La ‘Bulgaria’ del basso Cesano tra il tardoantico e l’alto medioevo L‟identificazione del sito del castello di S. Pietro in Bulgaria (v. conferenza del 21/05/2005) è stato il primo passo verso la ricostruzione di un sistema di difesa territoriale che, sorto nel periodo tardoantico, è rimasto in funzione con alcuni suoi elementi almeno per tutto il medioevo. Il castello sorgeva su una collina soprastante la chiesa di S. Gervasio, nel territorio della Stacciola oggi aggregato a S. Costanzo. In un secondo tempo abbiamo scoperto che il castello di S. Pietro non era isolato, bensì faceva parte di una catena di siti fortificati disposti lungo il percorso tra Cesano, a sud, e Metauro, a nord (v. conferenza su La valle della Madonna delle Grotte, 12/09/2007). Gli altri nuclei erano Piolo, Stacciola, Tomba, Perello sul versante ovest oltre il Rio della Stacciola; Mondolfo e Monte Campanaro sull‟opposto versante est. Una fonte tardoantica che sembra riferirsi a tale percorso è Procopio di Cesarea (La guerra gotica, IV, 28), nel passo in cui descrive i movimenti dell‟armata di Narsete che precedono lo scontro decisivo di Taginae (tra Sassoferrato e Gualdo Tadino), nel 552 d.C.: il generale bizantino, giunto a Fano, invece di proseguire in direzione dei passi appenninici lungo il tronco metaurense della Flaminia, bloccato dai Goti a Petra Pertusa (Furlo), «volse a sinistra», ossia, probabilmente proseguì lungo la valle del Cesano, a cui accedette percorrendo la “bretella” sopra descritta, la quale attraversava il Metauro al guado di S. Angelo di Caminate (di esso e del prospiciente castello di S. Angelo di Caminate abbiamo notizia in un più tardo documento del 1119). Un altro storico bizantino, Agatia di Mirina, continuatore delle storie di Procopio, a proposito della sconfitta dei Franco-Alamanni tra Pesaro e Fano nel 554 d.C., ci dà una testimonianza, sia pure generica, dell‟esistenza di castelli nell‟entroterra fanese. La cosa non deve meravigliare, se si considera che la Flaminia era allora la principale arteria di collegamento tra Roma e l‟Italia settentrionale; pertanto doveva essere presidiata mediante installazioni militari e siti fortificati. La strada cesanense era uno dei diverticoli della Flaminia metaurense, anzi costituiva una comoda alternativa ad essa essendo di facile accesso dalla dorsale appenninica e dalla zona di Camerino. Di conseguenza diventava importante presidiare il collegamento intervallivo tra Cesano e Metauro nella fascia tra Ponte Rio-S. Gervasio e Solfanuccio-S. Costanzo. Qui, dirimpetto a S. Pietro vi era Mondolfo, ovvero Castel Marco (Castello de Marco nel 1152). Ma il toponimo derivava veramente dall‟antroponimo Marco? E‟ un nome, questo, che non si ritrova mai tra i membri della stirpe signorile che dominava nel nostro territorio (qui il nome ricorrente era Offo). E‟ filologicamente possibile che la seconda parte del toponimo derivi da Mars/Martis, ossia dal nome di una divinità pagana e da un recinto sacro posto sulla sommità della collina, e che quindi il nome originario fosse Castrum/Castellum Martis oppure vicus Martis (i teonimi in età romana sono particolarmente diffusi, così come i templi in cima alle alture), trasformatosi a seguito della cristianizzazione in Castrum Marci ai fini dell‟obliterazione del culto pagano. Che vi sia stata un‟immigrazione di Protobulgari in Italia nell‟alto medioevo sono parecchie fonti ad affermarlo. Una di queste è Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 26, nel passo in cui narra l‟ingresso dei Longobardi di Alboino nella penisola nel 568: il re portò con sé anche un contingente di Bulgari (Vulgares); quindi, in un altro passo (V, 29), l‟autore parla diffusamente di un secondo ingresso in Italia, poco prima del 668, di Protobulgari sotto la guida di un condottiero, Alzeco, con meta il Sannio longobardo. Invece i cronisti bizantini Teofane e Niceforo accennano alla migrazione del quinto figlio del khan bulgaro Kubrat con meta la Pentapoli e al suo assoggettamento all‟Impero romano. Anche lo Pseudo-Fredegario, dopo aver narrato la sconfitta dei Protobulgari ad opera degli Avari in Pannonia, li fa fuggire presso il re franco Dagoberto, il quale ordinò ai Baiuvari di farli svernare nel loro territorio, ma poi li fece massacrare in una sola notte: a questo massacro scampò Alzeco con 700 uomini, più le loro donne e i bambini, riparando nella marca dei Venedi (popolazione protoslava della Germania). Non è chiaro se questo Alzeco sia lo stesso di cui parla Paolo Diacono, poiché fra i due eventi intercorre un lasso di tempo di circa 30 anni. Disseminate lungo la penisola sono molte le „Bulgarie‟ italiane. Le due più grandi sono: quella sul Ticino tra Novara e Pavia e l‟altra nel Sannio da Isernia a Sepino (oggi tra Molise e Campania). Ne esistevano anche di più piccole, probabilmente di una estensione analoga a quella del basso Cesano: due nel Riminese, un vico dei Bulgari presso Case Bruciate di Pesaro, una „Bulgaria‟ nell‟Urbinate (pieve di Selva Nera), una „Bulgaretta‟ nel Reatino nei dintorni del lago del Turano, ed altre ancora. Per quanto riguarda l‟esistenza della Bulgaria cesanense, si può risalire all‟anno 1001, quando l‟imperatore Ottone III emette un diploma a favore dell‟abbazia di S. Lorenzo in Campo, alla quale riconosce il possesso della curtis di S. Pietro in Bulgaria con il castello omonimo e altri due castelli: Cavallara (comune di Mondavio) e Gaio (sul Metauro). E‟ probabile che i tre castelli fossero in origine pubblici, poiché l‟imperatore pone su di essi una specie di vincolo: l‟abbazia non può alienarli e nemmeno darli in concessione con contratti scritti, onde evitare usurpazioni da parte dei potenti. Un documento del 1085 dà i confini del vico dei Bulgari sul Cesano, ossia il mare, il fiume Cesano, il Rio Maggiore e il rio Sermulo. Si ritiene perciò che nel secolo XI la Bulgaria cesanense si riducesse al territorio comunale di Mondolfo, più il territorio della Stacciola, oggi aggregato al comune di S. Costanzo. Questi stessi confini, sostanzialmente identici a quelli del comune di Mondolfo, verranno confermati da un altro documento del 1224, con l‟unica differenza che, in luogo del rio Sermulo, ai confini verso Fano troviamo i toponimi S. Martino e „Brugneta‟. Nel documento del 1085 le terre lasciate da due coniugi alla loro figlia nel fondovalle presso S. Gervasio sono appunto ubicate «in vico Bulgarum qui vocatur Sclavinorum», “nel vico dei Bulgari detto degli Sclaveni”: qui i Bulgari vengono associati a un gruppo etnico slavo, ma forse si trattava di un unico gruppo di genti fra loro amalgamate, dove gli Sclaveni potrebbero ricordare i Venedi di cui parla lo Pseudo-Fredegario. Bulgarum non è un errore grammaticale, bensì il genitivo plurale di Bulgares, così come veniva declinato nel latino altomedievale; anche Sclavini è un nome che rimanda all‟alto medioevo. Il sistema di difesa territoriale doveva, dunque, far perno sulla fascia territoriale in cui si trovava il castello di S. Pietro in Bulgaria e dove dovevano svilupparsi i percorsi intervallivi tra Cesano e Metauro, presidiati, come si è detto, anche da altri nuclei fortificati come Piolo, Stacciola, Castel Marco, Monte Campanaro, Tomba di S. Costanzo, S. Angelo di Caminate ecc. Isolato da questo allineamento di castelli appare Casteldimare, sito a 1 km dalla costa in località S. Irene. Ma la sua ubicazione trovava una ragion d‟essere nella funzione di controllo della strada costiera e del tratto terminale del diverticolo Cagli-mare, oltre che nella necessità di prevenire attacchi dal mare. Potevano, comunque, esistere elementi intermedi del sistema tra esso e la collina di Mondolfo. Il sistema di difesa territoriale del basso Cesano, connesso con il sistema viario, doveva essere già in funzione al tempo della guerra gotica (535-553), potendo la sua organizzazione risalire ad una fase precedente. A seguito dell‟invasione longobarda, che determinò l‟ingresso nella valle del Cesano di un gruppo di Protobulgari, tale sistema venne adattato alle particolari esigenze difensive delle nuove popolazioni, forse con l‟aggiunta o la valorizzazione di Casteldimare, e infine ricevette il nome di Bulgaria. Il sistema, integrato da vedette, posti di guardia e pattuglie esplorative, fu utilizzato per tutto il medioevo anche dopo l‟abbandono di alcuni siti fortificati. Perfino durante la seconda guerra mondiale le truppe tedesche in ritirata riscoprirono la validità tattica di taluni di questi siti, a dimostrazione della continuità di un sistema organizzato sulla base delle caratteristiche topografiche e geomorfologiche del territorio. ROBERTO BERNACCHIA