ECCO LA MAPPA DEL POTERE EDITORIALE EUROPEO GROEBEL: ITALIANI TROPPO POCO CORAGGIOSI AUTONOMIA DALLE FONTI E DAI POTERI COSTITUITI VIDEOCRAZIA O PLURALISMO? LA SFIDA CONTINUA MA IL PROBLEMA È LA MANCANZA DI REGOLE di Daniele Castellani Perelli di Dennis Redmont di Vittorino Ferla di Ennio Remondino Giornali & Televisioni Who’s Who in Europe DOSSIER Quindici anni dopo il crollo del sistema comunista il panorama dei media è radicalmente cambiato. Ora, dal Baltico ai Balcani, i cittadini affamati di notizie hanno la possibilità di scegliere tra un’ampia varietà di televisioni, giornali, riviste patinate, pubblicazioni specializzate. Spesso di proprietà di case editrici occidentali, americane o europee, che si DOSSIER Ecco la mappa del potere editoriale europeo di Daniele Castellani Perelli La caduta del Muro di Berlino ha fatto tabula rasa dei vecchi editori legati ai regimi comunisti. Oggi case editrici e giornali dell’Europa centro-orientale sono controllati da gruppi “stranieri”: tedeschi, americani, francesi, svizzeri e scandinavi. Mancano gli italiani, nonostante le coraggiose iniziative pionieristiche di Mariano Volani, Niki Grauso e Rcs Eppure lo sapevano tutti, che era caduto il muro di Berlino. Negli anni Novanta il mercato dei media dell’Europa centroorientale era una landa desolata, una terra di nessuno. Arrivarono gli americani, i tedeschi, gli scandinavi, gli svizzeri e i francesi, e si comprarono tutto. E gli italiani? Il grande sonno, direbbe Raymond Chandler. Un giudizio troppo severo? Forse sì, perché gli italiani non partivano da condizioni vantaggiose, e perché non tutti rimasero a guardare. Ci furono quattro “capitani coraggiosi” (Nichi Grauso, il “Sole-24 Ore“, Mariano Volani e Rcs) che ci provarono, ma ebbero poca fortuna. Corbis Chi comanda all’Est Oggi nei Paesi dell’Europa centro-orientale dominano aziende editoriali straniere, e le opinioni pubbliche locali non se ne lamentano affatto. I tedeschi, favoriti da una storica penetrazione culturale e da una certa consuetudine di rapporti politici, sono i più presenti: sono i maggiori investitori in Repubblica ceca, e in Polonia controllano il 50% delle riviste. I gruppi principali sono Verlagsgruppe Passau (Vgp), Westdeutsche Allgemeine Zeitung (Waz), Axel Springer Verlag, Burda, Bertelsmann e RheinischBergische Druckerei- und Verlagsgesellschaft. Vgp è uno dei maggiori editori di stampa regionale in Europa. A parte le sue operazioni in Germania (15 edizioni locali) e Austria (un settimanale e un free paper), il gruppo bavarese ha ulteriormente arricchito le sue proprietà con testate in Repubblica ceca, Slovacchia e Polonia, Paese in cui è leader della stampa regionale. Dal 1990 ha cominciato ad acquisire quotidiani in Boemia, dove negli ultimi anni è arrivato a possedere il 100% dei quotidiani regionali e una parte del mercato dei quotidiani nazionali. Waz possiede un impero europeo di più di 38 giornali e 108 sono riversate a Est dopo il 1989, con alterne fortune. Ma la corsa al potere mediatico solleva una quantità di problemi. Per esempio: per guadagnare quote di mercato i nuovi padroni dei media giocano sul populismo e sul nazionalismo molto più di quanto non abbiano fatto i vecchi regimi. Con pochissimi controlli e talvolta con scarso equilibrio riviste. Il gruppo, secondo nei quotidiani tedeschi dietro Axel Springer, è in posizione dominante in Bulgaria, dove possiede i due maggiori e più influenti quotidiani, “24 Tschassa“ e “Dneven Trud“. In Croazia pubblica il secondo quotidiano e 18 riviste, in Ungheria 5 giornali, ed è presente anche in Romania, Serbia, Montenegro e Macedonia. Axel Springer Verlag è il maggiore editore di giornali in Europa: possiede più di 150 testate in 27 Paesi. La sua “Bild“, famosissimo tabloid tedesco, è il quotidiano più venduto del continente (4,5 milioni di copie). Ha lanciato nel 2003 una edizione polacca di “Bild“, “Fakt“, che ha registrato uno straordinario successo. In Ungheria pubblica otto giornali regionali, ma il settore in cui è più attivo è quello delle riviste: ne pubblica 23 in Ungheria, 16 in Polonia e 8 in Repubblica ceca. Axel Springer possiede in tutto 120 giornali o riviste in tutto il mondo e pubblica la rivista “Auto Bild“ in 35 Paesi. Burda pubblica riviste femminili di successo in Polonia, Repubblica ceca e Slovenia. Possiede 252 magazine, di cui 184 sono testate straniere, e 96 sono edite a Est. Bertelsmann è presente tramite la sua divisione della carta stampata, Gruner + Jahr. Ha una posizione solida nelle riviste in Polonia, dove nel 1996 ha anche lanciato la tv commericiale Rtl 7. Rheinisch-Bergische Druckerei- und Verlagsgesellschaft pubblica il primo quotidiano nazionale della Repubblica ceca, “Mlada Fronta Dnes“. Tra gli europei che seppero sfruttare le liberalizzazioni degli anni Novanta figurano anche colossi svizzeri, norvegesi, svedesi, finlandesi e francesi. La Ringier, che è la casa editrice più grande della Svizzera e della quale di recente è diventato consulente l’ex Cancelliere tedesco Gerhard Schröder, pubblica oggi più di 40 testate, tra giornali e riviste, in Romania, Serbia, Slovacchia (il tabloid “Novy Cas“, primo quotidiano), Repubblica Ceca (“Blesk“ è il tabloid più diffuso) e Ungheria (controlla più di 2/3 del mercato dei giornali, e il tabloid “Blikk“ è il secondo quotidiano). La norvegese Orkla ha interessi nei quotidiani di Danimarca, Norvegia e Svezia, e possiede il più grande giornale locale della Lituania, “Kauno diena“. Possiede anche due giornali regionali in Ucraina, mentre in Polonia detiene il 51% del noto quotidiano nazionale “Rzeczpospolita“. In Polonia possiede anche 13 quotidiani locali, e dopo l’acquisizione della “Gazeta Lubuska“, uno dei maggiori giornali locali del Paese, ha raggiunto una quota di mercato nazionale del 23%. Schibsted, anch’essa norvegese, controlla Eesti Media, il più grande gruppo dell’Estonia, dove è entrata nel 1995 e dove possiede la rete Kanal 2, 11 magazine e 7 quotidiani (tra cui “Postimees“, uno dei due quality paper del Paese). 99 Grazia Neri_AFP (3) DOSSIER Grazia Neri_AFP La svedese Bonnier ha una quota nel Baltic News Service, l’agenzia di Tallin, ed è uno dei due maggiori editori della Lettonia, dove pubblica tra l’altro un terzo dei regionali, oltre a “Diena“, il primo giornale. Svedese è anche Metro International (Mtg), società presente anche a Est con “Metro“, leader mondiale della free press e primo quotidiano in Ungheria. La finlandese Sanoma Magazines International pubblica “Vasta“, il primo magazine femminile ceco, e in Ungheria possiede oltre 30 riviste. Tra i francesi sono attive Vivendi Universal (una tv in Polonia) e Lagardère 100 Grazia Neri_AFP Grazia Neri_Bilderberg Group/Hachette Filipacchi (riviste femminili in Polonia, radio e magazine femminili in Repubblica ceca). Gli americani sono molto più interessati a vendere contenuti, come è sempre successo anche in Italia. Non disdegnano la tv e ignorano completamente i quotidiani. C’è Viacom (Mtv e diversi canali per bambini), The Walt Disney Company (canali in Polonia e Romania), Aol Time Warner (8 canali), Liberty Media (Upc è la maggiore compagnia via cavo in Europa), Cme (5 canali leader nei rispettivi Paesi: in Slovacchia Markiza TV, in Slovenia Pop Tv e 101 IN FILA PER 25 Grazia Neri_AFP I MAGGIORI GRUPPI DELL’EDITORIA EUROPEA (FATTURATI IN MILIONI DI DOLLARI) GRUPPI Bertelsmann Reed Elsevier Pearson VNU Wolters Kluwer Daily Mail ** Sanoma WSOY Gruner + Jahr Axel Springer Verlag RCS Group Bonnier Group Hachette Filipacchi Burda Yell * Heinrich Bauer Verlag Arnoldo Mondadori EMAP * Hachette Livre Grupo Prisa Schibsted-Group United Business Media Penguin Group Financial Times Guardian * Editoriale L'Espresso 2000 15.094,9 5.695,9 5.862,0 3.651,3 3.376,9 2.814,2 1.334,4 2.704,1 2.674,5 1.831,0 2247,9 1.532,0 1.171,6 779,7 1.366,5 1.744,7 765,0 1.021,5 939,5 2.988,5 1.142,4 1.277,1 661,9 878,1 2001 16.991,0 6.573,0 6.106,5 5.205,5 3.435,1 2.826,7 1.552,6 2.723,4 2.563,6 1.803,9 1.629,4 2.091,3 1.647,4 1.246,4 802,1 1.394,4 1.482,0 757,4 1.071,5 887,0 1.343,0 1.181,0 1.153,6 657,3 826,4 2002 17.258,2 7.522,7 6.499,0 4.029,5 3.740,6 2.917,9 2.222,1 2.645,5 2.616,8 2.086,6 1.800,0 1.991,4 1.749,8 1.671,6 1.611,4 1.374,9 1.451,1 895,3 1.145,9 986,0 1.190,6 1.257,5 1.089,4 789,3 908,2 2003 18.975,6 8.065,3 6.640,6 4.384,2 3.880,7 3.157,0 2.706,0 2.801,8 2.621,1 2.449,5 2.314,9 2.340,2 2.262,9 1.938,5 1.897,2 1.734,8 1.714,9 1.083,1 1.473,8 1.208,4 1.219,5 1.371,9 1.236,3 1.036,8 1.187,1 2004 19.218,4 7.989,6 6.434,9 4.270,0 3.683,1 3.409,0 2.815,7 2.754,3 2.712,9 2.428,8 2.420,5 2.394,4 2.218,1 2.099,2 1.870,3 1.863,8 1.744,3 1.616,2 1.610,2 1.368,7 1.322,2 1.283,7 1.269,0 1.228,0 1.219,6 Kanal A, in Romania Pro Tv e in Ucraina “Studio 1+1“), Sbs (12 stazioni tv e 20 stazioni radio in 11 Paesi, in Ungheria la sua Tv2 fu il primo broadcaster commerciale del Paese, mentre in Romania possiede il 40% di “Prima Tv“). Quei 4 capitani coraggiosi _Con 150 testate in 27 Paesi, Axel Springer Verlag è il principale editore di giornali in Europa. Oltre a “Die Welt”, pubblica “Bild”, un tabloid tedesco del quale esiste un’edizione polacca, “Fakt”, che ha registrato uno straordinario successo. Non altrettanto fortunati gli editori italiani nei loro “sbarchi” a Est, come testimonia l’avventura polacca, presto conclusasi, di Nichi Grauso (nella foto della pagina a fianco), che cedette Polonia 1 a una società di investitori europei 102 Quattro “capitani coraggiosi” italiani, come detto, ci hanno provato. Ma è andata male. In effetti è andata quasi sempre male, ogni volta che delle aziende editoriali nostrane hanno messo il naso fuori dai confini, se escludiamo Rcs e Fininvest in Spagna. Il primo a provarci nell’Europa centro-orientale fu Mariano Volani. Era il 1992. L’imprenditore trentino aprì Premiera tv a Praga, per poi fondare una joint venture con il Canal 5 a San Pietroburgo (1995) e con l’Efir 2 a Sofia (1998). Volani, che oggi è consigliere d’amministrazione del museo Mart di Trento e Rovereto, racconta con entusiasmo la sua avventura. Nel 1991, grazie all’amicizia con Vaclav Havel e sua moglie Olga, entra in contatto con diversi intellettuali cechi. Nel 1992 ottiene la licenza per una tv regionale per 12 anni, e nel giro di pochi mesi Premiera TV conquista il 35% di share: “Poi l’ottenimento della licenza nazionale venne subordinata al possesso della cittadinanza ceca, consentendo così allo straniero solo una partecipazione di minoranza”. Volani Contrasto vende: “Uscii con un capital gain di tutto rispetto“, ricorda orgoglioso. “Posso dire di aver ideato, realizzato e gestito la prima tv nazionale post-comunista di tutti i Paesi dell’Est, per sogni e per denaro”. Un’epoca d’oro, con Bill Clinton che viene ricevuto dal Presidente Havel, e, “nell’intervista esclusiva che riuscii a realizzare, esclamò: ‘La Casa Bianca rispetto al Castello di Praga è poco più di una catapecchia’. Finimmo tutti in una taverna della città dove si suonava jazz“, conclude Volani “e dove riprendemmo per la nostra tv Bill Clinton che suonava il sax accompagnato dai musicisti locali”. Non meno coraggioso e avventuroso fu certamente Niki Grauso, pioniere italiano di Internet e fondatore delle prime emittenti radio-televisive private della Sardegna. Nell’agosto del 1991, beneficiando dell’appoggio del Presidente della Repubblica polacco Lech Walesa, Grauso diventa il primo azionista di “Zycie Warszawy“, storico quotidiano nazionale di Varsavia e secondo giornale più letto del Paese. La Stei di Grauso crea poi Polonia 1, una syndication televisiva che fornisce servizi a 13 emittenti private locali, e che si avvalgono di contratti con il gruppo Berlusconi per i programmi e per la pubblicità (Publitalia). Grauso, in attesa dell’ approvazione della legge sulla tv, manda illegalmente in onda la sua Polonia 1: “Sono un pirata televisivo”, scherza l’11 marzo 1993. Il 12 agosto organizza il trofeo Polonia 1, che vede scendere in campo il Legia Varsavia e il “suo” Cagliari. È una battaglia. Tre gli espulsi, e alla fine i sardi di capitan Matteoli e Lulù Oliveira devono arrendersi ai polacchi. Cattivo presagio. Nel febbraio del 1994 viene concessa l’unica frequenza per una tv privata nazionale. Partecipano Grauso, Canal Plus, Bertelsmann, Cnn, Reuter, ma il Consiglio radiotelevisivo privile- 104 Olycom Contrasto _Se si escludono le esperienze positive di Rcs (nella foto l’ad Vittorio Colao) e di Fininvest in Spagna, per gli editori nostrani uscire dai confini ha quasi sempre rappresentato una sconfitta. Diversamente è andata ad altri gruppi stranieri: Burda (nella pagina a fianco Hubert Burda) pubblica riviste femminili di successo in Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia gia Polsat, legata a esponenti del vecchio regime comunista e gestita da un uomo d’affari polacco molto chiacchierato. La magistratura polacca chiude man mano tutte le emittenti “pirata” dell’editore sardo. La Polonia gli volta le spalle. Maciej Ilowiecki, un membro del consiglio radiotelevisivo, lo accusa di “colonialismo economico”: “Grauso si comporta come un capitalista del XIX secolo nei confronti dell’Africa nera”. Nel febbraio 1996 cede Polonia 1 alla Finmedia, una società di investitori europei guidata, pensate un po’, da Mariano Volani. Nell’aprile del 1996 vende “Zycie Warszawy“ all’imprenditore polacco Zbigniew Jakubas. “Fu un successo e un insuccesso al tempo stesso”, dice oggi da Cagliari, dove da pochi anni ha lanciato con fortuna “Nuova Sardegna“. Dalla voce non sembra avere grande nostalgia di quell’esperienza: “Non contava assolutamente nulla avere appoggi politici allora. Era una bolgia, quei polacchi erano gente troppo conflittuale”. La vicenda di Grauso si intreccia curiosamente con quella di Volani, e con quella di Silvio Berlusconi: “Quello di Grauso fu un disastro annunciato. Era intervenuto in Polonia senza possedere alcuna esperienza dei mercati esteri né il know how-Paese“, ricorda Volani. “Marcello dell’Utri mi chiese di intervenire in Polonia, e acquistai la società di Grauso. Cedetti le quote dopo due anni, dopo averla rilanciata”. Quando gli viene riferita l’accusa di “colonizzatore”, la risposta di Grauso non risolve i dubbi. “Quel popolo“, dice, “non ha dato nulla di positivo al mondo, tranne il Papa”. Nel novembre del 1993 è il “Sole-24 Ore“ a provarci. Costituisce una joint venture editoriale, e pubblica “Nowa Europa“, l’unico quotidiano economico e finanziario polacco. Nel gennaio del 1997, però, è costretto a vendere a un gruppo polacco. “Nowa Europa“ era un’intuizione giusta, ma i tempi non erano ancora maturi”, dice Attilio Geroni, che per il “Sole 24Ore“ era allora corrispondente da Varsavia e oggi lo è da Francoforte. “Non si era ancora sviluppato un ceto medio, e quindi anche manageriale e imprenditoriale”. Una bella intuizione come quella di Grauso, e anch’essa in Polonia, “perché era ed è tuttora il mercato più grande della nuova Europa, quello da cui Olycom Contrasto ci si potevano aspettare i maggiori ritorni economici”. Nel settembre del 1995 parte infine l’avventura della Rcs. Scambio di azioni con Burda, e poi il gruppo italiano acquisisce il 20% delle attività editoriali di quello tedesco nei Paesi dell’Est Europa (Burda Verlag Osteuropa). Rcs e Burda fanno shopping in Turchia, Grecia e Corea del Sud. Poi i rapporti si guastano, nell’aprile 2004, per la nomina di Laura Comini a direttore generale di Rcs Periodici, che sarebbe avvenuta contro il veto del gruppo tedesco. La Rcs di Maurizio Romiti rompe i legami con Burda, in giugno i due gruppi riacquisiscono le rispettive quote e Burda si prende il 50% della joint venture. Si rompe un legame antico. Hubert Burda era tra i pochi grandi amici tedeschi di Gianni Agnelli: “Per me“, aveva commentato l’anziano editore nel 2003, nel giorno della morte dell’Avvocato, “rappresentava l’incarnazione di Lorenzo de Medici, che il mondo chiamava il Magnifico”. Perché l’Italia non c’è Ma perché gli italiani non hanno investito nei media dell’Europa centro-orientale? E perché i pochi che ci hanno provato non hanno avuto successo? “Alcune spiegazioni sono interne all’Italia e altre sono relative a quei mercati”, dice Giuseppe Richeri, professore di Strategia dei Media all’Università di Lugano. “Per quanto riguarda le prime, nel campo televisivo abbiamo da anni una situazione bloccata, e tutta la capacità competitiva di Rai, Mediaset e di La7 è concentrata sul mercato italiano. In più le nostre imprese televisive e, in parte, i giornali, hanno avuto sempre la cattiva abitudine di lavorare molto con rapporti politici. Nel momento in cui uno mette la testa fuori dall’Italia non sa più muoversi”. Per quanto riguarda le cause relative a quei mercati, per operare in piazze così nuove e poco specializzate occorreva anche avere un know-how specifico, e secondo Richeri, “quello delle aziende italiane era sufficiente per poter competere con le società locali dell’Est, ma non per battere la concorrenza di società provenienti da Paesi che hanno, storicamente, una penetrazione molto più capillare in quei mercati”. GROEBEL: ITALIANI TROPPO POCO CORAGGIOSI Nel campo dei media gli italiani non sono investitori cosmopoliti. Colpa di una mancanza di tradizione all’investimento estero, ma anche di un mercato molto ricco all’interno. L’opinione del direttore generale dell’European Institute for the Media “Perché gli italiani non hanno investito nel mercato dei media dell’Europa centroorientale? Anzitutto perché hanno una tradizione leggermente meno sviluppata d’investimento all’estero. C’è il problema della lingua, e poi sono tutti concentrati sull’Italia, anche perché un sistema televisivo bloccato permette maggiori guadagni”. Almeno nel campo dei media, gli italiani non sembrano avere la fama di “conquistatori” cosmopoliti. Lo pensa Jo Groebel, che è direttore generale dello European Institute for the Media di Düsseldorf/Parigi, e il mondo dei media internazionali lo conosce piuttosto bene. Insegna alle Università di Amsterdam, Los Angeles (UCLA) e St. Gallen, è consigliere della Presidenza della Repubblica tedesca e dell’Onu, è autore di 20 libri, e ha tenuto conferenze da Tokyo a Sydney a Bangkok. “Anche per chi vuole investire nel mondo dei media“, dice in quest’intervista, “oggi l’Oriente è già un altro: la Cina”. 105 DOSSIER In che modo guardano le aziende editoriali tedesche ai Paesi dell’Europa centro-orientale? Li considerano mercati estremamente importanti, perché sono sempre stati percepiti in espansione, e infatti ci sono gruppi, come Passauer e Waz, che vi hanno investito molto. Tuttavia rappresentano ancora delle sfide, e serve cautela, perché la crisi dei giornali non colpisce certo solo l’Europa occidentale, e perché in quei Paesi fattori politici possono ancora condizionare gli investimenti: a volte lo Stato è ancora presente, e certe strutture non sono del tutto trasparenti. Gli investimenti nell’Europa centro-orientale possono essere ancora rischiosi, e vanno ben valutate tutte le condizioni di mercato, tenendo conto che un management occidentale può non saper cogliere tutte le sfumature culturali locali. Perché, secondo lei, gli italiani sono completamente assenti da quei mercati? Posso solo fare speculazioni. Ma innanzitutto mi pare che gli italiani abbiano una tradizione leggermente meno sviluppata d’investimento all’estero, a differenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e della Germania. Poi il mercato nazionale italiano, nonostante il predominio di Silvio Berlusconi, è molto ricco, e soddisfa chi è già all’interno. Terzo, gli italiani non sono molto abituati a parlare un linguaggio internazionale, come succede invece ai tedeschi. Per questi e altri motivi gli italiani sono più orientati al mercato nazionale che a quello globale. Anche Franco Mosconi, professore di Economia industriale all’università di Parma e autore del libro Economia dei quotidiani, sottolinea che la struttura del mercato italiano ha reso più deboli all’estero le nostre aziende: “Se la legislazione antitrust avesse posto limiti più severi alla crescita sul mercato domestico, forse anche i nostri gruppi editoriali, proprio per crescere, si sarebbero dovuti spingere con più decisione sui mercati europei”. Un altro fattore decisivo è, per Mosconi, il nanismo delle nostre aziende editoriali: “Pur fra tanti limiti, nella manifattura italiana giocano oggigiorno un grande ruolo le ‘multinazionali tascabili’. Così pure, nel sistema finanziario, UniCredit e Assicurazioni Generali sono oramai due player europei. Vi è poco o nulla da segnalare, invece, nell’industria dei media”. Sul problema del nanismo è d’accordo anche Attilio Geroni: “Le dimensioni contano. Springer è il più grande editore di carta stampata d’Europa, è un colosso che investe e insiste. Anche Orkla è un grande gruppo, sebbene la Norvegia a noi suoni come un posto esotico”. Il problema linguistico esiste. Ne è convinto Mosconi, e ne è convinto anche Richeri. E allora perché gli italiani non investono in zone più vicine, come l’ex Jugoslavia e l’Albania, dove l’Italia può vantare storicamente una penetrazione maggiore? “In quei Paesi c’è una mancanza di regole e di leggi troppo rischiosa per un’azienda già consolidata“, risponde prontamente Richeri. “Sono stato a Sarajevo due mesi fa a formare i membri delle Authority per le comunicazioni, e purtroppo mi pare che siamo alla preistoria della preistoria. Chi ha il coraggio di investire lì?”. Sulla questione della grandezza Richeri non è d’accordo, e cita l’esempio di Mediaset: “Se volesse, Mediaset avrebbe gli strumenti per investire all’Est, ma tutte le energie che hanno le investono qui. Se avesse una filosofia d’impresa che la portasse a Pensa che oggi racconteremmo una storia diversa se Berlusconi non fosse entrato in politica? Credo di sì. Anche perché avere un sistema televisivo bloccato, come ce l’ha oggi l’Italia, danneggia l’immagine del Paese, ne indebolisce l’immagine di libero mercato. La situazione dei media italiani viene vista nel resto d’Europa come decisamente singolare, isola- 106 Contrasto (2) C’è anche un problema di “provincialismo” della classe dirigente? “Provinciale” ha un’eccezione negativa. Direi, però, che gli italiani sono più regionali e nazionali che globali. Il che può avere anche dei vantaggi, visto che investire all’estero è comunque un rischio. ta, e da non seguire. Poco tempo fa ho partecipato a un talk show televisivo, in cui si discuteva di come sarebbe mutata la concentrazione dei media tedeschi nel caso in cui Springer avesse acquistato ProSiebenSat1, e nessuno ha citato l’esempio italiano, perché è percepito come un caso a sé. Le opinioni pubbliche dell’Europa orientale sembrano accettare senza problemi la presenza degli stranieri nei media… È vero. Dopo 50 anni di statalismo temono che dietro ogni attore nazionale si possano nascondere interessi politici. Ovviamente ogni Paese ha una storia a sé, ma dai nostri studi emerge che un po’ ovunque il pubblico, soprattutto quello giovanile, preferisce l’intrattenimento di natura internazionale alle questioni politiche nazionali. A guardare come certa classe dirigente italiana ha affrontato l’arrivo degli stranieri nel settore bancario (ma anche, anni fa, l’arrivo di Murdoch in Italia), verrebbe da dire che i Paesi dell’Est sono più pronti dell’Italia ad affrontare le sfide della globalizzazione… È così. Anche se nella Polonia dei fratelli Kaczynski (nella foto sotto) torna a spirare oggi un vento nazionalista. Grazia Neri_AFP investire i profitti nello stesso campo, a un certo punto sarebbe spinta a investire all’estero”. Ma se alcune colpe sono attribuibili alle nostre aziende editoriali, altre sono del sistema-Italia. Una di queste è, probabilmente, il nostro provincialismo culturale. “L’Italia è molto concentrata su quello che accade all’interno dei patri confini, e così non è a suo agio quando va all’estero”, spiega Geroni, e quando gli facciamo notare che a Est l’arrivo dello straniero non è stato vissuto come un problema, come invece è successo in Italia nei casi Bnl e Antonveneta, il corrispondente del “Sole-24 Ore“ conferma: “Sono Paesi pragmatici, e dopo la caduta del muro avevano bisogno di investimenti e di know-how. Agora è un gruppo editoriale che può dare filo da torcere a molti concorrenti europei. Ha una buona redditività ed è un gruppo multimediale. Alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale sembrano più pronti dell’Italia ad affrontare le sfide della globalizzazione”. E oggi? Se le nostre aziende editoriali volessero, potrebbero recuperare il tempo perduto e lanciarsi nell’Europa orientale? “Sono mercati in crescita“, risponde Richeri,“ ma ormai sono già presidiati”. E qual è, per i media, il nuovo Oriente? “La Cina può diventare un mercato dove vendere dei contenuti. Non c’è libertà, anche se stanno cercando di immettere della managerialità. Per un imprenditore europeo non ci sono le condizioni per andare a lavorare in Cina come broadcaster, però nei prossimi anni in quel Paese succederà di tutto e di più“, conclude lo studioso“, e chi è interessato dovrebbe cominciare a presidiare il terreno, magari vendendo contenuti”. Quando cadde il muro di Berlino, in Italia non tutti compresero quali occasioni si sarebbero presentate. Ma quando cadrà anche la Grande Muraglia, almeno, non dite che non vi avevamo avvertiti. Oggi il mercato dei media dell’Europa centroorientale sembra ormai chiuso ai nuovi arrivi. Qual è il nuovo Est per le aziende editoriali? C’è molta speranza su quello che, a lungo termine, potrebbe succedere nel Sud-est asiatico, in India e in Cina. Ma prendete i tedeschi di Bertelsmann: in Cina si stanno già muovendo attraverso il settore libri, meno controllato dallo Stato di quanto siano tv e giornali. Per quanto riguarda la tv, per il momento si può entrare in Cina solo vendendo programmi. In 5-10 anni potrebbe cambiare qualcosa, ma è importante cominciare a stabilire contatti e creare network già adesso. D.C.P. 107