GERARDO SINATORE
DALLA STEPPA A MONTELEPRE
Vicende di guerra e di pace dai ricordi di Giacomo Gambino
2011
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Ho servito la Patria in guerra e in pace.
Grazie, Italia, per il privilegio
che hai voluto concedermi.
Ten. Giacomo Gambino
(79° Reggimento Fanteria
Divisione “Pasubio”)
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Premessa
Quanto è scritto nelle pagine che seguono è tutto
fondamentalmente vero; l’unico inconveniente è costituito
dal fatto che dopo più di sessanta anni le date, le località, i
nominativi, e quant’altro, possano non essermi rimasti esatti
in memoria.
Chiedo venia, per questo, ai lettori, ed allo stesso Gerardo
Sinatore che ha dovuto, per oltre un anno, districarsi tra le
più diverse comunicazioni da me inviate, in modo discontinuo
(vivo lontano), ed in tempi notevolmente diversi.
Quale il fine propostomi allorché ho deciso di raccontare
qualche tratto di vita vissuta?
Nessuno, in modo assoluto, se non il desiderio, quasi un
dovere, di rendere omaggio a quanti, in tempi a noi vicini,
hanno sacrificato la vita per questa Italia (prima e seconda
guerra mondiale, resistenza, missioni di pace all’estero);
accomunati tutti ai patrioti, passati prima di loro alla storia, i
quali con le armi, con gli scritti, con le sofferenze del carcere
ed addirittura con il sacrificio della vita, hanno saputo portare
il Paese all’unità, sotto un’unica bandiera.
Il 17 marzo p.v. è il giorno stabilito per solennizzare il
magnifico evento; facciamolo con l’intento di essere tutti
degni dell’eredità di amore verso la Patria, avuto 150 anni fa.
Giacomo Gambino
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Introduzione
Già… dalla Steppa a Montelepre, passando per Elbasan, il
fascinoso ombelico d’Albania.
Ho sempre voluto una vita piena, intensa, per saziare la mia
licoressia di emozioni. Di forti emozioni. Emozioni poderose
che soltanto il rischio può offrire; ed il rischio ha bisogno
di opportunità, di eventi, di possibilità per assumere il suo
aspetto ingannevole. Ha bisogno di un tavolo da gioco al
quale sedersi con la “realtà” perché se non c’è realtà non c’è
rischio. Ma realtà non significa verità, anzi. Realtà significa
menzogna ed il vero giocatore è colui che ricerca la verità
nella menzogna, è colui che scommette contro la realtà,
sempre. E la cerca in ogni dove, continuamente, a costo di
dilaniarsi il cuore, sconquassarsi la mente, ferirsi la carne,
“perdersi d’animo”...
Ed in questo atteggiamento di azzardi, alcuni hanno visto in
me moti di revanche, altri, una mia via di fuga dal labirinto
dell’infanzia, altri, ancora, la fascinazione della morte e
dell’amore. Nel mio caso tutto questo c’entra quanto c’entrano
i pacifisti con la pace ed i soldati con la guerra. Se qualcuno
oggi mi chiedesse, così come se me lo avesse chiesto ancora
ieri, qual è stato il più grande amore della mia vita, gli
risponderei: “la mia vita”; e se mi chiedesse chi è stato il più
grande amore della mia vita gli direi: “la vita”; e se ancora
mi chiedesse cos’è per me l’amore? Gli ribatterei che “…è ciò
che non si può avere né dare se non c’è l’azzardo, se non c’è mai
stata alcuna partita con se stessi”.
A tal proposito, io ritengo che non può esservi amore se non
c’è rispetto e conoscenza, come non può esservi alcun bene
senza giustizia.
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Spesso mi chiedo chi sono e cosa sono stato. Ma ancora non
trovo una risposta, come non la trovo alla domanda se sono un
pavido o un coraggioso, se sono un incosciente o un valoroso
oppure se sono un ottimista o un miracolato. Mi accontento di
aver semplicemente vissuto.
Quando qualche amico, ascoltando la mie storie, esclama
compiaciuto: “…sei stato davvero fortunato!” Io, non rispondo
subito, sorrido, guardo il dorso delle mie mani bianche e
incanutite, poi: ”.. perché sono scampato alla morte o perché
ho fatto la guerra? Ma al gioco, è più fortunato colui che
rischia o colui che ha paura di perdere?”
Leonardo Sciascia, uomo di origini siciliane come lo era, forse,
originariamente la mia famiglia, ricevendo un premio disse:
“L’Occidente è privo di un autentico senso della morte… di
una vera coscienza dei limiti. Attribuisce assai poco valore
alla vita, alla qualità dell’esistenza…” Voleva dire che c’è
una fuga continua dalla morte, che c’è un netto rifiuto della
morte, che più si è “civilizzati” più si rifiuta la morte mentre,
nell’antichità, vita e morte erano poste sullo stesso piano ed
avevano entrambe un identico “valore”. Oggi la morte non
ha alcun valore ed ancor meno la vita, l’esistenza. Oggi vale
tutto ciò che non ha valore e la morte equivale a non essere
mai esistito: se abbiamo terrore del dolore ricorriamo subito
al medico e gli affidiamo interamente la nostra vita anziché a
Dio, come se la “vita” fosse governata dalla scienza dell’uomo
che, a distanza di milioni di anni, della “vita” ne sa poca
cosa perché dell’amore, di eros, philos e agape, non ne sa
assolutamente nulla. Aveva ragione il filosofo Emil Cioran, mio
coetaneo, quando affermava: “La scienza è l’elusione della
saggezza in nome della conoscenza del mondo”. Altra verità
sulla quale credo e nessun vero giocatore scommetterebbe
un soldo, come su queste altre sue parole: “la vita è qualcosa
di meglio di un’avventura… Nella vita tutto dipende dalle
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esperienze che abbiamo fatto, dallo spessore che le esperienze
hanno o non hanno avuto e, se esse sono un fatto solo
intellettuale, non hanno valore…”. Ora, però, vi racconterò
come sono approdato a queste mie conclusioni.
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Parte Prima
Capitolo I
Giovinezza e arruolamento volontario
Sono nato a Torre Annunziata in provincia di Napoli, il 20 agosto
del 1920, dove ho vissuto sino all’età di 6 anni.
Torre Annunziata, la “Grande Torre Annunziata”, la capitale
dei “maccaroni”, era la seconda città della Campania e, per
quel che ricordo, lo era sicuramente in bellezza con quel
mare che rendeva, con la sua vista scintillante, tutti felici. Lo
stesso mare che fece dire a Goethe, il poeta viaggiatore, nel
suo “Viaggio in Italia”: “Tutti coloro erano felici d’abitare in
quei luoghi, alcuni affermavano che senza la vista del mare
sarebbe impossibile vivere. A me basta che quell’immagine
rimanga nel mio spirito”. Per me è stato davvero così.
All’età di sette anni sono andato a vivere a Nocera Inferiore,
l’antica Nuceria della Valle del Sarno. Papà, che era un caporale
dei Carabinieri, di quelli con il bicorno napoleonico e lo
sguardo austero, vi era stato trasferito per motivi di servizio.
Era l’anno 1927. L’anno in cui, a detta del mio maestro delle
elementari, in America, Carlo Lindbergh, a bordo dello Spirti
of Saint Louis, trasvolava in solitaria l’Oceano Atlantico per
atterrare a Parigi dopo circa un giorno e mezzo di volo; l’anno
in cui, nella stessa civilissima America, stavano per essere
giustiziati gli italiani Sacco e Vanzetti; il sesto anno dell’Era
fascista; l’anno in cui ancora faceva sentire la sua aura
floreale l’Art Decò mentre nasceva l’OVRA, la polizia segreta
del Regime che preannunciava una nuova epoca, non proprio
facile, per tutti quelli che, come mio padre, erano fieri di
appartenere all’Arma fedele dei Reali Carabinieri. Allora, più
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di oggi, la Real Arma veniva particolarmente impiegata per
debellare la malavita. Infatti, l’ordine che il Primo Ministro
Benito Mussolini aveva appena dato ai 60.000 Carabinieri
del Regno era stato chiaro e forte: “Liberatemi da questa
delinquenza con ferro e fuoco!” Ciò era da tradursi in: “Dovete
battervi a costo della vostra vita!”. E, in pochissimi mesi,
soltanto nella zona dell’allora provincia soppressa di Caserta,
chiamata “Mazzoni”, erano stati arrestati all’incirca 1.700
affiliati alla malavita e, nel territorio di Aversa, altri 1.300 al
prezzo di un olocausto di diverse “giubbe nere” nel mentre in
terra di Sicilia, il Prefetto Mori ed il Giudice Giampietro mettevano
sotto scacco la mafia che prorompeva da Bolognetta, Marineo,
Misilmeri, Piana dei Greci, Santa Cristina, Termini Imerese,
Patti, Belmonte, Piana dei Colli, Corleone, Casteldaccia,
Bagheria, etcetera. Ero ancora piccino, però ricordo molto
bene lo sguardo che mia madre rivolgeva a papà ogni qualvolta
usciva da casa. Quell’atmosfera familiare è come se mi fosse
penetrata nelle ossa, nelle vene, senza mai più dileguarsi.
Ricordo che un pomeriggio papà leggeva la “Domenica
del Corriere”. Io giocavo con una palla di pezza. Lui era
seduto su uno sgabello quando all’improvviso, trasecolando,
esclamò: «Che onore!» Poi, ripose la tazzina di caffè nelle
mani di mamma che lo fissava senza proferire parola. Lui,
avvertendo sulla pelle quello sguardo compassionevole, le
disse: « Senti… senti cosa dice il Corriere, Rosa, ascolta: “…gli
omicidi commessi dalla mafia in quei piccoli e graziosi centri
siciliani assommano, negli ultimi sei mesi, a ben 300… sono
caduti nello svolgimento del proprio dovere i carabinieri:…,
…, etc.” Hai sentito! Sono stati ammazzati dieci carabinieri,
dieci… come cani! Ci sta pure chillu povero Ciruzzo, te lo
ricordi?» Mamma gli rispose: «… con onore, Vero? Ma mo’
chi glielo restituirà il padre a quelle povere creature?». Papà
abbassò lo sguardo continuando a leggere, lasciando che le
parole di mamma volassero al vento, gli scivolassero addosso
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come sempre, senza degnarle di alcuna risposta.
Fortuna è stata per papà che Nocera e l’intera Valle del Sarno
erano in quel tempo luoghi molto, ma molto più tranquilli dei
Mazzoni e della Sicilia. Fortuna è stata anche la nostra perché,
sebbene fossimo in otto, nonostante le ordinarie avversità
del tempo, siamo cresciuti in sanità. Eravamo sei fratelli e
due sorelle, io ero il primo, il “fratello maggiore”. Ed, essere
il “maggiore”, “’o primmo”, come si dice nel mio dialetto,
significava molto. Designava una responsabilità. Significava
essere “responsabile” verso tutta la famiglia, verso mia
mamma ma soprattutto verso i fratelli. Significava proteggerli,
provvedere a loro - per quanto possibile - specialmente nelle
lunghe assenze di papà ed, inoltre, voleva dire essere già
“pronto”, malauguratamente gli fosse accaduto qualcosa, a
sostituirlo in pieno, prendere il suo posto. Non mi spaventava
la responsabilità, ma vivere con l’ansia che un giorno o
l’altro qualcuno avrebbe potuto bussare alla porta di casa
per comunicarci che papà era caduto “nell’adempimento
del proprio dovere”, mi faceva crescere in perpetua tensione
fortificandomi precocemente. Mamma, che si chiamava Rosa, è
stata un grande punto di riferimento per tutti noi, specialmente
per me. Mai ha consentito che facessi dei sacrifici per i
miei fratelli. Era originaria di Boscotrecase. Boscotrecase,
in quella che fu una volta la “Grande Torre Annunziata”,
insieme a Pompei e a Boscoreale costituiva il territorio di
Torre. Io, ho sempre tentato di emulare mio padre. Ne subivo
il suo fascino e quello della sua divisa nera. Spesso, quando
rincasava di sera, lo spiavo per vederlo sfilare dalla fondina
la lucidissima pistola Glisenti per estrarne il caricatore. Poi,
prima di addormentarsi, lo sorprendevo mentre la riponeva
nella fondina e quindi sulla sedia ai piedi del letto sotto
un cumulo di cose: guanti, mantellina, bandoliera, giberna,
calzoni, giubba, bicorno, etc., assicurandosi che nessuno di
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noi potesse scorgerlo.
A proposito di papà, vorrei riportare un fatto campanilistico
- tratto dal “Risorgimento Nocerino” del 27 ottobre del 1929
- che lo vede coinvolto e farà sorridere sicuramente i tifosi di
calcio nocerini:
“Dal 1920 al 1930 la Salernitana non era mai riuscita a battere
i cugini Nocerini, mentre questi l’avevano sempre spuntata sul
campo sportivo militare di Salerno. Eppure, era necessario
sfatare la tradizione!... Questo era il pensiero assillante dei
dirigenti e sportivi salernitani che, per rafforzare il prestigio
della Società, nominarono Presidente onorario del sodalizio
il console Riccardo Gambrosier comandante la Legione
Aquila di Salerno! (c’è da aggiungere che in questi dieci anni
di lotte sportive fino allo spasimo furono escogitati, da ambo
le parti, tutti i mezzi, leciti ed illeciti, pur di far prevalere la
propria superiorità). La Nocerina, prevedendo le mosse nemiche
dato che le due società dovevano disputare nel medesimo
girone centro meridionale il campionato di 1ª Divisione aveva
parato il colpo affidando la presidenza onoraria al Colonnello
Pavone del 30°, famoso e leggendario comandante degli
Arditi, superdecorato della guerra di redenzione 1915-1918.
La lotta fra due angeli tutelari, sempre cortese, si svolgeva
nei limiti della propria autorità: Pavone forte del suo passato
di grande condottiero… Gambrosier, fortissimo del suo
presente che lo induceva ad imperare, ma non la spuntò mai!
Don Riccardo era molto buono, affabile ed incapace di far
del male… Ma la divisa, gli stivaloni lucidissimi e tant’oro
sul berretto… gli davano un aspetto marziale… un’euforia
superiore di comando. Le due squadre si presentarono in
Piazza d’Armi a parità di punteggio, tonificate da una grande
preparazione tecnica e morale, da una battaglia di volantini,
con i comizi nei caffè e all’aperto. Il campo era gremitissimo
e nella piccola tribuna di legno le due schiere dei tifosi erano
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pigiati come sardine in barile. Nella tribuna d’onore riservata
alle autorità il Colonnello Pavone, circondato da una schiera
di Ufficiali aspettava gli ospiti!... Il Console Gambrosier
non si fece attendere: seguito da capimanipoli, centurioni e
militi fece l’ingresso in tribuna! Facevano ala al reparto
Gigino Schiavo ed Aniello Barba i quali non riuscivano
a nascondere l’imbarazzo fra il dovere di militi e la passione
di grandi tifosi della Nocerina! Don Riccardo fu ricevuto dal
Colonnello Pavone, ufficiali e dirigenti con tutti gli onori
militari e sportivi e mentre un trombettiere tifoso salernitano
suonava l’attenti, una voce tuonante e roboante, gridò: <Per
il Console Gambrosier… Eia! Eia!...> quando il grido fu
coperto da un pernacchio sonoro, stridente e tanto potente che
fece sussultare tutti! Vi fu uno sbandamento generale e molte
risate contenute; Don Riccardo si fece pallido e tremante;
un’offesa simile non poteva passare impunita e, con grande
autorità ordinò ai suoi militi di arrestare subito il villano. Il
Colonnello Pavone, un poco seccato per l’incidente non perse
la calma, poggiando una mano sulla spalla del Console disse
laconicamente: < Signor Console, è una pernacchia “sportiva”,
che non lede la sua personalità; se poi ci tiene a punire quel
grande maleducato incosciente spetta a me a dare degli ordini,
perché, qui, comando io!> Ciò dicendo ordinò al caporale dei
Carabinieri di servizio in tribuna di scovare il colpevole! Per
il caporale dei Carabinieri Giovanni Gambino, socio
della Nocerina, vecchia volpe che conosceva i suoi polli non
vi erano dubbi! Detentore assoluto di quel primato era uno solo
a Nocera! e per giunta suo amico e collega (sic):il Presidente
della sezione locale dei Carabinieri in congedo! Per calmare i
nervi degli offesi, ordinò ad un suo carabiniere di servizio sotto
la tribuna di arrestare un tale che scappava… Era un povero
ammalato del Manicomio di Nocera, ospite fisso del campo
sportivo… sempre pronto ad assumersi tutte le responsabilità
altrui incoscientemente! Don Peppino Belsito, il vero reo,
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sgusciando inosservato dal cancelletto della rete metallica,
entrava nel recinto di giuoco assumendo la veste di tutore
dell’ordine, con gesti e parole suadenti cercava di calmare gli
animi mentre il caporale Gambino serio e rigoroso, gridò: <Il
primo che parla e fa un gesto, lo porto al fresco!>Di rimando
la voce rauca di don Antonio Petrosino, il più calmo tifoso
della Nocerina, colui che non gesticolava, non fiatava ma
che soffriva come Tantalo, esclamò: <Con questo caldo, un
po’ di fresco è l’ideale…>. E Gambino, il finto accigliato,
rispose: <Tu stai zitto e giù le mani, altrimenti ti trascino
fuori dal campo…> Tutti risero di cuore. Il primo tempo finì
a rete inviolate. Il secondo tempo si svolse al cardiopalma
fra azioni pericolose alternate poi, su errore di Ceresoli,
spintosi all’attacco, la Salernitana passò in vantaggio fra
lo sgomento dei tifosi locali. La tradizione era finalmente
sfatata! Gambrosier all’impiedi, petto in avanti, salutava
fascistamente i suoi giocatori; mentre il Colonnello Pavone
abbassando il sottogola del berretto e gesticolando con le
mani, come per correre all’assalto gridava:<Forza Molossi,
all’assalto, avanti, avanti, alla riscossa!> All’incitamento del
Comandante i Molossi Nocerini attaccarono furiosamente
mentre in tribuna vi fu una bolgia infernale: <Arrembaggio!
Arrembaggio!> si gridava. Il caporale Gambino non sapeva
più chi mantenere poi, seccato, trascinò fuori dal campo don
Antonio Petrosino e ritornato in tribuna, ammonì:<Chi
più vuole andare al fresco?> Nel mentre, esplose un boato di
applausi e grida accompagnato da gesti e segni poco ortodossi
dei più accesi tifosi! La Nocerina aveva pareggiato ed i suoi
Molossi attaccavano sempre più furiosamente costringendo i
Salernitani ad una difesa affannosa. Intanto, il bicorno di
Gambino era volato dalla tribuna e questi, girandosi, rivide
don Antonio Petrosino che, rientrato da un buco sotto la
staccionata era livido come un gambero rosso, aveva gli occhi
fuori dall’orbita, il volto paonazzo e stringeva i pugni in alto
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in segno di trionfo gridando verso Gambino: <Chisti so’ goll!
Chisti so’ goll!> che abbracciò. <Al fresco!> gridò una voce
canzonante. <Altro che fresco, questo lo porto al manicomio…
al manicomio…> rispose Gambino frastornato e felice.”
Mio padre, che si chiamava Giovanni, è stato un buon padre
ma devo riconoscere che è stata mamma a sostenermi a
scuola. Lo devo a lei se ho potuto frequentare il Ginnasio
e poi l’Università di Napoli. E’ stata lei, sempre lei, che
in quei momenti di sbandamento adolescenziale mi ha
instancabilmente incoraggiato a portare a termine gli
studi, a laurearmi, trasmettendomi una visione del futuro
entusiasmante. Il suo sogno era di vedermi “avvocato” per
difendere i deboli ma, soprattutto, per tenermi lontano dal
“giogo delle armi”. Il giogo delle armi. Già, è così che mi
diceva. Soltanto da adulto ho capito cosa volesse significare.
Con la sua esperienza di vita e senza scuola aveva capito che
l’arma in sé rende schiavi, sottomessi a un destino spesso non
piacevole. Un concetto che non ho mai condiviso perché per
me “servire” la mia Terra è stato sempre un grande onore ed
essere sottomesso al mio destino, una vera missione di vita.
Mantenermi a scuola non è stato affatto facile né per lei né
per mio padre: otto figli da crescere non è certo come fare una
passeggiata! Le sarò sempre riconoscente, soprattutto perché
mi ha consentito di essere la persona che volevo, l’uomo che
oggi sono anche se, con suo dispiacere, le armi, sono stato
costretto ad impugnarle ugualmente. Al destino non si può
chiedere quando, citando il titolo di quel film paganese di
Guido Maria Valetta. Mamma, spesso dissimulava con papà
affinché avessi il necessario per preservare la mia dignità
ma senza però toglierlo ai miei fratelli. Papà era una persona
buona ma troppo presa dal suo senso del dovere che lo faceva
apparire, ai nostri occhi, spesso burbero ed incomunicabile.
Di mamma credo di averne ereditato l’ardore e lo spirito di
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sacrificio, di papà lo smisurato senso del dovere e l’amore
per la propria terra che chiamava, gonfiando il petto come un
pavone, “Patria”.
Sono anni che non ascolto più questo termine: “Patria”. Al
solo suono di questa parola che significa “terra dei padri”,
ai miei tempi, chiunque era pronto a portare, e con orgoglio,
la mano sul cuore, pronto a strapparselo, pronto ad offrirlo in
sua salvezza senza indugio alcuno. In questo istante, mentre
scrivo la parola “cuore”, il pensiero vola alle mie sorelle… a
Pasqualina… ed alla bellissima e cara Teresina…
Prima di iniziare qualsiasi racconto è necessario, da parte
mia, far conoscere come, tanti italiani, pur nella sconfitta
delle armi, hanno onorato l’Italia sui campi di guerra. Forse
è terribile sapere di poter morire a vent’anni, ma è proprio
questo sapere che nobilita ancora di più i caduti, i mutilati, i
prigionieri, ed anche, se un po’ meno, quanti, indenni, hanno
potuto far ritorno a casa, proprio come me.
Dunque, l’8 aprile del 1939 inizia l’occupazione italiana in terra
d’Albania ed il 23 agosto dello stesso anno la Germania attacca la
Polonia: Varsavia capitola dopo soltanto ventisette giorni. Il 10
giugno del 1940 l’Italia entra in guerra. Io ho vent’anni e mi arruolo
volontario. Mi affiorano i ricordi del Ginnasio, del “Gian
Battista Vico” di Nocera Inferiore (Sa) allora collocato in un
fatiscente stabile nel rione Vescovado. Nell’androne era posta
in tutta evidenza una lapide degli studenti morti in guerra.
Come un carosello rivedo il Preside Di Lorenzo; il suo Vice e
zelante insegnante di latino professor La Mura; il professor Faiella
che per farmi impegnare nello studio è costretto ad appellarmi
“Ciucciariello di Pantelleria”; il severissimo e burbero “prof”
di matematica Cantone. Poi, come un flash rivivo un episodio
particolare: il professor Cantone un lunedì entra in aula e,
ieratico, annuncia alla classe intera: “Tra di voi ci sono due
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traditori della Patria!” Noi ci guardiamo l’uno negli occhi
dell’altro sbigottiti e curiosi di scoprire i “colpevoli”. Poi il
silenzio si rompe ed il “prof” fa due nomi che echeggiano
nell’aula come una condanna a morte: “… sono Giacomo
Gambino ed Arturo Bove, vergogna!”. Io tremo. Mi assale
il panico e poi d’istinto con un fare quasi minaccioso anzi
disperato esclamo: “Non è vero!” Ma lui, serafico, invitandomi
a sedermi ribatte: “…sabato scorso, dopo l’appello tu e Bove
siete scomparsi dall’adunata degli Avanguardisti…è vero?!”
Ed io: “Si, ma…”. “Niente ma!” Replica il “prof” che battendo
la mano sulla cattedra ci preannuncia un provvedimento in
corso. Provvedimento disciplinare che non è mai arrivato
grazie all’intervento del professore di religione, il canonico
Mancino, nominato poi Vescovo e che rincontrai nel 1948
quando mi rivelò il retroscena: “Sapessi che bugia ho dovuto
raccontare nel Consiglio d’Istituto per non farti espellere da
tutte le scuole d’Italia… e sai perché? Perché quel sabato ti ho
sorpreso giocare a pallone proprio a quell’ora…”
Mi ridesto dal ricordo e come d’incanto mi trovo alla Scuola
Allievi Ufficiali di Complemento Fanteria di Salerno (20ª Zona
Militare Territoriale). La guerra non mi spaventa e quando
guardo quel mare salernitano dalla chiesa dell’Annunziata,
non posso fare a meno di incantarmi come un bambino.
Quella vasta distesa azzurra mi porta con la memoria alle
nostre piccole scampagnate allo scoglio di Rovigliano. Alle
nostre ammuine. Mamma ci controllava a vista perché non
facessimo “guai” e, con quell’abito scuro a fiori minuscoli
che la copriva fin sotto i polpacci, ci inseguiva sull’arena
umida per ricondurci sotto la sua ala protettrice. Ci contava
con lo sguardo come il pastore conta le sue pecorelle. Era
bella, giovane, dolce, pur avendo imbarazzo a dimostrare
la sua tenerezza che malamente mascherava con quei modi
spicci nel dialetto che amo tanto. Appena distolti gli occhi
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dal mare, però, ancora penso a lei, ma con la preoccupazione
di recarle dolore. E’ lei il mio “dolore”, non il rischio che
avrei eventualmente corso per la mia vita, quello non mi
recava alcuna dolenza, né tormento. Adesso comprendevo
meglio mio padre. Sono stranamente tranquillo anzi, direi
impassibile, indifferente, ma non spensierato, e se posso
confessarlo, nemmeno incosciente, nonostante ho l’età propria
che, con l’incoscienza, ci va splendidamente a nozze. Mi
sento “coscientemente vivo” e il pensiero di un presumibile
combattimento credo che amplificherebbe ancora di più quello
stato di interiore felicità, di strano eccitamento che io chiamo
semplicemente, vita. Per chi ha studiato il greco, mi sento
stranamente pervaso da quello che gli antichi chiamavano
agape: l’amore universale. So che il mio “destino” è difendere
la mia terra, la mia gente, la mia famiglia, e il pensiero di
ciò mi fa sentire un “prescelto”: se non avessi provato quel
“sentimento” non sarei mai riuscito ad anestetizzare la mia
anima indomita, anelante di giustizia e di libertà né di godere
di quella strana felicità che si mostra a coloro che si sentono
protagonisti nel mondo, parte operosa di esso. Sia ben chiaro,
non mi sento un salvatore ma so di compiere qualcosa di
buono nel bene. Il mio concetto di libertà prescindeva dalla
disciplina; libertà per me significava ed ancora significa fare
della propria vita ciò che è “giusto”, ed il “giusto” è quello
che mi è stato insegnato da mio padre con l’esempio, e da mia
madre con la pazienza.
Alla fine del corso allievi ufficiali sono nominato sottotenente
ed assegnato al 31° Reggimento di fanteria di Napoli dove faccio
domanda di essere inviato in zona d’operazioni. Intanto sono
stato insediato presso il Comando Deposito di Maddaloni, “sempre e
dovunque forte e fedele” come recita il motto scritto all’ingresso
della caserma. Neanche il tempo di cucire i gradi sulla divisa
che arriva l’ordine di mettermi in treno e raggiungere il Porto
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di Brindisi; ho preso l’accelerato Napoli-Foggia e per la prima
volta ho viaggiato sui velluti della prima classe. Ero vestito
in tenuta da campagna e nello scompartimento una signora
anziana mi squadrava di continuo, fin quando mi ha chiesto
se ero un avanguardista o un giovane fascista. Quando le
ho detto che ero un ufficiale dell’esercito, con destinazione
Brindisi, al fine di imbarcarmi per l’Albania, è scoppiata in un
pianto dirotto perché impressionata dalla mia giovane età;
forse ai suoi occhi dovevo sembrare proprio un bamboccione.
A Brindisi mi imbarco sulla motonave “Campidoglio” insieme
ad un centinaio di compagni d’armi. Il convoglio è formato
da sei o sette navi, non ricordo con esattezza, c’è anche un
cacciatorpediniere di scorta forse della XV Squadriglia, ed
un idrovolante, un Savoia-Marchetti S.M.79, lo stesso tipo
di aeroplano pilotato dal Maresciallo Balbo. E’ il 7 novembre. I
primi freddi del ’41 sono sopraggiunti insieme alle bombe che,
a mezzanotte e cinque minuti spaccati, prima di prendere il
largo, scrosciano sull’intera città di Brindisi in un diluvio
fatale mentre i siluri sfrecciano a pelo d’acqua come squali
incarogniti scoppiando nelle pance delle nostre navi. La
Royal Air Force aveva sventagliato una formazione di feroci
bimotori Beufort che, provenendo dall’isola di Malta, avevano
avuto la missione di radere al suolo le fortificazioni portuali e
la flotta in mare prima di far ritorno al loro quartier generale.
Che Dio li abbia in gloria. Quei ragazzi erano davvero dei
diavoli.
L’incursione termina all’alba dell’8 novembre e, quando
finalmente sento che le montagne d’acqua non si sollevano
più, come il Mar Rosso di Mosè, sbatacchiandoci, il boato
deflagrante delle bombe ed il rombo dei motori è svanito
insieme all’ululato forsennato delle sirene antiaeree e alle
urla dei civili, il mio orologio segna le cinque e dieci. Mi segno
con la Croce e volgo lo sguardo in quel cielo albeggiante,
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adesso totalmente sgombro. Anche le nuvole sono scappate
lasciando che l’aria si squarciasse per inghiottire il fumo
rossastro e fuligginoso dei roghi che divorano gli ultimi resti
della città in ginocchio.
Certo è, che un augurio migliore di buon viaggio non avrei
proprio potuto averlo! Nonostante ciò, la mia indolenza non
ha subito ripercussioni, non ha spalancato la bocca della
paura ma si è trasformata in ansia, la stessa che ha pervaso gli
anni della mia infanzia e dell’adolescenza: l’ansia dell’evento
fatale, della “grande responsabilità”. Se quel bombardamento
era stato da me vissuto, in quelle interminabili cinque ore,
come se non fossi stato lì, ora che tutto era finito, o meglio,
ora che avevo la contezza che tutto iniziava, mi sentivo
investito più che mai di responsabilità enormi verso il Regno,
gli Italiani e la mia coscienza che gridava qualcosa che non
comprendevo ma molto simile a ciò che precede la “vendetta”.
Oggi penso ancora a quello stato emotivo incomprensibile, a
quel sentimento minaccioso inaspettato, ma so che è stato
l’alimento del coraggio che mi ha consentito, alla fin fine, di
portare integra la pelle a casa. Qual è lo stato che precede
la vendetta? Il fuoco della sopravvivenza o il gelo della
rassegnazione. Io non volevo sopravvivere, volevo soltanto
vivere. Palpitare. In conclusione, affrontiamo il viaggio. Il
mio plotone si è scosso dall’inatteso battesimo di fuoco e ha
preso a canticchiare con la voce dell’inquietudine:
« Son finiti i giorni lieti
degli studi e degli amori
o compagni, in alto i cuori
e il passato salutiam.
È la vita una battaglia,
è il cammino irto d’inganni,
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ma siam forti, abbiam vent’anni,
l’avvenire non temiam,
Giovinezza, giovinezza,
primavera di bellezza!
Della vita nell’asprezza,
il tuo canto squilla e va!
Non più ignava né avvilita
resti ancor la nostra gente,
si ridesti a nuova vita
di splendore più possente…»
Dopo aver cantato con loro mi apparto a guardare i marosi
dall’oblò nel mentre ogni cosa dentro di me si confonde
all’altra. C’è burrasca, ma è più quieta di quella dentro di
me. Il “caporale di giornata”, addetto alla distribuzione del
cognac, si avvicina porgendomi una borraccia. Bevo tutto d’un
sorso quel liquido incandescente che mi scivola nelle budella
come argento vivo. Mi riavvicino ai miei con una espressione
tranquillizzante. Li fisso negli occhi ad uno ad uno e gli
rinnovo l’ordine di tenere ancora le scarpe sempre slacciate
sino all’approdo. Qualcuno sussurra qualcosa, ha il suono
di un’imprecazione. Li scruto in silenzio e come d’incanto
tutto tace, poi sorrido. Scoppia una risata collettiva e vedo
sui loro volti finalmente un po’ di luce, una luce dalla quale
traggo tutta la forza di cui ho bisogno. Ne sono consolato.
Al mio fianco c’è Vietri, il mio amico napoletano che insiste
sempre nel ricordarmi che è un parente di Raffaele Viviani. Con
Vietri ho già condiviso, prima di imbarcarci, ore goliardiche
all’osteria del porto di Brindisi. Con la sua simpatia di
napoletano verace aveva invitato a cena, a spese mie, due
ballerine che si erano appena esibite per noi soldati. Era la
vigilia del bombardamento. Per tenere i ragazzi su di morale
Vietri racconta, profittando della risata generale, ciò che aveva
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fatto prima di imbarcarsi ma senza coinvolgermi più di tanto
e ci riesce talmente bene da strappare oltre alle risate anche
sospiri… Allora intervengo ordinando di raggiungere subito il
suo posto. Vietri mi conosceva molto bene ed aveva compreso
il mio richiamo. L’allegria fa sicuramente bene ma quando
si dice “donna”, in quella situazione, si dice “danno”. Molti
dei ragazzi si addormentano, altri sembrano rilassati. L’odore
nauseante della nafta bruciata unita al rollio costringe i più
delicati a farsi spazio fra la truppa per correre a vomitare.
Attraversiamo il Canale d’Otranto diretti a Durazzo. Lo
scandaglio misura una profondità di 4.000 metri. Nessun
sommergibile in avvistamento né navi nemiche. Ad ognuno
di noi è stato comunque consegnato un salvagente. Un
salvagente che non avrebbe tenuto a galla neanche un
pacchetto di sigarette. Ho riso tra di me per non piangere, Ci
avviciniamo alla costa di Durazzo. Nel porto c’è un’autocolonna
di mezzi di trasporto e di mezzi pesanti che ci attende. Ma c’è
anche un nostro piroscafo semi affondato che mi fa dubitare
della tanto nostra sbandierata potenza aerea e navale. La
prossima meta è Tirana. Nel trasbordo pare di scorgere un mio
concittadino: Giovanni Della Casa, di Nocera Inferiore. (Salvo
errore di tempo e di luogo, perché il mio ricordo risale ormai
a settant’anni fa.) Un vero campione di ping pong. Quante
partite avevamo fatto da ragazzi e quante rivincite gli avevo
chiesto quando frequentavamo la Società sportiva Nocera
a Santa Chiara. Giovanni era davvero un asso a tennis da
tavolo ma io mi rifacevo alla grande sul campo di calcio, ero
considerato un attaccante veloce e concludente. Lo chiamo
d’istinto: “Giovanni! Giovanni! Della Casa! Giovanni Della
Casa!” Non mi sente. Il suo elmo scompare tra le migliaia
di milizie che vanno e vengono come formiche operose.
Arriviamo a Tirana attraverso una vallata ciottolosa. Il porto,
come quello di Durazzo, è pieno di operai Italiani che lavorano
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al suo ampliamento riparando i danni dei bombardamenti.
Ovunque mi giro odo parlare in dialetto barese o in quello
napoletano, ascoltare questi dialetti mischiati sembra quasi
di essere a Torre, al mio paese d’infanzia. Sui pennoni e dai
balconi sventolano gigantesche bandiere rosse con un’aquila
nera a due teste tra due fasci littori.
Elbasan
Finalmente arriviamo alla meta: il 136° Distretto Militare di
Elbasan. La campagna greco-jugoslava è iniziata il 6 aprile
dal fronte nord Sloveno-Croato e da quello sud Albanese.
Mi presento al Comando. Sono un ufficiale con il grado di
sottotenente: “Sottotenente Giacomo Gambino al rapporto,
Signore!”. Nell’attesa di essere destinato al Fronte il
Comando mi incarica di occuparmi di polizia. Nell’accettare
le consegne offro subito la mia disponibilità per la prima
linea. Mi affidano un plotone armato di moschetto. Il territorio
pullula di partigiani che, appostati sulle montagne, creano
scompiglio soprattutto tra i civili. I cecchini sono invisibili,
costanti e silenziosi come le gocce che scavano la roccia.
Dalle informazioni che ho assunto so che le truppe partigiane
sono manovrate dal combattente Enver Hoxha che ha fondato in
clandestinità il Partito del Lavoro che diventerà, poi, la guida
del movimento di liberazione nazionale del popolo albanese.
Sento tanta energia dentro di me. Quanto darei per conoscere
questo Hoxha… Forse sarà per il pane e lardo che mangio
da quando sto qui ma scalerei quelle montagne pietrose per
andarlo a scovare e prendere i suoi ribelli a calci nel culo pur
di mettere fine a quello stillicidio assassino per poi finalmente
raggiungere il Fronte, la prima linea. Combattere finalmente
faccia a faccia con il nemico. Dopo neanche un mese, il tempo
di ambientarmi, mi presento di nuovo a rapporto al Comando
Truppe di Albania a Tirana per rafforzare la mia disponibilità
per la prima linea anzi negli Arditi, il corpo speciale d’assalto.
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Il perché? Ho sempre ammirato Gabriele D’Annunzio, l’impresa
che concluse vittoriosamente a Fiume aveva accompagnato,
come una leggenda, la mia infanzia. Da adulto ne ho, poi,
potuto apprezzarne il coraggio, il valore e l’amore per la vita
forte quanto quello per una morte onorata decantata attraverso
il motto: “O la vittoria, o tutti accoppati”. D’Annunzio era
un’anima sensibile ed impavida. Un letterato ed un soldato.
Nelle more degli spostamenti il mio desiderio non viene
assecondato a causa della capitolazione della Grecia e così
ritorno al 31° Reggimento.
Il Comando Superiore delle Forze Armate è retto dal Generale
Alessandro Pirzio Biroli. La campagna dura soltanto dieci
giorni, grazie alla forze dell’Asse, con la resa incondizionata
della Jugoslavia. E’ il 17 aprile. Sul Fronte Greco-Albanese la
consistenza del magazzino per il Fronte è precaria: viveri di
riserva, nulla; equipaggiamento, minimo; indumenti di lana,
zero; munizioni, poche; armi, esaurite tutte le disponibilità;
materiale del genio, praticamente nullo; materiale sanitario,
insufficiente. Insomma, in Albania non c’è ormai più niente
ed io svolgo attività di polizia sentendomi per nulla utile alla
causa. Il Fronte è di 250 chilometri presidiato da 160.000 uomini
di cui 100.000 in linea ed io, con il mio moschetto, sono tra
questi 60.000 e “rondo” per mantenere l’ordine mentre potrei
benissimo essere là. Mi sembra di sognare.
L’11 dicembre del 1941 Benito Mussolini, da Piazza Venezia,
dichiara guerra agli Stati Uniti d’America.
L’Albania, già occupata dal 7 aprile del 1939, era stata unita al
Regno d’Italia soltanto il 12 aprile del ‘41 quando, nello stesso
anno, con la disfatta della Jugoslavia anche parte del Kosovo e
della Macedonia vengono arrogate all’Albania.
Non ho mai dimenticato il tempo trascorso in Elbasan, perché
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è proprio lì che ho cominciato a preparare il primo esame
“Storia del diritto romano” in circostanze di certo originali.
Vivevamo in tenda e le lucerne di ordinanza non mi
permettevano la sera, di avere luce sufficiente per leggere
il mio librone; la luce elettrica esisteva in un bel locale, di
quelli che da circa cinquant’anni sono stati aboliti, al quale
era permesso accedere dalle 21,00 in poi agli ufficiali, con
diversi turni, uno per la truppa ed un altro per i sottufficiali,
nel corso della giornata. Mi sembra che il prezzo di ingresso,
consumazione inclusa, fosse di 20 lek, ossia circa 25 delle
nostre Lire e così unendo l’utile al dilettevole mi sono
preparato per l’esame.
I prodotti erano esclusivamente italiani e senza volere
scendere in disamine moralistiche o sociologiche, devo dire
che le ragazze del locale si preparavano a riprendere l’anima
ed i sentimenti di donna alle 21,00 della sera, cantando o
ballando o parlando con noi, dopo avere indossato gli abiti più
belli. E’ proprio vero che con il male può sempre coesistere
anche il bene.
La guerra al Fronte è finita. Ricevo l’ordine di imbarcarmi
sulla motonave “Città di Marsala” per raggiungere di nuovo
Brindisi. Vi permango un paio di mesi perché in attesa di nuova
destinazione. Sono ancora un “volontario” altro che “traditore
della Patria” come accusava il vecchio professor Cantone! In
questa bella città c’è stato il maggior numero di vittime civili
causate da bombardamento aereo in Italia dall’inizio della
guerra. Le bombe l’hanno sfigurata e quasi tutti i brindisini
si sono spostati nelle località viciniore. E’ una città fantasma.
Cammino tra le macerie e ne resto profondamente scosso. “Ad
Elbasan i civili si stavano battendo per riottenere la propria
terra ed io li fronteggiavo, adesso impreco per ciò che è stato
fatto alla mia Patria e non so più da che parte mi trovo…”
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dico tra me. Poi, mi rendo conto di indossare ancora la divisa,
di essere un soldato, di aver scelto di esserlo e impongo, a
me stesso, di non dimenticarlo mai più. Mentre cammino per
recarmi al Comando, passo dinanzi all’osteria. Penso alle
ballerine, alle orecchiette al sugo, allo schiamazzo delle risa
di Vietri che echeggiano nella mia mente con durezza. Arrivo
alla base. Un ufficiale superiore mi comunica di presentarmi
al Comando. Mi presento sull’attenti e appena finito di
esclamare le mie referenze l’alto ufficiale mi consegna l’ordine
di assegnazione al 79° Reggimento fanteria, Divisione “Pasubio”.
E’ l’ottobre del 1942.
Il 1º maggio 1942 era stata costituita l’8a Armata, conosciuta
meglio come A.R.M.I.R., ossia: Armata Italiana in Russia.
L’A.R.M.I.R., affidata al comando del Generale Gariboldi il 9
giugno comprendeva la mia Divisione, la “Torino”, la 3° Celere
“Principe Amedeo duca d’Aosta” ed il raggruppamento CC.NN.
“3 Gennaio” con i Gruppi “Tagliamento” e “Montebello”, già
presenti sul suolo russo ed inquadrati nel XXXV Corpo d’Armata
(C.S.I.R.), le Divisioni “Sforzesca”, “Ravenna”, “Cosseria”
e il Raggruppamento CC.NN. “23 Marzo” con i Gruppi
“Leonessa” e “Valle Scrivia”, inquadrati nel II Corpo d’Armata
e le Divisioni “Julia”, “Cuneense” e “Tridentina”, costituenti il
Corpo d’Armata Alpino, inizialmente destinato ad operare
sulle montagne del Caucaso. A queste forze era stata aggiunta
la Divisione “Vicenza”, formata da 2 Reggimenti di Fanteria,
con compiti di presidio nei territori occupati. La Divisione 3°
Celere aveva inglobato anche la Legione Croata. Queste erano
le forze radunate e schierate in Russia dalla seconda decade
del giugno 1942.
Da una località di mare a pochi chilometri dal porto di Brindisi
raggiungo il convoglio ferroviario: destinazione Ogolew.
Salgo sul vagone. Con gli altri aspettiamo che faccia buio.
Finalmente è notte e si parte. Tutto tace. Ogni tanto penso
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a quella devastante incursione aerea, al mio battesimo di
fuoco a Brindisi. Mi segno con la Croce. So che questa è la mia
battaglia. So che il Fronte sul Don non è Elbasan. Sono stipato con
altri nella tradotta. Siamo soltanto un paio di ufficiali ai quali
è stato riservato un angolo insieme al marconista, al caporale
di sanità e al Cappellano. Nel vagone dinanzi al mio ci sono
i muli che, ogni qualvolta circumvola un aereo, cominciano
a menar calci creando un fracasso indicibile, drammatico,
scuotendo le nostre coscienze assopite dal futuro. A notte è
cupa e lenta.. Il treno avanza attraversando tutta la Penisola,
con fatica s’inerpica su per le Alpi: il Brennero, l’Austria, la
Germania. All’alba, in una stazione tedesca, abbellita con fiori e
drappi rossi con croci uncinate, ci attende una fanfara sparuta
che ci “incoraggia” con le sue note wagneriane per colmare
i vuoti “ideali” degli “Italiani brava gente”. Le ore passano,
ma arrancano come il treno. Dal finestrino vedo campagne
immense, bellissime, villaggi con chiese dalle cuspidi nere,
alte ed appuntite. Poi la Polonia. Il corso di un fiume con le
sue acque d’acciaio. Sugli occhi dei ragazzi è già stampata,
nitida, l’immagine della nostalgia. Il vagone nel quale viaggio
è un carro bestiame con tanto di paglia sul tavolato per tenerci
caldi. I ragazzi, circa una sessantina, viaggiano sulla paglia
distesi, a terra, senza parlare. Ascoltano il rumore delle rotaie
che alimenta i loro ricordi, “visioni” che appaiono dinanzi agli
occhi di ognuno: la donna amata, la casa, i genitori, gli amici,
un dramma famigliare lasciato al suo destino, la guerra …. Il
pasto giornaliero consiste in un limone, quando possibile, e
poi la solita pagnotta a testa, gallette, una scatoletta di carne
di manzo. L’acqua scarseggia. Il carro ferroviario puzza di
afrore e di piedi sudati. L’aria è consumata. Fetida. Tra tutto
ciò, la cosa che però trovo, nonostante la sua problematicità,
ancora goliardicamente divertente è quando dal treno in
movimento buttiamo via ogni specie di rifiuti e udiamo le
imprecazioni degli altri che sono nel vagone dietro al nostro
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con il portellone semi aperto. A venti anni non è mica un
peccato ridere, no? Spesso il lungo convoglio si ferma per dare
precedenza ad un altro treno. Il binario qui è unico. Entriamo
in terra di Ucraina. Il rumore delle rotaie sui binari adesso non
è più sufficiente per ingannarci ancora alimentando le nostre
“visioni”. Ciò che ci appare è il prologo di ciò che ci aspetta
e reca il volto degli stenti e della morte: carri armati sventrati,
vagoni di treno ancora fumanti carbonizzati, case in rovina
incenerite, carogne di animali ghiacciate, uomini morti senza
sepoltura con qualche arto che emerge, rigido, dalla neve
fangosa. Nonostante ciò, nell’attraversare l’Ucraina, ho fatto
una grande conquista. Durante una sosta del convoglio mi
avvicino ad alcuni contadini del luogo che stavano lavorando
la terra. Il popolo ucraino è fatto di gente semplice e cordiale,
anzi gentile, davvero molto garbata e, al primo impatto, senza
ancora avvicinarmi, mi avevano già dato l’impressione di
essere accolto come un messia, un “liberatore”, non come
un nemico nonostante avessi la mano sull’arma. Ecco che
mi vengono incontro in tre, gioviali, per niente avviliti ed
impauriti. Così altri contadini con i miei commilitoni che sono
scesi dal convoglio per sgranchirsi le gambe e sciogliere un po’
di neve nella gavetta per poi bere. I poveri contadini offrono
uova, polli, patate in cambio di sigarette, utensili o quel poco
che ritengono di poter scambiare. Mi avvicino ai tre con fare
marziale e comincio a parlare in italiano con un’espressione
per niente rilassata. Ero certo che non capissero un’acca di ciò
che dicevo; invece, con mia meraviglia, si mettono a ridere,
mi disarmano con il loro fare disincantato e mi rispondono
nella loro lingua assolutamente incomprensibile. La cadenza
di quella lingua non mi suona ostica. Mi rilasso ma tenendo
ancora la mano destra poggiata sull’arma. Quando sono vicini
a me mi consegnano un cucciolo di cane. Rimango per un
istante stranito. Sono davvero confuso. Che gente, mi trovo
nel loro paese, li abbiamo assediati e loro mi trattano da
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amico! E la guerra? Cos’è la guerra, allora? Perché non mi
offendono? Perché non fanno correre il loro sputo dalle loro
bocche avvilite anziché del sorriso? Se quella fosse stata la
patria che avrei dovuto difendere, la mia Patria, come mi sarei
comportato io? Forse la guerra serve a comprendere il mondo,
gli uomini, il principio divino di giustizia? Ma dov’è il bene
e dove il male? Io stavo andando al Fronte perché credevo in
quello che facevo. Perché sapevo di essere dalla parte giusta.
Stavo difendendo la mia Nazione, porca miseria! Mi sento a
tratti felice ma allo stesso tempo meschino. Non lo so perché.
La paura non è mai riuscita a farmi barcollare, la “pace”
invece sì. Specialmente adesso. Comunque, mi avvicino
ancora a quei tre ucraini che sembrano una famigliola di
braccianti e dico. “Grazie!”. In effetti mi stavo avvicinando a
loro proprio per quel cucciolo che vedevo saltellare tra le loro
gambe e la mia intenzione era di barattarlo. E’ un bel pastore
tedesco, un cane-lupo come lo chiamiamo noi italiani, con un
musetto magnifico ed un pelo lungo e morbido marrone sul
dorso e nero nei fianchi. Quando me lo ritrovo tra le braccia
mi sento l’uomo più felice del mondo… “Grazie! Grazie!
Grazie!” Ripeto loro come un ebete. E loro “Bud’ laska…
druh”. Dicevano. “Prego, amico”, ma io non conoscevo
ancora quelle parole che avrei ancora ascoltato, nonostante
la guerra. L’unica parola che conoscevo era snih, neve. Non
ho nulla con me se non un po’ di danaro che consegno alla
giovane donna imbacuccata che mi ha porto il cucciolo. Mi
congedo da loro mantenendo l’aplomb di ufficiale, faccio
qualche passo indietro con il cucciolo tra le braccia, poi mi
fermo e vado di nuovo loro incontro e li saluto con affettuosità,
quasi un abbraccio. All’unico uomo che è con loro, di circa
una quarantina d’anni con barba lunga e baffi folti, offro la
sigaretta che ho tra le labbra ancora spenta e all’anziana un
santino della Madonna di Pompei che lei bacia abbassando lo
sguardo su di essa. Mi riavvio verso il vagone. Il cuccioletto
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intanto latra ed io gli rispondo: ”Certo che lo so come ti chiami,
ti chiami Don, perché questo sarà il tuo nome”. Questa, è stata
una delle più grandi “conquiste” della mia vita: il cucciolo
che mi leccava per manifestare il suo affetto, quella gente che
ancora mi salutava come se fossimo amici e ci saremmo rivisti
più tardi, la comprensione delle parole “guerra”, “giustizia”,
“umanità” ma anche di Bud’ laska, e druh che presto riudirò
nonostante la guerra. Soltanto adesso, però, posso scrivere
con mio grande rammarico che le truppe italiane ritorneranno
in quel luogo dopo pochi giorni dalla mia partenza, ma non
da amici: il 2 novembre, il giorno dei morti, il 79° della Pasubio,
combatterà angolo per angolo contro una resistenza tanto
accanita quanto disperata, occupando Gorlovka.
Prima di aver superato l’Ucraina, il ”granaio d’Europa”, avevo
incrociato migliaia di civili, uomini e donne, che lavoravano
alla strada ferrata per allargarla, comandati con veemenza da
militari tedeschi che sbraitavano e cani lupo affamati, ma il
convoglio non si era fermato. Abbiamo proseguito ancora per
qualche dozzina di chilometri in treno e poi siamo scesi tutti.
Un’autocolonna di camion Bianchi modello Miles ed una
quindicina di motocarri a tre ruote Benelli ci attendevano.
Ma non siamo saliti tutti quanti. Io con un quarto di convoglio
siamo destinati a percorrere circa duecento chilometri a
piedi, nella neve, per raggiungere il Fronte. Il treno aveva
dovuto obbligatoriamente fermarsi proprio perché i binari
russi erano più grossi di quelli europei. Iniziamo la lunga
marcia cantando. Marciamo notte e giorno, giorno e notte,
perdendo così la voglia di cantare e non solo. Siamo stremati
ed infreddoliti. Che culo che hanno avuto i compagni di
convoglio. E’ il pensiero che invade la mente di tutti noi.
Desideriamo un cantuccio caldo. Tutto intono a noi sembra
deserto. Una visione metafisica. Un “non mondo”, quasi un
sogno, il sogno della realtà. Quella visione diventa ancora per
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me più strana, anzi incomprensibile, quando metto a fuoco
quelle migliaia di civili che ho incontrato prima sulla strada
ferrata. Indossavano una casacca, quasi uguale per tutti, ma che
si differenziava per il simbolo che vi era cucito sulla schiena:
una grande stella gialla, un triangolo rosso, o nero, oppure
verde… Odo ancora le grida veementi degli alleati e l’abbaiare
dei cani lupo affamati tenuti al guinzaglio. All’istante avevo
pensato che fossero simboli. del campo di lavoro e che quei
civili fossero prigionieri russi invece erano ebrei, uomini e
donne in giovane età. Ma quel ricordo si era fissato nella mia
testa senza svanire. Chissà perché. Raggiungiamo stanchi ma
soprattutto straniti per l’effetto del gelo che ha indebolito la
percezione dei nostri sensi, le sponde del Don. Il nostro umore
è a terra. Siamo esausti. Molti soldati si sono ammalati. Altri
tremendamente depressi e piangono come bambini. Giunti al
fiume, in gran parte ghiacciato, facciamo subito la conoscenza
del nostro “nemico russo” che è appostato sull’altra sponda.
Il bagliore dei mortai illumina a sprazzi il bianco manto. A
quest’ora della notte la temperatura sfiora i quaranta gradi
sotto lo zero. Beviamo un po’ di brodaglia calda allungata
con del cognac e qualche tubero sminuzzato. Alle prime
luci dell’alba, all’alzabandiera, comprendiamo finalmente
dove siamo: un paesaggio algido, bianco, surreale, uniforme.
Bianco, e poi bianco e poi ancora bianco, così gli alberi, la
terra che calpestiamo, le alture, i piccoli corsi d’acqua, l’aria
che respiriamo a fatica, ed il cielo. Tutto bianco. Anche le
nostre uniformi sono bianche e gelide. Chi ha indossato l’elmo
senza il passamontagna per troppo tempo ha rischiato il coma
per assideramento. I Russi, silenziosi ed appostati al di là
del fiume, stanno conducendo la loro guerra, la guerra del
freddo. Il Don, nel luogo in cui siamo, ovvero al “Blocco Sud” è
largo circa mille metri. Ogni tanto parte un’offensiva nemica
accompagnata da salve di mortai per sondare le nostre forze
e poi silenzio ed ancora silenzio. Dopo pochi giorni mi rendo
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conto che il nostro equipaggiamento non ci avrebbe consentito
una lunga resistenza in quel territorio dalla temperatura
siberiana. I Cosacchi indossano giacche imbottite, pantaloni
grossi, copricapo in pelliccia e soprattutto scarpe calde ed
impermeabili che non erano per niente paragonabili ai miei
stivali di cuoio già utilizzati e sperimentati sul Fronte Albanese.
Lo sapevano anche i nostri Comandanti superiori, il Generale
di Divisione Guido Boselli e quello di Brigata Davide Borghini pur
convinti che ce l’avremmo fatta per il dispiegamento delle
forze impiegate.
Al termine di tutti gli spostamenti, la posizione definitiva
dell’8a Armata sul medio Don risulta la seguente: la “Tridentina”
a Nord, con la 2a Armata ungherese sul lato sinistro, poi la
“Julia”, la “Cuneense”, quindi la “Cosseria”, la “Ravenna”; qui lo
schieramento dell’8a Armata viene interrotto dalla 298a Divisione
tedesca, per riprendere con la “Pasubio”, la “Torino”, la “Celere”
e la “Sforzesca”; a conclusione dello schieramento verso Sud,
con alla sua destra la 3a Armata romena. Quindi, l’8 a Armata
presidia la parte del Don insieme alla 298a Divisione tedesca
seguita dalla “Torino”, la “Celere” e la “Sforzesca”.
Il giorno successivo all’arrivo mi presento al mio ufficiale
superiore, il Comandante di Compagnia Capitano Fiorini, di
Grosseto. A lui è affidato il Blocco Sud che comprende
Krassnogorowka, Ogolew e Abrassomowa. Intanto avevo affidato
“Don” ai miei soldati. Le piogge invernali sono iniziate e
le piste sono pantani di ghiaccio sporco. Il 79° è distribuito
sui presidi 3,4 e 5 del Caposaldo “Zeta”, il più avanzato, dove
si scava sempre per predisporre i ricoveri, indispensabili
per sopravvivere a quelle temperature glaciali. Il caposaldo
“Zeta” è un’ansa del Don di quella grande linea curva che
strategicamente è stata chiamata “Cappello Frigio” ma non per
ricordare la Rivoluzione Francese né tantomeno Napoleone e
la sua disastrosa disfatta nella Campagna di Russia del 1812 ma
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proprio perché quella linea, così tracciata, assomiglia molto a
quel misterioso copricapo frigio eletto a simbolo della libertà
che un po’ assomiglia al nostro cappello di Pulcinella. A
rapporto, Il Capitano Fiorini mi affida parte del Caposaldo “Zeta”.
Il mio compito è quello di conquistare giorno dopo giorno
quote di quella vasta linea di Fronte. Dopo pochi giorni mi
accorgo che il mio compito si è ridotto a mantenere quella
linea di Fronte, la mia quota, a non cederla. Il decimo giorno
capisco invece che c’è poco da fare nonostante si ripetono con
metodo, isolati attacchi russi simili a fastidiose punture di
zanzare, che nonostante la loro insidia indifendibile vengono
puntualmente respinti dai miei. Nel respingerli, si aprono
però su altre sponde, nuovi varchi a favore del nemico. Ho
preso posto con il mio plotone in uno dei fossati-trincea.
Sono sovrappensiero ed infreddolito pur certo che dopo il Don
la guerra finirà. Come ho già detto, nell’aria aleggia questa
specie di presagio perché i nostri comandanti, influenzati dai
rispettivi comandi generali, tendono a sottovalutare l’Armata
Rossa e pensano che la dura campagna estiva aveva stremato
i Russi rendendoli incapaci di offenderci in “grande stile”.
Ed allora, continuo a far scavare trincee, fossati anticarro e
a stendere reticolati, per rendere le mie quote inespugnabili.
“Don”, il mio piccolo “Don”, fa i turni di guardia con le
sentinelle ed è davvero molto attento. Un vero soldato,
sempre sul chi va là. Il mio miglior soldato. Un “volontario di
guerra”, felice di esserlo, proprio come me. Il turno di guardia
dura dai 15 ai 20 minuti circa per evitare assideramenti ma
“Don” ne fa moltissimi al giorno e, quando è stufo, torna da
me per avere qualche coccola, specialmente quando sa di
aver svolto bene il suo compito: spesso, abbaiando, mette in
allerta le guardie che si assopiscono per il freddo e, quando
ringhia, significa che qualcuno sta tentando di avvicinarsi
alla linea più del consentito. La nostra trincea è una buca
di circa due metri di profondità coperta da foglie, rami,
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tronchi, ed ha un unico varco per accedervi o scappare. Nel
caso di un attacco massivo siamo destinati a fare la fine dei
topi in trappola. “Avessimo almeno con noi qualche “madrina
di guerra” per riscaldarci tutto sarebbe più sopportabile…”,
disse un caporalmaggiore di sanità. Abbozzo il mio solito
sorriso. Con il Capitano Fiorini c’è stata subito una certa
empatia. Gli piace la mia compagnia perché riesco sempre
a sdrammatizzare, specialmente nei momenti cruciali, tanto
che gli riportai anche l’istanza del caporalmaggiore di sanità.
Non mi rispose ma dopo qualche minuto disse: “Ma avete
cominciato a familiarizzare con questa gente? Ci sono tanti
villaggi ospitali, qui”. Il mio Capitano non è caduto al Fronte
ma da civile. E’ morto circa 15 anni dopo la guerra per una
terribile malattia: un tumore al cervello. Anche allora, prima
di morire, sono riuscito ancora a farlo sorridere… Al funerale
ha avuto gli onori militari da un reparto di soldati comandati
da un ufficiale; i compagni di guerra Gambarotta, già Generale
paracadutista a suo tempo alfiere del nostro Reggimento, poi
Rinaldo Migliavacca, io e qualche altro non siamo mancati per
dargli l’ultimo addio.
Chissà se la mia guerra avrà mai fine… In trincea, più che
mai, non ho mai avuto un solo attimo di smarrimento, di
normale paura, ma ripeto, non è, la mia, incoscienza. Credo
che qualunque ufficiale abbia provato quello che ho provato
io e comprenderebbe le cose che intendo. La responsabilità
che hai per la vita degli uomini che ti vengono assegnati non ti
consente di pensare a “te”: dal tuo esempio, dalla tua volontà,
dalla tua prontezza, dal tuo coraggio dipendono la vita e la
morte di ognuno di loro. In quel “buco” la posta ci perviene
ogni 5 o 6 giorni. Ai miei genitori racconto solo frottole per
non farli penare. La più incredibile è quella che ho scritto
stamattina. Ho detto loro che sono in “fureria”, che sono al
calduccio nelle retrovie, in amministrazione, e sono costretto
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a fare lo scribacchino. So, comunque che, conoscendomi, mai
mangeranno la foglia. Se avessi fatto la guerra da scribacchino
non so se avrei preservato quel po’ di coraggio che ancora
credo di avere. Sicuramente avrebbe saziato la viltà che credo
ognuno di noi abbia. In verità, faccio davvero lo scribacchino,
ma per i miei soldati in trincea. Quelli che vedo murati, come
foche, nel profondo di un lago, da una lastra di ghiaccio.
Quelli che non hanno bisogno di parlare per raccontarmi il
mondo che vedono, quello in cui stanno vivendo e dal quale
vorrebbero uscire, loro malgrado, ma non ce la fanno. E non
faccio soltanto lo scribacchino; l’aliquota degli analfabeti era
notevole in quei tempi. Gli leggo anche la posta che ricevono.
Ma questo, è un compito molto più difficile. Vorrei scrivere
invece ai miei genitori, ai miei fratelli e sorelle che mento
ai miei ragazzi. L’ho fatto più di una volta. Ma sono costretto
a farlo. A loro “racconto” ciò che vogliono ascoltare, non lo
leggo dalle lettere che ricevono. Perché venire a conoscenza,
in guerra, che un tuo caro è passato ad altra vita può anche
portarti a quel tipo di eroismo che si chiama suicidio oppure
a disinibirti talmente da metter in pericolo la vita dei tuoi
compagni… Nonostante, penso che i miei ragazzi mi vogliano
bene, cari mamma e papà. Vorrei anche confessarvi che la
peggiore delle punizioni che ho inflitto loro è stato un calcio in
culo e quella che ho inflitto a me è stata non pensarvi sempre.
I ragazzi che si sono poi battuti ad Arbusov, nel Tcertkowo, in
prima linea, venivano per lo più dai Carceri Militari. I miei
da quello di Gaeta. Nessuno può immaginare che “scorza”
da “delinquenti” avessero! Sicuramente per essere stati
condannati qualcosa avevano pur fatto: forse avevano tentato
di disertare, di rubare qualche coperta, si erano probabilmente
sbronzati, avevano disatteso agli ordini impartiti, avevano
litigato tra di loro o “semplicemente” avevano alzato la voce
con un superiore. In effetti, stavano già conducendo una
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guerra, una loro guerra, ancor prima che scoppiasse la guerra,
quella vera, quella dal suono rintronante e terribile di Seconda
Guerra Mondiale. Quella per la quale esistevano tante ragioni
per giustificarla ma nessuna era valida, direbbe oggi uno di
voi lettori. Io invece, da militare e da ufficiale dicevo, quella
per la quale esistevano tante ragioni valide ma nessuna veniva
utilizzata per non farla. In effetti, non è la guerra che uccide gli
uomini, sono gli uomini che inventano la guerra per uccidere.
Ancora mi sforzo a comprendere il delitto per il delitto ma
la “storia” non mi ha dato mai una mano per dissuadermi.
Perché allora ho scelto di essere un soldato? Sembra banale
o pura demagogia, ma questa mia risposta trova concretezza
in questo nostro mondo: ho scelto di essere un soldato per
difendere, per difendere ciò che amo, la mia gente e la mia
terra. Come mi piacerebbe ripetere a tutti quelle parole che
ascoltai in un colloquio e se non sbaglio furono pronunciate
dal Cristo: “…quando non avevate nulla, vi mancava forse
qualche cosa?”. Ritornando ai miei soldati “galeotti”, il Duce
aveva deciso di offrire loro una possibilità: la guerra in prima
linea in cambio della pena condonata. Chi aveva accettato era
in trincea a meditare su ciò che aveva fatto. Chi non aveva
accettato era in cella tra le bombe a meditare su ciò che non
aveva fatto.
Comunque, in questo fosso gelato oltre al freddo ci morde la
fame e con la fame i pidocchi. Questi animaletti diabolici, più
del freddo e della fame, sono diventati il nostro passatempo
preferito. Cacciarli è un sollievo gratificante. La caccia ai
pidocchi consiste, oltre all’offensiva di “prima linea” mediante
lo schiacciamento con le unghie dei pollici, nel bollire gli
indumenti infestati con l’acqua ricavata dalla neve sciolta in
grossi bidoni. A dirlo sembrerebbe a dir poco semplice, ma
non lo è. In primis perché non possiamo accendere fuochi
per non farci localizzare dai Russi ed in secundis perché le
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nostre divise per asciugare ci impiegano una vita. Per quanto
riguarda i miei soldati-galeotti, posso serenamente dichiarare
di non essermi mai interessato di prendere visione dei loro
fascicoli, non mi incuriosisce per nulla scoprire di quali colpe
e crimini si sono macchiati in tempo di pace. Sono stati affidati
a me ed essi si sono affidati interamente a me, la loro vita è
nelle mie mani. Ciò è sufficiente per poter offrire, qualora
ce ne sia bisogno, la mia vita in cambio della loro salvezza.
In guerra si sviluppano delle dinamiche emotive forti dove
nulla conta se non l’amicizia, il rispetto, la comprensione.
Certo è che sono in grado di affermare che, se mi inviano
in un campo di concentramento a svolgere il mio compito
di ufficiale, la Corte Marziale decreterà sicuramente la mia
condanna a morte perché il secondo giorno farei evadere tutti
i prigionieri, specialmente se sono donne, bambini e vecchi…
Ma questa è un’altra cosa ed un’altra storia: io non sono a
Buchenwald ma se pure mi avessero ordinato, da militare, di
andarci, senza alcun dubbio se avessi saputo ciò che oggi so
di Buchenwald, avrei volontariamente indossato la casacca da
“traditore” mostrando il mio petto al plotone di esecuzione
pur di non commettere le empietà che sono state commesse e
che da soldato riconosco che siano state commesse. Ma sono
al Fronte e non ho, grazie a Dio, il compito di fare il boia
ma dare istruzioni a veri soldati o meglio, a soldati veri. Già,
perché questi “condannati” dotati di un coraggio selvaggio
non hanno accettato un baratto ma un’occasione di riscatto
e di espiazione. Per rimanere bene in argomento anticipo già
quanto mi è accaduto quasi alla fine della ritirata: Ero stato
da qualche giorno ricoverato in un ospedale militare dove, mi
sembra, d’aver incontrato l’amico dottor Rocco Fasciani, quando
sono arrivate le prime bordate dell’artiglieria avversaria. La
ripresa del ripiegamento è stata immediata e le prima sosta,
la sera, è avvenuta in una località chiamata Iasinovataia, mi
sembra. Con cinque o sei commilitoni abbiamo passato la
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notte in un fienile ed appena arrivata l’alba mi sono preparato
per la partenza. Con non poca meraviglia ho notato tre giovani
russi che dormivano beatamente poco lontano; un sottufficiale
che li conosceva mi ha riferito che non erano né partigiani,
né militari, non erano nemmeno armati, che si nascondevano
al fine di non essere inviati in un campo di concentramento,
anche se ancora molto giovani. In quei giorni anche i tedeschi
erano in ripiegamento, per il ché non avrei saputo a chi
consegnarli anche se, dimenticando che avrebbero potuto
ucciderci mentre dormivamo, e non l’avevano fatto, nulla
mi avrebbe consentito un atto di simile gravità verso tre
minorenni; sono ancora adesso orgoglioso per la decisione
presa.
Ritornando al Caposaldo “Zeta”, il mio Caposaldo, ormai
abbiamo davvero poco da difendere, altro che inespugnabile!
L’offensiva russa è precisa e tenace e noi, come aveva
previsto il nemico, cominciamo ad indebolirci sempre di
più. Tale debolezza, che non ha attaccato la nostra personale
forza ma l’intera strategia di guerra, è evidente dai movimenti
confusi dell’A.R.M.I.R. e dai numerosi buchi nel Berretto Frigio.
I cecchini nemici si sono asserragliati a cento metri dal Don.
Sono invisibili come lo era Hoxa in Albania, come lo sono i
loro colpi che centrano con una abilità disarmante nonostante
il gelo fitto e la neve offuschino l’aria rendendola opaca più
della nebbia bassa del Po. Le notizie si susseguono. L’ultima
dice che a Tcertkowo truppe motorizzate sovietiche hanno
circondato una delle colonne della nostra Armata passando
attraverso la breccia creatasi nel Fronte e adesso stanno
imperversando nelle nostre retrovie. Io, continuo a tenere
la mia linea comunque ben serrata ma non senza problemi.
Dio mio… è accaduto anche che muovendomi più di una
volta in avanscoperta, verso il Don, mi sono ritrovato solo
sulle sue sponde. Allora, sono ritornato indietro e ho preso
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a calci in culo quel manipolo di tartarughe che, nel seguirmi
strisciando o avanzando carponi, si sono trovati imbucati in
montagne di neve con le estremità degli arti congelate. Come
è accaduto, pure, che per incutere timore e far acquisire loro
il giusto “slancio” - calato non tanto dal fuoco nemico ma
dai bollettini informativi del Fronte - ho dovuto mostrargli
minacciosamente, avanzando come un coccodrillo, la mia
Beretta d’ordinanza pur consapevoli quanto me che mai
l’arma avrebbe sparato per il gelo ma sicuramente gliela
avrei lanciata senza scrupoli come un martello. Ma quelle
mia sortite non hanno provocato l’effetto atteso. Allora sono
avanzato impugnando un badile ed ecco che i miei hanno
finalmente ritrovato il vigore e il coraggio e mi hanno seguito
come i lupetti seguono la mamma-lupa per non disperdersi
sognando di mordicchiarle il seno e godere del tepore delle
sue membra impellicciate. Intanto, il mio “Don”, il mio piccolo
lupo, ha imparato più alla svelta di loro e nelle avanzate mi
precede, spesso mortificandomi e suscitando tanta ilarità tra
quei “galeotti” redenti. Spesso mi viene di strangolarlo o di
prenderlo a calci come faccio con la mia amata ed irridente
marmaglia. Nonostante, il mio Plotone, quello dei galeottiredenti, è considerato uno dei più ben addestrati perché
in grado di portare al Comando sempre informazioni delle
linee nemiche. Informazioni ben dettagliate relativamente
ai movimenti di truppe e di mezzi in corso. Per essere ben
dettagliate significa che si spingono oltre rischiando la vita
più di quanto loro è richiesto. In effetti, chi può accusarli di
fermarsi prima o dopo quel limite immaginario che diventa
concreto soltanto quando vi cadi ferito o morto? Ciò che ancora
non mi spiego è come fa il mio “Don” a distinguere la divisa
nemica dalla nostra, forse dall’odore di vodka… Chissà... Ma
pensandoci bene come non avrebbe potuto il mio “Don”,
soldato effettivo della “Divisione cane” non riconoscere il
nemico? E’ così che chiamano i Russi la nostra Divisione, la
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“Divisione cane”, “Division Sabaca”, per le mostrine con la
Lupa romana sulle nostre giubbe.
E’ il 10 dicembre e l’8ª schiera 220.000 uomini e 7.000 ufficiali, un
soldato ogni sette metri. Il bollettino di guerra ci informa
che tre giorni prima gli Americani sono stati bombardati dai
Giapponesi a Pearl Harbour.
Il giorno successivo, l’11 dicembre, le unità sovietiche iniziano
la strategia di sfiancamento, comincia la così detta ”Operazione
Saturno”. Sfondano il settore della Divisione Ravenna
logorando la tenuta dell’ansa di Ogolew e la nostra quota che è
estesa per circa 25-30 km con più di cinque divisioni.
Resistiamo per quattro giorni con il panico negli occhi. Il 15
dicembre viene sventrato, in forza, tutto il Fronte presidiato
dalla Pasubio. Le fanterie russe lasciano centinaia di caduti
italiani sul terreno, o meglio sulla neve che diventa purpurea e
brilla alla luce fioca del crepuscolo, e il nostro 79° è diventato,
per usare un’espressione cara agli storici moderni, “una
vigna sotto la grandine”. Raccolgo tutte le mie forze, faccio
appello al mio carattere ottimista per tenere tutti vicini e sotto
controllo. Tento di placare gli umori. Non è facile. Mi arriva
l’ordine di prepararmi al peggio. Il giorno dopo, il 16 dicembre
l’Armata Rossa mette in campo le forze pesanti terrestri e quelle
aree, in massa. E’ un inferno. Grida, sussulti, imprecazioni,
terrore. Cominciamo a ripiegare ed il 17 siamo al Pianoro “W”
di Krasnojarowka. Qui, mi assegnano altri soldati che, in quel
tumulto di sangue, di urla, di fuoco e di tuoni, hanno perso
le proprie posizioni. Alcuni sono feriti gravemente e li affido
alle cure sanitarie, altri mistificano malori che non hanno e
ferimenti che invece sono medicabili. Li guardo negli occhi,
uno ad uno. Sono stanco e confuso non meno di loro ma non
posso né devo mai dimostrarlo. Chiedo ad ognuno il nome
ed il reparto di provenienza. Faccio una cernita per tipologia
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di “personalità”. Divido quelli più timidi ed impauriti dai
gradassi ed imprudenti in modo che possa poi assegnare
loro un ruolo confacente alla propria indole e soprattutto
confacente al momento che stanno vivendo. Tutti sappiamo che
per il peggio al momento non c’è fine nonostante si continui a
dissimularlo ad ogni livello. Sono trascorsi non più di due mesi
e annaspiamo dal primo giorno d’arrivo nel ventre putrefatto
della guerra alla ricerca di una via d’uscita che non sia più
drammatica di quella presagita. E’ arrivata l’ora di tentare di
riportare il culo a casa, ma con onore. Ci seppelliamo ancora
in una tana-trincea. Il sottosuolo russo è gelido e pieno di
topini un po’ più grandi degli scarafaggi. Viviamo in simbiosi
con queste creaturine orripilanti. Mentre mangio se ne
ammucchiano a dozzine e dozzine e me le trovo nelle tasche,
nel passamontagna ed in ogni piega degli indumenti perché
cercano un cantuccio caldo. Per stare al caldo siamo costretti
adesso a bruciare il carburante a rischio di farci individuare
e finire sotto il tiro dei mortai. Quando non siamo attaccati, e
di giorno accade non molto spesso, faccio preparare le armi e
studio il nemico per piazzare l’artiglieria. Ma i colpi arrivano
da ogni parte. Con l’aiuto dei muli ci arrivano dei pentoloni di
zinco, qualcuno li cala nella tana per farci nutrire e resistere
ancora. Contengono tutto ciò che si presume potesse bastarci
per un giorno: caffè, un cucchiaio di cognac per uno, un
po’ di pasta, del brodo di minestra. Ma tutto diventa gelido
tanto che siamo costretti a rompere il cibo con le baionette.
I pacchi partiti dall’Italia, che le famiglie inviano ai soldati
sul Fronte, che contengono spesso indumenti, castagne, fichi
secchi, farina e pane si fermano chissà dove. Siamo isolati
dal resto del mondo. Nessuno sa più niente di noi, di ciò a
cui stiamo andando incontro. Intanto, l’attacco delle truppe
siberiane è, in rapporto di uomini, di 1.000 a 30. Allo stato delle
cose, ho un soldato ogni 20 metri e per giunta armato soltanto
di moschetto. Abbiamo finito la pomata anticongelante per
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ingrassare gli scarponi ormai ridotti a pezze bagnate. Molti
soldati avvolgono ai piedi lacerti di coperta con dentro paglia
per evitare l’assideramento e quindi l’amputazione di qualche
dita. Indossano i passamontagna e guanti grigioverdi di lana
ridotti a stracci. Molti non hanno neanche più i contenitori
porta maschera antigas né gli elmetti in quanto se ne sono
liberati durante il ripiegamento. Sono dotati soltanto di giberne
per le munizioni e di dragona per il fodero della baionetta.
Non c’è più una linea continua, compatta. Gran parte della
linea è facilmente attraversabile. Dice una canzone russa
contadina: “Sièrp i mòlot, smièrt i gòlod” (Falce e martello,
morte e fame). Io ripeto in mente, invece: “Sono giovane e son
forte, non mi trema in petto il cuore: sorridendo vo alla morte
pria di andare al disonor!” Dopo tre giorni di resistenza ha
inizio la ritirata vera e propria, sono le cinque e dieci del 20
dicembre. Ricevo l’ordine che all’indomani, il 21 dicembre del
1942, aliquote della Divisione Ravenna e della mia Divisione la
Pasubio dovranno aggregarsi al grosso della colonna preceduta
dalla 298a Divisione tedesca. Ancora, marciamo difendendoci
anche dai partigiani sdraiati con i loro fucili puntati, dietro
agli ammassi di pietre di chiese incenerite e dietro alle isba
occupate. Vorrei catturarne uno per poter calzare, soltanto
per un giorno, i suoi caldi valenchi, ovvero gli stivali di feltro
ampi, tipici dei contadini.
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Distintivo Fronte Russo
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Parte Prima
Capitolo II
La ritirata.
E così inizia la nostra ritirata sulla direttrice ArbusowkaCercowo.
Ma lasciare la linea del Fronte, posta sulla riva ovest del
Don, mi comporta qualche perplessità in base al seguente
ragionamento: se avessi abbandonato il caposaldo, (il
caposaldo va difeso fini alla morte), sarei incorso in gravi
conseguenze di natura disciplinare od addirittura penale,
mentre se non avessi seguito i reparti in ritirata (un ordine
personale in tal senso però non mi è mai pervenuto), sarei
venuto meno al più elementare obbligo di obbedienza.
Il problema si è risolto da solo quando, prima dell’alba, la
nostra artiglieria, ritenendo, esattamente, che nessun reparto
italiano fosse rimasto sulla linea del fiume, ha iniziato un
intenso fuoco di sbarramento proprio su di noi.
Acquisita la certezza di non poter più ritardare la soluzione
della questione, ho chiamato il collega Vincenzo D’Argenzio e
gli ho consigliato di assaltare gli assedianti che dormivano
ancora vicino ai fuochi della notte, mentre noi eravamo
all’addiaccio, e di correre poi verso la nostra artiglieria; io
con gli altri soldati mi sarei occupato di tenere a bada gli
eventuali, assonnati inseguitori. Tutto si è risolto per il
meglio con poche perdite, però difficile è stato far cessare il
fuoco amico, “alzo zero”, gridando a squarciagola: “Italiani!
Italiani!”. Inutile dire che ormai avevamo di fronte le armate
siberiane non più impegnate a contrastare i giapponesi, le
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stesse che nell’inverno del ’43 hanno annientato la VI armata
tedesca a Stalingrado. E per essere meno superficiale devo
chiarire che l’indimenticabile amico D’Argenzio non voleva
lasciare il caposaldo (ormai non più esistente) per il che gli
ho dovuto gridare più volte:
“Via… vai via; guida i tuoi soldati, ho detto che ti ordino
di lasciare la linea immediatamente! Adesso”; sono circa le
quattro del mattino. E lui, come intontito dalle cannonate mi
dice: “…E tu?”. “Ascolta…” gli ripeto “…io rimango per
coprirti le spalle e poi, Dio volendo, ti raggiungerò. Adesso
va’..”.
Non saprei, oggi, se sono stato l’ultimo a lasciare il Fronte, ma
penso di si, perché se qualcuno vi si fosse attardato sarebbe
stato spazzato via dai proiettili delle artiglierie italiane e russe.
Dopo di me, veramente, l’ultimo è stato il mio cane soldato,
Don, che mi ha seguito zigzagando veloce come una lepre, tra
gragnole di colpi, ed una volta salvi, ci siamo rifocillati con
una scatoletta di carne di manzo divisa a metà in parti uguali.
51
Parte Prima
Capitolo III
Rientro al Comando Battaglione.
Prima di raggiungere il comando, sito in un grosso capannone
perché il vecchio rifugio ormai era saltato, ho notato che in
una isba a pochi metri dal sentiero, stazionavano una decina
di militari; mi sono avvicinato ed ho gridato loro di ritirarsi
perché l’ultima resistenza, (la mia) era saltata e che non
aveva ormai alcuna protezione; ancora inascoltato mi sono
avvicinato di più, tanto da vedere un ufficiale medico che,
senza scomporsi, mi ha fatto segno di proseguire, perché lui
non avrebbe mai potuto lasciare quei ragazzi, feriti, senza
assistenza. Avrei voluto chiedergli chi era, il suo cognome,
ma il momento e le circostanze difficili mi hanno consigliato
di lasciar perdere.
Sono arrivato così dal mio comandante, Maggiore Tedeschi, il
quale senza nemmeno farci riposare ci ha spedito per un’altra
destinazione così ben descritta nel diario storico della Divisione
Pasubio, mi sembra a pag.287, dal seguente contenuto:
“…il morale non è per nulla scosso e tutti si augurano di
ritornare presto sulle vecchie posizioni come avvenne, nel
Natale 1941, nel settore della Celere.
Una falla rimasta aperta sul Fronte del II/79 a nord di
quota 156,0, viene chiusa immettendo in linea il battaglione
ferrovieri: specializzati che sono pronti a battersi come fossero
di fanteria.
Altre infiltrazioni si verificano fra il limite di settore delle
CC.NN. e Monastyrschischina dove i russi affrontano alcune
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unità di mitraglieri della “Torino”, in afflusso verso le alture
sud del bastione di Getreide, che li arrestano.
Verso le ore 13,00 il Capitano Fiorini, salito sulla copertura
di un ricovero, riferisce che a circa un kilometro, vede una
massa di sovietici che stanno avanzando in direzione dei
battaglioni tedeschi. Tutto il personale occupa subito le
trincee e viene impartito l’ordine solo su comando ma uno
dei mitraglieri, purtroppo, apre il fuoco prematuramente per
cui i russi, che non si erano accorti della presenza di unità in
quel tratto, si ritirano sul pendio verso il paese e, dopo circa
mezz’ora, attaccano la 7^ compagnia fucilieri anche da nord,
nord-ovest minacciandola di accerchiamento.
Nessuno si perde d’animo bensì si entusiasmano tutti. Il
Capitano Romagnino al centro, il Capitano Fiorini con
i Sotto Tenente Grervisari e Grazioli sulla sinistra ed i
Sotto Tenenete Pileri, Sasso, Santagapita e Gambino sulla
destra, si prodigano continuamente da un punto all’altro. La
spinta nemica è fortissima, ma i difensori continuano a sparare
mirando accuratamente per evitare lo spreco di munizioni. Un
porta arma del Capitano Fiorini, ferito alla fronte, rifiuta
di essere aiutato per non sottrarre un combattente alla difesa
e questo episodio s’inquadra in tanti altri che evidenziano
quanto sia elevato il morale dei combattenti. Verso le ore
14.30 l’avversario, appostato a circa trecento metri dalle linee
avanzate, lancia il solito grido di <Hurrà, hurrà,hurrà!> come
se stesse assalendo. Nello stesso momento una quarantina di
italiani escono dalle trincee al grido di “Savoia!” trascinando
tutti gli altri anche a sinistra. Ma il nemico è troppo lontano e
la neve, alta circa venticinque centimetri, affievolisce l’impeto
degli assalitori per cui l’episodio si chiude a vuoto”.
Dalla vicenda, sempre salvo errore, siamo usciti vivi solo
Fiorini, Sasso ed io, ma tutti e tre feriti: Fiorini alla spalla, Sasso
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alla mano ed io alla gamba destra, solo di striscio; il primo
a cadere è stato Pileri; colpito alle gambe, e accanto a me,
mentre armi in pugno lanciamo ambedue il nostro “Savoia!”
uscendo dalla trincea in risposta all’ “Hurrà!” dei russi.
Rientrato poi in Italia ho comunicato alla famiglia Pileri tutto
lo svolgimento dei fatti.
Senza più munizioni, quelle poche che avevamo trascinato
sulla neve legate ad una corda od addirittura alle cinghie
dei pantaloni, sono finite e così con i pochi superstiti sono
ritornato al comando; inutile descrivere la commozione del
nostro Maggiore, che ho in seguito rivisto, per l’ultima volta
durante il ripiegamento mentre cercavo invano di forzare la
opposizione avversaria messasi di traverso sulla pista. Il mio
Maggiore è su di una carretta, forse ammalato o ferito, l’ho
avvicinato e mi sono permesso di consigliargli di proseguire
a piedi se voleva avere qualche possibilità di salvezza; mi
ha ringraziato e poi non l’ho più incontrato, neanche dopo il
rientro in Patria. Mi auguro con tutto il cuore che sia rimasto
vivo, anche se prigioniero.
Il 22 dicembre, ad Arbusowka, la valle battezzata con il nome
incoraggiante di “vallone della morte”, affrontiamo un nuovo e
massiccio attacco sovietico. Gli sciatori delle Truppe Siberiane
fanno incursioni veloci come saette e seminano morte e
terrore. Ho paura di perdere il controllo dei miei uomini. Ho
ordinato di resistere. L’ordine che abbiamo ricevuto tutti noi
è tassativo: “Morire sul posto”. Penso a mio padre, a quando
l’allora Primo Ministro Benito Mussolini aveva appena dato ai
Carabinieri l’ordine di liberare il Regno dai malfattori a costo
della propria vita. E’ una grande confusione: Truppe Siberiane,
partigiani e adesso dobbiamo difenderci anche dalla nostra
artiglieria che ci spara addosso alla cieca. Siamo circondati.
Arrabbiati. Delusi. Io con altri uomini siamo rintanati in una
conca e udiamo i colpi dei temibili razzi Katjusa - piazzati a
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circa sette chilometri dalla nostra postazione - esplodere a
vista che espandono nell’aria tumultuosa milioni di schegge
di ghiaccio e di fuoco incandescente. Mi hanno detto che
questi razzi, così tremendi, hanno preso questo nome da una
canzone popolare che narra di una giovinetta che si affligge
di malinconia per il suo amore partito per la guerra. Poveretta
lei ma poveri anche noi costretti a pensare ad una canzone
d’amore che ci giunge con il brivido della morte. Sono giorni
cruciali, questi. I caduti non si contano più. Non ci dicono
nulla ma so che sono circa 20.000 in due giorni. Mi decido
di muovermi dall’appostamento per avere contezza della
situazione, nel mentre cerco di proteggere il mio spostamento
dalle schegge, mi tuffo sotto un cumulo di caduti, forse tra
di loro c’è sicuramente qualcuno che ho conosciuto… Non
mi lascio impressionare né impietosire, non posso farlo.
Aspetto ancora un poco e poi mi rialzo. Nel mentre, un
attacco ravvicinato mi sorprende. Mi trovo esposto da ogni
lato, l’unico riparo per la grandinata di schegge è una balka
piena di cadaveri e lì ho potuto salvarmi.
Abbiamo come ospedale da campo un muro diroccato ed
attorno a quel muro, abbiamo sistemato, solo illusoriamente,
al riparo le nostre centinaia di feriti, militari di ogni grado,
compreso il fior fiore dei nostri comandanti.
Ma il muro disastrato non ha protetto i nostri compagni dalle
grinfie della morte; un sacco di munizioni lanciatoci dagli
aerei tedeschi, appeso ad un paracadute, che non si è aperto,
è terribilmente esploso sul nostro improvvisato ospedale;
tutt’intorno un vuoto di neve bruciata, ma la cosa più
impressionante è stata la caduta dall’alto, ancora per qualche
minuto dopo lo scoppio, di un miscuglio di braccia, gambe,
cappelli, divise; perfino un mulo ancora legato ad una slitta è
venuto dal cielo causando, disgraziatamente, ancora qualche
vittima. Poveretto anche il mulo!
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Ho raccolto tra le macerie un colbacco di pelo che mi ha
aiutato non poco a difendermi dal freddo; purtroppo poi
l’ho perso nell’ultimo tratto di ritirata, avvenuto in modo
straordinario, come racconterò più innanzi.
Rottura accerchiamento Arbusowa
Solo un evento straordinario avrebbe potuto salvarci senza
essere massacrati o catturati; e l’evento si è verificato.
Un soldato, che poi si è chiarito essere un carabiniere, è
montato in groppa ad un cavallo bianco (il colore lo ricordo
benissimo) e, sventolando una bandiera tricolore si è lanciato
verso i russi, appostati a qualche centinaio di metri, gridando:
“Savoia, avanti Savoia! Viva l’Italia!”. (altri particolari li
racconterò meglio più avanti).
Non abbiamo potuto permetterci, a questo punto di vedere il
nostro eroe sacrificarsi da solo, lo abbiamo seguito e protetto
con le nostre armi, gli assedianti si sono ritirati verso al cima
dell’altura, la strada per Cerkowo è stata aperta.
Tutto ha il sapore di un romanzo, sembrava “Beau geste”
uno dei personaggi di Percival Christopher Wren. Ma la
straordinarietà di tutti gli eventi è stata un’altra: arrivato a metà
costa ho notato uno sgabuzzino, in uso di solito ai contadini
per custodire gli attrezzi di lavoro, ho abbattuto la porta di
legno marcio con un calcio, e con non poca meraviglia vi ho
trovato un militare dai lineamenti mongoli, molto marcati,
in procinto di ricaricare una mitragliatrice onde continuare
a spararci alla spalle. Gli punto il fucile alla testa proprio in
mezzo alla fronte, sono preso da una furia indicibile e gli grido
di lasciare l’arma: “Ruki Vverkh! Ruki Vverkh! Ruki Vverkh!
Hands up! Mani in alto!”. L’uomo indossa in colbacco di
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astrakhan ed ha dei bellissimi stivali di foca; quando alle mie
spalle è arrivato un collega ufficiale, il russo si è buttato a terra
come un sacco di patate camminando carponi come se fosse
ferito, fino ai piedi dell’ufficiale italiano sopraggiunto. Chi era
costui? Il mio caro commilitone Giuseppe Marcialis del 31° Rgt
Ftr, anch’egli venuto in Russia con l’81° Rgt Ftr della Divisione
“Torino” cosa che ignoravo, essendo noi due partiti dall’Italia
in tempi diversi; qualche secondo per salutarci con un gesto,
nemmeno abbiamo potuto stringerci la mano, e poi gli eventi
hanno avuto il seguente svolgimento: Marcialis mi guarda, anzi
mi invoca con gli occhi, senza fiatare, come se tentasse di
scacciare via dai miei occhi quel demone che sembra essersi
impossessato delle mie facoltà. Allontano con violenza, dal
soldato, la mitragliatrice e tento di smontare l’otturatore
mentre Marcialis lo tiene sotto tiro. L’arma è malandata e non
avrebbe mai sparato. Un vero rottame. Forse il mongolo
stava tentando di aggiustarla ecco perché non aveva sparato
al nostro sopraggiungere. Mi placo. Lo guardo e scaravento
quel ferro vecchio alle mie spalle. Mi avvicino e gli porgo
una mano per aiutarlo a rialzarsi sempre con l’arma puntata.
E’ davvero ferito a una spalla e trema. Ha avuto paura ma
adesso sogghigna e mi dice ripetutamente “Druh… druh…
druh…” (Grazie… grazie… grazie…). Fa per alzarsi e mette
una mano sulla propria gamba per aiutarsi e nel mentre lo fa,
dal fianco si scorge il calcio di una Luger tedesca che sporge
dalla giubba impiumata. Alla vista dell’arma un giovanissimo
ufficiale, che non ho mai visto e che forse si è unito a noi
per proteggere il carabiniere a cavallo, preso dall’isteria
della paura gli spara due colpi alla nuca con la sua Beretta.
Io e Marcialis non abbiamo il tempo di renderci conto di nulla.
Restiamo come sconcertati, esangui, nel mentre il giovane
e sprovveduto ufficiale cade in un pianto dirotto. Non l’ho
rivisto mai più. Spero che abbia potuto riconciliarsi con la
propria coscienza.
57
Appena ho incontrato Marcialis, una ventina di anni fa, a Sala
Consilina, la prima cosa che mi ha detto è stato proprio questo:
“Ricordi ancora quel mascalzone cosa ha fatto?”.
E’ il momento dei saluti e il caro Marcialis si è premurato,
vedendomi camminare a fatica, di raccomandarmi di andare
al più presto in ospedale. La ferita si è poi rimarginata da sola.
Ritrovo Vincenzo e con il manipolo di soldati ci organizziamo
per raggiungere la Compagnia all’indomani. Ormai tutto è
evidente, porca la miseria! Siamo vicini all’annientamento
totale. Il nemico brucia le nostre bandiere e quelle di altri
Reggimenti. Io, D’Argenzio insieme a pochi soldati resistiamo
con accanimento, sembriamo dei forsennati. Abbiamo perso
qualsiasi facoltà di discernimento. Non so se ad agire è lo
smarrimento o l’istinto di sopravvivenza. O sono due termini
della medesima sostanza? Se dovessi affermare che avevo
paura di morire posso serenamente dichiarare che a morire
non ci pensavo proprio. Penso invece a quel povero mongolo
e anche al giovane ufficiale che porterà per tutta la vita il peso
di quella cruda uccisione. Penso a Marcialis che spero ancora
di incontrare. Sono ore che resistiamo, non abbiamo neanche
il tempo per guardarci in faccia. Mastichiamo qualche galletta
in silenzio, ruminiamo accovacciati come antilopi della
steppa e spariamo appena è visibile un macchia scura nella
foschia. Il vento ci ha gelato il naso e le labbra sono spaccate
e sanguinanti. Bruciano da morire. Siamo assediati da molte
ore. Piovono granate a dirotto. La gamba scotta. Facciamo
il brindisi di Natale con la neve sciolta e poi impartisco ai
miei un nuovo ordine per sottrarci da quello stillicidio che
si trasforma, minuto dopo minuto, in morte certa. Dico di
dividersi in gruppi di due e di rincontrarci giù nella valle di
Tcertkowo appena la nebbia si abbassa ancora e la tempesta
prende a soffiar più forte. Con un’azione a sorpresa io con
i miei uomini riusciamo a bucare l’accerchiamento favoriti
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appunto dalla nebbia che adesso sfiora il suolo imbiancato e
dalla tempesta che ci rende totalmente invisibili.
Stanchi ma soddisfatti e quasi felici siamo in viaggio verso
Tcertkowo come stabilito, a sud-ovest. E’ il giorno di Santo
Stefano, il 26 dicembre del 1942, ancora combattiamo ma siamo
davvero felici. Tanto felici. Ebbri.
Appena giunti ci uniamo alla Colonna che stava riposandosi
e rifocillandosi nella rada nei pressi del villaggio. Mi presento
al mio Comandante e faccio rapporto. Mi da una pacca sulla
spalla e dice. “Bravi i miei magnifici sette! Ma bisogna tenere
ancora duro, Tenente Gambino…”. A tarda sera la colonna è
nuovamente circondata ma da truppe motorizzate che, passate
attraverso una delle brecce create nel Fronte, imperversano
nelle nostre retrovie creando non poche difficoltà ed altri
caduti. Ci viene impartita ufficialmente la ritirata, o meglio il
“Si salvi chi può”, ma con “dignità”. E’ l’una. Una dignità che
valse la scomparsa di 80.000 Italiani tra caduti e prigionieri.
Altro che “mangiapatate”, i Russi sono dei bravi combattenti.
La Colonna si sbriciola. Sembriamo tanti sbandati anzi, lo
siamo. Lo sono anche i nostri fedeli muli che si ostinano a
seguire l’uno o l’altro conducente. Io e i miei uomini infiliamo
nelle tasche della giubba un pezzo di pane nero. Do ordine di
bruciare qualsiasi cosa potesse essere utile al nemico e di
camminare sparpagliati ma sempre a vista. Raggiungiamo a
piedi, ed alcuni bestemmiando, una località in collina,
attraverso una piccola foresta. C’è un’isba, una casa agricola
cosacca. Dall’altura vedo serpentoni d’uomini che, in fuga
come noi, cercano la salvezza. Vola un aereo a bassa quota e
li dissolve come polvere. La nostra isba è riparata da una
macchia di betulle, aceri e querce, grazie a Dio. Il velivolo
militare non ci avvista e, con una manovra, scompare in alto
tra la foschia densa come panna. L’isba sembra abitata. Busso
alla porta. Non siamo gli unici a presentarci in questo modo
59
in casa del “nemico”. Ma il nemico è gente ospitale, semplice,
laboriosa. La Russia è stato da sempre un paese di grandi
popoli e di prodi guerrieri è stata la terra dei Sarmati, degli
Sciti, dei Peceneghi, dei Tartari di Kublai, degli Strelizi di Ivan il
Terribile, dei Cosacchi di Pietro il Grande ed anche piazza di
coraggiose
quanto
sanguinose
rivoluzioni
civili.
Nell’immediato retrofronte le truppe vivono nelle isbe e
coabitano con la popolazione civile. Su qualche muro c’è
ancora un vecchio volantino lanciato da caccia russi che dice:
“Pieriehodìte s étim pròpuskom cifre front… etc…” (“Passate
con questo pezzo di carta attraverso il Fronte… vi garantiamo
la vita, un buon trattamento e il ritorno in patria dopo la
guerra”). Rimango ancora una volta basito. Non so darmi
alcuna spiegazione di ciò che leggo. Le isbe hanno tetti
vegetali e pareti di fango, le finestre e la porta di betulla. Mi
apre una babuska, una simpatica vecchietta con l’aria mite ed
incappucciata da cima a fondo. Entro per prima e dico
“Privet…”, “Salve…” e con molta diffidenza lancio uno
sguardo circospetto nel mentre i miei uomini spiano
dall’esterno attraverso le fessure degli scuri delle finestre.
Faccio un passo avanti. Mi trovo in un unico grande ambiente
dall’odore di legna bruciata, pervaso da un tepore che è
sprigionato dalla grande stufa posta al centro di esso. Il
pavimento di legno scricchiola al passo dei miei stivali
inzuppati. Intorno alla stufa, un’intera famiglia - una coppia
anziana, una signora ed un bambino – e due soldati italiani
che al mio incedere scattano, si fa per dire, sull’attenti. Sono
malmessi. Tra di essi due ufficiali della Divisione Cane, la
mia stessa Divisione: e così ritrovo ancora D’Argenzio e Sasso
che curano altri tre militi feriti. Vado verso di loro e li saluto.
Mi rispondono con un cenno sfuggente seppur cortese, senza
guardarmi. L’atmosfera, in apparenza cordiale è molto tesa.
Mi avvicino ai feriti per vedere se ne conosco qualcuno ed in
quali condizioni versano. Hanno gli occhi bendati. Sono della
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“Celere”. Do ordine ai miei di entrare. Nel mentre i soldati
entrano io esco un attimo fuori e sospiro. Il vento punge il mio
viso come se fosse fatto di migliaia di aghi cocenti. In
profondità c’è un kolkos, significa che in quel luogo c’è ancora
vita. Il kolkos è una fabbrica. Sulla costruzione fatta di mattoni
impastati con argilla, paglia e sterco e pitturati con la calce,
si staglia una gigantesca stella rossa con falce e martello ed il
verso di quella canzone: ”sièrp i mòlot, smièrt i gòlod” (falce e
martello, morte e fame). Intorno al kolkos alcuni pruni
selvatici dai quali, probabilmente, i contadini ricavano
quell’ottimo liquore. Mi rilasso. Poi rientro. Una bella donna
dai caratteri somatici del volto molto forti mi viene incontro.
Ha degli occhi azzurri, sgargianti, gioiosi. Porta annodato
sulla nuca uno scialle nero con fiori gialli. Senza parlare mi
trascina prendendomi per mano vicino alla stufa e fa cenno di
togliermi gli stivali. Cosa che faccio subito. Poi, mi porge un
pizzico di maquorka (tabacco). E’ come se mi avesse letto nel
pensiero. Una grande boccata di fumo mi avrebbe del tutto
estraniato dalla guerra che fuori continuava a mietere i suoi
semi umani, corpi dilaniati e congelati, senza che alcuno più
si avvilisse. La morte è parte della nostra grande famiglia, più
della vita che fatichiamo per tenerla vegeta. Un vecchietto
barbuto dalla voce possente e gli stivaloni tiene in braccio un
piccino e tenta di infilargli un basco di lana grezza. Non mi
guarda ma mi porge la sua pipa accesa che sfumica più della
stufa. Gli porgo la mano e dico: “Grazie…”. So che capisce la
mia lingua. Il vecchio annuisce. “Stasera ho conosciuto
davvero Babbo Natale” dico tra me, “… non si sa mai..” Ai
piedi dello stufone, un paio di pani di torba che attendono di
essere bruciati. Alle spalle, un rialzo di legno sul quale
giacciono stuoie di lana morbida di svariati colori. Sono i
letti. Su una di esse due soldati feriti vi sonnecchiano.
Sembrano sbronzi. Muovono le labbra e le smorfiano senza
parlare. Uno dei miei soldati mi chiede se c’è tra di noi
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qualcuno che ha ancora del sale, del pane (klieba) o del
miglio. Capisco dallo sguardo che è stato “Babbo Natale” a
indirizzarlo da me. Tiro fuori il mio pane nero ed un po’ di
cognac. E’ tutto quello che ho. Sono ancora in piedi. Mi siedo
dinanzi alla stufa e vi resto senza parlare. Sono come assente,
svuotato. Odo i feriti lamentarsi ed in quel momento se
potessi, porterei loro un medico od almeno un infermiere pur
di vedere alleviate le loro sofferenze. Al sopraggiungere del
crepuscolo mi alzo. La donna dagli occhi azzurri fissa me ed
un mio soldato. All’improvviso degli scoppi ci scuotono. Poi
avvertiamo dei bagliori. Spio dagli scuri della finestra. Sono
pallottole traccianti di carri blindati. E’ l’Amata Rossa che
passa al setaccio tutto il territorio. So che tra un paio di giorni
questo posto non sarà più sicuro, soprattutto per noi. La notte
scende e ci avvolge come un manto fatato. I miei uomini
hanno mangiato patate bollenti servite dalla bella zinca, la
bella signora dagli occhi marini. Io non ho fame, ho lo stomaco
chiuso ed ho timore di un assalto nemico. Sposto la sedia
massiccia vicino alla finestra. Prendo il fucile e lo metto con
il calcio a terra, tra le mie gambe. Appoggio una mano sulla
canna e sulla mano vi sostengo il mento. La mia ferita è
rimarginata ma ancora pulsa. Mi duole. La donna mi porta
una coperta sbrindellata e la pone sulle mie spalle. Un gesto
d’amore. Tutto tace. All’alba mi trovo con la fronte gelata
vicino alla finestra ed il fucile con la canna puntata in petto.
Ancora dormono tutti. Qualche ferito si lamenta: “Casa mia…
acqua… voglio andare a casa…”. Altri proiettili traccianti
annunciano il giorno ma lo scoppio adesso è ravvicinato.
Sveglio tutti. Grido ai miei di prepararsi a partire e subito. La
famigliola, la bella zinca la babuska e Babbo Natale saltano
dalle stuoie. La zinca mette un recipiente di metallo sulla
stufa per la Tiòplaia vodà, (l’acqua calda). Mi avvicino alle
spalle di Sasso e di D’Argenzio e di un cappellano che nella
notte si era unito a noi, che forse non si sono mai addormentati.
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Sono vicini ad uno dei feriti. E’ un ragazzo e sembra non
farcela. Rinnovo il mio invito a lasciare l’isba ma non mi
danno retta. Lo prego: “Cappellano, Cappellano…”.
Rimangono di spalle. Non si scompongono. Solo il cappellano
mi dice: “Tenente, faccia ciò che ritiene più giusto… è quello
che stiamo facendo anche noi…, porti in salvo questi
ragazzi…”. Abbandono la casa ed il mio ultimo sguardo é
prima per il ragazzo in agonia e poi per la donna amorevole.
Quel Cappellano credevo che fosse don Enelio, don Enelio
Franzoni. Ho saputo più tardi che don Enelio e un ufficiale
medico erano invece già stati catturati e trasferiti al lager di
Tambow.
Dopo la guerra don Enelio mi ha raccontato le turpitudini dei
quattro lager nei quali era stato deportato in tre anni. Si è
ricordato di quell’episodio ma mi ha anche confermato che i
Russi quella mattina non arrivarono all’isba e che sulla data
mi ero sbagliato perché era stato fatto prigioniero ad Ogalew
il 16 dicembre nel mentre celebrava e quell’episodio dell’isba
forse risaliva all’11 dicembre ad Ogalew. Purtroppo ho tutto
nella mente, oggi ho circa 90 anni e mi sono sempre rifiutato
di scrivere di queste cose per evitare una certa confusione fra
date e località. Chiedo scusa!
Con don Enelio Franzoni ci siamo visti per alcuni anni alla terza
domenica di settembre a Cargnacco, ed un giorno di febbraio
presso il cimitero monumentale di Milano. Sono andato, con
altri reduci, suo ospite a Bologna quando lì era parroco. Mi ha
raccontato che la chiesa di San Lorenzo in Torino, tutte le sere,
suona le campane a morto, con dodici rintocchi, a ricordo
delle 12 Divisioni distrutte nella campagna di Russia.
Rammento ancora il giorno in cui con don Enelio e con il
presidente dell’U.N.I.R.R. Melchiorre Piazza, siamo stati al
cimitero di Novara per l’inaugurazione delle dodici colonne
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erette a ricordo del sacrificio delle nostre dodici Divisioni
dell’A.R.M.I.R..
Il nostro amato Presidente in quella occasione ha reclamato,
senza mezzi termini, perché erano state dimenticate le colonne
per ricordare i caduti delle camicie nere; sarei curioso di
sapere se gli amministratori di Novara hanno poi rimediato
all’errore (!).
Certo è, però, che quel 22 dicembre ad Arbusow il Carabiniere
a cavallo che ci trascinò all’attacco e poi su per l’altura
era il valoroso Giuseppe Plado Mosca e molto probabilmente il
miraggio del cavallo senza cavaliere non era un miraggio.
Ora che metto bene a fuoco ricordo anche un altro episodio
avvenuto in un’isba: aspettavamo che si aprisse un varco
per avere via libera; era la notte dell’uscita da Cerkowo. Non
ricordo il giorno. D’Argenzio mi chiede di ritornare all’isba per
riscaldarci ancora. Il suo pensiero fisso era la stufa. Lo metto
in guardia del pericolo, pure se non ce n’è bisogno e gli dico
che se fossimo ritornati indietro ci avrebbero presi. Glielo
raccomandai più volte. Non mi ascoltò, cocciuto come era. Io
continuai la marcia con i pochi ragazzi che erano restati con
me. La paura che fosse fatto prigioniero si avverò, purtroppo.
Nel mentre eravamo ad una certa distanza ho visto dei lampi
verso l’isba. E poi il fumo, tanto fumo. Scontò tre-quattro
anni di prigionia. A guerra finita, nel ‘50, D’Argenzio, con mia
somma gioia si rifece vivo e rintracciandomi mi comunicò di
avermi spedito del vino pugliese, della sua terra, per bere
alla sua salute e brindare alle nostre vicissitudini. Ma, in
verità, quel vino non l’ho mai ricevuto... Probabilmente si era
fermato nelle mani di qualche corriere avvinazzato. Ho, poi,
ancora rivisto D’Argenzio ed ogni qualvolta, non credendo di
non aver mai ricevuto quel vino, mi ha sempre rinfacciato
d’averlo fatto dormire, in guerra, sempre a terra nel mentre
io dormivo sulle calde stuoia dai colori accesi. Era un
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modo tutto mio per tenere la disciplina nei reparti ormai
disorientati ed in continua tensione. In una di quelle isbe
dove abbiamo trascorsi molti giorni, la figlia di un padrone
di casa si era innamorata perdutamente del mio sergente
maggiore. Ricordo il viso delicato di quella ragazza che mi
implorava di non partire o meglio di non partire portando
con me il suo amato. Era più che evidente che tra i due ci
fosse del tenero. Eravamo fuggiaschi, non accontentai i due
colombelli, anche se la ragazza asseriva che non saremmo
andati se non incontro ad una fine certa. Quel sergente
maggiore non l’ho mai più rivisto né ho avuto sue notizie.
Sarà stato, forse, uno di quella lunga lista di “dispersi” che
si sono fatti una famiglia in terra sovietica. Un’isba bianca tra
i girasoli con tanti piccoli cosacchi. E’ questo che mi piace
pensare. Oppure dare corpo alla verità: non potevo rendermi
complice della sua diserzione. Non potevo infliggere ad un
mio uomo una condanna come la pena di morte prevista per
tale viltà. Il sergente maggiore mi ha seguito rispettando gli
ordini e dopo un giorno ho perso le sue tracce...
Ricordo adesso che Sasso, il giovane ufficiale di Trieste, era
con noi in quell’isba ed era gravemente ferito: aveva una
mano e tutti e due i piedi incancreniti. Lo avevo affidato alle
cure del padrone di casa che gli salvò quella mano ormai
putrescente, con continui impacchi di miele, ma non lo salvò
dalla amputazione di parte dei due piedi. Maledetta Steppa!
Uscito da Cerkowo continuo la marcia verso Ovest. Una
pista battuta dove avanziamo ancora tra due fronti nemici.
Fischiano pallottole da destra e sinistra. Scorgo tra la neve un
uomo con le gambe tranciate. E’ un sergente molto giovane. Mi
chiama… Poi, mi implora di finirlo. Ha le gambe maciullate,
forse è stato un cingolato. Non ce la faccio a sentirlo gridare,
pregare, imprecare, vederlo soffrire come un cane. Estraggo
l’arma, gliela punto alla tempia senza contatto. Lo guardo
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negli occhi. Esito. Ripongo l’arma nella fondina e mi siedo
nella neve con un tonfo, vicino a lui. Tento di tenerlo in
vita. Gli parlo. Parlo dell’Italia, del sole, del mare… della
sua casa… Odo il rumore di un motore. Glielo riferisco con
entusiasmo. Mi sorride. Il suo sguardo ancora oggi scava il
mio cuore sino a farlo sanguinare. Non posso restare più in
questo posto. Voi cosa avreste fatto? Io ancora non lo so per
quale scelta avrei potuto optare: Finirlo? Abbandonarlo?
Scappare? Desideravo che vivesse ma non era possibile. Il
sangue sgorga dai monconi come una fontana. Scava la neve
formando una pozza sempre più profonda dai colori mutevoli,
porpora, scarlatto, rosa… Prego Iddio affinché lo tolga dalle
mie mani per prenderlo tra le sue. “Io non sono un boia!” Gli
grido senza voce. Come se mi avesse ascoltato Dio lo sottrae
al mio sguardo e quando abbasso gli occhi sul Sergente vedo
il suo volto ricoperto di neve. Ha gli occhi chiusi e dalla bocca
aperta schiuma gelo di morte. Mi segno con la Croce, copro il
corpo con il suo cappotto ed il viso con l‘elmetto. Sono scosso.
Confuso, umiliato, perso. C’è intorno a me una confusione
enorme, grida, bestemmie, invocazioni, pianti. Non so se sono
nella mia testa o fuori da essa. All’improvviso compare un
giovanissimo soldato. Biondo, capelli rasati ben pettinati, una
divisa linda e pinta, scarpe ben lucidate, camicia e cravatta
in ordine. Non una sgualcitura. E’ vestito come se venisse
da una festa o vi si dovesse recare. Di tutto punto. Avanza
silenziosamente verso di me. Vedo quell’immagine e sento lo
zigolare della neve sotto i suoi passi leggeri. Io sono seduto
a gambe aperte vicino al mio Sergente. Il soldato biondo mi
parla. Parla italiano. Mi dice di prendere dal suo tascapane
qualche scatoletta, delle gallette. Ce l’ha a tracolla. Non
rispondo. Non gli dico né si né no. Allora toglie il tascapane e
me lo porge. Eseguo i suoi ordini in silenzio. Lo fisso. Estraggo
il cibo. Gli porgo il tascapane ma non c’è nessuno. Non è un
sogno. Ci sono ancora le orme fresche sulla neve e tra le mani
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ho il suo tascapane che, per giunta, è come nuovo d zecca. Me
lo infilo a tracolla e continuo la mia strada. Adesso sono solo.
I ragazzi hanno continuato la loro strada. Glielo ho ordinato
io. Il cibo del tascapane mi consente di recuperare un po’ di
energie e per tre giorni non ho patito la fame. Ma chi è? Chi
era? Ancora me lo chiedo... Era impossibile per un soldato,
pure se fosse stato tenuto interamente in naftalina, avere la
divisa e gli stivali così in ordine. Senza alcun segno di sporco,
di sgualcitura, di bagnato. Eppure non ho mangiato sogni in
quei tre giorni, ma carne e gallette. Ho sempre creduto ad
un angelo custode, non so voi. Al vostro posto comincerei a
pensarci. Sono in perfetta salute mentale ed anche fisica.
Dopo una decina di giorni da quell’evento mi imbatto in un
gruppo di partigiani. Sono in cinque, forse sei. Non so cosa fare.
Arriva alle mie spalle un Seniore della Milizia che indossa un
berretto alpino con lo stemma della “Tagliamento” e mi indica
un parabellum tra la neve dietro di me, lo prendo. E’ carico.
E mi metto a sparare con una precisione ed una inflessibilità
disarmante che mettono in fuga quei malcapitati. Sono in
ginocchio per mirare meglio. Mi alzo, mi giro. Sono solo. Ci
credete, allora, agli angeli custodi? Io sì, perché non riuscirò
mai a capire come il mio salvatore sia potuto scomparire in
pochi secondi nella steppa con un orizzonte visivo libero per
centinaia di metri. Voi siete liberi, liberi di non crederci.
Di recente, e precisamente il 31.12.2010, la trasmissione di
Rai Uno, Superquark, ha raccontato una delle più incredibili
imprese delle esplorazioni: quella di Ernest Henry Shackleton
(lo stesso dal quale prende il titolo la bellissima canzone di
Franco Battiato) che nel 1914 ha fatto la prima traversata a piedi
dell’Antartide.
Il diario dell’esploratore ed i racconti dei suoi due compagni
(Tom Crean e Frank Worsley), hanno riferito che nell’ultimo
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tratto di strada, per raggiungere il porto delle navi baleniere
(di Stromness, in Georgia), hanno viaggiato guidati da un
quarto uomo, uno sconosciuto, poi scomparso, prima dell’arrivo.
Nessuno dei tre ha saputo definirne la provenienza, come io, a
distanza di sessantasette anni, non mi sono ancora capacitato
della identità dei due miei benefattori prima segnalati.
Gennaio del ’43. Il mio fermo desiderio è quello di non alzare
mai le mani in segno di resa, “Piuttosto la morte”, continuo a
ripetere tra me. Da casa mi dividono ancora 3000 chilometri.
Ogni giorno è un giorno da vivere anzi da sopravvivere.
Sono solo ma so che non lontano ci sono residui di truppa
in movimento verso la salvezza. I Reparti, ormai, separati
costituiscono un’armata di profughi e cadaveri. Siamo
armati soltanto della volontà di voler rivedere i nostri affetti
e trasciniamo la nostra anima, ghiaccia come i nostri arti,
con la forza della disperazione. Mentre sono preso dai miei
pensieri, atterra una Cicogna (aereo tedesco) che è venuta
a prelevare un generale tedesco ferito. Il pilota scende. Gli
vado incontro e gli chiedo se posso affidargli una lettera da
spedire, appena possibile. Aspetta che io la scrivo. Intanto,
controlla il suo aereo che fa fumo. “Cosa non va?” Gli chiedo.
Mi risponde che è tutto a posto e che il nemico non vuole
proprio mollarci. Gli consegno la lettera ed una scatoletta.
L’ultima. Dopo qualche ora incontro parte della mia piccola
brigata. Intanto la Cicogna è decollata mantenendosi a bassa
quota. Alzo gli occhi. Nel cielo latteo sopraggiungono, come
partoriti dalla foschia, tre aerei russi. Sventagliano raffiche
di mitragliatrice ai nostri piedi. Dalla macchia, laterale alla
pista, vengono fuori altri militi che vi hanno trovato rifugio e
si uniscono a noi che, correndo, ci ripariamo in un capanno
quasi sovraccaricato dalla neve. Ancora urla. Tronche. Senza
eco. Urla che cadono taciute nella neve. Poi una voce nitida:
“Signor Tenente…! Tenente Marcialis!” Un disperato soldato
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cerca il “suo” Tenente. E’ il mio amico Marcialis.
Da lontano noto un cumulo, un uomo semicoperto con fasci di
grano ai piedi ed una mezza coperta addosso che quasi carponi
tenta di raggiungerci. “Marcialis è vivo! E’ vivo!” Grido con
tutto il fiato che ho in corpo. Gli corro incontro sotto la pioggia
di piombo. Non me ne importa di niente. Marcialis deve vivere.
Raggiungo il ragazzo che adesso sorregge Marcialis ed insieme
lo portiamo in salvo reggendolo per le braccia. Il capanno si
è sfondato e proseguiamo attraverso la macchia a piede lento.
Per lunghi ed interminabili chilometri trasciniamo il buon
Marcialis che è mezzo assiderato. Mi implora di lasciarlo dove
siamo, comprendendo il nostro sforzo immane. Ma io gli grido
di andare a farsi fottere. Vuole che ci salviamo, ma a cosa
sarebbe valsa la nostra vita se l’avessimo lasciato crepare?
Dopo un giorno di stenti finalmente troviamo un varco. Nella
linea italo-tedesca, che è al di là del varco, scorgo dei mezzi.
In realtà un reparto corazzato tedesco ci è venuto incontro
ed ha aperto un varco per farci defluire verso Starobek (?).
Alcuni automezzi del nostro esercito hanno accolto i molto
feriti, mentre noi altri, giustamente, ancora in piedi, siamo
stati esclusi dalla salvezza.
Dopo avere sistemato il mio amico Marcialis mi sono allontanato
per cercare un riparo per la notte. I mezzi sembrano in buono
stato. Dico al resto di attendermi. Mi aggiro come un cane
digiuno tra quei miseri resti. Mi inoltro nella linea. Vedo una
dacia. La raggiungo. Sfondo la porta. E’ abbandonata. Forse
ci vive un medico o uno studente di medicina a giudicare
dai grossi volumi con le copertine di carta pecora bianca
che trattano di scienza. Preparo nella dacia un rogo con quei
volumi che adesso servono, più di quanto avrebbe potuto
immaginare il vero proprietario, a salvare qualcuno. Accendo
il piccolo rogo per far riprendere, con il calore, il mio fisico
stremato. Sul tavolame del pavimento c’è un passaggio, una
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botola, che porta ad un piccolo antro. E’ gelido. Spero e prego
che non sia abitata da qualche profugo o dai proprietari perché
li avrei trovati sicuramente rinsecchiti. Faccio una fiaccola
ed illumino l’antro. E’ deserto. Scendo giù per la scaletta. Ci
sono alcune patate quasi marce. Le arrostisco sulla fiamma.
Mi rifocillo, dormo per tutta la notte. Esco poi dalla casa
e mi dirigo ad ovest, ormai sono solo. Più che solo sino a
quando, dopo un paio di giorni, incontro i reparti russi, le
avanguardie, che lavorano attorno ai loro automezzi piuttosto
malconci. Io, anziché scappare, mi insinuo tra di loro. La mia
divisa è a brandelli, irriconoscibile. Ho strappato mostrine
e gradi. Porto il colbacco russo sopra il passamontagna e
per questo non possono vedere i miei lineamenti italiani.
Gironzolo con un fare idiota. Da scemo del villaggio. Gli
ironici russi mi scambiano per un suonato cencioso e mi
danno del pane ed una scatoletta di carne, poi mi scacciano
via come un lebbroso gridando, prendendomi in giro. Mi
unisco al gruppo con quel poco di viveri. Continuo la marcia
seguendo le indicazioni militari, verso Ovest. Non incontro
nessuno sino a quando, per mia buona sorte, vedo un camion
tedesco. Ci sono dei soldati che armeggiano vicino al motore.
Mi avvicino agli Alleati e chiedo un passaggio specificando
le mie credenziali. I Camerati me lo concedono. Ho le
orecchie tanto gelide da aver paura di toccarmele, sembrano
sbriciolarsi come sottilissime lastre di ghiaccio. Mi sdraio
finalmente su un parafango, perché l’automezzo è strapieno
mentre altri prendono posto dietro, appesi al cassone con
i piedi sulla predella. Raggiungiamo le linee tedesche. La
salvezza, ci appare ora come un sogno immacolato più del
bianco di quella neve ed i nostri occhi vedono oltre. Vedono
finalmente casa. Volete sapere di “Don”? “Don” è scappato.
E’ voluto restare a casa sua. Lo immagino tra le braccia di
quella zinca dagli occhi azzurri coccolato dal calore del suo
cuore. Mi spiace soltanto di non riuscire a ricordare quando
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esattamente e dove l’ho perso.
Alle
20,00 del 2 gennaio 1943, della colonna partita
Makarow vi transitarono solo 10 ufficiali, 125 soldati,
da
un
autocarro ed un cannone da 75 mm. Buona parte dei superstiti
poté riunirsi a Werowka. A Gomel, tappa finale per la salvezza,
arrivarono solo 1.500 uomini della mia Pasubio, che a pieni
organici ne contava circa 12.000, perché altri suoi elementi,
assieme a reparti delle Divisioni Ravenna e Cosseria
accerchiati in Tcertkowo non erano riusciti a sganciarsi.
L’armata del Don è ricordata come l’Armata Scomparsa. I miei
“compagni di guerra” sono stati fatti prigionieri e molti,
deportati nelle carceri russe. Pochi, sono i sopravvissuti.
“L’Armata Italiana, composta da 200.000 uomini di età
media di poco superiore a vent’anni, trasportati su
circa 700 treni è ritornata a casa con meno di 17 …” (da
“L’armata scomparsa” di Arrigo Petacco edito da Mondadori).
Io, sono rientrato a Brescia con un treno ospedale e subito
ricoverato all’ospedale militare. Dopo qualche mese ero di
stanza nella zona Bosco bonito di Villa Literno (Ce) al comando
di un plotone fucilieri, chiamatovi dal colonnello Mazzocchi,
comandante in guerra del 79° Rgt Ftr, e mio difensore, quando
qualche mia intemperanza, bellica, ha scatenato la reazione
dell’artiglieria nemica: una volta l’intero II Btg è rimasto senza
rancio per due giorni perché le cucine e le vettovaglie erano
saltate in aria. Ho ricevuto, dai miei stessi commilitoni, più di
una stramaledizione, perché tutto era successo dal fatto che
io avevo portato fino alle trincee i militari, nuovi arrivati, per
la via più breve, ma più esposta, e non per quella più lunga
ma più sicura. Comunque non abbiamo subito perdite umane,
ma solo le attrezzature di cucina e le pentole.
La descrizione delle sofferenze, dei dolori, dei lutti di una
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guerra, ci fa augurare che mai i nostri figli, né quelli degli
altri, amici o nemici, abbiano da viverne un’altra. Però la
guerra, per amore di verità, non è solo abbrutimento, violenza,
imbarbarimento fisico e morale, ma può anche donare una
dose di buoni sentimenti a chi non li ha, o migliorare quelli
che innegabilmente, ognuno di noi già possiede.
Le poesie del professor Marcialis, già tenente, un valoroso
soldato ed ufficiale, invocano dal Signore dei Cieli una sola
grazia: “Mai più sia strage, mai più sia guerra Ti prega e invoca
ogni anima pia e Tu o buon Dio, dì < Così sia!>” (dalla poesia
“Arbusow”), oppure “Da quelle zolle, da quei silenzi eterni
ancora ieri squarciati dalla guerra, al cielo sale un canto di
perdono. Pace fratelli, al mondo, pace, pace. La quiete avrà
chi in quella terra giace” (dalla poesia “Cerkowo”). Poesie
tratte dall’antologia “Luci” di Giuseppe Marcialis, edizione
Libroitaliano, 1996.
All’inizio di febbraio 2011 mi è stata segnalata altresì
un’altra poesia che aggiungo alle due prima citate, delicata
e commovente al punto da far venire le lacrime a qualsiasi
lettore:
C’è qualcosa di molto peggiore della morte.
Ed è il dubbio.
Io resto qui.
Addio.
Stanotte mi coprirò di neve.
E voi che ritornate a casa pensate qualche volta a questo cielo
di Cerkovo.
Io resto qui con altri amici in questa terra.
E voi che ritornate a casa sappiate che anche qui, dove riposo,
in questo campo vicino al bosco di betulle, verrà primavera.
(Giuliano Penco, 1943 - letteredon.wordpress.com)
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Chi me l’ha regalata? Il nipote del Sergente Maggiore Stefano
Porino, della Divisione Torino, la stessa di Marcialis, disperso sul
Fronte Russo il 17 gennaio 1943; è riuscito a localizzarmi tramite
internet, è venuto a trovarmi, ha citato, dati, nominativi, e
accadimenti con una precisione impressionante. Il suo
nome è Andrea Bertola, ma la cosa che più mi ha sorpreso è
la constatazione che tanti altri giovani sono appassionati,
quanto lui, a conoscere le vicende vissute dai genitori, dai
nonni, dagli zii tanti anni fa. La passione che mette nella
ricerca è la dimostrazione evidente che l’amore per la Patria
(e per la verità) può essere nel nostro Dna più di quanto a
volte immaginiamo.
E poi, lontano da casa viene acquisita una serie di sentimenti
prima sconosciuti, la nostalgia della Patria e delle famiglie
lontane, la solidarietà verso quanti hanno condiviso pericoli e
disagi non lievi, in definitiva si diventa diversi da come si era
tra i banchi di scuola o nel lavoro dei campi o in altre attività.
La conferma di quanto detto, qui di seguito cerco ancora di
dimostrare:
La nostalgia: è quasi un dolce malanno, un’ansia che ti prende
se per qualche giorno non arriva la posta, la lettera dei
genitori, della fidanzata, degli amici; la chiamata della posta
è più importante dell’arrivo del rancio, bisogna aver osservato
la delusione e la sofferenza di quanti non hanno ricevuto
notizie dall’Italia.
Tale sofferenza la pativo anch’io, più che per me, per i miei
analfabeti dai quali ero stato eletto scrivano, come ho spiegato
più addietro.
La solidarietà o ancora meglio la fratellanza: ogni qualvolta ho
dovuto scegliere un soccorritore per riportare nella nostra
trincea un ferito, ho vissuto sempre, con angoscia, il dubbio
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della scelta; perché tutti si sono offerti, con decisione,
volontari e gli esclusi hanno vissuto l’esclusione quasi come
un’offesa, pur consci che il soccorso, più di una volta, si è
risolto tragicamente per il soccorritore e per il soccorso.
Anche io ho goduto abbondantemente di ogni specie di
solidarietà ogni qualvolta sono stato comandato per il servizio
di ispezione alla linea, con tratti coperti ed altri scoperti, per la
gioia dei cecchini sempre pronti a fulminarti; ho dovuto a volte
impormi per andare io avanti onde evitare che il portaordini
di turno con un guizzo cercasse di sopravanzarmi, al fine di
attirare su di sé le prime reazioni dei fucilieri avversari.
Il carattere: al ritorno dalla guerra non sei più lo stesso
individuo, sei più sicuro di te, il che non è poco, e se sei stato
al comando di qualche unità, hai imparato ad essere padre,
fratello, confessore, infermiere, scribacchino-segretario,
consolatore di quanti, pochi o molti, l’esercito aveva affidato
alla tue cure.
Desidero ricordare, anche se fuori tema, che anni fa in Merano,
sulla ringhiera del fiume Passirio, fra tanti lucchetti lì lasciati
legati dai congedati, ne ho trovato uno con accluso questo
biglietto “Siamo qui arrivati giovani dodici mesi fa, ora
partiamo uomini perché siamo fieri di essere alpini”; non nego
di essermi commosso, ed anche questo episodio è rivelatore
di un carattere che prima non avrei forse avuto.
Ed inoltre un episodio occorsomi nel settembre del 1943, a
conferma di quanto prima detto, vi racconto: andavo con il
marito di una mia cugina da Torre Annunziata a Boscotrecase,
camminando sulla massicciata della ferrovia circumvesuviana
perché le strade normali erano assolutamente impraticabili
a causa dei bombardamenti subiti, quando nei pressi del
cimitero di Torre Annunziata ho notato un rapinatore che
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depredava tranquillamente passanti con la minaccia di una
pistola. Visto quanto accadeva ho pregato il mio compagno
di viaggio di tornare indietro, non per rinunziare a quanto
ci eravamo prefissati, ma per andare ad armarci della sua
pistola d’ordinanza (anch’egli era stato richiamato alle armi)
al fine di contrastare a qualunque costo il comportamento
intimidatorio del delinquente.
Siamo tornati, io armato, nonostante le raccomandazioni
pacifiste del mio parente, deciso a non subire un oltraggio
vergognoso da parte di un bandito da strapazzo, dopo di
avere contrastato in tante occasioni, addirittura gli attacchi
della stessa Armata Rossa. Il malvivente, che si è reso conto
delle nostre, o meglio delle mie intenzioni, quando ci ha
visti ritornare si è allontanato verso la campagna lasciandoci
libero il passaggio.
Ha avuto più buon senso lui, di me, perché ha evitato che da
un eventuale scontro potesse derivarne la morte di qualcuno.
E sempre in tema di cambiamento di carattere devo
francamente raccontare ancora qualcosa:
Verso l’anno 2000 sono stati uccisi barbaramente, non ricorso
se bruciati o scaraventati dall’alto di un edificio, comunque
fatti fuori in modo disumano, due soldatini dell’esercito Israeliano,
allora, come oggi, in lotta con i palestinesi; l’omicidio mi ha
commosso ed indignato per il ché ho inviato all’Ambasciata
di Israele a Roma le condoglianze, regolarmente corrisposte
con i normali ringraziamenti; però ho fatto ancora di più:
appena ho potuto mi sono recato a Roma, sono riuscito a farmi
ricevere nei locali dell’Ambasciata ed ho avanzato, ad una
incredula impiegata, la singolare richiesta di essere ospitato
solo e soltanto a mie spese, in un Kibbutz sito in qualsiasi
posto del deserto o delle zone più calde del conflitto, come
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soldato semplice, senza alcun riguardo altresì per la mia non
più giovane età.
Ricordo bene che entrando in ambasciata sono stato preso in
consegna dal personale addetto alla sicurezza e poi introdotto
nella sala del pubblico, posta subito alla sinistra del portone
di ingresso; per dare maggiore tranquillità a colui a cui ero
andato ad esprimere i miei Desiderata, ed anche al fine di non
sembrare un individuo fuori di testa, né un marito voglioso
di allontanarsi dalla moglie, ho portato con me la mia amata
consorte.
Dopo aver avuto il certo, anche se cortese, diniego per
quanto richiesto, ho avanzato l’idea di parlare anche con
l’Ambasciatore, il ché non è potuto accadere dato che
l’Ambasciatore si trovava in Svizzera per svolgere il suo
mandato altresì in quella Nazione. Se m’avessero accontentato
oggi avrei quasi dieci anni di anzianità, a costo zero, nel
glorioso esercito di Israele.
La Bandiera: tre mesi fa, in tempi non sospetti, il giorno
7 settembre 2010 ho scritto di un meraviglioso episodio
riguardante il Tricolore, per il quale sono stato solo spettatore,
in verità, nella steppa russa, del quale non ero stato preciso
circa la data o la località.
Avevo attribuito il tutto al comandante dell’VIII Rgt. Artiglieria,
Div. “Pasubio”, anziché al colonnello Ugo De Simone, Comandante
del 120° Rgt. Artiglieria motorizzata (Notiziario U.N.I.R.R. n. 96
ottobre 2007 pag. 5). Ho rimediato all’errore con successive
missive ai Comandi ed alle autorità interessati, solo per amore
di verità, e non altro:
…omissis
“Riordinando vecchi documenti, di circa 70 anni fa, relativi al
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tempo in cui ho avuto il privilegio di svolgere (volontario), il
servizio militare, prima in Albania, 31° Reggimento fanteria,
Divisione “Siena” e poi in Russia, 79° Reggimento fanteria,
divisione “Pasubio”, ho rinvenuto lo scritto (fotocopia) di
autore ignoto, col quale viene ricordata che il giorno 18
Aprile del 1943, in Verona, hanno sfilato i reduci della mia
divisione, preceduti dalle bandiere del 79° e 80° fanteria e
dallo stendardo dell’ 8° Reggimento artiglieria.
La menzione dello stendardo ha risvegliato in me un magnifico
ricordo, anche se non posso essere preciso sulle date, sulle
località, e sulle stesse modalità di quanto è accaduto.
Questo:
Durante la ritirata dal Don, in piena steppa, un gruppo
di militari, mi sembra artiglieri, schierati nonostante la
confusione e le circostanze causate dalla lotta inevitabile, tra
chi, (noi), in ritirata cercava di sfuggire dall’accerchiamento,
e l’Armata Rossa che mirava ad un’opposta conclusione, ha
difeso, disposti in cerchio, di 3 o 4 ufficiali, forse con lo stesso
colonnello Comandante del Reggimento, che smontavano, o
facevano a pezzi, il drappo del loro vessillo, al fine di riportarlo
in Patria, con maggiore probabilità di riuscita, anche se
diviso.
Essendo il sottoscritto, in quel momento, libero da altre
incombenze, ho ritenuto di schierarmi a fianco dei commilitoni,
di sicuro intenti a sacrificare la loro stessa giovane vita, pur di
evitare l’onta della perdita della bandiera.
Rammento bene che sulla steppa è sceso, all’improvviso, difficile
dire come e perché, un silenzio inusuale per i tempi e i luoghi
dei combattimenti; potrei dire che solo un miracolo ha potuto
onorare il meraviglioso evento, facendo tacere gli scoppi, le
urla, i lamenti, le imprecazioni proprio di ogni scontro di
81
guerra.
Quale il motivo di questa missiva?
1. conoscere se quanto raccontato è, eventualmente,
menzionato nel diario storico della divisione
Pasubio (allegato n° 2), e se esatto che proprio l’8°
Reggimento Artiglieria ne sia stato protagonista; io
sarei portato per l’affermativa, dato che la direttrice di
ritirata dal Don (Arbusow,Cerkowo),fino all’uscita
dall’accerchiamento, è stato la stessa della mia;
2. in caso affermativo poter essere ospitato presso il
Comando dell’ 8° Artiglieria, al fine di poter rendere
omaggio, ne sarei orgoglioso, allo stendardo per il
quale sarei stato deciso, ma francamente non è stato
necessario, a sopportare qualsiasi sacrificio.
Per tale evenienza potrei raggiungere il comando prima detto,
in Persano, nei primi giorni del prossimo novembre, dato
che dovrò venire in provincia di Salerno in occasione della
commemorazione dei defunti”.
Invio doverosamente copia di questo scritto alle presidenze del
Nastro Azzurro, dell’UNIRR, dell’ UNUCI, associazioni alle
quali mi onoro di essere iscritto.
In attesa di cortese risposta, invio i dovuti ossequi.
Cergnago, 7 settembre 2010 Ten Giacomo Gambino”
Ed inoltre:
… omissis
“Gli allegati n.1- 2 - 3, alla presente, servono a chiarire che,
per l’evento descritto n ella mia missiva del 7 settembre
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2010, il protagonista è stato il Comandante del 120° RGT
Artiglieria Motorizzata, e non quello dell’8° RGT
Artiglieria della Divisione “Pasubio”.
Rimedio all’errore, avendo rinvenuto il fascicolo del 4°
trimestre del 2007 del Notiziario UNIRR, contenente l’articolo
del Tenente Giuseppe Basso, relativo agli episodi de
quibus; il predetto è stato prigioniero di guerra con il Tenente
Cappellano militare Don Enelio Franzoni, con il Tenente
Luigi Esposito, con il Tenente Salvatore Silipo, con il
Sottotenente Angelo Palmestina, tutti in forza al 79° RGT
FTR, il mio, amatissimi colleghi, in guerra, e fraterni amici
nel dopoguerra.
Di Giuseppe Basso ho conosciuto la innata gentilezza, e per
quanto mi riguarda, la disponibilità a fornirmi informazioni
e documenti relativi a vicende belliche da me dimenticate, o
ignorate; in occasione del raduno annuale allora organizzato
dall’UNIRR, in Sanremo, mi ha fatto conoscere l’elenco dei
militari italiani, deceduti in prigionia, permettendomi di
avere contezza, finalmente, della morte o della sopravvivenza
dei miei commilitoni.
Approfitto per segnalare a Basso, ed all’UNIRR, che il soldato
protagonista di quanto raccontato alla colonna due, di pagina
5, dell’allegato n.3, è stato il Carabiniere Plado Mosca
Giuseppe, Medaglia d’oro al V.M. con una meravigliosa,
meritata motivazione.
Un quadro, esposto nel museo storico dell’Arma, in Roma,
inviatomi dal Generale Rocca, allorquando era presidente
della magnifica Istituzione, descrive meglio di tante parole la
grandezza di quanto è accaduto; è doveroso, a questo punto,
anche se fuori tema, segnalare che il Generale, da giovane
ufficiale, ha meritato la Medaglia d’oro al V.M., per il
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comportamento, seguito da gravi ferite, tenuto in un conflitto
a fuoco con le brigate rosse, in tenimento di Acqui Terme (AL).
Nel quadro il cavallo montato dal Carabiniere Plado, è
stato dipinto di colore scuro, ma i miei ricordi me lo riportano
dal colore bianco, e non gravato dalla sella.
Comunque il grido, quasi disumano, “Savoia!”, accompagnato
dallo sventolio frenetico della bandiera tricolore, da parte del
nostro eroe, hanno esaltato quanti, me compreso, appostati
nelle vicinanze, attendevano il soccorso da una divisione
tedesca, mai però arrivata; in definitiva, è stato spezzato
l’accerchiamento, l’avversario è stato messo in fuga, la strada
verso Cercowo è stata liberata.
La conclusione, per quanto sopra raccontato, senza alcun fine,
se non quello di amore per la verità e con esclusione assoluta
di qualsiasi captatio benevolentiae, è la seguente:
onore e riconoscenza per gli artiglieri e per i carabinieri prima
menzionati, quelli sfortunati che hanno dovuto combattere
una guerra impossibile da vincere, e quelli venuti dopo, meno
sfortunati, ma ugualmente orgogliosi di servire la Patria in
divisa.
Basta assistere alla sfilata del 2 giugno, festa della Repubblica,
per ammirare, emozionati, con quanto orgoglio i nostri soldati
sfilano al seguito del loro tricolore ed anche nostro, per sempre.
Sarei grato all’UNIRR se potessi ricevere l’indirizzo del mio
commilitone Giuseppe Basso.
Cergnago, 6 ottobre 2010
Distinti saluti
Tenente Giacomo Gambino”
Raccontare certi eventi può aiutare a comprendere ancora
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meglio come sia stato possibile non dimenticare certi valori
pure nella sofferenza di una vissuta tragica sconfitta.
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Parte Seconda
“Nel breve periodo trascorso al Comando del Nucleo
Mobile di Montelepre, il tenente Giacomo Gambino
ha dimostrato di possedere belle doti di Ufficiale
coraggioso ed animatore, offrendosi volontario per i
servizi più rischiosi ed assolvendo incarichi di fiducia al
comando di un reparto speciale di volontari impiegati
nella lotta contro il banditismo”.
(Montelepre (Pa), 1949 – Firmato: il Col.Ispettore Toscano)
Dopo la Guerra, tenevo lezioni sul Codice Penale alla Scuola
Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza di Caserta. L’insegnamento mi
gratificava, vedere quei ragazzi strabuzzare gli occhi alle mie
enunciazioni mi divertiva. Avevo un metodo di insegnamento
tutto mio. Volevo essere certo che i principi cardini di quella
disciplina si saldassero nelle zucche di quei futuri tutori
dell’ordine che provenivano, per lo più, dal Sud: da famiglie
modeste con basso grado di cultura e benessere. Allora creai
virtualmente il “libro sacro dello Stato” dove il “reato” era
comparato, per poterlo sostanziare, al “peccato”. Io che ero
stato sempre un discente pessimo adesso ero diventato un
docente intransigente pur se comprensivo. Esordivo così alle
mie lezioni: “Il Reato è un Peccato”. Poi, invitavo gli allievi ad
estrarre dai Dieci Comandamenti quelli che potevano essere
prefigurati come reati: “Non uccidere”, “Non rubare”, “Non
pronunciare falsa testimonianza”, etc.
Ed infine spiegavo: “…non rubare è un peccato grave verso la
società….ed è perseguibile d’ufficio, invece, uno schiaffo, è un
reato perseguibile a querela di parte…”
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Il mio metodo ebbe successo e nel giro di pochi mesi ero già
sulla bocca di tutti i miei ragazzi ed anche su quella degli
allievi di altri corsi, in modo molto lusinghiero.
Un giorno, mentre ero in pausa, mi sovvenne un articolo che
avevo letto su “Epoca”, allora lavoravo al Consorzio Agrario.
L’articolo era imperniato su un giovane bandito siciliano, quasi
mio coetaneo, di nome Salvatore Giuliano detto “Turiddu” che
rapinava e taglieggiava senza uguali. Quell’articolo era stato
pubblicato nel periodo natalizio e ricostruiva un assalto ad
una camionetta dei Carabinieri. Da quel momento, sì proprio
da quel momento, la fama di Turiddu crebbe indicibilmente:
non c’era quotidiano e non passava un solo giorno che non
si parlasse di lui sino a quando con la strage di Portella della
Ginestra non solo si guadagnò la prima pagina ed un servizio
di una dozzina pagine ma divenne un vero e proprio caso
“politico”, un caso di Stato anzi un fatto internazionale. Già,
l’unità d’Italia stava franando proprio da dove era iniziata la
sua “unificazione”. Ed io, che avevo lasciato la mia famiglia
per incontrare l’avvenire, mi ero arruolato volontario per
partecipare a due cruente campagne di guerra per difendere
l’onore della mia Patria, mi ero laureato tra stenti e sacrifici
“sotto i bombardamenti”, avevo superato l’esame di Stato di
procuratore legale, avevo trovato un’occupazione dignitosa
per sostenermi ed avevo ripreso i libri di scuola per poter
trasferire le mie conoscenze accademiche e le mie esperienze
di vita a quei giovani… adesso avevo come l’impressione che
tutto fosse stato invano per la testa calda di un guaglione
o meglio di un picciotto. Il giorno prima avevo visto, sulla
copertina della “Tribuna illustrata”, una scena dipinta ad
acquarello di corpi di militi riversati in una pozza di sangue
ed un titolo: “La legge dell’inafferrabile bandito Giuliano” o
una cosa del genere. Nel mentre facevo lezioni avevo ancora
fissata nella mente quell’immagine e vedevo i miei ragazzi
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muoversi nelle sedie, carichi di energia. Quasi leggevo ciò
che volessero dirmi: “… abbiamo scelto questo lavoro per
amore dell’ordine, per stare tra la gente a salvaguardia della
legalità e della loro sicurezza, non tra i banchi di scuola…”.
Quasi sbandai. Mi fermai e li guardai negli occhi. Galeotto
fu quel giorno perché come l’alta marea mi fluì nella testa
la preoccupazione per loro, per la loro giovane vita: “…
e se qualcuno di questi ragazzi fosse inviato proprio lì, a
Montelepre? Quanto durerebbe il loro entusiasmo? Piuttosto
che saperli freddati da quel banditello…”. Seduta stante decisi
di lasciare l’insegnamento per andare a vedere di persona chi
fosse costui. Quindi, trascorsi un paio di giorni per meglio
valutare il mio proponimento, decisi irrevocabilmente di
inoltrare domanda di messa a disposizione per il Comando
Forze Repressione Banditismo. E così fu. Ebbene, è luogo
comune la “lentezza” dello Stato italiano, la famigerata
“burocrazia”… vero? Fandonie! Devo sconfessare questi
luoghi comuni da vero testimone: all’indomani dell’inoltro
ero già imbarcato sul traghetto Napoli-Palermo! Mi viene
ancora da ridere al pensiero di come accadde tutto così
precipitevolissimevolmente!
E qui inizia la seconda parte della mia memorabile esperienza
ma, prima di addentrarmi in quella che fu “cronaca” o
meglio “cronaca di banditismo”, anche se non sarei molto
d’accordo a definirla così, vorrei dare qualche informazione
per poter ricostruirne il clima. In questo clima, seppur con
infiniti dubbi, con apparizioni e “visioni”, entrano ed escono
partiti politici, movimenti indipendentisti, uomini di governo,
servizi segreti, mafia, massoneria, rappresentanti dell’esercito
americano, inglesi… Pertanto, non credo che si possa parlare
di cronaca ma è a tutti gli effetti, parte della storia d’Italia,
della nostra Storia.
Tutto è cominciato nel settembre del 1943, il 2 settembre
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allorché, per una piccola partita di grano di circa un quintale,
ecco che fu ammazzato un Carabiniere. Da quel momento
prese forma quella che noi oggi chiamiamo “lotta allo Stato”
(almeno stando ai fatti che dichiarò Giuliano). Spero che
saprete che, in quel tempo, i Carabinieri e gli altri servitori
dello Stato non possedevano le famose “tessere” per poter
ottenere generi alimentari. Giuliano, che da questo momento
in poi chiameremo, così come lo chiamavo io, semplicemente
“Turiddu”, era un “precario” al servizio dello Stato e
svolgeva mansioni di addetto alla manutenzione delle linee
telefoniche della società Posta e Telegrafo (oggi Poste Italiane)
di Montelepre. Indossando il classico berretto da postino lo si
vedeva molto spesso gironzolare nelle periferie a riparare fili
e pali danneggiati. Era, nel vero senso della parola, ma senza
avere la benché minima volontà di offendere, un poveraccio
ovvero, uno che viveva “alla giornata”. Uno di quei giorni che
sembrano come altri nell’arsura ancora estiva, due Guardie
Campestri accompagnate da due militi dell’Arma, l’hanno
fermato all’uscita dell’abitato di Montelepre con una partita di
grano di circa un quintale. Turiddu aveva cercato di dare
delle spiegazioni giustificandone il possesso. Ma vanamente
perché la pattuglia era convinta di averlo beccato in fragrante e,
per il reato di contrabbando, era previsto l’arresto immediato.
D’altronde, tutti i contrabbandieri facevano così ed il mercato
nero era diventato un grosso affare malavitoso. Turiddu che
sicuramente era consapevole di quanto gli stava accadendo,
senza perdersi d’animo, pregando un carabiniere di ascoltarlo,
estrasse dalla tasca posteriore dei calzoni un documento.
Quel documento comprovava la sua mansione di operaio
presso la società dei Telegrafi. Pertanto, anziché condurlo
al Presidio americano che era il luogo da dove perveniva il
grano, decisero di estendergli una denuncia e lasciarlo a piede
libero. Ma il destino non accettò il compromesso: nel mentre
un carabiniere scriveva la denuncia, le Guardie Campestri
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allontanatesi qualche metro, scorsero quattro muli stracarichi
di grano tirati a forza da quattro uomini non riconoscibili per
la distanza. Erano contrabbandieri. Gli uomini scapparono
lasciando il carico che fu bloccato all’istante dalle Guardie
Campestri. Turiddu, invece, rimase momentaneamente solo
e, nell’agitazione totale, tentò la fuga ma cadde, dopo una
decina di metri, sotto il fuoco dei tutori dell’ordine. Due
colpi lo raggiunsero stramazzandolo al suolo. La pattuglia
quindi si riaddensò intorno a lui e ad uno dei carabinieri fu
ordinato di finirlo (come riferirono alcuni invisibili testimoni
più tardi). Ci fu un momento di indefinibile situazione. I
contrabbandieri erano in salvo chissà dove ed il carabiniere
ebbe qualche esitazioni nello sparargli. Esitazione che diede
a Turiddu il tempo di estrarre dallo stivale una rivoltella e
ferire gravemente l’indeciso tutore dell’ordine. Poi, stando
sempre a varie testimonianze, si disperse, con l’aiuto non si
sa di chi, tra le colline che cingevano Montelepre. Si disse che
per circa un mese avrebbe combattuto tra la vita e la morte.
Chiaramente non morì. Alla vigilia del Natale del ’43 Montelepre
fu letteralmente accerchiata da un migliaio di carabinieri per
scovarlo. Durante l’operazione furono arrestate un centinaio
di persone ma di Turiddu non fu trovata neanche l’ombra.
Tra quelle persone c’era anche il padre che fu malamente
pestato in pubblico. Si disse ancora che Turiddu avrebbe
visto ogni cosa dal suo nascondiglio (una grotta) e, prima che
i carabinieri avessero lasciato Montelepre, aveva imbracciato
un mitra sventagliando, alla cieca, centinaia e centinaia di
colpi sulle camionette ferme nella piazza. Malauguratamente,
a guardia dei mezzi militari, c’era un milite che, nella raffica,
rimase morto stecchito. Da quel momento Turiddu era
diventato, per tutti, un mito, un vero eroe e quindi per tenere
sempre fede alla sua fama, nel ‘44, esattamente nel mese di
febbraio, liberò otto monteleprini dal carcere di Monreale e
con questi formò la sua inafferrabile banda. Ed ecco che entra
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in scena la politica: nel maggio del ‘45 gli furono conferiti i
gradi di colonnello ed il comando della Sicilia ovest dell’Esercito
Volontario per l’Indipendenza dell’isola, dell’E.V.I.S. dove la
“s” finale sta per “Sicilia”. E alla fine di quell’anno ebbe inizio
una vera e propria guerra alle istituzioni condotta a colpi
di guerriglia. Oggi chiameremmo quegli interventi armati
“atti terroristici”: fu attaccata la caserma dei carabinieri di
Bellocampo e poi quella di Montelepre. In effetti, il primo attacco
fu condotto contro la caserma di Monreale e per difendersi da
un contrattacco, gli stessi otto uomini che furono poi liberati
da Turiddu, avevano rapito il Vescovo andandolo a prelevare
direttamente al Vescovado. Dopo questi eventi non ci fu
più pace: carceri, caserme, avamposti e blocchi venivano
debellati a colpi di mitra nel mentre lo Stato rispondeva a
quel fuoco con gli obsoleti moschetti. La cosa più pittoresca è
che questi assalti vedevano in prima riga il colonnello Giuliano
Turiddu nella sua divisa gallonata preceduto dallo sventolio
epico di una bandiera a strisce verticali gialle e rosse, la
bandiera dell’E.V.I.S. Ma la storia italiana aveva già vissuto
questi gravi momenti con altri famosi colonnelli come, ad
esempio, il colonnello Michele Arcangelo Pezza alias il temibile
brigante fra’ Diavolo.
Inizialmente, in verità, più che agire Turiddu avrebbe voluto
soltanto sottrarsi alla giustizia e le sue azioni erano mosse,
appunto, dalla necessità di non farsi catturare poi, con la
morte del carabiniere, tutto era tracollato senza via d’uscita.
Nell’immediato dopoguerra la lussureggiante isola di Trinacria
era invasa da grassatori e la “mafia”, che era già esistente
da qualche secolo, ovvero da quando era nata la necessità di
approvvigionamento d’acqua potabile, non poteva permettere
che i propri affari venissero disturbati, né che stranieri alleati
o non alleati che fossero presidiassero le coste, né che i
contadini potessero accampare speranze sull’assegnazione
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delle terre incolte o pretese sulla mezzadria, idee “bislacche”
(per la Mafia) quest’ultime appena promosse attraverso
disegni di legge dall’allora Ministro dell’Agricoltura Fausto
Gullo (sostituito poi da Segni). In vero, la “potenza” della mafia
era garantita dalla gestione delle coste e delle terre demaniali
e, in un certo qual modo, anche da quelle dei baroni ai quali
veniva prospettata una “reciproca” protezione “politica”.
Pertanto, facendo mie le parole di Tancredi ne “Il Gattopardo”:
“bisognava cambiare tutto (ma) per non cambiare nulla”.
Quindi, la mafia in una sorta di patto invisibile quanto
autocratico si impegnava a tenere “pulita” l’Isola e, un giorno
sì un giorno no, faceva ritrovare, quasi sempre all’alba, un
paio di banditelli ricercati, belli e accoppati. Quando prima
ho fatto accenno alla storia d’Italia dicendo che da questa
“storia” entravano ed uscivano partiti politici, movimenti
indipendentisti, uomini di governo, servizi segreti, mafia,
massoneria, rappresentanti dell’esercito americano, inglesi,
etc… mi riferivo al fatto che proprio ciò, tra tanti “se”, tanti
“ma” e tanti “boh?” elevò la figura di Turiddu a “dignità”
politica. In effetti, a mio modesto avviso, Turiddu era entrato,
seppur inizialmente inconsapevolmente, nella lotta di potere
che vedeva coinvolte la Democrazia Cristiana da una parte (con le
varie alleanze occulte domestiche e forestiere e, dall’altra, il
Fronte Popolare (PSI, PCI, PSIUP) con a volte le stesse, a volte
altre alleanze occulte domestiche e forestiere. Perché, questi
due blocchi politici, pur avendo trovato un compromesso
attraverso il governo di unità nazionale, sotto sotto tentavano
di crearsi disagi reciproci per poter costruire un nuovo
governo imperniato non su idee politiche spurie, ma, questa
volta, radicali. Ovvero, la Democrazia Cristiana, vicina alla
Chiesa e in quanto tale per “fede” antitotalitaria, tesseva per
avere un governo moderato di ispirazione “cristiana” ed il
Fronte Popolare (convinta che nella D.C. ci fossero residui
fascisti), popolare e laico. Capito il gioco, il buon Turiddu,
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intelligente, coraggioso ma soprattutto perspicace, vista
l’attenzione che aveva il governo democratico degli U.S.A.
(che sosteneva le forze democratiche moderate italiane) per
le sue azioni “rivoluzionarie” si incuneò nella lotta politica
e già sostenendo idealmente la Sinistra, decise di rendere
le sue azioni “utili alla lotta” ma conseguendo, però, anche
vantaggi personali in termini economici e di “potere”. Ecco
che si buttò a capo fitto in doppi, tripli e quadrupli giochi
che portò con coraggio ed utilità avanti (Turiddu per un
certo periodo aveva cominciato a fare veri e propri comizi
politici anticomunisti, del tipo: “Siciliani, se volete la libertà
annientate sbirri e comunisti”) sino a che comprese di essere
molto più vulnerabile di quanto pensava di non essere, in
un gioco molto ma molto più grande di lui che lo aveva, ad
un certo punto della storia, del tutto disorientato, confuso.
Già…, si rese conto, seppur in ritardo, di essere soltanto una
pedina e neanche una delle principali. Ne ebbe conferma
quando capì che tra tutte le parti, tra tutte le innumerevoli
parti, con cui negoziava o stringeva accordi c’era sempre di
mezzo (o meglio, di sotto) la mafia ed un vero siciliano sa, nel
più profondo, che la mafia, per chi vuole raggiungere “un”
potere senza chiederne il permesso, è una piramide con pareti
vischiose e letali come le fauci di un serpente. Quindi, in
un modo o nell’altro, aveva firmato la sua condanna a morte,
senza appello. Buscetta dirà però, più tardi, anzi tardissimo,
che Turiddu era già organico alla “famiglia di Montelepre”, era
un suo “uomo d’onore”. Dai rapporti era emerso invece che
la Mafia l’aveva avuto per un tempo lunghissimo “…sotto
osservazione per studiarne un suo utilizzo” (cioè un uso senza
che ne fosse consapevole). La prudenza della mafia molto
probabilmente era dovuta al fatto che Turiddu era già un
“assassino di Carabinieri” nel mentre gli equilibri politici
oscillavano tra monarchia e separatismo (filo-americano e
filo-inglese). Intanto, subito dopo il tentativo di arresto per
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contrabbando, si era schierato con i separatisti di Finoccharo
e, attraverso i manifesti del tipo “A morte gli sbirri succhiatori
del popolo siciliano, viva il separatismo e la libertà!”, volle
esporre al pubblico ludibrio le forze dell’ordine perché reduci
del Fascismo.
E’ così “Muoia Sansone con tutti i Filistei!” ed il 1° maggio
del 1947 nei pressi della Piana degli Albanesi vicino Palermo
ed esattamente nella vallata di Portella della Ginestra, mentre
si svolgeva la Festa del Lavoro e correvano i festeggiamenti
per la vittoria del “Blocco del Popolo”, Turiddu, o meglio il
colonnello Giuliano, indossando l’uniforme dell’E.V.I.S. diede
ordine di fare fuoco sulla folla. Nella valle vi erano radunati
un migliaio di persone per lo più contadini e loro familiari,
11 furono falcidiate a morte dalle raffiche di mitra e 27 ferite.
Dopo circa tre mesi Turiddu fece pervenire ai giornali una
comunicazione con la quale confessava lo scopo “politico”
della strage. Confessione “sconfessata” dal ministro Mario
Scelba che per alcuni storici (vicini alle idee di sinistra) è
stato attualmente individuato come il personaggio chiave del
“Mistero di Portella”. La strage, stante a voci molto dissonanti
(soprattutto oggi) che circolavano in quel periodo, anche
se non ne sono convinto, fu effettuata per smantellare una
certa architettura politica (DC-USA-MAFIA?) affinché
la responsabilità cadesse proprio su di essa. In effetti, da
un “certo” punto di vista, sul piano tattico, c’è anche una
“logica” (del terrore): le azioni terroristiche del genere sono
utilizzate per far ricadere responsabilità sul fronte avverso.
Bestiale ma è così. Alla domanda “cui prodest?” (a chi giova?)
deve sempre seguire una risposta “spontanea”, a chi giova?
All’avversario.
E questo era il clima. Clima reso ancora più focoso con la
successiva azione compiuta da Turiddu a Partinico contro la
tenenza dei Carabinieri nel mese di dicembre dello stesso
100
anno. Dimenticavo alcuni particolari. L’E.V.I.S., dopo un po’
sarà annientato con quattro schioppettate dal nostro esercito
in una località chiamata San Mauro, vicino Catania. In merito
alla mafia-connection vorrei evidenziare che quando le Forze
U.S.A. si prepararono allo “sbarco”, per non sprecare forze
e risorse come era avvenuto per gli Inglesi, avevano stretto,
sul territorio, delle alleanze con alcuni capipopolo attraverso
mafiosi italo-americani. Infatti, il colonnello Poletti, Charles
Poletti, già vice Governatore dello Stato di New York e nominato
per l’occasione Governatore Militare d’Italia aveva arruolato allo
scopo, con il ruolo di “Traduttore e Guida”, niente po’ po’ di
meno che un certo Vito Genovese, il vice di Lucky Luciano. Don
Vito negli U.S.A. era latitante in quanto accusato di essere stato
il mandante - dalla procura di Nuova York - dell’omicidio Boccia
commesso nel ’37. Tra l’altro, era già noto che don Vito non
accettava compensi ma soltanto rimborsi spese. Conveniva,
no? Per onore della cronaca va anche detto che don Vito farà
ritorno negli U.S.A. per sottoporsi al processo. Ne uscirà “a testa
alta” per mancanza di testimoni (vennero tutti assassinati!).
Comunque, appena sbarcati, gli Americani capirono di aver
commesso degli errori in quanto furono accolti dai siciliani con
grande festa, una festa riservata ai loro liberatori. Intanto, Vito
Genovese aveva brigato con l’amico Poletti per far nominare a
capo dei magazzini generali dell’esercito un certo Max Mugnani
(già noto trafficante di droghe), se ricordo bene il cognome,
che oltre a trafficare nel mercato nero con i beni americani
ben pensò anche di inondare clandestinamente il territorio
di ottima morfina conseguendo guadagni impensabili che
irrobustirono la mafia e gonfiarono le tasche di don Vito, di
don Calò (Calogero Vizzini) e di don Peppi Jencu (Genco Russo)
i capi dei capi della cupola. Delle undici bande “sciolte”
presenti sul territorio siculo ne rimase soltanto una, quella
di Turiddu.
101
Detto ciò, inizio la seconda parte della mia memorabile
esperienza. E’ il 1949. Arrivo di mattina all’Ispettorato Generale
di Pubblica Sicurezza per la Sicilia di Palermo (che diventerà dopo
pochi giorni ed esattamente il 26 agosto: C.F.R.B. ovvero il Comando
Forze Repressione Banditismo con a capo il Colonnello dei Carabinieri
Ugo Luca). Mi riceve l’Ispettore Capo Ciro Verdiani (che dopo
manterrà una posizione apicale sino al suo “defenestramento”
avvenuto dopo circa un anno). Mi guarda, poi continua a
scrivere alcuni documenti. Mentre scrive, a testa bassa mi
chiede: “Tenente Gambino, allora… cosa vogliamo fare?”
E nel mentre, mi infila il suo sguardo negli occhi come una
lama. Di me sa già tutto, il mio carattere testardo, la fede per
la Patria, il coraggio provato con azioni di guerra encomiabili
e la mia precisione con le armi da fuoco. Lo so perché in
altro incontro avuto con il colonnello Luca se ne farà menzione
insieme al mio rapporto di servizio. Senza indugio, muto, con
lo sguardo gli chiedo di potermi sedere. Annuisce. Mi siedo
e dico sommessamente: “Vengo dalla Steppa… e sono qui
per mettere a disposizione la mia esperienza… mi piacerebbe
conoscere molto da vicino quel Robin Hood chiamato Turiddu,
il re di Montelepre e mi riferisco al famigerato Salvatore
Giuliano, Signor Ispettore.” E poi, continuando: “Se mi da sei
o sette uomini decisi, vorrei operare fuori… dagli schemi…
conosco le tecniche di guerriglia che ho potuto praticare prima
ad Elbasan e poi durante la ritirata del Don… Il territorio lo
imparerò molto presto… non ho neanche bisogno di camionette
ma di cavalli… soltanto cavalli… ecco… io…vorrei creare una
banda, Signor Ispettore… voglio integrarmi nello scenario ed
attirare l’attenzione del guaglione … sempre se lei trova questo
mio pensiero valido… “. “Mhhh…” Mi fa Verdiani chiudendo
la cartella spalancata sulla scrivania e togliendosi, con un
gesto lento, gli occhiali: “…intanto è pronta una macchina
per te. Ti scorteranno un paio di uomini fino a Montelepre”.
Ed io, sempre con compostezza: “Grazie, Signor Ispettore!”.
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Non lasciando passare dal mio tono alcuna flessione emotiva.
“Ah…Gambino…” Riprendendo il discorso, Verdiani alza il
tono. Io ero già alla porta e la stavo aprendo per uscire:“…
un ordine ed una raccomandazione: prima di ogni azione,
di qualsiasi azione, gradirei ricevere un dispaccio telefonico
minuzioso di qualsiasi attività…. Scusami ancora, quando
arrivi a Montelepre fammi inoltrare pure l’elenco di tutto ciò
che ti occorrerà, indumenti, armi… per quanto riguarda gli
uomini <decisi> vedrò di fare del mio meglio…” Socchiudo
la porta salutandolo questa volta con un sorriso soddisfatto.
L’Ispettore intanto aveva disposto l’auto per me nel primo
pomeriggio. Nell’attesa, contento del colloquio, faccio un
giro per sgranchirmi le gambe ma soprattutto per pensare
al da farsi. Mi trovo così, senza volerlo, proprio ad una
fermata della corriera. C’è una vecchia carcassa azzurra con
il motore acceso che traballa per le forte vibrazioni come
la prima lavatrice di mia moglie, con un cartello”PalermoMontelepre”. Ne chiedo, al conducente, l’orario di partenza.
Ho giusto il tempo di ritornare al Comando, raccattare le mie
quattro cose e recarmi spedito alla fermata. Arrivo. Mi guardo
intorno e salgo. Pago il biglietto, poi mi accomodo in fondo.
La corriera è semi vuota ma parte in perfetto orario. Mi gusto
il paesaggio solare dal finestrino. Colline aride o coltivate si
alternano alla mia vista. Quelle incolte hanno il colore dell’oro
mentre le altre sembrano, con tutti gli appezzamenti ben
delimitati, delle coperte con toppe arancioni, gialle e verdi
di tutte le gradazioni. Il ciglio della strada è infoltito da alti
fichi d’india stracolmi di “nanasse” verdi e vermiglie. Dopo
alcune ore scorgo un cartello blu bucherellato ed arrugginito
con la scritta “Montelepre”. Appena scendo dalla corriera,
alla fermata, quattro poliziotti in divisa mi vengono incontro
agitati. Avevano ricevuto un telegramma da Palermo e mi
stavano aspettando lì da più di un’ora. Erano preoccupati, anzi
allarmati. Insomma, pensai, come primo biglietto da visita si
103
può dire che ho reso bene l’idea di chi sono, non è stato forse
il modo migliore ma sono così. Intanto mi rendevo conto di
aver creato un piccolo scompiglio a Palermo non avvisando
il dirigente della mia partenza anticipata per Montelepre, per
essere arrivato dopo più di un’ora da solo e con la corriera!
Comunque, come se niente fosse accaduto, faccio un saluto
militare ed ordino di caricare le mie quattro cose sull’auto
amaranto e di partire di gran carriera per Montelepre. Indosso
una leggerissima giacca estiva di colore beige (l’unica estiva
del mio guardaroba civile) e la rivoltella, che per abitudine
ho sempre portato all’ascella (alla cintura mi consuma
i pantaloni), faceva capolino sfacciatamente dai revers
sgualciti. L’autista, appena monto in macchina, mi fa notare
rispettosamente che l’arma è molto evidente e mi informa del
pericolo che avrei sicuramente corso a Montelepre e dintorni
facendomi vedere in giro in quel modo. Non rispondo. Con
un cenno lo ringrazio. Arrivo al mio Reparto. Mi presento a
tutti: ufficiali, sottufficiali, agenti. Chiedo del mio alloggio per
sistemare i bagagli ma prima però esprimo il “desiderio” di
poter visionare i fascicoli sulle bande locali ma soprattutto su
Salvatore Giuliano e company. In un istante il tavolo traboccò
di pile polverose di fascicoli legati come soppressate e di
caterve di foto segnaletiche e pezzi di giornali. Mi passa la
voglia di vedere l’alloggio. Mi siedo, e comincio a sfogliare
i documenti nei vari fascicoli intestati a Salvatore Giuliano, a
Gaspare Pisciotta (cugino e luogotenente di Giuliano), a Nunzio
Badalamenti, ai loro familiari e ad altri uomini della banda,
schedati o semplicemente segnalati, uno ad uno. Infine, prima
di finire ciò che avevo cominciato a fare rendendomi conto
che non ce l’avrei mai fatta a visionarli tutti, chiedo di avere,
appena possibile, una cartina dell’intera zona di pertinenza
ed un binocolo. Non pranzo e ne approfitto per parlare con
gli uomini che avrebbero fatto parte della mia pattuglia, ad
uno ad uno, così come avevo fatto in passato in guerra, per
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avere informazioni generali ma soprattutto per verificare il
loro stato di servizio e la loro indole. Dai rapporti che avevo
sfogliato era emerso che dal 1943 al 1949 il “banditismo” era
“invincibile”. O meglio, la “banda Giuliano” era invincibile
ed il suo giovane capo (aveva 26 anni) “inafferrabile” e che
gli scontri si susseguivano senza interruzioni ed avevano
mietuto, sino al giorno in cui lo stavo leggendo, decine e
decine di vittime. Fino alla strage di Bellolampo, avvenuta il
19 agosto (di quell’anno, 1949) la sola Arma dei Carabinieri
aveva contato tra i suoi militi quasi cento morti caduti nei
conflitti a fuoco e nelle varie scaramucce. Mi alzai e agli
uomini presenti dissi senza remore come avremmo operato da
quel momento in poi, come ci saremmo abbigliati e in quale
modo ci saremmo spostati. Riferii anche del mio colloquio
con l’Ispettore Verdiani, ma questo già lo sapevano perché
messi a conoscenza dal dirigente dell’Ufficio dell’Ispettorato
Generale di Palermo nella medesima giornata.
Dopo una settimana ottenni quanto richiesto per la mia
squadra anzi per la mia “banda”: indumenti civili, tascapane,
e vari mitra nuovi di zecca. In poco più di un mese conoscevo
quel territorio, vasto ed impervio, come le mie tasche.
Eravamo ormai affiatati. Scorazzavamo a piedi sospettosi,
diffidenti ed irascibili come veri banditi. Nessuno sapeva
chi fossimo. “Quasi” nessuno. I miei uomini, che avevo
addestrato sul linguaggio anche gestuale da adottare nelle
diverse circostanze, sembravano mafiosi incalliti, con
“coppola” sulle ventitré, camicie larghe, tascapane a tracolla
e calzoni tenuti su con una cintura di cuoio sottile che fermava
la rivoltella (non d’ordinanza, ovviamente) sporgente come
un carciofo dalla vita con l’impugnatura di corna di bue; io
sembravo un gangster siculo-americano, capelli impomatati,
stivali, fazzoletto rosso annodato al collo, bandoliera e fucile
(tirato a lucido) incrociati a tracolla. Quando mi guardavo allo
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specchio a volte credevo di essere davvero un fuorilegge, cosa
che mi confermavano, giorno dopo giorno, gli sguardi atterriti
degli avventori, fossero stati contadini, pastori o cittadini
che spesso incontravamo durante le nostre avventurose
“perlustrazioni” effettuate sempre a piedi. Il cavallo non
era in dotazione ma mi veniva “involontariamente” fornito
da chi, innocente o colpevole, vistici da lontano lasciava
la cavalcatura e scappava per la montagna. Alcuni erano i
fornitori dei viveri per i latitanti. In effetti, la nostra presenza
era una continua sfida e costituiva per chi avesse la coscienza
sporca una seria minaccia e per Giuliano, per il nostro Turiddu,
un vero oltraggio, un reato di lesa maestà compiuta ai danni
del re di Montelepre. Ed era questo l’effetto che volevo sortire,
volevo che uscisse prima o poi con il naso fuori dal suo
nascondiglio. E, per provocarlo, lasciavo le tracce tipiche di
chi dice “se ti incontro sei un uomo morto”. Stavamo facendo
terra bruciata intorno a lui. Tutte le notti perquisivamo le
abitazioni conosciute dei componenti dalla banda, da cima a
fondo creando scompigli nel cuore della notte, spaventando
padri, mogli, figli e parenti. Alcune volte anche procurando
danni alle cose (sedie, tavoli). Volevo che di noi si parlasse.
Ho dormito nella sua stanza, nella stanza di Turiddu, nel suo
stesso giaciglio, in segno di sfida. E, al mattino successivo mi
facevo notare, spavaldo e da solo, con il mio mitra a tracolla
e nei miei abiti da “straccione” a prendere un caffè in un
bar o nel circolo ricreativo sulla via principale di Montelepre,
oppure in sella a qualche cavallo, scortato dagli uomini
della squadra. Ricordo che un giorno, dopo tanto tempo, il
farmacista di Montelepre, venuto a sapere chi realmente poi
fossi, bontà sua, mi chiese di essere più prudente ed in modo
alquanto delicato mi espresse tutta la sua “preoccupazione”
perché “ancora” passeggiavo dinanzi alla vetrina della sua
bottega. Non so se fosse realmente preoccupato per la mia vita
o per la sua. Tutto ciò che facevamo doveva spingere Turiddu
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a capire di avere a che fare con gente tosta, che fossimo una
banda venuta dalla costa per appropriarci di parte di quel
territorio. Ma poi compresi che mi stavo sbagliando. Turiddu
non era assolutamente “solo”, neanche quando si diceva
che lo fosse. Precedeva sempre le nostre azioni correndo ai
ripari. Era riuscito, sin a quel momento, sempre ad evitarci.
Per lui muoversi era molto più facile, godeva dell’appoggio
incondizionato degli abitanti, e poi compresi anche di altre
forze, di vere forze, misteriose che lo ponevano in posizione
di assoluto vantaggio e protezione. Scorazzava per sentieri,
campagne, colline e montagne con la sua banda senza che
mai ci fosse qualcuno che l’avvistava. Nonostante, ero riuscito
però, con mia grande soddisfazione, ad invertire comunque
l’ordine delle cose. Da cacciatore era diventato, almeno per la
mia squadra, preda. E sapeva anche questo. Sapeva di essere
braccato senza posa. Sapeva sempre tutto di tutto. Ogni suo
spostamento seguiva una logica di guerra, avanguardie,
retroguardie, fiancheggiamenti, trappole. Nonostante tutto
il trono del cosiddetto “re” comincia a scricchiolare perché
il bandito si ritrova con la casa di abitazione requisita, con
la stanza da letto e lo stesso letto occupato da me, con la
mortificazione di vedere violate, tutte le notti, le abitazioni
dei suo complici dalle nostre severe perquisizioni, seguite da
urla ed imprecazioni di ogni genere, ben ascoltate e potute
quindi giudicare dal vicinato; il senso di tutto non voleva
essere una bravata, ma solo il fine di volere segnalare agli
abitanti di Montelepre il principio di una non lontana caduta
del loro re. Il che non si è realizzato anzitempo per puro caso,
quando ha tentato di tornare in paese. Tutto si è svolto così:
Una notte ci eravamo appostati sotto Montelepre nella speranza
che, presidiando quel passaggio obbligato, avessimo potuto
incontrarlo. Avevamo delle informazioni molto riservate. Ma
commisi un errore. Avevo fatto venire anche il cane poliziotto
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che, come sempre, aveva precedentemente fiutato i vecchi
indumenti di Turiddu sotto la guida del suo addestratore.
Ore ed ore di attesa. L’alba intanto cominciava a mostrare
il suo bagliore dorato. Il cane all’improvviso diede segni di
inquietudine. Sempre di più. Abbaiava senza tregua dirigendo
il suo lungo muso ad ovest. C’era odore di Turiddu nell’aria
e, a meno che Turiddu non fosse stato soltanto una leggenda,
quegli abbai adesso dimostravano che era nei pressi, in carne
ed ossa. Ordino a tre dei miei di posizionarsi come stabilito e
ad altri tre di raggirare il luogo in modo tale da sorprenderlo
alle spalle. Avevo raccomandato di sparare esclusivamente
al mio segnale, soltanto a quel segnale che conoscevano
bene. All’improvviso il cane si svincola dalla presa del suo
addestratore e con un balzo si tuffa nella penombra. I miei lo
raggiungono a mitra spianato pronti a far fuoco. Dinanzi a loro
due pastorelli a piedi, uno dei quali reca una pecora sgozzata
riversa sulla spalla. Erano impietriti dal terrore. Il cane
ringhiava come se stesse spiccando un balzo per attaccare
quello con la pecora. Raggiungo i miei e tiro un gran sospiro di
sollievo. Avevo evitato il peggio non ordinando di fare fuoco.
Ma prima di lasciar passare quei ragazzi mi salta alla mente
un dubbio. Li interrogo. Dapprima sono molto paterno poi
divento un demone e li accuso di un omicidio immaginario che
sarebbe stato compiuto da loro qualche minuto prima. Questo
espediente ha sempre funzionato con chi ha da nascondere
qualcosa e quel qualcosa che loro nascondono è proprio
Turiddu, che li aveva pagati e “convinti” a fare quello che
avevano fatto cioè, passare da quel luogo, a quell’ora, con
quelle modalità, ovvero con la pecora fresca sanguinante,
per attirare il cane e quindi passare indisturbato con i suoi
uomini alle nostre spalle. Ho lasciato andare i ragazzi felice
di non avere ucciso due innocenti, ma deluso perché mi era
sfuggito dalle mani Turiddu il “re di Montelepre”. Ancora
qualche avventura da raccontare:
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Un giorno, dopo una fitta settimana di vagabondaggio per le
alture e le radure, mi trovavo a Terrasini (Pa) sul terrazzo della
caserma a prendere il sole quando un mio uomo mi informa
che c’è un pastore che ha urgente bisogno di parlarmi.
Scendo la scala di gran lena e interrogo il pastore il quale,
guardandomi con molta diffidenza e paura, mi “segnala”
che sopra l’acquedotto di Cinisi c’era un tizio che un anno
prima gli aveva ucciso il figlio. Dalla descrizione mi è parso
di riconoscerlo. Se fosse stato quello che immaginavo che
fosse, era un latitante ed anche gregario saltuario della banda
Giuliano. Io, in quel momento, ero in brache di tela, avevo
dei sandali ai piedi ed indossavo, fuori dai pantaloni, una
camicia aperta. Alla notizia, l’adrenalina ha cominciato a
correre all’impazzata insieme al mio cuore e alla mia mente.
Ho quindi preso la pistola d’ordinanza e me la sono infilata
dietro la schiena, nella cintura, insieme a quella “irregolare”
e poi ho infilato al collo un binocolo al fine di sembrare un
turista. Per non perdere altro tempo, ho chiesto ad un mio
uomo di essere accompagnato in fretta con la jeep. Siamo
arrivati a Cinisi in una manciata di minuti. Ho ordinato
all’autista di nascondere l’auto distante dall’acquedotto e
di seguirmi a piedi, ad una distanza di trenta metri, come
se stesse passeggiando per cavoli suoi. Non gli ho dato altre
spiegazioni o istruzioni. L’uomo segnalatomi è lì, di fronte
all’acquedotto. Ha una giacca piegata sul braccio. Potrebbe
nascondere un’arma. Si muove con circospezione, fissa la
strada di sotto. Appena mi scorge si mette a parlare con una
delle donne che sono lì a raccogliere le mandorle. Mi avvicino
per coglierne i lineamenti, è proprio colui che immaginavo
che fosse. Mi avvicino percorrendo il sentiero di collina
parallelo. Noto che mi sta guardando ed allora con il binocolo
mi giro dalla parte opposta e poi mi allontano qualche metro
dalla mia posizione per fargli capire che ero in altre faccende
affaccendato. L’uomo si rilassa ed io avanzo nuovamente sino
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a raggiungere la distanza di tiro della pistola. Intanto, il mio
autista appoggiato ad un muretto a secco lo fissa di spalle. E’
allora che il bandito si volta quasi di scatto come se avesse
visto qualcosa di istintivamente sospetto. A quella reazione,
dal livello inferiore della collina, il mio autista gli intima
di avvicinarsi a lui e questi, strattonando la donna a pochi
passi da lui si nasconde, prima che io estraggo la pistola.
Ci siamo trovati a distanza di pochi metri entrambi con le
armi spianate, ci siamo guardati negli occhi impossibilitati
a fare fuoco perché avremmo dovuto colpire prime le cinque
o sei donne affaccendate a raccogliere la frutta. La fuga del
malfattore giù per la collina, è stata possibile perché con i miei
sandali ai piedi non ho potuto attuare alcun inseguimento.
Ritorniamo quindi a Terrasini mentre per tutto il tragitto non
faccio altro che redarguire il mio uomo per non aver seguito
sino in fondo le istruzioni anche se, in un certo qual modo, ha
fatto del suo meglio e si era preoccupato per me. Prima però
ero passato per la caserma dei carabinieri di Cinisi, mi sono
fatto mostrare le foto segnaletiche per poter dare un nome a
quel volto, ed ho raccontato tutto nei minimi particolari. Il
Maresciallo ha ascoltato tutto con stupore e allo stesso tempo
si è complimentato per l’intraprendenza per aver portato con
me un solo uomo. Dopo qualche giorno mi arriva l’ordine di
prendere il comando del Nucleo Mobile di Polizia di Montelepre.
Ed eccomi a capo dell’unità operativa posta nel luogo più
pericoloso, in termini assoluti, del territorio italiano.
Dopo aver retto il comando di Montelepre posso dire che nella
mia vita ce l’ho sempre messa tutta per essere utile agli Italiani
e per proteggere la mia amata Italia. Come ogni cosa che
finisce anche questa giunge al termine. Però devo confessare
che sono incazzato nero per molte cose che non sono riuscito
a capire. Avevo scoperto, durante le mie azioni, un luogo
dove la banda di Turiddu andava a rifornirsi di viveri,
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medicinali ed altro. Quel luogo era in un’azienda agricola
molto nota, con duemila capi di bestiame. Si diceva che fosse
riconducibile ad un mafioso. Ed i fatti si sono svolti così: Una
Guardia Campestre con la quale spesso mi ero incontrato in
campagna, parlando del più e del meno, con finta meraviglia,
mi ha informato che un bracciante agricolo, pur avendo pochi
mezzi, aveva organizzato le nozze di sua sorella spendendo
molo danaro, affittando addirittura, per la cerimonia nuziale,
il costoso salone da ballo di un barone del luogo. Capito il
messaggio, dopo qualche giorno, mi sono messo alla ricerca
del soggetto che al mattino portava in giro per la città le capre,
per vendere il latte appena munto, mentre per il resto della
giornata lavorava in un’azienda agricola molto importante.
L’ho fermato ed ho cominciato il primo interrogatorio; niente.
Il secondo giorno qualcosa ho ricavato e così nei giorni
successivi, fin quando la sua reticenza è finita, per il timore
di essere imputato di qualche grave reato. Mi ha riferito che
nell’azienda in cui operava alcuni latitanti si presentavano a
volte, al fine di fornirsi di viveri, di medicinali, e di biancheria,
il tutto a spese del suo datore di lavoro. Per saperne di più
o meglio, per far sapere che sapevo mi sono recato presso
l’abitazione del proprietario dell’azienda agricola. Lui non
c’era. C’era sua moglie che con formale cortesia, seppur
snob, mi ha detto che il marito era andato in mattinata a Roma
per affari e rispondendo ad altre mie domande che sarebbe
tornato presto e che a Roma ci andava spesso. Dopo alcuni
giorni da quella mia ultima iniziativa ogni mia attività è stata
bloccata. Avevo invano passato intere notti al freddo onde
potere intercettare il soggetto dal quale avevo interesse
a captare qualche utile informazione. Sono stato isolato
ed incaricato di compiti “amministrativi”. Seguivo delle
pratiche. Volevano forse che facessi lo scribacchino, e non
quello che avevo sempre fatto. Non subito, ma in seguito ho
cominciato a considerare due ipotesi non troppo strampalate:
112
1) che potesse esserci qualche segnalazione di pericolo per la
mia persona, dato che mi ero sempre dato da fare per il lavoro
con impegno tale, da poter far desiderare a qualcuno la mia
eliminazione fisica; 2) che, a mia insaputa, già organizzata la
trama per la eliminazione di Turiddu, si rendesse necessario
tenere da parte un manovratore scomodo, che avrebbe potuto
mandare a monte la riuscita dell’operazione. Per l’una e
per l’altra ipotesi sono ugualmente contento, per la prima,
riconoscente, per la seconda, ammirato, certo che non avrei
saputo fare di meglio; tanto più che avevo sempre immaginato
una sfida all’Ok Corral senza mai tener conto abbastanza
della possibile perdita di qualche vita, la mia compresa. Il
lavoro d’ufficio era una condizione che avevo sempre rifiutato
ed anche una vergogna per me: io, imboscato, mai! Dopo
una decina di giorni o meno, all’inizio del 1950, come se Dio
avesse ascoltato i miei gemiti di noia ed orrore, mi arriva una
comunicazione: ho vinto il concorso per le Imposte Indirette
al quale avevo partecipato quando insegnavo a Caserta e sono
chiamato a prendere servizio a Cuneo. Mi viene voglia di
ricordare Totò che per dimostrare la sua perizia ed esperienza
dice in quel vecchio film “… ho fatto il militare a Cuneo”.
Io, il militare l’ho fatto dappertutto e a Cuneo ci andavo per
dimenticare i luoghi in cui avevo servito la mia Patria…
Adesso mi restava da fare un’ultima cosa, rassegnare le mie
dimissioni, ma nelle mani di colui che io ritenevo essere il
più valoroso, il colonnello Luca al quale strinsi con onore la
mano insieme al mio commiato, seppur lasciandolo a bocca
amara per una mia parola detta tra i denti, nel momento in cui
mi chiese: “auguri per Cuneo…ma qual è il vero motivo?” Ed
io: “… l’odor di tradimento…”.
Abbiamo letto da certa stampa che:
“In cambio dell’impunita`, in poco tempo, alcuni degli uomini
più fidati di Salvatore Giuliano vennero catturati o uccisi.
113
Per eliminarlo fisicamente ricorsero al tradimento di Gaspare
Pisciotta (e Nunzio Badalamenti ufficialmente arrestato),
che lo eliminò nel sonno, in una casa colonica chiamata “Villa
Carolina”, ubicata tra Pioppo e Monreale. La mattina del
5 Luglio 1950 il suo corpo venne trovato a Castelvetrano
crivellato di colpi. Aveva 27 anni”.
A questo punto sento il dovere di esprimere la mia personale
certezza, anche se fuori tema, sulla magnifica figura del mio
ex-comandante, colonnello Luca, capo del C.F.R.B. (Comando
Forze Repressione Banditismo), essendo stato in servizio alle
di lui dipendenze nel IV Gruppo Squadriglie, fino ai primi di
gennaio del 1950, quando prestavo servizio in un grosso centro
della Sicilia, a grande intensità mafiosa e criminale; qui le
esigenze di lavoro richiedevano una particolar presenza del
Nostro comandante, il che mi ha consentito di accompagnarlo
più di una volta in qualche incontro di lavoro od istituzionale.
Tali circostanze mi hanno permesso di conoscere abbastanza
la personalità del mio capo, e viceversa, e nel contempo di
stabilire con lui un rapporto di cordialità e di rispetto; abbiamo
spesso parlato dei nostri trascorsi di guerra e di vita, con la
massima sincerità. Una volta mi ha raccontato un episodio che
non dimenticherò mai: Era stato in un campo di prigionieri o
di internati, non rammento né dove né quando, e con quale
ruolo, allorché pur non essendo medico aveva dovuto operare
un uomo che stava morendo, sembra di peritonite, assistito
solo da un infermiere. Tanto mi ha fatto pensare alle grida
di quel povero disgraziato, operato da mani inesperte, ma
non mi sono permesso di dire alcunché; è stato lui capace,
era troppo furbo, di intercettare quanto mi passava per la
testa e senza spiegarmi altro ha chiuso il colloquio con un
significativo sorriso.
Comunque scrivo di un comandante di eccezionale carisma e
di indiscusso valore; viaggiava da Palermo, sede del comando,
114
fino ai reperti limitrofi, sempre e solo con l’aiutante maggiore,
allora capitano, Antonio Perenze, degno in tutto del suo
comandante, nonostante le insidie ed i pericoli costituiti da
tanti malfattori.
Sei mesi dopo le mie dimissioni ho appreso dei risultati
ottenuti dal C.F.R.B. con la sconfitta definitiva del bandito e
del banditismo, senza perdere un solo uomo, e ciò ha aumentato
in me l’orgoglio di essere stato comandato da un simile
ufficiale; una parte della stampa, di allora, ha ritenuto di
criticare l’importanza di una operazione di polizia magistrale,
ma questo non ha toccato in modo assoluto la statura del
personaggio. E che dire del mio primo superiore il dottor Ciro
Verdiani, capo dell’Ispettorato di P.S. della Sicilia, investigatore
di fama, prodigo di consigli e di attenzioni per il mio lavoro.
Non era tranquillo per avermi concesso di costituire la banda
di irregolari che avevo voluto, perché temeva il rischio per un
eventuale conflitto a fuoco, specie di notte, con le altre forze
di polizia operanti sul territorio. E la di lui previdenza ha
avuto due concrete realizzazioni:
Con la mia squadra tornavo dalla montagna dopo una
settimana di vagabondaggio (si dormiva sotto gli alberi,
all’addiaccio), nel mentre arrivava la corriera proveniente
da Palermo, o da Trapani, non rammento. Stanchi l’abbiamo
fermata, tra la curiosità dei viaggiatori, siamo saliti a bordo e
subito abbiamo scorto dal finestrino un individuo che, armato
di mitra, camminava nel terreno posto in fondo d una scarpata;
abbiamo fatto fermare l’automezzo e ci siamo precipitati giù,
ma purtroppo non c’è stato nulla da fare perché il soggetto
era già corso via; gli abbiamo anche sparato per fermarlo, ma
ormai era lontano. Sfortunatamente per noi, l’episodio era stato
notato dalla non lontana caserma dei Carabinieri, dalla quale
normalmente veniva controllato l’arrivo della corriera e così
cinque o sei militi sono arrivati al comando di un giovane vice
115
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brigadiere per arrestare noi ritenuti fuorilegge. Meno male
che quei ragazzi avevano ancora in dotazione il moschetto, se
avessero avuto i mitra ci avrebbero sterminati. La sparatoria
è durata una decina di minuti finché, riparati stesi a terra
dietro gli alberi, abbiamo levate le camicie e le abbiamo
sventolate gridando che ci arrendevamo (non era servito il
grido che eravamo poliziotti). Ci hanno arrestati e portati in
caserma senza tante domande, e lì dopo aver chiarito tutto,
siamo stati ospitati per la notte con gentilezza. Poco tempo
dopo l’arresto è venuto da parte di una pattuglia, in divisa,
della polizia: eravamo nei pressi di uno scalo ferroviario (io
però li avevo già notati) quando siamo stati circondati ed
obbligati a deporre le armi senza poter profferire parola; per
fortuna nessuna sparatoria perché, edotti dalla precedente
esperienza, abbiamo senza indugio alzato le mani in segno
di resa. Il fatto che il Verdiani, come il successore, siano stati
sottoposti a qualche critica postuma, mi ha fatto capire che
non tutti sanno in quali difficoltà i due hanno dovuto operare;
il primo ha dovuto affrontare due entità, delinquenza e mafia
alleate, il secondo ha isolato la delinquenza dalla mafia, la
quale oltretutto cominciava ad essere stanca, per i suoi fini,
del bandito e dei banditi. Comunque entrambi sono stati per
me punti di riferimento di altissimo valore.
Prima di concludere mi è caro però ricordare la squadra
di “straccioni” che tanto mi ha aiutato nel fare il lavoro
commessomi, mostrando coraggio e sopportando sacrifici
notevoli; non ricordo tutti i loro nomi, purtroppo, che brutta
cosa la vecchiaia! Almeno due, mi sono rimasti impressi:
- Il brigadiere Maimone che, salvo errore, ho saputo essere
stato ferito in conflitto a fuoco con i banditi nei primi giorni
dell’anno 1950 poco dopo la mia partenza; era coraggioso
e per me era “l’esploratore”, nel senso che andava in ogni
luogo, di giorno e di notte, da solo, per attingere ogni specie
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di notizia utile, anche se difficile, presso pastori e contadini.
Vestiva come noi altri, da bandito, ma per lui era più facile
essere creduto tale altresì per lo stesso aspetto fisico, bruno,
tarchiato, dall’aspetto più di un arabo che di un bianco. Mi
sembra di sapere che abbia prestato servizio per lungo tempo,
in modo eccellente, presso la Questura di Roma in compagnia
di un cane, Dox, da lui personalmente addestrato.
- La guardia Troisi, ancora giovane, dotato di notevole intuito
investigativo, capace di captare benevolenza tra tutti gli strati
sociali, finalizzata sempre, e solo, ad acquisire notizie utili
per il suo lavoro; così una volta mi ha presentato un sacerdote,
un’altra una prostituta, un’altra una pseudo-fidanzata, i quali
dopo avere dichiarato il loro desiderio di collaborare finivano
con l’esternare il loro interesse per la riscossione di una
taglia, di cui formalmente io ignoravo l’esistenza.
Le più recenti notizie di stampa riportano che, una fonte
autorevole:
“Salvatore Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, con un
articolo pubblicato il 29 gennaio 2011 smentisce che il test del
Dna sul cadavere di Salvatore Giuliano ne abbia confermato
l’identità, come scritto da alcuni giornali. Per il magistrato, le
analisi sono in corso e l’ipotesi della sostituzione di cadavere
resta aperta. In particolare, Ingroia smentisce che sia già emersa
la compatibilità tra il Dna estratto dal cadavere riesumato a
ottobre a Montelepre e quello dei congiunti del bandito usato
per la comparazione”
Come chiamare tutto ciò se non “Mistero buffo”? Devo
confessare che non ho avuto grandi risultati a Montelepre
ma, a parer mio e non soltanto, alcune cose utili le ho fatte:
ho eliminato l’uso delle auto (tutti a piedi, per lo più) onde
evitare quel pericolo mortale che si chiama “agguato” pronto
119
a scattare in ogni curva di quelle colline ed ho aiutato le forze
dell’ordine a riappropriarsi del territorio quasi perduto, con
la tecnica appunto dell’agguato, consistente in appostamenti,
specie notturni, in determinati, usuali punti di passaggio.
In definitiva, nell’obbligare i banditi a sentirsi prede e non
cacciatori. Ho stillato nei miei collaboratori fiducia nelle
proprie possibilità facendogli scoprire un coraggio che non
credevano di avere il quale viene fuori quando si è nel giusto
e poi che nessun nemico è invincibile. Infine, ho salvato
sicuramente molte vite. Comunque, ho sempre svolto ogni
incarico con coscienza, scienza e fede. Grazie ancora a tutti
coloro che hanno fatto qualcosa per me, ai miei genitori,
all’Esercito Italiano, alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri
che ha accolto nella sua grande famiglia mio padre, mio zio e
mio fratello e a tutti quanti hanno contribuito alla mia crescita
di uomo e di vero Italiano.
Viva l’Italia!
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Bandiera dell’EVIS (Trinacria)
121
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GIACOMO GAMBINO è nato a Torre Annunziata (Na) il 20
agosto del 1920 da Giovanni, militare della Real Arma dei
Carabinieri e da Rosa Malvone. All’età di 6 anni si è trasferito
a Nocera Inferiore (Sa) dove ha frequentato il Liceo Classico
“Gian Battista Vico”. Si è laureato in Giurisprudenza presso
l’Università degli Studi d Napoli “Federico II” appena
terminata la Guerra (1939-1945). Ha partecipato, in qualità di
ufficiale, alla Campagna di guerra sul Fronte Greco-Albanese
(Elbasan) e a quella sul Fronte Russo (Don) nella Seconda
Guerra Mondiale; per quest’ultima, è stato insignito di Croce
di Guerra al Valor Militare (Pianoro W di Grasnorowca. Don,
14 dicembre 1942). Così motivata: “Già distintosi sotto intenso
fuoco di armi automatiche e di mortai nemici, non esitava,
alla testa dei suoi uomini, a portarsi avanti e riconquistare, a
colpi di bombe a mano, nostre postazioni avanzate presidiate
da nuclei nemici, che con efficaci tiri di armi automatiche ci
causavano gravi predite”. Croce al Merito di Guerra, Croce
di Ferro di Seconda classe della Wermacht (esercito tedesco),
datata 17 aprile 1943. Prima di essere nominato ufficiale
in servizio permanente effettivo del Corpo delle guardie
di Pubblica Sicurezza, (G.U. 7.7.1950 Nr. 153) ha svolto
mansioni di insegnante alla Scuola Allievi Guardie di P.S.
di Caserta e ha partecipato, nel 1949, alle operazioni per la
cattura del bandito Giuliano in Sicilia. Ha conseguito nel
1945 l’abilitazione di Procuratore Legale ed è stato Dirigente
Ispettore Capo delle Imposte Indirette in Lombardia. Ha
pubblicato “La tutela delle garanzie sui beni immobili nel
Diritto di Famiglia” edito da Mereghetti-Brescia, nel 1976;
“Formulario giuridico-fiscale della famiglia” e “Eredità.
Chi sarà il proprietario dei tuoi beni?” con l’avvocato Carlo
Masera editi dalla F.A.G.-Milano, nel 1977. Ha tenuto,
inoltre, conferenze in moltissime scuole d’Italia sulla “Armata
Scomparsa” e sulla “Lotta al Banditismo”. L’ultima del 4
novembre 2010, su invito del Comune di Sala Consilina, così
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riportato dal sito www.ondanews.it: 04/11/2010 - Giornata del
4 Novembre: “Anche i comuni del Vallo di Diano e del Cilento
hanno celebrato oggi la ricorrenza annuale del 4 novembre,
giornata dedicata alle Forze Armate e alla commemorazione
dei Caduti in guerra. In particolare questa mattina
nell’aula magna delle scuole elementari di Via Matteotti le
delegazioni degli studenti degl’Istituti d’Istruzione Superiore
di Sala Consilina, i rappresentanti delle Forze dell’Ordine,
del mondo istituzionale e religioso e della società civile salese,
hanno incontrato l’Avvocato Giacomo Gambino, membro
dell’Associazione Nazionale Nastro Azzurro dei decorati al
Valor Militare, dell’U.N.U.C.I (Unione Nazionale Ufficiali
in Congedo d’Italia) e dell’U.N.I.R.R. (Unione Nazionale
Italiana Reduci di Russia), per ricordare il prof. Giuseppe
Marcialis, Sindaco di Sala Consilina negli anni 1969-70,
deceduto il 20 ottobre 2007. Entrambi condivisero l’esperienza
della guerra in Russia: il professor Marcialis, ferito in un’azione
di guerra, fu tratto in salvo dall’avvocato Gambino. L’incontro
è stato preceduto dai saluti del dirigente scolastico Carmelo
Setaro e del sindaco di Sala Consilina Gaetano Ferrari. La
testimonianza di Gambino è stata particolarmente toccante.
Ha parlato del suo rapporto non solo di commilitone ma
soprattutto di amicizia con il professore Marcialis. I due dopo
aver combattuto altre guerre avevano scelto di partire come
volontari per il fronte russo in qualità di ufficiali. L’intervento
si è concluso con un invito agli studenti presenti nella Sala a
battersi sempre per la pace perché nessuna guerra può essere
giustificata da un motivo valido. La giornata si è conclusa con
la celebrazione della Santa Messa in Piazza Umberto I e con
la deposizione di una corona d’alloro ai piedi del Monumento
ai Caduti per la Patria”. (Erminio Cioffi) Ed, inoltre, è stato
recentemente invitato da Simone Cristicchi, tramite l’amico
Andrea Bertola, a partecipare allo spettacolo “Li romani in
Russia” che terrà prossimamente a Milano, con lo scritto così
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formulato: “Venerdì 4 marzo sarò con lo spettacolo al Teatro
Parenti di Milano. Se riesci a venire, con il signor Gambino,
sarò felice di invitarlo e accoglierlo sul palco alla fine dello
spettacolo.”
125
126
Indice
Premessa di Giacomo Gambino
pag. 5
Introduzione
pag. 7
Parte Prima
Capitolo I
Giovinezza e arruolamento volontario
Elbasan
pag. 11
pag. 25
Capitolo II
La Ritirata(Don)
pag. 50
Rientro al Comando Batt.
Rottura accerchiamento Arbusowa
pag. 52
pag. 56
Capitolo III
Parte Seconda
Montelepre
Biografia
127
pag. 91
pag. 123
Edizione S&T
Impaginazione di Sinàtora & Turner adv
www.sinatoraturner.com
Finito di stampare nel mese di marzo 2011
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DALLA STEPPA A MONTELEPRE