Ben presto anche la subunità maggiore si unisce al complesso e comincia così
l’assemblaggio del polipeptide.
Nella fase di allungamento i codoni scorrono uno per volta sul sito di lettura e i
corrispondenti amminoacidi vengono uniti tra loro
Una volta che il tRNA iniziatore ha occupato il suo posto nel ribosoma, il secondo
tRNA carico occupa l’altro sito, ancora libero, appaiando il proprio anticodone con il
secondo codone dell’mRNA che, nella Figura 9.11, è il codone CUC. Il suo
complementare è il codone GAG del tRNA che trasporta l’amminoacido leucina.
I due amminoacidi si vengono a trovare uno accanto all’altro e, a questo punto, avviene
il trasferimento enzimatico del primo amminoacido, che si stacca dal tRNA e si lega
covalentemente al secondo amminoacido, formando il primo legame peptidico.
Il primo tRNA, che ha perso il suo amminoacido, si allontana e il ribosoma scorre in
avanti di tre nucleotidi sull’mRNA, portando il terzo codone in corrispondenza di un
sito per i tRNA.
Naturalmente anche il tRNA carico dei due amminoacidi, essendo legato per
appaiamento delle basi al secondo codone, slitta assieme a questo e va ad occupare il
sito lasciato libero dal primo tRNA.
Il resto del processo di allungamento della catena polipeptidica non è altro che il
ripetersi più e più volte di questo ritornello:
“Arriva una nuova molecola di tRNA che si lega al nuovo codone; la parte di catena
polipeptidica già esistente si lega all’amminoacido trasportato da tale molecola e il
tRNA a cui la catena era prima legata si libera e si allontana; il ribosoma si sposta di
un codone lungo l’mRNA”.
Il processo continua così, aggiungendo amminoacidi nella corretta sequenza, fin
quando il polipeptide si è completamente formato secondo l’ordine dettato dalle
istruzioni genetiche originali.
La terminazione è determinata dalla comparsa di un codone d’arresto sull’mRNA
La fine della sintesi del polipeptide è segnalata dalla presenza di un codone d’arresto
nel filamento di mRNA.
Poiché queste triplette non codificano un amminoacido, la loro presenza crea
nell’mRNA una zona in cui non si può legare alcun tRNA e, di conseguenza,
l’amminoacido inserito appena prima della comparsa del codone d’arresto è l’ultimo
componente della catena polipeptidica.
Il flusso ordinato dell’informazione genetica dalla sua forma stabile depositata nel
DNA all’RNA nel quale viene trascritta e alla specifica proteina nella quale viene
espressa è riassunta nella Figura 9.12.
Come incrementare la produzione di proteina: far scorrere lo stesso mRNA attraverso
più ribosomi
A una catena polipeptidica in via di formazione vengono aggiunti circa cinque
amminoacidi al secondo. Si tratta di un dato molto approssimativo dato che spesso un
“nastro” di mRNA viene letto contemporaneamente da più ribosomi.
Come si vede in Figura 6.14 lungo una stessa molecola di mRNA scorrono molti
ribosomi e da ciascuno di essi si va sviluppando una catena polipeptidica. Una serie di
ribosomi come questa è detta poliribosoma.
3) LA BASE MOLECOLARE DELLE MUTAZIONI GENICHE
Le mutazioni geniche dipendono da cambiamenti di singoli nucleotidi causati da agenti
fisici o chimici
I cambiamenti della sequenza lineare dei nucleotidi modificano l’informazione
contenuta nel DNA e sono la base molecolare delle mutazioni geniche.
Per fare un esempio, l’anemia a cellule falciformi è un difetto genetico dovuto alla
sostituzione di un amminoacido (acido glutammico) con un altro (un residuo di valina)
nella proteina che trasporta l’ossigeno nel sangue, l’emoglobina.
Il cambiamento di una tripletta del DNA da GAG a GTG determina un cambiamento del
corrispondente codone dell’mRNA da GAG a GUG e ciò, a sua volta, comporta
l’inserimento della valina al posto dell’acido glutammico nel polipeptide.
A causa di questa semplice sostituzione di un nucleotide, viene prodotta una proteina
che non funziona come dovrebbe.
I globuli rossi delle persone affette da questa malattia genetica contengono infatti
emoglobina S anziché la normale emoglobina A; questo è il risultato di una mutazione
puntiforme che, modificando un codone, fa sì che, in due delle quattro catene
polipeptidiche che formano l’emoglobina, il sesto amminoacido non sia più l’acido
glutammico ma la valina (Figura 6.15).
Tale modifica, apparentemente piccola, altera la conformazione dell’emoglobina al
punto che le sue molecole tendono ad aderire tra loro in lunghe fibre che distorcono
gli eritrociti.
La sostituzione di una base del DNA è detta mutazione puntiforme, poiché influenza
una sola tripletta, un solo “punto del gene”. Una simile mutazione può verificarsi
durante la replicazione del DNA, se nella nuova catena viene inserito per errore un
nucleotide sbagliato, o può essere la conseguenza di un danno al DNA in una cellula
che non si sta dividendo. La probabilità di tali mutazioni aumenta notevolmente se il
DNA entra in contatto con un agente mutageno, un agente fisico o chimico che
determina modificazioni genetiche.
Più grave è la mutazione che consegue all’aggiunta (inserzione) o all’eliminazione
(delezione) di un nucleotide in un gene. Un simile evento scompagina la lettura dei
messaggi genetici, cambiando tutti i codoni dal punto dell’alterazione in avanti. Il
messaggio, letto come una sequenza scorretta di codoni, determina una proteina
inservibile, perché da un certo punto in poi i suoi amminoacidi sono completamenti
sbagliati. Queste mutazioni sono alla base di certe forme di anemia, come la
talassemia (anemia mediterranea).
A volte, la sostituzione di una base azotata con un’altra comporta la formazione di un
codone di terminazione della catena polipeptidica: ciò provoca la fine prematura del
processo di traduzione.
Gli agenti mutageni possono avere effetti cancerogeni, ma le cellule sono protette da
enzimi che riparano il DNA
Un qualsiasi agente che causi mutazioni del DNA è anche un potenziale cancerogeno
(un agente che provoca il cancro), dal momento che l’alterazione di certi geni può
portare alla trasformazione di una cellula normale in una cellula maligna (vedi gli
oncogeni nell’Obiettivo sull’uomo: Il cancro e la perdita del controllo del ciclo cellulare
e i geni soppressori nell’Obiettivo sull’uomo: le aberrazioni cromosomiche e il cancro).
Questa relazione tra le mutazioni e il cancro offre un modo per vagliare un gran
numero di sostanze riguardo alla loro cancerogenicità, semplicemente determinandone
gli effetti mutageni su organismi adatti a questo tipo di sperimentazione, come i
batteri.
In questo tipo di test, messo a punto da Bruce Ames dell’Università della California,
i batteri vengono esposti all’azione della sostanza in questione e, dopo un certo
periodo di incubazione, il numero di cellule mutate viene confrontato con il numero di
mutanti comparsi in una coltura di controllo trattata allo stesso modo, tranne per
l’esposizione dell’agente chimico in esame.
Un numero più elevato di mutanti tra i batteri trattati con la sostanza chimica la
connota come un potenziale cancerogeno per l’uomo.
Il test di Ames ha permesso di individuare il potenziale cancerogeno di numerose
sostanze con le quali molte persone vengono frequentemente in contatto, come certi
componenti di alcune tinture per capelli, i conservanti presenti nelle carni insaccate,
alcuni coloranti alimentari artificiali e il fumo di sigaretta.
Il DNA è soggetto a mutazioni anche in seguito a irradiazione e, infatti, uno dei più
comuni agenti mutageni è la radiazione ultravioletta (vedi Obiettivo sull’uomo: Il lato
oscuro del sole).
Anche in assenza di radiazione ultravioletta o di altri agenti mutageni la mutazione è
inevitabile. Si stima che, in una cellula umana, il DNA sia soggetto ogni giorno a danni
a varie migliaia di basi azotate! Ma le nostre cellule sopportano questo maltrattamento molecolare e mantengono le loro sequenze nucleotidiche, grazie a una serie di
enzimi di riparazione che sorvegliano il DNA, individuando e riparando alterazioni e
distorsioni della molecola. Durante la riparazione può occasionalmente verificarsi un
errore e, di conseguenza, il DNA conterrà una mutazione.
Nonostante molte mutazioni siano dannose, a volte si creano mutazioni vantaggiose,
che aumentano la probabilità che un individuo sopravviva e trasmetta le sue
caratteristiche ai discendenti. Queste mutazioni sono la materia prima utilizzata
dall’evoluzione biologica, poiché introducono nuova informazione genetica in una
popolazione, creando nuovi caratteri responsabili della diversità degli organismi.
4) L’ORGANIZZAZIONE DEL DNA NEGLI EUCARIOTI
I lunghissimi filamenti di DNA devono essere ripiegati più e più volte per poter stare
nel nucleo di una cellula eucariote
L’unico “cromosoma” di una cellula procariote è una molecola di DNA circolare la cui
lunghezza è dell’ordine del millimetro. Naturalmente questa molecola deve essere
tutta ripiegata per poter stare all’interno di una cellula che, in media, ha un diametro
di 1 micrometro.
Se questa può sembrare davvero un’impresa, sappiate che non è nulla in confronto
all’organizzazione di un cromosoma eucariote.
Nelle cellule eucariote del nostro corpo ci sono circa due metri di DNA stipati in ogni
nucleo, una sferetta 100'000 volte più piccola del puntino di questa “i”.
Le gigantesche molecole devono quindi essere ripiegate in modo ben preciso, che
consenta loro di dirigere la sintesi delle proteine e di replicarsi (e separarsi nelle
due cellule figlie) senza aggrovigliarsi.
I cromosomi eucarioti contengono una abbondante quantità di proteine, tra cui una
serie di proteine basiche di piccole dimensioni chiamate istoni (i cui amminoacidi
basici favoriscono il ripiegamento della molecola di DNA, che ha invece proprietà
acide).
Il filamento di DNA forma due avvolgimenti attorno a ogni nocciolo costituito
dall’aggregazione di otto molecole di istone, formando i cosiddetti nucleosomi
(Figura 9.13). I nucleosomi sono strettamente ravvicinati, come le perle di una collana.
Nonostante l’avvolgimento del DNA nei nucleosomi riduca la sua lunghezza di circa un
sesto, ciò non è sufficiente perché un filamento possa stare dentro al piccolo nucleo
di una cellula che non si sta dividendo. Il filamento già avvolto si avvolge
ulteriormente, formando fibre più spesse che, a loro volta, si ripiegano formando
“domini (regioni) ad ansa”.
La preparazione dei cromosomi (duplicati) alla separazione che ha luogo durante la
mitosi richiede poi un’altra serie di passaggi che rendono il materiale ancora più
compatto (i passaggi finali della Figura 9.13).
5) L’ENTITÀ DELL’ATTIVITÀ METABOLICA
Il numero di proteine utilizzate dalle cellule
Si stima che il genoma umano codifichi per un numero di proteine compreso tra
50'000 e 100'000, anche se una cellula umana ne produce solo una parte: da 5'000
a 20'000 circa.
In ogni caso, 5'000 è il numero minimo di proteine individuate in una cellula eucariote. Tutte queste proteine possono sembrare molte, finché non si riflette su quante
cose deve fare una cellula. Quasi tutte le cellule necessitano di proteine con cui
costruire i propri ribosomi, le proprie membrane, il citoscheletro, in poche parole tutti
i “pezzi” che permettono loro di funzionare; inoltre, devono essere in grado di
reagire agli stimoli dell’ambiente circostante.
Tutto ciò, assieme alle funzioni specifiche che le cellule sono chiamate a svolgere,
spiega il numero elevato di proteine presenti nella maggior parte delle cellule
eucariote.
Alcune di queste proteine sono prodotte quasi in continuazione, mentre la produzione
delle altre è “inducibile”.
Le dimensioni del genoma
Non sorprende quindi che, per codificare un numero così elevato di proteine, le cellule
eucariote abbiano un genoma enorme. Il genoma umano contiene circa 3 miliardi di
coppie di basi azotate.
Per rendere questo numero un po’ meno astratto, immaginate di fare la seguente
operazione: di comporre a stampa la sequenza di basi azotate dell’intero genoma
umano, rappresentando tali basi con le loro iniziali, così:
AATCCGTTTGGAGAAACGCGCCCTATTGGCACAAGGCTCTTCGGGTCTCTCAACGTATT
AAACATATTCAAGGCTCTAGGTCCAGTAATCGTGGACTTTC…
Ebbene, per scriverle tutte, occorrerebbero circa 1'000 guide telefoniche, di 1'000
pagine ciascuna, il che equivale a una successione di lettere che occupa un milione di
pagine. La Tabella 6.1 riporta la dimensione dei genomi di alcuni organismi.
6) CHE COS’È UN GENE?
Alla fine di questo capitolo possiamo dare una definizione più accurata del gene, l’unità
fondamentale della genetica.
Finora abbiamo considerato il gene come un tratto di DNA che codifica per una
proteina. Ma, a proposito del processo di traduzione, abbiamo visto che i ribosomi
sono composti in parte di RNA ribosomiale, codificato dal DNA. Anche in questo caso,
un tratto della doppia elica del DNA si srotola e si divarica e a un dei due filamenti si
appaiano i ribunonucleotidi a formare una sequenza di RNA ribosomiale; questo migra
nel citoplasma e diventa parte di un ribosoma. È così grande il fabbisogno cellulare di
ribosomi che c’è tutta una regione del nucleo, il nucleolo, in cui il DNA viene
costantemente trascritto per produrre rRNA.
Ciò premesso, ecco una definizione di gene che comprende sia le sequenze regolatrici
del DNA sia i tratti di DNA in corrispondenza dei quali si ha un appaiamento di basi
con ribunonucleotidi:
un gene è un tratto di DNA che realizza la trascrizione di una molecola di RNA.
7) ADATTAMENTO ED EVOLUZIONE: IL FILO CONDUTTORE
Il fatto che il DNA sia il materiale genetico di tutti gli organismi rivela tre aspetti
significativi.
In primo luogo testimonia che la sostanza è adatta a fungere da depositario delle
vitali istruzioni genetiche in una forma ereditabile e “traducibile”. Non esisto altre
sostanze che abbiano la stessa funzione, fatta eccezione per l’RNA di alcuni virus.
Quindi, se ne è mai comparsa una, deve essere stata eliminata, probabilmente per
selezione naturale.
In secondo luogo la condivisione del DNA come materiale genetico riconferma che vi
sono profonde relazioni tra tutti gli organismi. È praticamente impossibile che
milioni di specie abbiano indipendentemente “puntato” con successo sul DNA. Più
probabilmente gli organismi hanno ereditato dagli antenati non solo i caratteri, ma
anche lo stesso meccanismo che li determina e ne permette l’eredità.
Infine ci spiega come comparvero i caratteri che l’evoluzione plasmò in nuove specie
e come gli organismi mantengono, d’altra parte, le loro caratteristiche per generazioni e generazioni. I cambiamenti nella sequenza delle molecole di DNA, cioè le
mutazioni, possono creare un nuovo carattere vantaggioso e la replicazione del DNA
assicura che le successive generazioni ne erediteranno il gene.
Oltre che aiutarci a comprendere l’evoluzione, la genetica molecolare fornisce prove
schiaccianti di questo processo. La più convincente è probabilmente l’universalità del
codice genetico, per cui un certo codone determina l’inserimento nelle proteine di un
determinato amminoacido in qualunque organismo, sia esso l’uomo o una pianta di lillà.
Sembra proprio che tutti gli organismi della Terra abbiano ereditato il linguaggio
genetico dalla stessa fonte, il comune antenato che devono aver condiviso in un
momento iniziale della storia della vita.
La comprensione del DNA, della sua replicazione e di come esso diriga la comparsa
di un particolare carattere rafforza la rassicurante opinione che la vita possa
essere spiegata razionalmente.
Al suo più intimo livello la vita è governata da principi pienamente comprensibili alla
mente umana, che ci spiegano non solo il funzionamento degli organismi, ma anche i
meccanismi secondo i quali essi evolvono generando nuove specie.
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