Ci sono più manifeste quelle cose che sono più sensibili (percettibili con i sensi). Co Il nome di “fruizione” è stato imposto dai frutti sensibili. Mi =Mi1 Ma1 Il frutto sensibile è ciò che si aspetta come ultimo dall’albero e si gusta con soavità. Co1 Perciò la fruizione sembra appartenere all’amore, ossia al diletto che deriva al soggetto da ciò che è ultimamente aspettato, il che è il fine. =Mi2 Ma2 Il fine e il bene sono oggetto della potenza appetitiva. Co2 Perciò la fruizione è manifestamente atto della potenza appetitiva. Arg.1 Godere (frui) equivale a cogliere il frutto (fructum capere), ma cogliere il frutto della vita umana (beatitudine) spetta all’intelletto nel cui atto la beatitudine consiste. Risp. La stessa visione di Dio in quanto è visione è dell’intelletto, ma in quanto è bene e fine è oggetto della volontà e quindi della fruizione. Lo stesso fine è conseguito dall’intelletto come dalla potenza agente e dalla volontà come dalla potenza movente al fine e godente del fine già conseguito. Arg.2 Ogni potenza ha il suo proprio fine e quindi la fruizione spetta ad ogni potenza. Risp. La perfezione e il fine di ogni potenza sono contenuti sotto l’oggetto della facoltà appetitiva come il particolare sotto il comune. Il fine di ogni potenza, in quanto è un bene, spetta all’appetito, che muove le altre potenze ai loro fini e consegue il fine quando le altre conseguono il loro fine. -55Arg.3 Il diletto spetta al senso e all’intelletto e quindi alla parte apprensiva. Risp. Nel diletto c’è: a. la percezione del conveniente che spetta alla facoltà apprensiva e b. la compiacenza in ciò che si propone come conveniente e questo spetta alla potenza appetitiva, nella quale si compie la ragione del diletto. Articolo 2 - La fruzione non spetta solo agli uomini. S.AGOSTINO, Octogintatrium quaestionum 30; MPL 40,19, dice che “non è assurdo pensare che anche le bestie godono del cibo e di qualsiasi altra voluttà corporale”. Ma Godere non è atto della potenza che arriva al fine come potenza eseguente, bensì come potenza imperante l’esecuzione (spetta infatti all’appetito). 42 Ciò che viene nominato per primo quando si impone il nome è ciò che è più manifesto. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 47 Mi Co Nelle cose prive di conoscenza c’è la potenza che arriva al fine come eseguente (ad es. la potenza per mezzo della quale il corpo pesante tende a cadere giù), ma manca la potenza alla quale spetta il fine come all’imperante. Tale potenza imperante è sostituita dalla natura superiore che muove tutta la natura con il suo comando, come negli enti dotati di conoscenza l’appetito muove tutte le altre facoltà ai loro atti. Perciò nelle cose prive di conoscenza, anche se arrivano al fine, manca tuttavia la fruizione del fine. Di conseguenza la fruizione del fine si trova solo negli enti dotati di conoscenza. =Ma1 Mi1 La conoscenza del fine è duplice: a. perfetta, la quale conosce la stessa ragione formale e universale del fine e del bene; tale conoscenza spetta alla natura razionale, b. imperfetta, la quale conosce il fine e il bene particolari; tale conoscenza c’è negli animali irrazionali, le cui facoltà appetitive non comandano liberamente, ma secondo l’istinto naturale che li muove a ciò che hanno conosciuto con i sensi. 1 Co Perciò alla natura razionale conviene la fruizione secondo la ragiore perfetta; agli animali irrazionali invece conviene secondo la ragione imperfetta e alle altre creature non conviene in nessun modo. Arg.2 Gli animali non possono arrivare al fine ultimo e quindi non possono godere. Risp. Non è necessario che la fruizione sia dell’ultimo fine in assoluto, ma può essere di ciò che un conoscente considera come fine ultimo. Arg.3 Come l’appetito sensitivo è sotto quello intellettivo, così l’appetito naturale è sotto quello sensitivo. Sembra quindi che se l’appetito sensitivo può godere, anche quello naturale lo possa, il che è falso. Quindi non può godere nè l’uno nè l’altro. Risp. L’appetito sensitivo segue ad una certa conoscenza, quello naturale invece no. Articolo 3 - La fruizione riguarda particolarmente il fine ultimo. S.AGOSTINO, De Trininitate X, c.11, n.17; MPL 42, 983, dice che “non gode colui che desidera per qualcos’altro ciò che assume nella sua facoltà volitiva (come oggetto)” ed è proprio del fine ultimo il fatto di non essere desiderato per qualcos’altro. Argomento di ragione. Ma Il frutto dev’essere: qualcosa di ultimo e qualcosa che quieta l’appetito con un certo diletto. Mi L’ultimo può essere tale: semplicemente (in assoluto), se in nessun modo è riferito a qualcos’altro, secundum quid (sotto un aspetto ristretto), se è ultimo solo in un determinato genere di cose. Co Ciò che è semplicemente (assolutamente) ultimo, ciò in cui il soggetto si diletta come nell’ultimo fine, è “frutto” propriamente detto ed è propriamente oggetto di fruizione. Ciò che in sé non è dilettevole in nessun modo, ma si desidera solo in ordine a qualcos’altro (come la medicina amara in vista della salute), non può essere detto “frutto” in nessun modo. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 48 Ciò che ha in sè un certo diletto a cui si riferiscono delle realtà precedentemente disponenti, puè essere detto “frutto” in qualche modo (cioè rispetto a tali realtà precedenti), ma non propriamente e secondo la ragione completa di frutto che è oggetto di fruizione. S.AGOSTINO, De Trinitate X, c.10, n.13; MPL 42, 981, dice che “godiamo delle cose conosciute nelle quali la volontà si quieta”, il che avviene semplicemente (in assoluto) solo nel bene ultimo, perché quando si aspetta ancora qualcosa, il moto rimane sempre in sospeso, anche se è già arrivato a qualcosa. Similmente nel moto locale l’intermedio è sia principio che fine e non si dice fine in atto a meno che non ci si fermi in esso. Arg.1 Filem. 20: “Ita frater, ego te fruar in Domino” (Vulg.). Risp. S.Paolo gode del fratello come del mezzo, del Signore come del fine ultimo. Arg.2 Gal. 5,22: S.Paolo enumera molti frutti dello Spirito Santo che non hanno la caratteristica di fine ultimo. Risp. I frutti si dicono rispetto all’albero come effetto rispetto alla causa; si dicono rispetto all’uomo che ne gode come il bene aspettato e come ultimo dilettevole. S.Paolo chiama “frutti” alcuni effetti dello Spirito Santo in noi, non come se fossero dei beni dei quali noi dovremmo godere come del fine ultimo. Oppure, secondo l’esposizione di S.AMBROGIO si dicono frutti, perché desiderabili in sé, non perché non siano ulteriormente riferiti alla beatitudine, ma perché hanno già in se stessi la ragione per cui ci devono piacere. -57Arg.3 La fruizione come atto di volontà dovrebbe essere riflessiva, ma della fruizione stessa non si può godere come del fine ultimo. Risp. Il fine è sia la stessa cosa che è fine sia il suo conseguimento che insieme costituiscono un unico fine considerato in sé e nell’applicazione all’altro. Ora Dio è fine ultimo come quella cosa che si cerca come ultima; la fruizione invece è il conseguimento del fine ultimo oggettivo. Perciò con la stessa fruizione godiamo di Dio e della fruizione di Dio (beatitudine creata che consiste nella fruizione). Articolo 4 - La fruizione non è solo del fine posseduto. Secondo S.AGOSTINO la fruizione consiste nell’aderire con amore ad una cosa per se stessa, il che può avvenire anche riguardo ad una cosa che non si ha ancora. Argomento di ragione. Mi La fruizione implica una relazione della volontà al fine ultimo, in quanto la volontà ha qualcosa come fine ultimo. Ma Avere il fine ultimo dalla parte della volontà può avvenire in due modi: perfettamente, quando si ha non solo nell’intenzione, ma realmente, imperfettamente, quando si ha nella sola intenzione. Co Perciò la fruizione perfetta ha per oggetto il fine già realmente posseduto; invece la fruizione imperfetta riguarda anche il fine presente non realmente, ma soltanto nell’intenzione. Arg.1 S.AGOSTINO dice che godere (frui) è usare con gioia (cum gaudio uti) non solo della speranza, ma della realtà stessa. Risp. L’Autorità si riferisce manifestamente alla fruizione perfetta. Arg.2 La fruizione è dell’ultimo fine che quieta l’appetito, ma il fine non posseduto realmente non può quietere il desiderio. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 49 Risp. La quiete della volontà può essere impedita da: a. l’oggetto perché non è fine ultimo, ma ordinato ad altro; b. il soggetto che desidera il fine e che non lo consegue ancora. L’oggetto dà la specie all’atto, il soggetto agente invece dà il modo e quindi la perfezione o l’imperfezione dell’atto. Per conseguenza: di ciò che non è fine ultimo, la fruizione è impropria (quasi deficiente dalla specie di fruizione), del fine ultimo non ancora posseduto si dà una fruizione vera e propria, ma imperfetta a causa del modo imperfetto con cui si ha il fine ultimo (in intenzione soltanto). Arg.3 Il frutto si coglie solo quando si possiede realmente. Risp. Il fine si ha (si riceve) non solo secondo la realtà, ma anche secondo l’intenzione. -58- Q. XII L’INTENZIONE • in sé: soggetto: volontà (1) oggetto: specie: fine ultimo (2) unità: • dello stesso oggetto (3) • dell’atto (rispetto all’atto della volontà circa i mezzi) (4) • riguardo ai soggetti nei quali si rializza (non negli animali irrazionali) (5) Articolo 1 - L’intenzione è atto della volontà. Mi L’etimologia della parola “intentio” significa “tendere a qualcosa”. Ma Tendere a qualcosa conviene: a. all’azione del movente e b. al moto del mobile sotto l’azione del movente. Co Perciò l’intenzione spetta primariamente e principalmente verso ciò che muove al fine (l’architetto, il comandante, ecc, muovono con il loro comando gli altri verso ciò che loro stesso intendono). =Mi1 Ma1 La volontà muove tutte le altre facoltà dell’anima al fine Co1 Perciò l’intenzione è propriamente atto della volontà. Arg.1 Mt.6,22: “se il tuo occhio è chiaro, tutto il corpo sarà nella luce”, dove “occhio” significa l’intenzione, ma l’occhio spetta ovviamente alla facoltà apprensiva, non appetitiva. Risp. L’intenzione si dice “occhio” metaforicamente, non perchè l’intenzione spetti alla conoscenza, ma perchè suppone la conoscenza per mezzo della quale è proposto alla volontà il fine al quale essa muove, come con l’occhio prevediamo la direzione che dobbiamo prendere nel moto corporeo. Arg.2 S.AGOSTINO dice che l’intenzione si dice anche “luce”, il che spetta alla facoltà conoscitiva. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 50 Risp. L’intenzione si dice “luce” perché è manifesta a chi ce l’ha. Le opere invece si dicono “tenebre” perché l’uomo sa ciò che intende, ma non può prevedere le conseguenze della sua opera. Arg.3 L’intenzione significa ordine al fine, ma ordinare spetta alla ragione. Risp. La volontà non ordina, ma tende a qualcosa secondo l’ordine della ragione. In tal modo “intenzione” significa l’atto della volontà supponendo però l’ordinazione della ragione al fine. Arg.4 La volontà è del fine o di ciò che è al fine. Il primo atto è fruizione, il secondo è scelta. L’intenzione sembra quindi superflua. Risp. La volontà riguarda il fine in tre modi: a. in assoluto = volontà (ad es. volere la salute); b. in quanto ci si riposa nel fine = fruizione; c. in quanto il fine è termine di qualcosa che è ordinato ad esso = intenzione (la salute si intende non perché si vuole, ma perché si vuole arrivare ad essa per via di determinati mezzi). -59Articolo 2 - L’intenzione non riguarda esclusivamente il fine ultimo. Argomento ad hominem. Se l’intenzione fosse solo del fine ultimo, dato che il fine ultimo è uno solo (la beatitudine), ne seguirebbe che l’uomo non potrebbe avere più intenzioni, ma una sola, il che è manifestamente falso. Argomento sistematico. Mi L’intenzione riguarda il fine in quanto è termine del moto volitivo. Ma Nel moto volitivo il termine si può considerare in due modi: a. come termine ultimo in cui ci si riposa, che è il termine di tutto il moto e b. come un mezzo che è principio di una parte del moto e fine (termine) di un’altra. Esempio. Nel moto da A a C attraverso B, C è il termine ultimo, B invece, pur essendo termine, non è ultimo. Co L’intenzione può essere sia del termine ultimo che del termine intermedio e quindi, anche se è sempre del fine, non è tuttavia necessario che sia sempre del fine ultimo. Arg.1 Nel libro delle Sentenze di PROSPERO 43 si dice che “l’intenzione del cuore è come un grido verso Dio”. Risp. L’intenzione del cuore si dice “grido a Dio” non perchè ha sempre Dio per oggetto, ma perché Dio conosce le intenzioni del cuore. Un altro motivo può essere quello che quando preghiamo dirigiamo la nostra intenzione a Dio e così la nostra intenzione acquista il valore di un grido rivolto a Dio. Arg.2 L’intenzione è del termine, che ha ragione di qualcosa di ultimo. Risp. Il termine ha sempre ragione di qualcosa di ultimo, non sempre però di qualcosa che è ultimo rispetto al tutto, ma anche di qualcosa che è ultimo rispetto ad una parte del tutto. Arg.3 L’intenzione riguarda il fine come la fruizione, ma la fruizione è sempre del fine ultimo (propriamente parlando). Risp. La fruizione implica la quiete nel fine, che è perfettamente possibile solo nel fine ultimo, l’intenzione invece implica il moto verso il fine e non la quiete. 43 Prospero di Aquitania. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 51 Articolo 3 - L’intenzione può essere simultaneamente di più oggetti. Come la natura può ordinare una sola cosa a più utilità (ad es. la lingua al gustare e al parlare), così anche l’arte (la ragione) che la imita può ordinare una cosa simultaneamente a due fini. Argomento sistematico. A) Se le due realtà sono ordinate l’una all’altra l’uomo può simultaneamente intendere l’una e l’altra, perchè l’intenzione non è solo del fine ultimo, ma anche dei fini intermedi (ad es. si può intendere simultaneamente la preparazione della medicina e la salute). -60B) Se le due realtà non sono ordinate, anche così l’uomo può intendere simultaneamente più cose, perchè sceglie una cosa piuttosto che un’altra per diversi motivi, tra i quali c’è anche quello che una cosa è migliore di un’altra in quanto è ordinata a più utilità. Arg.1 S.AGOSTINO, De Sermone Dominico in Monte, II, c.14, n.47; MPL 34,1290, dice che l’uomo non può simultaneamente intendere a Dio e al bene corporeo. Risp. S.AGOSTINO intende riferirsi all’intenzione del fine ultimo. L’uomo può intendere 44 una sola cosa come il suo fine ultimo. Arg.2 L’intenzione è il moto della volontà al termine, ma un moto non può avere da una parte più termini. Risp. Un moto può avere più termini da una parte se l’uno è ordinato all’altro. Non può però avere più termini non ordinati tra loro da una parte sola. Occorre però notare che ciò che è molteplice secondo la realtà può essere considerato come una cosa sola dalla ragione. Siccome l’intenzione è il moto della volontà a un termine preordinato dalla ragione, ciò che è realmente molteplice può essere preso come un unico termine dell’intenzione, in quanto è una cosa sola secondo la ragione, oppure perché due cose concorrono ad integrare un’altra cosa (ad es. il calore e il freddo commisurati concorrono alla salute) o perchè due cose sono incluse in un’altra più comune (ad es. aquistare il vino e il vestito è compreso sotto la ragione comune della compera). Arg.3 L’intenzione suppone l’intelletto, ma l’intelletto non conosce simultaneamente più cose. Risp. Si possono conoscere intellettivamente più cose in quanto sono in qualche modo una cosa sola. Articolo 4 - L’intenzione è l’atto della volontà dei mezzi in vista del fine. Nelle cose naturali lo stesso moto attraversa il luogo intermedio e arriva al termine. Similmente nel volontario l’intenzione del fine e la volontà di ciò che è ordinato al fine sono lo stesso moto. Argormento sistematico. Distinzione. Il moto della volontà verso il fine e verso i mezzi ordinati al fine si può considerare in due modi: 44 Tendere a. Si tratta infatti dell’intenzione della volontà e non dell’intendere intellettuale. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 52 I. II. in quanto la volontà si porta all’uno e all’altro in assoluto e di per sè e così sono semplicemente due i moti della volontà verso l’uno (fine) e verso l’altro (mezzi); in quanto la volontà si porta ai mezzi ordinati al fine in vista del fine. E così un solo moto numericamente identico (quanto al soggetto) della volontà è tendente al fine e ai mezzi ordinati al fine. Esempio. Quando si dice “voglio la medicina per la salute” si vuole significare un solo moto della volontà. -61Prova. Mi Il fine è la ragione della volizione dei mezzi. Ma Lo stesso atto riguarda l’oggetto e la ragione dell’oggetto (esempi: lo stesso atto di visione vede la luce e i colori; invece, nell’intelletto, se si considerano i principi e le conclusioni in assoluto, la loro considerazione è diversa, ma se si accettano le conclusioni a causa dei principi, con lo stesso atto dell’intelletto si conoscono le conclusioni e i principi dai quali derivano). Co Con lo stesso atto (numericamente identico) di intenzione si vuole il fine e i mezzi ordinati al fine. Arg.1 S.AGOSTINO, De Trinitate XI, c.6, n.10; MPL 42,992, dice che diversa è la volontà di vedere la finestra e quella di vedere attraverso la finestra la gente che passa. Risp. S.AGOSTINO parla della visione della finestra e della visione dei passanti in assoluto e non in quanto la prima è ordinata alla seconda. Arg.2 Il fine e i mezzi sono oggetti distinti che dovrebbero avere atti distinti. Risp. Il fine materialmente preso come ciò che è il fine (res quaedam) è un oggetto della volontà distinto dai mezzi, ma se il fine si prende formalmente in quanto è la ragione di volere i mezzi, allora costituisce insieme con i mezzi un solo oggetto della volontà. Arg.3 La volontà dei mezzi si dice “scelta”, ma la scelta non può essere l’intenzione. Risp. Un unico moto secondo la sostanza può differire secondo la ragione riguardo al principio e al fine. Così si distingue ad es. l’ascesa e la discesa. In tal modo, in quanto il moto della volontà si porta ai mezzi come ordinati al fine, si ha la scelta; in quanto invece si porta al fine come conseguibile 45 con tali mezzi, si ha l’intenzione. Il segno di questa distinzione è che si può avere l’intenzione de1 fine senza aver determinato i mezzi. In altre parole il moto discendente (dal fine ai mezzi) dell’intenzione precede il moto ascendente (dai mezzi al fine) della scelta. Articolo 5 - L’intenzione non si trova negli animali irrazionali. Argomento ad hominem. L’intenzione del fine esige l’ordine attivo del soggetto al fine, il che è proprio della ragione. -62Argomento sistematico. Distinzione. Intendere vuol dire “tendere in altro”, il che compete sia al movente che al mosso. 45 Nel testo c’era “asseguibile”, un latinismo da assequibilis. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 53 I. II. In quanto si dice che tende al fine ciò che è mosso al fine da qualcos’altro, si concede che la natura tende al fine quasi mossa al suo fine da Dio, come la freccia è mossa verso il fine dall’arciere. In questo modo anche gli animali irrazionali tendono al fine in quanto sono mossi dall’istinto naturale verso qualcosa. In quanto tendere al fine spetta al movente attivamente ordinante il moto di qualcosa (o di se stesso o di qualcos’altro) verso il fine, l’intenzione spetta solo alla natura razionale (infatti, solo la ragione può attivamente ordinare al fine). In questo modo, proprio e principale di intendere, gli animali irrazionali non sono capaci di intenzione. Arg.1 La natura degli enti privi di conoscenza è più distante dalla natura razionale che la natura sensitiva; eppure anche nelle cose prive di conoscenza la natura tende al fine. Risp. L’intenzione si prende qui secondo l’ordine passivo al fine così come compete al mobile mosso e non al movente. Arg.2 Come l’intenzione riguarda il fine, così lo riguarda anche la fruizione, ma la fruizione c’è negli animali irrazionali. Risp. La fruizione non implica l’ordine attivo di un soggetto al suo oggetto (fine) come l’intenzione, ma solo la quiete assoluta nel fine. Arg.3 Tendere al fine compete a chi agisce per il fine, ma gli animali agiscono manifestamente per il fine (ad es. cercando il cibo, ecc.). Risp. Gli animali privi di ragione si muovono al fine senza però considerare che con il loro moto possono conseguire il fine; il che è proprio di colui che tende, ma desiderano piuttosto il fine per istinto naturale e si muovono verso il fine come mossi da qualcos’altro, come avviene anche nelle altre cose che si muovono col moto naturale. Q. XIII LA SCELTA (ATTO DELLA VOLONTA’ RISPETTO AI MEZZI). • essenza: soggetto: potenza (volontà) (1) natura (razionale) (2) oggetto: specie (mezzi) (3) rispetto al soggetto: • atti umani (4) • possibili (5) • modo (libertà) (6) Articolo 1 - La scelta è l’atto della volontà. ARISTOTELE dice nell’Etica Nicomachea III, c.5; 1113 a 11, che la scelta è “il desiderio di quelle cose che sono in noi46” ed essendo il desiderio un atto di volontà, lo sarà anche la scelta. Argomento di ragione. 46 Che sono in nostro potere. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 54 Mi Il nome stesso di “scelta” implica qualcosa della ragione e qualcosa della volontà (cf. ARISTOTELE, Etica Nicomachea VI, c.2; 1139 b 4-5: “la scelta è l’intelletto appetitivo o l’appetito intellettivo”). Ma Quando due realtà concorrono per costituire un’unità, una è sempre formale rispetto all’altra (cf. l’autorità del NISSENO secondo cui la scelta è composta dall’appetito e dal consiglio come l’animale è composto dal corpo e dall’anima). Co Nella scelta la ragione e la volontà assumono le caratteristiche del rapporto analogico a quello tra la forma e la materia, il che negli atti umani avviene così che un atto che è essenzialmente di una potenza o abito riceve la forma e la specie da una potenza o abito superiori in quanto l’inferiore è ordinato dal superiore (esempio: l’atto della fortezza elicito 47 per amore di Dio è materialmente della fortezza, formalmente della carità). -63=Ma1 Mi1 Ora, la ragione precede la volontà e ordina il suo atto in quanto la volontà tende al suo oggetto secondo l’ordine della ragione che le rappresenta il suo oggetto. 1 Co In tal modo quell’atto con cui la volontà tende a qualcosa che le è proposto come un bene in quanto è ordinato dalla ragione al fine, è materialmente della volontà, ma formalmente della ragione. =Ma2 Mi2 In questo genere di cose la sostanza dell’atto è rapportata come materia all’ordine che le è imposto da una potenza superiore. 2 Co Perciò la scelta non è sostanzialmente atto della ragione, ma della volontà. La scelta infatti trova la sua perfezione in un certo moto dell’anima verso il bene che è oggetto di scelta. Quindi è manifestamente atto della potenza appetitiva. Arg.1 La scelta suppone un confronto concettuale (collatio) con cui una cosa viene preferita ad un’altra. Risp. La scelta implica un tale confronto concettuale come precedente senza essere essa stessa essenzialmente un tale confronto. Arg.2 La stessa facoltà sillogizza e conclude. Ora se la ragione sillogizza negli operabili, dovrebbe anche concludere e quindi scegliere. Risp. La conclusione del sillogismo pratico spetta anche alla ragione pratica e si dice “sentenza” o “giudizio” che è seguìto dalla scelta. La conclusione spetta quindi alla scelta come a qualcosa che la segue. Arg.3 L’ignoranza spetta 48 alla conoscenza, ma vi è una certa “ignoranza della scelta” e quindi sembra che anche la scelta appartenga alla facoltà conoscitiva piuttosto che a quella appetitiva. Risp. L’ignoranza si dice dell’elezione non perché la stessa elezione è scienza, ma perché si ignora ciò che si deve scegliere. QUESTIONE CONNESSA. Il rapporto tra ragione e volontà nell’atto di scelta (GIOVANNI DI S.TOMMASO). -64- 47 48 Compiuto. Riguarda. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 55 Negli atti che corrispondono ad una duplice potenza operativa e versano circa un oggetto con l’ordine ad un altro o con una certa partecipazione di un’altra potenza, si deve supporre in primo luogo che l’atto non può procedere ugualmente dalle due potenze. Presupposto questo, occorre distinguere ciò che è materiale in un tale atto e quindi spetta alla sua elicienza 49 (in cui si perfeziona, consuma ed esercita l’atto) e ciò che è forma non specificativa estrinseca, nè costitutiva intrinseca, ma estrinseca movente (ordinante ed imprimente). Ciò che è formale in questo modo (come superiore ordinante) spetta alla potenza in maniera antecedente e motiva, non prossima, elicitiva ed entitativa. Basta perciò dimostrare che nella scelta l’intelletto imprime il suo ordine solo in maniera estrinseca e antecedente, mentre la volontà elicita sostanzialmente l’atto. Per determinare questo occorre vedere ciò che spetta alle due potenze operative in maniera propria e ciò che spetta loro in maniera antecedente a titolo di presupposto. S.Tommaso esamina quindi ciò in cui un atto arriva alla sua perfezione, al suo compimento, ciò in cui si esercita. Se ci fosse un dubbio, bisognerebbe ricorrere come fa S.Tommaso o all’esperienza e all’uso comune o a ciò che significa il nome di un tale atto. Infatti, laddove la definizione non è oggetto, ma principio della dimostrazione, occorre ricorrere all’esperienza (ogni scienza umana inizia dall’esperienza sensibile e per esperienza gli uomini hanno cominciato a dedicarsi alla filosofia) o alla comune concezione dei saggi, che si rivela nell’imposizione del nome e nel significato comunemente attribuito ad esso. La scelta consiste quindi sostanzialmente nell’atto della volontà, perchè la scelta si compie in un certo moto dell’anima verso il bene che si sceglie, il che è confermato dall’esperienza in quanto uno può giudicare e valutare una cosa in confronto con un’altra finché vuole; invece la scelta non si compie se non in quel momento in cui la valutazione è accettata dalla volontà e solo allora si dice che l’uomo ha scelto. Nella scelta interviene la volontà come ciò in cui si compie l’atto di scelta, e di conseguenza tutto ciò che si trova di confronto concettuale (giudicativo) nella scelta, è formale per quanto riguarda la ragione di muovere, di ordinare e di attuare, ma l’atto di scelta non consiste in questo formalmente, bensì antecedentemente e a titolo di presupposto, perché il giudizio collativo svolge il ruolo di movente, disponente e ordinante, non quello di eliciente perché in esso non si compie ciò che ultimamente spetta alla scelta. Arg.2 Negli animali irrazionali non c’è scelta. S.GREGORIO NISSENO dice che i bambini e gli animali irrazionali agiscono volontariamente, ma senza scelta. NEMESIO, De natura hominis c.33 (l.V, c.4), MPG 40,732 A. -65Argomento di ragione. Ma La scelta è la preferenza di una cosa ad un’altra e quindi riguarda più cose che possono essere scelte, cosicchè non può avere luogo in quelle facoltà che sono determinate ad una cosa sola. Mi a. L’appetito sensitivo è determinato ad un solo oggetto particolare secondo l’ordine della natura. b. La volontà è secondo l’ordine naturale determinata solo ad una realtà comune che è il bene, ma è indeterminatamente rapportata ai beni particolari. Co Perciò è proprio della volontà il fatto di scegliere che non compete all’appetito sensitivo e quindi non spetta agli animali irrazionali che hanno solo tale appetito. Arg.1 La scelta è l’appetito dei mezzi al fine e gli animali possono desiderare qualcosa per il fine. 49 Emissione. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 56 Risp. La scelta non è ogni desiderio dei mezzi per il fine, ma il desiderio che avviene con la distinzione dell’uno dall’altro (cioè di un mezzo e di un altro dei quali uno è preferito in vista del fine) e ciò è possibile solo là dove il desiderio può portarsi a più oggetti. Arg.2 La scelta implica preferenza che c’è negli animali, ad es. la pecora mangia un certo tipo di erba e ne rifiuta un altro. Risp. Gli animali irrazionali preferiscono una cosa piuttosto che un’altra perché il loro appetito è determinato per natura a tale cosa. Di conseguenza, dopo la rappresentazione dell’oggetto da parte del senso o dall’immaginazione, il loro appetito è naturalmente inclinato all’oggetto senza alcuna scelta. Similmente il fuoco si muove senza scelta verso l’alto e non verso il basso. Arg.3 Alla prudenza conviene la scelta, ma c’è prudenza negli animali irrazionali. Così sono prudenti senza disciplina ad es. gli insetti che non possono percepire i suoni (cf. ARISTOTELE, Metafisica I, c.1, 98O b 22-24). Vi sono inoltre molti esempi di un’ammirevole sagacità negli animali, ad es. nelle api, nei ragni, nei cani. Il cane che insegue un cervo arrivato ad un trivio esplora con l’odorato se il cervo ha preso la prima o la seconda via e se si accerta che non è passato nè per la prima nè per la seconda, prosegue sicuramente per la terza via senza esplorarla come se avesse concluso per sillogismo divisivo che il cervo non ha potuto prendere se non la terza via. Risp. La virtù del movente appare nel moto e così in chi è mosso dalla ragione appare l’ordine della ragione movente, anche se esso stesso è privo di ragione (es. il moto della freccia, dell’orologio e di altri apparecchi fabbricati dall’arte umana). Similmente le cose naturali sono disposte dall’arte divina e quindi l’ordine razionale appare sia negli agenti razionali che in quelli naturali. Questo spiega la sagacità nell’agire degli animali derivante dalla struttura ordinattissima delle loro inclinazioni naturali proveniente dalla somma arte (di Dio Creatore). Vi è infatti in loro un’inclinazione naturale a processi complessi. -66Articolo 3 - La scelta riguarda esclusivamente i mezzi. Ma La scelta segue il giudizio pratico-pratico che è come la conclusione del sillogismo pratico cosicchè può essere oggetto di scelta solo ciò che ha la caratteristica di conclusione nel sillogismo pratico. Mi Il fine ha nell’ambito degli operabili la caratteristica di principio e non di conclusione. Co Perciò il fine in quanto è fine non può essere oggetto di scelta. Precisazione. Nell’ambito speculativo la stessa proposizione che è principio di una scienza può essere conclusione di un’altra dimostrazione o scienza. Solo il primo principio indimostrabile non può essere conclusione di alcuna dimostrazione o scienza. Similmente accade nell’ambito pratico, che ciò che è fine in un’operazione è ulteriormente ordinabile come mezzo ad un altro fine e così può essere oggetto di scelta. Esempio. Il medico suppone nella sua azione la salute del paziente come il fine e quindi non la sceglie, ma la salute del corpo è ulteriormente ordinabile al bene dell’anima e quindi chi ha la cura della salvezza delle anime può esercitare l’atto di scelta riguardo all’essere sano o infermo. Il fine ultimo però non è in nessun modo oggetto di scelta. Si noti che l’uomo può scegliere il fine ultimo in concreto perchè non ha in concreto una rappresentazione conoscitiva adeguata del fine; non può però scegliere il fine ultimo in astratto perché a questo è ordinato adeguatamente per la sua stessa natura. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 57 Arg.1 Secondo ARISTOTELE la virtù opera la scelta buona; ma tutto ciò che è ordinato alla scelta buona appartiene ad un’altra facoltà 50. Quindi la scelta buona è del fine. Risp. I fini delle singole virtù sono a loro volta ordinati alla beatitudine e sotto questo aspetto (di mezzo ulteriormente ordinato al fine superiore) possono essere oggetto di scelta 51. Arg.2 La preferenza di una cosa piuttosto che di un’altra che è caratteristica della scelta può esserci non solo nei mezzi, ma anche nei fini. Risp. Il fine ultimo è uno, cosicchè soltanto là dove ci sono più fini vi può essere una scelta tra loro in quanto sono ulteriormente ordinabili ad un fine superiore 52. Articolo 4 - La scelta riguarda esclusivamente gli atti umani. ARISTOTELE, Etica Nicomachea III, 4; 1111 b 25-26, dice che “nessuno sceglie se non ciò che ritiene fattibile da sé stesso”. Argomento di ragione. Mi Come l’intenzione è del fine, così la scelta è dei mezzi al fine. Ma Il fine o è un’azione o è una realtà riguardo alla quale si svolge un’azione o facendo tale realtà (come il medico procura la salute nel paziente) o usando o godendo di tale realtà (come l’avaro possiede il denaro). Similmente il mezzo al fine o è un’azione o è una realtà riguardo alla quale si svolge un’azione che la realizza o che ne usa per il fine. Co Perciò la scelta riguarda sempre degli atti umani. -67Arg.1 I mezzi al fine non sono solo gli atti umani, ma anche gli strumenti. Risp. Gli strumenti sono mezzi al fine in quanto l’uomo ne usa per il fine. Arg.2 La scelta non ha luogo solo nell’azione, ma anche nella contemplazione (ad es. scegliendo un’opinione piuttosto che un’altra). Risp. Nella stessa contemplazione c’è l’azione interna (immanente) dell’intelletto che discerne tra le opinioni. Arg.3 Si scelgono degli uomini per degli uffici civili o ecclesiastici da chi non fa nulla riguardo ad essi. Risp. Chi sceglie un principe e un vescovo sceglie di nominarlo a tale dignità; se non vi fosse nessun’azione da parte sua riguardo alla costituzine del vescovo o del principe secolare, la scelta 50 Si tratta dell’intelletto. Infatti con esso è possibile stabilire un obiettivo, il quale, perseguito dalla volontà, può costituire la realizzazione del fine. Ma questo obiettivo è oggetto di scelta. Per questo l’obiettore sostiene che il fine può essere oggetto di scelta. 51 La risposta mantiene il principio che il fine in generale non si può scegliere, tuttavia, considerando la beatitudine come fine necessario della vita umana e considerando che essa viene raggiunta con l’esercizio della virtù, il quale comporta una scelta, ecco che per esempio per quanto riguarda la virtù della carità, per raggiungere la vera beatitudine, Dio deve essere oggetto di scelta. Quindi, in ultima analisi, l’uomo può scegliere il suo fine ultimo non dal punto di vista metafisico, ma dal punto di vista morale. 52 E’ uno metafisicamente, nel senso che la volontà per sua natura tende ad un fine ultimo, che non può che essere uno. Tuttavia questo è un fine astratto, per cui in concreto è data la facoltà all’intelletto dell’uomo di sapere qual è in concreto il fine ultimo. A questo punto il libero arbitrio può scegliere questo bene concreto ordinandolo al fine ultimo verso il quale la volontà naturalmente tende. Si ha allora che resta vero che da una parte il fine non si sceglie; ma siccome in concreto Dio è il vero fine ultimo, in questo senso la scelta di Dio diventa in certo modo un “mezzo” per raggiungere il fine ultimo, che è oggetto naturale della volontà. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 58 non sarebbe di sua competenza. Similmente sempre quando si dice che una cosa si preferisce ad un’altra vi si aggiunge una certa azione di chi sceglie. Articolo 5 - La scelta riguarda solo i possibili. I. Da parte dell’oggetto della scelta. Mi Le nostre scelte hanno per oggetto le nostre azioni. Ma Le azioni da noi fatte ci sono sempre possibili. Co La scelta non può essere che dei possibili. II. Da parte del motivo della scelta. Mi Il motivo della scelto è fondato sul fatto che un mezzo conduce al fine. Ma Ciò che è impossibile non può aiutare in vista del conseguimento del fine. Co Perciò la scelta non può essere dell’impossibile. Il segno di ciò è il fatto che quando un uomo che si consiglia arriva all’impossibile, abbandona tale consiglio, in quanto egli è incapace di procedere oltre. III. Da parte del processo della ragione pratica (per analogia con la ragione speculativa). Mi Il mezzo, oggetto di scelta, sta al fine come la conclusione sta al principio. Ma E’ ovvio che da un principio possibile non segue una conclusione impossibile (se è possibile l’antecedcnte, lo è anche il conseguente). Co Il fine non può essere possibile se non è possibile anche il mezzo al fine. Infatti, all’imposibilc nessuno si muove, casicchè nessuno si muoverebbe al fine se i mezzi non gli apparissero come possibili. Perciò l’impossibile non è oggetto di scelta. -68Arg.1 La volontà può essere degli impossibili e la scelta è atto di volontà. Risp. La volontà è intermedia tra l’intelletto e l’azione esterna. L’intelletto infatti propone alla volontà l’oggetto e la volontà a sua volta causa l’azione. Il principio del moto volitivo sta quindi dalla parte dell’intelletto; invece il termine e la perfezione stanno nell’ordine all’azione, per mezzo della quale il soggetto tende al conseguimento di una cosa. Infatti, il moto della volontà è dall’anima verso la cosa, verso la realtà esterna. La perfezione della volontà si desume perciò dal fatto che qualcosa è buono per un soggetto, così da essere fatto o realizzato da esso. Questo però è solo ciò che è possibile. Di conseguenza la volontà completa è solo del possibile, che è un bene per il soggetto volente; invece la volontà incompleta o velleità può essere anche dell’impossibile, perché uno l’avrebbe voluto se fosse possibile. La scelta è determinata all’opera concreta e quindi solo possibile. Arg.2 La scelta riguarda i nostri atti, ma molto spesso scegliamo ciò che poi non siamo in grado di eseguire. Risp. L’oggetto della volontà deve essere giudicato non in se stesso, ma in quanto presentato dall’intelletto pratico e così può accadere che l’intelletto presenta qualcosa come possibile ciò che di fatto non lo è. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 59 Arg.3 Tentare qualcosa suppone aver scelto la cosa e S.BENEDETTO comanda nella Regola che se un superiore avesse comandato l’impossibile, si dovrebbe nondimeno tentare di eseguirlo. Risp. Questo si dice per il motivo che il sudditto non deve giudicare lui stesso se qualcosa è possibile o meno, ma deve stare in tutto al giudizio del superiore. Articolo 6 - La scelta è libera. Motivo ad hominem. La scelta è atto di una facoltà razionale che è aperta ad una pluralità di alternative. Argomento sistematico. La tesi. L’uomo non sceglie con necessità perché ciò che può non essere non è necessario che sia e la volontà ha la capacità di non scegliere o di scegliere e ciò in due modi: • l’uomo può volere o non volere, agire o non agire, • l’uomo può volere questo o quest’altro, può fare questo o quest’altro. La prova. Si fonda sulla virtù universale della ragione. Mi Tutto ciò che la ragione può apprendere come un bene, può essere oggetto della tendenza volitiva. Ma La ragione può apprendere come un bene: a. non solo il volere o l’agire, ma anche il non volere o il non agire; b. - nei ben particolari può considerare non solo la ragione del bene, ma anche il difetto di qualche bene che ha ragione di male, in modo tale che può apprendere ognuno di questi beni particolari sia come da scegliere che come da evitare; - solo il bene perfetto che è la beatitudine non può essere considerato dalla ragione sotto l’aspetto di un male o di un difetto. Co Perciò l’uomo vuole necessariamente la beatitudine, né può non voler essere beato, cioè non può voler essere misero. La scelta però non è del fine, ma dei mezzi ordinati al fine e quindi non è mai del bene perfetto (che è la beatitudine), ma sempre e solo dei beni particolari, che possono essere scelti o anche non scelti. Di conseguenza l’uomo sceglie non con necessità, ma liberamente. -69Arg.1 Il fine sta agli oggetti di scelta come il principio alle conclusioni, ma le conclusioni seguono necessariamente dai principi. Risp. La conclusione non sempre procede con necessità dai principi, ma solo allorquando i principi non possono essere veri se la conclusione non è vera. Similmente non è necessario che il fine sempre imponga all’uomo la necessità nella scelta dei mezzi, perchè non ogni mezzo è tale che il fine non può essere conseguito senza di esso e anche se fosse tale, non sempre è considerato sotto questo aspetto dalla ragione pratica. Arg.2 La scelta segue il giudizio, ma la ragione giudica con necessità alcune cose a causa della necessità delle premesse. Rip. Il giudizio pratico-pratico degli operabili riguarda delle realtà contingenti che possono essere realizzate da noi. In tali cose le conclusioni non seguono necessariamente dalle premesse che sono principi necessari di necessità assoluta, ma sola da premesse che sono principi necessari ex conditione (in modo condizionato come quando si dice “se corre, si muove”). Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 60 Arg.3 Non è possibile la scelta tra uguali (ad es. tra due cibi ugualmente saporiti a distanza uguale da un uomo affamato: esempio noto sotto il nome di “asino di Buridano”) e tanto meno è possibile la scelta di qualcosa che è meno appetibile. Con necessità si sceglie quindi ciò che appare come più appetibile. Risp. Se si propongono due cose oggettivamente uguali non c’è nessuna ragione per cui, se appaiono uguali sotto un aspetto, non possano apparire disuguali sotto un altro aspetto, cosicchè uno è proposto come più perfetto in maniera tale che la volontà si inclina di più in questa direzione che nell’altra. E’ impossibile scegliere solo se nelle due parti dell’alternativa non si può considerare nessuna preeminenza. Ma ciò è sempre possibile, almeno per una nuova considerazione più attenta. Cf. SERAFINO CAPPONI DA PORRETTA. Q. XIV IL CONSIGLIO CHE PRECEDE LA SCELTA. • essenza: genere: è una certa ricerca (1) specie: determinazione dell’oggetto: • mezzi per il fine (2) • atti umani: - il dato: il consiglio è degli atti umani (3) - il limite: non è di tutti gli atti umani (4) • modo: processo risolutivo (5) processo finito (6) Articolo 1 - Il consiglio consiste in una certa ricerca. Mi La scelta segue il giudizio della ragione riguardo alle cose da fare. Ma Nelle cose da fare vi è una grande incertezza, perchè le azioni riguardano i singoli contingenti che sono incerti a causa della loro variabilità. Co Perciò la scelta segue un giudizio che la ragione dà in una materia estremamente incerta e variabile. =Mi1 Ma1 Nelle cose dubbie ed incerte la ragione non formula un giudizio senza una ricerca precedente. Co1 Perciò prima di formulare il giudizio riguardo alle cose da scegliere è necessario che la ragione intraprenda una ricerca che si chiama “consiglio”. Per questa ragione ARISTOTELE dice che la scelta è l’appetito di ciò su cui si è deliberato in precedenza. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 61 Arg.1 Il DAMASCENO dice che il consiglio è dell’appetito, ma non spetta all’appetito ricercare. Risp. Come nella scelta appare qualcosa della ragione, cioè l’ordine, perché ad essa concorrono le due facoltà - ragione e volontà -, così anche nel consiglio che è atto della ragione, appare qualcosa della volontà, che è come la materia, in quanto il consiglio riguarda ciò che l’uomo vuole fare, e come il motivo, in quanto, per il fatto che l’uomo vuole il fine, è mosso a consigliarsi riguardo ai mezzi. Per conseguenza, come ARISTOTELE chiama la scelta “intelletto appetitivo” per far vedere come le due facoltà concorrono al suo atto, così S.GIOVANNI DAMASCENO chiama il consiglio “appetito inquisitivo” per la stessa ragione. Arg.2 La ricerca spetta all’intelletto discorsivo, ma il consiglio si dice anche di Dio che non ha un intelletto discorsivo. Risp. Ciò che si dice di Dio va purificato da ogni difetto che si trova in noi. Ad es. la nostra scienza procede concludendo e discorrendo dalle cause agli effetti; in Dio invece la scienza significa la certezza di tutti gli effetti nella loro Causa Prima senza alcun discorso. Similmente il consiglio è attribuito a Dio per significare la certezza di giudizio che in noi deriva dal consiglio, anche se la ricerca (e il consiglio in questo senso stretto) sono assenti in Dio. -71Arg.3 La ricerca riguarda cose dubbie, ma il consiglio si dà anche di beni certi, come S.Paolo da il consiglio riguardo alla verginità (1 Co 7,25). Risp. A lcuni beni sono certamente tali secondo la sentenza di uomini sapienti e spirituali, ma non sono certi nella sentenza della moltitudine e nella sentenza di uomini carnali. Per questo motivo è conveniente darne un consiglio. Articolo 2 - Il consiglio riguarda solo i mezzi al fine. Mi Il fine ha negli operabili la ragione di principio. Ma Il principio non è oggetto della questione 53, ma deve essere presupposto ad ogni ricerca. Co Il fine non è nell’ambito pratico oggetto di ricerca. =Mi1 Ma1 Il consiglio è una certa questione (ricerca). Co1 Perciò il fine non è oggetto del consiglio, ma lo sono solo i mezzi ordinati al fine. Precisazione riguardo ai fini non in assoluto, ma rispetto ad una determinata realtà che può essere mezzo rispetto ad un’altra realtà. Ciò che si prende come fine e quindi si dà per scontato in una ricerca può essere preso come mezzo e quindi oggetto di ricerca consiliativa in un’altra ricerca. Arg.1 Negli operabili vi può essere un dubbio anche circa il fine. Risp. Il fine dev’essere determinato e quindi, finchè se ne dubita, non lo si ha ancora come fine, ma lo si considera come qualcosa di ordinabile ulteriormente al fine. Arg.2 La materia del consiglio sono le azioni umane, tra le quali alcune costituiscono un fine. Risp. Il consiglio riguarda le operazioni in quanto sono ordinate al fine; di conseguenza, se un’operazione è fine, non è possibile avere a suo riguardo il consiglio. Articolo 3 - Il consiglio riguarda solo gli atti umani. 53 Di ricerca. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 62 Il consiglio significa la conferenza 54 tra più soggetti (= “consilium”, cioè il consenso di più consiglieri). Ma Per avere conoscenza certa nei particolari contingenti occorre considerare molte circostanze, il che avviene più facilmente da più uomini 55 che da uno solo (ciò che sfugge all’uno è considerato dall’altro). Invece, nelle cose necessarie ed universali la considerazione è più assoluta e più semplice e quindi può avvenire più facilmente da parte di uno solo. Co Perciò la ricerca del consiglio propriamente spetta ai singoli contingenti. -72Mi =Mi1 Ma1 La conoscenza dei singoli contingenti non ha in sè qualcosa di grande, così da essere appetibile per se stessa come la conoscenza degli universali e dei necessari, ma si desidera perché è utile in vista dell’operazione. Le azioni infatti sono circa i singoli contingenti. 1 Co Perciò il consiglio è circa le nostre azioni. Arg.1 La deliberazione può avvenire tra molti uomini deliberanti anche riguardo a cose immobili, che non sono fatte da noi, ad es. la natura delle cose. Risp. Il consiglio implica deliberazione collativa (conferenza) non di ogni tipo, ma precisamente riguardo alle cose da fare. Arg.2 Gli uomini cercano consiglio nella legge (perciò si chiamano “giureconsulti”) senza fare loro stessi le leggi. Risp. Ciò che è stabilito per legge, anche se non deriva dall’azione di chi cerca il consiglìo, è però una direttiva per la sua azione. Arg.3 Alcuni dicono che si consultano riguardo a eventi futuri che non sono nella nostra potestà. Risp. Il consiglio non è solo dell’azione, ma anche di ciò che è ordinato all’azione e dalla conoscenza degli eventi futuri l’uomo è diretto a fare o ad omettere qualcosa. Arg.4 Ci si consiglia non solo riguardo a ciò che dev’essere fatto da noi, ma anche riguardo a ciò che deve essere fatto da altri. Risp. Cerchiamo il consiglio riguardo alle azioni altrui, in quanto ci sono in qualche modo uniti o per affetto (l’amico è sollecito riguardo agli affari dell’amico come riguardo ai suoi affari propri) o a modo di strumento in quanto l’agente principale con lo strumento formano quasi una sola causa (in questo modo il padrone si può consultare riguardo a ciò che deve fare il suo servitore). Articolo 4 - Il consiglio non riguarda tutti gli atti umani. Mi Il consiglio è una certa ricerca. Ma Solitamente si ricerca ciò di cui si dubita: CICERONE, Topica ad Trebatium: argumentum (ratio inquisitiva) est rei dubiae faciens fidem. Co Il consiglio riguarda ciò di cui si dubita. 54 55 La convergenza. Dal concorso di più uomini. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 63 =Ma1 Mi1 Negli operabili umani avviene che non si dubiti di qualcosa in due modi: a. perché si procede per vie determinate ad un fine determinato, come avviene nelle arti (ad es. lo scrittore non si consiglia riguardo al modo di scrivere le lettere, perchè ciò è determinato dall’arte); b. perchè non importa molto se una cosa avviene in uno o in un altro modo, come avviene nelle cose da poco, che poco aiutano o impediscono riguardo al fine da conseguire. Ciò che è poco è concepito dalla ragione quasi come un nulla (parum pro nihilo reputatur). Co1 Perciò di due cose non c’è il consiglio, anche se sono ordinate al fine e cioè delle cose di poca importanza e di quelle cose che sono determinate quanto al modo in cui devono realizzarsi, come sono le opere d’arte all’infuori di alcune arti congetturali come può essere la medicina, il commercio e altre simili. -73Arg.1 Come la scelta riguarda tutti gli atti umani, così anche il consiglio che la precede. Risp. Il consiglio si richiede per la scelta a titolo di giudizio. Se il giudizio è manifesto non c’è bisogno di consiglio. Arg.2 In tutto ciò che non facciamo per impeto passionale procediamo secondo una ricerca razionale e quindi con consiglio. Risp. Nelle cose ovvie la ragione non ricerca, ma subito dà il giudizio e quindi non è necessario che in tutte le azioni guidate dalla ragione ci sia il consiglio. Arg.3 Se una cosa consente più mezzi, il consiglio cerca quello più facile; se c’è un mezzo solo, il consiglio cerca il modo della realizzazione del fine col suo aiuto. In ogni caso c’è il consiglio. Risp. Quando una cosa avviene per un solo mezzo, ma con diversi modi possibili, il consiglio è altrettanto necessario come nel caso in cui una cosa è realizzabile con mezzi diversi. Quando invece è determinato non solo il mezzo reale, ma anche il modo della sua applicazione, non c’è bisogno di consiglio. Articolo 5 - Il consiglio precede in maniera risolutiva. ARISTOTELE, nell’Etica Nicomachea, III, c.5; 1112 b 20, dice che “chi si consiglia sembra cercare e risolvere”. La prova. Ma In ogni ricerca occorre cominciare da qualche principio. a. Se ciò che è prima nella conoscenza è prima anche secondo l’essere, il processo non è risolutivo (analitico), ma piuttosto compositivo (sintetico). Si procede infatti dalle cause che sono più semplici verso gli effetti che sono più complessi. b. Se invece ciò che è prima nella conoscenza è dopo secondo l’essere, il processo sarà risolutivo (analitico) come quando giudichiamo degli effetti più manifesti risolvendoli (cioè riconducendoli) alle cause più semplici. Mi Nel consiglio il principio è il fine che è prima nell’intenzione, mentre è dopo nell’essere. Co Sotto questo aspetto quindi la ricerca del consiglio è necessariamente risolutiva cominciando da ciò che si intende nel futuro, finchè si arrivi a ciò che si deve fare subito (il mezzo è più vicino al fine in esecuzione che al fine in intenzione; perciò il mezzo precede in essendo il fine inteso e tutto il processo dal fine inteso al mezzo è come il processo dalla conclusione – effetto - al principio - causa). Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 64 -74Arg.1 Il consiglio riguarda le azioni che procedono piuttosto in maniera compositiva, cioè dalle cose semplici a quelle complesse. Risp. Il consiglio riguarda le azioni, ma la loro ragione di azione deriva a sua volta dal fine e perciò l’ordine del ragionare sulle azioni è contrario all’ordine dell’agire stesso. Arg.2 La ragione comincia convenientemente da ciò che precede a ciò che segue e quindi dal passato e presente procede al futuro, il che sembra spettare all’ordine compositivo. Risp. La ragione comincia da ciò che è prima secondo la ragione, ma non sempre da ciò che è prima secondo il tempo. Arg.3 Il consiglio consiste nel deliberare sulla possibilità di un’azione che si valuta secondo ciò che possiamo fare e quindi si deve partire dal presente. Risp. Prima di chiedersi se una cosa è possibile, occorre chiedersi se è conveniente rispetto al fine e così la valutazione della convenienza precede quella della possibilità. Articolo 6 - Il consiglio non può procedere all’infinito. Argomento ad hominem. Ma Nessuno si muove a ciò a cui è impossibile che arrivi. Mi Ora, è impossibile attraversare l’infinito. Co Se la ricerca del consiglio fosse infinita, nessuno comincerebbe mai a consigliarsi. La Co è manifestamente falsa quanto al conseguente e quindi deve esserlo anche quanto all’antecedente. Argomento sistematico. La tesi. La ricerca del consiglio è finita (terminata) da due lati: dalla parte del principio e dalla parte del termine. La prova. Dalla parte del principio. Nella ricerca del consiglio si può trovare un duplice principio: a. un principio quasi proprio, tratto dallo stesso genere degli operabili, che è il fine. Ora, il fine è presupposto nel consiglio come il suo principio e quindi non può essere a sua volta oggetto del consiglio. b. un altro principio è come se fosse tratto da un altro genere, allo stesso modo in cui nelle scienze dimostrative una scienza suppone la verità di una conclusione di un’altra scienza dandola per scontata e quindi non instaurando nessuna ricerca riguardo ad essa. Tali principi presupposti nella ricerca del consiglio sono tutte le percezioni sensibili (ad es. che questo è pane e questo un pezzo di ferro); e tutto ciò che è conosciuto per qualsiasi altra scienza speculativa o pratica come nozione universale, ad es. che l’adulterio è proibito da Dio e che l’uomo non può vivere senza nutrirsi convenientemente. Anche queste cose non sono oggetto di ricerca per chi si consiglia. -75Dalla parte del termine. Il termine del consiglio è quel mezzo operativo che è immediatamente a nostra disposizione per agire. Infatti, come il fine ha negli operabili ragione di principio, così i mezzi hanno ragione di conclusione. Di conseguenza, ciò che è il primo mezzo Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 65 dell’agire nell’esecuzione è come l’ultima conclusione nell’intenzione. Per conseguenza il primo mezzo operabile ha ragione di ultima conclusione alla quale termina il consiglio. Precisazione. E’ possibile che il consiglio sia (per accidens) potenzialmente infinito quanto all’infinità potenziale degli oggetti che possono essere ricercati dal consiglio deliberativo. Arg.1 Il consiglio è dei singoli nei quali si svolgono azioni, ma i singoli sono infiniti. Risp. I singoli non sono infiniti attualmente, ma solo potenzialmente. Arg.2 La ricerca del consiglio non riguarda solo la realizzazione del fine, ma anche gli ostacoli da evitare e tali ostacoli possono essere oggetto di ricerca infinita. Risp. E’ vero che ogni azione umana può essere impedita, ma non in ogni azione umana tale impedimento è imminente e quindi non è sempre necessario consigliarsi sul come evitare l’impedimento. Arg.3 La ricerca della scienza dimostrativa termina a dei principi per sè noti che sono assolutamente certi, ma una simile certezza non si può trovare nei singoli contingenti che sono variabili ed incerti. Risp. Nei singoli contingenti si può prendere qualcosa come certo, non in assoluto però, bensì per il momento presente in quanto si prende per l’azione. Non è infatti necessario che Socrate sia seduto, ma è necessario che sia seduto finchè è seduto. E una tale necessità è oggetto di conoscenza certa. - Q. XV IL CONSENSO (CHE E’ UN ATTO DI VOLONTA’ RIGUARDO AI MEZZI). in genere: soggetto: potenza (volontà) (1) natura (razionale) (2) oggetto: i mezzi per il fine (3) in particolare: il consenso all’atto spetta alla ragione superiore (4) Articolo 1 - Il consenso appartiene alla parte appetitiva. Mi Consentire vuol dire applicare il senso a qualcosa. Ma E’ proprio del senso conoscere le cose presenti (l’immaginazione conosce le somiglianze corporee di cose anche assenti e l’intelletto conosce l’universale astraendo dalla presenza o assenza) e siccome l’atto dell’appetito è inclinazione alla cosa stessa, l’applicazione dell’appetito alla cosa in quanto inerisce ad essa, prende il nome di senso (in quanto dalla cosa gli deriva un’esperienza di compiacenza). Co Perciò, sotto questo aspetto, consentire spetta all’appetito. Ad 3m A ssentire (ad aliud sentire) implica distanza; invece, consentire (simul sentire) implica congiunzione. La volontà che tende alla cosa si dice consentire; l’intelletto che rappresenta si dice assentire. -76- Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 66 Articolo 2 - Il consenso non conviene agli animali irrazionali. La tesi. Il consenso, propriamente parlando non c’è negli animali irrazionali. La prova. Mi Il consenso significa l’applicazione dell’appetito ad un’azione. Ma Ora, applicare il moto appetitivo ad un’azione da eseguire conviene solo ad un soggetto che ha nella sua potestà il moto appetitivo (come toccare la pietra conviene al bastone, ma applicare il bastone al contatto con la pietra spetta a chi ha nella sua potestà il moto del bastone). Co Perciò il consenso spetta a chi ha nella sua potestà l’applicazione del moto appetitivo all’azione da eseguire. =Ma1 Mi1 Ora, gli animali irrazionali non hanno nella loro potestà il moto appetitivo, ma tale moto deriva dal loro istinto naturale. 1 Co Per conseguenza l’animale irrazionale ha in sè il moto appetitivo, ma non può applicarlo a qualcosa, cosicchè non si può propriamente dire che consenta. Ciò è il privilegio della natura razionale che domina il moto appetitivo e quindi la sua applicazione o meno all’azione da eseguire. Ad 1 Arg. Il consenso è determinazione dell’appetito e gli animali hanno l’appetito determinato ad una sola cosa. Risp. La determinazione dell’appetito animale è passiva, mentre per il consenso si richiede quella attiva (cioè il dominio attivo dell’applicazione). Ad 2 Arg. L’esecuzione dell’opera segue dal consenso, quindi tolto il consenso, si toglie anche l’esecuzione dell’opera. Risp. L’esecuzione dell’opera può seguire sia dal consenso che dall’appetito impetuoso (istintivo) e in questo modo si verifica negli animali. Perciò non è necesario che tolto il consenso, sia tolta anche l’opera. Articolo 3 - Il consenso riguarda i mezzi per il fine. Mi Il consenso significa l’applicazione del moto appetitivo a qualcosa di preesistente che è nella potestà di chi applica. Ma Nell’ordine degli agibili prima c’è l’apprensione del fine, poi l’appetito del fine, poi il consiglio riguardo ai mezzi e infine l’appetito dei mezzi disposti al fine. L’appetito tende per natura all’ultimo fine così che l’applicazione del moto appetitivo al fine preconosciuto non ha ragione di consenso, ma con semplice volizione. Nei mezzi ordinati al fine (il che è tutto ciò che segue al fine ultimo), che, in quanto sono dei mezzi, sono oggetto del consiglio, il moto appetitivo tende secondo l’applicazione a ciò che è stato giudicato dal consiglio. Precisazione. -77Il moto appetitivo al fine non è applicato al consiglio, ma piuttosto il consiglio è applicato ad esso in quanto il consiglio presuppone l’appetito del fine. L’appetito dei mezzi invece presuppone la determinazione del consiglio, cosicchè il moto appetitivo è applicato al consiglio e questa applicazione è il consenso. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 67 Co Dato che il consiglio riguarda esclusivamente i mezzi per il fine, anche il consenso, propriamente parlando, non c’è se non soltanto ai mezzi per il fine. Ad 3m Arg. Se il consenso riguarda i mezzi, non si vede in che cosa possa differire dalla scelta che pure riguarda i mezzi. Risp. La scelta aggiunge al consenso una certa relazione a ciò a cui si preferisce una cosa scegliendola. In tal modo, dopo il consenso che riguarda più mezzi ordinati al fine, i quali tutti piacciono all’appetito consenziente, vi è ancora spazio per la scelta, che tra molti mezzi che piacciono, ne prende uno lasciando da parte gli altri. Solo se il mezzo conducente al fine è uno solo non c’è differenza reale tra consenso e scelta, ma solo una differenza di ragione, in quanto il consenso riguarda ciò che piace in vista dell’agire; invece, la scelta riguarda la preferenza a ciò che non piace. Articolo 4 - Il consenso all’atto spetta alla parte superiore dell’anima. Mi La sentenza finale spetta sempre al superiore, che deve giudicare gli altri, cosicchè finchè rimane ancora qualcosa da giudicare, non è ancora stata data la sentenza finale. Ma Ora, è ovvio che spetta alla ragione superiore giudicare di tutte le cose, perché dei sensibili giudichiamo con la ragione e delle ragioni umane giudichiamo secondo le ragioni divine, che spettano alla ragione superiore. In tal modo, finché rimane incerto se si resiste 56 secondo le ragioni divine o meno, nessun giudizio della ragione ha valore della sentenza finale. Co La sentenza finale spetta alla regione superiore. =Ma1 Mi1 La sentenza finale riguardo alle cose da fare è il consenso all’atto. 1 Co Perciò il consenso all’atto spetta alla ragione superiore, in quanto nella ragione superiore è inclusa la volontà. -78Ad 1m Risp. Il consenso al diletto dell’opera spetta alla ragione superiore, come il consenso all’opera stessa. Invece il consenso al diletto della valutazione cogitativa spetta alla ragione inferiore come la stessa valutazione. Se per tale valutazione si intende un’azione a sè stante, il giudizio spetterà ancora alla ragione superiore. Se invece tale valutazione si considera come ordinata ad un’altra azione, spetta alla ragione inferiore. Infatti ciò che è mezzo per il fine spetta ad un’arte inferiore rispetto all’arte riguardante il fine. Ad 3m Risp. La ragione superiore dà il consenso non solo perchè muove sempre all’agire secondo le ragioni eterne, ma anche perchè secondo le ragioni eterne non dissente (ad es. da una tendenza passionale, la cui valutazione immediata spetta piuttosto alla ragione inferiore). 56 Il termine è piuttosto improprio. Meglio: se si valuta. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 68 Q. XVI L’USO CHE E’ ATTO DI VOLONTA’ RIGUARDO AI MEZZI. • in sé: soggetto: facoltà - volontà (1) natura - razionale (2) oggetto - mezzi al fine (3) • rispetto all’atto di scelta (4) Articolo 1 - Usare è atto di volontà. Mi L’uso di una cosa significa l’applicazione della cosa ad una certa operazione. L’operazione a cui applichiamo la cosa si dice suo uso come cavalcare è l’uso del cavallo. Ma All’operazione applichiamo sia i principi interni dell’agire, sia le potenze dell’anima, sia le membra esterne del corpo e ciò secondo un certo ordine: applichiano infatti le cose esterne all’operazione per mezzo delle potenze dell’anima (abiti delle potenze o organi del corpo), che sono dei principi intrinseci di azione; la volontà a sua volta muove tutte le facoltà operative al loro atto applicandole così all’operazione. Co Perciò è ovvio che usare spetta primariamente e principalmente alla volontà come al primo movente, alla ragione come al dirigente e alle altre facoltà come ad eseguenti, le quali sono rispetto alla volontà come degli strumenti rispetto al primo agente. Siccome poi l’azione non si attribuisce propriamente allo strumento, bensì all’agente principale, ne segue che usare è propriamente atto della volontà. Ad 1m. Risp. Si dice che usare è riferire una cosa all’altra, in quanto la volontà tende a ciò che è stato riferito ad altro dalla ragione. E così usare è sempre atto della volontà, anche se suppone l’ordine della ragione. QUESTIONE CONNESSA. La necessità dell’uso attivo nella volontà (GIOVANNI DI S.TOMMASO). VASQUEZ sostiene che l’uso non è un atto elicito dalla volontà, ma la volontà è denominata “utente” dall’atto della facoltà esterna mossa dalla volontà, senza che vi sia nella volontà stessa un altro atto seguente quello della scelta. Soluzione. Nelle azioni transitive 57 l’azione come moto, il moto stesso e la passione (che sono realmente identici) sono soggettivamente nel paziente e da loro l’agente è denominato come agente e movente. -79Nelle azioni immanenti (come sono gli atti della volontà) il soggetto non si dice agire, applicare e muovere solo dall’azione ricevuta nella facoltà mossa (cioè dalla sua applicazione ossia dal suo uso passivo), perchè l’azione immanente deve rimanere nello stesso agente e da essa deve risultare l’uso passivo nella facoltà mossa. Per conseguenza, se c’è uso passivo che sorge nella volontà, occorre anche ammettere l’uso attivo che sorge in essa come un suo atto elicito. Articolo 2 - L’uso non conviene agli animali irrazionali. Ma Usare è applicare un principio di azione all’azione come consentire è applicare il moto appetitivo all’appetito di qualcosa. Mi Ora applicare qualcosa ad un’altra cosa conviene solo al soggetto che ha un giudizio 57 Qui c’era: transeunte. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 69 Co dominativo (arbitrium) su tale cosa; il che può essere solo un soggetto capace di riferire una cosa ad un’altra, il che è sua volta proprio della ragione. Perciò solo l’animale razionale consente ed usa. Ad 1m - Risp. La fruizione significa il moto assoluto dell’appetito nell’appetibile; l’uso invece significa il moto dell’appetito in qualcosa secondo l’ordine ad un’altra cosa ancora. Secondo gli oggetti godere è più nobile di usare (ciò che è appetibile in assoluto prevale su ciò che è appetibile solo in vista di qualcos’altro). Invece, secondo la facoltà conoscitiva precedente si richiede maggiore nobiltà dalla parte dell’uso, perchè ordinare una cosa ad un’altra spetta alla ragione, ma conoscere qualcosa in assoluto è possibile anche per il senso 58. Articolo 3 - L’uso non può essere dell’ultimo fine. Mi Usare significa applicare una cosa ad un’altra. Ma Ora ciò che è applicato ad un’altra cosa ha ragione di mezzo ordinato al fine. Co Perciò usare è sempre di ciò che è ordinato al fine (ciò che serve per il fine si dice utile e la stessa utilità di una cosa si dice il suo uso). =Ma1 Mi1 Il fine ultimo si dice però in due modi: • in assoluto e • riguardo ad un determinato aspetto; inoltre il fine è: sia la stessa cosa, (ad es.denaro) che il suo possesso. Semplicemente (in assoluto) è fine la cosa stessa, perchè il possesso del denaro è buono solo per il bene del denaro stesso. Però, sotto un aspetto particolare il possesso del denaro è fine ultimo per l’avaro perchè cerca il denaro per possederlo. Co Semplicemente perciò un uomo gode del denaro in quanto pone in esso il fino ultimo, ne usa però in quanto lo ordina al possesso. Ad 2m Il fine è assunto nella volontà per la quiete (fruizione) e così godere è uso del fine; invece il mezzo è assunto nella volontà non solo per il suo uso, ma in ordine ad un’altra cosa che quieta la volontà. -80Articolo 4 - L’uso non precede, ma segue la scelta. Ma Distinzione: La volontà ha una duplice relazione all’oggetto voluto: a) il voluto è nel volente secondo una certa proporzione od ordine del volente al voluto e questo modo di desiderare il fine è imperfetto; b) ogni appetito, sia naturale che volontario tende al possesso perfetto del fine (infatti ogni imperfetto tende alla sua perfezione), che consiste nell’avere il fine realmente. 58 La conoscenza razionale è più nobile di quella sensitiva. Ora, nel primo tipo di conoscenza interviene la mediazione dell’uso, che non c’è invece nella conoscenza sensibile. Da qui, secondo l’Autore, la maggiore nobiltà dell’uso, nella conoscenza razionale, rispetto alla fruizione che invece resta la cosa principale nel senso, il quale non comporta la mediazione dell’uso. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 70 MI Co Il voluto è sia il fine che i mezzi e nell’ordine dei mezzi l’ultimo atto della volontà nell’ambito del primo ordine 59 del volente al voluto (ordine intenzionale di scelta) è quello della scelta (electio), in quanto la proporzione della volontà al voluto si compie perfettamente nella scelta, cosicchè la volontà vuole conpletamente ciò che è ordinato come mezzo al fine. L’uso però appartiene già al secondo ordine del volente al voluto (ordine di esecuzione reale), in quanto tende al conseguimento dell’oggetto voluto. Perciò è ovvio che l’uso segue la scelta (come il perfetto segue 1’imperfetto nell’ordine genetico dell’atto volontario) intendendo per uso l’atto con cui la volontà si serve delle facoltà esecutive movendole tutte al loro atto. Precisazione. Se per uso si intende la mozione della volontà nei riguardi della ragione pratica (mozione volitiva dell’intelletto all’atto del consiglio), l’uso avrà il significato di una considerazione intellettiva con la quale l’intelletto riferisce il mezzo al fine (consiglio) e in questo senso preciso l’uso precede la scelta (infatti il consiglio precede il consenso, il giudizio pratico-pratico e la stessa scelta nell’ordo electionis). ad 3m - Arg. La volontà non muove solo le altre potenze, ma anche se stessa e quindi usa di se stessa quando dà il consenso, ma il consenso precede la scelta. Risp. La scelta precede l’uso, se si riferiscono allo stesso oggetto. E’ però possibile che l’uso di una cosa preceda la scelta di un’altra. Siccome poi gli atti volitivi sono riflessivi (reflectuntur supra seipsos), ne segue che in ogni atto di volontà c’è consenso, scelta e uso. Ad es. la volontà consente di scegliere, consente di consentire, usa di sè per consentire e scegliere. Sempre gli atti ordinati ad un oggetto principale 60 sono prima degli altri. -81Q. XVII GLI ATTI IMPERATI DALLA VOLONTA’. • In sé: soggetto: parte conoscitiva (1) parte razionale (2) ordine all’uso (3) • rispetto all’atto imperato: in genere: differenza tra impero e atto imperato (4) in specie: le facoltà suscettibili di atti imperati: interne: - razionali: volontà (5) ragione (6) - sensitive: appetito sensitivo (7) atti vegetativi (8) esterne (membra del corpo) (9) Articolo 1 - Il comando è atto di ragione e non di volontà. 59 60 Ossia l’intenzione del volente. C’era “priore”, che è un latinismo. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 71 La tesi. Comandare è atto di ragione supponendo però un atto di volontà. La prova. Osservazione preliminare. Gli atti di volontà e di ragione possono portarsi reciprocamente l’uno all’altro in quanto la ragione ragiona riguardo al volere e la volontà vuole ragionare e così avviene che un atto di volontà è preceduto da un atto di ragione e viceversa. Siccome poi la virtù dell’atto precedente rimane in quello seguente, può avvenire che in un atto di volontà rimane la virtù dell’atto precedente di ragione (cf. uso, scelta) e viceversa vi è un atto di ragione in cui rimane virtualmente qualcosa dell’atto della volontà. Il comandare è essenzialmente un atto di ragione (con la virtù partecipata della mozione volitiva). Mi Colui che comanda, ordina a colui al quale comanda di fare qualcosa intimandoglielo. Ma Ora ordinare in questa maniera a modo di una certa intimazione spetta alla ragione che può farlo in due modi: - in assoluto con espressione indicativa “questo è da fare” e - movendo il soggetto all’atto intimato con espressione imperativa “fa’ questo!” e in questo caso è impegnata la virtù della volontà, che è la facoltà movente le altre all’esercizio dei loro atti, come il movente superiore in virtù del quale si muovono i moventi inferiori, cosicchè, se la ragione muove comandando, ciò le deriva dalla virtù della volontà. Co Perciò imperare (comandare) è atto della ragione supponendo l’atto della volontà, in virtù del quale la ragione muove per mezzo del comando all’esercizio dell’atto. QUESTIONE CONNESSA. La volontà comonda a se stessa non rispetto allo stesso atto, ma rispetto ad atti diversi (GIOVANNI DI S.TOMMASO). La volontà non muove (imperante) e non è mossa (imperata) circa la stessa cosa, ma circa cose ossia atti diversi, anche se emessi dalla stessa facoltà volitiva, dalla quale è iniziata la mozione. Tale mozione però non è iniziata da se stessa, ma da un’altra mozione, da un altro atto. In ciò non c’è nulla di inconveniente perchè così la stessa potenza operativa si muove da un atto ad un altro riflettendo su se stessa e comandando riflessivamente a sè il suo atto. Non riflette sull’atto precedente per imperarlo, ma riflette su se stessa come facoltà per muovere e imperare un altro atto. -82- Articolo 2 - Il comando si trova esclusivamente in nature razionali. Mi Comandare è ordinare qualcuno a fare qualcosa con una certa mozione intimativa. Ma Ora, ordinare è atto di ragione. Co Perciò il comando si verifica solo in una natura dotata di ragione e non negli animali che ne sono privi. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 72 Ad 1m La virtù appetitiva è imperativa sensu stricto solo negli uomini; negli animali è “imperativa” solo se all’“imperativo” si dà il senso largo di “motivo” 61. Articolo 3 - L’uso non precede, ma segue il comando. La tesi. - Se si prende l’uso di un mezzo in quanto è nella ragione 62 che lo riferisce al fine, non c’è dubbio che, siccome 63 precede la scelta, precede a fortiori anche il comando 64. Se si prende invece l’uso di un mezzo in quanto è sottomesso alla facoltà esecutiva 65, l’uso segue il comando. La prova. Mi L’uso dell’utente è congiunto con l’atto di ciò di cui l’utente usa. Ma Il comando invece non è simultaneo con l’atto di colui al quale si comanda, ma naturalmente (e talvolta anche secondo il tempo) il comando precede e poi segue l’obbedienza al comando. Co Perciò è evidente che il comando precede l’uso. Ad 1m Nell’ordine dell’atto umano la scelta precede e l’uso segue l’atto del comando. Il consiglio è determinato dal giudizio (pratico-pratico) della ragione e a ciò segue la scelta della volontà. Dopo la scelta la ragione comanda alla volontà i mezzi coi quali si deve eseguire ciò che si è scelto e allora la volontà inizia ad usare eseguendo il comando della ragione. Articolo 4 - Il comando e l’atto comandato sono un unico atto umano distinti come parti di un tutto. Mi L’uno si dice nello stesso modo come l’ente. Ma L’ente: - in assoluto (semplicemente) è sostanza, - sotto un aspetto ristretto (secundum quid) è: accidente o ente di ragione. Co Perciò: ciò che è uno secondo la sostanza è uno in assoluto e molteplice sotto un aspetto ristretto. Ad es. un tutto nel genere di sostanza composto da parti integrali o essenziali (materia e forma) è uno in assoluto, perchè il tutto è ente e sostanza in assoluto, ma le parti sono solo degli enti e delle “sostanze” nel tutto; ciò che è diverso secondo sostanza e unito secondo accidente è diverso 66 in assoluto e uno sotto un aspetto ristretto, come molti uomini sono un popolo o molte pietre un mucchio (unità di composizione o di ordine) e similmente molti individui di un genere e di una 61 Nel senso di: movento o motore. Nell’intenzione, ossia l’ordine della specificazione. 63 L’uso. 64 In quanto la scelta precede il comando. 65 Ordine dell’esecuzione. 66 Diversificato. 62 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 73 specie sono semplicemente molti, anche se formano un’unità secundum quid perchè essere uno in genere o in specie è essere uno soltanto secondo la ragione. -83=Ma1 Mi1 Come nelle cose naturali il tutto (ente naturale) è composto da materia e forma, anche se ha una moltitudine di parti, così anche negli atti umani l’atto della facoltà inferiore (atto imperato) sta all’atto della facoltà superiore (impero, comando) come la materia alla forma, in quanto la facoltà inferiore agisce in virtù del movente superiore e similmente l’atto del primo movente sta all’atto dello strumento come qualcosa di formale a qualcosa di materiale. 1 Co Perciò l’impero (il comando) e l’atto imperato sono un solo atto umano come un tutto è una sola cosa, ma è molteplice secondo le sue parti. Ad 1m Lo stesso è l’atto del movente e del mosso e quindi, se una potenza è ordinata all’altra, i loro atti formano un atto solo. Articolo 5 - L’atto della volontà può essere imperato. Ma Ciò che è in nostro potere soggiace al nostro comando. Mi Ora, l’atto della volontà è massimamente in nostro potere (tutti i nostri atti si dicono essere in nostro potere in quanto sono volontari). Co Perciò gli atti della volontà sono imperati (comandati). Argomento sistematico. Ma Il comando è l’atto della ragione ordinante con una certa mozione all’agire. Mi E’ ovvio che la ragione può ordinare riguardo all’atto della volontà, perché, come può giudicare che è bene volere qualcosa, così può anche ordinare comandando che l’uomo voglia qualcosa. Co Perciò l’atto della volontà può essere comandato. Ad 1m Quando l’anima comanda, già vuole ciò che comanda, a meno che il comando sia imperfetto (fluttuante tra diversi motivi), nel qual caso è possibile che si comandi una cosa e non la si voglia. Ad 2m La volontà conosce il comando perché l’intelletto conosce non solo da se stesso, ma anche 67 per la volontà e la volontà non vuole solo per se stessa, ma anche per 68 le altre facoltà che muove. Così l’uomo, in quanto è intelligente e volente, comanda a se stesso l’atto della volontà. Ad 3m Essendo il comando atto della ragione, è comandato quell’atto che è sottomesso alla ragione. Perciò, siccome il primo atto della volontà non proviene dall’ordinazione della ragione, ma dall’istinto della natura, ne segue che tale atto non è imperato e quindi non si procede all’infinito. 67 68 In forza della volontà. Per mezzo. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 74 -84- Articolo 6 - L’atto della ragione può essere imperato. Motivo fondamentale. La ragione riflette su se stessa e perciò, come ordina gli atti delle altre facoltà, così può anche ordinare il suo proprio atto. Diversi modi di considerare l’atto della ragione: 1. quanto all’esercizio; e così l’atto della ragione può sempre essere imperato, come ad es., se si ordina a qualcuno che stia attento; 2. quanto all’oggetto, circa il quale vi sono due atti di ragione: a. apprensione della verità circa una cosa e questo non è in nostro potere, ma avviene in virtù di una luce naturale o soprannaturale, e quindi non può essere imperato; b. assenso a ciò che si apprende: • se ciò che si apprende è tale che l’assenso dell’intelletto è naturale (ad es. i primi princìpi), l’assenso o il dissenso non è in nostro potere, ma è nell’ordine della natura e quindi non è sottomesso, propriamente parlando, all’impero (comando); • se l’oggetto conosciuto per apprensione non convince subito l’intelletto, cosicchè quest’ultimo può sospendere l’assenso e il dissenso, o addirittura può o assentire o dissentire; allora l’assenso e il dissenso è in nostro potere e soggiace all’impero (comando). Ad 2m Arg. Ciò che è per essenza si distingue da ciò che è per partecipazione; ma la facoltà il cui atto è imperato è ragione per partecipazione. Risp. Data la varietà degli oggetti circa i quali possono versare gli atti di ragione, nulla impedisce che la ragione sia partecipe di se stessa come nella conoscenza delle conclusioni è partecipata la conoscenza dei principi. Articolo 7 - L’atto dell’appetito sensitivo è imperato. Metodo di ricerca. Un atto soggiace all’impero della ragione in quanto è in nostro potere. Perciò, per vedere fino a che punto l’appetito sensitivo può essere imperato nei suoi atti, occorre considerare in che modo esso è in nostro potere. Nota preliminare. L’appetito sensitivo differisce da quello intellettivo (volontà) in quanto è facoltà di un organo corporeo; non così invece la volontà. Mi L’appetito sensitivo è virtù operativa di un organo corporeo. Ma Ogni virtù operativa che usa un organo corporeo dipende non solo dalla potenza dell’anima, ma anche dalla disposizione dell’organo corporeo (ad es. la vista dipende sia dalla facoltà visiva che dall’occhio, la cui qualità aiuta o impedisce la vista). Co Perciò anche l’atto dell’appetito sensitivo dipende non solo dalla facoltà appetitiva, ma anche dalla disposizione del corpo. -85I. Dalla parte della facoltà dell’anima. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 75 Mi Da questa parte l’appetito sensitivo segue l’apprensione. Ma Ora, l’apprensione dell’immaginazione che è particolare, è regolata dall’apprensione della ragione, che è universale, come una facoltà attiva particolare è regolata da una facoltà attiva universale. Co Perciò da questa parte l’atto dell’appetito sensitivo è sottomesso al comando della ragione. II. Dalla parte della disposizione del corpo invece il moto dell’appetito sensitivo non è del tutto sottomesso al comando della ragione, perché la disposizione del corpo non dipende dal comando della ragione. Caso particolare. Talvolta avviene che il moto dell’appetito sensitivo è subito stimolato dall’apprensione dell’immaginazione o del senso. In questo caso il moto dell’appetito sensitivo esula dal comando della ragione, anche se avrebbe potuto essere impedito, se fosse stato previsto. In questo senso ARISTOTELE dice che la ragione domina l’irascibile e il concupiscibile non con il dominio despotico con il quale si dominano i servi, ma con il dominio politico o regale con il quale si governano i liberi. Ad 2m Rispetto all’atto dell’appetito sensitivo, la qualità del corpo è: a. Precedente, in quanto uno è corporalmente predisposto ad una determinata passione e tale qualità è 69 o dalla natura o da una mozione precedente, che non può subito fermarsi e quindi non soggiace al comando della ragione, b. Seguente, come quando uno diventa ardente per effetto dell’ira e tale qualità segue il comando della ragione, perché segue l’atto dell’appetito sensitivo, il quale poi si ripercuote sul corpo. Ad 3m Il senso esterno richiede per il suo atto la presenza del sensibile esterno, che non è sempre in nostro potere. L’atto dell’immaginazione invece soggiace al comando della ragione secondo il modo di forza o debolezza della facoltà immaginativa. Il fatto che l’uomo non possa immaginare ciò che la ragione considera avviene o perchè l’oggetto non si può immaginare (ad es. le cose spirituali) o perchè la facoltà immaginativa è troppo debole a causa dell’indisposizione di qualche organo. Articolo 8 - Gli atti dell’anima vegetativa non si comandano. Nota preliminare. Siccome ogni agente desidera il fine, ogni atto procede da un appetito (desiderio) naturale, animale o intellettivo. Mi L’appetito naturale non segue nessuna apprensione (a differenza dell’appetito sensitivo ed intellettivo). Ma La ragione comanda a modo di virtù conoscitiva (apprensiva). Co Perciò gli atti della virtù sensitiva o intellettiva si possono comandare, ma non quelli dell’appetito naturale. 69 Proviene. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 76 =Ma1 Mi1 Gli atti dell’appetito naturale sono dell’anima vegetativa. Co1 Perciò gli atti dell’anima vegetativa non soggiacciono al comando della ragione. Ad 3m La moralità non è negli atti vegetativi, ma negli atti sensitivi ordinati a quelli vegetativi (ad es. concupiscenza del cibo). -86- Articolo 9 - Gli atti delle membra esteriori del corpo sono imperati. Mi Le membra del corpo sono come degli strumenti delle facoltà operative dell’anima, cosicchè come le singole facoltà sono sottomesse alla ragione, così anche le membra del corpo obbediscono al comando della ragione. Ma Le facoltà sensitive si sottomettono al comando della ragione, ma non si sottomettono le facoltà naturali. Co Perciò i moti delle membra mosse dalle facoltà sensitive sono sottomessi al comando della ragione, invece i moti delle membra che seguono le forze naturali non si sottomettono al comando della ragione. Ad 3m S.AGOSTINO, De Civitate Dei XIV, 17 e 20; MPL 41, col. 425 e 428, spiega l’insubordinazione dei genitali alla ragione come pena per il peccato originale, che riguarda in un modo particolare lo strumento della propagazione del peccato originale (il quale è trasmesso appunto per generazione). S.TOMMASO cita tale spiegazione, ma non ne è contento. Il peccato originale infatti non distrugge la natura e quindi ci dev’essere un motivo naturale che è stato indicato da ARISTOTELE riguardo al moto del cuore e dei genitali, in quanto tali organi sono quasi degli animali separati perché il principio della vita è in qualche modo il tutto della vita (cioè di un essere vivente). Inoltre i principi devono essere naturali e quindi tali organi che sono quasi principi di vita (o nello stesso individuo-cuore, o nella progenie-genitali) hanno un moto naturale. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 77 Q. XVIII LA BONTA’ E MALIZIA DEGLI ATTI UMANI IN GENERE. - in genere: il genere morale (bene e male) (1) fonti di moralità generica: • principale - oggetto (2) • derivate: circostanze (3) fine (4) - in specie: per se: • moralità specificamente determinata: esistenza di moralità specifica (5) il fine come fonte di moralià specifica: o in sè (6) o riguardo all’oggetto (7) • moralità indifferente: in specie (8) in individuo (9) per accidens - dalle circostanze: • qualche circostanza (10) • ogni circostanza (11) -87 Articolo 1 - Vi sono degli atti umani buoni e cattivi. Mi Siccome ogni cosa produce la sua azione secondo ciò che essa stessa è formalmente e intrinsecamente, bisogna giudicare del bene e del male nelle azioni come si giudica del bene e del male nelle cose. Ma Le cose sono tanto buone quanto hanno di essere (ente e bene sono concetti convertibili, trascendentali) e quindi Dio che ha la pienezza di essere in unità e semplicità perfette, ha la pienezza assoluta del bene; invece le cose finite (create) hanno una pienezza di essere conveniente a ciascuna di esse secondo aspetti diversi e quindi può avvenire che qualcosa abbia l’essere sotto un certo aspetto, venendo però meno riguardo alla pienezza di essere dovuta e tali cose, in quanto hanno l’essere, sono buone, ma in quanto vengono meno all’essere dovuto, sono invece cattive (ad es. l’uomo cieco ha il bene della vita, ma ha il male della privazione di vista). Se qualcosa fosse del tutto privo di entità e di bontà, non si potrebbe chiamare nè buono nè cattivo. La ragione del bene consiste nella pienezza dell’essere dovuto e perciò, se a qualcosa manca la pienezza dovuta di essere, si dice bene non in assoluto, ma solo sotto un aspetto ristretto; si potrà però sempre dire ente in assoluto e non ente sotto un aspetto ristretto (a differenza del bene l’ente non dice pienezza dell’essere, ma l’essere sostanziale fondamentale). Cf. Summa Theologiae I, q.5, a.1 ad 1. Co Ogni azione in quanto ha qualcosa dell’essere, ha anche qualcosa del bene; in quanto però viene meno rispetto alla pienezza di essere dovuta all’azione umana, viene meno anche rispetto alla bontà e si dice cattiva. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 78 Corollari (cf. la risposta agli argomenti): il male agisce non da sè, ma in virtù del bene deficiente; similmente l’azione prodotta da tale agente che in quanto agente è ente e bene, ma in quanto deficiente è cattivo e causa del male, sarà un certo bene deficiente, ossia un bene secundum quid, ma un male simpliciter; un agente può essere sotto un certo aspetto in atto per agire, invece sotto un altro aspetto gli può mancare l’atto, così da produrre un difetto nell’azione (ad es. il cieco è in atto per poter camminare, ma essendo privo della vista che dirige il camminare, ha un camminare diffettoso); un’azione cattiva può avere un effetto per se, in quanto è un ente e un bene (ad es. l’adulterio può essere causa di generazione), non però in quanto è priva dell’ordine della ragione. QUESTIONE CONNESSA. Il costitutivo del genere morale (GIOVANNI DI S.TOMMASO). Negli atti umani si richiede la libertà non solo nella facoltà eliciente, ma nell’atto stesso; eppure la libertà non costituisce il genere morale, ma è piuttosto un presupposto da parte della materia che riceve la moralità 70 e si denomina da essa. La ragione di moralità negli atti riguarda ciò che è ordinabile e misurabile per mezzo della legge e della prudenza (come nell’arte la ragione di arte consiste in ciò che è misurabile e ordinabile per mezzo dell’arte). Ora, la misura negli atti umani non è la libertà, ma la legge, anzi, agire liberamente astraendo dalla legge significa piuttosto agire senza ordine e senza misura. Per conseguenza negli atti morali (negli agibili) occorre prendere 71 la ragione formale di moralità dal rapporto alle regole e norme della ragione applicate per mezzo della prudenza all’agibile concreto. La libertà non è la ragione della misura, ma l’atto libero è piuttosto la materia regolabile e misurabile dalla ragione (come il materiale di un artefatto è misurabile dalle regole dell’arte). Così la libertà è una condizione necessaria dalla parte della materia morale, perchè solo atti liberi (umani) sono misurabili dalla ragione. La moralità consiste pertanto nell’ordine intrinseco all’oggetto e nella tendenza reale in esso e ciò anche negli atti cattivi. Infatti, la ragione morale 72 negli atti si desume dal rapporto all’oggetto considerato non nel suo essere fisico, ma nel suo essere morale, in quanto è cioè intrinsecamente rapportato alle regole (norme) della legge morale. Ora, la relazione dell’atto umano all’oggetto e a tutto ciò che è in esso è qualcosa di intrinseco e reale nell’atto stesso che lo costituisce nell’essere morale. L’atto cattivo prima tende all’oggetto disordinato e poi si allontana dall’oggetto dovuto. La privazione (l’allontanarsi) è quindi qualcosa di secondario e conseguente; invece la tendenza all’oggetto disordinato che è qualcosa di positivo, reale ed intrinseco all’atto umano, lo costituisce primariamente nel genere di atto morale. L’oggetto dell’atto moralmente cattivo è in sè disordinato, non quanto al suo essere naturale, ma quanto alla sua sconvenienza riguardo alla misura della ragione, in virtù della quale l’adesione ad esso è seguita dalla privazione dell’oggetto buono opposto e quindi anche un tale oggetto in sè disordinato ha in sè intrinsecamente qualcosa della regola della ragione, in virtù della quale si oppone all’oggetto buono e fonda la privazione del fine buono. All’entità naturale (fisica 73) dell’atto spetta tutto ciò che l’atto ha dal suo principio connaturale e fisico. Al genere della moralità invece spetta tutto ciò che l’atto ha di ordinazione e commisurazione 70 Che è soggetto della moralità. Assumere. 72 La qualità morale: buoni o cattivi. 73 Psicologica. 71 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 79 alle regole della ragione. La moralità suppone l’entità e i predicati fisici dell’atto e anche la sua attingenza 74 all’oggetto sotto la ragione dell’appetibile, ma aggiunge la nuova formalità dell’attingenza all’oggetto sotto la ragione del regolabile. La moralità non contrae specificamente il genere fisico dell’atto, ma lo contrae solo sotto la sua ragione formale di atto umano. Un atto fisicamente unico può essere diverso nel genere morale, come desiderare la donna altrui o la propria moglie. Viceversa atti fisicamente diversi possono essere della stessa specie morale, come amare Dio e odiare il peccato. -89Articolo 2 - L’atto umano ha la sua moralità generica primariamente dall’oggetto. Mi Il bene e il male dell’azione si considera, come in tutte le cose, secondo la pienezza o il difetto dell’essere. Ma La prima realtà che spetta alla pienezza dell’essere di una cosa è ciò che le dà la specie. Co Perciò il bene e il male dell’azione si considera primariamente secondo ciò che la specifica. =Mi1 Ma1 Ora, come la cosa naturale ha la specie dalla sua forma, così l’azione ha la sua forma dall’oggetto, come il moto l’ha dal suo termine. Co1 Perciò, come la prima bontà della cosa naturale si considera secondo la sua forma specificante, così la prima bontà dell’atto morale si considera secondo l’oggetto conveniente. Tale bontà si dice anche la bontà dal genere 75. Esempio: usare cose proprie. E come nelle cose naturali il primo male deriva dal fatto che il generato non raggiunge la forma specifica (ad es. se invece dell’uomo è generato qualcos’altro); così il primo male nelle azioni morali deriva dall’oggetto. Tale male si dice anche male dal genere 76 prendendo genere per specie. Esempio: prendere cose altrui. Corollari: Le cose esterne (oggetti) sono buone in sè, ma non sempre hanno la dovuta proporzione all’azione e quindi come oggetti di tali azioni non hanno sempre ragione di bene. L’oggetto non è materia ex qua 77, ma circa quam 78 e ha ragione di forma, in quanto dà specie all’atto. L’oggetto dell’atto umano non è sempre oggetto di una potenza attiva; la stessa potenza appetitiva è in qualche modo passiva in quanto è mossa dall’appetibile, anche se è principio dell’atto umano. Inoltre, gli oggetti delle potenze attive non sempre hanno ragione di effetto, ma lo hanno solo quando sono già mutati. Come effetti poi terminano e quindi specificano l’azione (il moto è infatti specificato dal termine). La bontà dell’azione certo non dipende dalla bontà dell’effetto, eppure l’azione si dice buona anche perché può portare ad un effetto buono. La proporzione dell’azione all’effetto è perciò la ragione della sua bontà. 74 Il suo attingere, cioè il raggiungimento dell’oggetto. Generica. 76 In genere. 77 Dalla quale. 78 Circa la quale o attorno alla quale. 75 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 80 Articolo 3 - L’azione può essere buona o cattiva dalle circostanze. Ma Nelle cose naturali la pienezza della perfezione dovuta non deriva solo dalla forma sostanziale specificante, ma molto è aggiunto dagli accidenti (ad es. nell’uomo la figura, il colore, ecc.), la cui privazione, distruggendo la decenza dovuta, porta con sè il male. Mi La considerazione della perfezione dell’azione è simile a quella della perfezione naturale delle cose (secondo analogia propria). Co Perciò la pienezza della bontà dell’azione deriva anche dai suoi accidenti, che sono le circostanze dovute, la cui mancanza rende cattiva l’azione. -90Corollari: - - Gli accidenti dell’atto umano, che sono le circostanze, sono esterni rispetto all’atto, perché non entrano nella sua essenza, ma sono interni all’atto, perchè sono nella stessa azione a modo di determinazioni accidentali. Non tutti gli accidenti del soggetto (predicamenti) sono accidentali (predicabili), ma alcuni sono di per sè del soggetto (accidenti propri integranti l’essenza fisica). Articolo 4 – Il bene e il male negli atti umani deriva dal fine. Mi Le cose sono ugualmente disposte nel bene e nell’essere 79. Ma Ora, vi sono delle realtà con un essere assoluto e indipendente e tale essere va considerato in assoluto; altre realtà invece hanno un essere dipendente dall’altro e tali realtà vanno considerate riguardo alla causa dalla quale dipendono, la quale nell’ordine dell’essere è l’agente (causa efficiente) e la forma, invece nell’ordine del bene è il fine (causa finale). Co Perciò nelle Persone divine che hanno bontà assoluta e non dipendente da altro non si considera nessuna ragione di bontà dal fine. Negli atti umani invece e in altre cose la cui bontà dipende da altro, la ragione di bontà deriva dal fine, dal quale dipendono al di là della loro bontà intrinseca assoluta. Divisione. Vi è pertanto una quadruplice bontà nell’atto umano: 1. secondo il genere, in quanto è una entità (azione), 2. secondo la specie determinata dall’oggetto conveniente, 3. secondo le circostanze come determinazioni accidentali, 4. secondo il fine come secondo la relazione alla causa della bontà. L’azione è semplicemente buona solo se tutte queste bontà sono realizzate simultaneamente in essa (bonum ex causa integra...). Articolo 5 - Gli atti umani sono specificamente differenziati in buoni e cattivi. Ma La differenza di oggetto diversifica specificamente se si rapporta di per sè ad un principio attivo; non diversifica in questo modo, se si rapporta ad esso solo accidentalmente (ad es. conoscere un colore e un suono sono cose per sè differenti rispetto al senso, ma sono differenti accidentalmente soltanto rispetto all’intelletto). Mi Ora, negli atti umani il bene e il male si dice di per sè rispetto alla ragione (il bene dell’uomo è 79 Dal punto di vista metafisico. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 81 “essere secondo la ragione”, perché il bene di ogni cosa è ciò che le conviene secondo la sua forma). Co Perciò il bene e il male diversificano specificamente gli atti umani che sono umani o morali proprio in quanto sono dalla ragione. -91Corollari: - - Il male implica privazione non assoluta, ma conseguente ad una determinata potenza. Si dice cattivo un atto non perchè privo di oggetto, ma perché dotato di un oggetto sconveniente alla ragione. Così, in quanto anche l’oggetto di un atto cattivo è qualcosa di positivo (fisicamente, non moralmente parlando), esso può dare specie all’atto (ad 2). La circostanza è talvolta presa come differenza essenziale dell’oggetto nei riguardi della ragione e allora dà specie all’atto morale. Ciò avviene ogni volta che una circostanza muta l’atto buono in cattivo. Perciò anche la bontà e malizia derivanti dalle circostanze diversificano specificamente gli atti morali. Articolo 6 - Il bene e il male derivanti dal fine diversificano la specie negli atti umani. Mi Nell’atto volontario vi è l’atto interiore che ha per oggetto il fine e l’atto esterno che avviene attorno all’oggetto. Ma Ora, l’atto esterno è specificato dall’oggetto circa il quale versa. Co Perciò similmente l’atto interiore della volontà riceve la sua specie dal fine come dal suo oggetto proprio. Siccome poi la volontà usa le membra esterne come degli strumenti e l’atto esterno non ha moralità se non in quanto volontario, ne segue che ciò che è interno alla volontà si rapporta come qualcosa di formale a ciò che riguarda l’atto esterno. Perciò la specie dell’atto umano si considera formalmente socondo il fine, materialmente secondo l’oggetto dell’atto esterno. ARISTOTELE, Etica Nicomachea V, c.4, 1130 a 24-27, dice che “chi ruba per commettere adulterio è, propriariente parlando, più un adultero che un ladro”. Corollari: - Essere ordinato a tale fine è accidentale rispetto all’atto esterno, ma è essenziale ed intrinseco all’atto interno. Quando molti atti specificamente diversi sono ordinati allo stesso fine, vi è diversità di specie dalla parte dell’atto esterno, ma unità di specie dalla parte dell’atto interiore. Articolo 7 - Il rapporto tra la specie derivante dal fine e quella derivante dall’oggetto è paragonabile al rapporto tra specie e genere. Argomento di plausibilità. Ma Ogni genere ha un numero determinato di differenze. Mi Ma l’atto specificamente identico dalla parte dell’oggetto è ordinabile a fini potenzialmente infiniti. Co Perciò la specie derivante dal fine non è contenuta sotto la specie derivante dall’oggetto come sotto un genere. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 82 Argomento dimostrativo. Mi L’oggetto dell’atto esterno può avere una duplice relazione al fine dell’atto interno: a. l’oggetto è di per sè ordinato al fine dell’operante (ad es. combattere bene è di per sè ordinato alla vittoria), b. l’oggetto è solo accidentalmente ordinato al fine (come rubare può essere accidentalmente ordinato a dare l’elemosina). Ma Solo le differenze di per sè dividenti il genere costituiscono la specie Co Perciò: a. se l’oggetto non è di per sè ordinato al fine, la differenza specifica derivante dall’oggetto non è di per sè determinativa della specie derivante dal fine e viceversa, b. se l’oggetto è di per sè ordinato al fine, una delle due differenze è di per sè (specificamente) determinativa dell’altra e una specie è contenuta sotto l’altra. Determinazione del rapporto genere-specie come tra fine-oggetto. Ma - Mi Co La differenza presa da una forma più particolare è più specifica; l’agente più universale produce una forma più universale nell’effetto; il fine posteriore corrisponde ad un agente più universale (ad es. la vittoria globale è il fine inteso dal comandante in capo; invece l’ordine dei singoli reparti militari sono fini propri di ufficiali subalterni). La volontà il cui oggetto è il fine, è il motivo universale rispetto a tutte le potenze dell’anima, i cui oggetti propri sono oggetti degli atti particolari. La differenza specifica nel genere morale derivante dal fine è più generale; la differenza derivante dall’oggetto di per sè ordinato a tal fine è specifica rispetto ad esso. Corollari: - - Lo stesso atto che secondo la sua sostanza è in un’unica specie di natura può essere in due specie diverse secondo delle condizioni morali aggiunte (vi è una specie “accidentale” esterna a quella determinata dall’oggetto dell’atto morale; eppure essa non è accidentale rispetto all’atto esterno globalmente considerato, perchè l’atto esterno è prodotto sotto l’influsso causale dell’atto interno specificato dal fine-oggetto). La differenza specifica è formale rispetto al genere in quanto dà al genere l’essere in atto (l’essere determinato); eppure anche il genere può essere considerato come qualcosa di formale rispetto alle differenze, in quanto è qualcosa di più assoluto, di meno contratto. In tal modo il genere è causa formale della specie ed è tanto più formale quanto è più comune 80. Articolo 8 - Vi sono atti indifferenti dal punto di vista della specie morale. Ma L’atto umano (morale) riceve la sua specie dall’oggetto riferito al principio dell’atto umano, che è la ragione, cosicchè, se l’oggetto contiene qualcosa di conveniente all’ordine della ragione, l’atto è buono secondo la sua specie (es. dare l’elemosina); se invece l’oggetto contiene qualcosa di ripugnante all’ordine della ragione, l’atto sarà cattivo secondo la sua specie (ad es. rubare). 80 Qui il genere, come vediamo dall’argomento trattato, è il fine, il quale può costituire un valore superiore all’oggetto dell’azione. Se io faccio una data elemosina ad un povero per elevare la sua umanità, è evidente che questo fine vale di più del mio semplice atto di fare l’elemosina. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 83 Mi Ora, vi sono degli oggetti che specificano l’atto umano, i quali non contengono in sè un ordine alla ragione, come per esempio prendere un oggetto da terra, camminare attraverso un campo, ecc. Co Quindi vi sono atti indifferenti secondo la specie morale (in quanto il loro oggetto non è nè ordinato nè disordinato). -93Corollari: - - Vi può essere un mezzo 81 tra bene e male perchè il male è una privazione non totale, ma parziale del bene (la privazione totale non ha un mezzo, come ad es. la morte toglie tutta la vita; ma la privazione parziale lascia qualcosa del suo opposto, come ad es. la malattia lascia qualche rimasuglio di salute nel soggetto). Ogni oggetto o fine ha qualche bontà o malizia almeno naturale, ma non sempre ha bontà o malizia morale derivante dal rapporto all’ordine della ragione. Non tutto ciò che è nell’atto spetta alla sua specie e quindi, anche se nella specie non si trova tutta la pienezza della bontà dell’atto, non per questo l’atto è cattivo dalla sua specie 82. Articolo 9 - Non vi sono atti indifferenti individuali. La tesi. Un atto che può essere indifferente secondo la specie è non di meno sempre o buono o cattivo se è considerato nella sua individuazione. La prova. Mi L’atto morale ha la sua bontà non solo dall’oggetto, ma anche dalle circostanze che sono come degli accidenti dell’atto umano (similmente qualcosa conviene all’uomo individuale secondo accidenti individuali, che non gli conviene secondo la ragione della specie). Ma E’ necessario che ogni atto umano individuale abbia una certa circostanza, che lo trae moralmente al bene o al male, almeno da parte dell’intenzione del fine. Infatti alla ragione spetta ordinare cosicchè, se un atto procede dalla ragione deliberata senza ordine al fine dovuto, per questo stesso fatto è già disordinato; se invece procede secondo l’ordine al fine dovuto, è già moralmente buono. Così ogni atto è o ordinato o non ordinato al fine dovuto. Co Perciò è necessario che ogni atto umano procedente dalla ragione deliberativa, considerato nella sua individuazione, sia o buono o cattivo. Precisazione. 81 Un punto medio. Gli atti indifferenti sono delle particolarità accidentali e potremmo dire casuali che normalmente si aggiungono ad un atto umano sostanzialmente specificato nel suo oggetto come buono o come cattivo. Queste particolarità non hanno bisogno di essere determinate dalla ragione e se il soggetto volesse farlo, alla fine correrebbe pericolo per la sua stessa razionalità (le cosidette “fisime”). Si tratta di difetti frequenti negli scrupolosi. Tali particolarità quindi, esulando da una determinazione di tipo razionale, sono moralmente indifferenti, in quanto appunto è la ragion pratica a determinare la qualità morale dell’atto. 82 Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 84 Un atto non procedente dalla ragione deliberativa (ad es. mozioni inavvertite) non è umano e quindi nemmeno morale, ma è moralmente indifferente come qualcosa che esula completamente dal genere morale. Corollario. A nessun atto umano spetta in virtù della sua specie il fatto di essere indifferente, ma può accadere che un atto non abbia nella sua specie la ragione di bene o male, ma tale ragione di moralità gli derivi da qualcosa di aggiunto (la specie di ogni atto è però aperta a tale aggiunta moralmente determinante). -94Articolo 10 - Anche la circostanza può dare specie morale. Ma Come la specie di cose naturali deriva da una forma naturale, così la specie morale dell’atto umano deriva da forme concepite dalla ragione. Mi a. La natura è determinata ad unum e siccome l’infinito non si può percorrere, bisogna che ci sia una forma ultima che dà specie dopo la quale non c’è più nulla di specificante. b. I1 processo razionale non è determinato ad una sola cosa, ma data ogni cosa, può procedere oltre, così che ciò che in un atto si considera come circostanza aggiunta all’oggetto specificante, può essere di nuovo concepito dalla ragione ordinante come condizione principale determinante la specie dell’atto. Ad es. prendere un bene altrui desume la sua specie (di furto) dalla ragione del “bene altrui” e il luogo e tempo sono circostanze aggiunte. Ma la ragione può determinare specificamente anche delle condizioni di luogo o tempo ad es. che non si deve fare ingiuria in un luogo sacro, in modo tale che prendere un bene altrui in un luogo sacro aggiunge malizia speciale e ripugnanza speciale rispetto all’ordine della ragione. Co In tal modo, quando una circostanza riguarda un ordine speciale della ragione pro o contra, è necessario che la circostanza dia specie all’atto morale buono o cattivo. Articolo 11 - Non ogni circostanza che aumenta la bontà o la malizia dell’atto costituisce l’atto nella specie del bene o del male. Mi La circostanza specifica moralmente l’atto umano solo se riguarda un ordine speciale della ragione. Ma Vi sono però delle circostanze che riguardano l’ordine della ragione nel bene e nel male solo supponendo un’altra circostanza specificente (esempio: prendere qualcosa in una quantità grande o piccola non riguarda l’ordine della ragione nel bene e nel male se non supponendo un’altra condizione specificante come può essere il “bene altrui” che ripugna alla ragione. Il molto e poco quindi non diversificano la specie del peccato, ma lo aggrava o lo alleggerisce). Co Perciò non ogni circostanza che aumenta la bontà o la malizia dell’atto umano ne diversifica anche la specie. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 85 Q. XIX LA BONTA’ E LA MALIZIA DELL’ATTO INTERIORE DELLA VOLONTA’. - in sé: in genere: deriva dall’oggetto (1) deriva solo dall’oggetto (2) in specie: la ragione: • il fatto della dipendenza dalla ragione: umana (coscienza) (3) divina (legge eterna) (4) • la caratteristica di obbligo: della ragione errante in sè (5) della ragione errante rispetto alla volontà (6) l’ intenzione: • il fatto della dipendenza dall’intenzione (7) • la dipendenza dall’intenzione nella quantità (8) - rispetto alla volontà divina: conformità della volontà umana a quella divina (9) conformità nell’oggetto voluto (10) -95 Articolo 1 - La bontà della volontà dipende dall’oggetto. Ma Le differenze che di per sè appartengono ad una facoltà la differenziano specificamente nei suoi atti. Mi Ora il bene e il male sono di per sè differenze dell’atto volitivo perchè appartengono di per sè alla volontà (come il vero e il falso appartengono di per sè all’intelletto diversificando l’opinione in vera o falsa). Co Perciò la volontà buona e cattiva sono atti specificamente distinti. =Mi1 Ma1 La differenza specifica negli atti deriva dagli oggetti. Co1 Perciò il bene e il male negli atti della volontà si desumono propriamente dagli oggetti. Corollario (ad 3m). E’ la ragione che presenta il bene alla volontà come suo oggetto e quindi il bene, precisamente in quanto appartiene all’ordine della ragione, spetta al genere morale e causa la bontà e la malizia negli atti umani, il cui principio è appunto la ragione. Articolo 2 - La bontà della volontà dipende solo dall’oggetto. Ma Il primo in ogni genere è qualcosa di semplice e consiste in una sola cosa. Mi Ora il principio della bontà e malizia degli atti umani è l’atto della volontà. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 86 Co Perciò la bontà e la malizia della volontà si desumono da qualcosa di unico, mentre la bontà e malizia degli altri atti può essere da più cose. =Mi1 Ma1 L’uno che è principio in un genere non è per accidens, ma per se. Co1 Perciò la bontà e la malizia dell’atto volitivo dipende solo da quella realtà che per se causa la bontà dell’atto. =Mi2 Ma2 Tale realtà che per se causa la bontà dell’atto è l’oggetto. Co2 Perciò la bontà e la malizia dell’atto volitivo dipendono solo dall’oggetto e non dalle circostanze, che sono come gli accidenti dell’atto. Corollari: -96- Siccome la volontà ha per oggetto proprio il fine, nell’atto della volontà non differisce la bontà dell’oggetto da quella derivante dal fine, se non accidentalmente, in quanto un fine dipende da un altro fine e una volontà da un’altra volontà. - Dato che la volontà è del bene, nessuna circostanza la può rendere cattiva. Invece il fatto che uno vuole un bene quando e dove non deve volerlo si può intendere in due modi: la circostanza è riferita all’oggetto voluto (si vuole fare qualcosa quando, dove, ecc., non si deve) e quindi in questo caso la volontà non è di un oggetto buono, la circostanza è riferita all’atto di volere e così è impossibile che qualcuno voglia il bene quando non deve, perché sempre e ovunque l’uomo deve volere il bene. Al massimo può accadere per accidens che uno volendo un bene esclude la volizione di un altro bene che è dovuto. In tal caso però il male non deriva dal fatto che uno vuole un bene, ma dal fatto che non vuole l’altro bene, l’ignoranza delle circostanze scusa la malizia della volontà precisamente in quanto le circostanze stanno dalla parte dell’oggetto voluto, in quanto cioè si ignorano le circostanze dell’atto che si vuole. Articolo 3 - La bontà della volontà dipende dalla ragione. Mi La bontà della volontà dipende propriamente dall’oggetto. Ma Ora, l’oggetto della volontà è proposto dalla ragione (infatti solo il bene intellettivamente conosciuto è oggetto proporzionato alla volontà che tende ad un bene universale conosciuto dalla ragione). Co Perciò la bontà della volontà dipende dalla ragione, allo stesso modo con cui dipende dall’oggetto. Corollario (ad 2m). Riguardo alla ragion pratica perfezionata dalla prudenza è vero che nei mezzi per il fine la rettitudine della ragione consiste nella conformità all’appetito del fine dovuto, ma lo stesso appetito del fine dovuto a sua volta dipende dalla retta apprensione del fine per mezzo della ragione e la presuppone. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 87 Articolo 4 - La bontà della volontà umana dipende dalla legge eterna. Argomento di plausibilità. S.AGOSTINO definisce il peccato come “detto, fatto, desiderato contro la legge eterna” e la radice del peccato è nella volontà; quindi è necessario che la bontà della volontà dipenda dalla legge eterna. Argomento sistematico. Ma In tutte le cause ordinate l’effetto dipende più dalla causa prima che dalla causa seconda (la seconda infatti agisce solo in virtù della prima). Mi Il fatto che la ragione umana sia regola della volontà umana le deriva dalla legge eterna, che è la ragione divina (cf. Sal 4,6-7: “Signatum est super nos lumen vultus tui Domine”; il lume della nostra ragione ci può mostrare dei beni solo in quanto è lume derivato dal volto del Signore). Co Perciò la bontà della volontà umana dipende molto più dalla legge eterna che dalla ragione umana e dove viene meno la ragione umana, bisogna ricorrere alla legge eterna. Corollari. La legge eterna è regola remota e quindi non omogenea. E’ conoscibile in base alla ragione naturale, che da essa deriva come sua immagine (imperfettamente) o per rivelazione aggiunta. -97Articolo 5 - La volontà discordante dalla ragione errante è cattiva. La coscienza è l’applicazione della scienza che è nella ragione all’atto, cosicchè la volontà discordante dalla ragione errante è in contrasto con la coscienza e quindi è cattiva: cf. Rm 14,23. Argomento sistematico. Il problema coincide con la questione se la coscienza errante obbliga. - Opinione erronea: la coscienza errante riguardo agli atti indifferenti, che comanda o vieta categoricamente, obbliga, la coscienza errante, che comanda ciò che è per sè cattivo o vieta ciò che è per sè buono e necessario alla salvezza, invece non obbliga. Critica e soluzione. Mi La volontà discordante dalla ragione errante negli indifferenti è cattiva a causa dell’oggetto dal quale dipende la bontà e la malizia della volontà, non però dall’oggetto secondo la sua natura, bensì dall’oggetto in quanto è appreso accidentalmente dalla ragione come un male da fare o da evitare. Essendo poi l’oggetto della volontà ciò che è proposto dalla ragione, per il fatto che la ragione propone qualcosa come un male, la volontà se si porta a questo riceve la caratteristica del male. Ma Il fatto che la ragione proponga alla volontà per accidens qualcosa come un male non avviene solo negli indifferenti, ma anche nei per se buoni o cattivi. Infatti non solo l’indifferente Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 88 Co riceve la ragione del bene o del male per accidens, ma anche ciò che è per se buono può essere considerato per accidens come cattivo e ciò che è per sè cattivo può essere considerato come buono. Ad es. astenersi dalla lussuria è un bene per sè, ma la volontà si porta ad esso in quanto le è proposto dalla ragione e quindi se le è proposto come un male si porterà ad esso sotto la ragione del male e sarà cattiva perché vuole un male non per se tale, ma per accidens appreso come tale dalla ragione. Similmente la fede in Cristo è di per sè buona e necessaria per la salvezza, ma se la ragione la propone come un male, la volontà la vuole come un male. Perciò ogni volontà discordante dalla ragione sia retta, sia errante è sempre cattiva. Corollario (ad 1m). Il giudizio erroneo di coscienza non è certamente derivato da Dio, ma la ragione propone il giudizio erroneo come vero e quindi come derivato da Dio, dal quale deriva ogni verità. Ora, se un uomo sapesse che la sua coscienza è in contrasto con il precetto di Dio, non sarebbe tenuto a seguirla, ma in tal caso l’errore non sarebbe totale. Quando invece la ragione propone qualcosa come precetto di Dio completamente, disprezzare il dettame della ragione equivale a disprezzare il precetto divino stesso (ad 2m) 83. -98- Articolo 6 - La volontà concordante con la ragione errante non è buona. La questione coincide con quella se la coscienza erronea scusa. Ma Il bene e il male morale consiste nell’atto in quanto è volontario. Ma Ora vi è una ignoranza (invincibile), che causa l’involontorio e vi è anche una ignoranza (vincibile, in qualche modo voluta o direttamente o indirettamente per negligenza), che non causa l’involontario. Co Perciò: a. se la coscienza erra con un errore volontario direttamente o per negligenza (quando uno non sa ciò che deve sapere), tale errore della coscienza non scusa e la volontà che concorda con la ragione così errante è una volontà cattiva; b. se invece l’errore causa l’involontario (ignoranza di qualche circostanza particolare senza negligenza), tale errore della coscienza scusa in maniera tale che la volontà concordante con la ragione così errante non è cattiva. Esempio. L’ignoranza vincibile si ha quando si ignora il precetto di Dio che tutti devono conoscere (ad es. che l’adulterio è proibito) - ignoranza del diritto -; l’ignoranza invincibile che scusa dal peccato vi è ad es. in chi volendo rendere il debito coniugale alla propria moglie sbaglia senza colpa sua prendendo un’altra donna per sua moglie - ignoranza del fatto proveniente dall’ignoranza di una circostanza particolare. Corollario. Come nel sillogizzare, posto un inconveniente, ne seguono altri, così anche nella vita morale, posto un inconveniente, ne seguono altri. Ad es., se uno vuole agire per vanagloria, sia che faccia con tale intenzione ciò che si deve, sia che non lo faccia, sempre pecca. Non è però perplesso 83 Qui si dà la possibilità di due giudizi di coscienza: un errore parziale e un errore totale. Il primo corrisponde ad una conoscenza non completa del precetto divino; il secondo invece corrisponde ad una conoscenza completa. Nel primo caso il soggetto non è tenuto a seguire il proprio giudizio; nel secondo, se non lo segue, ciò equivale a disprezzare il precetto divino. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 89 (irrimediabilmente indeciso), perché può sempre abbandonare la sua cattiva intenzione. Similmente, posto l’errore vincibile, necessariamente segue il male morale nella volontà; eppure l’uomo non è perplesso, perchè può sempre abbandonare l’errore. (Ad 3m). Articolo 7 - La bontà della volontà nei mezzi dipende dall’intenzione del fine. A. L’intenzione precedente alla volontà (si vuole qualcosa per l’intenzione di un fine, ad es. digiunare per onorare Dio). Ma Nell’intenzione precedente alla volontà l’ordine al fine (intenzione) è come la ragione della stessa bontà dell’oggetto voluto (ad es. il digiuno è buono perchè ordinato a Dio). Mi Ora, la bontà della volontà dipende dalla bontà del voluto. Co Perciò la bontà della volontà dipende dall’intenzione precedente del fine. B. L’intenzione conseguente alla volontà (prima si vuole qualcosa e poi ci si riferisce ad un fine). La bontà della prima volontà non dipende dall’intenzione seguente, a meno che non si ripeta l’atto di volontà con tale intenzione. -99Corollario. Bonum ex causa integra, malum ex singularibus defectibus 84. Perciò la volontà è cattiva quando ha un oggetto cattivo, anche con intenzione buona, e quando ha un oggetto buono, ma con intenzione cattiva. E’ invece buona solo se vuole il bene (oggetto) e sotto la ragione di bontà (con intenzione buona). Articolo 8 - La quantità di bontà nella volontà non dipende dalla quantità di bontà nell’intenzione. A. La quantità da parte dell’oggetto (si vuole, si fa un bene più grande): la quantità dell’atto non segue la quantità dell’intenzione. 1. nell’atto esterno: - in un modo, perchè l’oggetto ordinato al fine inteso non gli è proporzionato: ad es., chi dà dieci lire non può conseguire l’intenzione di comprare un oggetto che ne vale cento; - in un altro modo, a causa di impedimenti nell’atto esterno, che non siamo in grado di rimuovere: ad es., chi si propone di andare a Roma e poi non può partire per qualche ostacolo. 2. nell’atto interno tale sproporzione tra intenzione e volontà può avvenire in un solo modo, perchè gli atti interni della volontà, a differenza di quelli esterni, sono nel nostro potere. La volontà può infatti volere un oggetto non proporzionato al fine inteso e così: 84 Il bene proviene da una causa integra, il male da singoli difetti. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 90 - se la volontà si porta in assoluto in questo oggetto non è tanto buona quanto l’intenzione del fine; siccome però l’intenzione fa a sua volta parte in qualche modo dello stesso atto di volontà in quanto è la sua ragione, la quantità dell’intenzione buona si riversa sulla volontà, in quanto la volontà vuole qualcosa di grande come fine, anche se i mezzi che dispone in vista del suo conseguimento non sono adeguati. B. La quantità da parte dell’intensità dell’atto procedente dall’agente (volere, fare qualcosa intensamente): l’intenzione si riversa sull’atto interiore ed esterno della volontà, perchè l’intenzione è formale rispetto all’uno e all’altro atto. Materialmente però, nonostante l’intensità dell’intenzione, l’atto interiore o esterno può essere meno intenso (ad es. uno che vuole molto la salute, vuole meno la medicina; eppure il voler intensamente la salute corrobora l’intensità del volere la medicina). Se l’intensità dell’atto interiore o esterno è riferita all’intenzione come oggetto di essa (ad es. intendere di volere intensamente o intendere di agire intensamente), non per questo si vuole e si opera intensamente di fatto, perchè la quantità del bene inteso (intensità dell’azione intesa) non è seguita dalla quantità dell’atto interiore ed esterno (intensità dell’azione reale interiore o esterna). Siccome poi la quantità del merito consiste nell’intensità dell’atto, uno non merita di fatto tanto quanto intende meritare. -100Articolo 9 - La bontà della volontà dipende dalla sua conformità alla volontà divina. Mt 26,39: “non come voglio io, ma come vuoi tu!”. Argomento sistematico. Mi La bontà della volontà dipende dall’intenzione del fine. Ma Il fine ultimo della volontà umana è il sommo bene che è Dio. Co Perciò per la bontà della volontà umana si richiede che sia ordinata al sommo Bene che è Dio. =Mi1 Ma1 Il bene divino è ordinato per primo 85 alla volontà divina come il suo oggetto proprio. Co1 Perciò la bontà della volontà umana dipende dal suo ordine ad un bene che è primariamente oggetto della volontà divina. =Mi2 Ma2 Ciò che è primo in un genere è come la causa e la misura di tutto ciò che è in un tale genere. Co2 Perciò la bontà della volontà umana ha la sua misura nella volontà divina. =Ma3 Mi3 E’ buono tutto ciò che arriva alla sua propria misura. 3 Co Perciò la volontà umana è buona solo se è conforme alla volontà divina (che è quasi una misura remota della sua bontà). Corollario. 85 Innanzitutto. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 91 La volontà umana non può conformarsi a quella divina per uguaglianza, ma solo per imitazione (similmente la scienza umana si conforma a quella divina imitandola quando conosce il vero e l’azione umana imita l’azione divina in quanto è conveniente all’agente). Articolo 10 – La volontà umana deve conformarsi a quella divina nell’oggetto voluto formalmente. Mi La volontà si porta al suo oggetto in quanto le è proposto dalla ragione. Ma Ora la ragione può considerare la stessa cosa come buona sotto un aspetto, come cattiva sotto un altro. Co Perciò la volontà che vuole una cosa in quanto è buona è una volontà buona, come lo è anche la volontà che non vuole la stessa cosa in quanto è cattiva (ad es. il giudice vuole l’esecuzione del delinquente come giusta, la moglie del delinquente non la vuole perchè l’uccisione, sopratutto di un congiunto, è un male secondo natura). Ma1 Quanto è più comune la ragione del bene conosciuto, tanto più comune è il bene al quale la volontà si porta (ad es. il giudice cura il bene comune della società; la madre di famiglia il bene particolare della sua famiglia). Mi1 Il bene conosciuto da Dio è il bene di tutto l’Universo che da Dio è creato e governato. Co1 Perciò Dio vuole tutto ciò che vuole sotto la ragione del bene comune, che è la sua stessa bontà, la quale è il bene di tutto l’Universo. -101Mi2 La volontà buona dipende dalla bontà dell’oggetto. Ma2 Un oggetto può essere buono secondo una ragione particolare senza esserlo secondo la ragione universale. 2 Co Perciò può essere buona la volontà creata che vuole qualcosa sotto una ragione particolare che Dio non vuole secondo la ragione universale e viceversa. Similmente possono essere entrambe buone le volontà opposte di uomini diversi circa la stessa cosa considerata sotto ragioni particolari diverse. Mi3 Ma3 Co3 Non è retta la volontà di un uomo che vuole un bene particolare, se l’uomo non riferisce tale bene particolare al bene comune come al fine. L’appetito naturale ordina infatti la parte al tutto. Dal fine si prende la ragione formale di volere ciò che è ordinato al fine. Perciò, affinchè un uomo con volontà retta voglia un bene particolare, è necessario che tale bene particolare sia voluto materialmente; invece il bene comune divino deve essere voluto formalmente. Pertanto, la volontà umana è tenuta a conformarsi alla volontà divina nel voluto formalmente, ma non materialmente 86. Precisazione: La volontà umana retta si conforma a quella divina anche sotto entrambi gli aspetti: a. in quanto è conforme a quella divina nella ragione comune del voluto (formalmente), è conforme nel fine ultimo; 86 Per esempio, l’atto sessuale, in quanto dettato da un istinto naturale, è espressine della volontà divina; tuttavia, affinche quest’atto sia onesto, deve essere compiuto conformemente all’ordine morale. Nel primo caso abbiamo una conformità alla volontà divina puramente materiale, nel secondo abbiamo una conformità formale, la quale dà all’atto la sua qualifica morale. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 92 b. in quanto non è conforme nell’oggetto voluto materialmente, è nondimeno conforme nella ragione della causa efficiente 87, perchè questa sua stessa inclinazione ed apprensione particolare deriva alla creatura da Dio Creatore come dalla causa efficiente. La volontà è quindi anche in questo modo conforme alla volontà divina perchè vuole ciò che Dio vuole che essa voglia (ossia il bene particolare). Estensione alla carità soprannaturale. Vi è un modo di conformità secondo la ragione della causa formale e cioè che l’uomo vuole qualcosa in forza della carità allo stesso modo in cui Dio lo vuole. Anche questa conformità si riduce a quella che deriva dall’ordine al fine ultimo, oggetto proprio della carità. Q. XX LA BONTA’ E LA MALIZIA DEGLI ATTI UMANI ESTERNI • considerazione comparativa: tra atto interno e atto esterno: dipendenza reciproca: priorità dell’atto interiore (1) totalità - l’atto esterno non dipende in tutto dalla volontà (2) identità: il fatto (3) il rapporto (contributo dell’atto esterno) (4) tra atto esterno e evento seguente (5) • considerazione assoluta dello stesso atto esterno (6) -102 Articolo 1 - La moralità si trova primariamente nell’atto interiore della volontà. Mi La moralità degli atti esterni è duplice: secondo il genere e le circostanze prese in se stesse (ad es. dare l’elemosina in circostanze dovute è un bene), secondo l’ordine al fine (dare l’elemosina per vana gloria è un male). Ma Ora il fine è l’oggetto proprio della volontà. Co Quella moralità che l’atto esterno ha dall’ordine al fine si trova primariamente nell’atto interiore della volontà e da esso deriva nell’atto esterno, quella moralità invece che l’atto esterno ha secondo se stesso (materia e circostanze dovute) non gli deriva dalla volontà, ma piuttosto dalla ragione. CONLUSIONE. a. Se si considera la bontà dell’atto esterno secondo l’apprensione della ragione, la sua bontà è prima della bontà dell’atto interno della volontà; b. se invece si considera la bontà dell’atto esterno in quanto è in esecuzione dell’opera, la sua bontà segue la bontà dell’atto interno della volontà che è il suo principio. 87 La conformità materiale alla volontà di Dio concorrente alla conformità formale può esser data da una causalità efficiente materialmente conforme alla volontà divina, in quanto effetto della causa prima: per esempio soccorrere un povero produce un effetto nel povero. Ma questo atto materiale è a sua volta causato da Dio ed in tal modo è materialmente buono, in quanto dipende dalla causa prima. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 93 Corollario (ad 3m). La forma segue la materia nell’ordine genetico; invece la precede nell’ordine di natura. Invece, in quanto è nella causa efficiente, precede sempre e in ogni prospettiva la materia. Ora la volontà si rapporta all’atto esterno come sua causa efficiente. Perciò la bontà dell’atto interiore della volontà è la forma dell’atto esterno (almeno in parte) come preesistcnte nella causa efficiente. Articolo 2 - Non tutta la moralità dell’atto esterno dipende da quella dell’atto interiore. Mi Nell’atto esterno c’è: a. una moralità secondo la materia e le circostanze dovute, che dipende dalla ragione, dalla quale a sua volta dipende la bontà della volontà e b. una moralità secondo l’ordine al fine, che dipende tutta dalla volontà. Ma Per costituire un atto cattivo basta un unico difetto singolo; invece per costituirlo buono in assoluto non basta una bontà singola, ma si richiede la bontà integrale. Co Perciò: a. se la volontà è buona sia per il proprio oggetto che per il fine, l’atto esterno è buono, b. eppure, affinchè l’atto esterno sia buono, non basta la bontà della volontà derivante dall’intenzione del fine, ma se la volontà è cattiva o a causa dell’intenzione del fine o dell’atto voluto (o di entrambi), ne segue un atto esterno cattivo. Corollario (ad 3m). E’ volontario non solo l’atto interno, ma anche gli atti esterni imperati e quindi in entrambi ha luogo la differenza morale. -103Articolo 3 - La moralità dell’atto interiore ed esterno coincidono in una sola moralità dell’atto umano. Mi1 L’atto interiore ed esterno, considerati nel genere morale, sono un solo atto. Ma1 1. Talvolta un atto unico quanto al soggetto ha più ragioni di moralità; 2. talvolta invece ne ha una sola. 1 Co 1. Talvolta coincidono la moralità dell’atto interiore ed esterno; 2. talvolta invece sono delle moralità diverse. Mi2 Ma2 Co2 Le due moralità (quella dell’atto interiore e quella dell’atto esterno) sono ordinate l’una all’altra. Nelle realtà reciprocamente ordinate: a. può accadere che qualcosa è buono solo per l’ordine all’altro (ad es. la medicina amara solo in vista della salute) e in tal caso vi è una sola bontà di entrambe queste realtà; b. può accadere anche che ciò che è ordinato a qualcos’altro ha in se stesso la ragione di bene al di là dell’ordine all’altro (ad es. una medicina gustosa ha due bontà: una in sè che è il suo sapore gradevole, l’altra a causa dell’ordine alla salute). 1. Quando l’atto esterno è buono o cattivo solo per l’ordine al fine, la moralità dell’atto della volontà che di per sè riguarda il fine e quella dell’atto esterno che riguarda il fine attraverso l’atto della volontà, è una sola. 2. Quando invece l’atto esterno ha una moralità sua propria secondo la materia e le Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 94 circostanze, la bontà dell’atto esterno è una e la bontà della volontà derivante dal fine è un’altra. Eppure la moralità per il fine si riversa dalla volontà sull’atto esterno e la moralità della materia con le circostanze si ripercuote a sua volta sull’atto della volontà. Corollario (ad 3m). Se qualcosa deriva in qualcos’altro come da una causa univoca, è numericamente diverso ciò che è in entrambi, anche se è identico quanto alla specie (ad es. il calore nel corpo riscaldante e in quello riscaldato). Se la derivazione avviene secondo analogia e proporzione, la realtà è numericamente unica come la salute nell’animale, nella medicina o nell’urina. E così la moralità dell’atto interiore si traduce88 in quella dell’atto esterno e viceversa e cioè secondo l’ordine dell’uno all’altro. La moralità dell’atto esterno comporta una partecipazione reale intrinseca alla moralità dell’atto interiore; siccome però la denominazione di tale partecipazione dipende da qualcosa di intrinseco (atto della volontà), l’atto esterno si dice morale per denominazione estrinseca, ma non solamente estrinseca). -104Articolo 4 - L’atto esterno aggiunge una certa moralità all’atto interiore. Se non fosse così, basterebbe avere buona volontà senza agire esteriormente. Cf. sed contra. A. La moralità dell’atto esterno che deriva dalla volontà del fine non è modificata dallo stesso atto esterno, a meno che la volontà non cambi in se stessa nel bene o nel male. Ciò può avvenire in tre modi: - quanto al numero, se uno prima vuole agire per un fine buono o cattivo, ma non agisce e poi vuole e agisce; così infatti si raddoppia l’atto della volontà e la sua moralità; - quanto all’estensione, se uno vuole agire per un fine buono o cattivo, ma essendo impedito desiste, mentre un altro continua il moto della volontà fino al compimento dell’opera. Il secondo tipo di volontà implica più perseveranza nel bene o male e quindi aumento della rispettiva moralità; - quanto all’intensità, se l’atto esterno in quanto dilettevole o penoso aumenta o diminuisce l’adesione della volontà, la cui intensità maggiore o minore modifica la moralità. B. La moralità dell’atto esterno che deriva dalla materia e dalle circostanze si rapporta alla volontà come termine e fine e così aggiunge qualcosa alla moralità della volontà stessa. Mi Ogni inclinazione (anche quella volitiva) trova la sua perfezione nel conseguire il fine e nell’arrivare al termine. Ma Il conseguimento del fine e il raggiungimento del termine avviene nell’atto esterno. Co La volontà non è perfetta se, data l’opportunità di agire, non agisce. Se non c’è possibilità di agire, il difetto dell’azione esterna è semplicemente involontorio e quindi, come non merita premio o punizione, così non aumenta nemmeno nè premio nè punizione. Articolo 5 - L’evento seguente non modifica la moralità. A. L’evento premeditato modifica la moralità. Motivo: Chi sa che dal suo agire possono seguire molti mali e non desiste dall’azione, sembra avere una volontà più disordinata. 88 L’Autore aveva usato il verbo derivare, che si trova nel testo latino di San Tommaso. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 95 B. Evento non premeditato: a. Se segue di per sè un determinato atto o almeno nella maggior parte dei casi, modifica la moralità. Motivo: Un atto è in virtù del suo stesso genere più buono o più cattivo, se da esso possono seguire più beni o più mali. b. Se segue accidentalmente e nella minor parte, non modifica la moralità dell’atto. Motivo: Non si dà giudizio su di una cosa in base a ciò che avviene accidentalmente, ma solo in base a ciò che è per sè. Articolo 6 - Un atto esterno non può essere simultaneamente buono e cattivo. Ma Ciò che è uno in un genere può essere molteplice se riferito ad un altro genere (es. una superficie una nel genere di quantità può essere diversa nel genere del colore se dipinta con colori diversi). Mi Tale diversità ha luogo negli atti umani, che possono essere un uno nel genere di natura e qualcosa di molteplice nel genere morale (ad es. camminare è una cosa nel genere naturale, ma può essere diversa nel genere morale, se cambia la volontà di chi cammina). Co L’atto uno nel genere morale non può essere moralmente buono e cattivo nello stesso tempo; se però è uno nel genere di natura può ancora essere o buono o cattivo nel genere morale. Q. XXI LE CONSEGUENZE DELLA MORALITA’ DEGLI ATTI UMANI. - Intrinsecamente: rispetto alla regola oggettiva - rettitudine/peccato (1) rispetto all’agente volontario - lode/rimprovero (2) - estrinsecamente - rispetto alla retribuzione - merito: in genere - merito/demerito (3) in specie - merito/demerito presso Dio • • • • Articolo 1 - La rettitudine e il peccato. Ma Ogni privazione del bene è un male; invece il peccato consiste propriamente nella privazione dell’ordine dovuto di un atto al fine, un ordine che è misurato da una certa regola. Mi a. Negli atti naturali la regola è la stessa virtù naturale che inclina al fine. b. Negli atti procedenti dalla volontà la regola prossima è la ragione umana, mentre la regola remota e suprema è la legge eterna. Co a. Quando l’atto naturale procede secondo l’inclinazione naturale al fine, è conservata la rettitudine nell’atto perchè il mezzo (cioè l’atto) non esula dagli estremi (cioè dell’ordine del principio attivo al fine). Se un atto si allontana da tale rettitudine, si verifica la ragione di “peccato”. b. Quando l’atto umano procede al fine secondo l’ordine della ragione e della legge eterna, è retto; quando invece si scosta da tale rettitudine, si dice peccato. =Ma1 Mi1 Ora, ogni atto volontorio è moralmente cattivo per il fatto che si allontana dall’ordine della ragione e della legge eterna, mentre ogni atto moralmente buono concorda con la ragione e la legge eterna. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 96 Co1 Ogni atto umano, per il fatto che è moralmente buono o cattivo, ha la ragione di rettitudine o di peccato. Corollario (ad 2m). Nel peccato volontario c’è un difetto nell’intenzione al fine ultimo, non però al fine particolare; e siccome il fine particolore è ulteriormente ordinato al fine ultimo, nella stessa intenzione del fine particolare si ritrova la ragione di rettitudine e di peccoto. Articolo 2 - La lode e il rimprovero. Mi Un atto cattivo (peccato) o buono (retto) si dice rispettivamente riprovevole o lodevole in quanto si imputa all’agente. Ma Ora un atto si imputa all’agente solo se è in suo potere e quindi solo se è perfettamente volontario. Co Perciò il bene e il male negli atti volontari e solo in essi ha ragione rispettivamente di lode e di rimprovero (colpa); in essi coincidono il male, il peccato e la colpa. In atti naturali è peccato, ma non colpa. Corollario (ad 2m). L’arte ordina ad un fine particolare, mentre la morale al fine universale, al quale è ordinato il fine particolare. L’artista pecca come artista se devia dal suo fine particolare, mentre pecca come uomo se il difetto di arte fa deviare anche dal fine universale (ad es.un’opera mediocre che inoltre inganna). Nella morale il difetto riguarda sempre il fine universale di tutta la vita umana e quindi chi pecca come uomo pecca moralmente. -106Articolo 3 - Il merito e il demerito in genere. Mi Il merito e il demerito si dicono in ordine alla retribuzione, che avviene secondo la giustizia per il fatto che uno agisce per il bene o per il male (il danno) altrui. Ma Siccome ogni uomo vivente in società è come una parte e un membro della società, se uno agisce per il bene o il male di un uomo, ciò si ripercuote sempre sulla società tutta intera, come chi ferisce la mano, di conseguenza ferisce l’uomo tutto intero. Co Perciò: a. Quando uno agisce per il bene o il male di un’altra singola persona, vi è una duplice ragione di merito o demerito: • in quanto gli è dovuta la retribuzione dalla persona singola che aiuta o che offende, • in quanto gli è dovuta la retribuzione da tutta la collettività. b. Quando uno ordina il suo atto direttamente al bene o al male di tutta la collettività, la retribuzione è gli dovuta: • principalmente da tutta la collettività nel suo insieme e • secondariamente da tutti i singoli membri della società. c. Quando uno fa qualcosa che torna a suo vantaggio o danno, la retribuzione gli è dovuta in quanto il suo stesso bene personale torna a vantaggio di tutta la collettività; però non gli è dovuta, in quanto il bene o il male è della stessa persona singola, che in questo caso è identica con l’agente (a meno che non si voglia parlare impropriamente, metaforicamente, di una certa “giustizia” dell’uomo verso se stesso). . Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 97 CONCLUSIONE GLOBALE. - L’atto umano buono o cattivo ha ragione: di lode o colpa in quanto è in potere della volontà; di rettitudine e peccato secondo l’ordine al fine; di merito e demerito secondo la retribuzione di giustizia nei confronti di un altro. Articolo 4 - Il merito e demerito presso Dio. Ma L’atto umano ha ragione di merito o demerito in quanto è ordinato ad un altro o in virtù di esso stesso o in virtù della comunità della quale esso fa parte. Mi Ora, gli atti umani sono ordinati a Dio: - in virtù di Lui stesso, in quanto è il fine ultimo dell’uomo ed è doveroso che l’uomo riferisca tutti i suoi atti al fine ultimo, - in virtù di tutta la comunità dell’Universo, governata da Dio, cosicchè Dio ha massimamente cura del bene comune e spetta a Lui la retribuzione del bene e del male che avviene nella comunità (spcialmente il governo divino riguarda le creature razionali). Co Perciò in entrambi questi modi (cf. Ma) i nostri atti buoni o cattivi hanno ragione di merito o demerito presso Dio. Testo dattiloscritto del Servo di Dio P.Tomas Tyn, OP – Corso di Teologia Morale presso lo S.T.A.B. – Testo rivisto da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Revisione terminata il 15.6.2010 98