Presenze straniere:
viaggi di opere,
itinerari d’artisti
nel Quattrocento
di Enrico Castelnuovo
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in La pittura in Italia, Il Quattrocento, vol. II, Electa,
Milano 1986 e 1987
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Le presenze di artisti stranieri in Italia nel Quattrocento, vuoi attraverso soggiorni e viaggi, vuoi attraverso l’invio di opere – si tratta di casi diversi, ma che
vanno ambedue presi in considerazione – debbono essere lette e interpretate tenendo conto di alcuni profondi
e radicali mutamenti che vennero a cambiare la fisionomia del secolo.
In un primo momento infatti i vari centri italiani partecipano con maggiore o minore originalità, con contributi piú o meno cospicui al gran mondo cosmopolita del
gotico internazionale. Certi aspetti, certe formule, certi
stilemi, certe strutture formali, certi modi di impaginare, di rappresentare una scena, un personaggio si erano
diramati dappertutto attraverso intrecci tanto sottili e
scambievoli che riesce difficile se non impossibile stabilire un chiaro bilancio del dare e dell’avere. Le corti
furono le istituzioni che promossero certi tipi di attività
artistica, certe tecniche, certi modi e che li diffusero
capillarmente attraverso legami familiari, scambi di artisti, circolazioni di opere; che ne fecero dei modelli egemoni destinati ad essere ammirati ed imitati negli
ambienti piú diversi. Le corti di Francia, di Boemia, di
Aragona, dei Visconti, furono centri elaboratori e diffusori del nuovo stile. In particolare stretto fu il legame
della corte viscontea con quelle francesi, legame rinforzato dalle nozze di Valentina figlia di Galeazzo Viscon-
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ti con Luigi d’Orléans, fratello del re di Francia che
ebbero luogo nel 1389.
Un esempio di questi legami e di questi rapporti è la
presenza alla corte viscontea – oggi, in assenza di opere,
enigmatica ed elusiva – di Jean d’Arbois che nel 1437
l’umanista lombardo Decembrio celebrerà tra i grandi
artisti. Con ogni probabilità Jean d’Arbois, che fu pittore anche alla corte di Francia e che dovette essere il
padre di Stefano da Verona, risiedette e lavorò a Pavia
sino al declinare del secolo. Del pari significativa è, al
gran cantiere del Duomo di Milano nel 1399, quella di
uno straordinario artista francese, Jacques Coëne, da
identificarsi probabilmente con l’anonimo «Maestro del
Maresciallo di Boucicaut», stella di prima grandezza del
panorama artistico europeo nel primo Quattrocento.
Negli stessi anni miniatori italiani lavorano a Parigi e un
pittore boemo lavora per il vescovo di Trento Giorgio
di Liechtenstein dipingendo nella torre dell’Aquila del
Castello del Buonconsiglio uno dei pochissimi grandi
cicli profani giunti sino a noi del gotico internazionale.
Nelle piccole e grandi corti delle zone alpine gli incontri e gli scambi tra pittori nordici e italiani sono frequenti e intensi, un pittore di nome Boso che aveva
lavorato per il duca di Berry incontra e verisimilmente
influenza Jacopo Jaquerio alla corte di Amedeo VIII, l’avignonese Jacques Iverny dipinge un trittico (Torino,
Galleria Sabauda) per un ramo dei signori di Ceva, mentre Jean Bapteur, pittore del Duca di Savoia e autore con
Perronet Lamy della splendida Apocalisse dell’Escorial,
compie nel 1427 un lungo viaggio in Italia al seguito di
Manfredi di Saluzzo, maresciallo di Savoia.
Se corti e città alpine sono luogo di incontri artistici, non meno lo sono i grandi centri portuali; pittori italiani lavorano nella penisola iberica e ne ritornano pieni
di nuove idee, celebre è il caso dello Starnina i cui affreschi eseguiti al Carmine nel 1404 dopo il ritorno dalla
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Spagna dovettero avere effetti dirompenti sui pittori fiorentini, artisti spagnoli e lusitani lavorano in Italia,
come è il caso del portoghese Alvaro Pirez attivo tra
Pisa, Lucca e Volterra tra il 1410 e il 1435 circa (uno
stupendo trittico del Museo di Braunschweig del 1432
ce lo mostra pieno di raffinati ed affettuosi umori gotici) e Pisa rimarrà per tutto il secolo un centro dove
approderanno opere e pittori spagnoli e portoghesi
(come il portoghese Luigi Giani autore nel 1452 di un
San Cristoforo oggi nel Museo di San Matteo). Quanto
alle isole, alla Sicilia, alla Sardegna la situazione politica stimola i rapporti con la Spagna, nomi di pittori spagnoli (purtroppo senza opere corrispondenti) sono conosciuti e un bellissimo gruppo di dipinti iberici è presente nell’area di Siracusa nel primo Quattrocento, mentre
notizie e opere di pittori catalani e aragonesi abbondano in Sardegna sugli inizi del Quattrocento.
Per i primi decenni del Quattrocento il problema
della presenza di artisti e di opere straniere in centri italiani si pone in modo non traumatico, all’interno di
quell’ampia circolazione, aperta a tanti diversi contributi, dell’arte gotico-internazionale. La situazione subisce una fondamentale svolta a partire dal decennio
1430-40 quando la fisionomia della pittura europea
comincia a trasformarsi in modo radicale in conseguenza dello stabilirsi di due centri innovatori situati l’uno
a Sud in Toscana, l’altro a Nord nelle Fiandre: di fronte alla diffusione di nuovi linguaggi prende lentamente
a declinare la poetica fondamentalmente unitaria del
gotico internazionale. La presenza di opere e di artisti
stranieri in Italia assumerà, da questo momento, un
nuovo significato permettendo l’instaurarsi di quella
feconda dialettica tra Mezzogiorno e Settentrione, tra
Italia e Fiandre che rimarrà per tutto il secolo elemento costante. Stabilire un corretto bilancio di questi rapporti significherebbe fare la storia della pittura europea
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del Quattrocento, un aspetto fondamentale del secolo
essendo proprio il dialogo tra i due centri che polarizzano le tendenze formali del tempo, che forniscono schemi rappresentativi a tutta la pittura dell’Occidente.
Parlare di dialogo tra due centri polarizzanti significa schematizzare al massimo la situazione. In realtà le
congiunture furono le piú diverse, accanto a quelle
italo-fiamminghe, quelle italo-francesi, quelle italo-germaniche e, particolarmente frequenti e costanti, quelle
italo-iberiche. E tuttavia, a partire dal 1440 circa, anche
nelle opere di pittori iberici, francesi o tedeschi il dialogo – quando esiste – si instaura sempre tra dati formali risalenti in ultima analisi a matrici fiamminghe e ad
altri di origine italiana.
La diffusione del linguaggio fiammingo avvenne in un
primo tempo con maggiore rapidità e in un’area assai piú
ampia rispetto a quella in cui trovò ascolto il linguaggio
toscano. Tra lo stile «internazionale» dominante verso
gli anni trenta e il nuovo linguaggio di Robert Campin
(il cosiddetto «Maestro di Flémalle») Jan van Eyek e
Roger van der Weyden la cesura non era cosí forte come
quella esistente tra il medesimo stile «internazionale» e
l’arte di Masaccio, dell’Angelico, di Brunelleschi, dell’Alberti, di Donatello. D’altra parte il prestigio di cui
godeva la corte di Borgogna sul piano dei valori, della
moda, dello stile di vita era impareggiabile mentre la
posizione geografica delle Fiandre – i loro tradizionali
rapporti politici, economici e culturali con ampie aree
dell’Europa dalla Francia, all’Inghilterra, alla Germania,
alla Spagna – contribuí alla rapida circolazione di modi
e formule pittoriche. Le opere dei grandi maestri del
Nord rispondevano a certe attese, le soddisfacevano,
apparivano autentici capolavori della tecnica pittorica
con il loro modo inarrivabile di evocare la realtà, di rendere le luci, i riflessi, l’epidermide delle cose, con i loro
miracolosi paesaggi lenticolari, con le loro ammirevoli
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espressioni fisionomiche, la loro capacità di restituire lo
spessore e quasi la materia di un broccato, il brillio di
una pietra preziosa. Piú intellettuali erano i valori che
alcuni artisti toscani ricercavano, attraverso l’adozione
di un metodo scientifico quale quello prospettico, attraverso una riflessione sui modelli dell’antichità e sul
modo di renderli attuali. L’artista toscano si accosta –
nella sua ricerca di un nuovo metodo scientifico di rappresentazione dello spazio, nella sua esplorazione antiquaria, al matematico, al geometra, all’umanista, l’artista fiammingo, anche se la sua posizione sociale è molto
cresciuta e può essere ormai, come avvenne a Van Eyck,
un personaggio importante della corte, resta, al limite,
all’interno del mondo degli artigiani sia pur di quelli di
piú alto livello. Entro la fine del secolo saranno i modelli italiani a prevalere, ma la strada sarà lunga. Tanto piú
significativo il seguire i viaggi degli artisti e delle opere,
gli incontri, le riflessioni, i contatti, le influenze. Non
esiste praticamente nessun grande centro artistico in
Italia dove i modelli fiamminghi non siano arrivati e non
siano stati apprezzati, non si trattava necessariamente di
opere e di pittori provenienti dalle Fiandre, poteva trattarsi di spagnoli, di tedeschi, di francesi che tuttavia avevano come cultura di fondo una cultura fiamminga.
Accanto ai dipinti giunsero in misura ancora piú rilevante gli arazzi importati o eseguiti da maestri chiamati dal Nord. Da Genova a Napoli, da Ferrara a Firenze,
da Urbino e da Pesaro a Roma, da Milano a Chieri, da
Pisa a Lucca, dalla Sicilia alla Sardegna pittori (e opere)
nordici sono presenti e ammirati, lasciano tracce importanti, e ricevono, naturalmente, qualcosa in cambio, un
qualcosa che, in certi casi, darà luogo a ibridazioni
straordinarie: nel caso di Jean Fouquet e di Michael
Pacher a creazioni che sono tra le piú alte del Quattrocento europeo.
Napoli, Genova e Chieri sono tra i casi piú signifi-
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cativi, il primo addirittura esemplare per l’intreccio tra
avvenimenti politici ed artistici. L’ultimo angioino di
Napoli fu lo sfortunato (politicamente parlando) Renato, un dinasta che tanto amava la pittura che, per quanto il caso sociologicamente parlando sia molto singolare, l’avrebbe praticata egli stesso sicché – secondo il
Summonte in una lettera scritta all’amatore veneto
Marco Antonio Michiel – avrebbe insegnato personalmente a Colantonio la tecnica dei pittori fiamminghi. È
probabile che la fama di grande artista di cui godette re
Renato sia stata un poco esagerata, certo è che accanto
a lui, per molti anni, sia in prigionia che a corte, visse e
lavorò un grandissimo pittore, che si vuole oggi identificare in Barthélemy Eyck, l’autore della splendida
Annunciazione di Aix-en-Provence, il magico miniatore
di un testo scritto dallo stesso sovrano nel 1457, il Cuer
d’Amor Epris, e che questo grande artista dovette, accanto al re, risiedere a Napoli tra il 1438 e il 1442 con conseguenze molto rilevanti sulla situazione della cultura
figurativa cittadina. Con la vittoria di Alfonso d’Aragona l’atmosfera artistica napoletana non cambia di
molto. Il re chiama a Napoli un pittore catalano, Jacomart Baço facendone il pittore di corte e commissionandogli un retablo, oggi perduto, per una cappella della
chiesa di Santa Maria della Pace presso Poggioreale,
acquista nel 1445 un San Giorgio a cavallo di Jan van
Eyck, nel 1452, in occasione della visita dell’imperatore Federico III, sposato con Eleonora d’Aragona, nipote di Alfonso, ordina in Fiandra arazzi con le storie di
Salomone e della regina di Saba e altri arazzi fiamminghi acquista in seguito, tra cui quattro panni con Storie
della Passione di Cristo, di Van der Weyden ricordati dal
Facio e dal Summonte, viene poi in possesso intorno al
1456 di una importantissima opera di Van Eyck, perduta ma descritta dal Facio, il trittico che era stato commissionato dal genovese Battista di Giorgio Lomellini,
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e annovera tra le sue opere piú care, secondo l’umanista Pontano, una Sacra Famiglia sempre di Van Eyck.
Verso il 1456 il genovese Bartolomeo Facio, che a
Napoli era arrivato con un’ambasceria genovese nel
1444 in compagnia proprio del committente di Van
Eyck, Battista Lomellini, nella sua opera De Viris Illustribus dedica due celebri passaggi a Jan Van Eyek
«Nostri saeculi pictorum princeps» e a Roger van der
Weyden. Il primo storiografo dei grandi pittori fiamminghi è dunque un genovese, operante a Napoli nell’ambiente di Alfonso di Aragona e anche questo fatto,
accanto alle vicende del trittico Lomellini, mostra come
le due grandi città mediterranee fossero accomunate
dall’interesse per la nuova pittura fiamminga.
Esempi di altri artisti fiamminghi non dovettero
mancare e forse era ab antiquo nel Regno quella Morte
della Vergine di Petrus Christus, giunta al Museo di San
Diego in California dalla palermitana collezione Santocanale. Napoli poi restò un centro di straordinaria
importanza per i pittori spagnoli e qui devono essere
sbarcati, nell’ottavo decennio del secolo, pittori del calibro di un Pedro Berruguete, poi operoso ad Urbino e
Bartolomé Bermejo di cui si conserva in Piemonte, ad
Acqui Terme, una splendida Madonna col Bambino,
centro di un trittico che dovette essere dipinto a Valenza intorno al 1482-84 con la collaborazione (nelle due
ali) di Rodrigo de Osona il Vecchio.
A Genova il canale di diffusione delle opere fiamminghe non fu quello aristocratico della corte e del
monarca, ma quello dei grandi banchieri e uomini di
affari operosi in Fiandra. Accanto a Lomellini è Michele Giustiniani che fece dipingere con le sue armi il piccolo trittico di Van Eyck oggi a Dresda (1437). Di origine genovese, anche se appartenente a un ramo della
famiglia da tempo nel Nord, era quell’Anselme Adornes
che lasciò in testamento alle figlie due quadretti con le
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Stimmate di San Francesco di mano di Van Eyck, da
identificarsi probabilmente con i due esemplari, di
dimensioni un po’ diverse, di Torino e di Philadelphia.
Forse da Genova erano passate anche altre opere fiamminghe, come la Madonna di Van Eyck del 1433 di cui
è una replica la Madonna di Ince Hall (ora a Melbourne).
Sempre a Genova – lo ricorda Bartolomeo Facio – era
una «tabula praeinsignis» di Roger van der Weyden.
Qui il pavese Donato de’ Bardi, ove pure non si sia personalmente avventurato in un periplo nordico, dovette
avere la possibilità di studiare quelle opere che della sua
splendida Crocifissione di Savona fecero un’opera «piú
amica di Van Eyck e di Petrus Christus che di Masaccio» (Longhi). Donato dipinge la sua Crocifissione prima
del 1451 l’anno in cui Giusto di Ravensburg, un pittore della Germania meridionale profondamente toccato
dai modi fiamminghi, dipinge in Santa Maria di Castello la sua nordica Annunciazione fitta di particolari
eyckiani. Piú tardi arrivi di pittori tedeschi, e verso la
fine del secolo, frequenti invii di Fiandra (tra questi lo
splendido trittico di San Lorenzo alla Costa, presso Santa
Margherita Ligure che Andrea da Costa fece dipingere
nel 1499 a Bruges da un pittore che il Longhi suppose
essere Quentin Metsys) aggiorneranno la pittura genovese sulle ultime novità del Settentrione.
A nord di Genova, a Chieri, nel cuore del Piemonte, grazie alla committenza dei Villa attivissimi finanzieri e uomini di affari stabiliti in Fiandra, la pittura di
Rogier van der Weyden era di casa. Era qui il trittico
giovanile che aveva al centro l’Annunciazione, oggi al
Louvre (i laterali con la Visitazione e un devoto in orazione sono alla Galleria Sabauda a Torino), qui il trittico della Crocifissione, leggermente posteriore (oggi nella
fondazione Abegg a Riggisberg presso Berna), qui ancora, in una cappella della chiesa, oggi distrutta, di Sant’Agostino, il polittico con Storie di Giobbe (oggi al Wall-
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raf-Richartz Museum di Colonia) opera di allievi di
Rogier, il «Maestro di Santa Caterina» e un suo collaboratore, commissionato da Claudio Villa e dalla moglie
Santina Solaro. L’intero Piemonte occidentale fu del
resto, come in questa stessa opera ha mostrato Riccardo Passoni, teatro per tutto il secolo di scambi e di
incontri assai intensi tra cultura figurativa fiamminga e
franco-fiamminga e cultura mediterranea. Lionese fu il
pittore dei Duchi Nicolas Robert e d’oltralpe scese pure
Hans Clemer (il «Maestro d’Elva») che lavorò nel Marchesato di Saluzzo alla fine del Quattrocento; mentre
ricchi quanto significativi intrecci culturali si manifestano nell’opera di due grandi anonimi, operosi a Torino, ma non solo qui, negli ultimi decenni del secolo: il
«Maestro della Trinità di Torino» e il «Maestro della
Sant’Anna».
A Venezia e nel Veneto le note del Michiel certificano la presenza ad antiquo di opere fiamminghe, e la
splendida Crocifissione, quanto mai eyckiana, della Ca’
d’Oro, sembra aver avuto una grande importanza ed
influenza. Riflessi di questo dipinto, che doveva trovarsi
a Padova, si avvertono in opere che appartengono
all’ambiente squarcionesco ed arrivano fino all’area
umbro-marchigiana, al Boccati per esempio. Per Domenico Veneziano l’aver potuto studiare nella sua città di
origine dei testi fiamminghi ha certo avuto una grande
importanza e di questo si rendeva conto il Vasari quando gli attribuisce il merito di aver portato a Firenze il
segreto della pittura ad olio. Michiel segnala una sola pittura di Van Eyck nel Veneto (una «caccia alla lontra»
nella casa del filosofo Leonico Tomeo a Padova), ma cita
esempi di Memling, di Van der Weyden, di Albert
Ouwater. Piú tardi, in Venetia città nobilissima Francesco Sansovino ricorda in Santa Maria dei Servi una pala
«col Presepio e coi tre Magi» di Giovanni da Bruggia
(alias Jan van Eyck). La presenza di queste opere fu
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occasione di un altro grande incontro tra Nord e Sud il
cui protagonista fu Giovanni Bellini che mostra di
apprezzare Rogier e Jan van Eyck. La sua meditazione
sul linguaggio fiammingo, già presente fin dai trittici
della Carità, assume maggiore ampiezza sugli inizi dell’ottavo decennio del secolo, un momento in cui la ricezione degli esempi fiamminghi da parte degli artisti
veneziani è al suo punto massimo come si avverte nella
Natività di Maria di Bartolomeo Vivarini in Santa Maria
Formosa (1473) o nel ritrattino Fugger dello stesso Bellini (1474). E di questi anni è la pala di Pesaro dove Bellini adotta per la prima volta la tecnica ad olio e che rappresenta uno dei piú alti risultati di quel colloquio tra
Settentrione e Mezzogiorno che Bellini proseguirà con
aggiornamenti costanti in stupefacenti capolavori. E in
questo tempo (1476) Antonello da Messina giunge a
Venezia.
L’ambiente della corte milanese continuò, anche
dopo il declinare dello «stile internazionale» qui piú a
lungo e splendidamente sopravvissuto, ad essere aperto
verso il Nord. Emblematico è il caso di Zanetto Bugatto che Bianca Maria Sforza in persona invia a Bruxelles
ad istruirsi nella bottega di Rogier van der Weyden tra
il 1460 e il 1463. Un fatto che ricorda il caso, avvenuto molti anni prima, del valenzano Lluis Dalmau inviato nel 1431 a Bruges per un soggiorno di studio, il cui
risultato, la Madonna dei Consiglieri del 1445 a Barcellona, è uno dei quadri piú fiamminghi che siano stati eseguiti fuori dalle Fiandre.
Questi esempi, che potrebbero moltiplicarsi (di analoghe testimonianze disponiamo per Napoli), mostrano
come un po’ dappertutto in Europa Bruges e Bruxelles
fossero considerate le capitali, le autentiche università
della pittura. È milanese anche un documento dell’11
marzo 1456 che parla della presenza nella città di un
Antonellus Sicilianus e di un Petrus de Burges. Per
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quanto la cosa sia suggestiva è molto improbabile concludere – come è stato ipotizzato – che un incontro
debba essere qui avvenuto tra Petrus Christus e Antonello da Messina. Ma indiscutibili sono i documenti
riguardanti Zanetto Bugatto, come è da ricordare la
presenza, segnalata dal Michiel, di un ritratto di mano
di Van Eyck in casa Lampugnani e le significative menzioni che di Van Eyck e di Roger si incontrano nel trattato del Filarete.
Milano assume poi un particolare ruolo (e questa
volta nella trasmissione di schemi italiani) per gli artisti
transalpini dopo l’arrivo di Bramante, è qui che deve
arrestarsi, verso il 1490-95 Juan de Borgoña che per il
Longhi fu il massimo tra gli italianizzanti spagnoli e che
in certe sue opere è molto prossimo allo Zenale. Cosí
molto devono alla cultura bramantesca milanese certi
pittori provenzali come il grande «Maestro di San Sebastiano» (probabile Josse Lieferinxe) senza che si possa
affermare per ora se questa lezione sia stata diretta –
attraverso un soggiorno –, per l’influenza del suo collaboratore piemontese Simondi, o per altri tramiti.
Ferrara è un’altra corte dell’Italia settentrionale dove
fiamminghi e transalpini sono all’onore. Sappiamo come
nel 1450 un Alfonso Spagnolo abbia lavorato nello studiolo di Belfiore ricevendo un’alta retribuzione. Nello
stesso anno, o forse già in quello precedente, è possibile che lo stesso Rogier van der Weyden fosse a Ferrara,
durante il suo viaggio in Italia in occasione dell’Anno
Santo. Di certo sappiamo quanto la pittura di Rogier
fosse cara a Lionello d’Este che, nel 1449, mostra all’umanista Ciriaco d’Ancona un trittico con la Deposizione e la Caduta, la stessa opera che nel 1456 verrà descritta da Bartolomeo Facio e che verisimilmente è quella che
viene pagata a Rogier nel 1450 via Bruges attraverso
Paolo Pozio, uomo d’affari italiano.
Si aggiunga poi che Rogier dipinse un ritratto di Fran-
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cesco d’Este il figlio naturale di Lionello (oggi al Metropolitan Museum di New York) che era stato inviato in
giovane età, nel 1444, alla corte di Borgogna per esservi educato. Un’altra prova di questo sguardo rivolto al
Nord è offerta dal Ritratto del buffone Gonella (oggi a
Vienna), celebre personaggio della corte di Niccolò II,
padre di Lionello, che Otto Paecht ha attribuito a Fouquet.
Anche nella corte che un ramo della famiglia Sforza
tenne a Pesaro le opere fiamminghe erano ricercate
appassionatamente. Alessandro Sforza torna nel 1458
da un soggiorno in Borgogna e nelle Fiandre e probabilmente porta con sé opere che aveva commissionato a Van
der Weyden (sempre che alcune di queste non fossero
state precedentemente eseguite dall’artista durante una
possibile sosta a Pesaro del suo «iter italicum»). Tra queste è il cosiddetto Trittico Sforza, oggi a Bruxelles ed
altre oggi perdute (un inventario del 1500 prova che
Giovanni, nipote di Alessandro possedeva ben tre quadri di «Ruzieri da Burges»). Fu forse il gusto di Alessandro, che influí, su quello di Federico da Montefeltro,
a lui imparentato, spingendolo a cercare nelle Fiandre un
«maestro solenne» (secondo l’espressione usata da Vespasiano da Bisticci) che fu trovato in Giusto de Gand (a
Urbino nel 1473-74). Ma in questa città l’interesse per
le opere fiamminghe doveva avere solide radici dato che
vi si trovava un fondamentale quadro di Van Eyck, quel
Bagno di donne, in possesso di Ottaviano Ubaldini della
Carda, nipote e consigliere di Federico, che il Facio
descrive con entusiasmo e che dovette essere una autentica summa di raffinatezze ottiche. Accanto a Giusto di
Gand lavora ad Urbino Pedro Berruguete (nel 1477 un
documento accerta la presenza nella città di un pittore
Pietro spagnolo) la cui opera in sommo grado partecipa
al grande sforzo di sintesi formale su cui convergono i
massimi ingegni figurativi del tempo.
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La presenza ad Urbino di pittori transalpini quali
Pedro Berruguete e Giusto di Gand propone un punto
centrale del rapporto tra l’Italia e i pittori stranieri,
quello del viaggio in Italia. In molti casi, si è visto, sono
le opere nordiche a varcare le Alpi o piuttosto a giungere per nave nella penisola. Ma in altri sono i pittori
stessi a muoversi. Uno dei casi piú precoci di intelligenza con la nuova pittura italiana è quello di un portoghese, Giovanni Consalvo, discepolo dell’Angelico in
San Marco nel 1435 e autore verso il 1438 del ciclo di
affreschi che decora le pareti del Chiostro degli Aranci
della Badia Fiorentina, un artista che apre gli occhi su
quanto vede a Firenze attorno a lui e sperimenta la
nuova pittura prospettica. Un altro caso, il piú grande
e di maggiori conseguenze, è quello di Jean Fouquet;
due autori italiani: il Filarete nel suo trattato di architettura scritta attorno al 1462 e l’umanista fiorentino
Florio in una lettera da Tours del 1478 attestano come
a Roma egli abbia dipinto su una tela un ritratto di papa
Eugenio IV (morto nel 1447) con due suoi familiari che
venne collocato in Santa Maria sopra Minerva. L’opera dovette, per i suoi caratteri realistici e nuovi, colpire molto i contemporanei, trattandosi di un ritratto
complesso, di tre quarti, con diversi personaggi; tale era
la sua singolarità che fu addirittura in grado di influenzare piú tardi il Ritratto di Leone X e di due suoi familiari di Raffaello. È certo che Fouquet si spinse a Firenze e a Ferrara, se non a Napoli e delle riflessioni che
poté fare sulla nuova pittura prospettica e sulle forme
antichizzanti che veniva assumendo l’architettura le
tracce sono evidenti nel superbo dittico di Etienne Chevalier, un tempo a Melun e ora diviso tra Berlino ed
Anversa, e nelle miniature con cui illustrò, nel sesto
decennio del secolo, un libro d’ore per il medesimo
committente. Attraverso la comprensione dell’arte
toscana Fouquet riesce ad equilibrare e a trasformare le
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influenze fiamminghe e trova una nuova via per esprimere quel suo senso del volume possentemente scultoreo che lo apparenta alla grande tradizione plastica francese. Pochi anni dopo Fouquet, intorno al 1450, Rogier
van der Weyden scende in Italia. Il suo nome è notissimo e le sue opere sono da tempo ricercate nelle corti
della penisola; tra i banchieri e gli uomini d’affari italiani ha degli ammiratori incondizionati. Durante il
viaggio esegue, con molta probabilità alcune opere che
presentano elementi improntati all’arte italiana, tuttavia meno evidenti e deflagranti di quelli avvertibili in
Fouquet. La Lamentazione sul Cristo, oggi agli Uffizi,
testimonia con certezza della conoscenza che il fiammingo ebbe della pittura dell’Angelico in quanto il quadro si riferisce esplicitamente a una composizione del
pittore fiorentino databile intorno al 1440 ed oggi a
Monaco di Baviera. È possibile che – come ha suggerito Aby Warburg – il quadro risultasse già in un inventario di Lorenzo de’ Medici del 1492. Altra opera eseguita durante il soggiorno italiano, o che almeno ne
reca le tracce, è la cosiddetta Madonna Medici, acquistata nell’Ottocento a Pisa e oggi a Francoforte. La
presenza del giglio fiorentino e dei santi dottori Cosma
e Damiano ha fatto pensare che la commissione ne fosse
venuta dai Medici, l’impaginazione dell’immagine e lo
spazioso zoccolo poligonale su cui posano i sacri personaggi confermano il carattere italianeggiante dell’opera.
Ma per Van der Weyden il viaggio in Italia non fu cosí
traumatico come lo era stato per Fouquet e non comportò certo un mutamento radicale nella sua pittura.
Un caso invece analogo a quello del Fouquet, in cui
la conoscenza di opere italiane ebbe effetti tali da produrre un tentativo di sintesi e di fondazione di un nuovo
linguaggio fu quello del tirolese Michael Pacher, sommo
scultore e pittore che, grazie a un soggiorno padovano
non documentato, ma che le sue opere provano con cer-
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Enrico Castelnuovo - Presenze straniere: viaggi di opere, itinerari d’artisti
tezza, tentò – con supremi risultati – di coniugare e di
far convergere nella sua pittura tratti nordici e mediterranei.
I casi di Van der Weyden e di Fouquet, come quelli
di Jacomart Baço, di Alonso Berruguete, di Giusto da
Gand e di tanti altri sono quelli di pittori la cui presenza fisica è documentata in Italia al di là di quella per
opere. Nel caso di Pacher la testimonianza delle opere
è inconfutabile. Ma molti furono i pittori nordici che
della pittura italiana furono amici e con l’Italia intrattennero sottili intelligenze non sappiamo se occasionate da viaggi e da quali altri tramiti, da Konrad Witz a
Petrus Christus, da Enguerrand Quarton a tanti maestri
anonimi della Germania meridionale, dal bavarese
«Maestro delle tavole Polling» al salisburghese «Maestro di Sankt Leonhard di Tamsweg», sí che troppo
lungo sarebbe un regesto delle congiunture. Sarà piuttosto il caso di concludere accennando alla presenza di
opere e artisti nordici nella città che fu il centro della
nuova pittura italiana, Firenze. Si è già parlato dell’attività di Giovanni di Consalvo, dell’arrivo di Fouquet e
di quello di Van der Weyden. Una decina d’anni dopo
il passaggio di questi un grande trittico di Nicolas Froment, pittore verisimilmente originario della Francia
del Nord e poi operoso in Provenza, viene donato a
Cosimo de’ Medici da Francesco Coppini di Prato, legato in Fiandra nel 1460-61. L’opera, datata 18 maggio
1461, fu lasciata poi da Cosimo al convento francescano di San Francesco al Bosco, nel Mugello, da lui fondato, e si trova oggi agli Uffizi. Non fu eseguita a Firenze come si è lungamente creduto, ma nelle Fiandre, il
che non toglie però che il suo autore sia stato in Italia
come fa presumere un’immagine del capo di Sant’Anastasio, da lui dipinta per l’abbazia delle Tre Fontane
presso Roma. Nel 1473 Firenze avrebbe vantato un
altro gioiello fiammingo, il trittico del Giudizio Finale di
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Memling, commissionato a Bruges dal banchiere Angelo Tani, se la nave che lo trasportava non fosse stata saccheggiata da pirati baltici che consegnarono l’opera a un
gruppo di armatori di Danzica, città dove tuttora si
trova. Altre opere di Memling erano però visibili in
Santa Maria Nuova, la tavola con storie della Passione
dipinta, secondo il Vasari, per i Portinari (oggi alla Galleria Sabauda a Torino) e un piccolo dittico oggi agli
Uffizi. Ma il piú importante arrivo fiammingo a Firenze fu il trittico, ancora una volta dipinto per i Portinari, di Hugo van der Goes che compiuto tra 1476 e ’78
fu collocato nel 1483 in Sant’Egidio. Oltre le opere
visibili nelle chiese molte erano poi quelle raccolte nei
palazzi privati, in primis presso i Medici che verisimilmente possedevano lo splendido ritratto muliebre di
Petrus Christus, oggi a Berlino, e il San Girolamo dipinto da Van Eyck e terminato da Petrus Christus nel 1442
per il cardinale Albergati, oggi a Detroit. Accanto a
Firenze, Pisa e Lucca ricevono opere fiamminghe. La
cosiddetta Madonna Lucca di Van Eyck (oggi a Francoforte, ma proveniente da una collezione lucchese) fu
certo portata in patria da un membro della numerosa
colonia lucchese a Bruges (di cui facevano parte anche
gli Arnolfini, i celebri committenti di Van Eyck) e trittici fiamminghi, come quello che F. Bologna ha attribuito al «Maestro della Santa Godelieve» e che giunse
al Museo di San Matteo dalla chiesa di San Giovanni
alla Vena, si vedevano anche a Pisa. In un caso, quello
di un’opera di un maestro fiammingheggiante, probabilmente spagnolo, una grande tavola fu trasformata in
trittico con l’aggiunta di due ali dipinte da un maestro
pisano (Pisa, Museo di San Matteo).
I pittori fiorentini della seconda metà del Quattrocento accettarono spunti, formule, suggerimenti in gran
numero dalle opere fiamminghe presenti in città, tuttavia gli elementi assorbiti rimasero piú in superficie e non
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si verificò, in questo momento di filofiamminghismo
acuto, un confronto tanto dialettico, complesso e sostanziale come era avvenuto per un Domenico Veneziano
prima, quindi per Piero della Francesca, per Giovanni
Bellini, per Antonello. Andava mutando d’altra parte,
con il finir del secolo, l’atteggiamento generale dei pittori transalpini verso l’Italia dove essi giungono ora
espressamente a cercare esempi e lezioni. Il primo viaggio di Dürer a Venezia nel 1494 è proprio un viaggio di
apprendistato, molto diverso da quello del 1450 di
Rogier van der Weyden a Roma, Firenze, Ferrara. E di
come la situazione italiana fosse estremamente piú avanzata e di come il pittore, grazie alla stessa impostazione
intellettuale della propria attività, all’immagine che di
lui e del suo ruolo si aveva, occupasse nella società un
posto diverso da quanto altrove avveniva, Dürer prende coscienza durante il suo secondo viaggio in Italia,
quando nel 1506 scrive da Venezia all’amico Pirkheimer: «Qui sono un signore; in patria nient’altro che un
parassita».
Solo qualche indicazione potrà essere data qui della
vastissima bibliografia sull’argomento:
Aby Warburg, Arte fiamminga e primo Rinascimento
fiorentino (1902) in A. Warburg, La Rinascita degli Dei
antichi, Firenze 1966, pp. 147 e sgg.; Mostra d’arte fiamminga e olandese del secolo XV e XVI, catalogo a cura di
C.L. Ragghianti, Firenze 1948; Erwin Panofsky, Early
Netherlandish Painting, Cambridge (Mass.) 1953; R.
Weiss, Jan van Eyck and the Italians, in «Italians Studies» 1956; Michael Baxandall, Bartholomeus Facius on
Painting, in «Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes» XXVII, 1964; E. Castelnuovo, Prospettiva
italiana e microcosmo fiammingo, Milano 1966; G.
Mulazzani, Observations on the Sforza Triptych in the
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Brussels Museum in «The Burlington Magazine», CXIII,
1971; C. Sterling, Le Maître de la Trinité de Turin, Études Savoyardes II in «L’Oeil» 215, 1972; M. Davies,
Roger van der Weyden, Milano s.d.
Ferdinando Bologna, Napoli e le rotte mediterranee
della pittura, Napoli 1977; Otto Paecht, Die Autorschaft
des Gonella-Bildnisses, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Samml. in Wien» LXXIV, 1978; Roberto Longhi,
‘Arte italiana e arte tedesca’ con altre congiunture fra Italia ed Europa, 1939-1969, Firenze 1979; Fiorella Sricchia-Santoro, Arte italiana e arte straniera in Storia dell’Arte Italiana, vol. III, Torino 1979 pp. 69 sgg.; Liana
Castelfranchi-Vegas, Italia e Fiandra nella pittura del
Quattrocento, Milano 1983; Michel Laclotte, Dominique
Thiebaut, L’École d’Avignon, Paris 1983; Fiorella Sricchia-Santoro, Antonello in Europa, Milano 1986.
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