Quel che dobbiamo agli ebrei
L’influenza della cultura e degli
intellettuali ebrei nello sviluppo della
moderna società occidentale.
Alessandro Arcieri
Avvio Percorso
Mappa concettuale
Fine percorso
L’influenza
degli Ebrei
nella
formazione
della società
occidentale
Mappa
concettuale
Gli Ebrei
In
occidente tra
scienza
arte
e filosofia
Storia
ebraica
Le origini
del
popolo
ebraico
Gli Ebrei
a contatto
con
Greci e
Romani
Ebraismo
ed
Ellenismo
Gli Ebrei
nel
Medioevo
Antigiudaismo
a Roma
Il
rinascimento
E
il Gerush
Herzl
e
il caso
Dreyfus
Dal 1492
a gli
ultimi
decenni
dell’800
Gli Ebrei
nel 900
La
formazione
dello stato
di Israele
Letteratura:
Trieste
e la
triestinità
Filosogfia:
Gli autori
del sospetto
Italo Svevo
Sigmund
Freud
e la
psicanalisi
Umberto
Saba
Karl Marx
e il
materialismo
storico
Scienza e
matematica:
Einstein e
la relativitaà
La relatività
e le sue
prove
sperimentali
Storia
dell’arte:
L’arte
degenerata
Marc
Chagall
Introduzione
Gli ebrei sono stati, nei secoli passati, vittime e protagonisti della civiltà e della storia europea. Spesso, piu’ per necessità che per libera scelta, sono
stati costretti a superare le anguste frontiere geografiche e mentali dei paesi in cui vivevano anticipando, con le loro peregrinazioni forzate, uno spirito
cosmopolita e vivace e precursore del moderno e piu’ razionale europeismo. Hanno attraversato confini geografici e hanno conosciuto popoli nuovi.
Hanno superato confini mentali e si sono assimilati, restando, tuttavia, sempre in bilico tra integrazione e mantenimento tenace della loro identità. La
loro cultura, la loro tradizione, la loro esperienza esistenziale li hanno condotti alla rottura dei limiti, non solo fisici delle frontiere nazionali, ma anche
psicologici di società chiuse e feudali. Di questa storia così tormentata della diaspora europea è possibile tracciare alcune linee essenziali. L’anno
1492, in particolare, è un punto focale di rara importanza, perché in quell’anno la Spagna completò la sua unificazione e i sovrani Ferdinando e
Isabella emisero un proclama di espulsione per tutti gli Ebrei del paese. La decisione provocò un esodo improvviso di grandi dimensioni, che
rappresentò il primo passo di una piu’ lenta migrazione verso Est. Alcuni Ebrei (i cosiddetti Marrani), invece, si convertirono sotto coercizione; ma,
nonostante ciò, non furono mai accettati né dai cristiani né dagli ebrei. Per questo furono costretti a scappare, sparpagliandosi per tutta l’Europa. Tutto
ciò diede origine a una nuova categoria di uomini la cui identità finì per nutrirsi delle tragiche esperienze esistenziali subite e si arricchì di elementi di
straordinaria ricchezza e ambiguità. Costretti a un cristianesimo di apparenza, ebrei nell’anima, i marrani vissero la loro sorte chiusi nella paura e
dentro microcosmi familiari impermeabili alla realtà esterna. Sradicati, visti con malanimo sia dagli ebrei sia dai cristiani, questi uomini carichi di
scetticismo e di cicatrici interiori non solo superarono ogni angusta frontiera nazionale, ma ruppero ogni schema ideologico preconcetto ponendosi,
certo inconsciamente nell’Europa di allora, ma non per questo in modo meno traumatico, come uomini senza radici e disincantati cittadini del mondo. Il
giudaismo negato si trasformò in dibattito interiore, divenne conflitto familiare o, addirittura, personale fatto di segreti pensieri, retrocesso a malattia
inguaribile. Il marranesimo dunque si rivelò ben presto in tutta la sua complessità e in tutta la usa carica potenzialmente sovversiva, da un lato eterna
eresia, dall’altro, per la sua intatta carica di dinamismo, un fenomeno in perenne movimento. La cacciata degli ebrei dalla Spagna ruppe
definitivamente l’incanto di una possibile convivenza civile nella penisola iberica tra le tre religioni ebraica, cristiana e mussulmana. Questo evento
lasciò una traccia profonda nell’atmosfera culturale e intellettuale europea. L’elemento ebraico e marrano-ebraico, nella loro complessità psicologica, si
sono rilevati potenti elementi catalizzatori di numerosi processi culturali in tutti i paesi europei. Lo testimoniano le numerose opere di ortodossi ed
eterodossi ebrei di diversa estrazione e di diversa lingua madre. Alcuni di questi uomini avevano maturato le loro esperienze di pensiero non attraverso
i libri o gli studi, bensì attraverso aspre prove esistenziali: scampati al rogo e agli autodafè, trasformarono le loro avventure in sistemi di pensiero aperti
ed estremamente scettici, dunque potenzialmente sovversivi. Di tutti il piu’ celebre è stato Baruch Spinoza che può essere visto sia come classico
punto di arrivo di questa esperienza ebraico-marrana sia come punto di partenza di una nuova visione metaforica della mentalità e della condizione
marrana, ora tipica di molti ebrei europei e ben visibile negli intellettuali di estrazione ebraica in Europa nei secoli successivi. Infatti è possibile dire
che gli intellettuali ebrei che fino ad allora si dedicavano agli studi della Torah e diventavano rabbini, da Spinoza in poi scoprono una nuova strada per
esprimere il loro pensiero e cercano a buon diritto, pur tra contraddizioni e incertezze, un nuovo percorso all’interno della società europea. Se è vero
che gli intellettuali sono lo specchio dei loro popoli e ne esprimono le caratteristiche piu’ intime, è possibile cogliere allora nella straordinaria e
frammentata fioritura di intellettuali di origine ebraica europea e nella loro coscienza travagliata il substrato di una coscienza marrana ben diversa da
quella originaria del termine, ma legata ad essa da assonanze simboliche che permettono di usare questo termine in un senso metaforico. Come i
marrani infatti, anche i nuovi intellettuali ebrei, da Spinoza in poi, vissero la loro travagliata condizione ebraica in modo schizofrenico: ebrei dentro e
uomini europei fino in fondo al di fuori. Cominciò così, un processo di superamento delle barriere nazionali, fossero esse psicologiche o geografiche,
che si portò dietro tutte le contraddizioni, le passioni, le incertezze dell’emancipazione ebraica, ma che seppe creare un atmosfera irripetibile, capace
di fecondare l’intera cultura europea.
Storia ebraica
Mappa concettuale
Fine percorso
Gli Ebrei in occidente tra
scienza, arte e filosofia
La storia ebraica
Ebreo è una parola che ha la sua radice biblica in
avar, che significa passare. Ebreo è colui che passa,
che erra. Israele è il nome dato a Giacobbe
dall’angelo dopo una lotta impari che li aveva visti
l’uno contro l’altro e significa “colui che lotta con
l’angelo”. Israele aveva combattuto non solo per se
ma per la sua discendenza. Israelita significa,
dunque, essere membro del popolo che ha tenuto
testa a Dio. Giudeo, che si trova solo nel Nuovo
Testamento e nel secondo libro dei Maccabei è un
nome usato soprattutto dall’amministrazione romana.
I figli di Giuda aveva conservato i propri riti in terra
straniera, mentre chi era rimasto in Palestina non
aveva resistito altrettanto tenacemente: Tornati in
patria, gli uomini della tribù di Giuda si erano stabiliti
vicino a Gerusalemme. Giudei erano coloro che
erano rimasti fedeli a Dio. Ebreo, israelita, giudeo: tre
sfumature linguistiche con tre significati nascosti.
Ebreo come errante, israelita come indomito, giudeo
come fedele: queste sono state le caratteristiche di
un popolo che ha affrontato, nel corso dei secoli,
pericoli e insidie per mantenere la fedeltà con Dio. Gli
ebrei sono stati contro gli idoli e l’idolatria e questo
sentimento, da religioso in senso stretto, si è
sviluppato acquistando nuove valenze e diventando
una antiidolatria ideologica contro ogni possibile
idolatria della mente e del cuore. Essere contro gli
idoli significa combattere la cristallizzazione del
pensiero, battersi ogni giorno per la libertà.
Le origini del
popolo ebreo
Gli ebrei a contatto
con greci e romani
Gli ebrei
nel Medioevo
Il rinascimento
e il Gerush
Dal 1492 agli ultimi
decenni dell’ 800
Gli ebrei
nel 900:l’olocausto
Le origini del popolo ebraico
Storia antica: Si può iniziare a parlare degli ebrei da Abramo (XVIII a.e.v.) poiché è accanto al suo nome che appare per la prima volta
l’appellativo "l’ebreo", forse perché viene dall’altra parte del fiume o perché, è l’unico ad adorare un solo Dio o più semplicemente perché era
nipote di Eber. Da Abramo e Sara nascerà Isacco: quella della sua nascita, è la prima "Annunciazione" a dir poco anomala che incontriamo nei
testi sacri tanto che suscita il "riso" (Isacco=figlio del riso) negli stessi protagonisti, e in tanta gioia anche Dio sorride.
Isacco sposa Rebecca e nascono Esaù e Giacobbe. Quest’ultimo sarà chiamato anche Israele, pertanto da questo momento i suoi discendenti
potranno essere chiamati indifferentemente ebrei o israeliti. Giacobbe sposa Lea e Rachele, nasceranno dodici figli capostipiti delle dodici tribù. I
più famosi saranno Giuda da cui discenderà Re David, Giuseppe che, divenuto poi viceré d’Egitto, salverà la sua famiglia dalla carestia, e il più
piccolo e il più amato Beniamino. Per quattrocento anni resteranno in Egitto, prima liberi poi schiavi finché nascerà Mosè, il salvatore del suo
popolo. Sfuggito alla strage dei figli maschi degli ebrei ordinata dal faraone, Mosè riuscirà a guidare gli ebrei al di là del Mar Rosso fino al deserto
del Sinai. Gli ebrei usciti dall’Egitto vagheranno nel deserto per quarant’anni finché sarà una generazione del tutto nuova e libera ad entrare nella
Terra Promessa sotto la guida di Giosuè. A Giosuè seguono i Giudici, capi carismatici cui il popolo si rivolge per essere guidato (Gedeone,
Sansone, Debora la profetessa...). Ma vivendo tra popoli pagani, gli ebrei rischiano di allontanarsi dalla via indicata dalla Torà, e inoltre, ora che
hanno la terra, debbono continuamente difendersi dai continui attacchi dei Filistei, per cui è il popolo stesso che chiede a Samuele, l’ultimo dei
Giudici, di "avere un re come l’hanno tutti i popoli vicini". Samuele è contrario, tuttavia democraticamente acconsente purché il sovrano accetti una
specie di "costituzione" che ne limiti il potere, e ungerà re, Saul. È la prima monarchia costituzionale della storia. Inizia quindi il periodo dei Re con
Saul, cui succederà David, il più amato e autore dei Salmi, e poi suo figlio Salomone. A lui sono attribuiti tre libri della Bibbia,( i Proverbi, il Cantico
dei Cantici e l’Ecclesiaste) e sarà lui a edificare il sacro Tempio a Gerusalemme, capitale del suo regno.(X a. E.V.). Dopo la morte di Salomone
(922) gli succede il figlio Roboamo, ma il regno si divide in due: al Nord il regno di Israele in cui dieci tribù sostengono Geroboamo e al Sud il
regno di Giuda con le tribù di Giuda e Beniamino fedeli a Roboamo, con capitale Gerusalemme. (a questo punto si può parlare di ebrei-giudei,
cioè abitanti della Giudea). Al Nord si susseguono vari re ma l’idolatria, professata da tutti i popoli circostanti è in agguato e contro di essa si
scaglia il profeta Elia. Nel 722 a.E.V. il regno del Nord fu spazzato via dagli Assiri, da sempre in lotta con gli Egizi per il predominio del Medio
Oriente. Questi deportarono tutti gli ebrei. Anche il regno del Sud, la Giudea, era oggetto delle mire espansionistiche degli Assiri, ma gli ebrei
erano riusciti ad evitare il peggio, sostenuti dalla predicazione di profeti come Michea, Isaia e Geremia. Con il crollo improvviso dell’impero assiro
però, prenderà il sopravvento quello babilonese e il re Nabuccodonosor pone l’assedio a Gerusalemme. Dopo mesi di stenti, il 9 di Av dell’anno
586 a.E.V., la capitale è rasa al suolo, il Tempio saccheggiato e distrutto, tutti gli ebrei-giudei deportati in Babilonia.
La "cattività babilonese“: È a questo punto che, perso il regno, per scongiurare il pericolo dell’estinzione totale del popolo ebreo, il profeta
Ezechiele vede nella religione l’unica possibilità di sopravvivenza, in quella condizione di schiavi in un territorio ostile. Riuniti gli anziani, insieme
concordano che sarà lo studio sistematico della Torà a tenere unito Israele. Sorgono così le sinagoghe, cioè scuole in cui studiare e pregare.
Quest’uso continuerà anche quando Ciro, re di Persia, conquistata nel 516 a.E.V. Babilonia, permetterà agli ebrei di ritornare in patria. (Molti
resteranno nell’impero persiano: vedi la storia narrata nel "Libro di Estèr"). A Gerusalemme sarà ricostruito il secondo Tempio, ma nelle
sinagoghe al posto degli antichi sacrifici sarà instaurato il culto della Parola di Dio, parola da leggere studiare, da scrivere e commentare.
Quindi passando dall’ebraismo pre-esiliaco al giudaismo, la classe dominante non sarà più quella sacerdotale, aristocratica (discendenti diretti di
Aronne), ma una classe di laici chiamati "soferim" (scribi) tra i quali sorgerà più tardi una categoria di dotti, i farisei, di umile estrazione sociale, ma
al tempo molto rispettati per la loro sapienza, anche se poi ingiustamente vituperati.
Gli ebrei a contatto con greci e romani
Età alessandrina: Nel 332 a.E.V. Alessandro Magno conquista la Persia e si impadronisce anche della Giudea. Lascia i popoli conquistati liberi di
continuare ciascuno le proprie usanze, ma si diffonde, anche tra gli ebrei, la pericolosa tendenza all’ellenizzazione che si traduce in una sconfinata
ammirazione per tutto ciò che è greco. Viene abbandonata persino l’antica lingua dei padri e la Bibbia viene tradotta in greco (Bibbia dei Settanta).
Uno dei successori di Alessandro Magno, Antioco IV Epifane, proibisce il culto, la circoncisione e il Sabato. Ciò suscita l’immediata rivolta degli ebrei,
i quali, capeggiati dal sacerdote Mattatià Asmoneo e dai suoi figli, percorrono il paese distruggendo gli altari pagani. Particolarmente valoroso è uno
dei figli, Giuda detto il Maccabeo (martellatore). Grazie alla vittoria dei fratelli Maccabei (167 a. E.V.) il tempio verrà riconsacrato.
L’occupazione romana: Roma, che inizialmente aveva appoggiato la ribellione maccabea contro la Siria, guarda poi con sospetto l’espandersi della
Giudea durante il regno di Alessandro Janneo. Alla morte di quest’ultimo scoppia una guerra civile tra i suoi successori. La situazione si risolve grazie
ad Antipatro,che decide di porsi sotto la protezione di Roma stipulando un accordo con Pompeo (63 a. E.V.) che, occupata Gerusalemme,
trasformerà la Giudea in provincia romana. Successivamente Giulio Cesare ne affiderà l’amministrazione ad Antipatro. Nel 37 a. E.V. Roma nominerà
re, il figlio di Antipatro, Erode il Grande, e il suo regno durerà sino alla nascita di Gesù. Erode fu l’ultimo re, dopo di lui la Giudea passerà sotto il
controllo romano. Varie, poi, erano le correnti socio-religiose,spesso in conflitto. C’erano i Sadducei, nobili, ricchi proprietari e alti sacerdoti che erano
favorevoli allo sviluppo militare e a Roma. I Farisei invece, rabbini e studiosi, sostenuti dal popolo, erano contrari alle guerre di conquista. C’erano poi
gli Esseni, studiosi, pacifisti. Gli Zeloti, veri guerriglieri contrari al dominio romano che combatteranno sino all’ultimo. È in questo clima che nasce
Gesù di Nazareth. La sua predicazione era seguita dalle masse dei giudei e quando Gesù si avvicinò a Gerusalemme, il procuratore romano, Ponzio
Pilato, pensò che volesse diventare Re dei Giudei. Spettava al Sinedrio il compito di denunciare qualunque attentato alla sovranità di Roma. Tale
sembrò l’attività di Gesù. Intanto il l’Ebraismo si stava diffondendo anche in occidente, specie a Roma.
La distruzione del II Tempio e la diaspora: Nel primo sec. d.C. le lotte tra romani ed ebrei si fanno sempre più frequenti. Mentre i Sadducei
collaboravano con i romani, gli Zeloti non ne accettavano i soprusi e ritenevano i tributi, un atto di apostasia contro il loro Dio. Nel 66 scoppia una
nuova rivolta. Gli Ebrei si riversano a Gerusalemme e occupano la città sbaragliando la guarnigione romana. Roma invia il generale Vespasiano a
sedare la rivolta, egli (come racconta Giuseppe Flavio )pone l’assedio alla città di Gerusalemme. Ma, proclamato imperatore, nel 69 riparte per Roma
lasciando al figlio Tito la conquista della città. Nel 70 d.C., così, ancora una volta Gerusalemme è in fiamme, il tempio è distrutto e gli ebrei sono
deportati. Dopo la caduta di Gerusalemme, prevedendo la diaspora, si cerca di mettere per iscritto quanto faceva parte della tradizione orale. Intanto
vi è una nuova rivolta contro Roma, ma gli ebrei vengono di nuovo sconfitti (135 d.C.) e sono puniti: costruzione di un tempio dedicato a Giove sulle
rovine del Tempio a Gerusalemme, interdetto l’accesso alla città (che diventa Aelia Capitolina) a qualsiasi ebreo e trasformazione della Giudea in
Palestina, cioè terra dei filistei, nemici d’Israele. Gli ebrei dispersi si riuniscono in comunità lungo tutte le coste del Mediterraneo, ma piccoli gruppi
rimarranno sempre nella loro Terra. Diventato imperatore Antonino Pio, mite e tollerante, gli ebrei avranno maggiore libertà.
Cristianesimo e antigiudaismo: Con l’affermarsi del cristianesimo, però, si sviluppa una “cultura del pregiudizio” che identifica l’Ebraismo con
Satana. Su questa linea sono Tertulliano e Giovanni Crisostomo. Invece Sant’Agostino sosteneva che gli ebrei dovessero sopravvivere, come
testimoni della verità cristiana. Intanto a Roma gli ebrei, vissuti come tutti gli altri cittadini, inclusi nell’Editto di Caracalla, con l’avvento del
cristianesimo sono discriminati. Con l’Editto di Costantino il cristianesimo diventa religione ufficiale dell’Impero e con Costanzo II viene promulgata,
nel 339, una prima legislazione antigiudaica. Due secoli più tardi Teodorico, re degli Ostrogoti, proclamandosi difensore degli ebrei, darà ad essi, per
un breve periodo, condizioni di vita migliori. Ma con il crollo dell’Impero d’Occidente il papato avrà lo scettro di Roma e una forte influenza su tutto il
mondo cristiano occidentale, e quindi anche sugli.
Giuseppe Flavio
e i Maccabei
L’antigiudaismo a Roma
Ebraismo ed Ellenismo
Nel quarto secolo a.E.V. Alessandro il Macedone, con una fulminea campagna militare conquistò la Persia provocando la caduta del grande impero,
costruito su basi così deboli dal punto di vista politico, religioso e culturale. Le vecchie strutture dell’impero persiano ebbero un crollo improvviso: si
formò una nuova classe dirigente, animata da nuove idee, che introdusse ovunque i nuovi metodi politici e amministrativi. Le attività commerciali
ebbero un incremento rapido e generalizzato, tutte le popolazioni dei paesi affacciati sul Mediterraneo videro un notevole sviluppo demografico.
Altrettanto rapida fu l’assimilazione, da parte di questi popoli, della cultura greca: adottarono usi e costumi dei greci, identificarono o sostituirono le
loro antiche divinità con gli dei della mitologia greca, scomparendo, in pratica, come popoli autonomi. Il nuovo assetto unitario della regione, sotto il
dominio greco-ellenistico, ebbe breve esistenza: alla morte di Alessandro i governatori greci dei paesi conquistati rifiutarono di riconoscere un
successore e rapidamente trasformarono i loro governatorati in regni autonomi di cui la civiltà greca costituiva ormai solo il comune denominatore
culturale. Nel terzo secolo a.E.V. la Palestina fu annessa al regno greco-egiziano dei Tolomei che riconoscevano agli ebrei una discreta autonomia.
A questo periodo di relativa tranquillità ne successe uno molto meno pacifico, in cui la Palestina si trovò spesso ad essere l’oggetto e il campo di
battaglia delle guerre tra il regno greco-siriano e quello greco-egiziano. È soprattutto in questo periodo di tale incertezza politica che avvenne il
contatto tra la popolazione ebraica e la cultura greca: al mondo della Torà si contrappose una cultura raffinata e non priva di fascino, un sistema di
valori morali, estetici, filosofici, ben diversi da quelli ebraici ma tali da attrarre e influenzare profondamente soprattutto le classi più elevate della
popolazione della Giudea. Decenni di compromessi politici con i vari regimi dei dominatori e di scambi economico-commerciali con le popolazioni di
lingua greca, affievolirono rapidamente l’attaccamento all’antica tradizione delle categorie più ricche e più colte in seno al popolo ebraico. Proprio gli
aristocratici e i sacerdoti, i leader politici e gli intellettuali del tempo, furono coloro che maggiormente subirono il fascino della cultura greca che
comportava, soprattutto per loro, anche ricchezze, potere, e privilegi politici. Solo i circoli più conservatori rimasero vicini agli antichi valori ebraici e
si costituirono così in Palestina due distinti partiti politici, uno filo-egiziano e l’altro filo-siriano. I mutamenti politici che si verificarono in Palestina in
quei tempi ebbero almeno due ordini di motivi di carattere rispettivamente demografico ed economico-sociale. In primo luogo si ebbe in quegli anni
un aumento della popolazione ebraica, circoscritta in un territorio troppo ristretto, e questo portò a fenomeni di emigrazione interna e nei territori
confinanti, con la conseguenza di attriti con le popolazioni lì residenti, popolazioni che collaborarono poi attivamente con i siriani nelle guerre
sostenute contro l’esercito di volontari ebrei comandato dai Maccabei. In secondo luogo si poté assistere in quel periodo alla nascita e allo sviluppo
di una nuova classe sociale di tipo aristocratico e mercantile, prima del tutto inesistente nel paese. Da territorio esclusivamente agricolo, isolato dalle
grandi vie del commercio internazionale, la Giudea, divenne presto una regione di intensi scambi commerciali, di cui Gerusalemme costituì il centro
naturale. Questo portò alla formazione di un nuovo strato sociale, rappresentato dai mercanti, dai grossi proprietari, dai mediatori, dagli incaricati
della raccolta delle tasse, che presto dimostrarono di avere interessi ed esigenze diversi da quelli della vecchia classe dirigente, quella sacerdotale.
Fino ad allora la Palestina era stata governata come una teocrazia ereditaria e il Tempio aveva costituito la sede del potere non solo religioso, ma
anche economico e politico. La nuova classe emergente dei ricchi mercanti richiedeva che alle modificazioni delle strutture economico-sociali
corrispondessero adeguati cambiamenti nella sfera del potere politico: Gerusalemme doveva assumere l’aspetto delle città greche; doveva ottenere
una costituzione di tipo greco che facilitasse gli scambi commerciali e culturali; i costumi, gli abiti stessi, della popolazione dovevano mutare
assimilandosi a quelli di tutte le popolazioni circostanti; il potere doveva essere gestito in modo da permettere e stimolare queste profonde
trasformazioni e non più per conservare leggi socio-religiose antiche e giudicate ormai anacronistiche. Questa nuova tendenza politica coinvolse
presto, per i vantaggi di tipo economico che comportava, ampi settori della vecchia classe dirigente del paese. Non solo la nuova aristocrazia
mercantile, ma anche esponenti della classe sacerdotale non esitarono ad accettare e a farsi promotori delle riforme che venivano proposte.
Prodotti della cultura
ebraico-ellenistica
Prodotti della cultura ebraico-ellenistica
La Bibbia dei "Settanta“: Nel primo ellenismo ad Alessandria si ha una folta colonia ebraica, che sente il bisogno di esprimersi in greco per arrivare
anche agli ebrei di lingua greca: nasce così la necessità di una traduzione e di una circolazione dei "testi normativi" ebraici, ossia della Bibbia,
traduzione che diventa quindi un arricchimento per diffondere la cultura ebraica. La leggenda della traduzione in greco del testo sacro vuole che
Tolomeo II dopo aver cercato la Bibbia avrebbe fatto tradurre i testi sacri ebraici da 70 dotti in 70 giorni. E' certo che la traduzione (detta dei
"Settanta") viene fatta per la Biblioteca di Alessandria, ma è probabile che inizi nel III secolo e che includa testi già scritti in greco, come è probabile
che tale traduzione si inquadra bene nella politica culturale dei Tolomei, e che forse ebbe influssi anche sui poeti dotti. La Bibbia dei Settanta
esemplifica i fermenti culturali dell'Ellenismo, che viene dunque ad essere appunto una mescolanza tra cultura greca e orientale. L’unione di cultura
ebraica e ellenistica è operante in autori come Filone e Giuseppe Flavio.
Filone di Alessandria (30 a.C.-41 d.C.) tenta di unire filosofia greca (platonica) e religiosità ebraica nelle sue numerose opere:
1)Commentari all'Antico Testamento: unisce cultura ebraica e filosofia platonico-stoica per giustificare la fede. Filone ritiene che Dio sia
irraggiungibile dall'uomo: Dio usa le idee come modelli della creazione, che quindi diventa espressione della razionalità, del Logos, che però è
possibile raggiungere solo staccandosi dalla materia (che è il male), con l'estasi.
2)Scritti polemici: nel Contro Flacco si scaglia contro un pretore che aveva osteggiato il re giudeo Agrippa; nell'Ambasceria a Gaio riferisce l'ostilità di
Caligola contro gli ebrei che avevano protestato per il culto divino che egli esigeva: in entrambe le opere Filone espone la teoria della punizione di Dio
che colpisce i nemici del popolo ebraico.
3)Biografie (di Abramo, Giuseppe, Mosè): ricordano le biografie degli uomini illustri di tipo erudito.
Giuseppe Flavio (37-dopo il 96) è lo storico del collaborazionismo degli ebrei con i romani, tanto che fu un liberto di Vespasiano e cercò di far
arrendere gli ebrei in rivolta. Le sue opere maggiori sono due:
1)Guerra Giudaica: Giuseppe, narrando eventi da lui vissuti (e in ciò si ricollega a Polibio) va contro i sostenitori della rivolta antiromana, colpevoli
della rovina ebraica e di non essersi accorti dell'inevitabilità della vittoria romana.
2)Antichità Giudaiche: sono una storia del popolo ebraico dalla Genesi al 66 d.C., in cui si uniscono fonti bibliche, storici ellenistici e Livio.
Il Nuovo Testamento: Il Cristianesimo è espressione del mutamento dei tempi e della crisi della civiltà pagana, dando soddisfazione all'ansia del
divino delle classi basse, che sentono ormai estranei i valori tradizionali. La letteratura cristiana si sforzerà poi di riconoscere ed ampliare i valori
classici della spiritualità greca, utilizzando principi e metodi della filosofia greca per la sua sistemazione teologica. Sotto il titolo Kainé Diathekhe si
indica il corpus canonico, ossia gli scritti cristiani riconosciuti dalla Chiesa già nel II secolo e comprendente scritti del secolo precedente. Il titolo indica
il "nuovo patto" stretto tra Dio e l'uomo grazie al sacrificio di Cristo. Il canone, scritto in koinè con molti elementi di origine ebraica o parole piegate ad
esprimere nuovi concetti è composto da 27 scritti e diventa pienamente ufficiale nel quarto secolo:
1) I 4 Vangeli: i primi tre (Matteo, Marco, Luca) vengono detti sinottici perché riferiscono gli stessi fatti e formano una sinossi (visione d'insieme).
2) Gli Atti degli Apostoli: sono il II libro dell'opera di Luca, poi staccato dal Vangelo, e narrano la vita delle prime comunità cristiane,essi si dividono
in: Le Lettere di san Paolo, Le 7 Lettere Cattoliche: di vari apostoli, dirette a tutte le comunità e non a singoli gruppi, L'Apocalisse: il titolo indica lo
"svelamento", le visioni che San Giovanni, riferisce di aver avuto sulla fine del mondo. Opera complessa ed oscura per i numerosi simboli.
Dal canone vennero esclusi dei testi ritenuti composti da eretici e quindi chiamati "apocrifi", cioè "da escludere". Tra essi si ricordano gli Atti dei 12
Apostoli e vari "vangeli" imperniati sull'infanzia di Gesù o di Maria.
L’antigiudaismo a Roma
I romani non amavano gli ebrei perché ne avevano paura, e ne avevano paura a causa della crescente
attrattiva che esercitavano sulla società romana. L’accusa di proselitismo che viene continuamente
mossa agli ebrei non deve però essere intesa nel senso che questi si impegnassero attivamente nella
ricerca di nuovi adepti - il loro separatismo non favoriva certo un proselitismo attivo - ma si limita
probabilmente a prendere atto di una situazione di fatto, che vedeva crescere curiosità e interesse per i
costumi di questo popolo altro da sé. Se lo stesso Tacito, nonostante la sua aperta ostilità, non
nasconde interesse per il monoteismo ebraico "considerano che l’essere supremo sia eterno e
inimitabile e imperituro", Nel V libro delle “historiae”, infatti,Tacito inizia una digressione sugli ebrei, la
cosiddetta "archeologia giudaica", tratta cioè delle loro origini, la loro religione, le loro leggi e i loro
costumi. In queste pagine emerge chiaramente l'ostilità che circondava gli ebrei fin dal III secolo a.C. e
che aveva dato origine a una letteratura antisemitica. Tale atteggiamento nasce dalla forte identità
etnica degli ebrei e dalla loro insofferenza a ogni tentativo di integrazione e sottomissione dall'esterno.
Tacito mette in luce le profonde differenze tra la religione ebraica e quella romana, il rigido monoteismo
dei primi, in effetti, li rendeva un'eccezione rispetto a popoli che adoravano decine di dei.Inoltre lo storico
esprime un profondo disgusto per le loro usanze - essi seppelliscono i cadaveri, considerano empi
coloro che modellano gli dei ad immagine degli uomini e non elevano statue neanche nei templi - che
sono inconcepibili non solo per i Romani ma anche per la maggior parte degli altri popoli, e per questo
motivo li paragona agli Egiziani. In genere i Romani erano abbastanza tolleranti nei confronti delle
religioni straniere, ma quello che non potevano accettare degli ebrei era il loro proselitismo. L'avversione
e il disprezzo fanno venir meno il distacco che sarebbe richiesto a uno storico, e questo accade perfino
nei capitoli dedicati alla geografia del luogo: il quadro che emerge è quello di un paese inospitale e
malsano, che anche nelle zone fertili presenta mostruosità e stranezze (cfr. la descrizione del balsamo cap.6). C’è da pensare che il fascino delle nuove religioni, attestato dal diffondersi del cristianesimo, non
escludesse affatto l’ebraismo. Cicerone, attacca gli ebrei in quanto gruppo di pressione influente nelle
pubbliche adunanze, la cui barbara superstitio è incompatibile con il mos maiorum (Pro Flacco 67);
Giovenale e gli scrittori satirici pongono l’accento su singole usanze ebraiche, ma da parte loro il
riferimento è ricercato in quanto soggetto di ironia, senza per questo esprimere ostilità di principio.
Quando Orazio nella satira I 5, di fronte al fronte al cosiddetto "miracolo di Egnatia" (incenso che
bruciava senza bisogno di fiamma sulla soglia di un tempio) osserva credat Iudaeus Apella (v. 100), non
esprime che generica ironia nei confronti della superstizione degli ebrei. E quando nella satira I 9 l’amico
Aristio Fusco si esime dal sottrarre Orazio all’importuno seccatore adducendo come scusa che è sabato
e non vuole mancare di rispetto agli ebrei circoncisi (vv. 69-70), è difficile cogliere nelle sue parole
qualcosa di più impegnativo della battuta ironica Tacito è un tradizionalista in un'età di declino dei valori
tradizionali, e per questo motivo nell'antichità non raggiunge mai la popolarità, ma deve attendere
l'Umanesimo per essere riscoperto da numerosi studiosi.
L’antigiudaismo Cristiano
Il portico di Ottavia nel Ghetto di Rona
L’antigudaismo cristiano
Nato come movimento riformatore del giudaismo, il cristianesimo condivide con gli ebrei i libri dell’Antico Testamento, ma si allontana dal rispetto
rigido della Legge ebraica e si distingue sul piano teologico per il riconoscimento di Gesù Cristo come Messia. La religione cristiana subito si apre
a larghe fasce di popolazione grazie a un’intensa opera di proselitismo, a una forte carica di rottura con le tradizioni stantie del paganesimo e a una
nutrita produzione apologetica, cioè di scritti di giustificazione e difesa. L’apologetica cristiana prevede anche una polemica antiebraica: è interesse
dei cristiani delle origini, infatti, ribadire la propria differenza rispetto agli ebrei, malvisti dal ceto conservatore romano convertito al cristianesimo, ed
evitare quei fenomeni di sincretismo che avrebbero potuto annullare la loro identità riassorbendoli come uno dei tanti culti orientali.
La separazione tra giudaismo e cristianesimo: Né Gesù Cristo né san Paolo né le comunità cristiane di epoca neotestamentaria pronunciarono
anatemi contro il giudaismo. Allo stesso modo, non è mai esistita una scomunica dei giudeocristiani (i giudei convertiti al cristianesimo) da parte
del giudaismo rabbinico: Gesù e i suoi discepoli si scontrarono spesso con funzionari e singoli gruppi di giudei, ma almeno fino al 70 nessuno
pensò a escludere i seguaci di Cristo dal popolo di Israele. L’evento dirompente del 70 d. C. (guerra giudaica e distruzione di Gerusalemme e del
Tempio), invece, ponendo in modo drammatico il problema di rifondare una nuova identità giudaica, accelerò la presa di distanza tra la religione
ebraica e la comunità cristiana fino a provocare una sorta di separazione tra la chiusura del giudaismo rabbinico e la vocazione di Paolo a
convertire tutti i popoli: la vera nascita del cristianesimo avviene quando la predicazione di Paolo, superando i confini della Palestina, si estende
alle comunità della diaspora, alle colonie ebraiche ellenizzate della Siria, dell'Asia Minore, della Grecia, per poi rivolgere il proselitismo sempre più
verso i pagani. Per il cristianesimo paolino non vi sono più condizioni per la concessione della grazia divina: né l’appartenenza giudaica, né il culto
del Tempio, né altre istituzioni sacre costituiscono un privilegio in vista della partecipazione a una comunità elettiva, una sorta di civitas Dei
anticipata, composta senza distinzione da tutti gli individui obbedienti alla fede in Cristo. Gesù viene condannato al supplizio tipicamente romano
della morte per crocifissione nella Pasqua dell’anno 30. Ma chi ha condannato Gesù? I giudei del sinedrio o il governatore romano Pilato? A questo
proposito si suole richiamare il famoso passo di Matteo 27, 24-25: Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre di più,
presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!" E tutto il popolo rispose: "Il
suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli". Su questa frase grava una responsabilità tremenda: quella di aver attribuito ai giudei la fama di
popolo deicida, cioè di essere stati i responsabili della morte di Cristo. Eppure si sa che, da una parte, i Vangeli non sono un libro di storia, e
dall’altra che il comportamento di questo governatore romano duro e senza scrupoli, che democraticamente si rivolge al popolo e si attiene alla sua
decisione sfiora l’assurdo. E che il sinedrio non aveva competenza nel processo romano né per accusare Gesù né per costringere Pilato a
condannarlo. L’accusa di deicidio: Dunque, in contraddizione con la richiesta di perdono fatta da Gesù crocifisso ("Padre, perdonali, perché non
sanno quello che fanno" Luca 23, 34), il vangelo di Matteo (27, 25) attribuisce espressamente agli ebrei la responsabilità della crocifissione di
Cristo. Esso costituisce infatti il supporto dell’accusa di deicidio, che offre la base teologica all’antigiudaismo cristiano e consente il duplice
vantaggio di muovere un attacco all’ebraismo e di accattivarsi le simpatie dei romani stornando da loro la responsabilità del supplizio di Cristo. E’
assai probabile che la distruzione stessa di Gerusalemme e del Tempio fosse vista come la prova dell’ira divina, come segno che l’antica alleanza
era stata revocata in favore della nuova: Chiesa contro Sinagoga. Perciò le parole attribuite da Matteo a "tutto il popolo" sono state intese per due
millenni come la confessione da parte ebraica di colpevolezza nella morte di Gesù. Esse hanno legittimato gli atti di violenza contro gli ebrei che
iniziano ben presto, non appena il cristianesimo è riconosciuto come religione legittima dall’editto di Costantino (313 d. C.) e poi, alla fine del
secolo con l’editto di Teodosio, come religione ufficiale dell’impero.
Gli "assassini del Signore“: Le radici antiche del disprezzo per gli "assassini del Signore" trovano una prima definizione negli scritti degli apologisti
cristiani e dei Padri della Chiesa. Per Giovanni Crisostomo è dovere di tutti i cristiani odiare gli ebrei, le cui sinagoghe sono un lupanare e un
teatro, caverne di briganti e tane di belve feroci; per Origene essi hanno inchiodato Gesù alla croce; per Agostino stragi e distruzioni di ebrei sono
una punizione temporanea (un’anticipazione del giudizio finale) per aver provocato la passione di Cristo. E come il sangue di Abele era ricaduto su
Caino condannandolo ad andare ramingo sulla terra (Genesi 4, 12), così il popolo ebraico, sul cui capo pesava il sangue di Gesù, era condannato
a errare esule per il mondo portandosi addosso il marchio dell’assassino. Ma al di là delle espressioni di ostilità, a volte singolarmente dure, che si
trovano negli scritti patristici, è pur vero che l’antico cristianesimo non ha mai scomunicato ufficialmente l’ebraismo: secondo Agostino la Chiesa ha
semplicemente preso il posto del popolo eletto nel disegno di Dio.
Gli ebrei nel Medioevo
Gli ebrei in Europa nei secoli a cavallo del primo millennio: Dall’VIII secolo sin verso l’anno Mille le comunità ebraiche sparse nell’Occidente
vivranno un periodo di calma e prosperità. Tale cambiamento avviene grazie all’atteggiamento favorevole degli imperatori carolingi a partire da Carlo
Magno (768-814). Questi li protesse garantendo loro non solo la vita, ma anche: la proprietà, la libertà religiosa e mercantile e l’indipendenza
giudiziaria. Gli ebrei ripagheranno l’Impero, favorendo lo sviluppo dell’industria e del commercio, soprattutto con l’Oriente, interdetto ai cristiani
dall’Islam. Con Ludovico il Pio, e successori, aumentano i privilegi, la corte si serve di ebrei come medici, ambasciatori e esattori dei tributi. Nelle
principali città della Germania è tutto un fiorire di comunità ebraiche che vivacizzano cultura e commercio. La penetrazione si spinge sino all’Austria,
alla Moravia, in Ucraina e alla Boemia il cui centro principale fu Praga. Verso la fine dell’VIII secolo poi, un intero popolo, i Kazari, si erano convertiti in
massa all’ebraismo. Essi si fondono con gli ebrei che si erano spinti verso Est formando il gruppo di ebrei aschenaziti. Ma la nazione europea in cui gli
ebrei diedero il massimo anche dal punto di vista culturale fu senz’altro la Spagna ove conobbero "l’età d’oro". Vi si erano stabiliti in gran numero dopo
la distruzione del II Tempio, e vivevano soprattutto nelle città dell’Andalusia. Quando gli arabi conquistano la Spagna vengono accolti dagli ebrei come
liberatori e i califfi conferiscono agli ebrei importanti incarichi.
Le Crociate: Mentre in Andalusia gli ebrei vivevano "l’età d’oro" (culturale ed economica), e in Italia erano momentaneamente tranquilli, nel resto
dell’Europa vengono all’improvviso travolti dalla furia spietata dei crociati. Papa Urbano II aveva indetto la I crociata nel 1095 con l’intento di liberare il
sepolcro di Cristo dalla presenza dei musulmani. Al grido di "Dio lo vuole" e al seguito di Pietro l’Eremita, si radunano nobili e plebei, monaci e laici,
provenienti da Francia, Inghilterra e Germania. Mano a mano che i crociati scendono lungo la valle del Reno, iniziano a trucidare intere comunità
ebraiche, che vivevano tranquille nelle città tedesche. L’imperatore Enrico IV, estremamente liberale. Alla notizia dei massacri invia messaggi a principi
e vescovi dell’impero vietando di maltrattare gli ebrei. Nonostante ciò gli omicidi di massa, i saccheggi e le torture continuano, e spesso con l’appoggio
dei vescovi che ne traggono anche vantaggi economici. L’imperatore Enrico IV perciò si sdegnò per le atrocità commesse e permise agli ebrei
convertiti a forza di ritornare all’ebraismo. Quando i crociati giungeranno finalmente in Palestina continueranno le stragi di ebrei e musulmani. La II
crociata (1145-49) ebbe lo stesso andamento, questa volta saranno soprattutto le comunità ebraiche di Francia ad essere sterminate. La III crociata
poi, indetta da papa Clemente III e capeggiata da illustri regnanti come il Barbarossa, Filippo Augusto di Francia, e re Riccardo I Cuor di Leone,
muovendo dall’Inghilterra vedrà per prime massacrate proprio le comunità ebraiche inglesi. Le crociate iniziate come fenomeno religioso e
cavalleresco diventeranno un fatto economico utile ai signorotti per assicurarsi possedimenti nelle nuove terre, a trafficanti di ogni genere e soprattutto
alle repubbliche marinare per aprire le vie commerciali con l’Oriente. Gli ebrei a partire da questo periodo subiranno, non solo perdite di vite umane e
torture, ma anche le accuse più infamanti (omicidio rituale, profanazione di ostie, complotto ebraico) in nome delle quali saranno sempre perseguitati.
Lo stesso papa Innocenzo IV, preoccupato per le conseguenze della rapida diffusione di queste accuse, inviò nel 1247 le famose lettere ai vescovi di
Germania ma, quando nel 1348 scoppierà la grande epidemia di peste nera in Germania, gli ebrei che sfuggirono alla peste caddero vittime
dell’ignoranza, poiché si scatenò la caccia all’ebreo, accusato di propagare la peste. È in questo periodo che si verificheranno veri e propri esodi di
massa verso il Sud d’Europa e in Italia. Con le crociate, inoltre, diventano normali anche per i cristiani i viaggi tra i due mondi e gli ebrei perdono la
funzione di ponte tra le culture che avvevano avuto. Al contrario, il radicalizzarsi dell’intolleranza religiosa, rende più pericolosi i loro viaggi. In piu’ora è
facile individuare l’ebreo, perché con il IV Concilio lateranense, indetto da papa Innocenzo III nel 1215, si impone l’uso del segno giallo. Inoltre lo
stesso Concilio vieta ai cristiani, il prestito a usura del denaro, sino a quel momento loro esclusivo appannaggio. Gli ebrei fino al 1200 non prestano
denaro, ma dopo le decisioni del Concilio questi si sostituiranno a poco a poco ai prestatori cristiani. Così sarà nella maggior parte degli Stati europei e
in molti d’Italia dove tutti quei mestieri che gli ebrei avevano svolto, verranno raccolti in "Corporazioni di Arti e Mestieri", sotto l’egida di un Santo, e
perciò ne verranno esclusi. Pertanto gli ebrei si vedono ridotti ad esercitare il prestito ad interesse, unica attività economica ad essi concessa.
Il Rinascimento e il Gerush
Gli ebrei nel Rinascimento: In Italia gli ebrei vivranno tra il ‘400 e la seconda metà del secolo successivo una vita relativamente tranquilla anche
se, quasi ovunque, le Corporazioni di Arti e Mestieri impediranno loro l’esercizio dei molti mestieri di un tempo. Molti saranno chiamati ad
esercitare il prestito con contratti notarili. Nelle Marche,addirittura, avviano le prime piccole industrie. L’unica tra le arti nobili, loro permessa, sarà
quella medica, arte in cui primeggiano. I medici ebrei godevano di un’ottima fama tanto che quasi tutti i papi del passato ebbero medici ebrei. Ad
imitazione dei papi, anche l’alto clero e molti nobili preferiscono servirsi di medici ebrei e ciò sarà causa di invidie e gelosie professionali. In
Germania Gutemberg aveva inventa nel 1440 la stampa, e "il popolo del Libro" accolse come una benedizione questa arte. Questa permetteva la
divulgazione dei libri di preghiere fino ad allora pazientemente riprodotti a mano. Si crea così un forte fermento religioso e letterario in seno
all’ebraismo, che non sfugge a papa Leone X che, amante delle arti e benevolo verso gli ebrei, incoraggia la stampa del Talmùd babilonese e
istituisce presso l’Università di Roma una cattedra di ebraico. A Venezia, però, proprio nel 1515, lo stesso testo sacro viene dato alle fiamme nel
primo di quei tanti roghi che diventeranno poi, nella seconda metà del ‘500, una macabra consuetudine. L’anno dopo (1516), a Venezia, sarà
istituito il primo ghetto della storia.
La cacciata dalla Spagna: Allorché gli ebrei di Andalusia avevano dovuto lasciare il Sud della Spagna per l’arrivo degli Almohadi (islamici
intransigenti), si erano trasferiti in parte in Marocco e in Egitto, ma soprattutto nel regno di Castiglia e di Aragona ove inizialmente i sovrani cattolici
li accolsero offrendo loro di esercitare qualsiasi attività, pur cercando sempre di sollecitare le conversioni. Ci furono in effetti molte conversioni ed
anche matrimoni che potremmo definire "misti", ma per essere certi che i "conversos" (nuovi cristiani) rompessero ogni legame con le famiglie di
origine e con la fede professata in passato vennero istituiti appositi tribunali affidati ai Domenicani. Entra così in funzione l’Inquisizione (primo rogo
di ebrei 1481) che promette il perdono a coloro che hanno la sventura di cadere nelle sue mani purché denuncino eventuali altri colpevoli (ebrei
convertiti che continuano a giudaizzare) innescando così una catena infinita di arresti, torture, processi, condanne, roghi e confisca dei beni e via
nuovi arresti. All’accanimento feroce del Primo Inquisitore Generale, il terribile Tomaso Torquemada, si era spesso opposto lo stesso re
Ferdinando e così pure ebrei influenti come Abraham e Isaac Abrabanel (una famiglia e eminenti statisti e banchieri) che ricorsero persino al Papa.
Né Re né Papi riusciranno a fermare la macchina infernale della Santa Inquisizione che dopo aver mandato al rogo migliaia di ebrei, previa
confisca dei beni, convincerà i sovrani, Isabella e Ferdinando, che l’unico modo per sottrarre i nuovi cristiani (conversos o novelli) all’influenza
ebraica era quello di espellere tutti gli ebrei dalla Spagna, dalla quale erano appena stati cacciati i Mori. Il decreto di espulsione viene firmato dai
Sovrani il 31 marzo 1492 con il quale si ordina di lasciare il paese entro tre mesi per dare generosamente il tempo di alienare i loro beni o di portarli
con sé per mare ( il decreto è esteso alla Sicilia, al tempo protettorato spagnolo). Quindi potranno portare via, dopo oltre quindici secoli di vita
intensa e fattiva nella penisola iberica, solo poche povere cose e il resto verrà confiscato, tanto che gli storici calcolano che con queste entrate
furono finanziate almeno le prime due spedizioni di Cristoforo Colombo (sia Colombo sia la versione spagnola Colon, sono anche oggi cognomi
ebraici). Le tre Caravelle salpano da Palos il 2 agosto, a bordo Colombo userà carte nautiche e tavole astronomiche preparate da ebrei (Abraham
Zacuto), e lo stesso giorno una fiumana di ebrei, smarriti e increduli, si dirigeranno verso il vicino Portogallo o, via mare, verso la Turchia protetti ed
accolti da Solimano il Magnifico, o verso il Nord e l’Est d’Europa. Quell’anno la Spagna, nonostante le enormi ricchezze portate dal Nuovo Mondo
inizierà un periodo di decadenza, durata sino ad un ventennio fa.
Dal 1492 fino a gli ultimi decenni dell’800
L’epoca dei ghetti: In Italia il primo ghetto venne istituito nel 1516 a Venezia, nella zona della nuova fonderia (getto da cui il termine ghetto). Nello
Stato Pontificio, eletto papa Paolo IV Carafa, verranno istituiti i ghetti a partire dal 1555. Proprio lui con l’enciclica “Cum nimis absurdum...” nega agli
ebrei qualsiasi dignità umana. Il successore, Pio IV (1559- 1565) mitiga le inumane restrizioni e favorisce il ritorno degli ebrei alle vecchie attività, ma
gli succede Pio V , il grande inquisitore che nel 1569 decreta l’espulsione degli ebrei da tutte le città dello Stato ad eccezione di Roma, Ancona ed
Avignone. Un breve respiro lo avranno di nuovo con papa Sisto V (1585- 1590), ma l’elezione di Clemente VIII , li costringe nuovamente nei ghetti.
Nel Ducato di Urbino, solo alla morte dell’ultimo duca Francesco Maria II Della Rovere verranno istituiti i ghetti di Pesaro, Senigallia ed Urbino (1633).
La segregazione si protrarrà sino all’arrivo dei francesi che con i loro ideali di “Libertà, Fraternità e Uguaglianza” abbatterono i portoni dei ghetti e le
vecchie ideologie, riconoscendo agli ebrei l’equiparazione sociale e giuridica. Ancora una volta è una gioia di breve durata, partiti i francesi la
repressione sarà durissima e il popolino, debitamente fomentato saccheggerà le case ebraiche e sinagoghe distruggendo e uccidendo. Nel 1799 al
grido di “Viva Maria” a Senigallia e a Siena furono trucidati 13 ebrei, troppo vecchi per una fuga veloce, centinaia i feriti. Meno cruente anche se
altrettanto devastanti, furono le rappresaglie contro gli ebrei di Pesaro e Urbino. In Ancona invece il vescovo Honorati diede protezione agli ebrei della
città e a quanti in essa cercarono rifugio. Ancora una volta vennero richiusi i portoni dei ghetti aperti poi per volontà di Pio IX nel 1848 (ma l’anno
successivo fece di nuovo chiudere quello di Roma che sarà aperto solo dopo Porta Pia), e in tale data concesse anche il permesso di apporre i nomi
dei defunti sulle sepolture. Tuttavia non concesse il decreto di equiparazione, che gli ebrei romani otterranno solo nel 1870, e nulla fece per il
bambino Edgardo Mortara, strappato alla famiglia all’età di 6 anni col pretesto che era stato battezzato, e a nulla servirono le sollecitazioni della
Chiesa anglicana, né le pubbliche manifestazioni e l’intervento della stampa mondiale. Con il Regno d’Italia nel 1860 e gli ebrei ottennero la sospirata
equiparazione. Infatti era stato apprezzato l’ampio contributo dato dagli ebrei alle lotte per il Risorgimento.
Situazione in Europa e nascita del “Sionismo”: In Inghilterra, gli ebrei vivevano con una certa tranquillità. Benjamin Disraeli, discendente da una
famiglia ebraica romagnola, divenne Capo del Governo britannico e consigliere-amico della Regina Vittoria, e rese grandi servigi all’Inghilterra
assicurandole tra l’altro il controllo finanziario del Canale di Suez. Uomini come Disraeli e Moses Montefiore, fatto baronetto dalla Regina,
contribuirono a rialzare l’opinione del popolo inglese nei riguardi dell’ebraismo. Anche in Francia, dopo la rivoluzione, con la “Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino” gli ebrei sono equiparati agli altri cittadini. In Germania gli ebrei, fortemente legati a quella che da secoli consideravano la
loro patria, iniziano un processo di assimilazione soprattutto negli ambienti dell’alta borghesia colta, tanto che numerose furono le conversioni al
protestantesimo. Altri invece come i Rothschild e gli Oppenheimer avviarono moderni istituti bancari i cui proventi contribuirono alla costruzione della
rete ferroviaria in Europa. Nonostante tutto ciò nella Germania di Bismarck (1879) nasce un termine nuovo “antisemitismo”. In Austria l’Imperatore
Giuseppe II aveva già emesso, sin dalla fine del ‘700, un Editto di Tolleranza riconoscendo agli ebrei pari diritti. In Russia gli ebrei che, avevano
goduto un breve periodo di tranquillità proprio sotto lo zar Alessandro II, allorché questi verrà assassinato (1881) verranno accusati di aver
partecipato al complotto. Si scatena pertanto un’ondata di terribili massacri sotto gli occhi indifferenti della polizia russa. gli ebrei che avevano
cercato, di raggiungere un’integrazione anche a costo di rinunciare alla propria identità ora, dopo i sanguinosi pogrom, cercano rifugio nella terra dei
padri. Sotto l’ispirazione dello scrittore russo Leo Pinsker sorge a Cracovia l’associazione “Amanti di Sion” di qui il nome del movimento che va
sotto il nome di Sionismo cioè ritorno a Gerusalemme. Gli ebrei di tutta Europa si prodigarono a raccogliere fondi per finanziare la partenza di
migliaia di fratelli ebrei orientali così duramente provati, dapprima verso l’ America, poi verso la Palestina. All’epoca la Palestina,ormai una landa
desertica, era sotto il protettorato turco. Lo spirito di solidarietà fra gli ebrei più fortunati fruttò forti somme offerte da Sir Moses Montefiore e raccolte
tra molti nobili inglesi, cui si aggiunse il continuo sostegno finanziario del barone de Rotschild: quel denaro servì per pagare una prima volta la terra e
per cominciare una dura opera di bonifica. Già nel 1878 era stata fondata vicino a Giaffa la prima colonia ebraica.
Il caso dreyfus e Herzl
Il caso Dreyfus e Herzl
Il caso Dreyfus: Il 15 ottobre 1894 era stato arrestato il Capitano Alfred
Dreyfus con l’accusa di spionaggio poiché erano state trovate all’interno
dell’Ambasciata tedesca di Parigi informazioni segrete francesi. Dreyfus
apparteneva allo Stato Maggiore, era alsaziano e soprattutto ebreo:
pertanto erano del tutto inutili le sue proteste di innocenza. Condannato dal
Consiglio di Guerra sulla base di false prove (contraffatte dal Comandante
Henry che, scoperto, otto anni dopo confesserà prima di suicidarsi),
degradato pubblicamente nel corso di una cerimonia che doveva essere
“esemplare”, venne spedito ai lavori forzati all’Isola del Diavolo nella Guiana
francese. Proprio la Francia che aveva proclamato la “Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino”, nonostante che cominciassero a circolare
voci con il nome del vero colpevole, il Maggiore Esterhazy, nonostante che
un onesto funzionario, il colonnello Picquart, ne avesse scoperto le prove e
per questo allontanato, riesumerà gli antichi slogan antisemiti. Questa volta
però i francesi si divisero tra innocentisti e colpevolisti; l’opinione pubblica
seguiva appassionatamente sia pure da punti opposti “l’affaire” grazie
all’impegno di tanti giornalisti venuti da tutto il mondo e alla disperata difesa
della moglie e del fratello di Dreyfus. Anche Emile Zola, con l’autorità che gli
derivava dalla sua fama di noto scrittore si schiera a difesa e la verità venne
a galla: resta famosa la lettera aperta di Zola “J’accuse”.Ormai non era più
possibile per le autorità militari fingere di non sapere. Riaperto il processo il
condannato verrà liberato nel 1901, ufficialmente riabilitato, sia pure molto
tempo dopo, il maggiore Esterhazy arrestato (fuggirà poco dopo), il
Comandante che aveva fatto insabbiare le prove condannato (poi si uccise)
e il Ministro della Guerra, che con tanta superficialità aveva dato per
scontato che un ufficiale ebreo fosse necessariamente una spia, dovette
dimettersi. L’evolversi di queste vicende produsse nell’animo del giornalista
Theodor Herzl un profondo turbamento, si rese conto per la prima volta di
essere ebreo, e soprattutto, senza nulla sapere del Sionismo, si rese conto
che era ora che gli ebrei tornassero ad avere la loro Terra, ma non per
motivi religiosi come era nello spirito degli “Amanti di Sion”, bensì per
fondarvi “lo Stato Ebraico”. Una patria cioè che restituisse dignità di popolo
agli ebrei. A questo dedicò la sua vita coinvolgendo scrittori, sociologhi,
politici e banchieri, finché riuscì ad organizzare Il Primo Congresso
Sionista a Basilea nel 1897.
Gli Ebrei nel 900: l’olocausto
L’Olocausto (SHOA’): Nulla è più improprio del termine olocausto (immolare la propria vita ad un ideale) per indicare lo sterminio degli ebrei
perpetrato dai nazisti. Esso rappresenta un fatto unico non solo per le sue dimensioni ma soprattutto per la macchina burocratica messa in moto per
arrivare alla “soluzione finale” condotta in modo asettico, senza una vera passione religiosa o politica che la motivasse. Fu un vero annientamento
della dignità della persona cominciato già nei viaggi di trasferimento in Germania, nei carri ferroviari piombati, giovani, vecchi e bambini(considerati
“pezzi”) stipati per giorni, senza cibo né acqua e tanto meno servizi igienici. Subito separati per sesso ed età, i più deboli spediti alle “docce” (camere a
gas) poi ridotti in cenere nei forni, mentre i più forti marchiati e spediti ogni giorno nelle fabbriche tedesche a sostenere estenuanti turni di lavoro con
un cibo sempre più povero di calorie. In bell’ordine, nei magazzini, diventavano sempre più alti i mucchi di occhiali, di scarpe, di borse, di protesi
dentarie, di abiti che i deportati avevano dovuto togliersi per indossare la gelida divisa del campo. Il dottor Morte, come era chiamato il dottor Mengele
operava, senza anestesia né disinfettanti, esperimenti sugli internati, soprattutto sui bambini, ricuciva insieme i gemelli, apriva l’addome alle bambine,
iniettava sottocute bacilli: il tutto in nome di una pseudo scienza allucinante. Quasi i due terzi della popolazione ebraica presente in Europa, fu
sterminata nei campi di Bergen Belsen e di Auschwitz.-Birkenau, Treblinka, Sobidor, Mathausen. Bunchenwald, Dachau. Degli 8.500 deportati
dall’Italia ne tornarono mille. Ideatore, ed efficientissimo direttore di scena: Adolf Eichmann, braccio destro di Adolf Hitler.
Probabili cause della shoà: Sono ben note le condizioni di salute mentale in cui versava Hitler, e si conoscono anche i suoi stati morbosi, che speso
sfociavano in ossesioni. Ciò però non basta a spiegare tale devastazione. Almeno per la Germania si trattava di ben altro. Innanzitutto l’arrivo di tanti
ebrei che fuggivano dalla Russia sotto l’incalzare dei pogrom aveva risvegliato l’antico antigiudaismo al quale si aggiunge, verso la fine dell’ottocento,
l’affermarsi di un neopaganesimo germanico e una relativa cultura pagano-popolare ispirata alle saghe nordiche esaltate dall’opera musicale di
Richard Wagner. Ciò comportava il rifiuto del cristianesimo “inventato” da un ebreo, San Paolo, che doveva essere sostituito con una religione Volk e
pertanto ancora una volta gli ebrei tedeschi si trovano, loro malgrado, al centro di forti ostilità, nonostante tra loro vi fossero tanti scrittori e scienziati
che costituivano il fior fiore della cultura mittleuropea. Ma anche costoro che tanto lustro avevano dato alla Germania, vengono considerati “parassiti”
poiché scrivendo in lingua tedesca, l’avevano in un certo qual modo sfruttata. La depressione in cui era caduta la Germania sarà determinante per la
ripresa del più feroce antisemitismo: gli ebrei sono accusati di essere responsabili della depressione economica e soprattutto della depressione morale
poiché la vocazione bellica teutonica non poteva ammettere di essere stata sconfitta e la causa non poteva che essere attribuita agli ebrei che
contavano legami di parentela o di fede con gli ebrei stranieri. E’ in questo clima che Adolf Hitler sale al potere nel 1933 : il suo programma e le sue
idee sono chiaramente espresse nel suo libro “Mein Kampf” ove nell’ideologia nazista (nazional-socialismo) era ben espressa quella razzista della
“razza superiore ariana”, e i suoi progetti dittatoriali. Cominciano allora i roghi dei libri di autori ebrei: nel 1933 gli studenti danno alle fiamme a Berlino i
libri razziati nelle biblioteche universitarie con il plauso dei docenti. Nel 1935 vengono emanate le Leggi di Norimberga: gli ebrei sono una razza
inferiore vanno allontanati, isolati e, in un momento di crisi economica, ciò significava maggior possibilità di lavoro per i non ebrei. Poi la notte tra il 9 e
il 10 novembre del 1938 avverrà in Germania e in Austria “la notte dei cristalli” in cui saranno infrante vetrine dei negozi, incendiate sinagoghe e
abitazioni, si aprirà così la caccia all’ebreo. La stessa cosa avverrà in Italia con le Leggi razziali emanate nel 1938, precedute dal “Manifesto del
razzismo italiano” con il quale il fascismo si allineava all’ideologia nazista. Papa Pio XI espresse forte e chiaro il suo biasimo per gli orientamenti
neopagani dell’ideologia nazista, bollando pubblicamente l’antisemitismo fascista come un’imitazione della mitologia nordica di Hitler. Se il suo
pontificato fosse durato più a lungo forse molte cose in Italia sarebbero andate diversamente, ma gli succede Pio XII, di formazione culturale
germanica e timoroso di un avvento del comunismo.
La Guerra: Hitler nel ‘38 annette l’Austria ove estende le misure antiebraiche. Nel ‘39 i nazisti entrano in Polonia ove, sfruttando l’antisemitismo
religioso del popolo polacco, riescono in pochi anni ad arrestare tre milioni di ebrei e a deportarli dopo averli stipati nel ghetto di Varsavia tra sofferenze
indicibili. Hitler è inarrestabile, penetra in Olanda, Belgio e Lussemburgo, paesi in cui gli ebrei verranno protetti dai sovrani. Certi governi, come nella
Francia di Petain, invece, consegnano alle forze di occupazione gli elenchi, completi di indirizzo, dei cittadini ebrei.Quando Mussolini entrerà in guerra
a fianco dell’alleata Germania sarà la fine anche per gli ebrei italiani specie dopo l’8 settembre del ‘43 quando né il Re, né Badoglio, nonostante la
caduta del fascismo, abrogarono le leggi razziali. Molti ebrei perciò restarono nelle carceri italiane e i tedeschi, occupando il Paese, poterono
facilmente prelevarli, deportarli o fucilarli come avvenne alle Fosse Ardeatine nel 1944. Funzionarono a pieno ritmo anche i forni crematori della
Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico campo in Italia con camere a gas. Tentativi di opporsi al fascismo furono condotti da organizzazioni quale
“Giustizia e Libertà” cui aderirono anche molti ebrei quali Treves, Modigliani, Ginzburg e i fratelli Rosselli.
La formazione
dello stato di Israele
La nascita dello stato israeliano
L’Affare Dreyfus in Francia e più ancora le notizie dei sanguinosi pogrom in Russia avevano alimentato il movimento sionista e appariva sempre
più urgente trovare una Patria. Ma il miraggio era la Terra dei Padri. L’occasione venne con l’entrata in guerra della Turchia a fianco della
Germania e dell’Austria e il relativo crollo dell’impero ottomano in seguito all’esito della I guerra mondiale: le potenze europee potevano ora
rafforzare la loro presenza in una zona in cui iniziava già la corsa al petrolio e la protezione degli ebrei di Palestina avrebbe giustificato la
penetrazione britannica. Durante la prima guerra mondiale potenti famiglie arabe avevano dato appoggio alle potenze europee illudendosi di
ottenere in cambio la sovranità negli stati arabi finalmente indipendenti. Feisal, figlio di Hussein della Mecca, dichiara apertamente il suo appoggio
al proggetto di uno stato ebraico, perciò si incontra ad Aqaba con Weizmann. Nel 1922, però, le grandi potenze si dividono il Medio Oriente: la
Francia ottiene il mandato sulla Siria e L’Inghilterra sulla Palestina e sull’Iraq (solo più tardi concederà la Giordania a Hussein). Immediatamente
gli arabi, delusi, rivendicano la Palestina, che era esclusa dall’accordo per l’indipendenza araba, ed iniziano una politica di totale opposizione a
quel “focolare nazionale ebraico” promesso agli ebrei. Londra, per non peggiorare i rapporti con gli arabi, conduce una politica ambigua mentre
un muro di odio e paura si innalza tra arabi ed ebrei. Seguiranno anni segnati da episodi di fanatismo religioso, attacchi continui ai kibbuzzim
(kibbuz =coperativa agricola ebraica), ai villaggi e nel 1929 venne massacrata l’intera comunità ebraica di Hebron. Gli scontri, ma soprattutto gli
attentati terroristici proseguono sino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Molti ebrei palestinesi si uniscono alle truppe alleate e
contribuiscono alla liberazione dell’Italia e intanto si scopre quale è stato l’orrore nazista. Nonostante l’aiuto ricevuto dagli ebrei palestinesi
durante la liberazione, la politica britannica si fa sempre più ostile verso gli ebrei tanto che asseconda la richiesta araba di bloccare
l’immigrazione in Palestina dei profughi ebrei scampati al massacro. Anche tra gli ebrei si formarono e agirono gruppi di lotta armata come
l’Haganà, l’Irgùn o la cosiddetta banda Stern la quale condusse anche azioni di terrorismo rivolte, tranne in rari casi, contro organizzazioni militari
britanniche e gruppi combattenti di estremisti arabi, comunque mai fuori dalla zona mediorientale. Ma la democrazia ebraica stessa vi mise presto
fine. A questo punto, era il 1947, l’Inghilterra portò il problema davanti alle Nazioni Unite. Una commissione composta di rappresentanti dei paesi
membri, dopo aver visitato la Palestina e consultate le parti, propose una spartizione del territorio in due stati: uno ebraico e uno arabopalestinese, ciascuno indipendente e sovrano, con uno statuto internazionale per Gerusalemme. Nel 1947 l’Assemblea generale dell’Onu dà la
sua approvazione. Gli ebrei della Palestina accettarono la risoluzione dell’Onu. La decisione dell’Onu, però, fu respinta dai governi arabi che anzi
annunciarono la distruzione di Israele se fosse stata messa in atto. A tale scopo iniziarono subito a precostituirsi basi militari strategiche
nonostante fossero ancora presenti gli inglesi. In questo clima, David Ben Gurion, il 14 maggio a Tel Aviv, proclama la nascita dello Stato di
Israele. In risposta gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano e spedizioni dell’Iraq e Arabia Saudita attaccano su tutti i froni il neonato stato
ebraico. Questo, numericamente e militarmente inferiore, poté sconfiggere il contingente arabo solo grazie all’appoggio statunitense.
Conseguentemente a questa prima guerra: Siria, Libano e Giordania firmarono accordi separati con Israele. I territori, che secondo le disposizioni
dell’Onu dovevano formare lo stato palestinese passarono, la parte ovest del Giordano, sotto la sovranità della Giordania, la striscia di Gaza,
all’Egitto. I palestinesi quindi furono defraudati e ingannati e indotti a lasciare il paese, ove invece avrebbero potuto integrarsi come in realtà molti
hanno fatto e oggi hanno i loro rappresentanti alla kenesset. Inoltre in quell’anno più di 600.000 ebrei, vennero espulsi dagli stati arabi ove
vivevano da secoli. Giunsero profughi poveri nel piccolo stato di Israele, che aveva una popolazione di poco superiore, eppure furono accolti,
integrati e coinvolti nel tessuto sociale.
Gli ebrei in occidente tra scienza, arte e filosofia
Si può dire, senza esagerazione, che la
coscienza europea, negli ultimi due secoli, è
stata profondamente e intimamente segnata
dalla presenza degli ebrei. Prendendo parte
alla all’edificazione della cultura occidentale,
alcuni di loro rivendicavano, e altri
contestavano, la loro identità e, a volte, le fonti
ebraiche del loro pensiero. Questa coscienza
europea nel crogiolo della coscienza ebraica,
o, se vogliamo, questa coscienza ebraica nel
crogiolo della coscienza europea, la si può
avvertire in modo particolare quando si pensa
agli ambienti intellettuali e artistici delle grandi
capitali d’Europa dalla fine del XIX in poi –
Praga, Vienna, Parigi, Bruxelles, Berlino – e al
ruolo giocato in questi ambienti
dall’intellighenzia ebraica. Accanto a ciò,
spesso in disparte rispetto ai grandi centri
culturali dell’assimilazione, proseguiva il lavoro
fecondo del Talmud-Torah, che costituisce il
cuore del culto e della santità ebraica.
Comunità di studio e di vita erano disseminate
per tutta l’Europa, una rete talvolta fitta di
focolai intellettuali e spirituali ebraici, crogioli di
personalità fuori dal comune.
Trieste e la triestinità Gli autori del sospetto Einstein e la relatività
L’arte degenerata
Trieste e la Triestinità
L’Adriatico e Trieste come crocevia di culture, come luogo di incontro e spesso purtroppo anche di scontro
di popoli e genti, assume un’importanza particolare per quello che è lo sviluppo della letteratura ed in
particolare per quella che è considerata la letteratura italiana di Frontiera. A tale proposito da non moltissimo
tempo si assiste alla rinascitadi tale letteratura o del concetto di “Mitteleuropa” come fatto culturale che
avvicina e riunifica tra di loro, sulla base di antichi legami, culture e lettere di paesi diversi per lingua,
struttura giuridica ed appartenenza politica, al punto di individuare dei denominatori comuni, un certo
linguaggio comune e un comune stile del sentire. A proposito di idee che si possono riportare al concetto di
Mitteleuropa, dice C. Magris che “nelleterre di frontiera, anche l’- amor di patria- ,” significa
mazzinianamente, dialogo fraterno di tutte le genti e sentimento di appartenenza ad un comune
destino”.Tale fenomeno è sicuramente evidente nella letteratura sviluppatasi sin dal tardo ’800 in poi a
Trieste, a Fiume in Istria e in Dalmazia con aspetti e connotati che travalicano i tempi. Di Trieste, in
particolare, va detto che sicuramente è stata ed è ricca di contrasti e di differenze culturali in genere anche
in riferimento al resto d’Italia, ma ha cercato e cerca proprio in questi contrasti la sua identità e la sua
italianità. Come dichiara Claudio Magris in “Trieste” : “...gli scrittori che hanno vissuto a fondo la sua
eterogeneità, la sua molteplicità di elementi irriducibili a risolversi in un’unità, hanno capito che era un
modello della eterogeneità e della contraddittorietà di tutta la civiltà moderna, priva di un fondamento
centrale e d’una unità di valori.” Del resto, come sostiene anche Elvio Guagnini, la cosiddetta “triestinità”,
come ogni definizione di un’identità culturale, è certamente una categoria “indifferenziata e indebita”, che
viene proiettata otre i termini storici e culturali di momenti ed elementi distinti. Nell’ambito triestino due nomi
emblematici sono sicuramente quelli di U. Saba e I. Svevo, accomunati sia dal fenomeno della “triestinità”,
sia dall’influsso della psicanalisi di Freud, in quel momento al centro dell’attenzione di molti intellettuali, sia
da quello appunto del concetto di “Mitteleuropa”, che hanno fatto di Trieste una stazione sismografica dei
terremoti spirituali che si apprestavano a sconvolgere il mondo. Tale fenomeno era particolarmente evidente
a Trieste e nella Venezia Giulia per cui, mentre nel resto d’Italia, gli ambiti culturali erano prevalentemente
sensibili agli influssi francesi, qui si sentivano chiaramente i modi della cultura tedesca (austriaca e non
germanica) che si estendeva non solo alla letteratura ma all’abito di vita originario, sovrapponendovisi, a
volte. E questo (eccettuato il caso degli anni trascorsi in Germania da Pirandello), ha influenzato questa
regione italiana più che tutte le altre, creando un modo di pensare e di sentire che era quello dell’uomo
“centro europeo” avvertito come estero per il resto d’Italia e semplicemente come “Mitteleuropa” per Trieste
o Fiume, che sopravvisse e rinacque con una nuova coscienza, geograficamente, politicamente,
moralmente e sentimentalmente riuscendo a superare la prima guerra mondiale e dando poi splendidi frutti
sia a Vienna, a Berlino, a Budapest, a Praga fino a morire nel 1936 con la presa del potere dei nazisti in
Germania, per poi rinascere ancora, dopo, con altri toni. Tutto ciò portava gli spiriti ad una maggiore
apertura di fronte a forme mentali e religiose diverse e in questo un ruolo importantissimo ha avuto proprio
la nostra letteratura italiana e chi italiano lo era per nascita o sentimento.
Italo Svevo
Trieste
(da Trieste e una donna, 1910-12)
Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
Umberto Saba
Italo Svevo
Svevo Italo pseud. di Ettore Schmitz (Trieste 1861 - Motta di Livenza, Treviso,
1928). Di famiglia ebraica per parte di madre, e di padre tedesco, compì gli studi
medi in Baviera; nel 1879 si iscrisse all’Istituto superiore di commercio di Trieste,
ma l’anno seguente, per dissesti economici familiari, dovette impiegarsi in una
banca, dove lavorò per vent’anni. Fu questo anche il periodo del suo apprendistato
letterario: cimentatosi in articoli, abbozzi di racconti, pagine autobiografiche, nel
1890 fece uscire a puntate, su «L’Indipendente», la sua novella L’assassinio di via
Belpoggio. Nel 1892 pubblicò il suo primo romanzo, Una vita, lucido racconto del
dramma dell’inurbamento di un giovane di campagna che si concluderà con il
suicidio. Nonostante la già evidente abilità del narratore, il romanzo passò
inosservato; identica sorte toccò sei anni dopo al suo secondo libro Senilità*
(1898), storia dell’amore di un non più giovane letterato per la sfuggente Angiolina,
dalla prorompente vitalità. Cominciò allora per S., deluso dalla letteratura, un
lungo periodo di silenzio. Dopo essersi sposato con Livia Veneziani e aver avuto
un figlio, nel 1899 entrò come socio nella ditta commerciale del suocero, della
quale assunse in seguito la direzione. Per ragioni di lavoro visitò quindi vari paesi
europei e risiedette a lungo in Inghilterra, Francia e Germania. Fu questa una fase
di quasi totale rimozione della letteratura, avvertita come una «malattia»
minacciosa per la tranquilla vita borghese dell’impiegato Schmitz.
Nel 1905 conobbe J. Joyce (che a Trieste viveva facendo l’insegnante d’inglese).
Solo nel 1923 pubblicò un’altra opera, il romanzo La coscienza di Zeno*, che
Joyce fece conoscere al famoso scrittore e critico V. Larbaud e che nel 1925
venne favorevolmente recensito da E. Montale sul periodico «L’Esame». L’anno
seguente apparvero, su S., articoli critici assai positivi, dovuti a V. Larbaud e a B.
Crémieux. Nel 1927 fu pubblicata la novella Vino generoso e nel 1928 la raccolta
di racconti Una burla riuscita. Nello stesso anno S. moriva per un incidente
automobilistico.
Postumi hanno visto la luce altri scritti di S.: nel 1930 La novella del buon vecchio
e della bella fanciulla; nel 1949 le novelle Corto viaggio sentimentale; nel 1954 un
volume di Saggi e pagine sparse, che comprendono frammenti di una possibile
continuazione della storia di Zeno, un ipotetico «quarto romanzo» di S.; nel 1960
le Commedie, sei testi (tra cui è da ricordare soprattutto Il marito) per lo più
incentrati sul classico «triangolo» borghese (la coppia e l’amante), ora però
descritto attraverso l’ironia e il paradosso e intrecciato ai tipici temi della malattia e
della salute, della vecchiaia e della giovinezza.
Poetica e ideologia
sveviana
Poetica e ideologia Sveviana
Svevo ebbe una concezione impegnata della letteratura. Nella crisi di valori della società contemporanea, lo scrittore vide che essa non poteva
più svolgere un ruolo consolatorio, né costituire una via di evasione dalla realtà, né essere più racconto mitico. La lettera ormai avrebbe potuto
essere soltanto ricerca intellettuale, strumento di analisi, volta a trasmettere alcune fondamentali scoperte e tra queste il carattere ambiguo della
nostra personalità, complessa e contraddittoria. La nuova letteratura avrebbe dovuto allora assumere come protagonista un personaggio non più
suscettibile di una interpretazione univoca. Comparve così nell’opera sveviana una figura nuova di eroe: l’ inetto. Questo carattere umano ha
certamente dei precursori in personaggi della narrativa russa, per esempio di Turgenev o di Dostoevskij, ma in Svevo diviene figura centrale.
L’inetto sveviano pertanto è caratterizzato soprattutto dal velleitarismo, dalla sproporzione tra le sue ambizioni e le sue capacità, dalla sua
tendenza a vivere più con la fantasia che nella realtà. Pieno perciò di inibizioni, di frustrazioni, avverte la sua inferiorità e subisce gli eventi, non li
domina. Egli dunque è un eroe in senso negativo, è colui che soggiace passivamente ai condizionamenti ambientali e alle pulsioni dell’inconscio
che lo privano di ogni possibilità di scelta. Egli è un abulico, un essere privo di forte volontà, più incline alla contemplazione che non all’azione.
Determinante per comprendere la figura di Italo Svevo è l’ambiente culturale in cui si sviluppa la sua opera. Trieste è una città franca dell’Impero
Austro-ungarico, grande emporio mercantile, aveva particolari legami con Vienna ovviamente, Budapest e Praga. Nella città viveva pertanto una
folla di individui delle più diverse nazionalità. Città prevalentemente borghese e mercantile, si collocava nell’area culturale della Mittel-Europa. La
città era sottoposta a forti tensioni sociali. I lavoratori portuali avevano assimilato la propaganda socialista ed anarchica; vi erano poi gli irredentisti
italiani assai attivi mentre parte della popolazione si atteggiava a cosmopolita. In questo crogiolo di diverse posizioni dovette subito orientarsi
Svevo. Quantunque poco vocato all’attivismo politico, frequentando L’Indipendente si sensibilizzò nei confronti del problema delle terre italiane
irredente, si accostò anche al socialismo sia per aver personalmente conosciuto Bebel, teorico della socialdemocrazia, sia per aver letto qualcosa
di Marx. Tuttavia non credette nella possibilità di una rivoluzione capace di stabilire la giustizia sociale. Nel suo unico lavoro di contenuto politico,
il racconto “La tribù”, egli mostra di avere coscienza dello sfruttamento della classe operaia necessariamente connesso con lo sviluppo della
società industrializzata, del carattere utopico delle dottrine egualitarie, alle quali guarda tuttavia con simpatia. Da un punto di vista filosofico egli si
avvicinò all’evoluzionismo darwiniano, ma non credette che le dottrine di quel pensatore fossero sufficienti a spiegare e a capire la condizione
umana e vide come la pretesa di spiegare l’essenza dell’uomo all’interno di leggi naturali necessarie ed immutabili si scontrasse contro la
concezione del comportamento umano come scaturente da un fondo psicologico complesso e contraddittorio. Attraverso la lettura di Schopenauer
infatti egli era arrivato alla convinzione della non riducibilità dell’agire umano alle semplici leggi positive. Anche Svevo infatti affermò che le
motivazioni razionali del comportamento umano non fossero che la copertura di pulsioni profonde la cui dinamica non è riducibile al determinismo
psicologico dei positivisti. Ma la parte più originale del pensiero sveviano è nel concetto di malattia. Questa è da intendersi come incapacità, da
parte dell’uomo, di addattarsi a quella che è la realtà e quindi alla lotta per la vita. Si sviluppa così un dualismo all’interno della stessa specie
umana il dualismo sanità-malattia: ci sono degli uomini che si sono integrati nel loro ambiente sociale e ce ne sono altri pochi che tale
integrazione non hanno saputo o voluto accettare, rimanendo più degli altri in uno stato di disadattamento. I primi producono, mandano avanti la
società e sono psicologicamente sani; i secondi, non adatti, malati nella volontà e nello spirito, incapaci di vivere in maniera semplice e diretta,
appaiono inutili nel presente, ma costituiscono una ricchezza per tutti, giacché sono essi a custodire, nella loro indeterminatezza, i lineamenti
ancora incerti del possibile uomo futuro. Nei tempi lunghi sono gli uomini di questo tipo ad avere la meglio...la malattia, in questa accezione, non è
più soltanto il segno di una sconfitta individuale, di un fallimento esistenziale, di una caduta nella lotta per la vita, ma è il sintomo di un malessere
connaturato al vivere e nello stesso tempo la condizione imprescindibile per la rivelazione, anch’essa in continua evoluzione, del senso della vita”.
Con ciò Svevo rovescia Darwin, indicando nell’uomo non adattato all’ambiente, come tra gli animali, la punta più alta dell’evoluzione.
Umberto Saba
Umberto Saba (Trieste 1883 - Gorizia 1957). La madre, ebrea, fu abbandonata dal
marito prima della nascita del figlio: S. conobbe il padre solo da adulto ma ne rifiutò
il cognome, Poli, assumendone uno che suonasse omaggio alla razza materna
(«saba» significa «pane» in ebraico). Senza aver terminato gli studi, lavorò come
praticante in una casa di commercio triestina e anche come mozzo su un
mercantile. Fu militare durante la grande guerra, ma non andò mai al fronte.
L’esordio poetico di S. era avvenuto già nel 1903 con l’edizione privata de Il mio
primo libro di poesia, ma la sua prima vera uscita pubblica è del 1911, con Poesie,
introdotte da S. Benco. Seguiranno nel ’12 le liriche di Coi miei occhi e il saggio
Quello che resta da fare ai poeti, che però fu rifiutato dalla «Voce» (i rapporti di S.
con i «vociani», stretti durante il suo soggiorno fiorentino del 1911, non furono
buoni, come dimostra anche la stroncatura che S. Slataper fece delle Poesie) e
venne pubblicato solo postumo nel ’59. Dopo la guerra divenne proprietario di una
libreria antiquaria, che costituì per lui un rifugio ma anche un mezzo di
sostentamento e di tutela della propria attività di scrittore. Nel ’21 pubblicò presso la
sua «Libreria antica e moderna» il Canzoniere (1900-21), che raccoglie la
produzione poetica di un ventennio e a cui seguirono Preludio e canzonette (1923),
Autobiografia e I prigionieri (1924), Figure e canti (1926), Preludio e fughe (1928).
Sempre nel ’28, «Solaria» dedicò a S. un numero unico, a testimoniare la crescita
della sua fama. Contemporaneamente peggioravano le sue condizioni psichiche,
già da anni minate dalla nevrosi, tanto da spingerlo a sottoporsi, dal ’29 in poi, a
cure psicoanalitiche spesso intense. Con la promulgazione delle leggi razziali, S. fu
costretto a rifugiarsi prima a Parigi, poi a Firenze, dove Montale e altri intellettuali
antifascisti lo protessero. Furono pubblicate nel frattempo altre sue raccolte: Parole
(1934), Ultime cose (1944), la seconda edizione del Canzoniere (1945, premio
Viareggio) e poi la terza edizione (1948), destinate a ottenere i massimi e unanimi
riconoscimenti di una critica che era stata, in precedenza, generalmente fredda (ai
due poli opposti, della cautela limitativa e della fervida ammirazione, stanno E.
Cecchi e G. De benedetti). Ma la fama non l’aiutò a vincere le crescenti crisi
depressive, che lo costrinsero a un pressoché totale isolamento. Nel ’53 fu
ricoverato in una clinica romana; nel ’56, quando morì la moglie Lina, si stabilì a
Gorizia, dove rimase sino alla morte.
Numerose le raccolte poetiche dell’ultimo decennio: Mediterranee (1946), Uccelli
(1950), Epigrafe (postuma, 1959), tutte confluite nelle varie edizioni del Canzoniere
(1948, 1957, 1961). E numerosi anche i volumi in prosa: Scorciatoie e raccontini
(1946); l’interessante, anche se autoencomiastica, interpretazione della propria
poesia, Storia e cronistoria del Canzoniere (1948); Ricordi-Racconti (1956); infine il
romanzo incompiuto Ernesto (1953, ma edito soltanto nel 1975), sensibilissima
analisi dell’educazione sessuale di un adolescente, narrata in una interessante
commistione di dialetto triestino e lingua italiana. Il suo epistolario è apparso sinora
in raccolte frammentarie: Lettere a un’amica (1966), Lettere inedite (1968), Amicizia
(1976), La spada d’amore (1983).
I caratteri mitteleuropei
della poetica di Saba
I caratteri mittleuropei della poesia di Saba
Una delle singolarità dell’opera di S. va colta nel progressivo comporsi delle sue parti
entro il quadro complesso e organico del Canzoniere: fin dall’origine i testi si
dispongono dinamicamente in un flusso continuo, parallelo e intrecciato a quello di
un’esistenza che cercò sempre di specchiarsi nella pagina scritta o, al contrario, di
riconoscere come proprie le «verità» della letteratura. Ma questa osmosi non va intesa
tanto alla luce dell’identificazione decadente tra arte e vita (la presa di distanza da
D’Annunzio, dapprima molto letto e amato, si consuma dopo una visita di S. al «vate»
in Versilia, che provoca nel giovane triestino la brusca caduta di un idolo), quanto
come originale riproposizione del rapporto soggetto/mondo. Letto come equazione
simbolica — oggetti del mondo che simboleggiano stati del soggetto — il rapporto era
stato all’origine della costruzione metaforica di tanta poesia del Novecento. In S.,
invece, è un rapporto di contiguità, di rimando reciproco, di cornice: le vicende del
soggetto si appellano continuamente al mondo come contesto, come sede di quel
flusso esistenziale da cui solo contingentemente si distacca l’io individuale. Questo fa
sì che la poesia di S. si caratterizzi come un intreccio costante di lirismo e racconto, di
aulicità del metro e del ritmo e quotidianità del lessico: S. spesso ricorre anche a un
repertorio di parole e immagini tipico della poesia lirica, al limite della banalità, ma
forzandolo in costruzioni ritmiche aspre che rifiutano ogni possibile «canto». A questi
diversi registri espressivi corrisponde una materia autobiografica densa e angosciata;
si realizza così continuamente una scissione tra l’apparente facilità delle parole e la
profondità delle analisi impietose, la violenza dei sentimenti portati alla luce.
La conoscenza peraltro delle teorie freudiane, la frequentazione, quasi inedita per i
letterati italiani del tempo, di Nietzsche, il profondo legame con la tradizione
mitteleuropea della cultura triestina (che sposta l’area di riferimento della poesia di S.
da una portata nazionale a una continentale spiegando così anche le incomprensioni
incontrate presso il nostro mondo letterario) rendevano singolarmente inattuale l’opera
di S. Se è vero che la nascita a Trieste implicava, come egli scriveva, una
costituzionale arcaicità del gusto culturale, legato a forme e linguaggi tradizionali, a
partire da questa nascita egli recuperava un classicismo italiano (che va da Parini a
Foscolo, a Leopardi, al melodramma) e una problematicità europea (da Baudelaire e
Heine), prima fondendoli in un’esasperata tensione diaristica — che caratterizza le
prime prove e raggiunge un preciso equilibrio in Casa e campagna e Trieste e una
donna, sezioni del Canzoniere del 1909 e del 1912, incise da una vivissima tensione a
cogliere amarezze e gioie del quotidiano —, quindi drammatizzandoli, nelle altre
raccolte degli anni Venti, nelle contraddizioni e lacerazioni del soggetto sottoposto alle
analisi freudiane (anche con gli eccessi di affabulazione del Piccolo Berto, gruppo di
poesie del 1929, ma apparso in Tre composizioni del 1933). Con Parole e Ultime cose
si schiude l’ultima fase dell’opera di S., quella caratterizzata da un classicismo meno
oratorio e più conciso, capace, nel frammentismo e nella sinteticità del discorso, di
approdare a toni sentenziosi racchiusi in rapide, emblematiche, immagini. Nelle ultime
raccolte (Mediterranee, Epigrafe) l’istanza narrativa e autobiografica ritorna pressante,
ma ora come filtrata da una saggezza d’anziano, da una disillusa ma ancora attiva
volontà di confrontarsi con l’esistenza
Citta vecchia (Da Trieste e una donna 1910-1922)
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
Gli autori del sospetto
Da quando l'uomo ha affidato alla scrittura il proprio sapere e la propria produzione letteraria, esiste l'interpretazione. Ciò, secondo lo scrittore Michel
Focault è sintomo di come l'uomo covi, nel proprio profondo, un sospetto intrinseco nel linguaggio. Sospetto determinato dalla possibilità di
poliedrica interpretazione che il linguaggio offre. Si sospetta che la parola scritta non dica esattamente e realmente ciò che dice. Si arriva al
paradosso per il quale ciò che si legge è, in realtà, meno importante rispetto a ciò che non è detto e che "sta sotto", a ciò che è contenuto nelle
viscere del testo. Si potrebbe segnare un limite temporale, una data in cui questa recondita paura e specifica pulsione umana trova una sua
affermazione pubblica passando da semplice casualità a reale modello di comportamento pubblica. Ci riferiamo al pensiero di Galileo Galilei e alla
disputa sull'interpretazione della Bibbia. Lo scienziato pisano sostenne che nella Bibbia vi erano due livelli di interpretazione, l'uno superficiale, alla
portata di tutti legato alle singole parole e l'altro profondo e interno accessibile solo a menti più preparate. Nel campo della letteratura questa
tendenza si è presentata fin dall'antichità, creando un filo che lega gli antichi Greci agli autori moderni e contemporanei. Sono tanti, in realtà, le
differenze storiche tra i differenti periodi temporali, ma le analogie e le somiglianze costituiscono una fitta rete di punti in comune di cui non si può
tralasciare l'importanza. Seguendo questa logica l'interpretazione è diventata il vero scopo di tutti coloro che operano sui testi in una funzione
diversa rispetto a quella dell'autore. Con ogni interpretazione si realizza un discorso che intende svelare ciò che ci "si nasconde" nel testo, ed ogni
epoca ha inteso questo svelamento in un'ottica peculiare e in un modo diverso. In sintesi si può affermare che ciò che lo svelamento vuole affermare
è sempre un senso. Si vuole svelare il "vero" senso del testo. Si vuole portare alla luce un senso, un'idea e come tale indimostrabile; si può aderire
ad un'interpretazione, la si può rifiutare, ma ciò che essa dice, in fondo, ci convince solo perché già lo abbiamo compreso, anche se in modo
inconsapevole ed inconscio. Trattandosi di un dibattito inerente alle idee, l'opera di interpretazione è praticamente senza fine. Un'attività infinita e
senza reali margini di conclusione che si sviluppa con il procedere della storia. Anzi, l'interpretazione è essa stessa una parte importante della storia
del sapere umana. Ne è, in ultima istanza, il motore. L'interpretazione in molti casi stabilisce che direzione debba prendere il fiume della storia. Un
fiume infinito pronto a cambiare direzione e senso di marcia: quando qualcuno si fa interprete di un discorso (discorso del testo) non chiude un
discorso, ma in realtà ne apre uno (discorso sul testo). Questo modo di "leggere" ha forgiato la nostra cultura ben più profondamente di quanto si
possa pensare e immaginare. L'idea del doppio (o anche triplo o quadruplo) senso del linguaggio - soprattutto "poetico" - ha condizionato e
modificato tutti i nostri comportamenti culturali. E' lecito, quindi, affermare che la "cultura del sospetto", ha creato conseguenze ben più profonde: la
convinzione che tutto ciò che ha senso nasconda un doppio senso. Per fare un esempio che già conosciamo si può riprendere il discorso prima
citato relativamente all'interpretazione della Bibbia. Nel Tardo Medioevo e per tutto il Rinascimento, si instaurò la concezione della Natura come
testo (il "libro scritto dal dito di Dio") che la accomunava ai fenomeni che veicolano informazioni, come lo sono tutti i linguaggi. Per il poeta Dante e
per lo scienziato Galileo, la Natura era un libro che comunicava le proprie leggi rimaste fino ad allora nascoste ad aspettare chi fosse in grado di
scovarle. Leggi nascoste dall'apparenza delle sensazioni, attraverso il dominio di un linguaggio che andava rigorosamente studiato sia che si
trattasse della teologia, sia della matematica. Tutta la storia della filosofia e della letteratura è una storia delle teorie interpretative dette anche
Ermeneutiche. Con la fine del XIX secolo due grandi pensatori dell'800 riuscirono a svelare definitivamente questo mistero. Ci stiamo ovviamente
riferendo a Marx, e Freud. Con questi intellettuali l'atteggiamento interpretativo si è definitivamente radicalizzato e la cultura del sospetto insito nella
nostra cultura occidentale si è inserita in modo inestinguibile e in maniera estrema e moltiplicata all'ennesima potenza nella nostra mentalità e nel
nostro agire quotidiano. La cosa che nasconde un altro senso, ossia ciò che deve essere interpretato, ma ciò che deve essere interpretato non sono
più soltanto le parole e gli scritti, ma è l'uomo stesso. Dopo che con la rivoluzione copernicana di Kant, l'uomo aveva dato le proprie regole nella
lettura e nella decifrazione scientifica delle leggi della natura, ora è l'uomo stesso a interpretare l'uomo. La necessità di scovare il senso nascosto
dietro la realtà è cresciuto a tal punto che non è più né possibile, né tantomeno pensabile, evitare di mettere in discussione sé stessi. Questa opera
di disvelamento dell'uomo è condotta su tre diversi livelli e campi d'azione da parte degli autori: Marx analizza la falsa coscienza e il ruolo dell'uomo
nella società e nella economia. Con Marx nasce l'interpretazione economicista della storia e della realtà che ci accompagna tuttora. Come vedremo
in seguito l'economia è tutto, la struttura su cui si basa la società e che determina i diversi cambiamenti della storia. Il resto non è altro che una serie
di sovrastrutture subalterne alla struttura, l'economia per l'appunto. Ma è con molta probabilità Freud l'autore a compiere il balzo in avanti più
importante. L'analisi più specifica e dirompente. Infatti il medico viennese indaga e mette alla luce ciò che è nascosto nella mente degli uomini.
Indaga e riporta alla luce la vera essenza psichica dell'uomo che era stata nascosta in quanto risultato di un processo psichico di rimozione che
nasconde sotto il velo della cultura istinti naturali e pulsioni inconsce inaccettabili per l'ordine sociale. Da tutte queste scoperte derivarono poi
altrettante "rotture" e "fratture" importanti per la mutata idea che l'uomo ha di se stesso e per lo stesso andamento della storia umana.
Sigmund Freud
Karl Marx
Sigmund Freud
Sigmund Freud nacque a Freiberg (l'odierna Přibor), in Moravia, nel 1856. Di
origine ebraica, si laureò in medicina a Vienna e si dedicò per molto tempo
alla ricerca teorica nel campo dell'anatomia e della fisiologia del sistema
nervoso. In seguito, per motivi economici, dovette abbandonare lo studio
teorico e cominciare a dedicarsi all'esercizio pratico della neuropsichiatria,
venendo a conoscenza dell'ipnosi come metodo di cura per le psiconevrosi.
Interessatosi alla materia, si recò in Francia grazie ad una borsa di studio ed
iniziò a collaborare con Charcot, che faceva largo uso dell'ipnosi e teorizzava
una base psichica (e non fisiologica) per le nevrosi e per l'isteria. Tornato a
Vienna, si rese conto della scarsa efficacia terapeutica degli assunti di
Charcot e si avvicinò alle tesi di Breuer, che utilizzava l'ipnosi in modo quasi
antitetico a quello dello studioso francese. Insieme con Beuer, Freud inserì la
tecnica ipnotica all'interno della "terapia catartica", attraverso la quale si
tentava di 'sbloccare' la psiche del paziente tramite la rievocazione di un fatto
biografico del suo passato di cui lo stesso non aveva ricordo. In seguito
Freud si staccò dalla pratica ipnotica ed elaborò teorie indipendenti riguardo
all'interpretazione di questi eventi passati "rimossi" dalla coscienza, arrivando
a formulare una distinzione 'topografica' della psiche in inconscio (costituito
da quegli eventi mentali di cui non siamo consapevoli, da quei ricordi che
devono affiorare tramite la terapia), preconscio (costituito da elementi latenti,
facilmente riassumibili alla coscienza) e coscienza (costituita da tutto ciò di
cui siamo consapevoli); e una distinzione in entità quali l'es (impulsi
irrazionali ed intuitivi), l'io (in gran parte cosciente, con qualche elemento
preconscio) e il super-io (istanza normativo-morale, in gran parte inconscia).
Freud si avvalse di tecniche innovative quali le associazioni libere, formulò in
modo nuovo la tecnica per l'interpretazione dei sogni e, allo scopo di tentare
una sorta di verifica delle sue teorie, si dedicò per quasi tutta la vita
all'autoanalisi. Il suo lavoro gettò le basi della psicoanalisi, e, dopo le iniziali
difficoltà, ottenne il riconoscimento accademico (Freud fu infatti professore
all'Università di Vienna dal 1920). Nel 1938, Sigmund Freud fu costretto ad
abbandonare Vienna a causa delle persecuzioni antisemite e si rifugiò a
Londra, dove morì nel 1939
1’ topica e
metodo psicoanalitico
2’ topica e
antropologia culturale
Prima topica e metodo psicoanalitico
La prima topica: La psiche umana è in parte nascosta alla nostra coscienza. Freud, come prima suddivisione della psiche, formula la prima topica
(Toponomastica, individuazione dei luoghi psichici): la psiche è suddivisa in conscio, inconscio e preconscio:
L'Inconscio. E' la parte sommersa della psiche: i suoi scopi sono autonomi e nascosti alla coscienza superficiale, le forze psichiche in esso contenute
lottano e "agiscono" all'oscuro del pensato cosciente.
Il Preconscio. E' composto dai ricordi non completamente consci ma facilmente richiamabili alla coscienza superficiale. Il preconscio è il termine
medio tra il non percepito rappresentato dall' "inconscio" e il percepito chiaramente rappresentato dal "conscio".
Il Conscio. E' la parte superficiale della psiche, la coscienza "chiara e distinta" del contenuto della mente.
Nevrosi e rimozione : Entro questa struttura della psiche si possono manifestare le nevrosi,cioè malattie dell'animo legate a un trauma, a quel
meccanismo psichico che genera l'impedimento di uno sfogo emotivo quindi una rimozione degli eventi indesiderati. Fatti e accadimenti spiacevoli
sono infatti spesso oggetto di rimozione, ovvero di una dimenticanza impostaci dalla nostra mente: tali fatti spiacevoli vengono stipati allora
nell'inconscio, e, nel loro tentativo inesausto di riaffiorare, vengono sublimati (trasformati in energia e comportamenti positivi) o dolorosamente
castrati dalla mente cosciente (assumendo le forme negative di compulsioni, ai quali non ci possiamo sottrarre, e ossessioni, che ci costringono a
tormentarci attorno a un'idea fissa).
La sublimazione: La sublimazione è lo sfogo creativo di una nevrosi o di una situazione rimossa. Mentre la nevrosi è quindi da ritenere una malattia,
la sublimazione rappresenta la rielaborazione positiva dello stesso processo nevrotico. Il processo di sublimazione sarebbe alla base dell'ispirazione
artistica, ma anche di ogni comportamento utile alla vita. La sublimazione agisce seguendo il principio di realtà; è lo sfogo del desiderio frustrato in
atteggiamenti conformi alle norme sociali.
Principio di piacere e principio di realtà: Tutte le scelte della psiche sono dettate dal principio del piacere; l'uomo desidera la sua felicità,
l'appagamento immediato dei suoi desideri, ma tutto ciò si scontra con la realtà, o con le costrizioni morali e sociali ostili al soddisfacimento del
piacere. Il principio del piacere si scontra con la realtà e ne deriva l'inevitabile frustrazione dei desideri. Ecco allora che al principio del piacere può
subentrare il principio di realtà: esso cerca la soddisfazione del desiderio in relazione a ciò che la realtà può offrire secondo comportamenti accettati.
Mentre il principio di piacere cerca la soddisfazione immediata del desiderio in modo irrazionale, il principio di realtà cerca l'appagamento del
desiderio ponendosi obiettivi estesi nel tempo e sublimando l'impossibile appagamento immediato in rappresentazioni sostitutive.
Il metodo psicoanalitico: Il metodo psicoanalitico freudiano si discostava molto dai precedenti metodi di cura: Freud introdusse la talking cure (la
cura del parlare), ossia lasciava che i pazienti, adeguatamente rilassati e distesi comodamente su un divano, dessero libero sfogo alle parole e al
flusso delle proprie idee, tentando di vincere la censura degli imperativi sociali che impedivano ai fatti raccontati di presentarsi per ciò che erano.
Importante per tale lavoro di recupero del trauma era un certo rapporto di amore ed odio che si instaurava tra paziente e medico (il transfert, ovvero il
vincolo emotivo). La cura così strutturata appariva dunque come un lavoro sul paziente, che da soggetto passivo diventava soggetto attivo.
Il sogno: Il sogno è di molto peso per la psicoanalisi. Nel sogno l'inconscio riaffiora in parte, grazie ad un allentamento della censura diurna esercitata
dalla coscienza. Nel sogno gli elementi che normalmente vengono ritenuti immorali riescono a trovare uno sfogo, ma la censura non scompare del
tutto, ed ecco che i contenuti indesiderati si rivelano velati e deformati simbolicamente. Le principali regole per l’interpretazione dei sogni sono:
1. La condensazione, ovvero interpretare la tendenza del sogno a diluire elementi accomunabili fra loro;
2. Lo spostamento, ovvero l'attenzione a come l'impatto emotivo di una situazione onirica, si sposta da una rappresentazione all'altra;
3. La drammatizzazione, ovvero la consapevolezza che fatti psichici ordinari possono trasfigurarsi in rappresentazioni alterate e drammatiche;
4. La rappresentazione per opposto, ovvero la consapevolezza che a volte un fatto onirico in sé evidente può significare anche il suo opposto;
5. La simbolizzazione, ovvero l'apparente cambiamento di significato di un certo elemento onirico.
"Eros" e "Thanatos“: Durante i suoi studi, Freud si accorse che la psiche non era solo governata da una pulsione (=impulso incontrollato e
primordiale) al piacere, ma anche da una pulsione distruttiva, di morte. La pulsione di vita, (l'eros), era affiancata da una pulsione di morte (thanatos);
le due pulsioni sono presenti contemporaneamente in ogni uomo, in contrapposizione dialettica. La pulsione di morte è indirizzata alla scarica totale
di tutti gli impulsi vitali, un autopunizione derivante dall'impossibilità del piacere. Essa può venire tenuta dentro di sé e provocare comportamenti
autodistruttivi, o essere convogliata verso l'esterno in comportamenti violenti.
Sigmund Freud
2’ topica e
antropologia culturale
Seconda topica e antropologia culturale
La seconda topica: La successiva ricerca psicoanalitica, porta Freud a individuare altri tre luoghi psichici, Io, Es e Super-Io:
L'Es è il serbatoio dell'energia vitale, l'insieme caotico e turbolento delle pulsioni, Quell'entità che si fa interprete della volontà di ottenere il piacere ad
ogni costo. L'Es è quindi governato dal principio di piacere.
Il Super-Io è la censura morale, l'insieme dei divieti sociali sentiti dalla psiche come costrizione e impedimento alla soddisfazione del piacere. Il
super-io rappresenta quindi la censura morale della coscienza.
L'Io è la coscienza mediatrice prodotta dai due movimenti contrastanti dell'Es e del Super-io.
L'Io è governato dal principio di realtà, il suo compito è quello di mediare le istanze vitali dell'Es, tese al soddisfacimento irrazionale e assoluto, e le
istanze del Super-Io, indirizzate verso la censura delle istanze dell'Es.
Il cammino della sessualità: Altro argomento rivoluzionario della psicoanalisi fu la scoperta che molti dei nostri comportamenti comuni sono in realtà
dettati da impulsi di origine sessuale. Considerato il fatto che dal punto di vista psichico "siamo l'eredità della nostra infanzia", Freud cominciò
dall'analisi delle pulsioni infantili per arrivare alla conclusione che esse sono dettate da istinti sessuali non censurati. Freud definiva il bambino come
un perverso polimorfo, ovvero un individuo che, data la mancanza di una censura morale consolidata, esplorava ogni via del piacere corporeo (la
libido) senza sensi di colpa.Nello sviluppo della sessualità di un individuo Freud distingue cinque fasi: la fase orale, quella anale, quella fallica, una
fase di latenza e infine la fase genitale.
La fase orale va dalla nascita ai due anni: il bambino esplora il mondo principalmente con la bocca. In questo periodo porta alla bocca gli oggetti per
conoscergli e succhia il latte dal seno materno, ovvero la parte del corpo che lo lega al mondo circostante è la bocca.
La fase anale va dai due ai quattro anni: è la fase in qui il bambino impara a controllare la ritenzione delle feci (l'educazione al vasino). E' il periodo in
cui incassa i primi si e i primi no, ciò che può e ciò che non deve fare. Questo implica secondo Freud il raggiungimento di una prima forma di
autonomia psicologica.
La fase fallica va dai quattro ai sette anni: è una fase cruciale. maschi e femmine si accorgono della propria differenza sessuale. I maschi temono di
perdere ciò che pensano abbia perso anche la femmina (complesso di castrazione), le femmine tendono a sentirsi inferiori ai maschi per ciò che
manca a loro e subentra l'invidia del pene. In questa fase si definiscono i ruoli sessuali che si assumeranno da adulti. Subentra il complesso di Edipo:
i maschi vogliono sposare la mamma e le femmine il papà, entrambi sopperiscono alla gelosia nei confronti del papà e della mamma assumendo i
ruoli dei genitori. E in questa fase che si forma il Super-Io: i ruoli che si obbligano ad assumere portano i bambini a far fronte ai primi imperativi sociali
legati alla figura materna e paterna (Freud ipotizza che un errata comprensione dei rispettivi ruoli assunti in questa fase sia all'origine
dell'omosessualità e della delinquenza).
La fase di latenza va dai sette agli undici anni: i bambini si concentrano sull'apprendimento dei comportamenti sociali e trascurano
momentaneamente quelli di natura sessuale.
La fase genitale va dagli undici anni fino all'età matura: è la fase del pieno sviluppo sessuale, del piacere attraverso i genitali, della masturbazione e
del primo rapporto: l'adolescenza, la giovinezza e l'età adulta.
Totem e tabù: Dio e l'origine dei divieti sociali
Che cos'è la religione per Freud? La religione non è altro che una delle molte sublimazioni messe in atto dalla psiche, un andare incontro alla realtà
vissuta come castrazione delle pulsioni dell'Es secondo un principio di realtà. Inoltre, per Freud, Dio non è altro che la proiezione del rapporto
ambivalente che ognuno di noi ha con il proprio padre e rappresenta quindi una proiezione umana di desideri e momenti psichici umani. La religione
rappresenta quindi, secondo Freud, una rappresentazione mediata del desiderio umano di vincere la finitezza. Che cosa dire poi della civiltà e del
modo in cui viene vissuta dall'uomo? La civiltà è un insieme di atteggiamenti morali acquisiti che coincidono con le istanze del Super-io. Ogni
individuo vive la civiltà come limitazione della sua libido: le circostanze sociali impongono di trovare alle pulsioni incontrollate sfoghi socialmente
tollerati (il meccanismo della sublimazione). Le società tendono quindi a ritenere morali quei comportamenti che ne garantiscono l'esistenza: ecco
perché il tabù dell'incesto e della masturbazione (visti come impedimento alla procreazione) e di molti altri tabù anche non evidentemente sessuali. Il
fondamento della morale non è quindi di carattere divino ma prettamente umano.
Sigmund Freud
1’ topica e
metodo psicoanalitico
Karl Marx
Marx nacque a Treviri nel 1818.Figlio di un brillante avvocato ebreo che, insieme con la famiglia, si era
convertito al protestantesimo per motivi politici, nonostante fosse rimasto su posizioni sostanzialmente
agnostiche, Marx ebbe un'educazione improntata al liberalismo ed in un primo momento pensò di
seguire la carriera paterna iscrivendosi a Giurisprudenza.A Berlino, però, il contatto con il club dei
Giovani Hegeliani (dei quali in seguito rinnegherà le posizioni) e con il pensiero di Hegel, lo portarono a
maturare la decisione di abbandonare Legge e di iniziare a frequentare la facoltà di filosofia a Jena,
dove si laureò con una tesi su Democrito ed Epicuro.Data la politica reazionaria vigente in Prussia,
decise che le sue posizioni politiche non gli avrebbero permesso di intraprendere serenamente la
carriera universitaria e così divenne caporedattore della Gazzetta Renana, che fu in seguito interdetta
dal governo. Proprio a causa dello scioglimento forzato del giornale, Marx fu costretto a trasferirsi a
Parigi (1843), dove terminò la stesura della Critica della filosofia del diritto di Hegel. Il 1844 fu l'anno in
cui Marx abbracciò definitivamente l'ideologia comunista: ne sono testimoni i 2 saggi che pubblicò sul
primo (e ultimo) numero degli Annali franco-tedeschi, redatto insieme con Ruge.Sempre nel '44 Marx
strinse una profonda amicizia con Friedrich Engels e con lui cominciò ad interessarsi alle materie
economiche, un interesse che sfociò nei Manoscritti economico-filosofici. Il soggiorno francese non
durò comunque oltre: sotto la pressione del governo prussiano, Marx fu costretto ad abbandonare
Parigi e si stabilì a Bruxelles. Qui, in collaborazione con Engels, scrisse La Sacra Famiglia (diretta
contro Bauer ed i suoi discepoli) e maturò il definitivo distacco dalla filosofia tedesca con le Tesi su
Feuerbach e, soprattutto, con l'Ideologia tedesca, pubblicata per la prima volta solo nel 1932, in URSS.
Nel 1848 la Lega dei comunisti, al cui primo congresso del 1847 Marx non aveva potuto partecipare, gli
propose di stendere un documento teorico-programmatico: il frutto di questo lavoro fu il Manifesto del
partito comunista, edito a Londra sempre in collaborazione con Engels. Ristabilitosi nel frattempo in
Germania, Marx ne fu nuovamente espulso nel '49 e questa volta si trasferì a Londra, dove si ritirò
dalla politica attiva dopo aver tentato di ricostituire la Lega dei comunisti. Per Marx, la moglie Jenny e
la loro numerosa famiglia, il soggiorno inglese si presentò carico di problemi economici: il suo lavoro al
British Museum e la sua collaborazione col New York Tribune non sarebbero stati sufficienti al
sostentamento se non fossero arrivati aiuti da Engels. Ciò nonostante Marx non interruppe la sua
attività di studio e, nel 1866, iniziò a comporre il I libro del Capitale, che, dopo la sua morte, fu redatto
da Engels, il quale si basò sui suoi appunti.Nel frattempo (1864) era diventato la figura dominante
dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, per la quale, nel 1870, scrisse due Indirizzi sulla guerra
franco-prussiana. Del 1875 sono gli Appunti sul programma di Bakunin 'Stato e Anarchia' e la Critica
del programma di Gotha, una disanima nei confronti della decisione di unificazione dei socialisti
tedeschi, per Marx poco rivoluzionaria. Nel 1881 gli morì la moglie Jenny e Marx la seguì 2 anni dopo,
lasciando nello sconforto Engels e tutto il movimento operaio internazionale.
Economia e
materialismo storico
Lotta di classe,
ideologia e alienazione
Economia e materialismo storico
Economia:Marx individua nell'economia il motore primo ed unico e necessario per l'evoluzione della storia all'interno di una concezione
deterministica per la quale la storia è già scritta: acutamente egli osserva che in un'ottica deterministica la libertà e il potere dell'uomo sono solo
di accelerare o rallentare gli avvenimenti, ossia stabilirne i tempi (e forse i modi) di accadimento.Tale dottrina ha dunque influenzato
profondamente molta della storiografia successiva. La sua visione dell'economia fa riferimento alla "teoria del valore", secondo cui il prezzo di
scambio dei beni dipende strettamente dal lavoro dell'uomo: da esso dipende la quantità di plusvalore aggiunto durante le fasi della produzione
ed esso influenza quindi il prezzo finale dell'oggetto prodotto. Il lavoro non è solo fonte del valore economico, ma anche del profitto. Degli
economisti classici (Adam Smith, David Ricardo) riprende il metodo di analisi economica, criticando la visione liberistica per cui il capitalismo
avrebbe accresciuto la ricchezza delle nazioni. Critica le teorie economiche borghesi come prese di posizione a favore dei capitalisti. Per primo
evidenzia i problemi di alienazione del lavoratore nelle fabbriche.L'economia determina la sovrastruttura e, dunque, l'indagine economica diviene
anche filosofica; mentre gli economisti classici tenevano distinte le due dimensioni. Da Hegel Marx deriva la concezione dialettica dell'economia
e della storia: le contraddizioni ed i conflitti sono inevitabili e vengono superati automaticamente, fino alla realizzazione finale definitiva. Tuttavia
l'idea di Hegel circa l'affermazione dialettica dello spirito al termine del processo storico è fortemente criticata da Marx, che la materialità della
produzione sociale. Il progressismo viene, quindi, non da una dialettica hegeliana intrinseca all'essere (servo-padrone), ma da un'analisi
economica che evidenzia come la caduta tendenziale del PIL e della ricchezza pro-capite avrebbe presto dissuaso i proprietari dal produrre.
Secondo Marx le contraddizioni interne al sistema capitalistico lo conducono a crisi cicliche di sovrapproduzione, in cui la capacità produttiva
supera la domanda dei consumatori. Inoltre esso tende a trasformare la società, estendendo numericamente la classe proletaria e riducendo
quella dei capitalisti a pochi individui, con fortissime concentrazioni di capitale. La rivoluzione inevitabile doveva essere anticipata, creando fra i
proletari una coscienza di classe, che facesse ammettere loro l'impossibilità teorica di un'evoluzione democratica del capitalismo nei loro
confronti, a riconoscergli diritti e tutele. Di qui l'opera divulgativa e l'impegno per la rivoluzione proletaria.
Il materialismo storico: Alla base di tutto, secondo Marx vi è la struttura economica, vista come un insieme di individui in relazione tra di loro
per produrre e distribuire merci. Tale struttura, e gli attriti che all'interno di essa si generano, sono considerati il vero motore della storia. Il
termine materialismo deriva proprio da questo, Secondo lui ogni altra cosa è semplicemente una sovrastruttura, derivata dalla struttura
economica e, inoltre, solo strumento funzionale alla conservazione del potere a vantaggio della classe dominante. Secondo Marx il mutamento
della struttura economica vive diverse fasi:
1)Situazione di equilibrio. Le forze di produzione sono adeguate ai rapporti di produzione.
2)Squilibrio. Poiché le forze di produzione si evolvono più rapidamente dei rapporti, vi è attrito tra le due entità e questo rimane fino a quando
non si modificano i rapporti di produzione in modo che si adeguino alle forze produttive.
3)Ritrovato equilibrio. Si ha dopo il suddetto adattamento, ossia dopo una rivoluzione. Un esempio classico che spesso viene citato è quello
dell'ascesa della borghesia che segna il passaggio dall'età feudale a quella moderna. Poiché la classe borghese acquisiva col tempo maggiore
potere economico, essa non poteva accettare il potere autoritario dell'aristocrazia. Quindi fu portatrice di nuovi ideali di uguaglianza degli uomini
e libertà che legittimassero un nuovo sistema sociale favorevole alla classe borghese. Nella storia ciò si traduce nella caduta dell'Ancien régime
e nella Rivoluzione francese. Come si può vedere, Marx sosteneva che fosse la struttura economica a determinare la sovrastruttura filosofica e
giuridica, e non viceversa.
Karl Marx
Lotta di classe,
ideologia e alienazione
Lotta di classe, Alienazione, Ideologia
La lotta di classe: Generalmente le società sono divise in classi. In ogni società ci sono persone che possiedono i mezzi di produzione (classe
dominante), ed altri al servizio dei primi in una condizione di lavoro dipendente. In accordo con l'ottica secondo cui la struttura e le lotte di classe sono il
vero motore della storia, Marx individua ed analizza alcuni sistemi tipici di società di classe.
Le società antiche basavano la produzione sullo sfruttamento degli schiavi. Le classi in contrapposizione erano tuttavia quella dei patrizi, la più ricca,
quella dei plebei, e la classe intermedia, i cui appartenenti non erano, né possedevano schiavi.
Nelle società feudali la produzione era fondata sul possesso della terra e sui servi della gleba, contadini giuridicamente legati al feudo in cui vivevano.
Accanto ad essi si trovavano una classe superiore di proprietari terrieri aristocratici, ed una classe intermedia di artigiani e commercianti residenti in
città. In questa fase sono proprio questi ultimi a rivendicare maggiore autonomia: è la cosiddetta ascesa della borghesia.
Nella società capitalista la principale forma di proprietà è il capitale industriale, ossia il denaro e i macchinari industriali che con esso si possono
acquistare e sono strumenti necessari, insieme al lavoro dell'uomo, per la produzione. La principale divisione di classe è quella tra capitalisti e
proletariato. Secondo Marx il ribaltamento della classe borghese ad opera di quella operaia sarà (un futuro rispetto al tempo in cui egli scrive)
automatico ed inevitabile. Tale ribaltamento sarà l'ultimo nella storia e condurrà ad una società senza classi.
L'alienazione: Il concetto di alienazione risiede nella filosofia tedesca precedente a Marx; Egli, come Hegel, tende a dare al termine un significato
reale, di natura socio-economica, che si identifica con la situazione del salariato nella società capitalistica. L'alienazione dell'operaio viene descritta da
Marx sotto quattro aspetti fondamentali, strettamente connessi tra loro:
1) Il lavoratore è alienato rispetto al prodotto del proprio lavoro (il capitale), poichè esso non gli appartiene, ma piuttosto si pone come una potenza
dominatrice nei suoi confronti
2) Il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa attività, che prende la forma di un lavoro costrittivo, in cui egli è strumento nelle mani altrui.
3) Il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa essenza che è quella del lavoro libero, creativo, mentre gli viene imposto un lavoro forzato, ripetitivo
4) Il lavoratore è alienato rispetto al prossimo, ( il capitalista); ciò fa sì che il rapporto tra l'operaio e l'umanità in genere sia conflittuale.
Ideologia e falsa coscienza: Per Marx l'ideologia è la visione del mondo imposta dalla classe dominante a quelle sottoposte e affermata come
universale. Essa è dunque uno strumento di dominio e controllo, finalizzato al mantenimento del potere e alla conservazione dello status quo.
L'ideologia è l'insieme delle idee politiche, morali, filosofiche, che sono espressione e giustificazione dei rapporti di produzione dominanti. L’ideologia
diviene falsa coscienza quando è considerata dal punto di vista della classe subordinata. Quest'ultima l'accetta considerandola verità, accetta quindi
anche la sottomissione considerandola inevitabile e una condizione immutabile della natura. Marx sostiene che solo una 'coscienza di classe' potrà
condurre all'affermazione della classe operaia su base mondiale. È infatti suo il motto 'proletari di tutto il mondo, unitevi!'.
La religione, Dio: È di Marx l'espressione: "la religione è l'oppio dei popoli", che predicando un'esistenza ultraterrena migliore, consolerebbe la classe
proletaria alla rassegnazione, a credere inutile qualunque rivoluzione, dissuadendola dalla ribellione con la paura del peccato. Come ebreo educato alla
Torah fin da bambino e come allievo di Hegel, il filosofo si pose il problema di Dio e non negò la sua esistenza. Disse che la religione era un prodotto
della struttura economica: ciò non necessariamente toglieva veridicità ai suoi contenuti; anche se, in ogni filosofia, la religione necessita di contenuti
eterni, non mutevoli al variare della struttura economica.
Le rivoluzioni: Stando alla visione dialettica e materialista della storia, le rivoluzioni sono l'espressione di necessità storiche e si attuano quando
maturano le condizioni. L'ultima rivoluzione sarà quella proletaria che produrrà una società ugualitaria senza classi.
Karl Marx
Economia e
materialismo storico
Albert Einstein
Albert Einstein nacque il 14 Marzo 1879 a Ulm, in Germania. Suo padre era un operaio
specializzato nella costruzione di apparecchiature elettriche. A causa di un fallimento
economico suo padre fu costretto a trasferirsi con la famiglia prima a Munich poi a Milano.
Non ci restano sufficienti informazioni sulla vita individuale di Einstein risalenti a questo
periodo.Durante i suoi studi non mostrò particolari attitudini, in quanto non approvava i rigidi
metodi dell'istruzione, e fu davvero un pessimo allievo. Però Einstein rimase affascinato dalla
matematica e dalle scienze, materie che studiò autonomamente. Nel 1896 gli fu revocata la
cittadinanza tedesca e nel 1901 divenne cittadino svizzero. Nel 1896 ebbe l'opportunità di
entrare all'Istituto Federale Svizzero di Tecnologia a Zurigo. Nonostante avesse un esigua
retribuzione, divenne un esaminatore. Nei due anni seguenti si occupò di insegnamenti
generali. Dal 1902 egli divenne un esaminatore ufficiale a Berna dove lavorò per sette anni.
L'anno 1905 fu un grande momento per la scienza; infatti Einstein pubblicò, a soli 26 anni,
quattro articoli sul giornale Annalen Der Physik, articoli che avrebbero alterato il corso della
scienza del XX Sec. Il primo trattava dei casuali cambiamenti termici nelle molecole,
chiamati Browniani, per prima riconosciuti nel 1827 dal botanico inglese Robert Brown. Il
secondo articolo trattava la teoria quantistica della luce divulgata da Max Planck nel 1900. In
esso Einstein mostra come la luce sia formata da fotoni rifacendosi al fenomeno fotoelettrico
scoperto nel 1902. Per questo contributo gli fu conferito nel 1921 il Premio Nobel per la
fisica. Il terzo articolo (il più famoso di Einstein) tratta della teoria della relatività: "Zur
Electrodynamik bewegter Korper" ("Elettrodinamica dei corpi in movimento"). L'ultimo
articolo di quell'anno introdusse l'ormai famosa equivalenza tra la massa e l'energia
espressa dall'equazione E=mc2. Grazie a questi lavori Einstein ricevette, nel 1908, delle
onorificenze all'università di Berna, che furono seguite da moltissime altre in Europa dopo
che si stabilì all'istituto per Studi Avanzati di Princeton, nel 1933. Gli ultimi anni di Einstein
furono trascorsi cercando una teoria per la forza universale che potesse unire le forze
subatomiche con la gravitazione e l'elettromagnetisno, problema che nessuno mai è riuscito
a risolvere. Einstein aveva un gran rispetto per le opere della natura, e notò che "La cosa più
incomprensibile del mondo è che esso sia comprensibile". Si considerava più un filosofo che
uno scienziato, e in molti modi fu dello stesso stampo dei filosofi greci, come Platone ed
Aristotele, cercando di capire la natura mediante la ragione anziché l'esperimento. Il suo
successo deve molto al discernimento dei suoi predecessori e alla potenza d'analisi degli
strumenti matematici, ma soprattutto ad una grande intuizione, che nessuno ha mai avuto.
Morì il 18 Aprile del 1955 a Princeton, nel New Jersey, dopo aver ricevuto la cittadinanza
statunitense.
La relatività
La relatività e le sue prove sperimentali
La teoria della relatività, elaborata da Albert Einstein all’inizio del XX secolo, è alla base dell’intera fisica moderna. Solo mediante la teoria della
relatività si può dare una sistemazione completa all’elettromagnetismo e alla teoria della gravitazione; ed è solo grazie ad essa che la fisica
nucleare e la fisica delle particelle elementari hanno potuto svilupparsi e avere le applicazioni ingegneristiche attuali. La teoria della relatività si
può suddividere, anche storicamente, in due “fasi” successive: la relatività speciale e la relatività generale. Il problema di fondo, per risolvere il
quale Einstein elaborò la propria teoria, è in ambedue i casi quello di dare una forma invariante, indipendente cioè dal sistema di riferimento, alle
leggi fisiche. Per molto tempo si credette che l’unica risoluzione del problema fosse costituita dal “Principio di relatività di Galileo”. Secondo
questo principio tutti i sistemi di riferimento “inerziali” sono equivalenti per la descrizione dei fenomeni meccanici. Ricordiamo che un sistema di
riferimento è detto “inerziale” se in esso sono soddisfatte le tre leggi di Newton della meccanica. Comunemente si dice che il sistema delle stelle
fisse (cioè un sistema avente come origine il centro del Sole e l’orientazione degli assi invariante rispetto alla posizione delle stelle fisse) è
inerziale. Un sistema di riferimento solidale con la Terra non è inerziale in quanto la Terra è in moto rotatorio su se stessa. Gli effetti dovuti a
questo moto sono però così piccoli che, in prima approssimazione, si possono trascurare e considerare la Terra un sistema di riferimento
inerziale. Il principio di relatività venne dedotto da Galileo dallo studio dei fenomeni meccanici noti al suo tempo. Esso viene messo in discussione
alla fine del XIX secolo in seguito alla scoperta dei fenomeni elettromagnetici. In modo particolare la formulazione maxwelliana
dell’elettromagnetismo e la scoperta della natura elettromagnetica della luce portavano a contraddizioni molto profonde con il principio di relatività
galileiano. Alcuni tra i più famosi fisici dell’epoca, in particolare il francese Jules-Henry Poincarè e l’olandese Hendrik A. Lorentz tentarono di
risolvere queste contraddizioni ma con scarsi risultati. Bisogna attendere il 1905, anno in cui viene pubblicato da Albert Einstein (1879 – 1955)
sulla rivista “Annalen der physik” il famoso articolo intitolato Electrodynamic bewegter korpen (Sull’elettrodinamica dei corpi in moto) perché si
riescano a superare le contraddizioni tra principio di relatività e teoria elettromagnetica. La teoria della relatività di Einstein si basa su due
postulati:
1)Le leggi della fisica devono essere le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
2)La velocità della luce è una costante, cioè è la stessa in tutti i sistemi di riferimento.
Egli inoltre analizza a fondo i concetti di spazio e di tempo e dimostra, sulla base di due postulati, che né lo spazio né il tempo hanno carattere
assoluto; ogni osservatore ha un suo proprio tempo e un suo proprio sistema di coordinate. Einstein dimostra inoltre, partendo dall’esistenza di un
tempo proprio per ogni osservatore, che le trasformazioni di Galileo sono errate. Esse vanno sostituite con leggi di trasformazione più generali,
note come “leggi di trasformazione di Lorentz”. Utilizzando queste leggi di trasformazione Einstein dimostra che le equazioni di Maxwell del
campo elettromagnetico sono invarianti; non esiste quindi alcuna contraddizione tra principio di relatività ed elettromagnetismo. La teoria della
relatività einsteiniana non si limita a spiegare i fatti sperimentali: partendo da essa si derivano una nuova cinematica e una nuova dinamica,
chiamate “relativistiche”, che sostituiscono la meccanica newtoniana. Inoltre sono ormai molte le verifiche sperimentali della relatività come: il
perielio di mercurio, la curvatura della luce, i buchi neri, la dilatazione dei tempi, l’effetto Doppler.
Difficoltà della
fisica classica
La relatività della
simultaneità
Massa
ed energia
La relatività
generale
Perielio
di Mercurio
L’effetto Doppler
I buchi neri
Difficoltà della fisica classica
Relatività galileiana: Per introdurre il concetto di relatività galileiana ci si può
servire di un esempio dovuto allo stesso Galileo. Supponiamo che una nave
viaggi a velocità costante: dalla cima dell’albero un marinaio lascia cadere un
sasso. Per un osservatore sulla nave la traiettoria del sasso è una linea retta
parallela all’albero; un osservatore sulla terraferma vede invece cadere il sasso
lungo una traiettoria parabolica. È evidente da questo esempio che non esiste
una traiettoria assoluta lungo cui si muove il sasso, ma solo una traiettoria
relativa per ogni particolare osservatore. Se associamo ad ogni osservatore un
sistema di riferimento possiamo dire che “rispetto a un sistema di riferimento
rigidamente collegato alla nave il sasso descrive una linea retta, mentre rispetto
a un sistema di riferimento rigidamente collegato alla terraferma descrive una
parabola”. In entrambi i sistemi di riferimento il sasso inizia il suo moto dalla
cima dell’albero e lo termina alla base dell’albero stesso pur percorrendo
traiettorie diverse nei due sistemi di riferimento. Da questo fatto possiamo
dedurre che le leggi che descrivono il moto del sasso sono le stesse tanto nel
sistema di riferimento S (osservatore sulla terraferma) quanto nel sistema di
riferimento SI (osservatore sulla nave). Questo risultato particolare può essere
esteso a principio generale: ciò venne fatto da Galileo di modo che il principio è
noto come “principio di relatività di Galileo”. Esso afferma che le leggi della
meccanica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento in moto traslatorio
uniforme uno rispetto all’altro. Una conseguenza importante della relatività
galileiana, che va sotto il nome di “teorema di addizione della velocità”, è la
seguente. Consideriamo ancora la nave dell’esempio precedente e supponiamo
che la sua velocità rispetto a un sistema di riferimento connesso con la
terraferma sia v0 ; supponiamo inoltre che un marinaio cammini sulla nave,
nella direzione del moto, con velocità w0 rispetto a un sistema di riferimento
connesso con la nave. Con quale velocità si muove il marinaio per un
osservatore sulla terraferma? Se fosse immobile in un intervallo di tempo Dt
percorrerebbe una distanza data da Dt o v0 . Durante l’intervallo di tempo Dt il
marinaio avanza di Dt o w0 ; quindi egli avanza di Dt o (v0 + w0) e quindi la
sua velocità rispetto a un osservatore sulla terraferma è vt = v0 + w0 .
L’aspetto concettualmente interessante è che la velocità del marinaio è diversa
nei due sistemi di riferimento. Generalizzando questo risultato possiamo dire
che la velocità non è invariante; essa assume, in generale, valori diversi
passando da un sistema di riferimento a un altro.
S
S’
O’
P
OP = OO’ + O’P
Derivando rispetto a t, si ha:
v = w + v’
Derivando ancora:
a = a* + a’
Se w = cost  a*= 0
Quindi:a = a’
O
Relatività classica:
1)Tutti i sistemi di riferimento S’, che si muovono di moto rettilineo
uniforme rispetto ad un sistema di riferimento inerziale S, sono inerziali.
2)La legge fondamentale della dinamica è: F = m a
3) In S, essendo a = a’, si ha la stessa forza F presente in S’.
Trasformazioni di Galileo:Legge di composizione per lo spostamento
x’=x-vt (t=t’)
Forza di Lorentz:
Una carica q, in moto con velocità v, in un campo magnetico di induzione
B è sottoposta alla forza: F = q v  B
La forza di Lorentz, proporzionale alla velocità, sarà diversa nei sistemi S
ed S’ in qualsiasi caso.
Trasformazioni di Lorentz: (b=v/c)
L’elettromagnetismo e
l’esperienza di Michelson-Morley
L’elettromagnetismo e l’esperimento di Michelson-Morley
L’elettromagnetismo e la relatività galileiana: La formulazione maxwelliana dell’elettromagnetismo e la scoperta del carattere elettromagnetico
della luce posero seriamente in discussione la validità del principio di relatività galileiana. Maxwell aveva dimostrato che la luce è una
propagazione ondosa di carattere elettromagnetico. In analogia con i fenomeni ondosi meccanici già noti (ad esempio le onde sonore) sembrava
logico supporre l’esistenza di un “mezzo” nel quale si propagasse l’onda elettromagnetica. Che questo mezzo potesse essere una sostanza
usuale era da escludere dato che la luce si propaga anche nel vuoto. Si inventò allora una speciale sostanza, l’etere. Le proprietà che doveva
possedere questo ipotetico etere erano alquanto strane: doveva essere in grado di penetrare tutti i corpi ed essere capace di trasmettere
vibrazioni luminose, che sono trasversali, cioè perpendicolari alla direzione di propagazione, il che è una tipica proprietà dei corpi solidi. Secondo
la teoria di Maxwell le equazioni del campo elettromagnetico non sono valide per tutti i sistemi di riferimento, ma solo per quelli immobili rispetto
all’etere. Il problema era concettualmente simile a quello risolto da Galileo nell’ambito della meccanica. Contrariamente alle leggi di Newton però
le equazioni di Maxwell non sono invarianti per trasformazioni di Galileo; assumono cioè una forma diversa in un sistema di riferimento in moto
(anche rettilineo e uniforme) rispetto all’etere. Infatti nelle equazioni di Maxwell compare in modo essenziale la velocità della luce nel vuoto c;
poiché la velocità non è invariante per trasformazioni di Galileo anche le equazioni di Maxwell non lo sono. Questo fatto indusse a ritenere
possibile di evidenziare sperimentalmente il moto di un osservatore rispetto all’etere mediante lo studio dei fenomeni elettromagnetici; ad
esempio studiando come varia la velocità della luce al variare della velocità della sorgente. Secondo la legge di trasformazione galileiana la
velocità della luce dovrebbe essere massima quando essa si propaga nella stessa direzione di moto della sorgente e minima quando si propaga
nel senso opposto. La più celebre delle esperienze di questo tipo fu quella realizzata da Michelson e Morley tra il 1881 e il 1887.
L’esperimento di Michelson e Morley: L’idea base dell’esperimento è di confrontare la velocità di percorrenza della luce lungo due cammini
perpendicolari, uno dei quali parallelo alla direzione del moto della sorgente. Il problema maggiore che Michelson e Morley dovettero affrontare fu
quello di rilevare l’eventuale differenza di velocità nei due sensi. La soluzione trovata fu di far interferire i raggi luminosi; la differente velocità di
percorrenza si traduce in una diversità dei cammini ottici e questo provoca un’influenza osservabile nelle figure d’interferenza. L’esperienza
eseguita ripetutamente e con estrema precisione in diverse ore del giorno e in tutti i periodi dell’anno diede sempre risultato negativo: la velocità
della luce sembrava essere indipendente dalla velocità della sorgente. Generalizzando il risultato dell’esperimento si può dire che la velocità della
luce non è influenzata dal moto relativo tra etere e sistema di riferimento in cui si effettuano le misure (in questo caso la Terra). Per spiegare
questo fatto nell’ambito della teoria maxwelliana bisogna ammettere che la Terra è immobile rispetto all’etere. Questa ipotesi è però contraddetta
da tutta una serie di altri risultati sperimentali secondo i quali la Terra è invece in moto rispetto all’etere. In particolare basta ricordare il fenomeno
dell’aberrazione annua delle stelle e l’esperimento di Fizeau. Il fenomeno dell’aberrazione annua delle stelle, scoperto dall’astronomo inglese
James Bradley (1693 – 1762) nel 1727, consiste nel fatto che le stelle sembrano descrivere nel corso dell’anno una piccola ellisse. Nell’ambito di
una teoria elettromagnetica basata sull’esistenza dell’etere questo fenomeno è spiegabile solo ammettendo che la Terra sia in moto rispetto
all’etere. L’esperimento di Fizeau, eseguito per la prima volta nel 1851 dal fisico francese Armand-Hippolyte-Louis Fizeau (1819 – 1896),
consiste nello studio della propagazione della luce nei mezzi in movimento. I risultati che Fizeau ottenne sono spiegabili ammettendo che l’etere
sia trascinato solo parzialmente dalla Terra di modo che esiste una velocità relativa tra etere e Terra.
La relatività della simultaneità
Il principio di relatività impone che le leggi dell’elettromagnetismo abbiano la stessa forma per due osservatori O e OI in moto rettilineo uniforme
uno rispetto all’altro. Questo non è vero per le equazioni di Maxwell invariati per trasformazioni di Galileo. Per risolvere questa contraddizione
bisogna abbandonare le trasformazioni di Galileo scorrette poiché assumono un tempo assoluto, indipendente dal sistema di riferimento.
La sincronizzazione degli orologi: Il concetto di tempo è intuitivo e tutta la nostra esperienza quotidiana ci dice che il tempo scorre. Un altro
concetto intuitivo è quello di simultaneità: in base a esso ci capita sovente di affermare che degli eventi sono avvenuti “contemporaneamente”.
Molte volte però noi usiamo la parola “simultaneo” in modo errato. Consideriamo un treno immaginario, enormemente lungo, tanto che dal vagone
di testa non si veda il vagone di coda. Quando il treno si ferma due viaggiatori scendono, uno (A) dal vagone di testa l’altro (B) da quello di coda.
Potremmo dire se sono scesi simultaneamente fornendo a ciascuno un orologio e facendoci poi riferire l’ora in cui sono scesi. Il metodo, però, non
tiene conto del fatto che un orologio potrebbe ritardare rispetto all’altro. Il problema diviene allora “sincronizzare” gli orologi. Alla stessa distanza da
A e da B mettiamo una sorgente luminosa S. S emette un raggio luminoso che viaggia sia verso A sia verso B. Ora, per il secondo dei due
postulati di Einstein, il raggio luminoso si propagherà con la stessa velocità c in tutte le direzioni e quindi giungerà nel medesimo istante in A e in B.
Quando la luce arriva ad A e B, entrambi regolano i loro orologi in modo da indicare la stessa ora, ad esempio le 12. In questo modo e solo in
questo modo è possibile sincronizzare gli orologi e quindi parlare di simultaneità di due eventi. Ma, se due eventi A e B sono simultanei per un
certo osservatore S , essi risultano simultanei anche per una altro osservatore SI in moto rettilineo uniforme rispetto ad S ?
La relatività della simultaneità: Consideriamo allora la seguente situazione: abbiamo cioè un treno in moto, con velocità v rispetto a un
osservatore S, fermo a terra. Supponiamo che in A e B si accendano due lampade, e che questo avvenga, per l’osservatore S, simultaneamente.
Vediamo cosa accade per un osservatore SI solidale con il treno. Al momento dell’accensione delle lampade in A e in B i due ipotetici osservatori S
e SI si trovano nello stesso punto. Se il treno non si muovesse, i raggi di luce emessi da A e B raggiungerebbero SI simultaneamente. Ma
l’osservatore SI si sta muovendo, rispetto ad S, incontro al raggio di luce proveniente da B, mentre sta “sfuggendo” al raggio di luce emesso da A.
quindi il raggio di luce emesso da B raggiungerà SI prima di quello emesso da A e quindi per SI l’accensione della lampada in B è avvenuta prima
dell’accensione della lampada in A: per SI i due eventi non sono simultanei. Il concetto fondamentale che si ricava dall’esempio riportato è il
seguente: gli eventi che sono simultanei per un certo osservatore S non saranno in generale simultanei per un altro osservatore SI, in
movimento rispetto ad S. Possiamo quindi affermare che ogni osservatore (sistema di riferimento) ha il suo tempo proprio. Questo fatto è
assolutamente nuovo nella fisica; prima dell’avvento della teoria della relatività al tempo veniva attribuito un carattere assoluto. Se abbandoniamo
l’ipotesi del tempo assoluto, scompare anche l’incongruenza tra leggi di Maxwell e principio di relatività. Tale apparente incongruenza era legata
alla legge di composizione della velocità; questa legge si basa però sulle trasformazioni di Galileo in cui il tempo è assunto essere lo stesso nei
due sistemi di riferimento. Poiché questa ipotesi non è sostenibile, anche le trasformazioni di Galileo devono essere abbandonate. Perciò sarà
possibile determinare il tempo e la posizione di un evento, rispetto a un osservatore SI, quando conosciamo il tempo o la posizione dello stesso
evento rispetto a un osservatore S, in moto relativo rispetto ad SI applicando le trasformazioni di Lorentz.
Treno
S’
A
S
Treno
S’
A
S
Terra
B
B
Terra
S= osservatore
S’= osservatore in moto
inerziale
A;B= sorgenti di luce
Massa ed energia
La massa è energia: Einstein, tramite i suoi numerosi
studi, arrivò ad affermare che la massa è una forma di
energia, in quanto essa scompare (secondo una
precisa relazione) quando compare energia e
viceversa. Tutte le trasformazioni di massa in energia
e di energia in massa sono regolate dalla relazione di
Einstein che, di solito, è scritta nella forma
E = mc2 .
In particolare, da questa formula di deduce che un
corpo fermo e non soggetto a forze possiede
un’energia E0 per il solo fatto di avere una massa m0;
tale energia si chiama energia di quiete o di riposo del
corpo:
E0 = m0c2.
Questa relazione è confermata negli esperimenti sulle
particelle elementari, dove è possibile osservare la
“materializzazione” di particelle a spese della
scomparsa di energia e, viceversa, l’annichilazione di
due particelle con conseguente emissione della
quantità di energia prevista dalla relazione di Einstein.
La relatività generale
Ill principio di equivalenza: Il lavoro di Einstein si basa inizialmente sulla sua osservazione del significato profondo del principio di equivalenza.
Tale principio enuncia l’esatta equivalenza tra la massa gravitazionale e la massa inerziale. La prima è la responsabile della creazione del campo
gravitazionale come descritto dalla teoria di Newton, la seconda è la misura della reazione di un corpo all’azione di una forza su di esso. La loro
equivalenza rende possibile il fatto che due palline di diversa massa cadano nello stesso modo se lasciate cadere dalla Torre pendente di Pisa:
infatti, se la forza con cui la gravità terrestre attira una palla è di massa uguale a y, la forza con cui la gravità attirerà un’altra palla di massa X (con X
pari al doppio di x) sarà esattamente pari al doppio di y; in tal modo l’accelerazione con cui le due palline cadono è identica: esse, perciò,
atterreranno nello stesso istante. Tale fu l’osservazione, di Galileo, che venne enunciata come principio da Newton che Einstein stravolge con un
esperimento ideale, tale cioè da non poter essere compiuto realmente bensì solamente immaginato. Lo strumento preferito da Einstein sono gli
ascensori immaginari, cioè ambienti chiusi dove lo sperimentatore non si accorge di quello che succede fuori.
L’ascensore immaginario: Proviamo a immaginare la sensazione che una persona prova in un ascensore fermo nelle vicinanze di un pianeta in
presenza di gravità: l’osservatore ideale chiuso lì dentro vedrà le palline accelerare verso il pavimento dell’ascensore, tutte con la stessa
accelerazione g, in modo indipendente dalla loro massa. È’ ciò che osserva una persona chiusa in un ascensore identico che viene trascinato nello
spazio vuoto con un’accelerazione pari a g. Non c’è modo alcuno di capire se l’accelerazione delle palline è vera o generata dalla gravità! Allo stesso
modo possiamo immaginare di essere chiusi nell’ascensore fermi nello spazio vuoto: tutte le palline che utilizziamo per il nostro esperimento
rimarranno ferme a mezz’aria o si muoveranno di moto rettilineo uniforme: saremo cioè in un sistema di riferimento inerziale, dove valgono le leggi e
le trasformazioni della relatività. Immaginiamo ora di trovarci in un ascensore chiuso che sta cadendo verso la superficie di un pianeta che genera un
campo gravitazionale attorno a sé. Prima dell’inevitabile impatto le palline che lasceremo andare dentro l’ascensore rimarranno ferme a mezz’aria o
si muoveranno di moto rettilineo a velocità uniforme: non ci accorgeremo cioè di cadere in un campo gravitazionale e potremo benissimo pensare di
essere fermi nello spazio vuoto! Nessuna differenza! Prima dell’impatto, però. La pallina, che prima si allontanava da noi a velocità costante verso
l’alto, dopo un certo tempo subisce un’accelerazione che la distanzia da noi più velocemente. Ciò significa che l’ascensore in cui siamo deve essere
idealmente vasto da permetterci di misurare la differenza dell’accelerazione (o della forza) di gravità tra posizione della pallina e la nostra posizione,
ora che ci troviamo fatalmente più vicini alla superficie del pianeta. Ecco la formulazione del principio di equivalenza come ipotizzato da Einstein: in
ogni punto dello spazio-tempo, anche se immerso in un campo gravitazionale, è possibile trovare un sistema di riferimento localmente
inerziale, dove per localmente si intende non così tanto esteso spazialmente o nel tempo da indurci a notare le differenze del campo
gravitazionale tra un punto e l’altro. Tale sistema di riferimento è quello in cui ci troveremmo in caduta libera nel campo gravitazionale, ed
in tale riferimento valgono le leggi della relatività speciale. In seguito a questa intuizione Einstein applicò il formalismo dell’analisi tensoriale per
cercare il significato profondo alla gravitazione: essa non è una forza, come può essere quella elettrica, ma una proprietà dello spazio-tempo. In
parole semplici la materia incurva lo spazio-tempo, in termini matematici il tensore energia-momento modifica il tensore della metrica. Nello
spazio-tempo curvo tutti i corpi sono costretti a non muoversi in linea retta, cadendo al suolo in traiettorie paraboliche, o compiendo orbite ellittiche
attorno a una stella. Semplicemente, i corpi cadono seguendo le traiettorie più brevi possibili per quello specifico spazio-tempo curvo. Tali traiettorie
vengono chiamate geodetiche. Le geodetiche nello spazio-tempo euclideo, cioè quello in cui siamo abituati a vivere e pensare, sono le linee rette. Per
andare da un punto ad un altro la via più breve è sempre la retta che congiunge i due punti. E la linea retta, cioè la traiettoria migliore, è unica una
volta scelti i due punti di partenza e di arrivo. In questa geometria euclidea le rette parallele non si incontrano mai (se non all’infinito che però è un
posto a cui non si può mai arrivare) e la somma degli angoli interni di un triangolo è sempre di 180 gradi. Uno spazio che possieda queste
caratteristiche è detto, oltre che euclideo, anche piatto, e corrisponde nella realtà e zone di Universo lontanissime da ogni tipo di materia e di energia.
È chiaro che non appena succede qualcosa di notevole nell’Universo si è in presenza di materia (o energia, che secondo la relatività speciale è
esattamente la stessa cosa e lo spazio-tempo diventa subito curvo: lo spazio-tempo piatto è solo una comoda approssimazione che possiamo fare in
piccole regioni di spazio, dove la gravità non varia apprezzabilmente. Una piccola porzione della superficie terrestre, come la stanza di un laboratorio,
o le strade di una città, sono sufficientemente piatte da permetterci di utilizzare una geometria piatta, risparmiandoci in tal modo di dover fare
complicati (impossibili) calcoli tensoriali in quattro dimensioni per scegliere il tram giusto per arrivare in tempo al cinema.
Precessione del perielio di Mercurio
Secondo la relatività generale, l’orbita di un pianeta di massa trascurabile rispetto al Sole (in
prima approssimazione tutti i pianeti lo sono) subisce un moto di precessione del perielio
nello stesso senso di rivoluzione del pianeta. Per ogni rivoluzione, l’angolo di precessione
vale:
espresso in radianti. G0 è la costante di gravitazione universale, M la massa del Sole, a il
semiasse maggiore dell’orbita ed e l’eccentricità. Nel caso di Mercurio i calcoli forniscono il
valore di 43,03” per secolo, in ottimo accordo con i dati osservativi.
L'effetto Doppler per le onde elettromagnetiche
Consideriamo una sorgente di onde elettromagnetiche e un osservatore mobili, l'uno rispetto
all'altro, con velocità V. Supporremo che la sorgente si trovi nell'origine O di un riferimento S e
l'osservatore nell'origine O' di un riferimento S' mobile, rispetto ad S, con velocità V. Vogliamo
sottolineare subito una radicale differenza tra il fenomeno che qui vogliamo studiare e l'effetto
Doppler già noto per le onde acustiche. Poiché le onde acustiche necessitano di un mezzo in cui
propagarsi, il caso della sorgente ferma nel mezzo e quello della sorgente in moto non sono
equivalenti. Infatti se ci mettiamo nella stessa situazione indicata sopra e indichiamo con w la
velocità di propagazione del segnale acustico rispetto al mezzo avremo le seguenti due
situazioni per l'osservatore:
Se il mezzo é solidale alla sorgente, cioè al riferimento S, la velocità con cui l'osservatore riceve
le onde é w-V (almeno in prima approssimazione, in realtà sarebbe , ma );
Se invece il mezzo é solidale all'osservatore, cioè la sorgente é in moto, la velocità con cui
questi riceve le onde é w, in quanto come per tutte le onde la velocità di propagazione non
dipende dal moto della sorgente.
Per le onde acustiche ricevute dall'osservatore non c'é dunque simmetria e si ottengono risultati
diversi a seconda che sia la sorgente o l'osservatore a muoversi nel mezzo. Con le onde
elettromagnetiche questo non succede: la velocità delle onde é indipendente sia dal moto della
sorgente che da quello dell'osservatore. D'altro canto, non essendoci mezzo di propagazione,
non c'é alcun modo per distinguere se a muoversi sia la sorgente oppure l'osservatore.
Supponiamo dunque che la sorgente emetta, nell'istante t=0, un segnale; esso viene ricevuto da
S' nell'istante t'=0 e nel punto x'=0 (i due riferimenti coincidono nell'istante iniziale). Un secondo
segnale viene emesso dalla sorgente nell'istante t=τ, naturalmente sempre nel punto x=0. Esso
viene visto da S' come lanciato nel punto x'=-γVτ e nell'istante t'=γτ (basta mettere x=0 e t=τ
nelle trasformazioni di Lorentz). Questo segnale viaggia a velocità c anche in S' e dunque
impiega il tempo per arrivare in O'. Il tempo che intercorre tra la ricezione dei due impulsi in S' é
dunque dato da . Se τ é il periodo dell'onda visto da S e dunque la sua frequenza, é la
frequenza vista da S' e vale la seguente formula: . Questa formula descrive l'effetto Doppler
longitudinale (perché il segnale si propaga nella stessa direzione del moto relativo tra sorgente
ed osservatore) relativistico. Esperimenti eseguiti da H.E.Ives e G.R.Stilwell nell'ormai lontano
1938 su onde emesse da atomi di idrogeno, mobili con velocità v tali che β=0,005, hanno dato
risultati in ottimo accordo con la previsione contenuta nella formula precedente, ottenendo una
eccellente conferma della validità della teoria dell'effetto Doppler relativistico e quindi, in ultima
analisi, delle trasformazioni di Lorentz. Una ulteriore conferma di questa validità si ha dalle
misure, sempre di Ives e Stilwell, sull'effetto Doppler nel caso in cui la velocità di propagazione
sia parallela, per esempio, a y, e quindi perpendicolare a V. Se T é il periodo dell'onda misurato
da S e T' quello misurato da S', per la formula della dilatazione dei tempi (qui le lunghezze non
contano in quanto si tratta di dimensioni perpendicolari al moto) si ha T'=γT. Per le frequenze
avremo allora ν=γν'. Questa formula esprime il cosiddetto effetto Doppler trasversale. La fisica
classica non prevede alcun effetto Doppler trasversale, come risulta, per esempio, dalla figura
qui a lato, in cui abbiamo rappresentato onde piane e in cui V indica la velocità relativa, non
avendo qui chiaramente alcun interesse sapere se a muoversi è l'osservatore o la sorgente. É
chiaro che il numero di onde che l'osservatore riceve è lo stesso sia nel caso che ci sia moto
relativo, sia nel caso che tale moto non ci sia.
Onde prodotte da sorgente fissa
Onde prodotte da sorgente mobile
I buchi neri
Un buco nero è un oggetto stellare prodotto dal collasso finale di una stella di massa almeno tre
volte quella del sole. Al termine del proprio ciclo vitale, il nucleo di una stella si spegne, avendo
esaurito tutto il suo combustibile nucleare. La forza gravitazionale, che prima era in equilibrio con
la pressione generata dal nucleo, prevale e comprime la massa della stella verso il suo centro. In
alcuni casi, la densità raggiunta dalla stella morente è tale da creare un campo gravitazionale
estremamente intenso che non permette a nulla di sfuggire alla sua attrazione, neppure la luce. Il
nome di questi oggetti deriva da questa caratteristica, che li rende simili a buchi dove nulla può
più uscire. Essi non possono essere osservati direttamente, ma possono essere scoperti a
causa dei loro effetti di attrazione nei confronti della materia vicina. Viene ipotizzato che enormi
buchi neri (di massa pari a milioni di volte quella del sole) esistano al centro delle galassie, come
nella nostra e nella galassia di Andromeda.Una caratteristica dei buchi neri è il cosiddetto
orizzonte degli eventi, una superficie immaginaria che circonda l'oggetto. Qualunque cosa
oltrepassi questo limite non può più uscirne o trasmettere segnali all'esterno. Tutte le
informazioni della massa che cade in un buco nero vengono perdute, ad eccezione di tre fattori:
massa, carica e momento angolare. L'enorme campo gravitazionale creato da questi oggetti ha
affascinato fisici e astrofisici che si interrogano sulle conseguenze di un campo gravitazionale
così intenso, alla luce della teoria della relatività di Albert Einstein. Alcuni hanno infatti teorizzato
che un buco nero possa creare un wormhole.In realtà un buco nero non è del tutto nero: esso
emette particelle, in quantità inversamente proporzionale alla sua massa, portando ad una sorta
di evaporazione. Questo fenomeno, dimostrato nel 1974 per la prima volta dal fisico Stephen
Hawking, è noto come radiazione di Hawking ed è alla base della termodinamica dei buchi neri.
Alcune sue osservazioni sull'orizzonte degli eventi dei buchi neri, inoltre, hanno portato alla
formulazione del principio olografico. Poiché per descrivere un buco nero sono sufficienti tre
parametri: massa, momento angolare e carica elettrica, i modelli matematici derivabili come
soluzioni della teoria della relatività generale si riconducono a quattro: Buco nero di
Schwarzschild è la soluzione più semplice, in quanto riguarda oggetti non rotanti e privi di carica
elettrica, ma è anche piuttosto improbabile nella realtà, poiché un oggetto dotato anche di una
minima rotazione, una volta contratto in buco nero deve aumentare enormemente la sua velocità
angolare in virtù del principio di conservazione della quantità di moto. Buco nero di Kerr, si tratta
di oggetti rotanti e privi di carica elettrica, caso che presumibilmente corrisponde alla situazione
reale. Un oggetto dotato di un campo gravitazionale intenso come quello di un buco nero,
ruotando trascina con se lo spazio-tempo circostante, distorcendolo. Buco nero di Kerr-Newman
riguarda la situazione in cui sia ha sia rotazione che carica elettrica, ed è la soluzione più
generale. Buco nero di Reissner-Nordstrøm è il caso di un buco nero dotato di carica elettrica
ma non rotante.
L’arte degenerata
Entartete Kunst è una parola d’ordine della propaganda nazista utilizzata per educare la collettività a rifiutare pregiudizialmente opere d’arte e
tendenze stilistiche dell’arte moderna, nonché determinati autori. Per contrappasso a partire dal 1936 in Germania viene consentita solo la
"Deutsche Kunst" e tutto il resto è degenerato, proibito e perseguitato. Sulla "degenerazione" si fondano i concetti giuridici attraverso i quali interi
gruppi di popolazione sono emarginati da quello che i nazisti denominavano "Deutsche Volk", il popolo tedesco. Nel 1937, a Monaco di Baviera, i
nazisti organizzano una mostra per quella che definiscono Entartete Kunst, cioè l’arte degenerata, per insegnare ai veri tedeschi che certe forme
e generi artistici non sono accettabili dalla razza superiore ariana. Si tratta di arte degenerata in quanto ebraica, bolscevica (ovvero comunista) o
comunque di razza inferiore. Qualsiasi cosa che non rientri nel modo di pensare di Hitler è considerato "degenerato", perché compito dell’arte è
esaltare lo stile di vita ariano.Gli autori delle opere proibite, dichiarati tra l’altro malati di mente, sono per la maggior parte espressionisti: Ernst
Barlach, Max Beckmann, Otto Dix, Wassily Kandinsky, Ernst Ludwig Kirchner, Paul Klee, Käthe Kollowitz, Max Liebermann, Edward Munch,
Emil Nolde e molti altri. Non manca Pablo Picasso "il più degenerato degli artisti", che proprio nel 1937 dipinge Guernica, dedicato alla memoria
delle vittime civili e innocenti del bombardamento aereo della cittadina basca da parte di velivoli tedeschi.La mostra era stata preceduta da una
sistematica "epurazione" delle collezioni pubbliche tedesche, con la confisca di circa seimila opere moderne: cubiste, espressioniste, dadaiste,
astrattiste e primitiviste.Con la salita al potere del partito nazionalsocialista nel 1933, in Germania viene proibita l’esposizione di qualsiasi opera
di avanguardia in musei pubblici e gallerie d’arte e gli artisti sono messi sotto sorveglianza.La repressione culturale raggiunge il suo culmine nel
1937, con la mostra Entrate Kunst nella quale sono esposte oltre 650 opere di 112 artisti. L'esposizione si propone di mostrare al pubblico quei
generi artistici non ammessi dalla nuova "razza superiore" e l'inaugurazione simbolicamente avviene il giorno dopo quella della Grande
Rassegna di arte Germanica, che comprendeva invece opere gradite al regime. L'esposizione Entartete Kunst, inaugurata da Hitler e Göbbels, è
accompagnata da un catalogo illustrato che spiega i fini della manifestazione e presenta le opere raggruppandole sotto vari temi dai significativi
titoli: "Manifestazioni dell'arte razzista giudaica"; "Invasione del bolscevismo in arte"; "La donna tedesca messa in ridicolo"; "Oltraggio agli eroi"; "
I contadini tedeschi visti dagli ebrei"; "La follia eretta a metodo"; "La natura vista da menti malate". Per la copertina del catalogo viene scelta
un’opera "primitivista" di Otto Freundlich (1848-1943), artista noto soprattutto per il suo percorso verso l’astrazione ravvisabile anche nella
geometrizzazione di questa scultura. L’opera è "degenerata" perché il malato di mente non rappresenta la sana bellezza ariana. Le opere
esposte hanno didascalie dispregiative e soprattutto viene indicato il prezzo che i musei tedeschi avevano precedentemente pagato agli
"speculatori ebrei". Le tele esposte sono circondate da slogan che puntano a metterle in ridicolo e sono accompagnate, a titolo di confronto, dai
disegni di veri malati mentali. Per un curioso destino "Entartete Kunst" ebbe un successo di gran lunga maggiore della Grande Rassegna di arte
Germanica. La sua apertura dovette essere prolungata ed il pubblico (alla fine dell’esposizione itinerante si conteranno più di un milione
duecentomila persone) fu costretto a lunghe attese prima di vederla, attratto soprattutto dallo scandalismo suscitato dal divieto di visione per i più
giovani. Entartete Kunst costituisce una drammatica spettacolarizzazione dei rischi e delle minacce che incombono sulla libertà artistica, sotto
qualsiasi dittatura, e offre il pretesto per approfondire la capacità di influenzare e manipolare le coscienze, capacità che i media hanno via via
acquisito durante il secolo XX. I nazisti, con sapiente regia ed efficace propaganda, distruggono alcune opere d’arte in pubblico, così da creare
quelli che con disprezzo sono appellati "martiri". Il modo in cui lo fecero funzionò e così tutta l’arte d'avanguardia venne etichettata come
"incomprensibile", contribuendo di molto ad un tipico luogo comune del XX secolo..
Marc Chagall
Marc Chagall
Vita: Marc Chagall, nato a Vitebsk nel 1887, ebreo di nascita, cresce nella provincia
lituana dove frequenta la scuola ebraica. Studiò a San Pietroburgo dal 1906, pur
ritornando spesso a Vitebsk. In questo periodo l’artista inizia a farsi un nome e, grazie
ad un mecenate, nel 1910 poté andare a Parigi. Qui conosce le nuove correnti del
momento, particolarmente il Fauvismo e il Cubismo. Si inserisce negli ambienti
artistici d'avanguardia. Frequenta tra gli altri Guillaume Apollinaire e Robert Delaunay.
A Parigi la cultura ebraica dell’artista si fonde con i nuovi stimoli delle avanguardie e
nel 1914 inaugura la sua prima mostra. In questo periodo alterna lunghi periodi a
Berlino. Il pittore ama queste due città dove si sviluppano i movimenti dai quali Chagall
è attratto: cubismo ed espressionismo. Nel 1914 Chagall ritorna in Russia dove, a
causa della guerra, rimane fino al 1922 come Commissario delle Belle arti nella città
natale. Il sopraggiungere della guerra nel 1914 lo fa rientrare a Vitebsk. Qui fonda
Il profeta Geremia, 1968
l'Istituto d'Arte, di cui è direttore fino al 1920, quando gli subentra Malevich. Si
Il profeta Geremia è un personaggio ricorrente nelle opere a carattere
trasferisce a Mosca. Nel 1923 ritorna a Berlino e successivamente a Parigi. Sono di religioso di Chagall e in questo dipinto la presenza di un angelo chino
questo periodo i lavori prodotti per il Teatro Ebraico a Mosca che rivelano il desiderio su di lui conferisce all'insieme una speranza, quella della rinascita di
Gerusalemme e della fine dell'esilio del popolo ebraico.
dell’artista di dare alla sua pittura una portata monumentale. Accanto alla sua attività
Il
profeta
è accovacciato al centro della composizione e tiene tra le
di scenografo teatrale prosegue quella di illustratore d'opere a stampa (Gogol, La
mani un libro, forse le Lamentazioni, mentre un angelo si libra su di lui.
Fontaine, Boccaccio, ecc.) e gli anni venti e trenta si contraddistinguono per
Dietro alle due figure - iscritte entro uno spazio semicircolare che
un’intensa produzione grafica. In seguito, effettua viaggi in Europa e anche in
conferisce sacralità alla scena - si intravede Gerusalemme, avvolta da
Palestina. L'ascesa del nazismo al potere in Germania blocca il suo successo e utte le una luce gialla, quasi di fuoco, da cui una coppia abbracciata sale
opere di Chagall vengono confiscate ai musei tedeschi. Alcune figurano nell'asta
verso il cielo.
tenuta alla Galerie Fischer di Lucerna nel 1939. Nel 1941 Chagall si rifugia in America.
Il figliol prodigo , 1975-1976
Nel 1947 fa ritorno a Parigi, e nel 1949 si stabilisce a Vence. Muore a Saint-Paul-deStupefacente in quest'opera è la
Vence nel 1985.
modernità dei costumi dei
L’opera: Maestro del colore e della luce, straordinario inventore di immagini, sempre
protagonisti, mezzo che Chagall
fedele a una propria, inconfondibile iconografia, a un approccio all'arte assolutamente
utilizza per attualizzare la
parabola narrata nella Bibbia. La
personale. Marc Chagall ha attraversato quasi per intero da protagonista il secolo
scena è ambientata in un
delle avanguardie storiche e dei grandi rivolgimenti pittorici, non rinunciando mai al
villaggio russo, con l'intera
suo linguaggio d'immediato riscontro in cui sogno e realtà si compenetrano per dare
popolazione riunita ad osservare
vita a una stupefacente dimensione poetica. Incuriosito da Cubismo, Futurismo e dalle
il ricongiungimento del padre
intuizioni cromatiche dei Fauves, poi considerato dai Surrealisti come un loro
con il figlio. La medesima cosa
precursore, egli, ha esplorato, solitario, il suo mondo pervaso dal sogno e dall'incanto,
fa anche l'artista, che si è ritratto
in cui convivono tradizioni ebraiche e antiche fole russe. Nelle sue opere, infatti,
nell'angolo in basso a
Chagall è riuscito a coniugare il quotidiano con l'eterno, le sofferenze e le miserie della
destra.
vita con il miraggio di un'esistenza migliore.
Altre opere di Chagall
Le opere di Chagall
Resistenza, 1937-1948
Questo dipinto fa parte del famoso Trittico
(Resistenza, Resurrezione, Liberazione),
dipinto da Chagall al ritorno dal viaggio in
Polonia. Come gli altri due pannelli, anche
questo deriva da una composizione ispirata ai
tragici eventi della Rivoluzione russa, intitolata,
appunto, Rivoluzione (1937). Gli studi
preparatori oggi consentono di intuire quella
che doveva essere l'opera originale, nella
quale una folla in armi si mischia al silenzio
meditativo di un rabbino chino sulla Torah.
Chagall, non appena raggiunto dagli echi del
dramma degli ebrei, nel 1943 taglia la tela:
mantiene la presenza della folla in Resistenza,
di saltimbanchi e innamorati in Liberazione e
introduce la presenza di Cristo in Resistenza e
Resurrezione.
Liberazione, 1937-1957
Terminato nel 1952, si tratta
dell'ultimo pannello del Trittico
(Resistenza, Resurrezione,
Liberazione) e riprende la parte
destra del quadro originale,
Rivoluzione, modificandone la
composizione generale. La parte
centrale è occupata da una forma
circolare gialla e rossa che,
probabilmente, simboleggia il sole
glorioso o la ruota del destino. Sulla
circonferenza si distinguono figure
care a Chagall: saltimbanchi,
musicisti, acrobati, danzatori.
Composizione gioiosa e luminosa,
proclama la vittoria della vita e
dell'arte sulla morte
Le porte del cimitero, 1917
Parigi, Musée national d'art
moderne
Nel dipinto è raffigurato uno dei
cimiteri ebraici di Vitebsk. Sulla
sommità dei pilastri d'ingresso vi sono
due date scritte in ebraico, 1812-1890,
che potrebbero essere quelle della
tomba del nonno materno di Chagall.Il
timpano centrale è sormontato da una
stella di Davide con la data 1890, che
sembra coincidere con una violenta
recrudescenza dell'antisemitismo in
Russia. Su entrambi i pilastri e
sull'architrave si legge - sempre in
ebraico - il testo della visione di
Ezechiele (37,1-19), preannuncio delle
sofferenze del popolo di Israele e della
promessa di resurrezione.
Re Davide, 1951
Re Davide, incoronato, con la
barba verde e il viso che
sembra emanare una luce
dorata, suona l'arpa, mentre un
angelo sulla destra regge un
candelabro e porta con sé
Betsabea. Nell'angolo superiore
destro l'artista si è ritratto
mentre dipinge la scena.
Nell'angolo inferiore destro,
invece, il profeta accovacciato
potrebbe essere Geremia che
annuncia la caduta di
Gerusalemme, oppure Nathan,
che aveva predetto a Davide le
conseguenze disastrose di
alcune sue azioni.
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Quel che dobbiamo agli ebrei