digital magazine marzo 2010 N.65 2009 Odissea nell'Hip Hop Gonjasufi La pecora e il leone Claudio Rocchetti Adam Green Morphine Blessure Grave // Marina and the Diamonds // The Ruby Suns // Elisa Luu Yellow Swans // Serena Maneesh // Calibro 35 // Riva Starr // Fursaxa 65 Sentireascoltare n. Turn On p. 4 Blessure Grave 5 Marina and the Diamonds 6 The Ruby Suns 7 Elisa Luu 8 Yellow Swans Tune In 10 Serena Maneesh 18 Claudio Rocchetti 12 Calibro 35 22 Gonjasufi 14 Riva Starr 26 Adam Green 16 Fursaxav Drop Out 30 2009: Odissea nell'Hip Hop Recensioni 34 Gonjasufi, Autechre, Joanna Newson, Picastro, Riva Starr, Spoon... Rearview Mirror 88 Galaxie 500, Morphine, Animal Collective, Pavement... Rubriche 84 Gimme Some Inches 86 Re-boot 98 Giant Steps 99 Classic Album 100 La Sera della Prima Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco, Stefano Pifferi, Stefano Solventi. Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Diego Ballani, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Marco Braggion, Luca Colnaghi, Gabriele Marino, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Aldo Romanelli, Costanza Salvi, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida In 2 spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) Gonjasufi —San Diego di tenebra— —Next pop queen— La California punk torna a vestirsi di nero Paillettes, Kate Bush e qualcuno dice anche Regina Spektor. Marina sfida lo stardom pop con l'esordio The Family Jewels I C he il revival eighties non ne voglia sapere di scemare è evidente. Sempre più di frequente le band si accaparrano pezzi di un decennio troppo a lungo considerato arido e sterile, e se i vari chill wavers (Washed Out e Neon Indian su tutti) ne recuperano la parte più pop e patinata, a mancare alla riesumazione era senz'altro lo spettro (è proprio il caso di dirlo) di una delle correnti più influenti. Parliamo di un dark a dir il vero già divelto, basti pensare al catalogo Sacred Bones e alla fortuna che ha recentemente baciato i Cold Cave di Eisold, eppure mai come nel caso dei Blessure Grave ci eravamo imbattuti in un combo grado di far dialogare contemporaneamente Joy Division, Christian Death, i primi Killing Joke e Death In June (ma anche Skeletal Family e Play Dead), facendoci spendere tutto un corollario di relative etichette (darkwave, post punk, batcave, death rock). Il duo di San Diego sembra la risposta californiana all’ondata di riverberi e chorus che ha investito negli ultimi anni la costa Est degli States; lo dimostra in primis una tape uscita all’inizio del 2009 su Night People intitolata icasticamente Unknown Blessures. Nastro a cui ha fatto seguito l’EP Learn To Love The Rope su Captured Tracks, label del culto vivente Mike ''Blank Dogs'' Sni4 per, con il quale i ragazzi condividono la rielaborazione di un passato torvo in chiave vagamente pop in grado di rendere accessibili le melodie più tetre e i lamenti più indolenti. E non manca neppure la carta personale. Sì perchè ad intessere foschi crooning di Curtisiana memoria non c'è solo Toby Grave, ma anche la fidanzata Reyna Kay, il cui l'ausilio crea strati di melodica malinconia che aleggia sopra i beat serrati delle drum machine. Non stupisce che dei Blessure Grave si sia accorto anche il Vecchio Continente, vera terra natia del genere. Prima la nostrana Holidays e poi la svedese Release The Bats si sono fatte avanti e hanno pubblicato un singolo a testa. Quest’ultima è anche riuscita a ottenere la pubblicazione in vinile del primo album, traguardo non così scontato se si considerano tutte le uscite annunciate e prontamente cancellate dalla pagina Myspace della band. Judged By Twelve, Carried By Six fa ora l'umbratile punto della situazione e infila dodici episodi che non fanno che confermarci quanto un sound così mesto e funereo vanti un’ indiscussa attualità. Per chi ancora tentennava, è il momento di tirare fuori dall’armadio le T-shirt più nere. Andrea Napoli Turn On Marina and The Diamonds Turn On Blessure Grave n una Londra dove il pop vuole a tutti i costi l’operetta e dove personaggi come gli Irrepressibles girano vestiti come se uscissero dall’ennesima replica di The Phantom Of The Opera, ascoltare un combo aggiornare le wave degli ’00 al vestiario del compianto trashpopper Falco e all’etno-mesh totale di M.I.A. è cosa buona e giusta. Tanto più che il terreno era già fertilizzato da baronetti come il pitonato Patrick Wolf prima e l’occhialuto boho Lightspeed Champion poi. Senza dimenticare i trucchi fluo della bella e inguainata Bat For Lashes (personaggino quanto mai di riferimento qui) e le sofisticazioni delle zie Björk e Madonna. Come dire: dall’art al dancefloor. Glam per glam, pop per pop, cantarci gli Abba sopra non è poi difficile, aggiungerci la Kate Bush (più volte ripescata da Joanna Newsom), naturale come bere un bicchiere di uzo perché lei è la sirenetta Marina Lambrini Diamandis, la next thing britannica ovviamente. Mezzo sangue greco e mezzo Welsh, fresca di un esordio, The Family Jewels, che ascolteremo in filodiffusione sulle radio di tutti i centri commerciali il sabato pomeriggio e molto più volentieri dalle super sciampiste del vocoder anzichenò. Il piatto è dichiaratamente ricco, il balletto arty Natasha Khan (Obsessions), il gioco al maschile di Annie Lennox virato parodia (Hollywood), gli strappi wave (Mowgli’s Road) e tutti i clip del tubo a giocare con le paillettes e i mille travestimenti sotto un cerone primario che ma- schera troppo e quindi osa come nelle piramidi bicolor degli Yacht. Marina ti porta direttamente in casa della regina con il sorriso della ragazza della porta accanto, rifiuta le cyber sofisticazioni Lady Gaga per modi e modalità già oltre il poshy-ghetto grime della bambina Sovereign, diapo inversamente sovrapponibili che ricordano le colleghe La Roux e Annie. E’ il classico sogno pop dei teen-years la cui giovinezza non tramonta mai, l’atteggiamento cosmopolita e fiero di chi ti riporta ai tempi del Regno quando era impero. E attenzione. Marina non è una lady: in quest’immagine deforme degli Ottanta che sono i Duemila, è la giovane rampante in lotta per il podio del pop. Dentro le regole del mercato globale e sotto con la proposta tutta londinese del teatrino post-glam. Alla cameretta di Lily Allen lei preferisce il debutto in società, sfida le feudatarie dello stardom a colpi di rime (“Oh my god, you look just like Shakira / No no, you’re Catherine Zeta / Actually, my name is Marina”) e colpisce nel segno. Fashion mesh, Hollywood e Bollywood, memorabilia disco. Come una M.I.A senza bisogno di stronzate combat. Una Cindy Lauper per il 2010? Edoardo Bridda 5 Turn On The Ruby Suns Ha viaggiato a lungo, portato il girovagare in musica e ora ha trovato la propria voce: il pop meticciato e cosmopolita dei Ruby Suns di Ryan McPhun Elisa Luu Turn On —Un Americano in Nuova Zelanda— —Elect(Ambient) Roma— Dal jazz all'ambient la nuova promessa dell'elettronica italiana È la storia di un americano in Nuova Zelanda, ma anche dei suoi viaggi in tutto il mondo. Ryan Mc Phun, californiano di origine, è uno di quelli con le suole perennemente consumate dalle terre di tutto il mondo. Tutto in lui, l’apparenza, il modo di suonare, e la musica, ovviamente, parla un linguaggio spiccatamente ’00, sebbene per lui non si possa parlare di suoni da cameretta, ma di uno spazio sempre variabile, a volte aperto, a volte chiuso, diffuso nei club di mezzo mondo e nei territori circostanti. Ryan, ora, è un cittadino neozelandese. Arrivato a Auckland nel 2003, dopo aver girato Africa, Asia e Americhe, trova temporaneamente posto in due band locali, The Brunettes e The Tokey Tones. Basta un anno e nasce un nuovo progetto: il nome provvisorio è Ryan McPhun & The Ruby Suns, presto mutato in The Ruby Suns, e vede insieme Ryan e il neozelandese Amee Robinson. L’esordio, self-titled, registrato nel 2005, licenziato prima dalla locale Lil' Chief (nel 2005), poi dalla Memphis Industries (l’anno dopo), inizia a percorrere, con un surf-pop aggiornato alla generazione post-Beck, la strada della portabilità cosmopolita, ancora però legata alla tradizione (nella forma di un bizzarro obolo ai Beach Boys, come della chitarra imbracciata nel video di Sleep In The Garden). 6 Di lì a breve ciò che prevarrà saranno gli strumenti che stanno in una valigia da viaggio (tastiere su tutti), accompagnati da quelli trovati per strada, tra le fronde o sulle spiagge dei quattro lati del mondo. Sea Lion (Memphis Industries / Sub Pop 2008) è un capolavoro di divulgazione pop, calligrafia eclettica, coacervo di generi: un pachiderma pregevole e leggero, un disco che non stufa mai, dallo pseudo shoegaze di There Are Birds, al folkrore di Tane Mahuta, alla chiusa synth-pop di Morning Sun. Se ne accorge la Microsoft, che sceglie Oh, Mojave come colonna sonora della campagna pubblicitaria del Mojave Experiment, legata al lancio di Vista – sebbene la band sostenga Creative Freedom, sorta di creative-commons neozelandese. La freschezza di Sea Lion si riversa in live stravaganti, meno limpidi, più sfumati, glo-fi, diremmo oggi. Un primo passo per la ricucitura live/studio è l’EP Kenya Dig It (2009). Ma, nel piccolo studio preso in affitto a Auckland, Ryan lavora ancora a lungo per trovare un suono che prenda parola per il mondo, dopo averlo fatto parlare. Fight Softly (Memphis / Sub Pop / Lil’ Chief 2010) è la voce dei Ruby Suns, con accento proprio, una pelle meticciata ma unica. Gaspare Caliri U n passato istituzionale passando dalla classe di sax al conservatorio alle Berklee Jazz Clinics di Perugia, fino alle più svariate formazioni jazz e fusion. Poi l’avvicinamento alla musica elettronica per “il desiderio di sperimentare nuove opportunità” musicali. Questo in breve il percorso di Elisa Luu, nuovo nome e promessa della musica electroambient italiana. L’abbiamo sentita in occasione di un nuovo EP su Ipologica, IPO/13, seguito dell’esordio per l’australiana Hidden Shoal (Chromatic Sigh) dalle tinte marcatamente pop, che segna una svolta importante. Elisa intraprende un viaggio che non preclude e “non si lega a generi precisi" li può incontrare per poi riallontanarsi e proseguire in un'altra direzione. Grazie ai boss dell’etichetta romana Giulio Maresca e Fabio Sestili l'approccio s'assesta tra due bastioni quali Four Tet e Luke Vibert. Il mix ben dosato di electro e bbreaking fa della sua proposta una visione alternativa dell’ambient, contenitore che oggi si accosta anche “a sonorità più dure”, perdendo fortunatamente la patina ‘finto boho’ new age. Un futuro in salita: a breve ascolteremo altre 3 tracce su Ipologica e un live che starà a metà tra elettronico e acustico. Elisa vuole metterci l’anima anche sul palco. Senza troppe macchine. Ci dice ad esempio che la musica di Fennesz (ascoltato dal vivo all’Auditorium) le piace molto, “ma il live alla fine risulta noioso”. La aspettiamo in tour. Marco Braggion 7 Turn On Yellow Swans —Il testamento dei cigni— Dopo lo scioglimento nel 2008, gli Yellow Swans continuano a pubblicare dischi di un certo pregio. Potevano essere i nuovi Wolf Eyes e invece... D al 2002 gli Yellow Swans hanno imposto al mercato undeground USA una presenza massiccia di Vinili, Cd-R, Cassette e split creandosi una fama di tutto rispetto. Spesso sono stati additati come degli eredi dei Wolf Eyes e senza eguagliarne la fama, il futuro avrebbe giocato probabilmente a loro favore. Avrebbe poiché inaspettatamente e senza far troppo rumore il duo si scioglie. Invia e-mail a Pitchfork ed è la fine. O un nuovo inizio, dato che le produzioni postume si susseguono fino ad ora con Going Places, fresca di stampa per Type Records che di loro ha apprezzato il lato più ambient. E' l'ultimo tassello di un viaggio durato sei anni durante il quale Pete Swanson e Gabriel Mindel Saloman hanno predicato il verbo dronico nei modi più disparati: dalle 8 frattaglie tecnoidi di Bring The Neon War Home alle valanghe Harsh di Psychic Secession fino alle rarefazioni di At All Ends, premessa ideale per Going Places appunto. Ma allora perché sciogliersi? Gabriel Mindel Saloman: penso che Yellow Swans avrebbe potuto continuare a produrre musica interessante. Detto questo, non so se la band sarebbe potuta più essere una priorità nelle nostre vite. Dallo scioglimento sono emigrato in Canada dove mi sono sposato, ed oltre a continuare a fare musica sono stato molto impegnato col progetto d'arte Red76. Penso che abbiamo smesso per permettere alle nostre vite di prendere nuove direzioni, senza per questo intaccare la nostra amicizia o il lascito della band. Pete Swanson: Il nostro modo di lavorare è sempre stato basato su una costante frequentazione. Senza questa possibilità, semplicemente abbiamo pensato che la band non avrebbe potuto manterere la sua peculiarità. Inoltre sono fermamente convinto che le cose vadano lasciate seguire il loro corso, e con i YS penso ci siamo fermati quando personalmente ed artisticamente aveva senso farlo. Dal vostro scioglimento sono uscite diverse pubblicazioni: questo ha portato a qualche commento in giro per la rete, (in un blog descrivono Yellow Swans "il duo drone con più release postume di 2Pac o Eliott Smith")... G.S.M.: La confusione o lo stupore delle persone deriva dalla poca familiarità con il tempo che passa tra la registrazione di un disco e il momento in cui si trova negli scaffali di un negozio. Quando ci siamo decisi a smettere con Yellow Swans abbiamo discusso di quali progetti volevamo completare in modo da poter essere soddisfatti con la fine della band. Infine avevamo alcuni accordi con delle etichette che volevamo rispettare. P.S.: Penso che in questi ultimi anni abbiamo prodotto musica tra la migliore a nome Yellow Swans, e comunque che tutta meritava di essere pubblicata. In particolare sono molto fiero di Going Places. Type Records. Di sicuro non in molti si aspettavano un release a nome Yellow Swans in questa etichetta. P.S.: Abbiamo registrato per mesi. Da prima che decidessimo di smettere fino al nostro ultimo concerto. Circa 50 ore di musica da cui tirar fuori un album. Una serie di importanti cambiamenti nelle nostre vite hanno fatto in modo che l'editing prendesse del tempo. Dopo circa un anno avevamo un idea piuttosto chiara su quali pezzi avrebbero potuto costituire il disco, e abbiamo mandato degli MP3 a degli amici.Tramite loro il materiale è arrivato a John della Type che ne è stato entusiasta. Siccome la Load (che ha prodotto gli ultimi 2 album in Studio n.d.r.) era esitante a produrre il disco di una band che non avrebbe potuto supportarlo con concerti, ci siamo decisi per la Type. E penso che il disco sia appropriato per l'etichetta, non è particolarmente rumoroso o caotico. G.S.M. Un'ultima cosa da dire è che da quando abbiamo iniziato a lavorare con la Load il nostro pubblico è divenuto molto più internazionale, il nostro ultimo show è stato al Sonar di Barcellona, e la Type raggiunge un audience più ampia rispetto alla Load o ad altre etichette con cui abbiamo lavorato. Nuovi progetti... P.S.: Ho suonato un po' come solo nello scorso anno. Ma non sto davvero spingendo come è stato con YS. Ho pubblicato alcuni nastri che saranno ripubblicati come LP e ho finito il mio primo LP per Root Strata. Poi sto iniziando a lavorare per il mio primo album, che sarà probabilmente su Type, ma onestamente cerco di lasciare la musica svilupparsi in varie direzioni e non sono sicuro di quanto ci vorrà. Non ho intenzione di pubblicare qualcosa su larga scala a meno che non mi senta totalmente soddisfatto dal lavoro. G.S.M.: Come ho detto sono molto impegnato nel mondo dell'arte con Red76, e sto ancora suonando un sacco di musica sia da solo come Sade Sade che in alcune band come Diadem con Aja Rose Bond e la mia anarco-femminista pagan black metal band Bleeder. Finora pubblicazioni in soli nastri e cdr, ma potrebbe cambiare... Un ultima cosa: come vedete la scena noise attuale, voi che ne siete stati uno dei maggiori esponenti? G.S.M.: È divertente... Essere presenti sin dall'espansione della scena all'inizio del secolo fino ad ora... è strano fare un bilancio. Penso che ci sia stato un picco creativo ed energetico da qualche parte tra il 2006 e il 2007, ma la sua influenza continua a farsi sentire. Penso che molta musica sia divenuta molto più astratta da allora, specialmente nel mondo dell'Indie-Rock e del Metal. "Noise" sarà sempre un etichetta per il non-intelleggibile, qualsiasi sia il genere che racchiude. Le mode scompariranno ed alcuni artisti continueranno a sviluppare le proprie cose. Finchè la cultura non tornerà ancora ad intersecare le strade dove essi sono già.Yellow Swans è stato fortunato da suonare con artisti come Charlambides, Daniel Menche, Smegma, Astral Social Club ed altri che fanno quel che fanno perchè ha senso per loro, e non perchè è parte di un genere che ha seguito. P.S. Non lo so... Quando smettemmo con la band era piuttosto stanco di tutta la scena. Troppe band che si assomigliavano l'una con l'altra, e non molta gente con l'intenzione di seguire un percorso personale. Nonostante questo ho trovato molta musica ispirata nell'ultimo anno come non ne ricordavo da tempo. Le recenti cose di Graham Lambkin, Mouthus, Moniek Darge, Operative, Bill Orcutt, John Wiese... Qualcosa continua a succedere e spero sia avventuroso e ispirato. Sono per l'alienazione come opposizione alla familiarità. Leonardo Amico 9 Turn On Serena Maneesh —L'epica del rumore— Sospeso fra tradizione e innovazione, il collettivo shoegaze dimostra come si possa passare da gregari a campioni del genere in due sole mosse. P rima o poi, quando arriverà il tempo di dare una rinfrescata agli annali del pop, sarà bene rivedere il capitolo dedicato allo shoegaze e ricalcolarne il valore alla luce dell'incidenza avuta sulle ultime generazioni di noisemakers. Tacciata, almeno inizialmente, di rappresentare il trionfo della forma sulla sostanza, “la scena che celebrava se stessa” ha dimostrato una capacità di penetrazione nell’immaginario pop, che ha pochi rivali fra i generi sbocciati nell’ultimo ventennio. Gli anni Zero, poi, ne hanno visto una prepotente riscoperta, tanto che alla fonte dello shoegaze si sono abbeverati un po’ tutti: arguti sperimentatori, elettronici d’avanguardia, minimalisti pop, post rocker isolazionisti e, va da sé, nostalgici dell’epoca d’oro. I Serena Maneesh, probabilmente, ascriverebbero se stessi a quest’ultima categoria. Fanatici del 10 garage e della psichedelia espansa di marca Spacemen 3, non hanno mai fatto mistero di ispirarsi alle band che forgiarono il movimento, anche se fra le ballate mesmeriche di Slowdive e Cocteau Twins e il patchwork materico di Kevin Shields, i norvegesi sono i fautori di una terza via fatta di conturbanti contrasti. Sin dalle prime interviste rilasciate dalla band, è apparso chiaro che i viaggi da cui nascono le loro canzoni sono l’opposto dell’immaginario idilliaco del dream pop.“Le mie canzoni nascono spesso da situazioni di dolore e sofferenza” afferma ancora oggi Emile NIkolaisen. È lui a fondare il primo nucleo del collettivo Serena Maneesh nel 1999. Nei primi singoli si materializzano i suoi deliri tossici: i tappeti di distorsioni e il lavoro di destrutturazione delle melodie attuato in fase di missaggio, sono una dichiarazione d’amore per l’opera dei My Bloody Valentine. Al tempo stesso, però, il loro sound contiene i princi- pi attivi in grado di condurre a uno stile personalissimo, che puntualmente si materializza nel 2005, con l’uscita del loro primo album. S-M è un agglomerato di suoni dopati capace di inebriare o di gettare nel più profondo sgomento. I fiotti di elettricità garagistica, la fitta trama del rumore e l’atmosfera cupa che lo pervade, porta ciascun brano ad un passo dalla cacofonia e ne fa un caso a parte rispetto alle evanescenti band newgaze che si limitano a riproporre pallide versioni dei modelli originali. Proprio quando il disco inizia a mietere consensi (grazie alla provvida sponsorizzazione di Pitchfork e Drowned In Sound) la band sparisce dalle scene e inizia a raccogliere le idee per mettere a frutto l’attenzione catalizzata. Se si esclude la raccolta del 2008 S-M Backwards che raccoglie il loro primissimo materiale, il gruppo torna a farsi vivo solo lo scorso anno, in vir- tù di due eventi significativi: la partecipazione all' ATP curato dal nume tutelare Kevin Shields e la firma del contratto con la 4AD. Su questo punto Nikolaisen è chiaro: "Se qualcuno mi avesse chiesto per quale etichetta avrei voluto firmare, non avrei avuto dubbi a rispondere 4AD". C'è da capirlo. Pur lontana dai fasti del passato, la label britannica (dimora di band come Lush, Cocteau Twins e Pale Saints), ha contribuito a forgiare quel sound psichedelico dei tardi 80s a cui i SM si ispirano. "Ora ci sentiamo più che mai parte di una lunga tradizione". Le attese a questo punto sono alle stelle. I nostri potrebbero limitarsi a riproporre il canovaccio che ha fatto la fortuna dell’esordio, ma si capisce da subito che le ambizioni sono ben altre. Si parla, con calibrata strategia comunicativa, di una sorta “sinfonia del rumore”. Di certo c’è che la band decide di registrare il nuovo lavoro in una grotta. “Lo studio di registrazione mi innervosisce – sono sempre le parole del leader – al contrario amo il sottosuolo. Così abbiamo trovato questa grande caverna, una specie di rifugio della seconda guerra mondiale, dotata di un suono incredibile e ancora inesplorato”. Con S-M 2: Abyss in B Minor, la cui pubblicazione è attesa per questi giorni, i Serena Maneesh si confermano autentici demiurghi del rumore. Il loro sound si è fatto così denso e stratificato che si può quasi toccare, le melodie, dolcissime, paiono incise su un nastro in procinto di liquefarsi. Se un brano come Melody For Jana porta ancora dalle parti di Loveless, Blow Yr Brains è uno “stream of consciousness” con wah wah a piede libero, in cui gli Stooges flirtano con i Royal Trux di Twin Infinitive. A segnare lo scarto rispetto ad act simili, però, è l’elemento ritmico: i pattern elettronici aggiungono sensazioni stranianti a una miscela, già di per sé, esplosiva. Così come, nella bossa impazzita di D.I.W.S.W.T.T.D., le percussioni irregolari sembrano il frutto di un Tito Puente afflitto dalla sindrome di Tourette. La liquida e sognante Magdalena, il cui retro futurismo lounge richiama la soffice psichedelia degli Asobi Seksu, palesa la maturità raggiunta dal collettivo, lascia intravedere una capacità di scrittura priva di vincoli “di genere” e ci mostra una band proiettata verso luoghi di un fascino ancora incontaminato. Diego Ballani 11 Turn On Calibro 35 —Gli autori del furto— Soundtracks poliziottesche vergate prog-rock, funk sporcato di jazz e accademia. I Calibro 35 recuperano l'epica nera di Morricone, Umiliani, Micalizzi e compagni con intenzione quantomai cine(ma)tica 12 A l secondo colpo i Calibro 35 portano a casa la refurtiva grossa, raccolgono il frutto della semina noir dell'omonimo esordio targato 2008 e di tanti concerti in Italia e fuori, Stati Uniti compresi, e si ritrovano al primo posto della lista dei ricercati dalla polizia locale, con tante segnalazioni d'attenzione anche oltreconfine. L'origine cinematografica del progetto – che vede coinvolti nomi assai noti per chi ancora si perde nei crediti dei dischi come Enrico Gabrielli (Mariposa, Afterhours, Vinicio Capossela), Massimo Martellotta (Stewart Copeland, Eugenio Finardi), Fabio Rondanini (Niccolò Fabi, Collettivo Angelo Mai), Luca Cavina (Beatrice Antolini, Transgender) e Tommaso Colliva (Muse, Afterhours) – deve molto per non dire tutto all'azione tarantiniana di recupero del poliziottesco e relative soundtracks. Ma la realizzazione è tutta personale, dato che i cinque riprendono i vari Morricone, Umiliani, Micalizzi, Bacalov per darne una versione scarnificata rock-prog ma nutrita di groove funky, con intenzione elettrizzante e ormonale, in una parola cine(ma)tica. Ricordo molto bene quando spulciavo internet sul finire del liceo col glorioso modem a 56k alla ricerca di mp3 di colonne sonore introvabili e notizie su film che neppure si sapeva se fossero realmente esistiti. Racconta Tommaso Colliva, responsabile della produzione del gruppo, dunque “regista” del progetto e nostro interlocutore – In realtà però, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e riconoscere che Tarantino ha dato un impulso incredibile alla riscoperta del cinema di genere italiano, allargando la nicchia di possibili appassionati e permettendo a microscopiche etichette e case di produzione di rispolverare i propri cataloghi e riportare in vita alcune perle rare». Ecco dunque l'esordio su un'etichetta di genere come la Cinedelic dove la tracklist abbondante di riletture (oltre ad alcuni dei nomi già citati anche Trovajoli, De Luce, Casa, i fratelli De Angelis) viene chiusa da una cover de L'appuntamento di Bruno Lauzi-Roberto Carlos, con la voce della Vanoni sostituita da quella di Roberto Dell'Era degli Afterhours, sorta di appendice sentimentale ad un reato non ancora compiuto del tutto. E poi il nuovo lavoro, Ritornano quelli di... Calibro 35 (Ghost Records), nel quale è il gruppo a farsi autore della soundtrack di un film (in parte) inesistente rileggendo pure altri brani storici. Le tracce originali sono venute per vari motivi. In primo luogo ci siamo accorti che molto spesso le persone conoscono poco o nulla il repertorio storico a cui facciamo riferimento e che riusciamo a essere “credibili” anche con brani nostri, come successo con Notte In Bovisa del primo album. Un secondo forte impulso è poi arrivato dalla realizzazione della colonna sonora per un film indipen- dente italiano dal titolo “Said” dello scorso anno e dalla produzione delle musiche per quello che si presenta come il documentario definitivo sul cinema poliziesco italiano, dal titolo “Eurocrime” del regista americano Mike Malloy. Entrambe queste esperienze ci hanno costretto a confrontarci con una scrittura “di genere” che da un lato doveva rappresentare tutto l’immaginario che ci portiamo dietro ma al tempo stesso dovevano essere materiale originale al 100%. E d'altra parte l'uscirne con credibilità dal confronto con mitologie più o meno conosciute (vedasi il trattamento di krautismi e riffarama riservato alla morriconiana Milano odia: la polizia non può sparare) è l'arma in più dei Calibro 35. I quali superano l'inevitabile effetto vintage con la potenza di un suono rombante e riqualificato mentre parificano i padri-maestri calandosi alla perfezione nello spirito (violenza, psichedelìa, sensualità) della materia sonora che vogliono modellare. Tanto da andare a spiegare agli americani come rendere il funk così impuro (di jazz, rock, accademia) e così metropolitano (di asfalto e trattative segrete con gli sbirri) nel corso di varie sortite e incontri oltreoceano: Malloy ci ha chiesto di scrivere la colonna sonora del suo documentario sul poliziesco italiano perché è impazzito per la nostra musica così fortemente “italiana”. Molto probabilmente questa commistione strana tra generi molto diversi come il funk, il rock, l’accademia, il jazz poteva avvenire solo in Europa in maniera così spuria. E non fa niente se poi quell'aurea di vintage sporcato e rinnovato che si respira tanto vintage non lo sia proprio (Purtroppo gli assunti fondamentali del cinema poliziesco rimango fortemente radicati oggi come ieri: di contro credo oggi ci sia una disillusione maggiore e, purtroppo, una grossa rassegnazione). Tra delinquenti per le strade e soprattutto delinquenti nel palazzo, i Calibro 35 sono gli unici ricercati che ci piace vedere in giro per le strade. Luca Barachetti 13 —If Life gave you a DJ...— Da Napoli a Londra, Riva Starr supernova del firmamento house 14 Turn On Riva Starr S entiamo Riva Starr, al secolo Stefano Miele, fresco di un disco house che non si dimentica come If Life Gives You Lemons, Make Lemonade, blasonato da noi e coronato dalle top ten house di mezzo mondo. Al cellulare da Londra, il dj partenopeo è in studio e, dopo una session che viene prima di ogni parola, iniziamo un’appassionante chiacchierata facendogli la classica domanda sulle origini. “All’inizio – come quasi tutti i dj - ci sono state le feste tra amici e poi quelle nei club di Napoli. Ho iniziato a girare in Italia e sono finito a produrre e incidere delle canzoni pop-troniche. Sono uscite in un paio di album per Virgin/Edel in Italia (Pista Connection e Flux) dopodiché la verità è venuta a galla: non aveva senso fare il DJ e incidere dischi che non potevo mettere nelle serate”. Nasce così il progetto Madox che lo porta in giro per il mondo: Australia, Cina, Giappone e spesso al Fabric a Londra. Questo fino alla fine dei ‘90. Dopo una serie di problemi tecnico legali e dopo che la scena break inglese era venuta un po’ a corto di idee, il ragazzo si butta nell’house. Nello stesso momento cominciano a uscire cose interessanti, tipo le produzioni di Jesse Rose e Claude Von Stroke. Fleshato li contatta su myspace e manda loro alcune tracce che verranno pubblicate nelle rispettive etichette (Made To Play e Dirtybird). Da lì in poi è Riva. Inizia a pubblicare mix, tracce, collaborazioni. Lo nota pure Fatboy Slim che è tutt’ora “un punto di riferimento” e all’epoca pubblica uno dei tre remix per Armand Van Helden. Gli altri due saranno il miglior biglietto da visita per Stefano che apre “megaserate in giro per l’Inghilterra” per il maestro house e si esalta. Si riempie le tasche senza dimenticare la ricerca del proprio verbo: in If Life Gives You Lemons, Make Lemonade troviamo influenze diverse rispetto al percorso sin qui analizzato. La presenza di Nôze e di un sentire folk, incarnato nelle sonorità balcaniche rappresentano la carta distintiva di un progetto legato a idee tradizionali che già abbiamo incontrato nelle recenti produzioni di Luciano o nelle fantasmagorie di Ricardo Villalobos. “Mi piace l’afrobeat, la musica balcanica, gypsy, kletzmer, la sudamericana, la conga, la batucada. La musica world la trovo vera, groovy, si presta molto alle contaminazioni elettroniche”. Miele ci racconta di un progetto su un’etichetta autoprodotta, la Mò Glocal. Un esperimento da vero archeologo del suono con tanto di studio mobile impiegato nella registrazione di cantori e musicisti della scena tradizionale del Sud. “La pizzica, la tammurriata sono generi molto seguiti nel sud Italia. Ho composto 11 tracce che mescolavano gli originali con l’elettronica. In Glocalizm Vol. 1, Samples Traditionals & Folk! c’è pure una collaborazione con Caparezza dove facevamo una tammurriata elettronica (la traccia è Musicanarkica). Ho fatto anche una versione remix con Mad Professor, e altri artisti stranieri che si cimentarono nel remixare le mie rivisitazioni”. E tutto torna a Napoli: il meltin-pot e il crocevia di culture, musica e artisti. Il ritmo e la magia. Fare house è come usare “il cappello del mago. Puoi farci quello che vuoi, metterci le mani senza sapere cosa ne uscirà. Mescoli elementi, dipende da te, dalla sensibilità, dalla sintesi. E’ il bello dell’house. Si possono fare le cose in modo vero, senza cercare il successo a tutti i costi”. Tra i DJ italiani preferiti infine c’è Santos (con cui ha collaborato nel progetto Trouble Soup su Mantra): “Adesso sta lavorando con Timo Maas. Lui è uno dei DJ e produttori più bravi al momento. Ha fatto una delle top tracce del 2009: [anche secondo l’autorevole sito Resident Advisor] Hold Home sull’etichetta di Mathias Tanzmann [la Moon Harbour Records]”. A giugno probabilmente lo vedremo in due serate al Divinae Follie di Bisceglie e forse a Napoli. Ad aprile lancerà a Miami la Snatch!, la label house di sua proprietà. Il primo disco in vinile è già pronto, ma il titolo è top secret. Marco Braggion 15 Turn On Fursaxa —Il regno nascosto di Tara— Fursaxa è la voce magica di Philadelphia, tra piante, spiritualità e il giro degli amici giusti L a domanda viene quasi spontanea. Di Tara Burke si conosco l’interesse per la musica medievale e la passione per Hildegard Von Bingen… ma sotto la doccia, la musicista di Philadelphia non canta mai qualcosa di più ‘Pop’? “Beh… per quanto riguarda Hildegard, vorrei dire che mi sento influenzata da lei più come persona, che come musicista. Nel senso che condivido con lei gli stessi interessi a proposito delle piante e della spiritualità. Poi dipende dal momento… sotto la doccia posso ritrovarmi a cantare di tutto. Dagli Zeppelin alla classica…”. 16 Tara Burke è una ragazza austera e introversa, una di quelle che sta con la testa rivolta verso le nuvole, ma con i piedi ben piantati per terra e si da il caso che sia anche uno dei nomi più celebri della scena psichedelica di Philadelphia. Non è come se fosse l’ennesima hippie fuori tempo massimo. Non è Devendra Banhart, non è una Cocorosie. Lei è Fursaxa, il parto più pregiato uscito fuori dal decennio deputato al free folk e alla psichedelia lo-fi in cdr. Un curriculum ormai nutrito di esperienze e prodotti di alto livello, a partire dai vecchi UN, collettivo con tanto di pubblicazione su Siltbreeze che condivideva con Marcia Bassett, fino all’ultimo disco, Mycorrhizae Realm, in uscita per ATP Festival con un titolo, come da prassi, bizzarro e surreale. Una rapida visita a Wikipedia sgombra il campo dai misteri. La mycorrhizea è un processo biologico esistente in natura, che si viene a creare quando un fungo entra in simbiosi con una pianta. Una neppure tanto velata associazione con gli eventi che hanno portato alla creazione del nuovo lavoro, lasciando da parte l’approccio in gran parte solipsista che l’aveva contraddistinta fino ad ora: “Mi piace registrare su un quattro tracce, ma questa volta avevo in mente di utilizzare diversi strati di voci e altri strumenti, così uno studio era una soluzione più appropriata. Ma volevo fare anche qualcosa di diverso e Greg mi aveva già chiesto se ero interessata a registrare all’Hexham Head. Il suo studio è uno dei pochi posti che abbia mai preso in considerazione per registrare, anche perché avevo bisogno di qualcuno che fosse paziente e mi lasciasse registrare, anche sopra quanto avevo già fatto, ricreandolo”. L’approccio di un disco come Mycorrhizae Realm sta soprattutto nel suo ritorno alle origini dopo essere cascati in quel buco nero che risponde al nome di Kobold Moon. Lavoro dal taglio avanguardista e radicale, quasi completamente deputato alla voce, con cui un paio di anni orsono Tara inaugurava la propria Sylph Records: “Ho registrato la maggior parte di Kobold Moon su un quattro tracce, a casa dei miei genitori in Florida, e nonostante la Florida spesso venga definito come lo ‘stato del sole’ è stato come una sorta di periodo ‘nero’ nella mia vita. Penso che quando ascolti quel disco puoi avvertire questa cosa, o almeno per me è così. In quel caso avevo anche l’idea di pubblicare un cd che fosse quasi esclusivamente deputato alle parti vocali, dal momento che la voce è sempre stato l’elemento che più mi ha attratto nella musica”. La voce è l’elemento caratterizzante di Fursaxa. Non è un caso se lei è l'unica o quasi che abbia saputo muoversi in territori che vanno molto oltre quelli abitualmente battuti dal resto della compagnia free folk. Il suo tratto caratteristico è una conoscenza enciclopedica delle cadenze e delle inflessioni vocali, attinta in larga parte alla tradizione degli stornelli e dei madrigali medievali, unita ad una presa di coscienza sempre maggiore del proprio approccio al canto, che l'ha vista diventare sempre più sicura di se, man mano che la discografia cresceva: “Ho sviluppato il mio modo di cantare ascoltando musica e cantando da sola. Ascolto una grande varietà di musica, ma in generale sono stata influenzata dalle vocalist donne. Le cantanti british folk come Sandy Danny, Jacqui McShee e Maddy Prior sono state molto importanti per me. Altre che mi vengono ora in mente sono Yoko Ono, Christina Carter e Nico. Ultimamente ho ascoltato un sacco di musica che è stata composta durante il periodo rinascimentale e mi sento particolarmente connessa a quel modo di cantare…”. A proposito degli ultimi lavori le idee quindi sono molto chiare. Non sembrerebbe corretto dire che uno è l'antitesi dell'altro, ma i dischi lavorano facilmente come reazione a quanto detto in precedenza. Tanto Kobold Moon viveva come espressione solitaria e senza compromessi, tanto Mycorrhizae Realm ritorna sui propri passi, ritornando sulla terra del free folk e innestando una serie di contributi altrui, che sono poi il vero tratto distintivo del lavoro: “Credo che possiamo riassumere il tutto dicendo che Kobold Moon aveva un sentimento più solitario, mentre Mycorrhizae Realm ha più un approccio più comunitario. E con questo disco avevo sia voglia di dedicarmi alle parti vocali quanto proprio di sperimentare con altri suoni e strumenti”. Non a caso il tratto specifico di questo lavoro sono le aperture melodiche a presa rapida del tutto inedite in un disco di Fursaxa, giostrate anche grazie all'ausilio dall’arpa di Helena Espvall e con l’intervento aggiuntivo di Mary Latimore. Due nomi, con cui Tara aveva in passato condiviso l’esperienza del Valerie Project, orchestrata manco a dirlo da Greg Weeks in persona. Quindi si rimane sempre nell’ambito di un discorso tutto interno, ristretto ad un poco nutrito numero di amici, che sono poi quelli della vecchia guardia di Philadelphia: “E’ stato molto bello lavorare con loro. Greg ha avuto delle grandi idee e aveva già in mente tutti questi arrangiamenti per archi. Helena ha poi aggiunto il suo tocco sentito e soffice. E Mary ha co-scritto con me due canzoni (Charlote e Well Of Tuhala)”. Il risultato finale è il lavoro più facilmente decodificabile di Fursaxa, ma senza retrocedere sul già detto o sulla sciatteria melodica. Il territorio di elezione è sempre quello del free folk incantato ed acido, ma l’apporto strumentale e la produzione di Greg Weeks regalano nuovi angoli ad una musica, strumentalmente mai così profonda come ora. Va da sé che non c’era altro modo possibile per Tara di tirarsi via dai sinistri rintocchi avantgarde del precedente Kobold Moon e quindi da un inquietante eremo che sapeva di senza ritorno. Antonello Comunale 17 I Tune-In Claudio Rocchetti —Stratificare la memoria, scolpire il suono— L'ultimo The Carpenter, il lavoro sui suoni, le collaborazioni tentacolari. Ritratto e intervista con il musicista più "materico" del panorama avant europeo Testo: Stefano Pifferi 18 n solo o in collaborazione, Claudio Rocchetti non è la scoperta di nessuno. Si è fatto da sé, consolidando una fama oggi riconosciuta a livello internazionale ed espressa non solo in release per uno stuolo di ottime etichette (da Hapna e Soleilmoon, alle nostrane Bowindo, Die Schachtel, Setola Di Maiale fino al forza4 dell'ultimo The Carpenter) ma anche in una pletora di collaborazioni e progetti. 3/4HadBeenEliminated innanzitutto, formidabile fucina avant-impro bolognese, poi le esperienze con In Zaire, Olyvetty, Vroom!, Hypnoflash, senza contare le collaborazioni, ultima in ordine di tempo quella su Ricamatrici di ?Alos, al secolo Stefania Pedretti. Oggi è il turno di The Carpenter, una esatta sintesi possibile di sonorità e tragitti che ne misurano il portato e ci spingono ad andarlo a cercare, il giovane sound-artist. Termine che a dir il vero è la qualifica che meno ci piace; chiamiamolo perciò artigiano del suono, etichetta meno a la page che rende però appieno l’idea di un procedere manuale, materico, di sostanza del fare musica del berlinese d’adozione. Onnivoro ascoltatore e fagocitatore di fonti sonore tra le più diverse, il trentenne lavora col suono e sul suono. Scolpisce, plasma, taglia e cuce. Si interessa alla materia e alla memoria, in egual misura. Matericamente, affidandosi a una strumentazione d’accatto – rigattieri e mercatini d’antiquariato, sentitamente ringraziano – fatta di dispositivi in disuso, abbandonati, desueti al punto da essere sull’orlo dell’oblio: giradischi, cassette, microfoni, radio cui si aggiungono occasionali field-recordings. Filosoficamente, con un processo di indagine sulla memoria e sulla distorsione, perdita o mutazione che questa subisce nel tempo, usando le sue parole. Non è musica astratta e informe, relegabile cioè nel campo della sound-sculpture dura e pura, quella di Rocchetti, piuttosto uno stratificarsi che nel corso degli anni e delle uscite assume forme sempre più intelligibili, anche nella asperità della proposta. I suoni, spersi e vaganti nella memoria istologica del loro autore/collettore, si accatastano gli uni sugli altri, si aspettano, si lasciano crescere. Fermentano, verrebbe da dire, fino ad arrivare ad un forma-(personale di)-canzone. Infatti quando ci si ritrova ad ascoltare i frutti di questo personale e meditato modus operandi, lontani dalle modalità e dalla genesi dei singoli flussi sonori (più che canzoni, quelli di Rocchetti sono veri e propri flussi di suoni riorganizzati in canzone), si finisce con l’apprezzare la grana del suono, ma soprattutto il senso melodico complessivo. Come l’haiku sfrutta solo una determinata e non superabile serie di sillabe, le composizioni di Rocchetti sfruttano di volta in volta un numero minimo di fonti sonore, sulle quali si va ad ergere un complicato edificio musicale, maestoso o minimale a seconda dei singoli casi. Siano, per rimanere all’ultimo The Carpenter, degli archi, un solo deadmaniano di chitarra, manipolazioni di giradischi o rumori isolati e/o trovati casualmente. Da dj/turntablist (sui generis) spaccatimpani a raffinato scultore di suoni. Una bella evoluzione per il tuo suono, soprattutto per quel che riguarda i lavori in solitaria… In realtà credo che le cose convivano bene e fin dall'inizio. C'è sempre stata, da parte mia, una certa attenzione alle piccole risonanze e al pulviscolo, ma anche alla potenza del singolo gesto. Nei dischi penso che si possa sempre trovare, in dosi differenti, una vasta gamma di sonorità e di approcci. L'unica cosa che posso dire che l'accento melodico dei pezzi mi sembra più marcato in The Carpenter, come se avessi sottolineato alcune intuizioni del disco su Die Schachtel. Non passa inosservato infatti, soprattutto perché in scia a Another Piece Of Teenage Wildlife, una certa attenzione per la forma-canzone, anche se sempre perfettibile e non-finita…questa “incompiutezza” unita ad una certa dose di provvisorietà, dopotutto sembra essere un tuo trademark… Solitamente i pezzi li considero conclusi quando non riesco più ad aggiungere nulla, oppure quando non li sopporto più; quindi credo che questo senso di "incompiutezza" derivi insitamente dal mio modo di lavorare. Anche l'aspetto melodico (che a dire il vero era presente già in The Work Called Kitano) fa semplicemente parte della mia paletta espressiva. Non cerco le melodie, sono loro che si verificano all'interno dei dischi. The Carpenter sembra un traguardo raggiunto: condensare e plasmare un suono fatto di mille imput diversi ma che si sta sempre più segnalando sempre più come personale. E' un passo in una direzione, non parlerei di traguardi, unicamente perché non mi sono mai posto nessuna meta. "Condensare e plasmare" è quello che faccio, è parte del mio processo creativo, mettere da parte suoni, idee, e aspettare quello successivo. Poi prendere tutto e piegarlo, spingere i singoli suoni in altre direzioni... oppure lasciare che tutto si accumuli e aspettare che il tempo faccia la sua parte... Parlaci di The Carpenter…è un omaggio al regista o la rivendicazione di un agire “artigianale” più che artistico? È entrambe le cose. Ha a che fare con il mio metodo e con la convinzione di essere appunto un artigiano, più 19 che un musicista o artista. Poi ovviamente c'entra anche John Carpenter! Come detto molte volte, mi sento molto vicino al cinema, ne prendo a prestito i ritmi e in parte l'immaginario, e lui è in ogni modo uno dei miei registi preferiti. Ma il titolo è soprattutto un omaggio a mio padre e al suo lavoro, il carpentiere appunto. È sempre più interessante osservare/ascoltare la grana del tuo suono…parti da pochi elementi riconoscibili (una chitarra, un loop, un fruscio…) per costruire intere cattedrali…quant’è affascinante questo lavorio di costruzione di ogni singolo pezzo? Non c'è nulla di più eccitante di un nastro vuoto. All'inizio, quando ancora non so nulla del pezzo che verrà, avere tutto questo universo di possibilità davanti è galvanizzante! Anche se la maggior parte dei pezzi si rendono riconoscibili dopo molto tempo, e quindi il risultato spesso è si svela solo dopo mesi, la parte più esaltante di solito sta prima ancora del primo suono. Poi quando tutto si incastra e si scopre per quello che è, quasi mai rimane fedele all'idea iniziale, e anche questo è sorprendente e mi piace molto... Scorie di memoria; spazi, suoni, mezzi musicali vissuti e reinterpretati; strati di significati che si aggiungono in continuazione…quale è la filosofia che sta dietro il tuo fare musica…ossia, perché se 20 ti ascolto penso sempre ad un procedere punk in un ambito di sperimentazione… Il mio fare musica è la risultante di infiniti strati di esperienze piuttosto diverse che non faccio altro che accumulare e, appunto, stratificare e addensare. Uno di questi sedimenti è il mio passato hard core. Non vorrei che questa cosa assumesse un rilievo eccessivo, ma è indubbio che fa parte del mio bagaglio e sicuramente si può notare durante i mie live, o comunque in un certo modo di approcciare la materia. E intendo letteralmente le cose, gli oggetti, toccare e manipolare la materia prima. Quindi non c'è una filosofia precisa dietro tutto, ma solo un'attitudine. Quanto è importante questa attitudine, questa tua “predisposizione materica” nei live? …il live è il momento in cui tu come artista interagisci col pubblico e viceversa il pubblico assiste, vede la tua “performance manipolatoria”… Il processo live scava e lavora nella stessa direzione di quello in studio, solo molto più velocemente e con molta più imprevedibilità. Il concetto è simile, portare le macchine al loro limite, spingerle in direzioni inaspettate, e gestire le risultanti. Durante il concerto tutto questo si concentra e accade in pochi minuti, invece che in mesi, e quindi diventa estremamente pericoloso. Infatti un mio live a volte può risultare molto breve o deludente, dal punto di vista immediato, della soddisfazione estetica o quant'altro, proprio perché è ad altissimo grado un live sperimentale, aperto. Ma quando funziona, oltre ad essere molto fisico, è anche soddisfacente e potente (sia a livello sonico che improvvisativo). Immagino che il fascino per oggetti sonori obsoleti si riverberi pure in sede live… come ti comporti, come interagisci (se interagisci) col luogo in cui si tiene la tua performance? Quando ho la possibilità di relazionarmi allo spazio (grazie al tempo e all'elasticità dell'organizzazione), cerco sempre di evocare, almeno in parte, la storia del luogo. Attraverso field recordings, rimandi e accenni alle geometrie, giocando con la sistemazione degli speaker e con la materia stessa con la quale lo spazio è costruito. Hai mille progetti in ballo, in solo, in duo, in trio ecc. La tua forza espressiva sembra aver bisogno di più forme per esplicitarsi: l’elettroacustica collettiva di 3/4HadBeenEliminated, il rock deforme di In Zaire, gli accartocciamenti noise di Olyvetty… hai una personalità musicale debordante… Cerco semplicemente di suonare le cose che mi interessano con le persone che mi piacciono. Se scopro suoni nuovi che mi coinvolgono mi sembra naturale tentare subito di conoscerli e integrarli nelle mie cose. In più l'atto di suonare insieme a persone, che sono innanzitutto amici e poi ottimi musicisti, è la forma più alta di conoscenza e comunione. Per esempio con In Zaire, ci siamo conosciuti suonando parecchio sugli stessi palchi (prima durante un lungo tour dove io suonavo con Hypnoflash e loro come G.I. Joe, poi attraverso mille serate e altri concerti…), e siamo diventati innanzitutto amici e poi il progetto è venuto da sé. Credo siano cose importanti, e che questo poi si senta perfettamente. Dividi l’esperienza Olyvetty con Riccardo Benassi che è prevalentemente (o almeno lo era in partenza) un visual artist…prima abbiamo sfiora- to il discorso cinema, adesso vorrei sapere cos’è per te l’arte visuale e come interagisce col tuo “fare” musica? In realtà sono un completo dilettante per quanto riguarda l'arte contemporanea in genere.Vado molto a periodi, a volte vedo una tale quantità di cose da rimanerne affogato per mesi, ma non ho mai approfondito a dovere nulla di tutto questo, soprattutto la "visual art", che continua sembrarmi una cosa senza confini e piuttosto indeterminata. Con Riccardo poi ci siamo concentrati molto sull'aspetto puramente musicale, concentrando i nostri sforzi al di fuori dei suoni sul lavoro grafico (in questo Riccardo è davvero straordinario) e sul video di Nights Erase Days Erase Nights, presentato qualche tempo fa a Netmage. Alla luce di questi tuoi numerosi impegni con altri progetti e band ho come l’impressione che non ti cullerai molto sugli allori vero? Hai visto giusto! Nei prossimi mesi usciranno dischi di In Zaire (uno split con Skull Defekts per Holidays) e il nuovo 3/4HadBeenEliminated. Poi farò qualche festival e dei piccoli tour sia in solo che con i gruppi sopra citati e verso la fine dell'anno è in programma un tour negli Usa con Stefano Pilia. Nel disco è impegnata a vario titolo la crema dell’avanguardia italiana, sia musicisti che etichette… posso chiederti come è la scena italiana vista da Berlino? E' più attiva che mai. Non ci sono mai abbastanza posti dove suonare e situazioni decenti dove poter lavorare, ma di gruppi interessanti e di etichette formidabili ce ne sono eccome. Pensa a Holidays, Presto!?, Boring Machines e Wallace, le etichette coinvolte in The Carpenter. Pur essendo abbastanza diverse (per fortuna!), hanno in comune un catalogo davvero impressionante e pieno di titoli bellissimi.Al di là di tutto, se ti dovessi dare dei nomi così su due piedi direi: WW, Dracula Lewis, Stefano Pilia… 21 Tune-In Yoga saved my life Gonjasufi —La pecora e il leone— Sembra piovuto dal nulla ma da anni gira nell'underground out-hop USA. A Sufi And A Killer è una rivelazione. Oltre la Warp e l'Anticon, lo yoga e il misticismo, Tom Waits e Flying Lotus... Testo: Gabriele Marino 22 S umach Valentine: trent'anni, pelle olivastra e tratti marcati che fanno pensare a origini orientali (India?), aspetto e modi da santo straccione (barba a cespuglio e dread spelacchiati, occhi nerissimi e penetranti), nato e cresciuto a San Diego, California. Sumach è Gonjasufi. Il moniker ci suggerisce subito due coordinate interessanti: Gonja è il nome di un antico regno del Ghana, organizzato in caste e basato sul commercio degli schiavi e delle noci di cola; Sufi è il termine che indica la componente mistico-ascetica dell'Islam di cui sono espressione, ad esempio, le famose danze estatiche dei dervisci. Coordinate che si specchiano - senza sovrapporsi però punto per punto - nella vita di Sumach: uno che ha trovato la propria personale illuminazione sulla via di Damasco grazie allo yoga. Nel 2005 ha scoperto il metodo del guru - multimilionario - Bikram Choudhury, ne ha frequentato i corsi a Los Angeles, si è diplomato ed è diventato a sua volta istruttore, insegnando la disciplina prima nella città natale e poi, dal 2006, a Las Vegas (dove adesso vive): la Sodoma moderna impiantata nel deserto del Mojave, il cuore di plastica - e quindi quello più vero - dell'America. Yoga saved my life, potrebbe dire Sumach, da allora uomo rinato e completamente immerso in una dimensione spirituale che è suo compito tradurre in musica: «Spero che il mio disco raggiunga quelle persone che si trovano con un piede già fuori dalla finestra e che guardano giù. Spero che le mie canzoni vengano fuori dalle casse dello stereo e che facciano rimettere quel piede dentro casa. Se c'è una cosa per la quale prego fortemente, è che la gente ritrovi se stessa nella musica, come è successo a me dopo anni di sofferenze in cui la mia fede è stata duramente messa alla prova. Dopo trent’anni ce l’ho fatta». Sembrano le parole di un santone o di un invasato e il tutto farebbe anche sorridere se non fosse che la musica di Gonja riesce davvero a smuovere qualcosa, intensa e bellissima. riconosco feat vocali di altri, probabilmente membri dei collettivi di cui sopra, ma nessuno è accreditato). Sono produzioni scure e lo-fi, veramente underground, pezzi brevi (e dopo il primo cdr, praticamente tutti senza titolo) che macinano campioni poveri, sporchi, rumorosi, fortemente percussivi, una specie di polveroso glitch industriale (per le timbriche) e artigianale (per l'assemblaggio), vicino a certa Anticon del periodo d'oro e in grado di indicare la strada intrapresa con le ben più cesellate sfibrature formali che gli cuciranno addosso i vari Flying Lotus e Gaslamp Killer. C'è un fascino strano che avvolge i migliori (e pensiamo soprattutto al primo cdr) tra questi brandelli di musica, venati come sono da una disperazione implosa, da una malinconia paralizzata ed ebete: riconosciamo a un certo punto anche la batteria e la pulsazione cardiaca alla base di Teardrop dei Massive Attack. Sopra questi che sono allora dei dub disidratati e maltrattati Sumach rappa di conseguenza, uno slo-ragga che sembra quasi uno spoken e uno zoppicamento - una sorta di “wonky vocale” - alla maniera Da Sumach a Gonjasufi Sumach ha cominciato ben prima della conversione e di Dudley Perkins. Nell’uso degli effetti applicati alla della conseguente metamorfosi in Gonjasufi, muoven- voce (delay, eco e “filtri telefonici” che lo accompagnadosi in collettivi off-hop chiamati Masters Of The Uni- no ancora oggi) e in certe aperture al cantato, possiamo verse (metà anni Novanta) e Kilowatts (primi Duemila): già intuire la svolta che porterà il nostro a mutarsi in lo troviamo a rappare su una compilation underground Gonjasufi, svolta segnata nettamente dall’incontro con - un cdr - già nel 1997. Tra piccole collaborazioni, anche lo yoga. in veste di produttore per altri, prende avvio la car- La parabola del Sumach carbonaro finisce grazie all’inriera solista a nome Sumach, con una tetralogia di contro con il collettivo losangelino Brainfeeder e con cdr a bassissima circolazione (Dead Midget On Stilts / Gaslamp Killer (William Bensussen) in particolare. I Crutches, 2002; Garlikillz, 2004; Flamingo Gimpp e Jungl due cominciano a collaborare. Sarà però Steven Ellison Bulit, 2007) realizzati in quasi completa autonomia (si aka Flying Lotus a permettergli di farsi notare da un 23 pubblico veramente più ampio, con un pezzo semplicemente magico messo in coda al suo Los Angeles: Testament, uno scuro trip-hop jazzato sul quale Sumach/ Gonja canta come fosse Billie Holiday. E’ il biglietto da visita con cui l’uomo si presenta alla Warp, che lo mette sotto contratto. La passione per la musica si è adesso concretizzata in una carriera vera e propria, ma Sumach non rinuncia al suo posto presso il Bikram Red Rock (sezione lasvegasiana dello Yoga College of India), dividendosi tra questo e una famiglia a cui è completamente devoto (la bellissima moglie Chelli e tre bambini). Le anticipazioni di A Sufi And A Killer, annunciato per fine 2009 e poi rinviato a inizio 2010 per meglio calibrare la promozione, ne fanno intuire il valore e fanno drizzare le orecchie ai cultori dell’alt-hop: Ancestors, prodotta da Lotus, su 2010 From Warp Records; i due sette pollici in edizione limitata Candylane/Holidays, prodotto da Jon Ancheta aka Mainframe (con in allegato un “libretto di preghiere” che sono poi i testi dell’album), e Kowboyz&Indians/My Only Friend (quest'ultima non inclusa nell'album), prodotto da quel Gaslamp responsabile di tutte le restanti tracce del disco. A questo punto occorre fare una precisazione, doverosa soprattutto perché illumina il senso del debutto di Gonja per la label inglese: almeno metà dei pezzi della tracklist di A Sufi And A Killer gira da anni sulla rete in varia forma, tra bootleg mp3, Myspace e still-video su Youtube. Kobwebz la troviamo già come sottofondo al famoso video in cui Gaslamp si toglie la lana e si rasa a cranio (è il look del suo EP I Spit On Your Grave) e addirittura in una compilation “fisica”, un doppio vinile chiamato ArtDontSleep Presents... From L.A. With Love, dove Gaslamp e Gonja sono messi accanto a Lotus, Madlib, Georgia Anne Muldrow, Daedelus, Exile, Nobody. Siamo nel maggio 2007. Continuando la ricognizione, una Candylane ancora intitolata Candycanelane (così come Holidays era Holidaze) gira già dal novembre 2006, sulla compilation iTunes-only The Clock Is Tickin’. Insomma, è chiaro come A Sufi And A Killer non sia un disco della Warp, ma semplicemente un disco stampato dalla Warp: la label non ha messo lingua sul prodotto, lo ha semplicemente acquisito e messo sotto la sua ala, intuendone il valore. Il disco di Gonja va visto piuttosto come il frutto di un lavoro stratificato in anni di produzioni off-album, il sudatissimo best of di questo suo primo periodo nella cerchia dei Brainfeeders. Gonja-hop Ma che musica è Gonjasufi? Steve Beckett, il capoccia della Warp, taglia la testa al toro e alle tante possibili 24 etichette fatte di generi inframmezzati da trattini: «Sono entusiasta di Gonjasufi. È un ragazzo che viene dal deserto di Las Vegas. Si esprime attraverso un hip hop profondo, spirituale e complesso». Ecco, un hip hop d’oggi che si serve di tante suggestioni diverse (rock, funk, elettronica, etnica) per fare soul (traduzione in musica dei propri slanci) e per fare blues (traduzione in musica delle proprie miserie) e il cui effetto è prima di tutto e soprattutto psichedelico, coerentemente con l’idea sufiana e gonjasufiana del perdersi e del ritrovarsi dentro e grazie alla musica. Verrebbe da descriverle tutte le 19 tracce, per la colorata rassegna di spunti che presentano: la danza indiana mascherata da tribù pellerossa della intro (Bharatanatyam), il carosello underground lollipop di She Gone, quella sorta di Somebody To Love abbaiata garage che è SuzieQ, il Bowie ripassato lo-fi di Stardustin’, l’oriente a tinte forti di Kowboyz&Indians, l’Isaac Hayes di Change, gli albatri hendrixiani di Duet, lo spleen slo-discofunky di Candylane, i Primus di Southbound Pachyderm misti a una batteria slintiana di Advice, il mexican country di Klowds, il medioriente b-movie di DedNd, il farfisa doorsiano in salsa westernata di I’ve Given, il King Midas sound di Made. Così facendo però ci si perde nel gioco compilativo e si perde di vista il vero valore della musica di Sufi, la sua capacità di fare sintesi a partire da un immaginario composito fatto di centri yoga, guru indiani, Obama, Bruce Lee, Bob Marley, Kool Herc, J Dilla e Radiohead. La sua capacità di mettere subito in primo piano la propria impronta: la sua splendida voce. E se è ancora hip hop (HH Duemila), certamente Gonja non è più rap, ma un cantato dal sapore quasi rituale e mantrico, abbandonato a se stesso e alle sue preghiere, alle sue invocazioni agli antenati, a confessioni autobiografiche naïf e criptiche, avvolte dalla polvere del deserto e dai fumi della marijuana. I wish I was a sheep... Facce della stessa medaglia, pecora e leone, Gonjasufi (l’uomo pacificato, salvato dalla filosofia e dalla religione, «il declamatore di preghiere, la mia testimonianza di fede») e Sumach («il mio lato più assassino, quello che gira ancora per le strade con la pistola fuori dalla fondina»), il nostro è riuscito in qualche modo a farle convivere, assorbendo la seconda dentro la prima, dando nuovo senso a quella disperazione implosa di cui dicevamo: è una sensazione sempre palpabile, come una cicatrice stampata nella sua voce, ma messa adesso come in controluce, come da un primo raggio di sole che filtra da sopra le macerie. 25 Tune-In Adam Green U n’estetica naif in un personaggio assolutamente sopra le righe. Una carriera ormai più che decennale, costruita passo dopo passo con oculatezza, tra album e provocazioni assortite, dal pop lo-fi dei Moldy Peaches con Kimya Dawson a fine 90 all’oggi cantautorale: la somma delle parti si assembla nel musicista e nell’uomo Adam Green, quasi trentenne semiserio da New York City, pittore, scultore nonché appassionato di comics. Uno sempre inquieto e mai domo, un passo avanti anche rispetto a se stesso. SA l’ha incontrato per un’intervista abbastanza rivelatoria ...due dita sotto il consueto understatement. Un —Un naif controcorrente— Un album della maturità dopo il classico break-up sentimentale. Adam Green ha un modo tutto suo di esorcizzare le pene. A colpi di understatement... Testo: Teresa Greco 26 amore soffer to e una catarsi Un album, il sesto da solista, a inizio 2010, Minor Love (SA#64) su Rough Trade lo ha confermato songwriter a tutto tondo, questa volta con un disco compatto, adeguato finalmente alle sue effettive capacità espressive. Eppure chi l’avrebbe mai detto che la quadratura del cerchio fosse in realtà partita da una profonda crisi sentimentale e personale, e nel più classico dei pretesti poetici. Fallito nel 2008 il matrimonio, durato pochi mesi, con Loribeth Capella nasce l'idea di un break-up album come "disfunzione romantica". "A fine 2008 mi sono quindi trasferito viaggiando in macchina sulla West Coast, perché volevo lasciarmi indietro tutto. E’ stato molto liberatorio, mi sono sentito di nuovo un diciannovenne”. È qui che si pongono le basi per la nuova vita di Green che sfoga rabbia e disillusione in un blog (thelakeroom.com) descritto autoironicamente come “a fatalistic blog of disappointment and doom where nothing lasts” (“era un esorcismo quello in realtà” – conferma) e comincia a scrivere il disco, sempre però con uno sguardo rivolto all’esterno di se stesso: “Ho passato un anno terribile e questo mi è stato di ispirazione per i nuovi pezzi. Ma mi considero sempre e soprattutto un entertainer, oltre che un songwriter, e le due figure lottano sempre tra loro… e in virtù di questo, mi proteggo dal riversare i miei problemi sulla gente. Il disco non è un problema e il divertimento è sempre e comunque essenziale!” Il rifiuto della figura del cantautore confessionale (come da copione e perciò tremendamente vero) è il sunto di una vena personale sopra decenni di musica americana, qui dalle connotazioni piuttosto classiche: i numi tutelari Lou Reed, Leonard Cohen,Burt Bacharach, Jonathan Richman, sfiorando persino il Beck soul funk, il country lo psych, e come poteva non mancare il crooning di marca Scott Walker? La scrittura è sicura e coesa, in altre parole finalmente matura rispetto alle incertezze del passato. È cambiata l’attitudine. Minor Love viene registrato a Los Angeles presso il produttore e musicista Noah Georgeson (del giro di Devendra Banhart); “l’album è stato realizzato velocemente in 4/5 setttimane; sono partito da una tastiera Casio e ho finito per suonare quasi tutti gli strumenti, batteria compresa, strumento che non padroneggio benissimo ma il cui risultato qui mi piace e che non suonavo dal primo disco. Quando si incide così velocemente, c’è sempre in genere un feeling particolare. Avevo voglia di isolamento e di musica folk malinconica, il periodo era abbastanza triste, una sorta di ‘lost weekend’ per me, e non sono sorpreso che il tutto suoni in questo modo”. Oltre a Georgeson, l’album vede anche la collaborazione di altri musicisti, come il fratello Joel, Joe Steinbrick, Greg Rogove (Megapuss) e Rodrigo Amarante (Little Joy), Barry Goldberg (Bob Dylan band). “Rodrigo si trovava in città per suonare al Coachella e l’abbiamo coinvolto, non avevo idea che fosse un bassista così fantastico, ha fatto un sacco di aggiunte a cui non avrei mai pensato. Sapeva sempre quando un pezzo era finito o necessitava ancora di qualcosa”. Canzoni dirette e concise, senza particolari fronzoli, con i consueti testi immaginifici e i giochi di parole, qui pervasi maggiormente, va da sé, da una depressione esorcizzante e da un misto di fatalismo e spiragli di ottimismo; il peso del ricordo amoroso ancora vivo da non lasciare spazio assolutamente ad altro (Non è un giorno adatto questo per chiamarmi/perché non posso mostrare alcuna comprensione/i miei sentimenti non li capisco del tutto/e quando parlo con te non sono realmente lì, da Buddy Bradley), ma si capisce che in fondo sotto sotto c’è anche il solito Green autoreferenziale e gattone, quando si fa caso al fatto che Buddy Bradley è un personaggio del comic book Hate di Peter Bagge, uno slacker nella Seattle del grunge; “Buddy è totalmente alienato, quasi come un Charlie Brown, da ragazzo mi identificavo talmente con lui che ho lasciato la scuola a NY e mi sono trasferito a Seattle, ecco perché il personaggio è diventato un riferimento culturale. Credo che molti si siano identificati con lui, ed è fantastico prendere un personaggio semioscuro e portarlo ad un pubblico più ampio: pensa a quando Kurt Cobain indossava una t-shirt di Daniel Johnston o parlava delle Raincoats nelle sue interviste!”. Il crooner del passato riaffiora qua e là (Cigarette Burns Forever, Give Them A Token) insieme a un’estetica da Perfect Day Lou Reed-iana (l’essenziale What Makes Him Act So Bad sembra addirittura uscita da uno dei primi album dell'ex-Velvet Underground, omaggio doveroso ad uno dei suoi miti). Nell’album troviamo, anche se attenuato in un certo senso, l’aspetto cartoonistico del Nostro, quel suo essere profondamente naif e insieme sarcastico che ha sempre fatto il “personaggio” Adam Green, quello che si scrive 27 una press semiseria per Minor Love ("Adam Green è una famosa celebrità Americana…da New York City. All’inizio della sua carriera si trasferì in Germania per chiedere asilo politico, dalla persecuzione del suo talento…" e così via delirando), quello che si capisce che adora i fumetti e li ha traslati nei suoi quadri e sculture (e infatti ci conferma che: “ sono essenzialmente ispirati ai cartoon, volevo essere fortemente un cartoonist da ragazzo, per me Picasso lo è, così come James Ensor e Van Gogh”). Alcuni esempi dei suoi lavori si possono vedere in due dei quattro video surreali realizzati per l’ultimo album da Dima Dubson, Breaking Locks e Give Them A Token, dove si coglie al me28 glio il mix tra musica e cartoon e che ci ha ricordato gli analoghi disegni e fumetti di Daniel Johnston, non a caso citato da lui prima, e tutto torna. B ack to basics Un percorso quello di Adam Green costruito con intelligenza, che a posteriori riflette un cammino obbligato ma neanche troppo per certi versi, visto che avrebbe potuto, dopo gli esordi con i Moldy Peaches, prendere qualsiasi altra direzione. Un’attività musicale cominciata precocemente, a soli 13 anni nel 1994, quando a NY conosce in un negozio di dischi la ventenne Kimya Dawson e da lì il destino è segnato. Entra così nel giro anti-folk e comincia a collaborare con lei. Seguono le prime autoproduzioni del gruppo e il loro esordio, Moldy Peaches del 2001 su Rough Trade: lo-fi pop e folk-punk, sulla scia dei Beat Happening, per una band rimasta in ambito indie che termina l'attività nel 2003, quando Green e Dawson si dedicano alle proprie carriere soliste. Ironia della sorte, i Moldy Peaches raggiungono la notorietà internazionale solo a fine 2007, quando il film indipendente Juno (di Jason Reitman e sceneggiato da Diablo Cody) esplode e porta alla luce nella colonna sonora anch’essa di successo, oltre a pezzi solistici dei due ex-Moldy, anche la Anyone Else But You del gruppo, sorta di leit motiv della pellicola. Giustamente Green oggi è stufo di parlare di Juno e della notorietà indotta, visto che poi sia lui che Kimya avevano continuato le loro carriere, ed è comprensibile. Così infatti parafrasa la vicenda nella sua press semiseria per Minor Love: “Mentre viveva nella Germania Est, gli fu offerto il ruolo di coprotagonista nel film Juno, che vinse il Grammy e diventò disco di platino”. La carriera solista di Green, dopo un discreto esordio, Garfield (2002) prende il largo con il successivo Friends Of Mine (2003), album di cantautorato ancora legato ai suoi modelli (Bob Dylan, Leonard Cohen, Lou Reed) ma che comincia a mostrare personalità. Il singolo Jessica lo fa conoscere a un più largo pubblico, con una parodia feroce dedicata alla teen music star Jessica Simpson (dove è andato il tuo amore/non è nella tua musica, no/hai bisogno di una vacanza…/con il sorriso falso che ti ritrovi…). Gemstones (2005) prosegue su questa scia di songwriting sarcastico e semiserio (Carolina, she's from Texas/red bricks drop from her vagina/Carolina) e l’anno dopo tocca a Jacket Full of Danger (sempre su Rough Trade), ancora una carrellata che include questa volta anche omaggi a Randy Newman oltre ai soliti noti. Il rischio che correva il buon Green in questi primi album era quello, sempre dietro l’angolo, di esagerare e rimanere impigliato in un cliché, dove l’attitudine parodistica finisse con il prendere il sopravvento sulla musica o che si perdesse in qualche modo l’unità stilistica di ogni album. Cosa quest’ultima successagli nel 2008 con Six And Sevens, sorta di pasticciato melange di ispirazione soul gospel che ha rappresentato una caduta nella sua discografia. Il 2008 è stato anno critico poi come si diceva, e che ha visto alla fine una svolta radicale e una rinascita totale che lo ha portato all’oggi. Una fenice totalmente risorta dalle sue ceneri. Un tour in Europa, dove paradossalmente ha un seguito maggiore che in patria, soprattutto in Germania, lo ha portato a fine febbraio anche in Italia. 29 2009: Odissea nell'hip hop Drop Out W hite With Attitude L'hip hop degli anni Zero tra tradizione e innovazione, afrofuturismo ed elettronica. Il Boom Bap è tutt'altro che morto. Basta guardare (e ascoltare) nei posti giusti Testo: Gabriele Marino 30 Solo qualche anno fa non avrei mai potuto immaginarmi davanti al pc a scrivere un articolo con la parola hip hop nel titolo. Ridotto alle sue manifestazioni più appariscenti e meno interessanti (il post-gangsta zuccheroso di Puff Daddy), oggetto "non meglio identificato", l'hip hop era una musica che guardavo con diffidenza e sufficienza. E invece oggi siamo qua. Forse proprio perché l'hip hop oggi non è più Puff Daddy, in tutti i sensi. Il dato personale non è una questione meramente biografica, è anzi lo spunto ideale per parlare di un cambiamento di prospettiva - epocale - avvenuto in questi primi anni Duemila: l'hip hop ha smesso di essere un affare per soli b-boy. Così come nei Novanta aveva smesso di essere un affare per soli nigga. Vedi personaggi chiave come Peanut Butter Wolf (la Stones Throw è nata nel 1996), EL-P (la Def Jux nel 1999) e tutta la cricca Anticon (nata come label nel 1997, esplosa nel 2001 coi cLOUDDEAD). E già prima, ovviamente: la Def Jam di Rick Rubin (1984) e i suoi ultrapunk - nel senso più sexpistolsiano e quindi più vero e più paraculo - Beastie Boys sono lì a dimostrarlo. Ecco allora la doppia mutazione: la "doppia acca" ha smesso di essere una musica di nicchia - e di ghetto - ed è diventata, da una parte, un blockbusterone da classifica, dall'altra, un modello estetico prêt-à-porter buono per i wavers di tutto il mondo (e da qui la furbata facile facile, malinteso a presa rapida, secondo cui «il miglior hip hop d'oggi non viene dall'hip hop»). Si pensi alle vendite milionarie del gangsta rap (la qualità era alta, mica Lil Wayne, se il primo top-seller era stato Straight Outta Compton dei Niggaz Wit' Attitude, anno 1988) e ai primi dischi del Beck su major. Ecco, questi due esempi da soli riescono a spiegare perfettamente come l'HH sia diventato per estensione e complessità un vero e proprio universo, impossibile da mappare - semmai da esplorare, saggiare, campionare - con le sue galassie, le sue nebulose e i suoi satelliti. Un universo che, come tale, si è generato per 31 to della musica tutta, del piacere di esperirla, capirla, crearla. Parliamoci chiaro, trascurare l'hip hop oggi (quello che intendiamo per hip hop oggi) è un peccato tutt'altro che veniale: vuol dire tagliare fuori dalla propria playlist una fetta enorme di mondo. Una fetta, nonostante la ricetta non sia più tanto fresca, tra le più gustose. E lectr ( on ) ic M usic for the M ind and B ody Il successo dell'hip hop - e dell'hip hop, scusate la parola, di ricerca come forma musicale (non parliamo quindi dell'HH come subcultura, immaginario o stile di vita) è legato al suo essere stato la forma popular che con più forza ha recepito e reso disponibile le innovazioni tecniche ed estetiche delle avanguardie, bagaglio prezioso e necessario. Posto che dire "musica elettronica" (lasciando ogni possibile specificazione all'ambiguità del semplice aggettivo) equivale a designare - suggeriva già Luciano Berio - la totalità delle musiche prodotte e ri-prodotte nell'occidente moderno, quindi, a non designarne nessuna, posto questo, va subito sottolineato il ruolo della musica elettronica extra-colta nella storia del Novecento. Attraverso due J Dilla e Madlib alla ricerca di dischi in un negozio grandi direttrici, la seconda figlia della brasiliano (2006) prima: il dub e il remix (la manipolazione di un manufatto sonoro già dato), l'hip hop e il sampling (l'estrapolazione di frammenti e/o linee sonore). Due modi di ri-fare la musica nati in alto (nei laboratori della musica colta), fattisi carne in basso (nei ghetti, dove collisione ed esplosione del pre-esistente (l'eredità tecnica del dub impianta- tutta la vita era un raccattare e un rita nella cultura di strada dei ghetti negri), ha avuto la sua fase di espansione e ciclare, figuriamoci il fare musica), caadesso si agita, si piega, si contorce, tra necrotizzazioni e nuove gemmazioni, paci di creare le proprie avanguardie verso una probabile - collettiva - implosione finale. Aspettiamo tutti con ansia e di scompaginare il proprio discorso il 2012. Nell'attesa, l'hip hop si agita e (si) muta. Del resto, lo insegnano fin tanto dall'interno (J Dilla, la Anticon) dalle elementari, che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. quanto dall'esterno (il video di WinL'incontro con l'hip hop non è stato allora, per il sottoscritto come per dowlicker di Aphex Twin come la mimilioni di persone, una semplice questione di educazione dell'orecchio, di gliore delle sintesi possibili), esplosi familiarizzazione con suoni e modi mai frequentati prima. E' stato un training, quindi come pratiche all-purpose in certo, più simile però a un "corso di sopravvivenza": sopravvivenza dell'ascol- orizzontale, presi in carico da tutte le 32 musiche (fino a Madonna). Questo bricolage elettronico ha portato al meticciato musicale in cui oggi siamo immersi, a musiche sempre più stratificate e sfuggenti, sempre in bilico tra contaminazione (eclettismo, esibizione della fonte) e sintesi. A fenomeni di convergenza: l'indie-rock che avvicina l'hip hop (e viceversa), l'elettronica che avvicina l'hip hop (e viceversa). Si veda come sono stati ridisegnati negli ultimi anni i roster di label come Stones Throw e Warp. Se post-moderno è il riuso dell'esistente (del "passato") in un'ottica che oscilla tra adesione appassionata e sfalsamento ironico, ecco allora che l'HH e l'HH 09 - consci del fatto di trovarci in un'epoca già postpostmoderna e che questa etichetta ha sempre meno senso - si configurano come forme essenzialmente post-moderne. Un bricolage dentro al quale troviamo di tutto e che non può più permettersi di utilizzare dicotomie forti - sono poche le eccezioni - come suonato vs. elettronico, analogico vs. digitale, campionato vs. sintetico, organico vs. cibernetico per costruire i propri giudizi di valore: utili semmai queste dicotomie per individuare cifre stilistiche e poetiche autoriali. E' un continuo gioco di simulazione (mostrare quello che non si è) e dissimulazione (non mostrare quello che si è), un gioco di specchi, un cortocircuito tra forma e contenuto. Post-moderno. Perché il punto di partenza, oggi come ieri, e senza stare a scomodare gli spit-spoken dei bluesmen per il rap e la scuola di Darmstadt per il sampling, è sempre e comunque la tradizione. Che sia quella del funk e del soul (Stones Throw, Ubiquity), che sia quella dell'elettronica (Anticon, Warp) o dell'industrial (Dälek), che sia - meta-discorsivamente - la stessa tradizione hip hop. Siamo arrivati ormai alla terza generazione: Madlib che omaggia - mi- mandolo - Dilla, Edan che frulla i rare groove hip hop dance, Mr. Chop che rifà Pete Rock. Segnamoci a lato questo fenomeno "di ritorno", questo hip hop coverizzato & suonato perché ormai canonizzato (come già la house per Christian Prommer), questo hip hop che arriva fin dentro alle classi del Berklee College - la Mecca dei virtuosi della "musica suonata" - col risultato che uno come Edan si è "laureato in produzione" e che alcun prof insegnano Dilla e gli studenti lo mettono in repertorio. Ecco, è nell'oscillazione tra tradizione (canone, regola) e innovazione (sperimentazione, libertà) che si gioca il meglio dell'hip hop d'oggi a un passo dalla storicizzazione, incarnato in due grandi direttrici: l'afrofuturismo e l'hip hop strumentale ed elettronico. Le radici della faccenda, di entrambe le faccende, sono antiche. Di afrofuturismo, modo visionario e volutamente naïf di proiettarsi nel futuro deformandolo come attraverso uno sguardo primitivo, possiamo parlare già per il P-Funk di George Clinton e per la - conseguente - avanguardia techno, quella della sacra trimurti detroitiana (non a caso influenzata dagli scritti del futurologo Alvin Toffler). Per non dire poi di Sun Ra. La dialettica hip hop/ elettronica si spiega semplicemente sfogliando il libro della Storia e ricordando come l'hip hop sia nato dall'elettronica e come musica elettronica. Solo che nel tempo se l'è dimenticato: le sue radici sono negli echi del dub; Rapper's Delight della Sugarhill Gang, anno 1980, nasce dalle spoglie della disco; Planet Rock di Afrika Bambaataa, anno 1982, prodotta da Arthur Baker, nasce dai Kraftwerk e da una batteria elettronica. Lo stupore con cui sono stati accolti nei Duemila i primi dischi "elettronicofili" di artisti che si servivano (anche) di una comunicatività rap - Anticon, Dälek, Anti-pop Consortium, Cannibal Ox - è giustificato dal fatto che l'hip hop si è sempre professato e sempre è stato visto come nuovo jazz e nuovo funk, e da lì ha sempre attinto le proprie materie prime: i campioni. Ma è sempre stata elettronica. Per esplicitare la forma allora, è stato necessario lasciarsela per strada, farla scomparire, ricorrere a fonti immediatamente riconoscibili come "elettroniche": glitch & similia. Anche in questo l'hip hop anni Duemila ha mostrato quella autoriflessività tipica del postmoderno: il mettere le carte in tavola. Solo rinnegando quelli che in apparenza erano i propri modi costitutivi (rapping + break provenienti dalla black music), l'hip hop ha potuto scoprire la propria natura e sondare appieno le proprie possibilità. Smettendo di essere base per un rappato (all'origine fu il blues urbano di Last Poets e Gil Scott-Heron) e diventando base "in potenza" e base qualunque, base per un rappato ancora da fare e che forse non sarà mai necessario fare. Scoprendosi forma di organizzazione della materia musicale: collage e assemblaggio elettronico, pulsazione veicolata da frattaglie di musica - elettronica e non - altra e d'altri. Funk sì, ma a livello molecolare. Noi gli iniziati, Dj Shadow il cerimoniere. Questa presa di consapevolezza dei propri mezzi espressivi, del proprio armamentario tecnico, segna un cambiamento anche e soprattutto a livello estetico, con la nascita di quello che abbiamo chiamato di volta in volta hip hop strumentale, trip-hop, glitch, wonky, eccetera e il conseguente ampliamento di interessi da parte del pubblico di formazione hip hop. In tal senso, quello che sta succedendo in casa Warp ha del didascalico: Mark Pritchard, Steven Ellison, Ross Birchard. Rispettivamente Harmonic 313, Flying Lotus, Hudson Mohawke, e cioè l'elettronica che si fa suggestionare dalle forme hip hop, le forme hip hop che si innamorano di quelle elettroniche, il mash d'oggigiorno che si nutre di entrambe le cose senza pensarci troppo. 33 La chiusura di un cerchio - anche generazionale - cominciatosi a delineare con due graffitari inglesi diventati alfieri dell'IDM (Autechre) e due electro-hippy scozzesi decisivi per il cut-hop avant di tanto indie-HH d'oggi (Boards of Canada). A B oom B ap Continuum Dicevamo del legame con la tradizione, parlavamo di un hip hop che si trasforma. A fare il punto della situazione, adottando una prospettiva decisamente interessante, perché controcorrente (selettiva e ottimista) oltre che ampiamente condivisibile, ci hanno pensato giusto prima del gong di fine decennio tre nerd dei beat e dei vinili, 2tall, Kper e Dj Clockwork. Stiamo parlando del mixone A Boom Bap Continuum (alla cui recensione comunque rinviamo), fotografia di dieci anni di hip hop oltre le etichette di genere e le mode del momento, dal Busta Rhymes del 1999 all'Hudson Mohawke del 2009, prendendo come riferimento base l'idea del culto per la pulsazione di derivazione funk, non importa declinata come. Hip hop mutatis mutandis. Ecco allora delinearsi una formula che ha tra i propri ingredienti forme e sostanze che normalmente non saremmo mai portati a pensare come hip hop - il boogie funk di Dam-Funk, il dubstep primordiale di Loefah - o che abbiamo imparato solo da poco ad associare all'hip hop: il Mark Pritchard post-Global Communication di Harmonic 313. Dettaglio della fotografia, Zeitgeist bignamizzato in una sola traccia, massima sintesi ipotizzabile su carta di quanto sta succedendo oggi, il mixone chiude con la - untissima, volgarissima, bellissima - Wind It Up di Pritchard e Om'Mas Keith dei Sa-Ra. Come a dire, il lato ben piantato nell'elettronica (addirittura nell'ambient) a braccetto con quello più legato alla carnalità del groove (il funksoul da James 34 Hudson Mohawke & Flying Lotus in una jam al Numbers' Pyramid of the Boom, The Sub Club (Glasgow, 03 aprile 09) Brown in avanti). Il tutto condito da un cantato ebete e ossessivo che è praticamente grime. Mutazioni. Il mixone non espone la propria ideologia solo attraverso la selecta della tracklist: ci hanno pensato i tre compilatori a esplicitare il tutto nelle liner notes che accompagnano l'mp3 e in un paio di interviste reperibili sul web. L'intenzione era quella di mappare l'hip hop come forma, come estetica, concentrandosi sulle sue espressioni più interessanti e vitali: l'hip hop strumentale e underground (o meglio, dato che viviamo nell'epoca delle mode indie, non-mainstream). Via quindi Outkast, Pharrell Williams e Timbaland, pur decisivi. Ma via anche - e forse soprattutto - l'Anticon, palesemente fuori da una estetica del boombap, esperienza importantissima ma allo stesso tempo effimera all'interno dell'hip hop, assai più produttiva per il mondo rock. Scelte discutibili, ma che qui ci sentiamo di condividere, viste le derive tanto da una parte che dall'altra. Il mixone esplicita le proprie scelte e sottolinea il ruolo a metà Duemila - vero spartiacque - di due figure chiave: Madlib e J Dilla. Simboli macroscopici di una new wave produttiva che comprende gente come Dabrye e Prefuse 73 e che arriva ai giorni nostri via Flying Lotus. Una new wave che ha sancito il passaggio di mano dello scettro HH dalla figura del rapper (usurata e ridicolizzata all'inverosimile dagli ultimi cascami gangsta) a quella del produttore: non più semplice fornitore di basi, ma jazzista e musicista elettronico ad uno stesso tempo. E' stato il via per un hip hop strumentale (riprendendo il discorso aperto dal trip-hop), "bianco" ed "elettronico". Basti citare un'altra "conversione" significativa, quella di un meraviglioso camaleonte-enciclopedista come Luke Vibert. Mad e Dilla hanno significato, se non la scoperta - sottolineano i curatori, che rintracciano questa tendenza come costante parallela e minoritaria lungo tutta la storia del funk - sicuramente l'imposizione di uno standard: pulsazioni irregolari, sporche, umane (le batterie non tagliate dal metronomo, nonquantizzate, fibrillanti) e fonti sonore frutto del ritorno prepotente dell'immaginario Ottanta, della diffusione dell'elettronica nel rock e di fascinazioni esotiche e primitiviste. E' quello che abbiamo chiamato glitch-hop e/o wonky a seconda che il focus fosse sul suono o sul ritmo e che arriva fino a newcomers importanti come Nosaj Thing e Hudson Mohawke. Citare questi due nomi, già canonizzati nel mondo della produzione (Nosaj come Hud Mo ha il suo posto nel mixone), ci permette anche di strisciare il discorso dei Duemila come anni dominati dai nerd, anni dell'elettronica "da cameretta" e del Myspace come vivaio per i talent scout delle case discografiche. E di citarne quindi un terzo di nome, per quanto sui generis: Mochipet, uno da tenere d'occhio. E' chiaro il tono polemico del progetto: polemico contro chi guarda ad una parte (circoscritta e sclerotizzata, l'hip hop mainstream e l'hip hop "vocale") e finisce col condannare l'hip hop tutto. Un riferimento appare esplicito, fin dal titolo con quella parolina magica, Continuum: Simon Reynolds. Il guru dell'hardcore continuum ha sempre mostrato la propria idiosincrasia nei confronti dell'hip hop, guardando però al genere nelle sue manifestazioni più chiassose e appariscenti (quelle che probabilmente ha più sott'occhio dal suo osservatorio inglese, mis-orientato dall'intrusività mediatica di uno come Dizzee Rascal). Reynolds avrebbe così finito per appiattire i fenomeni musicali UK - che tanto ama - sul solo versante dance-oriented, trascurando il ruolo del fattore boombap. Altro totem polemico, stavolta più implicito, potrebbe essere il Kyle Adams musicologo dell'Indiana University autore di un saggio dalla vasta eco mediatica negli USA, ripreso da quotidiani e riviste, in cui - metodologia e tabelle alla mano - ha sparato a zero sui rapper contemporanei, registrando un tracollo nell'audacia e nell'incisività delle rime sotto il profilo squisitamente ritmico e prosodico, parlando insomma di una poppizzazione del flow. Per motivi diversi allora, tanto Reynolds che Adams (e tanti altri ancora), tirano le loro freccette contro Jay-Z, personaggio ingombrante che ha attraversato tutto l'hip hop dell'era post-Notorius B.I.G.. Il mixone dice: dite bene, ma non state parlando dell'hip hop. L'hip hop non è più quello. B ackward Non bisogna commettere l'errore di prendere tutto il mainstream o l'hip hop rappato e buttarli nel cestino: il 2009 ce ne ha presentato tutte le possibili sfumature. Accanto al buco nero di gente come 50 Cent e Lil Wayne (con prove insignificanti e per questo assai indicative), abbiamo visto il ritorno di un Eminem stanchissimo e involuto, servito da basi spesso davvero brutte, capace però di un paio di zampate delle sue. Il bersagliatissimo Jay-Z ha tirato fuori un Blueprint 3 che in ambito commerciale (il feat di Rhianna, scambio di favori dai tempi di Umbrella, parla chiaro, come pure i numeri registrati dall'uomo come headliner a Glastonbury 2008) ha ben poco di che farsi rimproverare, graziato da singoli episodi ottimi, vedi la stessa Empire State of Mind (con un inciso rubato a The Scientist dei Coldplay). Così pure i Camp Lo - fosse così tutto così l'hip hop da classifica - hanno proposto la loro solita miscela, dignitosissima retroguardia funksoul-r'n'b. Arriviamo al disco di Raekwon, basi di Dilla, Pete Rock e Necro, il discorso già cambia, feat di lusso come Method Man, Busta Rhymes e altri membri del Clan, un disco fluviale 35 I Sa-Ra posano con Erykah Badu e cinematico, stra-venduto (e stra-pompato da Pitchfork e Rolling Stone), oggettivamente potentissimo. Il Wu-Tang in quanto tale è tornato con un Chamber Music dichiaratamente compilativo e interlocutorio, tra spoken e rappato, conferma del già detto in tono minore in attesa di un ritorno 2010 con un album vero e proprio. E' tornato pure il veterano Grandmaster Flash, disco celebrativo, tanti ospiti (Q-Tip, Busta, Snoop Dogg, "figli spirituali" dell'uomo), classico nelle forme, dignitoso nei risultati, giusto qualche upgrade un po' goffo. Ha esordito invece il figlioccio artistico di Kanye West, Scott Mescudi aka Kid Cudi, come era facile immaginare pompatissimo dai media USA e inzuppato nella melassa kanyewestiana, ma non del tutto disprezzabile. Cassabili i De La Soul al servizio della Nike come pure il ritorno di Dj Muggs dei Cypress Hill a nome Soul Assassins. Dizzee Rascal ha concluso la propria parabola fuori dall'underground col suo disco più pop, deludendo i critici che lo avevano esaltato quando rappresentava il nuovo di un grime ancora con un piede sottoterra, convincendo però gli ultra-scettici come noi, con tormentoni maledettamente appiccicosi come Bonkers (prodotta da Van Helden). Sempre sul piano del rappato, ma in contesti non-mainstream, grandissimo il disco di Del e Tame One, sintetizzato da un rappato marcio e da una line che è un manifesto musicale: Rap is the funk, our music is the funk. I pionieri di certo glitch-hop, gli Anti-pop Consortium, sono tornati con un disco non brutto ma negativamente normalizzato, soprattutto sotto il profilo delle basi. Il ritorno più atteso era però quello di Mos Def e ha confermato l'impressione tra lo spiazzamento e la delusione delle ultime prove, con un album ambizioso, eclettico e confuso, con solo pochi sprazzi della sua classe impareggiabile. Stesso discorso per un Doom che strombazzava il disco definitivo e invece ha tirato fuori quella che è forse la sua peggiore prova solista. Delusione pure il follow up di Scratch (ex-Roots), disco che vede il proprio motivo d'essere nel riposizionamento in territori mainstream dell'uomo. Il talentuoso Lushlife ha esordito con un disco coloratissimo e ruffiano che cercava - senza trovarlo - il melange tra elettronica indie, canzone e rapping. James Poyser a nome Rebel Yell ha azzeccato un paio di pezzoni black-pop (altro che misfit r'n'b) ma 36 non ha centrato il disco nella sua interezza. Interessante il progetto Blak Roc, e cioè i Black Keys assieme ad alcuni grandi nomi del rap radunati via Roc-A-Fella Records (la label di Jay-Z), pezzi costruiti benissimo, ma incolore davvero la performance dei due alt-rockers. Interessante P.O.S. al terzo album, rappato con foga e servito da basi che non nascondono influenze perfino punk e hard. Ottimo il ritorno dei Dälek, una prova intensa delle loro, come forse non ci si aspettava più, atmosfere magistralmente cupe e claustrofobiche, attualissimo (essendo la loro una formula che dieci anni fa era dieci anni avanti). Netto il calo di incisività e ispirazione del terzo album dei Kill The Vultures (ora ridotti a duo) e della loro formula rappato quasi punk su basi jazzate. In territori abstract/strumentali, assai promettente un Paul White all'esordio su long, un hip hop decisamente post-madlibiano, psichedelico nel senso più classico del rock Sessanta (vedi i campioni - finalmente! - di Captain Beefheart e King Crimson), con punte alte di ispirazione ancora però da mettere a fuoco. Madlibiano White, dilliano a oltranza Tim Shaw aka Exile, che con Radio (su Plug Research) ha girato con gusto la propria IDM in chiave glitch-hop/wonky minimalista. Lo stesso dicasi per le basi al servizio di Finale (Derek Cooper), esordio ottimamente rappato e prodotto da gente come Dimlite e Flying Lotus (che omaggia, ancora e sempre, Dilla). Proprio Dimlite (Dimitri Grimm), uno da tenere d'occhio in ambito glitch, ha pubblicato praticamente due soli pezzi, ma bellissimi, Quiz Tears su singolo e quella Ravemond's Young Problems su una compila minore che è stata alla base del fake Burial-Lotus. King Britt, cuore produttivo degli storici Digable Planets, è rimasto praticamente fermo, rilasciando solo un mix. Resistenze: tanto Blockhead (il produttore di Aesop Rock) quanto Dj Food e RjD2 se ne sono usciti con prove minori (gli ultimi due su EP) che ne hanno confermato la bravura, il mestiere e il gusto ancorato agli anni Novanta sullo stile Mo'Wax e Ninja Tune. Sulla scia trip-hop anche Ghost-Simon Williamson, che ha concluso la propria metamorfosi strumentale con un disco genuino ed intenso di cui hanno parlato in pochissimi. Agli antipodi per efficacia del risultato, sempre nel calderone produzioni strumentali, Edan e Oh No: il primo ha sparato una bomba ipercinetica di hip hop dance, un mixone shake yer booty che anticipa il terzo attesissimo album; il secondo, schiavo come il fratello Otis/Madlib di un nerdismo produttivo sempre più maniacale e a rischio di comunicatività se non tenuto sotto controllo, ci ha portato con pochissimo coinvolgimento in Etiopia. Il capitolo Anticon è, spiace dirlo, uno dei più deludenti. Perenne da metà 2008 l'oscillazione tra segnali di ripresa e conferma dell'empasse, specchio di un'estetica di fondo fragile e le cui sorti dipendono sempre dagli exploit dei singoli. Le prove migliori restano il giocoso e impressionista Serengeti & Polyphonic, il potentisimo crewtape a nome Themselves e la conferma della mutazione indie-pop di Why?. Interessante sulla carta, debolissimo all'ascolto, l'esperimento electronico di Buck 65 a nome Bike For Three. In ambito propriamente indie ricordiamo le ottime prove - tutte hip hop inflected - di Eric Copeland dei Black Dice (coi suoi dada-collage), Falty Dl (un ruffianissimo ma altrettanto centrato wonky) e Jookabox (che frullano l'indie con metodi e modi HH). Guillermo Scott Herren, figura chiave nel raccordo indie-hip hop-electronica, si è ancora una volta sdoppiato in Prefuse 73 (disco delle forme brevi figlio di Donuts e dei Beat Konducta, bravissimo lui nel mantenere alta la godibilità nonostante il riciclo della formula cut-hop e l'esposizione quasi didattica dei virtuosismi collagistici) e Savath & Savalas (un buon disco nella formula lo-fi & psych folk del progetto). Chiudiamo la rassegna con uno dei casi dell'anno: Nosaj Thing. Vero nome Jason Chung, ventiquattrenne californiano di origini asiatiche, ha esordito con Drift su Alpha Up proponendo un'elettronica post-dilliana - ma si direbbe addirittura post-lotusiana - fatta di riverberi e chorus fantasmatici e natalizi, interessata a tratteggiare melodie ondose e amniotiche eppure ancora sostanzialmente romantiche, con tastiere echizzate e fisarmonicizzate che sono il suo marchio di fabbrica, riconoscibili sì ma alla lunga indigeste. Salutato come nuovo grandissimo produttore, sicuramente talentuoso, questa sua prima prova ci è parsa interessante, ancora piuttosto derivativa, certamente non entusiasmante. Di afrofuturismo, glitch - hop e altre sciocchezze L'anno dei blog e dei forum da cui scaricare praticamente indisturbati tonnellate di musica (l'anno di Bolachas Gratis), l'anno di un'industria discografica ormai completamente e pubblicamente fucked up come ha dimostrato il caso Dark Night of the Soul (e più in piccolo la necessità di artisti che pure hanno fatto la storia dell'hip hop come Large Professor e Q-Tip di auto-promozionarsi e auto-prodursi per potere mettere fuori i propri lavori), l'anno di due compleanni importanti come il ventennale Warp e il primo lustro Hyperdub, il 2009 è stato l'anno della celebrazione di J Dilla: un anno aperto dalla dedica di Madlib e J Rocc nel migliore Beat Konducta mai fatto finora (su vinile già a metà 2008, su cd dai primi del 2009) e puntellato dalle tre Dillanthology della Rapster (a cui si poteva chiedere molto di più ma che 37 solutamente nei loro orizzonti e che altri artisti della stessa area stilistica, vedi la stessa Badu o gli Outkast del leggendario doppio da separati in casa, altrettanto visionari per quanto sotto forme diverse, ricercano solo per motivi - e non lo si dice con sfumatura negativa - commerciali. L'indie ha partorito uno dei migliori esempi di sempre di appropriazione di certi modi hip hop con Bibio (guardacaso su Warp), ruffiano e modaiolo quanto si vuole ma artefice di uno psychfolk - via Boards Of Canada - cuttato e wonkato con gusto e con classe. Così pure l'elettronica, con uno dei dischi dell'anno, il When Machines... di Pritchard a nome Harmonic 313, un disco di elettronica di sintesi, compatto e cesellatissimo, innamorato di Dilla e senza timore di riconoscere il debito, con due segnali inequivocabili come il feel che anima la bellissima Köln e l'ospitata del rapper Phat Kat, amico e compagno di musica di Dilla fin dal 1993. Sempre la Warp ha sfornato il disco di Hudson Mohawke, il nerd che aveva esaltato prima i cultori di Myspace e poi gli ascoltatori del suo Polyfolk Dance EP. Il long ha un po' deluso le aspettative - diciamocelo, ci si aspettava un capolavoro - ma ha comunque mostrato tutte le doti del giovane, in un regime peraltro di inspessimento dei flirt col mondo black, Un giovane Jay-Z (in alto) con amico a a partire dai feat e dal taglio di alcuni Trenton, New York (1988) pezzi, fermo restando pure l'attaccapure hanno svolto il loro sporco lavoro di storicizzazione, soprattutto sul mento alle sue radici dance/post-rave. versante delle produzioni del Dilla solista, noto ai più per il solo testamenta- Il 2009 ha visto lo split Burial/Four Tet, un bellissimo maxi-singolo con rio Donuts). E' stato il 2009 dei Sa-Ra, al secondo disco sulla lunga distanza, una mace- dentro almeno la gemma Moth, evendonia che sintetizza la black music degli ultimi trent'anni, la porta nello spazio to questo che ha smosso le fantasie e dentro ai club e la proietta nel futuro. Il 2009 di Georgia Anne Muldrow, dei più e - via dj set del Lotus a base la più interessante delle nuove leve black, conscia della propria tradizione, di remix di Archangel - ha generato il figlia legittima del cantato di Erykah Badu, bravissima tanto nel pasticciare con buzz che ha portato alla materializl'elettronica nelle produzioni per altri (compreso il compagno di vita Dud- zazione del fake Burial-Flying Lotus. ley Perkins, nell'alieno Holy Smokes) quanto nel proporre una personale Mitopoiesi che è il segnale eloquenlegnosissima miscela funksoul nei propri album solisti. Tanto ai primi che alla te della sete del pubblico di vedere seconda si può rimproverare una certa mancanza di coesione, con lavori belli all'opera, magari a quattro mani, seneppure dispersivi, ma si sbaglierebbe: chiedendo una quadratura che non è as- za pareti di cartongesso (come era 38 stato anche per il Dilla meets Madlib di Jaylib), quelli che sono forse i due produttori più importanti d'oggi. Sarebbe stata l'altra fotografia, speculare a Wind It Up, dello Zeitgeist contemporaneo. Forward Il 2009 è stato tutto questo. E certamente anche molto altro. Un anno musicalmente ricco, e dirlo ci sembra anche banale, considerando la quantità - angosciante? - di materiale che viene pubblicato mensilmente: su duecendo dischi, ce ne saranno almeno dieci degni di nota, no? In questo siamo ottimisti come 2tall e compagni. I discorsi sull'abbassamento della qualità della musica lasciano - in questo caso letteralmente - il tempo che trovano. Certo non bisogna collegare l'idea di qualità a quella di novità a tutti i costi, altrimenti basterebbe una top10 come classifica di fine d'anno. Inoltre, questo regime discografico suicida e il contesto di riferimento costituito ormai dal web, bacino illimitato di informazioni e beni d'ascolto, rendono sempre più difficile eppure sempre più necessario ed importante il lavoro di chi cerca di osservare i fenomeni musicali e porsi come mediatore, consigliatore (o meno) di dischi (più o meno) validi. Il 2010 sarà l'anno di Cosmogramma di Flying Lotus, seguito del capolavoro - glitch nella forma, blues nello spirito - Los Angeles; del debutto overground di un singer intenso e ispirato come Gonjasufi (partito dall'out-rap e arrivato ad una personalissima formula postbomb blues & soul), già al lavoro con lo stesso Lotus; dell'alluvione mensile del Medicine Show di Madlib (grande assente 2009, evidentemente tutto concentrato a imbastire il progetto), già cominciata e proprio all'insegna di un grande ritorno al marciume rap; di nuove produzioni per Bibio, Hudson Mohawke e Mark Pritchard (col suo Mark Pritchard/Harmonic 313 Stephen Wilkinson, meglio conosciuto come Bibio progetto super-ragga Afrika HiTech). Sarà l'anno - finalmente - del rinviatissimo vero e proprio primo album dei Sa-Ra, Black Fuzz, non più "Creative Partners", e del debutto solista di Om'Mas Keith, titolo Pulse City. L'anno del ritorno dei fondamentali Outkast con un doppio album e con un album solista a testa; del ritorno del progetto Nuova America di Erykah Badu, il cui primo capitolo era stato uno dei primi fortissimi segnali di sintesi di quanto stava succedendo ma, soprattutto, un disco con la portata immediata del classico moderno. [Grazie a Marco "Wolf" Iacono] 39 Recensioni AA. VV. - Stroke: Songs for Chris Knox (Merge, Febbraio 2010) G enere : indie rock L’undici luglio 2009 non fu un giorno normale per Chris Knox: niente strumenti da imbracciare per lui, nel letto dell’ospedale di Auckland in cui faceva i conti coi postumi di un infarto. Dal quale si sta però rimettendo e meno male che continuerà a far musica, avendone sin qui composta di notevole e perfino geniale. Lo attesta la trentina abbondante di cover contenute in questo tributo - dal titolo che è sfoggio di humour nero volto a sdrammatizzare - i proventi del quale aiuteranno il Nostro economicamente. In circolazione da tre decenni l’artista neozelandese, da solo e alla guida dei suoi Tall Dwarfs che pervicacemente sfuggono a ogni catalogazione (“post-folk rock” potrebbe dare una vaga idea…) e, va da sé, pure alle classifiche di vendita. Poco male, in fondo, considerando la produzione copiosa ma di caratura così elevata da riunire nomi illustri dell’aristocrazia indie americana e non solo. Se tra i numerosi connazionali sfilano infatti nomi classici in gran forma (Chills e Bats, Verlaines e i fratelli Kilgour dei Clean) a fianco di giovani parecchio convincenti, spetta alla varietà della scrittura fungere da prezioso collante. Senza far torto a nessuno, segnaliamo sul mai meno che buono resto le interpretazioni soffuse di Yo La Tengo, Bonnie ‘Prince’ Billy e Lambchop; la passione di Boh Runga e dei Mountain Goats; l’ironia lieve di Stehpin Merritt, Lou Barlow e del povero Jay Reatard. Fate del bene a Chris e a voi stessi mettendovi in casa queste due ore che scorrono in un lampo. Meglio ancora se venendo a sapere così dell’esistenza di songwriter talentuoso e, suo malgrado, poco conosciuto.(7.4/10) Giancarlo Turra AA. VV./Gui Boratto - Renaissance: The Mix Collection (Renaissance, Febbraio 2010) G enere : deep house Gui è con noi ancora una volta, in gran spolvero sul palco succosissimo della Renaissance. Cose chic come solo lui ci ha abituato. Il suo è il mix del vecchio drago che 40 — cd&lp spalma la serata in modo sinuoso, ti avvolge i neuroni con quella deep sexy che solo la combriccola più scafata può ancora osare. I nomi: Paul Kalkbrenner nell'ascesi mistica che è Azure, il sorriso di Gabriel Ananda in Schnee, il remix di John Tejada per lo stesso Gui in Take My Breath Away, lo sporcarsi nell’acidità di Bomb The Bass (The Infinites), la classe uber minimal di Mathew Johnson (When Love Feels Like Crying), il remix di Anja Schneider per Kiki (Immortal). In solitaria poi con gli inni e le cavalcate, tanto per rinfrescare la memoria. Lui è il melò sui polpastrelli di Jori Hulkkonen da spasmo lacrimoso (Telecaster), il remix semibalearico un po’ pastigliato per Robert Babicz (Astor), la spanciata à la Andy Stott (Trills) e la plasticità sparata in endovena filtered (The Glam). Se non avete mai sentito la parola deep, è il momento di confessarsi da Gui. Due cd meglio di tante ave marie. Credeteci. Sapientissimo e profetizzante Boratto. Due ore da panico, sull’orlo della perfezione. Primo mix da podio del 2010.(7.3/10) Marco Braggion AA. VV./Seth Troxler - Boogybytes Vol. 5 (BPitch Control, Febbraio 2010) G enere : deep house Anche se non fa parte della grade famiglia BPitch, Troxler lavora all’Alte Borse di Zurigo con Ryan Crosson e Shaun Reeves ed è pure resident al Weekend Club berlinese. I due colleghi gli hanno fatto conoscere la manager dell’etichetta Ellen Aillen, che gli ha prontamente chiesto un mix per la nota serie. Il ragazzo ha avuto quindi un po’ di tempo per mettere a punto una visione personale della città tedesca, capitale del ritmo mitteleuropeo house. Il mix inizia con uno spoken word che ricorda il disco di Terre Thaemliz dello scorso anno: una specie di recitativo su una base ambient che non è house ma la richiama lentamente. Un percorso che sale e crea delle aspettative con nomi-bomba del calibro di Luciano, Kiki, Dinky e Fever Ray. La crema di un certo sentire deep che ultimamente genera un caleidoscopio fecondo highlight Blessure Grave - Judged By Twelve, Carried By Six (Release The Bats, Febbraio 2010) G enere : G oth Nell’ora (già tarda?) di Myspace, i Blessure Grave sono senza dubbio tra i campioni della comunicazione contraddittoria. Non si contano le uscite annunciate e mai realizzate. Tuttavia alcune chicche già ci sono note, come Stop Breathing coi suoi singhiozzi spezzati, e la lullaby In the First Place già apparsa sottoforma di singolo per la milanese Holidays. Judged By Twelve, Carried By Six, survival album e best of dei due darkettoni, include quest'ultime aggiungendo una manciata di inediti che vanno dalla teatralità decadente di In My Mind alle marcette apocalittiche di Echo e A Thousand Drums, giù fino a Open Or Shut, la cui labirintica claustrofobia si ritrova pari pari nel video appositamente girato. C'è praticamente tutto tranne l’eccellente singolo Making The Death Beds For Teenage Vampires (stampato da poco e giustamente assente) e alla fine a prevalere è una mestizia compiaciuta al cui confronto l’intimità del Blank Dogs più cupo sembra solo una lieve depressione. Lo struggente appeal pop, poi, induce a tornare sul luogo del delitto reiteratamente, come una morbosa fantasia che non lascia scampo. Da segnalare infine la duplice pubblicazione, in vinile per l’impeccabile Release The Bats ed in Cd per la canadese Alien8, con artwork diverso e bonus tracks prese dell’EP Learn To Love The Rope. (7.2/10) Andrea Napoli di intersezioni tra mondi diversi: ambient e house si fondono in un qualcosa di caldo e ascoltabile senza dover assumere troppi cocktail. Non sarà la nuova IDM, ma il giovane che ha iniziato la sua carriera a Detroit, e che oggi getta un ponte tra le due coste dell’oceano, crea un trip stiloso degno del gotha house mondiale. Benvenuto Seth.(7.2/10) Marco Braggion AA.VV. - Noise vs. Subversive Computing (Computationally Infeasible, Dicembre 2009) G enere : N oise /H acktivism Prima release per la Computionally Infeasible Records del danese Pascal Creatin - che con Noise vs. Subversive Computing si propone di creare un ponte tra il mondo del Hacking e quello del rumore. Il formato è quello insolito dello stick USB. All'interno due cartelle che identificano gli ambiti d'azione: nella prima dieci cyber-attivisti forniscono files eseguibili, applicazioni Java, e persino una patch Pure Data - il popolare software audio. Nella seconda dieci musicisti forniscono la loro interpretazione di Subversive Computing, mediante produzioni che vanno dal Drone alla Power Electronic e all'8bit. Spiccano i nomi di Family Battle Snake (da Berlino, vanta collaborazioni con Chris Corsano, Stellar OM Source...), con una suite pulsante di synth e noinput mixer; il sound artist Francisco Lòpez, con una meticolosa distribuzione spazio/temporale di glitches; e Hellboy106 con le sue sinestesie audio/immagine. Frequentazioni nerd in ambiti musicali non sono una novità, ad esempio la Demoscene in cui gli esponenti 41 firmano con musica e video le distribuzioni di software crakkati. Del resto la memoria portatile con il pacchetto completo è un bello sfizio da togliersi. Oltre a rappresentare la propagine fisica di un mondo perennemente immateriale.(7/10) Leonardo Amico Adrian Younge - Black Dynamite (Original Motion Picture Score) (Wax Poetics, Ottobre 2009) G enere : clonazione bl axploitation Un paio di mesi fa uno dei nostri "pusher" di fiducia ci passa il trailer di un film chiamato Black Dynamite. Goduria: è una parodia coi controfiocchi della blaxploitation. La trama: 1972, un ex-agente della CIA decide di tornare in pista per fermare la mafia che gli ha ammazzato il fratello, imbottisce i poveri orfani di eroina e innaffia le strade con alcol di terza scelta. Non vediamo l'ora di beccare la colonna sonora. Ed eccola qui. Se il film è a tratti surreale, a tratti addirittura demenziale, per quanto perfettamente impaginato, lo score rappresenta il lato serio della faccenda, della parodia resta solo l'omaggio, opera di un Adrian "AJ" Younge (produttore e polistrumentista trentaduenne vicino agli ambienti dei Sa-Ra, qui alla seconda soundtrack) appassionato cultore della black music anni Settanta, bravissimo nell'immergere l'ascoltatore in un denso e atmosferico funksoul, in quell'immaginario blax che fu di film come Sweet Sweetback's Baadasssss Song di Melvin Van Peebles (idolo di Madlib), Shaft (da cui il celebre pezzo di Isaac Hayes) e Superfly (da cui il capolavoro di Curtis Mayfield). Un immaginario street, unto, fumoso e sgangherato, popolato da pimp, hooker, pusher (quelli veri) e gangster. I picchi sono nel pathos di pezzi come Shine e Jimmy's Dead e in strumentali croccanti come Rafelli Chase (già singolo-promo). Un'operazione - quella del disco - che gronda passione da tutti i solchi, ed è tutto grasso che cola. Il film è stato presentato al Sundance 2009, girato dal registra televisivo Scott Sanders, starring l'atletico Michael Jai White (Spawn), con una serie di camei centratissimi come quelli di Arsenio Hall e - nientemeno - Ahmir "Questlove" Thompson dei Roots. Goduria.(7.4/10) Gabriele Marino Amon - Red Blue Led (Black) (MoodMorning, Dicembre 2009) G enere : funk / downtempo Il collettivo bresciano Personaggi Scomodi/MoodMorning inaugura il 2010 con tre free download dal sito 42 ufficiale, due dischi di rapping e uno di produzioni strumentali. Quest'ultimo, Red Blu Led (Black) di Amon (Nicola Micheletti da Trento, classe '82), prima parte di una programmata trilogia sulle "musiche del cuore", è un disco di funk solare e colorato (trascinante nella bellissima Blaster Jackson) misto a downtempo e ricordi trip-hop anni Novanta (Liquid Soap).Tanti fiati, qualche scratch e tastiere elettriche jazzy (fino al cocktail lounge di My Funny Guy) che dichiarano un evidente amore per il Madlib di Sound Directions & dintorni (l'uomo è citato esplicitamente con un campione vocale a fine disco). Produzioni asciutte e compatte, rischia poco e tira dritto sul funk e sui beat quadrati, sconta un po' di ripetitività, ma l'ascolto è piacevolissimo.(6.8/10) Gabriele Marino Andrea Tich - Siamo nati vegetali (Snowdonia, Febbraio 2010) G enere : songwriting Siamo nati vegetali è l’album del ritorno di Andrea Tich, autore di Masturbati, disco di culto uscito nel 1978 per la prestigiosa Cramps e prodotto da Claudio Rocchi. Tich in realtà la musica non l’aveva mai lasciata, avendo lavorato negli anni a vari progetti (pubblicità, colonne sonore, elettronica) e collaborazioni, come quella con Maurizio Marsico. L’esordio, in netto anticipo sui tempi, e dalle alterne fortune, portava con sé un discorso musical poetico “di rottura” per i tempi, riguardo musica e testi, con influssi del Frank Zappa più deviato e psych, nume tutelare del Nostro, insieme a tutte le sperimentazioni dei 70 nell’ambito del pop italiano. Siamo nati vegetali continua quel discorso e insieme costituisce un compendio compiuto della musica fatta finora dal musicista siciliano; il disco è stato realizzato con l’aiuto del fido Claudio Panariello, utilizzando anche vecchie registrazioni restaurate - come svela l’autore - sulle quali sono state operate alcune sovraincisioni vocali e strumentali. L’album mescola canzone d’autore ed elettronica, richiamando il Franco Battiato inizi ’70 (versante musica cosmica tedesca); si accompagna a testi sempre molto acuti e liberi, tra associazioni per immagini, riflessioni di vita vissuta e rielaborazioni, accompagnate da sonorità eteree ma al tempo stesso concrete, in cui la melodia è piuttosto presente. Una concezione di “musica to- tale”, quindi, che è la chiave di lettura di tutto il lavoro, sia quando si rifà al passato rielaborando prog e pop, che quando si distende in ritmiche un po’ più accentuate che sanno di electropop. Qua e là si avvertono richiami di quel cantautorato già citato, da Alberto Camerini a Ivan Cattaneo e al passato recente di uno come Bugo, che ci sembra aver preso da quelle matrici. Andrea Tich rimane quindi ancora oggi artista inclassificabile e di frontiera più che mai e per questo piuttosto affascinante, fra naiveté congenita ed esagerazione, sfiorando a tratti un kitsch sublime. Un bel ritorno.(7.3/10) Teresa Greco Archie Bronson Outfit - Coconut (Domino, Marzo 2010) G enere : heavy psych - pop Non se ne sentiva la mancanza, degli ABO. Quattro anni fa ci lasciarono con Derdang Derdang, deludente nella sua inefficace ricerca di un suono “groovy ma duro” e ora ci riprovano con l’ausilio dall’ormai ex DFA Tim Goldsworthy. L'obbiettivo è a portata di mano tanto che Coconut riesce a riconciliarci col trio. L’humus è sempre quello heavy-psych-rock di stampo british, pesantemente distorto ma sempre orecchiabile e melodico; al terzo giro di ruota, però, il terzetto inietta una grossa dose di energia circolare dancefloor-oriented ed una attitudine ancor più furiosamente free. Ne esce un disco eterogeneo, divagante in rimandi e influenze, scostante e umorale, sicuramente non messo del tutto a fuoco, eppure convincente in tracce tipo Hoola: calura da spiagge sintetiche, beat italo-disco a cassa dritta, chitarra rapturiana e voce alla Robert Smith sviante come poche. Oppure nell’hard boogie’n’roll indemoniato, tutto riverberi in overdrive e sconquassi ritmici di You Have A Right To A Mountain Life. O ancora in Chunk (scheletrico procedere talkingheadsiano), Wild Strawberrys (stomp psychotico e selvaggio), Bite It & Believe It (ipotesi di J&MC narcolettici nati nel Texashire), Harness (Bliss) (modulazioni di synth per una ossessiva cavalcata space-rock alla Loop). Tanta, insomma, la carne al fuoco e scarsa la coesione interna, ma al netto di queste ovviabili pecche abbiamo un disco potente, rumoroso e senza freni. Non eclatante ma soddisfacente.(6.5/10) Stefano Pifferi Autechre - Oversteps (Warp Records, Marzo 2010) G enere : IDM Dopo il ritorno a casa chiamato Quaristice, e il solo apparente avvicinamento all'attualità elettronica a base di step di quel lavoro, gli Autechre continuano gli esperimenti retrologici verso l'approfondimento di rivoli elettro già percorsi durante i Novanta. E' il caso dei gamelan e di certi tagli organici che ben si erano sposati a sinfonismi in odor di Popol Vuh in LP 5, aspetti che ritornano ricolmi di maniera e attenzione ai dettagli, segni definitivi di una storicizzazione già iniziata con Draft 7.30 e consacrata dal disinteresse per le vie più ostiche della freejazz-tronica di Gantz Graf culminate in Untilted. E se la lezione da professorini di Quaristice era tollerabile come parentesi, in Oversteps il "nuovo" suono oltre se stessi che da sempre li caratterizza è presente nella sola Known(1). Ottimi i singulti del teatro No, trasfigurati nei guizzi di un synth ultra pitch-ato, dell'unico brano intrigante di una raccolta a tema orientale dove a prevalere troviamo eleganza (in qplay ancora marzialità e suono spezzato samurai), costellazioni ambientroniche (See On See), nitore estatico, gamelan digitale e un cyber zen diffuso e noioso (Os Veix3). Origami fatti e rifatti dieci anni fa quando i tempi erano quelli giusti. Oggi il minimo era pretendere almeno tre brani da ricordare. Ne abbiamo uno. Troppo poco.(5/10) Edoardo Bridda Ballaké Sissoko/Vincent Segal - Chamber Music (Ponderosa, Ottobre 2009) G enere : world music Dopo il disco a quattro mani con Ludovico Einaudi, Ballaké Sissoko torna ad incrociare la propria kora con un musicista di ferma tradizione europea come il violoncellista francese Vincent Segal, anch'egli abituato a collaborazioni extragenere (Elvis Costello, Cesaria Evora, Carlinhos Brown). I due si sono ritrovati lo scorso maggio a Bamako, in Mali, e nel corso di tre notti hanno registrato queste dieci tracce, sorta di sigillo ad una serie di esibizioni insieme in vari festival qua e là per il globo terrestre. 
Diciamolo subito: Chamber Music è un disco imperdibile. Qui Sissoko, griot di tradizione mandinga, non adagia il suono celestiale del suo strumento sulle facilità nymaniane del lavoro con Einaudi perché semplicemente Segal non glielo permette e fa tutt'altro, tanto che solo “Ma-Ma” FC può essere rimandata alla ruffianeria cinematica del pianista nostrano, mentre il resto viaggia 43 su ben altri lidi. Facendo infatti attenzione il riferimento principale è a certo fingerpicking chitarristico in odore di raga, alla John Fahey per intenderci, ma soprattutto alla Jack Rose. Kora e cello a turno imbastiscono cellule sonore ripetute ad libitum, spesso sottovoce, dalle quali si generano le più molteplici variazioni. Scanalature ritmiche mai troppo forti, bordoni bassi e brevilinei e scorrimenti carsici che emergono improvvisi e potenti da parte di Segal. Lucori assortiti più o meno in filigrana per Sissoko, che dei due lavora maggiormente nella direzione rosiana. A ciò si aggiungo di volta in volta deviazioni sorprendenti, come quella verso un Bassekou Kouyate quantomai evocativo degli otto splendidi minuti di Houdesti (con ngoni e balafon ad arricchire le dinamiche della coppia di cordosità e acqua), brano che basandosi su un refrain immalinconito tipo folk europeo piacerebbe sicuramente però anche a Matt Elliott. Cosa che vale anche per l'elegiaca Histoire de Molly, dove il cello fa quello che farebbe con la voce un Bonnie "Prince" Billy per caso di passaggio da Bamako. Mentre proprio una voce, della cantante Awa Sangho, viene ospitata in Regret-à Kader Barry, dove è sempre il cello a spuntare con sinuosità da giga irlandese. Ma elenchi di referenze a parte, quello che più di tutto sorprende di questo disco è la capacità che i due hanno di dialogare tra loro. Sia quando procedono per botta e risposta, sia quando si inoltrano su controcanti coloristici mai banali, sia infine quando giocano a scambiarsi le parti, Sissoko e Segal dimostrano di aver saputo instaurare un vero e proprio discorso musicale che non ammette corto circuiti comunicativi. Un discorso fatto di parole semplici, a volte proprio immediate, da cui però viene spremuta tutta l'essenza, in un incontro che è tanto di tecnica quanto di comunione d'anime e intenti.(8/10) Luca Barachetti Band Of Skulls - Baby Darling Doll Face Honey (Shangri-La Records, Gennaio 2010) G enere : garage blues Tre giovani servi della Regina. Da Southampton per la precisione. Chitarra, basso e batteria con parti vocali divise fra lei (basso) e lui (chitarra). Se poi riuscite a distinguere la voce del lungo crinito Russel Mursden da quella di Jack White, significa che siete tipi da Sarabanda dell’indie rock. 44 La loro, diciamolo, è una formula di cui negli anni Zero si è abusato. Il "garage-blues-selvaggio-ma-un-po’-ruffiano" è un sottogenere che nell’ultimo decennio ha elargito qualche avara soddisfazione a fronte di innumerevoli barzellette: mi vengono in mente i Von Bondies e le loro frangette, ma si potrebbero tirare in ballo esempi ben più imbarazzanti. Il trio in questione giunge indubbiamente fuori tempo massimo e, come se non bastasse, si avvale di alcune delle più odiose derive del marketing, tipo la sponsorizzazione di iTunes, presso cui l’album è uscito da circa un anno, e l'ospitata nella colonna sonora del nuovo capitolo di Twilight. Basterebbe questo a renderli invisi al lettore medio di SA. Eppure questo Baby Darling Doll Face Honey è un calibratissimo susseguirsi di “guilty pleasures” a cui è difficile opporre resistenza. Certo, ha il peso specifico di una molecola di elio, ma fa il suo sporco lavoro quando cala i carichi di Death By Diamonds and Pearls (stomp blues anthemico per feroci headbanging) e I Know What I Am (dove l’hard rock incontra il country più bifolco). Quando è Emma Richards a guidare le danze, emerge quella sensualità esplicita che ha fatto la fortuna di Alison Mosshart e dei suoi Kills, anche se i Band Of Skulls ne rappresentano una versione meno artsy e più concreta. Peccato per qualche lento di troppo che abbassa la potenza media del disco, perché a conti fatti i tre inglesi rappresentano un diversivo ideale per chi pensa che i White Stripes siano la cosa più bella accaduta al rock negli ultimi quindici anni.(6/10) Diego Ballani Ben Frost - By The Throat (Bedroom Community, Gennaio 2010) G enere : elettronica Doveroso ripescaggio per un disco uscito in sordina a fine 2009 e di cui ultimamente si è tornato a parlare per la release in vinile approntata da Bedroom Community. Ben Frost è un vero e proprio signore dei ghiacci e con un cognome come quello, da lui non ti aspetteresti certo folk gentile di Britannia, però è pur vero che le premesse di Steel Wound, quelle di un’ambient tormentata e cupissima, non lasciavano supporre un approdo così crudo e abrasivo. By The Throat è un lavoro che ti prende alla gola perché carico di un’elettronica aggressiva nello stile dei Pan Sonic più ruvidi. Tutto molto efficace ma anche molto adolescenziale nella sua totale assenza di toni grigi intermedi. Per non parlare poi di certe trovate, come l’ululato campionato dei lupi della steppa o le voci trattate che arrivano dall’abisso nelle due parti di Peter Venkman (che highlight Calibro 35 - Ritornano Quelli Di... Calibro 35 (Ghost Records, Febbraio 2010) G enere : funky - rock Arrivata alla seconda prova l'archeologia creativa dei Calibro 35 (Enrico Gabrielli, Massimo Martellotta, Fabio Rondanini, Luca Cavina e Tommaso Colliva) non cambia le carte in tavola, semmai le definisce con più precisione, volgendo lo sguardo verso nuove influenze e scelte, inevitabili viste le premesse e l'ottima risposta avuta dall'omonimo esordio. 
Ok il solito funky scuro e dinoccolato, a tratti ormonale; ok certe marchiature jazz-blues di chitarre e fiati; ok l'estro giocoso e ricombinatorio di matrice prog, seppur senza eccessi. Ma ora anche un'autorialità che si fa maggioritaria (otto su tredici i brani autografi) - definendo il gruppo come band vera e propria - mischiata al solito recupero di brani da soundtrack b-movie più o meno conosciute (Gianni Ferrio, Ennio Morricone, Piero Umiliani, Ritz Ortolani), come sempre scarnificati, nutriti di tiro e inspessiti in elettricità senza remore e senza pudore; tracce che degli inediti sono i padri putativi, ovviamente di figli all'altezza. 
 E se oggi l'orizzonte sonoro chiama a raccolta il sudore di fiati Motown (Eurocrime!, la poderosa Piombo in bocca) e una psichedelìa trattenuta ma caratterizzante, in ipnosi di hammond settantiane (Sospesi nel traffico) o wha-wha fluorescenti (Gentilsesso e brutali delitti) - come un Morricone ad arrangiare i Doors o a lasciare liberi i primi timidi segnali di nottate passate coi Flaming Lips in cuffia - è perché la musica dei Calibro 35 sa lasciarsi scavalcare dal passato per rubarne lo slancio mentre annusa il presente.Vedasi il recupero più interessante della tracklist, una Milano odia: la polizia non può sparare ingrezzata tra White Stripes e Led Zeppelin, con krautismi cadenzati in fondo. Mira perfetta, invincibili nell'inseguimento: meglio averli come amici che nemici questi cinque.(7.4/10) Luca Barachetti si…era il nome di uno degli acchiappafantasmi…). C’è un forte senso di apocalisse, di fine, ma in una maniera molto romantica e idealizzata. I toni sono più dark del dark e composizioni tenebrose come Through The Glass Of The Roof e Through The Roof Of Your Mouth suonano assolutamente convincenti nella loro messinscena elettro-teatrale. Questo è il disco giusto per convincere i giovani emo-fan dei Tokyo Hotel a passare a qualcosa di più sostanzioso, una volta che anche loro avranno fatto lo sviluppo.(7/10) Antonello Comunale Besnard Lakes (The) - The Besnard Lakes Are The Roaring Night (Jagjaguwar, Marzo 2010) G enere : powerpop , shoegaze Per il terzo album il collettivo dei canadesi The Besnard Lakes rimarca la matrice powerpop e shoegaze contenuta nel suo DNA e già in parte presente nel precedente The Besnard Lakes Are The Dark Horse. The Besnard Lakes Are The Roaring Night è un concept che vede la coppia Olga Goreas e Jace Lasek in un viaggio immaginifico molto anni 70, stracolmo di suggestioni che vanno dallo space rock di Alan Parsons Project ai classici E.L.O., da armonie Beach Boys o meglio Dennis Wilson fino all’acid rock e psych dei loro numi tutelari Led Zeppelin, lambendo poi classici territori shoegaze/dreampop inglesi, e richiamando in alcuni episodi i Low. Pezzi abbastanza lunghi e talvolta non bilanciati e in generale un senso di incompiutezza e stereotipia non impressionano favorevolmente. Si avverte qua e là una certa insistita calligraficità, nonostante gli sforzi compiuti. Alla prossima.(6.5/10) Teresa Greco Betzy - Romancing The Bone (Lady Lovely, Febbraio 2010) G enere : rock Fabio Cussigh torna a casa dalla Grande Mela e porta con sé un'idea meravigliosa. Anzi, se preferite, un'amica immaginaria. La chiama Betzy, e coi buoni uffici del pro45 ducer e musicista Ru Catania diventa un progetto e infine un disco, questo Romancing The Bone che respira la NY respirata. O meglio, è tutto un trasudare - non so se più teatrale o posticcio (forse entrambe le cose) le suggestioni maturate nei giorni passati a calpestare quegli stessi marciapiedi che un tempo ospitavano i riflessi formidabili e desolati dei cavalieri elettrici d'Albione. Un nome su tutti, e definitivo: Lou Reed quale buco nero estetico, poetico, formale. Qualcosa cui inevitabilmente tendere. Ne esce così una collezione d'appunti diaristico/letterari al sapor di post-post-glam, d'uno slackerismo ruspante e disinvolto, riconducibile più che al capostipite Beck a certe protervie generose d'un Mark Everett cazzone (sentitevi Suze K). Ma appunto è al Lou di velluto glitterizzato che soprattutto si guarda, come in quella Night Jersey che è una delle milioni di schegge vaganti di Transformer, o come nel malanimo svenevole di Don't Shit On My Rainbow, o ancora nelle fregole mitteleuropee di Goldfinger. Detto che ravvivano il menu certi guizzi Jon Spencer (lo sferragliare bluesy ed i gorgoglii sintetici di Sisters Are Better) ed un vago frikkettonismo Devendra Banhart (l'esotismo fifties di Little Student, il trasporto errebì di Just A Call), resta da capire dove finisca l'atteggiamento e dove inizi la sostanza. E quanto conti questa linea di confine, se conta, se esiste. Presumo di sì. Forse.(6.7/10) Stefano Solventi Big Sexy Noise - Big Sexy Noise (Sartorial Records, Novembre 2009) G enere : hard - rock Riff e basso corposi, hard-blues melmoso, con tutti i crismi, e Lydia Lunch/Lydia Koch a nome Big Sexy Noise. Ciò che è, e che vive per quello che non è più, con una supposta urgenza creativa che discende dall’uso del codice più emblematico del suono rock - e della parabola attempata e consumata. Troppa carne che brucia per usare indifferenza nei confronti di Big Sexy Noise: tra l’approccio che lascia correre e quello che non lascia passare, scegliamo di prendere la seconda posizione. Certo, ci sarebbe anche l’esaltazione, come atteggiamento possibile, un inchino al mito e alla diva, e al suo sistema che, invecchiando, non può che propendere per il vecchio linguaggio del grasso rock and roll, fuori da ogni avanguardia e da ogni invenzione, dentro al codi46 ce, appunto. E così si finirebbe per giustificare il sax che punteggia, messo così, come puro ornamento/memorandum, un automatismo arretrato, che vede una beniamina citarsi in qualche modo addosso (e, nello specifico, Terry Edwards non poter fare altro che mimare James Chance), cedere alle ovvietà d'antan. Sarebbero bastati un paio di numeri come Bad For Bobby, per tornare sopra, e classificare il tutto come un tradizionalismo fatto bene, sostenuto dalla raucedine declamata di Lydia, che però, nel giro di una tornata di ascolto, diventa sempre più il piedistallo che o si magnifica o si finisce per digerire poco. Una voce che invece, crediamo, dia il suo meglio quando “canta”, più iguanesca dell’iguana, in un pezzo ultra Stooges-iano e davvero ardente (Your Love Don't Pay My Rent), dove finalmente si sentono - come nella finale Doughboy - i Gallon Drunk, presenti al completo ad accompagnare la Lunch. Momento esaltante epperò, purtroppo, isolato.(5.5/10) highlight Gonjasufi - A Sufi And A Killer (Warp Records, Marzo 2010) G enere : psych / post - hop L'Europa non si è mai tirata indietro nel dare il proprio contributo alla causa del nuovo dopopunk. Agent Side Grinder, Cheveu e il debutto sulla lunga distanza dei Black Bug ne sono la riprova. Il duo svedese, dopo gli usuali singoli apripista, rilascia quindici pezzi brevi (quasi tutti sotto di due minuti) furiosi come non mai. Un assalto frontale a base di synth ultra distorti, voci femminili sguaiate (Beating Your Heart Out, Sra) e feroci intermezzi strumentali (Mental Ray, Untergang). Il parallelo con i primi Digital Leather o Lost Sounds sorge spesso spontaneo, ma è la brutalità spinta a caratterizzare l'esordio. Efferatezze come Razorface e Run giungono del tutto nuove e tramortiscono senza indugi. (7/10) Apre inequivocabile evocando fantasmi di canti e tamburi pellerossa e prosegue con una preghiera agli antenati protettori il disco dell'emersione dopo anni di anonimato carbonaro del misterioso Gonjasufi, vocalist intenso e carismatico che avevamo scoperto tra i solchi di Testament di Flying Lotus. Un disco che spiega alla maniera degli antichi, senza troppe teorizzazioni e con tanti esempi, come la musica sia una sola e i generi le facce dello stesso cubo di Rubik. La musica di Gonja è molteplice e unica, è hip hop («profondo, spirituale e complesso», parola di Steve Hackett), è soul (la pasta della voce che la anima, l’immaginario ad un tempo carnale e trascendente di cui è intrisa), è blues (nella forma, nell’essenza, non nelle forme). E’ soprattutto psichedelica, un trip rallentato dalla ganja, allucinato dal pejote del Mojave. Le basi di Gaslamp Killer sono schegge - brevi, ruvide, compatte - che limitano al massimo i collagismi e si preoccupano di fornire la versione Sufi di riferimenti che vanno dal rock Sessanta, al funksoul, a suggestioni etniche (Messico, India) e da colonna sonora (western), all'elettronica (il wonky polveroso e amniotico di Ancestors, prodotta da Flying Lotus; il bleep-reggae giocattoloso di Holidays, prodotta da Mainframe), imponendo su tutto però come una patina grezza, slacker e lo-fi, e allo stesso tempo tenendo d’occhio la melodia, mantenendo costante una godibilità davvero alla portata di tutti. Tutto questo senza perdere un’oncia di personalità e riconoscibilità. Perché la somma delle parti non fa il tutto e quel di più che sfugge è proprio Gonja con la sua voce, un falsetto ruvido e dalle mille sfumature, capace di arrancare poesiole naïf, di sbraitare come Tom Waits e di farsi poi sottile e sussurrare languidi lounge per tramonti su Mururoa: I wish I was a sheep / Instead of a lion... Singoli episodi eccezionali, un effetto finale e globale semplicemente esaltante. A Sufi And A Killer è un disco lungamente meditato, lentamente costruito, che esce all'alba di un decennio che si lascia alle spalle la scoperta del meticciato totale come via espressiva privilegiata. Gonja è un meticcio e questo disco rappresenta perfettamente l'idea di una musica meravigliosamente contraddittoria e animata da tensioni opposte (come può essere la musica di un ex-rapper che vive a Las Vegas e insegna Yoga), ancorata ad un’idea sincretica e tutta personale di tradizione (e forse proprio per questo capace di proiettarsi nel futuro), una musica insomma perfettamente contemporanea. Ma al di là dei caratteri che ne possono fare un classico della contaminazione e dell’estetica post-, questo disco colpisce cuore e cervello perché va oltre: metabolizza le suggestioni di cui si nutre, le fa sue, e presenta al mondo - in un modo ad un tempo profondo e leggero - una nuova grande sfuggente personalità artistica. Un disco importante ma soprattutto bellissimo, il primo grande disco del 2010.(8/10) Andrea Napoli Gabriele Marino Gaspare Caliri Black Bug (The) - The Black Bug (FDH, Febbraio 2010) G enere : S ynth P unk Bomb The Bass - Back To Light (!K7, Marzo 2010) G enere : techno Dalla sua, Tim Simenon in arte Bomb The Bass ha sempre maneggiato una certa eleganza populista. Materia che in mano ad altri sarebbe melassa commerciale della più becera, tra le sue diventava, se non proprio oro (tranne che ai tempi di Beat Dis, ovviamente), almeno una felice coabitazione tra mestiere e intelligenza. Tim è britannico e l’orientamento pop, da quelle parti, è una questione di DNA e di conseguenza non cancellabile. Di certo non ha perso la faccia come tanti altri, e pazienza se - dopo una pausa quasi decennale - nel 2008 Future Chaos non fece gridare al miracolo. Non poteva, così come non può nemmeno questa replica concepita - ma è impossibile accorgersene - durante un soggiorno in Brasile in combutta con Gui Boratto e piazzando al microfono una serie di ospiti. Per la semplice ragione che offre canzoni di stampo elettronico, sospese tra il riscaldamento del dancefloor e una cantabilità da aperitivo cittadino, che trasportano formalismi Depeche Mode nell’odierna “club culture”, ma senza quadrare il cerchio che di tanto in tanto (certe agitazioni sparse su Start e il martello malinconico Prince On Your Head; l’ancheggiare sexy ma leggiadro di Up The Mountain e una perla ambientale - da Screamadelica ammodernato - come la conclusiva Milakia: a chiudere il cerchio, canta Martin Gore…). Altrove stiracchia le idee, si pianta a metà salita (esemplari gli LCD Soundsystem spruzzati di caramello italo-pop in Boy Girl) o sfonda la barriera del buon gusto (Burn Less Brighter è roba da Planet Funk ed è tarlo che 47 ricompare). Il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno e pertanto regolatevi, sapendo che quanto vi è di bevibile ha buon sapore.(6.5/10) godibilità videoludica e pinocchiesca a mancare è la zampata ruspante di un idiota come Bogdan Raczynski. Torna cattivo jenk... (5/10) Giancarlo Turra Edoardo Bridda Carryall - Emotivhate (Maninalto, Marzo 2010) G enere : punk - ska Chapelier Fou - Scandale! e.p. (Ici d'ailleurs, Febbraio 2010) G enere : chambertronica Di formazioni punk melodiche come i Carryall è pieno il mondo. Musicisti tecnicamente impeccabili, pieni di vigore post-adolescenziale, affezionati allo stop & go fulmineo di scuola Green Day. Una musicalità disimpegnata che nulla ha a che vedere con le (apparenti) istanze nichiliste dei Sex Pistols o la versatilità degli Stranglers, le chitarre elettriche politicizzate degli Stiff Little Fingers o le pose drogate dei Ramones. Punk da scuola superiore, insomma, da college radio americana, da gite scolastiche e feste di fine anno: un contesto in cui è facile prendersi sul serio ma ancor più facile è rischiare di aver poco di interessante da dire. I Nostri provano a darsi un tono rubando qualcosina allo ska e mettendo in mostra una sezione fiati costantemente in tiro, ma non riescono ad andare oltre un recupero di modelli formali che sa inevitabilmente di naftalina. Evitando la maniera solo nella cover di What A Feeling.(5/10) Dalla sua questo giovane francese ha un benvenuto senso dell’ironia e un gusto per la giocondità rari nell’ambito in cui agisce. Tra elettronica d’avanguardia e tentazioni filo-classiche, infatti, il rischio è quello di smarrirsi in autocompiacimento e freddezza perdendo di vista la comunicazione. Non così questa sorta di Yann Tiersen meno interessato all’aspetto cinematico del suono, viceversa propenso a trasfigurare con il laptop spartiti di piano e violoncello retaggio della sua formazione classica. Secondo passo sulla breve distanza in una dozzina di mesi, Scandale convince quando si attiene a un’agilità formale che dosa e gestisce saggiamente i “disturbi” sonori senza prevaricare il tessuto compositivo; quando integra malinconiche giostrine a base di tasti e corde con rumori d’ambiente, glitch discreti, scansioni ritmiche pronunciate ma sbilenche scottandosi le dita in un solo episodio. Con fare da compositore colto e svagato, immagini il ragazzo trascorrere il weekend in campagna e, tornato nella metropoli, trascrivere sensazioni e impressioni inseguendo l’armonia di Capitaine Fracasse e delle leggiadre Postlude e Doodling Hands. In attesa dell’album - previsto in aprile: ospite speciale Matt Elliott - una tazzina di te col “cappellaio matto” è consigliata. Metti che a un certo punto passa il coniglio bianco e facciamo festa…(6.8/10) Fabrizio Zampighi Ceephax - Ceephax Acid Crew United Acid Emirates (Planet Mu Records, Febbraio 2010) G enere : A cid , electro Quando Ceephax fa quello che sa fare (e lo fa senza compromessi) ha senz'altro ragioni di culto più che fondate. Per la serie Universal Indicator e nei Volume One & Two ha fatto brillare stilemi IDM e hardcore devastando gli uni dentro gli altri con spirito tanto punk quanto freak creando frattali, cubi, glifi e altri mostri impossibili formato macro pixel. Con United Acid Emirates bro Jenkins si presenta, addomesticato e neanche troppo sarcastico, nei panni di un elettronico mestierato che per buona parte della scaletta ci rifila sigle di qualche crack per software microsoft. In pratica, ne esce una presa per il culo di AFX e degli innumerevoli Analogue Bubblebath: acid ambientalizzata, l'immacabile gamelan, qualche piece per teatro (o balletto) e altra paccottiglia ad uso e consumo di un revival che è moda da troppo tempo. Su questi sentieri Luke Vibert è davvero su un altro pianeta e le mossettine della casa che tirano in ballo Italo Disco e Spaghetti House non spostano l'ovvio di un granché, come pure nella 48 Giancarlo Turra Crazy Crazy World Of Mr. Rubik (The) - Are You Crazy Or Crazy Crazy ? (Locomotiv Club Records, Febbraio 2010) G enere : wave “Io vorrei ucciderlo il Sessantotto / Vorrei ficcargli una pistola in gola / Non era intelletto / è immagine / è composizione di elementi”. Con i suoi Massimo Volume lancinanti, disperati, cinici, a fare bella mostra tra i tempi dispari di una batteria sfibrata, è l'onomatopeica Tum Tum Pa Tu - Tum Tum Tum Pa il cuore pulsante dell'esordio dei bolognesi The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik. Un brano che dà il tono a buona parte del disco, allontanandosi in maniera netta dalla gym lesson in odore di (proto) demenziale che si ascolta nell'iniziale 1st step:The Crazy Crazy Lesson e rivelando la vera natura del gruppo. Quest'ultima per nulla disposta a sorridere, ma capace di illuderci con quell'innocuo “Crazy World” che fa tanto creatività pirotecnica à la Arthur Brown pur non avendo nulla ha a che vedere con la psichedelia colorata dei Sixties. Si parla di wave virata post punk/jazz/funk, metropoli, urbanizzazione, velocità, riduzione degli spazi fisici, in una Bologna contemporanea fin troppo distaccata e borghese. Un'ideale di integrazione tradito che respira a fatica, magari in spazi di aggregazione sociale come quel Locomotiv Club di via Serlio che con questo disco inaugura una seconda vita da etichetta discografica. C'è una sorta di antagonismo pragmatico e disilluso nelle nove tracce in scaletta. Qualcosa di difficilmente inquadrabile, lontano dalle scene cittadine e persino dal pilota automatico di alcuni brani posti strategicamente a inizio programma per stimolare un minimo di identificazione eterodiretta (Tic Tic Tac). Un sopravvivere lontano dagli intellettualismi (La miseria non sputa dove uno mangia / sputa e basta), stretto in una realtà da mille euro al mese complessa e già morta in partenza (Pensavo fosse tutto quanto a portata di mano / un puzzle da mettere insieme / impossibile non sbagliare con tutti questi tasselli ). In cui far coesistere i CCCP cubici e inafferrabili di 43.252.003.274.489.856.000 combinazioni! e il folk-blues fuori tema di My Mama Told Me / Yellow House, i droni sacrali e le tastiere Doors di L'ottava rivoluzione silenziosa del lighi gighi gi e il noise azzerato di Te l'aveva già detto ieri Vincenzo Zappa. Per un disco esistenziale e quindi politico. Oltre che disgregato, come i tempi che l'hanno partorito.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Dan Le Sac Vs Scroobius Pip - Logic of Chance (Sunday Best, Marzo 2010) G enere : electro - hip hop - pop Quarto album del duo inglese, il secondo ad essere stampato e distribuito su vasta scala. Che fatica. Elettronica nerdy-videogame Ottanta tra tastierine e breakbit meets dancepop&hop-da-classifica Duemila. Sopra un rappato dall'accento inglesissimo, a tratti spoken word, a tratti declamazione. Le basi oscillano tra tamarrata e uso intelligente - e divertente - della stessa, del rappato invece salviamo poco o niente, una valanga di parole affastellate pensando alla vecchia scuola ma senza grip, tono supponente e irritante. Il singolo Get Better è brutto e il pezzo che dovrebbe essere il pezzo tender della raccolta (Cowboi) è semplicemente un pezzo moscio.(4.4/10) Gabriele Marino Daniel Martin Moore/Ben Sollee Dear Companion (Sub Pop, Febbraio 2010) G enere : folk Cosa buona e giusta l’esser da subito chiari: Dear Companion non è il successore diretto dello splendido Stray Age col quale Daniel Martin Moore ci scaldò il cuore un anno e mezzo fa. Collaborazione tra un terzetto di musicisti legati dall’amore per la terra e la provenienza dal Kentucky, il disco è compositivamente spartito in modo equo tra lui e Ben Sollee, cantautore e violoncellista con un album in carniere (Learning To Bend, del 2008), con la supervisione puntuale e l’apporto strumentale di Yim Yames dei My Morning Jacket. La scintilla che regala questi trentasette minuti è la sensibilizzazione su un grave problema ambientale che affligge i monti Appalachi - custodia di un’ampia fetta della tradizione sonora americana - e cioè la rimozione di cime montane causata dall’industria mineraria. Regolatevi di conseguenza, sapendo che parte dei proventi ricavati dalle vendite finanzieranno la Appalachian Voices, organizzazione che si propone di porre fine allo scempio di cui sopra nella (ex) terra del profitto a ogni costo. Questa la cronaca e tanto basta, essendo la musica l’impasto che ti aspetti tra folk e country, classico ma non troppo in ragione dell’età verde dei nomi coinvolti. Sollee si rivela spesso vicino al primo e migliore James Taylor (Try, Only A Song), però stupisce allorquando recapita un’ombrosa Sweet Marie e Something, Somewhere, Sometime, solare cartolina di un Arthur Russell mai inurbatosi; Moore, da par suo, conferma la brillantezza della propria penna in Needn’t Say A Thing e, tramite la scarna poesia di Flyrock Blues e It Won’t Be Long ci ricorda che l’etichetta di “Nick Drake d’oltreoceano” non gli fu affibbiata a caso. Un album dolce e virile come la montagna, bello e consigliato a prescindere dal lodevole intento.(7.2/10) Giancarlo Turra Dead Confederate - Wrecking Ball (Razor & Tie, Gennaio 2010) G enere : A lternative Pare che il grunge sia di nuovo tra noi, o che almeno sgomiti per tornare. I segnali sono ancora timidi ma basta 49 dare uno sguardo alle solite next big things d'oltremanica per rimanere esterrefatti. Mi viene in mente quando, ad un certo punto dei 90s gli inglesi provarono a giocare sul terreno di Soundgarden e Screaming Trees. Ne uscirono fuori i Bush: ovvero il grunge depurato di tutto lo spleen della campagna americana. Oggi nella vecchia Albione i gruppi cresciuti a pane e Nirvana prosperano, ma il massimo che riescono a fare è suonare come una brutta copia dei Foo Fighters. Segno che queste cose è meglio lasciarle fare agli yankees. Soprattutto se vengono da Athens, come la band in questione. Una provenienza geografica che dovrebbe provocare più di un fremito a chi ha sempre considerato con benevolenza il termine “college rock”. I Dead Confederate suonano proprio come il loro nome lascerebbe intendere: alt.country ad alto voltaggio ed elevata concentrazione emotiva. Wrecking Ball arriva da noi dopo aver mietuto unanimi consensi, proprio nel momento in cui il quintetto, guidato dal biondo Hardy Morris, è in procinto di rientrare in studio. A dispetto dell'età da neodiplomati i cinque l’hanno registrato nel 2008 sotto la supervisione del produttore Mike McCarty (Spoon, Heartless Bastards). La stampa americana ha apprezzato, tanto che per loro c'è già una bella definizione prêt-à-porter che suona più o meno così: "i My Morning Jacket grunge". In realtà le cose sono un pò più complicate. Ben più di quello che l'opener Heavy Petting lascerebbe intendere con la sua esplosione sabbathiana e il graffiato della voce di Morris. Quando a metà del brano parte una slide languida e voluttuosa, il paesaggio cambia repentino come le foto delle vacanze sullo screen saver di casa. Le note si diradano e il battito rallenta. Azzarderei a parlare di slowcore se non temessi di far loro danno suscitando uno sbadiglio in chi legge. In realtà la loro musica è tutto fuorché noiosa. La tensione è costante, come nella seguente The Rat, su cui incombe una sensazione d’ineludibile minaccia e in cui i DC sfoderano la melodia più southern del lotto. Fra le pieghe dei pezzi più lunghi, poi, si annida lo spirito più intimo dell’album. Su News Underneath gli accordi si susseguono con un ritmo prossimo alla stasi e un canto accorato si eleva come una preghiera pagana. È dopo sette minuti di languide visioni psichedeliche, con l’aria resa irrespirabile dal progressivo elettrificarsi, che si inizia a intravedere il volto tormentato di Cobain. È solo un attimo, prima che torni la calma, in un alternarsi quiete/tumulto che è il vero trademark della band 50 e che viene portato alle estreme conseguenze nei dodici minuti di Flesh Colored Canvas. Un monolite di dolcezza dai bordi taglienti, in cui il combo sfodera una sensibilità vicina quella dei Drones di Gareth Liddiard. Paragone questo che dalle mie parti suona come il migliore dei viatici e che dovrebbe garantire loro ben più di un attento ascolto.(7/10) Diego Ballani Dj Myke - Hocus Pocus (Meninskratch/The Reverse, Gennaio 2010) G enere : HH suonato / rap I talia Marco Micheloni da Orvieto, classe '76, della cricca di virtuosi del giradischi Men In Skratch/The Reverse (DJ Aladyn il più noto, curriculum con collaborazioni importanti e overground, vedi quella come crewman per il Jovanotti di Capo Horn), vanta una militanza di lunga data nella scena. Per dire, gli scratch sul primo Fibra solista (Turbe Giovanili, 2002), come pure su altri dischi del giro Teste Mobili, sono suoi. Ha lavorato a questo Hocus Pocus per quasi due anni, suonando ed editando da solo tutti gli strumenti, niente sampler, e inanellando una quantità di featurer importanti: Fabri Fibra, Turi, Noyz Narcos, Esa, Tormento. Se qualche pezzo abbassa la media (Medda, Sanobusiness, Pattada), altri sono una spanna sopra (le strofe del romano Marco Mautone aka Maut). L'effetto nel complesso è potente e convince, le produzioni sono in genere ottime, scure e asciutte, un meticciato HH molto legato agli anni Novanta (scratch e campioni da La spada nella roccia) ma con il necessario upgrade Duemila, feel street e HC, cattiveria il giusto, veracità anche troppa (il pezzo in napoletano di Lucariello). Non solo rap, ma anche l'italoragga di Babaman e un paio di cantati per spezzare la scaletta, il superfunky con Tormento e le interessanti pop murder ballad di Max Zanotti e Diego Mancino. Feat stranieri con l'oldskool di Dre Love, il raggablasta di Kadamawi, l'HH catchy sporcato di r'n'b di Night Skinny Crew, la discolounge daftpunkiana di Rival & Defi J. Ci sono ovviamente anche gli stilemi brutti dell'HH, vedi gli ossessivi refrain egotici e gli atteggiamenti da gangsta di quartiere, ma il rap è anche questo. E se cercate rap italiano fatto bene, qua ce n'è.(6.6/10) Gabriele Marino Drink To Me - Brazil (Unhip Records, Marzo 2010) G enere : indie Qualche indizio di una maturità imminente lo si poteva già cogliere due anni fa in quella Insane contenuta highlight Joanna Newsom - Have One On Me (Drag City, Febbraio 2010) G enere : folk rock La crescita di Joanna Newsom è stata (è) esponenziale. Se già il passaggio da The Milk Eyed Mender a Ys significava il superamento di ambiti stilistici e formali in direzione d'un art-folk totale, con quest'ultima fatica la ragazza californiana rincula e rilancia, ovvero recupera in parte la forma canzone (la durata media dei pezzi naviga attorno ai sette minuti) e si muove con evidente libertà, morbidamente anarchica nel grembo della neo-tradizione, credibile anzi autorevole cantautrice folk del terzo millennio. Al di là dei tre dischi per oltre due ore di musica (un affronto al processo di estinzione degli album), Have One On Me è un lavoro imponente. Che appunto s'impone ma con una certa grazia, azzeccando un equilibrio prodigioso tra leggerezza e gravità. Come è prerogativa dei grandi. Gli arrangiamenti (curati da Ray Francesconi, che porta in dote l'amore per la musica balcanica) sono sobri, talora solenni, però sempre vivaci: c'è l'arpa ovviamente, e il pianoforte, le percussioni, gli archi e i fiati quando servono. La scrittura si disimpegna grazie ad un lirismo trepido (la toccante No Provenance, impreziosita dal kaval suonato da Francesconi), sottilmente esotico (Kingfisher) oppure imbizzarrito di guizzi che diresti vaudeville (la formidabile Good Intentions Paving Company), comunque sempre all'insegna di un trasporto che definisce ogni pezzo alla stregua di un incantesimo. Ciò che le consente di bazzicare l'enfasi espressionista d'una novella Tori Amos e i misteri buffi di una rediviva Kate Bush, senza però mai uscire dal cerchio magico che fu prerogativa di vestali quali Karen Dalton, Sandy Denny o Joni Mitchell (è il caso di Easy, della delicata Jackrabbits o della bluesy Soft As Chalk).Va detto che sarebbe ingiusto limitarsi al solo pantheon femminile, dal momento che episodi come In California o Baby Birch non sarebbero affatto sfigurati nel repertorio di Tim Buckley o Fred Neil. Unica sensazione negativa, il sospetto che tutto questo obbedisca innanzitutto ad una grande ambizione. Intendiamoci: non c'è nulla di male né di velleitario nel fatto che Joanna desideri erigere un monumento a se stessa. Nel suo genere, nessuna lo merita più di lei, tanto che dopo Have One On Me sarà ancora più inevitabile e impegnativo, per qualunque ragazza che si affacci sulla scena folk rock, confrontarsi con la sua figura. Però, ecco, confesso che un po' mi manca il genio ben più lieve e sbarazzino di The Milk Eyed Mender.(7.8/10) Stefano Solventi nell'esordio Don't Panic, Go Organic!. Anche se allora si parlava dei Drink To Me come di una formazione new wave affezionata a certe fisicità dei Liars, con molte ambizioni ma senza un carattere del tutto formato. C'è voluto un disco come Brazil per fare il salto di qualità, oltre a un mercato discografico pronto ad accogliere a braccia aperte l'ennesima produzione in stile Animal Collective. Le direttive estetiche del disco sono chiare: accumuli sintetici di Korg e Roland, echoes, tribalismi assortiti che intercettano il beat terzomondista tanto in voga negli ambienti più avant-pop, psichedelia onirica e una complessità di forme che fa della mutevolezza di genere e dei dettagli un punto di forza. Come nei Suicide mascherati di B9 o negli Akron / Family in trip di Black Friday e B1, nei Wora Wora Washington di The End Of History (America) o nei Neu! virati Oneida di Amazing Tunes. Con da un lato una personalità spiccata e dall'altro la consapevolezza di rappresentare un trait d'union con le ultime tendenze e quindi un potenziale punto di incontro per gli utenti affamati di coolness. “Listen To These Amazing Tunes, The Sound Is Cool”. Appunto. E il risultato sorprende.(7.4/10) Fabrizio Zampighi Dub Tractor - Sorry (City Centre Offices, Marzo 2010) G enere : D owntempo Da qualsiasi punto di vista tu lo voglia osservare, o giustificare, l'ennesimo lavoro di Anders Remmer / Dub 51 Tractor non può che ascriversi al club delle produzioni post rock virate elettroniche arrivate al capolinea. Alle porte del 2010, è un problema endemico alla cosiddetta "scena" se vogliamo, e nel nuovo Sorry, similarmente a quanto accaduto in A Chorus of Storytellers di Album Leaf, abbiamo una preoccupante aderenza tra piacevolezza dell'ascolto e la morte dello stesso. Comune la ricerca nel songwriting e in produzione, ma sono colpi di lima, malcelati desideri di perfettibilità di formule definitive che assomigliano molto a quelle dei cugini post-rock con le chitarre a inizio Duemila. Sempre nel mazzo, soltanto i Mùm (e qualche altro) hanno avuto il merito di svoltare a 180 gradi rispetto ad una sterile, per quanto sublime, musica da tappezzeria, non Dub Tractor. Già nel precedente Hideout notavamo nel progetto l'asciugamento delle minuterie glitch e dei minimalismi démodé, così come s'evidenziavano i tentativi d'approfondimento in scrittura e la volontà post-shoegaze fatta d'atmosfere 4AD in salsa dub e riverbero. L'obbiettivo viene raggiungo anche questa volta, non riuscendo a spostare l'ascolto da un terribile sottofondo.(5/10) guin Cafe Orchestra - Quatro. Altrove le atmosfere si fanno più elettriche e le trame percussive si ispessiscono (Requiem, Stuki), arrischiando campionamenti di Marvin Gaye su eterei fondali (Brother, The Truth) ed evitando così l’emergere di deleterie mollezze. Tutt’al più si scivola in qualche esercizio di stile, ma è comprensibile data la lunghezza e comunque il risultato finale non ne patisce eccessivamente. Aggiunto al programma trovate inoltre un dischetto che recupera sei tracce apparse per la prima volta nel 2005 tramite la F4 (cioè “quarta Factory”) via download, Heaven Sent (It Was Called Digital, It Was Heaven Sent), dedicate dal solo Reilly ad altrettante persone. L’ultimo brano s’intitola giustappunto Anthony e chiude il cerchio con adeguata eleganza. Un omaggio riuscito e toccante nonostante le lungaggini, figlie più della voglia di catarsi che di una qualche autoindulgenza. Al cuore, si sa, non si comanda.(7/10) Edoardo Bridda Lo si direbbe l’ennesimo caso di Canadian pop, se non fosse che gli Eagle Seagull * provengono da Lincoln, Nebraska; per il resto le coordinate si pongono su un indie pop abbastanza declinato, con la robusta voce del frontman Eli Mardock che ci ha fatto tornare in mente in più di un’occasione gli Swan Lake e i Wolf Parade. Appurato che di quel collettivo non si tratta, vediamo che i Nostri arrivano al secondo album, annunciato già da tempo, dopo l’esordio Eagle Seagull * del 2006. The Year Of The How-To-Book è piuttosto magniloquente, dalle parti degli Arcade Fire e di tanta wave che a quella originale inglese si abbevera, dai Cure in giù, non contando il mentore di tutti David Bowie. Album quindi che va poco oltre quei modelli, ripetendo stilemi già visti e sentiti, allontanandosi giusto un minimo rispetto all’esordio.(6/10) Durutti Column - A Paean To Wilson (Kooky Disc, Marzo 2010) G enere : old wave Aveva ogni diritto di commemorare l’amico e “boss” della Factory, Vini Reilly. Senza Wilson, Manchester non sarebbe stata la stessa e idem il suo peso all’interno dell’evoluzione della musica, per non parlare della carriera dello stesso deus ex machina di Durutti Column. Fu Tom a sostenerlo durante la crisi successiva i primi dischi e coglietene il legame nella foto in copertina, dove paiono un McCartney e un Brian Epstein della new wave. Reilly siederà infatti al capezzale del pigmalione ed eccolo, tre anni dopo il tragico evento, allestire una messa laica che alla consueta virtuosa sei corde acustica affianca una strumentazione ricca ma ben gestita. Vi aleggia uno spettro emotivo confidenziale e umanista che non viene mai meno né soccombe a freddezza, soprattutto lungo i dieci minuti dell’avvolgente e malinconica Chant (prossima a certe cose dei This Mortal Coil meno cupi), nel camerismo crepuscolare di Along Came Poppy e nel flamenco con violoncello - cartolina dalla Pen52 Giancarlo Turra Eagle*Seagull - The Year Of The How-To-Book (Pias, Marzo 2010) G enere : indie pop Teresa Greco Efterklang - Magic Chairs (4AD, Marzo 2010) G enere : elettro pop Non ci siamo proprio. Arrivare al terzo disco per la band danese significa mettersi a trafficare in maniera spudorata con il pop, in un modo che li fa sicuramente accomunare agli ultimi Radiohead. Il suono sovraccarico e pesantemente scandinavo che li contraddistingueva in un territorio così delicato come il glitch e il post post post rock (e dove infatti sembravano un elefante in una cristalliera) si asciuga giusto un po’ e il taglio dei brani va a parare proprio nell’elettro pop post Kid A. Quindi senso della misura ormai del tutto perso per strada e una messe di brani incolori e insapori dove sembra sempre di stare per arrivare ad una melodia memorabile e puntualmente si rimane frustrati da una sovrappiù di arrangiamenti e giochetti da studio. Cose come Raincoats, Harmonics o Scandinavian Love ti fanno capire che puoi tergiversare quanto vuoi, ma se sotto non ci sono gli argomenti, tutto si riduce ad una maniera fastidiosa ed inconcludente. Sfido chiunque a ricordarsi una melodia dopo aver ascoltato tutto il disco e non c’è peggiore colpa di questa per un lavoro che ti strizza continuamente l’occhio per tutta la sua durata. Efterklang scioglietevi.(5.5/10) Antonello Comunale Eimog - Scenario (Sudway Produzioni, Marzo 2010) G enere : post rock Dopo un EP, Early, e concerti con Apparat, Deus e Paolo Benvegnù, i siciliani Eimog debuttano in forma adulta. I sei episodi di Scenario vivono di vuoti e pieni, slanci e dolcezze come script primi ‘00 impone e come Saved By Thirteen, la traccia inaugurale, palesa: uno slow epico lungo dieci minuti, arpeggiato in primis e poi risolto da eteree chitarre ed archi rapsodici. Building Empires Upon This Landscape è l’altro strike della raccolta. Stavolta i minuti sono quattordici e svelano una poetica che tocca il cuore, lo accarezza e accudisce come vorremmo quando si è alla deriva. Un post rock di seconda generazione - tra i modelli, Explosions in the Sky, Early Day Miners e, in seconda battuta, Sigur Rós - suonato con intensità e passione.(7/10) Gianni Avella El Fog - Rebuilding Vibes (Flau, Dicembre 2009) G enere : G litch / microdub Strumento tenuto in gran conto in contesti di jazz e classica contemporanea, il vibrafono ha vissuto il proprio quarto d'ora di celebrità in ambito pop grazie all'utilizzo massivo che ne hanno fatto i Tortoise nei propri album. Ora, grazie a Masayoshi Fujita, in arte El Fog, sinora autore di un unico album di canonica glitch music (Reverberate Slowly, Moteer, 2007), lo strumento che rese grande Bobby Hutcherson diviene protagonista assoluto di un'insolita miscela sonora che preleva a piene mani tanto dal dub quanto da glitch, ambient e folktronica. Privo di veri e propri guizzi, Rebuilding Vibes si lascia nondimeno volentieri ascoltare grazie a un utilizzo tutt'altro che banale del vibrafono che, a conti fatti, genera gran parte della paletta sonora a disposizione del giapponese. Fujita deve però rifuggire dal rischio, assai percepibile in alcuni brani, di arenarsi su quella formula di intelligent lounge che lo renderebbe ben presto solo una brutta copia dei Tortoise: la strada da seguire, ci sembra, è quella, più impervia, di un'elettroacustica monostrumentale che non lesina qui belle sorprese.(6.3/10) Vincenzo Santarcangelo Emma Pollock - The Law Of Large Numbers (Chemikal Underground Records, Marzo 2010) G enere : pop rock Il dissolvimento dei Delgados, datato ormai 2005, ha lasciato un bel po' di fans nello sconforto. Non sono fra loro ma li posso comprendere, proprio come apprezzo e rispetto l'opera della band scozzese. In ogni caso, Emma Pollock ci ha provato già nel 2007 a consolare la platea con un esordio solista - Watch The Fireworks, per i tipi della 4AD - che sorprese più che altro per la marcata vena pop. Oggi, rientrata all'ovile Chemical Underground, sforna un sophomore col quale intende mettere sul piatto la propria versatilità, l'ampiezza della calligrafia, insomma ritagliarsi un posto non di secondo piano nel panorama pop-rock. Prodotto dal marito ed ex-Delgados Paul Savage, questo The Law Of Large Numbers si muove quindi con una certa disinvoltura tra accomodanti turgori indie (Hugh The Harbour), delicatezze cameristiche (la palpitante House On The Hill), arguzie sintetiche (Confessions), recuperi swing (Nine Lives) e sottigliezze avant-pop (The Loop), lasciando ipotizzare il centro estetico ed emotivo da qualche parte tra Nina Persson, Aimee Mann e - in misura marginale - Tori Amos. Il ventaglio alla fine suona oltremodo vario, le frecce scoccano verso troppi bersagli, ragion per cui - nonostante l'ispirazione si mantenga su un sufficiente livello di brillantezza e malgrado la cura degli arrangiamenti - è un disco che non riesce ad inventarsi la profondità.(6.1/10) Stefano Solventi 53 highlight Lili Refrain - 9 (Autoprodotto, Febbraio 2010) G enere : avant rock Lili è soprattutto una performer. Ma ha concepito e realizzato questo disco, il secondo dopo l'omonimo del 2007, come una summa di se stessa. Mettendoci dentro suggestioni, elucubrazioni, ossessioni, vita. Il numero 9. Nove come la famigerata revolution del White Album. Come i mesi della gestazione umana. Come un nome che sta bene ad una Telecaster (quella di Lili, ad esempio). Come il numero delle tracce in programma, tre per ognuna delle tre parti in cui è diviso (Invocazione, Iniziazione, Incantesimo). E poi altro ancora, seguendo un elucubrare cabalistico che fa il paio col piglio esoterico che aleggia attorno alle evoluzioni di voce e chitarra della ragazza: mesmeriche sovrapposizioni vagamente Diamanda Galàs, reiterazioni minimali(ste), spirali noise, rituali psych, sabba metal ed archetipi folk-blues. Lili sembra gettarsi nel buio dell'intuizione con abbandono ipnotico o furibondo fatalismo, con la devozione fideistica (e ahinoi parecchio fuori moda) di chi crede fino in fondo nel gesto espressivo, di chi lo sa capace di rappresentare (e perfino cambiare, perché no?) la vita. Ciò che significa anche aggrapparsi ai punti fermi, alle personalissime fonti d'ispirazione e meditazione, che nel caso specifico vanno da Albéniz ai Concrete passando per la filastrocca di Fra Martino, il tema de Il Padrino e lo slogan degli arrotini (primo esempio di loop in Italia!). Fonti disparate che s'incastrano in un flusso febbrile e lirico, acuto e profondo, pulsante e circolare. Da intendersi come un'esperienza introspettiva e tuttavia generosa, perché liberatoria e soprattutto libera di scegliersi modi, forme e schema. E' uno dei pregi principali di Lili, sacerdotessa del guitar shippinghead.(7.5/10) Stefano Solventi Eva Mon Amour - La doccia non è gratis (29 Records, Gennaio 2010) G enere : indie rock Quanti rischi si prendono gli Eva Mon Amour. Un secondo disco a poco più di un anno da un esordio, Senza niente addosso, che portava qualche buona intuizione sul lastrico scivoloso di quello che di solito viene definito con una punta di disprezzo Rock Italiano, il tutto dopo un cambio di ragione sociale, line-up e direzione sonora per quelli che un tempo furono i Cappello A Cilindro e il loro promettente folk cantautorale. Eppure La doccia non è gratis rigioca quelle intuizioni su referenze precise, in potenza oppressive, uscendone invece vivo e tanto promettente quanto lo erano i romani prima della trasfigurazione. Gli Eva salvano la barca e la rimettono in rotta grazie alle liriche di Emanuele Colandrea («mi accorgerò che l'amore non fa rima soltanto con amore ma pure con albergo a ore»), che racconta la vita della solita precarietà lavorativa e sentimentale dei trentenni metropolitani non spendendo né una parola di più né una di meno, e aggiungendoci sì ironia e disincanto, ma anche sofferenza immalinconita, con risultati realistici, più etologici che sociologici. E il songwriting sta 54 rigorosamente impro) ad aggiungere sale ad una proposta che altrimenti rischierebbe di fossilizzarsi sulle volute psych della chitarra di Wright. Episodi come I Nzambi Awaken e Your Beard Is Growing Psychic sfruttano non solo i cavernosi e dilatati riverberi della chitarra, ma anche strumenti apparentemente altri come gong tibetani e percussioni etniche, innestando un pulsare ritmico alieno al contesto. Oppure Chandra che rimbalza flutti di synth in una atmosfera priva di gravità, come fossero segnali radar lanciati migliaia di anni-luce fa nel profondo del cosmo. Si sarà capito che, nonostante una mole impressionante (79 minuti l’album a cui si aggiunge un bonus cd con tre lunghe composizioni per altri 50 minuti di musica) e un suono ormai fortemente caratterizzato (la trasversale cosmica dei suoni kraut, acid-rock, spacey dell’ultimo trentennio che fa bella mostra di sè in Journey To The Sun, Amplifying Umbras, The Gathering), Sonic Messenger è più di un seguito ben fatto: sposta i paletti del genere verso nuove dimensioni e tenta un approccio personale nel rivitalizzare il kraut tanto in voga ultimamente. Nella kosmische infatti, Expo '70 è un classico con tanto di podio assicurato.(7.5/10) Stefano Pifferi su canovacci blues bilanciati tra gli ultimi Afterhours e degli White Stripes meno aggressivi quando il tiro due chitarre-batteria è vitaminico, mentre se gli animi si placano ci si muove da qualche parte tra Iron & Wine, Devendra Banhart e Conor Oberst, ma con accenti pop, talora in scheggiature di banjo (la bella title-track), dai risvolti decisamente trasversali e piacevoli. Si ascolti a tal proposito Il giorno dopo: puro folk-pop, ma ripassato Ettore Giuradei e De Gregori: la canzone che Cesare Cremonini non è ancora riuscito a scrivere.(7.2/10) Luca Barachetti Expo'70 - Sonic Messenger (Beta Lactam Ring, Gennaio 2010) G enere : kraut droning Si espande l’universo Expo'70. Per l'ennesimo dilatatissimo trip space-rock, Justin Wright, deus ex machina del progetto, prende con sé Matt Hill (basso, acustica, synth), David Williams (percussioni, gong) e Jam (percussioni e guida spirituale) allargando a dismisura il proprio universo. Più che una svolta stilistica - referente principale è sempre quel kosmische sound da buco nero - è l’interazione di un quartetto di musicisti (seppur in modalità Fabrizio Savino - Metropolitan Prints (Alfa Music, Febbraio 2010) G enere : jazz Esordio come leader per Fabrizio Savino, chitarrista pugliese neanche trentenne. Il cui primo merito è aver allestito un quintetto dalla rara efficacia, sempre funzionale anzi organico al progetto che muove le otto tracce di questo Metropolitan Prints. Una scaletta che oscilla con azzardo calcolato - merito numero due - tra postbop e fusion passando per un latin tinge screziato di vaghe inquietudini, rendendo così l'ascolto una sorta di transito impressionista tra gli scenari affascinanti e alieni dei grandi agglomerati urbani. Se nell'iniziale John Street - dedicata all'adorato John Scofield - la chitarra di Savino esalta la propria puntigliosa morbidezza nella combinazione alchemica col sax di Raffaele Casarano e la tromba di Luca Aquino, è con la fusion prima ipnotizzata trip-hop di Gallerie e poi in fregola funk di Seven Town che il corredo ritmicoarmonico diventa rampa di lancio per assolo dalla sobria intensità sullo sfondo di perturbazioni elettroniche che funzionano un po' come quinte emotive. Un senso di forte coerenza estetica attraversa il progetto (il chitarrista ha composto tutti i pezzi tranne Gallerie, firmata Casarano) e questo è l'altro merito di Savino, che però rischia di somigliare a un difetto visto che di jazz stiamo parlando e quindi un po' di out of control non guasta. Esordio promettente, in ogni caso.(6.9/10) Stefano Solventi Formanta! - Shiny EP People (Autoprodotto, Gennaio 2010) G enere : pop rock Meriterebbe anche solo per la confezione, questo segnale di vita da parte dei romani Formanta!: un "falso" vinile, di quelli che si comprano a peso nei mercatini, a fare da alibi ad una copertina spaziosa e nel quale è "incastonato" il cd vero e proprio. A parte queste simpatiche sciccherie buone a solleticare la fantasia dei collezionisti, le sette tracce girano che è un piacere, devote perlopiù a quei R.E.M. chiamati in causa nella boutade del titolo (altro colpetto di genio, oserei dire), certo, ma senza omettere di citare filiazioni Television (sentite Claustrophobic) e solleticare il ventre molle del post punk (You Sleep By My Side). Una dimostrazione di freschezza che fa ben sperare per la causa del buon indie pop-rock italiano.(6.7/10) Stefano Solventi Fursaxa - Mycorrhizae Realm (ATP Recordings, Marzo 2010) G enere : free folk Tara Burke non poteva che ritornare in mezzo a noi comuni mortali, dopo il viaggio allucinato di Kobold Moon. Non c’erano altre alternative perché le conseguenze logiche di quel lavoro giocavano tutte con l’abisso. Quello che mentre lo guardi, ricambia e si rovescia dentro di te, nel profondo. Ma Tara è donna che all’occorrenza sa tenere i piedi per terra, evitando di isolarsi in un ritiro maledetto e cimentandosi con il Valerie Project in esercizi di simbiosi, sfumature ed empatie artistiche. Il suo nuovo album, quindi, si allontana a lunghe falcate dalle lunari panoramiche di Kobold Moon, per presentarsi come parto integrato d’insieme e lavoro di una professionista vera e propria. Da qui la scelta di mettere da parte il quattro tracce e la registrazione domestica, in favore di uno studio di registrazione e l'aiuto chiesto ad un paio di sodali spiriti affini. Mycorrhizae Realm vede quindi la luce agli Hexham Head di Greg Weeks, che si trova a gestire produzione e scelte di arrangiamento, con l’aiuto fondamentale di Helena Espvall e Mary Lattimore. In pratica il meglio del nuovo suono di Philadelphia, che interviene sulle canzoni di Tara, aggiungendo e togliendo 55 highlight Luciano Margorani/Umberto Fiori - Sotto gli occhi di tutti (Nota, Ottobre 2009) G enere : pseudocanzoni Componente storico degli Stormy Six e oggi poeta l'uno, chitarrista elettroacustico con peregrinazioni tra rock sperimentale (i La 1919) e avant l'altro, Umberto Fiori e Luciano Margorani si incontrano per la seconda volta in Sotto gli occhi di tutti, seguito di quello Pseudocanzoni che due anni fa seppur uscito solo a nome Margorani già li vedeva incrociare versi e sei corde. Proprio nel titolo del loro primo incontro troviamo quella che probabilmente è la chiave migliore per comprendere ciò che i due fanno insieme: su composizioni prevalentemente all'elettrica di Margorani (e degli altri Stormy Six) Fiori rimodula alcune sue liriche, cantandole poi col solo accompagnamento della chitarra. Il risultato è tanto distante dalla reading musicata (Fiori di fatto canta e Margorani non fa del mero accompagnamento) quanto dalla canzone vera e propria, e in particolare d'autore (versi e musica non sempre collaborano: il più delle volte si confrontano, a volte si scontrano), che proprio nel loro carattere di pseudo-qualcosa trovano compimento queste sedici composizioni. La coppia con sobrietà estrema, evitando ogni clamore sia nei versi misurati e fotografici, sia nelle musiche che si trattengono su un rock ambientale - ma tutt'altro che ambient - come un David Grubbs dal passato progressivo (quale è d'altra parte quello di Margorani) e dal presente in bilico tra accenti popolari e circoscritte evocazioni post-rock. Fiori descrive paesaggi urbani, spesso periferici, nella loro bellezza minimale e improvvisa (ricorre spesso l'immagine delle larghe facciate delle case illuminate da un raggio di sole) e dentro di essi ambienta frammenti di rapporti umani dove le parole sono origine e causa di incontri e conflitti. E giusto sulla riflessione intorno alle parole e al loro senso sociale, oltre che su un atto di sopravvivenza poetica che invece di rifiutare la città ne scorge l'anima («ho visto due case, / alte sul cavalcavia / sorridere nude.»), pare vertere l'intero discorso dell'opera e la sua (forte) impronta suggestiva: «Ogni nome ha ragione, / ed ogni cosa sta / in pace / nel suo nome. / Soltanto il mio / suona come un allarme / nell'altra stanza, / come un rimprovero». Una terza via con intento lucidamente contaminatorio alla rigida contrapposizione tra poesia e canzone.(7.4/10) Luca Barachetti esattamente quello che uno si aspetterebbe. Ne viene fuori il più easy listening, nonché il più hi-fi, dei dischi di Fursaxa, quello che più facilmente si lascia scoprire nelle sue forme e nelle sue intenzioni. E’ un parziale ritorno alle foreste nere di Amulet, Lepidoptera e Alone In The Dark Wood, ma con la consapevolezza smaliziata dell’esperta di settore. E stavolta, dove non arriva l’ispirazione, arriva l’arpa della Espvall, in grado come sempre di regalare un senso mitico di leggerezza e sospensione. Si avverte quindi il peso delle passate esperienze in Tau Emerald e Anahita nei madrigali più tipici della Nostra, come Celosia e Charlote, mentre le forme arcaiche della musica medievale, con l’integrazione dell’arpa, arrivano a far collidere Fursaxa con Colle56 en nella fiabesca filigrana di Well of Tuhala. Un disco di mestiere, il primo in questo senso, da parte di una che fino ad ora aveva lavorato soprattutto di visione e ispirazione. Probabilmente l’unico parto possibile dopo un capolavoro nero come Kobold Moon. A conti fatti solo a Nico riuscì di ripetersi a quei livelli, per due volte di seguito. Quei livelli si chiamavano Marble Index e Desertshore.(7.2/10) Antonello Comunale Gaben - Cane (Benka, Marzo 2010) G enere : indie Collaboratore dei Giuliodorme e di Violante Placido, videomaker, disegnatore, artista multimediale. Il curriculum di Alessandro Gabini parla per lui, anche quando si tratta di dare una chiave di lettura a un esordio discografico come questo, parte integrante di un percorso evidentemente personale e slegato dall'attualità. Pavement, Pixies, grunge, Bugo e un elettro minimale le principali attrattive di Cane, per un lo-fi intimista che ha tutti i pregi e i difetti del caso. Tra i primi l'immediatezza dell'opera seminale e individualista, tra i secondi il disperdersi in mille rivoli di una creatività che genera pop sghembo di buon intuito ma anche momenti inconsistenti. (6.5/10) Fabrizio Zampighi Gabriel Sternberg - Like No Season (Autoprodotto, Febbraio 2010) G enere : dream folk Gabriel Sternberg da Milano porta a compimento la fatidica seconda prova lunga con Like No Season, col quale probabilmente raggiunge una pienezza espressiva definitiva. Tutto un caracollare d'imbambolamenti perniciosi, di angeliche turbe in irrequieta bambagia. Roba che t'incanta giusto un attimo prima di sembrarti melensa. Roba che graziaddio dribbla certe strane fatamorgane new age in virtù di una ineffabile leggerezza. Fili narrativi arrotolati come zucchero filato radioattivo, trepida malsana dolcezza tra scenografie lattiginose. Melodie cuginastre del David Sylvian più affabile, però anche vagamente lennoniane, vagamente linkousiane, vagamente elliottsmithiane (sentitevi All I Can See Is You). Questo trentenne è - se volete - un enigma che cammina senza toccare terra. Un po' come l'etichetta tedesca Klang:hAUS per la quale esce, della quale non si conosce sito internet, indirizzo, numero di telefono, niente.(6.9/10) Stefano Solventi Georg Levin - Everything Must Change (BBE, Febbraio 2010) G enere : adult oriented soul Sui sentieri di un novello Paul Weller contaminato con il sentire tedesco che gli deriva dalle comparsate su !K7, Jazzanova e affini, ecco il nuovo disco del berlinese Levin. Un album fatto apposta per chi nostalgicamente bazzica sui divani chill viennesi di Kruder e Dorfmeister ma non disdegna una certa passione per la melodia distillata dal vocalismo in falsetto che ricorda inevitabilmente Prince (Time To Reenact) o il funk soul rimpolpato con i tastie- roni al laser ‘80 (Runaway), i quaranta minuti di questo bianchissimo soulman sono un giusto compromesso tra salotto e hall del club. Confortato dalla presenza della vocalist Clara Hill in The Better Life e in The Scent Of Hay, il suono dell’uomo potrebbe piacere sia ai quarantenni ex mod, sia ai fan dei Men At Work più soul. Un Georg von den Bussche (vero nome dell'artista) che sorprende e che riporta quel savoir faire di certe produzioni vintage concentrate sull’anima, che oggi in parte ritornano nei punti più felici dei Verve o nel recupero del funk da parte dei Sa-Ra e della cricca now-hop. 8 anni dopo il primo vinile, bentornato Georg!(7/10) Marco Braggion Gil Scott-Heron - I'm New Here (XL, Febbraio 2010) G enere : cantautorato bl ack A sessant'anni suonati e a quindici dall'ultimo album, Gil Scott-Heron si presenta con un'opera sincera e urgente lontana anni luce dal jazzfunk/protorap che lo ha fatto entrare nella storia (The Revolution Will Not Be Televised, 1971) e dalle rotondità popsoul sposate negli anni Ottanta con pezzi come la bellissima Legend In His Own Mind. Torna allo spoken con cui aveva cominciato, ma al posto della rabbia giovane c'è la consapevolezza saggia e rassegnata di chi ne ha passate tante. Scarno nei suoni, spelacchiato - ma orgoglioso - nella voce come nell'aspetto, apre con Robert Johnson (Me and the Devil, col presenzialista Damon Albarn alle tastiere) e prosegue un viaggio austero e umanissimo a suon di chitarre acustiche e scenari elettronici che guardano al trip-hop, produzione del boss XL Richard Russell. E' nella veste più cantautoriale che Gil eccelle, vedi la title-track, non a caso un pezzo di Bill Callahan del 2005, vedi il jazz bluesfumoso di I'll Take On You, pezzo classico di Brook Benton già fatto suo da uno dei Mark Lanegan più belli di sempre. Ma anche l'urban-gospel di New York Is Killing Me non scherza. Meno di mezz'ora per una prova asciutta asciutta il cui scopo principale è dire che Gil c'è ancora, leone spelacchiato ed eroico, tra stanchezza, rendita e sprazzi di magia.(6.4/10) Gabriele Marino Glorytellers - Atone (Southern Records, Marzo 2010) G enere : folk Dovessimo stilare una classifica di merito tra i progetti extra-Karate di Geoff Farina, metteremmo probabilmente i nostri Ardecore in cima alla lista. Un esperien57 za musicale, quella della formazione romana, che ha il pregio di porre limiti precisi allo sperimentalismo innato del chitarrista americano suggerendo al tempo stesso una sintesi profonda e toccante tra musica popolare e rock ibrido. Non si può certo dire che i qui presenti Glorytellers posseggano le stesse virtù della band italiana, visto che il country-folk entro cui si muovono non è né innovativo né particolarmente memorabile: revivalismo in stile Kings Of Convenience / Pete Molinari / Bob Dylan lontano da ogni forma di stravolgimento stilistico. Inevitabile, del resto, per un gruppo che sembra più interessato al recupero integrale dei dettami del blues rurale (Softly As She Sings) e di certe cadenze acustiche jazzate (Omni Stars), piuttosto che a una rivisitazione vera e propria del linguaggio. All'opera citazionista si richiederebbe allora almeno un po' di intensità: Atone, invece, dopo aver sterzato ancor più verso la tradizione rispetto all'omonimo esordio, finisce per mostrare una leggerezza incapace di guadagnarsi più di una pacca sulle spalle per qualche buona melodia e una solida perfezione formale.(6.6/10) Fabrizio Zampighi Grimoon - Super 8 (Macaco Records, Marzo 2010) G enere : chanson , folk Un classicismo quasi spiazzante. Un grandangolo che inquadra i vapori folk impalpabili partoriti da La Lanterne Magique - principale referente/precedente di questo Super 8 - filtrandoli attraverso la lente distorcente di una coralità orchestrale inedita. Col cambio di prospettiva in atto, i chiaroscuri onirici tipici della formazione veneta si ritrovano nell'alveo di una musicalità cinematografica a cui viene lasciata carta bianca. In uno scambio continuo tra appagamento strumentale e melodia che vive di fondali di archi, trombe, fisarmoniche, banjo, tastiere. Equilibrio dinamico che invece di circoscrivere amplia, invece di mirare a un qui ed ora distrattamente riconoscibile privilegia vie di fuga da interpretare, compilare, immaginare. Procedendo per fotogrammi, per accumulo di sensazioni. Tanto che ci vuole qualche passaggio per far sedimentare a dovere il materiale, che si tratti di una Le Bal Des Ombres in bilico tra Oriente e folk apocalittico o dell'iniziale Orfeo - unico brano cantato in italiano -, del mantra in odore di psichedelia della conclusiva Je Me Tranforme o del Leonard Cohen di La Ballade Du 58 Pecheur Aveugle. Una visione d'insieme caleidoscopica che altro non è se non un reinterpretare sé stessi in un continuo gioco di maschere. Dietro al mixer lo Scott Mercado polistrumentista nei Black Heart Procession, chiamato qui a recitare il ruolo di produttore rispettoso, attento, ma tutt'altro che remissivo, come dimostra anche il Morricone ai confini con la chanson francese di Amour. Un compito che il musicista di San Diego porta a termine garantendo al materiale solidità, ricchezza di toni e quell'aura folk aristocratica tipica della band di Pall Jenkins e Tobias Nathaniel. E' un disco importante Super 8. Come poteva esserlo un Bryter Layter per Nick Drake. Un'opera in cui si scorge futuro prossimo e passato, in cui convivono adolescenza e maturità, in cui si intrecciano immaginario classico del gruppo e voglia di spingersi oltre. Come conferma anche il DVD del film Neera allegato al CD, ennesimo omaggio al potere salvifico della creatività in un cinema che si fa pittura, musica, approccio artigianale, simbolismo, oltre che giustificazione e carburante di un immaginario meravigliosamente surreale.(7.8/10) Fabrizio Zampighi Groove Armada - Black Light (Om Records, Marzo 2010) G enere : electro wave pop Sesto album per il duo inglese. Dopo il buon Soundboy Rock i ragazzi cambiano sonorità e puntano, come richiedono i tempi, a uno zeitgeist electrowave marcato Ottanta e filtrato pop. Qualche fan storcerà il naso, eppure la svolta si avvale di featuring interessanti: azzeccate le voci di Nick Littlemore degli Empire of the Sun (Look Me In The Eye Sister), Brian Ferry (ottimo il downtempo intimista in Shameless) e della wonder woman Saint Saviour. Più che Roxy Music, è un condensato delle ultime rivisitazioni di Bat For Lashes (I Won’t Kneel, singolo già remixato dai nostri paladini italo Bloody Beetroots) mescolate con un sentire New Order (citati platealmente in Warsaw) che non guasta e, anzi, apre nuove prospettive per la premiata ditta di Andy Cato e Tom Findlay. Dal trip-hop alla disco, dalla balearica loungey agli anni 80 più luccicanti che mai. Un salto nel buio pieno di rischi che convince e che aggiunge un’autorialità a una discografia fin qui troppo eterogenea e derivativa. In pole position con i Gus Gus, l’Armada ha fatto il grande salto. Love ‘em or hate ‘em, you, faceless poppers.(7.2/10) Marco Braggion Hadouken! - For the Masses (Surface Noise, Gennaio 2010) G enere : nu HC& rave Secondo album di un quintetto inglese appena uscito dalla teenage ma che spara musica per le masse teenage. Affidano la produzione al trio olandese Noisia, act piantato nel d'n'b, gente che ne sa (a rischio di esordire per l'etichetta dei Mayhem, un Fabric alle spalle, collaborazioni con pezzi grossi come Roby Williams, Moby e Prodigy), e tirano fuori un lavoro d'impatto, con un suono che spacca, inserendosi il quel calderone nu che mischia estremismi che risalgono al punk e nuove forme della dance (si sente forte l'eredità, di nuovo, dei Prodigy). Tra schitarrate, effetti elettronici e un muro di trapani catramosi come li sentiamo nel fidget di gente nostrana che ha insegnato molto come Crookers e Bloody Beetroots. Ovviamente, dici inglesi, dici nu, dici grime. Tanto nella musica che nel rappato, la cadenza è quella, il timbro - inevitabilmente - è bianco. Come capita avendo per le mani certe cose brutte ma brutte davvero, si veda al capitolo Dizzee Rascal, c'è un fascino masochista irresistibile che ti spinge a riascoltare pezzi appiccicosi come M.A.D.. Bene allora quando inseguono le loro influenze più scure e pesanti, molto peggio quando tentano la strada di un dancefloor più leggero e sparano alte tastierazze synth-pop, voci femminili che echeggiano il gothic e - soprattutto - anche loro finiscono col macchiarsi del peccato più grave: l'autotune. Nonostante tutto però, il tutto funziona. NME, prevedibile come Paolo Bonolis, dopo avergli sparato otto li picca con un tre. Noi ci assestiamo, generosi, anche per l'effetto sorpresa sul(6.3/10) Gabriele Marino Hana B - Ruins' Hotel (Summer Dawn, Marzo 2010) G enere : emul indie rock Giunge al secondo album la band piemontese, vincitrice del MEI 2006 come miglior nuova proposta, rifugiatasi a registrare le nuove canzoni a Londra. Eppure non bastano produttori e arrangiatori di tutto rispetto (James Laughrey e Davide Rossi), Ruins' Hotel è una fotocopia di Interpol e Editors, ristagno simil-indie-pop compreso nella formula. Melanconie Radiohead periodo The Bends (Ruins' Hotel), plagi più o meno celati dell’indie rock di fine millen- nio come le chitarre in I Miss You (il post-Antics che non serve più) o il coro in Out There (decadenza Coldplay mescolata Kings Of Leon) e via di questo passo. La carica c'è ma manca tutto il resto. Solo per tardoadolescenti emo.(5/10) Marco Braggion Har Mar Superstar - Dark Touches (Dilettante, Ottobre 2009) G enere : hit - pop & HH spoof Sean Tillman a vederlo sembra uscito da Porky's. Wikipedia lo inquadra bene suggerendo che l'uomo is a character who bears several physical and behavioral similarities to porn star Ron Jeremy: scarmigliato e scapigliato, panza de fori, sul palco sempre e solo con i soli slip, pose comunque esagerate.Tillman ha cominciato facendo casino con le solite garage band di base, è passato all'indierock/powerpop degli Sean Na Na per avere poi la folgorazione - e il biglietto per la notorietà - reinventandosi come Har Mar Superstar, parodia della musica americana da classifica e quindi pop, dance, nu-black e hip hop. Dicevamo notorietà: con questo moniker Tillman è diventato personaggio televisivo, testimonial di una vodka, Rock And Roll Man del 2004 per il NME, ha fatto comparsate in diverse commedie USA e ha aperto concerti per Tenacius D (evvabbè), Strokes, Incubus, Yeah Yeah Yeahs e Red Hot Chili Peppers. Su questo quarto album, dopo un un The Handler (2004) col feat di Karen O e che aveva diviso la critica - come si dice - ricevendo anche voti mitologici come l'1.9 di Pitch, Har Mar ospita Adam Green e Inara George, figlia del Lowell già con Zappa e poi leader dei Little Feat. Il focus è sempre quello, in grande spolvero un falsetto che sembra strizzare l'occhio al Justin Timberlake che si strizza il pacco, e un disco che scorre, volgarità tenute sotto freno (in questo Sean molto meno estremista di un Jon Lajolie o dei Lonely Island), con i pezzi migliori in cui la parodia si sente sì ma non sbraca, mantenendo una godibilità intrinseca, e sono quelli dove tiene basse le battute e mostra tutta la sua capacità di modulare affusolato la voce. Dal discofunky - elegante - di Sunshine a una Tall Boy scritta per Britney Spears e inopinatamente rifiutata.(6.4/10) Gabriele Marino Heike Has The Giggles - Sh! (Kitano, Febbraio 2010) G enere : new wave / post punk Semplicità nelle geometrie, freschezza dei vent'anni e una voce che ricorda una P. J. Harvey sotto anfetamina. Pochi elementi che fanno del post-punk/new wave 59 targato Heike Has The Giggles una proposta di genere piuttosto interessante e del gruppo una promessa dell'underground di casa nostra. I segnali in questo senso ci sono tutti, a cominciare da una serie infinita di concerti come supporto di artisti di punta - tra i tanti, Tricky, Wombats, Futurheads, Glasvegas, Afterhours, senza dimenticare la partecipazione allo Sziget Festival del 2008 -, passando per una struttura promozionale di fascia alta (Estragon Booking / Promorama), fino ad arrivare a un esordio discografico - il qui presente Sh! - che è già un piccolo caso. Del resto la formula del trio romagnolo ha il non trascurabile pregio di ammiccare senza ritrovarsi impantanata nei vicoli ciechi di chi scopiazza Talking Heads e compagnia. Innervando invece il punk-funk di base con un'attitudine garage che ricorda i migliori Hives e accresce l'efficacia di una musica che non lascia un attimo di respiro.(7/10) Fabrizio Zampighi Hot Rats - Turn Ons (G&D, Dicembre 2009) G enere : garage Power-trio che fioccano come neve negli ultimi tempi. Qui troviamo Gaz Coombes e Danny Goffey dei Supergrass sotto l'egida Hot Rats (cosa c'entra Zappa? Niente) alle prese con un disco che è una (parziale) carta d'identità di quel che è stato fino ad oggi il percorso del gruppo di I Should Coco. Chi sia il terzo della congrega non è dato sapere, ma le dodici riletture in chiave garage di classici non famosissimi sparsi su quarant'anni di storia del rock'n'roll vengono prodotti da Nigel Godrich come dio comanda - ovvero con tanto chiasso ed energia - ed è forse lui il terzo coinvolto, di certo è il nome che serve a dare quel tanto di più di hype ad un progetto dal senso un po' misterioso. Eppure Coombes e Goffey ripropongono con la giusta dose di personalità brani di Velvet Underground, Kinks, Roxy Music, Syd Barrett, Elvis Costello, Cure, David Bowie, Sex Pistols e Squeeze distanziandosi dagli originali quando è il caso (Fight For Your Right dei Beastie Boys rivoltata come un calzino e candita da cori aciduli) o sottolineandone alcuni aspetti caratteriali (una Crystal Ship dei Doors ulteriormente furiosa). Il tutto è piuttosto divertente e vitaminico (Damaged Goods dei Gang Of Four), ma anche parecchio inutile, soprattutto in tempi di playlist su iTunes.(6.3/10) Luca Barachetti 60 Joan of Arc - Don’t Mind Control (Polyvinyl Records, Gennaio 2010) G enere : post - indie Una ne pensa e cento ne fa, Tim Kinsella, che combatte la routine escogitando continue bizzarrie per la disperazione e la gioia di detrattori e fan. Questo ennesimo disco è in realtà una compilation - in edizione rigorosamente limitata, s’intende… - con diciotto brani d’altrettanti autori accomunati dalla militanza o dalle collaborazioni con i suoi Joan of Arc. Logico perciò attendersi esiti altalenanti (purtroppo livellati verso il basso) e atmosfere che mutano repentine. Quel che non ti aspetti è uno spirito per la prima volta autocompiaciuto davanti agli amichetti invitati al festino, che lo osservano da solo (in una passabile Roots Dug Into Dunes = Landslide per chitarra d’atmosfera e disturbi) e con i concittadini Euphone (Friend In Common: convincente emo dal passo motorik). Figurarsi se, nel frattempo, fratello Owen non è sceso in giardino a meditare (vale comunque tutto il suo ultimo LP, No More No Where) e subito dopo inizia il quiz su chi si nasconde dietro quelle sigle sconosciute. Chi se ne frega, se il risultato irrita (le pippe elettroniche di Uwar e White/Light) ed è sfocato (manovali del post-rock, unitevi!); se una mediocrità che di aureo ha solo la placca avvolge il resto della scaletta e quasi offusca i bravi Birdshow, Pillars And Tongues e The Zoo Wheel. Qualcuno somministri del bromuro a Tim, prima che sia troppo tardi.(5.8/10) Giancarlo Turra Joe Gideon & The Shark - Harum Scarum (Bronzerat, Gennaio 2010) G enere : talking blues , rock wave Joe Gideon e la sorella Viva, batterista, un richiamo a memorie di marca White Stripes ma non solo. Duo inglese, entrambi veterani, li si è già incontrati infatti nei Bikini Atoll, formazione fine anni ’90 di estrazione rock noise, due album su Bella Union alle spalle e una collaborazione con Steve Albini per la registrazione del secondo. Li ritroviamo ora come Joe Gideon & The Shark: ancora scarno rock blues urbano elettrificato, di derivazione prettamente USA, Lou Reed, Velvet Underground, Televison, Sonic Youth ma anche un lato più blues dei citati White Stripes, e un lato maledetto di ascendenza Birthday Party e PJ Harvey. Talking strascicato tra Reed e Nick Cave, ma soprattutto tanta ironia ai confini dell’autoparodia da far piuttosto pensare anche alla wave inglese ’80 di marca Fall e affini, si ascoltino a metà disco certe derive vocali e sonore che sembrano prese da un qualsiasi estratto di Mark Smith e soci. Suono americano e cuore inglese allora, e viceversa, intercambiabili nel corso dell’intero Harum Scarum, sorta di bizzaro mantra scaramantico. Divertimento assicurato allora e insieme un lato decadente e sottilmente malato da non sottovalutare, per un esordio piuttosto interessante.(7.1/10) Teresa Greco John Zorn/Mycale - Mycale: The Book of Angels Volume 13 (Tzadik, Gennaio 2010) G enere : world / a cappell a Masada è sempre stato un laboratorio e il secondo volume del canzoniere - il Book of Angels - non ha fatto che accentuare proprio il versante sperimentale ed esplorativo del progetto. Zorn le sta provando tutte insomma e arriva adesso a una soluzione che, per quello che ricordiamo, aveva ancora lasciato intentata: l'a cappella. Le Mycale (il nome è quello del monte della Turchia sul quale si combattè una delle battaglie chiave della resistenza greca contro i persiani) sono un quartetto vocale creato ad hoc, composto da quattro cantanti con carriere già avviate (e che hanno già incrociato la strada di Zorn in passato): Ayelet Rose Gottlieb (israeliana), Sofia Rei Koutsovitis (argentina), Malika Zarra (franco-marocchina) e Basya Schecter (l'unica a essere newyorkese di nascita e non solo d'adozione). Nessun estremismo galasiano, voci pulite e controllatissime (anche nel virtuosismo), tra slanci solistici ma soprattutto contrappunti che pescano tanto dal folklore quanto dal jazz, connotando le composizioni di JZ con sfumature che vanno dall'Arabia all'Irlanda. Testi poliglotti (come in un moderno esperanto fatto di ebraico, yiddish, ladino, francese e arabo) presi dal poeta persiano Rumi e dalla Bibbia, ma anche da Pessoa. Si poteva rischiare di più, ma interessante.(7/10) Gabriele Marino Jonas Reinhardt - Powers of Audition (Kranky, Marzo 2010) G enere : krautrock Non è molto chiaro chi sia Jonas Reinhardt. Kranky, in occasione dell’uscita del nuovo disco, pubblica una dichiarazione dell’artista a corredo della press release, con tanto di virgolettato. Jonas spiega, Jonas fa, Jonas c’è. Peccato che sembri proprio che Jonas Reinhardt non esista in senso fisico, tangibile e umano. Quanto piuttosto come astratto moniker dietro cui si celano Jesse Reiner (Synthesizers / Vocals), Phil Manley (Guitar / Vocals), Diego Gonzalez (Bass) e Damon Palermo (Drums). Cioè una band vera e propria e non un artista solista originario di San Francisco. Phil Manley lo conosciamo per i trascorsi in Trans Am e Oneida, mentre Jesse Reiner è attivo anche nei Crime in Choir. Ecco che il mistero lentamente si dissolve. Il secondo parto di Jonas quindi si presenta come un altro tour de force krautrock, nella maniera più reazionaria, passatista e retrò possibile. Di nuovo, rispetto all’esordio, c’è l’apporto di strumenti analogici veri e propri, che si uniscono alle tracce elettroniche comunque imperanti nel missaggio finale, per un disco che va ascoltato come se fosse un unico mammuth tedesco, ritrovato da un collezionista di vinili d’antan. Quello che manca a Jonas Reinhardt, rispetto ai corrieri cosmici contemporanei, è la capacità di giocare con il passato per dire qualcosa sul presente. Daniel Lopatin citando i synth più giurassici e kitch degli anni ’80 riesce a sintonizzarsi con l’aria dei tempi, con l’umore contemporaneo per il revival post-moderno. Jonas invece suona vecchio e basta. Brani come Atomic Bomb Living e Only You Can Acheive Nitrogen, faranno sicuramente la felicità dei vecchi ammiratori di Cluster e Harmonia, ma nel 2010, nonostante il continuo scavare nel passato, lasciano il tempo che trovano e tutto suona noioso e fine a se stesso.(6/10) Antonello Comunale La nuova Raccomandata con ricevuta di ritorno - Il pittore volante (AMS Vinyl magic, Febbraio 2010) G enere : new progres sive Ritorna dopo 36 anni la Raccomandata Con Ricevuta Di Ritorno, storica formazione prog italiana dei '70, artefice dell’album Per ...un mondo di cristallo, pubblicato nel 1972 dalla Fonit Cetra. La band ebbe vita breve ma lasciò una traccia significativa in quel panorama, con un album tra prog, canzone popolare e jazz. Oggi, per volontà del cantante Luciano Regoli, affermato pittore, la formazione si ricostituisce, con alcuni membri storici della RRR (Nanni Civitenga, Roberto Gardini,Walter Martino) e con tra gli altri Claudio Simonetti (Goblin), Lino Vairetti (Osanna), Nicola Di Staso 61 highlight Picastro - Become Secret (Monotreme, Febbraio 2010) G enere : slow - songwriting I Picastro hanno sempre abitato un’intersezione, quella tra il Canada sinfonico del post-rock e le varie desinenze slow- (sad-, sleep-…). Una spartizione vissuta tra le orchestrazioni degli strumenti (il piano, il violoncello di Nick Storring, almeno da Whore Luck, e il set classicamente rock) e le corde vocali di Liz Hysen - voce Cat Power-iana e principale mente autoriale della band - insieme agli arrangiamenti, alle scale minori, ai contrappunti che accompagnano il mood. Become Secret vive negli stessi territori; eppure è un disco da segnalare, cosa, nel genere, già di per sé interessante. È potenzialmente il picco di una carriera e uno dei momenti più alti di un modo di fare musica. Non sposta niente, cioè non prosegue un discorso verso altre lande, ma fa arretrare ciò che è stato fatto prima. Ha un tale equilibrio di composizione, arrangiamento, da essere in grado di diventare classico quasi istantaneo. La sensazione di desolazione, di triste rassegnazione, non raggiunge mai storpiature patetiche. Esemplare il contrappuntarsi tra i vari strumenti, piano e cello su tutti, nell’episodio strumentale di A Dune A Doom. Oppure la spendibilità senza età né collocazione di Spilt Head, con un riff figlio di Chan Marshall, e l’eccezionale efficacia creativa dell’accenno di balbuzie con cui iniziano i primi due versi. La ricerca di un esito (lo stesso in tutta la carriera dei Picastro) non causa, in nessuno dei nove episodi dell’album, astigmatismo locale, la miopia di un piccolo mondo limitato. Become Secret, grazie alla maturità dei tempi, della distanza accumulata dall’apice del genere, porta lo slow-core su un livello diverso, come un po’ i Rachel's fecero (tentarono di fare?) con il post rock: si gira attorno a un nucleo, stilistico, ma anche emozionale, o emotivo (mood, ancora una volta, sarebbe il termine giusto), e però di fatto si fa altro. Si fanno canzoni, punto. Si produce un cantautorato e un controllo assoluto dei mezzi con cui lo si persegue, auto-destinandosi a travalicare i generi, se ancora non lo si fosse capito.(7.5/10) Gaspare Caliri non poco dall'altro rende il tutto piuttosto difensivo poiché prevedibile. Certo, la mano dei quattro si sente eccome, sia quando distillano il suono Morr con sfrigolii di kraut modernizzato e le solite infiltrazioni glitch (in verità ora più di contorno che in passato, come nel singolo Remember), sia quando piantano semi di trip-hop siderale su algebrismi dall'alta caratura emotiva (Future Tense). Però nel complesso l'aria che si respira è del classico ripetuto con un bel po' di mestiere: non brutto, ma estremamente calligrafico. Anche perché scandendo la track-list non manca proprio niente: la manualistica glitch e i synth a delineare il tracciato di pulsanti cuori analogici nella title-track, il dovuto ringraziamento al Brian Eno sinteticamente pop nella “ruvida” (virgolette d'obbligo) Move On, il prestito Stereolab di That Day e la chiusa uterina di Out There con l'ex Yellow Magic Orchestra Yukihiro Takahashi come ospite. E di questo passo alla fine il problema non è tanto di natura estetica, ma storica e autoreferenziale. Our Inventions trova un senso preciso se ascoltato traversando l'underground di una capitale europea o esplorandone un asettico ed ultramoderno centro commerciale di periferia. Proprio come dieci anni fa. Ma allora erano cose nuove, affascinanti e capaci di forti suggestioni. Oggi che invece pure i non-luoghi sono diventati casa nostra anche grazie a canzoni (belle) come queste, tutto risulta come riepilogato, ribadito, purtroppo un po' inutilmente.(6.4/10) Luca Barachetti (Lybra) e Carl Verheyen (Supertramp). Il Pittore volante è un concept e nasce come sintesi delle esperienze di Regoli, riflettendo i canoni della storica formazione: troviamo quindi alla base una ricerca sui suoni, che aggiornano il progressive all’oggi tenendo conto della sua storicizzazione, sempre in modo ricercato, fondendolo con il popular e l’onnipresente jazz e la classica. Il risultato si tiene bene e risulta affascinante. Non per tutti ma si spera in una sua diffusione più ampia.(7/10) Teresa Greco Lali Puna - Our Inventions (Morr Music, Marzo 2010) G enere : indietronica Strano atteggiamento quello dei gruppi-madre della Morr Music. Gettano le basi ad un suono, ne sviluppano le altezze piano dopo piano curandone in primis il design e la capacità di trattenere calore, e mano mano che questo suono si istituzionalizza diffondendosi su scala 62 globale - leggasi alla voce indietronica tedesca: in pratica onnipresente durante gli anni zero - si eclissano sparendo (quasi) del tutto. Così per i Notwist, e così per i Lali Puna, seconda delle tre creature di Markus Acher (l'altra sono i Tied & Tickled Trio) qui in compagnia di Christoph Bradner, Christian Heiss e della voce d'angelo metropolitano di Valerie Trebeljahr.; Our Inventions piacerà a Colin Greenwood, che ai tempi di Scary World Theory (2001) citava i tedeschi in ogni intervista, se ancora Colin Greenwood ama farsi scaldare il cuore da questo tipo di elettronica sottocutanea e cautamente mistica. Perché i Lali Puna, dopo le accorte deviazioni dreamy di Faking The Books, tornano ai primordi come già la raccolta di rarità I Thought I Was Over That: Rare, Remixed, and B-Sides lasciava intuire. Dunque pura indietronica, raramente accostata a strumenti suonati, sempre in bilico tra atmosfere albeggianti e amniotiche, con quel tanto di spirito pop che se da un lato evita l'assopimento ed anzi rivitalizza Lawrence Arabia - Chant Master (Bella Union, Febbraio 2010) G enere : I ndie P op Lawrence Arabia è l’ennesimo moniker dietro la cui ombra si cela una one man band. E’ il turno di James Milne, neozelandese classe ’81 dal curriculum musicale di tutto rispetto. Turnista per gli Okkervil River, protagonista con i The Ruby Suns e Brunettes, finanche produttore di colonne sonore per film e piece teatrali. Esperienze che in misura diversa, finiscono per caratterizzare gli anfratti sonori dei pezzi di Chant Master. Mr. Milne sfoggia teatralità da entertainer condita da una buona dose di “mestiere” da songwriter navigato, pur essendo al debutto. Ed è tutto declinare pop mutante ora in veste folk (gli hook di I’ve Smoked Too Much) ora in vesti più canoniche dove fan capolino melodie tra Beatles e Beach Boys, condite da aperture sunshine pop deviate il giusto come in Look Like A Fool o The Beautiful Young Crew. Eppure si avverte la sensazione che non basti. Non ba- stano l’accorata delicatezza di Dream Teacher, gli impasti vocali simil-soul sparsi qui e là, l’esotismo di frontiera di Auckland CBD per raggiungere l’intensità necessaria per considerare Chant Master alla stregua degli episodi migliori di un John Vanderslice o di certi Death Cab For Cutie. Fallendo in parte proprio dove i suddetti riescono e cioè nel dispiegare il potenziale di certo artigianato pop, di cui James sembra da subito dotato, frenato da suoni gommosi e cali di intensità che mettono la sordina a melodie che rimbalzano amabili per tutta la scaletta. E’ che I pezzi di Chant Master rimangono farfalle che sono ancora un po’ crisalidi. Esattamente come la scrittura di Milne, a cui mancano ancora quei lampi di genio che potrebbero renderlo autore di razza. Toccherà attendere.(6.5/10) Giampaolo Cristofaro Le Forbici di Manitù - L'isola (Snowdonia, Febbraio 2010) G enere : wave dark L'isola è un racconto di Alda Teodorani, delirio noir sul lato mortifero del rapporto a due, il sentimento come un sarcofago che ti si chiude attorno, la follia come unica, tragica, impraticabile via di fuga. L'isola sono anche i disegni di Emanuela Biancuzzi, il cui grottesco fumettistico dissimula il senso d'angoscia ai limiti del claustrofobico, spacciando crudeltà e sberleffo come fossero una moneta sola. Infine, L'isola è il disco firmato da Le Forbici di Manitù, più che un commento sonoro un vero e proprio compendio alla vicenda, non solo perché le parti narrate dalla stessa Teodorani sono vere e proprie aggiunte al testo, ma per il peso oserei dire atmosferico delle trame wave-dark allestite dalla premiata ditta Baroni & Rossi, nell'occasione spalleggiati da Daniele Carretti ed Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax. Gravi come i più solenni CSI, irrequiete come una mischia tra Joy Division e Tuxedomoon, ostinatamente ambientali e talora cinematiche fino a sfiorare eccessi autoparodistici, le tredici tracce instaurano una chimica tutto sommato riuscita con illustrazioni e racconto. La commistione multimediale produce così un manufatto prezioso, il cui acquisto può risultare persino gratificante. Altro che DRM.(6.8/10) Stefano Solventi 63 Liars - Sisterworld (Mute, Marzo 2010) G enere : rock Loscil - Endless Falls (Kranky, Marzo 2010) G enere : ambient Sisterworld è un disco cupo e coerente. Appare subito - già nella sovrastruttura - come un concept. Andate su www.thesisterworld.com, sito dell’album - che, come spesso negli studi di design, finisce a coincidere con il sito aziendale, per il periodo per cui quel prodotto è il prodotto di punta: vedrete un’ambientazione di naufragio, di isola deserta, con i tre soli Liars ad animarla. Provate ad andare su liarsliarsliars.com - il vecchio sito della band - e avrete accesso solo al video di Scissor (singolo anticipazione di Sisterworld): ancora una volta il tema del naufragio, che, tocca dirlo, non è mai stato così vicino alle corde del popolare a 360 gradi, serialismo televisivo compreso, evidentemente. Del resto, i Liars sono i più bravi, a confezionare concept, ma non nel senso di concept album, ma da un punto di vista progettuale, come di concept di progetto, di idea da disseminare in tutta la coop advertising. In primis nella musica. C’è sicuramente, nelle canzoni di Sisterworld, una forte unità stilistica. È come mettere insieme, prevedibilmente, Drum's Not Dead (come senso di unità) e Liars, per accessibilità (e accesso effettivo) alla forma-canzone rock. Non parliamo di strofe e ritornelli, ma della possibilità di tagliare, come agrimensori, il disco alla scala del singolo brano - e ognuna delle tracce lo consente, è un’unità che può bastare a se stessa - e dell’album intero, senza che il passaggio si faccia notare. I brani sono però, per così dire, intercambiabili, nessuno rimane indelebile nella memoria, e forse di dischi come questo Angus e soci ne sanno e possono fare mille. Il gioco tra micro e macro, tra immagine coordinata e composizione, vale anche anche per l’impatto delle canzoni, dalla costruzione impeccabile; fredda forse, ma riscaldata da un arpeggio/tema preso direttamente (espressamente?) da Practice Makes Perfect degli Wire (b-side di Outdoor Miner, anno 1978), che viene introdotto da Here Comes All The People, cullato vistosamente in Drop Dead, ripreso nella finale Too Much, Too Much. Troppo per essere un caso...(7/10) Scott Morgan è uno della “vecchia guardia” e si sente. Nella sua musica c’è una pensosa saggezza che si avverte dietro le cadenze dei brani, nei modi di gestire il missaggio finale e nella capacità stessa di organizzare il suono e il suo svolgersi nel tempo. Loscil è un classico Kranky ed è ormai trademark di qualità per una nicchia a suo modo abbastanza assortita. Eppure, nello specifico delle dinamiche più propriamente di marketing, è un artista su cui l’etichetta di Chicago ormai punta poco o nulla. Troppo impegnata a piazzare nomi nuovi, nel tentativo sempre costante di diversificare la proposta e aggiudicarsi quel minimo di sopravvivenza. In tutto questo, Morgan non si cura di null'altro che non sia il suo piccolo mondo. Il suo sound non si sfibra di un millimetro in questo che è il suo quinto parto sulla lunga distanza, anche se la perfezione formale di Plume, qui degrada leggermente e si impiega mediamente qualche minuto di troppo per far quadrare il disegno generale. La densità sonora dei brani fa a gara con il fragile melodismo delle soluzioni. Loscil è ambient nella vena più classica di Eno e la sua è una piccola metafisica delle attese. Nello specifico Endless Falls ragiona, già a partire dal titolo e dalla copertina, sulla gravità, sul peso come costante e sulle precipitazioni. Parte e finisce con il campionamento della pioggia di Vancouver, registrata un pomeriggio dal portico di casa e si chiude con il suono inedito di una voce umana, quella di Daniel Bejar, che nell’ultima traccia va di spoken-word e spezza non poco l’alchimia di Morgan. Nel mezzo il solito programma di estasi ambient: molto elegante, molto umorale, a tratti emozionante.(7.2/10) Gaspare Caliri 64 Antonello Comunale Luca Gemma - Folkadelic (Ponderosa, Gennaio 2010) G enere : pop d ' autore Luca Gemma condivise con Gino De Crescenzo oggi Pacifico l'avventura dei Rosso Maltese, folk-rock in odor di Mau Mau con punte di ironia nella Milano alternativa a cavallo tra ottanta e novanta. Poi lo scioglimento e il via alle carriere soliste di entrambi, all'insegna di un cantautorato pop al servizio di interpreti di prestigio (la Nannini per Pacifico, la Mannoia per Gemma) che piano piano cerca una sua visibilità. Ad oggi Pacifico ce l'ha fatta meritatamente, Gemma invece non ancora del tutto nonostante una discografia esigua ma di tutto rilievo. Due dischi nel 2004 e 2007 (Saluti da Venus e Tecniche di illuminazione), entrambi farciti di song-ballad sempre highlight Riva Starr - If Live Gives You Lemons, Make Lemonade (Made To Play, Febbraio 2010) G enere : house Già sulla cresta dell’onda per numerosi singoli, mix, serate, flyers, anticipazioni, oggi finalmente approda al disco d’esordio. Lui è uno dei personaggi più gossippati nel mondo dance del momento, si chiama Stefano Miele e viene da Napoli con un frutto sparato sulla cover del ciddì che metaforicamente ci ricorda l’inno dei Crookers di qualche tempo fa. Di tamarro però, Miele c'ha poco, insiste su un fenomeno house che non è Napoli, o per lo meno non è assolutamente solo italo. Non è un azzardo accostarlo alle produzioni New York, passando per l’eterogeneità e il tribalismo delle visioni di Luciano e di Ricardo Villalobos. House senza confini che innesta campioni dell’est (Bulgarian Chicks e il ricordo della lambada (!) con il featuring di Nôze in I Was Drunk), sfottò in acido à la Adriano Canzian in Dance Me, buchi siderali old school con sax affusolati nei tastieroni 303 (Black Mama), divertimenti degni di Kusturica (Black Cat,White Cat appunto), il melò Napule con lo schiacciapensieri e l’atmosfera da Padrino (Once Upon A Time In Naples), il sud caraibico in Maria e Riva’s Bogaloo, la fisarmonica Novanta in Caballeros (superpezzo in tensione adrenalinica perenne) e il commiato da lacrime Chicago nell’old-school anthem che è Tribute. Una nuova generazione di ragazzi è pronta al salto di qualità international. In tasca hanno i mezzi del futuro e le sonorità del passato da riattualizzare, tutto ora e sempre in funzione del dancefloor. Riva fa parte di questa piccola cerchia che per ora comprende tra gli altri Bloody Beetroots, Crookers e Italoboyz. Brilla brilla, piccola Starr. Limonatelo senza pudore.(7.5/10) Marco Braggion all'altezza con qualche spunto davvero importante (andate a recuperare Verresti a sopravvivere con me? e Sogno #1) eppure non sufficiente a raggiungere il prestigio che gli andrebbe tributato. Ci riprova dunque questo Folkadelic, titolo programmatico che tuttavia trae un po' in inganno. Non aspettatevi infatti una trafila di acusticherie indolenzite a cavallo del profluvio weird degli ultimi anni: Gemma è songwriter obliquo e dal piglio saldamente pop; qui attraversa il folk mischiandolo di volta in volta a diverse derivazioni con attitudine da freak metropolitano, un po' come farebbero un David Byrne o un Arto Lindsay se volessero scrivere canzoni pop buone per i parchi cittadini ma anche per i loft. Quindi in ordine di scaletta: marmorismi white soul per L'educazione sentimentale, rotative elettriche di marchio U2 per Nudi, affumicature jazz e rifrazioni chitarristiche in Killer (che piacerebbe pure ad Alberto Fortis), languori latin in Superstelle, reggae odorante vento e polline ne La canzone della gioia, roots desertificato in Sei felice?. Cosa manca tirate le somme? A fronte di un livello omogeneo - omogeneo in positivo, s'intende - certamente la canzone che rimanga addosso subito. In pole il roots prima nascosto da baluginii assortiti e poi innalzato su microesplosioni post di Animantiproiettile, pezzo che ha in sé più idee del novanta per cento delle cose che mi capita di ascoltare ogni giorno e che forse ha solo bisogno di tempo per fiorire. Staremo a vedere.(6.4/10) Luca Barachetti Madlib - Young Jazz Rebels - Slave Riot (Stones Throw, Marzo 2010) G enere : freejazz / impro Se dovessimo riassumere questo disco ad un amico, gli diremmo che è "Madlib che cerca di fare Sun Ra" e gli metteremmo davanti la foto - sul sito della Now Again - che mostra l'uomo dimagritissimo e con un sorriso stentato, mentre tira fuori dallo zainetto una biografia sugli "anni perduti" di Miles Davis: un uomo sciupato dalle proprie ossessioni. Slave Riot è un doppio omaggio, tributa i "giovani jazzisti ribelli" per cantare l'anabasi del popolo nero, il popolo degli schiavi (gli ancestors della intro). Per fare questo, prosegue il discorso aperto anni fa con l'interessante A Tribute to Brother Weldon (2004), prendendo come mai di petto il free e l'impro. Ma è un'occasione mancata: il 65 highlight Ruby Suns (The) - Fight Softly (Memphis Industries, Marzo 2010) G enere : ethno - indie - pop Da Ryan McPhun, dopo Sea Lion, capolavoro di sintesi weird-indie-caraibico a scala mondiale, ci aspettavamo molto. Ai suoi Ruby Suns era riuscito di aver traghettato il surf pop in un’estetica mondo-centrica (quindi eccentrica), disseminata negli oceani e nei continenti. Eppure i live erano prossimi a un suono smaccatamente ’00 che solo l’anno scorso abbiamo poi delineato come glofi. Con Fight Softly Ryan sembrerebbe essersi preso carico di quel genere oggi trasbordante, facendolo evolvere in una versione potremmo dire quartomondista, mettendoci la complessità. L’obiettivo potrebbe essere di addurre una paternità (propria) a quel movimento che va dal pop candegginoso alle afe estive del glo (Mingus And Pike, ma anche l’iniziale Sun Lake Rinsed, così come Closet Astrologer), dimostrando al contempo di essere già oltre. Ma anche, semplicemente, il caso e la lontananza dall’impero - in quella meravigliosa periferia che è la Nuova Zelanda - possono aver portato i Ruby Suns ad aver trovato un linguaggio proprio, frutto inimitabile del girovagare in tutto il mondo, rincorrendo un’eterna estate. L’operazione, a primo ascolto, porta a una musica più ostica. È però un’apparenza, dovuta al perenne confronto con Sea Lion (che avvicinava con disinvoltura shoegaze, lo-fi, etniche ispaniche e stramberie), prima ancora con i Beach Boys (ai tempi dell’esordio dei Soli Rubini), e ora con Washed Out e compagnia. Lasciandosi andare, il disco si scioglie nel giro di qualche ascolto, scoprendo un universo cangiante di suoni sempre più ricchi. Il calderone cresce, arriva a Cranberry (un ritmo incalzante di camicie hawaiane, che potrebbe provenire da Sea Lion, non a caso), giro di boa pieno di giravolte, e apre la strada alle scorribande etniche di tutta l’ultima parte del disco (Two Humans e Olympics On Pot). McPhun è sempre più concentrato nel suo anti-arrangiamento (o schizo-arrangiamento). Ha passato mesi a raffinare il prodotto e fare quello che sa fare, cioè spaziare, nuotando nell’oceano, ed estrarre pezzi come Cinco - caraibico e tropicale solo perché siamo costretti ad applicare una lente eurocentrica alla nostra lettura. E ora eccolo lì, a mostrare l’essenza cosmopolita Ruby Suns.(7.3/10) Gaspare Caliri risultato è pretenzioso, irrisolto, perfino noioso, uno dei dischi meno stimolanti prodotti dall'uomo, secondo una logica autoriflessiva e patologica bene espressa in una recente intervista a The Wire: «La musica che faccio deve piacere a me, non agli altri. Perché quello che faccio lo faccio innanzitutto per la mia salute». E' Mad che si mette alla prova, che vuole emulare, vuole riuscire, vuole suonare. Il resto poco gli interessa. Il crepitio di un vinile introduce e intervalla i brevi frammenti, tutti interrotti bruscamente (per quanto in sfumato), tutti fortemente percussivi e sostanzialmente privi di sviluppo interno. E' Mad che sperimenta, chiuso a riccio per specchiarsi nelle proprie manie (e Sun Ra è una delle più documentate), offrendo all'ascoltatore un pantano di intermezzi messi in fila, accumulativi e caotici. Si salva pochissimo e quello che si salva - merito anche di un Kariem Riggins (o così sembra) seduto dietro i tamburi 66 - esula spesso dal free per riparare in territori più masticati e facili da gestire (latinfunk, spacejazz, bossa). Sul versante propriamente free, ci sono una serie di appunti interessanti, ma più per concessione che per convinzione (le bolle percussive con cambi di accento - molto Atlantis - di The Legend of Mankind, la nebulosa aleatoria di The Wind, quell'incrocio tra gli Art Ensemble più orgiastici e i Talibam! più jazzofili che è la prima parte della title track). Mad non è ancora così padrone della forma da potersi permettere di aggredirla e sfibrarla e, con la scusa dell'omaggio avant, accampa frattaglie incasinate: ma il free è altro da prendere e fare casino. Mancano del tutto quell'intensità e quella forza visionaria che riescono a trasfigurare il casino in magma sonoro e a creare un senso musicale anche senza musicalità.(5.8/10) Gabriele Marino Madlib - The Last Electro Acoustic Space Jazz & Percussion Ensemble - Miles Away (Stones Throw, Febbraio 2010) G enere : jazzlounge Con la sigla con cui sta firmando una tetralogia dedicata alle stagioni, Madlib continua a sviscerare il proprio amore per la jazzfusion anni Sessanta-Settanta di grandi marchi come Impulse! e Blue Note e di label sotterranee come Strata East e Tribe. Il progetto rientra nell'era post-Yesterdays New Quintet e cioè in quel ramificatissimo Yesterdays Universe inaugurato dall'omonima collezione del 2007. Un disco dal titolo Miles Away era atteso da anni e si pensava fosse un tributo a Davis: qui invece l'omaggio è multiplo - Davis non c'entra - e tocca giganti come John Coltrane e Pharoah Sanders, nomi importanti ma meno noti come Larry Young e Woody Shaw, e nomi per quelli che spulciano i credits, session man che hanno lavorato coi grandi del jazz ma anche con nomi pop-rock (Phil Ranelin, del collettivo Tribe, ha suonato il trombone sul primo disco dei Red Hot Chili Peppers). Mad si fa dare una mano da alcuni turnisti jazz ma, come già dimostrato in Summer Suite, dai tempi di Angels Without Edges è cresciuto moltissimo come strumentista e "compositore". Il percorso qui continua, con maggiore cura per il dettaglio e - finalmente - anche per l'aspetto tematico, con una fusion morbida e composta, solare (fa eccezione la minacciosa Tones for Larry) e piacevolissima, sbilanciata sul latin e costruita sul triangolo piano acustico-fiati-marimba. Le bella One for The Monica Lingas Band era già su Universe; Shades of Phil, Black Renaissance e Mystic Voyage sono cover rispettivamente da Phil Ranelin, Roy Ayers e Harry Whitaker.(7.2/10) Gabriele Marino Madlib - Madlib Medicine Show #2: Flight to Brazil (Stones Throw, Febbraio 2010) G enere : B razil - tuned [Terzo nuovo disco di Mad che ci tocca ascoltare questo mese. Siamo oltre i ritmi di Zappa, Zorn e Sun Ra. Messi insieme...] Flight to Brazil, secondo della serie Medicine Show, è una radiomadlib sintonizzata su frequenze brasilere: il meglio della sua collezione di vinili made in sotto forma di mixtape. Attenzione, mixtape grado zero e quindi zero interventi, giusto qualche piccolo effetto-ponte tra un pezzo (di un pezzo) e l'altro, come la voce presa da un documentario a segnare spostamenti e tappe del volo immaginario. Bossa, samba, funk, jazz (soprattutto latin, anche cantato), fusion, tribalismi, ma anche frammenti di folk psichedelico, folk irlandeseggiante (?) per violino e percussioni, ukelele, lounge, colonna sonora con influenze orientaleggianti (?), avant chitarrismo acustico, contemporanea per fiati soli e persino un momento reggae. C'è il solito Brasile (e persino Mas Que Nada, nella prima delle nove tracce) e c'è il Brasile che più interessa Madlib (vedi un pezzo bossa-jazz prog letteralmente sorprendente, nella quinta). Le selezioni sono indubbiamente molto belle ma - andiamo al sodo - ha senso spenderci quattordici dollari? No. Chi cerca la filologia sul Brasile andrà a pescare altrove e pure sotto il profilo della goduria esiste certamente di meglio. Inoltre, questo disco - pure bellissimo da ascoltare - non ci dice nulla che già non sappiamo su mr. Otis Jackson Jr. (vedere alla voce Sujinho).(6/10) Gabriele Marino Marina And The Diamonds - The Family Jewels (Warner Music Group, Febbraio 2010) G enere : P op Già vista sui palchi di Glastonbury e di Reading, Marina Lambrini Diamandis è la versione “debutto in società” di Lily Allen che ci voleva. Dopo una sfilza di singoli e video che l’hanno vista protagonista di Youtube dal 2008, la Warner è pronta a farle fare il botto e potete contarci che qualcosa la ragazza sposterà. Il suo modo è probabilmente quello now on: gli Ottanta più trash (Yeahsayer e Shy Child) giochetti Abba e da lì a capofitto nel teatro di posa inglese riportato alla luce da Lightspeed Champion e The Irreprensibles, come dire l’effimero come filosofia. Poi c’è tanta moda e tradizione Brit. Non tanto la McCartney piuttosto “Vivienne Westwood, Sofia Kokosalaki, Christian Lacroix & Pam Hogg” come sbandiera Marina stessa sul myspace, lei che è cromosomicamente welsh ma anche greca e gliela senti la fisicità folky nelle strofe che ogni tanto fa l'occhiolino a Annie Lennox e a Kate Bush. L’esordio lungo contiene tutte le tracce già youtubate e altri inediti: si passa dalla poshyness degli arpeggiatori di Are You Satisfied? al barocchismo di I Am Not A Robot (notevole anche in versione acustica), dallo sfottò di Lady Gaga in Shampain alla pompa magna ‘80 di Hollywood 67 (con frecciatina a Shakira), Marina è la nuova starlette di un pop made in UK che vuole sfidare gli USA. Che sia poi così di plastica una che scrive frasi del genere: “Can you be within popular culture without becoming it?”. Ne sentirete parlare parecchio.(7.3/10) Marco Braggion Matthew Shipp - 4D (Thirsty Ear, Febbraio 2010) G enere : solo piano free Non è propriamente un virtuoso degli 88 tasti, Matthew Shipp. O forse non gl'interessa troppo ostentare sottigliezza dinamica, stillare la nota tra le note, cogliere il cromatismo perfetto. Con tutto ciò, il suo stile percussivo tradisce un'urgenza che ti avvince, tratteggia espressionismo free generoso e febbrile. Le sedici tracce in piano solo di questo 4D, quinto disco a suo nome, godono di una pienezza spasmodica non comune, si fanno luce a strappi e svolte, sgomitano per farsi strada lungo il percorso meno comodo e breve tra spunti melodici originali o tradizionali (Prelude To A Kiss, Autumn Leaves...). L'estro nevrastenico del primo Keith Jarrett, l'entusiasmo volitivo di Bud Powell, la visionarietà scentrata di Sun Ra, le meditabonde insidie di Art Tatum e il dadaismo arguto di Thelonious Monk sono alcuni frames che balenano ricorrenti e impronosticabili, rendendo l'ascolto un'esperienza tonica dal primo all'ultimo istante.(7.2/10) Stefano Solventi Moon Duo - Escape (Woodsist, Febbraio 2010) G enere : K raut W ave Qualche mese fa avevamo detto che di Ripley Johnson e Sanae Yamada avremmo avuto presto notizie e così è stato. Inizialmente presentato come mini (cui effettivamente si avvicina per numero e durata dei brani), poi ripensato come album vero e proprio, Escape gioca sulle coordinate precedentemente tracciate: drum machine programmate a casa Klaus Dinger, nebulose spirali di riverberi, lamenti vocali dal pianeta Vega. Eppure, accanto ad esecuzioni un po’ pedisseque (la titletrack), ecco irrompere accoppiate basso&batteria quasi electro da quanto suonano groovy (Motorcycle I Love You), e fumosi riff blues sottratti alle prove dei Wooden Shjips (In The Trees, Stumbling 22nd St). La formula del 68 Duo è ormai nota, l'effetto di estraniamento è garantito ancora una volta.(7.3/10) Andrea Napoli Mose Allison - The Way Of The World (ANTI-, Marzo 2010) G enere : rhythm & jazz Pare strano scriverlo, ma quel signore anziano dall’espressione serena e bonaria fotografato in copertina non incideva un disco da dodici anni. C’è voluto un cantautore tra i più sottovalutati in circolazione per convincerlo e cioè Joe Henry, il quale possiede inoltre un tocco abile e personale in giusto al di là del vetro. Bello pensare che le cose siano andate così, seguendo quella che alla Anti- è norma e altrove eccezione; che, accantonate le questioni di commercio, sia venuta voglia di pubblicare un album a una figura poco nota ma non tra i musicisti. Lo conoscevano i Clash che rilessero Look Here tra le facciate di Sandinista! e ancor prima gli Who, intenti a misurarsi con Young Man Blues su Live At Leeds. Lo conosce Henry che, convocata una squadra di giovani e abili strumentisti, sovrintende a mezz’ora di zompettamenti di pianoforte - qui sbilenco alla Monk, là scalpitante alla Garner - e voce sardonica in mezzo a corde acustiche e spazzole impolverate, contrabbassi felpati e sax sinuosi. Una scrittura che dici madre di Randy Newman (I Know You Didn't Mean It) e Tom Waits (I’m Alright), con tutto quel che ne consegue. Che la piglia sul ridere (My Brain) o con filosofia (The Way Of The World); che sa dirsi svagata (Everybody Thinks You're An Angel) e ricordarsi la frusta (Let It Come Down); che interpreta l’impegno sociale come gesto a prescindere (Modest Proposal ce l'ha con la religione organizzata). Scrive Henry nelle note interne che Allison è un ponte steso tra l’oggi e gli anni ’50, tra l’urbanità del jazz e il mistico country blues. Concludendo - con un’importante chiave di lettura: la “mitologia americana” sospesa tra normalità e surrealismo - che costui ci conduce da Mark Twain dritti a Willie Dixon mentre Chico Marx indica la strada a James Stewart, seduto al volante. Blues nella forma e soprattutto nello spirito, ogni parola pesata come una pietra. Un disco vitale e rigenerante da mandare giù beatamente, in apnea.(7.2/10) Giancarlo Turra No Balls - Come Clean (Release The Bats, Novembre 2009) G enere : N o W ave - S ludge Due ragazzi ingozzati di no-wave a cui è venuta voglia di suonare del noioso sludge. Riduttivo certo, ma del resto il nuovo progetto dei Brainbombs, al secolo Drajan Bryngelsson e Dan Råberg, è fatto di questa pasta semplice, concisa, infida e dannata. In Come Clean tremano nervi US Maple in lo-fi Half Japanese, il riffage stoogesiano viene riveduto perché suoni appositamente monco e, in ogni brano del disco, frammenti di discorsi chitarra-batteria si ripetono immutabili, in perpetua tensione verso dei cambi che non avverranno mai. In vinile su Release The Bats, Come Clean è la quadratura di un cerchio ipnotico. Psichedelici effetti collaterali di tendenze risolutive continuamente insoddisfatte.(7.2/10) Leonardo Amico Okapi - Love Him (Sonic Belligeranza, Gennaio 2010) G enere : plunderphonia Ci si addentra nel territorio del nonsense col nuovo di Okapi. Non pago di flirtare con generi (dalla plunderfonia al break-core) e artisti (da Zu a Peter Brotzmann, passando per Damo Suzuki e Mike Patton) tra i più diversi, in Love Him Filippo Paolini in arte Okapi va di apologia dell’inesistente. Love Him è infatti un doveroso omaggio al fantomatico compositore kirghiso Aldo Kapi in doppio volume vinilico (pubblicano KML e Sonic Belligeranza, produce Scarrymonster, mentre il cd è targato Illegal Art), suddiviso filologicamente in Vol. 1: Recent (1927-1952) e Vol. 2: Early (1914-1926). Tra sampling estremo e gusto per la frammentazione/ricomposizione di input sonori tra i più diversi, Love Him si avvale di una sensibilità - quella di Okapi/Aldo Kapi - fuori dalla norma. Surreale, dada, astratta. In grado cioè di fagocitare contemporanea e easy listening, funk deragliante e ghiribizzi sonici, white noise e plagiarismo oltre che plastici riferimenti al pop più asincrono, al breakcore più gretto, alla plunderphonia più radicale in nome di un djing funambolico e deviato. Ne esce una pastosa musica delle musiche che in un tutt’uno banalmente definiremmo blob metamusicale. Roba che si respira addosso, che si annusa prima di assaggiarsi e rivomitarsi fuori in forse sempre accattivanti, mobili, cangianti. Certo, le premesse del suono plundephonico al passaggio tra i due millenni erano altre, così il portato militante e di rottura del plagiarismo quando ancora il timore per il saccheggio sonoro era reale (chiedere ai Negativland); ma ad oggi resta questa, forse, l’unica forma di musica in grado di rappresentare l’imbastardimento contemporaneo. E Okapi resta maestro nell’evocare paesag- gi sonori strambi e sfaccettati in microsuite intelligibili, oltre che una militanza off, sul crinale tra situazionismo e protesta, che ormai sembra archeologia (post)industriale.(7.2/10) Stefano Pifferi Ola Podrida - Belly Of The Lion (Western Vinyl, Febbraio 2010) G enere : dream folk David Wingo ci riprova e, a due anni dall'esordio, torna a mestare nel pentolino di Ola Podrida. Solito il progetto: dare vita ad un dream folk esorcizzante e autarchico, come dire ecco cosa ti posso sognare in questo scorcio di Texas col cuore in ambasce e tanta voglia di stemperare gli orizzonti tra visioni cinematiche. Per farlo, David sintonizza la calligrafia tra palpiti frugali Iron & Wine, sdilinquimenti Yo La Tengo e fatamorgane Radar Bros., facendo propri al bisogno il malanimo Black Heart Procession (We All Radiant), la facinorosità Neutral Milk Hotel (nella splendida Donkey) e persino - gosh! - certe caligini Clientele (sentite Lakes Of Wine e soprattutto The Closest We Will Ever Be). Missione compiuta, alla fine: uno stesso trepido incanto percorre le nove tracce. Tanto da lambire una certa monotonia emotiva.(6.4/10) Stefano Solventi Olyvetty - Nothing To Eat (A Dear Girl Called Wendy, Febbraio 2010) G enere : noise Ennesimo supporto per Olyvetty. Stavolta è il 10” la misura adatta a fotografare il divenire musicale del duo Rocchetti-Benassi. Tre tracce per poco più di un quarto d’ora di musica che spiazza ancora una volta per dinamiche e aperture. Sul lato A le quasi gemelle Oh So Psy (minimale procedere in loop, semi-melodica e sognante) e Oh So Dry (un campione vocale che monta come una marea assassina prossima al white noise eccentrico e mantrico) mostrano il lato più astratto del power-noise energico e rutilante del progetto. Risponde dall’altro lato la suite Burkina Faso Techno Squad, centrata su un procedere afro-beat per come possono intenderlo i due: sfranto e rovinato, granuloso e concentrico, pronto a inclinarsi sul versante techno grazie ad una drum machine poliritmica, ossessiva e radicale, eppure sempre dal retrogusto alieno. Come un rito voodoo nei sobborghi di Brazzaville visto dalla lente deformante di due alieni del fare musica odierno. Ce ne vorrebbe di più di 'sta roba, ma nelle scuole.(6.8/10) Stefano Pifferi 69 One Starving Day - Atlas Coelestis (Beta-Lactam Ring, Marzo 2010) G enere : heavy cosmic Pit Er Pat - Flexible Entertainer (Thrill Jockey, Gennaio 2010) G enere : M eta pop La musica heavy è in costante evoluzione, e pure l’Italia, che in merito a fenomeni popular (dal prog alla wave) è da sempre ottima allieva ma poche volte maestra, contribuisce al processo licenziando un disco che oltre a farsi vanto, non ci meraviglieremmo di una sua eco oltre stivale. Ciò nonostante, per la creatura One Starving Day l’etichetta heavy va pure stretta, poiché partendo da una solida base per così dire post-core (i Neurosis come modello) estendono un raggio d’azione volto a creare una cifra stilistica difficilmente rintracciabile, quanto meno, in altre produzioni nostrane. Atlas Coelestis muove tipo degli Amon Düül II che, ai tempi, invece di suonare come dei Jefferson Airplaine maligni avessero preso alla lettera la lezione dei Black Sabbath. Ci si ritrova inoltre una serie di umori chiari e/o satelliti come , ad esempio, il prog si stanza King Crimson epoca Red (non a caso, il loro disco più “pesante”) di Black:Black, palese rimando per il sax (suonato dal guest Mario Gabola di A Spirale) e coloriture ritmiche reso nondimeno peculiare in virtù di gusto tendente all’apocalittico. La differenza con il precedente Broken Wings Lead Arms To The Sun (legato dal file rouge che dai fu Godspeed You! Black Emperor arriva ai stessi Neurosis) risiede nella presa di coscienza kraut - da intendersi più come mood che puramente musicale - che, funzionale ad un quid sludge (The Drift of Andromeda) e siderale (l’harmonioum nella title track e i soli synth di Descending Orion, entrambe poco oltre il minuto di durata), declina la matrice doom come raga kosmische (Disclosure/Radiance) e stranianti figure heavy-mutanti (il vocoder in An Evil Light). Il mastering di Bob Weston (Shellac), oltre a risaltare la raggiunta maturità dei napoletani, manifesta un suono spesso e quasi pagano, dove ogni singolo elemento (tra fiati, synth e violini, tanta roba) cesella una macchina perfetta. Tutto ciò, finalizzato nell’epica Aurora: non si sa dove appellarsi, gli Ash Ra Tempel violentati dai Neurosis? I primi Tangerine Dream semmai avessero inciso per Relapse? Strati di sassofono, chitarre in rotta di collisione, drumming come mazzate, voce posseduta e finale postcameristico. Non una semplice canzone: un esperienza per mente e corpo. La catarsi ideale per un disco che altro non è che psichedelico. Roba che alla Supernatural Cat neanche si sognano. Heavy mental.(7/10) Lasciate alle spalle le complessità e l'eleganza dell'ottimo High Time, l'entità Pit Er pat s'alleggerisce del terzo membro e nella formula. Con Flexible Entertainer il duo ritorna confezionandoci un album veloce e diretto come ai tempi di Shakey ma forte del gioco massimalista del recente passato forzandosi così su un'economia di mezzi per esigenze di tour (da lì la programmaticità del titolo) ma soprattutto per saggiare la solidità delle fondamenta. Lo scarto, intuibile ma non automatico, è dato dal largo utilizzo di ritmi e effetti registrati manovrati da un mixer con chitarra e voce in contrappunto karaokista. E' il classico armamentario dell'outsider hip hop di questi tempi, genere al quale il singolo Water fa più che un riferimento indiretto. Altrove prevale quella latinità sghemba di High Time intrigantemente tagliata hop (la cristallina, morriconiana dal vago sapor di Portishead Nightroom), messa a mo' di frammento del dj (l'obliqua Godspot con tracce di Wall of Voodoo) oppure impiegata per moltiplicare la spirale psych come se i Pit Er Pat fossero degli Animal Collective goth (Emperor Of Charms). Sul versante del suonato i fraseggi alla seicorde si fanno più evidenti mentre il canto di Fay Davis-Jeffers più scuro, tanto da sembrare il fantasma di Eleanor Friedberger, dei spesso compagni di concerti Fiery Furnaces, oppure la versione europea dell'elegiaca Victoria Legrand dei Beach House, riferimenti assolutamente da considerarsi nel taglio "meta" proprio della casa e parimenti accostabili ad altri quali Bjork, le Slits, Raincoats, il tutto a zero tasso di riverenza. Album corto e fugace, Flexible Entertainer è nondimeno ricco e ben congeniato, sarebbe un errore imperdonabile non creditarlo tra i lavori avant pop che contano. Specimen, traccia sipario nel quale ritorna anche la componente ritmica più marcatamente free, è lì a dimostrarlo, testimone di un album che è il concentrato del precedente, senza che questo comporti un benché minimo calo di qualità. (7.2/10) Gianni Avella 70 Edoardo Bridda Polar Bear - Peepers (Leaf, Febbraio 2010) G enere : jazzrock Polar Bear è un combo di Londra che fa jazz con due fiati (i sax di Mark Lockheart e Pete Wareham), la chitarra di Leafcutter John, il basso di Tom Herbert (già all’attivo con The Invisible di Dave Okumu, band di postrock con inflessioni jazz, non a caso) - e anche, last but highlight Spoon - Transference (Merge, Gennaio 2010) G enere : indie - rock C'è chi li paragona ai Wilco. Una forzatura evidente che in realtà nasconde qualche verità. Il motivo è semplice: gli Spoon funzionano più o meno come Jeff Tweedy e soci quando si tratta di scrivere musica. Attenzione riservata al potenziale creativo dei dettagli, approccio poco convenzionale negli arrangiamenti, grammatica confinata a un indie-rock laterale. Talmente sfuggente la "freschezza datata" del suono che oltreoceano qualcuno ha già coniato il termine “spoon-ish” per definirla, quasi fosse una categoria a sè stante. Il recente Ga Ga Ga Ga Ga ha regalato alla band di Austin molte soddisfazioni, non ultima un otto e mezzo con tanto di label “Best New Music” affibbiatogli da Pitchfork. Per un'opera ricchissima - ma forse un tantino sopravvalutata - che oltre a offrire buoni contenuti, ha ricordato agli smemorati di turno come lo studio di registrazione possa ancora rappresentare un buon alleato per la creatività di un musicista. Transference prende idealmente le distanze da quel capolavoro di glamour del multitraccia che era il predecessore - cinque brani su undici del nuovo disco sono in versione (quasi) demo tape -, concentrando il tiro su un rock/ wave/funk essenziale e poco disposto alle inutili fioriture. Il che paradossalmente esalta quello che è l'elemento fondante degli Spoon: i brani. Accantonate le pose artificiose, la band di Austin si affida alla “semplicità” di una formula che mescola miraggi Cake e Wilco (Before Distruction), chitarre Libertines e psichedelia (Is Love Forever ?), certi bassi à la Another One Bites The Dust e coloriture Beatles (The Mistery Zone), new wave (Got Nuffin) e disco ante litteram (Nobody Gets Me But You). Oltre a piazzare in scaletta corposi funk-rock destinati a una diffusione capillare come Written In Reverse o singoli abrasivo/melodici come I Saw The Light. Materiale “spoon-ish” fino al midollo. Meno ammiccante rispetto al disco precedente, ma superiore nel ribadire ottime capacità di scrittura e di lettura della contemporaneità. In un music biz sempre più contaminato e indefinibile in cui gli Spoon dimostrano di sapersi muovere a meraviglia.(7.5/10) Fabrizio Zampighi not least, con la batteria di Sebastian Rochford, responsabile principale anche delle composizioni, nonché noto per una chioma notevolissima, per essere parte della comunità jazz F-IRE Collective e per aver suonato la batteria nei primissimi passi dei Babyshambles. Aleggia poi nelle bio dei Nostri il nome di Acoustic Ladyland, altra esperienza londinese legata al F-IRE, e notabile per dare ancor di più l’impressione del networking da cui i Polar Bear si sono materializzati. Una consistenza che, evidentemente, risuona nella musica, che è immediatamente riconoscibile come jazz - e come non esserlo con due sax tenori a dare il timbro alla band. Un jazz tanto modale (Bap Bap Bap) quanto più destrutturato (ma mai propriamente free, cosa che ci saremmo aspettati): Drunken Pharaoh conserva tutto lo sperimentalismo che arriva dagli sfilacciamenti strutturali dei Novanta (da noi si parlerebbe delle ultime vicende Starfuckers). E lì (come in Peepers, e nei voodoo brevissimi di Bump e Scream, quasi un Minutemen al ralenti) si vede quanto la sezione ritmica contribuisca in maniera sostanziale a non rendere banale questa musica. Abbiamo un’ipotesi, e cioè che per Peepers si possa parlare di jazz-rock, senza per questo pensare agli anni Settanta, piuttosto al post-Novanta. E anzi, così facendo, vorremmo denunciare un’attenzione maggiore per quello che, nei Polar Bear, rimane meno vivido, figurativamente (le figure melodiche dei sassofoni), e più sedimentato, nel cervello dell’ascoltatore (le strutture).(7/10) Gaspare Caliri Prins Thomas - Prins Thomas (Full Pupp, Marzo 2010) G enere : K raut In una foto promozionale per questo nuovo disco, Prins si fa ritrarre con una maglietta in cui campeggia la scritta Adult Oriented Rock. Un genere/non-genere che impazzava negli anni ‘80 e che significava tutto e niente. In teoria comprendeva il rock per quei sessantottini impol71 verati che non riuscivano più a seguire le derive punk o arty wave che le correnti più moderniste imponevano alle musiche del tempo. Un tag conservatore nel quale una grossa fetta di nostalgici si crogiolava a colpi di superalcolici davanti al camino con l’imprescindibile canna in bocca. Le sette tracce che Prins ci propone sono un buon compromesso tra la progressività krauta e la direzione dance oriented che ha preso il suo collega Lindstrøm, il tutto con quella A di Adult che incombe e che per una volta non stanca. La rielaborazione dell’esperienza ormai decennale del produttore riesce a spaziare senza perdere vitalità fra cavalcate funk su moquettes con i cerchioni op-art (Nattonsket), motivi electro pop che ricordano il solito improbabile mix di Stereolab (Uggebugg) e Pink Floyd (Orkenvandring) e visionarietà campionate dal solito pool krauto (Slangemusikk). Un disco che consolida e cementa la proposta dell’uomo. Senza pretese, merita il replay.(6.8/10) Marco Braggion Quasi - American Gong (Domino, Febbraio 2010) G enere : indie rock Formula stimolante quella architettata da Sam Coomes e dalla (ora ex) Sleater-Kinney Janet Weiss, un tempo coppia anche nella vita. Allestire una versione stringata e ridotta all’osso - forte di un’esecuzione robusta e felicemente low-fi - del pop anni ’60 non era faccenda scontata nel 1996 che li vide esordire. Far leva su batteria, tastiere e sparuti interventi di chitarra comportava rimuovere l’apparato orchestrale tipico dell’epoca cercando di trattenerne la calligrafia. Operazione riuscita a tratti lungo un pugno di LP (apici Featuring “Birds” e Field Studies) ma che di recente mostrava segni di ripetitività. Qui le probabili ragioni di accogliere la chitarrista/bassista Joanna Bolme, eoni fa nelle ottime Calamity Jane e transitata con Janet nelle fila dei Jicks di Stephen Malkmus. Il vicolo cieco viene scansato dal punto di vista stilistico in una prima metà di scaletta coinvolgente e priva di cedimenti, sorta di bignami del suono indie: tra echi di giovani Yo La Tengo (Repulsion) e ipotesi di Fall americani (Little White Horse), scrittura lennoniana via Jason Lytle (Everything And Nothing At All) e indolenza da Pavement acustici (The Jig Is Up) si raggiunge l’eccellenza 72 con Bye Bye Blackbid (i Television Personalities riletti dai Grandaddy nel mezzo di un tonificante marasma stoogesiano). Il problema è che i Nostri sono mezzofondisti e, di conseguenza, arrivano al traguardo dei 10.000 metri col fiatone: nella seconda metà si afflosciano - con qualche eccezione - su stiracchiamenti e qualche riempitivo di troppo. Applaudiamo pertanto il coraggio di cambiare pelle, non senza un po’ di rammarico per la discontinuità dell’ispirazione.(6.7/10) Giancarlo Turra R.U.N.I. - RrrrUuuuNnnnIiii (Wallace Records, Febbraio 2010) G enere : follia - rock Runi, runi on the wall, who’s the craziest of it all? Andiamo di demenza gratuita quando scriviamo dei R.U.N.I. senza poterci astenere. L’equivalente musicale del gonzo-journalism - clownesco all’apparenza, ma sempre terribilmente serio in nuce - mantiene fede alla nomea acquisita anche in RrrrUuuuNnnnIiii, disco che quadruplica le lettere, consolida la formazione a tre - Fabio Bielli (chitarra), Daniele Malavasi (batteria), Roberto Rizzo (voce, tastiere, basso) - e conserva inalterate caratteristiche e peculiarità ben note. Anzi, possibilmente spinge ancor più sull’acceleratore ritmico-krauto, grossa novità del terzo millennio targato R.U.N.I (se di novità si può parlare). Proprio con un motorik incessante, robotico ed alieno, alla maniera dei Trans Am si apre l’album: L’Uomo Che Morisse Due Volte si inarca per 4 minuti pieni su uno strepitoso beat retrofuturista messo al servizio di un messaggio di denuncia sociale per come la possono intendere i tre, ovvero nonsense di default. Un leitmotiv, quello della spinta ritmica, che ritorna lungo tutto l’album. Pranzo Da Dio (approccio quasi p-funk inacidito), Pitoni A Miami (i Kraftwerk sotto botta in una Tangeri de noantri), Afrofrate Di Fretta (variante etno-kosmische impazzita su tensione alla Massimo Volume), Jesus Christ Sugostar (interplay strumentale da cavalcata senza soste) sono perfetti esempi del muoversi energico e serrato in mezzo al solito marasma da teatrino del surreale cui siamo abituati (e mai paghi). Ciliegina sulla torta, una splendida e poetica I-205 In Ascona, complice la voce eterea di Mae Starr che normalizza la follia runica verso lidi dreaming mai visti. Chapeau.(7.2/10) Stefano Pifferi Scout Niblett - The Calcination Of Scout Niblett (Drag City, Gennaio 2010) G enere : blues , songwriting L’avevamo lasciata in terra americana a far coppia con Bonnie Prince Billy nel precedente This Fool Can Die Now (2007) e con Steve Albini a contenere la nota irruenza della polistrumentista inglese. A distanza di tre anni, ancora con Albini alla produzione, l’irruenza di Scout Niblett non si è pacificata, anzi. Laddove nel penultimo prevaleva una certa riflessione, anche nel suono, ora è essenzialmente un blues scarno e recitato, sensuale a tratti e minimale, a farla da padrone. Album perfettamente in linea con il suo stile, d’altra parte, The Calcination of Scout Niblett ripropone questa volta l’essenza più oscura e tormentata di una musica ridotta all’osso, sola chitarra elettrica, voce e ritmica dilatata e una produzione che le lascia lo spazio necessario, esaltandola nei saliscendi ritmici e vocali. A ricordare qui più che mai una Shannon Wright essenzialissima o la prima PJ Harvey. Il blues urgente è infatti la chiave di lettura dell’album, che viene riproposto tra spasmi e controtempi, accelerazioni e decelerazioni. Un’altra declinazione del suo songwriting, qui reso omogeneamente e in coerenza con una carriera ormai decennale.(7/10) Teresa Greco Serena Maneesh - S-M 2: Abyss In B Minor (4AD, Marzo 2010) G enere : dark - gazing Annunciato come una “camera di magie rock’n’roll”, il sophomore album del gruppo norvegese rispolvera il noise-gaze filtrato dell'esordio, pompandolo con consapevolezza ed esperienza tra l'amplificazione e il dark di lungo corso. L’embedding nell’immaginario 4AD si sente come non mai, sotto forma di trucioli e conchiglie che affiorano sulla spiaggia abbandonata della wave britannica. La forza però è tutta nell'aggiornamento '90, come dei My Bloody Valentine che s'impattano nelle loro copie post shoegaze innamorati del plagio di Loveless (nomi obliati come Spirea-X o Black Tambourine). Da una parte c'è l'etereo barocchismo, dall’altra un muro che spacca ed esalta anche i più scafati ascoltatori. E' revival congiunto. Oppure un affasciante mondo parallelo fatto di rimandi (anche iconici per la cantante) a Nico (Honeyjinx), al rumorismo degli imprescindibili Jesus And The Mary Chain (Melody For Jana), al pop dei Pastels (I Just Want To See Your Face) e in generale alle atmosfere pastello che riposano nei cuori dei fan dei Cocteau Twins Colpo dritto al cuore e le illusioni di sempre, come diceva Fiumani.(7.2/10) Marco Braggion Shout Out Louds - Work (Merge, Febbraio 2010) G enere : wave - pop Giunti alla terza prova e fatta salva una scrittura sopra la media, gli Shout Out Louds sembrano una versione più blanda di Arcade Fire o Veils.Addomesticata l’urgenza, abbiamo un terzo lavoro ancor più rilassato e misurato nelle spinte wave dei precedenti e, se di svolte dobbiamo parlare, una piccola la si ravvisa nella produzione: concisione e levigature in odor di Phoenix trovano un Phil Ek con nulla da opporre, se non dinamiche più fisiche nella ritmica e venature alla bisogna più New Order per le chitarre (Show Me Something New). Non mancano nemmeno arrangiamenti chamber-folk che fanno tanto “anni zero” (Moon), benché i balocchi à la Architecture In Helsinki siano stati riposti nel baule. L’altra novità riguarda i testi, positivi e soprattutto dreamy (Too Late Too Slow, Moon) che allontanano ogni facile paragone col Robert Smith di fiducia, per numeri white-soul (Candle Burned Out) o country-pop (Fuor By Four) non troppo a fuoco e contrapposti alla nota frenesia sottopelle. Non paiono troppo prigionieri del passaggio a O.C. (Play The Game) né dell’abusato pop agreste che li lanciò cinque anni fa, questi rinovati Shout Out Louds, per quanto un pizzico di pepe al culo in più non avrebbe guastato. Episodi con voglia di raccontare come l’iniziale 1999, Fall Hard e Walls stemperano presto la fiamma in un confortevole tepore, generando nostalgie e confronti con la passionalità imperfetta del primo album o lo spleen tra le righe della seconda prova. Work resta così una piacevole cartolina dalla Svezia con paesaggi statunitensi, appropriati chiaroscuri e canzoni anche apprezzabili: spedita da ragazzi in abiti da adulti ma che adulti del tutto non sono (ancora?), forse incappati in un produttore non adatto. Qui, sappiatelo, non troverete un'altra Impossible: Fall Hard, la coerente maturazione, piacerà pur lasciando il cuore altrove."(6.5/10) Edoardo Bridda 73 Shy Child - Liquid Love (Wall Of Sound, Marzo 2010) G enere : eighties Solitamente la capacità di vendersi e quella di sperimentare non abitano nello stesso musicista. Soprattutto se si ha a che fare con certi circuiti abitati da vibrazioni che all'indie antepongono l'avant. Quando dieci anni fa formò gli Shy Child, Pete Cafarella era un ragazzo che trafficava tra dance, punk e wave con lo spirito anarchico adeguato per l’occasione. La critica lo adorava e gli fece pure ingoiare il richiamo eighties con i Supersystem, rubacchiando qualche idea agli amici Faint e flirtando sofisticatamente con il pop, proprio come fecero i post-punkers agli inizi della decade edonista. Un paio di anni dopo, in pieno boom Klaxons, lo stesso Cafarella indossa abiti yuppie, si professa nu-raver a colpi di laser e con Noise Won’t Stop mette l'avant degli esordi al servizio della nuova onda di bordoni fluo. Non è la luna ma nemmeno una mossa incoerente, mentre sottobanco affina la penna e firma contratti con sempre più zeri. In pratica stringe mani potenti: apre per i Muse al Wembley Stadium e poi per Björk; nel frattempo, i suoi Shy Child suonano per Stella McCartney alla Royal Albert Hall e diventano il gruppo Americano più introdotto oltremanica. Oggi, in seguito a una sbornia di live planetari, il brand ha bisogno di arrivare alla gente e Liquid Love, disco contorno d’intrattenimento post-house, possiede tutto quel che serve nel 2010: la quintessenza degli ‘80 più tronfi che sono esattamente gli stessi (inspiegabilmente) osannati nella seconda prova degli Yeasayer, sgonfiatasi nel giro di un mese come manco un palloncino in carenza d’elio. Pete ha concepito le nuove composizioni per gli ambienti che nel 2007 lo hanno arricchito, per la passerella e il pre-serata. Niente male come investimento per il (suo) futuro, ma a noi restano che simulacri e luoghi comuni.(4/10) Edoardo Bridda Sin Ropas - Holy Broken (Madcap Collective, Febbraio 2010) G enere : indie - psichedelia Della terna di album che i Sin Ropas di Tim Hurley e Danni Iosello hanno pubblicato in un decennio, Trickboxes On The Ponyline ci è sempre parso il più significativo. Più di quel Three Cherries naturale evoluzione dell'alt-folkblues della casa madre Red Red Meat / Califone sommata a certi fermenti psych ancora in via di definizione. E più dell'ultimo Fireprizes, in cui invece l'immaginario lisergico prendeva il sopravvento a discapito dell'organicità, spingendo fin troppo sugli strascichi delle chitarre 74 elettriche. Questione di opinioni, ne conveniamo, anche perché la materia trattata è di quelle difficilmente oggettivabili. Musica impalpabile e istantanea in equilibrio precario tra psichedelia sfilacciata e certo “cantautorato” indie - con i Meat Puppets e gli Sparklehorse di Vivadixiesubmarinetransmissionplot a benedire gli sforzi per il pane -, folk e alt-blues a maglie larghe. E capace di intercettare istanze diversissime tra loro (sperimentazione, orecchiabilità, narcosi, melodia) come di accendere passioni umorali e agli antipodi. Holy Broken riprende a grandi linee la lezione del Trickboxes On The Ponyline citato in apertura, privilegiando ulteriormente organicità, forma canzone e una certa leggerezza nelle melodie. Aperture che sfiorano il pop (deviante) nell'introduttiva The Fever You Fake una Cold Blooded Old Times spesa tra assoli acidissimi di chitarra e pianoforte in sottofondo -, rintracciano l'anima folk/country della formazione in Stolen Stars And Light e Holy Broken - minimali, spesso solo voce e sei corde acustica - per poi finire in quel limbo fangoso ed evocativo che è da sempre è il tratto distintivo della formazione americana. E che da sempre gli permette di mantenere un culto fedele nell'indie internazionale. Duplice il ruolo di questo Holy Broken: una valente introduzione all'immaginario Sin Ropas che non scava trincee insormontabili e un'ulteriore conferma della bontà di un progetto che quando scende a patti con una quadratura maggiore delle geometrie ottiene forse i risultati migliori.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Sinclear - Nothing Ever Happens (Mousemen, Marzo 2010) G enere : punk - hardcore Punk-rock energico versante Bad Religion / Offspring su cadenze quasi hardcore con tutti gli annessi e connessi del caso. In pratica - a parte il discreto crossover de L'ego che ricorda i Linea 77 - un range stilistico ben definito (e quindi limitato) che muove sicuro sui propri binari manco fosse la linea Milano-Roma dell'Alta Velocità. Come dire, i tempi dei Prozac+, quel misto di istituzione e varianza, sono lontani.(5.2/10) Fabrizio Zampighi Skullflower - Strange Keys to Untune God’s Firmament (Neurot, Gennaio 2010) G enere : D rone Incarna la versione più oltranzista della band, il nuovo lavoro degli Skullflower. Un suono accomunabile agli assalti all'arma bianca di certa elettronica - da Whitehouse a Merzbow al nostro Maurizio Bianchi che spazza via l'impronta sludge che caratterizzava gli esordi nei primi anni '90 e ogni facile riferimento alla contaminazione rock. Presentato da Steve Von Till che ne paragona il suono a quello di Richard Wagner (!), Strange Keys to Untune God’s Firmament - lunghissimo doppio cd - scolpisce un noise astratto e radicale fatto d'ampli al collasso e chitarre torturate, statici rombi di rumore e turbolenze di feedback. Al di sotto di esse però si agita un certo tono drammatico che ne è poi la cifra stilistica: in potenza, è come se a suonare fossero mille archi. Se Nietzche vedeva negli aspetti catartici di Wagner lo sprofondamento in una tragica consapevolezza, il pregio dei Skullflower è quello di portala verso nuovi mastodontici livelli espressivi.(7.2/10) Leonardo Amico Soft Pack (The) - The Soft Pack (Heavenly, Febbraio 2010) G enere : I ndie rock Il loro è ancora il nome giusto da fare se si vuole ben figurare sui blog indie. Ancora per qualche tempo almeno, prima che diventino troppo famosi per non scatenare l'ira degli ortodossi o che ritornino nei sotterranei di San Diego da cui provengono. Attualmente però i Soft Pack si trovano in quella sottile striscia di interdizione fra il "glamouroso" universo indie del NME e il mondo sommerso del DIY made in USA: una nebulosa di micro label che, guardando con nostalgia a gloriose esperienze del passato (l'aussie pop della Flying Nun, il C86 britannico, il lo-fi anni 90 americano), sta ridando un senso alla parola "indipendente". È di questo universo variopinto che gli artisti un tempo conosciuti come Muslims sono i portavoce. Oggi, modificata la ragione sociale ma non la formula musicale, forti di un contratto con la Heavenly, esordiscono sulla lunga distanza con un album tanto divertente quanto coinciso. Si parte con l'incalzante incipit di C'mon e siamo subito al grado zero del rock: schegge impazzite di minimalismo garage, suoni abrasivi e ritornelli elementari. E' un male? No tutt'altro. Anzi, a dirla tutta non avrebbe guastato un pò di sporcizia in più. Fa sorridere il fatto che da più parti si siano tirati in ballo gli Strokes, quasi fossero l'unica band del pop recente ad avere i Velvet Underground e Jonathan Richman nel DNA. A proposito di quest'ultimo poi, c'è da dire che il contributo dato alle ultime generazioni di rockers con i suoi Modern Lovers deve ancora essere adeguatamente quantificato. Nel sound dei Soft Pack tutto questo viene filtrato attraverso la lente pop di Soup Dragons e Vaselines: la velocità aumenta, i suoni si fanno più brillanti e le canzoni diventano filastrocche dall'impatto immediato. More Or Less è un folk punk al vetriolo con una melodia degna dei Chills, mentre Down On Loving è cantata da Matt Lamkin con aplomb britannico, su chitarre che sferragliano in sottofondo e una batteria che tira dritto come un TGV. Certo sarà dura farli passare come i salvatori della patria, o caricarli di hype come si fece una decina di anni fa (gulp!) con i gruppi della risibile New Rock Revolution, ma l'indie rock odierno, quello che trionfa col passa parola della rete, che si nutre di tonnellate di 7'' registrati in bassa fedeltà e che ogni tanto si concede una capatina nel grande giro, potrebbe aver trovato i suoi portavoce.(6.6/10) Diego Ballani Solex - vs. Jon Spencer, Cristina Martinez - Amsterdam Throwdown King Street Showdown (Bronzerat, Marzo 2010) G enere : garage - exploitation Non li ricordavamo in buone condizioni di forma, i protagonisti di questo disco: Jon alle prese con la macchietta di se stesso e la Martinez con una versione eccessivamente glamour dei Boss Hog, poi a lungo lasciati in naftalina; Solex, invece, intestataria di un lavoro interlocutorio, lontano dal brio collagista che ce l’aveva fatta apprezzare. Per questo motivo, la notizia di un disco a sei mani ha smosso l’attenzione su delle carriere in stallo e chissà che non segnali una ripartenza con motivazioni rinfrescate. Per ora, l’esito parla di errebì a bagno nel garage spruzzato di hip-hop e indie americano anni ’90; uno stile che odora di bianco e nero metropolitani fusi assieme (apici Fire Fire, Uppercut e Aapie) e cioè quanto ti aspetteresti dall’olandesina e dai signori Spencer. Ognuno recita la propria parte, buttando sul piatto tutte le capacità e il mestiere di cui è in possesso: c’è il gigioneggiare da Mick Jagger maturo e il citazionismo post, la battuta hip-hop 75 e il pop arguto, alcune (poche, per fortuna…) movenze eseguite col fiatone. Nei brani dove Solex - “agganciata” in occasione di un dj set tenuto dopo un concerto della Explosion - ha più spazio si respira una certa freschezza, un soul sbiancato ancheggia ironico (Dirty), strizza l’occhio con arguzia (Too Much, Too Fast), scorre brioso e persuasivo (Bon Bon). Aspetti un altro po’ e ci scappa l’asso da consumati marpioni, una luccicante Galaxy Man al crocevia tra exotica e negritudine. A conti fatti, operazione benefica per ambo le parti, pur nella sostanziale assenza di sorprese. Basta non cercarle, e il divertimento è assicurato.(6.8/10) Giancarlo Turra Son Of Dave - Shake A Bone (Kartel, Marzo 2010) G enere : white guy blues Racchiuso in una delle più brutte copertine degli ultimi anni, Shake A Bone è il quinto album in un decennio di Son Of Dave a/k/a Benjamin Darvill. Di chi? Esatto: di uno che campava da polistrumentista nelle meteore Crash Test Dummies e, se ognuno ha le referenze che si merita, può pure prendersi le proprie responsabilità. E’ dal 2000, infatti che il ragazzo di Winnipeg snocciola blues da bianco per chitarra, armonica e borbottii vocali che ripete anche qui, sempre uguale a se stesso, per dodici volte. Si passa dallo stomp in stile Jon Spencer “unplugged” al brano lento, spargendo qui e là qualche venatura pop senza però possedere una penna capace di reggere per più di cinque minuti. Darvill non è la reincarnazione di Buddy Guy e men che meno di Sonny Boy Williamson, ragion per cui qualcuno dovrebbe andare a dirglielo battendogli una mano sulla spalla. Come si fa con gli amici che, pur con tutta la buona volontà e l’impegno, non sono proprio tagliati e ti tocca dirglielo in modo chiaro però pacato. Magari partendo dal fatto che siamo sommersi da tonnellate di dischi inutili.(5/10) Giancarlo Turra Temperatures - Eksra (Ultramarine, Gennaio 2010) G enere : noise - rock Interplay basso-batteria/synth da urlo per questo duo inglese osannato da teste calde del rumore come Thurston Moore. Eksra è la seconda manifestazione dei londinesi Peter Blundell e James Dunn, rispettivamente basso/ voce e batteria/synth: zero fronzoli e 100% di noise-rock eterogeneo e abrasivo in quattro tracce untitled. Un arco espressivo che racchiude il verbo noise nelle sue infinite declinazioni: dai Ruins più free e dilatati ai Lightning 76 Bolt meno forsennati e irruenti, passando per una sorta di Dead C minimali e slabbrati. Il tutto in modalità minimal e industrial-oriented come solo gli inglesi sanno fare. Slanci ritualistici al limite della trascendenza sufi (la voce di #2), approccio iconoclasta as usual, sensibilità limitrofa all’impro-jazz di confine per un disco che sembra un accumulo di materiale di risulta di tutto ciò che gli spiriti dei gruppi (e degli approcci) sopra citati possono evocare. Che non significa affatto dipendenza e/o riverenza, sia ben chiaro. I due, penalizzati (o valorizzati, dipende dai punti di vista e dagli obbiettivi prefissati) da una produzione che più pastosa non si può, dimostrano di conoscere a fondo la materia e sentire un suono che seppur riconducibile all’etichetta noise è sfuggente e volatile come non mai. Approvazione totale.(7/10) Stefano Pifferi Timbaland - Shock Value II (Blackground, Dicembre 2009) G enere : autotune - pop 50 Cent, LL Cool J, Nas, Usher, Kanye West, Ludacris, Shakira, Beyoncé, Alicia Keys, Rhianna, TLC, Lil Kim, Destiny's Child, Kelis, Janet Jackson, Mariah Carey, Madonna, Jennifer Lopez, Britney Spears, ma anche Busta Rhymes, Redman, Hilary Duff, No Doubt, Rapture, Jonas Brothers, Jamie Foxx, Limp Bizkit, Chris Cornell, M.I.A., gli ultimi Duran Duran. E' lo spaventoso elenco degli artisti più famosi nelle cui produzioni ha messo lo zampino. Per non parlare della pletora di cantanti nu-funky/ soul/r'n'b/hip hop che fanno altalena nelle charts USA ma che - fortunatamente - non sono troppo conosciuti dalle nostre parti. Sono altri però i personaggi a cui il nome dell'uomo è indissolubilmente legato: Missy Eliott, Nelly Furtado, Justin Timberlake, Jay-Z, Katy Perry, One Republic. Stiamo parlando di uno dei Re Mida della musica POP degli ultimi quindici anni, uno dei responsabili delle peggio porcate della brutta musica commerciale contemporanea (lui, rapper mediocre completamente votato ad autotune) ma anche di alcune delle più grandi - danarose, sfavillanti - produzioni supermajor di qualità: si pensi alla bomba What Goes Around/Comes Around di Justin o a Say It Right della Furtado. Stiamo parlando di Tim Mosley aka Timbaland. Qui siamo decisamente sul versante porcate, e del resto Timbo non ha mai fatto faville da solista, tanto che questo secondo capitolo di Shock Value segna il punto più basso della carriera. Un pappone buttato lì, plasticoso, stanco - lunghissimo, ogni pezzo dura sui quattro minuti - e tutto uguale (nonostante i mille guest), dove quel pochissimo di buono che ci sarebbe da prendere (la ballad Undertow?) viene inesorabilmente soffocato: Justin canta e manco si capisce, il pezzo con la Perry è una marcetta, quello con la Furtado - autotune come una marmellata che appiccica tutto, rovinando un inciso supercatchy una sceneggiata demenziale sui vampiri (sic), The One I Love copia - e male - il grime.Ah, ci sono anche i Jet, quelli di Are You Gonna Be My Girl.(4.2/10) Gabriele Marino Trouble Books - Gathered Tones (Own Records, Febbraio 2010) G enere : lo - fi pop Sbocciano come fiori stropicciati in un ambiente confuso, sono incantesimi fragili ma suonano come un prodigio in mezzo alle perturbazioni attonite da sogno post-rock fuori tempo massimo, in quel frugale prodigarsi alla ricerca di un pugno di meraviglia che ti puoi organizzare nella cameretta o poco più. Barlumi di folktronica evoluta e quindi disarticolata, guizzi wave-pop tenuti al guinzaglio da una imperitura bassa fedeltà, quel pizzico di attitudine dreamy di chi deve essersi perso prima o poi tra le caligini dello shoegaze, tutta una brama di orditi ambientali cuciti a fuoco basso. I Trouble Books, trio da Akron, Ohio, rilanciano con l'opera seconda la loro palpitante bedroom music, proponendo undici tracce come schegge di bambagia e lana di vetro, ora confortevoli e ora allibite, più acquerelli che fotogrammi di un microcosmo che sembra avere molte piccole storie da raccontare.(7.1/10) Stefano Solventi Tunng - ...And Then We Saw Land (Full Time Hobby, Marzo 2010) G enere : avant folk pop I Tunng avvistano terra, ovvero proseguono la loro marcia placida e inesorabile verso una forma folk sempre meno -tronica, dalle fattezze frugali in senso talora tradizionale ma col vizio d'una strisciante visionarietà, ottenuta metabolizzando la lezione The Books, vale a dire quel trattare i suoni come applique semantici, inevi- tabili accidenti di un gesto percettivo/espressivo aperto ai mille stimoli simultanei del quotidiano. In ragione di ciò, il singolo nonché opening track Hustle t'inganna col suo incedere da ballatina Kings Of Convenience, poi però ti capita una October che placidamente attualizza palpiti Haight-Ashbury, una Santiago di pastelli e strane vibrazioni (vagamente Karate), una By Dusk They Were in the City che fa accomodare i Notwist sulla sedia impagliata (prima di accendere l'amplificatore), una Sashimi che strepita power-pop androide e allibito, una The Roadside che è estasi pastoral-wave dai non meglio definibili corollari psych. Proprio la capacità di rendere organiche le influenze in un discorso espressivo personale, complesso ma accomodante, è il merito principale della band londinese. Il cui avant folk-pop si propone quale plausibile anzi legittimo punto di riferimento.(7.2/10) Stefano Solventi Twiggy Frostbite - Through Fire (Despotz Records, Novembre 2009) G enere : post - rock Per queste tre ragazze svedesi staremmo gridando al miracolo se il loro disco d'esordio fosse uscito, chessò, una decina di anni fa. Peccato, che non sia così. Le Twiggy Frostbite non tralasciano nessuno dei più classici canoni del post-rock di Mogwai ed Explosions In The Sky, li infreddoliscono coi languori glacial-boreali dei Sigur Rós e già così avete capito da che parti stiamo. Si varia poco, anzi per nulla, il canovaccio è sempre lo stesso per undici tracce più introduzione: rhodes a puntinare il silenzio, synth algidi, chitarre in rifrazione, pelli a trascinare il crescendo e la voce da folletto felinamente sensuale di Elin Lindfors come una Kazu Makino sottozero. A mutare è solo il gradiente pop, che imbriglia deflagrazioni e cavalcate ricordando talvolta i Giardini di Mirò di Dividing Opinions (Throw in two) - con quell'accento Morr che in zona Notwist proprio ci mancava, vedi Still here - oppure scioglie i lacci e allora siamo nelle lande uterine di Ágætis byrjun (All I need) o ancora a farci bagnare il viso da soffioni di piatti degli scozzesi di cui sopra (Grime star). E neanche un'emulsione digitale tipo Broadcast su Along your way serve come impulso. Qui si sbadiglia parecchio, e non è un principio di ipotermia.(5/10) Luca Barachetti 77 Two Door Cinema Club - Tourist History (Kitsuné Music, Marzo 2010) G enere : W ave pop Dal rigurgito wave Eighties di inizio Duemila ai Two Door Cinema Club di streaming sonici ne sono passati per i nodi della rete. Le linee di continuità le senti nelle chitarre anfetaminiche e scintillanti, in certi Ottanta che non vogliono mollare, anche se in questi imberbi irlandesi puoi saggiare anche uno scarto importante. Il trio suona un indie differente da quello che si ascoltava ai tempi dei Libertines / Kooks e non di meno, il cambio di decennio potrebbe essere fatto proprio di questi elementi. Nello specifico, una certa freschezza goliardica targata Wombats sublimante le voglie sintetiche di Klaxons e Bloc Party. Con i TDCC siamo molto vicini alle stratificazioni sintetiche ascoltate nei Delphic ma con un antidoto importante che è poi l’altra fetta della torta: i Vampire Weekend (e in UK, in piccolo, i Mystery Jets). Nerd che hanno inondato le orecchie della rete con un’attitudine vacanziera dalla quale non c'è comeback, saputelli col cardigan che hanno saputo spostare il piano da produzioni sempre più ingombranti a soluzioni musicali animate da uno spirito giocoso e colorato. Così abbiamo un trio d'esordienti che non ha paura di un mix in grande stile, di melodie over the top (libere quindi dalle sacche indie), di un desiderio d’evasione ai massimi livelli. E' anche per questo che i blog di mezza rete ne parlano da mesi trovandone nei The Drums il perfetto contraltare: post-moderni i primi, amanti del vecchio analogico (e delle pose gaie post-Smithsiane in salsa surf) i secondi. I TDCC convincono proprio dove i citati Delphic fallivano, schiacciati da una sovra-produzione asfissiante e da una cappa cyber manchesteriana autocostruita. Ci danno di hit leggeri come Undercover Martyn, fluenti nonostante le stratificazioni e quegli onnipresenti psych-synth; i contrappesi twee-nerd delle strofe e i sipari/contro sipari in piena sbornia Weekend, del resto, sono il miglior antidoto contro la complessità frustrante, come lo è l'aggiornamento indietronico del wave pop via Kooks / Mystery Jets / Klaxons (e un pizzico di ultimi Police) della strategica Cigarettes In The Theatre. L’eccellente artigianato è merito di Elliot James (uno che ha iniziato a lavorare con i Futureheads ed è finito 78 con Bloc Party, Kate Nash e ora Kaiser Chiefs) e soprattutto di Phillipe Zdar (Cassius): nel suo studio londinese, il Motorbass, per primi incisero gli amici dei TDCC Phoenix di cui è stato pure produttore (dei TDCC tra l’altro il remix di Lasso in Wolfgang Amadeus Phoenix). Il lavoro di missaggio su Tourist History è ancora migliore rispetto a quanto si ascoltava nei francesi: sound corposo, hook melodici sostenuti, qualche sincopata dance e tanta energia nerd indotta, il tutto senza riempitivi. Portando pazienza per gli abusi sulle marce più alte, abbiamo un ottimo album ed esordio.(7.3/10) Edoardo Bridda U.S. Girls - Go Grey (Siltbreeze Records, Febbraio 2010) G enere : C rimson W ave Dopo il debutto (sempre su Siltbreeze) del 2008, Megan Remy capitolo secondo e, per chi se lo fosse perso, U.S. Girls è uno dei nomi cardine di quella che a suo tempo fu definita crimson wave, una scena che incorpora la ben più cacofonica Circuit Des Yeux e l'ormai nota Zola Jesus. Il primo album della Remy era ancora un tantino acerbo. Go Grey, pur rilanciando la ricetta di sempre, risulta più equilibrato ed efficace: ci ritroviamo minimali tribalismi industriali (Summer of the Yellow Dress, Sleeping on Glass) controbilanciati da schegge di pop lamentoso (Red Ford Radio) e nenie all'arsenico (The Mountain's High, Blue Eyes on the Blvd.); di nuovo pezzi brevi ed inquietanti e tinte fosche in musica ed immagini. Il sole della ragazza non è nuovo, ma è malato quanto basta.(7/10) Andrea Napoli Vessel - Tales Of A Memento Island EP (24, Gennaio 2010) G enere : shoegaze / indie Salpa il vascello. Ed è un viaggio a ritroso nel “come eravamo” di una ventina di anni fa, tra indie rock e underground Ottanta-Novanta. Del resto non poteva essere altrimenti, visti i musicisti coinvolti nel progetto. In primis quell'Alessandra Gismondi che dalle parti di indie e grunge bazzicava già nel 1996 con i Pitch di Bambina atomica e che attualmente si divide tra il vecchio progetto - riveduto e corretto per l'inglese del nuovo millennio - e il noise/wave/shoegaze minimalista degli Schonwald. Una che nell'iniziale Ninety's Lover e nella mediana Memento List - elenco di gruppi e personaggi connessi al decennio clintoniano - deve aver gioito non poco rovistando tra My Bloody Valentine, Jesus & Mary Chains e - per la proprietà transitiva - Velvet Underground. Corrado Nuccini e Emanuele Re- verberi dei Giardini di Mirò completano la formazione, a battere il ferro di certe malinconie parenti alla lontana del post-rock e figlie di un' insospettabile vena marziale (The System e Frigid Moon). Roba che nella cover della First We Take Manhattan di Leonard Cohen trova uno sbocco immediato e naturale. Certo, si tratta fondamentalmente di recupero. Ma di quelli affettivi, onesti, fatti senza grossi calcoli di convenienza e che regalano più di quel che ci si aspetterebbe. Nello specifico, una scrittura attenta, una produzione capace di valorizzare il suono (registrazioni d'ambiente effettuate in una chiesa sconsacrata nei pressi di Carpi), una media brani rispettabile con qualche episodio che spicca per personalità. Interessante prima tappa di un progetto discografico in tre parti che ci terrà compagnia per tutto il 2010.(7.3/10) Fabrizio Zampighi White Hills - White Hills (Thrill Jockey, Marzo 2010) G enere : heavy space - rock Forse il gruppo heavy più chiacchierato del momento, i White Hills. Portabandiera del rinascimento hard-spacey newyorchese (insieme a La Otracina, Naam, ecc.), i due tornano con un nuovo inizio omonimo in cui, sulla falsariga dell’heavy-drone dell’anticipatorio 12” Dead, tentano nuove vie per il loro peculiare space-rock hard e in overdrive. Per partorire questo omonimo (edizione in cd e vinile con copertine, pezzi e tracklist diverse) Dave W. e Ego Sensation fanno dunque le cose in grande: i due cocchi di sua santità Julian Cope registrano al The Ocropolis, lo studio williamsburghiano degli Oneida e invitano proprio Kid Millions a sedersi dietro le pelli, aumentando a dismisura potenza di fuoco e libertà espressiva. Dopotutto l’obbiettivo dichiarato da da Dave W. era quello di “let things fly” e chi meglio del Kid poteva assecondare le voglie da psycho-jam dei due? Il suono appare a tratti più free e slegato dal canovaccio monolitico dello spacerock hawkwindiano delle precedenti release, per addentrarsi in territori contigui, complice (chissà?) l’apporto di Millions: l’ipnotica ed estatica Let The Right One In, le evanescenze fumose di We Will Rise, la glaciale solitudine di Glacial. Piccoli passi in direzioni diverse, forse ancora non troppo convinti, tanto che risulta ovvio dire che le prerogative di base della band restano quelle di genere: dilatazioni post-Spacemen 3, recrudescenze suburbane alla Loop (Dead), cosmic vibes a manetta, wah-wah e slanci hard-rock seventies come se piovesse (Three Quarters). Un ottimo disco nel suo genere, ma aspettiamo di vederne gli sviluppi futuri.(6.9/10) Stefano Pifferi William Basinski - Vivian & Ondine (2062, Gennaio 2010) G enere : ambient Con il passare del tempo,William Basinski rischia di dare un nuovo significato al termine “tedio”. Concepito come un regalo di 45 minuti fatto a Vivian e Ondine, figlie rispettivamente del fratello e del cugino, il nuovo disco dell’acclamato artista newyorkese consiste in un'unica traccia di tre quarti d’ora. Il lavoro di Basinski è lo stesso di sempre e non sposta di una virgola la progettualità di una musica, che sembra ormai irrimediabilmente avvitata su stessa. Siamo nel 2010, ma Basinski ragiona ancora come se stessimo nel 2001 a Ground Zero. Manipola un nastro, lo manda in loop, ci costruisce attorno un ondivago e onirico sali e scendi fluttuante, in una sorta di sciabordio ambient che ha il ritmo delle maree più calme e dei corsi d’acqua più miti. Una scuola che ha certamente fatto epoca, e che sembra ormai finita, se si prendono in considerazione le ultime produzioni del settore analogico-ambient, con gli excursus di Leyland Kirby, Gregg Kowalsky e non ultimo Indignant Senility. Tutta gente che è partita proprio dai loop disintegrati di Basinski e che ora lo sorpassa sul suo stesso territorio.(6/10) Antonello Comunale Wu-Tang Clan (The) - Return Of The Wu (Gold Dust, Marzo 2010) G enere : hip - hop C’è modo e modo per riflettere sulla propria condizione artistica. Qualcuno si prende delle scappatelle, altri un periodo sabbatico, qualcuno inganna l’attesa con un Best Of. Solo che, anche se l’ultima opzione rappresenta sovente un fare cassa a costo zero, la classe viene fuori se è patrimonio genetico. In tal caso, cavi dal cilindro qualcosa che si colloca a metà strada tra la rilettura del passato e l’omaggio ai fan: questo è, riassumendo, Return Of The Wu. Una sfilata di materiale poco noto o raro affidato alle mani sapienti dell’amico e produttore DJ Mathematics, sulla quale le fila del Clan si aprono di volta in volta per collocare sotto i riflettori cavalieri (Raekwon, GZA, Method Man, Ghostface) e vassalli (Inspec79 tah Deck, Masta Killa, Streetlife, Buddah Bless, UGod). Ne scaturisce qualcosa meno di un’ora di pregio, che sottolinea l’assodata classicità della posse newyorchese in una scaletta priva di flessioni, dove le basi si adattano e mescolano alla personalità vocale di ognuno. Difficile collocare la mossa - gambetto di donna o arrocco di fronte al re? - nel quadro della discografia del Wu Tang Clan adesso: spetterà al futuro verificare la condizione di forma e, probabilmente, la questione conta fino a un certo punto. Meglio vivere il momento e apprezzare l’attestato di talento che non offre il fianco a critiche per la qualità della proposta, dalla quale estraiamo - facendo un torto a tutto il resto - l’oscuro rutilare Keep Pace e l’innodica It’s What It Is, una Strawberries & Cream di “popedelica” e personale fusione tra Prince e Outkast e il funk metropolitano Respect 2010. Tra un dibattito sul futuro dell’hip-hop e l’altro, c'è poco altro in giro che conforti in maniera al pari naturale.(7/10) Giancarlo Turra Yellow Swans - Going Places (Type Records, Febbraio 2010) G enere : E mo -D rone Il dubbio sarebbe anche lecito. Quello cioè che il duo californiano abbia avuto voglia, un’ultima (?) volta, di fare cassa sulle spalle degli Yellow Swans, nome ormai sufficientemente celebre da poter garantire un certo ritorno. Pochi dubbi invece che quelli della Type ci abbiano marciato sopra e abbiano allestito l’ultima cena di Pete Swanson e Gabriel Mindel ben sapendo di poter contare su un ipotetico best seller. Tra l’altro la sorpresa di vedere i due nello stesso catalogo di Helios o Richard Skelton svanisce rapidamente, perché è ormai da tempo che gli Yellow Swans non si occupano più di noise, quanto proprio di drone ambient, del tipo che con l’etichetta di John Twells ci calza a pennello. Ecco quindi che ci ritroviamo a ragionare su quest’ultimo album ufficiale dei due, che come candidamente ammettono, altro non è che il risultato di una attenta cesellatura di diversi provini scaturiti dalle prove e dalle esibizioni live prima dello scioglimento. Stiamo parlando in pratica del best-of degli scarti, ma la materia di cui è fatta la musica dei due, si presta bene al ripescaggio in extremis e quindi poco male. Going Places si riallaccia al precedente At All Ends e lo supera per la gran80 — libri dezza delle sue scenografie horror. Negli impercettibili movimenti di Opt Out e nel pulsare soffuso di Sovereign oppure lungo il tintinnare stereofonico di Limited Space (che farebbe la gioia di qualsiasi Bonzo Noise), emerge un'ambient disturbata, meticolosa come non ci si sarebbe aspettato da luddisti sonici quali sono stati. E' come se la violenza harsh e i droni tempestosi si dipanassero in una tenue foschia elettrica, con giusto qualche intervento della vecchia furia che fu, ma è rumore che rimane quasi sempre ai margini, salvo concederci un ultima carezza finale nella title track di chiusura. Au revoir.(7/10) Antonello Comunale, Leonardo Amico Zona MC - BreakHop (Gli accostamenti improbabili degli Uochi Toki, Dicembre 2009) G enere : break T oki Dalla crew Uochi Toki, Stefano Mularoni aka Zona MC, disco in free download sul myspace (come praticamente tutte le sue produzioni dal 2006 ad oggi e come moltissime altre del collettivo Avanthopperz). Gli Uochi hanno sfornato il loro disco più bello finora, sicuramente quello più quadrato, "classico", sono gli alfieri di una piccola "tradizione dell'antitradizione" dell'hip hop italiano: è normale che facciano scuola. E Zona rappa come Napo, flusso di coscienza a rotta di fiato, citazioni tra Borges, Vonnegut e Peirce, sguardo stoico e concreto sulla realtà, voce in contrappunto sui due canali stereo in un paio di pezzi. Le basi, sempre sue, si dividono tra uno zapping breakcore quasi cartoonesco (come da titolo, come un Mr. Scruff ripassato da Bologna Violenta, frullando anche la classica e passando al trattamento una Romagna in fiore che non può non fare pensare alla versione psicofarmacologica dei CCCP), asciutto electrofunk e momenti che ricordano gli Eterea Post Bong Band. C'è gusto in Italia ad essere intelligenti.(7.2/10) Gabriele Marino A ntonio "T ony F ace " B acciocchi M od G enerations (N da P res s , 2009) Chi ha cuore le gioie e i dolori del rock italico conoscerà bene il nome di Antonio Bacciocchi, in arte Tony Face. Quello che forse non tutti sanno è che quando Antonio parla di modernismo è meglio mettersi seduti e ascoltare con le orecchie aperte, perché è difficile trovare qualcuno, nel nostro paese, che sappia interpretare meglio questo termine. La sua è un’esperienza che non deriva dal semplice fatto di aver consumato quintali di vinile e aver visto centinaia di concerti, aver supportato in ogni modo la scena e averne studiato l’evoluzione e perfino le contraddizioni. E’ un’esperienza maturata sul campo, vivendo il modernismo giorno dopo giorno, in una sorta di lungo "allnighter", per dirla con le sue parole, fatto di gioia per la propria unicità, rifiuto dell’omologazione e culto dello stile. Lo stesso stile che ha portato con sé nei Not Moving, la band con cui ha scritto pagine di selvaggio garage rock, pur mantenendo sempre il serafico distacco del gentleman britannico. In fondo il modernismo è tutto qui: imporre la propria individualità in una società massificante. Lo sapevano i ragazzi in parka e lambretta che negli anni sessanta ascoltavano Who e Small Faces o si appassionavano ai suoni black e ai ritmi giamaicani, rappresentando un esempio d’integrazione fra i giovani dell’Inghilterra suburbana. Lo sapevano i revivalisti di fine '70, che reindirizzavano la scossa del punk in una traiettoria del tutto peculiare e rispettosa della tradizione. Lo sanno i tanti mods nostrani che dai primissimi anni 80 tengono vivo lo stile nel nostro paese, a suon di raduni, serate e concerti, incuranti delle mode usa e getta che si sono susseguite nel corso di un trentennio. Il modernismo è tutto questo. Tony ce lo racconta con semplicità e passione, individuandone le radici, tratteggiandone agilmente le vicende ed elencando protagonisti e situazioni che ne hanno fatto un caso unico nella storia delle culture giovanili. Va da sé che il punto di forza del libro si annida nei capitoli dedicati alla scena italiana, quelli in cui l’autore riesce nel compito improbo di tirare le fila di una storia frammentaria, spesso vissuta in prima persona e consumatasi per lo più nei meandri dell’underground. Mod Generations ne affronta un’analisi capillare, che è di per sé una celebrazione e al tempo stesso un’appassionante lettura: un testo da consultare compulsivamente alla ricerca di gemme nascoste e miti mai sopiti. Diego Ballani 81 — live report Om/Lichens I nit , R oma (28 gennaio , 2010) Più ehm che Om. L’attesa era tanta e le aspettative forse troppe. A dimostrarlo il folto ed eterogeneo pubblico che gremisce un Init sempre più punto di riferimento per le musiche off a Roma: indie-kids e metallari lungocriniti si mescolano a studenti americani in gita premio e freakerie varie. Testimonianza che il percorso dei due Om – sin da quando erano parte integrante degli Sleep – ha toccato (e tocca) tutt'ora posizioni diverse all’interno dell’universo musicale tra i due millenni. Si parte male con il set Robert Lowe aka Lichens tra droning stratificati di chitarra, vocalizzi e suoni trovati in loop che rendono su disco (e in determinate condizioni ambientali), e si finirà peggio. Lowe scende dal palco e vi risale dopo un po’ provando la pazienza degli astanti dacché nel set dei californiani è previsto anche lui alla chitarra (raramente), rumori&loop elettronici (spesso) e ad un costante tamburellare. Pochi minuti d'entusiasmo per Al Cisneros e i suoi tentacolari giri di Rickenbacker e il drumming del nuovo compagno Emil Amos, atletico ed estremamente tecnico. Dopodiché il peggio: c'è qualcosa che non scatta affatto e non soltanto in questa data della tournée, ma in tutto il tour, come riportato da molti forum e addetti ai lavori. I brani risultano piatti e involuti anche a causa di suoni mal regolati che lasciano sullo sfondo il basso circolare e la voce salmodiante che sono caratteristiche fondanti degli Om. Amos diventa sempre più invadente nell’interplay, asettico e tecnico oltre il dovuto, forse nel tentativo di riempire il vuoto dei suoni; Cisneros il più volte è costretto a richiedere l’intervento del fonico nella speranza di rivitalizzare un mantra a zero amalgama, zero trascendenza, zero di tutto ciò che si è apprezzato negli ottimi dischi. E' come se i due fossero alle prime prove, in dote ognuno la propria caratteristica, invece che un rodato duo di musica hard-psych. Grossa delusione. Stefano Pifferi © Andrea Lamedica Il Teatro degli Orrori B loom , M il ano (5 febbraio , 2010) Om 82 Sai mai che sia un'occasione per Il Teatro degli Orrori l'uscita dal gruppo di Giulio Favero. Dopo l'eccellenza di scrittura raggiunta con A sangue freddo, e dopo che già l'esordio Dell'Impero delle Tenebre aveva definito al meglio un suono di matrice Jesus Lizard-Scratch Acid ma furente e teatralizzato alla Carmelo Bene, l'ingresso di Tommaso Mantelli e soprattutto di Nicola Manzan alias Bologna Violenta potrebbero aprire nuove prospettive, schivando un didascalismo altrimenti in agguato ora che lo zenith compositivo è stato raggiunto. Questa l'impressione della data in un Bloom stipatissimo, una delle prime esibizioni dopo il cambio di line-up, dunque a tratti in balia di un rodaggio necessario ma non privo di segnali incoraggianti. Mantelli al basso e Manzan tra elettrica, violino e tastiere a moltiplicare i colori di una tavolozza dalle cromature telluriche e a fare da spalla ad un Pierpaolo Capovilla febbrile: brani come Io ti aspetto e Direzioni diverse guadagnano grana lirica sulle corde del violino, il resto lo fa una compattezza di suono che sa essere al contempo nervosa e monolitica, esaltando ancora di più gli strali e i picchi emotivi del frontman, cantautore noise implacabile come il miglior Gaber ma pronto, nel segno di un Piero Ciampi impegnato, a scendere in piazza e a fare a pugni con la realtà in disfacimento. Non stupisce quindi che una canzone come A sangue freddo sia diventata una specie di inno cantato da tutti, una Male di miele degli anni zero in scadenza che si lascia urlare da un pubblico d'età trasversale (e con essa La canzone di Tom). E non è così assurdo, seppur sia molto diverso oggi il contesto, assegnare al Teatro quel ruolo di gruppo rock italiano destinato ai numeri importanti e dalla caratura spendibile oltre i confini che è stato nei novanta degli Afterhours. Solo questione di tempo, e di vicende umane che incrociandosi lasciano presagire quanto di buono debba ancora arrivare. Luca Barachetti Scuola Furano B low U p , P alermo (29 gennaio , 2010) Quarta edizione della rassegna palermitana organizzata da Officine Festival e dedicata all'electronica. Noi l'abbiamo scoperta l'anno scorso, quando avevamo beccato quasi per caso un ancora sconosciuto Rone - Spanish Breakfast sarebbe uscito solo qualche mese più tardi - alle prese con un ottimo set deep. Prima serata 2010: Scuola Furano. Buono il riscaldamento degli indigeni Doc Rouge, Dj IG e Indipendance Sound System, penalizzati però dal trovarsi davanti una pista ancora praticamente vuota e - soprattutto - da un'atmosfera un po' così, luce intensa e volumi non a palla. Il locale si riempie fino a stiparsi e, poco prima delle due, parte il set di Borut. La situazione luci e volume migliora giusto un pelo, ma l'uomo fa atmosfera da solo e propone un set che definire generoso è riduttivo. Bustone coi suoi ciddì sul mixer («i locali sono tarati meglio con i cd che con i piatti, ma referisco suonare con il vinile se mi capita»), spara una selezione di garage e dance anni Novanta, scaletta decisa sul momento mentre - cuffia tenuta all'americana - balla, scratcha e segue i cantati. Tira avanti praticamente fino alle quattro - per la gioia di uno dei buttafuori - con remix suoi e altrui di cose come Do It Again dei Chemical Brothers, Flickery Version degli Audio Bullys, U Got Me Up di Dajaé, il tema di Super Mario (girato slo-ragga) e ripescaggi che non ti aspetti come Lovefool dei Cardigans, Get Get Down di Paul Johnson, Freed From Desire di Gala, la letale Never Leave You di Lumidee. Fino al cuore della serata, che è tutto nel mezzo minuto di esaltazione generale per Empire State of Mind di Jay-Z, messa al punto Scuola Furano giusto. Ci infila anche un paio di cose by Scuola furano, una dal disco 2004 e il remix di Underground Goodies di Cajmere, per chiudere con una massiccia Where Is Your Head At dei Basement Jaxx. Borut è contentissimo: «La serata è stata ottima, i miei complimenti ai ragazzi che hanno organizzato il festival. In estate voglio tornare e fare Palermo-Catania portandomi dietro anche Bosu. Non suonavo da due mesi, avrei continuato per altre tre ore». E' al lavoro su nuove produzioni: «Penso uscirà un EP a breve, tipo ad aprile, e poi il disco in estate, taglio underground, più house, meno pop del primo». Prossimi appuntamenti, Modeselektor il 26 febbraio ed Etienne de Crecy il 5 marzo. Margine di miglioramento ampio, ma il Wintercase si candida come una delle più interessanti "cose nuove" nel panorama siciliano. Gabriele Marino 83 Vulturum Gimme Some Inches #3 Digitale vs analogico, questo mese, ma anche analogic into digital. Ovvero come il vinile sopravviva all'era del 2.0 utilizzando i mezzi del web. Inoltre feticci in cassetta e vinili da sballo. Vecchi medium incontrano nuove tecnologie. Questo potrebbe essere il motto degli anni ’00 per ciò che riguarda la convergenza dell’amore per il vecchio vinile (e cd, perché no) e dell’uso sempre più scafato delle potenzialità del web 2.0. A cosa facciamo riferimento? Alle net-label ad esempio, che furono il primo, importante traghetto verso la smaterializzazione del supporto musicale. Ma soprattutto alle modalità usate sempre più spesso da artisti del sottobosco grossomodo “weird” (definizione di comodo) per diffondere la propria musica senza perdere di vista l’amore revivalistico per il vinile. Non parliamo solo dell’ormai classico download-coupon che sempre più spesso accompagna il vinile/feticcio. Della serie, comprare sì, ma non toccare, parliamo piuttosto d'etichette che pubblicano vinili 7” in formato esclusivamente digitale. 84 Come la Beko, sottotitolo: Digital Records Label, motto ufficiale: A new single every monday. Fatevi un giro sul sito e vedrete che in bella mostra – con copertine che, seppur non bellissime, hanno una loro percepibile identità – sfileranno campioni più o meno conosciuti dell’underground americano. Come Sore Eros o Hanging Coffins. I primi, palindromi come pochi, mettono in scena un bozzetto di lo-fi pop lunare (Yellow Dress) e una ubriaca e claudicante coral song (Fooled Me) passata nella centrifuga del no-fi; i secondi invece offrono tre pezzi di noise psych-weird che rimandano ai Velvet imputriditi da rimasugli postindustriali tanto quanto a qualche combo sixties-folk cessofonico e maleodorante. Nessuna novità visto che Bradford Cox aka Atlas Sound pubblica da tempo 7” virtuali e che anche campioncini dell’underground meno abbietto e più elegante come Dirty Projectors si decidono a passare per l’immaterialità del free dwld. Stavolta il pezzo di vinile c’è, ma in edizione limitata e a seguire la dif- fusione via web: Ascending Melody prevede due outtakes da Bitte Orca perché they just didn't fit with the vibe of the album. La title track e Emblem Of The World sono buoni esempi del pot-pourri avanguardistico, teatrale e variopinto di Dave Longstreth & co. oltre che un’ottima saldatura tra le istanze di cui sopra. Prima di passare al tangibile, rientriamo in Italia. Milano precisamente, dove nasce Verme, conglomerato di allstar dell’indie italico (dentro ci trovate Tommaso di Dummo, Jacopo di Fine Before You Came, Violetta di Agatha e Giacomo di Hot Gossip) che in giorno in cui nevicava parecchio, con indosso solo scarpe di tela, hanno registrato Un Verme Resta Solo Un Verme: Montagna, Città, Piombo e Ossimoro grondano emotività di quella seria da tutti i pori e agiscono da portale verso l’età d’oro dell’emo. Stoici. Dopo tanta smaterializzazione, è il caso di mettere le mani su qualcosa di materico. E cosa meglio di un feticcio sotto forma di split-tape? Coprodotta da HysM e Lemming vede fronteggiarsi il duo tarantino Bogong In Action (basso e chitarra dei Microwave With Marge) e i napoletani Ne Travaillez Jamais. I primi deragliano furibondi e sgrammaticati su un post-punk rumorosissimo e sull’orlo del white noise mentre i secondi vanno di suite psych-ambient-tribale ipnotica e disturbante; insieme dimostrano la bontà del fertile sottobosco italiano. Saltando a nord-est arriviamo a Treviso e più precisamente a casa Second Sleep. La noise label, dopo un periodo di inattività, torna alla grande con una manciata di tape che più lerce non si può.Tra di esse (Culver, Dead Body Love, Völva) spiccano il nuovo lavoro di Women In The Woods (aka WW), con due lunghe tracce più rituali e meditative rispetto ai precedenti assalti sonori, e Conquerors, concept sulla Prima Guerra Mondiale che gioca sulla contrapposizione tra strati minimali e fragorosi assalti all’arma bianca. Come a dire, la provincia non è meno rumorosa della grande città. Ora spenta la piastra, accendiamo il giradischi di SA, dove in heavy rotation ci sono due vinili piccoli e uno grande. Rispettivamente l’esordio a 45 giri dei toscani Last To Knows con un buon concentrato di garagesoul Reigning Sound oriented, ancora acerbo ma che lascia il sentore del possibile, ottimo sviluppo futuro. L’altro è lo split tra Dots e Virus, entrambi dalla nebbiosa bassa padana. I primi li conosciamo per un singolo su Ken Rock che ora confermano: punk rock rapido, frenetico, tanto melodico quanto demenziale. Al debutto invece i veronesi Virus, con 3 pezzi dal sound inaudito. Barbaro noise-punk in stile Hospitals che è una ventata d'aria fresca per il panorama italiano. Infine i Vulturum, il cui esordio a 12” Vineta è puro spettacolo sin dalla copertina. Slancio sludge in apertura e svisate post-metal apocalittico sui generis per questo trio a doppia batteria, già vecchia conoscenza di SA ai tempi dei Go Down Moses. Potenti e compatti, hanno nelle due batterie il propulsore ritmico di un suono che parte dalle derive più catastrofiche dei Neurosis (Mantide) per arrivare a pantani alla EyeHateGod struggenti, emozionali e puliti (We Own The Stars).Visto il portato eclettico e mai statico dei quattro lunghi pezzi di Vineta c’è da augurarsi che sfruttino appieno il potenziale strumentale. Terminiamo con una segnalazione d’oltreoceano. Dopo le consuete cassettine e compilation, arriva al debutto su vinile corto Death Domain, progetto con sede a Baltimora di Adam Stroupe, già nei Sudden Infant Death Syndrome. Debutto doppio in realtà, dati i due 7 pollici usciti in contemporanea su Dark Entries e Army Of Bad Luck. Entrambi raccontano di un suono freddo, robotico, electro-punk come vuole la tradizione che lega Normal, primi Cabaret Voltaire e Screamers. Le suggestioni da science nerd aggiungono un tocco smaccatamente eighties che fa quadrare il cerchio alla perfezione. Stefano Pifferi Andrea Napoli 85 Re-Boot #2 Dreaming Sanremo Non potevamo tirarci indietro, noi di Re-Boot. Una sera di metà febbraio abbiamo diviso il divano, ingoiato l'antidepressivo consigliatoci dal dottor Castoldi e abbiamo fatto un sogno. Tutti e tre assieme. Lo stesso o quasi. Abbiamo sognato Sanremo. Ebbene sì, il festivalone. Ma mica il solito che ormai non gli frega nulla neanche ai cani. Abbiamo sognato quello che invece ce ne fregherebbe se a certa gente gl'importasse ancora d'ascoltare. Pardon, di sentire/ ascoltare. Roba pur sempre popular, ci mancherebbe. E fresca, che questa rubrica la bazzicano solo i runners. Col guizzo del neurone ad insaporire la portata, che a rimbecillirci ci penseremo più avanti, quando saremo rimbecilliti. Il bello è che poi, al risveglio, quel sogno ce lo siamo raccontato. E - voilà - il pezzo per la rubrica era già pronto. Oserei dire, adeguato per l'occasione. Quindi, ecco i nostri tre personalissimi podi, i tre pezzi che hanno trionfato nel Festival di Sanremo della nostra onirica dimensione parallela. Stefano: al terzo posto si piazza un 86 Un mese di ascolti emergenti italiani pensoso Giovanni Truppi con Soffiando, dal suo album di debutto C'è un me dentro di me (Cinico Disincanto, 6.9/10). Ha convinto per la leggerezza con cui riesce a trasmettere la malinconia, barlumi De Gregori e Tenco immersi in un'aura jazz-rock, a tratti sembra l'anello di congiunzione tra Baccini e Jeff Buckley, di sicuro può contare su una certa spregiudicatezza e l'entusiasmo di chi comunque si diverte. Negli States ha suonato con Geoff Farina e Dana Colley, qualcosa vorrà pur dire. Al secondo posto si piazza Evy Arnesano, che i soliti bene informati davano per vincente. Sarà per il bell'aspetto civettuolo, sarà per quei modi di fare bossa-swing-pop che mandano in cortocircuito i guru lounge Umiliani & Piccioni, Sergio Caputo, l'ingenua ludicità dei sixties e certa svenevolezza anni ottanta (abbiamo finalmente trovato la nostra Lio?), fatto sta che la swingante Sulla riva di un fiume, anche in questo caso tratta dall'esordio Tipa ideale (Heavy Light, 6.8/10), viene già canticchiata in tutte le docce del Belpaese. Quin- di, acclamato da quei parrucconi della giuria di qualità, ecco il vincitore Tenedle con la trepida Le mosche sul dolce, estrapolata dal suo terzo album Alter (UDU Records, 7.5/10). Niente da dire, l'impasto tra cantautorato ed electro-rock è di quelli che avvincono, un ibrido ideale tra Paolo Benvegnù, La Crus e Depeche Mode. Il ragazzo non è di primo pelo - è in giro dagli anni ottanta - ma come si dice non è mai troppo tardi. Che il suo momento sia: adesso. Luca: contro il trionfo dei bimbiminchia e della spazzatura patriottarda sogno un terzetto che lasci spazio e agio, spaccando in due l'afa reazionaria di un podio festivaliero che è purtroppo, e per davvero, il tornasole di questa Terra dei Cancri. I Quarta Deriva cercano quadrature beat in adiacenza Paolo Benvegnù con Metodi, ballad in tensione tratta dal loro ep d'esordio (autoproduzione, 6.6/10) e Luca Baldini dietro il banco che proprio dell'ex Scisma è valida spalla. "E' come se muovessi il mio pedone in effe quattro senza dire scacco matto", ovvero scovare istanze per- sonali ancora da sviluppare secondo sfumature minime che già sono ossigeno per piccoli ipersensibilisti in crescita. Ad un passo dalla vittoria Naif Herin transita in riviera con il suo songwriting pop ritagliato hiphop, futurismo puro alle orecchie paleozoiche della sala stampa sanremese. Su Io sono il mare, da E' tempo di raccolto (TdE ProductionZ, 6.8/10), Elisa e Bjork in immersione panteistica d'archi ondeggianti e beat ventrale. Lei è onirica e uterina al contempo, Marc Ribot ospite sul disco se n'è accorto. Gradino più alto a Micol Martinez con Donna di fiori, traccia in chiusura dell'esordio Copenhagen (Discipline, 7.2/10). Appresa l'influenza del produttore Cesare Basile e di una Cristina Donà ancora non del tutto a patti con il pop raffinato delle ultime sortite, la milanese tratteggia in punta di chitarra una ballad d'amore femminile di sangue PJ Harvey, che penetra dolorosamente distendendosi su un falsopiano ad hoc e grazie a liriche potenti. Da conservare intatta e promuovere. Fabrizio: entra la Clerici con le pompose rotondità nascoste da una t-shirt che recita “S.P.U.P.P.A”. Ci risiamo, penso io. I No Seduction sono riusciti a far promuovere il loro ultimo EP (autoproduzione, 7.3/10) anche dalla madrina di Sanremo. Che a dirla tutta non sembra proprio una “madrina” con quei riccioli scombinati e l'espressione un po' confusa. Segno evidente di una cura ricostituente a base di club culture drogata, electro in remix su chitarre elettriche fulminanti, sarcasmo globalizzato in salsa post-punk/wave da navigati cultori. Non c'è storia e a nulla valgono le recriminazioni di un Emanuele Filiberto convinto di un complotto contro le sue regali chiappe: il gradino più alto del podio è loro e con pieno merito. Va bene, ma come la mettiamo con la melodia? A quella pensa Mattia Zani (con Enrico Limoncini) in arte Dulcamara ne Il buio (Hevenel, 7.1/10), un disco di hip hop che non fa hip hop ma una canzone d'autore/ spoken word sospesa tra Vinicio Capossela e i Sottotono. Archi, ottoni, chitarre acustiche, rime serrate e aperture jazz per un disco che ricovera il Cristicchi “serio” in una casa di riposo in attesa di ispirazione.Terzo gradino per la Dioniso Folk Band con I testardi fiori della speranza (Aiutati che Dio ti aiuta, 6.6/10). Un po' impacciati sul palco, ma come direbbe Nino NuJeansENaMaglietta D'Angelo “di folk e world music c'è sempre bisogno” e i Nostri non se la cavano affatto male tra Irlanda (La Ballata dei buoni propositi), Sud America (Il mondo alla fine del mondo), Medio Oriente (Il mercante della sganasseta) e Fabrizio De Andrè. Promossi. Resta fuori il Premio della critica: a chi se non ai Mariposa per l'easy listening pensionabile del singolo Sanremo? Luca Barachetti Stefano Solventi Fabrizio Zampighi 87 Rearview Mirror —ristampe highlight Galaxie 500 - Today / On Fire / This Is Our Music (Domino, Marzo 2010) G enere : indie rock AA.VV. - Afro Rock Vol. 1 (Strut Records, Marzo 2010) G enere : afro rock Poco da fare: quando scovi una ricca vena aurifera, se possiedi assennatezza e criterio, fai più che bene a scavare e cavarne una gemma dietro l’altra. Così la rifondata Strut che non sbaglia mai un colpo e men che meno allorché indaga il Continente Nero. Pubblicata originariamente nel 2001 dalla piccola Kona di Duncan Brooker (sue le note di copertina, vergate a nuovo per la ristampa) e andata subito esaurita, quest’ora e un quarto di meraviglie catapulta nel cuore dell’Afro-Beat epoca ‘60-‘70, decenni in cui - dopo anni di dominio europeo - in Africa si respirava una crescente coscienza sociale e tanta voglia di autonomia. La ricaduta artistica delle quali fu rileggere con consapevolezza Pan-Africana le sonorità che provenivano dagli Stati Uniti, dai fratelli i cui avi abitavano quella terra stessa. Ciò spiega l’ampio ventaglio stilistico e interpretativo, inoltre frutto di una serie di viaggi e ricerche sul campo, condotti da Brooker soprattutto in Kenya e Zaire: ipnosi consegnata alla mesmerica Fever (opera dei Jingo: la ricorderete nel film L’ultimo re di Scozia), a un Geraldo Pino in febbri funk-jazz, al travolgente rutilare di ottoni della Mercury Dance Band e alla maratona ribollente inscenata da Dackin Dackino; laddove il lato più “sperimentale” viene approfondito nel rhythm & blues scarnificato dell’Orchestra Lissanga e nel vago sapore rocksteady che trapela nelle trame di Nkansah And Yaanom, nel blues percorso da tentazioni cosmiche (!) a firma Yahoos e nel sensazionale levitare krautedelico dell’anonima traccia bonus, sempre dei Jingo. 88 Chiusura da pelle d’oca per una fantastica raccolta capace di indicare efficacemente l’influenza esercitata dalla tradizione locale su soul ed errebì e nel frattempo chiarire quanto, nella sua rivisitazione “contaminata”, compaiano James Brown e Can, Talking Heads o Vampire Weekend. Questione di corsi e ricorsi, come pure di magnetismo fisico e visione istintuale.(8/10) Giancarlo Turra Animal Collective - Campfire Songs (Paw tracks, Febbraio 2010) G enere : psychedelic folk Ci pensa l’etichetta di casa a ristampare uno degli album “minori” dell’Animal Collective, registrato nel lontano 2001 e senza Brian Weitz aka Geologist (che non era ancora della partita). Era l'anno in cui il primissimo nucleo dava alla luce uno dei lavori più strambi di un percorso già sghembo di suo e che di lì a poco avrebbe visto l'esplosione di Here Comes The Indian. L'approccio è molto più weird e redneck di quello attuale, naturalmente, e la versione personale, lo-fi e malata delle campfire songs conserva tutto il suo fascino anche a distanza di quasi un decennio. “We wanted to give the music the feeling and atmosphere of the outdoors and the warmth of a fire, so people could bring it indoors”, dichiaravano all’epoca, con l'intento di portare le canzoni da cantare intorno ad un fuoco dentro le case. Ne vengono fuori cinque lunghi pezzi di psychedelic folk degenere registrati con un minidisc all’aperto, come fossero la colonna sonora di un campeggio mai avvenuto. Musica stralunata, storta, sballata e deforme; che vive di un trasporto e un respiro atavicamente bucolico, in cui gli elementi naturali (reali o riprodotti) la fanno da pa- Ascoltare Jamie Stewart degli Xiu Xiu che in Dr. Troll canta: “Listen to On Fire and pretend someone could love you” fa capire subito di quale credito la vecchia band di Dean Wareham, Damon Krukowski e Naomi Yang goda ormai tra i nuovi eroi dell’indie rock. Quelli che oggi suonano e pubblicano dischi e che ieri, negli eigheties, crescevano come sospesi in un ebbro stato di angoscia e allucinazione pop. Proprio come la musica dei Galaxie 500 che mentre si faceva, si nascondeva, più timida ancora dei suoi creatori. Ancora oggi, ascoltare i tre dischi della band bostoniana, in lucida versione rimasterizzata per le ristampe approntate da Domino, significa doversi calare nelle trame delle chitarre, scendere attraverso il velo bianco e protagonista delle voci, sintonizzarsi con i ritmi sereni e minimali di canzoni tanto dimesse e austere, quanto malinconiche e luminose. Ormai i Galaxie 500 sono un classico e vanno trattati con i guanti morbidi e dolci della storia. A maggior ragione perché assai poco considerati all’epoca, soprattutto nella propria terra, quegli States che, nella seconda metà degli ’80, vivevano il pieno della stagione alternative con tanto di riflettori puntati proprio in direzione Boston, dove tra Pixies e Dinosaur Jr., la band di Dean Wareham passò quasi inosservata. L’impressione è che se non ci si fosse messo Kramer della Shimmy Disc a lucidare la produzione, ottenendo quella che fu definita “lo-fi psychedelia”, i tre nemmeno si sarebbero dati la pena di cercare chissà quale riflettore sotto cui risplendere. Come molte altre volte, Kramer fu lungimirante. Il sound languidamente rilasciato e morbidamente lisergico dei Galaxie 500, oltre oceano fece subito epoca. Today e On Fire, mostrarono la strada ad una nuova generazione di tristissimi annebbiati britannici e il collegamento tra indie pop, shoegaze e qualunque cosa suonasse “dream” divenne imprescindibile dalla band di Dean Wareham. Pazienza poi se i detrattori ancora oggi sentenziano sciattamente che tutta la discografia dei Galaxie 500 altro non è che la riproposizione del terzo album dei Velvet Underground. Quella dei bostoniani fu la lezione fondamentale di una band che per sintesi melodica, minimalismo estetico e poesia umana, trovava il proprio stile, in maniera istintiva, dando quasi per scontato cose che invece avrebbero richiesto ben altra retorica. Le intuizioni dei Galaxie 500 erano fatte di piccole cose, vissute in modo ordinario. Quasi un’estetica zen, la loro. Cose di cui abbonda Today ad esempio, messo sempre dopo il secondo disco, nella continua ricerca del capolavoro solitario da usare per archiviare ogni band rock di questa terra. Ascoltato nel 2010 il debutto dei tre non spreca una goccia della sua magia e riascoltare brani come Flowers, Parking Lot, Tugboat e Don't Let Our Youth Go To Waste, cover magistrale di Jonathan Richman, quasi ti induce a preferirlo al successore, un On Fire forte delle storiche e immortali Blue Thunder, Snowstorm, Strange, Decomposing Trees, Another Day. A conti fatti il terzo, This Is Our Music, non ti da l’impressione di avere particolari meriti, se non quello di mantenere alta la scuola e la scrittura, che alle porte ormai dei ’90, si permette chitarre mai così effettate come il delay delle sognanti Summertime e Listen,The Snow Is Falling, magnifica cover di Yoko Ono. Da li in poi si partirà per la stagione successiva, con i dischi di Damon e Naomi da un lato e dei Luna di Dean dall’altro. Ma questa è un’altra storia…(8/10) Antonello Comunale 89 drone, allontanandosi dal pastiche che segnava Danse Manatee e segnando un rapporto ancora vitale coi luoghi d’origine. Il trasferimento in città è ancora lontano e Campfire Songs mostra il lato più rurale e genuino degli Animal Collective. Accendete il fuoco. Sedetevi. Rilassatevi.(6.8/10) Stefano Pifferi Lou Bond - Lou Bond (Light In The Attic Records, Marzo 2010) G enere : soul Pelle nera, coppola in testa e chitarra sulle spalle. Così si presenta Lou Bond sulla front cover dell'unico lavoro adulto, omonimo, targato 1974. Un soul singer con velleità cantautorati allevato da una succursale Stax, la We Produce, e debuttante dopo un apprendistato concretizzatosi via una serie di 7inch d’impronta Northern Soul per Fontana (OohYou Cheater/What Have I Done del 1966) e Brainstorm (You Shake Me Up/Don't Start Me Crying del 1967) che ad acquistarli oggi, semmai li si trovasse, un occhio della testa non basterebbe. Anche il disco in esame gravita da tempo nei mercati trasversali a prezzi importanti, tant’è che l’illuminata Light In The Attic, sulla scia di Sixto Rodriguez, lo ripropone sia in cd che vinile aggiungendo alla tracklist originaria una bonus live. Un lavoro orchestrato come se Terry Callier (Why Must Our Eyes Always Be Turned Backwards e That's The Way I've Always Heard It Shoule), Nick Drake (Come On Snob) e Arthur Lee (Lucky Me) suonassero con un combo philly sound al seguito. Rhythm & soul che paragonato al baroque pop di Sixto, giusto per parità di operazione, ha nell’uso degli archi - in questo caso, gentilmente concessi dalla Memphis Symphony Orchestra - l’unica tangenza possibile. Tra l’altro, se in ognuna delle sei tracce (bonus live esclusa) si distinguono i pregevoli arrangiamenti, oltre tutto si staglia To The Establishment: undici estasianti minuti nei quali pare ascoltare Isaac Hayes orchestrare con David Axelrod il continuum ideologico alla Dancing Girl dello stesso Callier. Uno dei momenti più alti di tutti i ’70 nonché campione per Outkast (Wailin), Brother Ali (Picket Fence) e Prodigy dei MobB Deep (Trials of Love). Condanniamo chi per anni l’ha tenuto nascosto e recuperiamo il tempo perso. Ne vale la pena.(7/10) Gianni Avella 90 Pavement - Quarantine The Past: The Best Of Pavement (Matador, Marzo 2010) G enere : lo - fi Fin troppo ovvio il sincronismo tra tour di reunion e uscita sul mercato di questa raccolta, che altrettanto ovviamente si rivolge a chi nei novanta era troppo giovane o troppo distratto per accorgersi dei Pavement. E, vista l'assenza di inediti, soltanto a loro. I quali, fortunati, hanno oggi la possibilità di scoprire una delle band più influenti degli ultimi lustri, e non solo dal punto di vista musicale. Lo scazzo obliquo col sottofondo di rabbia senza appigli e passione inesplosa, quel cercare un senso nel vuoto, sbeffeggiando i cliché del machismo rock, sono alcuni degli elementi che rendono il loro repertorio irrinunciabile. Con particolare riferimento ai primi due album. Tanto per chiarire, se fosse toccato al sottoscritto compilare la scaletta di un "best of" pavementiano, avrei incluso integralmente Slanted And Enchanted e Crooked Rain, Crooked Rain, quindi avrei completato l'opera piluccando dal resto (con un occhio di riguardo per Wowee Zowee), operazione quest'ultima che mi avrebbe provocato il classico imbarazzo della scelta. Facile, no? Facile, certo, proprio come il giochetto di quello che non c'è, che nel mio caso si cruccia vieppiù dell'assenza di We Dance, Rattled By The Rush e magari qualcosina in più dal sottostimato ultimo album (Cream Of Gold? Carrot Rope? Major Leagues?). Comunque sia, va detto che le 23 tracce di Quarantine The Past (titolo genialoide) girano che è un piacere alternando spasmi ed abbandono, tratteggiando così un ritratto tutto sommato completo della band californiana che un tempo strapazzò le playlist alternative rendendo oltremodo popolare il concetto di "lo-fi".(7.1/10) Stefano Solventi Spiritualized - Spiritualized Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space: Special Edition (SonyBMG, Novembre 2009) G enere : gospedelia A essere cinici si potrebbe affermare che Jason Spaceman sia ben conscio di aver toccato con questo disco un apice. Di essere entrato nella Storia sulle ali di un’ispirazione e un momento irripetibili per chiunque incluso se medesimo ed ecco una spiegazione del riproporlo per intero dal vivo alla fine dello scorso anno e ristamparlo in una edizione (pure troppo) espansa. Va benissimo che da qui in poi l’uomo abbia offerto cose egregie attraversando crisi esistenziali e di salute esorcizzate nell’unico modo possibile, ovvero la musica. Era del resto simile il “pretesto” da cui Ladies And Gentlemen… prendeva le mosse, e cioè la separazione dell’ex Astronauta dalla fidanzata Kate Radley che degli Spiritualized era tastierista: sofferenza che si univa a una passione incessante per l’alterazione mentale generando riflessioni universali e musica sublime, in grado di stendere ponti tra il gospel e la psichedelia come tra Philip Glass ed MC5, di trasportare i Suicide a New Orleans per poi scagliare melodie nel più alto dei cieli a botte di wah-wah. Un disco in cui ogni dettaglio rivela una cura maniacale e ogni brano concretizza ciò che la formazione (valzer di musicisti attorno al leader) aveva indicato nei già eccellenti predecessori. Epitome suprema di uno stile epico ma comunicativo, appassionato però cerebrale, possente e all’occorrenza delicato. Ciò che tentarono, in quel medesimo 1997, i Radiohead con Ok Computer ma rinviando a Kid A e Amnesiac continuità e sicurezza. A voler essere cinici, si rimarca che questa sontuosa edizione allargata da una sfilata di demo, versioni strumentali e alternative nulla aggiunge alla scintillante bellezza che tuttora avvolge Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space. Il moderato piacere di spigolare tra quanto sopra è infatti riservato a chi dell’originale conosce ogni angolo; a chi può afferrare le variazioni, i ripensamenti e le casualità (su tutte il ritornello di Can’t Help Falling In Love With You omesso dalla title-track dopo il rifiuto degli eredi di Elvis) tipici delle opere Grandi; a chi se la sente di rimestare tra quanto avanzato a Michelangelo una volta ultimato Il Giudizio Universale. Chi invece fosse all’oscuro di questa meraviglia, non perda tempo a farsi sbrindellare il cuore dalle undici composizioni originali.A prescindere dall’edizione più o meno definitiva.(9/10) nissimo, se si pensa a quel 1973 in cui fu pubblicato a cosa passava il convento; se si considera il trascolorare assodato dell’acid rock nel prog, alla coscienza che, dopo essersi allargata, aveva lasciato il passo all’ego. Fanatici delle sonorità britanniche, i fratelli Charles e Jorge Spiteri si trasferivano nei primi seventies a Londra per giocarsi una chance e, tramite una serie di conoscenze, arrivavano alla corte di "Muff" Winwood, fratello di chi-sapete-voi e ora produttore. Lì la decisione di fondere la tradizione sudamericana con il rock in voga, realizzata una volta reclutati alcuni connazionali e aver attratto l’attenzione di una GM intenzionata a replicare il successo di Santana. Il risultato, riascoltato oggi, reca il marchio dell’epoca in cui fu realizzato: giustappunto una fusione tra il Carlos di cui sopra e i Traffic, invecchiata maluccio perché piuttosto legnosa già in origine. Non dal punto di vista esecutivo, ma per una scrittura macchinosa e poco incisiva e certi arrangiamenti sopra le righe, così che i pochi momenti riusciti sono acustici e vicini al suono della loro madrepatria. Clandestini, gli Spiteri vivevano in una condizione di quasi illegalità che finì per rivelarsi una pietra al collo: si scioglieranno lasciando ai posteri un LP che i collezionisti - zucche vuote che i dischi manco li ascoltano - si contenderanno a discrete cifre. E pensare che seppero guadagnarsi il plauso di Paul McCartney, Rod Stewart e Steve Winwood: certo che la “musica giovane” se la passava proprio male.(5.5/10) Giancarlo Turra Giancarlo Turra Spiteri - Spiteri (Vampisoul, Marzo 2010) G enere : etno - rock Potenza della persuasione: dalla Vampisoul parlano, presentando questa riedizione, di “magico disco che fonde rock, soul e psichedelia con ritmi venezuelani.” Il che va be91 Rearview Mirror —speciale L Morphine e rivoluzioni si sprecavano, in quel finire di anni ottanta. In quello spegnersi sfrigolante di un'era che ebbe la velleità di credersi definitiva e definitivamente felice. Crollarono mondi e muri, fornendo materiale per costruire altri mondi e soprattutto altri muri. Giubilo e dubbio, euforia e timore, buoni propositi e aggressioni spietate. La scenografia si era incrinata, quel che scorgevi attarverso le crepe appariva formidabilmente più vivo e reale. Anzi: imminente. Vicino. Le vene sotterranee affiorarono prepotenti in superfice, ribaltando lo scenario. L'89, nello specifico, fu tra le altre cose l'anno in cui il grunge trovò una volitiva concretezza in Bleach, il primo album dei Nirvana. Ma questo non deve farci scordare il contemporaneo innesco di un altro movimento tellurico che godrà di popolarità immensamente minore ma di lì a qualche anno informerà tutto il panorama alternativo: vedi alla voce Tweez, album d'esordio degli Slint da Louisville, padri tutelari del post-rock. E che dire di quanto stava accadendo a Bristol, dove i Massive Attack già da un paio d'anni stavano cullando fantasmi cyberblues che avrebbero coagulato in Blue Lines del '91. Cui non era certo estraneo l'influsso del sound architettato in quel di Detroit fin dalla metà degli eighties dai neodruidi techno. Insomma, i novanta iniziarono come se volessero fare piazza pulita, raccogliendo del decennio precedente i fili delle conversazioni meno compromesse con l'incantesimo edonista, o ad esso aliene. In questa rinnovata topografia stilistica, accadde una rivoluzione seminale, indimenticabile e perciò indimenticata, per quanto si fatichi a trovarne dei credibili seguaci. Ne furono autori i Morphine di Mark Sandman. "I gruppi di Boston sono molto diversi tra di loro. Aerosmith, New Kids On The Block, Pixies... E' strano perché la città non è grande, ma in effetti ognuno ha la possibilità di fare ciò che più crede." Semplici spregiudicate intuizioni Dieci anni che hanno cambiato il rock dall'interno. Senza clamore. E senza proseliti. L'indimenticabile vicenda sonora dei Morphine. 92 Testo: Stefano Solventi Nato nel 1952 a Newton, nel Massachusetts, Sandman non era proprio un ragazzino quando si affacciò sui nineties con l'intenzione di produrre una musica inconfondibile. La sua vita non era stata né facile né felice. Si era arrangiato con molti lavori che oggi definiremmo senza indugio precari, tra cui il tassista, esperienza che gli guadagnò quale terribile esperienza una rapina da cui uscì sconvolto, con una ferita piuttosto seria al petto (le cui conseguenze nel lungo termine non sono ben ponderabili). Nulla tuttavia rispetto al doppio colpo che il destino aveva in serbo: portare nella tomba due dei tre fratelli di Mark. Non è troppo difficile immaginarsi la disposizione mentale con cui Sandman affrontò il resto dei suoi giorni, che decise di vivere nel segno della sua vera passione: la musica. Poco più che trentenne si spostò nell'area di Boston dove ebbe modo di prestare voce e chitarra nei Treat Her Right, una band sostanzialmente blues rock che vedeva Billy Conway ai tamburi, Jim Fitting all'armonica ed il co-leader Dave Champagne a voce e chitarra. Iniziarono eseguendo cover di Jimi Hendrix e Muddy Waters, e fu subito chiaro che il bassista Paul Kolderie non aveva il passo degli altri, così fu fatto fuori. Per ovviare alla sua mancanza, Mark iniziò a suonare la chitarra al modo di un basso, enfatizzando le corde del Mi e del La. Problema risolto e primi germogli di uno stile che sboccerà di lì a poco. L'omonimo debutto del 1986 per l'indipendente Soul Selects provocò un certo interesse soprattutto nel giro delle college radio (a Boston sono presenti circa 200 college), affascinate da quella sorta di versione atavica e ruspante del Paisley Underground. La RCA non si lasciò sfuggire il boccone e li scritturò, ripubblicandone l'esordio. Il sophomore Tied to the Tracks (RCA, 1989) proseguiva sullo stesso solco enfatizzando ulteriormente l'aspetto country-blues. Forte di tracce considerevoli come Junkyard o Hank, dove Sandman concede evoluzioni da crooner da front-porch, l'album deluse le aspettative del botteghino provocando malumori in RCA, preludio alla fine dell'avventura Treat Her Right, avvenuta subito dopo l'uscita del ruvido terzo lavoro What's Good for You (RCA, 1991). Per Mark però era già tempo d'avviare l'avventura Morphine. "Ogni corda contiene tutte le note. Quindi non è limitativo, una volta che ti sei abituato." Qui entrò in gioco il genio. Un punto di equilibrio, se volete, tra il massimo dell'intuizione ed il massimo della semplicità. Pare che Mark fosse affascinato da certi strumenti etnici che pur forniti di una sola corda sono in grado di coprire una gamma armonica straordinaria, come il Chipendani dello Zimbabwe - progenitore del Berimbau brasiliano - o l'Ektar indonesiano. E che dire dei bassi rudimentali costruiti con scatole di tè alla base dei primi vagiti jazz? Anch'essi, guarda caso, fecero la loro comparsa nella versione ad una sola corda. Tuttavia, più che per motivazioni filologiche l'idea di Sandman sembrava obbedire ad un desiderio più intimo e forse atavico, quello stesso che spinge il bambino a farsi vibrare uno spago o un'elastico vicino alle orecchie per il piacere puro e oscuro del suono, col senso di dominio che deriva dal poterne modulare facilmente la frequenza. Mark iniziò a sperimentare con un basso cui lasciò 93 solo la corda più bassa (il Mi). Quindi, secondo le sue stesse parole, "ne ho aggiunta un'altra, e più le padroneggiavo più sentivo un senso di pienezza". Alla fine ne fu soddisfatto. Non aveva bisogno d'altro. Ovviamente, quel modo di suonare era tutt'altro che ortodosso. Le note non uscivano ben pronunciate - il basso era di tipo fretless, senza tasti - ma anzi legate in un grugnito denso, caldo e oscuro, talora distorto fin quasi a scomodare suggestioni industrial. Spesso Sandman faceva ricorso al bottleneck, ma l'intenzione non era certo quella di sembrare un bluesman nostalgico, diversamente da come l'esperienza Treat Her Right poteva far presupporre. Ogni espediente serviva per forgiare un sound inedito, inconfondibile. La componente ritmica del basso si stemperava a quella armonica in un impasto melmoso. Era come un bordone ma si muoveva come un serpente, quasi fosse la rappresentazione stessa dell'irrequietezza, aura emotiva che circonda il pezzo e lo spinge su un piano inclinato, scivoloso sì eppure ruvido, aspro. Conclusa la vicenda Treat Her Right, Mark passò per una breve esperienza nei Supergroup, band capitanata da Chris Ballew, poi membro dei President Of The United States. Ma già dal 1989 si mise in testa di dare vita ai Morphine. Non si trattava di escogitare chissà cosa: aveva il suo sound che premeva per contestualizzarsi, diventare organico ad una cifra espressiva che ne amplificasse l'incisiva peculiarità. Nel solco di quella stessa semplificazione che aveva ridotto a due le corde del basso, Sandman chiamò quali compagni di viaggio i soli Jerome Deupree alla batteria ed il sassofonista Dana Colley di cui aveva già avuto modo di apprezzare il talento. Dana - già nei Three 94 Collars Band nonché ex roadie dei Treat Her Right - era dotato di un timbro potente e di una eccellente agilità, senza contare quel gusto per l'azzardo, che lo portava ad esibirsi spesso col doppio sax (baritono e tenore). Assieme alla voce da crooner laconico e strascicato di Mark, la quadratura si dimostrò subito perfetta. Un equilibrio snello ma pieno, difficilmente definibile: blues? Rock? Errebì? Jazz? Questi gli ingredienti, ma è la ricetta che conta. I "cuochi" stessi ne parlavano come di una "baritone experience", ponendo l'accento sul pervadente sound imbastito da Colley, coi suoi riff che tenevano il mood per le briglie, determinandone l'impeto e la morbidezza. Ancora più fortunata fu la auto-definizione di "low rock", che sanciva un abbassamento dei toni ma non certo d'intensità, semplicemente un altro livello espressivo nel quale potevano accadere determinate cose, strettamente legate all'immaginario appassionato, pungente e disilluso di Sandman. Ma pur sempre rock. Senza chitarre, con un basso amputato e mutante, col sax a fare le veci di tutto il resto e una voce da crooner disincantato. Rock, sissignori. "La parola Morphine deriva da Morfeo, il dio dei sogni [...]. So che esiste una droga chiamata morfina, ma non è per questo che ci chiamamo così. Noi siamo dei sognatori, e Morfeo ci viene a trovare nei sogni. Quando ci siamo svegliati, è iniziata l'avventura dei Morphine..." L'esordio avvenne con Good (Accurate, 1992 7.8/10), un album che non provocò scossoni memorabili sul mercato ma che a suo modo segna un prima e un dopo, capostipite di una rivoluzione senza seguaci, apice compositivo per Sandman e compagni. La title track, che apre il programma, chiarisce subito gli ambiti di manovra grazie all'anti-groove allestito da basso sordido e drumming percussivo, su cui il sax ricama fronzoli ferrigni e il canto si spende in scostanti ossessioni. E' la prima perla di una collana dai toni foschi, tra le quali prende vita un immaginario di passioni incontenibili e frustrate, di rapporti di forza crudeli (Claire) ed esistenze senza sbocchi (Have A Lucky Day). Se I Know You e You Look Like Rain cincischiano meravigliosamente tra languidi incubi blues jazz ("I can tell you taste like the sky cause you look like rain"), The Other Side rievoca demoniaci crocicchi blues ("I'm crossing over now to the other side") mentre The Saddest Song è bieca ed elegante come un Nick Cave senza asprezza ("Crash in the night two worlds collide/But when two worlds collide no one survives"). Forme e modi della tradizione nera, sì, che però subiscono una metamorfosi subdola e decisiva: il basso porta in dote germi quasi motoristici, come fosse stato esposto a contagi art-wave ed industrial. Una piega assieme ficcante e scontrosa, la stessa che avverti nella voce di Sandman, dai palpabili retaggi punk, tanto da ricordare un Joe Strummer tolta l'infatuazione reggae/dub e sostituita la furia nichilista col fatalismo senza sbocco dei bluesman. Ciò è evidente nella febbrile You Speak My Language, che azzarda un tribal-funk tarantolato mettendo il dito nella piaga dell'alienazione culturale ("All around the world everywhere I go/No one understands me no one knows/What I'm trying to say"), un po' come la sorellastra Test-Tube Baby / Shoot'm Down mette nel mirino l'asetticità delle soluzioni a certi problemi sociali. Si trattava di roba scottante, e non tardarono a capirlo quelli di Rykodisc, che scritturarono la band ripubblicandone l'esordio. Ringalluzziti, tempo pochi mesi e il trio si mise al lavoro su Cure For Pain (Rykodisc, 1993 - 8.0/10). In questo periodo Deupree fu definitivamente sostituito da Billy Conway, che ricorderete ai tamburi per i Treat Her Right, a conclusione di alcune divergenze venute alla luce già durante l'incisione di Good. Intervistato a tal proposito, Sandman spiegò che la scelta fu dovuta più a motivi caratteriali che non musicali ("Con Billy la band è più unita"). Musicalmente il tocco di Dupree possedeva un calligrafismo più agile, puntuale e lieve rispetto all'incisività di Conway, ma le conseguenze si sarebbero avvertite più avanti. Intanto, in Cure For Pain - che vede Conway al drumming solo in tre pezzi - la configurazione sonica originale consegue un compimento formidabile. Basterebbe la sola Buena, tra l'altro anche primo singolo targato Morphine, a dimostrarlo: avvio di sottec- chi, il basso che ghigna e il drumming scoppiettante, poi un chorus che esplode funk-blues liberando il casutico assolo di Colley, è quintessenza di forza e atmosfera, di fantasmi blues ("You see I met a devil named Buena Buena/And since I met the devil I ain't been the same oh no") trasfigurati in direzione rock. Tanto potente e definita ormai la cifra espressiva dei tre da consentire varianti come il wah-wah applicato al sax in All Wrong o lo splendido mandolino (suonato da Jimmy Ryan) nella trepida amarezza di In Spite Of Me. La freschezza della scrittura, la varietà delle intuizioni e la maturità del sound rappresentano un'esperienza d'ascolto ancora oggi appagante (e talora arrapante): la title track, col suo andazzo fifties tra il crudo ed il festoso, potrebbe essere il diamante nero scartato dalla scaletta dello springsteeniano The River ("Someday there'll be a cure for pain/That's the day I throw my drugs away"), mentre I'm Free Now è ballata che satura tutti gli interstizi cullandoti con barlumi di positività. Non basta: se Thursday è il frenetico resoconto d'un adulterio, perturbato da effetti distorti dal piglio cinematico, Let's Take A Trip Togheter finisce addirittura per scavare una visione in bilico tra Portishead e Nick Cave, col suo caracollare meccanico e un organo-ectoplasma che sembrano il sample di se stessi. In chiusura, Miles Davis' Funeral compie una breve escursione strumentale tra miraggi desertici Calexico, col tono solenne e dimesso del caso, suggellando nel meno prevedibile dei modi una scaletta straordinaria. "Amo tutto di Prince. Il cantante, il produttore, l'autore, il compositore, il musicista. Mi sento vicino al suo approccio creativo. E' difficile da spiegare... Lo dico spesso in giro perché spero che un giorno, quando vorrà, prenda il telefono e mi chiami." Rispetto ai mezzi messi in campo, le intenzioni erano state realizzate ad ogni livello. Difficile ipotizzare qualcosa di più ed altro senza cambiare pesantemente le carte in tavola. Dopo due album i Morphine erano una realtà perfettamente compiuta. Anche commercialmente: Cure For Pain superò la sbalorditiva cifra di 400000 copie, un vero fenomeno in ambito altrenativo. Tuttavia, con Yes (Rykodisc, marzo 1995, 7.2/10) tentarono di ravvivare ulteriormente la fiamma. Di alzare l'intensità, di pompare gli ormoni, di affilare gli spigoli. Verso un rock un po' meno low, più esplicitamente energico e sensuale, veemente nel suo rifarsi blues. Il peso di Billy Conway ai tamburi (dallo stile ben più impetuoso di Deupree) e nel chimismo fra i tre avrà senz'altro pesato, ma visto da oggi sembra lo sbocco naturale di un repertorio che avrebbe 95 altrimenti rischiato la ripetitività. Rischio, va detto, non del tutto evitato. Tuttavia episodi come la sordida Super Sex e la frenetica Honey White rappresentarono un'iniezione d'arenalina (altro che morfina...) anche per quanti avevano consumato gli album precedenti, per non dire di quella Radar che incede torrida e marziale sulla scorta di un doppio sax grondante lussuria. Non deve sorprendere troppo questa impostazione più diretta e se vogliamo "commerciale", se è vero che durante il tour di Cure For Pain il buon Sandman non mancò di rivelare la sua ammirazione per Prince. Come dire, non era certo nelle intenzioni di Sandman quello di passare il resto dei suoi giorni a fare il musicista di culto. In ogni caso,Yes è disco che propone anche episodi più meditati, ad esempio una Whisper che distilla insidiose problematiche sentimentali ("I know it drives you crazy/When I pretend you don't exist/ When I'd like to lean in close/And run my hands against your lips/Though we haven't even spoken/Still I sense there's a rapport/So whisper me your number/I'll call you up at home"), oppure quella I Had My Chance che trascina un blues/jazz fino alla soglia di mesmerismi psych. Ancora di più fa la coppia conclusiva, che segna due abbozzi diversi e complementari di variazione espressiva: prima il dramma art-psych di Free Love, melmosa, grottesca e distorta come una jam etilica tra Nick Cave e Jon Spencer (straordinario il lavoro di Colley), poi una Gone For Good che è folk ballad (chitarra e voce) della miglior acqua, di un'amarezza toccante e franca. Il meccanismo girava insomma che era un piacere, muovendosi agile sulla linea di confine tra popolarità e underground, ciò che consentiva ai Morphine un seguito non certo oceanico ma tenace che animava le sempre più fitte esibizioni live. Sempre nel 1995 arrivarono le partecipazioni alle OST di pellicole dal discreto successo come Get Shorty di Barry Sonnenfeld e Things To Do In Denver When You're Dead di Gary Fleder. Il mondo quindi prendeva atto dell'esistenza d'un fenomeno musicale chiamato Morphine, tanto che la Dreamworks si mosse per accaparrarsi il loro contratto presso Rykodisc. In quel florido momento il problema fu semmai che i Morphine presero fin troppo atto di se stessi, al punto da sfornare un album progettato e concepito come "un disco dei Morphine". Non un brutto disco, Like Swimming (Dreamworks, marzo 1997, 6.5/10), però come appagato già in nuce, nella quiete di una formula collaudata. Quella sorta di Cave imbolsito in I Know You part III, lo slow-shuffle beffardello di French Fries, lo sfacciato omaggio a Prince di Early To Bed (il cui delirante videoclip, diretto da Jamie Caliri, si guadagnò una meritata no96 mination ai Grammy Awards) e l'up tempo in derapage distorto di Murder For The Money testimoniano questa voglia di tenere alta la barra contando più sugli espedienti che sull'ispirazione. Tutto materiale gradevole, come anche il funky-swing sgranato e svisante di Wishing Well, ma è questo - se volete - il problema. La stessa title track incede col passo greve e la leggerezza di chi ne sa molto, ma anche con la padronanza di chi ne ha fatte di migliori. Non è male in conclusione di scaletta l'incedere febbrile su riff sovrapposti (chitarre, basso e sax) di Eleven O' Clock, così come lo pseudo-soul slavato wave di Hanging On A Curtain, col basso a smanettare free dietro la languida processione degli archi. Però non basta a dissipare il senso di fine corsa, la necessità di reinventarsi una direzione. Ciò che doveva apparire chiaro anche e soprattutto a Mark Sandman. "Siamo i Morphine, al vostro servizio" A Palestrina, il 3 luglio 1999, è in corso il festival "Nel nome del rock". Quella sera sono di scena i Morphine. Quella sera, durante il concerto, Mark Sandman muore stroncato da un infarto. Nei mesi precedenti, i Morphine avevano lavorato al loro quinto album, con la chiara intenzione di avviare una nuova fase sonora. The Night (Rykodisc, febbraio 2000, 7.5/10) riuscì nell'impresa di reinventare la loro cifra espressiva senza tradirne i presupposti. Gli arrangiamenti si arricchiscono di archi (al violoncello c'è Jane Scarpantoni), organo (nella princiana Top Floor, Bottom Buzzer lo suona nientemeno che John Medeski), percussioni, pianoforte, trombone, strumenti esotici e cori femminili. Eppure, la barra rimane puntata sull'essenzialità. Sentite come Souvenir giochi scheletrica (piano, basso grumoso e batteria saltellante) al gatto col topo, oppure la tensione perentoria ma asciutta di I'm Yours,You're Mine, costruita su charleston ossessivo, nevrastenia di sax e sfondo di effetti sintetici. O ancora - e soprattutto - la variazioni sulle particelle elementari pseudo-soul di The Way We Met, non lontana dalle evoluzioni dagli Radiohead di In Rainbiows. E' altresì un album che conduce il sound Morphine in territori inopinabili agli esordi, vedi il caso della ballad tra deserto e oriente di Rope On Fire (impreziosita dall'oud di Brahim Fribgane) e una Like a Mirror che caracolla onirica tra pennellate di basso degne di lidi trip-hop, paventando uno svalvolato Tom Waits in estasi David Sylvian. La litania blues dalle ascendenze beckiane di Slow Numbers, la bolgia stoniana (altezza Undercover) di Good Woman Is Hard To Find, il funk arrugginito wave di So many Ways e una Take Me With You che rievoca il miglior John Mellencamp, sono un contorno di tutto rispetto laddove il piatto forte è rappresentato dalla title track, colma d'un disincanto appassionato dedicato al feticcio amoroso di Sandman ("You're the night, Lilah. You're everything that we can't see/Lilah, you're the possibility"), pezzo degno d'un Leonard Cohen stemperato soul-jazz, grazie al quale i Morphine s'impongono quali autori intensi e raffinati. Poi la tragedia, a troncare sul nascere la possibilità di nuove traiettorie. La vecchia ferita al petto, forse, chissà, è tornata a battere cassa. Retaggi di un'altra vita che tornano sul luogo di un delitto già compiuto, con lo stesso cinismo protervo di certi personaggi che abitano i testi di Sandman. Non a caso. Colley e Conway, sconvolti, non si arresero. Già dal giorno successivo dichiararono di voler proseguire quanto avviato, per rispetto della passione che aveva mosso Mark fino ai suoi ultimi istanti. Completarono la produzione del nuovo disco, ne promossero il sound come Orchestra Morphine, poi inaugurarono il progetto The Twinemen assieme alla cantante Laurie Sargent, più o meno nel segno dell'espansione stilistica e sonora avviata con The Night. Ma questa è un'altra storia. Quella che qui c'interessa è finita prima della parola fine. 97 (GI)Ant Steps #36 classic album rev Billie Holiday XTC Lady In Satin (Columbia Records, Giugno 1958) English Settlement (Virgin, Febbraio 1982) Il 19 febbraio del 1958 Lady Day fece il suo ingresso negli studi newyorkesi della Columbia. Ad attenderla c'era un'orchestra di 40 elementi allestita e diretta da Ray Ellis. La donna appariva timorosa, consapevole di quanto la propria esistenza scellerata ne avesse straziato gli enormi mezzi vocali. Un tempo la sua voce suonava come un prodigio, tanto da convincere John Hammond, mai abbastanza lodato talent scout, a strapparla diciottenne dalla desolazione dei bordelli di Harlem. Diversamente, il mondo non si sarebbe mai accorto di lei, della sua capacità di muoversi sul tempo - di strapazzare il tempo - dominando l'agogica con mostruosa naturalezza. Per Billie Holiday – al secolo Eleanor Fagan Gough arrivò il successo, sulla scorta di interpretazioni straordinarie, capaci ancora oggi di accartocciarti il cuore. Indole brusca e incontenibile, nel '39 si appropriò letteralmente (spacciandolo per suo) di Strange Fruit, un pezzo di Abel Meeropol col quale sconvolse l'auditorio bianco sbattendogli in faccia l'orrore delle violenze razziali. L'auditorio bianco, ovviamente, non gradì. Il carattere era tosto, ma un totale disincanto ne faceva l'anello debole della catena. Schiava della propria impetuosa fragilità, di ferite che non rimarginano, di alcool e droga, all'apice della fama conobbe il carcere e l'infamia. Tanto che in quel febbraio del 1958, a 43 anni, Billie Holiday si era fottuta assieme ad un bel po' di voce anche parecchia credibilità. Ma si era innamorata di nuovo. Di un disco: Ellis In Wonderland di Ray Ellis. Aveva bisogno di paradiso, di un'orchestra che la avvolgesse come una bambagia spri- 98 macciata dai cherubini. Proprio così: a volte il paradiso somiglia all'ultima possibilità. Così Lady Day si ritrovò davanti agli archi, ai legni, alle pelli, al pianoforte del fido Mal Waldron, agli ottoni dei grandi Mel Davis e J.J. Johnson. E ad Ellis che la guardava. Ad Ellis che sapeva. Sapeva che quella voce un tempo tutto uno zampillare sanguigno e setoso aveva smarrito forza, lucidità, forse convinzione. Nulla però si poteva contro il destino, e il suo era cantare il dolore, la corruzione dell'anima e della carne, l'impossibilità di una speranza pura, di una luce priva d'ombre, di verità senza menzogna. Ne sarebbe uscito un disco strano e lancinante. Controverso. Bellissimo. L'orchestra di Ellis è come un sudario di seta che avvolge la voce di Billie-Eleanor, ormai puro strumento di materia indefinibile, increspatura emotiva che procede inciampando e caracollando. Ma senza incertezze. E senza pace. Anche se la pace è proprio lì, dietro l'angolo. Nei dolci disperati j'accuse di I'm a Fool to Want You e You Don't Know What Love Is. Nell'implorazione struggente di For Heaven's Sake. Nel dinamismo rugoso di You've Changed. Nella grazia stropicciata di The End of a Love Affair. Ecco, Lady Day era ancora capace di tutto col poco che ne era rimasto. Anche questo Ray Ellis sapeva, quando la vide entrare negli studios, intimidita di fronte alla grande orchestra. Fu allora che fece partire l'applauso. Stefano Solventi Ci sono momenti nella carriera di un artista in cui le decisioni camminano da sé. Di conseguenza, ciò che pubblichi non fa che rifletterle, trasformandosi in qualcosa che trascende la musica e apre una finestra sulla mente dell’autore. Accade sempre più di rado, oggi, allorché si pubblica per la necessità di cavare due lire dai tour e/o con modi da catena di montaggio. Del resto, chi glielo fa fare ai musicisti, di creare un album solido quanto a progettualità (magari percorso da una tematica unificatrice) quando la soglia d’attenzione del pubblico medio(cre) punta oramai solo scampoli di canzoni? Problema mai avuto dalla ditta Partridge & Moulding (pacchetto azionario di maggioranza del primo, è chiaro), che ha sempre consegnato lavori col respiro del momento pur non perdendo di vista una classicità da subito lampante. Facile a dirsi e a farsi, se sul tronco del più acuto pop anni ’60 innesti taglienti schegge post-punk, la devianza più spirituale che di forma - tramandata da Captain Beefheart e i giochi di citazionismo e ricontestualizzazione di Brian Eno, con e senza Roxy Music. Ricetta per palati fini, anzi finissimi, che ovviamente si guardò bene dal vendersi a palate. In un tempo dove il mercato si era separato dal senso di avventura e dove, comunque, aveva ancora un senso profondo esporsi su quattro facciate di vinile. Con un’ora e un quarto programmatici oppure riassuntivi, enciclopedici o proiettati sul domani: questo e altro ancora è English Settlement, che contende a Drums & Wires la palma di miglior album degli Xtc (dilemma che risolviamo salomonicamente…) con un dispiego di maturità, di arrangiamenti elaborati, di magie che sanno essere qui immediate e là a lento rilascio. Miracolosamente, sarà anche uno dei loro maggiori successi al botteghino (quinto posto nella classifica UK dei 33 giri; il jingle-jangle mutante Senses Working Overtime che entra tra i primi dieci singoli) e, come per tutti i prodigi, stenti a crederci. Poi lo fai girare da cima a fondo e - pur ricordandolo a memoria - scopri che non cono- sce epoche e che così rivela uno dei segreti dell’Arte. Noti il calo di elettricità nelle chitarre (risultato di un Andy Partridge sedotto dai toni squillanti e ariosi della 12 corde) compensato dalla compattezza esecutiva, da un lavoro sulla ritmica che - integrando acustica ed elettronica - risponde ai Talking Heads “etnici” con personalità (Melt The Guns) e ironia (It’s Nearly Africa), se no escogita giostre per alienati sorridenti (Yacht Dance). E mai che venga meno la coesione, essendo Colin Moulding in stato di grazia (l’apertura con Runaways e Ball And Chain, una fragrante English Roundabout) e immutata la passione per l’indagine sociale - da perfetti eredi dei Kinks e padrini dei Blur - consegnata a irresistibili grimaldelli sonori (Leisure, Fly On The Wall). Omaggio alla patria e alla storia, anche, che dalla splendida copertina prende le mosse per offrire metafore antiche di moderne aspirazioni (Jason And The Argonauts), nervosismi (Snowman) e timori (No Thugs In Our House); salvo infine anticipare la ritirata bucolica dietro l’angolo per mezzo di All Of A Sudden (It's Too Late). Mentre le composizioni cominciano a mostrarsi non più concepite anche per il palco ma solo in funzione di un progetto di studio, un esausto Partridge emula i maestri Beatles: dopo alcune date del tour susseguente, spalanca definitivamente la porta alla paura da palcoscenico. Oppure, chissà che, mascherandosi dietro di essa, non abbia da lì in poi preferito osservare questo pazzo mondo attraverso le lenti affumicate della provincia, tra una spolverata alla collezione di soldatini e una passeggiata col cane. Svanendo poco a poco dentro quell’alveo confortevole senza perdere la faccia, addirittura centrando l’ennesima meraviglia con Skylarking. This is pop, aveva cantato anni prima, e con quanta ragione. Giancarlo Turra 99 la sera della prima Avatar J ames C ameron (USA, 2010) È inutile prendersi troppo in giro: questo film è da vedere, come un obbligo, un obolo al dispendio di denaro ed energie, profusione di saperi, tecnologie, conoscenze, abilità creative. Avatar dobbiamo vederlo. E confesso che, a volte, sento l’obbligo leggermente invadente: potrò, per esempio, dire che non tutto mi piace? Non essere completamente d’accordo che il cinema sia entrato in una nuova era? Sono convinta, soprattutto, di questo: Avatar è una grande fantasmagoria, una girandola emotiva e fisica di luci e colori, un vero e proprio viaggio allucinante in una sorta di foresta amazzonica dalle straordinarie caratteristiche subacquee, liquide. Cos’ha di nuovo tutto ciò? Le fantasmagorie - ovvero gli spettacoli della lanterna magica - sono vecchi di secoli e, al pari di Avatar, dovevano offrire un insegnamento di natura etica. Solo che la morale veniva mascherata e resa più appetibile da una specie di spettacolo d’attrazione che sfruttava la nostra fisiologica pulsione scopica, il desiderio di riempirsi gli occhi della visione. Non è forse troppo presto per affrettarsi a dire che il cinema non sarà più lo stesso? Non mi fraintendete: qualcosa di nuovo c’è. Prima di tutto c’è la propensione sempre più forte verso la modalità immersiva del cinema, che passa attraverso un coinvolgimento sinestesico ed è esaltata dal 3-D. Quando Jake Sully proietta se stesso nel suo avatar, è con i sensi che per la prima volta si trova a contatto; si trova, cioè, in una condizione nella quale è costretto a misurarsi con una nuova forma di elaborazione, deve creare nuove alchimie sensoriali e imparare da capo a decifrare gli stimoli del tatto, gusto, olfatto. Penso, per esempio, alla prima sequenza in cui Jack entra nel mondo: la corsa sul prato a piedi nudi è la scoperta del tatto o il morso ad uno sconosciuto frutto esotico (è dolce? aspro?), quella del gusto. Noi, con lui, facciamo la stessa cosa, cercando di sentirci a nostro agio con una percezione tridimensionale in qualche modo diversa da quella abituale. A dir la verità, la decostruzione dell’egemonia dello sguardo a favore di altri sensi, al cinema, era già stata affrontata negli anni Novanta (cfr. L’alieno e il pipistrello di Canova); solo che la tecnologia attuale ci rende questo gioco molto più intrigante e realistico. Soprattutto perché profonda è la capacità che il film ha di offrirci più informazioni, permettendo allo spettatore di andare oltre ad una semplice inferenza in cui si limitava a immaginare (a sentire) un contatto totale con una ‘realtà’ tramite i soli sensi della vista e dell’udito. Con Avatar 100 —recensioni seppur siano sempre e solo vista e udito i due sensi coinvolti - la sensazione di ‘sentire’ il film è maggiore. Il fatto, poi, che questa scoperta sia fatta da un individuo in una condizione di paralisi senso motoria è significativo. Come spesso accade in questi casi, infatti, è il mondo ad assumere una sua capacità di movimento che compensa quella fallace o impossibile del protagonista (c’è forse migliore metafora per esprimere quello che è il cinema?). Tutto su Pandora sembra essere fluttuante, liquido, soggetto ad una stasi apparente, densa di energia mobile: le montagne hallelujah sospese nell’aria, le banshee, creature dotate di ali, i woodsprite, i semi dell’albero degli spiriti, simili a meduse luminescenti. Pandora diventa allora uno state of mind, un luogo utopico, l’altro lato, quello positivo, di Matrix. Ma rispetto a Matrix - capace di divulgare conoscenze filosofiche shakerate in un prodotto di massa - Avatar, furbescamente, cerca il ‘correlativo oggettivo’ (un mondo, una civiltà, creature, flora e fauna) di saperi tecnologici e filosofici, mirando, per lo più, a funzionare come una saga - al pari del Signore degli Anelli o di Star Wars (Guerre Stellari) – come dimostrano compendi, semi-enciclopedie, culti sparsi già ovunque tra la gente e nella rete. Dovremmo forse interrogarci su cosa davvero voglia dire ‘nuovo’. Certamente la tecnologia digitale sembra essere qui al suo apice e il potere di produrre immaginario è altissima; ma resto sempre perplessa: in Avatar non c’è niente di nuovo. L’eroe, il villain, la filosofia new age e la riflessione sulla tecnologia, il tema ecologico, gli accenni all’attualità geopolitica, non solo rispetto alle tematiche di genere (fantasy e fs) ma anche rispetto allo stesso James Cameron, (tra The Abyss e Aliens): tutto è stato già affrontato. E il sogno di una tecnologia che ‘entra dentro i tuoi sensi’ non c’era già in Strange Days? Costanza Salvi Il profeta J acques A udiard (F rancia , 2010) La Francia multietnica dell’epoca Sarkozy ha riscoperto – ma l’aveva mai dimenticato poi? – Brecht e si rispecchia nell’ennesimo microcosmo in cui si consuma una perfetta metafora dell’esistenza nell’Esagono. Dopo la terra di confine di Welcome (2009) di Philippe Lioret e La Classe – Entre les murs (2008) di Laurent Cantet, è il turno della metafora carceraria de Il Profeta (2009) di Jacques Audiard. Ogni epoca ha il suo muro che sia quello in cartongesso di una scuola, quello d’acqua su cui si scontra l’immigrazione clandestina o le sbarre di una cella. In questi ambienti tutt’altro che asettici si riproducono sotto vetro i meccanismi della vita vera. Ovviamente il risultato risulta perfettamente amplificato ed esasperato, ma è proprio questo riverbero a dare forza all’immaginario cinematografico e di riflesso a quello nazionale. Una cultura ha bisogno di immaginarsi per potersi comprendere a fondo, se non altro per provare ad analizzarsi. Poi certo bisognerà fare attenzione nel distinguere la metafora in senso proprio dallo spaccato di vita, ma qui si rischia di cadere nel fazioso. Quello di Audiard è un film che riflette sulla Francia di oggi attraverso una nuda rappresentazione della vita carceraria, nel suo nugolo di situazioni tipiche già percorse da un genere tanto fortunato quanto difficile che deve qualcosa a Jean Gabin, a Martin Scorsese ed ovviamente a Jean Pierre Melville. Ma la storia di Malik (Tahar Rahim) – diciannovenne di origini arabe procacemente finito in carcere – percorre in due ore abbondanti di ottima tenitura e ritmo molte situazioni tipiche del noir, del gangster movie, del genere carcerario e del cinema sociale, contenitori da cui attinge a piene mani. Ne esce un’opera intimistica e sociale che riesce miracolosamente a collegare la discesa orfica del protagonista all’interno di un manuale sociale compilato con mano certosina e puntuale. Stupri nelle docce, corruzione ed omicidi efferati, riti di iniziazione al crimine, secondini corrotti. È l’università della malavita, il corso di formazione che permette di entrare in carcere con un diploma in furtarelli e (forse) uscirne con una laurea in crimine organizzato e un master in omicidio. È un percorso a suo modo darwiniano quello che fa del pesce fuor d’acqua uno squalo, un maggiordomo, un re. E in questo si consuma la vera natura tragica dell’opera, natura che non concede né redenzione alcuna né alcuna strada da percorrere se non quella del sangue e dell’autodistruzione. È un’opera classica, nel senso più stretto del termine. Del resto sappiamo quasi nulla delle colpe di cui si è macchiato il giovane Malik. Sin dalla prima scena lo vediamo all’interno di quell’universo sociale a sé stante che è il carcere. Perché lì – anche se a qualcuno può dare fastidio ammetterlo – si concentra tutto la Francia, naturalizzati e minoranze indipendentiste incluse. Il profeta è un silente parricidio come da migliore tradizione, con il consueto corredo di incubi e sensi di colpa, politici più che di natura etica. Da figlio(ccio) arabo ed illegittimo dell’imperatore, (il) Cesare corso (Miels Arestrump) Malik approfitterà delle debolezze altrui per poter sottrarsi all’ala paterna e uscire dall’ala del carcere. Ma il mondo esterno riflette quello del penitenziario. I sensi di colpa sono solo quelli delle uccisioni degli altri arabi: lui figlio di un'Europa razziale e razzista, matura inconsciamente l’appartenenza ideologica ai fratelli musulmani che collide formalmente con la fede darwiniana di cui diviene incarnazione. Sopravvivere. Perché il razzismo ormai è solo un pretesto per un classismo radicato nella società francese in cui è la ricchezza a distinguere un francese da uno straniero, non tanto la nazionalità. I kapò pronti ad alternare bastone e carota, insomma, hanno la mano mulatta. I fantasmi sono presenze quotidiane con cui si può colloquiare e non rimorsi: dentro al carcere si materializzano in maniera onirica, all’esterno si istoriano nelle lamiere metallizzate di tre auto dai vetri fumé. Dinamiche già note ma non per questo meno potenti, cesellate in questo affresco con quell’acume politico che azzera ogni apologo morale o etico. Ecco qui il segreto di un film che si presenta come una storia nella sua interezza e che ti viene sbattuta in faccia con la semplicità ineccepibile ed incontestabile del destino e che come tale non può che concludersi con un finale artificiosamente ottimista. Ma non ci può essere speranza o per lo meno, nell’ottica in cui è costruito ed orchestrato il tutto, è irrilevante. Questa è la vera profezia di cui si fa portatore il film. Luca Colnaghi 101 La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano: PJ HARVEY Musica.Maschere.Vita Un libro di Stefano Solventi La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria. Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una parabola fatta di musica, maschere e vita. 240 pagine Volume illustrato euro 15,00 CONCEPT ALBUM Un libro di Daniele Follero Introduzione Franco Fabbri Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema” continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo, anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop. 226 pagine Volume illustrato euro 15,00 www.odoya.it www.sentireascoltare.com In tutte le librerie