Istituto di Istruzione Superiore
- Codigoro –
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Anno Scolastico 2006/2007
Memorie di un reduce
Classe partecipante: 5ª D Liceo Socio-Psico-Pedagogico
Docente Coordinatrice: prof.ssa Giorgia FRIGNANI
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Alessandro Manzoni nell’introduzione ai “Promessi Sposi“ sostiene che la Storia può essere
definita una guerra contro il tempo, perché impedisce che il passato muoia: lo recupera, lo
esamina e lo ripropone all’attenzione degli uomini. E gli storici combattono contro il tempo.
Scelgono gli argomenti di maggior rilievo, celebrano con i loro scritti, imprese e personaggi
qualificati, adornano, con la loro abilità, le loro gesta, e li consegnano alle nuove generazioni.
Non si occupano, però, dei personaggi anonimi, di lavoratori, di persone comuni e di
modesta condizione sociale.
Lo sguardo dello storico, dello studioso, non cala quasi mai su persone semplici, degne di
essere ricordate, degne di essere oggetto di storia.
Per questo noi studentesse della classe VD del Liceo Socio Psico Pedagogico di Codigoro
abbiamo voluto incontrate un personaggio che, come tanti altri non è menzionato nei libri di
storia, ma che merita di essere ricordato e di lasciare ai giovani memoria dei fatti vissuti
durante la seconda guerra mondiale.
Chi altri avrà l’opportunità di raccogliere l’esperienza diretta di un reduce che ha difeso la
sua patria e ha conosciuto l’orrore della guerra a Cefalonia?
Il personaggio da noi intervistato è il Dott. Ugo Buganza, un anziano signore di 85 anni che
risiede da numerosi anni a Codigoro.
È conosciuto da molte persone, perché è stato preside della scuola media “G. Pascoli” del
paese per oltre trent’anni. Tuttavia, forse, non molti sanno della sua esperienza militare a
Cefalonia. Noi abbiamo deciso di raccontarla.
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LA VITA
Ugo Buganza è nato il 21 febbraio del 1922 in un paesino nei pressi del Po, Borgofranco in
provincia di Mantova.
La sua famiglia di stampo patriarcale, dirigeva un’azienda agricola, perciò vive l’infanzia
coi nonni, i quali successivamente influenzeranno il nipote nelle scelte importanti della vita.
La nonna fece perdere al giovane un anno di scuola, in quanto lo considerava
troppo”gracile”, e così aspettò l’anno successivo per fargli iniziare gli studi alla scuola
elementare di Borgofranco. In seguito si trasferì a Bondeno dove frequentò la scuola media.
Nel 1938 a 16 anni si recò a Roma, e sfilò davanti ad Adolf Hitler.
Successivamente si recò in collegio a Imola, per frequentare la scuola di tecnico agrario,ma
non riuscì a diplomarsi a causa di un malore della nonna che lo portò a perdere un anno di
studi.
Non potè, quindi, fare il corso per Allievi Ufficiali; per lui fu una fortuna, perché gli ufficiali
a Cefalonia furono poi tutti uccisi.
Nel 1942 venne chiamato ad entrare nell’80° reggimento fanteria Divisione Pasubio con
destinazione Russia, dove si sarebbe combattuta la “Battaglia di Primavera”.
Preferì recarsi a Zante, dove fece parte della Compagnia Portaordini Motociclisti; poi fu
chiamato a Cefalonia .
Scampato al massacro della sua Divisione, fuggì dall’isola, dal porto di Sami, con una
piccola barca di pescatori greci, insieme ad un sergente e un caporale maggiore di Mantova e
con mezzi di fortuna raggiunsero l’Italia. Si unì poi ad una Divisione che andava in Germania,
per continuare a combattere fino alla fine della guerra.
Riprese gli studi soltanto al ritorno dalla guerra, fece l’esame integrativo al Liceo
Scientifico per accedere all’Università di Agraria a Bologna, poi a Padova dove si laureò nel
Novembre del 1951, l’anno in cui ci fu la rotta del Po.
Nel 1946 iniziò a esercitare come perito agrario a Copparo, poi a Sermide (provincia di
Mantova) dove insegnò Avviamento agrario e dove conobbe la moglie con la quale si sposò
nel 1950, il 2 agosto, rimanendo in casa dei genitori al contrario dell’usanza tradizionale; nel
settembre dello stesso anno la famiglia si trasferì a Formignana.
Nel 1953 entrò come docente al Provveditorato di Mantova dove ebbe uno scontro verbale
con il Provveditore, il quale lo accusava di essere stato un imboscato a Cefalonia. Questa
affermazione fu per lui una grave offesa, soprattutto nei confronti di tanti compagni uccisi e
periti in combattimento. Per questo chiuse definitivamente i suoi rapporti con quella
istituzione.
Giunto a Ferrara il Provveditore della città lo incaricò d’istituire una scuola di Avviamento
Professionale Agricolo ed Industriale maschile e femminile a Codigoro. Dopo alcuni anni di
insegnamento, nel 1959 divenne Preside della Scuola Media “G. Pascoli” la quale diresse fino
al 1992.
Il 1 marzo 2001, venne invitato da Ciampi con altri quaranta superstiti sul suo aereo privato,
per recarsi a Cefalonia , alla Cerimonia di commemorazione dei Caduti della Divisione Acqui.
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Il Dottor Buganza inizia a raccontare la sua esperienza, seguendo una scaletta di date e
fatti, scritti personalmente su alcuni fogli ingialliti, che ha sfogliato e letto chissà quante volte.
Gli servono solo per dare ordine a quei ricordi, che emergono numerosi, chiari, e vivi
nella sua memoria, non più lucida come in passato.
“Cefalonia: ragazze sapete dov’è Cefalonia?” Il Dottore prende una cartina geografica e
la apre davanti a noi.
“In Grecia; è un isola del Mar Ionio, proprio di fronte al golfo di Patrasso.
L’ importanza strategica consisteva proprio nel fatto che serviva a proteggere Patrasso
da eventuali attacchi dal mare da parte degli anglo-americani. Per questo i tedeschi la
volevano.
Oggi Cefalonia è una bella isola, frequentata e conosciuta dagli italiani, soprattutto come
meta turistica estiva.
Durante la seconda guerra mondiale, a Cefalonia si compie il primo atto di resistenza
italiana al nazismo.
Resistenza scelta da 11.500 uomini, artiglieri, fanti, marinai, carabinieri, guardie di
finanza, insomma dall’intera Divisione Acqui, qui e a Corfù, con un singolare e unico, nella
storia militare, referendum: decisero di non consegnare le armi ai tedeschi dopo l’armistizio
dell’8 settembre ’43 con le forze alleate.
Più di9.000 italiani, in grande maggioranza soldati semplici e ufficiali di leva, più esperti
di pace che di guerra, morirono massacrati barbaramente e a dispetto di ogni convenzione
internazionale, non per esaltare una voglia di eroismo, ma bensì, per una scelta di dignità
personale e nazionale.
L’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, è stato colui che ha rilanciato
l’attenzione su Cefalonia e ha rimosso gli ostacoli (responsabilità, errori, motivazioni
politiche o altro) che impedivano di trattare l’argomento nelle scuole.
Nel suo discorso del 1° marzo 2001, a Cefalonia, nella Cerimonia di commemorazione
dei Caduti Italiani, a cui partecipai anch’io con altri 40 superstiti, il Presidente ha onorato i
soldati della Divisione Acqui. Decisero di non cedere le armi preferendo combattere e morire
per la patria, tenendo fede al giuramento.
…uomini della Divisione Acqui: l’Italia è orgogliosa della pagina che voi avete scritto,
fra le più gloriose della nostra millenaria Storia… Onore ai caduti di Cefalonia, onore a tutti
coloro che tennero alta la dignità della Patria…”
Sempre lo stesso Presidente, l’8 ottobre del 2000, a Piombino, aveva dichiarato: “l’8
settembre ’43 è stata la prova più dura della nostra vita; non è stato come qualcuno ha
scritto, la morte della Patria. Certo, ci fu la dissoluzione dello Stato, vennero meno tutti i
punti di riferimento ai quali eravamo stati educati, ma in quelle drammatiche giornate la
Patria si riaffermò nella coscienza di ognuno di noi”.
Questa fu una data molto importante: l’Italia firmò l’armistizio con le forze angloamericane.
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In seguito all’armistizio dell’8 settembre Hitler impone la resa degli ex alleati italiani e
ordina ai suoi soldati di non fare prigionieri.
Tutte le divisioni italiane che erano in Grecia depongono le armi , solo la Divisione Acqui
si oppone.
Questa divisione era una delle cinque divisioni cosiddette fanterie di montagna, cioé una
specializzazione della fanteria .Venivano reclutate nelle regioni subalpine; il grosso dei
nuclei era composto da Vicentini, Trevigiani, Friulani e Bergamaschi. Si era formata a
Merano, alla fine del ’39. Io appartenevo al 317° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui.
Dopo questa precisazione , torniamo ai fatti: come ho detto prima, la Divisione Acqui non
cede le armi.
La rappresaglia è spietata: più di 5000 italiani vengono massacrati a fucilate con mitra ,
3000 affogati nelle navi dove erano stati rinchiusi. L’esercito regolare tedesco si macchia di
un crimine orrendo.
Per capire cos’è accaduto a Cefalonia bisogna tornare ai giorni drammatici che hanno
seguito l’armistizio dell’8 settembre 1943 e prima ancora alla guerra di Grecia e
all’occupazione Italiana dei Balcani. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della
Germania.
L’Italia fascista vuole il suo spazio nei Balcani, per trasformare l’Italia in una potenza
adriatica, mediterranea forte. Mussolini, il 28 ottobre 1940 decide di invadere la Grecia.
Ben presto emerge l’inadeguatezza dei piani del Duce. Gli italiani combattono con
coraggio, ma i mezzi sono insufficienti. All’inizio di aprile del 1941 Hitler interviene in aiuto
di Mussolini e insieme combattono contro l’esercito ellenico e lo travolgono.
Il 14 aprile anche la Divisione Acqui partecipa all’offensiva finale.
Il 23 aprile i Greci, sconfitti, firmarono la resa.
Il 27 Aprile 1941 le truppe tedesche e italiane entrano ad Atene e le bandiere dell’Asse
sventolano sul Partenone.
All’Italia la guerra di Mussolini è costata 14000 morti,
18000 feriti e 20000 fra prigionieri e dispersi.
Finita la guerra in Grecia, lo Stato Maggiore decide che
Cefalonia deve difendere il Golfo di Patrasso, che si riteneva
la probabile via per uno sbarco anglo-americano.
Nel giugno del 1942 il generale Antonio Gandin assume il
comando della divisione Acqui a Cefalonia.
Chi è il generale Gandin? E’ un ufficiale esperto che
proviene dallo Stato Maggiore; si è guadagnato la stima dei
tedeschi e una croce di ferro sui campi di battaglia in Russia.
Nei trenta mesi di occupazione noi italiani abbiamo
vissuto con i greci senza combattere, senza sparare nessun
colpo. La maggior parte degli abitanti di Cefalonia ci ricorda come occupanti non
particolarmente ostili e brutali.
Abbiamo saputo conquistarci se non la stima, almeno il rispetto della gente del posto:
eravamo giovani, lontano da casa dagli affetti familiari; la lingua non era un problema. Ci
davamo da fare con le ragazze, molti si innamorarono, alcuni si sposarono anche se le
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famiglie non condividevano queste unioni perché eravamo pur sempre occupanti, in guerra
col popolo greco.
Il 10 Luglio del ’43, gli alleati sbarcano in Sicilia. Fu l’inizio della fine del conflitto! Lo
sbarco a Salerno ha inciso favorevolmente sulla guerra che si abbreviava, ma in maniera
negativa per le sorti di Cefalonia.
Noi speravamo nell’arrivo degli alleati; i nostri aerei erano fermi a Brindisi: ma
Cefalonia era un “problema” solo italiano, non interessava alle forze alleate, per questo
nessuno intervenne in aiuto degli italiani sull’isola.
Altra data significativa è il 25 luglio 1943: caduta del Fascismo, come sostengono molti
storici. A mio avviso, fu solo la caduta del Governo Mussolini. Il Duce venne arrestato e
portato sul Gran Sasso, protetto da circa 200 carabinieri.
E’ bastato un piccolo aereo tedesco, per riprendere Mussolini, liberarlo e portarlo in
Germania. Per me, rimane un fatto inspiegabile e poco chiaro!
Dopo il 25 luglio, regna un clima di incertezza .
La caduta del Fascismo e l’armistizio dell’8 settembre riportano la guerra a Cefalonia.
Mercoledì 8 settembre: Badoglio, Capo del Governo, annuncia alla radio la firma
dell’armistizio dell’Italia con gli Anglo-Americani. La notizia arriva sull’isola nel tardo
pomeriggio e crea un senso di sconcerto ed incertezza, ma anche di gioia, nella speranza che
la guerra sia finita.
La Divisione Acqui riceve un primo fonogramma dal comando unificato italo-tedesco di
Atene, che ordina di non rivolgere le armi contro i tedeschi, di non far causa comune con i
ribelli o con gli Anglo-Americani.
Giovedì 9 settembre: i pochi tedeschi rimasti sull’isola sono decisi ad eseguire l’ordine di
Hitler che impone il disarmo delle truppe italiane. Alla Divisione Acqui arriva un nuovo
ordine da Atene, che contraddice quello precedente: le artiglierie e le armi collettive devono
essere consegnate ai tedeschi. Il generale Gandin chiede conferma telefonica, ma non
l’ottiene. Egli ha un vantaggio: la guarnigione tedesca sull’isola è numericamente inferiore
alla sua Divisione, quindi allo scopo di guadagnare tempo, rifiuta di consegnare le armi ai
tedeschi, i quali iniziano le trattative dapprima in modo rispettoso. Nel primo colloquio col
comandante del presidio tedesco, il generale Gandin sostiene che l’ultimo messaggio da
Atene è praticamente indecifrabile.
Venerdì 10 settembre: il tenente colonnello tedesco si presenta al Comando della
Divisione Acqui con l’ordine di consegnare le armi, il giorno dopo, nella Piazza principale di
Argostoli, capoluogo dell’isola.
Fra i soldati della Divisione, si diffonde il timore che il loro generale intenda consegnare
le armi ai tedeschi.
È qualcosa di impensabile: cedere le armi senza combattere, significa venir meno al
giuramento di fedeltà al Re. A questo punto, un’enorme responsabilità ricade sul generale e
sui suoi collaboratori.
Lo stesso giorno, arriva ai comandi tedeschi l’ordine di imporre agli italiani un
ultimatum e di informare gli ufficiali che è prevista la fucilazione immediata per coloro che si
rifiuteranno di ordinare ai propri uomini la consegna delle armi.
Sabato 11 settembre: il primo ultimatum impone agli italiani o di combattere con i
tedeschi o contro i tedeschi o consegnare le armi.
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La Divisione Acqui deve scegliere; ma, nei fatti, è una richiesta di resa senza condizioni.
Fra i soldati nacque uno spontaneo sentimento antitedesco, e molti chiesero di combattere. Si
susseguirono piccoli scontri fra italiani e tedeschi, con ferimenti e catture di prigionieri da
entrambe le parti. La tensione era altissima, ma la trattativa continuava.
Il generale Gandin è pressato dai tedeschi alla resa, mentre l’intera divisione è sempre
più propensa al combattimento.
Egli riesce ad ottenere il rinvio della decisione all’indomani, ma acconsente, per dare un
segnale di disponibilità e guadagnare altro tempo, di ritirare il presidio italiano da
Kardakata, a nord dell’isola. È un errore tattico che in seguito sarà pagato molto caro.
Domenica 12 settembre: la tensione cresce e si verificano nuovi episodi di aperta
ostilità, fra italiani e tedeschi, che minacciano un bombardamento aereo.
Il generale Gandin cerca ancora di guadagnare tempo, per vedere se si può contare
sull’aiuto dell’Italia o degli Anglo-Americani. Alcuni giovani ufficiali prendono posizione
contro le sue scelte; non solo non accettano di consegnare le armi, ma sono per rompere gli
indugi e affrontare subito il combattimento con i tedeschi, qualunque sia l’esito.
Si recano perciò al suo cospetto, ottenendo la promessa che sarebbe stato fatto il
possibile per tenere sotto controllo la situazione. Ma ormai non c’è più tempo: la Divisione
Acqui deve scegliere.
Lunedì 13 settembre: la situazione precipita. All’alba due grossi mezzi da sbarco
tedeschi, carichi di armi, tentano di raggiungere Argostoli. Per i soldati italiani è un atto di
guerra; le batterie aprono il fuoco di loro iniziativa. Per i tedeschi, quest’ultimo episodio è
un evidente atto di ostilità.
Dal comandante generale tedesco viene imposto alla Divisione l’ordine di consegnare le
armi. Il generale Gandin compie un gesto assolutamente impensabile e unico nella storia
militare.
Nella notte fra il 13 e il 14 settembre indice una consultazione dei reparti, una sorta di
Referendum, per scegliere cosa rispondere all’ultimo ultimatum tedesco. Gandin, in fondo, ha
già deciso di combattere. Questa consultazione ha un effetto psicologico:stare vicino ai suoi
soldati. La risposta è unanime: la Divisione Acqui vuole impugnare le armi contro i tedeschi.
Nella stessa notte, arriva dal comando di Brindisi un radiogramma inequivocabile: “I
tedeschi devono essere considerati nemici”.
Martedì 14 Settembre: il Generale Gandin invia al comando germanico la risposta
definitiva della Acqui: è la battaglia. Per noi incominciava la guerra! I 12000 uomini
fronteggiano meno di 2000 tedeschi che, però, possono contare su rinforzi dalla terraferma e
su una schiacciante superiorità aerea.
Abbiamo visto arrivare gli Stukas, gli aerei tedeschi, che oscuravano il cielo; si
abbassavano e non sbagliavano mai obiettivo. La battaglia fu decisa dalla superiorità aerea
tedesca. Le nostre truppe non avevano nulla da contrapporre, perché la nostra aviazione non
aveva mezzi da inviare e gli anglo-americani erano impegnati a Salerno.
Mercoledì 15 settembre: l’aviazione tedesca scatena l’offensiva bombardando e
mitragliando la strada costiera, la fanteria e l’artiglieria appostate sulle alture che
circondano Argostoli. Sull’isola incominciano gli attacchi su vari fronti; gli italiani
reagiscono prontamente e un intenso fuoco di artiglieria investe le truppe tedesche che si
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trovano subito in grande difficoltà. I combattimenti proseguono per l’intero pomeriggio. Gli
italiani conquistano Monte Telegrafo e a tarda sera circa 450 soldati tedeschi si arrendono e
un altro battaglione deve ripiegare . Il primo attacco tedesco è fallito. Le forze nemiche
sembrano insufficienti per attaccare con successo la Divisione, che si difende tenacemente,
nonostante gli attacchi frequenti degli Stukas . Il comando germanico invia quindi a
Cefalonia, tra il 16 e il 21 Settembre, un nuovo e consistente gruppo di rinforzo per
disarmare gli italiani.
Venerdì 17 Settembre: gli italiani tentano di riconquistare il nodo cruciale di Kardakata,
precedentemente abbandonata da Gandin, e le posizioni di Ankona. I tedeschi reagiscono con
un grande bombardamento aereo che infligge gravi perdite ai reparti italiani. L’isola spoglia,
brulla, con colline prive di vegetazione, non offriva alcun riparo ai soldati che si battevano
con coraggio ma inutilmente. Il Generale sente la mancanza dell’appoggio aereo: alle
ripetute richieste d’aiuto, il Comando Supremo da Brindisi risponde che è impossibile
mandare gli aiuti richiesti .
Sabato 18 Settembre: i tedeschi all’alba attaccano da ovest; respingono l’attacco di due
gruppi del reggimento italiano e annientano un intero battaglione. Lo stesso giorno arriva al
comando tedesco di Cefalonia un documento decisivo: un radiogramma che contiene l’ordine
di Hitler di non fare prigionieri a Cefalonia, perché gli italiani sono ribelli e traditori. Questo
ordine veniva condiviso da buona parte dei tedeschi, ufficiali e soldati.
Martedì 21 settembre: è ancora buio, quando i tedeschi sferrano l’attacco finale.
Contando sull’effetto sorpresa, due battaglioni tedeschi aggirano le nostre posizioni e le
colgono del tutto impreparate. Due battaglioni della Divisione cedono con molte perdite.
Abbiamo visto che dalla montagna, che stava di fronte a noi, scendevano i tedeschi come
formiche. Sono piombati su di noi e hanno incominciato a sfasciare i battaglioni e a fucilare
tutti quelli che trovavano. Un altro gruppo nemico avanzava per conquistare Argostoli.
L’azione combinata riuscì perfettamente e nella giornata del 21 i tedeschi raggiunsero tutti
gli obiettivi previsti. Lo dico a malincuore, con dolore, perché causò un massacro, ma fu un
piccolo capolavoro tattico e strategico.
Mercoledì 22 settembre: le truppe tedesche entrano ad Argostoli. Alle ore 11, dal suo
quartiere generale, il Generale Gandin si arrende e alza bandiera bianca. La tovaglia bianca
della mensa ufficiali penzolava tristemente dalla finestra della palazzina greca. I tedeschi non
fanno prigionieri. Già durante la battaglia massacrano chi si arrende. Nei giorni successivi
la strage assumerà dimensioni spaventose. Lo spirito di vendetta dei soldati tedeschi, che
dopo l’8 settembre si sentono traditi dagli italiani, trova una spaventosa giustificazione
nell’ordine di Hitler di non fare prigionieri e di massacrare tutti coloro che si oppongono al
terzo Reich. L’esercito regolare tedesco esegue gli ordini criminali, senza scrupolo e con
determinazione. Rastrellano i villaggi, gli ospedali, le case dei greci che nascondono, a
rischio della loro vita, i superstiti e uccidono tutti gli italiani che riescono a trovare.
I tedeschi mettevano tutti i soldati di un reggimento in una spianata, preparavano le
mitragliatrici e aprivano il fuoco! Davano il colpo di grazia, poi, a chi non era ancora morto
e si muoveva ancora.
Nei giorni seguenti la resa, i prigionieri italiani vengono portati nei frutteti, nei campi,
tra gli ulivi e sottoposti a esecuzioni di massa. I soldati della Divisione Acqui vengono
fucilati, massacrati con le mitragliatrici, in diversi luoghi dell’isola.
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I tedeschi, più tardi, cercano di nascondere gli enormi cimiteri che hanno creato; gettano
i cadaveri nei pozzi, in mare dopo averli zavorrati, cercano inutilmente di bruciarli.
Venerdì 24 settembre: vengono condotti nel cortile della “Casetta Rossa” 136 ufficiali
della Divisione Acqui. A piccoli gruppi di quattro vengono
fucilati vicino alla fossa (di fronte alla Casetta), poi
accanto dove ci sono gli ulivi, poi alla grande caverna, nel
burrone. Il massacro prosegue per tutto il giorno. Il
cappellano chiede con insistenza di risparmiare i pochi
uomini rimasti. Alla fine il comandante tedesco si avvicina
al gruppo di superstiti e risparmia loro la vita. Erano
rimasti solo 17 ufficiali.
Cefalonia è l’unico caso in cui si massacrano tanti soldati; le fucilazioni ci sono state
anche altrove, ma mai di tali dimensioni. Perché Cefalonia?
Nessuno ha mai trovato un ordine preciso e specifico. Da un comando all’altro è partita
l’intenzione di dare un esempio e trasmettendo l’ordine, questo è cresciuto e probabilmente le
truppe sono andate anche oltre gli ordini che avevano ricevuto a voce. Infatti, questi sono
ordini che, in genere, non si mettono per iscritto. A Cefalonia assistiamo ad un dramma
psicologico, incomprensibile, che spiega la situazione dei tedeschi, in quei giorni. Essi hanno
la sensazione di avere tutto il mondo contro di sé e in più gli italiani, che considerano
traditori. Questo per i tedeschi è un alibi morale. Dopo le spaventose giornate delle
esecuzioni di massa i prigionieri vengono raccolti nella Caserma Mussolini di Argostoli.
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Tre navi che trasportano i prigionieri italiani verso Patrasso affondano. E’ una tragedia
nella tragedia: centinaia di italiani affogano, pochi si salvano. Si pensa che le navi abbiano
urtato delle mine; alcuni sostengono, invece, che furono i tedeschi a farle esplodere per
liberarsi dei prigionieri. Quello che è certo, è che nessuno andò a salvare quei 3000 uomini
rinchiusi nelle navi.
Cefalonia, dopo più di sessant’anni, è ancora una ferita aperta. I responsabili del massacro
di migliaia di italiani sono stati individuati, ma non hanno mai pagato per un crimine così
grande; molti procedimenti contro i militari tedeschi sono stati archiviati.
Lo stesso generale Gandin, fucilato dai tedeschi insieme ai suoi ufficiali, ha ricevuto una
medaglia d’oro alla memoria, ma qualcuno lo ha anche accusato di essere il vero
responsabile della strage, quasi un traditore”.
Il Dottor Buganza, conclude così il suo racconto. Prima di congedarsi da noi, però,
aggiunge queste parole: “Ragazze, io credo che tutti questi morti non cerchino da noi
vendette o rivalse giudiziarie, ma vogliano solo essere ricordati!”
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